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Essere come don Milani

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Intervento di Flavio Lotti, coordinatore della Perugia Assisi, all’apertura della Marcia di Barbiana del 27 maggio 2023, a 100 anni dalla nascita di don Lorenzo Milani

Care amiche e amici, buongiorno.

Oggi siamo qui per celebrare la nascita di un uomo che qualcuno voleva punire e isolare, senza acqua né luce né strada, a Barbiana e che ha finito col fare di quella piccola località fuori dal mondo, una luce sul monte visibile da ogni parte del mondo.

Tra poco ci metteremo in cammino per salire a Barbiana.
Ci dice niente questa cosa? Per andare a Barbiana bisogna salire.
Salire, cioè muovere dei passi, uno dopo l’altro, verso l’alto.
Salire vuol dire elevarsi, muoversi verso una maggiore altezza. Barbiana è elevata e se noi dobbiamo andare a Barbiana dobbiamo elevarci. Muoverci, non rimanere fermi, immobili… e salire verso un punto più alto.

Se oggi vogliamo davvero “celebrare don Milani” senza retorica e manipolazioni di comodo, dobbiamo salire ed elevarci. Ci dice niente questa cosa? Elevare è stato anche l’obiettivo di don Milani. Elevare i ragazzi esclusi, i poveri ad un livello superiore. “Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente”, diceva. “Ma superiore. Più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto”.

Anche noi, se davvero vogliamo muoverci sui passi di don Milani, dobbiamo salire, elevarci, e puntare a divenire migliori, superiori dell’attuale classe dirigente.

Elevarci ed elevare i nostri piccoli, i nostri ragazzi e ragazze, i nostri giovani cioè dare a loro la cultura, la parola e il coraggio per riacquistare quella dignità e quei diritti che hanno ricevuto in dono dal momento della nascita ma che altri gli hanno subito rubato.

Don Milani, che è stato un “maestro della pace”, pretendeva molto dai suoi studenti ma non per farli competere e combattere gli uni contro gli altri nella giungla del mercato globale dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Don Milani pretendeva molto dai suoi studenti non perché voleva formare delle eccellenze ma perché nessuno fosse schiavo.

Se davvero vogliamo fare come Milani, oggi dobbiamo scegliere di “essere” come don Milani e investire sui giovani, credere nei giovani, fare spazio ai giovani e dare la parola ai giovani.
Anzi, dobbiamo lasciare che se la prendano la parola, come stanno facendo i giovani che lottano con i loro corpi contro il cambiamento e le devastazioni climatiche, come stanno facendo gli studenti che piantano le tende davanti all’Università, come fanno quelli che a Palermo manifestano contro le mafie.

Oggi, come ai tempi di don Milani, alcuni vorrebbero giovani obbedienti e arruolabili nelle anguste schiere della competizione selvaggia o negli eserciti della terza guerra mondiale che, anche se facciamo finta di non vedere, continua la sua terribile escalation.

Con il nostro semplice gesto di camminare e di salire a Barbiana, oggi come abbiamo fatto domenica scorsa con la Marcia Perugia Assisi, noi li invitiamo a ribellarsi ad un presente insopportabile e insostenibile e ci impegniamo a camminare assieme a loro nel tentativo di salvare il genere umano dalla catastrofe e, se possibile, costruire una vita e un mondo più umano.

Di fronte alle guerre, alle violenze e alle sofferenze dilaganti, a quelle visibili e invisibili, noi rinnoviamo la nostra “obiezione di coscienza” e insieme dichiariamo la nostra fiducia e il nostro amore per le giovani generazioni e gli diciamo che non sono sole, che vogliamo farci carico delle loro fatiche e ferite, che “l’obbedienza non è più una virtù”, che rifuggiamo l’egoismo e scegliamo di prenderci cura gli uni degli altri e della nostra madre terra per trasformare il futuro.

Flavio Lotti, coordinatore della Marcia Perugia Assisi

Barbiana, 27 maggio 2023

Per certi versi /
Camaleonti

Camaleonti

Certi individui
Maestri del nulla
Sofisti dell’inezia
Tuttologi totali
Sono dei veri
Paladini del vuoto
Acustico
Camaleonti
Per i quali
Il trasformismo
È antiquato
Erano radicali
Poi
Diventati
Integrali
Integratori
Integralisti
Negano
Il clima sconvolto
Negano
Il diritto
All’aborto
I diritti universali
Famiglie
Omogenitoriali
NeganoHanno
Il tono
Sempre
Alto
Sopra tutti
Aggressivi
Rabbiosi
Loro così
Diffusi
In ogni angolo
Della ciancia
Quotidiana
Predatori
Voltagabbana

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

LA FRASE PREFERITA DEI SUPPORTER DEL SINDACO DI FERRARA : “TANTO L’ERBA RICRESCE!”
Un servizio fotografico esclusivo smentisce questa ottimistica previsione

Ecco una carrellata di scatti che documentano senza ombra di dubbio quanto sia grande l’area del Parco Urbano G. Bassani trasformata in fango o terra arata.  Quanto ci vorrà per tornare come prima? E quanto costerà il ripristino alle tasche del Comune (cioè  a quelle dei ferraresi). Senza contare che, dopo le trionfalistiche e bislacche dichiarazioni del Sindaco Fabbri la mattina dopo l’evento (“Ferrara è diventata una capitale della musica internazionale”) nello stesso Parco Bassani è in programma il 2 luglio il Confort Festival.

Chi ama il grande polmone verde del Parco – credo siano la totalità dei cittadini di Ferrara, quale sia il loro credo politico –  sarà sorpreso nel vedere le proporzioni di un “disastro annunciato” e che l’Amministrazione Comunale ha finora nascosto alla cittadinanza. Ma la sorpresa lascerà posto al dolore davanti a cosi tante ferite,

L’ARTE CHE CURA /
Un Figlio Raro

Esistono malattie rare che non si possono riscontrare prima della nascita, tra queste la sclerosi tuberosa. Questa malattia genetica può colpire in maniera lieve oppure contagiare gli organi interni compreso il cervello. In questo caso oltre a problemi organici ci sono conseguenze a livello cognitivo e comportamentale.

Ho conosciuto N. su richiesta della madre che nei suoi imperterriti tentativi di non arrendersi ha chiesto il mio aiuto. Ma, dopo poco, sono io che ho dovuto cedere al principio di realtà: non si possono guarire tutti. Alle volte conviene non intervenire perché la consapevolezza che deriva da una psicoterapia può smantellare quelle difese che servono per salvarsi. Non sempre sapere aiuta.

Certo ho dato un nome alle difese del mio paziente, un giovane uomo bambino, con le istanze e le emozioni di entrambe queste fasi evolutive. Ho dato un significato alla loro funzione, ho fatto collegamenti con la sua storia reale. Alla fine, però, ho dovuto rassegnarmi all’inelutabillità della malatttia. Per rispetto e per salvaguardarlo, dovevo allearmi con il non cambiamento. La comunità terapeutica in cui viveva faceva già un lavoro di contenimento e riabilitativo.

Lasciarlo andare: il male minore.

La mia speranza è che anche la sua mamma, l’apparizione di un angelo quando l’ho vista la prima volta, sia riuscita a vivere senza illusioni e ad accettare la fatica dell’ambivalenza con questo amato e odiato figlio, desiderato e misconosciuto.

In una seduta N., come la vedesse per la prima volta, guarda esterrefatto una scultura dell’istituto in cui lo incontravo. Gli sta davanti. Non parla. Gli spiego il deterioramento che le intemperie hanno fatto subire al gesso di cui è fatta quella dolce testa di bambina.

È ammaliato. Qualcosa si è palesato nella sua mente e poi per fortuna sparito.

N. si risveglia ed è lo stesso di sempre.

Come in un flash mi pare che abbia visto se stesso in questa scultura, piccoli tubercoli che hanno minato la bellezza dell’opera. Decido che non continuerò la psicoterapia e che le fantasie/ossessioni di essere come Spiderman e che solo le Forze dell’ordine (tutte, ognuna con la sua funzione) potessero proteggerlo, mi sono sembrate non solo un rifugio sicuro, ma la spiegazione migliore per procedere con la sua vita.

Un figlio raro

Gustav Klimt, Maternità

Ti ho sognato prima ancora che tu nascessi.
Ti ho amato nell’istante che ho saputo che esistevi.
Ho preparato un posto speciale nel mio cuore e nella nostra casa, per te.

Poi sei arrivato. Bellissimo.

Ti allattavo e tu stavi bene, e anch’io, tenendoti nel mio abbraccio e nel mio sguardo stavo bene.
Stavi bene solo quando eri attaccato, per il resto piangevi sempre.

“Qualcosa non va” diceva tuo padre irritato. “Fa’ qualcosa! Quel bambino non è normale”. E ci lasciava soli sempre più a lungo.
Meglio il silenzio che le grida, pensavo, e ti appoggiavo al mio seno anche se diventava sempre più vuoto ed io con lui.

Poi quella paura tremenda: il tuo corpicino che trema, convulso, la febbre altissima. Non ti fermi, una, due, tre, dieci crisi, non si contano più. Siamo in ospedale, hai solo tre mesi, ci rimaniamo per quaranta giorni, un tempo eterno in cui il tuo piccolo corpo viene bucato, tastato, dissacrato da mani estranee, di lattice, che odorano di freddo e disinfettanti.
Sclerosi tuberosa, mi dicono. E io ti vedrò crescere e diventare grande insieme alla tua malattia.

Tuo padre se ne è andato ed anche gli altri uomini che ho avuto.

La mia giovinezza e la mia bellezza non erano sufficienti a costruire in loro un varco in cui tu potessi entrare. E tornavamo ad essere solo noi: io e te. Il tempo che passava era scandito da quei piccoli tubercoli che crescevano dentro e fuori dal tuo corpo, come piccoli fiori rosa in un prato, come piccole stelle nel cielo. La speranza che, come granelli di sabbia nella clessidra, non si esaurissero.

Il sogno

Sono con un uomo in un’atmosfera un po’ grigia. Volgendo lo sguardo verso il mio orizzonte, vedo un mucchio di gatti. “Guarda che belli” gli dico. Sono di diversa età. Grandi e cuccioli, e con manti tutti diversi.
“ Mi piacciono tanto i gatti! ”
Uno mi viene in braccio e lui dice: “Hanno la rogna!”. Mi accorgo che il musino del gatto ha una sorta di macchia, di escrescenza gommosa rosa intenso come i bubble gum.
Rimango un attimo perplessa, poi lo scrollo via dal mio grembo, con un misto di colpa e di disgusto.

Guardo i gatti e tutti hanno queste macchie, ho paura di essere aggredita, di essere contagiata.
Non so da dove sbuca, ma, alla mia destra, c’è un ragazzo, un uomo giovane che, in viso, ha le stesse macchie rosa.

Mi dice qualcosa, io sento il disgusto crescente e ho sempre più paura. Mi giro verso l’uomo che mi accompagnava, ma non c’è più.

Mi sveglio e non riesco a guardarti. Piango.

Mi piace disegnare. Guardo i cartoni animati. La mamma mi compra tanti video.

La mia mamma è bellissima. È bella come un angelo. Ha gli occhi azzurri. Anch’io ho gli occhi azzurri.
Però mi ha comprato quel gioco di merda. Brutta! Perché mi fa fare le cose che non capisco? Mi fa arrabbiare!

Sono molto arrabbiato. Rompo tutto. La picchio.

La mamma piange. Anche il papà la faceva piangere. Il papà la picchiava e dopo picchiava anche me.
Meglio che se ne è andato.

Aspetta! Un attimo: mi, mi mi chiamano dalla centrale. È urgente. Vedi ho la radiotrasmittente. Non posso più venire da te, c’è, c’è un’emergenza.

Ecco ti disegno la macchina dei pompieri. Domani faccio quella dei Carabinieri. Tu li chiami, vengono subito e, e ti salvano.

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Lo sai che un mio amico è finito in prigione perché ha usato delle interferenze con le linee della polizia? Senti, ma perché non si può fare?

Oggi mi sono dato la crema per essere più bello, così la dottoressa non mi prende per il culo.

Per fortuna che c’è la mamma che mi vuole bene. Sono stato nella casa nuova ma è troppo piccola per starci anch’io. Ma io voglio stare lì, è una bella famiglia.

Va bene, sarò buono così non ci vado all’SPDC vero? No, no. Non ho fatto niente.

Senti, ma, ma come nascono i bambini?

Lo sai che ho il vestito di Spiderman? …Io, io sono come Spiderman.
Spiderman non ha il papà e neanche la mamma. Nessuno lo vede, ha la maschera. Lo sai? Un ragno gli ha messo dentro un veleno ma lui, adesso, ha i super poteri.


Nota importante: 
tutti gli articoli della rubrica sono tratti da casi clinici reali, romanzati ed adattati per rispettare la privacy. Le immagini dei pazienti sono autorizzate dalla liberatoria che mi è stata concessa solo a scopo di pubblicazioni a mio nome. Ne è vietata la riproduzione per altri usi.

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioliclicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.

Cover: Scultura nella sede di Therapy Italiana di Bologna – foro Giovanna Tonioli

C’è un fiume che pende su di noi

Il fiume

C’è un fiume, qui, che pende su di noi
come una spada liquida:
quando si gonfia fa paura.
Tremiamo ad ogni pioggia.
La gente ne parla a voce bassa,
come di un dio terribile
che può colpire in ogni momento.
I vecchi ricordano piene rovinose,
scuotono il capo e allargano le braccia.
È così dovunque, l’Italia affonda,
ed è un lento morire, una disfatta.

(Da “Tre sguardi in uno”, Pendragon, Bologna, 2015)

Quando sento commentare la tragedia dell’alluvione in Romagna con le solite, trite frasi “Servono le vasche di laminazione” (per frenare le portate dei fiumi ingrossati dalla pioggia), oppure “Sono necessari gli invasi” (per conservare l’acqua piovana nei periodi di siccità), o ancora “Il nostro territorio è fragile” per via delle frane, eccetera, mi dico che questi discorsi li ho sentiti dieci, venti anni fa. Anche quando non si parlava ancora estesamente di cambiamento climatico.

A proposito di territorio fragile, viene in mente quello che nel 1904 Giustino Fortunato, autorevole meridionalista, scriveva a proposito della Calabria definendola “uno sfasciume pendulo sul mare”.

Cosa è mutato da allora? Poco, pochissimo.

E allora, VERGOGNA.
Vergogna imperitura per chi avrebbe dovuto provvedere e non l’ha fatto.
Vergogna per chi, ancor oggi, fa finta di non accorgersi del consumo di suolo o di chi permette di costruire case negli alvei dei fiumi; per chi non recupera, almeno in parte, l’immenso patrimonio edilizio esistente e disponibile e edifica con nuovo cemento.
Per chi non fa niente, o quasi, per mantenere il territorio in condizioni di sicurezza.
Per chi va in televisione a impancare giudizi negativi sull’avversario politico di turno, solo per farsi un po’ di propaganda.

Perché in Italia si succedono terremoti, inondazioni e frane, seguono grandi discorsi, si piangono le vittime, e poi tutto resta come prima, l’ambiente rimane una voce residuale nelle politiche di investimento pubblico.

Sapete come fu soprannominato dai suoi detrattori Giustino Fortunato, autore di studi e proposte rigorose anche sulla gestione del territorio meridionale? “L’apostolo del nulla”.

SINDACO AVVISATO… PARCO DEVASTATO!

Nel giugno del 2022, esattamente un anno fa, scrissi il testo di una mail per un’azione condivisa di mailbombing nei confronti di sindaco e assessori in cui si chiedeva, con garbo, pacatezza e senza alcuna obiezione nei confronti dell’evento in sé, di spostare il concerto di Springsteen in altra sede, argomentando tutti i possibili rischi che avrebbe corso il Parco Bassani.

La mail fu inviata, sicuramente centinaia di volte e a quella seguirono molte altre comunicazioni ufficiali, con testi analoghi. Fu l’inizio della battaglia Save the Park che nessuno in città può dire di non aver conosciuto, d’accordo o meno. Ecco un paio di passaggi di quella mail:

“Negli anni si è creato un equilibrio biologico unico e prezioso, un ecosistema complesso che ora, nel pieno della sua maturità, costituisce un unico grande organismo vivente; non si tratta semplicemente di un  prato con qualche albero di contorno, ma di una vasta area in cui le relazioni tra suolo-coperture vegetali di più livelli, acqua e mondo animale si sono consolidate con la lentezza e la pazienza che la Vita richiede, attraverso l’interconnessione tra ambienti diversi “

Poi, nello specifico:
“In un simile contesto l’impatto  sul prato di decine di tir dell’organizzazione del concerto e di decine di migliaia di persone sarà pesantissimo ( numerosi i precedenti in altri contesti); la distruzione del cotico erboso in situazione di grave siccità, destinata a perdurare e peggiorare, compromette la sostanza organica, fonte inestimabile di vita del suolo, con conseguente sterilizzazione dello stesso. Se poi il terreno dovesse essere bagnato da piogge cadute nei giorni precedenti, l’effetto calpestamento e compattazione ne comprometterebbe la struttura e di conseguenza ancora una volta la fertilità fisica e biologica”.

Quindi li avevamo avvertiti, avevamo spiegato cosa sarebbe successo, cioè esattamente ciò che ora è e sarà sotto gli occhi di tutti, non appena verrà riaperta l’area centrale, ancora interdetta ai cittadini forse, oltre che per i lavori, anche un pò per vergogna.
Qualsiasi scenario meteorologico avrebbe dovuto essere messo in conto, soprattutto in tempi di grandi squilibri climatici.
L’organizzazione del concerto e la scelta della location abbiamo appreso che risale a 2 anni fa, un tempo più che sufficiente per preparare uno spazio idoneo e dedicato ai grandi eventi nell’ area sud, come più volte suggerito dai cittadini e da diverse forze politiche, M5S in primis.

A una settimana di distanza lo scenario del dopo concerto, in parte già documentato da foto e testimonianze, è quello di un vero e proprio scempio annunciato.
Il terreno è putrido e il pensiero va al dramma della Romagna, nei confronti del quale, pur non essendo nemmeno paragonabile per livello di gravità e al netto delle polemiche sul mancato rinvio per solidarietà, porta con sé la vergogna di una sorta di dolo in un territorio che aveva avuto la fortuna di essere stato graziato da quell’apocalisse.

Ancora rabbrividisco al pensiero dei tanti che hanno sostenuto per mesi che il Parco Bassani è uno spazio “artificiale”, alcuni purtroppo e inspiegabilmente anche all’interno della variopinta galassia dell’ambientalismo ferrarese. Quel suolo ritornerà come prima, con il suo cotico erboso, ma certo non in piena estate nè in uno o due mesi. Dovrà essere ben lavorato, riseminato, irrigato e lasciato a riposo senza alcun calpestamento, il che mi pare inconciliabile con il programma di altri concerti estivi fra un mese.

Inoltre, vogliamo aprire il capitolo costi anche economici, oltre che ambientali e sociali?

In questi giorni e nei prossimi siamo pure di fronte a sottrazione di spazio pubblico alla cittadinanza. Tutto questo disastro per una colpevole sottovalutazione e quel solito “pizzico” di arroganza che contagia chi arriva nella stanza dei bottoni. Direi che ora potrebbe diventare materia per avvocati.

