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Ferrara film corto festival

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Il Sentiero dell’aquila Gaia: una storia molto vera

Il Sentiero dell’aquila Gaia: una storia molto vera

Sui crinali appenninici di Monte Giogo di Villore si snodano i meravigliosi SENTIERI nazionali ed europei: il Sentiero 00 Italia, il Sentiero GEA Grande Escursione Appenninica,  il Sentiero Europa E1 che collega Capo Nord a Capo Passero in Sicilia. Siamo nei corridoi ecologici del PARCO  NAZIONALE  FORESTE CASENTINESI in continuita’ funzionale con il Parco, sull’ALTA VIA DEI PARCHI,  paradiso del Turismo escursionistico, ampiamente finanziata dalle Regioni, che congiunge l’Emilia Romagna alla Toscana attraverso la dorsale degli Appennini Toscoromagnoli, passando dal MONTE LOGGIO, la Linea Gotica,  l’Eremo dei Toschi, sfiorando il Monte Peschiena e inoltrandosi nel Parco Nazionale Foreste Casentinesi. Questo  tratto di crinale fin oltre la Colla di Casaglia é da sempre frequentato da AQUILE REALI  (che sia Gaia o altri individui ha poca importanza, se non che ne prova l’esistenza e i  movimenti) che in quelle zone hanno diversi siti riproduttivi. Peraltro la “prateria arbustata” del MONTE GIOGO DI VILLORE CORELLA é ideale come sito alimentare per gli individui nidificanti nelle zone occidentali del Parco.
Fondamentale per l’ ecologia dell’ aquila reale  è  la  presenza di numerose aree aperte o praterie secondarie, ideali aree di caccia ricche di prede, che si alternano a BOSCHI VETUSTI con alberi maturi e ad alto fusto dove, in alternativa alle rupi, le aquile costruiscono i loro grandi nidi in un mix di ecosistemi ricchi di biodiversita’  e di foreste ben conservate, con ecosistemi ricchi di  biocomplessità’  perchè’ prossimi a 5 Siti Rete Natura 2000 con Zone a Speciale Conservazione tra cui il sito Natura 2000 ZSC Muraglione Acquacheta.
L’Aquila reale è considerata una cosiddetta specie ombrello, la cui tutela porta in un  ecosistema a tutelare anche le altre specie presenti. L’ incidenza negativa del mega-impianto eolico su tale specie e su tutte le altre presenti negli habitat di rete Natura 2000 confinanti é evidente, perché costituisce un impatto diretto per collisione con le pale, e indiretto perché ne riduce l’habitat e ne interrompe il corridoio ecologico.
Vedi anchehttps://www.parcoforestecasentinesi.it/it/news/le-avventure-di-gaia-nel-parco

Il Sentiero dell’aquila Gaia

C’era una volta un Sentiero a cui era stato dato nome il Sentiero dell’aquila Gaia.

Il Sentiero si trova ancora oggi sui Crinali appenninici del Monte Giogo di Villore nel Comune di Vicchio dove appena 70 anni fa visse un grande maestro Don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi contadini e montanari nella piccola Scuola di Barbiana, spersa sul Monte Giovi senza strada, luce e acqua, ora conosciuta in mezzo mondo.

Il motto della Scuola di Barbiana era “I care”, ho a cuore, ci tengo, mi sento responsabile e i ragazzi crescevano educati a pensare con la propria testa, a non fidarsi della propaganda, a interrogarsi, a ricercare da tante fonti diverse, a discutere e condividere per trovare insieme soluzioni che partissero dal basso e non fossero calate dall’alto.

I ragazzi si formavano ad esercitare il pensiero critico, si allenavano ad andare controcorrente, a non sottomettersi a leggi inique e scellerate, a discernere l’oppresso dall’oppressore, le leggi dalla parte dei ricchi e le leggi dalla parte dei poveri.

Alla Scuola di Barbiana si imparava ad impossessarsi degli strumenti per dare voce a chi non ce l’ha, a chi ce l’ha ma non viene data mai la parola, a chi parla ma non viene né ascoltato né considerato.

Ora quel motto “I care” risuona vivo per monti e per valli e sale sempre più forte fin sui crinali di Monte Giogo di Villore, dove corre il sentiero del cuore che raccoglie, unisce e raccorda tanti altri sentieri che attraversano tutta l’Italia e l’Europa da Capo Nord in Norvegia a Capo Passero in Sicilia.

Qui i crinali dell’Appennino e i loro versanti sono ricchissimi di biocomplessità e di biodiversità grazie al Parco Nazionale Foreste Casentinesi di cui sono i corridoi ecologici, le zone cuscinetto dove fauna e flora vanno e vengono ripopolandosi ed espandendosi in unici e ormai rari quanto preziosi ecosistemi.

I Camminatori muovono i loro passi lenti ed estasiati sui sentieri che si immergono in sinuosi boschi di faggete e risalgono attraverso il manto verde degli antichi pascoli il Sentiero del cuore sospeso tra opposti versanti, dove, anche senza niente, ti senti il signore del mondo, il re e la regina dell’universo.

Lassù in alto nel cielo avverti una presenza, senti un’energia particolare, unica e speciale, e in certi giorni, istanti e momenti puoi vedere una giovane aquila reale veleggiatrice che vola e gioca con le nuvole e con le correnti ascensionali: è Gaia, Gaia perché libera e felice, Gaia come la Madre terra quando incontra esseri umani capaci di rispettarla, onorarla ed amarla.

Ma un bruttissimo giorno uomini senza scrupoli e duri di cuore, decidono di degradare i luoghi incontaminati del cuore di Gaia a zone industriali aprendo larghe strade sui fianchi boscosi dei crinali per far passare grandi mezzi pesanti con pezzi di enormi torri eoliche da piantare nel petto fragile dei crinali.

Sentita la notizia, i lupi che hanno fiuto e orecchie fini, chiamano i gatti selvatici che, invece di graffiare e scappare, selvaggi come sono, chiamano a raccolta tutte le creature dei boschi, compresi i picchi neri e i picchi rossi che abitano gli alberi vetusti e maturi e anche i pipistrelli, bistrattati da tutti che invece sono gli alleati degli ecosistemi in salute e perfino le salamandrine si mettono gli occhiali per vederci meglio e comprendere bene cosa sta per accadere.

Sembra incredibile agli animali che gli esseri umani siano tanto stupidi e pazzi da voler cementificare luoghi tanto belli, è assurdo per gli animali tombare le sorgenti libere e fresche, imperdonabile inaridire i rivi dove si abbeverano gli abitanti del bosco, inaccettabile abbattere ettari di faggete per aprire ripide strade, espropriare marroneti produttivi, terre da coltivare, fare cantieri e betoniere in mezzo alle faggete.

Dopo tanto discutere ognuno nel suo unico ed irripetibile modo, gli animali di Monte Giogo di Villore decidono di inviare come delegati i pipistrelli giù nei paesi per dialogare.

I nobili e preziosi pipistrelli vanno subito dai primi cittadini che sono i Sindaci ma quelli inorriditi li allontanano chiamandoli con strani epiteti: sovversivi, ribelli, facinorosi, radicali, integralisti e chiamano subito le Forze della Pubblica sicurezza per cercare di catturarli e metterli in delle gabbie.

I pipistrelli sorpresi, consultandosi con i cani, apprendono di avere sbagliato: i primi cittadini a cui rivolgersi non sono i Sindaci ma i bambini.

E infatti i bambini intelligenti, che degli animali non hanno schifo per niente, nemmeno dei pipistrelli, si mostrano subito disponibili all’ascolto e all’azione. I bambini ci tengono, hanno a cuore il loro futuro e comprendono subito che la natura va protetta e difesa là dove è meglio conservata.

Zainetto in spalla e scarponcelli, salgono guidati dai pipistrelli sui crinali e arrivati sul Sentiero di Gaia, tirano fuori degli strani fischietti di terracotta che imitano il suono di uccelli e altri animali, in men che non si dica, il silenzio dei crinali è riempito di strida, gli animali accorrono da tutta la dorsale appenninica e il rumore è talmente assordante che arriva perfino nelle stanze dei Sindaci e nelle aule consiliari, nelle case della gente e tutti atterriti guardano dalle finestre in alto verso i crinali.

Operai, tagliaboschi, ruspe e camion se la danno a gambe ché il frastuono è talmente grande da fracassare la testa e i timpani!

Intanto Gaia vola in alto ignara di tutto verso un puntino nero all’orizzonte…

Sarà forse un compagno?

Lei non sa delle pale eoliche che massacrano le aquile, lei non sa quello che accade quaggiù, ma ora vola sul Sentiero del cuore con un giovane compagno al fianco e insieme ci fissano per un attimo…

I bambini prendono i fischietti di terracotta e una musica dolcissima accarezza i crinali per sempre liberi e resistenti, giunge soave a salutare un Sindaco amico, prosegue fino a Vicchio e a Dicomano e arriva infine a Firenze per fare poi il giro del mondo.

Questa storia fantastica è molto reale e se tu vieni sul Sentiero di Gaia sui crinali del Monte Giogo di Villore in Mugello in Toscana, puoi anche scoprire che è del tutto realtà.

In copertina: L’Aquila Gaia, febbraio 2022, foto di Pietro Vicchi

Nella valle degli angeli un bel mattino…

Guardare fuori dal finestrino, nella valle degli angeli. E ritrovare la vecchia cara Italia, stranieri brava gente.

La famiglia è la patria del cuore
Giuseppe Mazzini

Mattina presto, nebbiolina leggera, una giornata fresca-fredda che vira verso l’inverno che non arriva. Non è semplice e piacevole tepore ma autentico cambiamento climatico.

Mi trovo su una strada di campagna, appollaiata e infreddolita sul sedile della seconda fila a sinistra di una corriera blu dalle sgargianti copertine beige firmate Pierre Cardin, firma stampata in nero pece, righe in verticale. Un nero rigorosamente e profondamente nero, senza sbavatura alcuna.

Un salice piangente mi sorride. Alberi e ancora alberi sfilano, eleganti e snelli. Canali e ruscelli, se pur smagriti, accolgono tutti. Come in molti film girati sul nostro territorio, scorgo un ibis bianco in lontananza, un fagiano maschio attraversa la strada che ha un po’ troppe buche. Quella via maestra per pendolari, anziani in bicicletta e contadini mi fa pensare a un Emmenthal gigante ma grigio.

La pianura scorre piatta e calma di fianco a me, campi coltivati e filari di frutta che attendono il ritorno della bella stagione, quella dove fa veramente caldo, i rami protesi al cielo come braccia aperte verso il blu profondo e intenso. Leggeri e speranzosi, cercando il vento, accolgono la brina che rinfresca e disseta. Scapigliati ma felici. Qualche sparo in lontananza, anche gli spaventapasseri sussultano.

Vedo sempre Pierre Cardin. È incredibile, ma il mondialmente noto e ricco stilista francese, ignaro, si è ritrovato, con la sua griffe, a ricoprire i sedili di un mezzo sconquassato che attraversa variopinti paesini della periferia emiliana, un mezzo dal sapore antico, che sembra proprio uno di quelli che saltellano sulle polverose carreteras messicane, quelle che, per intenderci, si vedono nei film popolati da attori abbronzati e sorridenti che interpretano ruoli stereotipati di narcotrafficanti sudamericani.

Mi giro a destra, con calma per via dell’ernia incipiente e vedo una famiglia d’altri tempi. Un flash.

Quattro persone che ricordano le famiglie italiane degli anni Cinquanta, quelle del dopoguerra dal sapore di rinascita e audacia, che ancora sorridevano e avevano la voglia di cambiare e provare a ricominciare a sperare. Un tuffo improvviso nel passato, nei racconti di mia madre.

La signora, la madre, ha un cappello blu cobalto che le copre i capelli mal pettinati o forse acconciati da una parrucchiera di provincia, molto old fashion. A Milano direbbero che si tratta di una pettinatura da pochi euro fatta dai dilaganti e invadenti coiffeurs cinesi, quelli che colorano e popolano le strade con i loro negozi fatti di prodotti a basso prezzo e bassa qualità, che ti tagliano i capelli come se usassero una scodella e pure sbeccata.

Ma noi, che siamo entrati nell’ambientazione della vecchia e cara Italia dal sapore un po’ retro, preferiamo immaginare quella pettinatura come un’opera disegnata con cura da una signora di provincia un poco avanti negli anni che ancora si ispira ai giornali patinati. Sembra quasi quella di un vecchio fotoromanzo. Quelli che si sfogliavano negli anni Settanta sotto gli ombrelloni a righe della costa ferrarese (oggi comacchiese). Quanti ricordi, quanto mare ed energia, quanto sole e luce. A Comacchio si andava per mangiare le anguille, attraversando un Delta che sapeva di magia. Con tanta voglia di spensieratezza e leggerezza, quelle vere.

Dicevamo, la madre sorride, con i suoi bei denti bianchi e oro-argentati, qualche vetusta e spavalda capsula luccicante che non teme il sorriso e la gioia. Dal suo sorriso traspaiono serenità, tranquillità ed entusiasmo, stessi stati d’animo che sbucano dalla borsa di carta riciclata con qualche sacchetto dentro pieghettato che servirà probabilmente a infilarvi qualche regalo. Eh sì, perché siamo vicino all’Epifania e ci piace immaginare che quei sacchetti tanto abilmente piegati per salvare spazio e danaro saranno riempiti di giochi, di bigiotteria dal sapore antico, di dolcetti e di regali, di doni che magari andranno lontano. Percepisco infatti che quei doni tanto pensati andranno molto lontano, una volta ben imballati e impacchettati con amorosa cura. La carta con i brillantini fa il suo fantastico rumore. L’odore poi è paragonabile solo a quello dei libri freschi di stampa. Il mio preferito.

Il papà, un signore forse sulla tarda quarantina, parla una lingua che non capisco affatto. Sembra rumeno. Anzi, direi proprio che è rumeno. Ricordandomi il latino è sicuramente rumeno.

Si indirizza con tenerezza alla moglie, che ricambia lo sguardo affettuoso. Occhiate che sono carezze. Sicuramente condividono da anni le loro difficili ma felici vite. Stare insieme è ciò che conta. E poi l’amore comincia a casa, in famiglia, diceva Madre Teresa di Calcutta.

