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Vite di carta /
È “Oro puro” il nuovo libro di Fabio Genovesi

Vite di carta. È Oro puro il nuovo libro di Fabio Genovesi.

Oro puro lo stavamo aspettando: le copie prenotate in libreria per il 6 giugno, secondo le indicazioni dell’autore.

Fabio Genovesi aveva già incontrato i ragazzi del Liceo Ariosto il 17 marzo 2022, poco più di un anno fa. Ho ricordato il giorno e il mese perché in questa vicenda di lettura e di empatia le date sono importanti, tanto che è stata fissata già la prossima.

Il 9 marzo 2024 Genovesi ha promesso di venire in gruppo con noi al Teatro Nuovo, ad assistere allo spettacolo teatrale Il calamaro gigante, tratto dal suo romanzo omonimo uscito nel 2021 e interpretato da Angela Finocchiaro e Bruno Stori.

Il Calamaro è il libro che ha fatto incontrare per la prima volta l’autore e noi di Ferrara, intendo i ragazzi e le colleghe del progetto Galeotto fu il libro, più noi due “pensionateee” come ci ha chiamate da subito lui con tante “e” cariche di stupore. Volendo stigmatizzare non la nostra età ma la forza della passione che ancora ci porta a stare nel gruppo di lettura dentro la scuola in cui abbiamo insegnato a lungo.

Nel primo incontro sono stati i reciproci stupori a incontrarsi, e credo che piacerebbe a Calvino questa mia definizione. A lui, Calvino, che ne Il cavaliere inesistente attraverso gli occhi del giovane e inesperto Rambaldo ci fa vedere la battaglia come un cozzo tra due polveroni (gli eserciti opposti di Carlo Magno e dei Saraceni) e tra opposti colpi di tosse.il cavaliere inesistente

Fabio sul palco, stupefatto dalla intensità con cui gli studenti hanno preparato le domande sul libro e i loro contributi creativi fatti di immagini e di un booktrailer. Noi basiti dal suo silenzio: ha guardato e ascoltato ma ora che tocca a lui non parla. Ci guarda. Guarda tutti all’intorno e poi con voce roca dice “Voi siete pazzi”.

Nei mesi seguenti a questi pazzi ha mandato messaggi, tenendoli al corrente del lavoro di scrittura che stava completando. Il messaggio di aprile diceva che Oro puro sarebbe uscito nei primi giorni di giugno e che sarebbe stato bello parlarne insieme durante il tour delle presentazioni in giro per l’Italia.

Arrivo al dunque: i ragazzi del Galeotto dicono sì al lavoro di preparazione da fare per la sera del 22, anche se la scuola è finita, e noi docenti fissiamo con loro le mattine in cui vederci e divertirci  alla caccia di nuovo stupore.

Il libro supera le 400 pagine, ma è un incanto. Si fa a gara a finirlo e guai a chi svela il finale. Si prepara di tutto: brevi drammatizzazioni e spin off, cartelloni e locandine, origami che ricreano pappagalli e granchietti di carta, e soprattutto un video, la cui animazione è a dir poco poetica. Ed è costata alla ragazza che l’ha ideata e realizzata qualcosa come trentacinque ore di lavoro.

La festa, questo è per noi, comincia alle 21 nel giardino del liceo, ma siamo tutti lì almeno tre ore prima per le prove generali e per allestire il buffet che precede la conversazione. Sono state preparate una trentina di domande che permettano al pubblico l’incontro con un libro pieno della bellezza e della meraviglia del viaggio di Colombo verso l’ignoto.

La data dell’approdo è il 12 ottobre 1492. Se ne parla il 22 giugno 2023 davanti a un pubblico numeroso da grandi occasioni (sono trascorsi esattamente venti anni dalla nascita del nostro progetto Galeotto), ma il tempo che è passato sembra non contare. Stasera tutto è presente.

Tutti i ragazzi che dialogano con l’autore potrebbero essere Nuno, il mozzo che viaggia sulla Santa Maria ed è partito per caso senza conoscere nulla della navigazione. “Non sapere niente” è il suo stigma, è una mancanza ma anche una inestimabile risorsa, quella che gli permette di vedere mondi nuovi, i mondi degli altri marinai e il mondo dell’oceano e delle nuove terre, con lo stupore della prima volta. Nuno, però, sa scrivere.

Nelle ore che passa nella cabina del Capitano, “quel signore alto, col naso a punta e i capelli già bianchi”, ne scrive le note di viaggio sotto dettatura e piano piano si rende conto che Colombo ha la forza del sogno a sostenerlo nel viaggio, anche quando c’è bonaccia e la nave resta ferma nella vastità dell’oceano. Anche quando è squassata dalla tempesta.

Ha il sogno e possiede le parole per trasmetterlo ai marinai impauriti e stanchi. “Siamo chiamati a questa impresa, trovare una nuova via verso le terre favolose d’Oriente, che porti nuovi regni e nuove anime al Signore, nuova gloria, nuova ricchezza, nuovi trionfi.”

Colombo agisce in nome dei sovrani di Castiglia e quando sbarca sulla prima isola del nuovo mondo, pur avendo davanti agli occhi un vero paradiso fatto secondo Nuno di una “immensa, travolgente meraviglia”, qual è la prima cosa che fa? Insieme a un drappello di “signori eleganti, formali e scrupolosi” si mette a “compilare un atto notarile” .

Gli occhi stranianti di Nuno vedono due mondi incontrarsi per la prima volta e, dirà in una veloce anticipazione del dopo, sarà l’unica volta in cui occidentali e indigeni si sorridono e si capiscono pur senza avere una lingua comune. Per questi ultimi gli Spagnoli sono e rimarranno una sorta di dei venuti dal cielo. Per gli Spagnoli e per Colombo la ospitalità degli indigeni è un ottimo preludio agli schiavi mansueti che dovranno diventare.

Mi fermo qui. La storia di Colombo è nota e ne sono noti gli errori, come quel non comprendere mai di non essere approdato in Asia dalle parti del regno del Gran Khan, ma in un continente diverso, che noi chiamiamo America Centrale.

Quello che mi preme sottolineare è la potenza narrativa di un libro come questo, in cui sono riprodotte le condizioni vere del viaggio e insieme c’è tanto posto lasciato alla bellezza del cuore di Nuno. I ragazzi l’hanno compresa bene la visione della vita che Genovesi ha delegato al suo giovane mozzo.

Per questi ragazzi è stata portata a compimento la storia del viaggio di Colombo, a cui l’autore stava lavorando da quasi quindici anni e nel marzo dello scorso anno, quando è venuto da noi la prima volta, languiva. Per loro ha ripreso la scrittura, dice, per avere ritrovato in questi “pazzi” la spinta verso la bellezza del mondo.

Con questo riconoscimento è cominciato l’incontro del 22 giugno scorso. E con queste parole dette in coro dai Galeotti al pubblico presente si è concluso: “Cercate l’oro. Cercatelo anche voi.

Non l’oro delle miniere, quello che la Terra gelosamente custodisce tra le sue viscere e che noi tutti cerchiamo di rubare. Cercatelo invece nelle anime e fondetevi con esse: diventerete così voi stessi oro, oro vero, oro puro

Ascoltate i vostri cuori vivi, il silenzio, la natura, l’amore, le storie. Ascoltate la musica del mondo e della vita senza paura, perché la paura rovina tutto e non serve a nulla”.

Nota bibliografica:

  • Fabio Genovesi, Il calamaro gigante, Feltrinelli, 2021
  • Fabio Genovesi, Oro puro, Mondadori, 2023
  • Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Einaudi, 1959

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / Cuccioli di animali: indovina chi sono …

Conoscere gli animali nel loro ambiente e con le loro peculiarità. Per amarli e rispettarli. Due albi illustrati appena uscito dell’editore Kalandraka ci portano alla scoperte dei cuccioli che vivono in Asia e nelle zone polari.

Educare i bambini al rispetto dell’ambiente e alla sua profonda e attenta conoscenza e consapevolezza dovrebbe essere una delle preoccupazioni principali di tutti i genitori, di ogni nonno e perché no anche di ogni zio o, semplicemente, di tutti coloro che accompagnano la crescita dei nostri giovani, amici compresi. Sicuramente lo dovrebbe essere di ogni insegnante. Fanno eccezione i capi scout che per loro stessa natura e missione hanno nelle loro corde il grande rispetto per la Natura e la Madre Terra.

Ecco allora che Kalandraka, casa editrice molto sensibile e attenta  ai temi ambientali – vi abbiamo già parlato del bellissimo libro In continua evoluzione – ci regala due volumi appena usciti dedicati ai cuccioli di animali di Asia e zone polari. Parte di una collana per bimbi che amano la natura, alla scoperta dei segreti degli animali. Libri divulgativi che vediamo bene sui banchi di scuola elementare (anche se l’età di lettura è dai 3 anni) ma anche delle biblioteche e dei campi scout.

Eccoci allora in Asia, il continente più grande del mondo, dove si trovano le montagne più alte, i deserti più aridi e le foreste impenetrabili. L’Asia è anche il luogo in cui vive la maggior parte degli esseri umani. Un continente meravigliosamente variopinto e ricco di storia e di storie. Inquinamento, disboscamento e caccia illegale mettono in pericolo la meravigliosa fauna che abita questi territori. Per questo dobbiamo proteggerla e collaborare, perché splendidi e unici animali come la volpe volante, il cacatua delle Filippine o il macaco giapponese non vengano cacciati, messi in gabbia e venduti nei negozi di animali. Senza scrupolo e rispetto. Come ogni essere vivente, anche loro, importanti amici e compagni di strada, hanno il diritto di vivere nel loro habitat naturale.

Oggi qui incrociamo la tigre dal potente ruggito, il panda che nasce cieco e mangia bambù tutto il giorno, l’intelligente macaco giapponese che gioca sempre, il dromedario che vive in branchi, l’orango (“la persona della foresta”) che non scende quasi mai dagli alberi e non ama camminare, il cacatua delle Filippine che vola in stormi alla ricerca di semi e fiori, la volpe volante (il pipistrello più grande al mondo) che dorme di giorno …

Sette cuccioli delle specie più e meno note si raccontano in prima persona. Con simpatia e tante curiosità, con belle, delicate e colorate illustrazioni realistiche che completano armonicamente il testo, costruito intorno a un indovinello, la cui risposta arricchisce le informazioni sui cuccioli e le loro famiglie. Da sfogliare.

Stesso percorso per i cuccioli delle zone polari. Sette animali che vivono nelle terre vicine al Polo Nord, tranne uno (il pinguino imperatore) che vive in Antartide. Per giocare anche un po’ con la geografia, comprendere le difficoltà della vita quotidiana in territori aridi e con temperature molto basse. Ecco perché lì tutti sembrano volersi proteggere dal freddo con uno strato di grasso sotto la pelle o con un mantello spesso di piume o pelliccia.

Qui gli animali, come l’orso polare che nasce piccolo come un criceto, il cicciottello e baffuto tricheco che nasce sulla banchisa, la renna che nasce nella tundra quando la neve si scioglie, la foca della Groenlandia che nasce bianca e starà sempre all’erta, il gufo delle nevi che caccia appollaiato su un ramo, la volpe artica dalla coda lunga e folta o il pinguino imperatore che nasce da un uovo covato a turno dai genitori, lottano ogni giorno per sopravvivere, in un ambiente ostile. Anche per questo meritano rispetto.

Ognuno faccia la sua parte per proteggere quegli animali minacciati dalla crisi climatica. E se, fin da piccoli, avremo questa consapevolezza, saremo già a metà dell’opera.

 

Tándem Seceda, Ester García, Chi sono? Cuccioli di animali – Asia, e Chi sono? Cuccioli di animali – Zone polari, Kalandraka, giugno 2023, 40 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di 
Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

LE VOCI DA DENTRO /
Tossicodipendenza: il disastro peggiore

Le voci da dentro. Tossicodipendenza: il disastro peggiore

Una riflessione preziosa, una testimonianza emozionante ed un contributo interessante su un tema difficile come quello della tossicodipendenza di cui spesso i politici parlano a sproposito. (Mauro Presini)

Tossicodipendenza: il disastro peggiore
di J. W.

L’ONU, nel 1984, dichiarò il fenomeno della tossicodipendenza peggiore dei disastri atomici di Hiroshima e Nagasaki. Questo porta a comprendere oggi quante possono essere le morti dovute alla tossicodipendenza a quasi 40 anni di distanza.

Ci sono molte scuole di pensiero: su un argomento delicato come questo si sono messi al lavoro menti geniali, ma forse solo per avere i propri 5 minuti di fama. Il problema è che non esiste una ricetta, una cura esatta, essendo ogni persona diversa dall’altra.

Nei primi anni ottanta aprirono in Italia le prime comunità di recupero e venne studiato un farmaco sostitutivo per l’astinenza fisica chiamato eptadoneil metadone di oggi.

Le comunità si fondavano ognuna su un proprio preciso percorso; non importava che entrasse il ragazzino che si era fatto due schizzi o il vecchio tossico consumato con 20 anni, il percorso è uguale per tutti.

Negli ultimi 15 anni abbiamo visto una trasformazione nelle comunità; questo perché le varie generazioni di tossici erano diverse dalle precedenti e questo ha portato un percorso personalizzato per andare incontro alle esigenze di ognuno.

A oggi, nonostante alcune comunità esistono da più di 40 anni, la percentuale di riuscita (parliamo di stare bene in vita) è relativamente bassa: il 34 per cento. Sono le comunità che non funzionano o altro?

La tossicodipendenza è in continua evoluzione e ogni 2-3 anni esce qualche nuova droga sintetica che io non userei mai, essendo un tossico classico da eroina e cocaina, ma molti giovani cominciano proprio con queste droghe e ciò porta problemi nelle cure perché non si sanno ancora bene gli effetti collaterali che possono provocare.

Il percorso in comunità è con altri ragazzi ma in realtà sei solo, nel senso che è una gara da fare strettamente dentro di te.

Il primo passo da fare è ammettere a se stessi quello che si è; per quanto schifo e vergogna possa farci, lo dobbiamo fare, perché quando metteremo a posto questo, il primo passo sarà fatto. Io ho un problema di tossicodipendenza e ho sacrificato tutto, anche gli affetti più cari, e ho scelto altro.

Il secondo passo è fidarsi degli operatori, o anche solo del tuo operatore; se non c’è fiducia non ci si potrà mai mettere in gioco e quindi non si potrà mai fare niente di più.

Molte persone si costruiscono un finto personaggio per andare avanti più spediti e uscire prima dalla comunità; queste persone sono già fottute, non hanno nessuna speranza. Impara a capire dove sono le trappole, ricorda che quel che vedi non è, impara a riconoscere i campanelli d’allarme e ascoltali.

Abbi paura e molta rispetto della droga: non sei più forte di lei, nessuno lo è. Puoi stare tranquillo un mese, sei mesi, anche anni, ma se non hai fatto un lavoro serio su di te, tornerà a prenderti.

Non ti serve una scusa per farti, ti fai perché ti piace, ti fai perché non reggi la vita, la realtà e i problemi, per i traumi che hai avuto ma ciò non ti giustifica. I problemi nascono da te stesso, te li porti dentro quindi non puntare il dito al di fuori di te per giustificare tutto. Lavora su di te. Sempre. Se non ami te stesso, come puoi amare qualcun altro?

Hai perso molte persone nella tua vita ma non ti rendi conto che, in primis, hai perso te stesso.
Vivi la tua vita a 100 all’ora quando il mondo va 30 volte più veloce; allora andrai meno forte e quello sarà il tempo per stare con le persone che ami, perché brucerà il tragitto prima di loro o loro non riusciranno a starti dietro. Vale di più la velocità e la solitudine, o vivere ogni attimo assaporandolo con chi ti è vicino?

L’uomo più fortunato che calpesta questa terra è chi trova il vero amore, perché l’amore porta responsabilità invece la droga non te ne chiede.

L’amore è sacrificio, la droga non te ne fa sentire.

L’amore è una droga che ti porta a fare sempre lo stesso gesto.
Solo tu puoi, solo tu non puoi. Qualsiasi sia la scelta, sappi che hai trovato un amico.

 


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

Manifestazione per la sanità pubblica: prova di resistenza e nuove possibilità di opposizione, per mettere in discussione il predominio del Governo Meloni

Sabato 24 giugno a Roma si è tenuta un’importante e molto partecipata manifestazione nazionale per la sanità pubblica, contro i tentativi ormai più che evidenti che guardano al suo definanziamento e alla sua privatizzazione.

Una manifestazione, promossa congiuntamente dalla CGIL e da più di 70 Associazioni e movimenti sociali, dall’Arci a Medicina democratica, dal Forum Disuguaglianze e Diversità al Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e a tanti altri ancora, che segnala un possibile punto di novità significativo nel quadro sociale e politico in cui ci troviamo.

Infatti, a me pare che dovremmo ragionare con un po’ di più di approfondimento sul contesto che stiamo attraversando, partendo dalla consapevolezza che, allo stato attuale, il governo di destra mostra una certa solidità e che la semplice esaltazione delle sue contraddizioni interne, che pure ci sono, in particolare derivanti dai diversi approcci tra Fratelli d’Italia e la Lega, non mi sembra una chiave di lettura utile per pensare che si possa produrre uno scenario diverso, anzi.

Detto in altri termini, il ragionamento per cui la destra vince perché alla fine riesce sempre ad unirsi, mentre, dall’altra parte, si fatica a mettere insieme un campo largo e quindi si perde a me sembra decisamente politicista e superficiale e non coglie la sostanza delle questioni.

In realtà, dovremmo partire dal fatto che il governo, e la sua componente predominante rappresentata da Fratelli d’Italia, ha una lettura e un progetto di società e di Stato sufficientemente chiari e capace di costruire un certo consenso. In grande sintesi, esso può essere riassunto nella formula che mette insieme nuova collocazione europea e internazionale, ripresa della crescita economica e battaglia ideologica per costruire una nuova egemonia culturale.

