Vite di carta. Marco Malvaldi al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 2. parte
Questa volta mi sento proprio impreparata e vengo a ricevere lumi dall’incontro con Marco Malvaldi su un argomento di fisica. Si tratta di una nuova branca del progetto Galeotto fu il libro, il Galeotto scientifico per l’appunto, e Marco Malvaldi torna a incontrare gli studenti all’Ariosto, dopo esserci venuto nel maggio del 2015.
Oggi viene per dialogare sul suo saggio dal titolo Il secondo principio, uscito nel 2021 presso Il Mulino. Si parla di termodinamica e di chimica, si fa riferimento a sistemi isolati, in particolare a uno: l’universo fisico. Una bazzecola.
Non solo sono impreparata, arrivo anche quando l’incontro è cominciato da una buona mezz’ora e non mi piace per niente partecipare alle cose a metà. Però sono qui e mi dico che almeno sentirò per intero la seconda parte della conversazione, quella sul ‘libro Galeotto’ scelto da Malvaldi. Si tratta di Il sistemaperiodico di Primo Levi, un capolavoro.
Prendo posto in prima fila, dove le colleghe e amiche mi hanno riservato un posto e una copia cartacea del canovaccio preparato insieme agli studenti intervistatori. Scorro le prime pagine e trovo come sempre la presentazione dell’ospite e del libro su cui si dialoga oggi, seguono le domande.
Leggo e intanto ascolto Malvaldi con la sua voce potente che si accalora a rispondere. Lo vedo muoversi sul palco, è in piedi e fa la spola tra lo schermo su cui sono proiettate slide esplicative preparate dai ragazzi e la parte del palco più vicina all’uditorio, oltre un centinaio di studenti. Quando è in quest’ultima posizione ce l’ho davvero a poca distanza e la prossemica fa la sua parte.
C’è silenzio, c’è attenzione. Sono in ballo concetti, quello di entropia in primo luogo, checoinvolgono il sistema universo. Sento la mancanza delle risposte che Malvaldi ha già dato, ma mi sforzo di captare i contenuti su cui si concentra con la sua verve espositiva.
“L’entropia è una grandezza fisica che misura il grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un dato momento” leggo nel canovaccio; Malvaldi intanto sta dicendo che nell’universo essa è destinata ad aumentare nel tempo, sulla base del secondo principio della termodinamica.
Ripercorre i contributi che a questo principio hanno dato alcuni grandi studiosi nella storia del pensiero scientifico, da Lucrezio a Boltzmann passando per l’’Ulisse della termodinamica’, il tedesco Rudolf Clausius. Mescola nomi della letteratura a illustri uomini di scienza e col suo accento toscano, non troppo pronunciato, ma pur sempre inconfondibile, fa da eco a un certo Galilei di cui sento la presenza.
Tocca corde piuttosto sensibili per i giovani che ha davanti. Parla di futuro, parla della conoscenza come primaria forma di potere e come antidoto a ogni forma di totalitarismo; incita i ragazzi alla curiosità, alla voglia di consapevolezza su di sé e sull’universo con le sue leggi.
E quando lo studente di turno introduce la conversazione su Il sistema periodico, Malvaldi passa all’altra sua anima, la letteratura. Lo fa con scioltezza e si misura col capolavoro di Primo Levi come chimico e come uomo.
Mette in campo un respiro ancora più ampio da dare ai discorsi. Cosa rappresenta questa raccolta di racconti nella produzione di Levi: è una autobiografia in chiavechimica, dice, un affresco della natura umana fatto di 21 tasselli, ognuno un elemento della tavola di Mendeleev.
Ognuno una metafora della antropologia di cui siamo fatti, come si vede per esempio in Zinco, il racconto sulla impurità. Quello in cui Primo, giovane universitario, ha il vero incontro con la chimica e lavorando in laboratorio a preparare solfato di zinco scopre il comportamento assai diverso che questo elemento assume a seconda dei composti ai quali prende parte.
Scopre che “perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze… Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape; il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale”. In analogia perfetta con la propria diversità di ebreo.
Nell’etimologia stessa della parola chimica è contenuta la capacità di trasformare, precisa Malvaldi, e riferisce a se stesso prima cha al sistema universo questa chiave di lettura. La chimica lo ha edotto sui suoi limiti, lo ha reso consapevole della propria identità attraverso successi ed errori, ha incentivato in lui curiosità e conoscenza in un intreccio ancora produttivo.
Anche come romanziere ha bisogno della chimica, per avere un rapporto più obiettivo con la realtà, per dosare precisione e fantasia nel composto narrativo dei suoi gialli.
Guardo dalla mia postazione le colleghe che hanno lavorato a questo incontro: l’insegnante di matematica e fisica, che è al suo primo Galeotto, mi sembra più emozionata che mai. La capisco. A incontro finito le potrò rivolgere la domanda per me più vera: “Quanto ti sei divertita a fare questa esperienza Galeotta?” Ha il viso stanco, che le si illumina, mentre fa sì più volte con la testa.
Malvaldi sta mettendo insieme uomini e mondi nelle sue osservazioni, comprendo bene che sta dando prova della continuità tra i saperi, del continuum conoscitivo a cui ci ha invitati già da un po’ Galileo.
La platea è fatta di adolescenti: non sarà che li sta portando troppo lontano? No, mi rispondo. Ce lo hanno condotto loro, con domande come la numero 6: “Sapendo che l’entropia è una grandezza fisica che misura quanto un sistema sia lontano da uno stato di equilibrio, e sapendo che l’entropia dell’universo è gradualmente aumentata, possiamo pensare che possa influire anche sulle nostre emozioni?”
Nota bibliografica:
Marco Malvaldi, Il secondo principio, Il Mulino, 2021
Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1979
Immagine della cover a cura dell’autrice
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
Mentre Ignazio La Russa perfeziona il suo processo di liberazione dagli antifascisti fuggendo a Praga per il 25 aprile a disturbare l’anima di Jan Palach pur di non rischiare di incrociare qualcuno dell’ANPI, noi ci domandiamo sul senso della Liberazione.
Ricordo con gioia e un pochino di nostalgia l’Arena di Pace e Disarmo a Verona il 25 Aprile del 2014che riempì l’Arena di Verona con migliaia di persone che lanciarono in cielo un ironico aereoplanino di carta “no F-35”; per dire allora come ora che la liberazione profonda è la liberazione dalla violenza di ogni tipo ma, per cominciare, dalla violenza delle armi che ora risuonano in Sudan, ma da tempo in Ucraina e in un numero ormai imprecisato di luoghi del pianeta.
Dobbiamo liberarci innanzi tutto della “Terza Guerra Mondiale a pezzi”,come la chiama Francesco, che non solo miete vittime dirette ma una quantità di vittime collaterali, poveri, migranti, affamati, vittime dell’uranio impoverito e giustifica altre violenze: quelle sulle donne, quelle su chi ha un altro orientamento di genere, i dissidenti da tutti i governi, chi protesta per il salario o per le pensioni.
Dobbiamo liberarci dalla terribile guerra che i potenti hanno scatenato nei confronti della Madre Terra quando hanno ritenuto che in nome del profitto (che hanno chiamato progresso, con uno spietato banditismo semantico) si potessero rubare risorse ai popoli e consegnarle al sistema capitalistico industriale con il permesso di farne qualunque cosa, purché rendesse denaro. Quando ricorderemo il saggio apachi che segnalava, molti anni fa, che “i soldi non si mangiano?”.
Dobbiamo liberarci dalla violenza e, soprattutto, dall’idea che la violenza possa essere la soluzione: più telecamere contro gli stupri, più controllo per i giovani, più sanzioni e armi per i governi ribelli o sgraditi, più controllo elettronico e fisico delle persone, più gabbie fisiche e mentali per tutti.
L’Essere Umano ha bisogno urgente di liberarsi dalla violenza per proseguire un cammino luminoso, per abbracciare la sua casa, il Pianeta Blu che lo ospita da tanto tempo, per vivere in armonia con le altre specie viventi, per conoscere nel profondo la sua natura e le sue infinite possibilità. L’oscurità che a volte percepiamo nel presente è una nebbia che deve e può diradarsi per aprire la strada al cammino evolutivo della specie umana, ma il destino dell’Essere Umano è nelle sue mani, nelle mani di noi tutti e non è indifferente la via che intraprendiamo e la direzione che seguiamo.
Una buona liberazione per tutte e tutti.
Cover: Un momento dell’Arena di Pace e Disarmo, Arena di Verona, 25 Aprile del 2014 (articolo e foto di Pressenza)
Da quest’anno la Festa si può raggiungere anche con il treno: sono assicurate navette tutto il giorno dalle 10 alle 21 (ultima corsa) collegate con diversi parcheggi vicini, anche da e per la stazione ferroviaria della vicina Sant’Ilario D’Enza (Reggio Emilia). Per maggiori informazioni guarda la mappa dei trasporti e dei parcheggi e gli orari delle navette.
Festa della Liberazione a Casa Cervi: 25 aprile 2023
Il 25 aprile 2023 a Casa Cervi (mappa) si celebra, come ogni anno, la Festa della Liberazione. Sono in corso i preparativi per il grande evento, pronto ad accogliere gli amici da tutta Italia. La Festa è aperta tutto il giorno dalle ore 10 alle ore 20.
È preferibile il pagamento in contanti (possibili problemi di linea al POS per sovraffollamento).
Ore 12 VINICIO CAPOSSELA MARA REDEGHIERI
Ore 15,30 BANDABARDÒ & CISCO
Ore 18 LO STATO SOCIALE
Ore 19 DJ SET RESISTENTE con Mark Bee & Keemani
Segui tutti gli aggiornamenti della Festa sui nostri profili Facebook e Instagram
Ampio parcheggio nel campo davanti a Casa Cervi (costo: 2 euro)
Da quest’anno la Festa si può raggiungere anche con il treno: sono assicurate navette tutto il giorno dalle 10 alle 21 (ultima corsa) collegate con diversi parcheggi vicini, anche da e per la stazione ferroviaria della vicina Sant’Ilario D’Enza (Reggio Emilia). Per maggiori informazioni guarda la mappa dei trasporti e dei parcheggi e gli orari delle navette.
Immagini in diretta della grande Festa di Liberazione …
Foto e video in diretta di Maria Cecilia Graziani
E se siete a Casa Cervi, non dimenticate di visitare …
Il Museo Cervi
Un luogo emozionante per tutte le età
Museo per la storia dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne
Il Museo Cervi si trova nella bassa pianura reggiana, fra i Comuni di Gattatico e Campegine, ed è ambientato nella casa colonica dove la famiglia Cervi arriva nel 1934. Contadini mezzadri, i Cervi compiono all’inizio degli anni ’30 scelte che si riveleranno fondamentali sia in ambito produttivo sia nel consolidamento di un deciso orientamento antifascista.
Fucilati insieme a Quarto Camurri per rappresaglia nel dicembre del 1943, la vicenda dei sette figli maschi di Genoeffa e Alcide assume da subito un forte valore simbolico, mentre la loro casa – durante il secondo conflitto mondiale punto di riferimento e di concreto aiuto per antifascisti, renitenti alla leva, e per chi si opponeva alla guerra – diventa la meta privilegiata di tutti coloro che si riconoscono nei valori dell’antifascismo e della democrazia.
Casa Cervi diventa “Museo per la storia dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne” dopo uno spontaneo processo di trasformazione che si è concluso con il riallestimento del 2002.
L’itinerario di visita all’interno del Museo si snoda attraverso tre sezioni principali:
1. “Il lavoro contadino”
2. “L’antifascismo e la Resistenza”
3. “Una famiglia nella memoria”
Scopri le opere d’arte, le fotografie e gli oggetti della cultura contadina custoditi dal Museo Cervi attraverso le schede a cura di IBC – Emilia-Romagna ->
Lettera di Davide Ferrari, “Casa dei Pensieri”, Bologna 25 aprile 2023
Gentile Signor De Simoni, ho trovato il suo nome fra gli uccisi. Poco si parla di voi, siamo costretti ancora a parlare delle responsabilità che i politici della destra italiana vorrebbero assegnare ai partigiani, anche in questa vicenda. Comunque siano andate le cose lei è stata una delle vittime. Lei, un innocente. Lei, come Cristo. Non si usa più richiamare il titolo di nostro Signore, tantomeno l’esempio. Ma Lei era un cristiano, credeva nell’Evangelo, in tutta la Bibbia.
La Bibbia non scherza. Parla delle terribili punizioni e della giustizia del Dio degli eserciti, ma comanda che lo straniero sia accolto come uno di famiglia, sempre. Lei era nato ad Acqualagna, vicino a Pesaro e viveva a Roma. La sua strada, con un nome bellissimo e dolce, via dei ciliegi, è a Centocelle. Un giorno portò a casa tre soldati, magri, impauriti come tutti gli uomini in fuga dalla guerra. Solo in una cosa erano diversi da Lei e da me: erano inglesi. Non conosco il loro nome, non so dove li avesse incontrati. Erano stranieri. Volevano vivere. Li nascose. La gentaglia che sempre aiuta gli oppressori la denunciò. La imprigionarono. Certamente avrà avuto paura. Avrà pregato.
Ancor di più avrà pregato quando con i suoi compagni di sventura l’hanno portata alla morte. Il comando britannico, ho letto, ha mandato una lettera di encomio a sua moglie. Non è vero che solo i cristiani, i cristiani veri intendo, come Lei, hanno aiutato i fuggiaschi. Ma lei ha DOVUTO aiutarli. Non c’è una terza possibilità: o Resistenza o resa, per essere fedeli, come indicava il suo nome, Fidardo. Queste parole le scrisse Dietrich Bonhoeffer, ma lui era un Pastore eccezionale, di una cultura sconfinata, un uomo grande, non un piccolo cristiano come Lei e come me. Ma i doveri di ogni cristiano sono gli stessi, improrogabili, e tutti noi, diciamo la verità, li conosciamo. Permetti che ti dia del tu? Fratello De Simoni, nel 1935 avevi aderito ai Pentecostali. Siete una Chiesa entusiasta, vi piace cantare e incitare a voce alta il predicatore, lodando Iddio. La prima volta che ho partecipato a un culto pentecostale non sapevo nulla delle vostre celebrazioni vivaci, delle vostre frequenti esclamazioni di fede. Ne rimasi meravigliato, quasi sobbalzando alle prime voci, io, valdese, calvinista abituato alla massima sobrietà possibile.
Il fatto è, Fidardo, che tu a quelle parole di fedeltà hai creduto veramente. Per questo motivo gli assassini ti hanno rapito la vita a 45 anni. Mi chiedo cosa ci racconteresti, oggi. Le lettere di alcuni condannati a morte, in altri frangenti, ci sono giunte: qualcuna ha la bellezza di una poesia. Altre sono state scritte con parole commosse e terribili: libertà, eguaglianza, onore, amore, madre, sposa, figli. Forse a te sarebbe venuta fuori solo una parola breve, un nome che ti diceva tutto: Gesù. Non potevi girare la testa, lasciar fare, abbandonare, “Gesù non vuole”. Non avevi forse nient’altro da dire, se non l’abbraccio alla tua famiglia, la richiesta che ti perdonasse. La piccola fotografia tua che è nel fascicolo, la cartellina rosa dell’associazione dei familiari delle vittime, ingrigita, oggi anche su Internet, ti rivela un uomo del popolo, uno come tanti, ma i tuoi familiari avevano il diritto di averti sempre con loro, come tutti, come le famiglie dei filosofi e dei letterati. Chissà quante volte qualcuno avrà detto loro, usando la perfidia nascosta in tutti i luoghi comuni, che i sacrifici non servono a nulla, le testimonianze le danno i poco furbi, i poveri di spirito, perché la vita non ha mai un lungo futuro e, in fondo, non serve a nulla. E quante volte l’avranno detto a te. Immagino che non avrai risposto nemmeno, forse hai detto loro soltanto, a mezza voce: Gesù, Gesù.
Chi ci dice che dobbiamo distinguere ciò che è kitsch da ciò che non lo è?Un bel libro sui canoni incomprensibili degli adulti e la libertà di pensiero dei bambini
“La zia dice che i pantaloni della signora del sesto piano sono kitsch. Mi piace la signora del sesto piano, lancia giù certi sorrisi dalla rampa delle scale, poi china lo sguardo sulle zampe larghe dei suoi pantaloni bianchi e li sventola. Sembra un elefante alto e magro, tronco di betulla al contrario, una calla d’estate”.
È la fantasia libera della protagonista del bellissimo e coloratissimo albo illustrato Kitsch! di Daniela Iride Murgia, pubblicato da Edizioni Corsare, con le illustrazioni di Daniel Torrent. La spontaneità dei bambini. Il mondo salvato dai ragazzini.
Una simpatica e paffuta bambina che cerca di afferrare il senso di questa parola di origine tedesca e, a partire da essa, di molto altro. Un viaggio originale e divertente.
“Ai bambini che si chiamano Gillo e a tutti quelli che non si chiamano Gillo. Alle tartarughe, alle nuvole, ai cani, ai sassi e a tutte le cose che si chiamano Gillo”, è la dedica che apre il libro. E il pensiero va subito a lui, il critico d’arteGillo Dorflesche, nel 1968, pubblicava, con l’editore Mazzotta, Il Kitsch: antologia del cattivo gusto,in cui definiva il kitsch come “un’operazione apparentemente artistica che surroga una mancante forza creativa attraverso sollecitazioni della fantasia per particolari contenuti (erotici, politici, religiosi, sentimentali)”. Dorfles esaminava ciò che sotto questo nome appariva ogni giorno nell’arte, nella vita e nei processi di comunicazione. “È necessario conoscerlo, anche frequentarlo e, perché no, qualche volta utilizzarlo, a patto di non farsi prendere la mano. Perché il “cattivo gusto” è sempre in agguato”, scriveva.
Nel libro che vi presentiamo oggi, la parola esplode fin dalla copertina colorata rosa shocking con sprazzi-pennellate di verde e di giallo, come uno starnuto improvviso, rumoroso e difficile da trattenere.
Una parola ostica che la nostra giovane protagonista non sa mai come scrivere, dal suono buffo e alla quale non sa dare significato. O meglio, lei ne ha uno tutto suo, sempre diverso da quello degli adulti. Autonoma, fin da subito. La bimba indossa un buffo cerchietto con antenne lunghe e tese – quasi da piccola ape vispa e ronzante -, perché nulla si indossa mai a caso, una maglietta a righe dagli insoliti colori e un pantaloncino nero con banda gialla laterale. Ha ginocchia e gote rosso fiammante punteggiate da lentiggini ed è ancora avvolta dalla morbidezza dell’infanzia. Ha capelli mori e corti. Ci piace, ispira tenerezza e simpatia.