I due ragazzi, che avranno quattordici o quindici anni, ridono di gran cuore. Lei con le lunghe trecce castane, lui con una specie di austera coppola che gli ricopre il giovane capo. Non si vedono i capelli, sicuramente è moro o forse castano scuro. Capelli ricci o lisci? A voi immaginare, con me…

Chissà di che parlano. Il vento di pianura porta i pensieri lontani. Con essi la mia curiosità.

Traspare serenità nei loro discorsi, sono insieme, uniti, anche se con i cappotti sdruciti e pure un po’ scuciti e scoloriti. C’è un legame forte tra loro, quel legame che si forma tra chi è andato altrove a cercare un po’ di tranquillità e benessere. Con speranza e tenace carità. Oltre che umiltà e pazienza. L’altrove qui è la pianura padana, una terra che abbraccia e non rifiuta. Né si rifiuta.

Mi piace immaginare che i pochi risparmi rimasti dalle spese che aumentano sempre più finiranno nei pacchi mandati a parenti e amici sulle corriere che partono ogni settimana per la Romania. Quegli scatoloni grigio-marroni pieni che vengono caricati sotto un ponte, le signore in bicicletta con i calzettoni lunghi e grigi hanno attraversato tutta la città per arrivare in tempo. Alcune sono anziane, forse la maggior parte, altre meno, ma tutte portano sacchi, pacchetti e pacchettini, soprattutto ora che è festa. Mercati e mercatini sono stati fonte di attenta e parsimoniosa ricerca. Il nostro mercato del lunedì e del venerdì hanno sicuramente contribuito, quelli di paese anche. La nostra operosa campagna ne ospita quasi ogni giorno della settimana.

Dall’altra parte, quasi alla fine del mondo, all’arrivo di quelle corriere stracariche che mi ricordano quelle del paese dei balocchi di alcuni film di Walt Disney, spesso dopo oltre 40 ore di viaggio, si apriranno quei doni e ne scenderà una lacrima di commozione e di ricordi affettuosi.

Mi piace quella famiglia che forse pensa già al pranzo della domenica, forse parla del lavoro proposto e atteso nei campi per l’estate o comunque per l’anno nuovo, l’anno che, nei loro pensieri ottimisti, cambierà tutto nelle loro vite. Quest’anno come ogni anno, poco importa.

La signora tira fuori una caramella fucsia tendente al viola. La corriera continua a sfilare fra fiori profumati e rose bianche dai colori tenui, fiorite nonostante la stagione. Quel rigoglioso e sbarazzino germogliare sarebbe così bello se non fosse anch’esso cambiamento climatico.

Quella piccola e dolce donna, dai denti dorati, mastica rumorosamente e continua a ridere. Sembra avere le ali. La corriera corre lungo la pianura e i suoi pensieri e sogni con lei. Sempre a braccetto.

Quei teneri individui mi ricordano le storie dei nostri immigrati che hanno affollato tanto schermi televisivi e cinematografici. Sembrano la nostra vecchia Italia, loro che oggi sono la nostra nuova Italia. Ne sono parte, come noi, la vivono, la amano, la soffrono, la tollerano, la perdonano, l’accettano e talora la (mal) sopportano, proprio come noi.

Scendono alla fermata prima della mia, in centro storico. Mi salutano con la mano. Non mi conoscono ma magari hanno letto nei miei pensieri, hanno capito che li osservavo e fantasticavo sulle loro vite. Un po’ come si fa dai finestrini dei treni, quando si vedono scorrere tante casette dai camini accesi scoppiettanti e si immagina la vita e le storie dietro quelle mura variopinte. O quando dai tetti di Parigi si osservano i tetti di fronte e si vedono balconi dove si parla e si ride. L’essenza dell’amicizia.

Forse sono cordiali perché felici. Forse lo sono perché così sono stati educati e abituati. A certi popoli non serve insegnare a sorridere. Forse, più semplicemente, l’aura positiva della Natura che scorre, che tutto vede e che vigila sull’Uomo, li ha contagiati in un piacevole e travolgente effetto domino.

Forse sono gli angeli custodi che si rincorrono in cerchio nella foschia, si perdono un attimo ma si ritrovano subito e ritrovano i loro protetti, che li attendono proprio lì. E questa famiglia ha i suoi, li intravvedo, li sento, percepisco il tepore leggero che emana dalle loro aureole. Quelle aureole un po’ impertinenti che, aleggiando nell’aria frizzante, spettinano le foglie e rinfrescano i pensieri. Non ci sono candele ma se ne intravvedono le luci fioche delle fiammelle.

Non so darmi una spiegazione, che, alla fine, non è poi così importante, ma quella piccola e anonima famiglia, incrociata per caso su un bus di campagna, in un ancor non troppo freddo giorno di un inverno che non arriva, mi ha messo di buon umore, mi ha ridato speranza e mi ha sollevato da alcuni pensieri che provavano a essere un po’ tristi. Mi ha da ridato serenità. Quella serenità impaurita che se ne era volata via tra guerre, ingiustizie e pandemie che, però, mi hanno insegnato a dire Grazie.

Molto, tutto cambia davanti a tanta brava gente.

Stranieri, brava gente. E me ne accorgo nella valle degli angeli, un bel mattino.

Articolo pubblicato su Meer

Fotografie di Valerio Pazzi

Sono io che scrivo o è la chat GPT?

Sono io che scrivo o è la chat GPT?

Chat GPT, come le altre intelligenze artificiali, si allena ad imitare dei comportamenti a partire da grosse quantità di dati che li descrivono.

Ciò che fa scalpore è che ci riesce così bene da assomigliare a una persona reale.

Potrebbe essere un’intelligenza artificiale ad aver scritto questo pezzo, fingendosi Francesco Reyes?
Se avrà avuto accesso a una sufficiente quantità di dati che descrivono la scrittura di Francesco Reyes, probabilmente sì. Ancor meglio, e usando i medesimi dati, ma utilizzando la versione migliorata di chat GPT che uscirà fra qualche mese.

Non avendo prove che rispetti, ad esempio, il diritto all’obsolescenza (la cancellazione dei dati raccolti), il garante per la privacy ha prudenzialmente bloccato Chat GPT per chi si collega dall’Italia. Usando una Virtual Private Network potremmo comunque accedervi, ma non è questo il punto.

La raccolta massiva di informazioni personali, sia palese che illegale, da parte di applicazioni e ‘servizi’ forniti da molti giganti hi-tech (Google, Whatsapp, Facebook, …) e servizi segreti (in primis quelli USA) è nella sua natura permanente. In proposito, consiglio a tutti la lettura di Permanent Records di Edward Snowden (scarica gratuitamente [Qui] il pdf in lingua originale, o in italiano: E. Snowden, Errore di Sistema, Longanesi. 2019, 18,60 €).
La caratterizzazione dei (nostri) comportamenti personali che ne deriva, verrà usata e riusata nel tempo per fini commerciali, politici eccetera, (assumo il GDPR come una barriera più formale che sostanziale).

In conclusione, che faccia uso di  Chat GPT o altra IA, quello che deve preoccuparci è la nostra ingenua trasparenza nel farci ascoltare/tracciare da macchine che funzionano fuori dal nostro controllo.
Ciò equivale a donare la propria identità, il proprio saper fare, dire… “essere” a persone/macchine (a poteri) che, in modo via via più efficace, prevedono i nostri comportamenti, li sfruttano per reindirizzare le nostre vite, fino eventualmente ad emularci per assumere le nostre veci, per scopi tutt’altro che condivisi.

P.S.
Per saper qualcosa di più di chat GPT leggi qui una intervista immaginaria (ma nemmeno tanto).

Immagini di un poetico pomeriggio di primavera

Immagini di un poetico pomeriggio di primavera

“IO SONO GLI ALTRI”
reading, pittura e poesie volanti
Secondo Incontro Poetico di Primavera

promosso dalla Associazione Culturale APS  Ultimo Rosso
in collaborazione con il quotidiano online Periscopio
e la Biblioteca Popolare Giardino

Sabato 1 Aprile 2023 : ore 15,00-18.30
al parco del Montagnone

Tutte le foto sono di Valerio Pazzi

Viaggio in Italia: Notte padana

Viaggio in Italia: Notte padana

Per scrivere bisogna aver vissuto molto, internamente o esternamente.

Questo pensavo stasera in auto, mentre le parole tornavano dopo settimane di assenza. Come sottofondo, in loop, una canzone di Aimee Mann che ripeteva: Because It’s not Going to Stop, It’s not Going to Stop ‘Til you Wise Up (“Perché non finirà, non finirà finché non diventi più saggio”), e le strade attorno a Ferrara diventavano un circuito chiuso, un cortocircuito emozionale, intriso d’amore per le persone che avevo appena lasciato, leggermente ubriache e felici ad una festa di compleanno, per chi faceva benzina ad un distributore automatico, o passava silenzioso in bicicletta o monopattino.

Ferito a morte dal lampeggiare d’una freccia nel buio, sentivo di essere legato ad ogni creatura di questo pianeta, ne avvertivo la fatica, ma il senso continuava e continua a sfuggirmi. Solo poche anime elette arrivano a saper decifrare il disegno divino, intessuto di milioni e milioni d’arabeschi, percorsi a cui il nostro sangue ribollente ci spinge, nell’urgenza, non sempre avvertita, di lasciare traccia di sé.

La Pianura Padana è sfondo ideale per i guidatori insonni. Una sigaretta accesa più per farsi compagnia da soli, che ti obbliga a tenere abbassato, almeno un po’, il finestrino, così che tu possa sentire l’aria della notte entrare sfacciata nell’abitacolo caldo dell’auto, a ricordarti che è tardi, mentre guidi ascoltando i giri del motore in sottofondo, per poter cambiare con esattezza le marce, nonostante lo stereo ad alto volume.

Capita allora di tirare a perdersi, giocando con le strade, gli incroci, i semafori lampeggianti d’arancione, e l’asfalto nero che scorre, sotto il rumore appena avvertito dei pneumatici, si fa metafora della vita. Diviene percorso senza meta alcuna, quasi a non voler trovare alcun senso, come se vivere fosse l’unica cosa certa, importante e bastevole a sé stessa, al di là di ogni ragione o impedimento, gioia o tedio.

Le automobili attorno a te si fanno più rade, un’occhiata alla lancetta del carburante, ancora mezzo serbatoio, potrei imboccare l’autostrada, arrivare a Venezia, dormire sul Canal Grande, ma c’è la sosta obbligata a Piazzale Roma o al Tronchetto, carissimi entrambi, senza contare l’hotel, così, al buio, senza prenotazione.

Potrei arrivare al mare, dormire in macchina e aspettare l’alba sulla riva, poi colazione con un paio di Krapfen ed un latte macchiato, rigorosamente freddo, e ritorno. Ma è lontano, temo il colpo di sonno, non ho più vent’anni e di Autogrill per un caffè, sulla Ferrara – Mare, neanche l’ombra.

Così, quasi per caso, ti ritrovi a far cerchi sempre più stretti, finché ti accorgi che stai girando attorno a casa. Allora decidi. Lasci l’incertezza delle strade semibuie attorno alla città e prendi la circonvallazione interna, Decathlon, caserma dei Vigili del fuoco, Interspar, Stadio Paolo Mazza.

Entri nella tua via, parcheggi l’auto e scendi provando tutto il dolore del distacco. Il letto non ti attira, per niente. Apri il PC ed inizi a scrivere: Per scrivere bisogna aver vissuto molto, internamente o esternamente…

Questo testo è apparso recentemente su: Il giornale di Rodafà

Storia di AfroAtenAs, il collettivo cubano LGBTQ+ che ha trasformato un quartiere discarica in un modello di sviluppo urbano e umano

Storia di AfroAtenAs, il collettivo cubano LGBTQ+ che ha trasformato un quartiere discarica in un modello di sviluppo urbano e umano

di Fabio Pozzato
(Questo servizio è uscito su Valigia blu del 26.03.2023)

Attraversato il ponte sul Rio San Juan, ci si lascia alle spalle il centro storico di Matanzas tirato a lucido e si entra a Pueblo Nuevo, il quartiere più povero della città e uno dei più malfamati. Nel reticolo di strade dissestate e edifici malmessi, ci si imbatte d’improvviso in un caseggiato ricoperto di murales colorati, i marciapiedi puliti, un ambulatorio, le case degli artigiani e quelle aperte con gli altari della santería. Fino a dieci anni fa, Calle San Ignacio era una discarica a cielo aperto. Oggi è conosciuto come El Callejón de las tradiciones, un’attrazione turistica entrata nei cataloghi delle fiere internazionali.

Cosa sia successo lo racconta a Valigia Blu Yoelkis Torres, 38 anni, una laurea in economia e un master in antropologia, alla guida di AfroAtenAs, il collettivo LGBTQ+ più famoso di Cuba. Sono stati loro, quando non erano che «pajaritos», come dice lui, a rivoltare il quartiere, renderlo vivibile prima e a trasformarlo poi in «un modello integrato di sviluppo urbano e umano», sottolinea con orgoglio.
«Nel 2009 volevamo far rivivere la tradizione della santería afro-cubana. All’inizio la municipalità non ci ha dato retta, allora ci siamo rivolti alla Casa Africa della Oficina del Historiador», l’ente che si occupa di recuperare il centro storico dell’Avana. «Ci hanno accolti con molta tenerezza», ricorda. E così si sono inseriti in un circuito nazionale per promuovere le radici culturali dell’isola. «Ritornati a Matanzas, i capi locali del partito e delle istituzioni non potevano ignorarci». A quel punto il gruppo ha preso in mano il quartiere: «Abbiamo ripulito l’enorme immondezzaio che ostruiva le strade e realizzato un evento, con musica, artigianato e spettacoli, coinvolgendo gli abitanti. Così è nato El Callejón».

AfroAtenAs è un esempio di attivismo che ha rivendicato il proprio diritto a esistere facendosi carico delle spaventose condizioni della comunità dove vive. Che la gente del posto gliene sia grata lo si vede camminando per strada con Yoelkis. Hanno fatto aprire un consultorio, organizzano decine di laboratori e progetti sulla salute, servizi per le donne vittime di violenza e corsi professionali; hanno restaurato una scuola per bambini con handicap e avviato workshop per giovani del riformatorio.