Rispetto alla collocazione internazionale, la grande cesura rappresentata dalla guerra in Ucraina ha già spostato il baricentro della Europa verso l’Est, per cui il modello polacco – crescita economica e repressione della stampa, della magistratura e dei diritti civili – nonostante alcuni rilievi provenienti dall’Unione Europea, è sempre più in auge, anche grazie alla benedizione della Nato e degli Stati Uniti, e ad esso ci si può ispirare, continuando ad interloquire con l’insieme degli Stati europei.

Sulla situazione economico-sociale del nostro Paese, anche qui occorre rifuggire da valutazioni preconcette e incapaci di cogliere i processi reali in corso.
Non va sopravvalutato, ma non si può non riflettere sul fatto che la crescita economica prevista per il nostro Paese per il 2023, attorno all’1,2-1,3 % del PIL, è superiore alla media europea e anche a quella dei maggiori Paesi ( la stima per la Francia è di +0,7 %, mentre la Germania si ferma ad un modesto +0,2%), così come va registrato che siamo in presenza di una crescita occupazionale nell’ultimo anno non esaltante, ma comunque reale.

Questi risultati, peraltro, sono, in primo luogo, prodotti dai settori del turismo e del commercio, ben di più del settore manifatturiero, che fa registrare un buon andamento delle esportazioni, ma anche difficoltà legate al rallentamento dell’economia tedesca.

Il traino del settore dei servizi è poi caratterizzato dal fatto che suoi componenti essenziali sono costituiti da salari bassi, maggiore precarietà e minori tutele del lavoro e da una diffusione seria dell’economia sommersa e anche illegale.

Questa sembra essere la cifra di un vero e proprio modello di sviluppo, che si alimenta di quei fattori, e che, non casualmente, è stata sorretta da provvedimenti e messaggi volti a dare legittimazione a comportamenti che si collocano in un’area contigua, se non all’illegalità, ad un’incentivazione dell’economia sommersa e all’italica capacità dell’ “arte dell’arrangiarsi”.

Abbiamo assistito all’innalzamento dell’utilizzo del contante, al venir meno dei vincoli nell’utilizzo dei contratti a termine, all’estensione dell’affidamento diretto della gran parte degli appalti di lavori pubblici, all’abolizione del reato di abuso di ufficio, da ultimo persino alle dichiarazioni della Presidente del Consiglio, per cui la tassazione equivale ad una sorta di “pizzo di Stato”.

Un modello che ha una sua intrinseca fragilità, ma che, almeno nel breve periodo, può costruire una base di consenso abbastanza larga, e anche “popolare”. Infine, per quanto riguarda il tema della battaglia ideologica, penso sia sotto gli occhi di tutti che essa è decisamente in campo.

Da una parte, abbiamo il tentativo di costruire una nuova narrazione basata sul ruolo fondamentale del capo, sull’idea di nazione e sulla famiglia naturale, con tutto ciò che di regressivo si porta dietro, dall’altra siamo in presenza dell’occupazione dei media o perlomeno del loro condizionamento, del fatto di mettere fuori gioco gli organismi di controllo, dall’ANAC alla Corte dei Conti, di un attacco progressivo al ruolo autonomo della magistratura, con un approccio che mette insieme l’ambizione di una nuova egemonia culturale con quella del comando e dell’esercizio del potere.

Insomma, ci troviamo di fronte ad un’operazione condotta da una nuova destra che non può essere sottovalutata e presa sotto gamba, che pone chi intende opporsi alla deriva in corso una sfida per certi versi inedita.

Certo, gli stessi elementi che ho evidenziato prima non sono così forti e lineari, né tantomeno esenti da difficoltà e contraddizioni. Solo per esemplificare, il quadro economico e sociale potrebbe decisamente peggiorare e farsi irto di difficoltà a partire dall’autunno e, ancor più, con il prossimo anno.

Mi riferisco non tanto alle questioni che sembrano campeggiare anche in questi giorni nella cronaca giornalistica, peraltro sempre più misera e incapace di produrre uno sguardo un po’ lungo, dalle vicende del MES a quelle del PNRR, su cui un compromesso con l’Unione Europea non appare impraticabile.

In realtà, l’insidia più significativa per la navigazione del governo può derivare dal futuro Patto di stabilità e crescita che dovrebbe entrare in vigore nel 2024 nell’Unione Europea. Anche se lo stesso non è ancora stato definito compiutamente e probabilmente sarà ancora più stringente rispetto alla versione attuale, visto che la Germania e altri spingono in questa direzione, non c’è però dubbio che produrrà una nuova fase di austerità e taglio alla spesa sociale.

Secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio, il nuovo Patto di stabilità produrrebbe uno sforzo aggiuntivo per cui l’avanzo primario di bilancio, cioè la differenza fra spesa pubblica ed entrate al netto del costo degli interessi sul debito pubblico, dovrebbe collocarsi tra il 2,8 e il 3,2% del PIL, pari ad una restrizione tra i 18 e i 27 mld di € all’anno, colpendo in particolare la spesa pensionistica, quella sanitaria e per i contratti del pubblico impiego.

In ogni caso, il punto di fondo è che provare a fermare la destra lo si può fare solo se si riprende a stare e a ripartire dalla società, ridando centralità ai diritti sociali, oltre a quelli civili. Per questo è stata importante la manifestazione del 24 giugno e quella annunciata per il 30 settembre, sempre dalla CGIL e da un nucleo consistente di Associazioni e movimenti sociali, contro l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, contro l’autonomia differenziata, per il lavoro e i diritti.

Solo una mobilitazione sociale e una ripresa di insediamento nei territori sui temi che riguardano la vita concreta delle persone può costituire un antidoto valido contro questa destra autoritaria e plebiscitaria, in questo senso neofascista, non certamente l’illusione che essa si ingarbugli da sola o l’idea che una semplice ripresa di alleanze politiche a sinistra sia in grado di invertire questa situazione.

Su questa prospettiva occorre impegnarsi, sapendo che essa non è da sola risolutiva – ci serve anche un pensiero e la costruzione di un’alternativa solida di contenuti, a partire dalla lotta per la pace e il disarmo – ma che, intanto, è una premessa necessaria da cui ripartire.

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Profondo Porpora
Tra gli sbirri e l’entrata

Profondo Porpora

Sì, hai ragione tu Ian, forse non siamo più bambini, ma il nostro tempo è ancora lì. Ci siamo incontrati che eravamo pischelli – beh, voi eravate già da tanto profondamente porpora, nel mare dell’hard rock, che avete contribuito a riempire.

Gli anni settanta avevano appena lasciato il posto agli ottanta. La casa del centro dove vi conobbi aveva un lungo porticato comune, con colonne tra l’antico e il vecchio sulla sinistra, a piano terra c’era l’entrata, l’odore di sugo e polpette era costante. Di fronte a noi, io e Chiaro, si stagliava una cassettiera da cui Guido, all’insaputa del fratello maggiore Gaetano, faceva comparire il profumo Paco Rabanne e ce ne offriva generose spruzzate.

Stavamo camminando a passi spediti verso l’adolescenza e lì in una stanza attigua ci incontrammo.

Made in Japan, una BASF C90, dalla copertina rovesciata, dove a penna scrivevamo la sequenza delle canzoni.

Play, rec e silenzio assoluto.

A dire il vero assieme a voi Gaeta ci registrò pure l’appena uscito For thouse about to Rock, dei canguri elettrici, un’altra botta da cui non ci siamo più ripresi.

Lì, in quei giorni di fine inverno, iniziò tutto: la nostra musica, le chitarre laceranti, la batteria che soffre sotto mazzate che distruggerebbero un tempio, poi la voce, profonda e acuta, alti e bassi, una follia che ci prende collettivamente.

Qualche anno dopo quel live giapponese doppio me lo comprai da Pistelli & Bartolucci per la folle cifra di diecimila lire, una doppia cassetta che portai a fine vita per le migliaia di volte che mi fece compagnia, in macchina, in campeggio, prima delle partite.

Poi in un lampo passano quarantatre anni. Come è possibile? Dove sono andati quei pischelli, cosa c’è stato nel mezzo?

La vita, la strada, il percorso di ognuno di noi.

Da una cena poi nasce il resto, una battuta, uno scherzo e ci ritroviamo con i biglietti del concerto, io, Chiaro, Pavo e Davide.

E siamo là tra gli sbirri e l’entrata (cit.).

Il questore, i graduati, installano transenne, ci passano davanti e ci ritroviamo tra i cancelli del Parco Ducale e il pubblico, credo ci abbiano considerato dello staff. Ci beviamo un birrone e un ottimo panino con la bresaola di tacchino offerti da Pavo, il nostro guru della musica rock.

Affluenza tranquilla, pausa cessi come da prassi, maglietta per certificare l’evento.

Alle 20.30 una band italiana scalda l’attesa. Sono bravi, ci sanno fare. E’ un concerto quasi intimista, nessuna folla oceanica per i creatori dell’hard rock, coloro che assieme agli Zeppelin e ad Ozzy, dalla creta hanno plasmato una chitarra cattiva, aggressiva, mordente e da lì è nato un mondo. Il nostro.

Entra la storia, primo accordo e la Highway Star si apre al flusso delle ruvide note dei Deep Purple.

Ian, mi è sembrato che i tuoi settantasette anni tu li stia portando alla grande. Le canzoni le hai scelte tu, o bene o niente, inutile cercare di arrivare dove non si arriva, inutile gracchiare dove prima le tue corde vocali combattevano con quelle della chitarra di Blackmore.

La batteria non è più il mulo del passato ma tiene il tempo, e col basso tiene tutti sulla barca. Poi le tastiere, nel ricordo di Lord, nessun rimpianto, poca o nulla la differenza. La sontuosa chitarra, che ricorda i Pink Floyd, più che i vecchi Deep Purple.

E così in un amen è volata una bella serata tra musica, amicizia e birra.

L’elisir dell’eterna giovinezza? Forse non esiste, ma questo non impedisce di cercarlo tra il suono di un amplificatore, il fruscio dei ricordi e il gusto amaro di una birra.

Fredda.

Per certi versi /
Il Frumentone

Il Frumentone
(granoturco)

Me ne vado
A torso nudo
Per la Bassa
In Cavedagne
Di luce
Campi
Di malgoni
Vibrati dal sole
Come archi
Mi attraversa
Gli occhi
Una distesa
Di frumentone
Misteriosa
In mezzo
Ai fusti
Delle piante
I cuori
Palpitano
In gola
Il granoturco è alto
Alto come le torri
Di Bologna
Ci sono entrato
La lieve
Carezza
Della sera
Portava con sé
Il fruscio
Della libertà

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
L’angolo bello

Presto di mattina. L’angolo bello

Magnolia: fragranza orante

Spunta imponente, da dietro ai tetti della casa di fronte alla parrocchia su XX Settembre, una gigantesca magnolia. Affianca, nel bel giardino dei vicini, il ginko biloba, anche se ne resta più scostata e in avanti. Quest’anno è prodiga di fiori, forse per le abbondanti piogge. Così ogni mattina aprendo la finestra…

Guardo il cielo
che si fa per intero
fiori di magnolia»
(Natsume Sōseki)

Ne trae giovamento anche il cielo interiore, ancora avvolto nella penombra della notte e risvegliato dai fiori di magnolia: un mattutino invitatorio quotidiano.

All’alba, si vedono
le dita luminose
dello spirito
che sciolgono tanti
fiori di magnolia.
(Makiko Kasuga)

E quando arriva finalmente il vento non manca la sua parte:
ecco l’ospite secco
del vento,
che fa battibecco
tra le foglie della magnolia;
e suona la sua
serena
melodia, sulla prua
d’ogni foglia, e va via
e la foglia non stacca,
e lascia
l’albero verde, ma spacca
il cuore dell’aria.
(Carlo Bertocchi)

Irresistibile si fa allora la preghiera, tirata fuori a far battibecco nel vento, prende il largo sulla prua di ogni foglia; le foglie come nacchere risonanti l’una incontro all’altra e il canto ancora incerto degli uccelli sono così trascinante richiamo già nell’ora antelucana.

Pure la preghiera si affida alle mani del vento come alle mani del Padre il Figlio amato; passa nel rovescio rugginoso delle foglie, scorre poi sul loro dorso divenuto di un verde scuro lucente, che riflette il biancore vellutato dei petali.

E, come i petali di magnolia, la preghiera dapprima sale, bianca fiamma, mostrandosi nel suo profumo splendida allo sguardo dell’Altissimo, ma poi, quasi impaziente, si abbrunisce sotto i raggi del sole, cambiando d’abito, e riveste i colori della terra, si abbandona ad essa, perché è lì che la preghiera va a compiersi per la parola udita nel cielo.

Come le foglie scricchiolanti e i petali vellutati della magnolia caduti a terra, così sono le nostre preghiere; anche quelle che ci sembrano inascoltate vanno in realtà a porsi sotto i nostri piedi terrosi, nutrendo e irrobustendo il terreno, affinché sostenga e rialzi ogni nostro passo, uno avanti all’altro.

Lo stesso mi accade di pensare, in occasione di ogni celebrazione al Carmelo, con la preghiera delle nostre sorelle carmelitane nella chiesa del monastero di via Borgovado. In pedi nel coro con il loro lungo mantello bianco sopra la tunica, a ricordare l’incontro misterioso del profeta Elia sull’Oreb alla presenza di Dio, mi sembrano dapprima un boschetto di betulle nella brezza mattutina.

Del resto, nel racconto, Dio non era nel fuoco, né nella tempesta, né in un vento travolgente, ma passò nel bisbiglio di un vento leggero. Ed Elia al suo passaggio si coprì il volto con il mantello. Così come allora ad Elia, il Signore domanda anche alle nostre preghiere: “che cosa fate qui ancora? Andate, sparpagliatevi sulla terra a sostenere il cammino del mio popolo, mettetevi sotto i loro piedi per sostenere, alleggerire e portare a loro la mia vita”.

Finita la celebrazione le carmelitane depongono il mantello candido e, come petali di magnolia, cambiano colore per tutto il giorno, infatti, fino al mattino successivo esse rivestono una tunica marrone scuro, uno scapolare brunito e una cintura di pelle scura.

Questo il segno che la loro preghiera è destinata a mescolarsi ora alla polvere ora al fango della terra per farsi carico di ogni vita. La loro preghiera assomiglia così al fiore di magnolia: dapprima fatta di cielo, divenuta poi terrosa e si sparpaglia tra la gente proprio sotto i loro piedi profumandoli, sostenendoli e avvolgendoli quasi a volerli fare camminare sul velluto.

Presto di mattina

Scrive Herman Hesse: «Il fiore, dai boccioli pallidi, sfumati di verdognolo, si apre nella maggior parte dei casi al mattino presto, ondeggia bianchissimo e magicamente irreale, riflettendo la luce come l’Atlante innevato, con le rigide foglie sempreverdi e una cupa lucentezza; ondeggia per un giorno, giovane e splendido, quindi comincia delicatamente a trascolorare, a ingiallirsi ai bordi, a perdere la forma, a invecchiare con una commovente espressione di stanchezza e di rassegnazione, e anche la sua vecchiaia dura solo un giorno.

Poi il fiore candido è già scolorito, è diventato color cannella e i petali, ieri come l’Atlante innevato, sono oggi al tatto come morbida pelle scamosciata: un velluto di sogno, tenero come un alito e tuttavia compatto, anzi ruvido. E così, giorno dopo giorno, la mia grossa magnolia porta i suoi fiori immacolati, che sembrano sempre gli stessi. Un profumo delicato, eccitante, squisito, che ricorda quello dei limoni freschi, ma più dolce, giunge dai fiori fin quassù nel mio studio» (Il canto degli alberi, ed. digit. Guanda, Parma 2016, 44)».

Gli alberi sono eremiti e combattenti per la vita, ma mi viene da dire, allora, anche oranti, tanto da risvegliare in me l’intuitus fidei, nonché – come scrive Herman Hesse – riverenza e timore per il loro “osare oltre” resistendo insieme agli altri come la fede che prega per tutti.

«La vista degli alberi mi toccava molto più profondamente. Vedevo ognuno di loro vivere la sua vita isolata, formare la sua corona caratteristica e gettare la sua ombra particolare. Mi sembravano eremiti e combattenti, più affini alle montagne, poiché ognuno di loro, soprattutto chi stava più in alto, doveva condurre la sua lotta silenziosa e tenace per sopravvivere e crescere, contro il vento, il tempo e la roccia.

Ognuno doveva portare il suo fardello e avvinghiarsi al terreno, e per questo ognuno aveva la sua forma caratteristica e le sue ferite particolari. C’erano pini, ai quali la bufera permetteva di avere rami solo da un lato, e alcuni, i cui tronchi rossastri erano attorcigliati come serpenti intorno a rocce sporgenti, cosicché albero e roccia si stringevano e sostenevano l’un l’altro. Mi guardavano come guerrieri e risvegliavano nel mio cuore riverenza e timore» (ivi, 25).

L’angolo bello

Il Krasnyj ugol nelle abitazioni russe è «l’angolo bello» della casa, quello riservato alla preghiera domestica, il luogo in cui si custodiscono le icone, la Bibbia, una croce non vuota, e un lume.

Me ne ricordai quando, diventato parroco, ricevetti in dono un’icona della Madre di Dio di Kazan detta Kazanskaya, e così la collocai nell’angolo bello dello studio verso oriente, verso il sorgere del sole, perché anche la luce di Cristo che viene di là irradiasse e illuminasse lo studio e la preghiera.

Da tempo si è consumato il grosso cero, regalatomi da mia madre, che accendevo solo le mattine d’inverno quando era ancora buio. Ma in questa stagione, al suo posto, sta un fiore di magnolia, come una lampada che continua a profumare in preghiera, anche quando i petali sono divenuti rossicci e bruniti. Una fragranza che invade tutto, riempie ogni stanza e, uscendo fuori dalla finestra aperta, sembra volersi spingere a profumare il sole.

Nell’angolo bello della canonica ho posto anche una terracotta antica di presepe, uno dei Re Magi che sosta sotto l’icona del crocifisso nel gesto di offrire la mirra: il dolore della gente; lui silenzioso e inseparabile compagno nella preghiera.

