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Siamo sempre migrati, siamo figli della terra

Siamo sempre migrati, siamo figli della terra

di Viviana Galeb Adriazola, insegnante e poetessa cilena

Nell’antichità, all’età della pietra, gli esseri umani avevano bisogno di spostarsi da un luogo all’altro secondo la stagione per portare i loro greggi in cerca di pascoli freschi e acqua. La transumanza era diffusa a quei tempi. Non c’erano confini, né Stati, né regni, quindi spostarsi era naturale e non veniva penalizzato.

Storicamente, la transumanza è stata una parte importante dell’economia e della cultura di molte regioni del mondo, soprattutto in quelle aree in cui l’agricoltura non era praticabile tutto l’anno a causa di condizioni climatiche estreme o di limitazioni del territorio. La transumanza non riguardava solo lo spostamento degli animali, ma aveva anche implicazioni culturali, sociali e ambientali.

C’era uno scambio di costumi, conoscenze e lingue. Influenzava la formazione di identità regionali e la conservazione di conoscenze tradizionali sulla gestione del bestiame e dell’ambiente.

Non esiste un essere umano puro

Recenti studi sul DNA dell’Homo sapiens moderno dimostrano che non esiste un essere umano puro: tutti noi portiamo nel nostro DNA un’eredità ancestrale. Siamo figli della terra e come tali abbiamo ereditato conoscenze e costumi ancestrali dai nostri antenati.

La migrazione nel XXI secolo è stata guidata da una serie di fattori complessi e interconnessi, simili alla transumanza. Tra le ragioni principali vi sono conflitti e crisi umanitarie.

Conflitti armati, violenza politica e disastri naturali hanno causato lo sfollamento di milioni di persone in tutto il mondo. Paesi come l’Ucraina, Israele, la Palestina, la Siria, l’Afghanistan, lo Yemen e il Venezuela hanno vissuto conflitti interni prolungati che hanno costretto molte persone a fuggire dalle loro case in cerca di sicurezza e rifugio in altri Paesi. Gli esseri umani hanno trovato necessario migrare verso territori più promettenti e con maggiori prospettive per il futuro, dove potersi stabilire, sviluppare e contribuire al luogo con le loro migliori credenze e stili di vita. È questa diversità che rafforza una società, rendendo il gruppo umano migrante un creatore di opportunità di lavoro e un promotore dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in molti momenti della storia.

I miei nonni erano emigrati dal Libano dopo la caduta dell’Impero Ottomano nel 1920. Arrivarono in Cile alla ricerca, come tutti i migranti, di maggiori opportunità di sopravvivenza. Approdarono solo con i vestiti che avevano addosso e iniziarono una nuova vita, e all’epoca lo Stato cileno e il suo popolo li accolsero, dando loro nuove identità e nuove opportunità di lavoro. Si verificò una fusione culturale: assimilarono la lingua e, a loro volta, miscele di sapori culinari che si intrecciarono con i nostri.

È chiaro che per costruire ponti tra culture e persone diverse è essenziale valorizzare e rispettare le loro peculiarità. L’importanza di comprendere, riconoscere e apprezzare le diverse culture, tradizioni e storie che ci circondano sarà una via d’uscita. Questo processo ci permette non solo di colmare le nostre differenze, ma anche di valorizzare i nostri punti di forza individuali e di trovare un terreno comune che ci unisca.

Ognuno di noi ha la capacità di contribuire in modo unico al raggiungimento di obiettivi comuni. È essenziale riconoscere come le nostre azioni e i nostri contributi possano avere un impatto positivo sul nostro ambiente e sulla realizzazione degli obiettivi comuni. In definitiva, l’apprezzamento reciproco è la base su cui possiamo costruire relazioni forti e collaborative, arricchendo così le nostre vite e le nostre comunità.

L’esistenza di una crisi del modello statale in quasi tutti i Paesi latinoamericani, accompagnata da disuguaglianze economiche e politiche, favorisce un piccolo gruppo privilegiato nella società. Questo genera un senso di insicurezza e di terrore e non fa che destabilizzare aree prive di violenza.

Gli Stati sono sempre più attenti alle migrazioni in tutto il mondo; la crisi umanitaria si è aggravata a tal punto che i poveri e gli svantaggiati stanno soffrendo di più. Inoltre, il cambiamento climatico ha esacerbato la crisi umanitaria. Gli Stati, più che mai, devono rendere flessibile un fenomeno che non sarà fermato da leggi discriminatorie che incoraggiano la xenofobia o con il blocco delle frontiere. Al contrario, devono promuovere la stabilità, l’istruzione e le opportunità di lavoro e ridurre i fattori che spingono alla migrazione forzata, permettendo così alle persone di scegliere se restare o emigrare.

Vorrei tornare a quei tempi in cui gli esseri umani potevano andare e venire liberamente come i figli della terra che siamo.

Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid. Revisione di Mariasole Cailotto.
Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseSpagnoloFranceseTedesco

Storie in pellicola / Le Giornate della Luce di Spilimbergo, dall’1 al 9 giugno

Annunciati i tre film in concorso selezionati dalla giuria presieduta da Monica Guerritore per il premio alla miglior fotografia della decima edizione del festival Giornate della Luce di Spilimbergo

C’è un bellissimo festival consacrato ai direttori della fotografia o, meglio, al miglior autore della fotografia di un lungometraggio. Un omaggio a coloro che sono veri coautori del film, non solo collaboratori del regista. Come pensare a Bernardo Bertolucci senza Vittorio Storaro o a Ingmar Bergman senza Sven Nykvist? Recentemente abbiamo visto il film di Matteo Garrone, “Io Capitano”. Come immaginarlo senza Paolo Carnera?

Parliamo de “Le Giornate della Luce”, di Spilimbergo, evento che quest’anno compie dieci anni. Nel tempo, sono stati premiati artisti come Luca Bigazzi (con il record di sette David di Donatello), Daniele Ciprì e Luciano Tovoli.

In questi giorni, sono stati annunciati i film in concorso per Il Quarzo di Spilimbergo – Light Award, assegnato alla migliore fotografia di un film italiano dell’ultima stagione, della decima edizione delle Giornate della Luce di Spilimbergo.

Un appuntamento ormai irrinunciabile nel panorama dei festival italiani che celebra gli autori della fotografia, veri protagonisti della manifestazione, con proiezioni, masterclass, dibattiti e mostre. Occasione di confronto sul ruolo della fotografia nel cinema per condividere esperienze, progetti e visioni.

Il festival, ideato da Gloria De Antoni e da lei diretto con Donato Guerra, si svolgerà dall’1 al 9 giugno 2024 in Friuli-Venezia Giulia. La rassegna, infatti, non è circoscritta a Spilimbergo: in questi anni si sono organizzati eventi anche a Gorizia, Pordenone, Udine, Gemona del Friuli, Casarsa della Delizia, Codroipo e a Nova Gorica in Slovenia.

La giuria 2024 del festival, capitanata quest’anno da Monica Guerritore, ha selezionato tre film in concorso:

Per la fotografia di Davide Leone, il campione di incassi “C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi, vincitore di 6 David di Donatello, del Premio Speciale della Giuria e del premio del Pubblico alla Festa del Cinema di Roma, Nastro d’Argento come film dell’anno e vincitore del SuperCiak d’oro 2023 del Cinema italiano.

Paola Cortellesi fa il suo esordio alla regia con un originale ‘dramedy’ in bianco e nero ambientato nel Secondo Dopoguerra che ci parla di emancipazione femminile dai codici etici ed estetici della donna nella società.

Per la fotografia di Francesco Di Giacomo, “Rapito”, di Marco Bellocchio, vincitore di sei Nastri d’Argento 2023 e cinque David di Donatello 2024.

Il film ricostruisce la figura di Edgardo Mortara, il bambino ebreo il cui rapimento da parte del Vaticano nel 1858 divenne un caso internazionale.

Chiude la selezione, per la fotografia di Lorenzo Casadio Vannucci, “Gli oceani sono i veri continenti”, di Tommaso Santambrogio, film d’apertura delle Giornate degli Autori alla 80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Tre diversi mondi si intrecciano in un paesino dell’entroterra cubano. A San Antonio De Los Baños, il tempo sembra si sia fermato. In un affresco di contemporaneità che prende vita tramite la memoria dei personaggi aleggia lo spettro della separazione, vera grande piaga della società contemporanea cubana.

I film in concorso, come di consueto, concorreranno per i seguenti premi:

Il Quarzo di Spilimbergo – Light Award assegnato dalla giuria composta in questa decima edizione da Monica Guerritore con Luan Amelio, Gianni Fiorito, Mateja Zorn e Oreste De Fornari alla migliore fotografia di un film italiano dell’ultima stagione.

Il Quarzo dei Giovani assegnato da una giuria composta da studenti di cinema, ospiti del festival, provenienti da 10 università e scuole italiane e europee presieduta dal direttore della fotografia catalano Jordi Bransuela. Tra i premi Il Quarzo del Pubblico assegnato dagli spettatori del festival.

La manifestazione comprende anche una ‘summer school’ per gli studenti di cinema presenti ed è, pertanto, un’ottima opportunità per arricchire la loro esperienza formativa.

Le Giornate della Luce sono organizzate dall’Associazione Culturale Il Circolo di Spilimbergo e nel 2023 hanno avuto il sostegno di MiC, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Città di Spilimbergo, Fondazione Friuli, Banca 360 FVG.

Immagini Storyfinders

Sito web

Essere bambini in una notte a teatro

28 alunni di due classi di prima elementare hanno dormito a teatro e scoperto la storia e gli aneddoti sul comunale. Per avvicinare i più piccoli alla cultura e all’arte

Probabilmente per i 28 bambini che hanno vissuto l’esperienza di dormire a teatro per una notte è stato come un sogno da gustare a occhi aperti. Un’esperienza che porteranno con sé anche una volta adulti.

Al Teatro Comunale di Ferrara, infatti, la notte di martedì 21 maggio, gli alunni di due prime elementari (classi primarie di secondo grado) della scuola paritaria Sant’Antonio di Ferrara hanno vissuto l’emozione di conoscere e ammirare la bellezza del teatro cittadino, dedicato al Maestro Claudio Abbado.

Si tratta della seconda volta che una scuola viene coinvolta per il progetto del Teatro Comunale “Una notte a Teatro”, che nel 2022 per la prima volta aveva visto i bambini di una quinta elementare (Scuola Primaria “Villaggio Ina” di Ferrara) vivere il teatro di notte.

Con i loro maestri come accompagnatori, dopo aver mangiato tutti insieme, indossati i pigiami e muniti di torcia, hanno visitato gli spazi del teatro come il Ridotto, rigorosamente e magicamente al buio, animati da racconti e storie, con il contributo dei coinvolgenti attori Andrea Lugli e Liliana Letterese. Alcuni lavoratori del Comunale hanno raccontato la storia dell’edificio e i tanti aneddoti, come perché l’orologio del teatro, sopra il palcoscenico, sia fermo e non sia mai stato riavviato. Ai piccoli è stato donato “A teatro con Claudio e Ciuffo“, libretto per bambini pubblicato dal Teatro, da un’idea di Monica Ercolano e illustrato da Raffaele Mangolini.

Una volta concluse le storie della buonanotte, i bambini hanno indossato il pigiama, si sono lavati i denti, hanno aperto materassini e sacchi a pelo, abbracciato forte il loro peluche preferito prima di prendere sonno tutti insieme sul palcoscenico del Teatro.

Foto ufficio stampa Teatro Comunale

 

Storie di uomini, bici e montagne

Storie di uomini, bici e montagne

Tra caos, polemiche e situazioni impreviste o sottovalutate che riguardano il Giro d’Italia di quest’anno e il suo passaggio alpino, occorre ammettere che emerge sempre e comunque l’impatto emotivo che questo evento sportivo genera. La 16^ tappa è stata accorciata di 85 km, tre passi montani annullati nel percorso, orari modificati rispetto la tabella di marcia, condizioni atmosferiche difficili, che richiedevano l’applicazione del protocollo per le temperature estreme, discese su un manto stradale scivoloso sotto il nevischio.