«Abbiamo fatto nostro uno slogan del Consiglio delle chiese cristiane, “se non saremo parte della soluzione, resteremo parte del problema”». Tutt’altro che un’impresa facile, in un posto come Cuba dove lo Stato è ossessionato nel controllare ogni cosa. «Le autorità hanno fatto di tutto per metterci i bastoni tra le ruote, ma senza capire fino in fondo cosa stessimo facendo». Un esempio? Dove ha sede ora AfroAtenAs era un edificio storico abbandonato: «Lo abbiamo occupato, poi siamo andati dalle autorità locali: non sappiamo cosa farcene, ci hanno detto, se voi potete, gestitelo».
Oggi ha uffici, sale per attività, una terrazza-caffè, ovunque le bandiere arcobaleno, fuori il murale de la Virgen de la Regla che sembra una pop-star.

Per fare tutto questo, l’aiuto dall’estero è stato prezioso. In questi anni AfroAtenAs ha partecipato ai bandi lanciati delle ambasciate di Canada, Olanda e Repubblica Ceca, la Federazione di medici svizzeri, la Fondazione svedese per i diritti umani, l’Agenzia svizzera di cooperazione. È così che ha finanziato ogni singolo progetto. Questa trama di alleanze dentro e fuori l’isola e il lavoro sul campo hanno dato al collettivo la fama e la forza che tutti ora gli riconoscono

Il regime castrista, che da 65 anni governa l’isola, ha un debito enorme con la comunità LGBTQ+. Per decenni sono stati uno dei bersagli preferiti della repressione. È passato molto tempo dalle UMAP, i campi di lavoro forzato dove negli anni ’60 venivano inviati gli «asociali», che fossero dissidenti, hippie, preti o omosessuali, ma in tanti ricordano la pagina orrenda di quella che ancora oggi è chiamata la Revolución. Cinquant’anni dopo, Fidel Castro si è scusato ma nessuno è stato risarcito per quel trauma, e intanto il machismo restava inattaccabile. Ad oggi non ci sono dati e nemmeno stime ufficiali sui crimini di odio contro le persone LGBTQ+.

Dal 1989 è attivo il Cenesex, il centro di educazione sessuale che da 23 anni è guidato da Mariela Castro, la figlia di Raul, fratello di Fidel. «Svolge ancora un ruolo di supporto prezioso, ma è ormai arcaico, è gestito con paternalismo e autoritarismo. Il Cenesex è anche un meccanismo di controllo su una comunità che è diventata sempre più inquieta e ha bisogno di autonomia», racconta Mel Herrera, 27 anni, che studia contabilità all’Università all’Avana ed è una delle attiviste transgender più conosciute a Cuba.

Un vero spartiacque sono i fatti dell’11 maggio 2019. Ogni anno è il Cenesex che commemora la giornata contro l’omofobia, ma quell’anno decide di annullare tutte le iniziative senza dare spiegazioni e per tutta risposta i gruppi locali si organizzano e improvvisano una marcia autonoma all’Avana. Il primo vero Pride cubano finisce sì in pestaggi e arresti da parte della polizia, «ma segna anche un prima e un dopo. Quella marcia ha anticipato le proteste degli artisti dell’anno dopo e le grandi manifestazioni popolari dell’11 luglio 2021», continua Mel Herrera. Se Cuba ha perso la paura, insomma, lo deve anche a tante persone LGBTQ+.

Quel maggio del 2019, Mariela Castro taccia i manifestanti di essere «controrivoluzionari pagati da Miami e da Matanzas». In pochi capiscono il riferimento alla città cubana: ma è ad AfroAtenAs che si riferisce la potente deputata castrista. Mariela deve essersela legata a un dito. L’anno scorso, ad esempio, AfroAtenAs ha organizzato una carovana di città in città, «nonostante il divieto del Cenesex ai suoi membri di partecipare – racconta Yoelkis – Ma loro rappresentano lo Stato, noi siamo società civile».

La parola «società civile» è qualcosa di molto rarefatto a Cuba. Cosa sia (o cosa possa essere) è difficile da dire in un paese dove lo Stato ha il terrore di qualunque iniziativa spontanea. Preservare uno spazio di autonomia è impresa di pochi. E tra questi c’è proprio AfroAtenAs, «forse perché da sempre lavoriamo negoziando continuamente i limiti, contestiamo apertamente i funzionari negligenti e le leggi ingiuste – continua l’attivista – Siamo di lingua lunga, ci controllano, ci mettono mille ostacoli e noi altrettante strategie per superarli».

Anche Mel Herrera è testarda. Nel dicembre scorso, in occasione di Natale, con altri 15 amici ha organizzato una cena comunitaria per le persone LGBTQ+ e povere del suo quartiere in Centro Habana. Ha raccolto fondi e viveri, un’operazione di mutuo aiuto alla luce del sole come si vede raramente qui. È stata anche una corsa ad ostacoli con la Seguridad del Estado, la Stasi cubana. Minacciata, convocata sette volte per essere interrogata, Mel Herrera è stata oggetto di uno stillicidio di atti repressivi. «Ho tenuto duro e la cena è stata emozionante: abbiamo servito 80 pasti, molti li abbiamo consegnati alle persone che dormono per strada». Lo Stato cubano teme l’autonomia dei gruppi LGBTQ+ e ogni volta sembra preso alla sprovvista, ma «se siamo capaci di resistere alle angherie e di auto-organizzarci è il frutto di un allenamento di decenni contro l’esclusione e la morte civile – riflette Mel Herrera – Il movimento LGBTQ+ cubano è giovane e povero di risorse, ma ha radici lunghe, solo che ora internet ci dà molta più visibilità e possibilità di stare in contatto».

Nel settembre dell’anno scorso Cuba è finita sotto i riflettori perché un referendum ha approvato il nuovo Codice di famiglia che permette il matrimonio ugualitario. Una settimana prima del voto, Yennys Hernández Molina e Nere Rivera Velasco hanno celebrato le loro nozze nella Chiesa della comunità metropolitana di Matanzas, una chiesa protestante che accoglie molte persone LGBTQ+ ed è guidata da una pastora, Elaine Saralegui Caraballo. Emozionate e vestite di bianco, le due spose sono state immortalate dalla CNN.

Come il regime sia arrivato a varare un Codice così inclusivo, «si spiega con un insieme di motivi», riflette Nere, trentenne, giornalista indipendente, quando la incontriamo nella sua casa. «In parte per pagare quel debito mai saldato con la comunità LGBTQ+; in parte per presentarsi all’estero con una buona carta da giocare, soprattutto con gli europei e le sinistre latinoamericane, in un momento in cui la questione della repressione e dei diritti umani è risalita alla ribalta. Una sorta di pinkwashing». E aggiunge: «C’è un terzo motivo: la comunità ha lottato per la propria sopravvivenza in questi 60 anni, riuscendo a costruirsi una agibilità e una libertà di movimento che altri attori sembrano non avere. Come? Intessendo reti fra gruppi, mutuo soccorso, alleanze, e anche dialogando con le istituzioni per aprire spazi, anche piccoli». Non significa che la repressione sia cessata: «Molti di noi continuano a essere assediati, ricattati, minacciati. Succede quando tiriamo la corda o ci sottraiamo apertamente ai loro meccanismi di controllo».

All’ingresso di AfroAtenAs, Yoelkis Torres lo dice in altro modo: «Ci hanno messo la lettera scarlatta, ma abbiamo imparato a indossarla con eleganza». Sorride. In alto sul muro d’ingresso, hanno dipinto a grandi lettere: «Tutti i diritti per tutte le persone».

La foto di copertina e quelle che corredano il testo sono di Fabio Pozzato 

Immaginario /
produttività personale

produttività personale

Un ciclista e un cadetto di un paese qualunque, di un esercito qualunque. Scendono, salgono, marciano, pedalano; insomma percorrono la stessa strada in direzioni opposte. Sono due vite diverse, ma che forse potrebbero anche coesistere nella stessa persona, perché non c’è limite alla fantasia nella realtà, a volte supera la nostra immaginazione anche di molto. Ma cosa potrebbe rendere queste due visioni del mondo lontane e separate: il contesto sociale di crescita, l’istruzione, le attitudini?

Cosa potrebbe farle coesistere nella stessa persona? Forse le medesime premesse. Fatto sta che c’è una sottile linea di demarcazione tra ciò che si deve fare e ciò che si vuole. A volte si sceglie di perseguire una carriera, a volte si ci ritrova a farne un’altra, a cui non avevamo pensato. Certe volte si crede davvero che aver impersonato un mestiere per anni, sia tutto quello che ci contraddistingua, tutto il resto, soprattutto le passioni, non sono importati. Bisogna essere produttivi, produrre e consumare per un lavoro, ma non per se stessi. Produrre creatività e gioia, vuol dire esserne consumati, il che diventa una distrazione troppo pericolosa.

Un’amica mi ha detto che una sua passione era mal vista da alcuni suoi colleghi di lavoro. Un po’ come se una parte di sé cozzasse contro l’altra o peggio come se la casella nella quale l’avevano collocata non prevedesse altro che quello che loro o la società avevano previsto per lei. Allora tutto quello che esula dal lavoro diventa controproducente per la continuazione del lavoro stesso. Forse perché abituarsi a fare qualcosa che ci piace ci distrae da quello che dobbiamo fare: allora la gogna. Deve essere difficile andare oltre gli stereotipi, ridere di sé, dell’abito che ci hanno cucito addosso. Nel medioevo per molto meno si andava sul rogo, ora per molto poco si va sui social, la gogna fisica o quella mediatica; l’ultima è quella psicologica.

L’antidoto? Quello consigliato prevede una serie di attività da svolgere costantemente: bevete molto, fate molto sport, leggete altrettanto, create, pure se non dovessero essere capolavori… e soprattutto restate fuori dalle caselle!

Cover: foto di Ambra Simeone

Sabato 1 aprile: Festa della Poesia

Sabato 1 aprile: Festa della Poesia

L’Associazione APS Ultimo Rosso – nome di battaglia Collettivo Poetico Ultimo Rosso – non è un club per poeti laureati in cerca di fama personale. E’ un cerchio aperto a tutti i poeti (ferraresi, italiani, stranieri) ed agli amanti della poesia. Il suo scopo è diffondere la carica rivoluzionaria della poesia contro tutti i poteri costituiti e contro ogni guerra.

La poesia, segno e strumento di libertà, ama associarsi alla musica, alla pittura, a tutte le espressioni della creatività.  E così succederà sabato 1 aprile a Ferrara, a partire dalle ore 15, al parco del Montagnone, accanto al bar Paradiso verde (viale Alfonso d’Este). Sarà una Festa di Primavera, dove tutti potranno (grandi e piccoli) partecipare attivamente.

Appese agli alberi del parco, mosse dal vento di primavera, vedrete Le poesie volanti:  più di sessanta poesie in tema. Chiunque passerà per il parco e per le Mura potrà leggerle fino al 25 aprile.

Per vedere tutto il programma dell’iniziativa, leggete [Qui]

Locandina della iniziativa – 1 aprile 2023

Come vive Ultimo Rosso 

La poesia è povera, lo sanno tutti. Anche l’Associazione APS Ultimo Rosso finanzia le sue iniziative solo attraverso i contributi dei soci e degli amici della poesia. Durante la Festa della Poesia di i Primavera sarà quindi possibile:
Lasciare un piccolo contributo libero per le prossime iniziative (da 1 euro a quello che volete).
Prendere (o rinnovare) la tessera 2023 di Ultimo Rosso (costo 8 Euro).
– Prendere la tessera Ultimo Rosso + quella dell’Arci, potendo usufruire di tutte le riduzioni (costo 15 euro)

Cover e locandina di Ambra Simeone.

ACCORDI
Nubya Garcia e il ritmo del new jazz

Nubya Garcia e il ritmo del new jazz

Da circa un decennio Londra è indiscutibilmente la capitale del new jazz, e la sua scena musicale è il frutto di un’elettrizzante mescolanza di stili e culture: dall’afrobeat al grime, passando per l’hip hop e il reggae. Il filone è guidato dal supergruppo Sons Of Kemet, dal duo Binker & Moses, dalla band Ezra Collective e da un sacco di strumentisti talentuosi e innovativi, che si esibiscono perlopiù nei locali di Soho, Camden e Dalston.

La fucina più prolifica del new jazz londinese è l’agenzia Tomorrow’s Warriors, co-fondata nel 1991 dal contrabbassista Gary Crosby, il cui scopo è fornire un’educazione musicale di alto livello a tutte quelle persone che altrimenti, per motivi finanziari o familiari, non potrebbero riceverla. Tomorrow’s Warriors è quindi un’accademia che promuove da più di trent’anni una didattica inclusiva, rivolta soprattuto alle minoranze etniche.

Una delle più brillanti musiciste ad aver studiato presso la suddetta accademia è la sassofonista Nubya Garcia, 32enne di origine afro-caraibica (la madre è guyanese, il padre di Trinidad e Tobago). Nata e cresciuta nella caleidoscopica Camden Town, la musica di Garcia è il luogo di incontro tra le sue radici e l’effervescenza del suo quartiere.

L’album d’esordio è uscito a settembre del 2020, e inizia con un pezzo di quasi 8 minuti che ha l’obiettivo di far percepire all’ascoltatore il ritmo sfrenato dell’attualità, nonché quel senso di disconnessione che a volte caratterizza le nostre routine. Pace è un caos a tratti dolce, a tratti vorticoso, in cui non troverete ritmiche swing o bossa nova a cui appigliarvi, bensì delle inaspettate e tortuose montagne russe dalle quali, tuttavia, non vorrete più scendere.

Storie in pellicola /
Se succede qualcosa, vi voglio bene

Se succede qualcosa, vi voglio bene

Si può sopravvivere al dolore della perdita di un figlio per una situazione assurda e imprevedibile? Un toccante cortometraggio prova a dare una risposta.

Il dolore devastante, quello cui non ci riesce a dare spiegazione (perché spiegazione non vi è), fatti di cronaca terribili, storie nemmeno più lontanamente immaginabili di genitori che mandano a scuola i figli senza vederli fare ritorno.

Ad affrontare questi sentimenti e le reazioni umane più disparate che possono scaturire da simili tragedie, un cortometraggio scritto e diretto da Will McCormack (già sceneggiatore di Toy Story 4) Michael Govier, premio Oscar 2021 come miglior cortometraggio d’animazione: Se succede qualcosa, vi voglio bene (If Anything Happens I Love You).