Dopo essersi recato a Betlemme, non ha seguito la stella per ritornare a casa, ma ha voluto accompagnare nel viaggio quel bambino, farsi poi discepolo nascosto, anonimo, come tanti, dietro a Gesù per cercare di capire il senso del dono che egli recò a quel bambino: la mirra, segno profetico dell’Uomo deposto dalla croce, intercapedine profumata tra il dolore della morte e l’attesa della risurrezione.

Così in questi giorni la mirra del re magio, unguento che preserva dalla corruzione e disfacimento della morte, ha il profumo intessessimo del fiore di magnolia. Metafora odorosa della nostra preghiera che sa della compassione e promessa del cielo ma ci è data ora per consolare e rialzare il nostro cammino sulla terra.

La Regola di san Romualdo

Seguo da anni per la preghiera dei salmi la piccola Regola di San Romualdo eremita (951-1027) che fondò i monasteri di Camaldoli e di Fonte Avellana, ma fu anche con cinque frati nell’Isola del Pereo vicino a Comacchio. Essa fa attenti a come disporsi nell’angolo bello della preghiera, con l’attenzione ai pensieri, come lo è il pescatore ai pesci:

«Siedi nella tua cella come nel paradiso. Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle. Fa’ attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci.

L’unica via per te si trova nei Salmi non lasciarla mai.

Se da poco sei venuto e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente.

Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l’intelligenza.

Anzitutto mettiti alla presenza di Dio con l’atteggiamento umile di chi sta davanti all’imperatore. Svuotati di te stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; se come una madre Dio non te la donerà, non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare».

Essere come un pescatore attento ai pesci è immagine usata anche dallo scrittore russo Nicolaj Gogol che dedicò molto tempo alla lettura e meditazione dei Padri della chiesa. Leggere come lo scrivere richiedono lo stesso impegno e attenzione del pregare; richiedono cuore e mente, una costante applicazione dell’intelligenza e la resistenza dell’attesa anche quando sembra vana.

Gogol fu nel corso della sua vita insieme scrittore e asceta, in ricerca e lettura tra i testi patristici. In una lettera del giugno 1843 all’amico poeta Jazykov Gogol scrive: «Impegnati nella lettura dei libri spirituali. Questa lettura ti si mostrerà dura e faticosa, accostati a essa come un pescatore, con la matita in mano, leggi velocemente e di corsa e fermati solo là dove ti colpisce una parola, oppure una frase solenne, inaspettata. Annotale e segnatele nei tuoi materiali di lavoro. Ti giuro che questa sarà la porta di quella grande strada che farai» (PSS 9,776).

Il Padre nostro, vincolante dialogo tra cielo e terra

Ferdinand Ebner che, insieme a Martin Buber e a Franz Rosenzweig, è tra i più significativi rappresentanti del pensiero dialogico scrive: «Chi pronuncia nel senso giusto la prima parola del Padre nostro, questi si innalza spiritualmente al di sopra della vincolazione terrena della sua vita, che appartiene alla preghiera.

Ma già la seconda parola lo rimanda a essa. Egli non può infatti dimenticarla e in ogni momento della preghiera deve pensare a essa, poiché il senso della preghiera è di guardare al cielo sentendosi vincolati alla terra. E così ogni altra parola di tale preghiera, fino all’ultima invocazione per la liberazione dalla potenza del male, corrisponde alla situazione spirituale dell’esistenza umana nel mondo» (Frammenti pneumatologici, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 1998 307).

Magnolia, segreta segretaria dell’aurora

La preghiera come l’aurora sopra la selva oscura dei sogni, in certi momenti anche nell’albero della mia anima è, per grazia, splendente, aperta, abbagliante.

Una magnolia
pura,
rotonda come un circolo
di neve
salì fino alla mia finestra
e mi riconciliò con la bellezza.
Tra le lisce foglie
– ocra e verde –
racchiusa
era perfetta

Oh bianchezza
fra
tutte le bianchezze,
magnolia immacolata,
amore splendente,
odore di neve bianca
con limoni,
segreta segretaria
dell’aurora,
cupola
dei cigni,
apparizione raggiante!
Come
cantarti senza
toccare
la tua
pelle purissima,
amarti
solamente
al piede
della tua bellezza,
e portarti
addormentata
nell’albero della mia anima,
splendente, aperta,
abbagliante.
Sopra la selva oscura
dei sogni!
(Pablo Neruda, Ode alla magnolia. Terzo libro delle odi in Poesie, Sansoni, Firenze 1962, 581-582).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Bonsai festival: “Le Volpi” arriva a Ferrara, al Teatro Off

Domani primo luglio, dopo il Festival Nessuno Resti Fuori – IAC di Matera, sbarca a Ferrara, al Bonsai Festival, lo spettacolo di Lucia Franchi e Luca Ricci, “Le Volpi”

Dopo la prima tappa della tournée estiva a Matera, nell’ambito del Festival Nessuno Resti Fuori – IAC e la tappa di Trieste al Litorale Festival, arriva domani a Ferrara, al BONSAI Festival ideato e organizzato da Ferrara Off, il nuovo spettacolo della compagnia CapoTrave, “Le volpi”, scritto da Lucia Franchi e Luca Ricci, che ne cura anche le scene e la regia, e interpretato da Antonella Attili, Giorgio Colangeli e Luisa Merloni.

Nell’ombra di una sala da pranzo, all’ora del caffè, in un’assolata domenica di agosto, si incontrano due piccoli notabili della politica locale e la figlia di una di loro. Tutto intorno i pensieri volano già al mare e alle vacanze, eppure restano da mettere in ordine alcune faccende che interessano i protagonisti della storia. Davanti a un vassoio di biscotti vegani, si confessano legittimi appetiti e interessi naturali, si stringono e si sciolgono accordi, si regola la maniera migliore di distribuire favori e concessioni, incarichi di servizio e supposti vantaggi. La provincia italiana è la vera protagonista della vicenda, quale microcosmo in cui osservare le dinamiche di potere, che hanno sempre a che fare con i desideri e le ossessioni degli individui. Morbidamente, si scivola dentro un meccanismo autoassolutorio per cui è legittimo riservarsi qualche esiguo tornaconto personale, dopo essersi tanto impegnati nella gestione della cosa pubblica. La corruzione consiste in questo concedere a sé stessi lo spazio di una impercettibile eccezione.   

Lo spettacolo avrà una serie di anteprime, fino al debutto nazionale il 9 settembre, a Rimini, a Città Visibili Festival.

In scena due attrici e un attore di chiara fama. Antonella Attili, attrice per Giuseppe Tornatore, Pupi Avati, Ettore Scola, Francesca Archibugi, lavora in teatro con Giancarlo Sepe e Serena Dandini e raggiunge la popolarità con il ruolo di Agnese Amato ne “Il paradiso delle signore” e una serie di monologhi a “Propaganda Live” di Diego Bianchi, su LA7.

Antonella Attili foto Azzurra Primavera

Giorgio Colangeli, Nastro d’Argento 1999 per “La cena” di Ettore Scola e David di Donatello 2007 per “L’aria salata” di Alessandro Angelini, è stato Salvo Lima ne “Il divo” di Paolo Sorrentino e ha lavorato con Rubini, Muccino, Luchetti, Genovese. In teatro ha recentemente interpretato Papa Ratzinger ne “I due papi” di Anthony McCarten. Luisa Merloni ha fondato, insieme a Manuela Cherubini, la compagnia Psicopompo Teatro, con la quale hanno portato in Italia i testi degli autori di lingua spagnola Juan Mayorga, Daniel Veronese e Rafael Spregelburg, vincendo due Premi Ubu per il miglior testo straniero (2008, 2010). Autrice di monologhi e testi teatrali, con “Farsi fuori”, da lei interpretato insieme a Marco Quaglia è finalista di In-Box 2019.

Giorgio Colangeli foto Ellen Rizzoni

CapoTrave, compagnia di produzione teatrale fondata nel 2003, a Sansepolcro (Ar), da Lucia Franchi e Luca Ricci, supportata da Regione Toscana e MiC, produce drammaturgie originali, scritte da Franchi e Ricci, che indagano i temi dell’attualità sociale dal punto di osservazione della provincia italiana. Gli spettacoli di CapoTrave sono stati rappresentati in oltre 400 teatri italiani – Teatro della Pergola di Firenze, il Piccolo Teatro di Milano, il Teatro India di Roma, il Teatro della Tosse di Genova, il teatro Rasi a Ravenna, il Teatro Kismet a Bari, Teatri di Vita a Bologna – e festival – Contemporanea Prato, Short Theatre Roma, Teatri di Vetro Roma, In Equilibrio / Armunia Castiglioncello, Asti Teatro, Il Giardino delle Esperidi Brianza, Wonderland Brescia. La compagnia ha vinto il Premio ETI – Il debutto di Amleto, il Premio Giovani Realtà del Teatro del Teatro Libero di Palermo e il Premio I Teatri del Sacro.

Le volpi, uno spettacolo di Lucia Franchi, Luca Ricci, con Antonella Attili, Giorgio Colangeli, Luisa Merloni,costumi Marina Schindler, suono Michele Boreggi, Lorenzo Danesin, luci Stefan Schweitzer, tecnico Piero Ercolani, amministrazione Riccardo Rossi, foto Elisa Nocentini, Luca Del Pia, scena e regia Luca Ricci, produzione Infinito, con il supporto di Regione Toscana, Ministero della Cultura, Argot Studio Roma, Centro di Residenza della Toscana

 Prossime date

  • 1° luglio, Ferrara Off – Bonsai Festival
  • 7 luglio, Maglie (Le), Villa Tamborino, Chiari di luna Festival
  • 4 agosto, Casalgrande (Re), Aria Aperta Teatro Festival
  • 2 settembre, Todi Teatro Festival
  • 9 settembre, Rimini, Città Visibili Festival, debutto
  • 22 settembre, Firenze, Festival Avamposti – Teatro Goldoni
  • 30 settembre, Bagnoli di Sopra (Pd), Teatro Goldoni, Rassegna Musiké

 

Storie in pellicola / La luce nella masseria

Terminate a Matera le riprese del nuovo tv movie che celebra i 70 anni di trasmissioni della Rai, “La luce nella masseria”

È il 3 gennaio 1954. Negli studi Rai di Torino si accende il piccolo schermo: un evento epocale e una rivoluzione delle abitudini degli italiani. Un periodo rievocato da “La luce nella masseria”, film tv prodotto da Luca Barbareschi per Èliseo Entertainment con la collaborazione di Rai Fiction, celebra i settant’anni dall’inizio delle trasmissioni del servizio pubblico radiotelevisivo. Una tv intelligente e leggera, in bianco e nero, in grado di formare e, allo stesso tempo, far sognare gli spettatori attraverso programmi che sono strumento di educazione, informazione e intrattenimento. “Non è mai troppo tardi” del Maestro Alberto Manzi (programma andato in onda dal 1960 al 1968 e riconosciuto dall’Unesco e adottato quale esempio di alfabetizzazione di massa), “Lascia o raddoppia di Mike Bongiorno, Il musichiere condotto da Mario Riva, il ventennale Carosello”,Studio Uno” di Antonello Falqui, Canzonissima sono solo alcuni dei titoli che hanno fatto la storia della Tv italiana.

“La luce nella masseria” – scritto da Salvatore Basile, Saverio D’Ercole e Roberto Moliterni – torna a quegli anni e fa rivivere quei momenti insieme ai protagonisti, Domenico Diele, Aurora Ruffino, Renato Carpentieri, Carlo De Ruggieri, Giusy Frallonardo e il piccolo Giovanni Limite diretti da Riccardo Donna e Tiziana Aristarco.

Il film tv è ambientato a Matera, nei primi anni Sessanta. Il narratore della storia, che racconta il delicato passaggio da quella che è stata definita la civiltà contadina all’industrializzazione del territorio materano, è Pinuccio, un bimbo con la passione per la televisione. I suoi occhi diventano testimoni dei tempi che cambiano e che coincidono con l’arrivo del televisore nelle case benestanti prima, poi nei negozi e infine nelle case della gente comune. È lui che gioca a fare la televisione, fingendosi speaker dentro quel che resta di un apparecchio rotto.

Oggetto di aggregazione sociale e familiare, la tv diventa il deus ex machina della nostra storia. Nello specifico, è “Canzonissima” a coinvolgere e avvicinare gli abitanti della cittadina, in un rituale collettivo di grande valenza sociale. Ed è sempre la passione per la tv, lo strumento che consente ai membri della famiglia Rondinone (divisi dalle scelte individuali dettate dai cambiamenti sociali) di ritrovarsi ricordando loro che la relazione umana è un dono prezioso.

D’altronde, questo potente oggetto di aggregazione che era la televisione lo abbiamo anche ricordato nel racconto sull’Ente Delta Padano, con “i cappotti e le sciarpe indossati per far fronte al freddo gelido di febbraio durante il tragitto fangoso che portava la famiglia al bar dove si poteva vedere, tutti insieme, il festival di Sanremo”. Anche mia madre me lo raccontava, tutti intorno a quel magico apparecchio, per osservare e discutere.

Quattro settimane di riprese a Matera e dintorni per raccontare una storia commovente che rincorre i personaggi tra la magia dei Sassi, Patrimonio Mondiale dell’Unesco, le chiese rupestri e le grotte naturali, a metà tra l’altopiano calcareo e le splendide masserie delle aziende agricole nelle campagne.

 

Foto in evidenza di Federica Di Benedetto. Da sinistra: Antonio Trucco, Aldo Mastrillo, Giovanni Limite (nel televisore), Adele Conte.

Parole a capo
Floriana Porta: Haiku tra il sogno e l’infinito

“L’haiku è una breve forma poetica che nacque in Giappone nel XVII secolo. Segue lo schema sillabico 5/7/5, per un totale di diciassette sillabe, e deriva dal tanka, componimento poetico di trentuno sillabe. Matsuo Bashō (1644- 1694) è considerato il sommo poeta giapponese del genere haiku. Tra gli altri maestri si ricordano Yosa Buson (1715-1783), Kobayashi Issa (1763-1828) e Masaoka Shiki (1867-1902). Quest’ultimo introdusse elementi di vita quotidiana nei suoi versi e diede origine all’haiku moderno che conosciamo oggi.
È una poesia che cerca l’infinito, la brevità e la semplicità. Come scrisse Roland Barthes, l’haiku “racchiude ciò che vedete, ciò che sentite, in un minimo orizzonte di parole”.
Si tratta di una poetica del linguaggio puro e mai artificioso, inteso come l’espressività immediata e diretta della realtà. Non a caso uno dei principi essenziali dello Zen – da cui prende vita la poesia haiku – è la naturalezza, cioè la visione diretta della natura autentica. I brevi componimenti sono permeati dai principali stati d’animo dominanti della poetica giapponese: wabi (l’inatteso), sabi (il silenzio), yugen (il mistero), aware (la transitorietà), hosomi (la delicatezza) e karumi (la leggerezza), registrati con vividezza e disincanto.” (dall’introduzione alla raccolta “Il Giappone in controluce”, a cura dell’autrice).

battito d’ali –
dalla più alta vetta
abbandonarsi

 

cuore ferito –
lacrime agli occhi
nella risaia

 

ombre di luna
ancora da scoprire
porto dentro me

 

e poi fuggire –
l’azzurro infinito
è colmo di te

 

acque stagnanti –
la geisha la ninfea
sole nel buio

 

stelle caduche –
bianchi come la luna
i miei fantasmi

 

con tocco lieve
mi servo della luce
all’orizzonte

 

amo le stelle –
e l’anima racconta
ciò che ho dentro

 

stende le ali
all’ombra del tempio
il grande drago

 

nuovo fiorire –
si chiama poesia
nei nostri sogni

(Questi haiku che pubblichiamo, su autorizzazione dell’autrice, fanno parte della raccolta “Il Giappone in controluce”, AG Book Publishing Editore, 2020.)
Floriana Porta è nata a Torino nel 1975, vive a Vinovo e fin da piccola ho avuto la necessità di scrivere, comporre e disegnare. Si presenta con forme espressive di rara intensità e la sua opera – poetica e figurativa – si dispiega fra la natura e la bellezza, l’introspezione e il sogno, elementi imprescindibili della sua riflessione esistenziale. Uno stile, il suo, caratterizzato da raffinatezza, contemplazione e armonia. Ha esposto nel Torinese e nell’Astigiano le sue opere ad acquerello; attualmente collabora con diversi siti culturali e artistici. Titoli delle sue principali pubblicazioni: Verso altri cieli (Edizioni REI, 2013), Quando sorride il mare (AG Book Publishing, 2014), Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, 2014), L’acqua non parla (Libreria Editrice Urso, 2015) Fin dentro il mattino (Fondazione Mario Luzi Editore, 2014), La mia non è poesia (Aljon Editrice, 2017), I nomi delle cose (Edizioni L’Arca Felice, 2017), In un batter d’ali (AG Book Publishing Editore, 2018), Offro respiro ai versi (La Ruota Edizioni, 2018), Il Giappone in controluce (AG Book Publishing Editore, 2020), L’infinito è in me (AG Book Publishing Editore, 2021). Nella rubrica “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie dell’autrice il 15 dicembre 2022.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Per leggere il Bando e partecipare al Premio Internazionale Senza Premi “Le nostre parole per l’Alluvione” [Vedi qui]

LE VOCI DA DENTRO /
La partita con mamma e papà

Le voci da dentro. La partità con mamma e papà

Sabato 24 giugno scorso, presso la Casa Circondariale di Ferrara, si è svolta La partita con mamma e papà, una bella iniziativa organizzata da BambiniSenzaSbarre, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia.

In sintesi, La Partita con mamma e papà, oltre ad essere una possibilità per i figli di persone detenute di giocare a calcio con il proprio genitore ristretto in carcere, è l’opportunità di condividere un momento ludico normale per tutti gli altri bambini e rappresenta un’occasione eccezionale per queste famiglie. Infatti, per i bambini non è facile vivere la realtà di un genitore in carcere e molti di loro lo fanno in silenzio, per non essere stigmatizzati ed esclusi.