La storia del ciclismo è indissolubilmente legata alle Dolomiti e molti ricordano le grandi imprese compiute sui Passi, che hanno reso immortali grandi campioni, primi fra tutti Fausto Coppi e Gino Bartali. Nel 1937 il Giro d’Italia passò per la prima volta sull’arco dolomitico, un debutto che vide vincitore della tappa Bartali, che scollinò per primo, in maniera epica, sul Passo Rolle, mentre dietro di sé si formava il vuoto. Le strade di montagna dell’epoca erano sconnesse, sassi e buche costituivano un autentico attentato alla sicurezza dei ciclisti ma la passione, la preparazione, la forza e resistenza permettevano queste imprese. La Seconda Guerra mondiale impose una sospensione di questa incredibile competizione, che riprese con immutato entusiasmo negli Anni ’40. Le edizioni successive, quelle del ’46 e ’47, sono teatro delle imprese di Coppi e Bartali, tra cadute, rivalità, rimpalli, fughe, vittorie e vantaggi alterni, sullo sfondo di quelle Dolomiti che facevano sognare, superare se stessi, affrontare l’impossibile, sudare, rallentare, imprecare, pregare. Ammaliatrici e seducenti, madri e matrigne da sempre, oggi come ieri: attimi di discesa seguono all’infinità della salita nella percezione del tempo dei protagonisti del pedale. E poi i falsipiani, gli avvallamenti, le curve, i tornanti, l’illusione di qualche rettilineo che faccia respirare e allentare i muscoli.
Visi contraffatti dalla fatica, volti giovani che perdono ogni leggerezza per trasformarsi nello sforzo. Occhi attenti, concentrati su quei metri di asfalto da percorrere, capelli che sbucano attraverso la calottina di oggi, che prende il posto del berretto con visiera di ieri, sfrecciano tra le località montane, nella solitudine dei posti più isolati e l’applauso di due ali di folla che incita nelle valli e nei paesi.

La carovana del Giro d’Italia al seguito dei corridori è oggi meno folkloristica e colorata, più formale e compassata, meno chiassosa di un tempo, quando diventava parte di uno spettacolo che andava oltre la gara. I mezzi di assistenza delle scuderie e degli sponsor sfilano asettici e veloci, quasi volessero togliersi di fretta il pensiero dell’incombenza, rombando tra clacson e sgommate per sparire in un attimo nel nulla.
Sono finiti i tempi dei gadget che i bambini, ma anche gli adulti, aspettavano ansiosamente ai bordi della strada, borracce, berrettini, immagini autografate dei campioni del momento, penne, qualche dolcetto, i sacchettini di caffè per i più fortunati o i più svelti ad afferrare: poca cosa, ma era lo spettacolo nello spettacolo che avvicinava ancora di più la gente a quegli uomini e ragazzi sulle due ruote.
Ma anche oggi come allora, assistere al passaggio del Giro costituisce un momento emozionante e l’arrivo dei primi corridori nelle valli dolomitiche rimanda subito a ciò che si sono lasciati alle spalle: lo sforzo immane che la montagna chiede.
Guizzano gli scalatori che hanno appena lasciato le loro energie e la loro resistenza sulle lunghe salite; attaccano gli sprinter con la loro potenza nelle volate, stando in piedi sui pedali e viene in mente ciò che diceva Indro Montanelli: “La fuga non è l’attimo di quell’uomo che si mette a pedalare più forte degli altri; è invece un grande urlo e un gesto disperato che mettono d’improvviso in confusione tutta la carovana”.

E gli spettatori avvertono la tensione di ogni fibra di quegli esseri umani intenti a portare a termine la loro impresa, a volte estrema, in un appuntamento atteso, preparato, consolidato. Nel Giro d’Italia non si respira solo odore di sudore, di lubrificante per biciclette, di bruciato di pneumatici dei mezzi al seguito: è l’odore della Storia che rimane incollato al suo passaggio e ci fa rivivere un passato di avvenimenti e vicende culturali, politiche e di costume accostati ad esso, che hanno caratterizzato il nostro Paese.

Parole a Capo
Elena Vallin: “Tre poesie”

Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra.
(Jorge Luis Borges)

VAI!
Corri, corri veloce
Più forte del tempo
Buca il futuro
E corri più avanti
Fatti catturare
Da un buco nero
E poi vai
Sulle frange dell’universo
Verso l’ultima galassia
Quella senza parole
Senza alba o tramonto
Sarai pura essenza
E sparirà il dolore
Sarà stupore
Vederti ricombinare
Come nuova creatura
*
VI GUARDO
Vi guardo
pascolatori
abbracciati stretti
ai bisonti della tradizione
Voi che vi trascinate da tempo
lenti, torpidi
per gli stessi sentieri
per le stesse scale
Voi che non tentate mai
la strada nuova
lì accanto, accidentata e misteriosa
magari verso quella foresta scura
che state avvelenando
“non si sa mai chi potremmo incontrare”
Voi che vi urlate addosso
sputacchiando
sempre le stesse frasi
ormai svuotate
anche quelle ruminate a lungo
Siete schiacciati dai pesanti bovidi
della tradizione
e ruminate pure voi che ormai
avete assunto l’espressione assente
di chi vi trascina
Vi guardo dall’alto
sono arrampicata sul traliccio
con pochi altri
sognatori agguerriti e
senza tutele
neanche “graduali”
Rischio di cadere ma
vedo lontano la città futura
il mare verde azzurro
 che brilla insolente
Vedo il luogo del riscatto
e vi lascio giù a pascolare
tra fango, deiezioni ed
erba rimasticata
Rischio ma ci vedo chiaro e
respiro felice
l’aria pulita della libertà
Diventeremo noi tradizione
leggeri, veri, nuovi.
*
IL TESTAMENTO DEL FIUME
Il testamento del fiume
è nella sabbia del suo letto
nel limo alla foce
nei canali scavati dalle correnti
nell’ombra svanita di un luccio in caccia
nella scia dei volti bianchi
 negli occhi assenti degli annegati
nelle valve aperte di un’anodonta
nei resti di una gallinella
ghermita dal grande predatore dell’est
Nel testamento del fiume
è deposta la mia vita
tra sassi lampi sorrisi e
letti stropicciati di sonno;
sogni premonitori latori
di angosce diurne,
ogni accadimento diluito nel tempo e
nell’acqua continuamente nuova e
nella bolla traslucida ancorata al fondo
che oscilla lieve nella corrente lenta
brillano i giorni trascorsi
tra corse e inciampi
e felicità strappata a forza.

Elena Vallin è nata e vive a Trecenta (Rovigo). Superiori e Università a Padova, si laurea in Pedagogia.  Ha insegnato alle scuole elementari a Padova. Ha due figli. Nel 1999 si laurea in Filosofia, nel 2013 si iscrive ad un Master Erasmus Quaternario e preistoria. Le poesie le ha stampate in 4 volumetti ma le ultime le scrive mano a mano che “arrivano” sul PC. I temi trattati riguardano i sogni, l’avvicendarsi delle stagioni, gli inciampi della vita… Su “Parole a Capo” sono state pubblicate diverse sue poesie. Segnaliamo “Lavoro quotidiano” e altre poesie del 23 marzo 2023.

Segnalazioni poetiche e incontri

Mercoledì 5 giugno alle ore 17:00 presso la sala Agnelli della biblioteca Ariostea sarà presentato il libro di poesia di Marta CasadeiQuello che resta“, Ed. La Carmelina.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Ferrara, una città per le donne:
incontro pubblico 30 maggio 2024

Una città per le donne

Uno scambio di idee e di esperienze tra donne sulla visione di città

30 Maggio , ore 17,30 –  Sala della Musica

Introduzione:  Anna Zonari candidata sindaca

Intervengono
Laura Lieto, Vicesindaca Comune di Napoli e professore ordinario di Urbanistica all’università Federico II Silvia Panini attivista di VOLT Modena, candidata alle elezioni europee nella Circoscrizione Nord-Est
Francesca Druetti, Segretaria nazionale di Possibile.

 

 

Villa Melchiori: in un libro 120 anni di storia per la dimora Liberty di viale Cavour che incanta scenografi e illustratori

Villa Melchiori: in un libro 120 anni di storia per la dimora Liberty di viale Cavour che incanta scenografi e illustratori

Chi passa da viale Cavour resta inevitabilmente colpito dalla grazia improvvisa e anacronistica della villa Liberty che si affaccia verso i passanti, al numero civico 184. In autunno c’è il tappeto giallo delle foglie di Ginkgo biloba che riflette una luce dorata sulla cancellata floreale composta da gambi sinuosi di girasoli; in primavera lo sguardo è calamitato da quella nuvola violacea della pianta di glicine, graziosamente inclinata sul lato destro della porta, come una frangetta asimmetrica. Ma il fascino di Villa Melchiori, in viale Cavour, sprigiona sempre: nel freddo spoglio dell’inverno, come nell’arsura dell’estate. È attraente persino dietro le grigie coperture dei teli per lavori in corso.
Villa Melchiori ‘d’epoca’ (foto GioM)
Villa Melchiori adesso (foto GioM, 2024)
A fare luce, e snocciolare storia, su questo edificio, che per primo ha portato a Ferrara lo stile nuovo dell’Art Nouveau, è Lucio Scardino, critico d’arte e studioso appassionato dell’arte ferrarese del secolo scorso.
Copertina del libro su “Villa Melchiori”
Edificata nel 1904 dall’architetto Ciro Contini, questa sua dimora-capolavoro ferrarese festeggia i 120 anni con l’orgoglio di una ristrutturazione avviata a concludersi per la ricorrenza dell’antico festeggiamento inaugurale, che si tenne nel luglio 1904. E in tutto questo tempo l’architettura fiorita e sinuosa ha ammaliato e attratto sguardi, obiettivi, pennini e pennelli, in interpretazioni d’arte che per l’occasione sono state raccolte e codificate in un piccolo atlante di citazioni visive della villa.
A controprova della popolare malia che l’edificio irradia e stimola, nel volume Villa Melchiori, il capolavoro del Liberty ferrarese (Modulgrafica, Forlì, 2024) Scardino raccoglie tutta una serie di opere che si abbeverano di questa piccola icona cittadina e la fanno loro in svariate reinterpretazioni. Si parte all’utilizzo dell’ambientazione come set di un film ambientato negli anni Trenta, “Giovinezza, giovinezza” del 1968 di Franco Rossi, che sfrutta l’oculo dell’ingresso per avvolgere la coppia dei protagonisti e che conferisce una valenza narrativa alla copertina del libro.
Scena di “Giovinezza, giovinezza”
Il film ambientato a Villa Melchiori
Regia di Franco Rossi

Poi ci sono le versioni illustrate storiche. Quella di Maria Paola Forlani, che forza le fattezze costruttive con il suo tratto a china su cartoncino, trasformando la casa in un novello castello estense. Lo scenografo Lorenzo Cutuli accoppia i particolari decorativi con opere degli artisti-artigiani orgogliosamente coinvolti da Contini nel cantiere.
Una reinterpretazione di villa Melchiori per Maria Paola Forlani
Particolare di villa Melchiori illustrata da Lorenzo Cutuli

Lorenzo Romani dipinge la villa su una tela ad olio in una visione d’ispirazione noir.

Olio su tela di Lorenzo Romani
Illustrazione di Claudio Gualandi
La dimora è stata anche protagonista in copertina nell’illustrazione stilizzata del progettista grafico Corradino Janigro, che la avvolge con il mantello della gatta che dà il titolo al romanzo di Mirella Bonora (Il passo della gatta, Argentodorato edizioni, Ferrara, 2023). L’illustratrice Irene Chiapatti la incornicia splendidamente in un campo lilla, complementare alla tonalità ocra con cui tinge per l’edificio di un’altra copertina: la numero 46 della rivista social-virtuale di The Ferrareser di luglio 2023.
Villa Melchiori illustrata da Corradino Janigro
Copertina di The Ferrareser di Irene Chiapatti
Il grafico e illustratore ferrarese Claudio Gualandi s’inventa una delle sue inconfondibili coreografie di personaggi che affollano l’edificio dentro e fuori, in memoria della storica festa inaugurale. Al contrario, l’ingegnere-artista della penna Bic, Marcello Carrà, isola letteralmente la dimora in vetta a un roccioso masso ispirato all’Isola dei Morti del pittore simbolista ottocentesco Arnold Bocklin.
“L’isola Melchiori” per Marcello Carrà
L’opera “Giardino (allagato)” di Gianni Cestari
L’artista contemporaneo Gianni Cestari, infine, ne fa un sogno emergente dal “Giardino (allagato) per il 120.o anniversario” dando vita e colore ai fiori delle decorazioni di cemento e ferro battuto.
Biblioteca Ariostea
Scardino tra Bosi e Carrà (fotoGioM)
Bella e partecipata la presentazione pubblica del libro, nella Biblioteca comunale Ariostea, dove Scardino ha rivelato di essere andato a scovare gli eredi di Contini fin negli Stati Uniti d’America. Contini, di origine ebraica, s’imbarcò infatti per gli States con l’ultimo piroscafo all’indomani delle leggi razziali, raggiungendo i figli. Alla porta dell’indirizzo che era riuscito ad avere, lo studioso di architetture novecentesche fu infatti accolto da uno dei due figli, che nel frattempo hanno seguito le tracce paterne e sono diventati affermati ingegneri americani.
In occasione dell’incontro pubblico Stefano Bottoni, fondatore del Ferrara Buskers Festival e figlio nonché nipote di fabbro, ha rivelato un ulteriore tassello: la cancellata, rifatta da suo nonno Stefano dopo la demolizione bellica, in origine era smaltata di bianco, mentre il grigio ferro è una modifica degli anni Settanta. Per inquadrare in modo storico quell’ingresso, precursore dei tempi dei selfie, dove le sbarre di ferro si incurvano docili come dita a forma di cuore.
Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti su Periscopio clicca sul nome dell’autrice.