Tante sono le domande che si fa, è curiosa. Sono kitsch le automobili tutte uguali con i vetri neri che passano in fila, accanto alla panetteria, sfrecciando al seguito di qualcuno di importante? O forse lo è quel negozietto buffo, dalle grandi vetrine, pieno di cose improbabili come il fenicottero con pantofole di coccodrillo? Neanche la maestra dalle sopracciglia folte, con il suo dizionario che sa tutto, lo sa spiegare… 1920, 1940?
Qualcuno usa la parola kitsch per indicare qualcosa di bizzarro, qualcuno qualcosa di artistico, qualcun altro qualcosa di brutto. Insomma, forse la cosa migliore è provare ad afferrare il senso della parola, insieme al suono, da soli. Sarà la bambina a decidere che è meglio valutare da sola, ogni volta, cosa è kitsch e cosa no.
“Ho deciso che è kitsch il cappottino invernale del cane del cuore, cioè del cane di Matilde, la mia amica del cuore. Non ne sono molto sicura, voglio dire, non sono sicura se è kitsch il cane o il suo cappottino, e non sono nemmeno sicura che lei sia la mia amica del cuore. Forse è kitsch avere tante amiche e chiamarci tutte “migliore amica”. Mi piacciono i cani… ho deciso che gli alberi non sono kitsch!”
Ma, in fondo, è kitsch anche il tramonto quando il sole si fa rosso fuoco e copre l’azzurro del cielo, lo è quel grande mazzo di fiori finti che resiste al sole dell’estate e al gelo dell’inverno, che non ha bisogno di acqua o terra e che, senza parole ma con esuberanza, per la bambina vuole dire semplicemente amore. Quel qualcosa che resta con te. Quel dono che puoi portare ovunque.
Questo sì, quello no… E voi, che senso date alla parola kitsch?
Daniela Iride Murgia nasce in Sardegna, si laurea in arte orientale a Venezia e consegue un Master in illustrazione a Padova. Collabora con riviste e case editrici internazionali. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il prestigioso premio A la Orilla del Viento (Mexico), la menzione al V Compostela International Prize for Picture Books, il Premio Caniem della National Chamber of the Mexican Editorial Industry, il Premio Rodari, l’Award of Excellence Communication Arts/USA, il Premio Letteratura Ragazzi di Cento. Nel 2021 le è assegnato il Premio Andersen come miglior illustratrice dell’anno. È cofondatrice di M+B studio, che progetta e cura mostre in collaborazione con artisti e architetti internazionali presso la Biennale di Venezia e altre sedi dedicate all’arte contemporanea.
Daniel Torrent nasce a Barcellona, si laurea in Storia dell’Arte e dal 2010 si dedica all’illustrazione, specializzandosi nella realizzazione di albi illustrati, di cui è spesso autore sia del testo che delle immagini. Docente di illustrazione, ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali. Ha esposto le sue opere in Spagna, Italia, Francia, Messico e New York. Per Edizioni Corsare ha scritto e illustrato Album per i giorni di pioggia.
KITSCH!, di Daniela Iride Murgia, illustrazioni di Daniel Torrent, Edizioni Corsare, 2022, 40 p.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara
La Compagnia Les Ballets Trockadero de Monte Carlo, o come si definiscono sul loro sito: “La più importante compagnia di balletto comico maschile al mondo”, è straordinariamente unica nel suo genere perché è formata da ballerini professionisti che si esibiscono in un vasto repertorio tratto dal balletto classico tradizionale che loro eseguono nel pieno rispetto delle regole canoniche.
I loro spettacoli non sono una banale parodia ma un’intelligente rivisitazione del balletto classico a cui rendono omaggio rispettosamente con esecuzioni ricche di virtuosismi davvero incredibili.
I ballerini riescono a coniugare, allo stesso tempo, una tecnica impeccabile ed una incontenibile comicità che viene raggiunta accentuando con ironia alcune caratteristiche tipiche della danza classica. Essi infatti interpretano tutti i ruoli possibili trasformandosi in cigni, silfidi, romantiche principesse e principi maldestri che caratterizzano con pochi ma efficaci tratti divertenti.
Nata quasi 50 anni fa a Broadway, dopo i disordini di Stonewall, questa compagnia ha conquistato il pubblico di tutto il mondo e anche lo spettacolo che hanno presentato giovedì 20 aprile scorso al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara ha confermato l’affetto smisurato del pubblico nei confronti di questi artisti straordinari.
A Ferrara hanno eseguito il secondo atto del “Lago dei Cigni” con le musiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij a cui, dopo una breve pausa, hanno aggiunto “La morte del cigno” che ha fatto divertire moltissimo la platea risultando irresistibilmente comica.
Hanno proseguito con una bellissima Suite su musiche di Vivaldi e hanno terminato il programma con “Paquita” con musiche di Ludwig Minkus.
Stupendo anche il bis su musiche tradizionali irlandesi che a molti ha ricordato la famosa Riverdance.
I ballerini della compagnia, affettuosamente “Trocks”, hanno dato vita ad uno spettacolo sinceramente bello, divertente ed esilarante che, oltre a riempire per intero il nostro teatro, ha catturato l’attenzione e la curiosità di adulti e bambini portando un messaggio chiaro di impegno per la diversità, l’equità, l’inclusività e l’accessibilità in tutte le sue forme. Bravi!
La cover e le foto nel testo sono di Mauro Presini
Nel libro quarto, capitolo nono, di uno dei capolavori del Cinquecento francese, Gargantua e Pantagruele, François Rabelais fa giungere i suoi personaggi sull’isola immaginaria di Ennasin, ovvero l’isola degli “snasati”. Qui tutti sono parenti l’un l’altro, ma nessuno è parente nel senso comunemente inteso. Il capitolo, in realtà, è soltanto un espediente che permette all’autore di elencare una serie di epiteti per i due sessi:
Uno chiamava un’altra: mia lenza. Elei di rimando: mio pesciolino.
– Ecco un pesce, – disse Eustene, – che starà spesso attaccato a quella lenza.
Un’altra di queste parenti era salutata con le parole: – Buon dì, mia cunetta – e lei rispondeva: – Buon dì, manico mio
E così via. Rabelais descrive anche l’aspetto di questi abitanti dal “naso in forma di asso di fiori” (il disegno delle narici di chi manca della punta del naso), rassomiglianti “a quei rossacci del Poitou”. In questo breve capitolo però, a farla da padrone, è un artificio che proprio Rabelais consacra: l’elenco dissacrante. L’autore ne aveva già fornita prova autorevole nel libro primo, capitolo tredicesimo:
Quindi mi pulii con le lenzuola, con la coperta del letto, con le tendine, con un cuscino, con uno scendiletto, con un tappeto da tavola, una tovaglia, una salvietta, un moccichino, un accappatoio. E sempre vi trovai maggior piacere che non un rognoso quando gli grattan la schiena.
L’elenco dissacrante – qui sul materiale migliore con cui pulirsi dopo aver defecato – serve spesso a Rabelais per prendersi gioco delle dispute dotte, eredità medioevale, che erano in uso nelle Università del Cinquecento (si vedano anche i capitoli quattordici e diciannove del libro primo). È anche tipico della cultura popolare del periodo, che quelle stesse dispute canzonava (capitoli quinto e ventiduesimo del libro primo), aggiungendovi continui riferimenti smisurati a tutto ciò che riguarda il corpo – mangiare, bere, fare all’amore, orinare, defecare – con sommo divertimento di chi ascoltava.
Abbandoniamo ora Rabelais e facciamo un salto di circa due secoli. Tra il 1760 e il 1767, Laurence Sternedava alle stampe il suo libro più famoso: The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman. Opera innovativa, che aprirà la strada ad autori come Joyce, lo Shandy è una digressione continua. La narrazione s’inceppa ad ogni capitolo, ritardata da piccoli incidenti, scherzi (si veda la pagina completamente bianca o quella marmorizzata), aneddoti e riflessioni. L’umorismo vuole essere più alto, raffinato, rispetto a quello di Rabelais, eppure vi è più che una strizzata d’occhio all’autore francese. Nel capitolo ventisette del terzo libro – la divisione in libri e capitoli rimanda nuovamente a Rabelais, ma era del resto comune a molti autori – il protagonista dell’opera vede finalmente la luce. Durante il parto però il Dottor Slop “Gli ha schiacciato il naso come una focaccia e lo ha appiattito a livello della faccia”. Questo incidente avrà come conseguenza la disperazione del padre poiché, come Sterne ci fa sapere, tutti, in famiglia, avevano avuto “nasi” di considerevoli dimensioni. Se ho usato le virgolette, è perché anche qui, come in Rabelais, il naso è un espediente per introdurre argomenti a carattere sessuale.
Lo stesso Sterne cita più volte l’autore francese e – a proposito del naso – si premura di rassicurare il lettore:
Solo implorando in anticipo, e supplicando i miei lettori (…) di non permettere che con alcuna astuzia o inganno il nemico del bene metta nella loro mente idea diversa da quella che metto io nella mia definizione. Con la parola Naso, in tutto questo lungo capitolo sui nasi e in ogni altra parte della mia opera in cui ricorra la parola Naso, dichiaro che intendo né più né meno che un Naso.
Come credergli, se dopo una lunga digressione sulle maggiori autorità che si sono occupate di “nasi”, di per sé molto divertente, l’autore ci racconta una novella, ad opera di un fantomatico “grande e dotto” Hans Slawkenbergius, dove campeggia l’equivoco irrisolto tra il naso e l’organo sessuale maschile? Eccone un estratto:
– Come è vero che sono un buon cattolico, è un naso come il mio – disse la sentinella – solo ch’è sei volte più grosso –
– Benedicite, che naso! – gridò la moglie del trombettiere – è lungo quanto una tromba.
– È dello stesso metallo, – disse il trombettiere, – come puoi giudicare dal suono dello starnuto.
– È molle come un flauto, – disse la donna.
– È il timbro dell’ottone, – disse il trombettiere.
– Un corno! – ribatté sua moglie.
– Ti dico che è un naso di bronzo, – replicò il trombettiere.
– Vedrò bene cos’è che sta faccenda, – disse la moglie, – perché non andrò a letto questa sera se prima non avrò toccato quel naso con questo dito.
Come si vede, è qui riproposto il motivo rabelaisiano dell’elenco dissacrante.
A togliere ogni dubbio, sul mascheramento naso-organo sessuale, il passo in cui il forestiero indossa i calzoni di raso cremisi “con una sorta… di appendice”. Qui Sterne sostiene, con finto pudore, di non voler tradurre la parola scritta in greco, nella falsa versione di Slawkenbergius, che altro non significa se non “perizoma”, sostituendola con “appendice”. Vi è poi la strana inquietudine notturna che coglie “le penitenziarie del terzo ordine di San Francesco, le suore del Calvario, le Premostratensi, le Cluniacensi, le Certosine e tutti i più severi ordini di monache”, una volta saputo dello smisurato “naso”. A questi passi, fa seguito una lunga dissertazione fra i dotti delle due Università di Strasburgo – una luterana, l’altra papale – che, ancora una volta ad imitazione di Rabelais, mette in ridicolo la falsa erudizione adducendo, come argomento della disputa, l’enorme “naso” del forestiero che nessuno, tranne la sentinella, il trombettiere e sua moglie, ha mai visto. Se sia più comico dissertare, con tanto di citazioni autorevoli, di un “naso” non veduto o tenere un’arringa stramba e parodistica, ricolma del grossolano latino scolastico, come fa Rabelais (libro primo, capitolo diciannove), lascio giudicare al lettore.
Lasciamo ora l’Inghilterra di Sterne e torniamo in Francia: più di un secolo dopo, nel 1897, Edmond Rostand dà alle stampe l’opera teatrale in versi Cyrano de Bergerac. Inutile precisare che anche qui siamo alle prese con un naso, ma ogni allusione sessuale pare essere scomparsa, o quantomeno relegata nella fase di costruzione dei personaggi. A metà strada tra Victor Hugo e Victorien Sardou, Rostand è forse l’ultimo dei romantici, allusioni “basse” e triviali non gli si addicono, né tantomeno lo spirito raffinato di uno Sterne; il suo pubblico era la piccola borghesia perfettamente integrata. Eppure qualche legame con gli autori già citati esiste. Parlando del naso di Cyrano, anche Rostand adotta la forma dell’elenco, non più dissacratorio, quanto piuttosto atto a sfruttare le possibilità comiche dell’accumulazione:
Cyrano: Eh, no! È un po’ poco, ragazzo mio! Ce n’erano di cose da dire sul mio naso – diamine! – e di toni da sfoggiare! Per esempio, vediamo:
Aggressivo: Io, signore, se avessi un naso simile, me lo farei tagliare!
Amichevole: Certo che quando bevete vi si immerge nel bicchiere! Fatevene fabbricare uno su misura!
Descrittivo: È una montagna, un picco, un promontorio!… Ma che dico, un promontorio? È una penisola!
Curioso: A che vi serve questo affare smisurato? Da scrittoio, signore, o da scatola di lavoro?
Grazioso: Amate a tal punto gli uccelli che paternamente volete preoccuparvi di offrire un trespolo alle loro zampette?
E così via. L’elenco continua a lungo. Le affinità parrebbero rincorrersi, se consideriamo il celebre passo, in cui Cyrano finge di cadere dalla Luna per ostacolare de Guiche, ma quant’è lontano Rabelais con le sue descrizioni deformi e stranianti. Rostand pare qui far sfoggio proprio di quell’erudizione classica che, tanto Rabelais quanto Sterne, si divertivano a deridere.
Ci restano ancora da citare, per concludere il nostro breve excursus, le opere di Gogol ePirandello, rispettivamente Il naso e Uno, nessuno e centomila. Nella prima, Il Naso, scritt0 a Roma tra il 1832 e il 1848, lo scrittore russo sembra più intenzionato a mettere in luce la perdita della rispettabilità, nonché i difetti e la bassa levatura della burocrazia zarista, che ad usare il naso – qui vero e proprio personaggio – come elemento dissacrante. Come in Pirandello, dove la scoperta fatta dal protagonista – Vitangelo Moscarda – di avere il naso che pende a destra, altro non è se non l’inizio di un percorso verso la perdita dell’identità. Certo, in Uno, nessuno e centomila il riferimento a Sterne è diretto (come rivela lo stesso Pirandello nel saggio L’Umorismo). Eppure anche nell’opera dell’autore siciliano il naso non è elemento dissacratorio, quanto piuttosto espressione di quelle concezione sterniana che “dall’infinitamente piccolo vede regolato tutto il mondo” (cfr. di nuovo L’Umorismo), concezione che Pirandello seppe sviluppare abilmente.
Con queste poche considerazioni sopra Gogol e Pirandello, che meriterebbero di essere approfondite, ma qui si è ricercato tutt’altro, si chiude il nostro breve viaggio tra i nasi celebri in letteratura. Ora non vi resta che leggere o rileggere gli autori citati, sempre che questo scritto vi abbia incuriosito, com’era nelle mie intenzioni.
Opere con il naso: François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, (1532-1564), Einaudi Tascabili Classici, Torino 2017 Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, Gentiluomo (1759-1767), Mondadori Oscar Classici, Milano 2018 Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac (1897), Feltrinelli Tascabili, Milano 2014 Nikolaj Gogol, Il naso (1842), Mursia, Milano 2009
Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila (1926), Mondadori Oscar, Milano 2015
Per approfondire: Per Rabelais si consiglia M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, (1965), 2001 e il saggio Il mondo nella bocca di Pantagruele, contenuto in E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, (1946), 2000. Su Tristram Shandy e L. Sterne si vedano le pagine a lui dedicate nel fondamentale testo di V. Sklovskij, Teoria della prosa, Einaudi, Torino, (1925), 1981. Su Gogol, si veda in particolare l’approccio singolare di C. Solivetti, Strategie narrative in Gogol, Lithos, Roma, 2015. Infine, per quanto riguarda Pirandello e per l’uso che se n’è fatto nel presente articolo: L. Pirandello, L’Umorismo, Newton Compton, Milano, (1908), 2009.
“Se avesse vinto lei, io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.
Vittorio Foa al senatore missino Giorgio Pisanò
E’ il tempo degli upgrade. Odio l’inquinamento linguistico anglofono, ma da oggi lo pratico per disobbedienza civile. L’upgrade del senatore fascista Pisanò è il Presidente del Senato fascista La Russa. Oddio: volendo essere precisi, è proprio l’attuale capo del Governo Meloni ad essere fascista, ma forse la dignità del ruolo le ispira maggiore temperanza (anche se non me la scordo al congresso di Vox a dire bestialità berciando).
Invece l’avvocato Ignazio Benito Maria La Russa se ne frega della dignità del ruolo. “Me ne frego” del resto è un noto motto squadrista, e La Russa, detto “La Rissa” per i suoi trascorsi, se ne sbatte di questa paccottiglia democratica. Peccato che, proprio grazie ad un regime democratico e antifascista, lui è potuto diventare presidente del Senato. Me lo immagino un Pajetta presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
La Russa non ringrazia, rivendica. Non agisce, reagisce. Dice enormità (non c’è antifascismo nella Costituzione italiana) e le rettifica da cavilloso leguleio (intendevo dire che non c’è la parola antifascismo). Il 25 aprile, giorno della liberazione italiana dai nazifascisti, il patriota Ignazio Benito festeggerà andando in Repubblica Ceca a ricordare Ian Palach. Come se il 14 luglio, per celebrare la presa della Bastiglia, Macron andasse a Campo dei Fiori davanti al monumento di Giordano Bruno. Uno scarto di senso, uno smarrimento dell’orientamento spazio-temporale che lo consegna dal fascismo ad un inconsapevole situazionismo.
Intrappolato
Nella luce
Tardiva
Mi sento
Bruciato
La cenere
Cade
Sulla terra
Sorgono
Dei papaveri
È ora di andare
Pieno
Di colore
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca[Qui]
La Banca d’Italia ha stimato con Istat a quanto ammonta la ricchezza delle famiglie italiane, delle Amministrazioni pubbliche, dei privati e finanziari.
Famiglie ricche e Stato povero, ma a ben vedere anche gran parte delle famiglie sono povere. La ricchezza delle famiglie nel 2021 era di 10.421 miliardi (202mila pro-capite), 8,6 volte il reddito annuo. Se si toglie l’inflazione c’è un calo del 3% e anche il fatto che abbiamo 8,6 volte di patrimonio in rapporto al reddito (Germania 7,5, UK 8, Usa 8,4, Francia 9, Spagna 9,4, Canada 9,8) è dovuto al basso reddito italiano. Lo Stato invece è sempre più povero e indebitato: da -558 miliardi a -1.467. Le società finanziarie sono passate da un debito di 188 miliardi a un attivo di 680, le altre sono rimaste stabili (da 828 a 880 miliardi di attivo).