L’associazione BambiniSenzaSbarre si occupa proprio della cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno o entrambi i genitori ed è impegnata nella tutela dei diritti dei bambini alla continuità del legame affettivo e nella sensibilizzazione della rete istituzionale e della società civile.

BambiniSenzaSbarre ha lanciato la partita con mamma e papà nel 2015. L’iniziativa è partita con l’adesione di 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti e si è tenuta tutti gli anni fino al 2019. Dopo due anni di interruzione a causa della pandemia, è stata nuovamente riproposta nel giugno 2022 quando sono state giocate 82 partite negli istituti penitenziari italiani, coinvolgendo gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori, 4100 bambini e 1900 genitori detenuti.

BambiniSenzaSbarre è anche l’associazione ispiratrice della Carta nazionale dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmata nel 2014 dal Ministero della Giustizia e dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza.
La Carta riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla non discriminazione e alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore, in attuazione degli artt. 3 e 9 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Sabato 24 giugno scorso, nel campo della Casa Circondariale di Ferrara, ho visto sorrisi genuini, ho sentito applausi orgogliosi, ho provato sensazioni intense; ho visto bambine vantarsi di aver fatto gol, bambini dare indicazioni calcistiche ai papà, mani grandi che accompagnavano mani piccole, abbracci da lasciare senza respiro.

Ho visto occhi stanchi di chi aveva fatto 10 ore di pullman per poter accompagnare i figli ad una partita speciale, occhi commossi di chi aspettava quel momento da tanto tempo, occhi tristi di chi si rendeva conto del luogo in cui era ed occhi pieni di speranza per un’affettività senza sbarre.

Ho sentito figli sottolineare l’importanza di questa iniziativa con i loro padri e chiedere che ci siano tante altre occasioni simili; ho sentito padri non chiamare invano il nome del proprio figlio e chiedere che ci siano tante altre occasioni simili.

Sabato 24 giugno scorso, nel campo della Casa Circondariale di Ferrara, ho avuto l’ennesima conferma del fatto che l’aumento ed il miglioramento della qualità degli incontri familiari in carcere è funzionale alla rieducazione e fa bene non solo ai componenti della famiglia stessa, ma anche alla comunità e, di rimando, alla società intera.

 


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

In copertina e nel testo: Immagini della partita organizzata da BambiniSenza Sbarre, Casa circondariale di Ferrara 24 giugno 2023

Parole e figure / Se una strega cade dal cielo…

Un’avventura dell’intraprendente gruppo di amici in soccorso di una strega caduta dal cielo

In questa estate calda e afosa, una rapida segnalazione, in uscita a luglio, cari lettori.

Con la sua matita prodigiosa, Olivio disegna una foresta e Petula, Cocuzza, Mixo, Pamela e Raul decidono di andare a fare una passeggiata in mezzo agli alberi rigogliosi. Ma ecco che, sorpresa delle sorprese, all’improvviso una strega cade dal cielo e così iniziano le peripezie dell’intraprendente gruppetto di amici. La strega ha perso la sua scopa e deve ritrovarla per andare al corso di formule magiche. Non sarà così semplice: nella foresta si aggirano tante presenze inquietanti e la strega, un po’ (molto) pasticciona, proverà a contrastarle con incantesimi non proprio perfetti. Per fortuna, il coraggio della banda è pari alla loro immaginazione e da questa avventura i nostri amici usciranno indenni… o quasi.

Una storia stravagante con buffi personaggi dalla battuta pronta e senza peli sulla lingua e illustrazioni sobrie e colorate che lasciano spazio all’immaginazione dei piccoli lettori.

Aspettando l’uscita sugli scaffali, sfogliamo l’anteprima…

Laurent Rivelaygue 

È nato in Francia nel 1970. Ha studiato all’Ecole Estienne di Parigi e, dopo il diploma, ha lavorato prima come art director e poi come direttore creativo per un’agenzia di design parigina. Dopo quindici anni, ha lasciato l’agenzia per diventare grafico freelance e ha iniziato a lavorare nell’editoria per ragazzi come autore e illustratore. Nel 2007 ha pubblicato il suo primo libro, Poisson-chien, una raccolta di brevi racconti costruiti su giochi grafici e tipografici, e nel 2010 ha visto la luce il suo primo fumetto, Les Grands Soldats. Lavora anche con le materie plastiche e crea tele vicine alla pop art.

Olivier Tallec 

È nato a Morlaic nel 1970 e vive a Parigi. Ha studiato alla scuola di Arti applicate Duperré e, dopo il diploma, ha viaggiato in Asia, Brasile, Madagascar e Cile per poi iniziare a lavorare come grafico pubblicitario. Nel 1997 ha esordito nell’editoria per ragazzi e da allora ha illustrato un centinaio di albi, in particolare la serie Rita et Machin, con testi di Jean-Philippe Arrou-Vignod, adattata come cartone animato per il canale giapponese NHK. Ha realizzato illustrazioni per la stampa (LibérationElleLes Inrockuptibles) e fumetti. Nel 2013 ha creato quattro francobolli per la Posta francese. Ha ricevuto il premio Landernau Jeunesse per Louis Ier, Roi des moutons nel 2014 e il Prix jeunesse des libraires du Québec per Moi devant (2016), scritto da Nadine Brun-Cosme.

Laurent Rivelaygue, Icosachi e la strana strega caduta dal cielo, Illustrazioni di Olivier Tallec, Logos Edizioni, Collana I fumetti della Ciopi, 2023, 32 p.

Carwyn James e Doro Quaglio:
Rovigo provincia del Galles nel rugby

Carwyn James e Doro Quaglio: Rovigo provincia del Galles nel rugby

Il rugby in Italia è molto sentito e praticato solo in alcune enclaves, circondate per il resto dalla ossessione nazionale per il gioco del calcio. Una di queste enclaves è la provincia di Rovigo. Il 24 giugno scorso, all’interno della Club House della società Frassinelle Rugby (il cui settore giovanile, che attira allievi da tutto il Polesine e da parte dell’Emilia, sta mietendo successi nelle manifestazioni di mezza Italia, e parliamo di un paese di 1.300 abitanti), l’ex giornalista della Gazzetta dello Sport ed ex rugbista Marco Pastonesi ha presentato il suo libro “Il leone e il corazziere”, dedicato a due figure carismatiche del rugby negli anni settanta: il gallese Carwyn James e il rodigino Isidoro Quaglio, detto Doro.

Introdotti dal Presidente del Frassinelle Rugby Raffaele Mora, Pastonesi e Angelo Morello, storico dirigente del Rovigo Rugby e amico di Carwyn James (del quale traduceva gli articoli dall’inglese: James scrisse di rugby per il Guardian e, in Italia, per il Carlino e il Gazzettino), hanno restituito in maniera palpabile l’atmosfera rugbistica polesana di quegli anni, in bilico tra pionierismo e professionismo.

Come è stato possibile che Carwyn James, rugbista ma soprattutto allenatore di grido, l’unico capace di battere con le sue selezioni gallesi – prima i British&Irish Lions, poi i Barbarians – i leggendari All Blacks in tournée in Europa, secondo molti addetti ai lavori “il miglior allenatore di rugby al mondo”, colui che declinò le avances della Federazione gallese perchè si rifiutava di farsi dare la formazione dal Comitato dei Selezionatori (i Big Five), abbia trascorso tre anni della sua carriera a Rovigo, con tutto il rispetto non esattamente il centro nevralgico del rugby mondiale?

Pastonesi prosaicamente lo dice: vicino a Rovigo c’erano Venezia, Padova. C’era l’arte. Per un letterato quale era James, venire in Italia voleva dire frequentare l’arte. Poi c’era anche il rugby, che però probabilmente non era stata la molla decisiva. Era qualcosa in più, il gancio che gli avrebbe permesso di vivere per qualche anno a stretto contatto con l’arte di cui il nostro paese abbonda. A Rovigo da coach (dove rimane dal 1977 al 1979) incrocia la strada della vita con Doro Quaglio (passato anche da Frassinelle), ancora giocatore, indigeno di ritorno dall’esperienza in Francia: una quercia coi baffi, una fisiognomica che incarna l’eroe classico del rugby.  Due tipi quasi opposti: intellettuale e delicato il primo, un gigante nodoso e ruvido il secondo. Entrambi dotati di un carisma superiore.

Mi resta impresso tra i tanti il racconto di un episodio: Carwyn James, che si tiene su a furia di gin tonic, a casa di Quaglio, che si tiene su a “ombre”. Stanno guardando in tv Francia – All Blacks. La Francia sta vincendo a pochi minuti dalla fine, e Carwyn consiglia prudenza, perchè negli ultimi minuti i neozelandesi possono ribaltare il risultato. Lo dice con una certa noncuranza, tanto è vero che poi se ne va in bagno (a scaricare i gin tonic, presumiamo) e torna a partita appena conclusa. Gli All Blacks hanno ribaltato il risultato negli ultimi minuti e hanno vinto la partita. “Visto, cosa ti avevo detto?” è la chiosa di James. Il resto lo racconta il libro.

 

 

 

 

DONNE E MOBILITA’
Sono le donne che portano i bambini a scuola

DONNE E MOBILITA’. Sono le donne che portano i bambini a scuola

Donne e uomini non usano gli stessi mezzi di trasporto, gli stessi orari di partenza, le stesse finalità di spostamento. Anzi, è proprio questo uno dei settori in cui le differenze tra i sessi sono molto evidenti.

È ormai chiaro come i diversi ruoli di genere ricoperti da uomini e donne nel sistema socioeconomico nazionale e sovranazionale si traducono in diversi bisogni e comportamenti anche per quanto riguarda la mobilità. Ma la situazione può cambiare? Quali sono le traiettorie che permettono di individuare piste di miglioramento?

Interessante è analizzare i dati dellEurobarometro, strumento di sondaggio ufficiale utilizzato dalla Commissione europea e da altre istituzioni e agenzie dell’UE, per monitorare regolarmente lo stato dell’opinione pubblica in Europa, anche su questo tema.

Secondo l’Eurobarometro le donne preferiscono camminare, utilizzare i mezzi pubblici urbani e i treni extraurbani, mentre gli uomini dell’UE scelgono più spesso mezzi di trasporto individuali, tra cui auto, biciclette, motorini e scooter.

Un concetto interessante, elaborato dagli studiosi, è quello di mobilità di cura che permette di individuare le differenze di genere nell’uso dei mezzi di trasporto dovuto alle attività di cura (accudimento di bambini e anziani), che fanno ancora capo prevalentemente alle donne.

I dati dell’Eurobarometro confermano le differenze di genere nel tipo di viaggi giornalieri effettuati. Gli uomini viaggiano più spesso per motivi personali, compreso il tempo libero, mentre le donne viaggiano più spesso per attività di assistenza.

Un secondo tema importante legato alla mobilità è il legame tra l’uso dei trasporti e la povertà. Dalla combinazione di queste due variabili è nato il tema della povertà dei trasporti.

Sempre l’Eurobarometro indica un aumento della quota di spesa per i servizi di trasporto a livello familiare nei paesi che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi economica (ad esempio Grecia e Irlanda) e in paesi in cui sono stati compiuti maggiori sforzi per passare dalla mobilità privata a quella pubblica per ridurre le emissioni di CO2 (ad esempio la Svezia).

Inoltre, si evidenzia come le persone con un rischio più elevato di povertà ed esclusione sociale hanno anche un rischio più elevato di povertà nei trasporti, cioè non possiedono mezzi propri e non hanno le risorse economiche per accedere ai migliori trasporti pubblici (ad esempio sono costrette a viaggiare sempre su treni locali e non possono permettersi l’alta velocità).

Le donne in stato di povertà spesso subiscono un plurimo svantaggio dovuto alla compenetrazione tra genere e altre condizioni di vulnerabilità, tra cui quella legata all’uso dei trasporti.

Un terzo tema evidenziato dall’eurobarometro è la questione della sicurezza delle donne che utilizzano i mezzi di trasporto, compreso l’elevato rischio di molestie sessuali sui mezzi pubblici, nonché la scarsa attenzione alla fisiologia femminile nella progettazione dell’ergonomia dei veicoli e dei loro sistemi di sicurezza. L’attenzione ai bisogni delle donne è ancora limitata e ciò è dovuto alla scarsa presenza di donne come esperte nel settore dei trasporti.

Si registra inoltre una bassa presenza di donne occupate nel settore. I dati esistenti confermano la bassa presenza di donne nel settore dei trasporti negli Stati membri dell’UE. Questo fenomeno solleva problemi di efficienza del mercato del lavoro, in quanto segnala un’allocazione distorta e non ottimale delle risorse umane in tale mercato.

Ci sono diversi motivi per cui il settore dei trasporti non è attraente per le donne. In primo luogo, è percepito come un settore tipicamente maschile e quindi le donne temono forme di discriminazione.

Mancano:
– l’attenzione alle misure di conciliazione vita-lavoro e alla flessibilità dell’orario di lavoro;
attrezzature e servizi a misura di donna;
– attenzione ai temi della sicurezza delle donne;
formazione, apprendimento permanente e opportunità di carriera;
– miglioramento della qualità del lavoro (compresi i contratti di lavoro) a beneficio di tutti i lavoratori.

Un’altra questione importante è la competenza tecnica, poiché le donne sono tradizionalmente sottorappresentate nel gruppo di discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) fondamentali per il settore. Anche gli stereotipi di genere e la loro influenza sulle scelte educative delle ragazze possono contribuire a limitare le loro opportunità di carriera.

Quello dei trasporti è quindi un settore in cui la discriminazione delle donne è particolarmente evidente. Cercando analizzare gli strumenti di programmazione che vengono attuati anche in Italia, quali ad esempio i fondi strutturali e lo stesso PNNR, si evince come la possibilità di utilizzare risorse per migliorare la situazione, esistono.

Per fare alcuni esempi:

– Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) ha tra i suoi obiettivi lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e l’innovazione per le piccole e medie imprese. Nell’attuazione del fondo si può quindi perseguire una particolare attenzione alla mobilità e all’occupazione femminile nel settore. Si può inoltre sviluppare un’attenzione specifica alle esigenze di mobilità delle donne e all’occupazione femminile, anche attraverso l’adozione di strumenti di pianificazione partecipativa (ad es. “Living Labs“).

– Il Fondo sociale europeo (FSE+) e ilFondo sociale per il clima sono strumenti che possono contribuire a porre rimedio alla povertà dei trasporti e quindi sostenere efficacemente l’inclusione sociale dei gruppi vulnerabili.

– Il Fondo di coesione può essere utilizzato per garantire l’uguaglianza attraverso investimenti nell’ambiente e nelle infrastrutture. Analogamente, il meccanismo per collegare l’Europa (CEF) con i trasporti può sostenere le infrastrutture di spostamento che facilitano l’inclusione femminile.

– il PNNR nella Missione 3 dispone di una serie di investimenti finalizzati allo sviluppo di una rete di infrastrutture di trasporto moderna, digitale, sostenibile e interconnessa, che può aumentare l’elettrificazione dei trasporti e la digitalizzazione, e migliorare la competitività complessiva del Paese, in particolare al Sud.

Lo spazio normativo per migliorare la situazione evidentemente esiste, ma va applicato rendendo gli interventi adatti e cogenti, efficaci ed efficienti. Per fare questo occorre che, chi lavora in ambito attuativo, sia attento ai bisogni delle donne, privo di pregiudizi e con una bassa interiorizzazione degli stereotipi di genere esistenti.

In caso contrario la situazione cambierà di poco e gli interventi finanziati saranno di nuovo a favore del mantenimento dello status quo (ad esempio aiutando solo le donne a lavorare da casa per accudire i bambini, oppure dando solo a loro sconti sui mezzi pubblici per recarsi all’ospedale a trovare i parenti ammalati).

I ruoli di genere sono costruzioni sociali che possono cambiare nel tempo e, cambiando i comportamenti, cambieranno anche le dinamiche della mobilità. Ci si augura che le differenze di genere nella mobilità non siano destinate a durare per sempre. In futuro, l’incremento di modalità di lavoro flessibili adottate durante l’epidemia da Covid-19 e poi istituzionalizzate, dovrebbero rendere la mobilità di uomini e donne più simile.

Una maggiore condivisione del lavoro domestico e di cura dovrebbe semplificare gli spostamenti delle donne. Infine, al di là dell’appartenenza di genere, fattori come l’età, la classe sociale, il livello di istruzione e l’area geografica di residenza, che attualmente esercitano un’influenza importante sulla mobilità delle persone, dovrebbero anch’essi attenuarsi in quanto variabili intervenienti in un processo in rapido mutamento.

Sempre relativamente alle differenze di genere nell’uso dei trasporti e al modo di mitigarle, Sheila Watson, durante la COP26 – Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha dichiarato:

Nel campo dei trasporti, tutto è settato sugli uomini. Se si continuano a ignorare i bisogni femminili l’effetto è che le donne continueranno a non usare le nuove forme di mobilità e si baseranno ancora sui vecchi mezzi inquinanti, che è quello che non vogliamo. I dati e i processi decisionali non prendono in dovuta considerazione i bisogni femminili, serve invece che si inizi a farlo, anche perché si tratta di un elemento decisivo nella lotta ai cambiamenti climatici.

Si tratta quindi di coinvolgere le donne nei processi decisionali relativi ai trasporti, per garantire che i loro bisogni vengano ascoltati, e che l’impatto sull’ambiente sia minimo. Un monitoraggio più attento delle questioni di genere nelle politiche dei trasporti dovrebbe essere attuato da tutte le istituzioni europee nell’ambito dei loro ruoli specifici in materia di progettazione, attuazione e valutazione di tali politiche.

Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta clicca sul nome dell’autrice

Gruppo e comunità (3) /
Prendere accordi

Prendere le decisioni in gruppo, un accordo da trovare

Se non lo hai già fatto, leggi prima Gruppo e comunità (1) e (2)

Arrivammo nella sala con qualche minuto di anticipo.

Avevamo dedicato la parte finale della riunione precedente al prendere insieme alcuni accordi.