Vite di carta /
Custode di un giorno

Vite di carta. Custode di un giorno

Ho letto a lungo durante la notte: strana conclusione dopo una giornata dedicata alle parole di altri due libri, diversissimi tra loro. Potevano bastare, e invece ecco queste altre pagine da Caffè amaro di Simonetta Agnello Hornby.

Nel silenzio leggo di Maria, la protagonista che vive a soli trent’anni il momento del disincanto e della consapevolezza amara: capisce di avere sposato un  uomo ricco che è il ritratto del prestigio, ma è infantile e fatuo. Prende su di sé, allora, i carichi familiari e si occupa di amministrare i beni che con fiducia il suocero le sta affidando perché li protegga.

Si cura di allevare i figli, e intanto cresce culturalmente, studia e apporta innovazioni nelle dimore che abita. Siamo in Sicilia nei primissimi anni del Novecento e la novità di insegnare a leggere e a scrivere alle domestiche non passa inosservata presso i parenti nobili e nell’opinione comune.

Nel silenzio mi pare che la storia raccontata da Caffè amaro esca dalla brossura del libro e per vie impensate vada a raggiungere il volumetto prezioso di cui si è parlato in gruppo stamattina (ormai ieri mattina) in carcere.

La mente non vuole credere che i due libri possano parlare tra di loro. Men che meno con  il terzo, quello che è stato presentato nel pomeriggio alla Biblioteca Ariostea di Ferrara: una raccolta di ritratti di donne forti e coraggiose di cui in un altro momento scriverò.

Nel silenzio, tuttavia, la stanchezza è la compagna più saggia: riesce a guardare al fondo della giornata e trova quello che unisce la storia di Maria, le storie delle altre donne forti e le storie che si raccontano come attitudine a stare nel mondo. A custodirne le forme che il vento modella, intere dune create dall’esistenza delle correnti o anche solo un granello di sabbia.

Siamo nella sala polivalente del carcere di Ferrara e le due ore del mattino di norma riservate alle attività culturali volano letteralmente. Al centro di questo incontro è Custode di dune, che Lucia Boni ha pubblicato nel 2018 e che ha voluto presentare qui, oggi.

L’ho letto nei giorni precedenti all’evento lottandoci contro. Non afferrandolo se non verso la metà e poi lasciandomi andare alla sua musica.

Una voce narrante resta a lungo sulla spiaggia a fine estate, contempla il mare e intanto le arrivano le storie narrate dai pescatori che sono rientrati con le barche e a turno raccontano.

Si insinua nel paesaggio già così diafano una figura senza forma, quasi una luminescenza: il nome è Esblanco, la sua attitudine è quella di sentire con intensità e in formule mutevoli il tutto che circonda le cose. Il tutto che ci riguarda.

Esblanco è custode della vitalità di voler nascere, esprime i momenti della vita che ci illuminano e ci fanno vibrare. Può passare da un corpo a un altro, rivelare la vitalità dentro le piante e perfino nelle pietre. Proprio perché gli oggetti non ci appartengono meritano rispetto e condivisione.

Ecco, ho pian piano smesso di cercare di capire e ha accompagnato la musica delle parole, veri e propri veli lessicali sollevati dalle note suonate dalla natura. Tutti gli altri elementi del testo, la nonna e il bambino, le altre figure apparse e poi andate, gli oggetti come relitti rimasti impigliati nella sabbia, sono entrati in sintonia tra loro.

Hanno testimoniato la loro appartenenza. La lettura si è fatta sensazione, convinta dispersione nel mare delle cose.

Negli interventi seguiti alla bella presentazione di Francesca Mellone ognuno di noi ha suonato una nota di dialogo con Lucia e con il suo piccolo grande libro. Chi ha letto una pagina, chi ha ragionato sul valore delle parole, così evocative e rispettose delle cose da rischiare l’animismo.

Francesco, che in carcere legge e ascolta musica assiduamente, suggerisce di ascoltare Oceano di silenzio di Franco Battiato, inebriato dalle parole di questo libro che, dice, sono un mezzo per evocare molto altro. Non sono come le parole che si usano “qui dentro”, le parole finalizzate e aride dei regolamenti e della legge.

Capisco che ogni altra storia che ho letto può stare qui, dentro Custode di dune. In una delle sue tre scene, può stare dentro la voce narrante o dentro gli interventi di Esblanco, che ci invita a prenderci cura del mondo e ci avverte che lo stiamo perdendo. Può stare nelle storie dei pescatori che vengono da lontano nello spazio e nel tempo.

Il tempo di un giorno: accetto la chiamata e scrivo e custodisco quello appena passato, con i suoi spazi e con le parole che gli hanno dato forma. Un giorno pieno di imprevista armonia.

Nota bibliografica:

  • Lucia Boni, Custode di dune, Campanotto Editore, 2018
  • Simonetta Agnello Hornby, Caffè amaro, Feltrinelli, 2016

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

La contraccezione, la rivoluzione copernicana delle donne

La contraccezione, la rivoluzione copernicana delle donne

Dal punto vista della sociologia e filosofia femministe la vera rivoluzione nella vita femminile non è stata l’immissione in massa nel mondo del lavoro post rivoluzione industriale (dato che le serve e le schiave le abbiamo sempre fatte), né l’istruzione obbligatoria introdotta gradualmente a partire dagli anni ’60, bensì la rivoluzione anticoncezionale, uno dei rari, ma fondamentali momenti in cui la scienza si è alleata con la vita femminile, fornendole uno strumento di liberazione.
Se Freud aveva potuto affermare agli inizi del secolo scorso che “il destino della donna è la sua anatomia”,  la possibilità, per le donne eterosessuali, di sganciare la propria sessualità dalla maternità ha interrotto la macabra catena delle morti femminili, a seguito delle decine di parti che “l’anatomia” riservava loro, oltre che degli aborti clandestini a cui spesso dovevano ricorrere. L’utilizzo di massa degli anticoncezionali si può legittimamente paragonare alla rivoluzione copernicana perché sconfessa che il “ sole dell’anatomia” giri ( si stringa) intorno alla donna, bensì che sia quest’ultima, liberamente, che giri (e decida) “intorno al sole della propria anatomia”.

È interessante notare la posizione della Chiesa Cattolica al riguardo, da sempre poco amante delle rivoluzioni scientifiche, visto i secoli di ritardo della riabilitazione di Galilei e Darwin ad opera di papa Giovanni Paolo II.
Il catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992, ad opera di quest’ultimo, recita all’art. 2370: no a ogni forma di contraccezione, sia prima, sia durante, sia dopo il rapporto sessuale (…è intrinsecamente cattiva ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione). Da cui conseguono, anche se ancora più discutibilmente gli articoli 2270-2273: “No sempre e comunque all’aborto, compresi i casi di grave malformazione del feto, di gravidanza in seguito a stupro, di pericolo di vita della madre”.

Questi articoli, ancora incredibilmente in vigore, nonostante l’opposizione alcuni esponenti autorevoli della Chiesa Cattolica, come il cardinale Martini, hanno il merito di essere illuminanti sulla vera vocazione dei movimenti pro-vita: la vita della donna , anche se in pericolo fisico e psichico, dopo uno stupro, per malformazione del feto, per problemi di salute, è la prima a saltare, all’ultimo posto della catena biologica per una (sadica?) volontà di Dio. Gli articoli sopra citati esprimono infatti una gerarchia valoriale in cui al primo posto è il seme maschile, feticisticamente idolatrato al di dei suoi prodotti (feto gravemente malformato), al di là che venga emesso in un atto d’amore o di violenza (valorizzato anche in caso di stupro) e al di là che possa avere esiti omicidi nei confronti della donna.(pericolo di vira della madre).

D’altronde non c’è da stupirsi perché tale barbara ideologia è in assoluta continuità con secoli di misoginia della Chiesa, che relega la sessualità femminile ad un ruolo esclusivamente procreativo, fuori dal quale è fornicatrice, come recita l’art.2351 del catechismo: “No a ogni tipo di piacere sessuale all’infuori del matrimonio e all’infuori della procreazione” , e ancora, all’art.2353: No all’unione sessuale tra un uomo e
una donna non sposati, detta fornicazione. Mi viene il sospetto, vedendo lo scarso numero dei figli dei cattolici dichiarati, (al massimo due o tre in genere) che tale anacronistica dottrina serva principalmente a mantenere in piedi il sacramento della confessione, (sempre più disertato dai fedeli) come meccanismo ingegnoso per poter continuare a compiere peccati inevitabili.

Mi si è anche chiarito l’oscuro episodio del 12 maggio dell’aggressione ad Elena Cecchettin (sorella di Giulia uccisa dal fidanzato con 75 coltellate) durante il suo monologo sui femminicidi al Salone del libro di Torino.
Una promotrice della vita, ma a quanto pare non delle vite delle donne assassinate dal partner, al grido di “vade retro Satana”, recitando l’Avemaria, l’ha accusata di uccidere i bambini. Ancora una volta un evento incentrato sulla violenza sulle donne, vittime di brutali assassinii da parte di partner a volte insospettabili, ha subito un capovolgimento semantico, molto usato dagli avvocati difensori di omicidi e stupratori, per cui le vittime diventano carnefici, seduttrici di uomini deboli, ma innocenti, losche fornicatrici assenteiste rispetto al dovere di produrre potenziali feti, di cui abortendo diventano probabili assassine. Possibilità che per una donna si ripete puntualmente, ogni mese, in età feconda, la cui unica alternativa non colpevole, ovviamente, è la castità. Era questa un opzione scelta in passato da moltissime donne, in un proliferare di vocazioni femminili non sempre autentiche, ma che era l’unico modo per salvarsi la vita dalle morti per parto o per aborti non assistiti.

La gravità della posizione della Chiesa Cattolica in merito agli anticoncezionali e alla sessualità femminile si ripercuote gravemente sull’attuazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza. Pervenendo l’obiezione di coscienza degli operatori sull’immediata somministrazione della pillola del giorno dopo (o dei cinque giorni dopo) in quanto anticoncenzionale, si obbliga la donna a interrompere non prima della decima-dodicesima settimana, quando il feto è già formato, programmando addirittura con una proposta di legge l’ascolto del battito cardiaco del feto come dissuasore.

Per chi si proclama tanto attento alla vita sorprende la mancanza di distinzione fra possibilità di vita e vita già formata. La scorrettezza di questa posizione è comprensibile solo alla luce di una concezione della sessualità femminile destinata esclusivamente alla procreazione, ampiamente smentita dalla realtà.
I dati statistici di Adnkronos salute rilevano che l’età media del primo rapporto sessuale era di 16,4 anni fino al 2023, anno in cui è salito a 17, con l’11,6% riferisce di avere avuto la sua prima esperienza prima dei 13 anni, tanto da prevedere per legge, in tutti gli stati europei, corsi di educazione affettivo. sessuale nelle scuole per evitare la trasmissione di malattie sessuali e gravidanze indesiderate. Da notare che anche in paesi africani dove ogni figlio è considerato un dono di Dio, come l’Eritrea, il governo distribuisce gratuitamente profilattici alla popolazione.

Concludo con una frase del vangelo secondo Matteo, rivolta ai farisei e ai sadducei:  Quando si fa sera voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia”; e al mattino “Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo”. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? (Matteo16, 2-3).

Eirenefest, festival del libro per la pace e la nonviolenza:
online il programma definitivo

Eirenefest III edizione

Festival del libro per la pace e la nonviolenza:
Roma, quartiere San Lorenzo, 31 maggio al 2 giugno 2024

Eirenefest: il festival del libro per la pace e la nonviolenza è giunto alla sua terza edizione, consolidando un evento nazionale e promuovendo la realizzazione di 3 festival locali, Bisceglie, Firenze e Valdarno.

L’edizione nazionale si svolgerà dal  31 maggio al 2 giugno 2024 – al quartiere San Lorenzo di Roma, con ingresso libero e gratuito e il suo programma è disponibile on line all’indirizzo:
https://www.eirenefest.it/programma-festival/Eirenefest

Venerdì 31 maggio, dal mattino ai giardini del Verano studenti e scuole romane daranno vita a laboratori sulla nonviolenza. Dal pomeriggio del venerdì fino alla domenica 2 giugno tre giorni ricchi di presentazioni di libri, confronti con gli autori e relatori sui temi attuali come:
Conflitti: dal conflitto alla trasformazione nonviolenta; Educazione: dalla militarizzazione all’educazione alla pace e alla nonviolenza; Arti: dai paradigmi della violenza alle arti e culture per la pace; Ambiente: dalle crisi ambientali alla prospettiva ecopacifista.