Cover: Ferrara, 19 maggio 2023: il Parco Urbano Giorgio Bassani la mattina dopo il mega concerto di Bruce Springsteen

ORME di LUPO, TRACCE di BIODIVERSITA’

ORME di LUPO, TRACCE di BIODIVERSITA’

La presenza del lupo in pianura può essere oggi considerata il simbolo di una natura che ancora resiste alle azioni dell’uomo e occasione per affrontare con maggior consapevolezza la non semplice strada verso un “nuovo” equilibrio tra uomo, attività antropiche e natura.

Il lupo è infatti tornato da qualche anno nel territorio ferrarese dopo più di un secolo dalla sua scomparsa a causa della caccia indiscriminata e dal completo stravolgimento degli habitat naturali. Attualmente non è di particolare impatto, anzi, in molte zone si nutre di nutrie e ungulati, riducendone la presenza ritenuta da molti dannosa.

Ma tanti cominciano a ritenere pericolosa la sua presenza. Si tratta, quindi, di decidere come si vuole convivere con questa ma anche con tante altre specie che negli ultimi anni sono presenti nel nostro territorio o se si intende tornare alle modalità antropocentriche che hanno caratterizzato i decenni della fine del secolo scorso e i primi di quello attuale.

Tutto ciò in un territorio tra terra e acqua, completamente antropizzato a seguito delle bonifiche, con la presenza di un Parco ricchissimo di biodiversità nell’area del Delta e di una importante attività ed economia di tipo agricolo.

Se ne parlerà Lunedì 29 maggio 2023 dalle 17,00 alle 19,30 presso la Sala Convitto Factory Grisù in Via Poledrelli 21 a Ferrara in un incontro organizzato nell’ambito del Festival 2023 dello Sviluppo Sostenibile di ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) da C.D.S. Cultura OdV in collaborazione con il WOLF GROUP Fe-Ra-Bo, il GRUPPO GAD di Lettura Espressiva, i CASCHI BLU DELLA CULTURA di Ferrara e con il patrocinio del Parco del Delta del Po Emilia-Romagna.

Altro importante tema che verrà affrontato quello della rinaturalizzazione del territorio, in particolare in ambito regionale e della provincia di Ferrara, attraverso le opere di afforestazione/ri-forestazione che risultano di notevole importanza per tutta una serie di motivi a cominciare dalle azioni per la riduzione delle emissioni climalteranti, ma anche per lo sviluppo di attività volte al riequilibrio tra ambiente antropizzato e ambiente naturale.

Interessante a questo proposito la pagina della regione Biodiversità in Emilia Romagna, ricca di informazioni e di temi di approfondimento oltre che di rimandi alle numerose normative che riguardano questo tema.

L’incontro si articolerà secondo gli interventi di Gian Gaetano Pinnavaia di CDS, di Maria Teresa Pistocchi imprenditrice agricola, di Elena Cavalieri per il Parco del Delta del Po e infine di Riccardo Gennari del Wolf Group Fe-Ra-Bo, mentre Il GRUPPO GAD di Lettura Espressiva leggerà brani tratti da libri sul lupo.

 

Ferrara, lettera aperta agli elettori di centro sinistra                                              

Ferrara, lettera aperta agli elettori di centro sinistra

I firmatari di questa lettera aperta, rivolta alle cittadine e ai cittadini ferraresi, intendono richiamare l’attenzione di tutti sulla necessità di mettere a disposizione le proprie esperienze e le proprie energie perché, in vista delle prossime elezioni comunali, si costituisca un’alternativa di centro sinistra all’attuale maggioranza politica che governa la nostra città.

Non vogliamo riaprire facili polemiche giornaliere: i tempi sono complessi per tutti e non ci interessa la propaganda. Ci sentiamo però in obbligo di richiamare quali sono oggi le esigenze prioritarie della popolazione ferrarese che non vengono intercettate dalle politiche dell’attuale Amministrazione. Spetterà poi ai partiti, alle liste e alle coalizioni di centro sinistra che si presenteranno alle prossime elezioni definire compiutamente un programma di mandato. Noi auspichiamo che ai nomi delle candidate e dei candidati corrisponda un progetto amministrativo pluriennale piuttosto che non solamente un simbolo di partito.

“La prima città moderna d’Europa”, la città Patrimonio Unesco, negli ultimi anni ha perso la propria capacità espressiva e attrattiva. Non siamo più quel luogo magico, pieno di ricchezze urbanistiche, artistiche, letterarie, cinematografiche, culturali, storiche che appartengono alla migliore identità dei ferraresi e avevano inserito Ferrara in una rete europea di città d’arte. La Ferrara del futuro non può essere un semplice palcoscenico di attività ed eventi importati: deve trovare una sua nuova identità. Non rivendichiamo un’idea nostalgica, legata al passato della città, ma l’orgoglio di appartenere a una comunità che sappia creare nuovo benessere ambientale, sociale ed economico per i cittadini: tutti i cittadini, riducendo disagi e diseguaglianze e avviando visibili politiche di sostenibilità.

Le dinamiche di invecchiamento della popolazione ferrarese generano nuovi bisogni cui è necessario corrispondere garantendo nuovi servizi efficienti e diffusi: l’assistenza sociale, la presa in carico sanitaria di prossimità, la sicurezza personale e del territorio, la cittadinanza attiva, la mobilità pubblica efficiente, l’arricchimento culturale, le relazioni, la partecipazione civica.

Il tessuto produttivo e industriale, che negli ultimi anni è diventato più fragile (sia nelle piccole imprese che in quelle di grandi dimensioni, a partire dal petrolchimico), deve essere consolidato da una domanda pubblica che non privilegi solo la distribuzione.

Accrescere il benessere dei cittadini e far rinascere un sistema di servizi sociali diffuso è anche un’occasione strategica per creare nuove imprese e un lavoro nuovo e stabile per i giovani e le donne di cui oggi vengono trascurate le competenze.

Ai bambini e ai giovani deve essere garantito un percorso di istruzione completo e aggiornato (dal nido all’università) che aumenti le competenze e riduca i Neet e gli esodi verso altri paesi europei alla ricerca di un lavoro degno.

Si deve essere intolleranti con chi delinque (italiano o straniero che sia) ma, allo stesso tempo, è necessario garantire una casa dignitosa, un percorso formativo, un lavoro vero a chi vuol assumere una piena cittadinanza fondata su diritti e doveri certi (italiano o straniero che sia).

Per la Ferrara del futuro va definito un programma di riqualificazione e rigenerazione urbana che valorizzi la città anche dal punto di vista della qualità dell’abitare, che porti benefici prima di tutto a chi vive a Ferrara e che aumenti una attrattività più stabile e consapevole dei giovani non residenti che vengono nella nostra città per studio o lavoro.

Le linee di rigenerazione urbana non devono essere applicate e misurabili solo nel centro storico ma in tutti i quartieri cittadini e nelle aree extraurbane. In ogni quartiere devono esserci giardini, aree pedonali e aree verdi riservate alle relazioni tra persone adulte e ai giochi per bambini. In ogni quartiere devono essere sperimentate le comunità energetiche e migliorato il ciclo e il riciclo dei rifiuti. In ogni quartiere devono esserci zone in cui la velocità dei mezzi di trasporto sia limitata ai 30Km l’ora. In ogni quartiere deve tornare a esserci un luogo in cui si interloquisce direttamente con l’Amministrazione comunale. In ogni quartiere devono essere garantiti i servizi e utilities necessari al benessere dei cittadini.

La “città delle biciclette” non può diventare la città delle automobili (o dei furgoni e dei pullman che parcheggiano ovunque gli faccia comodo, o delle moto che sfrecciano rombando ad alta velocità per le strade urbane di giorno e di notte). Occorre sviluppare e rendere più sicura la mobilità sostenibile e potenziare i trasporti pubblici ecologici. Ferrara può diventare davvero una “città dei 15 minuti” come le più moderne capitali europee.

L’Università di Ferrara non può essere una presenza separata e “neutra” rispetto alla vita e alla rigenerazione della città. Essa va potenziata nella frequenza e nell’accoglienza e coinvolta (professori e studenti) nel definire gli indirizzi di innovazione di Ferrara e del suo territorio. La dimensione della nostra Università è ormai tale da richiedere la creazione di una “città universitaria” in grado di offrire un soggiorno dignitoso e non speculativo (a professori e studenti), sul modello dei “campus universitari” già sperimentati da anni in altre città europee. Non è accettabile che in Italia le tasse universitarie siano più alte della media europea con servizi aleatori se paragonati a quelli della Spagna, della Francia, della Germania.

Su questi ed altri temi prioritari è necessario avviare al più presto momenti di partecipazione dei cittadini alla definizione di un programma quinquennale di governo della città: un percorso condiviso dall’inizio, non la passiva ratifica di un manifesto elettorale già scritto e concordato fra pochi.

I firmatari della presente lettera aperta intendono portare nei prossimi mesi il proprio contributo di esperienze e competenze alla discussione ed elaborazione di un programma di governo di Ferrara basato sui nuovi bisogni reali dei cittadini e del territorio. Auspicando che le forze politiche di centro sinistra che si riconoscono nella necessità di cambiamento (anche del proprio modo di essere e di far politica) diano vita, da subito, a una coalizione elettorale davvero larga, fondata su un progetto condiviso e pubblico; e che, accanto al nome del/la candidato/a sindaco/a sia resa nota da prima del voto la composizione di una Giunta di alta competenza, adatta alla realizzazione di un programma pluriennale di governo e di innovazione.

Ferrara, 23 maggio 2023

la lettera aperta si trova in: https://letteraelettoricsxferrara.wordpress.com/

l’indirizzo mail per aderire è: letterapertaelettoricsx@gmail.com

SEGUONO FIRME:

Loredana Bondi
Irene Bregola
Paola Casadio
Barbara Diolaiti
Manuela Fantoni
Micol Giorgi
Sandra Pareschi
Barbara Paron
Elisabetta Scavo
Maria Giulia Simeoli
Dida Spano
Gianna Stabellini
Rita Turati
Sergio Alberti
Gian Guido Balandi
Fiorenzo Baratelli
Daniele Barbieri
Guido Barbujani
Dino Bonazza
Maurizio Bruni
Massimo Buriani
Diego Cavallina
Stefano Cavallini
Franco Cazzola
Tino Cesari
Maurizio Chiarini
Secondo Cusinatti
Loredano Ferrari
Giovanni Fioravanti
Sergio Foschi
Benito Fraternali
Riccardo Galletti
Andrea Gandini
Sergio Gessi
Dario Giorgi
Sergio Gnudi
Guido Guidarelli
Giuliano Guietti
Alberto Guzzinati
Francesco Lavezzi
Daniele Lugli
Carlo Magnani
Federico Malucelli
Norberto Mangolini
Luciano Marangoni
Flaviano Mencarelli
Vainer Merighi
Paolo Pazzi
Gianni Pennini
Gino Perin
Fabio Piselli
Roberto Polastri
Luigi Rasetti
Alberto Ronchi
Giuseppe Ruzziconi
Gaetano Sateriale
Stefano Scavo
Davide Stabellini
Tiziano Tagliani
Ranieri Varese
Gianni Venturi
Mario Zamorani
Carlo Zanotti

SEGUI IL FILO ROSSO… IL VOLONTARIATO IN PIAZZA
Cosa sono, cosa fanno, a cosa servono Il CSV e la Casa del Volontariato di Ferrara

Cosa sono, cosa fanno, a cosa servono Il CSV e la Casa del Volontariato di Ferrara. Il racconto corale degli operatori di una istituzione vivace, attiva e operosa, il punto di riferimento e la sede di decine di gruppi di volontariato sociale. Ora però il futuro sembra incerto. 

“La nostra sede è al primo piano di una ex scuola, in via Ravenna 52, nello storico quartiere ed ex isola di San Giorgio. I locali sono stati concessi in comodato ad uso gratuito dal Comune di Ferrara nel 2013.  Il  31 dicembre scorso il comodato è scaduto e Il Comune di Ferrara (ora a guida Lega – Fratelli di Italia n,d.r.) non l’ha ancora rinnovato e l’assessore competente ha espresso la volontà di adibire i nostri uffici ad altro uso. Questo ci crea incertezza ed apprensione: il volontariato senza luoghi in cui riunirsi è come un’automobile senza carburante.”

I 400 metri quadri a disposizione in via Ravenna ospitano gli uffici del CSV ma anche una sessantina di associazioni con sede legale e/o operativa.
Per questo il primo piano di Via Ravenna 52 non è solo la sede del CSV ma la Casa del Volontariato. Questa struttura per noi è estremamente funzionale, accogliente, su misura dei bisogni del volontariato. La spaziosa sala riunioni attrezzata con videoproiettore, wi fi, lavagna a fogli mobili è utilizzata tutti i giorni dell’anno e quattro sale sono a disposizione delle associazioni della Casa per riunirsi, progettare, condividere spazi e ridurre le spese di gestione.
La condivisione che è alla base del volontariato la si esprime anche così.
Quello delle realtà che abitano la Casa è un mondo vivo 7 giorni su 7, ricchissimo, che abbiamo voluto raccontare in un dossier pubblicato proprio in questi giorni.

Ma il Centro Servizi per il Volontariato cos’è esattamente?

Molti ci conoscono ancora come Agire Sociale, che era il nome del CSV di Ferrara prima della fusione nel 2020 con ASVM di Modena. Ora siamo il Centro Servizi per il Volontariato Terre Estensi delle province di Ferrara e Modena. Abbiamo punti di accesso in tutti i distretti modenesi e a Ferrara, Argenta, Cento e Portomaggiore. Siamo una organizzazione di volontariato di secondo livello, ovvero una associazione di associazioni. I nostri soci non sono persone fisiche ma enti di terzo settore: 237 (120 della provincia di FE e 117 di MO), ma come per tutte le organizzazioni di volontariato, i nostri servizi sono offerti anche alle organizzazioni non socie.

Vediamo in particolare chi lavora in via Ravenna 52, ovvero la componente ferrarese del centro. Parliamo di 11 persone tra dipendenti e collaboratrici.
Inizio io raccontando un aneddoto. Quando ho iniziato a lavorare al CSV, ormai più di 20 anni fa, la prima difficoltà che ho incontrato, è stato spiegare ai miei genitori che lavoro facessi esattamente. Lavoro di comunità, servizi al volontariato, progetti di rete, dicevo.

Loro mi guardavano perplessi e mi chiedevano, un po’ preoccupati Ma ti pagano?

Ho avviato le prime collaborazioni con il CSV nel 1999 occupandomi inizialmente di formazione. Oggi, dopo tanti anni, coordiniamo l’Università del Volontariato, che forma più di un migliaio di volontari l’anno. Spesso mi sono chiesta cosa mi abbia tenuta qui così a lungo, proprio io che sono così amante dei cambiamenti.  Ecco credo sia stato proprio questo: al CSV si lavora sempre con creatività e passione a nuovi progetti. Difficile annoiarsi. Vediamo nascere i progetti, anzi spesso facciamo un po’ come le ostetriche, li aiutiamo a nascere. E durante le emergenze supportiamo il volontariato e le Istituzioni in prima linea, come per il terremoto, la pandemia, l’emergenza Ucraina e in questi giorni, ahimè, l’alluvione.

“Se devo usare una immagine per descrivere chi siamo – esordisce Enrico Ribon, corresponsabile amministrativo e al CSV dal primo giorno di apertura – ne userei una che racconta un po’ il nostro stile. La nostra prima piccola sede era situata all’uscita del parcheggio di piazzale Kennedy. Essendo alla base di due discese, era soggetta ad allagamenti praticamente ad ogni temporale, e non era quindi raro che il giorno successivo portassimo tutto quanto si era bagnato nel piazzalino antistante, al sole, nel tentativo di asciugare attrezzature e documenti. Ma nonostante tutto l’attività non si fermava, e ci trovavamo quindi con l’ufficio “en plein air” a fornire informazioni, consulenze, formazione a volontari e cittadini. Uno stile “naïf” dicevano i responsabili del Comitato di Gestione regionale che all’epoca finanziava e controllava i CSV.Uno stile che cerca sempre di mettere la sostanza davanti alla forma per raggiungere lo scopo, diremmo noi. E’ forse questo, in estrema sintesi, lo spirito dell’agire volontario?”

Entrando al CSV di via Ravenna, la prima persona che si incontra al front office  è Federica Celati: “Quando ho iniziato a lavorare per il CSV venivo da un precedente lavoro analogo di segreteria. Nonostante le mansioni fossero similari al mio lavoro precedente, nel contesto del volontariato sono diventate attività che hanno arricchito la mia esperienza non solo lavorativa ma anche personale. La cosa che mi piace di più del mio lavoro è stare a contatto con i volontari, ascoltare i loro bisogni, essere d’aiuto, aiutare le associazioni nella loro attività di promozione al servizio della società ferrarese. Poter orientare i cittadini nella ricerca delle attività di volontariato, prendermi cura nel mio piccolo della mia comunità, della mia città, tramite il mio lavoro”.

Francesca Gallini, giornalista, coordina l’ufficio stampa, curando la newsletter settimanale che voce alle associazioni e al terzo settore, pubblicando articoli e supportandole nella comunicazione. “La mia avventura al CSV è iniziata nel 1999 al Centro Documentazione Santa Francesca Romana a Ferrara, dove avevamo organizzato una biblioteca sul volontariato. Tirando un bilancio a distanza di più vent’anni, credo che il CSV sia stato un luogo di crescita personale dove ho maturato competenze di giornalista in ambito sociale. Mi considero fortunata a lavorare a favore di volontari e associazioni, persone a cui ho dato e da cui ho ricevuto tanto e che, negli anni, sono state uniche, capaci di valorizzarmi e di motivarmi a non mollare, pur nella precarietà di fondo di questo lavoro legata all’andamento dei fondi finanziari e alle conseguenti riorganizzazioni aziendali”.

Stefania Carati si occupa del punto di animazione territoriale di Argenta e Portomaggiore e a Ferrara coordina lo sportello Volontariato Volentieri, rivolto a cittadine e cittadini interessati a fare un’esperienza di volontariato. Qui, previo appuntamento, si può svolgere, senza impegno, un colloquio di orientamento. Stefania spesso incontra giovani cittadini e collabora con le scuole per progetti alternativi alla sospensione scolastica: “Faccio il lavoro più bello del mondo, me lo ripeto ogni giorno!! Entro in contatto con i volontari che per la maggior parte delle volte sono persone generose e disponibili, e vengo a contatto con i cittadini che vogliono mettere a disposizione il proprio tempo libero per gli altri, cosa non scontata ma che accade tutti i giorni: molte volte queste persone sono state toccate da dolori talmente grandi che il loro cuore si è aperto anche al dolore degli altri e il loro sentire diventa anche il tuo”.

Dobbiamo dire che il mondo del volontariato è stato messo alla prova negli ultimi anni dalla riforma del terzo settore. Le associazioni ne sono state, possiamo dire senza temere di esagerare, travolte. La nuova normativa esige adempimenti sempre più stringenti, come la revisione degli statuti, i nuovi schemi di bilancio e tanto altro. Rita Gallerani per molte associazioni è un angelo custode. Con la sua attività di consulenza, ha supportato centinaia di associazioni nella nostra provincia, nel complicatissimo processo di trasmigrazione al RUNTS, Registro Unico Nazionale del Terzo Settore. “Lavoro al Csv da quasi 26 anni ed è stata la mia prima esperienza lavorativa. Inizialmente avevo accettato l’incarico con l’idea che sarebbe stato un lavoro temporaneo, pur con un contratto a tempo indeterminato, e che di lì a poco avrei certamente trovato qualcosa di più appagante e gratificante. Qui al Csv ho conosciuto il mondo delle associazioni e del volontariato, un mondo fatto di persone, basato su volontà e dedizione, ma anche grande fatica e a volte disillusione. Sembrerà assurdo ma, proprio in quei momenti in cui la fatica si fa sentire e mi chiedo chi me lo fa fare, mi ritrovo a confrontarmi con qualche volontario che sta pensando la stessa cosa e mi ritrovo a ricordargli che lo fa per amore, che il tempo che dedica all’associazione è un bene prezioso perché prima di tutto è relazione; così la risposta arriva da sé anche per me. Questo è per me il Csv: luogo di confronto, di amore e di reciprocità“.