Metà della ricchezza delle famiglie è dovuta alle abitazioni. Negli ultimi 15 anni sono cresciuti molto i depositi bancari, azioni, fondi comuni, assicurazioni. Se vogliamo però sapere come si distribuisce questo ingente patrimonio dobbiamo usare l’indagine sul campione di famiglie che svolge sempre Banca d’Italia. L’ultima, relativa al 2020 è stata pubblicata a luglio 2022 e si può trovare al seguente link: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/metodi-e-fonti-note/metodi-note-2022/MOP_IBF_2022.pdf
La Banca d’Italia confronta il reddito delle famiglie italiane del 2020 con quello del 2006 e mostra che oggi è inferiore in media dell’8%. Nessuna ripresa reale c’è stata dopo la grande crisi dei subprime (made in Usa) 2008-2012. Se si analizza il reddito da lavoro nel lungo periodo, quello dipendente registra una crescita dal 1977 al 1989 di +9,5% e poi un crollo di -20,4% dal 1990 al 2020, confermato anche dall’Ocse per i salari italiani. Nell’intero periodo (45 anni) il reddito da lavoro (dipendente) italiano perde, pertanto, il 12,1%, mentre il reddito da capitale cresce del 163%. Poiché i capitali li posseggono i ricchi, ciò spiega perché continua a crescere la disuguaglianza, soprattutto dal 1992 ad oggi, mentre dal 1977 al 1992 cresceva ancora l’uguaglianza, che è stata una delle caratteristiche del secondo dopoguerra.
L’indagine è stata migliorata cercando di cogliere i valori reali anche di quelle famiglie più ricche che normalmente si sottraggano alle indagini. Ciò ha consentito alla Banca d’Italia di rivedere verso l’alto l’indice di Gini sulla disuguaglianza, che è passato per il reddito famigliare equivalente annuo da quello che si credeva fosse 35,8 a 42,6 (NB: più è alto, più c’è disuguaglianza). Siamo così finiti primi in Europa per disuguaglianza. Ipaesi più diseguali infatti – con indice di Gini superiore al 50 – sono in Africa subsahariana (i dati sono però molto incerti), seguiti dal centro-sud America dove sono tutti superiori a 40 con record in Colombia (indice 54), Panama (49,8), Costa Rica (49,3), Brasile (48,9); altri “disuguali” sono Turchia (41,9), Stati Uniti (41,5), Iran (40,9), Russia (36). In Europa i migliori sono Finlandia, Norvegia, Danimarca (27,7), il peggiore era la Bulgaria (40,3), ma i dati aggiornati di Banca Italia ci proiettano da 35,8 a 42,6. Ora i peggiori siamo noi.
Misurata sempre con l’indice di Gini, la ricchezza netta famigliare cresce di altri 3 punti (soprattutto per fattori finanziari) dal 2016 al 2020. I patrimoni sono ancora più diseguali del reddito annuo. L’indice di Gini è stato rivisto da Banca d’Italia da 64,7 a 68,2% (per memoria era 61,6% nel 2016), portando così l’Italia più in alto di Francia (67,4) e Spagna (67,7), ma meno di Germania (73,9). 69,5 è la media dell’Europa.
Se analizziamo gli ultimi 14 anni, fatto uguale a 100 il reddito medio famigliare, quello del 2006 è sceso con la crisi del 2008-2012 a 84,5 nel 2012, dove è rimasto fino al 2016 per risalire a 87 nel 2020. Siamo dunque 13 punti percentuali in meno rispetto al 2006. L’incremento registrato nel 2020 è dovuto soprattutto – dice la Banca d’Italia – agli interventi assistenziali del Governo per contrastare Covid-19 e al Reddito di Cittadinanza per i più poveri. Senza questi interventi assistenziali il reddito famigliare medio sarebbe ancora al livello del 2012.
I consumi delle famiglie (a prezzi costanti) sono scesi dal 2016 al 2020 e sono inferiori del 20% rispetto al 2006. Gli italiani sono un popolo risparmiatore. Se lo Stato è sempre più indebitato, il risparmio privato ammonta a circa 3.300 miliardi (2mila miliardi tra conti correnti, azioni, obbligazioni, titoli di Stato italiani ed esteri e altri 1.300 miliardi che sono investiti nel risparmio gestito, pensioni integrative e sanità). Si dimentica però di dire che il 3% dei più ricchi ne detiene quasi la metà e che il quinto (20%) più ricco ne detiene il 78,2%.
Un altro modo di vedere le cose (sono dati sempre di Banca d’Italia) è dire che il 30% degli italiani più poveri hanno un immobile che vale pochissimo o sono in affitto e una disponibilità finanziaria irrisoria (8.700 euro in media), che il ceto medio (le classi centrali) ha una casa che vale 170-200mila euro e 30-50mila euro in banca. Infine che il 5% dei più ricchi hanno una casa che vale un milione di euro e 600mila euro in banca o titoli. Mentre i poveri e il ceto medio hanno perso negli ultimi 4 anni (e anche negli ultimi 20 anni), i ricchi crescono in continuazione.
La disuguaglianza nel possesso delle attività finanziarie (conti correnti, titoli e risparmio gestito per la pensione integrativa, etc.) è ancora maggiore di quella patrimoniale, perché il ceto medio e la classe operaia hanno spesso la casa di proprietà (77% delle famiglie italiane).
Nel 2020 erano necessarie 8 annualità di reddito per acquistare una casa di 100 mq. al Nord (9 al Sud in quanto i salari sono più bassi nonostante le case costino molto meno). Il valore delle case è in riduzione da 10 anni e per questo si è passati da 11 a 8,5 annualità.
Nel 2020, causa la pandemia gli italiani hanno risparmiato altri 120 miliardi. Il primo quinto più povero però non riesce a risparmiare, il 2° quinto risparmia circa 5mila euro all’anno a famiglia (ma solo il 25% ci riesce), il 3° quinto 8mila euro (ma solo il 35% delle famiglie), il 4° 14mila (il 52%), il 5° 46mila euro (il 70% delle famiglie). Come si può capire il 5° quinto (più ricco) risparmia 3/4 del totale e possiede il 79,2% del totale. Quindi dei 3.300 miliardi, ben 2.600 sono nelle mani del 20% delle famiglie più ricche. Ciò spiega perché ristoranti, settimane bianche e moda siano sempre in gran spolvero, nonostante l’impoverimento degli altri.
Tra Reddito di Cittadinanza e interventi assistenziali le famiglie povere (1° quinto) hanno ricevuto in media tra 5mila e 7mila euro nel 2020 e ciò spiega perché nel 2020 (a confronto col 2016) l’incremento maggiore del reddito (+13%) sia avvenuto proprio nel 1° quinto delle famiglie italiane (quelle più povere), mentre il 20% dei più ricchi è cresciuto del 5-6%. Le restanti famiglie sono invece cresciute solo di 1,5%, tranne il secondo quinto (20%), cioè la fascia di operai e ceti deboli immediatamente successivi a quelli più poveri che è cresciuta del 3% (aiutati anche da cassa integrazione e reddito di emergenza). Non bisogna però dimenticare che i poveri assoluti sono passati dal 6,1% del 2013 al 7,5% nel 2021 (5,571 milioni, fonte Istat) e triplicati in 20 anni. In crescita anche i poveri relativi (8,8 milioni che prendono meno di 1.040 euro al mese in due persone). Ciò spiega perché le famiglie indebitate siano il 21,3% (erano il 15,4% nel 2016).
La ricchezza netta delle famiglie italiane è crollata dal 2010 al 2020 passando da numero indice 105 a 78 nella media, mentre la mediana (il valore centrale) è scesa a 68. Ciò è dovuto soprattutto alla svalutazione della prima casa, oltre al calo dei redditi e dei patrimoni finanziari che hanno colpito l’80% degli italiani ma soprattutto la classe media. I ricchi hanno invece continuato a crescere (e più sono ricchi più crescono) e i poveri (per via degli 8 miliardi del Reddito di Cittadinanza) hanno avuto il loro anno migliore da 20 anni.
La nostra società fa in sostanza arricchire solo il 20% dei cittadini già più abbienti e impoverire il restante 80%. Può reggere a lungo un tale sistema? Ciò senza considerare la crisi climatica, la distruzione delle comunità, lo sfacelo delle relazioni umane e nuove minacce come pandemia e guerra. Non ci piacevano il comunismo e il fascismo. Come pensare che l’attuale liberalismo ci porti verso una società più umana?
Non mollare mai. Se ci credi, ce la fai. Volere è potere. L’unico ostacolo al tuo successo sei tu.
Quante volte le avete sentite queste frasi? Quante volte i vostri familiari, i vostri amici o i vostri colleghi vi hanno dato questo consiglio?
Pensate invece alle volte in cui un familiare, un amico o un collega vi ha ascoltato profondamente e, con parole sue, vi ha suggerito di lasciar perdere o di rinunciare a qualcosa. Sono decisamente inferiori alle altre, vero?
Intendiamoci: non c’è niente di sbagliato nell’accendere il nostro entusiasmo e la nostra voglia di successo con delle frasi motivazionali. Fa parte della nostra cultura, alimenta le nostre passioni e dà degli stimoli a chi non ne ha più.
Il fatto è che la società altamente performativa in cui ci ritroviamo non si adatta a noi. Siamo noi che ci adattiamo, spesso con affanno e preoccupazione, a una narrazione un po’ tossica del successo. Dovremmo imparare a lasciar andare, a lasciar scorrere la vita dalle nostre mani, senza che lo stigma del fallimento annebbi la nostra vista.
Così, nell’epoca del quiet quitting e della maggiore consapevolezza del benessere psicologico, c’è un pezzo che ben descrive l’abbandono di qualcosa che non fa per noi, che sia un lavoro, una relazione o una schema mentale. Come nelle migliori ballate dei R.E.M., Weird Goodbyes dei National è una sequenza cinematografica di immagini e sensazioni: c’è una vecchia macchina che arranca sotto la pioggia – metafora di un pezzo della nostra vita che se ne sta andando, che non ce la fa più – mentre il segnale radio va e viene. Il protagonista accosta sul ciglio della strada, sperando che sia un problema passeggero, ma sa già che non è così.
Il crescendo emotivo è scandito da un beat incessante e dall’alternanza delle due voci: quella calda e confidenziale di Matt Berninger, l’altra più melodiosa e sofferta di Bon Iver. L’amara verità del ritornello è un colpo al cuore, specialmente sul finale, e dà un senso all’inquietudine e ai dubbi delle strofe. Perché sì, per quanto possa sembrare strano, dirsi addio è necessario e inevitabile, prima o poi.
«Egli era la vita
e la vita eraluce per gli uomini.
Quella luce risplende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta»
(Gv 1,4-5)
La Pasqua è tutta qui, in questa manciata di parole, prodighe sementi del buon Seminatore nella vita di tutti. Parole nascenti già nel prologo giovanneo, che fanno eco a quelle pronunciate fin da principio nel libro genesiaco quando «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso». Là una parola ruppe il silenzio e disperse le tenebre: «“Sia la luce!” E la luce fu.» (Gn 1,2-3)
La Pasqua è tutta qui, nell’atto del passaggio dall’oscurità alla luce, dal silenzio alla parola. E tuttavia la Pasqua è anche oltre, sempre al di là, interrogante, sorgiva, come la luce che entrò e uscì da un sepolcro vuoto per la pietra rotolata via.
Allo stesso modo lo Spirito del Risorto, che in principio aleggiava sulle acque, nella Pasqua, già ora, «scova, strappa dalle tenebre le cose più recondite e trae le oscure alla luce» (Gb 12, 22) e continuerà a irradiare fin nell’ultimo scorcio, fin nell’ultima riga dell’Apocalisse come lampada orante insieme ai credenti, a chiamare fuori, a invocare la fonte stessa della luce: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”… Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù/ Marana tha» (Ap 22,20).
«La luce che viene è una voce che parla» (Fabio Pusterla)
Certo la Pasqua, come la luce, nel suo passaggio è un’immagine del mondo visibile e nondimeno rivelativa di quello invisibile. Essa delimita i contorni delle cose senza esserne delimitata. L’informe ritrova nella luce incorporea la sua forma; ma linee, volume, spazialità, non delimitano la luce e neppure la Pasqua.
Essa abita i confini e dischiude al contempo l’infinito, come uscendo dalla sua insondabile profondità. La “Pasqua-luce” dà senso alla nostra limitatezza aprendola sempre di nuovo all’illimitato e, all’insperato, disvelando il nuovo. Pasqua è una parola di luce generativa di cammini di luce dentro ogni oscurità. È nomade la luce, ma non senza una meta: così è della Pasqua, Pasqua per noi, Pasqua di tutti.
C’è una fedeltà della luce anche alle parole: sono «come l’olio che dorme nel lume, e che ben presto tutto si cambia in bagliore». Fedeltà non solo alle Scritture o ai loghia evangelici, ma alla stessa parola poetica che nel suo passaggio, nella sua Pasqua, può diventare luce aurorale, preconio pasquale, soffio e volo, attimo fuggente che si perde agli occhi e nondimeno trasparente alla luce dell’aurora che l’ha baciata:
La notte non è quel che credi, rovescio del fuoco,
crollo del giorno e negazione della luce,
ma sotterfugio necessario ad aprirci gli occhi
su ciò che resta irrivelato se lo rischiari.
A te parlo, mia alba. Eppure questo
non è che un volo di parole in aria? È nomade la luce. Chi baciasti
si fa chi fu baciata, e poi si perde.
Ancora una volta, l’ultima, nella voce che l’implora,
si levi dunque, e risplenda, l’aurora.
(La luce dell’alba, Ph. Jaccottet, in Il barbagianni. L’Ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, Einaudi, Torino 1992, 91).
Poesia è dire con la voce della luce
Philippe Jaccottet (1925-2021) ricorda Jean Starobinski è “poeta della nascita del giorno” così come del suo morire, della luce nascosta nell’oscurità: «L’incertezza è il motore, l’ombra è l’origine … In me, tramite la mia bocca, ha sempre parlato la morte. Ancora sostenuto dall’interminabile tenebra/ e alla schiena sospinto dalla notte brutale/ estenuato in quest’ alba di novembre/ vedo il vomere del freddo che avanza e divampa/ e, indietro, la terra solcata dall’ombra/ con sempre più luce» (ivi, 179).
Se la poesia è «la voce della morte», tuttavia nella terra arata dall’ombra di morte è la voce/verso della luce – con sempre più luce – che risale dal suo sprofondo.
Parola-passaggio della luce è la poesia come quella dell’annuncio pasquale, spazio aperto dalla luce che lotta con le tenebre, prodigioso duello: morte e vita si sono affrontate – dice la sequenza liturgica – ma le tenebre non l’anno vinta: «luce al suo culmine è forse lo strumento del passaggio dentro ciò che non può più essere né luce né oscurità» (Passeggiata sotto gli alberi, prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, Milano 2021, 112).
Come l’ombra della luce quella di Jaccottet è allora una poetica dell’Inafferrabile nel quotidiano, dell’Illimitato che affiora nel limite, dell’Inavvicinabile sentito vicino. È l’Impercettibile fattosi udibile, lo smisurato che si fa misura, l’inatteso che da sempre e in ogni cosa è ricercato e atteso.
«Riuscii così, per diverse settimane, a non creare ostacoli alla luce esteriore; sentii la felicità di una rinascita. Ma non ebbi la saggezza di tenerla segreta: ero troppo felice, troppo rassicurato, troppo pieno di uno spirito nuovo. E di nuovo tutto fu perso, non so per quanto tempo: forse finché non smisi di pensarci.
La poesia dunque è quel canto che non si può afferrare, quello spazio in cui non si può restare, quella chiave che tocca sempre riperdere. Cessando d’essere inafferrabile, cessando d’essere incerta, cessando d’essere altrove (si dovrebbe dire: cessando di non essere?) si abissa, non c’è più. Questo pensiero mi sostiene nelle difficoltà» (ivi, 124).
Così, tradurre il senso oscuro e luminoso dell’esistenza nella parola poetica è simile al tradurre la Pasqua nella vita di ogni giorno. Si è chiamati a frasi ricettacolo, divenendo uditori di una parola e di una luce d’altri, estranea e tuttavia vicinissima, al fine di darle voce, esserne risonanza attraverso tutto il nostro essere, la nostra lingua e il nostro agire fattosi permeabile anzi trasparente. Una forma, una trasparenza e un linguaggio nuovi a ciò che abbiamo ascoltato, a ciò che ci è venuto incontro.
Starobinski ricorda come, nei testi di Jaccottet, il richiamo continuo alla fine e al morire sia intrecciato al suo amore dichiarato per la luce: «Sì, egli l’ama tanto da voler che essa circoli tra le parole da lui tracciate, tanto da non scrivere mai una sola riga che non sia un itinerario di luce per il lettore, quand’anche parlasse dell’ombra e della notte».
Il suo – scrive Starobinski – è un “parlare con la voce della luce” (Parlare con la voce della luce, in Il barbagianni, 175). Nella sua poetica la luce fiorisce dagli steli insieme alle parole divenendo una liturgia, un canto alla luce: «C’è solo la fioritura naturale della luce in parole, come una sorta di culto reso dall’uomo alla luce» (ivi, 108).
La forza della poesia di Jaccottet non è da cercare né nell’ingegnosità combinatoria né nella creatività improvvisatrice: per Starobinski risiede piuttosto in una relazione e aderenza alla realtà; nel porre questa al centro.
Vi è anche nella sua prosa poetica «una costante esigenza di verità: esigenza tanto più imperiosa quanto meno essa è sostenuta da qualsivoglia sapere presuntivo, da una qualunque convinzione invariabile. Unico garante: la relazione interrogativa ch’essa intrattiene con il mondo.
Occorre infatti precisare che per Jaccottet la verità – così difficile da salvaguardare in mezzo a tutte le menzogne che ci assediano – non è una credenza, né un sistema d’idee, e nemmeno un’intimazione del sentimento. Essa si rivela nella qualità di una relazione con il mondo, nell’esattezza sempre rinnovata del rapporto con quel che ci sta di fronte e che ci sfugge» (ivi, 171-172).
E, tuttavia
«Quiete della notte, vicino allo spuntar dell’alba. Lo spazio intermedio, l’aperto recinto, forse la mia sola patria: il mondo che non si limita alle sue apparenze e che non si amerebbe a tal punto se non comportasse quel nocciolo invisibile che un poema come quello di san Giovanni della Croce fa risplendere meglio d’ogni altro; proprio come non si saprebbe amare una luce che ne implicasse la dimenticanza o il rifiuto» (Ph. Jaccottet, E tuttavia, seguito da Note dal Borto, Marcos y Marcos, Milano 2006, 73).