Concluderà il festival la Festa della Repubblica Multietnica che inizierà il pomeriggio del 2 Giugno concludendosi a tarda notte.

Eirenefest a Roma è un evento sostenuto con l’8xmille della Chiesa Valdese. Per conoscere i protagonisti ed ogni  altra informazione, iscriversi gratuitamente al Festival: https://www.eirenefest.it

Julian Assange potrà ancora appellarsi contro l’estradizione negli Usa. Amnesty International: “Buona notizia”

di Amnesty International

Commentando la decisione dell’Alta corte di Londra di garantire a Julian Assange la possibilità di appellarsi contro l’estradizione negli Usa, il consulente legale di Amnesty International, Simon Crowther, ha diffuso questo commento:

“La decisione dell’Alta corte è una rara buona notizia per Julian Assange e per tutti coloro che difendono la libertà di stampa.

L’Alta corte ha correttamente concluso che, in caso di estradizione negli Usa, Assange rischierebbe gravi violazioni dei diritti umani come l’isolamento prolungato, in contrasto col divieto di tortura e altri maltrattamenti”.

“Il tentativo degli Usa di processare Assange mette in pericolo la libertà di stampa nel mondo e ridicolizza gli obblighi di diritto internazionale degli Usa e il loro conclamato impegno in favore della libertà d’espressione.

Col tentativo di metterlo in prigione, gli Usa stanno inviando un messaggio chiaro: non hanno rispetto per la libertà d’espressione e minacciano i giornalisti ovunque nel mondo, che potrebbero essere presi di mira a loro volta, solo per aver ricevuto e diffuso informazioni riservate e pur avendolo fatto in nome dell’interesse pubblico”.

“Mentre nei tribunali britannici continuerà la battaglia legale, chiediamo agli Usa di porre finalmente termine a questa vergognosa saga, annullando tutte le accuse nei confronti di Assange.

Questo significherebbe fermare il procedimento giudiziario negli Usa e la libertà di Assange, che ha già trascorso cinque anni in carcere”.

In copertina: foto di Maria La Bianca

Parole e figure / Otto, dove vai?

Cane, amicizia, tenerezza e fedeltà sono alcuni degli ingredienti di “Otto dove vai?”, l’ultimo silent book di Marion Sonet, edito da Kite, da poco in libreria.

Ispirato alla simpatica e inimitabile canzone Milza, di Nino Ferrer, “Otto dove vai?” ci porta nel mondo fatato di giardini dai colori romantici, dove un’anziana signora e il suo cane passeggiano da grandi protagonisti.

Il titolo originale francese, “Mirza se fait la malle”, ricorda appunto l’omonima canzone di Ferrer, che vi invitiamo a (ri)ascoltare. È divertente, e le parole di questa sorta di filastrocca possono accompagnare, con grazia, lo sfogliare di “Otto dove vai?”.

Le pagine ci portano nei giardini parigini di metà autunno. L’entrata maestosa, la cancellata lavorata, i gazebo ricamati, i vialetti disegnati, i lampioni eleganti, le foglie e i fiori colorati, i prati curati, tutto ricorda il Jardin de Luxembourg.

I palazzi intorno portano, invece, alla memoria le strade eleganti disegnate degli Aristogatti, uno dei capolavori della Disney, il quartiere di Parigi, nel 1910, dove si trova la magione della cantante lirica in pensione Madame Adelaide Bonfamille, che qui vive con Duchessa e i suoi micini, Bizet, Matisse e Minou, per intenderci.

Ci si sente a casa, si ha voglia di passeggiare per le strade di Parigi, di ammirare la bellezza dei suoi parchi e giardini, di sentire le note dei suoi musicisti di strada, di entrare nelle librerie alla ricerca di albi illustrati e di nuovi poeti. Si sente la luce del sole.

 

In questa calda e soffice atmosfera, che odora di zucchero filato e caramello, una divertente signora anziana – abbigliamento delizioso, in stile giapponese, ben pettinata – va al parco con il suo cane Otto, per fare una delle loro passeggiate quotidiane. Una bella e sana abitudine, fatta di affetto, empatia, serenità e tranquillità.

Peccato che, quando lei si ferma ad ammirare dei colombi, lei li coccola un pochino troppo per i suoi gusti. Il cane si ingelosisce a tal punto da fuggire via. Scappa di qua e di là, non capisce più nulla, proprio come Mirza. Imprendibile. Introvabile. E allora che guaio che ci combina!

Nel tentativo di riprenderlo lei cade e, ops, gambe all’aria, si fa male. Otto invece continua a correre. Ma dove va mai? Voilà…. I cani, si sa, riescono sempre a stupirci.

PS: lui, in fondo, resterà sempre il preferito! Mentre il verde trionfa.

Marion SonetOtto dove vai?, Kite edizioni, Padova, 2024, 44 p.

Marion Sonet, ha coltivato la sua passione per il disegno fin dall’infanzia. Dopo aver studiato arti visive a Besançon e illustrazione presso la scuola d’arte Saint-Luc a Bruxelles, si stabilisce nella capitale della regione della Franche-Comté per dedicarsi alla professione di illustratore. Il suo lavoro riflette l’attaccamento alle tecniche tradizionali, in particolare l’uso di matite colorate, che le permettono di creare disegni ricchi di colore e vivacità. Allo stesso tempo, tiene laboratori d’arte per diversi tipi di appassionati.

Sito web

Ferrara per il clima e per una cultura nuova:
presentati altri punti del programma de “La Comune di Ferrara”

Ferrara per il clima e per una cultura nuova: presentati altri punti del programma de “La Comune di Ferrara”

Si è svolta sabato 18 maggio, la seconda conferenza stampa aperta, di presentazione dei punti 3 e 4 del programma elettorale presentato da Anna Zonari

3. Ferrara città delle arti e delle culture.
Ci impegniamo per una Ferrara che valorizzi le forme di cultura che si producono ogni giorno in questa città, offrendo spazi sostenibili per fare arte, musica, teatro per una programmazione capace di andare oltre l’intrattenimento. Offrire spazi per la cultura e non chiuderli.
Proporre cultura significa fare un investimento sulle persone, non solo quelle che ne beneficiano, ma anche quelle che la producono con la propria passione, creatività e spesso, purtroppo, in condizioni precarie che non consentono investimenti e una programmazione di medio e lungo termine.
Parlare di arti e culture quindi significa parlare anche di lavoro, di occupazione di qualità, di investimenti sulle lavoratrici e i lavoratori di questo settore e conseguentemente sulle attività di ricezione turistica.
Le tradizionali attività delle biblioteche – il prestito librario e l’organizzazione di eventi culturali – vanno arricchite e ampliate, per fare in modo che esse diventino luoghi vivi, presidi territoriali sempre più capaci di fornire anche servizi utili alle cittadine e ai cittadini. Occorre riorganizzare e sviluppare il sistema bibliotecario esistente puntando sull’assunzione e la formazione di personale interno, estendendo l’orario di apertura, incrementando i fondi per gli acquisti e le attività culturali.
Insieme alla promozione degli eventi culturali, è fondamentale sviluppare una strategia di gestione del turismo culturale che tuteli il patrimonio e l’ambiente, garantendo un turismo sostenibile e responsabile, individuando di volta in volta i luoghi più idonei, che non implichino la distruzione di aree verdi o l’appropriazione da parte di privati degli spazi pubblici. Ferrara può dotarsi, come tutte le città moderne, di un’ area per “grandi eventi sostenibili”, nell’ambito della realizzazione del Parco Urbano Sud, nell’area dell’aeroporto.
La Fondazione “Ferrara Arte” riteniamo che debba essere rivista nel suo statuto, affinchè ritorni sotto il controllo del Comune e in particolare del Consiglio Comunale per una trasparente e corretta gestione del budget, come la legge prevede, e possa essere rendicontata e tutti i cittadini.

4 Ferrara città per il clima
Ferrara deve impegnarsi per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica.
È necessario agire quindi sulla gestioni dei cicli che possono consentirci di pensare una città come un ecosistema: energia, circolarità, mobilità, nature urbane, diritti alla città e agli spazi pubblici per tutte e tutti. Nel programma de La Comune abbiamo pertanto identificato una “visione” che a sua volta sottende ad una strategia fondata su:
– contrasto dell’inquinamento dell’aria anche attraverso il ridimensionamento della mobilità automobilistica che emette gas climalteranti, l’efficientamento energetico degli edifici, la rinuncia ad interventi che promuovono il «biometano»; l’investimento su forme di auto produzione delle energie rinnovabili, come ad esempio le comunità energetiche, iniziando ad esempio dagli edifici e aree pubbliche;
– priorità alla mobilità pubblica e dolce;
– una trama  verde composta di aree (parchi e giardini) e corridoi verdi ed ecologici che mettano in relazione le aree urbane (centro storico, quartieri periferici, frazioni) con la campagna;
– azzeramento del consumo di suolo, depavimentazione dove possibile e ripensamento degli spazi pubblici e delle infrastrutture a rete per fronteggiare i rischi derivanti da alluvioni e allagamento delle zone abitate, sia in città che nelle campagne.

LA PARABOLA DISCENDENTE DEL MODELLO EMILIANO-ROMAGNOLO

LA PARABOLA DISCENDENTE DEL MODELLO EMILIANO-ROMAGNOLO

Parlare oggi di modello emiliano-romagnolo potrebbe essere un’operazione di pura ricostruzione storica, visto che i suoi “anni d’oro” si possono collocare tra la fine degli anni ‘50 e la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, se non fosse che, pur senza ricorrere a quella denominazione, l’allusione ad esso sembra tornare anche in questi anni, in particolare da parte dei dirigenti del Pd emiliano, nella narrazione che viene offerta della realtà odierna dell’Emilia-Romagna. Basta prendere a titolo esemplificativo il discorso di saluto del presidente della Giunta regionale Stefano Bonaccini al Congresso nazionale della Cgil, svolto a Rimini nel marzo del 2023, quando parlava della situazione emiliano-romagnola come di una regione che, negli ultimi sette anni, ha avuto la crescita economica e l’export procapite più sostenuti rispetto alle altre regioni e il valore aggiunto industriale più alto nei confronti dei territori europei. Aggiungendo che analoghi risultati positivi si riscontrano per quanto riguarda i temi del lavoro, dei diritti, dell’inclusione sociale e della tutela dell’ambiente.

Una visione chiaramente agiografica, che mette da parte arretramenti considerevoli che si registrano nel lavoro, anche in Emilia-Romagna, con la diffusione di povertà e precarietà, nel sistema di Welfare, a partire dalla sanità, nelle scelte relative alla conversione ecologica e ambientale. Per non parlare delle forme di partecipazione e della democrazia, se solo si pensa a come, in primis da parte del Pd, si sia archiviato ed eluso nella discussione il disastroso risultato della partecipazione alle elezioni regionali del 2014, attestatasi al 38%, o, ancora, come si sia data una lettura della vittoria elettorale del centro-sinistra del 2020 in termini di consenso alle sue politiche, e non, prima di tutto, come di una reazione democratica contro il rischio della conquista da parte della destra di una regione simbolo. Un risultato, peraltro, supportato da movimenti e iniziative promosse da mondi non direttamente riconducibili ad espressioni partitiche. Insomma, sembra venga riproposta, sia pure in termini aggiornati, un’idea dell’Emilia-Romagna come esempio virtuoso e modello di riferimento da esportare in tutto il Paese.

 Cosa è stato il modello emiliano

 Anche a fronte di ciò, vale la pena ripercorrere i tratti di fondo di quello che è stato il “modello emiliano”, quella forma specifica di intreccio tra economia e  società che in questa terra si è realizzata tra la fine degli anni ‘50 e la fine degli anni ‘70 del Novecento. Tornerò più avanti sulle motivazioni di questa periodizzazione, anticipando, però, che essa non è funzionale ad individuare una sorta di epoca felice cui ispirarsi ancora oggi, non foss’altro per il ben differente contesto sociale, politico ed economico nel quale ci troviamo. In realtà, quell’esperienza non nasce improvvisamente e come disegno predefinito. Essa affonda parte delle proprie radici già nelle realizzazioni del “socialismo municipale” di inizio del ‘900 in diversi Comuni emiliani, dall’Imola di Andrea Costa, passando per la Reggio Emilia di Prampolini e arrivando alla Bologna di Zanardi, e ha già una sua “premessa teorica” nel famoso discorso “Ceto medio ed Emilia rossa”, tenuto da Palmiro Togliatti a Reggio Emilia nel 1946. Dove si dice testualmente che “non vi è nessun contrasto tra gli interessi che noi difendiamo e quelli dei gruppi sociali intermedi”, si parla dell’Emilia come della situazione che ha già sperimentato questo dato e ancor più potrà farlo, in particolare grazie all’opera unificante del Partito comunista.