Aracely Fernandez viene dal Messico dove già lavorava nell’ambito dell’associazionismo e dei progetti di comunità. Arrivata a Ferrara nel 2007, ha conosciuto il CSV ed iniziato le prime collaborazioni. “All’inizio sono rimasta stupita dal trovare un ente così organizzato nel supporto al mondo associativo. Ho un po’ alla volta conosciuto un ventaglio di realtà che davano sostegno a tante situazioni sociali e che potevano usufruire di una serie di servizi offerti dal CSV. Oggi, dopo 13 anni,  continuo a collaborare in diversi progetti di utilità sociale e ad occuparmi di grafica. Questo lavoro che amo profondamente ha contribuito alla mia crescita personale oltre che professionale. L’opportunità di poter fare un lavoro che conoscevo già nel mio paese di origine insieme ad un gruppo di persone che pensano come me, ovvero che la comunità può diventare migliore con le azioni quotidiane, è veramente straordinario”.

Esiste poi un team che, a vari livelli, lavora nell’ambito della animazione territoriale e progettazione sociale.

Silvia Peretto da più di 20 anni se ne occupa con tanto entusiasmo ed impegno, facilitando reti di associazioni, progetti e team di lavoro composti da volontari, istituzioni e soggetti che a vario titolo sono portatori di interesse. “In questi vent’anni sono stati centinaia i progetti attivati nella nostra comunità. Favorire la possibilità di incontrarsi, confrontarsi e riflettere insieme, tra organizzazioni, enti diversi è la cosa che mi piace di più di questo lavoro. Il fatto che noi siamo enti terzi, che entriamo più sul metodo che sul contenuto, attraverso la facilitazione e strumenti di lavoro capaci di favorire questo dialogo, confronto.  E’ una sorta di accompagnamento ai processi e alla tenuta delle reti, al supportarle nel fare sistema“. 

Del team fanno parte alcune collaboratrici. Silvia Dambrosio, si occupa in particolare di progetti nelle scuole. “Al CSV c’è passione in ciò che si fa! Ci interessa quello che facciamo e lavoriamo mettendocela tutta per fare cose di senso per la comunità. Si pone attenzione “veramente” alle persone: non solo a colleghi e collaboratori, facendo caso non solo al rendimento e ai risultati, ma attivandoci reciprocamente con tutte le competenze che abbiamo, facendo squadra tra di noi per obiettivi condivisi onestamente e con autenticità. Questo lavoro è un seme di speranza nella capacità di ciascuno di poter contribuire a migliorare le cose”.

Giulia Fiore ritiene di particolare interesse questo tipo di lavoro perchè  permette di approcciare e sperimentare tante metodologie del lavoro sociale, ma partendo sempre dalla valorizzazione di ciò che si è, più che di ciò che si fa. “Questo anteporre la sostanza alla forma è piuttosto in controtendenza con il resto della società. Non condividiamo solo valori nella teoria ma li incarniamo nella prassi. E’ una libera manifestazione del proprio essere, a servizio della comunità… si crea una magia nei rapporti umani che si stringono con chi si incontra. E questo è bello perché i legami umani sono alla base della società. Scusami, sono la solita romantica, ma è quello che sento. Se è troppo sdolcinato dimmelo che scrivo cose più professionali”. “No no Giulia, adoriamo il romanticismo!”

“Mi piace, attraverso il mio lavoro, poter accompagnare i processi di cambiamento, essere a mia volta anello di una trasformazione più grande, vedere le organizzazioni crescere e, insieme ad esse, le persone, che sono la grande risorsa delle nostre comunità” dice Barbara Arcari.  “Mi piace, con il mio lavoro, contribuire alla costruzione di nuove competenze, di sistemi di volontariato formali e informali del nostro territorio; contribuire a generare nuova forza per rispondere, insieme, alle crescenti emergenze sociali; poter aiutare le organizzazioni a riconoscere e cogliere opportunità spesso silenti o nascoste, metterle a fattor comune perché diventino progetti, azioni concrete che creano valore sociale. Mi piace il mio lavoro al CSV perché mi permette di sognare un mondo migliore e di lavorare concretamente alla sua realizzazione”.

Ecco un piccolo spaccato del nostro mondo. Ci sentiamo fortunati. Siamo sognatori concreti e possiamo testimoniare che ce ne sono tanti altri.
Persone capaci di sognare e trasformare le utopie in realtà.

Ferrara, mercoledì 24 maggio, ore 18.oo in piazza Municipale

insieme alle Associazioni della Casa del Volontariato di Ferrara, i Gruppi di Auto Mutuo Aiuto, ARCI Ferrara, CPS La Resistenza e altre realtà del territorio che vogliono partecipare desideriamo portare il nostro contributo di festa e di conoscenza... per un evento di piazza gioioso, con i tanti volti delle associazioni e dei cittadini attivi che si impegnano ogni giorno per il bene di tutti.

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I Centri Servizi per il Volontariato sono stati istituiti in Italia con la Legge quadro sul volontariato n. 266 del 1991, (oggi abrogata) e attualmente sono regolamentati dal Codice del Terzo Settore, emanato in seguito alla riforma del 2016. Per approfondire
: [Vedi Qui]

Premio Estense 2023 – I quattro finalisti

Premio Estense 2023. Dal 1965, l’eccellenza del giornalismo italiano. Presentata la quartina finalista

Il 28 aprile, è stato il termine ultimo per candidare un libro alla 59^ edizione del Premio Estense. Moltissime le candidature pervenute e oggi, presso Palazzo Calcagnini, sede di Confindustria Emilia Area Centro, è stata presentata, dalla Giuria Tecnica, la quartina finalista che concorrerà all’assegnazione del Premio da decretarsi, il 23 settembre, insieme alla giuria dei lettori.

Alberto Faustini, direttore del quotidiano Alto Adige, è il nuovo Presidente della giuria, il suo primo anno da Presidente, non da giurato, lo è dal 2009. Un successo. “Mai visti così tanti candidati in un’edizione del Premio, ben 69”, commenta Gian Luigi Zaina, Presidente della Fondazione Premio Estense.

“La discussione è stata accesa e vivace, ma è stata ed è una grande soddisfazione. Sono presenti quasi tutte le case editrici, molti giornalisti italiani, il Premio è cresciuto, non solo per numero di libri ma anche per le collaborazioni con Ansa e Radio Rai delle scorse edizioni; quest’anno entra anche Rai Cultura. E poi ci sono le relazioni con le terze pagine dei giornali per la parte cultura, oltre a una nuova collaborazione con il gruppo Azimut, multinazionale presente in 18 paesi”, continua.

Obiettivo ultimo è quello di rimettere al centro la cultura del dialogo, valorizzare la memoria e la storia, le nostre radici e le esperienze vissute.

“Questa edizione”, conclude, “sintetizza il vero significato del mestiere di giornalista che analizza questioni italiane ed estere, quelle legate al ricordo e all’immaginazione. Con questo racconto emerge lo stato di salute del mondo. E i quattro finalisti scelti rappresentano esattamente questa storia e questo filo”. Eccoli allora.

Ezio Mauro, L’anno del fascismo. 1922. Cronache della marcia su Roma, Feltrinelli. Mauro tratteggia gli inizi fascismo, ne racconta la genesi, da vero cronista storico. Il cronista: l’essenza del mestiere di giornalista, un mestiere reinventato in chiave storica, l’abilità di raccontare vicende lontane ricostruendole con dettagli.

E qui Mauro ha un punto in comune con l’altro giornalista in quartina, Marcello Sorgi, che ha inventato un ruolo, quello di retroscenista.

Il libro con cui concorre, Mura. La scrittrice che sfidò Mussolini, Marsilio Specchi, è un ritorno al passato che, allo stesso tempo, insegna ai giovani come fare giornalismo.

Mura racconta la storia di una donna sconosciuta che seppe litigare con il fascismo, una popolare scrittrice di romanzi sentimentali ed erotici, rivale di Liala, che consegnava alle sue lettrici storie licenziose e smaliziate. Presa di mira da Mussolini in persona, su di lei si abbatte la censura fascista, consegnandola a un oblio che dura tutt’oggi.

Si tratta di una fetta di storia laterale alla grande storia del fascismo, un libro facile da leggere, utile anche per i giovani. Quasi una favola, in un certo senso.

C’è poi Gaia Tortora, con Testa alta, e avanti, Mondadori Strade Blu, il racconto di una vicenda personale che è anche racconto di una vicenda italiana, quella di un grande errore giudiziario che trasforma uno dei più noti personaggi della tv italiana in un “bersaglio”. “E’ la storia di un’Italia divisa in due”, commenta Tiziana Ferrario. “Una storia che racconta il dolore di una famiglia, ma anche di un caso di malagiustizia, un racconto del nostro paese e di un certo tipo di giornalismo, che, in certi momenti, non è cambiato.” È il 17 giugno 1983, quando Gaia, quattordici anni, esce di casa di primo mattino con lo zaino in spalla, il giorno del suo esame di terza media. Procede spedita verso la scuola e non sa che, poche ore prima, le forze dell’ordine hanno fatto irruzione in una camera dell’Hotel Plaza e arrestato suo padre per associazione camorristica e traffico di droga. Un padre che finisce su tutte le tv con le manette e quell’aria incredula e stupita che molti ricordano.

Paolo Borrometi, infine, con Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italianaSolferino, ci accompagna in un viaggio nella storia d’Italia in cui denuncia i traditori, i criminali che mirano a creare confusione nel Paese per raggiungere i propri interessi illegittimi. A discapito della verità. Il giornalista, 40 anni, giovane generazione, oggi condirettore dell’Agenzia Giornalistica Italia (AGI), racconta l’Italia dei grandi misteri, delle grandi trame, da uomo oggi sotto scorta per quanto ha scritto sulla mafia siciliana.

Sono libri di scrittura di grande livello, con un filo conduttore: disegnare un racconto della storia degli ultimi anni (ma anche di cent’anni fa come nel libro di Ezio Mauro), far conoscere i misteri italiani. Perché il Premio arriva nelle case dei giurati e delle redazioni ma anche nelle aule delle scuole.

È stato anche assegnato il trentanovesimo “Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione” al giornalista che nel corso dell’anno si è distinto per correttezza, impegno e professionalità. Va a Federico Rampini. Un professionista che parla di geopolitica, di cosa accadrà, nella fame d’informazione che ci circonda, un Premio alla carriera e allo stile. Ci ricordiamo della sua scrittura ma anche del suo stile inconfondibile.

In attesa del 23 settembre, dunque, quando la Giuria di 40 lettori, accenderà il dibattito. La forza del pubblico, concludono i commentatori. E noi ci saremo, come lo scorso anno. Fra quei 40 fortunati e curiosi.

 

Canale Youtube del Premio Estense.

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PARLIAMONE ANCORA
Bruce Springsteen: bella musica, grande professionalità… e quel silenzio assordante

Tutti noi abbiamo dei miti, che sia un film che ha rappresentato un momento particolare della nostra vita, oppure un libro od, anche, un brano musicale o, meglio ancora, un musicista che ha percorso, al nostro fianco, parte delle nostre vite. Chi, come il sottoscritto, si è abbeverato dentro le fontane del rock’n roll, è cresciuto, si è accresciuto moralmente, con le note degli artisti preferiti, ne ha studiato attentamente i testi e si è riconosciuto in essi e nei protagonisti di quei brani.

Bruce Springsteen, questo ragazzotto nato nel settembre del 1949 in una piccola località balneare del New Jersey, da Douglas, di origine irlandese, e da Adele Ann  di origine italiana, cresciuto in un ambiente della tipica working class americana, ha saputo, con le sue canzoni, rappresentare e dare voce a quella parte di società che è sempre rimasta ai margini, ha raccontato, in quello che, personalmente, ritengo il migliore album, “Nebraska“, le tribolazioni ed i sogni dei giovani americani cresciuti in un sogno di finzione e spediti a combattere guerre senza senso e al servizio di un capitale a loro lontano e sconosciuto.

In questo contesto, un giovane irrequieto che si credeva un rivoluzionario, non poteva non rimanere folgorato dai suoi brani, attardandosi per ore a consumare la puntina del giradischi assaporando la forza dei pezzi più rock ed emozionandosi dalla forza ed intensità morale delle sue ballate.

Molte generazioni sono cresciute e si sono formate musicalmente, ascoltando i dischi di quello che tutti chiamanothe boss”, pertanto l’occasione di poter assistere ad un concerto dell’amato proprio nella nostra Ferrara è sembrata un’occasione irripetibile, anche nell’ottica che, vista l’età di Bruce, avrebbe potuto rappresentare l’ultimo momento di poterlo vedere e sentire in Italia.

Come tanti, mi sono domandato il perché del parco urbano, non cedendo ai malinformati che parlavano di zona di nidificazione, ma, sopratutto, pensando ad un area che, per sua definizione, è alluvionale e, pertanto, in caso di pioggia avrebbe regalato ai partecipanti una sorta di acquitrino.

Come tanti mi sono domandato il fine di talune polemiche che poco avevano a che fare con l’area e con la musica del boss.

Poi è accaduto ciò che nessuno, nemmeno i più previdenti, avrebbe mai immaginato, ovverosia un mese di maggio con una quantità di precipitazioni tipiche di un anno, non di un mese, e, sopratutto, poco lontano da Ferrara, i notiziari ci informavano di una completa distruzione, di intere aree alluvionate, di città coperte dal fango, di tutta la Romagna che piangeva morti, distruzione e disperazione.

Allora mi sono domandato se il famoso concerto si sarebbe dovuto celebrare ugualmente, e mi sono risposto che, forse, era davvero molto difficile interrompere una macchina al lavoro da più di un anno, e ho concluso, con un semplice “ok vado al concerto, mi doterò di stivali ma, dopo anni tribolati, tra pandemia e la natura che si rivolta alla nostra arroganza di sapiens poco sapiens, si poteva passare una sera di musica in compagnia di uno dei miei miti e al fianco di tanti, che, come me, potevano condividere i suoi brani” tanto – mi sono ripetuto – con la sua sensibilità, Bruce” , noi appassionati lo chiamiamo come fossimo amici da sempre, “ sicuramente aprirà il concerto esprimendo cordoglio per le vittime, vicinanza per la popolazione colpita e, magari, dichiarerà che una parte del suo cachet verrà devoluta ai romagnoli”.

Ed allora, attorno alle 19,30, regolare come un orologio svizzero, dopo un paio di band gradevoli, eccolo che appare…………ed ecco la mia prima sorpresa, esordisce con un, banale e retorico “ciao Ferrara” ed inizia a con “No surrender”, che, al di là del testo che avrebbe potuto ricordare il popolo romagnolo, purtroppo è da tempo il brano con cui inizia i suoi concerti.

Ho continuato ad attendermi un pensiero, un brano dedicato, due parole, ma tutto invano, il concerto ha proseguito come sempre, con grande professionalità, evidenziando l’affiatamento della band, e di un Bruce, che, nonostante l’età e la voce a volte un po’ cadente, in grande forma.

Come detto, grande professionalità e tanto mestiere, ma non ho sentito il cuore battere tra le note dei brani, come non mi sono sentito nato per correre dentro l’anima.

L’Ente Delta Padano e i (bei) tempi che furono

L’Ente Delta Padano ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei nostri territori. A parlarcene è Denis Guerrini che del tenerne viva la memoria ne ha fatto una missione. 

Ci sono zone della memoria collettiva che vanno preservate, custodite come un bene di grande valore, come perle color avorio. Ci sono campagne del nostro paese e della nostra regione che vanno raccontate, ancora e poi ancora, consegnate ai nostri ragazzi con le loro tradizioni e le loro storie di vite di sacrificio che hanno contribuito alla costruzione della nostra realtà. Allora come ora. Tassello di un complicato e delicatissimo puzzle.

Le generazioni degli anni del dopoguerra hanno ricostruito un paese distrutto, hanno ridato la speranza e gettato semi che oggi rischiano di essere spazzati via dal vento. Un vento putrido e malsano, che, con il suo progresso che tale non è, illude che tutto vada bene.

Gli antenati, questi magnifici e umili sconosciuti. Eredi cercasi, avevamo scritto con Maupal, e oggi siamo qui anche per questo. Curiosamente pronti, siamo approdati a un angolo di un tempo che fu, insieme ad amici di tempi passati, non certo per la loro età, ma per i valori che ancora custodiscono nelle loro belle anime, aperte, disponibili, generose.

Un sabato mattina di sole, una pausa di buon auspicio in questi giorni di piove-a-catinelle, campagna rigogliosa, e orgogliosa, di Copparo. Passiamo per campi sterminati di grano, verde e ancora verde, in lontananza il maestoso e imponente viale alberato della tenuta di Zenzalino, oggi sito Unesco, che ospita anche un prestigioso allevamento di cavalli, quello di Varenne per intenderci. Filari e filari, siamo in zona quiete.

In auto, Valerio, Stefano ed io chiacchieriamo, di cinema, di arte, di fotografia, di passato. Con noi zainetti, una macchina fotografica e tanta curiosità. E ovviamente un taccuino.

Arriviamo a destinazione: la casa di Denis e Margherita Guerrini, a Brazzolo, nel Comune di Formignana. Non li conoscevo. Ma pochi minuti e mi parrà di conoscerli da sempre. E sarà per sempre, lo percepisco subito. L’empatia è una strana cosa, un’amica sfacciata che arriva improvvisamente senza neanche accorgersene o bussare e che resta senza chiedere il permesso, compagna del presente e del futuro.

Denis Guerrini

Intorno al tavolo del salotto iniziamo a parlare, tanta roba, direbbero i più giovani. Intorno a noi tantissimi oggetti curiosi, degni di un set (in effetti qui, e nella zona, sono state girate molte scene del corto in uscita, diretto da Mattia Bricalli, “Madre Terra”, che avevamo incontrato).

Denis ha una grande passione per le roulotte: le comprava, le sistemava e le vendeva alla fine degli anni 2000 quando al Lido di Spina nasceva e si sviluppava il campeggio che, un giorno, sarebbe stato frequentato da tanti turisti. Quelle roulotte che ha messo a disposizione, con grande cuore e generosità, durante i terremoti dell’Emilia nel 2012 e dell’Umbria nel 2015. Viaggi avanti e indietro, tanti chilometri, per compagni l’amore per il prossimo e qualche conoscenza che, anche grazie a Facebook, si univa nell’aiuto.

“Se allora quegli abitanti sfortunati avevano bisogno di qualcuno”, ci dice, “oggi ad avere bisogno sono la storia e la memoria dell’Ente Delta Padano, il bisogno di avere qualcuno che faccia riconoscere, o quantomeno ricordare, il peso che ha avuto negli anni Cinquanta”. L’intento dei suoi racconti, lasciati anche nel suo libro “Racconti. Il vitellino, i capponi di nonna Giuseppa e altre storie– reperibile contattando Denis sulla sua pagina Facebook – è quello di lasciare un ricordo a figli e nipoti. Ma non solo. Frammenti di vita che raccolgono sentimenti, stagioni, ricordi e speranze, un quotidiano fatto di cose semplici, umili e comuni, si legge in prefazione. Odori che portano alla mente teneri ricordi.