“E, tuttavia” è il titolo di una raccolta poetica di Jaccottet nella traduzione di Fabio Pusterla.Tuttavia è avverbio e congiunzione composto da tutta” e viaper indicare una continuità, meglio lo svolgimento di quando accade strada facendo; l’incontrare ancora qualcosa oltre il già camminato e il già compreso.
Accanto al percorso fatto, ecco una nuova circostanza, un fatto nuovo; la luce da un’altra prospettiva fa intravedere e disvela quella ancora in ombra. L’uso di tuttavia dice che la strada è questa, non muta; è così e, nondimeno, è aperta perché contiene o congiunge altro in positivo o in opposizione.
Con il titolo Et, néanmoins/E, tuttavia, Jaccottet esprime così l’ambivalenza dello sguardo che passa dall’uno ai molti, da qui a là, transitando dal già al non ancora. Sguardo che tiene insieme come il respiro il fuori e il dentro o come il soffio l’in-alto e l’in-avanti; che entra nell’oscurità come nella luce, che segna quel tratto di strada, la sola e unica via che è dato vivere a ciascuno.
Parole entro uno “spazio intermedio” e tuttavia “aperto recinto” perché comporta un prima e un dopo; spazio in cui, improvvisa, guizza la luce al modo in cui balena dentro i salici un Martin pescatore, le ali di un blu-verde come pietra di malachite, un azzurro brillante come lapislazzulo la livrea, il panciotto infine: un’opale di fuoco, come l’arancione del quarzo di corniola.
Occorre così allenare lo sguardo ai passaggi repentini passando dai luoghi d’ombra o di luce, renderlo penetrante o dilatato, aguzzo e tuttavia panoramico. È lo sguardo, infatti che per primo intravede un passaggio, un’apertura: «il problema del nostro animo è aprire dei passaggi segreti nei muri piuttosto che ammassare blocchi di marmo o edificare templi» (ivi, 40).
Il “Martin pescatore” è reminiscenza in Jaccottet della poesia di G. Hopkins, intravisto pure da lui come un gioiello alato, apparsogli e subito involato nell’scurità del fogliame e tuttavia non senza avergli suscitato in cuore queste parole:
Come il martin pescatore balena …
Una sola volta basterebbe, per cosa? Per dire cosa?
Un solo lampo di piume
per lasciarti capire che la morte non è la morte?
Cacciatore, non prendere la mira: questo uccello non
è preda.
Guardalo, ma non prendere la mira, raccogli soltanto
il lampo delle piume tra i canneti e tra i salici.
Che allea tra le sue piume sole e sonno.
Non hai mai amato i gioielli più di tanto, lo ricordo.
Ma un gioiello alato, un gioiello dotato di cuore?
Un lampo selvaggio e che forse ti deride, come un tempo
certi sguardi?
Il martin pescatore balena dentro i salici.
È balenato.
E se qualcosa di simile bastasse per uscire dalla tomba
prima ancora di esservi adagiato?
(ivi, 49).
Noi, come gli alberi, i primi servitori della luce
Dialogando con il suo interlocutore durante la “passeggiata sotto gli alberi” Philippe Jaccottet racconta: «La luce è una forza inaudita e penso che l’amiamo più di ogni altra cosa, ma siccome le grandi passioni ci appaiono raramente, tramite l’impercettibile vibrazione della mano di una donna, oppure attraverso una lacrima subito asciugata, cosa sapremmo noi della luce se non ci fossero questi pioppi ad accoglierla e a illuminarcisi?
Più tardi, con tutte le loro foglie, ci faranno scoprire il vento. Evidentemente mi sono espresso male, ne convengo. Tuttavia non sente, forse oscuramente ma profondamente come me, che in questi incontri c’è la manifestazione di un alto grado di realtà e allo stesso tempo una sorta d’apertura o di cammino per lo sguardo?
Deve pur esserci una ragione della nostra felicità sotto questi alberi. Ciò che posso dirle finora, in modo del tutto provvisorio e con l’ingenuità e l’incertezza inscindibili dai suggerimenti della nostra voce profonda, è che ai miei occhi gli alberi sono i primi servitori della luce e conseguentemente – se mi permette questa follia un po’ improvvisa – che, una volta liberati dalla nostra condizione di fantasmi, è la morte a illuminare le nostre giornate.» (Passeggiata, 87-88)
E, tuttavia, il bagliore ostile della morte non spegne il lucignolo fumigante che alimenta nel la brama dell’Assoluto: «Si capisce che è verso la terra che ritorno, che non mi è possibile non ritornarvici: ma come potrei negare questa brama dell’Assoluto e, in seno all’amore per una vita resa abbagliante dalla morte, l’orrore di una morte resa inaccettabile dalla vita? Se l’Assoluto sfugge alla parola, sfuggirà alla negazione tanto quanto all’affermazione e non smetterà d’affascinarci» (ivi, 41).
Nell’inno dell’ottava di Pasqua si legge:
Ecco il gran giorno di Dio,
splendente di santa luce:
nasce nel sangue di Cristo
l’aurora di un mondo nuovo.
La colpa cerca il perdono,
l’amore vince il timore, la morte dona la vita.
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La recente nomina in Ucraina di Oksen Lisovyi a ministro dell’Istruzione e della Scienza ha sollevato la durissima reazione del Movimento Pacifista Ucraino, che ha inviato all’UNESCO un rapporto approfondito che apre una preoccupante visuale sulla militarizzazione della cultura in Ucraina.
In un video del 14 ottobre 2022, il nuovo ministro dice infatti che gli ucraini devono imparare a convivere per sempre con la guerra: “Questa guerra non è una guerra di un giorno. La avremo per molto tempo…Ho aspettato questa guerra tutta la vita. Sapevo che il suo tempo sarebbe arrivato e avevo paura che ad andare al fronte sarebbe stata una minoranza (com’è accaduto in passato). Ecco perché, nonostante l’enorme numero di vittime, il dolore di decine di migliaia di famiglie, la distruzione e le perdite, sono felice”.
“Oksen Lisovyi è l’opposto di tutto ciò che un ministro dell’Istruzione e della Scienza dovrebbe essere – dice Yurii Sheliazhenko, referente del movimento nonviolento ucraino, obiettore di coscienza e professore universitario -. Non è un professionista civile di indiscutibile integrità con un progetto e un’attitudine a costruire un futuro pacifico basato sulla conoscenza, o almeno a dare a studenti, insegnanti e studiosi uno spazio per sperare, avere fiducia e contribuire a un futuro migliore… Non è un accademico ma piuttosto un soldato… Non fa mistero delle sue intenzioni di trasformare l’istruzione in un’arma, di insegnare a tutti gli ucraini a convivere e a partecipare a una guerra infinita, di rendere le abilità di combattimento parte del curriculum scolastico obbligatorio senza eccezioni per gli obiettori di coscienza e di coinvolgere i giovani nello sviluppo di tecnologie militari”.
La denuncia del Movimento Pacifista Ucraino prosegue chiedendo la destituzione di Lisovyi non solo dalla carica di ministro, ma anche dalla direzione della Junior Academy of Sciences dell’Ucraina, che ha mantenuto anche mentre era volontario in guerra. “L‘immagine pubblica militaristica di Lisovyi, il suo dichiarato desiderio di arruolare giovani studenti nell’esercito e di costruire una “società di combattenti” non è in alcun modo coerente con il fatto che la Junior Academy of Sciences of Ukraine sia un centro di educazione scientifica sotto gli auspici dell’UNESCO – un’organizzazione culturale contro la guerra il cui compito è quello di prevenire le guerre e creare difese di pace nelle menti umane”.
Sotto la sua direzione, denuncia ancora Sheliazhenko, l’Accademia invece “lavora per il complesso industriale militare, sostiene e aiuta le Forze Armate dell’Ucraina e fa percepire come “nemici” o “traditori” chiunque osi criticare l’esercito ucraino o la NATO”.
Lisovyi va rimosso, perché “solo professionisti civili di indiscutibile integrità hanno il diritto morale di amministrare istituzioni scientifiche ed educative in modo che le generazioni future imparino a vivere senza guerra”.
“I valori della cultura della pace e della nonviolenza – aggiunge il report – e l’integrità accademica hanno un significato fondamentale per l’istruzione e la scienza… La cultura della pace è un insieme di valori, atteggiamenti, tradizioni e modi di comportamento e stili di vita fondati sul rispetto per la vita, sul rifiuto della violenza e sulla promozione e pratica della non violenza tramite l’educazione, il dialogo e la cooperazione, come dice l’articolo 1 della Dichiarazione sulla cultura di pace(Nazioni Unite, 1999)”.
Viene dunque da chiedersi quali interessi ci siano oggi dietro gli aiuti militari all’Ucraina e a chi finiscano davvero tali aiuti. Quali sono i veri obiettivi? Far cessare la guerra al più presto o continuarla all’infinito?
Preoccupante in questo senso è la cultura militarista che si sta imponendo anche nel nostro paese, dove già da alcuni anni proliferano gli incontri dell’esercito nelle scuole di primo e secondo grado e gli stage di studenti nelle caserme. Con quali obiettivi, se non promuovere una cultura militarista e bellicista e favorire l’arruolamento di volontari?
La guerra è un crimine contro l’umanità. Prendiamo la Pace nelle nostre mani, perché il nostro futuro dipende dalle scelte che facciamo oggi.
Europe for Peace
Cover: Yurii_Sheliazhenko, referente del movimento nonviolento ucraino, obiettore di coscienza e professore universitario
Jj4 questo il nome che hanno dato all’orsa “assassina”. È stata identificata con analisi genetiche. Ma l’orsa è una madre e ha reagito a quello che lei ha considerato essere un attacco alla sua prole. Si chiama istinto materno e sono certa che ogni donna, capace di spogliarsi di migliaia di stratificazioni di credenze accumulate nei millenni, che via via l’hanno staccata dal sentire del suo corpo, capace di decolonizzarsi, sarà capace di riconoscere dentro di sé nelle sue viscere quell’istinto primordiale.
L’umanità che ci stanno delineando le “democrazie illuminate illuministe” è un’umanità cibernetica, intelligente, a loro dire, proprio perché priva dell’istinto, senza appartenenze ad una ‘specie‘, classificabile fuori dalla Natura. Non stupisce dunque che l’Orsa non abbia un nome ma una sigla (simile ai numeri marchiati sulle braccia degli ebrei al loro ingresso nei campi di concentramento).
Spersonalizzare, distruggere le identità, ridurre tutti e tutto a codici a barre (madri surrogate), codici genetici questo l’obiettivo per controllare la Natura. Abbiamo dimenticato le parole che ci parlano della sacralità del vento e della pioggia, del sole e della luna, degli spiriti che abitano la natura, gli animali e i nostri corpi. Solo le popolazioni indigene le usano ancora. E questo ci dice quanto il mondo così detto ‘primo’ agisca in questa direzione da molto, molto tempo.
Ma l’uomo A-Natura, privo di natura, anche se è stata impressa un’accelerazione impressionante nella direzione della cancellazione della madre che partorisce carne della sua carne, ha dimenticato che noi donne sentiamo, sempre più forte il riaffiorare di quell’istinto che ci porterà a fare qualsiasi cosa pur di proteggere la nostra prole.
Anche la madre del giovane rimasto ucciso dall’aggressione dell’orsa, si è espressa contro l’abominio di questa condanna. Potete continuare a rappresentare l’orsa come un’assassina, ma noi continueremo a vederci la madre, la donna e la forza dell’amore.
Sempre in di più volgiamo gli occhi a quelle culture che il legame con gli spiriti universali non lo ha mai spezzato e che come noi si è sviluppata fino ai giorni nostri. È venuto il tempo di sbriciolare credenze su cui si fonda un sistema malato, che fa di noi esseri superiori solo grazie alla tecnologia, ma che in realtà sta dimostrando la sua totale disumanità.
E la dimostrazione di quanto sta avvenendo nei nostri corpi, nella parte invisibile dei nostri corpi, l’ho trovata su FB con questa testimonianza .
Decolonizzarsi.
“Nessuno me l’ha insegnato, me l’ha detto, me l’ha mostrato. È stato Il mio spirito, il mio DNA mi ha parlato. Io ho semplicemente ascoltato
Ma nel profondo di me, dentro le mie vene, quella conoscenza c’è sempre stata, quella sapienza su come far nascere, come nutrire, amare e prendermi cura delle mie creature.
Ho messo tutti e tre i miei bebè in #rebozos dal giorno in cui li ho messi al mondo.
La mia conoscenza nella pelle mi ha detto che questa era la strada. Poi l’ho mostrato a quelle intorno a me che volevano fare lo stesso.
Ho allattato tutte e tre le mie creature.
Nessuno me l’ha insegnato. Ero circondata dalla pressione del biberon e dell’alimentazione con latte artificiale.
Dove sono cresciuta era normale fare così e mi aspettavo di fare anch’io così, non sembrava normale portare fuori il mio #chichi per dare da mangiare al mio bambino. E invece l’ho fatto.
Questo è il modo in cui le mie creature saranno veramente connesse con il loro spirito e con gli antenati e le antenate.
Prima devono connettersi alla Madre, sentirsi al sicuro e amate da me. Questo è il modo in cui avranno connessione con ogni creazione vivente nel cielo e sulla terra”.
Decolonizzarsi, questa è la strada per tornare a incrociare la strada che trascende l’umano restando umani e lo possiamo fare anche noi occidentali che nel DNA portiamo l’eredità dei popoli che vivevano a contatto con la natura e, quando questa consapevolezza avrà raggiunto una buona parte di noi, saremo tutte orse inarrestabili.
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Elvis torna in un biopic hollywoodiano, con il bravissimo (e bellissimo) Austin Butler
Standing ovation di 12 minuti al festival di Cannes 2022, dove era stato presentato in anteprima mondiale, Elvis, il biopic hollywoodiano su Elvis Aaron Presley, firmato dal visionario Baz Luhrmann, è piaciuto e piace al pubblico.
Raccontare leggende ha sempre il suo fascino, soprattutto se si tratta di quei miti intergenerazionali che hanno fatto la storia del costume e scardinato modelli prestabiliti, con la forza della loro ostinataribellione e trasgressione. Liberi.
Se poi a interpretare il “bello, ribelle e sexy” per eccellenza, dalla voce calda e suadente, è un altrettanto bellissimo e sensuale attore – in questo caso uno strabiliante Austin Butler – il risultato è garantito.
Per il ruolo, Butler, partito dalle serie Disney, ha ricevuto una candidatura agli Oscar 2023come miglior attore protagonista (il film ne ha ricevute 8), e, per calarsi nella parte, ha usato il metodo Stanislavskij, con un’immersione talmente profonda per due anni che oggi, ha raccontato in un’intervista a Entertainment Weekly, ha difficoltà a distinguere la sua voce da quella del personaggio. Nel film, infatti, canta e benissimo.
Insieme a lui, l’attore due volte premio Oscar Tom Hanks che interpreta l’enigmatico manager-padrone che decide tutto, quell’Andreas Cornelis van Kuijk che pretendeva di essere americano e si faceva chiamare colonnello Tom Parker, il “cattivo” della storia che, sul punto di morte, nel 1997, racconta la leggenda di Elvis, annegato in un mare di lustrini.
Al centro di tutto, elemento originale del racconto, il rapporto tossico fra la star e il manager-impostore, che fiuta subito la “gallina d’oro”, la manipolazione che un Elvis fragile, incerto e insicuro subisce sempre da parte di un uomo senza scrupoli che lo tiene legato a sé, indissolubilmente, con continui ricatti psicologici e raggiri.
Il colonnello Parker mette il giovane astro nascente sotto contratto, lo manda in Europa a fare il servizio militare per fuggire alle accuse di immoralità (qui conoscerà la futura moglie Priscilla, interpretata da Olivia DeJonge), lo fa diventare grande ma non gli permette di fare tour all’estero e lo spreme per anni legandolo a Las Vegas, anni di concerti in cui Elvis diventa la versione grottesca di sé. Con un matrimonio che andrà in frantumi anche a causa di pasticche bianche, Elvis si ritroverà solo, depresso, insoddisfatto e infelice.
Nelle riprese principali svoltesi nel Queensland, in Australia, a fianco di Butler, Hanks e DeJonge, recitano anche la pluripremiata attrice teatrale Helen Thomson, nei panni della madre di Elvis, Gladys, Richard Roxburgh in quelli del padre di Elvis, Vernon, e Kelvin Harrison Jr. che interpreta B.B. King. Per ritrarre le altre icone della musica del film, Luhrmann ha scelto la cantautrice Yola come Sister Rosetta Tharpe; il modello Alton Mason come Little Richard; Gary Clark Jr., come Arthur Crudup e l’artista Shonka Dukureh come Willie Mae “Big Mama” Thornton.
Nel film c’è ovviamente tantissima musica, dalle prime performance con le fan in delirio fino ai tristi show di Las Vegas degli ultimi anni. Molto intense sono le scene dell’incontro di Elvis con la musica blues e gospel (fin da quando, ragazzino, spiava i canti e i balli afro, proibiti alla chiesa) e la chitarra elettrica, le inquadrature di fan urlanti e le performance esplosive. Ci sono, in un crescendo coinvolgente, musica, danza e tante celebrità. Elemento molto interessante, appunto, l’influenza della musica nera su Elvis e il pericolo che questo rappresentava per i sostenitori della supremazia bianca. Ragione di più per osteggiare, oltre a un “movimento di bacino scandaloso e lussurioso” (la star detestava l’appellativo che gli era stato attribuito “Elvis, the Pelvis”).
In una parabola di una celebrità che nasce, cresce, giunge fino all’Olimpo e poi declina e muore, non si perdono mai di vista la delicatezza e la fragilità di un uomo che ha vissuto per la musica e per il suo pubblico. Alla fine, soccombendovi.
Elvis, di Baz Luhrmann, con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Olivia DeJonge, USA, 2022, 159 minuti.
PRESIDIO POPOLARE PER I CRINALI DELL’APPENNINO DA SITI INDUSTRIALI nella piazza di Dicomano (Mugello – FI) 23 Aprile 2023 a partire dalle ORE 9.30
Chiudiamo le porte al Progetto eolico Monte Giogo di Villore Apriamo le porte al Futuro in Mugello
“La nostra deve essere la Prima Generazione che lascia i sistemi naturali e la biodiversità dell’Italia in uno stato migliore di quello che abbiamo ereditato.” V Rapporto sul Capitale Naturale in Italia.
Se sfondano qui, ai confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi, nessun crinale dell’Appennino sarà più integro e libero!