In ogni caso, gli ingredienti fondamentali che hanno dato vita all’esperienza del modello emiliano sono stati diversi, ma tutti unificati dall’idea della costruzione di un blocco sociale tra classe operaia e ceti medi produttivi. Alla base di quest’impostazione, si trova, da una parte, un’analisi delle caratteristiche del modello di sviluppo capitalistico del dopoguerra, egemonizzato, in questa visione, dal predominio dei “grandi monopoli” e, dall’altra, dalla crescita di un diffuso tessuto imprenditoriale, e non solo, che non si riconosce negli interessi dei primi. Quell’analisi è quella prevalente nel Pci di quegli anni e, pur nella sua parzialità, se non erroneità, non verrà messa in discussione, almeno fino allo svolgimento del convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle “Tendenze del capitalismo italiano”, dove si affaccia una lettura diversa rispetto alla modernizzazione operata dal neocapitalismo.

Non c’è dubbio, però, che, in particolare nella realtà emiliana, si assiste ad uno sviluppo significativo di piccole e medie imprese, che nascono anche dall’iniziativa di nuclei di lavoratori, anche politicizzati, espulsi dalle ristrutturazioni e dal ridimensionamento industriale degli anni ‘50 e che costituiscono una base materiale importante per favorire la costruzione di quel blocco sociale. A ciò si aggiunge uno sviluppo forte del movimento cooperativo, concepito come sperimentazione alternativa al predomino delle logiche di pura ricerca del profitto e delle leve che muovono l’accumulazione capitalistica. A sostegno di tutto ciò si muove la leva fondamentale delle politiche degli Enti locali, e in specifico della creazione ex novo di un moderno e universale sistema di welfare. Avendo ben presente che questo comporta il fatto di mettere in campo una forte politica di deficit spending, di una politica keynesiana che si basa sul disavanzo di bilancio dei Comuni, giocata, peraltro, anche in termini rivendicativi nei confronti del governo centrale.

Le relazioni sul bilancio comunale di Giuseppe Dozza

Da questo punto di vista, è assolutamente illuminante la riflessione e l’iniziativa che troviamo nelle relazioni che il sindaco di Bologna Dozza svolge al Consiglio Comunale della città in occasione della presentazione dei bilanci preventivi per il 1962, il 1963 e il 1964. Fino a quell’epoca il Comune di Bologna aveva sostanzialmente sempre presentato bilanci in pareggio, con l’intento di dimostrare la competenza e l’efficacia della propria azione amministrativa. Con il 1962 si produce una svolta di grande rilievo: dopo aver ribadito che le Amministrazioni locali “hanno saputo riconoscere l’ente locale come l’istanza fondamentale di una costruzione dello Stato moderno nel nostro Paese”, si propone esplicitamente un punto di vista decisamente “innovativo”, nel senso che si mettono al centro le esigenze della cittadinanza piuttosto che gli equilibri contabili, sottolineando che “ una prima sommaria e prudenziale valutazione delle esigenze attuali della città…è già sufficiente a misurare i termini, politici prima ancora che finanziari, (mio corsivo) del divario esistente tra i bisogni della collettività cittadina e le possibilità effettive che sono lasciate attualmente all’ente locale di soddisfarli…”. Da qui la conclusione che “si può prevedere sin d’ora la necessità che il prossimo bilancio presenti un disavanzo”. E non di poco conto, visto che, nel 1963, le entrate passano a poco più di 18 miliardi di lire e le spese a circa 21,5 miliardi, con un disavanzo di 3 miliardi e 250 milioni, quasi il 18% rispetto alle entrate! Un approccio ribadito per il 1964 dove il disavanzo passa a 6 miliardi e 850 milioni di lire. Cifre consistenti che consentono al Comune di Bologna di quadruplicare gli investimenti dal 1960 al 1964 e che vengono impiegati soprattutto nei settori della scuola, nelle fognature, nei fondamentali servizi pubblici (trasporti, gas, acqua, nettezza urbana tramite le municipalizzate), nel verde urbano, nei servizi igienici e sanitari e anche per lo stesso decentramento amministrativo.

Infine, parte integrante ed essenziale di questo ragionamento è rappresentato dall’idea della partecipazione e dall’espansione della democrazia. Già nel dopoguerra, Dozza a Bologna teorizza che il Comune deve essere “Comune del popolo” e sperimenta prime forme di partecipazione attraverso la costituzione dei Consigli tributari, investiti dei compiti di accertamento e di concordato per l’applicazione dell’imposta di famiglia, finalizzati ad “assicurare la partecipazione democratica dei contribuenti in sede di accertamento dei redditi e di primo esame dei ricorsi». Non a caso vengono bollati dalla stampa filogovernativa come Soviet tributari. In più, si dà vita alle prime Consulte popolari, che evolveranno poi nei Consigli di quartiere, formalmente istituiti in 15 nel 1961. Soprattutto questo processo fu accompagnato da una forte discussione e coinvolgimento della politica e della cittadinanza, anche grazie al contributo di Giuseppe Dossetti che risale già al 1951, e che fece sì che essi, sul serio, si affermassero come veri istituti di democrazia partecipativa.

Il ruolo del Pci nella regione

Ovviamente, parlando di modello emiliano, non si può prescindere dal ruolo fondamentale svolto dal Pci, che, a differenza di letture superficiali apparse a più riprese, non può essere visto come una sorta di “cupola monolitica” che dirigeva tutti i processi, ma che certamente ha assolto un ruolo di guida e sintesi della decisione politica, riconosciuto, in primo luogo, proprio dai soggetti protagonisti di una reale dialettica che era presente in modo vivace nella società, dal sindacato al movimento cooperativo e alle stesse Associazioni di impresa. Non foss’altro che per il suo robusto, per certi versi incredibile insediamento sociale, per cui alla fine degli anni ‘60 la Federazione di Bologna conta più di 100.000 iscritti e il tasso di adesione al Pci (calcolato come rapporto tra iscritti e corpo elettorale) nei primi anni ‘70 si attesta attorno a poco meno del 20%.

Infine, a completamento di questa veloce e certamente non esaustiva “carrellata” sugli elementi fondanti del modello emiliano, vale la pena ricordare come, almeno tra le figure più avvedute del processo che si era avviato, fosse presente la consapevolezza che esisteva una tensione, ancora meglio un nodo politico irrisolto, tra quanto si metteva in campo a livello regionale e le scelte di modello produttivo e sociale che, invece, venivano avanti a livello nazionale. Insomma, un po’ estremizzando e parafrasando un detto celebre, che non si poteva sviluppare un “modello in una sola regione”. Diamo ancora la parola a Dozza, che, sempre nella relazione sul bilancio preventivo di Bologna per il 1962, afferma che “un’autentica politica di piano non può pertanto limitarsi a favorire una situazione esistente, ma deve proporsi di dirigerla…..Consegue da ciò, evidentemente, che una politica di piano non può limitarsi ad agire nel settore delle infrastrutture, ma deve contemporaneamente investire le strutture dell’economia…. deve incidere in modo sostanziale nelle strutture monopolistiche che caratterizzano, in Italia, i fondamentali settori dell’attività economica”. In controluce, non è difficile scorgere appunto quella tensione tra iniziativa locale e modello di sviluppo assunto nazionalmente che, alla fine, non poteva che sciogliersi allineandosi tra loro, in un modo o nell’altro.

 Le prime critiche da sinistra al modello

A queste teorizzazioni e anche realizzazioni di spessore, però, già alla fine degli anni ‘60, iniziano ad emergere riflessioni, nel campo della sinistra, non propriamente in sintonia con esse. È l’effetto dell’irrompere del biennio ‘68-’69, che, peraltro non a caso, presenta in Emilia alcune caratteristiche peculiari. In particolare per le lotte operaie, che, anche qui, raggiungono un’intensità e una durata di non poco conto, e – per usare una schematizzazione un po’ forzata, ma che può rendere l’idea – che vedono protagonisti non l’operaio massa, ma quello specializzato, non il 2° ma il 3° livello metalmeccanico, che corrisponde alla tipologia di struttura produttiva prima sommariamente descritta. Queste lotte, non casualmente, sono maggiormente indirizzate al superamento del cottimo, mettendo in atto uno “scambio virtuoso” tra mantenimento dei livelli produttivi e fissazione di premi salariali uniformi, e all’intervento sull’organizzazione del lavoro piuttosto che sull’ ugualitarismo spinto. Anche per quanto riguarda il movimento degli studenti si assiste all’anomalia per cui i giovani comunisti – tramite la gloriosa Sezione universitaria comunista, guidata da Antonio La Forgia, Claudio Sabattini, Francesco Garibaldo, Tiziano Rinaldini, Giorgio Cremaschi e altri ancora – partecipano attivamente all’iniziativa del movimento studentesco, caso forse unico nelle grandi università del Paese. Ancora: l’intreccio tra lotte studentesche e operaie si realizza in modo singolare, con una trasmigrazione di molti degli attivisti della Suc alla Camera del Lavoro e alla Fiom di Bologna, già nel 1967, a partire dall’assunzione della responsabilità dell’Ufficio sindacale della Cgil da parte di Claudio Sabattini.

È in questo contesto che matura una lettura della struttura produttiva emiliana e dello sfruttamento della classe operaia in controtendenza rispetto all’elaborazione del Pci. Tale lettura, il cui punto più alto è probabilmente rappresentato dal convegno organizzato nel 1971 a Bologna da Fim – Fiom – Uilm dell’Emilia-Romagna sulle piccole e medie aziende metalmeccaniche industriali e artigiane, teorizza esplicitamente che esse sono sostanzialmente l’ultimo anello della catena di subfornitura delle grandi aziende del triangolo industriale del Nord e che, quindi, relegano la condizione operaia in una situazione di salari più bassi e di maggiore sfruttamento. Come spiega Claudio Sabattini, diventato segretario della Fiom di Bologna, nella relazione introduttiva, la struttura produttiva emiliana “rivela una generale subordinazione della industria regionale nei confronti dei grandi gruppi monopolistici nazionali, in quanto si sarebbe determinato…. una specie di ‘traino’ di questi ultimi sulla prima”, quindi “la grande e media impresa regionale….si trova collegata in maniera diretta con i grandi gruppi internazionali e nazionali”, e “ ci si trova di fronte al rilevante fenomeno del decentramento produttivo di intere fasi di lavorazioni“ e dunque, “per quanto riguarda la condizione operaia ciò si traduce nella presenza massiccia dello straordinario…., di bassi salari rispetto alle aziende medie e grandi, di ritmi gravosi …”. Un ragionamento che coglie diversi dati di realtà, anche se probabilmente estremizzata, come per altro verso quella proveniente da quella “ufficiale” del Pci, dove invece si esaltavano gli elementi di autonomia produttiva del tessuto delle piccole e medie imprese, che venivano, dunque, immediatamente annoverate come costituenti del blocco sociale ed economico antimonopolistico. In ogni caso, la lettura di Sabattini appare troppo antitetica per essere resa compatibile con quest’ultima, tant’è che il gruppo dei sindacalisti “eretici” viene allontanato da Bologna nel 1974, pur andando a ricoprire cariche importanti sempre all’interno della Fiom, mantenendo un tratto significativo e utile nelle vicende del sindacalismo italiano.

Questa, che potremmo definire una prima incrinatura, almeno teorica, della narrazione del modello emiliano, rappresenta un segnale del fatto che esso aveva al suo interno alcuni elementi di debolezza; nello stesso tempo, però, va evidenziato che essa non ebbe effetti rilevanti rispetto al suo percorso, che stava ancora in una fase ascendente, trainato soprattutto dalle politiche degli Enti locali, della loro costruzione di un’idea innovativa di welfare, di deficit spending che lo sosteneva e anche di sostegno alle stesse piccole e medie imprese.

La brusca rottura operata dal movimento del ‘77

Di tutt’altro tenore, invece, sono le conseguenze dell’irrompere del movimento del ‘77, che possono benissimo essere viste come una reale cesura delle vicende precedenti e guardate come una vera e propria messa in discussione e in crisi del modello emiliano. Ovviamente, le vicende bolognesi dell’epoca non possono essere disgiunte dal quadro nazionale entro il quale il movimento del’77 si inserisce: l’avvicinamento tra Dc e Pci nel solco della politica del “compromesso storico”, con la nascita del governo delle astensioni, le politiche di austerità piegate verso il peggioramento delle condizioni di vita e di reddito dei lavoratori, il ruolo del terrorismo e la crisi della sinistra extraparlamentare.