In Italia, a inizi del Novecento, l’attività bonificatrice dei terreni paludosi fu una forma d’intervento dello Stato imposta dalle necessità della difesa igienica. Solamente in seguito, l’opera di bonifica, oltre alla regolarizzazione degli scoli nei terreni palustri, cominciò a comprendere altre varianti. Le varie provvidenze per la bonifica integrale, armonizzanti con la politica demografica e rurale, vennero coordinate nella “legge Mussolini” del 24 dicembre 1928, n. 3134 e affidate per l’applicazione al Sottosegretariato del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.

Così scriveva, nel 1934, Arrigo Serpieri, Sottosegretario nel Ministero dell’Agricoltura nell’illustrare l’essenza della bonifica integrale: “… Non più solamente, come nella vecchia legislazione, opere di prosciugamento di terreni paludosi (bonifica idraulica), al fine essenzialmente igienico della difesa contro la malaria; ma ogni opera di ingegneria e di tecnica agraria e forestale, riconosciuta necessaria per instaurare una nuova economia agricola, a più densa popolazione rurale. Quindi opere di difesa igienica, formazione di nuovi centri di popolazione, costruzioni rurali, viabilità, difesa dalle acque e loro utilizzazione agricola, rimboschimento, sistemazioni agrarie del suolo, riordinamento dei fondi polverizzati o smembrati”. (…). “Bonifica integrale significa realizzare il rapporto fra l’uomo e la terra più adatto ai fini della migliore convivenza sociale; significa meglio dislocare gli uomini sulla terra, da regioni oggi congestionate ad altre spopolate, in forme sane di colonizzazioni. Ai valori economici si affiancano così i più alti valori spirituali. Si tratta non solo di una maggiore produzione, ma della sede della vita umana e dei suoi rapporti sociali; dei mezzi di comunicazione e di scambio non solo dei beni economici, ma anche spirituali”.

Zona bonificata e spianata

Se il regime fascista tentò di attuare, all’interno della battaglia del grano, una riforma detta “sbracciantizzazione”, avente come obiettivo la diminuzione del numero di braccianti giornalieri a favore di mezzadri, affittuari e coloni per sviluppare le piccole e medie proprietà terriere il cui fine ultimo era l’autosufficienza nazionale nella produzione di frumento, una prima vera e propria riforma agraria venne attuata con la Repubblica.

Nel 1951 venne, infatti, istituito l’Ente per la Colonizzazione del Delta Padano con D.P.R. 7 febbraio 1951, n. 69 “Norme per l’applicazione della legge 841/1950 ai territori dell’Emilia e del Veneto e istituzione dell’Ente per la colonizzazione del Delta Padano”. La zona aveva ancora bisogno di interventi.

Anche Florestano Vancini, nel 1951, aveva ritratto personaggi e luoghi della bassa ferrarese e del Polesine nel suo documentario “Delta Padano”, restaurato nel 1998 presso gli stabilimenti di Cinecittà con il contributo della Camera del Lavoro di Ferrara e dei comuni del delta padano.

Con la consueta maestria, Vancini, aveva osservato questa zona sia da un punto di vista paesaggistico che umano, con un occhio di riguardo alla vita dei suoi abitanti. Il film inizia con il racconto della giornata di una famiglia, che si tramuta nella storia di un intero paese che vive di inazione forzata, nell’impossibilità di sfruttare la propria terra. È la storia di 300.000 italiani ai margini delle terre più fertili del nostro paese. La vicenda si apre con l’immagine di un bimbo che rientra con la madre, dalla quale ha appena imparato a raccogliere la legna. Nella povera casa, gli altri componenti della famiglia si svegliano: non hanno fretta perché non hanno nulla da fare. Le immagini riprendono le case grigie in fondo alla valle del Po, che reca acqua, ma non alle genti del delta; bambini che muoiono di tubercolosi, analfabetismo, la scuola come stanza comune dove è difficile andare, anche per gli insegnanti. Sembra un’altra era, ma parliamo solo di settant’anni fa. Non possiamo dimenticarcene.

Florestano Vancini, Delta Padano, 1951

Ecco allora arrivare la riforma del 1951, che proponeva, tramite l’esproprio coatto, la distribuzione delle terre ai braccianti agricoli, rendendoli così piccoli imprenditori e non più sottomessi al grande latifondista. Pur riducendo la dimensione delle aziende agricole, la riforma ebbe il merito di far sorgere varie cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, riuscirono a conferire all’agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbero una migliore resa delle colture e un miglior sfruttamento delle superfici utilizzate, anche attraverso la diffusione della meccanizzazione. Vennero, infatti, istituiti numerosi organismi cooperativi: cooperative di assistenza e servizi, di trasformazione dei prodotti e commercializzazione: cantine, caseifici sociali, centrali del latte, mattatoi, zuccherifici, conservifici. Ricordiamo, tra le realtà cooperative della nostra zona, lo zuccherificio gestito dalla Cooperativa Produttori Agricoli di Ostellato, costruito nel 1960 e dismesso nel 2005; lo stabilimento Colombani per la trasformazione della frutta in succhi e marmellate, fondato nel 1924 a Portomaggiore e in seguito trasferito a Pomposa; la Cantina sociale Bosco Eliceo di Volania, nel comune di Comacchio, la cooperativa Lattestense di Chiesuol del Fosso. Arrivava, finalmente, un poco di benessere.

Grazie all’attività dell’Ente Delta Padano, si conclude la distribuzione delle terre ai contadini; la consegna dei certificati di proprietà viene fatta dal ministro Fanfani

Le assegnazioni iniziali”, ci spiega Denis, “avvenivano con piccoli appezzamenti. Per le difficoltà della zona, la scarsità di lavoro e le ristrettezze economiche di allora, tuttavia, molti se ne sono andati in cerca di fortuna nelle grandi città. Milano o Torino, ad esempio, dove la Fiat prometteva un futuro diverso. In zona era invece la Berco a proporre il grande risveglio e il miracolo economico”, ci dice. Una società fondata a inizio secolo e che negli anni Cinquanta diventa società per azioni.

“Negli anni Sessanta”, continua, “saranno gli stabilimenti del Latte Ala di Copparo, ai quali era diretto gran parte del latte prodotto dalle nostre mucche, a completare un quadro di benessere minimo raggiunto da quelle campagne rigogliose. Berco e Ala si sono aiutate a vicenda. In questo contesto, era nato l’Ente Delta Padano. Terra e case per tutti.

Podere San Callisto costruito dall’Ente Delta Padano, 1953

“Le case assegnate dall’ente erano diverse”, ci spiega Denis: “due, tre o quattro/cinque stanze a seconda della composizione del nucleo familiare. Per la stalla annessa e il numero di animali si seguivano gli stessi criteri”. “Pensa” e qui sorride, “che in famiglia si scherzava ricordando alla donna che voleva magari prendere parte a una decisione di casa, che il suo peso nel punteggio per l’assegnazione era 0,75, mentre l’uomo capo famiglia valeva 1, quindi non aveva che fa starmene zitta…. Erano gli stessi criteri del tempo del fascismo”. Ma l’idea di quel villaggio non era di Mussolini. Il nonno Ettore, dal nome di grande condottiero ma per tutti Secondo, glielo ricordava sempre.

“Mio nonno, la mia guida e continua fonte di ispirazione”, mi dice con orgoglio, “era alto, biondo e con gli occhi azzurri, probabilmente grazie all’insediamento degli Arimanni di Massafiscaglia. Aveva fatto il granatiere. Non era colto, ma mi diceva sempre che quell’idea non era stata del Duce, ma di un altro signore francese, un tale Le Corbusier”.

E il nonno aveva ragione. Le ricerche, infatti, portano subito alla “fattoria radiosa”, agli studi su “La Ferme radieuse et le Centre coopératif” che l’architetto svizzero, naturalizzato francese, aveva elaborato per il terzo Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM) del 1930 e riuniti nel 1940.

La pubblicazione italiana di questi studi è avvenuta solo nel 2015, grazie alla casa editrice Armillaria, “La Fattoria Radiosa e il Villaggio Cooperativo”, a cura di Sante Simone.

Si può dire che la Fattoria Radiosa è la sorella minore della più celebre Città Radiosa, probabilmente la precondizione realizzativa. Se infatti la Ville Radieuse rappresentava la città moderna, con la sua geometrizzazione funzionale di grattacieli e gli ampi spazi verdi, essa tuttavia non era autosufficiente: non nasceva per vivere in un mondo solitario, ma per essere parte di un più ampio organismo in cui erano centrali i luoghi della produzione, e in particolare quelli del cibo e dei beni primari, ovvero quelle campagne che i giovani, invece di coltivare, sempre più abbandonavano. Essere felici in campagna, e tornarci, sarebbe stato allettante per i giovani solo se essa fosse divenuta efficiente, ordinata e pulita.

L’ispirazione programmatica era il “programma di ricostruzione agraria” che Norbert Bézard, osservatore del mondo contadino, aveva proposto a quello stesso CIAM del 1930: un programma teso a trasformare le fattorie in moderni “strumenti di civiltà”. Bézard fondava su basi corporativiste e antistataliste un nuovo ordine sociale che aboliva la proprietà terriera, unendo gli sforzi dei singoli in un sistema cooperativo il cui simbolo era il silo comune. E questi principi si traducevano nelle idee di Le Corbusier che disegnava villaggi e fattorie distribuiti razionalmente sul territorio e collegati da un sistema di moderne autostrade. Ogni unità era compiuta nelle sue parti, e integrava il silo, la cooperativa, la scuola, la piscina, un ufficio postale, le abitazioni con servizi e spazi comuni, l’orto e il club: tutti costruiti sfruttando i sistemi di produzione standardizzata. Pur centro moderno, restava, tuttavia, il modello di piccola comunità tradizionale, legata a valori antichi, alla solidarietà perduta dopo la rivoluzione industriale, al valore dato ai piccoli piaceri della vita, al mettere radici per la propria “stirpe”. Se cioè la visione architettonica proposta era figlia del mondo macchinista, la vita ch’essa ospitava restava, in qualche modo, intrisa di quel romanticismo che tanto era avversato, dove la natura era espressione di poesia e i figli naturali prosecutori del lavoro dei padri. Una forma dell’abitare legata all’organizzazione della società. Un futuro visto con gli occhi del presente.

Il modello di Le Corbusier è stato molto analizzato e criticato. A noi qui basti ricordare, per coerenza storica, che in fondo, un po’ il fascismo c’entra. Contraddicendo, con il dovuto rispetto, un pochino Secondo. Se non altro per le vicinanze e i reciproci apprezzamenti tra Le Corbusier e una serie di personaggi vicini al partito francese di ispirazione mussoliniana, da Pierre Winter, a Philippe Lamour, a Hubert Lagardelle. Legami che si concretizzano anche nelle pubblicazioni di Bézard e Le Corbusier sulle riviste “Plans” e “Prélude”. Volendo però vedere nella sua ammirazione per le grandi bonifiche italiane l’apprezzamento di una grande opera di ingegneria più che del regime che l’ha resa possibile; allo stesso modo, in quelle riviste dove i piani per la Fattoria Radiosa vengono accolti con entusiasmo, potremmo vedere solo il plauso politico di un progetto che valorizzava l’opportunità per gli individui di contribuire alla grandezza e alla concordia nazionale. Come in un alveare operoso, le persone saranno libere di fare, essere e avere tutto ciò che servirà a un bene superiore, quello della comunità e poi dello Stato. Ne prenderemo gli aspetti positivi, avulsi da ogni ideologia.

Lavori di bonifica

Torniamo a noi, dunque. Denis continua il racconto: “mio nonno mi raccontava sempre di come un bel giorno il cavalier Bovolenta, funzionario del nascituro Ente Delta Padano, era venuto a cercarlo per proporgli un’assegnazione”. “Lei, signor Guerrini, potrebbe essere interessato, dato che ha una famiglia numerosa?”, si legge nel libro. “Si tratta di un sito di 7,30 ettari costituito da una casa con quattro stanze da letto e una stalla adiacente per otto mucche, contando anche fienile, pollaio e porcile. Tutto è ancora da costruire, ma è compresa anche l’acqua corrente, sia in cucina che in bagno, e pure l’impianto della luce, che sarà a suo tempo disponibile. La cucina ha un impianto che permette di scaldare l’acqua per ogni uso”. E il nonno decise.

Appoderamenti nel basso ferrarese, 1954

“Molti assegnatari chiederanno il riscatto delle proprietà già dopo i primi dieci anni, anziché dopo i trenta originari, e che con le somme incassate l’Ente Delta ha provveduto ad asfaltare le strade che da vicinali sono così diventate comunali (anche se formalmente ancora oggi restano alcune criticità su questo). Si è poi creato un grande pasticcio. La coesistenza di due sistemi paralleli, la proprietà privata e quella collettiva per la gestione del riso come quella di Jolanda di Savoia, ha creato contrasti e disparità. L’ente sarebbe stato disciolto. Ma noi siamo qui”, conclude.

Nel libro che raccoglie i suoi racconti, ci perdiamo fra gli allagamenti delle campagne, i capponi della nonna, le abbuffate, le mietiture, la pariglia e gli stivali, i cappotti e le sciarpe indossati per far fronte al freddo gelido di febbraio durante il tragitto fangoso che portava la famiglia al bar dove si poteva vedere, tutti insieme, il festival di Sanremo.

Con Denis, ci avventuriamo per le stradine illuminate da un sole che da tiepido diventa presto cocente. Ecco la via Zaffo (dal nome del tappo delle damigiane).

Inizialmente non c’era un criterio per denominare quelle nuove vie per cui molte presero il nome dell’ingegnere che aveva dato via al progetto, Bruno Rossi. Poi il nonno di Denis propose di chiamare le vie con il loro nome originario del podere. Così il podere Zaffo dava il nome alla via mentre il podere Mulinetto dava il nome ad un’altra trasversale. Ad ogni nuovo podere venne assegnato un numero e un nome: così nasceva, ad esempio, il podere n.71, S. Ettore, scritta color marrone. Sotto ad ogni finestra, al piano superiore, lo spazio per un portabandiera per le feste solenni.

Fra campi, trattori e stalle, arriviamo alla casetta, oggi disabitata, del custode della chiusa. Un sistema idraulico che rende orgogliosa la nostra regione, da sempre. Un canale artificiale che serviva sia allo scolo che all’irrigazione, composto anche di una diga che poteva fungere da chiusa per lasciar passare i barconi che trasportavano le barbabietole dirette allo zuccherificio di Codigoro (trasporti presso effettuati su gomma). Lì fianco, da ragazzini, si faceva anche il bagno.

Ma è ora di pranzo. Ci attendono piadina, focaccia, salame e lasagne. E il calore della spontaneità e dell’amicizia. Oggi sono felice.

Archivio fotografico dell’Ente Delta Padano
La Fototeca dell’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna conserva, tra le altre raccolte, l’archivio fotografico dell’Ente regionale di Sviluppo Agricolo, istituito con il nome di Ente per la Colonizzazione del Delta Padano nel 1951, ente statale dipendente dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, divenuto ente regionale nel 1977 e infine soppresso nel 1993 con trasmissione di funzioni residue, personale e patrimonio all’Assessorato regionale Agricoltura. L’archivio fotografico, ordinato, catalogato e digitalizzato dall’Istituto Beni Culturali, consiste in oltre 32.000 positivi in bianco e nero e a colori, circa 20.000 negativi, quasi 4.000 diapositive, pellicole cinematografiche e audionastri.

Immagini storiche dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano

Fotografie di oggi di Valerio Pazzi

Vite di carta /
Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone

Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone.

Entro la dozzina dei libri semifinalisti dello Strega ho scelto Dove non mi hai portata di Calandrone, dicevo nell’ultimo articolo, per via del cognome che fa il verso al celebre Calandrino del Boccaccio. Poi per il titolo che si rivolge a un tu e promette un dialogo: saremo almeno in tre, ho pensato, la voce che narra, il suo interlocutore o interlocutrice, e  la lettrice che sarei io.

Così è stato e il dialogo ha accolto altre voci ed è stato fecondo, solo che dalla comicità di Calandrino la lettrice ha dovuto sgombrare il campo.

Perché il libro ricostruisce con rigore la storia di un abbandono, quello che l’autrice ha subito dai genitori biologici quando aveva soltanto otto mesi, nel giugno del 1965, ed è stata deposta su una coperta all’ingresso di Villa Borghese a Roma, nel verde di un prato.

Dove non mi hai portata resta tuttavia un libro equilibrato, pieno di autenticità, in cui la narratrice si mostra grata della vita che ha avuto. Apre un piccolo squarcio alla fine del racconto per nominare i genitori adottivi, Consolazione e Giacomo Calandrone, e li definisce “due giganti” dai quali ha avuto una vita bella, un “ristoro”.

Il resto del libro, tutto il libro è una investigazione implacabile piena di ardore verso la madre biologica, Lucia Galante, e verso il padre biologico Giuseppe Di Pietro, che di Lucia è l’amante.

Documenti scritti, interviste, articoli di giornale, cartelle cliniche e certificati d’archivio si sommano, portando informazioni  il cui totale cresce a ogni pagina: Maria Grazia li ha studiati e ora li descrive, scarta ciò che le sembra incoerente col quadro che si è fatta della storia, cerca conferme tra una fonte e un’altra come in una indagine filologica, di una filologia potrei dire esistenziale.

Ogni pagina è la rielaborazione di una assenza, che viene messa sotto gli occhi dei lettori come a chiederne l’ascolto a ogni momento. Ogni pagina è una parte del prezzo che va pagato per fare i conti con gli inizi di sé, definitivamente.

la cartolina anne berestEccomi di nuovo impigliata in una difficile storia famigliare, penso. Anche qui apprendo vicende di famiglia sofferte e al tempo stesso fortemente identitarie, come quelle che ho appena letto nel  romanzo di Anne Berest, La cartolina.

Solo che qui tutto richiede immedesimazione: l’autrice è nata nel 1964, scrive e vive in questi anni, in questi giorni e si racconta come figlia. Utilizza le parole per tessere il corpo e la mente di sua madre, che in un giorno afoso del giugno 1965 si è gettata nel Tevere insieme al compagno per consentire a lei bambina di essere adottata e di avere una buona vita.

Maria Grazia è tornata sui luoghi in cui la madre è nata e dove ha vissuto le poche fasi della sua esistenza, fino a quella morte a ventinove anni che l’ha inchiodata a una giovinezza senza fine.

Dico subito che la ricostruzione dell’autrice-narratrice-figlia è come una lunga poesia intrisa di amore, una lirica tuttavia lucidissima. L’io narrante  si interroga sulla madre e si dà risposte piene di solidarietà verso di lei, finisce per  comprenderne la scelta esiziale, quando non ha più avuto la linfa che la tenesse in vita. Non un lavoro per sé e per Giuseppe, non un aiuto dalla propria madre: solo il disdoro generale e le perfidie sociali dell’Italia uscita da poco dalla seconda guerra.

Ma andiamo con ordine. Al paese in provincia di Campobasso Lucia è stata costretta dalla famiglia a un matrimonio di convenienza e ha sopportato per anni le percosse e l’insipienza di un marito incapace. Quando ha conosciuto Giuseppe, di molti anni più grande di lei e già a capo di una famiglia, ha conosciuto l’amore: “la magnifica follia che ci fa giganteggiare sopra la nostra vita, che trasloca il nostro piccolo esistere dentro il corpo totale del mondo”.