I crinali appenninici del Mugello, non sono zona idonea ad impianti industriali eolici, sono infatti i corridoi ecologici del Parco Nazionale, un Bene comune unico di pubblica utilità, ricco di ecosistemi naturali ben conservati e di biodiversità, non da degradare, ma da tutelare, proteggere, da consegnare alle nuove generazioni, come afferma la Costituzione all’articolo 9.
Sui crinali appenninici di Monte Giogo di Villore, fragili e franosi, si snodano i meravigliosi SENTIERI nazionalied europei, il Sentiero 00 Italia, il Sentiero GEA Grande Escursione Appenninica, il Sentiero
Europa E1 che collega Capo Nord a Capo Passero in Sicilia, il Cammino di Sant’Antonio, i luoghi citati dalla Divina Commedia di Dante Alighieri.
Siamo in continuità funzionale con il Parco, sull’Alta Via dei Parchi, paradiso del Turismo escursionistico, ampiamente finanziata dalle Regioni, che congiunge l’Emilia Romagna alla Toscana attraverso la dorsale degli Appennini Toscoromagnoli.
Questo tratto di crinale fin oltre la Colla di Casaglia è da sempre frequentato da aquile reali (ne prova l’esistenza e i movimenti il monitoraggio satellitare) che in quelle zone hanno diversi siti riproduttivi. Peraltro la “prateria arbustata” del Monte Giogo di Villore Corella è ideale come sito alimentare per gli individui nidificanti nelle zone occidentali del Parco. Fondamentale per l’ ecologia dell’ aquila reale è la presenza di numerose aree aperte o praterie secondarie, ideali aree di caccia ricche di prede, che si alternano a BOSCHI con esemplari vetusti, alberi ad alto fusto dove, in alternativa alle rupi, le aquile costruiscono i loro grandi nidi in un insieme di ecosistemi ricchi di biodiversità e di foreste ben conservate, con ecosistemi caratterizzati da complessa biocomplessità in quanto prossimi a 5 Siti Rete Natura 2000 con Zone a Speciale Conservazione tra cui il sito Natura 2000 ZSC Muraglione Cascata dell’Acquacheta, citata da Dante Alighieri. Un incidente alle pale d’estate potrebbe dar luogo a incendi boschivi tali da mettere a rischio le foreste del Parco Nazionale.
L’ incidenza negativa del mega-impianto eolico, a fronte di dati sul vento secretati, negli habitat di rete Natura 2000 confinanti e nel Parco Nazionale Foreste Casentinesi, sono ampiamente motivati nel Parere contrario del Parco e della Soprintendenza. I danni irreversibili al sistema idrogeologico, al turismo escursionistico, ai paesaggi di Giotto e del Beato Angelico, all’economia dei territori, gli espropri di uliveti, marroneti produttivi, castagneti secolari, terreni agricoli costituiscono un attacco violento e un’insanabile ferita inferta alla bellezza unica e alle risorse dei territori del Mugello senza alcun ritorno occupazionale.
Non è battaglia localista, ma globale e nazionale: la narrativa della “Green Economy” sostituisce la finta transizione energetica alla transizione ecologica e prevede l’impianto di almeno 8.000 pale eoliche per coprire tutti i crinali appenninici, cementificando e trasformando in suolo nudo e zero bosco molti ettari di crinale, incidendo sugli acquiferi di superficie e di profondità, impattando sulla produzione e la qualità dell’acqua che arriva in valle, modificando infrastrutture per il passaggio di mezzi pesanti con enormi pezzi di pale, distruggendo intere faggete per fare ampie strade che arrivano sul crinale.
Secondo i dati ISPRA il fabbisogno energetico strategico potrebbe essere raggiunto con il fotovoltaico coprendo tetti, capannoni, cementate e degradate. Ciò può essere realizzato in Comunità energetiche a gestione pubblica e a controllo democratico. Gli interessi dominanti, estrattivisti, di rapina e saccheggio, continuano a essere quelli della classe dominante che consegue profitti privati, quantunque legittimati come affari di Stato e di pubblica utilità. Dietro le grandi opere esistono invece potenti interessi industriali e finanziari, gli stessi interessi speculativi, sovente mafiosi, che oggi promuovono tanti parchi eolici.
Vieni in piazza a Dicomano per difendere e liberare i nostri crinali ABBRACCIAMO TUTTI INSIEME L’APPENNINO!
Comitato Tutela Crinali Mugellani
Su Eolico Industriale e difesa Crinali Appenninici leggi su Periscopio: Fabrizia Jezzi : https://www.periscopionline.it/il-sentiero-dellaquila-gaia-una-storia-molto-vera-273610.html Jonatas Di Sabato: https://www.periscopionline.it/eolico-malvagio-186640.html Marina Carli: https://www.periscopionline.it/eolico-industriale-in-appennino-opportunita-verde-o-grandi-affari-per-grandi-imprese-236547.html Tommaso Capasso: https://www.periscopionline.it/contro-leolico-industriale-sul-nostro-appennino-273463.html
In copertina: un tratto del Sentiero dei Crinali, Alto Mugello
Assistere a una partita di Premier League in pieno inverno può essere impegnativo, specialmente se è uno di quei famigerati mercoledì sera di Stoke-on-Trent in cui fa freddo, tira vento e piove a dirotto [Qui]. In una situazione del genere, il cibo ideale con cui sfamarsi, e soprattutto scaldarsi, è la popolarissima meat pie, il tortino di carne che da più di settant’anni è una presenza fissa sugli spalti degli stadi inglesi. Oltre alla carne, la farcitura può contenere carote, sedano o piselli, ed è racchiusa in un involucro di pie crust, il corrispettivo britannico della pasta brisé.
Ebbene, l’abitudine di consumare quei tortini salati nel pre-partita ha dato il via a un coro piuttosto irriverente: si tratta di Who Ate All The Pies? [Qui], indirizzato solitamente al giocatore più paffuto o fuori forma della squadra avversaria.
“Who ate all the pies? You fat bastard, you ate all the pies!”
Sta di fatto che, perlomeno nel Regno Unito, questo motivetto gode di una popolarità a dir poco trasversale: ogni tifoseria l’ha intonato almeno una volta, e di recente ha ispirato programmi radiofonici, account su Twitter e monologhi comici, tra cui quest’imperdibile “esegesi” di James Acaster [Qui]. Tuttavia, il successo di Who Ate All The Pies? è associato perlopiù alle vicende di due ex giocatori: il portiere William “Fatty” Foulke e l’attaccante di origini italiane Micky Quinn.
Il primo, com’è intuibile dal soprannome, è ricordato soprattutto per i suoi 150 chili distribuiti in quasi due metri di altezza, e proprio per questo motivo pare che sia stato il bersaglio originario del coro di cui sopra. Senonché, un recente articolo della BBC smentisce quest’ipotesi, poiché la melodia di Who Ate All The Pies? sarebbe stata presa in prestito da una canzone goliardica (Knees Up Mother Brown) le cui prime testimonianze risalgono al 1918, cioè due anni dopo la morte dello stesso Foulke.
Micky Quinn, invece, è stato soprannominato in vari modi per via della sua stazza: da “Sumo” a “Hippofatamus”, passando per un più semplice “Bob”, dovuto alla somiglianza con il comico televisivo Bob Carolgees. In particolare, l’episodio più bizzarro e iconico della carriera di Quinn è avvenuto circa trent’anni fa, ossia quando l’allora attaccante del Newcastle raccolse e mangiò un tortino che qualche spettatore aveva lanciato sul prato di Blundell Park, stadio del Grimsby Town. Quella vicenda, assieme ad altri aneddoti piuttosto curiosi, è raccontata nell’autobiografia dello stesso Quinn, intitolata per l’appunto Who Ate All The Pies?.
Se volete saperne di più sull’inscindibile abbinamento tra meat pie e stadi inglesi, c’è un libro che fa al caso vostro: si intitola 92 Pies [Qui], ed è il resoconto del viaggio gastronomico intrapreso dall’autore Tom Dickinson, il quale ha trascorso l’intera stagione calcistica 2008/2009 ad assaggiare tortini di carne negli stadi d’oltremanica.
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Torre di Controllo a Maggiore Tom. Psicoterapia espressiva e psicosi
Space oddity (David Bowie) (…)
Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.
Perché Sto seduto in un barattolo di latta, Lontano sopra il mondo, Il pianeta Terra è blu
E non c’è niente che io possa fare.(…)
Quando ho conosciuto Tom è così che lo percepivo, come un piccolo astronauta che aveva perso il contatto con la base ed era destinato a navigare nello spazio solo e all’infinito.
I miei tentativi di contatto, per aiutarlo a tornare sulla terra sembravano inutili.
Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti
l’unico riscontro che avevo era il riprodursi della medesima scena……
Sono qui che galleggio
attorno al mio barattolo di latta,
Lontano sopra la Luna,
Il pianeta Terra è blu
E non c’è niente che io possa fare
Tom abitava una astronave cui era fortemente attaccato e che lo rendeva sicuro.
Malgrado sia lontano
più di centomila miglia,
Mi sento molto tranquillo, E penso che la mia astronave sappia dove andare
Ma purtroppo non poteva sapere che la sua nave aveva perso la comunicazione con la torre di controllo e così navigavano, lui e la navicella, disordinatamente con una traiettoria che illudeva entrambi sulla destinazione.
Credo di aver deciso di non aspettare che la sua astronave lo riportasse sul pianeta terra da dove io lanciavo segnali per la strada di ritorno ma di tentare una sorta di allunaggio. Mi sono preparata.
La Torre di Controllo ha
cominciato il conto alla rovescia e al suo augurio che Dio ti assista,
ho acceso i motori,
ho controllato l’accensione e
Mi sono lanciata nello spazio per agganciare astronave e pilota
Torre di Controllo a Maggiore Tom,
Prendi le tue pillole di proteine e mettiti il casco (…) Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque,
quattro, tre, due, uno,
Partenza!
Tom soffre di quello che in psichiatria viene definito Disturbo schizoaffettivo: una condizione psichiatrica per cui si vivono sia psicosi che disturbi dell’umore.
Senza scomodare l’OSM e il sistema di classificazione APA dobbiamo pensare ad una persona che può manifestare, senza averne consapevolezza, allucinazioni e/o deliri, entrambi prove importanti di una realtà alterata che non essendo riconosciuta come tale dal soggetto, fa vivere in un perenne stato di ansia.
Tutto ciò, se non fosse già di per sé una esperienza terrificante, è accompagnata da un “disturbo del pensiero formale” (cioè il pensiero disorganizzato che include illogicità, tangenzialità, perseverazione, neologismo, blocco del pensiero, deragliamento o una combinazione di tutti questi disturbi del pensiero)
Tom ne soffre dall’adolescenza, un disturbo causato in parte da life eventes traumatici: è stato testimone della morte del padre.
Da quel momento ha cominciato ad avere alcuni comportamenti di evitamento sociale, di difficoltà scolastiche fino a giungere a manifestare sintomi deliranti e paranoidi. Il motivo del primo ricovero, primo di molti altri, era stato il suo rifiuto di bere e mangiare per paura di essere avvelenato, ma sono rimasti presenti, anche negli anni a seguire, ossessioni di persecuzione, rituali ossessivi, fobie di contaminazione. Nel tempo c’è stato un significativo peggioramento dei sintomi e del disadattamento sociale che lo ha costretto ad abbandonare la scuola.
Il quadro clinico generale negli anni è stato osservato con minime variazioni.
Sono stata contattata dal Primario di un Servizio Psichiatrico territoriale per adulti che in quel periodo aveva preso in carico Tom, che, ormai maggiorenne, era stato dimesso dal servizio di Neuropsichiatria infantile. La sua richiesta era di tentare un percorso di psicoterapia individuale che non si fondasse esclusivamente su approcci verbali, che fosse in qualche modo alternativo ad altri modelli che fino ad allora erano risultati piuttosto inefficaci. Più volte mi ha ripetuto che “era un caso difficile”.
Pur avendo pensato (e sperato) di svolgere la Psicoterapia Espressiva con diversi materiali, per attivare percezioni e quindi contattare differenti dimensioni intrapsichiche, tenendo conto delle fobie di contaminazione e della necessità di controllo del paziente (alcuni strumenti creano imprevisti e sono poco controllabili) quelli che ho proposto inizialmente sono stati pennarelli, matite colorate, pastelli a cera.
I pennarelli sono stati scelti e confermati come strumenti privilegiati in tutti i suoi lavori. Tra i supporti, presenti in diversi formati e colori, Tom ha scelto spontaneamente sempre lo stesso tipo: fogli bianchi, lisci, A3.
Tom arriva sempre con la madre (ma trascuro di parlare di questa coppia speciale) e arrivano puntualissimi. La loro comparsa è anticipata da un rumore di tacchi alti e uno, inquietante, di conati. Tom non risponde ai miei saluti e ai miei inviti tranne quando è la madre a indicargli che fare. Spesso di fronte a domande dirette ripropone i conati di vomito. La sua mimica facciale appare ridotta, anche i suoi movimenti sono pochi e meccanici, il suo contatto oculare è discontinuo.
Sono andata al primo incontro con diversi timori. In realtà i risultati sono stati migliori rispetto alle mie aspettative: anche se la madre (impossibile all’inizio pensare che “me lo consegnasse”) ogni tanto annotava delle cose su una rubrica blu facendomi sentire decisamente sotto esame.
Tom è riuscito a stare nella stanza, ha usato i materiali, mi ha parlato seppur con poche e sintetiche frasi, mi ha guardato, si è sforzato di collaborare e tutto ciò mi è sembrato tanto. Anche se ero preparata a silenzi e inattività ho sentito un vero sollievo quando Tom disegnava. Le immagini sono state il veicolo per fare conoscenza: le ho utilizzate per rompere il ghiaccio e come tramite per farmi raccontare qualcosa in più della sua vita attuale rispetto alle sue laconiche descrizioni di sé: la scuola, i giochi, ecc. Alla domanda come stai? Tom non è stato in grado di seguirmi (E non c’è niente che io possa fare) anche se poi mi ha regalato quel cielo che mi è sembrato un modo piuttosto pregnante per descrivere l’impossibilità di tenere in contatto cielo e terra divisi da uno spazio bianco, un vuoto impercorribile che può fagocitarti.
In questo primo periodo oltre ai conati si presentano delle specie di crisi respiratorie in concomitanza quasi sempre di stimoli spiacevoli (ad esempio l’ingresso di un operatore, la richiesta di prendere, toccare direttamente). Questo dolore fisico me lo mostrerà anche nei disegni. Il primo livello del bambino per segnalare un disagio è una comunicazione in cui è il corpo che parla e in cui all’inizio sono presenti solo: sto bene, sto male. Ma io ho di fronte un adolescente.
Al momento del commiato, se gli chiedevo come si era trovato, “bene”! diceva senza incertezze, ma dopo i saluti non mi guardava più e lo sentivo già distante.
Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?
La sua riluttanza a raccontare viene superata da un senso di dovere e di compiacenza che producono frasi sintetiche e perentorie che una volta scritte non vuole commentare. Ogni volta che lascia dei segni sul foglio, parole, foto, disegni, sente l’esigenza di prenderne le distanze e dice che “non ha più niente da dire”, “di mettere tutto nella cartellina”, “che è stanco”, “che vuole andarsene”. Per me è difficile dare un seguito a queste sue espressioni.
Tento un passaggio alle tempere, mi sembra che sia pronto a un materiale più fluido e questi sono i risultati: uno svelamento subito abbandonato. Una parola indicibile, una piccola parvenza di forma umana trasparente
Ed è qui che torniamo, grovigli impenetrabili ma che proteggono. Siamo a prima del big bang che dal caos ha dato un ordine all’universo
Credo che Tom, a suo modo, mi abbia messo di fronte alla sua necessità di rimanere protetto dietro le sue difese, mi ha reso partecipe della sua sofferenza: lo spazio bianco vuoto del disegno tra il cielo e la terra, che separa, che non è abitato; mi ha mostrato come il suo centro gravitazionale fosse la madre e come per incontrarlo anch’io dovevo attraversare questo circuito.
I suoi “non so”, ma di più i suoi silenzi alle domande, sottolineavano la sua impossibilità a definirsi: Tom è senza passato, senza presente e senza futuro. Però iniziava ogni seduta dicendo “io sono Tom”.
Sentivo ogni volta un elemento di ambivalenza: non sapevo se i suoi lavori riposti nella cartellina fossero lì per essere custoditi o per essere abbandonati.
Tom non ha nomi per le emozioni. L’unico affetto è per la madre verso la quale mostra un atteggiamento infantile fatto dal desiderio di compiacerla e di richieste di contatto fisico.
Verso la fine della nostra terapia Tom prima, di andarsene, prendendo uno stralcio di conversazione che aveva sentito tra me e la madre rispetto agli obiettivi e alle future valutazioni della terapia, mi dice guardandomi, “No. Non è stato un fallimento. “E qui che ho male” e si mette la mano sul petto all’altezza del cuore” forse scimmiottando quello che aveva visto fare dalla madre.
Tom dopo il primo anno di psicoterapia con l’arte ha ripreso a frequentare la scuola dove è arrivato progressivamente a tollerare un orario pieno e dove, oltre al percorso con il suo insegnante di sostegno, si sono ampliate le interazioni con la classe.
Tom e la madre (quella strana coppia!) hanno accettato ed iniziato degli incontri quindicinali di psicoterapia famigliare. Vanno in un’altra città in treno e Tom regge bene questa situazione promiscua e pubblica senza adottare nessuno dei suoi sintomi.
Alcune considerazioni su Transfert e Controtransfert nella relazione terapeutica tra Tom e me
“Il transfert è la diversa posizione assunta dal paziente nei confronti dell’oggetto analitico; attraverso l’uso dell’analista come oggetto, il paziente trasferisce parti volute o non volute di sé, prova e sperimenta diversi stati di sé per trovare ciò che è giusto e accurato come espressione della sua realtà interna (Winnicott). ”
Il transfert presuppone una regressione, una riattivazione del passato. Rispetto al mio modello di riferimento – indirizzo psicodinamico – lo specifico disturbo psico-patologico di cui soffre Tom fa capire che questa definizione classica non è percorribile. Infatti nella relazione con un paziente psicotico il transfert psicotico conduce il terapeuta ad una maggiore attività, lo induce ad un lavoro in cui deve rafforzare l’Io del paziente e lo consiglia di allearsi più con la realtà che con l’inconscio del malato.
L’aspetto simbolico è un traguardo lontano ma se siamo anni luce dall’uso psicoanalitico del transfert ho potuto però lavorare sul mio controtransfert.
Quello somatico: è nel corpo che risuonano per primi alcuni elementi importanti di ciò che sta avvenendo nella relazione terapeutica.
Spesso, terminata la seduta mi sono resa conto di avere un’emicrania che mi spaccava il cervello, come se la fatica di “tenere” mi fosse costata uno sforzo inconsapevole ma esagerato che adesso si manifestava con questa “esplosione”.