Il movimento del ‘77, che non è semplicemente movimento degli studenti, al di là della sua causa “scatenante” rappresentata dai provvedimenti del ministro Malfatti sull’organizzazione degli studi universitari, esprime un malessere profondo del mondo giovanile, investito dai processi di crisi e ristrutturazione del modello sociale e produttivo dei primi anni ‘70. Che lo si voglia denominare come movimento dei “non garantiti”, secondo la celebre definizione di Asor Rosa, o come rivolta dell’ “operaio sociale”, riprendendo la teorizzazione di Toni Negri, è evidente che siamo in presenza dell’emergere di una soggettività di figure sociali, studenti, lavoratori precari, disoccupati e sottoccupati che sperimentano, prima di altri, il peggioramento delle condizioni di vita legate alla crescita degli affitti, delle bollette e dell’estensione del lavoro decentrato e precario, in particolare nelle aree metropolitane.

È un movimento che chiude la stagione del movimento studentesco e giovanile del ‘68-’69, come sarà poi la sconfitta alla vertenza della Fiat del 1980 rispetto alle lotte operaie. Non a caso, il suo tratto caratterizzante sta più nel dichiararsi estraneo alle politiche dominanti, in un moto di rivolta e di resistenza più che di alternativa alle stesse, condannandolo dapprima al ripiegamento e poi alla fine. Anche perché assolutamente non compreso nelle sue dinamiche e origini sociali dal Pci, che lo bolla come fenomeno accostabile al “diciannovismo”, senz’altro uno dei punti più bassi di tutta la stagione della segreteria di Berlinguer.

Ciò non toglie che, a Bologna e in Emilia-Romagna, il suo impatto sia devastante. Non solo perché si infrange la vetrina del modello, in questo ben rappresentato dall’entrata degli autoblindo dell’esercito nella cittadella universitaria nei giorni successivi all’uccisione di Pier Francesco Lorusso, mandati dal ministro dell’Interno Cossiga e, se non con il consenso esplicito, senz’altro senza l’opposizione aperta da parte della Giunta comunale guidata da Renato Zangheri, ma soprattutto perché si evidenzia plasticamente il venire meno della capacità di inclusione nella città dei vari soggetti che la abitano e la compongono. Se è vero, da una parte, che nel blocco sociale tra classe operaia e ceti medi produttivi non erano espressamente previsti, per semplificare, settori sociali come le decine di migliaia di studenti fuori sede che all’epoca erano parte fondamentale della struttura universitaria e che il movimento del ‘77 a Bologna individuava nella Fgci, la Federazione giovanile comunista, e nel Pci il “nemico principale”, dall’altra non si può non vedere come la rottura sociale che promana dalla realtà del movimento del ‘77 mette in discussione uno dei pilastri su cui era stato costruito il “modello emiliano”, e cioè la coesione sociale, la capacità di accoglienza, di integrazione e di messa in comunicazione e relazione positiva dei vari soggetti sociali del territorio. In questo senso, dire che le vicende del ‘77 assumono il significato della fine “politica” del modello risponde ad un dato di verità profonda, al di là del fatto che l’insieme dei fattori costitutivi dello stesso hanno una loro continuità anche dopo questa cesura temporale.

L’affermazione del neoliberismo

Ma anche questa continuità viene ben presto insidiata. Dagli anni ‘80 il mondo e anche le vicende italiane iniziano a girare in altro modo. L’affermazione progressiva della dottrina e della pratica del neoliberismo, l’incrocio tra incremento del debito pubblico e avvicinamento della costruzione europea, la fine della stagione della “solidarietà nazionale” (che non casualmente avviene al momento dell’adesione al Sistema monetario europeo) e l’inaugurazione di quella neocentrista con il patto Craxi-Andreotti-Forlani, fino ad arrivare al crollo del muro di Berlino e allo scioglimento del Pci disegnano un quadro del tutto nuovo di cui anche l’esperienza del modello emiliano non poteva che risentire. Per dirlo in estrema sintesi, si può sostenere, da un lato, che quella tensione che avevamo individuato prima tra sperimentazione in un’area regionale di un altro modello di sviluppo e necessità di un suo sbocco a livello nazionale, si risolve, in assenza del secondo, in un ripiegamento dell’esperienza emiliana e, dall’altro lato, che i nuovi vincoli introdotti a livello internazionale e la crisi economica nazionale determinano, per usare un’espressione famosa trasportandola nel nostro contesto, “l’esaurimento della spinta propulsiva” del modello emiliano-romagnolo.

Poco per volta, vengono meno i tratti forti che l’hanno contrassegnato. La struttura produttiva basata sulle piccole e medie imprese sconta la difficoltà dei distretti industriali e deve iniziare a misurarsi progressivamente con i fenomeni indotti dalla globalizzazione. Valga per tutti il destino del settore del tessile-abbigliamento-calzaturiero che, negli anni ‘80-’90 vede un suo significativo restringimento e anche un’importante ristrutturazione, sull’onda di quello che, all’epoca, non avendo ancora ben chiaro e interpretato il potente processo di globalizzazione, veniva definito come il portato sia dell’internazionalizzazione sia del decentramento produttivo.

In realtà, quello che si andava prefigurando era già l’irrobustimento di alcune aziende leader, che avrebbero poi dato vita al capitalismo delle “multinazionali tascabili” e, contemporaneamente, all’intervento del capitale finanziario internazionale nell’economia della regione. Poco per volta, l’idea del consolidamento del tessuto produttivo delle piccole e medie imprese lascia il posto al concetto di “attrattività”, inteso come costruzione di un ambiente prodotto da infrastrutture, qualità del lavoro, efficienza delle istituzioni locali volte alla facilitazione degli insediamenti produttivi. Un approccio che, però, si allontana sempre più dall’idea se non di guidare il mercato, almeno di orientarlo, limitandosi invece a mettere in campo le condizioni per cui l’attività imprenditoriale purchessia possa svilupparsi. Sorte analoga tocca anche al movimento cooperativo, che abbandona le finalità originarie di mutualità e di promozione di settori e imprese non legate alla realizzazione di profitto, per abbracciare sempre più una logica secondo la quale sono gli indicatori di mercato e di efficienza aziendale a guidare le scelte e il suo sviluppo. Questo destino di appannamento riguarda anche gli altri pilastri del modello emiliano: dal sistema di welfare, che deve misurarsi con la “crisi fiscale” dello Stato e, più in generale, con il venire meno delle teorie e delle pratiche keynesiane in Europa e nel mondo, fino alle esperienze partecipative che, una volta passata la stagione gloriosa degli anni ‘70, sostenuta peraltro anche dal forte movimento di massa che aveva pressoché investito tutti gli ambiti del vivere sociale e civile, riducono il loro raggio di azione e di coinvolgimento della cittadinanza. Fino a trasformare, nel corso del tempo, i Consigli e le Assemblee di quartiere in piccole palestre di esercizio della democrazia rappresentativa, prodromiche a percorsi politici più importanti e significativi, ma sempre entro quel perimetro. Insomma, il primato del mercato e della finanza affermato dal neoliberismo, il conseguente ritrarsi del ruolo dell’intervento pubblico e il tramontare dell’ipotesi per il Pci di esercitare un ruolo di governo nazionale segnano profondamente l’esperienza emiliano – romagnola, fino, in sostanza, a decretarne l’esaurimento definitivo che, sempre per ragionare in termini simbolici, arriva con il trauma della sconfitta elettorale della sinistra a Bologna nel 1999, che incorona a sindaco Giorgio Guazzaloca.

Il continuo logoramento del modello emiliano

Gli anni che vanno dall’ inizio del secolo ad oggi possono essere guardati come un lento e ulteriore logoramento di quello che rimaneva del modello emiliano, con ulteriori aggravanti che lo rendono sempre meno proponibile. Continua il carattere discendente della peculiarità del sistema produttivo, sempre più influenzato anche qui dal ruolo predatorio della finanziarizzazione dell’economia, da quello di importanti multinazionali e di Fondi di investimento, che fanno conoscere anche alla terra emiliana l’imperativo della massimizzazione del profitto a breve termine e dello smembramento delle attività produttive sulla base di tale logica. Procede l’appannamento del sistema di welfare: si teorizza e si pratica l’approccio del sistema misto pubblico-privato per i nidi e le scuole dell’infanzia, mentre avanza una privatizzazione strisciante nella sanità sempre più aggressiva, tant’è che oggi, soprattutto nella percezione delle persone, nel momento in cui si aggrava il fenomeno delle liste d’attesa per le prestazioni offerte dal pubblico, si depotenzia fortemente l’idea dell’universalismo dell’intervento pubblico.

Nel frattempo, anche il territorio regionale viene investito da nuove e profonde criticità, che non erano, né potevano essere comprese, nei fondamentali del modello emiliano, visto il contesto assolutamente differente nel quale si era sviluppato. Mi riferisco, in particolare, ai temi dell’immigrazione, a partire da quella extracomunitaria, su cui, anche per le scelte sbagliate messe in campo a livello nazionale, non si innesta né una riflessione adeguata né tantomeno politiche importanti di accoglienza e integrazione, contribuendo a scuotere ulteriormente la coesione e la solidarietà sociale della regione. Per certi versi, ancora più devastante è stata l’irrompere della questione ambientale, sia dal punto di vista dell’elevato livello di inquinamento dell’aria e dell’acqua presente in tutta la Pianura padana, sia dal consistente impatto sull’ambiente che l’apparato produttivo genera per quanto riguarda le emissioni climalteranti e il consumo sia di suolo che di materie non rinnovabili (con la forte produzione di rifiuti non riciclati).

Questa tema mette radicalmente in discussione una struttura produttiva che anche in Emilia-Romagna è largamente energivora e produttrice di forti emissioni che insistono sul cambiamento climatico, nonché basata su una dotazione infrastrutturale “pesante”, in particolare su strade e autostrade, che incentivano un modello di mobilità sbagliato e ambientalmente ulteriormente dannoso. Soprattutto l’emergere di questi temi propone la necessità di un vero e proprio cambio di paradigma rispetto ad un intero modello di sviluppo, che continua, invece, ad essere misurato in termini quantitativi relativi alla crescita del Pil e a pensarsi come trainato da un’industrializzazione di tutti i settori che viene considerata virtuosa in quanto tale, a prescindere dalle “esternalità” indotte sull’ambiente e sulla salute delle persone, oltre che sul modello di lavoro che produce (vedi il caso della logistica, della sua grande estensione in questi ultimi anni, che, per molti versi, può essere considerata la nuova “modernità” neoliberista). Potrei continuare con le esemplificazione anche su altri aspetti costitutivi del modello emiliano e sulle nuove criticità (un altro tema non banale è quello dell’invecchiamento della popolazione), ma ciò che mi interessa sottolineare è che, arrivati alla situazione attuale, non si può che constatare che il modello emiliano non esiste più, che anche questo territorio è ormai dominato da determinanti forgiate dalle politiche neoliberiste. Anzi, per essere ancora più precisi, penso che si potrebbe definire lo “specifico” sistema produttivo e sociale regionale come una “variante” del neoliberismo, con tratti certamente meno feroci, più inclusivi e socialmente temperati, che però sembrano più il prodotto di un’eredità che si prolunga, piuttosto che del nuovo che avanza. Qualcosa che assomiglia di più all’esperienza delle socialdemocrazie classiche, peraltro declinanti e in difficoltà proprio su questo punto.

La parabola delle politiche della giunta Bonaccini

Da questo punto di vista, emblematica è la parabola delle politiche praticate dalla giunta Bonaccini insediatasi dopo le elezioni del 2020. Qui si è sbandierato, come punto centrale del programma della legislatura che va a compimento, il “Patto per il lavoro e il clima”, proposto dalla Giunta regionale alla fine del 2020 e sottoscritto dall’insieme delle Associazioni economiche e di categoria e sul quale è stato sviluppato anche un confronto con le realtà di ispirazione ambientalista, che ha portato alla firma, poi ritirata un anno fa, da Legambiente regionale. Invece si è manifestata da subito l’opposizione di Reca, la Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale regionale, che si è costruita proprio all’indomani della nascita della Giunta e che raggruppa più di 80 Associazioni e comitati e che ha avanzato un punto di vista importante, capace di legare proprio le tematiche ambientali alla critica al modello produttivo e sociale sviluppato in Emilia-Romagna. Reca ha promosso nel mese di febbraio di quest’anno un importante convegno costruito proprio su questo nesso e rimesso al centro proprio la riflessione sul modello emiliano “che fu” e sulla necessità di una svolta profonda per il futuro.

In ogni caso, il Patto per il lavoro e il clima, da una parte, assomiglia molto alla metafora “della montagna che ha partorito il topolino”, nel senso che, a fronte degli obiettivi ambiziosi dichiarati, come quello di arrivare al 100% di rinnovabili al 2035, ben poco è andato avanti in questa direzione. Dall’altra, invece, si è proceduto in continuità con scelte regressive, come quella di approntare il rigassificatore a Ravenna, contribuendo ad affermare l’idea di fare dell’Italia “l’hub del gas”; di dare il via libera al Passante di mezzo di Bologna, che perpetua e rafforza un modello di mobilità su gomma e sull’utilizzo degli autoveicoli privati; di rendere più forte la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici fondamentali, a partire da quello idrico, per cui sono state disposte le proroghe delle concessioni, affidate prevalentemente a Hera e Iren, fino alla fine del 2027, con una legge regionale di perlomeno dubbia costituzionalità.