Sembrava una banalità, ma alla domanda A che ora vorreste iniziare gli incontri rispetto all’orario di convocazione? Quanto siete disposti ad attendere eventuali ritardatari?

Il gruppo si divise in tre opzioni, che all’incirca suonavano così.

Prima opzione: Io inizierei puntuale come un’orologio svizzero: il tempo è prezioso e sempre pochissimo, per cui è una questione di rispetto arrivare in orario.

Seconda opzione: Il quarto d’ora accademico non si nega a nessuno, c’è traffico, non si può arrivare sempre di corsa, un minimo di tolleranza ci vuole. Stiamo un po’ rilassati, intanto chi c’è può fare due chiacchiere.

La terza frangia era tutta presa a cercare mediazioni: 5 minuti di tolleranza, 10 minuti di tolleranza, no dai facciamo 8 così è una via di mezzo tra 0 e 15 e non scontentiamo nessuno.

Come volete prendere le decisioni in questo gruppo?
Fu questa la domanda che Paola pose. I più la guardammo perplessi. Come si prendono le decisioni in un gruppo? A maggioranza, ovvio. Ci sono altri modi?

Effettivamente, bisogna riconoscere che prendere le decisioni a maggioranza, scontenta sempre qualcuno. Soprattutto se quel qualcuno finisce sovente in minoranza.
Se siamo già in difficoltà a prendere decisioni su questioni semplici, come l’orario di inizio di una riunione, quanto lo saremo di più su problemi complessi?

Allora come? All’unanimità? Pare estremamente difficile che un gruppo possa essere autenticamente unanime su tutte le questioni. Capita che l’unanimità la si raggiunga come tentativo di arrivare ad un compromesso, perdendo in trasparenza e sacrificando il proprio punto di vista per molteplici motivi. Se poi pensiamo che alla base della Vita c’è la biodiversità, risulta difficile pensare che la vita di un gruppo sano possa basarsi sulla omogeneità, sul pensarla  tutti allo stesso modo.

E allora come si fa?

Le questioni su cui si associano molti gruppi sono complesse o estremamente complesse. Tentare di far fronte ai grandi problemi planetari di oggi, ad esempio, è una questione complicatissima, che interpella l’analisi e la tenuta insieme di una moltitudine di variabili. Anche solo per questo motivo, il beneficio del dubbio dovrebbe sfiorare le coscienze e rendere chiunque prudente nel proprio porsi su un cammino di condivisione.
Il tema del COME SI PRENDONO LE DECISIONI risulta cruciale.

Non a caso, se si intervistano i gruppi, alla domanda Quali i problemi più grossi che hanno interessato la vostra vita associativa? La maggior parte nomina i problemi legati al prendere decisioni che spesso generano conflitti, divisioni, incomprensioni, malumori, zizzania nei corridoi, fino a sfociare non raramente con la fuori uscita di alcuni membri.

Bisognerebbe prendere atto che i sistemi decisionali che utilizziamo abitualmente ed in maniera inconsapevole, non sono adatti a gestire i problemi complessi.

Se per problemi semplici è possibile trovare relativamente rapide e semplici soluzioni, per i sistemi complessi è tutto molto complicato e spesso contro intuitivo.

Chi studia i sistemi complessi, sa che molta cura va dedicata al processo, al COME, prima che al COSA.

E invece la maggior parte dei gruppi si riunisce “sul cosa” e “il come” non lo vede come questione di cui occuparsi in maniera propedeutica.

I più non si pongono nemmeno il problema.

Pochi si stanno occupando seriamente di questo tema.

Tra questi, con tante e variegate esperienze incoraggianti, troviamo il movimento della Transizione, nato in Inghilterra nel 2006 nella città di Totnes dalle idee di Rob Hopkins ed ora diffuso in oltre 50 Paesi del mondo.

Questo approccio sistemico basato sul COME, comprende anche STRUMENTI E METODI che permettono di gestire processi decisionali complessi, come il metodo della SOCIOCRAZIA. Non stiamo parlando di un ricettario di tecniche che si possono imparare in quattro e quattr’otto, ma, come ogni cosa complessa, necessita di studio, esperienza, accompagnamento e tanta pazienza.

Alla base della sociocrazia vi sono alcuni assunti come Si procede in assenza di ragioni per non procedere. Si analizzano le proposte, si fanno emergere eventuali obiezioni. Le obiezioni sono lette come opportunità per comprendere rischi che il proprio personale osservatorio non ha valutato. Luci, in altre parole, su altri osservatori. Più obiezioni emergono, più si ha l’opportunità di valutare anticipatamente i rischi, che diventano stimoli per comprendere lo scenario entro cui ci si muove in maniera più ampia ed inclusiva. Non lo si fa per buonismo, ma perchè nella realtà delle cose, esiste una complessità di cui tenere conto se si vogliono efficacemente affrontare i problemi. Più il gruppo è eterogeneo, più è biodiverso, più dà la possibilità di cogliere molteplici sfaccettature.

Qualcosa del genere lo ricordano le Assemblee dei cittadini, che alcuni movimenti per il clima stanno proponendo: assemblee in cui a riunirsi sono cittadini sorteggiati in maniera stratificata, ovvero portatori di interesse differenti, provenienti da ambienti diversi, con formazioni diverse. Serve tempo per questi processi. Sono utili soprattutto per prendere grandi decisioni, non nell’ordinario.

Ma non basta mettere insieme biodiversità umana. Serve anche un approccio adatto e all’altezza per evitare di inciampare sempre nelle stesse cose che non funzionano.

Tornando al metodo sociocratico, è interessante l’impostazione di fondo basata sui custodi: funzioni presidiate e tra loro strettamente interconnesse, garanti di una concreta democraticità:
– un custode del tempo, capace, con garbo e decisione, di mantenere attenzione sui tempi, sulla sostenibilità dell’ordine del giorno, sul fatto che non emergano “ping pong” tra due o tre persone che finiscano per monopolizzare la discussione, privando gli altri dello spazio tempo necessario per ricevere cittadinanza;
– un custode della storia, che tiene traccia di quanto emerge in riunione, di chi fa che cosa e in che tempi, ovvero degli accordi presi e dei principali punti di discussione, assicurandosi anche di informare gli assenti, così che ognuno possa velocemente aggiornarsi su quanto accaduto in sua assenza (ottimi i diari di bordo su file condivisi e scritti in tempo reale);
– un custode del cuore, che presta particolare attenzione ed empatia al clima di gruppo, alle eventuali tensioni, al livello di energia o meno presente, che significa motivazione ad attivarsi e prima ancora a fare parte di quel processo;
– un custode del processo che, in maniera particolare, aiuta a tenere insieme i pezzi, coordinando e curando i collegamenti o “cerniere” tra funzioni, gruppi di lavoro, obiettivi ed azioni, ovvero la coerenza di TESTA-CUORE-MANI.

Soprattutto per chi ha nel cuore e nelle parole l’ALTERITA’, l’apertura al diverso, risulta urgente (e coerente) imparare a comunicare tra diversi punti di vista, producendo conoscenza condivisa, cooperazione, assumendo quanto emerge dal gruppo e procedendo via via con accordi che diventano la bussola che orienta verso una direzione comune. Parliamo spesso di comunità inclusive. Bene. Abbiamo continuamente ottime occasioni per sperimentarci in questa polifonia, con curiosità ed umiltà, ma prima ancora ci vuole il desiderio di farlo.

Sempre a proposito del COME, risulta interessante e proficuo, osservare la propria ed altrui comunicazione, inconsapevolmente improntata su una grammatica ed un linguaggio che poco favorisce l’accoglienza e l’inclusività. E anche su questo molto c’è da imparare, ad esempio dalla comunicazione non violenta.

Ma di questo tratteremo nella prossima puntata.

Per approfondire OLTRE QUESTA DEMOCRAZIA TEDxBologna a cura di Cristiano Bottone

Per certi versi /
Il mio cuore

Il mio cuore

Il mio cuore
È un mosaico
Di sentimenti
Vissuti
Mancati
Perduti
Immensi
Trattenuti
Violati
Gettati
Amati
Un mosaico
Di geografie
Assiali
Cibo
Strepiti
Silenzi
Vulcani
Di elenchi
Il mio cuore
È arcaico
Così solo
Tiene
Fresco
Il suo mosaico

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Diario in pubblico /
Un viaggio a Roma

Diario in pubblico. Un viaggio a Roma

Mi appresto a recarmi nei luoghi dove si celebrerà il bicentenario canoviano, Roma Accademia di San Luca, Napoli Museo di Capodimonte, Vicenza Teatro Olimpico, con la consapevolezza che l’autore veneto teoricamente viaggia accompagnato da un drappello ferrarese di cui non è male renderne conto: la direttrice del Museo di Bassano Barbara Guidi che vanta lunga e felice militanza ferrarese, il presidente della Fondazione Canova, Vittorio Sgarbi e il sottoscritto che nonostante tutto ancora s’inchina alla città estense. E non si dimentichi il realizzatore della mostra, Io, Canova genio europeo anch’esso ferrarese. Ultima, ma fondamentale, l’Edisai attuale casa editrice delle Lettere canoviane.

La spiegazione più ovvia sta nella imprescindibile connessione tra l’artista e il suo più importante sostenitore e divulgatore: Leopoldo Cicognara, le cui origini sono storicamente ferraresi. Partiamo dunque per recarci a Roma dove ho trovato alloggio presso l’Hotel Nazionale in Piazza Montecitorio e in cui da anni mi sono recato per le trasferte romane.

Richiesto poi dove volevo viaggiare e memore dei miei trasferimenti ferroviari che mi hanno occupato dall’adolescenza alla terza età, chiedo naturalmente una seconda classe. L’avessi mai fatto! Mi si presenta una situazione che dir surreale sarebbe pochissimo!

Ogni viaggiatore è munito di immense valigie, che ferocemente trascina con sé occupando ogni possibile millimetro libero con l’occhio fisso al dio moderno: il cellulare. Puzze non evitabili di piedi mal lavati, di ascelle infradicite dal sudore, di mestrui giovanili, di capelli sozzi e unti, mentre trionfalmente giovani donne ma anche vecchiette in polpa esibiscono tette e culi da brivido.

Due pallidissimi inglesi inodori mi stanno di lato e continuano con l’occhio fisso alla digitalizzazione di non so quale non segreto compito e, nel dirlo mi commuovo, dalla fila davanti alla nostra spunta la testa di un peloso di non nobili natali, che da un occhio azzurro chiede immediata carezza. Mi precipito ad accontentarlo mentre un soddisfatto colpo di coda sancisce l’avvenuto riconoscimento.

L’aria sempre più greve si fa ancor più ‘odorosa’ quando, preceduto da ululi sconnessi, s’avvicina il carrello delle vivande. Chiedo umilmente un succo di frutta e un panino che mi vien sbattuto sul tavolino con l’insofferenza di chi non ne può più. Bevo il succo e spezzetto l’ignobile panino per darlo in parte e di nascosto all’amico peloso. E non mi trattengo più per il desiderio sommo d’impartire almeno una lezioncina letterario-artistica ai due giovani pallidi.

Così nel mio spaventoso e balbettante english racconto pezzetti di storia fiorentina ai due malcapitati che alla fine, uno alla volta, si defilano chiudendosi nelle toilettes rigorosamente intasate. E, come una visione d’altri tempi, da un ammasso di capelli che la coprivano a mezzo il corpo, da calzoncini uterini, da gambone appesantite dalla cellulite, appaiono due straordinari occhi azzurri che mi guardano annoiati, mentre la mano a fatica afferra una bottiglia che reca la scritta della canadese University of Melbourne.

Non l’avesse mai fatto. Apro il viso a un satanico sorriso e trionfante annuncio che “anche io” ho insegnato in quello stesso luogo, dove vivono lontane e ricche cugine in una villa dove mi accolgono rovesciandomi nel piatto tante aragoste. Il disprezzo latente sul viso mi dice che non ho fatto colpo.

Improvvisamente appare una collega del Museo di Bassano che tiene in braccio una bambinetta di non più di due-tre anni. Allora tutto si chiarisce. La naiade disegna fiorellini e li passa alla bimba, io invito all’Accademia di san Luca la giovane studiosa e la mano piccola piccola della bimba si protende al muso del peloso, che doverosamente le elargisce una affettuosissima leccatina.

Sbarchiamo dunque a Termini e la folla invaligiata con stridor di ruote s’avventa alla fermata dei taxi. Qui scene fantozziane. Trascinando il malloppo ci si avventa sulle macchine, tra l’imperturbabile freddezza degli autisti che non aprono le portiere, poi finalmente alzo il ditino e si ferma la macchina. Il conduttore è in vena di parlare, mentre io lo avverto che, non solo devo andare in piazza Montecitorio, ma che mi occorre anche la ricevuta della corsa.

Al nome Canova mi guarda e ammette di averlo sentito nominare come un famoso pittore! La vena didattica si fa strada in me e dolcemente m’informo se per caso non avesse mai visto la statua di Paolina Borghese. Borbotta che dalle medie non mette piede a nessun museo, ma che avrebbe portato la moglie, a cui interessano “quelle cose”.

Così si giunge all’inizio della piazza Montecitorio, ma inflessibili poliziotti dicono di scendere e di far a piedi il percorso passando da dietro. Scendo e m’avvio. Purtroppo, non basta: ulteriori sbarramenti; così, dopo aver traversato i divoratori dei giolittiani gelati, mi si spalanca una viuzza, che di lato alfine mi porta all’ingresso dell’albergo.

Già le 16 e benché l’Accademia di san Luca fosse vicina, timidamente a piedi mi affaccio sulla fontana di Trevi. Orrore puro: mentre strani personaggi al suono di enormi altoparlanti ballano, strisciano per terra, urlano tra visioni orrende di pelli tatuate. E poi? Silentium.

L’Accademia si presenta silenziosa e muta. Arrivo alle 17.15. Breve visita alla mostra dei reperti canoviani dell’Accademia, poi si scende. Siamo in 15 e lentamente raggiungiamo lo spaventoso numero di 23……Tutti però ‘altolocati’. Lo streaming promette la visio integrale, ma né dal ministero, né dal Comune arriva segno.

Dove sono gli amici Franceschini e Gotor ad esempio. Bohhh…. ma un cattivo pensiero mi frulla per la testa: forse a qualche veglia funebre. E mentre invitato dall’amico Claudio Strinati ricostruisco come sia arrivato a studiare Canova dalle colline di Bellosguardo al Lungarno Corsini e mi affanno sulla credibilità dell’imprevedibile, mi arrivano severe censure sul mio discorzetto da parte di uno pseudo amico che non ha il coraggio di parlare pubblice, ma private mi manda severissimi rimproveri, giungendo perfino a parlare di odio… Mah!

Così in lieta compagnia, affidandosi a un canovian romano di pura razza quale Francesco Leoni, giungiamo a una trattoria che cancella ogni brutto ricordo di Roma sfasciata. Qui i più buoni fiori di zucca, qui calamari à gogò e dolci squisiti che mi ricordano la Roma d’antan. Poi il ritorno all’impenetrabile Hotel Nazionale guidati da una bellissima ragazza, la figlia di Paolo Mariuz, addetta alla vendita dei volumi.

Tutti poi partono presto la mattina seguente per Capodimonte ed io, in attesa del treno per Ferrara, ritorno all’amato caffè in Piazza del Pantheon. Qui la frenesia commerciale non ha più limiti. Ti fanno sedere con occhio esperto in tavolini nascosti (tanto sei solo); ti chiedono bruscamente cosa vuoi e al piccolo spuntino (cappuccino e succo di frutta) e alla richiesta di fattura ti rispondono sprezzantemente di attendere. E dopo una buona mezz’ora eccola la sospirata ricevuta.

Sfilano davanti al monumento comitive d’ogni razza e colore, salvo il nero. Sapienti madamine Turandot mettono in riga disciplinatissimi Ping Pang Pong, che guardano severi le colonne e doverosamente scattano improbabili foto e infine ancora via, ad aspettare in piedi il treno in ritardo, rimpiangendo di non avere comode prime classi.

L’arrivo a Ferrara porta con sé forse l’ultimo ricordo della città imperiale avvolta in lezzo e profumi.

Cover: Antonio Canova, Paolina Borghese come Venere vincitrice, 1804-1808, su licenza Wikimedia Commons.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola / Marina Cicogna si racconta in “Ancora spero”

Dopo il documentario “Marina Cicogna – La vita e tutto il resto”, è uscito, a maggio, il libro “Ancora spero”, l’autobiografia di una grande ambasciatrice della cultura italiana, la produttrice Marina Cicogna. 

Lo scorso 6 maggio, alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, è stato presentato “Ancora spero”, autobiografia della produttrice e sceneggiatrice Marina Cicogna, scritta insieme alla giornalista e critica cinematografica Sara D’Ascenzo.

Un folle amore per il cinema, quello che ha fatto di lei una produttrice visionaria e leggendaria, prima produttrice del nostro sistema naturalmente patriarcale: il New York Times l’ha descritta come “la prima grande produttrice cinematografica italiana” e “una delle donne più potenti del cinema europeo”.

“Non ho mai prodotto un film per ragioni anche vagamente politiche, né mi interessava se il regista e i protagonisti fossero di sinistra o di destra. Mi premeva piuttosto che la trama e gli attori risultassero convincenti”.

Conosciuta al grande pubblico per l’Oscar come miglior film straniero a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con Gian Maria Volontè, nel 1971 e la Palma d’Oro per La classe operaia va in Paradiso, sempre di Elio Petri, nel 1972, la contessa Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, aristocratica per lignaggio e stile, è, fin da giovane, aperta al mondo, libera, moderna e ribelle. Una vita senza confini, di nessun tipo.

Marina nasce a Roma, a Palazzo Volpi di Misurata, dal conte Cesare Cicogna Mozzoni e la contessa Annamaria Volpi di Misurata, appartenenti rispettivamente all’antico casato lombardo dei Cicogna Mozzoni e ai veneti Volpi di Misurata, in vario modo legati al cinema: il nonno era il conte Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitania, presidente della Biennale di Venezia e, come tale, fondatore della Mostra del Cinema di Venezia (1932) tanto che da lui prende nome la Coppa Volpi; il padre co-produsse Ladri di biciclette nel 1948.