Ha raccolto le sue poche cose e si è trasferita a casa di Giuseppe, mettendosi contro la legge e contro l’opinione di tutti i paesani.

Siamo nel 1964 e il secondo trasloco è per i due amanti una vera avventura di viaggio, oltre che un fenomeno sociale su vasta scala. Dice Maria Grazia: “Tra Palata e Milano esiste un varco spaziotemporale”, eppure Lucia e Giuseppe lo oltrepassano quando lei è al sesto mese di gravidanza e dopo un viaggio lungo, passando da una corriera all’altra, arrivano nella “Milano dell’immigrazione“, dove “gli emigranti che arrivano da Sud vengono sversati come scorie radioattive in discariche sociali ultraperiferiche, … isole di fango e impalcature, aree non comunicanti col resto del tessuto urbano”, città nella città.

Bastano pochi mesi per consumare il fallimento e prendere atto che, passato il primo boom edilizio che ha dato lavoro a Giuseppe come manovale, lui, Lucia e la piccola Maria Grazia sono senza mezzi di sostentamento.

I due preparano attentamente l’ultimo viaggio a Roma, dove lasceranno la bambina prima di lasciare andare sé stessi nell’acqua del Tevere. L’autrice ricostruisce ogni minuto dei due ultimi giorni di vita per i suoi genitori, il 24 e il 25 giugno 1965. Valuta ogni ipotesi di spiegazione per ognuno degli atti finali che hanno compiuto: l’abbandono di bagagli sotto i portici di piazza Esedra, la lettera spedita all’Unità in cui affidano la loro bambina “alla compassione di tutti”.

Con questo libro Maria Grazia raccoglie l’invito, per sé e per me lettrice che l’ho ascoltata fino a qui e mi accosto alle pagine finali. Sono scossa, devo riconoscerlo.

“Questa mia vita, con il gratuito e a volte immeritato bene che incontra, aderisce ogni giorno alla disperata speranza di Lucia e Giuseppe. Ci vuole un gran coraggio, per sperare. La storia dice che Lucia e Giuseppe sono morti sperando. Il mio bene, se non il proprio. E loro due, mettiamoli tra quelli che hanno vinto l’invincibile solitudine del morire, morendo insieme”.

Nota bibliografica:

  • Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi, 2022
  • Anne Berest, La cartolina, Edizioni E/O, 2022

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure /
Rendiamo facile il difficile

Rendiamo facile il difficile. Che difficile! Quante volte lo abbiamo detto o sentito dire. Lo spagnolo Guridi tratta con delicatezza le difficoltà di comunicazione di un bambino. Leggere per credere

Per qualcuno trovare la forza di esprimersi, di fare sentire la propria voce può richiedere uno sforzo grande, immenso, a volte titanico.

La semplice routine di un giorno di scuola può rappresentare una vera e propria sfida con sé stessi. Il fatto che gli altri sappiano riconoscere e rispettare questa difficoltà può essere d’aiuto e ogni piccolo progresso può rappresentare una conquista.

A raccontarlo lo spagnolo Raul Nieto Guridi – abbiamo già parlato del suo bellissimo Parole – in Che difficile!, edito da Kite, appena uscito in libreria.

Quando esco di casa tutto mi è difficile. Sento un formicolio che non svanisce e ogni passo che faccio è una conquista”.

Il protagonista-bambino è piccolino, perso è un po’ confuso, tutto ciò che gli ruota intorno è grande. Guridi gioca abilmente con la prospettiva, il tratto è netto e deciso, i personaggi che intimoriscono o con i quali si vorrebbe dialogare sono tratteggiati in rosso.

Le persone che conoscono questo gentile bambino, però rendono facile il difficile. Toccante, commovente, sincero. Tanta empatia con chi ha difficoltà a comunicare o a inter-relazionarsi.

Voler dire ciao al panettiere, senza riuscirci, alla vicina Anna o alla signora Antonia. Magari fare un semplice complimento per il bel vestito indossato, ma esce solo un sorriso.

In tutto questo, contare rilassa. Uno due, tre… Anche quando si sale sul bus e si allunga il biglietto al conducente senza sapergli e potergli rispondere. È così difficile…

 

 

Meglio evitare di sedersi vicino a qualcuno che magari ti fa pure una domanda cortese. Sarebbe così difficile concentrarsi e poi rispondere.

Anche arrivare a scuola è un’impresa. Genitori che si salutano, scolari che chiacchierano ad alta voce. Conoscere i loro nomi ma non averli mai pronunciati. Perché è così difficile…

La mamma dice di non avere fretta. Le parole un giorno, prima o poi usciranno. Servono solo tempo e pazienza. Sottovoce qualcosa viene, piano piano, ma poi… È difficile.

Un albo dalle illustrazioni libere che racconta la storia di un bambino che non riesce ad esprimersi, a dire in società ciò che desidera e perciò a essere pienamente sé stesso.

Per qualcuno è un racconto sul tema dell’autismo, per qualcun altro una storia su una difficoltà più generica a dire ciò che si pensa in pubblico, una forma di grave timidezza che forse tutti abbiamo prima o poi provato nella nostra vita.

Timori, manie, trucchetti, stratagemmi, meccanismi di difesa. Tutto pur di non parlare.

Ma anche i grandi, in fondo, sono spesso incapaci di dire ciò che sentono o pensano. Tante persone preferiscono non parlare né sorridere. Non sfiorare. Forse è il rumore a rendere tutto tanto difficile?

 

È così difficile! di Raul Nieto Guridi, Kite, 2023, 40 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

La Marcia Perugia-Assisi di maggio 2023
Il discorso di Rafael de la Rubia. Le immagini dell’evento.

La 3ª Marcia Mondiale alla Marcia Perugia-Assisi

Il 21 giugno 2022 a Vienna abbiamo annunciato la 3ª Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza al primo incontro dei Paesi che hanno ratificato il TPAN – il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari.
In precedenza abbiamo effettuato due marce mondiali di massa nel 2009 e nel 2019. Lì abbiamo verificato che l’aspirazione della maggioranza delle persone era la Pace e che la Nonviolenza era sempre più accettata in tutto il mondo.

Questa 3ª MM inizierà in Costa Rica il 2 ottobre 2024 e, dopo aver fatto il giro del pianeta, terminerà nuovamente nella capitale del Costa Rica il 5 gennaio 2025. In essa mostreremo:

a) Come creare un’azione globale partendo da progetti locali e regionali.
b) Come evidenziare il valore delle piccole azioni per realizzare una campagna globale basata sul sostegno reciproco.
c) Il valore delle piccole azioni in un contesto più ampio.
d) La necessità che queste azioni siano esemplari.
e) Le connessioni tra le azioni a livello locale e regionale e quelle a livello globale.

Inoltre, attiveremo la Marcia via mare fino a quando non sarà dichiarato un “Mediterraneo, Mare di Pace e Libero da Armi Nucleari”. La prima esperienza in questo senso è stata fatta nel 2019 nel Mediterraneo occidentale.

Le risorse. Una questione non secondaria riguarda i mezzi con cui abbiamo realizzato le Marce Mondiali precedenti. La MM non ammette alcuno sponsor che condizioni il nostro messaggio e le nostre proposte! Ciascuno di noi ha pagato le proprie spese, in modo da non avere le mani legate e poter parlare liberamente.
In questa 3ª MM avanzeremo ancora di un passo nella costruzione del cammino che l’essere umano ha iniziato molto tempo fa verso la Pace e la Nonviolenza.

Invitiamo tutte le organizzazioni che lavorano per la Pace e la Nonviolenza a unirsi alla 3ª MM. Speriamo che ciascuna organizzazione possa portare e valorizzare i propri temi e portarli a livello internazionale. Una piccola organizzazione può trarre vantaggio dalla MM ed espandersi in altri paesi e regioni. L’idea è di riunirsi almeno una volta ogni 5 anni, in occasione delle prossime MM.

Oggi il mondo ha più che mai bisogno che chi è a favore della pace faccia sentire la sua voce e mostri il suo esempio.

Alcuni riferimenti della nonviolenza e della pace hanno affermato: “Non mi preoccupano i violenti, che NON sono tanti, ma piuttosto l’inerzia di coloro che si definiscono sostenitori della Pace.” Ci sarà almeno un 10% o un 20% di europei favorevoli alla pace… Se questa gente si esprimesse, se scendesse in piazza due o tre volte, se 50 o 100 milioni di europei manifestassero pacificamente, senza bandiere, senza slogan, in silenzio… le cose cambierebbero molto in Europa…

La Marcia Perugia – Assisi è un esempio e un riferimento in Europa per lavorare per la pace. Invito le organizzazioni e i Paesi a unirsi alla Marcia di Perugia affinché il prossimo anno si tenga una manifestazione unitaria in tutta Europa a sostegno della Pace, di cui abbiamo tanto bisogno.

Dopo aver sentito parlare i giovani delle diverse scuole, non ci resta che dire che li ascoltiamo e speriamo di poterli ascoltare e seguire le loro indicazioni.

Siete tutti invitati a partecipare alla 3a Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza.

Foto di Ileana Di Nitto

 

Rafael de la Rubia

Umanista spagnolo. Fondatore dell’associazione Mondo Senza Guerre e Senza Violenza. Ha lanciato, tra le tante iniziative, la campagna “2000 Senza Guerre” e la Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. theworldmarch.org

Link:
https://www.famigliacristiana.it/articolo/marcia-perugia-assisi-con-il-cuore-rivolto-alla-romagna.aspx
https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/05/21/da-don-ciotti-allanpi-in-migliaia-alla-marcia-per-la-pace-perugia-assisi-ma-i-partiti-tranne-verdi-sinistra-non-ci-sono-parlano-solo-di-armi/7168491/

In 10mila all’edizione speciale della Marcia Perugia Assisi

In diecimila alla Marcia Perugia Assisi. I giovani rivendicano un mondo senza più guerre. Per Articolo 21 l’impegno su verità e giustizia


https://www.virgilio.it/italia/perugia/notizielocali/in_diecimila_alla_marcia_della_pace_perugia_assisi_2023_trasformiamo_il_futuro_-71189979.html
https://www.lindipendente.online/2023/05/21/oggi-torna-la-marcia-perugia-assisi-per-la-pace-in-ucraina/

Le immagini: Cover e reportage fotografico di Ileana Di Nitto.

EIRENEFEST: Tavola Rotonda ARTE PER LA PACE.
Roma, Quartiere San Lorenzo, sabato 27 maggio ore 18:00

 

Sabato 27 Maggio ore 18:00 – 20:00

                                                                                                                                                      Arte per la pace

Sala ENGIM
Via degli Etruschi n.9 – Roma

Il ruolo dei patrimoni culturali e delle arti in tutte le loro forme ed espressioni ai fini della prevenzione della violenza e della costruzione della pace: un dialogo a più voci con artisti/artiste, attivisti/attiviste, esperti/esperte nell’ambito della cultura, del patrimonio culturale e delle nuove forme ed espressioni artistiche.

A partire dal libro:
Gianmarco Pisa, Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto dalla Jugoslavia al presente, Multimage, Firenze, 2022.
Intervengono:
– Dorotea Giorgi (operatrice culturale e interculturale),
– Mary Cinque (artista),
– Dale Zaccaria (poetessa),
– Gianluca Paciucci (poeta),
– Adriana Giacchetti (Coro Sociale di Trieste),
– Gianmarco Pisa (operatore di pace).

«Il nesso tra pace, giustizia e cultura è, senza dubbio, tra i più significativi nei percorsi di trasformazione del presente e nella lettura degli eventi del passato.
Attraverso i patrimoni culturali e i luoghi della memoria, mediate dalle memorie collettive e dalle pratiche sociali, le eredità del passato si stagliano sul presente e si proiettano verso il futuro, ridando densità a parole sempre attuali, solidarietà, fratellanza, unità.
In un’ampia esplorazione sul campo, tra etica ed estetica negli spazi del conflitto, la ricerca-azione «di terra e di pietra» si interroga, al tempo stesso, sui percorsi della democrazia e sulle condizioni della trasformazione, nella prospettiva della pace con giustizia».

Tutti i dettagli:
https://www.eirenefest.it/evento/arte-per-la-pace

EireneFest – Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza:

https://www.eirenefest.it

L’ULTIMA SPIAGGIA
Mentre inondazioni e mareggiate si mangiano le coste, il Comune di Comacchio progetta altro cemento

Se vi chiedessero di scegliere tra un bel cazzotto sui denti o un calcio negli stinchi, uomo o donna che foste, non credo proprio che accettereste il dilemma. Rifiutereste l’opzione, perché in ogni caso dovreste accettare qualcosa di distruttivo. Ebbene, quello che si sta profilando in queste settimane, sulla costa comacchiese, dopo un lungo iter amministrativo, non è altro che la scelta tra due mali.  E la tremenda tragedia umana e ambientale a cui stiamo assistendo in diretta in queste ore nei territori emiliano-romagnoli e marchigiani  ce lo ricorda con estrema chiarezza. Perché è proprio la lunga saga cementizia, fatta di innumerevoli scelte pubbliche e private, che si dipana senza soluzione di continuità dagli anni Sessanta ad essere sul banco degli imputati.

Oggi parliamo di uno dei quattro progetti inseriti in quello che tecnicamente è indicato come PROGETTO SPECIALE PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO PER LA RIGENERAZIONE TURISTICA E AMBIENTALE DELLA COSTA” , le cui radici affondano in uno degli ultimi atti della giunta di Marco Fabbri, nel 2015, in estrema sintesi recuperabili a questo link  di Estense.com.

Ma dove sta la “rigenerazione” invocata nel titolo di questa pianificazione? Secondo i fautori dell’operazione, [Vedi il sito del Comune di Comacchio] sta tutta in una semplice sottrazione: un bilancio negativo in termini di consumo di suolo pari a mq. – 148.358, derivante dalla differenza tra la superficie sottratta ad edificazione prevista dall’ultimo PRG (mq.  – 536.333) e la superficie territoriale agricola investita dagli interventi (mq. + 387.975).
Sottrazione che ricondotta alla sola superficie impermeabilizzata – certamente quella più impattante, anche se  i problemi alla fine sono tanti altri  – ci rivela tutta la sua pochezza. Utilizzando la stessa fonte, essa diventa: 156.346 -159.824 = – 3.478 mq.  Un risultato praticamente nullo. Provando a visualizzare questi numeri abbiamo quasi 24 campi di calcio di nuovo cemento, con una riduzione, rispetto alle cifre del vecchio PRG di mezzo campo da calcio. Viene quasi da ridere, tenuto conto che proprio questo dato, cioè nulla, viene sbandierato dai fautori del progetto, come  un grande successo dello strategico accordo tra pubblico e privato.  Prima dell’accordo era un cazzotto sui denti, adesso è sceso alle parti basse. Un bel successo, non c’è che dire.

Ironia della sorte, la Regione sta promuovendo da quasi due anni un grande processo partecipativo – sul modello Agenda 21, di una ventina di anni fa – dall’evocativo titolo “Che costa sarà ? “ .

Qui tutti i documenti elaborati ed adottati dall’inizio del percorso, nonché i prossimi appuntamenti

L’iniziativa, leggiamo nella presentazione, si inserisce nel “progetto europeo AdriaClim (finanziato dal programma Interregionale Italia-Croazia, Strategico, 2020-2022) che punta a migliorare la resilienza climatica dei territori costieri nel bacino adriatico attraverso lo sviluppo di piani di adattamento, strategie, azioni e buone pratiche per la mitigazione degli impatti sulle zone costiere, fornendo strumenti informativi e scenari di maggiore dettaglio e accuratezza rispetto a quelli attualmente disponibili.”

Perché dai documenti presenti nel portale che la Regione dedica alle tematiche connesse alla difesa della costa, la situazione ambientale appare piuttosto grave. [Qui]

Novembre 2022, erosione spiagge del litorale comacchiese (FE)

Gli indicatori principali di questo delicato ecosistema sono già fortemente stressati e le condizioni al contorno allarmanti: sistema dunoso assente in vasti tratti del litorale, alti livelli di antropizzazione, fortissima erosione costiera.  I dati sulle ultime mareggiate sono altrettanti campanelli d’allarme. Nell’ultima del novembre 2022, si legge in uno dei rapporti regionali:
Gli impatti sono stati particolarmente concentrati nel territorio ferrarese, dove si sono riscontrate tutte le tipologie di danno utilizzate nella classificazione regionale degli impatti da mareggiate (DB in_Storm), ovvero: erosione dei litorali, ingressioni marine, tracimazioni di canali, danni alle opere di difesa costiera e danni agli stabilimenti balneari. La ricorrenza degli impatti in questa porzione di territorio sta diventando piuttosto allarmante ed è da attribuire all’elevato grado di vulnerabilità morfologica della costa, ad una dinamica evolutiva sfavorevole e all’eccessiva antropizzazione”. 

Bene ! Anzi male. Cioè, malissimo.

Come afferma nelle proprie Osservazioni il Circolo Legambiente “Il delta del Po”, in vista della Conferenza dei Servizi che in questi giorni esaminerà questo specifico progetto:
La norma sul consumo di suolo (Legge Regionale N. 24 del  21 dicembre 2017) è chiara nelle sue finalità:  il limite di consumo di suolo è definito al 3% ,  ma sono presenti articoli che prevedono delle deroghe.  Queste deroghe producono un consumo di suolo di ben 186 ettari nell’area della costa nel Comune di Comacchio.
Vi  sono presenti valori ambientali e tutele disposte dall’Ente Parco Regionale E-R. Delta del Po (Piano di Stazione Centro storico Comacchio): boschetti; aree con presenza di specie vegetali tipiche delle dune e ambienti
retrodunali (vegetazione pioniera, Orchidee spontanee); corridoi ecologici composti da residui di vegetazione costiera (pungitopo, Ginepro, Rovo, pioppo bianco); presenza di frangivento a tutela di suddivisione di terreni agricoli che sono eredi di un’antica conformazione del territorio; presenza conclamata di residui dunosi e presenza di residui culturali locali (vigne e bosco eliceo).

E ancora.

Tale intervento risulta difforme a direttive dell’ONU e della UE (citate nel testo).   Difforme anche da quanto è stato acquisito dallo Stato Italiano circa le problematiche dovute ai cambiamenti climatici in aree delle coste Italiane, comprese aree demaniali.  Palesemente in contrasto con la politica  ambientale adottata dalla stessa  Regione  E-R, la quale sta spendendo soldi pubblici per mettere in sicurezza la costa del Comune di Comacchio. (…) Organi della Regione stanno producendo relazioni che sembrano non venire prese in considerazioni da chi questa Regione la governa.

Contraddizioni ben espresse oltre dieci anni fa dai Punkreas, nella loro ironica ballata “L’ultima spiaggia” .  Perché se non ci seppellirà una risata, lo farà presto il mare. Per ora, purtroppo, lo stanno già facendo i fiumi.

Sfoglio tristemente l’album dei ricordi
Primi del 2000 tra boschi e prati verdi
Surriscaldamento, si diceva un tempo
Roba di poco conto
Tormentone del momento

Invece poi
Noi non ci siam fidati dell’esperto
Che aveva garantito un deserto,
Dei cammelli su una duna
Che da Bergamo a Verona
Osservan la partenza della gente della zona
Pronti per sfidare il mare e andare verso

L’ultima spiaggia, meta selvaggia
Alla ricerca di un tesoro o forse
Di un po’ di pioggia
Sull’ultima spiaggia
Nella borraccia ho ancora qualche goccia

Viaggio su un barcone
Con un gruppo di padani
Che il sole del deserto
Ha trasformato in beduini
Dicon che in Islanda son sbocciati i fiori
Cercan manovali per raccoglier pomodori

Mentre noi se avessimo ascoltato quell’esperto
Non ci sarebbe traccia del deserto,
Dei cammelli su una duna
Che da Bergamo a Verona
Osservan la partenza della gente della zona
Pronti per sfidare il mare e andare verso

 

Cover: Novembre 2022, mareggiata, e conseguente inondazione ed erosione delle spiagge nel litorale ferrarese e ravennate (foto:  Protezione Civile dell’Emilia-Romagna).