La mia sensazione era quella di resistere perché potevamo avviare un processo: bisogna vincere la gravità terrestre per raggiungere lo spazio.
(…) La Torre di Controllo ha
cominciato il conto alla rovescia e al suo augurio che Dio ti assista,
ho acceso i motori (…)
Esiste poi un controtransfert più specifico della psicologia espressiva: il terapeuta esplora i contenuti della sua mente in particolare con l’aiuto dell’emisfero destro (quello della creatività, delle libere associazioni, dell’immaginazione) ed anche con la realizzazione dei propri prodotti artistici, restituzione e veicolo per arrivare a contenuti ancora inconsci ma che da dentro vanno verso il fuori e, prendendo una forma e un senso, possono essere oggetti di trasformazione. (come esempio il collage di fig. 1, il brano musicale che mi ha fatto da risonanza).
Avevo la piena consapevolezza della complessità e del grado di impegno di questo viaggio interplanetario. Tom per me è ancora un astronauta lanciato nello spazio in cerca di una comunicazione con “il pianeta terra che è blu” che è anche una speranza.
Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.
Negli due anni di psicoterapia insieme non ci sono stati più ricoveri.
Nota importante: tutti gli articoli della rubrica sono tratti da casi clinici reali, romanzati ed adattati per rispettare la privacy. Le immagini dei pazienti sono autorizzate dalla liberatoria che mi è stata concessa solo a scopo di pubblicazioni a mio nome. Ne è vietata la riproduzione per altri usi.
Per leggere gli altri interventi della rubricaL’Arte che CuradiGiovanna Tonioli, clicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.
“La poesia è composta da gioia e dolore e meraviglia, con un pizzico di dizionario.” (Khalil Gibran)
Attesa
Ha scandito la notte
Una pioggia feroce
Un martello di solitudine
A destare fantasmi.
E così mi sorprende
Questo giorno più chiaro
Questo azzurro lavato
Che una fila di nuvole
Solca sottile e docile:
È una promessa
O forse una minaccia…
Il cielo lo dirà.
Stiamo in attesa
Quasi una metafora
Lasciate andare al vento ad una ad una
l’ ultime foglie, o tristemente ai piedi
cadute come lacrime d’addio,
resta un cespuglio nudo rinsecchito
senza più niente per farsi guardare
senza promesse ormai
di primavere…
Poi d’improvviso un profumo ti avvolge
e ti fa ritornare sui tuoi passi
un profumo che dura e che consola
l’inverno che ti scorre nelle vene
e sa di casa e di memorie buone…
Come d’incanto sui rami stecchiti
irraggia un sole d’oro: il calicanto.
Il nostro tempo
Il nostro tempo corre e ci conduce
come formiche in fila
nere su strade grigie.
E sopra, il cielo inventa
giochi di forme e di colori
cavalieri e draghi
unicorni ippogrifi aquiloni
violetti rosa gialli azzurri e rossi
Uno stupore senza fine, nuovo
ad ogni istante,
uno spettacolo
senza intervallo, gratis
che non ha spettatori:
un amore sprecato.
La strada
Io non lo so per cosa ero fatta
se ho seguito una strada tracciata
dall’alto, per amore o per destino
o il cieco caso mi ha preso per mano…
So che gli inciampi sono stati tanti
e li ho raccolti tutti nel cammino…
Chissà se avrò spianato un po’ la strada
ai compagni di viaggio che ho incontrato…
Festa
Nella piazzetta chiusa all’imbrunire
giocano i bimbi e volano gli uccelli
si confonde il vociare e lo stridio:
felicità di vivere e di esserci.
Io li guardo sedendo alla finestra…
Cosa darei a far parte della festa…
Ma il mio tempo è passato e piano imparo
a dirti grazie, vita, che mi hai dato
di contemplarti ancora in questo giorno.
Marta Casadei si descrive così:”Sono nata a Riccione moltissimi anni fa. Da oltre 50 anni vivo a Ferrara, una città che adoro. Qui mi sono dedicata alla famiglia maturando un grande amore per i bambini e la consapevolezza del diritto di tutti i piccoli ad avere una famiglia, per cui ho scelto di dedicarmi per molti anni all’affido familiare. Per questo ho abbandonato la passione giovanile dello scrivere per riprenderla adesso in età avanzata. Per me è una terapia alla solitudine e risponde al bisogno di mettere insieme dei ricordi da lasciare ai figli. Non ho velleità artistiche, il mio è uno stile datato però a volte si compie il miracolo di un incontro di anime e diventa senza tempo e bello”.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Vite di carta. Paolo Bricco al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 1. parte
Troppi libri da leggere, non sto tenendo il passo. Primo perché la beata età della pensione me lo deve questo ritmo più calmo, il piacere di leggere con tempi adeguati. Poi perché leggo spesso i libri scelti dai gruppi di lettura di cui faccio parte, e così facendo vado oltre i confini della narrativa contemporanea italiana su cui ho lavorato per anni insegnando al Liceo Ariosto.
La narrativa italiana però non lascia me. Gli scrittori continuano a venire a scuola a presentare i loro libri ultimi usciti, scelgono anche un’opera che li ha segnati nella loro carriera di lettori e dunque i ragazzi e le colleghe del gruppo Galeotto fu il librolavorano su almeno due opere per preparare la conversazione con l’autore.
A ogni incontro, come quello di inizio marzo o a quest’ultimo di mercoledì 13 aprile, non resisto al loro invito e metto piede dentro il Liceo. So che vengo a imparare, a imparare dai ragazzi.
Il 10 marzo siedo in prima fila e ho a pochi metri sul palco Paolo Bricco, attualmente inviato speciale del Sole 24 ore, che porta il suo AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, uscito lo scorso anno presso Rizzoli e ultimo di una serie di studi dedicati all’industriale di Ivrea.
Le domande che i ragazzi pongono, alzandosi uno alla volta dalle loro poltrone, vedo bene che pungolano Bricco. Prende vistosamente fiato e comincia a dare risposta: dice di cosa è fatta l’utopiadi Olivetti, la perimetra con chiarezza punto per punto; richiama il fondale della storia che si agita alle spalle, i rapporti col Fascismo, i limiti del suo capitalismo di famiglia pur nella grandezza di idee con cui ha progettato la comunità della sua fabbrica e ci ha messo al centro la Persona.
La retribuzione che supera del 40% quella degli altri operai metalmeccanici ne è un esempio, come pure la apertura nel 1942 dell’asilo nido dentro la fabbrica di Ivrea, come le misure a sostegno delle lavoratrici madri con lo stipendio intero fino al settimo mese del bambino.
Non è un ritratto agiografico di Adriano Olivetti, ma una serie ragionata di considerazioni sulla sua visione della attività industriale, sul suo interesse per l’innovazione tecnologica, sui percorsi di crescita personale e lavorativa che ha realizzato per i dipendenti, sui motivi della crisi che dalla fine degli anni Cinquanta investe l’intero settore della elettronica italiana priva del supporto di una politica industriale che fosse al passo con i tempi.
Non è nemmeno una lezione quella che Bricco sta tenendo con le sue risposte, perché i ragazzi hanno trovato la giusta chiave da dare ai discorsi, da quando Chiara, aprendo l’incontro, ha letto la lettera che ha scritto a suo padre, metalmeccanico, e gli ha esposto le condizioni in cui hanno lavorato i dipendenti di Adriano Olivetti. Ha chiamato “umanesimo industriale” quello di cui è stato promotore, dando spunti per un confronto con l’oggi. E auspicando che ogni lavoratore possa, come accade a suo padre, provare passione nel lavoro che fa.
Il che consente a Bricco di raccontare anche degli stralci dalla propria storia personale: la nascita a Ivrea, un non-luogo che entra nella Storia con la fabbrica Olivetti, i genitori che ci lavorano come impiegati, con le cure dentistiche gratuite anche per i figli, lo sbarco all’Università di Torino e la scoperta della gerarchia sociale che nella Ivrea di Olivetti “non si respirava”.
Poi il discorso vira sulla letteratura che si muove attorno alla vita della fabbrica, sugli autori che ci hanno lavorato e scritto. Sfilano figure come quella di Geno Pampaloni che fu per anni assistente di Adriano, di Paolo Volponi che pubblicò il suo Memoriale nel 1962 e intanto si occupava di pubblicità e delle relazioni commerciali dentro la fabbrica.
Di Ottiero Ottieri e della nascita nel secondo dopoguerra di un nuovo genere narrativo in Italia, un tassello importante di quella che potremmo chiamare la “letteratura industriale”, in cui si denuncia la alienazione dell’uomo e in cui trova posto il tassello del “romanzo olivettiano”, come costruzione di un immaginario sulla vita della fabbrica “a misura d’uomo”.
Ancora. Mentre ascolto mi viene in mente più volte Lessico famigliare, quando Natalia Ginzburg parla della sorella Paola Levi e della sua storia con Adriano, il “grande e famoso industriale” che conserva tuttavia “nell’aspetto qualcosa di randagio, come da ragazzo” con “gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre”. Natalia racconta l’incontro di Paola con Adriano e il fidanzamento, le nozze e la vita da sposata.
Oggi Paolo Bricco ne riprende la figura, la definisce come la prima amatissima moglie di Adriano e le riconosce di averlo “sprovincializzato”, di avere portato nella sua vita il vento della cultura torinese e non solo italiana, ma della Mitteleuropa e parigina e londinese. Resterà un’eco di tutto questo dentro la fabbrica a Ivrea, anche dopo il divorzio, anche negli anni del secondo matrimonio di Adriano con la giovane Grazia Galletti.
Mentre i ragazzi chiedono a Paolo Bricco per quali ragioni ha scelto come suo “libro galeotto” Memorie di Adriano della Yourcenar, per me è ora di lasciare l’incontro. Faccio in tempo ad avvertire un sottile senso di colpa per non avere ancora completato la lettura di tanto capolavoro, poi mi metto a elencare mentalmente le suggestioni che ho raccolto oggi, i libri da leggere che sono usciti dalla conversazione con Bricco e ci aggiungo questo altro Adriano Imperatore.
Percorro il lungo corridoio che porta dall’Atrio Bassani all’uscita dal Liceo e a chi mi incrocia e mi guarda con aria interrogativa dico la consueta frase “Sono qui per il Galeotto” e sorrido.
Tornerò presto, l’incontro con Marco Malvaldi di metà aprile è già nei miei programmi.
Nota bibliografica:
Paolo Bricco, AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, Rizzoli, 2022
Le voci “da dentro” sono quelle che provengono dalla nostra coscienza e che ci parlano direttamente, ma sono anche quelle voci che provengono da chi è “dentro” cioè da persone che stanno vivendo l’esperienza del carcere. A partire da oggi, Periscopio ospita questa nuova rubrica con lo scopo di provare ad offrire un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali affinché, ognuno nel proprio piccolo, combatta la sua battaglia contro gli stereotipi ed i pregiudizi che non aiutano il completo reinserimento di queste persone nella società. È un modo per dar voce alle persone ristrette e a chi opera nel carcere ma è anche per dare orecchio a chi, da dentro, sta parlando alle nostre coscienze. La rubrica è scritta in collaborazione con “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.
Il testo che segue è una proposta per c hi si occupa delle condizioni di vita di chi vive in carcere, sia per aver commesso un reato ma anche per lavoro. A qualcuno apparirà provocatoria, ma è opportuno sapere che chi l’ha scritta la considera seria e trova provocatorie ben altre cose. (Mauro Presini)
Il carcere che vorrei (sognare non costa nulla)
di D. G.
Voltaire diceva: “Non mostratemi i vostri palazzi ma le vostre carceri poiché da esse si evince il grado di civiltà di un paese”.
In verità non esiste un carcere che vorrei, va da sé che come tutti quanti vorrei non essere qui ma a casa mia, ma visto che temo di non poter avere scelta, almeno avvenga che io faccia tesoro di questa esperienza non solo per una mia personalissima presa di coscienza ma anche per scrivere qualche riflessione su come vorrei che fosse diversa l’espiazione carceraria in Italia, magari di pubblica utilità in base alla mia esperienza e alla mia sensibilità.
In primo luogo, vorrei che il carcere fosse premiativo. Vorrei che esistesse una sezione distaccata completamente diversa, riservata ai detenuti meritevoli che se la siano guadagnata, a prescindere dal loro reato o da qualsiasi beneficio pattuito con lo Stato.
Ovvero che semplicemente amino comportarsi civilmente, educatamente, come quelli tranquilli, ordinati, che leggono, dipingono o semplicemente abbiano un carattere mite ed educato.
Questa sezione dovrebbe avere porte e non sbarre, giardino a libera frequentazione, finestre normali, libertà di colloqui con parenti ed amici non pregiudicati, possibilità di arricchimento delle camere penitenziarie con elettrodomestici, strumenti musicali o angoli di cucina liberamente allestiti coi propri mezzi, chiave personale, computer. Ovvio che al primo sgarro si tornerebbe nella sezione “comuni” e si perderebbe il “paradiso” per almeno un anno.
Questa sezione dovrebbe avere un solo posto di guardia con soli due piantoni per le emergenze e costerebbe un decimo di una sezione normale poiché sarebbe quasi interamente autogestita. Concederai telefono e internet a proprio pagamento, ovviamente con registrazione dei siti e delle chiamate, magari escludendo chi potrebbe verosimilmente recare danno alla comunità o reiterare i reati. L’ho buttata giù così forse esagerando un po’ con le concessioni ma andrebbe studiata bene perché con un simile obiettivo magicamente le sezioni comuni diventerebbero collegi francescani con diminuzione di rischi e tensioni anche per tutti gli assistenti e gli addetti alla guardia.
Secondo: vorrei che ogni sezione avesse tre portavoce che rappresentassero i detenuti che, assieme a corrispettivi delle altre sezioni, formassero un piccolo sindacato interno che si interfacciasse con l’amministrazione penitenziaria per difendere i diritti e per valutare i problemi, le emergenze, i reclami e i riconoscimenti.
Non sto scrivendo nulla di nuovo, si chiama democrazia e gli uomini la praticano da 2.000 anni.
Ciò servirebbe alla direzione per avere rappresentanze di sezione ordinate, attendibili anziché il caos e ai detenuti per avere una valida alternativa alla legge della giungla per ogni controversia interna e particolare.
Imparare il meccanismo magico della democrazia ovvero la promozione della voce della maggioranza nel rispetto dei diritti della minoranza, sarebbe poi un eccezionale esperimento per una presa di coscienza collettiva del diritto e per una crescita sul campo di quel prezioso senso civico che manca a tanti, soprattutto a chi non ha avuto la possibilità di studiare o di incontrare nella vita dei buoni maestri.
I “fatti” anziché le “prediche”.
Terza idea: vorrei una legge che prevedesse, per ogni magistrato, ogni direttore di Penitenziario, ogni ufficiale di polizia penitenziaria da ispettore in su, tre settimane di carcere sotto copertura (di cui una in isolamento), come fosse un corso di aggiornamento obbligatorio.
Questo periodo detentivo formativo dovrebbe essere necessario senza eccezioni per concorsi, promozioni e nomine di cui sopra con possibilità in ogni momento di interruzione immediata in caso di rivelazione, anche casuale, della copertura o di mancata sopportazione dell’esame, con conseguente sospensione della nomina in ruolo per 5 anni.
Sarebbe d’obbligo comunque il rifacimento daccapo.
Nessun luogo di lavoro come una casa circondariale, io credo necessiti così tanto di esperienza da dentro da parte di chi dovrà gestirne l’amministrazione, il welfare e la sicurezza. Potrebbero bastare anche solo due giorni per capire tutto, ma gli altri giorni sono necessari per ricordare per sempre.
Quarto ed ultimo punto: vorrei che ogni carcere assumesse obbligatoriamente una percentuale dovuta di cittadini italiani di cultura araba come assistenti, in rapporto alla percentuale dei detenuti di medesima provenienza presenti all’interno di quel istituto. Vorrei che ogni regione indicesse relativi concorsi necessari a questa innovazione per favorire la comunicazione e la gestione diretta di una così larga parte di detenuti, spesso ignari da modi e diritti, affinché la legge possa essere un poco più uguale per tutti.
Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.
Per vedere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Un tuffo nella natura, dove il piacere di queste visioni di foreste e paesaggi marini variopinti accompagna il visitatore in un percorso di indagine coinvolgente, che in realtà affronta il tema della distruzione che l’essere umano sta infliggendo al mondo circostante. È questo che illustra con grande piacevolezza per gli occhi la mostra “Post Eden” con le opere di DenisRiva/Luca Zarattini alla galleria Zanzara arte contemporanea, in via Podestà, nel centro storico di Ferrara.
La prima sala esibisce alberi trionfanti e, avvicinandosi meglio all’opera, un albero con miriadi di volatili d’ogni specie e materia che si possono intercettare tra le pennellate stratificate e aeree di Denis Riva.
La seconda sala espone le opere di Luca Zarattini composte di carte strappate e macchie di colore che, a un’osservazione più attenta e ravvicinata, rivelano un tuffatore nell’atto di fendere la superficie acquatica.
Il tragitto prosegue per arrivare fino a creature marine di ceramica smaltata e microrganismi curiosi che chiazzano le carte come formazioni fungine, collage e composizioni di creature fantastiche. “Abbiamo voluto mettere in scena una riflessione artistica sulla natura e sull’invasione che subisce da parte dell’uomo”, spiegano le curatrici Giulia Giliberti e Sara Ricci.
Le spettacolari realizzazioni degli artisti Denis Riva e Luca Zarattini alternano due fasi di questa riflessione.
Luca Zarattini (foto GioM)
Denis Riva (foto GioM)
Negli spazi della galleria (civico 11 di via del Podestà) le opere si concentrano sulla situazione attuale, nella quale l’uomo si è allontanato dalla natura e contamina con la sua presenza e i suoi scarti quello che era il suo giardino.
“Un post Eden – spiega la curatrice Sara Ricci – che culmina nella saletta dove è esposta l’opera firmata a quattro mani, la gigantesca Cloaca che ci seppellirà (l’opera scelta anche come immagine-manifesto della mostra, ndr), dove esplodono tutti i detriti che vanno depositarsi fin fuori dal quadro, su tutto il pavimento”. E che il visitatore è invitato a percorrere e calpestare.
Nello spazio della Scuderia (civico di fronte, al numero 14 di via Podestà) è esposta la seconda fase di questo processo, ovvero quello che viene prospettato come il seguito dell’Apocalisse: un nuovo mondo concepito dalla fantasia degli artisti con la presenza di esseri sconosciuti e rinnovate creature.