Visibile su Netflix, questi intensi 12 minuti portano sullo schermo un tema difficile da affrontare senza cadere nella retorica: le vicende di due genitori che cercano di elaborare il lutto per la morte della giovane figlia uccisa durate una sparatoria avvenuta a scuola. Un originale racconto intimo che riflette sul dramma delle stragi nelle scuole negli Stati Uniti d’America e sulla problematica del gun control.

Ispirato a un caso di cronaca, McCormack e Govier hanno scritto la sceneggiatura col supporto della Everytown for Gun Safety, un’organizzazione che si batte a favore dell’uso controllato delle armi, mentre il titolo fa riferimento a un sms d’addio inviato ai genitori da una delle vittime della sparatoria avvenuta alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, il 14 febbraio 2018. I registi hanno ascoltato le testimonianze di molti padri e madri al fine di portare sullo schermo più che una storia, tante storie vere.

Ne stavamo scrivendo quando è arrivata la notizia della Covenant School di Nashville, in Tennessee. Tre bimbi, altri innocenti, uccisi. Un caso raro, peraltro, il fatto che l’aggressore qui sia una donna. Un’ennesima strage, tuttavia, la 129° sparatoria di massa negli Stati Uniti solo dall’inizio dell’anno, ovvero oltre una al giorno da gennaio.

Nel potente corto che vi presentiamo, vediamo due genitori, distrutti dal dolore e che, proprio a causa di questo, non riescono più a trovare un punto di incontro, a comunicare. Per loro parlano le rispettive ombre. Il dolore di una madre o di un padre che sopravvivono a un figlio è muto, non ci sono o servono parole e dialoghi. Basta un tratto grafico che, a volte, sa pure un po’ di incompleto.

È un groviglio di sentimenti con emozioni espresse da due ombre litigiose che, sullo sfondo, interagiscono un po’ grossolanamente e alla rinfusa: mentre il padre è fuori casa, per un attimo la madre pensa di entrare nella camera da letto della figlia, ma si ferma a causa del dolore e della tristezza opprimenti. Scorrono le immagini: la maglietta della ragazzina, i ricordi dei viaggi fatti insieme, il pallone che aveva aperto una crepa sul muro del cortile, il primo bacio, il decimo compleanno, il giradischi che riproduce la canzone 1950, di King Princess (la sola traccia vocale, le tracce sono quasi tutte di natura strumentale, composte da Lindsay Marcus, nota per le colonne sonore di film come The Last Rites of Joe May e di spot di marchi famosi come McDonalds e Toyota).

E poi quell’essere pronta ad andare a scuola, le ombre terrorizzate che cercano di fermarla, quell’ultimo messaggio cui aggrapparsi, che si scioglie come neve al sole, mandato durante la sparatoria: “Se succede qualcosa, vi voglio bene”. Una frase semplice scritta prima di morire che è un vero inno all’amore. Una frase che non racchiude rabbia per l’ingiustizia che si sta per subire. Poco prima di volare via, il pensiero della figlia è stato pieno d’amore e gratitudine per chi le ha dato la vita, per chi avrebbe dovuto affrontare la sua perdita. E proprio per questo, con la forza che solo i più piccoli riescono ad avere, ha lasciato la più potente ragione per continuare a vivere: un affetto che neanche la morte riesce e riuscirà mai a cancellare. Il cuore è tutto qui, in questa frase.

Perché esiste un prima e un dopo. Nulla, o poco, sapendo del durante.

Una storia di ombre e nubi, di distanze e silenzi incolmabili, di un quotidiano che va avanti per inerzia, di un grigiore apatico, come voluto dalle stesse tonalità del corto, spezzato solo da qualche colore che, comunque, rimanda sempre alla figlia, come quello della sua maglietta che fa capolino all’improvviso, una storia fatta di presenze fantasmatiche che non trovano più il loro posto nel mondo. Ci sono, poi, il disorientamento e il caos che si scatenano in una famiglia dopo la perdita di una persona cara. La difficoltà a restare uniti, la tendenza ad allontanarsi.

Un’elegia del dolore intima e silenziosa, in totale assenza di dialoghi, condensata in pochi minuti che, una volta spenti i riflettori, concluse le campagne politiche e terminate le marcie di protesta, mantengono viva l’attenzione sul dolore delle famiglie che, in un giorno come tanti, hanno perso i figli nelle stragi delle scuole, luoghi della quotidianità che troppo spesso in America si trasformano in teatri di massacro.

In America, ma, ahimè, non solo. Ci sono anche varie canzoni che affrontano questo tema, come ad esempio, Quando mi vieni a prendere, di Luciano Ligabue, che fa riferimento alla tragedia di Dendermonde, vicino a Bruxelles, quando un ventenne entrò dentro un asilo uccidendo la maestra e due bambini e ferendone altri dodici con un coltello (in questo caso, nel titolo della canzone, si condensa la speranza del piccolo che spera che la madre arrivi prima, salvandolo e riportandolo a casa).

Nel nostro corto, solo alla fine, le ombre rientrano nei corpi, i genitori si abbracciano e l’ombra della figlia si trasforma in una calda luce brillante che trova spazio tra le loro ombre. È nella coppia solida, chiamata a resistere nella buona e nella cattiva sorte, che bisogna provare a ritrovare la forza di rialzarsi, insieme, tenacemente unita.

Sperare e cercare il modo di andare avanti è l’unica soluzione per resistere alla vita, cercando di sostituire l’amore col dolore. Difficile, mi permetto di dire, difficile…

Se succede qualcosa, vi voglio bene, di Will McCormack, Michael Govier, USA, 2020, 12 minuti.

La grande rivolta francese
In piazza non solo contro le pensioni di Macron, ma per la democrazia e contro la diseguaglianze

La grande rivolta francese : in piazza non solo contro le pensioni di Macron, ma per la democrazia e contro le diseguaglianze

Nei giorni passati, Il Manifesto, parlando delle vicende francesi, ha azzeccato uno dei titoli per la cui efficacia è noto, scrivendo “Il marzo francese”, con una fin troppo evidente allusione al maggio francese del 1968. Ora, al di là delle differenze tra questi due scenari, non c’è dubbio che essi sono accomunati dal fatto di essere due vere e proprie rivolte sociali e che in Francia sta succedendo qualcosa di effettivamente inedito e non previsto. E che, proprio per questo, vale la pena scandagliarlo un po’ più a fondo.

Intanto, non si può ricondurre il tutto semplicemente all’opposizione alla “riforma” delle pensioni avanzata da Macron.
Certamente è vero che essa è tutt’altro che morbida e indolore, come molti commentatori non bene informati hanno sostenuto, visto che già oggi il pensionamento a 62 anni – che la “riforma” innalza a 64 anni – subisce una penalizzazione economica di un certo rilievo rispetto alla pensione “piena” che si ottiene a 65 anni, il che rende il sistema pensionistico francese previsto non molto lontano dal nostro post-Fornero.

Sarebbe però poco illuminante pensare che appunto la rivolta sociale in corso – 10 scioperi generali negli ultimi mesi, più di 100 tra Università e scuole superiori occupate, massiccia partecipazione alle manifestazioni diffuse in tutti i centri del Paese- tragga origine unicamente dall’opposizione alla ‘riforma’ delle pensioni, peraltro osteggiata, secondo i sondaggi, da più di 7 francesi su 10. In realtà, a me pare che emergano oggi in Francia due grandi temi generali: una questione sociale e una questione democratica, che comunque attraversano, in forme diverse, tutto l’Occidente capitalistico.

La questione sociale si può ben sintetizzare prendendo a prestito uno slogan apparso a più riprese nelle piazze francesi, dove si è gridato “ giovani disoccupati e vecchi sfruttati”.
Più precisamente, a fronte dell’impoverimento dei ceti medio-bassi, del prolungamento dell’attività lavorativa per le fasce di età più avanzate anche per sopperire all’assottigliamento del sistema di welfare che si registra in tutt’Europa e alla condizione di precarietà che riguarda la gran parte delle giovani generazioni, si ripropone uno schema di lotta del basso verso l’alto, riemerge un conflitto che ha un carattere di classe, sia pure dentro una società più fluida e frammentata rispetto alle tradizionali e precedenti stratificazioni sociali.

Si smonta, così, anche una delle più nefaste  e ideologiche narrazioni avanzate dai teorici neoliberisti, compresi quelli della “new left” da Blair a Schroeder, passando per la sinistra moderata italiana: quella che, dagli anni ‘90 del secolo scorso ad oggi, aveva dipinto il conflitto, nelle cosiddette società post-industriali, in termini orizzontali e intergenerazionali, di contrapposizione tra anziani “garantiti” e giovani “deprivati”, con i primi responsabili del peggioramento delle condizioni di vita e reddito dei secondi.

Al venir meno di questa lettura interessata, penso abbiano contribuito i processi reali che si sono innestati in questi ultimi anni, dalla crisi pandemica fino all’acuirsi della crisi economica e sociale, che hanno fortemente innalzato le disuguaglianze.
Forse non sono ancora stati ben evidenziati, ma probabilmente essi sono entrati nella percezione delle persone e della società: mi riferisco, per esempio, come ben spiegato in un recente articolo di Vincenzo Comito, al fatto che in Francia 38 aziende tra le 40 che compongono l’indice della principale Borsa francese hanno realizzato, nel 2022, un utile complessivo di 152 miliardi di € (l’11% in più dell’anno precedente) e annunciano una ricchissima distribuzione di dividendi, superiore del 29% a quella del 2021 o che le prime 500 famiglie francesi hanno visto il loro patrimonio passare negli ultimi 10 anni da 200 a 1000 miliardi di €.

Oppure, ancora, allargando lo sguardo, basta vedere quel che hanno segnalato in un importante studio due ricercatori della Massachusetts Amherst University sulle dinamiche economiche negli Stati Uniti, dal quale si ricava che l’inflazione che si registra da un anno in qua non proviene tanto dalla situazione del mercato del lavoro in America e nemmeno dai rincari energetici in Europa, quanto dalla ricostituzione dei margini di profitto operati dalle aziende. E’ la cosiddetta ‘inflazione da profitti’, profitti che negli Stati Uniti non sono mai stati così alti dal 1947.

E’ poi emersa con forza una rilevante questione democratica. Su questo punto si potrebbe riprendere facilmente il tema del carattere “elitista” della presidenza Macron che non solo ha saltato il confronto con le parti sociali, ma ha voluto presentarsi come ‘un uomo solo al comando‘,  detentore della verità e interprete assoluto del bene dei francesi. Mettendo tra parentesi, tra l’altro, il fatto che il consenso avuto dallo stesso Macron alle elezioni presidenziali di circa un anno fa era più il prodotto di una scelta contro la Destra di Le Pen piuttosto che l’espressione di una condivisione delle sue politiche.

Un atteggiamento in linea con il filone di pensiero neoliberista cui ho fatto riferimento prima, per cui la figura del leader decisionista è coessenziale all’idea di governo di una società frammentata, solcata da conflitti tra le diverse categorie sociali e tra le generazioni. Fino al punto, che ha indispettito non poco la gran parte dei francesi, di ricorrere all’art. 49.3 della Costituzione, quello che consente di arrivare ad una sorta di voto di fiducia sul governo senza doversi esprimere sull’argomento in discussione nelle aule parlamentari e che ha messo ancora più in chiaro la supremazia pressoché assoluta del ruolo dell’Esecutivo, in questo caso del presidenzialismo, rispetto al potere legislativo. E anche di una possibilità di intervento dal basso sul fatto di incidere sulle scelte legislative assai scarso, se si pensa, ad esempio, che il ricorso al referendum abrogativo in Francia, definito come referendum di iniziativa condivisa, è subordinato alla promozione congiunta di 1/5 dei parlamentari e al 10% degli elettori, ossia circa 4,5 milioni degli stessi.

Ciò che succede in Francia ha senza dubbio diverse specificità, ma parla a tutta l’Europa e anche al nostro Paese.

intanto, sugli assetti istituzionali e sul loro rapporto con la qualità della democrazia e la mobilitazione popolare. Nel momento in cui si torna a parlare di presidenzialismo come una delle riforme istituzionali fondamentali da mettere in campo anche in Italia (ma il ragionamento può valere anche per l’idea del premierato forte), non si può non vedere come esso, in realtà, incarni un’idea di ulteriore allontanamento della sfera decisionale dai cittadini, di esautoramento del ruolo del Parlamento, alla fine di un populismo autoritario per cui alle persone non rimane altro se non l’adesione acritica alle scelte del leader o la rivolta sociale.

E’ da qui che occorre muovere una critica radicale a quell’ipotesi e alle sue subordinate, opponendo ad essa una vera inversione di tendenza rispetto ai processi andati avanti negli ultimi anni, rilanciando sul serio il ruolo centrale del Parlamento rispetto al potere esecutivo e accrescendo quello degli istituti di democrazia partecipativa.

Poi, occorre ragionare sul perché il nostro Paese, da un bel po’ di tempo in qua, non è attraversato da conflitti sociali significativi. Da questo punto di vista, non c’è solo la Francia a percorrere una strada diversa, ma anche le forti mobilitazioni sindacali in Inghilterra e in Germania e la grande protesta contro la privatizzazione della sanità in Spagna.
All’ ‘anomalia’ della nostra situazione concorrono certamente molti fattori, dalla riduzione, e per certi versi, autoriduzione del ruolo del sindacato alla frammentazione dei movimenti sociali per i beni comuni, dalla sostanziale inesistenza di una sinistra politica degna di tal nome alla regressione, anche culturale, indotta dalla vittoria di una destra estrema, nazionalista e autoritaria.
Rimane la certezza che, per risalire la china, non c’è alternativa alla costruzione e all’irruzione del conflitto sociale che riesca a rimettere al centro l’insopportabile disuguaglianza sociale e la compressione dei diritti e dei beni comuni.

Cover: Sciopero a Parigi, foto da MasterX, sito del master di giornalismo dell’Università Iulm di Milano  – su licenza Wikimedia Commons 

Il diritto di emigrare, il dovere di regolare

Il diritto di emigrare, il dovere di regolare

Sull’immigrazione possiamo avere due posizioni. La prima dice che tutti hanno diritto di farlo, sapendo però che ciò non modifica la situazione esistente, in quanto una immigrazione senza limiti e regole non è voluta, prima ancora che dai Governi, dagli stessi cittadini, i quali, in grande maggioranza, non sono disposti a vedere stravolta la vita delle proprie comunità con l’inserimento rapido di migliaia di disoccupati questuanti. La seconda fa proposte concrete per migliorare la vita di chi vuole emigrare. In tal senso moltissimo si è fatto in vari paesi europei negli ultimi 20 anni, non in Italia.