 

When the levee breaks…
​Il concerto di Springsteen a Ferrara: bello senz’anima


When the levee breaks… (Quando l’argine si rompe…)

​Il concerto di Springsteen a Ferrara: bello senz’anima

Non è sempre facile essere persone coerenti di questi tempi; non so voi ma io confesso che, certe volte, non riesco ad esserlo.
Talvolta, soprattutto di fronte a scelte difficili, provo a vivere le mie contraddizioni anche se questo approccio mi risulta difficoltoso e travagliato; tendo poi a scendere a compromessi con me stesso, anche se è un’impresa molto ardua.
È naturale quindi che certe mie decisioni siano sofferte e tormentate: a volte le credo coraggiose ed intransigenti, altre volte sono ambigue e condiscendenti.

Un esempio al proposito riguarda il concerto di Bruce Springsteen a Ferrara.

Lui è un artista che conosco musicalmente da 50 anni, che stimo moltissimo, che ho già visto in concerto e che rivedrei a oltranza.
Sono stato fra i primi a comprare i biglietti anche se sono rimasto molto sorpreso rispetto alla scelta della location per il concerto perché il Parco Bassani di Ferrara non è certamente un’area appropriata.

Ho preso l’impegno, con me stesso, di andare al concerto ma di usare quei 12 mesi di tempo per lottare affinché la sede fosse spostata nella zona dell’aeroporto, già usata in passato per grandi eventi (vedi Festa Nazionale dell’Unita nel 1985).

Quello che è successo in questi mesi è sotto gli occhi di tutti: l’amministrazione locale, già poco trasparente sui dettagli economici riguardanti il concerto, ha deciso di mantenere la sede del Parco Urbano dimostrando di non saper accogliere le critiche, anche se costruttive, presentate da Save The Park.

Nonostante questo, ho deciso faticosamente di andare al concerto di Bruce Springsteen al Parco Urbano perché è legittimo immaginare che questo sia uno dei suoi ultimi tour mondiali.

Inoltre, quello che è successo in questi ultimi giorni è sotto gli occhi di tutti: a pochi giorni dal concerto, la natura si è ribellata all’uomo e ha cominciato a farsi sentire in maniera molto violenta.

Ha demolito argini facendo esondare diversi fiumi, ha allagato intere città della vicinissima Romagna producendo disastri inimmaginabili.

Il territorio, trascurato da tempo e martoriato da asfalto e cemento, ha vomitato la sua rabbia creando inondazioni tremende e frane terribili; ha invaso e ha distrutto i luoghi dell’uomo. Città e paesi molto vicini a noi sono devastati; diverse persone sono morte.

In tanti abbiamo pensato che fosse giusto rinviare oppure annullare il concerto ma le risposte date dall’organizzazione si possono catalogare sotto la voce: “The show must go on” (Lo spettacolo deve andare avanti), insieme agli affari.

Se provo per un attimo a mettermi nei panni del sindaco di Ferrara, ammetto che non sarebbe stato facile annullare questo concerto pertanto posso capire le difficoltà che ci sarebbero state. Piuttosto contesto due cose: la modalità comunicativa scelta (assente quella istituzionale nei giorni precedenti e solo sui social network nel giorno stesso) e alcuni contenuti del post su Facebook: in particolare, la presunta difesa dei lavoratori dello spettacolo che hanno lavorato molto sodo ed in condizioni difficilissime nei giorni precedenti ma che sarebbero stati pagati comunque anche ad evento annullato e la scelta di destinare una cifra al comune di Faenza che mi sembra irrisoria.

Nonostante questo, seppur con l’animo tormentato, ho scelto di andare al concerto di Bruce Springsteen al Parco Urbano portando con me uno zaino pieno delle mie contraddizioni e del bisogno di sentire dal palco, insieme alle sue canzoni straordinarie, qualche parola di solidarietà sulla tragedia avvenuta a qualche decina di chilometri da Ferrara e, magari, rivolta anche a tutte quelle persone che sono state costrette a rinunciare al concerto.

Durante il percorso fangoso che ci ha portato al nostro settore, accompagnati dall’odore tipico della paglia bagnata messa per terra per rinforzare il terreno, pensavo al Parco e al suo attuale sfruttamento consumistico. Camminando in fila, cercando di evitare gli acquitrini più profondi, mi sono chiesto quale fosse l’albero piantato per mia figlia, nel 1992, dall’amministrazione di allora che aveva dimostrato di saper progettare il futuro mettendo a dimora una pianta per ogni bambino o bambina nati in quegli anni.

Procedendo, guardavo stupito il costo spropositato della merce ufficiale: 40 euro per un cappellino, 50 euro per una maglietta e 90 euro per una felpa; ho pensavo agli anni settanta quando, per molto meno, si contestavano alcuni cantautori per il prezzo dei loro concerti. Mi è venuto in mente il più “alternativo” dei miei compagni di classe di allora che definiva “industrialotti del rock” alcuni dei nostri miti musicali, demolendoceli in un attimo con uno slogan talmente efficace da essere ancora attuale.

Dopo una grandissima performance di Fantastic Negrito ed una buona esibizione di Sam Fenders, alle 19.30 è salito sul palco l’uomo che in tanti stavamo aspettando: il cantante, l’artista, il mito, l’idolo.

Mi aspettavo che Bruce Springsteen iniziasse il concerto parlando della tragedia che stava succedendo intorno a Ferrara; mi sembrava legittimo aspettarselo da uno che non si è mai risparmiato in quanto ad impegno sociale e ad iniziative di beneficienza.

Invece “Ciao Ferrara” e via con le canzoni.

Non è facile, quindi, raccontare questo concerto che è stato bellissimo; certo non all’altezza di quelli visti decine di anni fa ma 3 ore non sono poi così facili da reggere per un uomo di 73 anni che ha scelto una scaletta davvero intensa[1], eseguita con la sua inesauribile energia e la risaputa potenza della E Street Band.

Molti di questi brani sono stati resi unici dal canto all’unisono di tutto il pubblico (“Because the night” in particolare). Segnalo, fra tutte le altre canzoni memorabili, la straordinaria cover di “Nightshift” che i Commodores dedicarono a Marvin Gaye e Jackie Wilson, due immensi cantanti della musica soul; Bruce l’ha interpretata con rispetto e delicatezza lasciando a due suoi coristi un finale davvero da brividi.

In tutto questo alternarsi di pezzi storici, nemmeno una parola sul dramma che ha sconvolto la Romagna.

Conoscendolo come persona sensibile che sa raccontare in modo unico i tormenti della povera gente, quel suo silenzio iniziale è stato straordinariamente significativo; qualche giornalista ha scritto che “No surrender” (Nessuna resa), brano d’apertura del concerto di Ferrara, era un messaggio di incoraggiamento alle popolazioni colpite. Non è così perché la grandissima parte dei concerti di apertura di questo tour iniziano tutti con questa canzone.

Ho sperato che trovasse un momento, durante il concerto, per far sentire la sua vicinanza e che portasse la sua solidarietà, magari introducendo uno dei suoi tanti brani adatti in scaletta. Ho sorriso immaginandomi come Nanni Moretti nel film “Aprile” quando, di fronte alla televisione, pregava D’Alema di dire una cosa di sinistra; io invece lì a sperare che Springsteen dicesse almeno “una cosa di civiltà”. Ho addirittura fantasticato che annunciasse umilmente di destinare una parte dell’incasso alle popolazioni colpite.

Invece mi è toccato restare stupito di fronte all’assenza di uno degli elementi fondamentali presenti nei concerti di Springsteen: l’anima.

Lo show di Ferrara è stato grande, potente, bello, però di un bello senz’anima; tutto l’insieme mi è sembrato un baraccone gigante, portato in giro da un abile imprenditore, pronto ad essere presentato su qualsiasi pubblica piazza ma indifferente a ciò che succede al di fuori.

Anche i suoi due discorsi toccanti prima di “Last man standing” e di “I’ll see you in my dreams”, erano accompagnati da sottotitoli proiettati sul maxischermo a testimoniare la non spontaneità di quelle belle parole.
Non è una cosa che ci si aspetta da un personaggio mitico come Bruce Springsteen; il mio vecchio compagno di classe direbbe che è una cosa da “industrialotto del rock”.

Sono uscito lentamente verso casa riconoscendo che l’organizzazione è stata buona e la città ha retto bene ad un afflusso così notevole di spettatori.

Il Parco Bassani calpestato, fisicamente e simbolicamente, ha subito un colpo durissimo: penso che ci vorrà un bel po’ di tempo per rimetterlo in sesto anche se, di farlo, non credo interessi molto all’amministrazione e a Barley Arts visto che già per il prossimo 2 luglio hanno organizzato un altro evento al Parco Bassani, con addirittura due palchi su cui si esibiranno diversi artisti molto conosciuti.

Anche io mi sono sentito un po’ calpestato, non solo fisicamente sui piedi, ed ora ho bisogno di uscire dall’immobilismo del fango dell’altra sera e di darmi una mossa.

Mentre scrivo ascolto:When the levee breaks (Quando l’argine si rompe), composta ed interpretata da Memphis Minnie nel 1929: parla degli sconvolgimenti dovuti all’alluvione del Mississippi nel 1927. Lo stesso brano è stato reso molto famoso dai Led Zeppelin nel 1971.

Nel testo dice che “quando l’argine si rompe, bisogna darsi una mossa” (When the levee breaks, mama, you got to move).

Nel mio piccolo, ho fatto una prima piccolissima mossa: una donazione alla Protezione civile dell’Emilia-Romagna  (trovate tutti i riferimenti in primissimo piano su Periscopio) per l’alluvione in Emilia Romagna dello stesso importo del biglietto pagato profumatamente per il concerto di Bruce Springsteen.

D’altronde ognuno vive le sue contraddizioni come può, le accoglie se e come vuole e le affronta per come è.

La scaletta del concerto: No Surrender, Ghosts, Prove It All Night, Letter to You, The Promised Land, Out in the Street, Candy’s Room, Kitty’s Back, Nightshift, Mary’s Place, The E Street Shuffle, Johnny 99, Last Man Standing, Backstreets, Because the Night, She’s the One, Wrecking Ball, The Rising, Badlands, Thunder Road.

Questi sono stati i brani eseguiti come bis: Born in the U.S.A., Born to Run, Bobby Jean, Glory Days, Dancing in the Dark, Tenth Avenue Freeze-Out e I’ll See You in My Dreams.

Bruce Springsteen al Parco Urbano
Senso del limite, ipocrisia e “solidarietà” nella società dello spettacolo

 

Il senso del limite

Ripeto ciò che dissi appena la notizia fu confermata, oltre un anno fa: il concerto di Bruce Springsteen a Ferrara avrebbe dovuto essere organizzato in un luogo diverso dal Parco Urbano intitolato a Giorgio Bassani. Ho firmato l’appello, abbiamo intervistato i protagonisti della campagna “Save the Park”, come giornale siamo stati “al loro fianco”(leggi qui solo uno dei numerosi articoli dedicati al tema su Periscopio). Non era solo una questione di decibel: quel parco in passato ha ospitato spettacoli pirotecnici che salutavano l’inizio dell’estate con fragori, scoppi e botti che non avranno fatto bene alla fauna del luogo tanto quanto gli amplificatori del Boss. Non era nemmeno una questione di organizzazione, che sembra invece avere funzionato al meglio, in una situazione resa ancora più complicata dal clima alluvionale che ha accompagnato l’evento. Era ed è, credo, una questione di senso del limite. Esiste un luogo per ogni cosa. Un luogo, per il solo fatto di essere bello e suggestivo – ma spesso, proprio per questo, delicato – non può essere adatto per ogni cosa. Questo limite fu varcato in modo eclatante la prima volta nel 1989, con i Pink Floyd su una chiatta di 90 metri per 30, di fronte a Palazzo Ducale a Venezia. La città fragile per antonomasia, invasa da circa 200.000 persone intruppate in un posto non adatto per quell’assalto.

Per restare in Italia, il limite è stato poi programmaticamente varcato da Lorenzo Cherubini con il suo Jova Beach Party, che ha voluto radunare decine di migliaia di persone su spiagge e litorali destinati, per natura, ad un utilizzo antropico decisamente meno invasivo – e non voglio utilizzare termini come “distruzione di aree marine protette”, che lascio ad associazioni con maggiori competenze delle mie per poter parlare a nome del fratino, della tartaruga e del giglio di mare.

Per ultimo, in termini cronologici e di risonanza mediatica, è toccato infine a Ferrara varcare il limite, per diventare il centro di una polemica che, naturalmente, si è fatta subito politica oltre che “ambientale”. Del resto chi patrocina questi spettacoli, com’è naturale, intende trarne un grande vantaggio d’immagine, così come chi li osteggia intende sporcare l’immagine del patrocinatore, che spesso è un sindaco.

 

La contrapposizione tra fazioni

E’ apparso subito chiaro che questa contrapposizione tra fazioni non incontrava l’interesse degli appassionati accorsi da ogni dove (e quello si può comprendere), ma nemmeno lo spirito di molti ferraresi. Il motivo è semplice: la passione per il musicista del cuore superava nettamente ogni sovrastruttura “ideologica”. Il Boss arriva nella mia piccola città, ergo io compro il biglietto e lo vado a vedere, anche se il luogo del concerto è “politicamente scorretto”, anzitutto per la mia sensibilità civile. La passione o l’idolatria sono più forti del “dover essere” coerenti con le proprie idee, civili, “progressisti”. Vale anche il contrario: un sacco di gente ama Springsteen, il cantore degli ultimi, il narratore in musica della fallacia del sogno americano (che in realtà incarna alla perfezione), ma non ha mai votato né mai voterà per un partito di sinistra.

Un po’ di questa trasversalità è attribuibile all’autorevolezza dell’artista. Già la musica di per sè è un grande aggregatore, e quando un musicista oltrepassa una determinata stargate, diventa credibile non per le cose che dice ma per il fatto di essere se stesso. La sua credibilità – o la credibilità che riesce comunque a rappresentare al pubblico – gli fa acquisire una popolarità transpolitica, che sorvola tranquillamente le barriere ideologiche (e questa è una scommessa vinta dall’attuale amministrazione). Nel caso di The Boss, oltre alla produzione discografica, sono proprio i concerti che lo hanno consacrato, al punto da far diventare luogo comune la frase “il mondo si divide in due: chi ama Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo”.

Il resto della trasversalità lo fa la psicologia delle masse. Quando un artista tocca determinate corde, l’ emozione che suscita in noi si pone su un piano diverso e parallelo rispetto alle nostre idee. Le passioni e le emozioni prevalgono sulle convinzioni. Poi accade un fenomeno affascinante e sinistro:  quando l’artista diventa una star, l’identificazione collettiva acquista una potenza inquietante allorché ogni persona facente parte della collettività si sente chiamata in causa singolarmente, come se quella frase o quel giro armonico fossero dedicati proprio a lei, anzi parlassero di lei. Cosa volete che pesi un parco calpestato rispetto all’emozione di sentire il Boss che ti fa ritornare live a quel momento della tua vita in cui stavi male e quella canzone “ti ha salvato la vita”? Quella, proprio quella che sta cantando adesso davanti a te, anzi per te.

 

Ipocrisia e solidarietà

Mi tengo per ultimo il temibile effetto che la “società dello spettacolo”, della quale tutti vogliamo fare parte, sta producendo sulla nostra psiche. Intanto, per la precisione: se Ferrara fosse sott’acqua, il GP di Imola si sarebbe svolto regolarmente. Questo lo sanno tutti. Quindi lo scandalo per la conferma “immorale” dello spettacolo ferrarese appare, ai miei occhi, ammantato da uno spesso velo di ipocrisia.

Inoltre. Adesso vanno di moda queste manifestazioni collettive di solidarietà gratuita. Un attentato fa mattanza di una redazione di giornale, il giorno dopo “siamo tutti Charlie Hebdo”. Dopo la caduta delle Torri Gemelle siamo stati tutti newyorkesi, per un mese. Dopo il terremoto eravamo tutti di Amatrice. Adesso siamo tutti emiliano-romagnoli. Ognuno a casa sua, naturalmente, davanti al pc o allo smartphone – e ci mancherebbe anche che ci si muovesse in massa percorrendo strade allagate, franate o inghiottite dalla melma. Tuttavia quello che fa indignare è la mancata dichiarazione. Attenzione: non la mancata azione, ma la mancata dichiarazione di solidarietà, compresa l’omissione di Springsteen dal quale tutti si aspettavano una “parola di conforto”, una “manifestazione di vicinanza”. La solidarietà nella società dello spettacolo vale in funzione di due parametri di misura: la pubblicizzazione della stessa e la sua gratuità. Facendo una dichiarazione sul palco, Springsteen avrebbe catturato entrambi i piccioni con una fava: avrebbe confermato la sua fama di artista “vicino agli ultimi” e avrebbe potuto permettersi di non versare un euro. Personalmente gli riconoscerei la fama di cui gode se facesse una robusta donazione e non lo venisse a sapere nessuno.

 

Per certi versi /
La ballata di Toro Seduto

La ballata di Toro Seduto

Toro Seduto
In realtà eri bisonte seduto
Ma Toro fa più figo
Tanto eri lento
E acuto
A
Mettere le tue scelte
In frigo
Per sempre
Resta il little big horn
Ai bianchi facesti la  festa
La violenza non ti apparteneva
Fu necessaria
Per non dimenticare
Non estinguersi
Continuare
Ti hanno ucciso a tradimento
Poi il successo postumo
La leggenda
Senza tempo
Cinema
Letteratura
Persino il Lego
Con una scultura
Ma in fondo alla storia
Che dà fastidio
C’è il grumo
Della riserva
Sulla soglia
Del genocidio

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Avanti, avanti

Presto di mattina. Avanti, avanti

Il Diritto di avere diritti

Questa istanza, il diritto di avere diritti, costituisce l’appello insistito e pressante, di più, implacabile contro la mancanza o la negazione di un diritto che va oltre quei diritti umani e di cittadinanza circoscritti entro i territori degli stati e delle nazioni.

Si continua a discriminare e a respingere ai confini e nelle zone di transito le persone in movimento: le periferie diventano così bolle di umanità in sospensione o come acque mortificate, relegate in una pozzanghera, una «schiuma della terra» che si accresce e fluttua attorno ai confini trasformati in arginature di uomini.

L’imporsi degli stati nazionali attraverso il radicamento sulla terra e l’uniformità della popolazione crea barriere di esclusione, dove i diritti particolari propri ad ogni nazione e ai singoli prendono il sopravvento sui diritti umani, di tutti.

La suddivisione dell’umanità in famiglie di nazioni lascia scoperti, senza diritti, coloro che, valicando frontiere ed essendo in transito, non dispongono più di cittadinanza e dunque di protezione. Uomini senza nazione, senza stato, apolidi senza polis, restano privi di ogni tutela in balia delle ideologie nazionaliste che li considera intrusi, sgraditi, «superflui».