Non è possibile, poi, sottacere il fatto che una delle scelte “qualificanti” della Giunta Bonaccini sia stata quella di attivarsi per procedere lungo il percorso dell’Autonomia differenziata della regione. In modo, se si vuole, un po’ meno spinto da quello praticato dalle regioni Lombardia e Veneto, ma sempre inserendosi in quel solco, decisamente negativo e lesivo dell’universalità dei diritti sociali. Sancendo anche per questa via l’abbandono di un approccio che si era sempre contraddistinto per sperimentare l’ampliamento dei diritti stessi con l’intenzione che si potessero estendere all’intero Paese.

Potrei andare ulteriormente avanti su questo piano, ma mi interessa, in termini conclusivi, soffermarmi su un ultimo punto, che è però assolutamente dirimente rispetto al giudizio sulla fine del “modello emiliano”. Nel settembre 2022, Reca e Legambiente Emilia-Romagna hanno promosso 4 proposte di leggi di iniziativa popolare sui temi dell’acqua, dei rifiuti, dello stop al consumo di suolo e di una spinta forte verso le energie rinnovabili, sostenute da più di 7000 firme di cittadini emiliani. Ebbene, oggi, a quasi un anno e mezzo di distanza da quando esse sono state assegnate alle Commissioni consiliari competenti nel novembre 2022, tempo entro il quale dovrebbe arrivare la conclusione del loro iter legislativo, la discussione su queste proposte di legge non è nemmeno iniziata. Una parabola, che la dice lunga, visto che dal valore della partecipazione democratica si è passati al vederla come fastidio e problema. E che pone con forza, anche in Emilia Romagna, la necessità della progettazione di un nuovo modello produttivo, sociale e ambientale, che fuoriesca dal neoliberismo e dal capitalismo. Ma, ovviamente, questa è un’altra vicenda, che pone il tema in termini generali di sistema e che ben difficilmente potrà semplicemente essere affrontata sulla base di un modello territoriale

In copertina: Renato Zangheri in piazza a Bologna

Lo stesso giorno /
20 maggio 1970: approvato lo Statuto dei Lavoratori

20 maggio 1970: approvato lo Statuto dei Lavoratori

La legge n. 300 del 1970, conosciuta come Statuto dei Lavoratori, è una delle leggi più importanti nella storia del diritto del lavoro in Italia.
Fu approvata dal Parlamento italiano il 20 maggio 1970 e introdusse numerose tutele per i lavoratori, come la libertà sindacale, il divieto di licenziamenti discriminatori e l’istituzione dei Consigli di Fabbrica.

Il Partito Comunista Italiano (PCI), pur essendo storicamente il partito più vicino alle istanze dei lavoratori, non votò a favore della legge.
La ragione principale di questa scelta risiede nelle modalità di approvazione e nel contesto politico dell’epoca. In sostanza riteneva che le misure proposte nella legge fossero insufficienti per garantire una protezione adeguata ai lavoratori.

Sono gli “Anni di piombo”, con il PCI all’opposizione di un governo di centro-sinistra guidato dalla Democrazia Cristiana (DC). Votare a favore della legge avrebbe significato legittimare un’azione governativa che riteneva inadeguata e insufficiente rispetto alle loro richieste e ideali.

Per Enrico Berlinguer (Vice Segretario del Partito Comunista Italiano): “Lo Statuto dei Lavoratori rappresenta un passo avanti importante, ma insufficiente. Le nostre proposte, che includevano misure più incisive per la tutela dei lavoratori, non sono state accolte. Continueremo a lottare per una società più giusta e per la piena realizzazione dei diritti dei lavoratori.”

Soprattutto la non copertura della tutela dei lavoratori nelle aziende con meno di 15 dipendenti, era e rimane un nodo cruciale per la sinistra.

L’articolo 1 dello Statuto recita: “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge

Il più importante articolo dello Statuto, almeno mediaticamente, rimane probabilmente l’art.18, ormai superato dal Jobs Act del governo Renzi e dalla riforma Fornero, che regolava la disciplina dei licenziamenti illegittimi e rappresentava una delle principali tutele per i lavoratori.

Per certi versi
A Pat Tillman

A Pat Tillman

Ehi vecchio Pat
A football americano
Eri un divo

Poi
Quel giorno
Undici
Di settembre
Ti cambiò la vita
Al posto dell’ elmo
Prendesti un elmetto
Invece che la palla
Le pallottole
Ti mandarono
Te
Eroe antico
Nella terra dei papaveri
La meta così divenne
La tua ultima
Partita
Dissero
Vecchio Pat
Fuoco amico
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
La canzone dell’alirón

C’è un’espressione piuttosto curiosa che da circa un secolo viene usata dagli spagnoli per indicare la celebrazione di una vittoria in ambito sportivo: si dice infatti che una squadra canta o intona il cosiddetto alirón nel momento in cui conquista un trofeo. Però, ancora oggi, non c’è una traduzione letterale di questa parola, e la sua origine è ufficialmente sconosciuta.

Ad affermare tutto ciò è la Real Academia Espanola, cioè l’organismo che elabora le regole linguistiche dello spagnolo. Infatti, dopo aver classificato per anni la parola alirón come un’espressione derivante dall’arabo e al’en, che significa “proclamazione”, nell’edizione 2014 del suo dizionario la RAE si è arresa all’evidenza e ha confermato che l’origine di quest’espressione è ancora ignota. Sul suo conto si rincorrono leggende e ricostruzioni di vario tipo; quindi, per semplificarci la vita, prenderemo in considerazione le due ipotesi più chiacchierate, nonché le più attendibili.

Cominciamo con la versione più colorita, la quale racconta che l’utilizzo festoso di alirón ha origine nei paesi Baschi, e precisamente nelle miniere di ferro di Ortuella, una piccola cittadina situata a circa dieci chilometri da Bilbao. Qui, al termine del 1800, i minatori locali lavoravano solitamente per ingegneri e dirigenti inglesi, giunti nel nord della Spagna sul finire della prima rivoluzione industriale.

Il salario dei minatori dipendeva dalla purezza del ferro estratto, e quando una miniera conteneva il ferro più puro possibile gli ingegneri inglesi ponevano al di fuori di essa un cartello con su scritto all iron, cioè “tutto ferro”. Questo, per gli operai, significava il raddoppio della paga: va da sé, quindi, che la sola lettura del cartello suscitava grande gioia tra gli stessi minatori, i quali probabilmente storpiarono la pronuncia inglese all iron con lo spagnolo alirón.

Tuttavia, alcuni storici e linguisti spagnoli sostengono che questa ricostruzione sia inattendibile, in quanto, secondo loro, è molto probabile che i minatori dell’epoca fossero del tutto analfabeti. Quest’ipotesi resta comunque una delle più accreditate assieme a quella, forse più plausibile, che coinvolge lo stile musicale denominato cuplé, ossia un misto tra canzone popolare e cabaret molto in voga in Spagna a cavallo tra il 1800 e il 1900.

La nascita della cosiddetta canzone dell’alirón si ha nel 1913 grazie alla musica del compositore madrileno Gaspar de Aquino e alle parole dello scrittore Álvaro Retana. La prima voce ad intonare questa canzone fu quella della ballerina, nonché cupletista, Marietina, che cantò il brano al Teatro Romea di Madrid: l’esibizione un po’ irriverente e giocosa di Marietina ebbe un gran successo, e la canzone dell’alirón cominciò a essere interpretata  da numerose cantanti e ballerine in tutto il paese. 

La sera di Capodanno del 1913, un’altra cupletista chiamata Teresita Zazá propose il brano al Salon Vizcaya di Bilbao; ed è qui che nacque l’accezione sportiva della canzone, la quale, originariamente, parlava in modo piuttosto generico di un inno festoso che riecheggiava per le strade di Madrid. Infatti, sembra proprio che quella sera di Capodanno, il pubblico basco abbia chiesto alla stessa Teresita Zazá di modificare il testo, e in particolar modo il finale del ritornello.

Così, per completare la rima con la parola alirón, pare che sia stata inserita la frase el Athletic campeón: un evidente riferimento al fatto che, in quegli anni, l’Athletic Bilbao era una delle squadre più titolate di Spagna. Da quel momento in avanti, la canzone viene associata alla celebrazione sportiva, e il suo testo è stato modificato a più riprese sia dagli autori originali che dalla stessa tifoseria basca.

Adolescenti in difficoltà, scuola a pezzi

Adolescenti in difficoltà, scuola a pezzi

Cresce il numero degli adolescenti “problematici”, sia ad avviso dei genitori che ad avviso degli insegnanti. Bambini dolci che si trasformano ad un certo punto in adolescenti o giovani ribelli, raccontano balle e vogliono solo i tuoi soldi. Un fenomeno che mette in crisi parecchi genitori, i quali si interrogano su cosa hanno sbagliato. Il fenomeno non è nuovo, come vedremo, ma negli ultimi 3 anni si è accentuato non poco.

La prima causa che mi viene in mente è il Covid: aver lasciato (colpevolmente) a casa da scuola per un tempo eccessivo (l’Italia ha il record mondiale) questi giovani, averli costretti a una forma di fatto di deresponsabilizzazione sia per lo studio (impossibile) on line, averne minato le relazioni in una fase cruciale della vita e aver deresponsabilizzato anche i genitori. Purtroppo adesso e nei prossimi anni raccoglieremo gli errori di una gestione sbagliata da parte delle istituzioni che hanno rubato, senza alcuna base scientifica, relazioni e vita a giovani che le hanno trasformate in rabbia e ribellione.

Il fenomeno, come dicevamo, non è nuovo se anche nell’antichità Socrate (470 a.C), Esiodo (720 a.C.) ed altri, ancora più antichi, si lamentavano dei loro giovani (..la nostra gioventù è marcia…) e se Umberto Galimberti nell’ultimo suo libro (L’ospite inquietante, Il nichilismo e i giovani, ed. Feltrinelli) riporta un articolo di Marco Lodoli su La Repubblica uscito il 4 ottobre 2002 (21 anni fa!) dal titolo “Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare” che dice: “A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro…La mia non è una sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti sovraumani, di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio…In ogni classe ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno di un sostegno, non per un qualche handicap fisico o qualche grave disturbo mentale. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi…Loro sono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi sempre nelle stesse condizioni…Non riescono a ragionare su nessun argomento perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa”.  Potrà essere di consolazione per tanti genitori e insegnanti che non sanno più cosa fare, ma non cela il fatto che da allora le cose si sono molto aggravate ovunque (dai Licei ai Professionali).

Cresce il numero di studenti che in classe non seguono le lezioni, disturbano, hanno raggiunto livelli spesso incompatibili con il normale funzionamento e fanno rallentare, se non regredire, l’apprendimento di tutta la classe. E crescono anche gli studenti con problemi di apprendimento (Dsa) da 233mila del 2017 a 311mila nel 2023, per cui sono passati da 1 a 33 a 1 a 23.
Sono cresciuti anche gli insegnanti di sostegno (da 137mila del 2017 a 220 mila nel 2023, per 5 miliardi di spesa), ma la situazione è sempre più critica anche perché il 60% di questi docenti di sostegno cambia ogni anno (e quasi mai sono adeguatamente formati).
Le Università che rilasciano il titolo sono quasi tutte al Sud, mentre i posti sono quasi tutti al Nord: per cui c’è anche un crescente abbandono di questi corsi – gli ultimi concorsi vedono un iscritto ogni 20-30 cattedre (48 candidati per 1.367 posti in Piemonte alle elementari, 171 per 4.111 in Lombardia, 63 per 1.403 in Veneto). I posti vacanti saranno coperti (se va bene) da studenti universitari senza alcuna preparazione, quando questi studenti fragili (in forte crescita) hanno diverse problematiche che richiederebbero preparazione specialistica. C’è poi il problema delle materie scientifiche alle superiori (matematica, fisica, informatica, chimica) che hanno meno della metà dei candidati rispetto ai posti disponibili. Nelle scuole di periferia più turbolente c’è chi si rifiuta di insegnare a costo di perdere il lavoro: in generale non c’è docente che non si lamenti per la fatica nell’insegnamento.

Ci sono cause aggiuntive, contemporanee di questo “disagio” giovanile? Della gestione sbagliata del Covid ho già detto. Aggiungo:

– l’arrivo della “modernità” digitale che riduce la curva di attenzione e concentrazione per qualsiasi cosa;

– la mancanza di fratelli e sorelle, di genitori che stanno insieme, di una vita di relazione con amicizie non puramente virtuali;

– una scuola impostata su modelli di apprendimento basati sulla sola istruzione e non anche sulla sperimentazione. La scuola in effetti non è mai cambiata, mentre lo sono (e molto) i giovani di oggi.