Il diritto di emigrare è riconosciuto in tutti i paesi per i rifugiati (che scappano da guerre e persecuzioni nei loro paesi) ma varie sono le limitazioni per i migranti “economici”, coloro che emigrano per migliorare la loro vita e che cercano prima di tutto un lavoro decente. L’accoglienza può essere di due tipi:

  1. quella che interessa agli immigrati e che prevede anche un lavoro che apra ad una inclusione;
  2. il “caso Italia”, che prevede vitto e alloggio per un periodo determinato e poi il “si salvi chi può”, cioè un’accoglienza finta che può tacitare la nostra coscienza e li tiene lontani sia dalla nostra vita che dalla loro, in quanto senza lavoro non c’è autonomia.

Affinché ci sia vera inclusione (e quindi anche un lavoro), l’immigrazione non può essere per definizione illimitata. Nessun paese, per quanto prospero e aperto, è in grado di allocare in breve tempo milioni di immigrati al lavoro. Tantomeno un paese disorganizzato come l’Italia, che non è riuscito ad aumentare la sua occupazione dal 1961 ad oggi. La Germania ha accolto un milione di siriani per una emergenza da guerra ed è riuscita (ma in 3 anni) ad allocarne il 60%. Anche in Italia, per via del calo demografico, sono possibili flussi legali annuali di circa 150-200mila immigrati. Ciò ridurrebbe drasticamente il flusso illegale (che rimarrebbe, ma sarebbe più gestibile, con meno sofferenze e morti). Flussi illimitati non solo non sono mai stati sperimentati da alcun paese, ma avrebbero l’effetto di lasciare centinaia di migliaia di immigrati senza lavoro, alla mercé dello sfruttamento.

Quali sarebbero infatti i principali effetti sociali di una immigrazione di massa?

  1. Un abbassamento dei salari dei lavoratori nativi, in quanto molte imprese marginali sfrutterebbero l’eccesso di offerta di manodopera sostituendo lavoratori già poveri italiani con immigrati.
  2. La distruzione di molte comunità locali, in quanto il caos sociale prodotto da un rapido incremento di disoccupati e poveri aumenterebbe tutte le forme di criminalità che sfrutterebbero il bisogno di sopravvivenza di una moltitudine di persone.
  3. Una svolta securitaria nella grande maggioranza delle persone, che porterebbe ad una ulteriore divisione sociale, alla crescita del razzismo e all’ascesa al governo di partiti di estrema destra, come puntualmente è avvenuto nel passato.

Ecco perché in una politica a favore degli immigrati (e dei ceti deboli nativi) e dell’incontro tra i popoli si deve usare la parola chiave “gradualità”. Senza gradualità e proporzionalità la comunità locale si trasforma da accogliente a respingente, i salari nelle professioni non qualificate da medio-alti a medio-bassi… quello che vuole il capitalismo liberista che, non a caso, è a favore della “libera circolazione dei capitali, delle merci, dei servizi e delle persone ” e non assegna alcuna priorità all’occupazione (come prevede la nostra Costituzione ma non i Trattati europei). La destabilizzazione del Medio Oriente da parte degli Stati Uniti, prima con l’Iraq e poi con la Libia, con l’attivazione di imponenti flussi migratori verso l’Europa, è stata la più micidiale politica di distruzione dell’Europa politica, al servizio di una logica (americana) dentro cui l’Europa è solo un grande mercato unico.

L’emigrazione è spesso una scelta dolorosa, traumatica prima di tutto per i bambini. Tutti i popoli preferirebbero vivere dove sono nati e il mondo ideale è quello dove l’emigrazione è una scelta libera e comunque non imposta dal bisogno. Ecco perché, pur coi limiti di una società capitalistica, le politiche più efficaci sono quelle della cooperazione che creano le condizioni, nei paesi poveri, di un loro sviluppo che non sia la “fotocopia” del nostro.

Le multinazionali lavorano per un mondo omologato, individualista e consumista, in cui sia erogato ai poveri un sussidio per ragioni di sicurezza sociale, in modo che la massa dei “paria” (nativi e immigrati) non disturbi il benessere dei più abbienti, e che un eccesso di offerta di lavoro riduca i salari dei dipendenti. Se poi ci sono “lotte tra poveri”, ancor meglio.

Una immigrazione programmata e ordinata è nell’interesse prima di tutto degli immigrati, ma anche dei lavoratori indigeni, dei ceti deboli locali e delle tradizioni stesse dei singoli popoli che il capitalismo finanziario vorrebbe omologare, distruggendo le identità locali, culturali, religiose e spirituali.

Da dove verranno questi immigrati? In gran parte dai paesi i cui connazionali hanno già trovato qui lavoro perché sono apprezzati. Del resto gli immigrati stessi arrivano per costruire una vita migliore, la cui base fondamentale è un lavoro dignitoso. Ed è per questo che moltissimi sbarcano in Italia ma poi vanno altrove.

L’idea che si possano accogliere nelle nostre società “abbienti” (sempre meno capaci di proteggere i nostri stessi ceti medi e deboli) milioni di poveri immigrati senza produrre un ulteriore sfacelo sociale (dalle comunità locali, alla moltiplicazione dei conflitti), è una fantasticheria.

I flussi migratori sono, almeno in buona parte, regolabili come il fluire dei fiumi, che hanno bisogno di manutenzione e cura. Sta a noi decidere se lasciarli alla mercé dei trafficanti e (per i più fortunati) del click day del 27 marzo (un modo per assumere in realtà irregolari) e quindi perpetuare una finzione collettiva o risolvere i problemi nell’interesse nostro e loro.

A cosa serve un Periscopio?

A cosa serve un Periscopio?

Definizione: Periscopio  (dal greco: περί “intorno” e σκοπεῖνs “guardare”) : sorta di cannocchiale, usato soprattutto nei sommergibili e nei carri armati, costituito da un tubo verticale e da due prismi riflettenti, che consente la visione dell’intero giro di orizzonte.

Un tubo, tutto qui, poi è nato il quotidiano online indipendente Periscopio. Da allora – d’ora in poi – la sua forma, il suo campo d’azione si è modificato, ampliato, sbizzarrito. Serve sempre per leggere e interpretare il mondo a 360 gradi (noi sì, non certo Giorgia Meloni), per spingere lo sguardo lontano, ai grandi avvenimenti (macroscopio) ma anche al piccolo, alle microstorie quotidiane (microscopio).

Per farvi capire, abbiamo preparato un specie di gioco.
A cosa serve un Periscopio?
Dove arriva Periscopio?
Cosa significa “informazione verticale”?
Ecco qualche esempio illustrato.

Periscopio viaggia anche all’asciutto. Come una mongolfiera. A energia ecologica volontaria

 

A Periscopio piace la democrazia,  la libertà d’espressione, lo sciopero e il corteo come forma di protesta

 

Periscopio ha in testa le donne, la violenza su di loro, la schiavitù, la loro lotta di liberazione.

 

La guerre non piacciono a Periscopio; in nessun caso, in assoluto. Dobbiamo raccontarle, ma scriviamo di pace, pacifismo e nonviolenza.

 

“Prima si salva, poi si discute!!”. Periscopio scrive e discute di leggi, flussi, permessi di soggiorno, accoglienza … ma “prima si salva, poi si discute.”.

 

Periscopio non si occupa solo di disgrazie. Ci piace raccontare la festa, il gioco, il piacere di stare insieme. L’incanto di una poesia, di una canzone, di un attore sul palco. E  andiamo pazzi per l’ arte,  per i libri, i film, i cartoni animati, le vignette che fanno pensare….

 

Poi c’è la Politica, quella casereccia e quella internazionale: l’Europa, l’America, la Cina. La Grande Storia e il turbocapitalismo che condizionano la storia personale di ognuno di noi. E ci sono i Grandi della Terra, i leader amanti del Pil, della guerra e del proprio ego: Il paradigmatico Trump  (merita infatti la  copertina) ma anche Biden e Putin. Sopra di loro, e sugli spietati padroni di Wall Street, viaggia, naviga e vola Periscopio. Per sparare, il nostro pallone-sommergibile dispone di un solo tipo di munizioni, le parole. Noi usiamo quelle.

Per conoscere informazioni sul quotidiano online indipendente Periscopio, leggi:
Aprite gli occhi; è arrivato il nuovo Periscopio!
Periscopio: istruzioni per l’uso

Tutte le illustrazioni sono di Ambra Simeone

Il Mugello nell’occhio del ciclone: difendiamo i crinali Appenninici dall’industria eolica

Il Mugello nell’occhio del ciclone: difendiamo i crinali Appenninici dall’industria eolica

I LAVORI SONO ALLE PORTE
CHIUDIAMOLE!!!

Di che ciclone si tratta???
Dell’impianto eolico industriale che i sindaci di Vicchio e Dicomano, Carlà Campa e Passiatore, con il beneplacito, per non dire la complicità, del governatore Giani della Regione Toscana, non vedono l’ora che si realizzi.
Ad opera di chi? AGSM-AIM o di chiunque altro non importa, basta prendere le compensazioni e farsi vanto della realizzazione di un’impianto all’avanguardia per il bene del Paese!
Invece sarà un ‘altro vero e proprio CICLONE  che di nuovo travolgerà il Mugello, dopo quello devastante dell’Alta Velocità ferroviaria poco più di 20 anni fa, e come quello si porterà via un’altra quantità di risorse del territorio, come è successo per l’acqua,  e molto probabilmente succederà ancora nel caso della sfortuita realizzazione dell’impianto eolico industriale del Giogo del Villore.

Di questo parleremo sabato 1 aprile a Caselline di Vaglia, a metà strada tra il Mugello e Firenze, augurandoci che chi è ancora sensibile al fascino della Natura incontaminata, all’esigenza di difenderla, chi conosce l’importanza della biodiversità e della bellezza che si nasconde sui crinali Appenninici, e si manifestano a chi ha occhi per vedele e orecchie per sentirle, venga e si unisca a noi nella battaglia per la libertà della montagna appenninica dallo sfruttamento industriale!

Comitato per la Tutela dei Crinali Mugellani
Info: libericrinali2023@gmail .com

Numeri /
Il David e il pene piccolo

Numeri: Il David e il pene piccolo

Avrete letto che una insegnate di una scuola media della Florida (Usa) è stata licenziata per aver fatto vedere agli alunni undicenni il David di Michelangelo.
Il David ignudo è alto 5 metri e pesa 5 tonnellate di marmo, Michelangelo impiegò quasi 3 anni per finirlo (dal settembre del 1501 fino a maggio del 1504) e iniziò che aveva 26 anni. Allora i capolavori si facevano con calma. Leonardo per fare L’Ultima Cena a Milano ci mise 4 anni e non gradiva l’affrettarsi che voleva il priore. Per questo lo fece somigliante al volto di Giuda.

Michelangelo visse 89 anni nonostante il gran scolpire, perché il fare rafforza la volontà e il corpo vitale. Se infatti il pensare distrugge il corpo vitale, il fare lo preserva. I fiorentini che lo volevano assolutamente sepolto in Santa Croce a Firenze, lo trafugarono da Roma e impiegarono 3 settimane per portarlo su un carro nel febbraio 1564. Nonostante il gran tempo, il corpo arrivò intatto.

Michelangelo era profondamente religioso e non volle raffigurare un David vincitore (com’era stato sempre in passato) in quanto, anche se hai ragione, quando vinci e uccidi, sei comunque in una posizione di “potere” e come tale non cristiana. Per questo Michelangelo decise di ritrarlo nel momento in cui sta per lanciare il sasso contro Golia e non sa ancora se riuscirà nella sua impresa. E’ quindi il momento, profondamente umano, del coraggio, di chi si ribella ai potenti, del dubbio, della paura, come si conviene a chi crede nel messaggio evangelico.

Se le mani furono lievemente ingrandite proprio per dare importanza al fare e alla volontà, il pene fu fatto piccolo.
Già nella tradizione della Grecia Antica un pene piccolo e non eretto era associato alla moderazione, una delle doti imprescindibili della virilità e quindi di un guerriero. Al contrario, un pene grosso simboleggiava l’incapacità di gestire gli impulsi e di agire con intelligenza e risolutezza.
Eroi, dèi, atleti, erano tutti rappresentati con il pene piccolo, a indicare che si trattava di personaggi onorevoli perché razionali e in grado di controllare i propri istinti “animali”. Non a caso i satiri (esseri mitici, mezzi uomini e mezzi capra, dediti alla lussuria selvaggia) e altre tipologie di uomini non “ideali”, venivano rappresentati con un grande pene eretto.

Ma gli americani (e tutti gli uomini di potere) di queste cose non ci capiscono.

Parole e figure /
Siete pronti a incontrare un orso?

Siete pronti a incontrare un orso?

Una guida specialissima su cosa bisogna fare quando si incontra un orso nel bosco. Un must-read per ogni aspirante avventuriero nella natura!

Non si è mai pronti a incontrare un orso. Benvenuti nella foresta, allora, salvo sapere come destreggiarsi di fronte a questo amico più bravo di noi in tante cose.

C’è un divertente libro illustrato, appena uscito con Iperborea, Se incontri un orso, che prova a offrire utili consigli su cosa fare e non fare quando ci si imbatte in un orso mentre si cammina tranquilli in un bosco, zainetto in spalla da boy-scout, cappellino, cestino della merenda al braccio e magari masticando una gomma americana che fa i palloncini.

Si deve correre via, arrampicarsi in alto o forse semplicemente offrirgli un gustoso barattolo di miele? Non correre certo, lui è più veloce, e nemmeno nuotare, nuota meglio di noi. Arrampicarsi poi, ancora meno, sicuramente è più bravo. Forse giocare con un tablet, in quello potremmo essere più bravi, ma l’orso non sa disegnare. Nascondersi sarà difficile, lui ha olfatto e udito al top, e allora cosa fare? Chiacchierare, cantargli una canzone, raccontargli una barzelletta, offrirgli un cestino di frutti di bosco?