Il cinema lo conosce quindi da ragazza, sui set e nel jet set, e, prima di tutto, nel nucleo familiare: nel 1967 il fratello Ascanio (detto Bino) ottiene la maggioranza della Euro International Films, casa di distribuzione e produzione romana, rilevata dalla madre, e lei lo segue, sfidando le diffidenze di tutti, parenti inclusi, intuendo i grandi cambiamenti in atto: la contestazione giovanile, la rivoluzione dei costumi, la liberazione sessuale.

Marina Cicogna, Luchino Visconti, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, foto Istituto Luce

Agli esordi, fa ottenere il miglior incasso della stagione 1967-1968 a Helga, un documentario della Germania Ovest sul percorso di una donna incinta e, sempre nel 1967, viene chiamata alla Mostra del Cinema di Venezia con ben tre film in concorso: Bella di giorno, di Luis Buñuel, cui va il Leone d’Oro, Lo straniero, di Luchino Visconti, Edipo re, di Pier Paolo Pasolini. Con quest’ultimo torna, nel 1968, con Teorema, imponendo Terence Stamp al posto di un ragazzo di vita desiderato dall’autore, e con Medea, nel 1969, asseconda poi Monica Vitti per il ruolo in Ragazza con la pistola che Mario Monicelli sta per girare con Claudia Cardinale.

La svolta, anche nella vita sentimentale, arriva nel 1969 con Metti, una sera a cena, di Giuseppe Patroni Griffi: Florinda Bolkan, per vent’anni sua compagna, e un immenso Ennio Morricone che regala al mondo un’indimenticabile bossa nova.

Mentre il fratello Bino si dedica alle grandi produzioni (C’era una volta il WestNell’anno del Signore), Marina sceglie lo spettacolo d’autore, sotto il segno di Gian Maria Volontè: con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto arriva all’Oscar, ma sottovaluta la situazione e non lo ritira (anzi, non ha mai visto la statuetta, racconta, spedita direttamente al regista Elio Petri); vince la Palma d’Oro con La classe operaia va in Paradiso, produce Fratello Sole, sorella Luna, di Franco Zeffirelli, domina gli incassi con Anonimo veneziano, di Enrico Maria Salerno, stupisce con Uomini contro di Francesco Rosi, punta su Lina Wertmuller per Mimì metallurgico ferito nell’onore vorrebbe con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato.

E poi la tragica morte del fratello Bino, suicidatosi a Rio de Janeiro, da cui mai si riprenderà, e la crisi finanziaria della Euro, passa un breve periodo alla Paramount (che le rifiuta Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e Il portiere di notte di Liliana Cavani) prima di cessare del tutto l’attività di produttrice e trasferirsi negli Stati Uniti.

Di ritorno in Italia, le viene offerta la presidenza di Italia Cinema (2002). È presidente onorario dell’Accademia Internazionale d’Arte di Ischia.

Grande appassionata di fotografia, negli anni della dolce vita ha immortalato personalmente amici celebri come Gianni Agnelli, Greta Garbo, Maria Callas e Onassis, Herbert von Karajan, Luchino Visconti, Federico Fellini, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Henry Fonda, Charlie Chaplin, Jeanne Moreau, Silvana Mangano, Claudia Cardinale, Elizabeth Taylor, Ava Gardner, Yul Brynner, Ezra Pound e Louis Malle. Gran parte di queste istantanee è confluita nel libro Scritti e Scatti (2009), diventato anche un’apprezzata mostra fotografica.

Un secondo libro fotografico, La mia Libia (2012), raccoglie foto degli anni in parte vissuti a Tripoli tra il 1957 e il 1967, nella settecentesca casa di famiglia (Villa Volpi, oggi Museo islamico).

Nel 2019, esce, con Marsilio, il bellissimo Imitatio vitae, dettagli dei capitelli marciani che si animano e proiettano in storie remote e affascinanti, scelti con sguardo cinematografico da Marina, colpita da tanta bellezza e verità antiche.

Molti personaggi famosi raccontano le loro emozioni davanti a queste sculture, da Valentino a Vanessa Redgrave, da Valeria Golino a Liliana Cavani, da Marina Abramović a Jeremy Irons, da Pierfrancesco Favino a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, per citarne alcuni.

 

Nel 2021, è protagonista del documentario Marina Cicogna – La vita e tutto il resto, di Andrea Bettinetti, distribuito da Luce Cinecittà, in cui ripercorre le tappe della propria vita, lontana dalla mondanità del passato e di fronte alla malattia. Un viaggio nel tempo che dall’infanzia al Lido di Venezia approda alle stanze di un collegio svizzero, dall’America degli anni Ottanta giunge alle atmosfere del Brasile, dalla New York degli esordi arriva agli eccessi delle notti a Los Angeles, dalle spiagge di Miami ritorna nella sua amata Roma.

Tra mondi in dissoluzione e altri in trasformazione, set turbolenti e dimore paradisiache, leggende e aneddoti si intrecciano a verità e tragedie, nel racconto di oltre ottant’anni di amicizie indissolubili da Valentino a Jeanne Moreau, da Franco Zeffirelli a Ljuba Rizzoli, da Giuseppe Patroni Griffi a Gian Maria Volonté, da Ennio Morricone a Elio Petri, di grandi e romantici flirt, da Farley Granger ad Alain Delon e Warren Beatty, e di legami duraturi, con Florinda Bolkan e l’attuale compagna, Benedetta.

Nominata Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana nel 2012, il 10 maggio 2023, Marina Cicogna riceve il Premio alla carriera nel corso della 68ª edizione dei David di Donatello.

Una storia incredibile. Una vita per il cinema, da cinema.

Marina Cicogna, Ancora spero. Una storia di vita e di cinema, Marsilio Specchi, 2023, 272 p.

 

Foto in evidenza Corriere della Città

ACCORDI
Viaggio dentro Stay degli U2

È quasi l’alba, e stiamo camminando per le strade in cerca di un bar, di un minimarket o di un qualsiasi riparo dal nostro vagabondare. Sì, abbiamo la fame di chi ha fatto tardi, e anche il più rattrappito dei tramezzini confezionati ci sembra il giusto premio per aver attraversato indenni un’altra notte.

Eppure, lo sai, c’è ben poco da festeggiare: sei inerme di fronte alle tue fragilità, e quel confine tra l’essere vittima e carnefice non è mai stato così sottile. Parli di progetti, di nuove possibilità, ma in cuor tuo sai già che sono soltanto parole con cui riempirai il presente, e non il futuro.

Non sei veramente qui, non stai assaporando il momento. O perlomeno fai finta di assaporarlo, perché è così che si fa da queste parti: si indossa una maschera e si evita di scavare a fondo per paura, pigrizia o vergogna. Riempiamo tutto il riempibile per non fare i conti con il vuoto che ci attende.

Il tuo è un grido d’aiuto strozzato sul nascere. Io l’ho colto, e spero che non sia troppo tardi.

Vorrei poterti aiutare, ma non so come.
Resta con me. Non lasciarti andare.
Si sta facendo giorno, e ce n’è di strada da fare.

Vite di carta /
Come Bambini giocano i Grandi della Terra

Vite di carta. Come Bambini giocano i Grandi della Terra

Ho letto un racconto bellissimo, Certe case (vari stadi di dissoluzione) di Claire Vaye Watkins, giovane scrittrice californiana. L’ho letto pensandolo fino in fondo e intanto ho ripercorso un po’ rapsodicamente la narrativa che conosco su questo enorme tema, il tema della dissoluzione oggi.

Watkins racconta dal di dentro la storia di due sorelle e dei loro genitori fragili, il padre scomparso presto, la madre malata e incapace di vivere. Ogni casa è descritta attraverso i dettagli del disordine, della povertà.

Segni di degrado ovunque, mentre la voce narrante e la sorella crescono e non si sa come riescono a seguire un regolare percorso scolastico, fino al college e all’università. Soprattutto, si vogliono bene e amano la loro madre nel bene e nel male, anche quando la malattia di Lyme, non ancora diagnosticata, la fa soffrire e la spinge a comportarsi come una pazza.

racconti di due americhe antologia john freemanÈ questa l’America, oggi? Cerco più avanti nella stessa magnifica antologia curata da John Freeman, Racconti di due Americhe, un altro testo che dipinga il paese e trovo Felice dello scomparso Brad Watson.

Breve e intenso, il racconto smentisce il senso del titolo quando ci immette nella discriminazione razziale in Mississippi in una fase del Novecento non meglio precisata, forse alla metà del secolo o poco dopo, durante l’infanzia del narratore.

Anche lui ne parla da un punto interno alla vicenda, attraverso gli occhi del bambino incredulo che è stato. Incredulo davanti alla “donna nera” che lavorava in casa sua per uno stipendio irrisorio – forse Felice è il suo nome – e che dopo molti anni di servizio viene licenziata in seguito a un banale sospetto e senza diritto di difesa.

“Vivevamo in mondi distinti e separati, all’epoca. Cosa vera soprattutto per i neri da una parte e i bianchi della classe media e anche medio-bassa dall’altra. Ma che in realtà valeva per tutti i neri e tutti i bianchi”.

Non so se nella narrativa italiana ci sia una raccolta analoga di contributi così lucidi sul nostro presente. Conosco antologie assemblate sul tema della fuga, sulle ferite che la vita ci ha inferto. Mi sembrano ambiti più personali, individuali.

Mentre nei Racconti sono trentasei tra i più importanti narratori americani a tracciare il quadro della loro nazione, tra discriminazioni economiche, sociali, di genere e di razza. E con “la famelicità con cui la finanza depreda i più poveri”.

“L’America è spezzata. Non c’è bisogno di dati statistici per rendersene conto. Basta avere occhi e orecchie e ascoltare i racconti che si sentono in giro. Girando per le vie di una qualunque città americana è palese che il patto con i cittadini è stato infranto“.

Le parole che usa Freeman nella Introduzione sono uno schiaffo. Riportano a noi e al nostro paese, e a tutte le esperienze collettive che hanno marcato il nostro tessuto sociale negli ultimi decenni. Guidate spesso da una insufficiente visione politica, divisive.

amatissima toni morrison 1988Mi torna in mente il libro di Toni Morrison, che ho letto lo scorso mese di maggio, Amatissima.

Un libro fuori dell’ordinario, vincitore del Premio Pulitzer nel 1988, dove le protagoniste femminili sono donne di colore che ruotano attorno alla figura di Sethe, una ex schiava che alla metà dell’Ottocento acquista la  libertà con la fuga e nella propria casa ripercorre la vita tragica di prima e ne vive una nuova tra realismo e magia, tra la vita e la morte.

La sua storia di sopraffazione e di orrore si legge sulle cicatrici che ancora le disegnano il corpo e si fa paradigma per i sessanta milioni di africani morti nel periodo del commercio degli schiavi d’America.

La vita nuova ruota attorno a Beloved, la più amata tra i figli che ha dato al mondo Sethe, quella a cui ha tolto la vita per salvarla dalla condizione di schiava quand’era ancora molto piccola. Beloved viene dall’altrove con addosso un paio di scarpe nuove e un amore sconfinato da restituire a sua madre.

Passo in rassegna alcuni Tg ascoltati in questi giorni sul gigantismo, sugli incontri bilaterali o a numeri più alti che uniscono i Grandi della Terra per affrontare i problemi che affliggono il pianeta o parti di esso.

Se ascoltando il Tg vengo a sapere che Joe Biden ha concluso con “Dio salvi la regina” il discorso che ha  tenuto in questi giorni in Connecticut alla convention anti-armi. Se la diga fatta saltare a Kakhova, uno tsunami che ha allagato l’Ucraina, sembra non trovare un responsabile e dai Tg arrivano notizie di rimpalli tra i due paesi, quello di Putin e quello di Zelensky.

Se per analogia mi vengono in mente i bambini che giocano, credo di avere almeno un paio di motivi. Il primo è che i piccoli credono di fare cose molto serie, giocando. Il secondo, che sono del tutto prevedibili nel movente che li spinge a partecipare, cioè vincere.

L’analogia però finisce qui. Guardo questi ‘Grandi della Terra’ che giocano a fare i bambini e penso che non c’è innocenza nelle loro movenze. E c’è una prevedibilità nei comportamenti che la loro esperienza di vita rende inemendabile. 

Gioco a mia volta con le lettere: tolgo a Grandi la G maiuscola, come loro con totale mancanza di rispetto hanno tolto la T alla terra . Penso che lascerò la L alla Letteratura, verso la quale mantengo una speranza non ancora appassita.

Nota bibliografica:

  • Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli, 1988 (traduzione di Giuseppe Natale)
  • Claire Vaye Watkins, Certe case (vari stadi di dissoluzione), in Racconti di due Americhe, a cura di John Freeman, Mondadori 2022 (traduzione di Federica Aceto)
  • Brad Watson, Felice, in Racconti di due Americhe, cit.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / Il vecchio e il mare, un magnifico silent book

Isabella Labate e il suo omaggio a Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway, in un delicato silent book

La fortuna arriva in varie forme” – Ernest Hemingway

“Tutto era vecchio in lui, tranne gli occhi, che avevano lo stesso colore del mare”. Chi non ricorda questo passaggio del celebre romanzo di Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare? Per me, è stata una delle prime affascinanti e coinvolgenti letture, nelle elegantemente rilegate edizioni blu della B.U.R. che mamma mi aveva regalato.

Considerato dalla critica un capolavoro della letteratura, per il quale lo scrittore vinse il premio Pulitzer nel 1953 e il premio Nobel per la letteratura nel 1954, oggi Isabella Labate ne propone una versione senza parole, con Kite edizioni.

Un silent book in bianco e nero che propone immagini degne di un’opera d’arte che, con un linguaggio universale, non necessita di parole. La magia del racconto non si perde e nel silenzio delle tavole sembra di sentire il rumore dell’acqua e dei pesci che la solcano, e tra loro dell’immenso marlin dalle strisce viola, più lungo di un metro e mezzo rispetto alla barca del vecchio pescatore Santiago.

Siamo con e accanto a Santiago che, per ottantaquattro giorni non è riuscito a pescare nulla: eppure riesce a raccogliere le forze e a riprendere il mare per una nuova battuta di pesca che ha il sapore di un’iniziazione. Noi e Manolin, il giovane amico, conforto nei momenti di solitudine, che rappresenta il coraggio, la speranza e la fiducia. Un’avventura che coinvolge, nel mese di settembre.

Nella disperata caccia a quell’enorme marlin (alcuni critici lo hanno interpretato come il male oscuro, la depressione con cui Hemingway combatté per tutta la seconda parte della sua vita), che per due giorni e due notti trascina la sua barca nell’oceano, nella lotta quasi a mani nude contro gli squali che un pezzo alla volta gli strappano la preda, Santiago stabilisce, forse per la prima volta, una vera fratellanza con le forze incontenibili della natura che necessita di grande rispetto. E, soprattutto, trova dentro di sé il segno e la presenza del proprio coraggio e tenacia, la giustificazione di una vita.

Negli anni, Il vecchio e il mare è stato oggetto di varie trasposizioni cinematografiche, primo fra tutti quello con il grande Spencer Tracy, diretto da John Sturges nel 1958,

fino a quello, di animazione, diretto da Aleksandr Konstantinovič Petrov nel 1999 (Premio Oscar 2000 come miglior cortometraggio d’animazione).

Di Alfaveyron – video film, Copyrighted, wikipedia

Oggi, dopo aver sfogliato le pagine del libro silenzioso di Isabella, vi invitiamo anche a ritrovare le parole, ascoltando Pino Roveredo, che legge Il Vecchio e il Mare

Isabella Labate

È nata a Savona nel 1968 e ha studiato illustrazione a Genova con Emanuele Luzzati. Nel 1994 ha iniziato a pubblicare libri per ragazzi. Da allora ha lavorato con diverse case editrici italiane e straniere, ha esposto in Italia, in Giappone e a Taiwan, è stata selezionata alla Biennale di Bratislava nel 1995 e alla Mostra della Fiera del Libro di Bologna nel 2011, 2012 e 2013. Vive a Savona con il marito e due figli, davanti al mare, ma appena può scappa nei boschi. Si è aggiudicata il secondo posto del Concorso per Illustratori alla 43° edizione del Premio Letteratura Ragazzi di Cento (2022) con le tavole dell’albo Un tempo per ogni cosa (Kite Edizioni).

Il vecchio e il mare, di Isabella Labate, Kite Edizioni, 2023, 36 p., dai 15 anni

Il vecchio e il mare. Mostra personale di Isabella Labate

Da sabato 27 maggio a venerdì 30 giugno, il Museo Civico della Stampa di Mondovì ospita una nuova mostra di illustrazione organizzata da noau | officina culturale in collaborazione con Illustrada Associazione Culturale e il Festival Zerodiciannove di Savona, grazie al contributo di Fondazione CRC. Protagonisti i disegni originali realizzati da Isabella Labate per il silent book Il vecchio e il mare, Kite Edizioni, un omaggio all’omonimo celebre romanzo di Ernest Hemingway. La mostra, a ingresso libero, sarà visitabile durante gli orari di apertura del Museo Civico della Stampa.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

LE VOCI DA DENTRO /
Chi toglie i peccati del mondo

Le voci da dentro. Chi toglie i peccati del mondo?
I detenuti attori al Teatro Comunale

La nostra Costituzione affida agli istituti penitenziari un obiettivo importante, alto e lungimirante; infatti l’articolo 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Nello stesso comma ci sono due parole di grande spessore etico che oggi sembrano ai margini: “umanità” e “rieducazione”.
In sintesi, la Costituzione scommette sulle possibilità di cambiamento della persona, a condizione che venga trattata con umanità ed aiutata con una serie di attività rieducative.

Fra quelle che la Casa Circondariale di Ferrara propone ce ne sono davvero tante, probabilmente sconosciute ai più, gestite da istituzioni e realtà associative: dalla scuola all’università, dal teatro al cinema, dalla cura degli orti al riciclaggio di apparecchiature elettriche, dal calcio al rugby, dallo yoga alla pallavolo, dalla camminata veloce alla ginnastica dolce, dalla scrittura creativa al giornale.