Post Eden
Particolari
Nuove creature
di Denis Riva
In questo antro della parte antica di Ferrara, nato per ospitare carrozze, campeggia un monumentale paravento, la “Riserva artificiale”, composto da 18 vecchie finestre recuperate e trasformate in grandi cornici.
Da un lato, sotto i vetri sono esposti i 18 lavori su carta di Denis Riva, alias Deriva. Le carte illustrano giganteschi animali a più teste e microrganismi volatili e ariosi, delineati da macchie di china colorata e di un composto che lui chiama ‘lievito madre’, realizzato con l’acqua di scarto della pittura, fermentata, seccata e rivivificata. Dall’altro lato ci sono i 18 collage colorati di Luca Zarattini, che alternano pittura e altri materiali cartacei, che Giulia Giliberti definisce “una ricerca di ordine nel caos”.
Passando nell’ultimo spazio, la sala-grotta sempre all’interno delle Scuderie, esplode l’universo delle creature rigenerate in un mondo nuovo, che riparte dai fondali oceanici. Molto belle le ceramiche realizzate da Zarattini, che plasmano sedimentazioni marine dalle forme e colorazioni diverse: ci sono quelle violacee come rocce incrostate di cozze, appuntiti ricci purpurei, colonne di varie tonalità che evocano formazioni calcaree di stalagmiti. Ai suoi lati campeggiano i due grandi lavori su carta di DeRiva, che recupera i suoi molteplici animali ritagliati e scartati nella realizzazione di altre opere, abbinandoli uno accanto all’altro come su una teca di un raccoglitore di farfalle o alla maniera di un puzzle che evoca gli incastri di animali del designer Enzo Mari.
Collage di Denis Riva
Zarattini e DeRiva
Ceramiche di Zarattini
“La maggior parte delle opere sono state create apposta per questa esposizione” spiegano le galleriste. E raccontano che tutto il progetto curatoriale ruota attorno a un’opera letteraria, “Il Giardino di Babilonia” di Bernard Charbonneau. È un testo del 1969, che descrive la devastazione delle campagne, la fine del paesaggio, la costruzione di un concetto umanizzato di natura e la sua artificializzazione.
Un tema forte e catastrofico, che la creatività dei due artisti riesce a far avvicinare in maniera appassionante e anche giocosa. Da una parte con l’immaginario impregnato delle carte di recupero e dei paesaggi marini del lagunare Luca Zarattini, classe 1984, originario di Codigoro; e dall’altro con quello del centese Denis Riva, classe 1979, dove prevale il legame con la terra e la particolare sensibilità per il riutilizzo e la trasformazione di pagine antiche, residui tessili e materiali abbandonati.
“Post Eden” alla galleria Zanzara arte contemporanea, via Podestà 11 e 14, Ferrara. Visitabile fino al 24 giugno 2023, nei giorni di giovedì ore 15-18, venerdì ore 11-13 e 15-18, sabato ore 15-18. Per prendere appuntamento, scrivere una mail a info@zanzaraartecontemporanea.it
Credit Suisse e il fondo pensioni svedese Alecta: altro fallimento. Quale apprendimento?
Al di là dei tecnicismi che usano i banchieri e gli economisti il fallimento di Credit Suisse è un caso paradigmatico di come è cambiato il ruolo delle banche negli ultimi 30 anni, che è una delle ragioni della crisi attuale dell’Occidente. Il valore di Credit Suisse è sceso in 15 anni da 80 franchi a 1,5. La sua crisi non è recente e negli ultimi tempi se ne sono andati alcuni grandi azionisti sostituiti da fondi arabi.
Fondata nel 1856 da Alfred Escher, politico e dirigente d’azienda, è vissuta per 130 anni come banca locale, per finanziare lo sviluppo delle ferrovie svizzere. C’era un legame diretto con la produzione e il paese. Dal 1990 si è trasformata in una banca globale con l’obiettivo di fare i massimi profitti anche a costo di riciclare denaro sporco e sostenere i peggiori affaristi nel mondo. Col 23% della raccolta dei risparmi era la più grande banca svizzera seguita da UBS (22%). Essendo considerata una banca “troppo grande per lasciarla fallire”, senza avere gravissimi effetti sull’intero sistema globale, è intervenuto lo Stato e poi UBS, la concorrente, ad acquistarla per 3 miliardi.
I soci principali erano la Saudi National Bank (9,9%), il fondo sovrano del Qatar (Holding 7%), il fondo americano Dodge & Cox, l’impresa multinazionale del saudita Suliman Saleh Olayan (Olayan Group), la società di investimento di Chicago Harris Associated, il colosso finanziario BlackRock e la società Silcehester International (Londra).
Negli ultimi anni Credit Suisse ha privilegiato le attività di investment banking e wealth management (anglicismi per dire di far fruttare al meglio i soldi dei ricchi) a scapito dei servizi e degli investimenti in vere imprese. Si tratta di investimenti ad alto rischio – alcuni dei quali costati miliardi di euro ai clienti, come quelli nella società finanziaria britannica Greensill Capital e nella statunitense Archegos Capital Management, crollate nel 2021 – che nel corso di un decennio hanno minato il suo bilancio, fino al buco di 7,3 miliardi di franchi nel bilancio 2022.
Alcuni analisti hanno parlato di una «cultura del rischio autodistruttiva» che ha alla base la ricerca del massimo profitto ad ogni costo, non badando ai pericoli – più di cento secondo l’autorità di vigilanza elvetica – che già da alcuni anni giungevano al suo management. In mezzo, una serie di scandali che hanno pregiudicato la credibilità. Dallo spionaggio a danno di collaboratori, alla condanna in sede penale per riciclaggio di denaro da traffico di droga, fino all’inchiesta «Suisse Secrets», condotta da 160 giornalisti di 39 paesi, nella quale si parla di clienti accusati di violare i diritti umani, di un trafficante accusato nelle Filippine di commercio di esseri umani, i prestiti al Mozambico per comprare navi della guardia costiera e per la pesca del tonno, poi finiti in traffico d’armi. D’altra parte, parliamo della stessa banca dove trovarono «riparo» le ricchezze che i nazisti scappati in Argentina avevano sottratto agli ebrei.
Il fattore scatenante della crisi di Credit Suisse è stata la svalutazione dei titoli di Stato dovuta all’aumento dei tassi delle Banche centrali (Usa e UE, la più rapida storicamente) che preoccupa anche altre banche: le europee pare abbiano oltre 3mila miliardi di euro di titoli di stato, il cui valore è sceso per il rialzo dei tassi d’interesse, che potrebbe portare a perdite di bilancio preoccupanti e che la crisi di Credit Suisse potrebbe ingigantire (ecco perché la salvano). Ma la cosa incredibile è che per farlo hanno deciso di non far perdere gli azionisti ma gli obbligazionisti (per 15 miliardi), violando regole secolari. Ciò porterà a vertenze giudiziarie e mina la credibilità delle banche “svizzere” (ora globali).
Siamo ormai arrivati a quella «vertigine del capitale», come la chiamò per primo Marx, di voler «far denaro senza la mediazione del processo di produzione», che è il “cancro” della modernità. Da fenomeno limitato alle banche d’affari com’era sino al 1990, è diventato il modo di funzionare “standard” di quasi tutte le banche, da quando è stata abrogato lo Steagall Act che aveva introdotto nel 1933 Roosvelt, proprio per dividere le banche d’affari (che speculavano) da quelle tradizionali (che prestano a imprese e famiglie). Roosvelt le divise per evitare che il fallimento di una banca d’affari travolgesse l’economia reale. La “modernità” ha poi spinto centinaia di migliaia di cittadini a “giocare” e speculare su tutto via internet.
Lo stesso prezzo stratosferico del gas è il frutto di una speculazione di 50 banche d’affari e 150 fondi finanziari che in primavera 2021 (un anno prima dell’invasione russa), ben informati, hanno acquistato “tutto e di più” nel mercato Ttf di Amsterdam (gestito dagli Usa).
Questa finanziarizzazione dell’economia è alla base delle crisi (2008, 2023) che poi colpiscono occupazione, redditi, risparmi, pensioni. Se però le cose vanno male c’è sempre la possibilità (essendo troppo grandi per fallire) che lo Stato (in questo caso la Svizzera) ci metta una “pezza”, anche se oggi è una banca globale, con un profilo speculativo molto marcato, che di «svizzero» ha solo il nome.
Due altri fallimenti – la Silicon Valley Bank e la Signature Bank, entrambe Usa – hanno azzerato i conti invece degli azionisti, tra cui il fondo pensioni svedese Alecta che ha perso 1,15 miliardi e altri 728 milioni per la vendita della quota in First Republic Bank (altro fallimento Usa). Un danno enorme per i 2,6 milioni di pensionati svedesi per la pensione integrativa a quella pubblica.
Anche questa storia è significativa dello ‘spirito dei tempi’. Le pensioni in Occidente sono messe sempre più a rischio con il passaggio dalla previdenza pubblica ad una privata (per ora integrativa), dal desiderio di guadagnare a cui spinge la finanza. Il fondo Alecta veniva da 4 anni di utili crescenti e l’ultimo consuntivo è zeppo di tutte le parole chiave dellamodernità: etica e integrità, sostenibilità, efficienza, più forti verso il futuro, più energie rinnovabili, minor inquinamento, inclusività, cibo sostenibile, maggior numero di donne, contro ogni razzismo e corruzione e per la diversità etnica. La tradizionale verniciatura di cui si fregiano quasi tutte le imprese multinazionali, i fondi finanziari, le banche (tanto nessuno può controllare oppure fanno anche questo tipo di investimenti ma sono una minoranza rispetto a quelli speculativi).
Ovviamente sono sempre certificati da un Istituto indipendente “prestigioso” (Ernst & Young AB). Leggere il consuntivo del fondo Alecta 2021fa impressione e dimostra ormai l’impossibilità per un lavoratore, pensionato, cittadino di capire e fidarsi di quelle che una volta erano stimate “Istituzioni”. Il desiderio di guadagnare e la globalizzazione mettono a rischio tutti.
Il responsabile della gestione azionaria del fondo Magnus Billing è stato licenziato, sperando di mitigare le proteste degli imbufaliti pensionati svedesi che hanno perso 2 miliardi di dollari. Ma ovviamente il problema non è del Ceo (che può perdere o guadagnare), ma della logica che spinge anche le pensioni Occidentali ad un’ottica speculativa.
Per fortuna si tratta (per ora) del “pilastro” integrativo e privato della pensione (avviato nel 2000), perché quella pubblica (garantita dallo Stato sulla base dei contributi versati) dà un importo medio pari al 55-60% dell’ultimo salario. C’è poi un secondo “pilastro” formato dalla previdenza professionale, che viene coperta dai contributi versati dai datori di lavoro, sulla base di accordi che dipendono dai settori. Infine, la previdenza privata (tipo Alecta), che lo Stato incentiva con vantaggi fiscali, concepita come parte integrante del sistema pensionistico.
Per Credit Suisse è intervenuto lo Stato Svizzero ma se succede in Europa? Possiamo continuare con banche e fondi il cui fine è il massimo profitto? Una volta c’era la coscienza che non si poteva generare denaro senza lavoro e il mestiere del bancario era prestare (a rischio) a imprese (vere) e famiglie nell’interesse dello sviluppo reale e del territorio. Ma oggi la modernità cosa vuol far diventare le banche… e noi?
Tutina attillata, pantaloni a zampa d’elefante, trucco, sigaretta e un bel paio di zeppe. L’estetica anni ’70 c’è, la musica di quell’epoca pure. E stiamo parlando di due fratelli nati nel 1997 e nel 1999, ossia i newyorchesi Brian e Michael D’Addario.
Il nome d’arte è Lemon Twigs, e ce l’hanno scritto in fronte a chi e a cosa si ispirano: il gusto per la melodia di Elton John, il glam ammiccante di Bowie, la maestosità barocca dei Queen e l’istinto selvaggio di Iggy Pop. Aggiungete un po’ di sana sfrontatezza, qualche ruffianata qua e là, e il divertimento è dietro l’angolo.
L’imitazione di Dylan, Jagger e Springsteen in Hell On Wheels[Qui]è a dir poco irresistibile, così come lo è l’andamento scanzonato, e pure un po’ bluegrass, di Small Victories[Qui]. La mia preferita, però, è una piccola gemma pop-glam di appena due minuti e mezzo, in cui ogni pezzo del puzzle è al posto giusto: linee vocali, arrangiamenti e assoli di chitarra.
Il brano fila che è una meraviglia, ha un gran tiro e si poggia su una struttura semplice ed efficace. Ciò conferma che il più delle volte non c’è bisogno di inventarsi chissà che, né tantomeno di allungare il brodo con cambi di tonalità o lunghe code strumentali fini a se stesse. Se sfruttati a dovere, due minuti e mezzo sono più che sufficienti per far funzionare un pezzo rock’n’roll.
The One è la settima traccia del terzo album dei Lemon Twigs, Songs For The General Public, uscito nel 2020. Tra circa un mese uscirà il nuovo disco, e dall’ascolto dei primi singoli pare che i fratelli D’Addario siano saliti sul carro degli anni ’60, mettendosi un po’ in discussione e attingendo a piene mani dal cantautorato di Brian Wilson e Paul Simon.
Per togliere da polvere e oblio i bambini della Shoah: ce ne parla un albo illustrato, La finestra del re di polvere.
Nelle guerre e negli eventi tragici e bui della storia troppo spesso ci si dimentica di coloro che sarebbero stati il futuro. O, se se ne parla, come ai giorni nostri, diventa molte volte pura spettacolarizzazione. Gli ‘acchiappaclic’ sono in agguato perenne.
Oggi vogliamo togliere un po’ di polvere a tante storie rimaste chiuse in soffitte segrete o luoghi dove si cercava di salvare la vita dalle furie cieche di pazzie collettive.
Con un bellissimo recente albo illustrato di Pierdomenico Baccalario e Alice Barberini, La finestra del re di polvere, Orecchio Acerbo editore.
Nel ghetto di Lublino, in una soffitta, c’è il regno di Henio Zytomirski, il bambino più strano di tutti.
Non parla molto. Non ama giocare a pallone nè leggere.
Ma ha un segreto. È uno dei tanti bambini spaventati e minacciati. Questo grande segreto lo condivide con il suo migliore amico che ebreo non è, ma che è uno shegetz, un gentile.
“Mi portò al numero 29 di via Czwartek, sopra alla bottega di spezie di Löeb. La stessa in cui abitavano anche rabbi Symcha e Magen, l’accordatore di pianoforti”.
Un luogo sacro di cui l’amico ha le chiavi. Tavolino, poltrone, sgabelli, quadri, candelabri, scatoloni, spade, biglie, un manichino e pure un grammofono.
Un posto per dieci. Dieci ragazzi, quanti ne servono perché una preghiera arrivi a Dio.
Dietro i vetri impolverati di una delle finestre si nasconde una meraviglia, l’ombelico dei tetti: un mondo diverso, un rifugio, forse un luogo di pace, diverso dall’orrore della guerra che si vede dall’altra finestra.
Quella guerra che si è accanita verso i più deboli, come sempre accade, quei rastrellamenti impietosi, in nome della razza, che saranno un marchio indelebile della storia dell’umanità, quella peggiore, quella più bieca, quella più incredibile, quella più inaccettabile e incomprensibile. Quella cieca e ottusa.
Per chi è ebreo arriva il tempo di fuggire. Non ci sono alternative, si deve tentare.
Così, la notte del 16 marzo, Henio corre dal suo amico per convincerlo a fuggire insieme, ma lui ha troppa paura e resta. Statico, impietrito, incredulo.
La mattina del rastrellamento Henio è sparito. Volatilizzato. Fra le stradine di fango.
“Si presero Symchae e Süss, la vedova Ceymach e i gemelli Kierszenbaum. Quando li sentii arrivare, e gridare, corsi subito a casa degli Zytomirski. I vicini mi dissero che avevano preso i genitori di Henio, ma nessuno aveva visto lui. Mancavano altri nove bambini”.
Spaventato, il suo amico lo cerca ovunque, anche in quella soffitta misteriosa dove lo aspetta una sorpresa: sul vetro della finestra impronte di bambini e un nome che è un saluto. Una traccia sullo sporco, una scritta che lascia un messaggio potente.
Un racconto originale commovente e toccante per rimuovere la polvere dalla Storia del ghetto di Lublino e immaginare un diverso epilogo, anche per Henio Zytomirski.
“Ciò che ancora restava del ghetto della mia città venne raso al suolo nel 1944, quando arrivarono i Russi. (…) Delle quarantamila persone che ci abitavano, ne erano rimaste in vita meno di trecento. Non ho mai saputo su quale altro tetto di quale città siano scappati Henio e i nove bambini che sono andati con lui. Crescendo, sono diventato un collezionista di cartoline di tetti e camini. Le guardo tutte, cercandone una che assomigli a ciò che il mio amico speciale mi fece vedere, quel giorno dalla finestra della soffitta della casa al numero 29 di via Czwartek”.
PierdomenicoBaccalario ha iniziato a scrivere al liceo classico: in certe ore particolarmente noiose fingeva di prendere appunti, ma in realtà inventava racconti. Nato nel 1974 ad Acqui Terme, si è laureato in giurisprudenza e per un periodo ha affiancato la pratica legale all’attività di scrittore per ragazzi e giornalista freelance. A 24 anni vince il suo primo premio letterario con “La strada del guerriero” e nel 2012 vince il Bancarellino con “Lo spacciatore di fumetti” (Einaudi). Nel 2014 ha fondato l’agenzia letteraria Book On aTree, con sede a Londra, e si è stabilito con la famiglia nel Regno Unito. Fra i suoi ultimi libri “Hoopdriver” e “La rivincita dei matti” entrambi pubblicati da Mondadori nel 2022.
Alice Barberini, nata a Cesena nel 1977, ha studiato arte a Ravenna e dopo essersi diplomata, l’interesse per il restauro l’ha portata a Firenze dove, per alcuni anni, ha lavorato come restauratrice. Nel 2007, ha scoperto il mondo dell’illustrazione e da quel momento ha deciso di cambiare ‘mestiere’. Lungo questo suo secondo percorso formativo ha incontrato maestri come Mauro Evangelista, Carll Cneut, Gek Tessaro, Dusan Kallay, Camila Stancolvà, Luigi Raffaelli e Giovanna Zoboli. Dal 2012 lavora nel Collettivo Nie Wiem: otto illustratrici determinate a diffondere l’arte e l’illustrazione di qualità in giro per il paese.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
Giovedì 20 aprile alle ore 18 la Rete Giustizia Climatica di Ferrara organizza un incontro pubblico presso la Sala civica del Grattacielo (viale Cavour 189) dal titolo “No ai rigassificatori. Contro l’economia del fossile – Per la transizione ecologica e le fonti alternative”.