Ci sono molte cose da tenere a mente. In questo libro geniale e pieno di humour sincopato, gli autori Malin Kivelä e Martin Glaz Serup consigliano un simpatico bambino che ne incontra uno per davvero. E quando ci si trova davanti a una sfida del genere, ogni aiuto è prezioso. L’importante è non voltare mai le spalle all’orso e dargli l’idea che si è una brava persona e si hanno intenzioni pacifiche. Tanto lui sarà sempre più bravo!

Questa guida, con le sue pratiche istruzioni da ridere a crepapelle, è animata dalle magnifiche illustrazioni della pluripremiata Linda Bondestam, che catturano il contrasto tra i pericoli della foresta oscura e la narrazione esuberante.

Buona lettura! E buona passeggiata nel bosco.

Malin Kivelä (1974) è una scrittrice, drammaturga e giornalista finlandese di lingua svedese, laureatasi nel 1999 alla Scuola svedese di Scienze sociali di Helsinki. Autrice di romanzi, libri per bambini e testi teatrali, è stata una delle fondatrici del teatro sperimentale Skunk. Ha vinto il premio letterario svedese YLE per i romanzi Annanstans (2013) e Hjärtat (2019).

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Martin Glaz Serup (1978) è un autore danese, vincitore del Michael Strunge Prize per la poesia. Ha pubblicato libri per bambini e raccolte di poesie, ed è stato redattore e critico per diverse riviste letterarie. Attualmente insegna poesia e scrittura creativa all’Università di Copenaghen.

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Linda Bondestam è una famosa illustratrice finlandese, ha illustrato numerosi libri per bambini, poi tradotti in tutto il mondo. Dal 2019 siede sulla sedia numero 11 dell’Accademia svedese del libro per bambini.

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Se incontri un orso, di Malin Kivelä e Martin Glaz Serup, illustrato da Linda Bondestam, Iperborea edizioni, collana Miniborei, prima edizione 1° marzo 2023, 36 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Periscopio, istruzioni per l’uso

Guardare e leggere Periscopio: istruzioni per l’uso

La vita, istruzioni per l’uso è un famoso romanzo-non romanzo di George Perec. Per alcuni Perec, come Queneau, è noioso, illeggibile. Per me no, il romanzo di Perec è un gioiello di stile e di intelligenza: per fortuna la pensava così anche Italo Calvino. Naturalmente leggerlo non significa automaticamente “imparare a vivere”, ma ti mette in testa strane idee e molti dubbi interessanti. Nel micro (perché Perec è Perec) Periscopio si propone la stessa cosa: non di spiegarvi come va il mondo, cosa c’è di sbagliato e cosa bisognerebbe fare per raddrizzarlo, ma raccontare semplicemente delle storie, i sogni e i bisogni  che ci abitano, e porre domande. aprire altri punti di vista, mostrare qualche angolo di storia rimasto colpevolmente al buio.

Avete sotto gli occhi la Veste nuova di Periscopio. Qui, le nostre istruzioni per l’uso, sono solo un manuale, un vademecum per il lettore, un navigatore non-satellitare per orientarsi nel rigoglioso bosco di un quotidiano diverso dagli altri. Se però la lettura vi annoia, seguite il consiglio di Pennac, smettete di leggere queste note e affrontate l’ignoto, navigate in libertà, senza mappa, scoprite da soli il vostro personalissimo Periscopio.

Cominciamo dall’inizio, dalla testata: in alto, grande, centrata, come in tutti i quotidiani che si rispettino. Non vedete più il sottomarino con il suo il periscopio, il cielo e il mare. C’è solo il logo: Periscopio, accompagnato da un mirino (sembra un tirassegno, ma è un mirino, un invito a andare al centro delle notizie). Periscopio vorrebbe guardare lontano, o almeno un po’ più in là del punto dove di solito si fermano tutti i giornali. La testata è immersa in un colore che abbiamo scelto con cura. È un verde petrolio. Ci piace molto, ed è l’unico petrolio che riusciamo a sopportare.

Appena sopra la testata trovate i nostri canali: Facebook, twitter, instagram, YouTube. Per ora non fateci caso, li abbiamo ereditati da ferraraitalia e dobbiamo ancora sistemarli. L’unico che funziona e che potete usare per approvare, disapprovare e commentare è Facebook, noi però preferiamo i commenti (aperti a tutti) direttamente sotto ogni articolo, oppure una vostra email.

Sotto la testata (lo so che sembra una lezioncina, ma forse a qualcuno può servire per orientarsi), dicevo, sotto la testata c’è la barra degli strumenti : Home – Chi siamo – Quotidiano –  Rubriche – Ferraraitalia – Sostienici – Contatti. Alcune voci sono ancora incomplete o addirittura vuote, ma queste quattro sono importanti. In Quotidiano trovate in ordine cronologico tutti gli articoli pubblicati, a cominciare dall’ultimo, indipendentemente dalla casella che sono andati ad occupare sul giornale. In Ferraraitalia tutti gli articoli che hanno a che fare con Ferrara e la sua comunità. Invece cliccando su Categorie e Rubriche si apre una tendina con l’elenco completo. Le categorie sono i temi, gli argomenti, mentre nelle Rubriche trovate le pagine scritte o curate dai vari autori di Periscopio.

Il primo articolo con la foto a tutta pagina è l’articolo del giorno, o quello che riteniamo più rilevante o interessante. Questa apertura noi la chiamiamo PRIMISSIMO PIANO.
Appena sotto, a formare una specie di mosaico, i 5 articoli di PRIMO PIANO: sono articoli che riteniamo rilevanti, usciti il giorno stesso e nei giorni appena precedenti. Sotto il Primissimo e il Primo piano c’è un rullo con 25 articoli che potete far scorrere e visitare a piacere. Per noi è la striscia IN EVIDENZA 

Scendiamo ancora verso il basso, lasciamo indietro quella trentina di articoli che corrispondono più o meno alla “prima pagina” del quotidiano. Solitamente un giornale finisce lì, ma Periscopio avete appena cominciato a esplorarlo. Ora trovate, dentro una grafica particolare, la sezione Ferraraitalia. Attenzione, anche se non siete di Ferrara e dintorni, potete trovare cose che vi riguardano molto da vicino: effetti della globalizzazione e scrittura glocal.

Un giallo becco d’oca accompagna gli Speciali: una storia o un viaggio a puntate, il percorso a tappe di una mostra, di un convegno, di un festival, l’antologia dedicata a un autore o a un argomento, un fumetto a puntate. Insomma, una proposta seriale, senza la noia e la superficialità dei serial televisivi e dei tormentoni politici. Uno “Speciale” può farvi compagnia per molti giorni. Potete cominciarlo, smettere e riprendere la lettura quando volete. Periscopio non butta via nulla. Ha la memoria lunga.

Gli Eventi si spiegano da soli. Anche se le scelte di Periscopio potranno stupirvi. I grandi eventi, quelli di cui tutti parlano, non godono del sacro diritto di precedenza. Così, invece del centenario di Antonio Canova o della Biennale di Venezia, sotto i riflettori può starci un piccolo festival di poesia errante o una rassegna di micro-teatro in giro per gli appartamenti di un grattacielo. Ecco, scegliamo eventi, piccoli o grandi, che facciano girare il cervello e muovano i nostri sensi e il residuo dell’anima. Scommettendo, va da sé, nel cervello e nell’anima dei lettori.

In fondo, si apre il catalogo delle Pagine e Rubriche. Un continente sconosciuto e da conoscere a poco a poco.  Parafrasando un grande bibliotecario e bibliografo: ad ogni lettore la sua rubrica, a ogni rubrica i suoi (affezionati) lettori. Per ora le proposte sono trenta. Aumenteranno, perché Periscopio è continuamente alla ricerca di nuove scritture e nuovi autori.

Gli indizi sono finiti. Restano le firme dei tanti che per Periscopio scrivono e collaborano al giornale. Perché lo fanno? Per piacere e per passione. Nient’altro.

In copertina: elaborazione grafica di Ambra Simeone

Aprite gli occhi:
è arrivato il nuovo Periscopio!

Aprite gli occhi: è arrivato il nuovo Periscopio!

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo, ardito, colorato, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica dell’oggetto giornale [1], un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informatica, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport… Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione, di accostare il basso e l’alto, di contaminare, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe i compartimenti stagni delle sezioni tradizionali. Accoglie e dà uguale dignità a tutti i generi e a tutti i linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono dentro e fuori di noi”, denunciare il vecchio che resiste e raccontare i germogli di nuovo,  prendere parte per l’eguaglianza e contro la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo.

Con il quotidiano di ieri, così si dice, ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Tutto Periscopio è free, ogni nostro contenuto può essere scaricato liberamente. E non troverete, come è uso in quasi tutti i quotidiani,  solo le prime tre righe dell’articolo in chiaro e una piccola tassa da pagare per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica, ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come quelli immateriali frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e ci piacerebbe cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”, scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dai circoli degli specialisti, dagli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è frutto del lavoro volontario del collettivo redazionale e di una vasta cerchia di collaboratori. Svolge quindi un lavoro di promozione sociale e culturale rivolto a un pubblico nazionale sempre più vasto. Si finanzia attraverso le libere donazioni dei lettori sostenitori che allo scopo intendono costituire una Associazione di Volontariato Sociale senza scopo di lucro. Come ogni impresa del sistema solare ha dei costi e deve fare bilancio. Si sostiene, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita piccoli sponsor e inserzionisti, ma solo le realtà socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome ferraraitalia [2], Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Conta oggi 300.000 lettori in ogni parte d’Italia e vuole crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma anche e soprattutto da chi lo legge e lo condivide con altri che ancora non lo conoscono. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante. Buona navigazione a tutti.

[1] La storia del giornale è piuttosto lunga. Il primo quotidiano della storia uscì a Lipsia, grande centro culturale e commerciale della Germania, nel 1660, con il titolo Leipziger Zeitung e il sottotitolo: Notizie fresche degli affari, della guerra e del mondo. Da allora ha cambiato molte facce, ha aggiunto pagine, foto, colori, infine è asceso al cielo del web. In quasi 363 anni di storia non sono mancate novità ed esperimenti, ma senza esagerare, perché “un quotidiano si occupa di notizie, non può confondersi con la letteratura”.

[2] Non ci dimentichiamo di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno il giornale si confeziona. Così ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 

Cover: elaborazione grafica di Ambra Simeone

Salmo fa flip, flop & fly

Salmo fa flip, flop and fly

Cosa ci fa un vecchio appassionato di blues, soul e jazz ad un concerto di Salmo? Ma soprattutto perché ritorna a vederlo e sentirlo dal vivo?
A scanso di equivoci, il vecchio appassionato di black music sono io che son tornato a vedere Salmo dal vivo a Padova il 23 marzo, dopo averlo visto a Bologna il 25 novembre scorso.
Le risposte sono semplici: Salmo è un artista bravo che sa esprimere, in maniera originale, la “musica del diavolo” e quella “dell’anima” con i suoi testi, con la sua musica e con le emozioni che riesce a creare.


Salmo sa interpretare in maniera piena le inquietudini della sua generazione e di quella dei ragazzi di oggi; riesce a parlare direttamente ai ragazzi e alle ragazze, ad arrivare diretto alla loro testa e alla loro anima, è capace di capirli e di farsi capire.
Io credo che, in tempi come questi in cui la comunicazione è sempre più virtuale che reale e sembra più finta che vera, questa sua qualità umana sia incredibile.
“È un artista vero, è bravo, mi piace perché ha il coraggio di chi dice la verità”: sono gli aggettivi che mi hanno riferito più spesso i ragazzi e le ragazze con cui ho parlato al concerto.
Son tornato a vederlo dal vivo perché ne vale la pena sia dal punto di vista musicale che scenografico.

 

I suoi concerti sono coinvolgenti ed inarrestabili: sono potenti e terapeutici perché fanno star bene. Non c’è mai ripetitività o monotonia nei suoi testi ed i dettagli sono sempre molto curati.
Le sue parole diventano ritmo e musica e la sua musica sa trasformarsi in parola, in sberla, in carezza, in pugno, in abbraccio.
Lui e la sua band attraggono magneticamente con una musica travolgente, con un’energia senza limiti che ricarica all’istante.
I filmati proiettati sullo sfondo risucchiano il pubblico in un allucinante paesaggio surreale che fa viaggiare; sembrano suonare anche loro.
Le parole, sparate come raffiche, colpiscono direttamente nello stomaco e nella testa. La base ritmica è un cuore collettivo che batte fortissimo all’unisono con quello del pubblico.

È difficile inquadrare musicalmente Salmo e questo spiazzamento a cui si è costretti mi sembra un elemento molto positivo per un artista contemporaneo anticonformista, dissacrante e provocatorio perché costringe lo spettatore a non chiedersi che musica è quella che ascolta, ma ti prende per mano con decisione e ti accompagna in un percorso fatto di contrasti ben equilibrati e di meraviglie sorprendenti.
Salmo riesce a mescolare generi diversi con la sapienza e la sensibilità di un grande artista. Rap, hip hop, punk rock, hardcore, blues e pop convivono: a volte in modo conflittuale, a volte in modo naturale.

 

Io, che non sono un critico musicale, ascoltandolo riconosco sapori dei Rage Against The Machine, dei Metallica, dei Creedence Clearwater Revival, del primo rap dei Run DMC, dei Public Enemy, ma anche la tensione delle poesie di Arthur Rimbaud e la sorpresa delle filastrocche di Gianni Rodari.
Il pubblico partecipa esaltandolo ed esaltandosi in maniera condivisa; è un mare di onde che vibrano, saltano, si agitano, si scontrano, si riuniscono e diventano una cosa sola.
Si capisce che il pubblico gli vuole bene perché sente forte la passione che mette nelle sue interpretazioni. Si sente che Salmo vuole bene a suo pubblico perché non si risparmia ma si concede senza pause.

Salmo, il cui vero nome è Maurizio Pisciottu, nei concerti è accompagnato sul palco da Le Carie, la sua band composta da Daniele Mungai aka Frenetik alla chitarra, Jacopo Volpe alla batteria, Marco Azara alla chitarra, Davide Pavanello aka Dade al basso e da Riccardo Puddu aka Verano.