«Il diritto di avere diritti»: è questo in sintesi l’appello di Hannah Arendt espresso in un testo scritto di getto nel 1943 due anni prima del suo arrivo a New York. Testimonianza del suo migrare, come apolide, di nazione in nazione, a partire da quando era internata in Francia nel campo di Gurs nei Pirenei come “straniera nemica”.

Raggiunta l’America quello scritto, We Refugees diviene un libretto, come un manifesto politico duro, ironico e amaro sulla condizione degli stranieri anche in una nazione “amica”. Ora ritorna per noi in una nuova edizione: Noi rifugiati, a cura di Donatella Di Cesare, Einaudi Torino, 2022.

Una memoria capace di rinnovare temi fondamentali, come il concetto di umanità e responsabilità umana. Una memoria che ferisce e mortifica ma, al tempo stesso, illumina e dischiude la coscienza che continua a interrogarsi.

Di dirompente attualità, il libro suona come un reiterato invito, a ripartire dalla esperienza della Arendt durante la fuga dalla Germania, per riflettere anche oggi sui diritti umani dei rifugiati, sulle migrazioni di interi popoli:

«Sembra che nessuno voglia sapere che la storia contemporanea ha creato una nuova specie di esseri umani – quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici» (ivi, 6).

Manca un diritto che oltrepassi le frontiere nazionali, che alzi la voce su tutte le altre voci e non si fermi ai diritti riconosciuti solo dall’interno degli stati. «Manca un diritto cosmopolitico che assicuri i diritti umani» (Donatella Di Cesare, ivi, 83), soprattutto oggi che i nazionalismi e le ideologie totalitarie sembrano prendere il sopravvento sullo stato costituzionale, rendendolo impotente di fronte al superiore senso di umanità.

Scrive la Arendt in un altro testo Le origini del totalitarismo: «Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni) solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo» (ivi, 410-411).

E inizia questo scritto dicendo: «Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”. Fra noi ci chiamiamo piuttosto “nuovi arrivati” oppure “immigrati”».

Si è oggi di fronte ad un nuovo popolo mondiale, popolo di popoli: «contro questo popolo si erge lo Stato, l’ultimo baluardo del vecchio assetto politico, dell’obsoleto nomos della terra. Scaturisce da qui il conflitto acuto tra la sovranità statuale e il diritto di migrare, tra una cittadinanza ristretta ai confini e una nuova cittadinanza in cui sia inscritta l’ospitalità…

Già alla sua radice etimologica il verbo “migrare”, che non è un sinonimo di muoversi, indica il cambio, o meglio, lo scambio complesso di luogo, e rinvia al paesaggio in cui si incontra l’altro, un incontro che, per via del luogo, potrebbe sempre precipitare in uno scontro. Migrare è un atto esistenziale e politico.» (Donatella di Cesare, ivi 34-35).

Fare spazio a coloro che non possono più tornare indietro e non trovano una nuova casa diventa così e primariamente una questione di ospitalità, come accogliere e fare posto, dare diritto a persone che altrimenti resterebbero confinati ai bordi, nelle zone di transito e in campi di internamento senza via di uscita, prigionieri di un diritto nazionale che prevale sul diritto di vita e di umanità.

«In mancanza di un “diritto ad avere diritti”, coloro che più dovrebbero essere protetti, ricevuto lo stigma della superfluità, (I “superflui” li chiama la Arendt) vengono consegnati alle polizie di tutto il mondo per essere respinti, deportati, internati. La loro condizione è peggiore persino di quella in cui si trova chi abbia commesso un reato. Perché a quest’ultimo, che gode di uno statuto giuridico, nessuno può negare un processo. Al contrario, lo straniero può venire arbitrariamente arrestato e recluso, può essere confinato in un campo di internamento» (Donatella Di Cesare, ivi, 47).

La schiuma della terra

«Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, la schiuma della terra. A niente di quanto avvenne dopo la prima guerra mondiale si poté porre rimedio; e, per quanto prevista, nessuna sciagura, neppure lo scoppio di un secondo conflitto mondiale, poté essere impedita» (Hannah Harendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, 362).

Anche i giornali francesi chiamavano quei profughi, uomini e donne venuti da tutte le parti di Europa e ammassati nei campi di internamento costruiti nel sud dei Pirenei, “la schiuma della terra”.

Hannah Arendt passò cinque settimane a Gurs il più grande di questi campi e riuscì poi ad evadere durante l’avanzata tedesca con determinazione coraggiosa, spericolata, evitando così la deportazione nei campi di concentramento e di sterminio.

Dopo essere stato un campo per esuli spagnoli, Gurs divenne dal 1940 un campo femminile, una vasta distesa di terra divisa in tredici settori chiusi da filo spinato che poteva ospitare fino a 20 mila persone; un campo composto da più di trecento baracche che potevano contenere circa 60-70 individui in uno spazio ristrettissimo.

Scrive la Arendt che: «quando alcune di noi osservarono che eravamo state deportate lì “pour crever”, per crepare in ogni caso, l’umore generale si mutò di colpo in un feroce coraggio di vivere» (Noi Rifugiati, 13).

Schiuma della terra Arthur KoestlerLa schiuma della terra è pure il titolo di un libro autobiografico di Arthur Koestler in cui narra le vicende degli esuli, in fuga dai totalitarismi. “Straniero indesiderabile”, ebreo e antifascista, fu rinchiuso nel campo di internamento di Vernet sempre nei Pirenei, da cui evase con l’aiuto inglese per recarsi come clandestino in Francia, ove si arruolò nella Legione straniera e riuscì alla fine a raggiungere l’Inghilterra.

Così Koestler descrive coloro che non si rendevano conto del dramma disumano che stava per travolgere tutta l’Europa dopo il 1940: erano come «passeri che cinguettano sui fili telegrafici mentre il filo trasmette telegrammi con l’ordine di uccidere tutti i passeri» (il Mulino, Bologna 1989, 161).

Hannah Arendt pioniera di “un diritto ad avere diritti” prende posizione sul quel diritto che è fermato e respinto alle frontiere e così conclude il suo manifesto: «I rifugiati, scacciati di terra in terra, rappresentano l’avanguardia dei loro popoli – purché mantengano la propria identità. Per la prima volta la storia ebraica non è separata da quella di tutte le altre nazioni; al contrario, è strettamente connessa. Il consesso dei popoli europei è andato in frantumi quando si è consentito che i membri più deboli venissero esclusi e perseguitati» (Noi Rifugiati, 30).

Un mondo di pietra

Il mondo di pietra è una raccolta di venti brevi racconti di Tadeusz Borowski ora confluiti in una nuova raccolta: Da noi, ad Auschwitz, Mondadori, Milano 2023, a cura di Luca Bernardini che di lui scrive: «è difficile scrivere di Tadeusz Borowski, perché la sua opera è disuguale, frammentaria, incompiuta e insieme tragica, grandissima e dolorosa. Un’opera che riflette alla perfezione il suo autore, un uomo contrassegnato dalla tragedia, pieno di contraddizioni, scrittore di purissima razza, di cui rimangono un pugno di racconti e un gran numero di aspirazioni infrante, di desideri delusi» (ivi, VII)

Il mondo è di pietra, incapace nel profondo di umanità; ci si può illudere in tempo di pace del contrario ma questa è solo una patina che squarciandosi rivela la sua essenza di disumanità; come se quella disumanità radicale, quell’eccesso indicibile di male ad Auschwitz continuasse ad esondare nel mondo anche dopo la fine di quel campo di concentramento:

«La prospettiva di Borowski è esclusivamente immanente, talmente interna al lager che nei suoi racconti non appare un solo commento, una sola riflessione autoriale. E nella immanenza del lager Borowski scopre che l’uomo può assuefarsi a tutto, anche al male. Anche al male più inimmaginabile… Quella del lager non è un’esperienza contingente e circoscritta, ma proietta la sua ombra all’indietro e in avanti.» (ivi, VII e XXI)

Tenebra: come pioggia putrefatta

Come il volto di un cadavere livida si fece la tenebra
fendette gli occhi con pioggia putrefatta
fetente come un morbo era la notte
trascinata fin qui d’oltre oceano.

Io nella notte enfia di pioggia
nel buio denso e nero di pece
per il campo e gli zuppi sentieri
erravo come un cane, senza requie.
Dal Block di grida strozzato
mi avvicinai al filo spinato,
ove frugava nella terra silente
il compagno del compagno morente.
Io in quella notte gonfia di pioggia
campo e mondo daccapo ho rifatto.
Io nella notte la patria cercavo
e dei compagni infine ho trovato.
(Notte d’oltre oceano, ivi, 281-282)

Accusato dagli intellettuali cattolici polacchi di cinismo e nichilismo e dall’intelligencija comunista, di pessimismo borghese, ritenuto autore di testi privi di coscienza di classe, gli fu chiesto di abiurare ai suoi racconti del campo di concentramento perché distopici, mancanti di utopia.

E tuttavia sopravvivono nei suoi racconti elementi umanistici, in cui egli cerca di mettere in salvo qualcosa in quel mondo di pietra: l’arte, l’amicizia, sì l’amicizia, l’amore, l’istruzione anche attraverso un esercizio poetico che egli trasmette con la sua prosa narrante. In lui, sopravvissuto ad Auschwitz, sopravvive una poesia spoglia di poesia.

In una pagina terribile racconta dell’amico Andrzej Trzebinski a Varsavia. «Tra le macerie di via Nowy Swiat a Varsavia, chiusa a sud dalle rovine della chiesa di Sant’Alessandro e a nord dai resti della chiesa di Santa Croce e dal monumento a Copernico, ricostruito con i frammenti e con il globo infranto dai proiettili nella mano sforacchiata, quel tragico pezzo di muro scolorito non si distingueva più alcunché di particolare.

Sotto la lapide nera, sulle pietre del marciapiede, giacciono fiori appassiti, foglie secche che frusciano sotto i piedi dei passanti e i nastri sporchi e sgualciti delle corone. Le persone passano oltre, senza farci troppo caso. Qualcuno meccanicamente si porta la mano al cappello o al berretto. Qualche pia donna abbozza un segno della croce e mormora parole indistinte…

Ogni volta che passo accanto a questo tragico muro e sento il fruscio delle foglie e dei nastri smossi dai piedi dei passanti, penso ad Andrzej. È morto qui, durante un’esecuzione sommaria. È una delle centinaia di migliaia di persone fucilate ai muri delle case, sul marciapiede di una normale strada cittadina. Della sua morte venni a sapere da un nostro comune amico, redattore della rivista letteraria clandestina Droga

[Mi disse] “Andrzej lo hanno fucilato qui. Togliti il cappello. Lo sai che quando ti hanno arrestato, Andrzej cercò di ottenere dalla Delegazione del governo in esilio una dotazione per i pacchi? È stato uno dei primi a prendersi cura di te.» Purtroppo non si era preso cura di se stesso. Chi lo aveva visto anche una sola volta, se lo ricordava per tutta la vita. Se ne andava in giro con gli zoccoli, alto, non rasato, un lampo ironico negli occhi”…

“Sai, quei ragazzi – continuò il redattore quando superammo la chiesa di Santa Croce, dal cui portico il Cristo con la croce sulla spalla indicava la strada ai passanti – quei ragazzi maturavano in modo strano, prima della morte. Prendi Andrzej! Aveva rinnegato ogni angusta tendenza nazionalista. Sentiva in sé una vocazione d’artista. Ed era pur sempre il fondatore di un movimento culturale, di una formazione di artisti apartitici … strano ragazzo, strano davvero!

Fu portato al Pawiak. Era di buonumore. ‘Chi lo sa, magari adesso in questa cella avrò un po’ di tempo e riuscirò finalmente a scrivere la mia tesi di laurea?’. Non la scrisse. I condannati alla fucilazione levavano grida antitedesche, invocavano a gran voce la libertà. Nel cortile del Pawiak, per risparmiare, vennero privati degli indumenti e sui corpi nudi fecero indossare loro delle camicie di carta. E iniettarono loro qualcosa affinché non si dibattessero una volta legati.

Si trattava di un’esecuzione pubblica, non sarebbe stato un bello spettacolo. La sua bocca, la sua bocca di poeta, fu riempita di gesso e lo assassinarono in pieno giorno, sull’arteria principale della capitale, sotto lo sguardo dei passanti accalcati nei portoni. Ogni volta che passo accanto a quel muro rossastro e sgretolato ho l’impressione di essere colpevole: colpevole io e colpevoli tutti noi che siamo in vita» (Ritratto di un amico, ivi, 23).

Annota ancora Bernardini: «E a rendere il mondo migliore, per Borowski, c’è sicuramente l’amicizia, quella vera, che supera le barriere dottrinali, le incomprensioni filosofiche, le incertezze esistenziali… Ma così come l’amore, anche l’amicizia (e la rivalità politico-intellettuale), dopo Auschwitz, è menomata, corrosa, piagata dall’ecatombe:

[ …] “ne vedo i volti, oltre la soglia dell’altro mondo, e penso a loro, ai ragazzi della mia generazione, e avverto sempre più grande il vuoto intorno a noi. Se ne sono andati così indicibilmente vivi, dal nucleo stesso dell’opera che stavano creando. Se ne sono andati pur appartenendo così tanto, ancora, a questo mondo. Li saluto, amici su un’altra barricata. Che all’altro mondo possano trovare la verità e l’amore che qui non hanno incontrato!”», (XXIX; 109-110).

Su di noi la notte. Ardono le stelle,
cadaverico viola soffoca il cielo.
Di noi resteranno rottami di ferro
e sordo il riso beffardo delle generazioni
(ivi, 25).

Avanti, avanti

E tuttavia, mi sembra di sentire in quest’altre insistite parole, poesia spogliata di poesia, una breccia oltre la notte disumana alla follia, un invito a continuare, cercando un varco nel filo spinato respingente, nel muro rossastro in oblio una breccia, un approdo ancora non visto, ancora lontano in un mare pietrificato.

Lo sento pure un invito anche per me a fare quotidiane come il pane quelle parole, “Avanti, avanti”, pronunciate trepidando ogni volta che qualcuno busserà alla porta: “Avanti, avanti” e forse entrerà una di queste volte, sì entrerà quella “schiuma della terra”, ospite segreto che ad occhi fatti più umani di fronte al soffrire d’altri, sentito come nostro, apparirà come la stessa “avanguardia dei popoli”.

I poeti morti

Morti, bruciati, fucilati,
per voi scrivo, amici di gioventù.
Su di voi ora la corrente della terra si spinge avanti
e fruscia del fruscio delle piante.

Presi nei rizomi della felce,
nelle radici delle betulle, nei rovi di lampone
scivoliamo silenti, dove e perché?
Avanti, avanti ——
(ivi, 503-504).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

La Nuova e Vecchia Unità. Un po’ e un po’.

 

Un giornale sicuramente diverso dagli altri.
Come definire sennò un quotidiano che non riporta per tre numeri il disastro causato dall’alluvione in Emilia-Romagna, salvo poi ospitare nel quarto (oggi,19 maggio, ndr) un veemente fondo del direttore contro chi specula politicamente sulle sciagure?

Il richiamo in prima pagina all’intervista a Mélenchon, l’Unità n.2, 17 maggio 2023

E che nei suoi primi quattro numeri dedica ampio spazio a quattro personaggi della sinistra – Massimo d’Alema, Jean-Luc Mélenchon (leader di La France Insoumise), Achille Occhetto e Mario Tronti – per dirci (o insegnarci?) quali sono le strade per far rivincere la sinistra?

Che difende  senza mezzi termini papa Francesco e la sua iniziativa di pace per far cessare il conflitto tra Russia e Ucraina?

Che esordisce nel primo numero con una poesia di Pier Paolo Pasolini in prima pagina che parla di bandiera rossa come vessillo del povero?

Che in ultima mette una foto famosa di Enrico Berlinguer con l’invito ad abbonarsi?

Questa è la nuova Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci quasi 100 anni fa, tornato in edicola per la terza volta il 16 maggio scorso dopo un valzer di date che ne annunciavano l’uscita. Diretta da Piero Sansonetti (71 anni, ex direttore del Riformista, ex vice direttore e condirettore della “vecchia” Unità, direttore di Liberazione e de Il Dubbio, opinionista politico e molto altro), 12 pagine, grafica un po’ retrò, 100 mila copie dichiarate.

Il primo numero de l’Unità tornata in edicola,16 maggio 2023

Il giornale, la cui testata è stata comprata all’asta fallimentare dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo per 910 mila euro, sarà, come ha scritto Sansonetti nell’editoriale del primo numero, “socialista, garantista e cristiano. Che cercherà di tenere insieme Gramsci, Rosa Parks (la donna di colore di Montgomery, Alabama, che nel 1955 rifiutò di cedere il suo posto in autobus ad un passeggero bianco, divenuta un simbolo nella lotta per i diritti dei neri, ndr), Roncalli Mandela e Pannella”.

“Vaste programme”, direbbe De Gaulle. Noi non lo diciamo: tutte le voci e i tentativi di fare informazione sono leciti e hanno diritto di cittadinanza.
Ma c’è da chiedersi se il Pantheon evocato da Sansonetti regga alla sfida di questi tempi: cioè quella di far parlare una sinistra nuova rivolgendosi a molti, moltissimi, attraverso la carta stampata, che è una frazione (purtroppo ad importanza calante) dell’universo odierno dei media. Un tentativo si percepisce: quello di trattare le “grandi questioni” politiche da un punto di vista “alternativo”.

“Saremo dalla parte dei più deboli – ha affermato Sansonetti – per fare un giornale “sintesi del grande spirito del passato dell’Unità – la cultura, la saggezza, la responsabilità, il conflitto – e la ricerca della modernità. Nella certezza che la modernità sia uguaglianza. E libertà. E disarticolazione del potere”.

Cosa significhino queste affermazioni lo scopriremo solo vivendo, e leggendo il giornale.

Intanto, per guardare ai fatti, nessun giornalista o poligrafico della vecchia testata licenziato dopo l’ultimo fallimento è stato riassunto. E prossimamente andrà all’asta l’archivio storico del giornale, un patrimonio di grande valore. Vedremo in che mani finirà.

In copertina: L’Unità (nuova) numero 2,  17 maggio 20233, particolare

 

Storie in pellicola /
Air, il grande salto

Nike e Air Jordan, la straordinaria ascesa di un marchio che credeva di non farcela. Un contratto che cambierà per sempre il mondo dello sport e le sue regole di marketing.

Correva il 1984, Reagan alla Casa Bianca, le Adidas, le Converse, il primo Macintosh e la Nike. Molti di noi, vedendo le immagini di Air – La storia del grande salto, per la regia di Ben Affleck (qui anche attore), ricordano i tempi del liceo e quando la marca Nike, a chi frequentava il classico, portava senza dubbio alla “vittoria”. Ma poi come si pronunciava?

Qualcuno indossava timidamente le scarpe con la riga azzurra, con quel moderno logo Swoosh (la mia cara compagna di banco le aveva, una delle prime, ci giocava a tennis e quanto gliele invidiavo…), altri preferivano le Adidas o le Converse (o le italiche Superga, molto più nazional popolari). Si giocava sui colori, ma le si collegava ai grandi campioni.

Swoosh, onomatopea che in lingua inglese indica la velocità e il fruscio del vento. Un logo che, nella mente della sua creatrice Carolyn Davidson, rappresentava una stilizzazione delle ali della dea unita all’idea di velocità e di movimento. Eravamo pochi a saperlo.

Con esso, gli esordi di un giovanissimo Michael Jordan, per chi seguiva il basket, guardia della squadra collegiale di North Carolina che nel 1982 vinceva il titolo NCAA da protagonista (scelto poi nel draft NBA del 1984 dai Chicago Bulls con la scelta numero 3).