Ognuna contribuisce, a suo modo, a quella rieducazione di cui la nostra comunità ha bisogno; in particolare il teatro, per le sue caratteristiche peculiari, aiuta a farla vivere direttamente.

Marco Luciano, attore e regista teatrale, esprime molto bene questo concetto in un’intervista concessa tempo fa a Telestense: “Molti di noi sono convinti che si entra in carcere per insegnare qualcosa ai detenuti. Bisogna essere coscienti del fatto che quando si entra in carcere per la maggiore si impara perché veniamo da un vissuto e da esperienze che non hanno quei codici.

Pertanto a noi interessa di più educare che non insegnare, perché educare viene da “ex ducere” cioè “tirar fuori” e Gramsci ci offre ottimi spunti per tirar fuori e mettere su uno stesso piano comunicativo chi sta scontando una pena e chi viene invece in carcere a tirar fuori l’anima di queste persone”.

Marco Luciano conduce il laboratorio teatrale nella Casa Circondariale di Ferrara e recentemente ha curato la regia dello spettacolo Agnus Dei, liberamente ispirato alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che è stato presentato al pubblico del Teatro Comunale di Ferrara nella serata del 12 giugno scorso.

Lo spettacolo non aveva come obiettivo quello di narrare in maniera biografica la vita del politico e filosofo italiano, quanto piuttosto quello di indagare, attraverso quadri grotteschi e sarcastici, azioni poetiche e musica dal vivo, alcuni archetipi morali e sociali che la nostra società continua a propinare quando si parla di carcere e detenzione.

Dice Marco: “Agnus Dei… il titolo può sembrare un po’ ridondante, ma lo spettacolo vuole indagare alcuni stereotipi che ancora la nostra società alimenta quando si parla di carcere e da un altro punto di vista ci offre uno spunto per una riflessione diversa, cioè fa pensare che alcuni detenuti sono in carcere a scontare una pena e tanti altri sono fuori a non scontare le loro pene. Abbiamo individuato nella figura di Gramsci un paradigma di questo concetto”.

Marco Luciano è riuscito a portare al Teatro Comunale lo spettacolo Agnus Dei, ma la cosa più importante è che è riuscito a portare in scena, fuori dalle quattro mura della cella, diversi attori detenuti della Casa Circondariale di Ferrara che hanno seguito il laboratorio che viene proposto ormai dal 2005. È riuscito a creare un ponte, un’occasione per la società di incontrare le persone detenute andando oltre il reato, oltre la pena, oltre i pregiudizi.

Lo spettacolo Agnus Dei è stato emozionante, profondo, carico di significati e di stimoli.
Gli attori detenuti, molto emozionati, sono stati credibili e bravissimi nell’interpretare in maniera così intensa quei ruoli che sentivano particolarmente. Ci sono stati momenti di estrema delicatezza e di inaspettato divertimento, di giusta provocazione e di forte indignazione, di commosse individualità e di straripante coralità.

Il pubblico ha sentito l’atmosfera carica di passione che veniva trasmessa dal palco ed ha ricambiato con applausi sinceri, sentiti, calorosi e prolungati.
Gli attori hanno sentito il calore genuino del pubblico ed, emozionati, hanno restituito gli applausi.

È stato come se, con le nostre mani, si volessero sostenere insieme le arcate di un ponte fra persone libere e persone “ristrette”; un ponte di speranza da continuare a costruire perché la nostra società possa, malgrado la nebbia, attraversarlo alla ricerca di umanità.
Bravissimi tutti!

 


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

In copertina e nel testo: Immagini dello spettacolo teatrale Agnus Dei, Teatro comunale di Ferrara, 12 giugno 2023

Nel mar Egeo affonda l’umanità

Nel Mar Egeo affonda l’umanità

Cosa si può provare su un barcone alla deriva?

Si parte dalla spiaggia di una costa imprecisata dell’Africa, magari dopo settimane di cammino, famiglie con bambini, giovani – certo che sì, i vecchi un viaggio del genere mica sono in grado di farlo. Pensa, dice il fedele contrito dal lutto dell’affabulatore, hanno pure il cellulare. Perché secondo voi chi intraprende un viaggio sulle spalle della morte manco quello dovrebbe avere? Poi, dice sempre il fedele listato a lutto, si portano pure i bambini, scappano invece di lottare. Lottare. Ma che ne sapete della loro vita, che ne sapete del mondo da cui scappano. Migranti economici, clandestini, rifugiati, quale sarebbe, per chiarezza, la distinzione? Chi scappa dalla fame non ha il diritto di vivere? Chi non ha mai avuto un documento di identità non è un essere degno di respirare la stessa aria di quelli che piangono un miliardario ottuagenario morto?

Le zecche, i sinistri, vogliono distruggere l’identità cristiana e occidentale dell’Europa, amano gli immigrati e odiano gli italiani … Ma che mondo è questo? Quali i suoi valori, quali le sue identità? Esseri umani, appesi allo stesso cielo, legati da millenni di evoluzione per poi venire classificati come indegni di vivere. Dove stanno tutte le divinità adorate dagli uomini dalla notte dei tempi, quando affonda una barca nel cimitero del mare Egeo o del Mediterraneo?

Non riesco ad immaginare la violenza dell’acqua, l’odore di escrementi e urina mescolati alla nafta grassa, la salsedine, l’odore del porto. Le prime falle, i sobbalzi, il vomito di persone affamate e assetate di speranza e voglia di vita. I bambini stanno sul fondo del barcone, nelle stive, pare il posto più sicuro, si vuole evitare che un’onda spazzi il ponte e li porti via.

Ma poi, il motore si ferma, le grida rimbalzano nel nulla verso la costa lontana.

Ma ci stiamo dirigendo verso la Grecia o verso l’Italia? Che importa, entrambe sono le culle della civiltà, ci sarà qualcuno che ci accoglierà.

Stai tranquillo bambino mio, il mondo non è così cattivo.

I giubbotti salva gente non ci sono per tutti, l’acqua sta entrando, si sente il rumore assordante dello scalpiccio del mondo sopra le nostre teste, l’assito della barca forse non regge, si aprono i chiodi. I secchi pieni di vomito e acqua non riescono a svuotare questo piccolo mondo di legno marcio. Ma il capitano quello col dente d’oro dice che è stato inviato il messaggio di S.O.S. Il messaggio è stato ripetuto venti volte, nell’etere ci sarà qualcuno in ascolto, ci avranno sentito.

Adesso arriveranno.

Ancora la signora bionda con le lacrime agli occhi, distrutta dalla morte del suo mentore, punta il dito contro i trafficanti di carne umana, quelli che guidano i barconi. Ma i trafficanti non sono in mare, sono a terra, nei palazzi, fanno affari con l’Europa, sono quelli che gestiscono i porti sicuri, in Libia, in Siria, gente che conta i soldi occidentali in uffici con l’aria condizionata.

Aiuto abbiamo l’acqua alle ginocchia, e sale, sale, sale. Ma i bambini sono vestiti di rosso, per essere più visibili, ci troveranno, ci salveranno.

Il mondo non può essere così cattivo.

Ora il barcone è inclinato da un lato, c’è gente a mare, gli uomini stanno a galla, per molto, le donne per poco i bambini per un istante.

Ma la stiva era più sicura, ora però è tutto nero, c’è l’acqua che brucia come il fuoco, non si respira, c’è l’acqua.

Acqua. Mare. Buio.

Ora è davvero il momento del lutto nazionale, dell’intero continente, del mondo, dell’umanità.

E invece sì. Il mondo è così cattivo. Addio

Per certi versi /
Il vecchio borgo

Il vecchio borgo

Pietre
Di fiume
pietre
Di case
Illune
Scolpite
Ondulate
Scale
Grandi ciliegi
E Cicale
Il vento soffia
Su queste braci
Del Trecento
Si accendono
Versatili
Rossi
Mattoni
mosaico
Ocra
Di variazioni
È tempo
Di coralli
Rupestri
Giù il fiume
Limpido
Immune
Il vecchio
Forno
In disuso
Tutto curato
Vecchio borgo
giardino
Presepe
Carioca
Silenzio abbagliante
Profuso
Pelle d’oca

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Immaginario /
Scegliere la serenità

Scegliere la serenità

Spesso sottovalutiamo la serenità. Mi sono sempre chiesta perché nei momenti di minore stabilità uno la ricerchi in maniera ossessiva, poi quando si è raggiunta o la vita ci mette il suo zampino o tu stesso non sai più cosa farne. La ricerca dell’equilibrio può diventare sfibrante, una dimensione quasi tragicomica del vivere. Non ci siamo più abituati, ora l’abitudine è scegliere. Scegliere canale, scegliere la pizza, scegliere la macchina, partner, casa, città, amici. Scegliere toglie serenità, cercare il top che non esiste, nelle cose e nelle persone. Il commercio delle anime, oltre che degli oggetti. Invece provare ad allenare la pazienza che manca o forse l’attesa che non è più contemplata. “Abbiamo tutto, abbiamo avuto tutto e subito!” così sentenziano i boomers, non che abbiano completamente torto. Non sappiamo più aspettare, costruire, aggiustare, allora cambiamo quel che abbiamo con qualcosa di nuovo, sperando che non si rompa. O partendo direttamente dalla consapevolezza che si romperà, prima o poi.

Inseguire le emozioni, qualcosa da fare e occuparci le giornate per non sentirsi vuoti. Poi in campeggio c’è quella coppia di anziani, insieme da una vita, seduti fuori al loro camper sul lago di Garda, a guardare tutto il pomeriggio due con la metà dei loro anni che montano a fatica una tenda. Eppure non vedi in loro nessuna smania di qualcosa di nuovo, di eccitante, di meraviglioso, sono lì seduti a guardarsi la scena al posto della tv. Tutto il giorno lì, riparati dal sole, senza neppure pensare di alzarsi per fare una passeggiata sul lungolago. Non so se sia una cosa dovuta al cambio generazionale, forse… anche.

Magari è diventato normale essere stimolati continuamente, come sotto l’effetto di una droga. Eppure si può scalare una montagna e poi sedersi sulla cima, rimanere lì a contemplare invece di pensare già alla strada del ritorno da fare, oppure sedersi in spiaggia ad osservare il mare e non pensare a niente, non fare niente, non cercare niente, una volta ogni tanto.

Cover: foto di Alessandro Giacobazzi

Alessandro Giacobazzi, classe 1972, ferrarese di adozione. La fotografia è il prolungamento del suo occhio per guardare quello che lo circonda, gli permette di lasciar parlare la parte più nascosta della sua personalità. Ha fatto sue due frasi di due grandi fotografi: “La macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente a vedere senza macchina fotografica” (Dorothea Lange) e “Non fotografare le cose come appaiono. Fotografale come le senti” (David Alan Harvey).

Presto di mattina /
Esili e dimore del cuore

Presto di mattina. Esili e dimore del cuore

La parola ha esili e dimore nel cuore dell’uomo

Dove mai può aggrapparsi la mattina
e descrivere il suo volo la speranza?
Per quali vie l’apprensione arriva
alla patria della pace e lì stramazza?

Sognano i sogni come unirsi al vento
e planare su una immota, quieta spiaggia.
La febbre si fa fuoco e non rallenta,
preme sul sangue finché non si sparge.

E la vita, la vita è questo aprirsi
verso l’altro, dolorosamente.
È bussare alle porte, fino a ferirsi.

È sapere che la morte rozzamente
verrà a cercarci. E a un tempo sentirsi
vivi per sempre, puntigliosamente.
(Osvaldo Pol)

Osvaldo Pol, gesuita argentino e poeta (1935-2016) si considerava in questo mondo uno straniero, in esilio, e forgiava le sue parole, di notte, dove la luce annida. Quando nel 1981 pubblicò una sua raccolta poetica dal titolo De destierros y moradas/Esili e dimore, papa Francesco, che allora insegnava letteratura nel liceo del collegio dei gesuiti, scrisse la prefazione:

«sono lieto di presentare questo libro di sonetti dove, in linguaggio poetico, si esprime la sapienza teologica, che è il frutto più apprezzato dalla Compagnia di Gesù nel suo impegno accademico. Può sembrare paradossale che un poeta parli, con linguaggio della terra, di esiliati dalla terra. Può sembrare paradossale ma non lo è, perché la parola poetica ha dimore di carne nel cuore dell’uomo e – al tempo stesso – sente il peso di ali che ancora non hanno spiccato il volo. Arduo dilemma, questo, che santa Teresa esprime poeticamente e misticamente: “Com’è duro quest’esilio!”» (La Civiltà Cattolica, 2021, Quaderno 4106, 189;191).

Per conoscere il cuore

La poesia come la letteratura fanno vedere legami anche là dove sembrano non esserci, rivelano una profondità nuova in una realtà apparentemente uniforme e senza spessore. Così per papa Begoglio l’esperienza creativa e l’immaginazione sono determinanti anche per la fede e la sua comunicazione: «Il romanzo, la letteratura legge il cuore dell’uomo, aiuta ad accogliere il desiderio, lo splendore e la miseria. Non è teoria. Aiuta a predicare, a conoscere il cuore» (Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Rizzoli, Milano 2016, XX).,

Egli pensa pure che avere immaginazione aiuta a non irrigidirsi, rendendo capaci di libertà interiore, di misericordia e di dolcezza e in questo tempo di paradigmi rigidi, polarizzazioni contrapposte, crisi climatica ed economica, «abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti capaci di gridare al mondo il messaggio evangelico, di farci vedere Gesù.» (CivCat, Q4145, 2023).

Fame di un significato

Dal 25 al 27 maggio 2023 si è tenuto a Roma un convegno organizzato da La Civiltà Cattolica con la Georgetown University di Washington DC sul tema L’estetica globale dell’immaginazione cattolica, per riflettere su come la fede cattolica plasmi l’immaginazione e dia vita all’espressione artistica. Hanno partecipato oltre 40 poeti, narratori, sceneggiatori, arrivati a Roma da Canada, India, Irlanda, Italia, Kenya, Nigeria, Polonia, Regno Unito, Stati Uniti, Uganda. Tra loro anche il regista Martin Scorsese.

Quali sono i modi in cui la fede interroga la vita, esplora la condizione umana e risponde alla fame di significato? E in che modo gli artisti mettono in discussione l’eredità intellettuale, sociale o politica in cui questa fede è vissuta nel mondo contemporaneo? Come ispira l’orizzonte del cattolicesimo il lavoro creativo degli artisti?

Questo convegno è stato così l’occasione per papa Francesco di ritornare su temi a lui familiari per riaffermare come la letteratura e la poesia siano luoghi molto significativi oggi per interrogarci, lascar parlare Dio attraverso di essi e parlare di lui. Come a dire che anche la letteratura e l’arte sono “loci theologici/ luoghi della teologia insieme alla scrittura, alla tradizione, alla liturgia, al magistero, alla storia e alla ragione, fonti da cui attingere il sapere e la riflessione su Dio e il suo mistero in rapporto all’uomo.

Nel discorso rivolto ai convenuti il 27 maggio Francesco ha ricordato come la letteratura e la poesia, muovendo alla contemplazione, siano una “spina nel cuore” che apre al cammino. Per questo la fede non può fare a meno di esse per comprendersi ed esprimersi nella forma di un sapere e di una testimonianza:

«So che in questi giorni avete riflettuto su quali siano i modi attraverso i quali la fede interroga la vita contemporanea, cercando così di rispondere alla fame di significato. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti. Il vero significato non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è uno strumento di tutto quello che è dentro di noi».

Spina nel cuore per lo sguardo, l’ascolto, la voce, il grido

Una spina che non mortifica ma vivifica è l’esperienza artistica, perché ferendo essa libera la vita dai luoghi chiusi e sospinge verso spazi aperti. Lungi dall’anestetizzare, la letteratura e la poesia rendono sensibili all’umano e allo spirito dimorante in esso, generano partenze e ritorni, esili e dimore nel cuore:

«Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto Dante, Dostoevskij e altri ancora. Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte».

Nelle sue molteplici forme l’arte apre gli occhi. Così gli artisti e gli scrittori sono occhi che guardano e sognano, tanto che − citando Paul Claudel − Francesco afferma: «Il vostro è un “occhio che ascolta”. L’arte è un antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose.

E in questo senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica, con una carica “rivoluzionaria” che voi siete chiamati a esprimere grazie al vostro genio con una parola che protesta, chiama, grida. Oggi la Chiesa ha bisogno della vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare».

Sguardo, ascolto, voce e grido a far argine con l’ispirazione e l’inquietudine da essi generati all’indifferenza, alla rassegnazione, alla banalità, alla scontentezza dell’uniformità del pensiero e per risvegliare dal sonno malato e dall’addomesticamento delle ideologie.

Di questo è convinto il papa: «gli artisti sono la voce delle inquietudini umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. Voi sapete bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante, perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche. L’arte è il terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà, le quali richiedono sempre un linguaggio creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti».

L’artista guarda, ascolta sogna e dà voce al grido di chi non ha voce; dà la parola al loro silenzio; dà spesso, cromatismo, figura simbolica all’invisibile, «profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro, l’amore, la morte e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. E, in questo senso, ci aiuta a “carpire la voce di Dio anche dalla voce del tempo”».

Un’esperienza debordante quella artistica

Un’esperienza debordante – ricorda papa Francesco – perché dà corpo, vita, immagine, scrittura e parola al sentire umano: quello inesprimibile, indicibile «delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della contraddittorietà dell’esistenza.

Ci sono cose nella vita che, a volte, non riusciamo neanche a comprendere, o per le quali non troviamo le parole adeguate: questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione. E questo è anche il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio. Un’esperienza che è sempre “debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante, l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda».

Il suo invito agli artisti e agli scrittori è allora quello di «andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Ho paura di questo processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia. Con la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano.

Questa opera permette allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti… È un lavoro evangelico che ci aiuta a comprendere meglio anche Dio, come grande poeta dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali, creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi».