Questi i brani eseguiti durante il concerto di Padova: Russell Crowe, Stai zitto, Antipatico, Parappapà, Che ne so, Daytona, In trappola, La chiave, Criminale , 1984, Perdonami, PXM, Flop/Ace of Spades, A Dio, Hellvisback, Kumite, 90MIN. Monologo e cambio palco per i brani unplugged: Il senso dell’odio, La prima volta, Lunedì, Aldo ritmo, L’alba, Il cielo nella stanza, Run through the jungle. Chiusura affidata al DJ Set.
Per la cronaca, Salmo sarà a Ferrara il 28 giugno prossimo; se volete un consiglio spassionato da parte di un appassionato, non perdetevi quel concerto: sarà un’esperienza forte ed unica, corroborante e magica ma soprattutto non potrà mai essere un “flop”.

P.S.
Flop è il titolo dell’ultimo lavoro in studio di Salmo che ha avuto un triplo disco di platino, uscito dopo Playlist che ne ha avuti sei, il quale a sua volta è stato preceduto da quattro CD che hanno avuto tutti il disco di platino oppure il disco d’oro.
Flip, Flop & Fly è un brano famoso di Big Joe Turner del 1955, reso ancor più conosciuto da The Blues Brothers nel 1978.

Fotografie di Mauro Presini

INCONTRO DI PRIMAVERA:”IO SONO GLI ALTRI”
Sabato 1 aprile ore 15: Reading, Pittura e Poesie Volanti

INCONTRO DI PRIMAVERA:”IO SONO GLI ALTRI”
Sabato 1 aprile ore 15: Reading, Pittura e Poesie Volanti 

“IO SONO GLI ALTRI”
reading, pittura e poesie volanti
Secondo Incontro Poetico di Primavera

promosso dalla Associazione Culturale APS  Ultimo Rosso
in collaborazione con il quotidiano online Periscopio
e la Biblioteca Popolare Giardino

 

Sabato 1 Aprile 2023 : ore 15,00-18.30
al parco del Montagnone

presso il Bar Paradiso Verde di Viale Alfonso I D’Este, 1

 

La Associazione Culturale APS Ultimo Rosso organizza il secondo Reading di Poesia di Primavera nella location ormai consueta del Bar Paradiso Verde, nell’area di alberi e prato accanto al locale attrezzata per l’occasione ad accogliere le diverse attività previste.

Nel corso del pomeriggio si potrà prendere parte alla lettura dei testi poetici, ascoltare musica dal vivo e partecipare a un laboratorio di arteterapia.

Il programma avrà inizio alle 15,00 con le letture di testi poetici accompagnate da sottofondo musicale a cura dei chitarristi Andrea Melloni e Maurizio Miglioli. Il tema a cui sono ispirate le letture, Io sono gli altri, rimanda a un proverbio africano che promuove l’idea di percepire se stessi non da soli, ma all’interno di una comunità, in una vita di relazione, accoglienza ed autoaiuto. e nel rispetto di tutte le forme viventi: piante animali e la madre terra nel suo insieme.

Saranno letti testi di autrici  e autori del passato o contemporanei: le poesie proposte o composte dai poeti e dalle poetesse della Associazione Culturale APS Ultimo Rosso che organizza l’evento, ma tutti gli intervenuti (che speriamo numerosi) potranno intervenire, leggendo le poesie proprie o di altri autori.

Intanto, si potrà trovare ispirazione, alzando lo sguardo e guardando le poesie appese agli alberi. Poeti e poesie resteranno a sventolare ai rami degli alberi fino al 25 aprile, aspettando l’attenzione dei passanti, corridori e delle famiglie, 

Alle 16.00 prenderà il via il laboratorio espressivo – creativo condotto dall’arteterapeuta Miriam Cariani aperto a tutti : bambini ed adulti disposti a mettersi in gioco. Lo spunto del laboratorio saranno i 25 ritratti di bambini realizzati da Mirian Cariani per la mostra “Elin e gli altri” .

Nel segno dell’improvvisazione poetica e musicale, Patrizio Fergnani, munito di chitarra, proporrà le sue canzoni istantanee personalizzate per i partecipanti.

Durante la manifestazione sarà disponibile uno spuntino offerto dalle amiche del Bar Paradiso Verde

In caso di maltempo, l’evento sarà rinviato.

Locandina della iniziativa – 1 aprile 2023

“IO SONO GLI ALTRI”
Autrici e autori appesi agli Alberi
Parco del Montagnone, dall’1 al 25 aprile
2023

Rafael Alberti
Roberta Barbieri
Doris Bellomusto
Bertold Brecht
Anna Rita Boccafogli
Cecilia Bolzani
Rita Bonetti
Miriam Bruni
Lidia Calzolari
Marta Casadei
Julio Cortázar
Roberto Dall’Olio
Erri De Luca
Umberto Fiori
Tiziano Fratus
Pier Luigi Guerrini
Nazim Hikmet
Langston Hughes
Roberta Lipparini
Maria Mancino
Cristiano Mazzoni
Alda Merini
Franco Mosca
Lara Pagani
Sandro Penna
Umberto Saba
Pedro Salinas
Chiara Scaglianti
Kenan Shukur
Charles Simic
Angela Soriani
Franco Stefani
Wislawa Szymborska
Tesfalidet Tesfom
Elena Vallin

Cover: ritratto di bambino, acquerello di Mirian Cariani
Locandina: elaborazione grafica di Ambra Simeone

Diario in pubblico /
Parole nuove

Diario in pubblico: Parole nuove

Da filologo dimezzato e in pensione mi resta la curiosità di esaminare le parole nuove e/o il mezzo con cui parole antiche assumono significati nuovi grazie all’abuso che ne fanno i social e via dicendo, o ancor di più l’uso corrente di parole tecniche.

Per sgombrare subito il campo dai sussurri e grida che personaggi famosi hanno fatto delle parole più antiche si esamini la varietas con cui vengono declinate parole antiche riferentesi a insulti antichi come il mondo, da c…o a t…a.

Ha suscitato scalpore il monologo del sottosegretario alla cultura recitato in un celebre programma televisivo domenicale, in cui oggetto della dotta spiegazione era il termine con cui si definisce la femmina del maiale che, sempre a suo dire, viene dall’informazione tecnica applicato alle donne nate nell’anno 2000. Poi distrattamente rivolgendosi alla figlia le chiede se – come lui è sicuro – è nata nel 1999. Alla risposta che no lei è del 2000, risponde premurosamente di ‘stare attenta’, tra le crasse risate della conduttrice. Ovviamente le scuse ufficiali hanno resi ancor più ghiotta la performance.

Chiunque di noi giri per le strade di paesi, città borghi s’imbatte nella ‘gioventù del loco che mira ed è mirata’ mentre porta in ostensione il più prezioso oggetto taumaturgico, il telefonino, e condisce i suoi passi, specie se femminili, del termine che definisce l’organo maschile.

Del resto, un cantante in una pubblicità stomachevole ammicca agli eventuali acquirenti facendo un calembour tra la parola suddetta e tasso ovviamente economico. Ad una brava e focosa giornalista in trasmissione sfugge quella parola. Apriti cielo. A tutte le vergini dell’ipocrisia sfugge all’unisono un perfetto crucifige!

Ma se le parole sporche hanno tanto fascino presso i cultori della materia, altrettanto risulta stupefacente, l’uso disinvolto di tecnicismi un tempo relegati nell’ambito più stretto del lavoro. Splendida mi è parso la spiegazione condotta dalla Direttrice della Galleria estense di Modena, persona amabilissima e formidabile nel suo lavoro che così descrive il lavoro di pulitura dei quadri:

“In questo momento stiamo analizzando tutte le 427 opere esposte in Galleria Estense, rimuovendole dalla parete o dalla vetrina, per poterle osservare da vicino e annotare in apposite schede eventuali sofferenze o particolarità. Allo stesso tempo, le depolveriamo e le manutentiamo con piccoli interventi localizzati.”

Depolverare e manutentare sono tecnicamente perfetti. E faccio ammenda dei tecnicismi dai noi critici della letteratura di termini consimili usati disinvoltamente al tempo che fu. Ma usare ‘spolverare’ non mi sembra così osé.

Assai interessante anche un commento di un famoso giornalista del quotidiano La Repubblica che così analizza il comportamento di una famosa star:

“Lo scontro tra generazioni potrebbe conoscere una pagina entusiasmante. Pare che Gwyneth Paltrow, classe 1972, brava attrice poi devoluta a star del salutismo on line (pappine, brodini, clisteri depuranti, il corpo angelicato come missione), non incontri i favori della generazione Z, almeno a giudicare da quel vaglio occasionale, e però nero su bianco, che sono i commenti social.”

Bene! ‘Devolviamo’ tutti assieme.

Spendidi poi gli usi di una frase corrente come ‘ In modo spicciolo’ = spicciolamente. O nel verboso e confuso “discorzo” di un politico di prima fascia dove spicca un  “punti di attracco”.

Ormai poi ridotti nel mio uso della lingua a odio estremo almeno a ‘problematiche’ e ‘fragili’. Ma la seconda un po’ meno odiosa, in quanto decine di volte usata da medici, operatori sanitari, scienziati.

Terribile la locuzione appena sentita da una speaker televisiva di “slancio aspirazionale”.

Dunque, parole nuove/antiche che rivelano quanto la parola tenti di agguantare la realtà.

Ma quale realtà?

Sta tutto qui.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui] 

NON DIRE, MOSTRA
Interviene Luciana Passero: 3 aprile, ore 17 alla Biblioteca Ariostea

Invito al 2º appuntamento della rassegna “Non dire, Mostra”

“Lo sguardo fluido”

Luciana Passaro
racconta le identità non conformi con la fotografia 

Il ciclo “Non dire, mostra” a cura di Arcigay Ferrara “Gli occhiali d’oro” continua lunedì 3 aprile alle ore 17 alla Biblioteca Comunale Ariostea con Lo sguardo fluido, incontro con Luciana Passaro. Introduce Manuela Macario, Presidente Arcigay Ferrara “Gli Occhiali d’oro”.

La fotografia come linguaggio e strumento di rappresentazione di identità non conformi alla norma comune. Visione di reportage realizzati da Luciana Passaro, visual designer e fotografa da anni impegnata nell’ARTivismo sociale.

Secondo dei tre appuntamenti dedicati al ruolo che spetta alle arti nella costruzione di un immaginario collettivo in riferimento all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Tre incontri per approfondire e testimoniare la rappresentazione delle identità queer nell’arte visiva, nella fotografia e nella musica.

La rassegna terminerà l’8 maggio con lo scrittore Vincenzo Patanè (Icone gay nell’arte. Marinai – Angeli – Dei)

La locandina completa della rassegna:

Arcigay Ferrara APS — «Gli Occhiali d’Oro» di Giorgio Bassani

Mediterranea è sbarcata a Ferrara

Mediterranea è sbarcata a Ferrara

In questi giorni festeggiamo un avvenimento molto emozionante per tutta la grande famiglia di Mediterranea Saving Humans: una delegazione è stata ricevuta da papa Francesco! Un incontro avvenuto il 22 marzo nel suo stile: quello della semplicità, dell’ascolto e della condivisione.
Più di un’ora di confronto in cui abbiamo avvertito una volta ancora la sua vicinanza e il suo sostegno.

La delegazione di Mediterranea in Vaticano da papa Francesco

Mediterranea è una giovane organizzazione, nata da una idea che può sembrare quanto meno originale: comprare una nave e metterla in acqua, per il salvataggio di bambini, donne ed uomini che rischiano tutto per trovare una vita più dignitosa nel nostro continente.
Persone che fuggono da miserie, povertà, guerre, violazioni dei diritti, spesso provenienti da Paesi in cui gli effetti della crisi climatica sono già molto evidenti: siccità, carestie…

L’idea dei fondatori è stata visionaria, come lanciare un seme nel vento… La risposta è stata repentina e trasversale, portando all’adesione al progetto persone provenienti da mondi apparentemente lontani: dai centri sociali alle parrocchie, passando per ARCI e Banca Etica. Possono esserci anche differenze sostanziali su tanti ambiti, ma ci siamo riuniti intorno ad una pratica e ad una certezza: “prima si salva, poi si discute!”

Il 3 ottobre 2018 la Mare Jonio, un rimorchiatore del 1973, è salpata dal porto di Augusta per la sua prima missione ed è diventata la prima e per ora unica nave di soccorso battente bandiera italiana.
Da allora le missioni di mare sono state 13 e 680 le persone salvate, scampate alla morte in quel mare, il Mediterraneo centrale, conosciuto come il più grande cimitero del mondo. Secondo l’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dal 2014 ad oggi sono più di 25.000 i morti o dispersi in mare.

Di queste morti, purtroppo, i governi italiani ed europei sono fortemente responsabili, a seguito di una politica all’insegna dei respingimenti, delle omissioni di soccorso e del finanziamento della cosiddetta ‘guardia costiera libica’. La strage di Cutro, che passerà alla storia come la strage dei bambini (35 i piccoli corpi recuperati), è uno degli ultimi esempi.
Definiamo cosiddetta la guardia costiera libica, perché composta da personaggi discutibili, spesso miliziani, quando non macchiati da crimini e mandati internazionali, come nel caso di Bija. Eppure con questi personaggi tutti i governi, da Minniti in poi, hanno fatto e rinnovato accordi, come il Memorandum Italia Libia, accordo bilaterale secretato. Non ci è dato sapere su cosa esattamente le parti si siano accordate.

Quello che ci è dato sapere e vedere, invece, sono i segni di torture, abusi e stupri nei corpi e nelle anime delle persone che arrivano. Persone che, nel loro viaggio verso una vita migliore, arrivano in Libia, dove vengono detenuti in veri e propri lager. Questo è quello che sta accadendo negli ultimi anni e questo è quello che non ci stancheremo mai di denunciare e per cui continueremo a lottare.

Con l’inizio della guerra in Ucraina, Mediterranea ha iniziato missioni anche di terra, inizialmente portando aiuti umanitari e tornando in Italia con profughi messi al riparo. Dall’estate 2022, si è avviato il progetto MedCare: team di medici e volontari offrono assistenza sanitaria di base e beni di prima necessità alla popolazione civile, soprattutto dei campi profughi, in stretta collaborazione con associazioni locali con cui si sono stretti rapporti di amicizia e fiducia.