Un talento emergente conteso. Con quali scarpe avrebbe esordito agli NBA?

L’assalto al talento, conteso da Adidas e Converse e che di Nike non ne vuole sapere, viene sferrato da Sonny Vaccaro (Matt Damon), dirigente della divisione basket all’inizio degli anni Ottanta della Nike allora guidata dal visionario co-fondatore e amministratore delegato Phil Knight (Ben Affleck). Runner al college e nell’anima.

Vaccaro, grandissimo esperto di basket giovanile, ha l’intuizione di puntare tutto il budget a sua disposizione su un solo atleta, astro nascente: Michael Jordan, MJ.

Perché diventi la punta di diamante dell’azienda. Vaccaro, per spuntarla sulla concorrenza, cerca di convincere la famiglia Jordan ad accettare il contratto, facendo leva soprattutto sulla madre dell’atleta, Deloris (Viola Davis), la vera guida dietro il successo del figlio, la capofamiglia che ha fiuto per gli affari e grande intuizione. Lungimirante.

Il film-biopic racconta, con dialoghi brillanti e colpi di scena (e qualche parolaccia di troppo), la funambolica e avvincente opera di convincimento nei confronti di MJ e la creazione del famoso marchio Air Jordan, la scarpa che vola, fatta su di lui e per lui, una scarpa che si adatta al campione.

Una partnership leggendaria che rivoluzionerà per sempre il mondo dello sport professionistico e delle sue regole di marketing.

La leggenda di MJ parte proprio da quel contratto, che lo ha reso uno degli sportivi più iconici e ricchi di tutti i tempi, con un patrimonio personale di 2 miliardi di dollari.

 

Una storia di successo figlia del grande sogno americano.

 

Air – La Storia del Grande Salto, di Ben Affleck, con Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman, Marlon Wayans, Chris Messina, USA, 2023, 112 mn.

 

Aperta a Milano la mostra “Amazonia”, la più grande mai allestita in Italia.
L’abbiamo visitata senza pubblico, in compagnia di Sebastião e Lélia Salgado.

“L’ Amazzonia la si deve sentire dentro” queste le parole di Lélia e Sebastiao Salgado alla conferenza stampa per l’inaugurazione della mostra Amazonia che si tiene alla Fabbrica del Vapore a Milano dal 12 maggio al 19 novembre 2023 presso la Fabbrica del Vapore. Si tratta della esposizione di 200 opere del grande fotografo brasiliano, la più ampia mai allestita in Italia. 

Avevamo incontrato e dialogato con  Sebastião Salgado e Lélia Wanik Salgado ai primi di marzo nella conferenza stampa di presentazione della mostra [vedi il mio articolo su Periscopio], ora abbiamo avuto il privilegio di visitare  “Amazonia” appena prima dell’apertura, senza pubblico, insieme a Leila e Sebastião, per un un ultimo controllo dell’allestimento.

L’incipit della mostra  “Amazonia” – ph. Anna Pitscheider

Varcando la soglia della mostra si ha la sensazione di entrare nel ventre primigenio del nostro pianeta,  e si capisce come quel “sentire dentro”  fa riferimento a tutti i nostri sensi, non solo quelli visivi, ma quelli uditivi, olfattivi, tattili, gustativi; quei sensi biologici che si formano nell’utero e che legano il corpo umano alla sua dimensione spirituale e alla dimensione spirituale del nostro pianeta.
Si, perché c’è un dialogo continuo tra le nostre cellule  e l’ambiente circostante che informa il cervello e il cuore, esattamente come la cellula uomo/donna dialoga costantemente con la natura che lo circonda e con l’universo. Siamo interconnessi e lo sappiamo. Ma perché tutto ciò diventi consapevolezza c’è bisogno del Tempo, il tempo dell’attesa, che noi occidentali spesso consideriamo un tempo inutile, inefficiente, sprecato. Uno dei meriti di questa mostra è anche rimettere al centro questa dimensione del tempo.   

Lélia Wanik, curatrice de0la mostra e del catalogo, durante la nostra visita – ph. Anna Pitscheider

Le 200 foto che Lélia ha accuratamente scelto per la mostra sono il frutto di un lavoro sul campo lungo (7 anni) e appassionato del fotografo ed esploratore Salgado. E in questi 7 anni, 58 lunghi viaggi che lui stesso definisce come “una traversata transatlantica”, per il senso di vastità e dell’ignoto che si deve abbracciare. 

“Bisogna saperci stare in questa dimensione del tempo, si apprende solo con l’esperienza e la determinazione a portare a termine una missione. Le donne la conoscono bene! “, Sebastião Salgado lo racconta grazie ad una domanda acuta della mia compagna di visita, la fotografa Anna Pitscheider, sulle difficoltà tecniche a lavorare in Amazzonia.

Per fotografare ha sorvolato la foresta con l’elicottero dell’esercito brasiliano, da lì ha potuto documentare non solo la vastità ma anche la varietà del paesaggio amazzonico che si snoda anche sul massiccio più alto del Brasile. “Erroneamente  pensiamo spesso alla foresta amazzonica come piatta su cui si snodano grandi e lunghissimi fiumi” ha puntualizzato lo stesso Salgado, che rivendica nuove scoperte scientifiche,  grazie al suo lavoro.

Una volta è salito su una barca e per 38 giorni non ha mai messo piede sulla terra ferma. “Quando si fa un lavoro del genere – piega Salgado – che richiede anni di vita, ci vuole un concetto creativo, non si può semplicemente andare in Amazzonia così per andarci, e dunque abbiamo fatto una scelta precisa: non troverete  foto  degli incendi, delle fattorie, di quello che di brutto succede in Amazonia. Abbiamo voluto proprio che ci fosse la purezza di quella che l’Amazzonia è sempre stata, perché li vive il concetto culturale più importante del mondo: 200 tribù che parlano 186 lingue  diverse che convivono in modo che non esiterei a definire assai raffinato!”  

Quando poi andava nelle comunità indigene, vi si recava sapendo quando partiva ma non quando sarebbe ritornato. Portava con se un grande studio fotografico portatile, 6 metri di larghezza e 9 di lunghezza , srotolabile a seconda delle condizioni meteo.

La sfida fotografica del ritratto o dei ritratti di gruppo è quella di sapere dare al soggetto l’ importanza che merita, è la costruzione di una sincera relazione tra chi fotografa e chi si fa riprendere e le relazioni hanno bisogno di cura e di conoscenza reciproca. “Quando si ha a che fare con una comunità indigena bisogna aspettare che siano loro  a volere venire a farsi fotografare e quindi c’erano giorni in cui non veniva nessuno e giorni in cui arrivavano a decine” racconta Salgado.

Lo sfondo scuro su cui si stagliano volti decorati e interi gruppi di indigeni  (fino a 30 40 persone) è stata una scelta precisa. Gli indigeni sono fieramente decorati e magnificamente tatuati  in tutto il corpo, un decorazione che parla della loro anima, che collega anima a corpo e natura e all’universo, e “se ritratti nel mezzo della foresta sono talmente ben camuffati da rendere molto difficile dissociarli dall’ambiente circostante, e invece se fotografati con uno sfondo neutro si mostra tutta la loro potenza, tutta l’importanza della loro cultura che ovviamente si portano dietro nel loro corpo”  continua Salgado.  

foto da non usare
Gruppo di indigeni – © Sebastião SALGADO

C’è bisogno dunque dell’attesa rispettosa. Un tempo che noi donne conosciamo bene, i 9 mesi di gravidanza. Quello stesso tempo che ci richiede “la natura quando fa il suo corso e trasporta l’immensa produzione di umidità della foresta amazzonica  (ulteriore scoperta scientifica fatta durante questo lavoro fotografico) fin qui da voi in Italia”, continua Salgado. Infatti la foresta amazzonica è l’unico luogo al mondo in cui il sistema di umidità dell’aria non dipende dall’evaporazione degli oceani. Ogni albero disperde centinaia di litri d’acqua al giorno, creando fiumi aerei anche più grandi del Rio delle Amazzoni.

Noi visitatori abbiamo dunque il privilegio di assaporare il tempo lungo della scoperta, condensato nell’essenziale grazie alla sapiente curatela di Lélia, compagna di  vita di Sebastião, che tesse la narrazione in una regia magistrale. Le foto in grandi dimensioni occupano lo spazio della Cattedrale di Fabbrica del Vapore, fluttuando sospese in modo da creare uno spazio immersivo, i suoni dei compositori brasiliani con le tre installazioni a forma di “ocas” (la case comuni indigene),  nelle quali si ascoltano le voci dei capi indigeni.

La grande sala di Fabbrica del Vapore, chiamata Cattedrale, dove è allestita la mostra “amazonia” –ph Anna Pitscheider

Un sapere ancestrale emerge con forza:  i suoni delle gocce della pioggia ci accarezzano la pelle, il fruscio delle foglie ci ricordano i primi passi sulla terra nuda, il canto degli uccelli –  tutte arrangiate da Jean Michel Jarre – la beatitudine della musica e  le composizioni di Heitor Villa-Lobos e Rodolfo Stroeter, i suoni primordiali dell’utero, e poi la vastità degli spazi dei cieli e delle acque, e l’altezza smisurata degli alberi ci lasciano attoniti per la loro prorompente bellezza.
Ma l’Amazzonia “si deve sentire dentro” e a Milano , per la prima volta, ci sarà anche una sezione Touch per gli ipovedenti e i non vedenti e il primo  libro fotografico Touch a ricordarci che non basta vedere con gli occhi: l’invisibile si mostra in tanti modi, basta darsi  il tempo, il tempo dell’attesa.

È un paradigma che sposta radicalmente la prospettiva occidentale da un esasperato  antropocentrismo alla relazione sacra tra esseri umani /natura /universo, tra  sacro e scienza, e di cui i popoli indigeni sono gli ultimi testimoni.
Conclude
Sebastião Salgado: “Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo, è che tra 50 anni questa mostra non assomigli a una testimonianza di un mondo perduto. L’Amazzonia deve continuare a vivere e, avere sempre nel suo cuore, i suoi abitanti indigeni.”

AVVERTENZA
Le 2 foto di Sebastião Salgado, di cui una in copertina, sono state concesse in esclusiva a Periscopio per questo articolo, non possono essere riprodotte e stampate altrove della mostra. Anche gli altri scatti che illustrano questo testo, realizzate dalla fotografa della fotografa professionista Anna Pitscheider, sono sotto copyright.

UN AIUTO PER L’EMILIA ROMAGNA

L’aiuto e l’autoaiuto sono cose belle tra le tante cose brutte che ci stanno intorno. A Periscopio non abbiamo nulla nemmeno contro la Beneficenza: il nome è un po’ vecchiotto ma l’etimo ci tranquillizza. Abbiamo solo una sana diffidenza, che condividiamo con tanti; che poi è una semplice domanda: dove vanno a finire i soldi? Chi li usa? Come li spende?
Così, anche quando il Covid 19 faceva strage a occhi chiusi, quando a Bergamo e altrove, nelle case, negli ospedali, nelle residenze per anziani si moriva come mosche, non abbiamo aderito all’appello  del Ministero dell’Interno, e non abbiamo pubblicato Numero Verde e IBAN per versare un obolo a un corpo centrale dello Stato. Crediamo riusciate a capire il perché.
Questa volta è diverso. Conosciamo bene la Protezione Civile dell’Emilia Romagna, nelle sue file ci sono decine di amici/che, volontari/rie impegnati in queste ore a prestare soccorso,  conosciamo le loro facce, il loro impegno, la prontezza e l’efficienza con cui intervengono in Italia e in Europa,  ovunque ci sia bisogno di aiuto. Di loro ci fidiamo e pubblichiamo il loro appello e il loro conto corrente.
Un terzo della nostra Regione è ancora sott’acqua. In decine di migliaia hanno dovuto lasciare le loro case e tutte le loro cose, alcuni hanno perso la vita.
Diamo un piccolo aiuto a chi sta aiutando.

(Francesco Monini)

🔴 In queste ore così drammatiche in tanti ci avete scritto per poter dare una mano, anche per fare donazioni.

Per questo abbiamo deciso di aprire una raccolta fondi a favore delle persone e delle comunità colpite dalla drammatica alluvione. E come sempre abbiamo fatto, resoconteremo tutto fino all’ultimo euro: quanto raccolto e il suo utilizzo.

Iban:        👉🏻 IT69G0200802435000104428964
intestato a: Agenzia per la sicurezza territoriale e la protezione civile dell’Emilia Romagna

Grazie a chiunque deciderà di donare, condividiamo il più possibile.

 

IL CONCERTO SOTTO L’ALLUVIONE
Una superstar che arriva, un sindaco sordo, un governatore distratto, un parco in pericolo

IL CONCERTO SOTTO L’ALLUVIONE. Una superstar che arriva, un sindaco sordo, un governatore distratto, un parco in pericolo

Ieri, 16 maggio, un’altra giornata di passione. Piove piove piove, In tutta la Romagna è emergenza rossa. Faenza, Forlì, Ravenna sott’acqua, spiagge mangiate dal mare, fiumi esondati, gente sui tetti, 2 morti . Pochi giorni fa, la stessa scena, ed altri 2 morti in Emilia, 100 chilometri più a Ovest. Sempre Ieri,  a leggere il Resto del Carlino, in mezzo c’è un’isola felice, una terra mezza Emilia e mezza Romagna, una città chiamata Ferrara.
Naturalmente non è vero, anche qui piove con brevi interruzioni da più di una settimana, la città è nel caos ma il “grande cantiere” al Parco Urbano Bassani non si ferma. Ci lavorano giorno e notte più di mille persone: italiani e americani , a pestare l’erba verde diventata fango, a montare un palco mastodontico e pali, torri di 30 metri per dare luce, strutture al coperto per distribuire magliette, birra e panini. Passando dalla via che separa le Mura rinascimentali dall’oasi verde del parco, si vede un viavai di camion e mezzi pesanti. In mezzo, altissima troneggia una gru.

A Ferrara, l’alluvione (morti compresi) diventa un semplice maltempo. Ecco l’incipit dell’articolo osannante del Carlino. Un reperto che vi invito a stampare e conservare, un caso esemplare di giornalismo  non solo codino (quel che fa un sindaco di destra è sempre buono e giusto), ma cieco, cinico, vergognoso.

Eccolo:
” Sembra di vedere un’orchestra nel pieno dell’esecuzione di un’ouverture. Ognuno ha la sua partitura. Tutto procede armonicamente, nulla si sovrappone. Nulla è di più, nulla è di meno. L’allestimento del parco Urbano per il concerto di giovedì si presenta più o meno così.  La macchina organizzativa procede a ritmi serrati, nonostante il maltempo. Il palco sta via via prendendo forma. Un lungo braccio di una gru giganteggia sull’area. Il lavoro per la realizzazione dello show di Bruce Springsteen ha una portata mastodontica. Il maltempo? Poco male. Le pompe sono in azione e l’area in cui si terrà il concerto, ieri mattina, si presentava percorribile. Certo, il maltempo previsto nella giornata di oggi potrebbe essere di impiccio, ma i messaggi che arrivano anche dalle maestranze sono rassicuranti.
Ieri mattina ai primi raggi di sole si percepiva entusiasmo. Molti dei lavoratori hanno lavorato fino a tarda sera, l’altro giorno, per garantire lo svolgimento del tutto. “Ma la soddisfazione di vedere tutto procedere in questo modo è tantissima”, ci dice uno di loro.”

E via di questo passo e con questo tono.

Oggi, 17 maggio, c’è un cielo nero. Ha piovuto per tutta la notte, ora la pioggia si è fermata, ma si sentono i tuoni, è solo una pausa: le previsioni danno piogge intense fino alla fine del mese.

Il Resto del Carlino pubblica una complicata mappa (la chiama proprio così, “mappa”) a beneficio  dei cittadini ferraresi, che devono districarsi  in una città piena zeppa di cartelli di divieto e di transenne, zone off limits, linee di autobus soppresse, scuole semichiuse, mega parcheggi improvvisati, strade chiuse al traffico…

La Nuova Ferrara, l’altro giornale locale – nato come contro altare del Carlino e ora fotocopia dello stesso – partecipa alla grande attesa e informa i lettori che, pioggia o non pioggia, il concerto si farà.  Tranquilli: Bruce Springsteen è già atterrato in Italia (dove dorme? nessuno lo sa), ma arriverà puntuale e proprio a Ferrara inaugurerà il tour europeo.

Da anni i presidenti di regione sono stati promossi a governatori, proprio come i governatori dei 51 Stati della grande America. Governatore anche perché, eletto direttamente, ha molti poteri. Può fare tante cose.  Stefano Bonaccini, ad esempio, ha chiesto a gran voce al Governo lo stato di calamità nazionale per la “sua” Emilia Romagna.

Ma il governatore Bonaccini poteva e doveva fare altro. Prima di tutto, e ha avuto un anno di tempo per farlo, convincere (con le buone o con le cattive) un sindaco cocciuto e in cerca di gloria (il leghista Alan Fabbri, Primo cittadino di Ferrara) a desistere dalla sua idea folle. E a spostare un maxi evento super impattante, da un parco stupendo, ma con un fragile equilibrio ambientale, ad un’altra zona più periferica e meno problematica. Insomma: fare il concerto, ma farlo da un’altra parte. Spostare la location, come gli chiedevano decine di associazioni ambientaliste e culturali nella petizione online Salviamo il parco ‘Giorgio Bassani’ di Ferrara #Save the Park , che ha raccolto più di 55.000 firme.

Oggi, anzi ieri, il governatore, davanti a una Regione sconvolta dall’alluvione, con 4 morti e migliaia di sfollati, doveva proclamare 3 giorni di lutto regionale. Non si è mai visto un “lutto regionale”? Lo decida lui per la prima volta, è o non è il governatore?

Perché la musica è una cosa meravigliosa, e dal vivo è ancora meglio, ed è sacrosanto divertirsi, ma non se sei dentro ad una tragedia (mentre scrivo il bilancio è salito a 9 morti)  e hai davanti altri dieci giorni di allarme rosso. Anche per questo il concerto di Bruce Springsteen non si doveva fare. E sono convinto che anche lui avrebbe capito. E anche tanti suoi appassionati fans.

Domani, 18 maggio, il concerto si farà. Costi quello che costi. Come vuole la legge (planetaria) del business. Come ha voluto e vuole un sindaco sordo ad ogni ragione. Dopo ci saranno da contare i danni e raccogliere i cocci.

Il Comitato Save the Park, dopo essersi impegnato per mesi e fino ad oggi per “salvare il parco” dallo scempio, ha formato una commissione di osservatori che verificherà tutti i guasti subiti dal Parco Urbano. Già l’impatto delle megastrutture, milioni di decibel e di 50.000 persone ammassate faceva prevedere danni ingenti al parco e alle decine di specie di uccelli che lo abitano. Pioggia e fango aggraveranno di molto il bilancio.

Per il Sindaco Alan Fabbri e la sua Giunta doveva essere il coronamento di 4 anni di un governo all’insegna della festa: fiere, festival, spettacoli, specchietti e luci tutti i giorni. Il gran botto del Boss a Ferrara avrebbe fatto da traino alla campagna elettorale per le amministrative della primavera del 2024. Probabilmente non andrà in questa maniera: invece di Austerlitz sarà una Waterloo.

Purtroppo, finita la battaglia nel parco, non ci sarà nessun vincitore.

Per leggere su Periscopio tutti gli articoli del direttore Francesco Monini, clicca sul nome autore.