Una sfida e una responsabilità

L’immaginazione artistica al servizio della fede implica, soprattutto nel nostro tempo, una sfida e una responsabilità: di «non “spiegare” il mistero di Cristo, che in realtà è inesauribile; ma farcelo toccare, farcelo sentire immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la bellezza della sua promessa.

Perché la sua promessa aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo nuovo la nostra vita, la nostra storia e il futuro dell’umanità!… La vostra opera ci aiuta a vedere Gesù, a guarire la nostra immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò che vuole addomesticarlo. Addomesticare il volto di Cristo, quasi per tentare di definirlo e di chiuderlo nei nostri schemi, significa distruggere la sua immagine. Il Signore ci sorprende sempre, Cristo è sempre più grande».

Affiora qui lo stesso orientamento prospettico, l’ispirazione spirituale e pastorale di papa Francesco in questi suoi primi 10 anni di pontificato: non spiegare, ma avere occhi che guardano, immaginano, sognano; mani e cuore per fare della realtà della vita la nostra responsabilità e la nostra ostinazione a continuare ad immaginare il nuovo nascosto nel vecchio, il futuro nel presente, nell’Evangelo la gioia.

Una poesia che brucia tra le mani

Gli alunni del liceo dei gesuiti a Santa Fe in Argentina, al tempo in cui Bergoglio insegnava letteratura, gli chiedevano di leggere autori moderni, preferendoli ai classici, inducendo così il futuro papa ad aggiungere a quelle letture anche la pratica della scrittura creativa.

Tra i poeti moderni prescelti per quell’esperienza didattica, e non solo, un ruolo centrale venne assegnato a Federico Gracía Lorca, la cui poesia gli “bruciava tra le mani”. L’espressione è di Carlo Bo, ispanista, francesista e critico letterario, nell’introduzione a tutte le opere da lui tradotte in due volumi per l’editrice Guanda (Poesie, Parma 1964).

Da dove originava un tale fuoco? «La poesia che gli bruciava nelle mani gli veniva sempre dalla realtà, dall’altro, non la considerava sua, limitandosi a considerare patrimonio personale la sua forza di adesione e di partecipazione, il suo “bruciare”». Per Gracía Lorca l’atto del guardare si intreccia in lui con quello del “prendere e fare”. Un dire facendo: è questa reciprocità relazionale uno dei tratti più peculiari del poeta andaluso, in grado per questo di allargare il mondo poetico radicandolo nel reale.

Scrive ancora Carlo Bo: «Da una parte uno spirito che si prepara a ricevere, dall’altra un mondo che già trasmette e verso cui il poeta si protende, con l’ambizione di raccogliere tutto, tutto quello che si può guardare e sentire», (ivi, XIV). Il suo è uno sguardo immediato alla realtà che diviene poi prospettico, uno sguardo allungato senza rinunciare all’uno o all’altro ma tenendoli insieme.

Interrogato su ciò che per lui fosse poesia disse: «Guardare, guardare …», non dando tuttavia una definizione, ma rimandando ad una pratica ad un esercizio poetico in atto. Come a dire, commenta ancora Carlo Bo che «il poeta per prima cosa deve fare: lasciamo agli altri – ai critici e ai professori – il compito della definizione. C’era, dunque, in partenza una grande volontà di fare e possiamo anche aggiungere: un senso della strada, assai più preciso di quel che non risulti a prima vista» (ivi, XIII).

Una conversione all’umanità sofferente

C’è pure in Gracía Lorca – ricorda sempre Carlo Bo – una dimensione “patetica”, di condivisione sofferente, ma “senza drammaticità”. Una sofferenza che si compì al termine della sua vita, quando venne ucciso dai falangisti, seguaci di Francisco Franco nella guerra civile spagnola.

Gracía Lorca così ricordava in un’intervista questa sua prossimità alla sofferenza d’altri: «“Gli ebrei, i siriani, e i negri. Soprattutto i negri! Con la loro tristezza sono diventati l’asse spirituale dell’America. Il negro che è così vicino alla natura umana pura e all’altra natura. Il negro che tira fuori musica perfino dalle tasche! Fuori dell’arte negra, non resta negli Stati Uniti che meccanica e automatismo”.

E come spiegare questa conversione all’umanità sofferente? Perché si è accesa, e in modo cosi aperto e sconvolgente, la sua partecipazione?» gli domanda l’intervistatore. Risponde: “Credo che l’essere nato a Granada mi porta alla comprensione simpatica dei perseguitati. Del gitano, del negro, dell’ebreo … del moro che tutti noi portiamo dentro. Granada sa di mistero. Di cosa che non può essere e però è. Che non esiste ma conta. O conta proprio perché non esiste, perde il corpo e conserva il profumo”.» (ivi, XXVII-XXVIII)

Guardare, guardare: Garcia Lorca desiderava «che tutti potessero guardare e che non ci fosse privilegio per una parte degli uomini, che per tutti ci fosse la possibilità di mettere in equilibrio il giglio e il fango» (ivi, XXXIV).

Il Canto del miele

Sia Ezechiele nelle sue visioni profetiche che Giovanni nell’Apocalisse sono invitati a nutrirsi di un piccolo libro. È il simbolo della vocazione profetica, della Parola di Dio che si incarna nella vita del profeta: «Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 2,8-9; 3,1-3). Ma la Parola non è solo da ingerire. Essa va digerita, assimilata tramite una ruminazione difficile e dolorosa.

L’immagine di Ezechiele viene ripresa in Apocalisse 10,10: «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza».

Non solo dolcezza dunque, ma anche inquietudine genera la Parola di Dio. Dolce e amaro è il Verso/Verbo incarnato, perché messaggero di salvezza e, al contempo, di giudizio che mette allo scoperto cosa si ha nel cuore. La parola di Cristo consola e contesta insieme, libera e apre contese dentro e fuori di ciascuno. Una lotta per la luce che genera pervasiva inquietudine, un sofferto e stridente contrasto con ciò che oscura dentro di noi l’autenticità della vita e con ciò che fronteggia fuori di noi: l’ostile e violento incalzare di coloro che non amano la luce.

Così è pure della parola poetica: dolce e amara, patetica e gioiosa, luminosa e oscura, generativa in noi di forti emozioni, di sentimenti sofferti e di dolci risvegli, perché come il sole del mattino è il miele, lo canta la parola: grazia d’estate, frescura autunnale, foglia appassita e frumento. Impresa d’amore e suo canto è il miele che tesse l’infinito nel finito, epopea di un dire amando.

L’umiltà della parola primigenia è seminata così nel verso primitivo del poeta, profezia di un futuro sereno, di quiete dopo la tempesta.

È questo Il canto del miele

Il miele è la parola di Cristo,
l’oro fuso del suo amore.
La perfezione del nettare,
la mummia [balsamo] della luce del paradiso.
L’arnia è una stella casta,
pozzo d’ambra che alimenta il ritmo
delle api. Seno delle campagne
vibrante d’aromi e di ronzii.
Il miele è l’epopea dell’amore,
la materialità dell’infinito.
Anima e sangue dolente dei fiori
condensata attraverso un altro spirito.
(Cosi il miele dell’uomo è la poesia
che sgorga dal suo cuore dolente,
da un favo con la cera del ricordo
formato dall’ape più segreta).
Il miele è la bucolica lontana
del pastore, la zampogna e l’olivo,
fratello del latte e delle ghiande,
regine supreme del secolo d’oro.
Il miele è come il sole del mattino,
ha tutta la grazia dell’estate
e l’antica frescura dell’autunno.
È la foglia appassita ed è il frumento.
O divino liquore dell’umiltà,
sereno come un verso primitivo.
(ivi, 57).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola / Francesco, “che silenzio c’è stasera”…

A 68 anni, dopo lunga malattia, ci lascia Francesco Nuti. “La creatività è l’arma segreta per affrontare le difficoltà della vita”, diceva. 

Nel giorno del clamore, quello della morte di Silvio Berlusconi, se ne è andato, in grande silenzio, Francesco Nuti. In silenzio, sommessamente, quel silenzio che lo avvolgeva da anni, dopo la depressione, l’incidente che lo aveva costretto su una sedia a rotelle, la solitudine. Senza voce. Nessun applauso, lontani i tempi del successo che fu.

Un genio triste che ci lascia, ma con lui tanti sono i ricordi. Per me sono immediatamente due: I Giancattivi, con Alessandro Benvenuti e Athina Cenci con i quali, nel 1981, esordisce con Ad ovest di Paperino e Caruso Pascoski (di padre polacco), del 1988. Quel “dammi un bacino” che faceva tanto ridere mamma, allora come ora. Quante volte, all’epoca, rivedevamo quel VHS e oggi, ancora, il DVD. Una delle scene più belle…

Erano gli anni 80, Nuti spopolava al botteghino, piaceva, tanti i film dalla comicità originale: basti ricordare Madonna che silenzio c’è stasera (1982) o Io, Chiara e lo Scuro (1983), con Giuliana De Sio, film ambientato nel mondo dei giocatori di biliardo per cui vince il David di Donatello e il Nastro d’argento come migliore attore protagonista.

Seguono tanti altri successi: Son contento (1983), Casablanca, Casablanca (1985), per il quale riceve il secondo David di Donatello come migliore attore protagonista (candidato anche come miglior regista esordiente), Tutta colpa del paradiso (1985, per cui è candidato al David di Donatello come migliore attore protagonista), Stregati (1986), Caruso Pascoski (di padre polacco) (1988), Willy Signori e vengo da lontano (1989) e Donne con le gonne (1991). Quest’ultima, nella stagione 1991/92, batte ogni record d’incassi, segnando il momento di maggior successo nella carriera di Nuti che di quel film fu sceneggiatore, regista e attore protagonista al fianco di Carole Bouquet.

Nello stesso periodo si dedica anche alla musica. Nel 1988 partecipa al Festival di Sanremo con Sarà per te, poi incisa anche da Mina,

e, con Mietta, duetta Lasciamoci respirare, composta da Biagio Antonacci, nel 1992.

Seguono OcchioPinocchio (1994), Il signor Quindicipalle (1998), Io amo Andrea, con Francesca Neri (2000) e Caruso, zero in condotta (2001), che ottengono, però, tiepidi consensi. Nulla è come prima. Inizia il declino inesorabile.

Poi il silenzio. Depressione e malattia chiudono una carriera riconosciuta, nel 2019, con il Premio Internazionale Vincenzo Crocitti, ritirato dalla figlia Ginevra.

Un documentario a lui dedicato dal titolo Francesco Nuti… e vengo da lontano viene presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2010.

Il 29 settembre 2011 esce, con Rizzoli, Sono un bravo ragazzo – Andata, caduta e ritorno, biografia a cura del fratello Giovanni.

L’11 maggio 2014, partecipa a una festa organizzata per il suo 59º compleanno dagli amici di sempre, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, Giorgio Panariello e Marco Masini al Mandela Forum di Firenze, alla quale partecipano circa 7.000 persone. Perché Francesco non era poi solo, molto lo amavano, tanto.

Di Francesco ricordiamo il sorriso buffo, quelle fossette che intenerivano, gli occhi buoni, quell’accento toscano che sapeva di magia di altri tempi, la sagacia e l’intelligenza di un artista talentuoso, giocoso, originale e sincero. Trasparente.

Fra tutti i ricordi, a noi piace e commuove particolarmente quello personalissimo del critico cinematografico Giovanni Bogani su The Hollywood Reporter: la telefonata il giorno di Natale, l’intervista in elicottero, la struggente solitudine. Un delicato ritratto.

Addio Francesco, sorridi con gli angeli.

A Nuti saranno dedicati gli spazi di Manifatture Digitali Cinema di Prato

IL CONCERTO
Vasco Brondi nove anni dopo sotto le stelle di Ferrara

Sono arrivata con un pochino di ansia, a questo concerto che torna sui passi del debutto musicale di Vasco Brondi e che ha aperto la rassegna di “Ferrara sotto le stelle”, lunedì 12 e martedì 13 giugno 2023. Come se stessi andando a un appuntamento. È l’appuntamento con qualcuno che ha segnato un pezzettino della mia come di altre vite, che ha fatto da colonna sonora a un tratto di storia, a qualche passaggio determinante, che ha tracciato una linea di collegamento tra la precarietà timida e incerta di quegli anni e un approdo al presente, dove persino l’inattesa fallibilità e la mancanza prendono un peso e un colore diversi. Un po’ come in “Chakra“, dove “qualcuno gli ha detto che gli ha detto” che adesso senza di lui sì che riesce a stare.

Pubblico (foto Luca Pasqualini)

Il cortile del Castello, a nove anni di distanza, mi sembra più piccolo. Non mi è chiaro se ci sia stato un restringimento dell’area per il concerto o se è successo come coi posti dove si è stati da bambini e che dopo, da adulti, ci si accorge che non erano poi mica così grandi. Mi guardo intorno e non vedo più il pubblico di allora, mio figlio liceale è volato via da qui, in nord-Europa, e anche l’altra gente è diversa.

Brondi in scena (foto Luca Pasqualini)

Non so se siano quegli stessi universitari ventenni che, da quel luglio 2014 ad oggi, sono cresciuti e si sono accasati; o se sono altri, dei loro parenti maggiori che più tardi hanno scoperto, conosciuto e ascoltato questa musica, questi testi.

Pubblico al concerto (foto GioM)

Fatto sta che ho l’impressione che ci siano meno persone, ma più grandi, fisicamente più voluminose, che occupano di più lo stesso spazio, illuminato dalle loro sigarette elettroniche e dai loro telefonini registra-storie meno disperate, con meno acne e più corrugata tranquillità.

Riprese dei fan (foto Luca Pasqualini)

Nell’aria ci sono ancora disfattismo e pessimismo, le metafore sferzanti di Vasco Brondi e quei suoni duri, cupi, punk. Ma, in molti tratti, gli stessi brani prendono una connotazione diversa, meno amara e più soddisfatta, è un amaro fondente che si lecca un po’ i baffi e lascia più sazi che amareggiati. La sfumatura è diversa, è la tonalità di uno che ha trovato la sua strada in un sentiero aspro, che si è rivelato però rinfrescante e così pieno di ossigeno. Una pista dove riescono a trovare una collocazione armonica anche i vecchi struggimenti, perché chi li canta ha le scarpe giuste ai piedi e con queste da trekking non scivola più.

Vasco Brondi con gli scarponcini al concerto di Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Il concerto ripropone quella visione impervia e controcorrente, che ora Vasco inserisce in uno spazio che sa accoglierla. Una posizione da dove si può scherzare su quello che non c’era o che c’è ma è poco perfetto, come il ballare scoordinato, condiviso e naïf – e per questo bellissimo e condivisibilissimo – che rievoca un po’ quello che innesca Nanni Moretti alla fine del suo film. Il ballo che chiude con poetica, semplice e aggraziata solarità “Il sol dell’avvenire” e che piano piano anche sui ciottoli del Castello Estense contagia tutti e diventa un’armonica danza collettiva, che riavvolge tanti fili e recupera i volti e i personaggi di un’intera biografia, da Giorgio Canali in super forma al suo fianco, fino a quel Manu che Vasco cita spesso.

Giorgio Canali (foto Luca Pasqualini)

Un’occasione per affermare – per Vasco Brondi come per Nanni Moretti – quanto valgano e quanto siano condivisibili i propri gusti, che non sono né trendy né luccicanti o per tutti; roba di nicchia, fatta di materiali fragili e preziosi (perché fragili) e che però riescono ad arrivare al cuore. Forse perché i cuori – dentro – sono tutti fragili. Niente a che fare con un Marco-Mengoni-prendi-tutto, salvo che non sia quello – struggente da graffiarti il cuore – che con un inedito di Sergio Endrigo chiude la versione cinematografica di “Colibrì”.

Vasco a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Per andare al concerto, mi rendo conto che ai piedi ho messo anch’io le calze e le scarpe tecniche comprate per la montagna, come se avessi dovuto affrontare un cammino o una traversata. È la traversata di questi anni, da quando tutto o tanto era ancora da costruire, fino adesso che magari le cose si infrangono pure e si perdono lo stesso, ma il nucleo, dentro, ha un’altra solidità, con un tetto sulla testa e una seggiola da cui osservare il mondo e condividerlo.

Cortile del castello (foto Luca Pasqualini)

È la differenza tra ciò che era e ciò che è. E musica, suoni e luogo riattivano la memoria di questa consapevolezza. Riesco proprio a sentirli, la sensazione e il sapore di quella vulnerabilità. E mi accorgo che, come nelle vecchie e grezze canzoni delle Luci della centrale elettrica, la fragilità era comunque emozionante, come quando sei in cima al dirupo e tutto è vertiginoso e possibile: sia superare il burrone sia infrangersi di sotto.

Vasco col pubblico (© Luca Pasqualini)

Mi sembra più grande, maturo e posato questo pubblico intorno a me, arrivato a qualche approdo, o anche solo a qualche impiego stabilizzante. Vasco Brondi e gli organizzatori dell’evento ne devono essere consapevoli, perché tra i gadget del merchandising è stato inserito addirittura un minuscolo body da bebè, dedicato forse a quelle “ragazze che – in “Chitarra nera” – vogliono figli/che vogliono figlie/che ci vorrebbero normali”.

Merchandising (foto GioM)

Il senso del messaggio complessivo è in quella canzone che mi aveva tanto toccato ed emozionato nell’album “Costellazioni”, e che viene offerta con i bis di quelle “Ragazze che stanno bene“, perché hanno capito che “Forse si trattava di accettare la vita come una festa/ Come ha visto in certi posti dell’Africa./ Forse si tratta di affrontare quello che verrà/Come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra/E di mettersi a ballare fuori dai bar/Come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia. /Forse si tratta di fabbricare quello che verrà/ Con materiali fragili e preziosi/ Senza sapere come si fa”.

Giorgio Canali (foto LP)
Sul palco con Brondi (foto LP)

La rassegna “Ferrara sotto le stelle” è realizzata grazie ad Arci Ferrara e Ales&Co, Comune di Ferrara e Regione Emilia-Romagna. Tutto il programma sul sito web www.ferrarasottolestelle.it/lineup-2023.