L’ultima missione è rientrata da pochi giorni ed è partita proprio dall’Emilia Romagna, con uno sforzo coordinato tra i vari equipaggi di terra di Mediterranea. Anche da Ferrara abbiamo contribuito grazie al pulmino messo a disposizione dalla Parrocchia Sant’Agostino. Durante la missione è stata consegnata un’ambulanza all’ospedale Dyadkovichi, centro per le cure palliative della provincia di Rivne. L’ambulanza servirà a supplire alla carenza di mezzi dovuta alla situazione bellica, che ha privato la città non solo di vetture sanitarie, ma anche degli scuolabus per spostare gli studenti sul territorio.

Gli equipaggi di terra sono molto importanti nella vita di Mediterranea perché sostengono le missioni e, in tutti i territori in cui sono presenti, sensibilizzano a questi grandi temi del nostro tempo.
A Ferrara il gruppo è nato ad agosto 2021 ed organizza con continuità iniziative di vario tipo.

Il prossimo appuntamento è previsto lunedì 27 marzo alle ore 17.00 un incontro pubblico dal titolo “La cura senza confini. Dibattito sul soccorso in mare e sulle operazioni di terra”.
Ne parleremo con Vanessa Guidi, presidente di Mediterranea Saving Humans, capamissione e medica a bordo della Mare Jonio e in diverse missioni di terra.
L’evento è in collaborazione con SISM Ferrara (Sindacato italiano Studenti in Medicina), SCORP e Laboratorio Antirazzista dell’Università di Ferrara.
Si terrà nell’ Aula D6 del Polo Chimico Biomedico, in Via Luigi Borsari 46.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative dell’equipaggio di terra di Ferrara, o aderirvi, è possibile scrivere a mediterranea.fe@gmail.com

In copertina: la Mare Jonio, la nave soccorso di Mediterranea Saving Humans

Per certi versi /
Il viale della mente

Il viale della mente

Il viale
Della mente
Sapeva in fondo
di lilla
Con petali di monti
Fioriti
Il cielo diviso
Tra l’arancio
Savana
Diottrie azzurre
E un grigio oscuro
Di nuvole satolle
In mezzo
La riga dolce
Dei suoi capelli
Il fiato che bolle
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
La cerva dell’aurora

Presto di mattina. La cerva dell’aurora

Il canto del desiderio

Come una cerva
che si trascina
verso corsi d’acqua pura,
tutto il mio essere,
anela a te, brama te.
La gola mia ha sete di te del Dio vivente
e quando verrò e potrò il volto di Dio vedere?
(Sal 42/41)

Nel vado/uadi austero e secco della Quaresima è il tempo di cantare la sete: «tempo è di tornare poveri/ per ritrovare il sapore del pane,/ per reggere alla luce del sole/ per varcare sereni la notte/ e cantare la sete della cerva./ E la gente, l’umile gente/ abbia ancora chi l’ascolta,/ e trovino udienza le preghiere» (D. M. Turoldo, O sensi miei, Rizzoli, Milano 1997, 617).

È il canto del desiderio, del bramito dei cervi, pure quello della notte oscura, del cuore del salmista non ancora rincuorato, del sentire Dio lontano come un Uadi senz’acqua. È il canto che sgorga dalla sete della cerva, il suo sospiro, quello con cui si identifica e si presenta a noi il salmista, che errando lontano, come in esilio, va alla ricerca del suo Dio. Lo stesso canto dell’amata nel Cantico dei cantici che cerca l’amato suo, ed è intriso da quel desiderio di essere dissetati/rincuorati, guariti da ferita d’amore che ci deve accompagnare verso la Pasqua.

In Canti ultimi nell’imminenza della sua ultima pasqua p. Turoldo scriveva:

Quando sarà venuta… [la morte]
Pure allora mi sgorghi
dal cuore ferito il canto:
come dal costato di Cristo
Usciva sangue e acqua.
Cantare quanto in vita
ti abbia inseguito quale
la cerva del salmo
fiutando sorgenti lontane.
Cantare ancora i gemiti
che la sera – e le notti! – empivano
le vaste solitudini;
e il lungo errare per i boschi
sempre disperato e illuso.
Ora almeno che prossimo
sono all’incontro
svelami come,
pur malato mortalmente di te,
abbia potuto essere a Te infedele:
tradirti nel mentre stesso
che dicevo di amarti!
o forse anche il peccato
è un gesto folle per cercarti?
Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!
(Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 137-138).

Preghiera: il parto del desiderio

Anche questa Pasqua è il parto di un nuovo universo, di un altro orizzonte, di un mattino nuovissimo, un amore non più atteso, un desiderio compiuto, in presenza e per sempre, un faccia a faccia con il volto risorto, vita nel suo spirito che rincuora anche ora, come di sorgente d’acqua sorgiva dall’interno.

La sete, le doglie, le lacrime, la morte, le cose di ogni giorno vengono alla luce, sono trasfigurate e trasformate dalla vita del risorto. Pasqua, un immenso parto proprio nel cuore della terra che riapre il futuro e la speranza.

Vivere come oranti nel tempo di quaresima è come vivere il tempo del desiderio del parto: “parturitio desiderii” così Agostino, Gregorio Magno e Bernardo, maestri del desiderio. Il desiderio è comunicazione per e con qualcuno; è generativo dell’incontro. E la preghiera è espressione del desiderio, l’esercizio diuturno, ininterrotto del desiderio: esercizio e pratica non solo quaresimale: un dare forma ai desideri non mortificando ma facendo vivere, portando alla luce se stessi e gli altri.

Scrive Agostino «Il tuo desiderio è la tua preghiera: se continuo è il tuo desiderio, continua è pure la tua preghiera. L’Apostolo infatti non a caso afferma: “Pregate incessantemente” (1Ts 5,17). S’intende forse che dobbiamo stare continuamente in ginocchio o prostrati o con le mani levate per obbedire al comando di pregare incessantemente? Se intendiamo così il pregare, ritengo che non possiamo farlo senza interruzione.

Ma v’è un’altra preghiera, quella interiore, che è senza interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il riposo in Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non cessare di desiderare. Il tuo desiderio è continuo, continua è la tua voce. La freddezza dell’amore è il silenzio del cuore, l’ardore dell’amore è il grido del cuore. Se resta sempre vivo l’amore, tu gridi sempre; se gridi sempre, desideri sempre; se desideri, hai il pensiero volto alla pace» (Commento sui Salmi, dalla Liturgia delle Ore, vol. I, p. 289).

La liturgia è questo pregare insieme, desiderando insieme, davanti a una presenza reale: “davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito non ti è nascosto” (Sal 38,10). “Lasciando fluire il tuo desiderio in lui, in lui confida e lascialo agire a colmare le brame del cuore” (Sal 37,5).

Dalla preghiera liturgica e delle Ore impariamo pure la pratica della sinodalità dell’andare insieme: desiderio e preghiera ne sono la linfa vitale. È sempre Agostino che riconosce nella postura dei cervi in cammino uno stile sinodale:

«C’è qualcos’altro da notare nel cervo. Dicono che i cervi quando camminano nella loro mandria, oppure quando nuotando si dirigono verso altre regioni, appoggiano la testa gli uni sugli altri, di modo che uno precede, e lo segue un altro che appoggia il capo su di lui, e il terzo lo appoggia sul secondo e così via fino alla fine del branco. Il primo che porta il peso del capo di quello che lo segue, quando è stanco va in coda, in modo che il secondo diventa il primo e lui appoggiando la testa sull’ultimo possa riposarsi dalla sua stanchezza; in questo modo, portando alternativamente il peso, portano a termine il viaggio senza allontanarsi gli uni dagli altri. Non parla forse di cervi di questo genere l’Apostolo, quando dice: portate gli uni i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo» (Esposizione sul salmo, 41[42]).

La cerva dell’aurora

Siamo ora nel vado/uadi del salmo 22/23, il cui incipit è sulle labbra di Gesù in croce, che ripete il grido dell’abbandonato al Dio sentito come assente e lontano: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?». Le parole del salmista vi scorrono in esso dapprima come un urlo di passione, un vuoto di speranza, ma poi, dopo uno sprofondo sempre più devastante, improvvisamente avviene un mutamento: dal buio impenetrabile una luce, un passaggio che si apre alla vita, un anticipo pasquale.

Così i suoi versi si mutano in un canto di gioia e di vittoria: parole assetate che vengono dissetate, parole morte che risorgono e riprendono il cammino. Quelle di colui che ha trionfato sulla cerchia dei suoi assalitori, passando in mezzo a loro; e così, dopo aver sperimentato la sua gola come creta riarsa, egli sperimenta il suo Dio come l’acqua ritrovata e fonte del suo cantare nuovo, perché Egli lo ha liberato nonostante i suoi nemici gli avessero mani e piedi perforati e contate tutte le sue ossa e il suo cuore fosse ormai liquefatto come cera.

I salmi hanno spesso questo carattere torrentizio: inariditi e sgretolati, d’improvviso l’acqua e la vita ritornano, come nei torrenti del Negev in Palestina, vuoti e assetati per un certo tempo, ricolmi solo di suppliche e grida, e poi, d’improvviso, inondati ed esondanti di acque impetuose, di gioia, di gratitudine, della lode, del rendimento di grazie, degli inni per il manifestarsi della salvezza insperata.

Acqua viva quella dei salmi che passando per l’uadi del pianto lo cambia in una sorgente, una prima pioggia l’ammantata di benedizioni (Sal 83).

Si rompono le acque a primavera per far nascere di nuovo la terra a primavera:
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi delle sue ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu fai crescere il frumento per gli uomini.
al tuo passaggio stilla l’abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di grano;
tutto canta e grida di gioia.
(Sal 65 [64])

«Cerva dell’aurora» era probabilmente il nome della melodia sulla quale si doveva cantare il salmo. Ma un’altra traduzione è «per il conforto mattutino», oppure anche «per la fine», come a ricordarci che quel salmo era riferito alla passione, morte e risurrezione del Cristo. Così in questo salmo si può ripercorrere il cammino d’Israele e dei popoli al monte del Signore come pure la preghiera del Servo del Signore, le sue sofferenze e la glorificazione.

Il canto dell’amore mistico

L’invito finale del salmo è di narrare del Signore alla generazione che viene e annunciare al popolo che verrà: «Ecco l’opera del Signore». L’iscrizione ebraica “la cerva del mattino” allude per i cristiani al mattino di Pasqua, alla bellezza della risurrezione che ha il suo emblema nella cerva, all’alba, al sorgere dell’aurora. «Chi è costei che sorge come l’aurora» si canta nel Cantico dei cantici: è l’amata che attende il sorgere del sole amato.

Sia l’assemblea di Israele che attende il Signore più che le sentinelle il mattino, sia l’assemblea cristiana nella veglia pasquale, come pure l’amata nel Cantico dei cantici portano il nome di cerva. Assemblee che ad ogni Pasqua sono chiamate a incamminarsi nel uadi del salmo 63 (62) e a cantare il canto nuovo, quello dell’amore mistico.

Così lo chiama padre Turoldo e aggiunge «…o assetati di lui, altro non dite perché tutto è già detto cantato, sofferto da altri innamorati. È grazia di lui pregare così: O Amato solo te dall’alba desidero, il mio essere ha sete di te, per te spasima la mia anima come arida terra riarsa… Quando in veglie la notte sussurro e ti penso dal mio giaciglio!… canta il mio cuore di gioia all’ombra delle ali tue… A te l’esser mio si stringe, in tua destra è il mio sostegno» (Lungo i fiumi. I salmi, San Paolo, Cinisello Balsamo MI, 1987, 211-212).

Il cervo, considerato nemico dei serpenti perché li fa uscire dai loro nascondigli con l’acqua e poi li colpisce con gli zoccoli, diviene in alcuni scrittori quale emblema e paradigma della fedeltà di Dio contro il serpente antico. È visto altresì come metafora del Cristo che sulla croce fa scaturire dal suo costato l’acqua viva che guarisce dai morsi velenosi della morte, preludio del fonte battesimale da cui scaturisce l’acqua della vita che guarisce la ferita antica.

Nella raccolta patristica Clavis Melitonis si racconta che «il cervo uccide i serpenti dei crepacci con l’acqua che fa uscire dalla sua bocca, un simbolo di Cristo, che ha dato a noi: dal suo costato le acque celestiali, l’acqua della sapienza». Divenne poi anche nell’iconografia dei battisteri simbolo del catecumeno e dei neofiti, i nuovi battezzati a Pasqua.

Desiderio assetato di pace

«Murato nel desiderio senza amore», «chiuso fra cose mortali», dove anche «il cielo mortale finirà», Giuseppe Ungaretti si domanda: «Perché bramo Dio?».

Gli fa eco il salmo della cerva: «Dirò a Dio: «Mia roccia!/ Perché mi hai dimenticato? Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico?». Mi insultano i miei avversari quando rompono le mie ossa, mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?”».

In altro modo la sete della cerva che brama e sospira l’acqua che non c’è e quella dell’anima del salmista che brama di vedere il volto nascosto del Vivente è ripresa nei testi poetici di Giuseppe Ungaretti.

Leggendo la poesia Accadrà mi è venuto di declinare la situazione della città di Roma occupata dai nazisti durante la guerra alla condizione della cerva del salmo 42. Anche Roma, oppressa dalla “cenere” della guerra, brama libertà e con lei tutte le città incenerite dalla desolazione infernale e distruttiva delle guerre.

Nella sezione Roma occupata la lirica Accadrà fa parte della raccolta Il dolore. Il poeta immagina Roma occupata dilaniata dai bombardamenti, “tesa sempre in agonia” in cui il male sembra ormai avere il sopravvento e non finire più. Le sue parole sono un appello al Cristo perché confermi la sua promessa di Roma città per sempre.

Sogno, grido, miracolo spezzante,
Seme d’amore nell’umana notte,
Speranza, fiore, canto,
Ora accadrà che cenere prevalga?

Anelante come la cerva al uadi è così decritta Roma: «umile interprete del Dio di tutti» in attesa – come tante città anche oggi – di essere dissetata dall’arsura rovente del fuoco della guerra spento dalle acque della pace.

Tesa sempre in angoscia
E al limite di morte:
Terribile ventura;
Ma, anelante di grazia,
In tanta Tua agonia
Ritornavi a scoprire,
Senza darti mai pace,
Che, nel principio e nei sospiri sommi
Da una stessa speranza consolati,
Gli uomini sono uguali,
Figli d’un solo, d’un eterno Soffio.

Da venti secoli T’uccide l’uomo
Che incessante vivifichi rinata,
Umile interprete del Dio di tutti.
(Vita d’uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 231-232).

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