Discuteremo di questi temi con Pippo Tadolini, coordinatore della campagna Per il Clima- Fuori dal fossile di Ravenna, e con Massimo Serafini, ambientalista storico ed esperto di politiche energetiche.
Rilanciare la politica energetica con i rigassificatori, quindi basata ancora sulle fonti fossili è sbagliato, antieconomico e miope: dove è finita la transizione ecologica? Da quelle idee malate di falso green, nasce la pericolosa opzione di fare dell’Italia “l’hub del gas”, proposta dal governo e condivisa dalla regione Emilia Romagna, strumentalizzando la guerra in Ucraina.
Non si ricorda mai che l’Ucraina martoriata è da sempre un hub del gas e che la distruzione del metanodotto nel Mar Baltico conferma che le guerre sono alimentate dalla necessità di controllare e rapinare fonti energetiche: vogliamo che l’Italia diventi un futuro oggetto di contesa militare?
La transizione energetica si genera investendo sulla autonomia energetica delle famiglie con fonti rinnovabili: le abitazioni, gli uffici e le automobili sommano la quota più consistente del consumo energetico nazionale. Le tecnologie della produzione energetica rinnovabile, dei sistemi di accumulo e di coibentazione degli edifici consentono ormai un alto livello di autonomia che la rete elettrica deve solo smistare con intelligenza. Si riservi il gas all’industria e all’artigianato.
Anche il nostro territorio cittadino e provinciale sono in pericolo: a causa dell’aumento esagerato di impianti industriali di biogas e di biometano, delle trivellazioni in mare e in terra contro le quali hanno alzato di recente la voce i Vescovi di Ferrara, Rovigo e Chioggia, l’abuso tariffario spregiudicato della componente dell’incenerimento di rifiuti nel sistema di teleriscaldamento.
L’incontro del 20 aprile promuove e sostiene la manifestazione nazionale che si terrà a Ravenna su questi temi il prossimo 6 maggio.
Mi piace iniziare dal fondo questo reportage, vale a dire dalle parole con cui gli ospiti del Convegno Franco Argentodel 24 e 25 marzo ci hanno ringraziati e gratificati:
“Ringrazio gli amici del CIES per la bella accoglienza ricevuta, e i colleghi intervenuti nei dibattiti per lo stimolante confronto che ne è nato: sono stati due giorni intensi e per me da ricordare. / Grazie a tutti i partecipanti. Ho imparato molto e conosciuto persone di valore. / Grazie per la accoglienza, siete stati grandiosi. Per me è stato molto bello conoscere altri ospiti e i loro lavori, meravigliosi!! Sono tornato a casa con nuove idee e curiosità. / È raro sentirsi rispettati nella quotidianità in un convegno di due giorni. Raro che nessuno trasmetta la tensione dell’organizzazione trasformandola in pressione. È raro poter trattare l’argomento di un convegno potendo essere se stessi, trattare di diritti umani restando umani, respirare l’affetto per osmosi.
Credo che i messaggi che ho riportato facciano annusare, a chi non c’era, l’aria pura, fresca e calda allo stesso tempo, che tutti noi (e, ci auguriamo, anche gli studenti e le studentesse) abbiamo respirato nelle due giornate.
Il Convegno Culture e Letteratura dei Mondi, organizzato dalle Associazioni CIES (Centro Informazione ed Educazione allo Sviluppo) e CITTADINI DEL MONDOdi Ferrara, è giunto quest’anno alla ventunesima edizione, per noi molto speciale perché si è tornati a svolgerlo in presenza, dopo due edizioni che la pandemia ci ha costretti a realizzare online.
Hanno fatto da cornice preziosa agli interventi degli studiosi, degli scrittori ed esperti e alle ‘esibizioni’ di allievi ed allieve i due eleganti auditorium degli istituti superiori ITE Bachelet e Liceo Carducci nelle due mattinate e la Sala Polivalente abbinata alla Biblioteca Popolare Giardino nel pomeriggio di venerdì.
Il Convegno è nato nel 2002 per iniziativa di Francesco Argento, docente ed intellettuale dallo sguardo lungo, che ha coinvolto nell’avventura un gruppo di amici e amiche insegnanti, con l’intento di accompagnare un fenomeno molto interessante dal punto di vista culturale: la nascita anche in Italia di una letteratura detta ‘della migrazione’, i cui protagonisti sono stati, a partire dagli anni Novanta, scrittori che sceglievano di comporre non nella loro lingua madre, ma in quella del paese di adozione, in questo caso l’italiano.
Essendo tutti noi persone di scuola abbiamo voluto cogliere in quel fenomeno una straordinaria opportunità culturale, ma anche educativa, perché far incontrare gli studenti con le storie di altri mondi poteva rappresentare una ricchezza culturale preziosa, in quanto fatta di intrecci di culture, linguaggi ed esperienze.
Venendo a mancare poco prima che riprendessimo ad incontrarci per organizzare la seconda edizione, Francesco ci ha lasciato una eredità di cui ci sentiamo portatori ancora dopo molti anni, eredità rafforzata dall’importante messaggio che ci ha lasciato un altro grande ispiratore, animatore e motivatore delle nostre iniziative: Alberto Melandri, morto quattro anni fa e ricordato in modo particolare e con una intensa rievocazione nella fase conclusiva della sessione del Convegno svolta al Liceo Carducci la mattina di sabato 25 marzo.
Mi sembra opportuno inserire a questo punto stralci della presentazione di quest’anno, sulla base della quale alcuni docenti delle scuole superiori di Ferrara hanno aderito all’iniziativa, proponendo alle loro classi di occuparsi dei temi proposti e di leggere i testi degli autori invitati, nonché di partecipare in presenza, ove possibile, agli incontri.
Il tema del convegno
Nel 2005 avevamo dedicato la quarta edizione del Convegno al tema della città. Tra gli ospiti, il geografo Franco Farinelli avvertiva di come “I processi di produzione e la stessa esistenza nelle città si svolgono sempre più in una dimensione invisibile, che è quella dei flussi elettronici. Nessuna cartografia rispecchia più il mondo come è adesso. Non ci sono più modelli per rappresentare il mondo.
Il mondo oggi comincia a smaterializzarsi: agli atomi si sostituiscono i bit, e ciò comporta la distruzione dello spazio: non c’è più distanza, quindi unità di misura del mondo. Ci mancano le parole perché non sappiamo più vedere. Ci servono descrizioni letterarie, non spiegazioni scientifiche. Ecco perché abbiamo bisogno degli scrittori” (Atti 4° Convegno Franco Argento, Ferrara, 2005).
L’edizione 2023 del Convegno intende proseguire su quelle piste di ricerca, prendendo spunto ancora una volta dalle riflessioni di un geografo, Alessandro Ricci, autore di La geografia dell’incertezza, in cui il fenomeno della globalizzazione viene letto attraverso la lente dell’incertezza geografica di fronte alla crisi generalizzata del mondo contemporaneo.
Alessandro Ricci intende con «geografia dell’incertezza» “una differente interpretazione dell’idea stessa di globalizzazione, che prese avvio – inequivocabilmente – con la cognizione della globalità del mondo stesso, avviatasi proprio a partire dal compimento del folle volo di Colombo e degli altri grandi esploratori d’età moderna, che seppero superare ogni vincolo certo, dogmatico, metafisico e allegorico”.
Quell’incertezza che si determinò nel declino delle strutture e delle certezze medievali, a causa dell’affermazione di una forma mentis globale, si riscontra oggi “nell’idea di crisi generalizzata […] nelle dinamiche geopolitiche, economiche e sociali della post modernità”.
Quando la letteratura orienta la propria attenzione verso la realtà contemporanea, non può non toccare significati esistenziali attraverso lo sguardo sulla condizione dell’individuo nella dimensione globale della postmodernità. Così come l’incertezza sembra essere la cifra attraverso cui declinare l’esperienza quotidiana, lo “spaesamento” sembra essere la lente attraverso cui tanta letteratura tenta di rappresentare quell’esperienza.
Ed è una cifra che si può cogliere, per non andare troppo lontano o troppo indietro nel tempo, in alcuni fra i libri usciti recentemente che hanno fermato la nostra attenzione.
Storie di incontri e di spaesamenti
Su tutto questo abbiamo chiesto ai relatori di esprimere il loro pensiero e di illustrare le loro ricerche ed esperienze di scrittori e studiosi.
Nel corso delle due giornate si sono intrecciate “storie di incontri e spaesamenti” (come indica il sottotitolo del Convegno) e si sono alternate differenti modalità di esposizione. Tutti gli interventi sono stati trasmessi in streaming e sono visibili su YouTube ai link riportati in calce al presente articolo.
Il pubblico (studenti, docenti e addetti ai lavori) ha ascoltato con interesse le relazioni degli ospiti nelle due mattinate: Valentina Avoledo, in una sorta di dialogo con una classe del Bachelet con interventi musicali, Wajhat Abbas Kazmi, Tahar Lamri, Nader Gazvinizadeh, Margherita Cennamo, Occhioaimedia, Alessandro Ricci, Guido Barbujani, video-intervistato in precedenza da studenti dell’Ariosto. Particolarmente stimolante si è rivelata la successione dei brevi ma incalzanti e sapientemente interconnessi interventi dei medesimi autori, nel corso dell’evento del venerdì pomeriggio.
In ricordo di Alberto Melandri
Nella seconda parte della mattinata di sabato è stato ricordato Alberto Melandri: episodi curiosi, aneddoti affettuosi, momenti carichi di emozione sono stati raccontati da Paolo Trabucco del Cies, da Carola Peverati di Cittadini del Mondo e dagli amici Nader Gazvinizadeh e Daniele Lugli.
Mi sembra che in modo efficace ed intenso si possa chiudere questo articolo riportando integralmente il prezioso ricordo che hanno elaborato alcuni docenti del Liceo Carducci, letto da Giuliana Amarandi.
Alberto lo ricordiamo tutti seduto in questo auditorium, nelle file in alto, sempre pronto a prendere la parola durante il collegio docenti o scendere velocemente questi gradini per presentare una nuova mozione di voto, pensata in modo fulmineo e scritta con chiarezza e rigore.
Questo auditorium, che sarà dedicato alla sua memoria, è stato a lungo teatro della sua partecipazione alla vita della scuola, delle instancabili battaglie in difesa dei diritti umani, dell’impegno di educatore pronto in ogni momento a dialogare con gli studenti sugli eventi della realtà contemporanea.
Il Carducci è stato per 32 anni “la sua scuola”, quella in cui ha scelto di rimanere dall’entrata in ruolo fino alla pensione, al servizio delle studentesse e degli studenti forse meno privilegiati rispetto a quelli dei licei della città, ma nel contempo curiosi di conoscere e talvolta ancor più desiderosi di riscatto sociale e culturale. Intere generazioni di ragazzi, ma soprattutto di ragazze che ricordano con affetto e riconoscenza il loro professore con lo zaino in spalla, i capelli lunghi, dall’immensa cultura e dal sorriso contagioso.
E con amore e riconoscenza lo ricordano oggi qui i colleghi e tutti coloro che lo hanno incontrato, dentro e fuori la scuola, e che hanno avuto la fortuna di condividere con lui una parte del loro percorso umano e professionale. Gli studenti rimanevano colpiti dalla sua memoria prodigiosa e dicono di lui che si ricordava tutto, che “sapeva tutto”.
Si racconta che, nel momento in cui entrava in classe, riuscisse a memorizzare immediatamente tutti i nomi dei nuovi alunni. Un’amica e collega ci ha svelato che prima di iniziare le lezioni in una nuova classe si procurava l’elenco degli studenti in segreteria e lo imparava a memoria. Questi effetti speciali producevano grande stupore nei nuovi alunni, che da subito gli giuravano fedeltà eterna!
Entrava in classe col suo passo saltellante e l’inseparabile zaino, che pesava il doppio di lui, lo lanciava sulla cattedra e apriva tutte le lezioni con il classico saluto melandresco, un “ciaoooooo” prolungato e confidenziale. Alby, come lo chiamavano segretamente alcune studentesse, sapeva coinvolgere nelle sue passioni e riusciva ad incantare con il suo sapere, l’amore per i classici e la dialettica chiara e trascinante.
Non mancavano i momenti in cui anche lui perdeva la pazienza con gli studenti, tanto che ad una classe particolarmente indisciplinata disse: ” Io questo lavoro ve lo butto nel cesso!”. Gli studenti ammutolirono e da quel momento cominciarono a lavorare a testa bassa, con serietà e impegno.
Nella nostra scuola, in cui giunse al termine degli anni Settanta, si distinse come innovatore. A metà degli anni Novanta, partecipò alla sperimentazione didattica che portò il corso di studi magistrale a cinque anni, aggiornandone i contenuti e promuovendo l’apertura alle Scienze Sociali.
Si fece inoltre promotore della didattica breve del latino, che assegnava maggiore importanza alla comprensione del testo e alla cultura latina, dando all’insegnamento di questa lingua antica una dimensione personale e giocosa, che portò anche in forma laboratoriale nelle scuole medie durante le giornate di orientamento.
E forse fu proprio la lunga consuetudine con i classici a fargli acquisire il rigore e la chiarezza nello scrivere, che tutti ricordiamo come suo fondamentale tratto caratteristico, unito alla grande capacità di sintesi e all’abilità di arrivare subito al cuore del problema, quando interveniva in un dibattito o quando doveva difendere un’idea o una persona.
Volle introdurre in ogni aula le nuove carte geografiche di Arno Peters che proponevano una visione del mondo più corrispondente a quella reale, eliminando la visione eurocentrica proposta dal modello di Mercatore.
Appoggiò con forza l’integrazione nella scuola dei primi ragazzi portatori di handicap, anche molto gravi, portando le sue competenze professionali e la sua grande sensibilità nella relazione educativa e aprendo così la strada alla vocazione all’inclusività, che rappresenta ancor oggi una cifra distintiva del nostro istituto.
Portò ai suoi studenti i temi della transizione ecologica e della salvaguardia dell’ambiente, per cui si batté con grande impegno anche nella realtà cittadina, anticipando percorsi didattici che sono entrati solo ora nella progettazione scolastica, e che vent’anni fa erano pure innovazioni.
Fu tra i primi docenti a comprendere l’importanza per gli studenti della partecipazione ad eventi collettivi, conducendoli fuori dalle aule e promuovendo il rapporto con il territorio e la realtà socio-culturale.
Una delle tante iniziative da lui volute, che ci piace ricordare, è la celebrazione al Palasport di Casalecchio della giornata della memoria oltre vent’anni fa, quando alcune classi della nostra scuola poterono assistere alle testimonianze sulla Shoah di Nedo Fiano e Liliana Segre, che all’epoca non era ancora conosciuta e per la prima volta parlava ai ragazzi delle scuole
Alberto ha saputo portare il suo impegno sociale, civile e politico nella scuola, educando intere generazioni al rispetto dei diritti umani, alla democrazia, al dialogo tra le culture.
Lo ricordiamo fuori e dentro la scuola come infaticabile sostenitore dell’integrazione e della tutela dei diritti degli immigrati e per la sua attività di formatore dei mediatori linguistico culturali.
Si è dedicato con grande passione all’educazione interculturale, promuovendo in veste di coordinatore del CIES la partecipazione degli studenti delle scuole ferraresi ai lavori del Convegno che ci vede oggi qui riuniti.
Alberto è stato un “uomo di pace”, sempre in prima fila a sostegno dei popoli oppressi. A metà degli anni Ottanta, con il CIES, si è battuto in particolare per i diritti dei perseguitati di Timor Est, una realtà lontana, sconosciuta ai più, che però ha fatto sentire vicina ai suoi studenti, coinvolgendo e sensibilizzando le classi.
Ha organizzato con i suoi alunni le prime manifestazioni pacifiste a scuola, come il Sit-in per Tienanmen nel 1989. Per chi aveva vissuto il ‘68 il sit-in era una modalità frequente di protesta, ma nelle scuole ferraresi di fine anni ottanta era piuttosto inusuale.
Ma Alberto non poteva certo rimanere inerte, mentre venivano calpestati i diritti umani di studenti, intellettuali e operai e soprattutto di fronte alla violenta repressione che sfociò in un massacro di piazza. Così interruppe le lezioni e insieme ai suoi ragazzi realizzò all’interno dell’istituto una protesta pacifica, che il preside dell’epoca non gradì affatto, tanto da distruggere i cartelloni realizzati dagli studenti e appesi lungo i corridoi della scuola.
Nel 1991, allo scoppio della Guerra del Golfo, Alberto portò i suoi alunni nuovamente fuori dalle aule per farli partecipare alla diretta televisiva del conflitto, proprio qui, in questo Auditorium, che è stato al centro di molte delle sue esperienze scolastiche e umane.
Sempre pronto a sostenere con fermezza le sue idee, si è battuto per esse, usando le parole con garbo, chiarezza e rigore e rispettando il proprio interlocutore. Sapeva essere però davvero determinato, deciso e persino tagliente quando venivano lesi i diritti degli studenti, fino ad intervenire con severità e senza timore dell’autorità, anche a costo di procurarsi critiche e talvolta inimicizie.
È stato un insegnante empatico e insieme autorevole, di grande umanità e lungimiranza, sempre col sorriso sulle labbra… un sorriso che nasceva dalla consapevolezza che il mondo si può migliorare, che dialogando si possono abbattere insieme barriere ed ostacoli.
Molti lo ricordano come un amico divertente, gioioso, ironico, come un amabile conversatore, con cui passare il tempo era piacevole. Non era necessario chiedergli aiuto, si accorgeva da solo se qualcosa non andava e sapeva ascoltare, senza giudicare, cosa rara.
Parlando di lui una collega ha scritto che il ricordo di Alberto è per lei un punto luminoso. Una bella metafora di quello che rappresenta per chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, di lavorare con lui, ma soprattutto di essere stato suo studente.
Pensare ad Alberto riporta alla mente il motto impresso all’ingresso della Scuola di Barbiana “I care”. A lui infatti stavano a cuore i suoi studenti, tutti, e ha saputo prendersi cura di loro.
Qui di seguito i link per visionare le registrazioni delle due mattinate del Convegno:
Tahar Lamri, “Il pellegrinaggio della voce” e “Ma dove andiamo? Da nessuna parte solo più lontano” in Parole di sabbia (a cura di F. Argento, A. Melandri, P. Trabucco), Edizioni Il Grappolo, 2002
Tahar Lamri, I sessanta nomi dell’amore, Fara Editore, 2006
Occhioaimedia (a cura di), Nel mio paese nessuno è straniero, edizioni Il razzismo è una brutta storia, 2012
Wajahat Abbas Kazmi, Allah loves equality (docufilm)
In copertina: un momento del Convegno nell’auditorium del Liceo Carducci intitolato ad Alberto Melandri (foto Maria Calabrese)
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