I ragazzi che stanno sui social precocemente (il 40% già dagli 11 ai 13 anni, fonte Save the children) non solo cercano like e followers, ma vedono amplificati bullismo e ferite che sono sempre esistite ma che ora diventano oggetto di scherno pubblico, producendo depressione specialmente nelle ragazze.

Se il mondo reale ha fatto progressi enormi dal punto di vista soprattutto tecnologico, quando entri in classe la ritrovi sostanzialmente, in termini di istituzione “ufficiale”, come era un secolo fa: lavagna, cattedra e banchi. Gli insegnanti più appassionati usano mille strategie per motivare, fanno lavorare a gruppi, usano il cooperative learning in scuole piene di LIM, computer, ma il digitale sembra paradossalmente avere addirittura sfavorito l’apprendimento, al punto che ci sono scuole (Albertini di Roma[1]) che rifiutano una ulteriore digitalizzazione. L’idea che tutto ciò che è moderno o tecnologico sia sempre meglio di qualsiasi tradizione – o forse senza più un minimo substrato in grado di stabilire connessioni tra i fatti, come denunciava Marco Lodoli  rischia di consegnarci ad una crescente disumanizzazione.

Che fare? Da un lato crescono pulsioni d’ordine, in parte anche dell’attuale Ministero dell’Istruzione, che si traducono nella reintroduzione del voto in condotta che, se insufficiente, porta alla bocciatura. C’è chi poi propone di tornare a classi differenziate (a prima del 1977) dove mettere chi disturba e non vuole seguire, lasciando gli altri (che sono la maggioranza) liberi di poter apprendere senza continue vessazioni dei pochi disturbatori. Lo spirito del tempo mi fa dire che è una soluzione gradita alla maggioranza di genitori e docenti, ma non è la via giusta.

Chi si oppone richiama l’importanza dell’”inclusione”, una conquista degli ultimi decenni, che resta però astratta per la mancanza di idee e di supporti reali e risorse (difficile fare riforme senza soldi). L’inclusione si può praticare se le classi sono piccole, se chi disturba sono 2-3 alunni su 18-20, se i docenti di sostegno sono sempre gli stessi e sono preparati, se la scuola ha laboratori che consentono di affiancare sperimentazione ad istruzione[2], se usa il viaggio come formazione, se evita di lasciare seduti al banco come detenuti gli studenti per 36 ore settimanali, ormai più del tempo medio di lavoro dei loro genitori. Ma tutto questo non accade, se non in poche virtuose eccezioni. Le risorse per la scuola si sono ridotte, i viaggi non si fanno più (per via della mitizzazione della sicurezza fisica che poi genera insicurezza interiore), tantomeno si è avviato un apprendimento da sperimentazione; infine le classi sono quasi sempre troppo numerose.

O si lascia che le cose declinino gradualmente fino al punto di rottura, o si interviene con un cambio di passo investendo maggiormente nella scuola, ritornando a destinarvi più del 4% del PIL, com’è stato per 40 anni.

Ma tutto ciò non basta. Occorre lavorare sulla sperimentazione che consenta agli studenti più “ribelli” (oppure semplicemente a chi non gradisce stare in aula seduto sei ore al giorno) di seguire percorsi personalizzati per loro più interessanti, apprendendo dalla vita e dal lavoro. Si potrebbe per esempio cambiare completamente l’attuale alternanza studio-lavoro, trasformandola da “professionalizzante” a “universale”. Offrire l’opportunità di fare un’esperienza all’interno di una équipe di lavoro in un’azienda qualificata, in cui vi sia reciproca scelta tra impresa e studente, per un mese o due in modo da apprendere sul campo le competenze sociali ma anche quelle concettuali. Questi studenti dovrebbero essere seguiti sia da un tutor aziendale che scolastico, un vero accompagnamento in aziende che saranno anche scelte da loro sulla base di colloqui con caratteristiche, appunto, di reciprocità. Non si tratta di usare il lavoro in un’ottica professionalizzante, ma come mezzo di apprendimento universale, di concetti e di socialità (anche perché sappiamo che 2/3 studiano X e faranno Y). Ma per fare ciò servono risorse e un vero accompagnamento personalizzato.

[1] Al Liceo classico Albertelli di Roma genitori e insegnanti hanno rifiutato i 300mila euro del Pnrr per modernizzare la scuola 4.0. Il progetto promosso dal dirigente prevedeva di formare esperti del web (video making, produttori di musica digitale, Manager Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor e altre figure simili). Si noti l’abuso dell’inglese che fa tanto Italietta “provincia dell’impero”. Docenti e consiglio vogliono invece un potenziamento dei laboratori di chimica, informatica, e la digitalizzazione dell’antica biblioteca. La scuola è già ampiamente dotata di tecnologie (41 smart tv, 7 proiettori, 49 pc notebook, 41 pc desktop,…) ma il dirigente voleva ancor più “modernizzare”. Docenti e genitori contestano la formazione di “operai acritici del digitale”, disarticolando il gruppo-classe e disinvestendo sulla preparazione necessaria per comprendere la complessità del mondo. 

[2] In Finlandia al liceo classico hanno introdotto la falegnameria come materia di base, in quanto si sono resi conto che l’ingaggio cognitivo che oggi viene richiesto ai giovani in molti lavori, ha bisogno di un pensiero critico e non solo di combinare algoritmi al ritmo di 1 e 0, di una capacità di innovare e non solo di risolvere problemi e che queste capacità vengono soprattutto dalle materie artistiche e manuali. L’uso delle mani favorisce infatti non solo l’abilità motoria ma le connessioni neuro-cerebrali e la capacità di sviluppare un pensiero e un sentire sono legate alle relazioni, al lavoro di équipe e non al digitale.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Storie in pellicola / Un magnifico Leo Gullotta nel corto “Vecchio”, di Dino Lopardo

Nel cortometraggio “Vecchio”, del regista lucano Dino Lopardo, un fantastico Leo Gullotta veste i panni di Aldo, un anziano signore che vive in una RSA. Il dramma della solitudine.

“La morte non arriva con la vecchiaia ma con la solitudine”, diceva Gabriel Garcia Marquez.

E il cortometraggio “Vecchio”, del regista lucano Dino Lopardo, parte proprio da qui.

Sullo schermo scorrono immagini in bianco e nero di un uomo alla finestra che aspetta. Aspetta i familiari che non arrivano, amici che non ci sono, gesti e attenzioni che non arrivano, note che non suonano, libri che non si aprono, il momento senza ritorno.

Aldo, interpretato da Leo Gullotta, non parla. Davanti a uno specchio esegue gesti di rituali quotidiani. Barba e profumo. In quella RSA senza colori, è solo, con lui solamente i ricordi di compleanni e feste in famiglia, la musica, i rimpianti, le fotografie, il passato che non ritorna. Non servono parole, sono i primi piani e i piccoli passi a parlare.

La sceneggiatura è semplice, non ha forti contrasti, ma la regia si sofferma con potenza e forza sui particolari del volto di Aldo, sulle sue rughe scavate come solchi, sui gesti, sugli occhi, sui movimenti lenti, goffi e pesanti, sui piedi che si trascinano, sul pigiama sgualcito.

Tutto è, in realtà, sgualcito, lo stesso utilizzo del bianco e nero dà una sensazione di vita che se ne va, rimasta senza toni, senza più passioni. Di abbandono senza un perché.

Una musica fra i ricordi e gli oggetti, regalati dai figli e dai nipoti all’anziano signore, assumono un significato speciale e divengono il simbolo di un sentimento autentico e cristallino. Dolcezza infinita nello scartare un regalo nel giorno del proprio compleanno.

Nell’immensa malinconia che le immagini di tanta solitudine ci portano, c’è, tuttavia, un’infinita tenerezza in questo anziano che attende, ormai al crepuscolo.

Un messaggio per tutti, il grido di non abbandonare coloro che ci hanno cresciuto e amato. Tema drammaticamente attuale.

Un corto che parla all’anima. Porgendoci una rosa, con un sorriso che lascia sperare.

Il corto è interamente visibile su RaiPlay (qui)

Parole a Capo
Maria Mancino: Una memoria che resiste all’incedere del tempo

Da qualche mese è uscita la nuova prova poetica di Maria Mancino, in arte “Maggie”. Un titolo “La memoria della betulla” (Il Babi Editore, gennaio 2024) che unisce ricordi/memoria con l’immagine della betulla, una pianta flessibile, molto resistente e capace di resistere anche in luoghi molto poveri di risorse. C’è un costante confronto, incontro, allontanamento tra l’illusione e la realtà. Un paio d’esempi:

Gioco d’azzardo

Punto sul nero degli occhi
e non vinco
Punto sul rosso del sangue
e perdo

Gira e gira la ruota
si ferma su numeri senza valore
riempie le tasche di falsi denari
e sfida la sorte
che ha negli occhi la morte

Gioco d’azzardo con la mia vita
punto tutto su quella che sono
e gioco a difendere
ogni illusione

 

Mentre tornava la luce

Avverto il destino di un filo
che penzola tra due tralicci
senza energia
Non vi è amore nello spazio
tra il metallo e il taglio
solo i battiti d’ali
di un falco che non sa
Ho scritto parole feroci
per condannare lo squarcio
L’illusione ha cancellato il significato
mentre tornava la luce

Tra le parole chiave, emerge “prepotente” il tema della notte. La notte è spesso fonte di ricordo, di sogni che si combinano in maniera strana. Appaiono persone, situazioni paradossali. Non so se succede anche a “Maggie” ma a me succede di alzarmi nel cuore della notte e prendere una matita e un foglio per impressionarvi parole che mi chiedono di non essere dimenticate dall’arrivo del mattino. A volte emerge il dolore e fare i conti con questo stato d’animo è difficile, troppo spesso impari, ma il cuore mi/ci dice che non ci si deve arrendere mai, per cercare di rinascere.

Che era notte

Ho sentito il dolore
squarciarmi dentro
come un aratro che
affonda il terreno

Ho annusato il sangue
l’ho assaporato
come fosse cibo

Ai piedi della morte
ho seppellito la paura
e dal suo ventre
sono rinata

Che era notte

 

Aspetto l’alba

Si riversa nel cuore la pioggia
come fosse di pianto e di sangue
Dalle pozzanghere farà sparire
il ristagno
e ai fiumi ruberà gli argini
Aspetto l’alba bagnata
e il sorriso umido
di chi della notte
ne ha fatto il suo giorno

Il duro richiamo della realtà, della brutalità di un mondo bugiardo e insensibile emerge, in particolare, in due poesie:

Come avvoltoi

Come avvoltoi le nuvole
possiedono il cielo
in un volo di morte
La solitudine si prostituisce
all’aria nuda del mattino
Un uomo vestito di silenzio
rovista nelle tasche
in cerca di parole

 

Sui sedili di un treno

Occhi saldati sulle pieghe
sporche di vestiti rotti
dal lungo viaggio
e tra lunghi capelli
unti di indifferenza
Nessuna possibilità s’intravede
tra le catene che cingono colli e polsi
e negli sguardi fissi che osservano
Come fosse l’adolescenza
una vetrina del particolare
Eppure sono così belli
sotto l’ingenuo addobbo
di una violenta apparenza
Testimone del pregiudizio
buco l’aria con il respiro
mentre il treno annuncia
la mia fermata

In quest’ultima poesia s’intreccia anche il tema degli adolescenti questi sconosciuti.
“La memoria della betulla”, nella sua apparente semplicità, ci riporta immagini e situazioni d’infanzia. L’infanzia di Maggie quando “crescevano poesie”. A conclusione di questo breve excursus, voglio ripartire dal filo naturale che dà corpo a questa intensa silloge.

La memoria della betulla

Ti scioglierò le trecce vita mia
ai piedi di una betulla nera
ti slegherò dai lacci di falasco
aggrovigliati intorno al capo

Terrò legati i tuoi tormenti
al tronco dell’albero maturo
e su corteccia bianca
scriverò come fosse carta

Ti aspetterò nutrendomi
di linfa zuccherina
e quando una notte tornerai
ti leggerò nuove poesie

e del passato soltanto la betulla
se ne ricorderà

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Parole e figure / Premio Nati Per Leggere 2024

La casa editrice bolognese Pulce porta a casa due importanti riconoscimenti: vince il premio nazionale Nati per Leggere con il libro “Dov’è il drago?” di Leo Timmers, talentuoso e ironico autore e illustratore belga, amatissimo dai bambini che l’hanno votato nella categoria “Crescere con i libri”.

Tre cavalieri un po’ tonti vanno alla ricerca di un drago perché il loro re non può andare a letto finché non saprà che la bestia è stata sconfitta. I due uomini sanno tutto sui draghi e, armati fino ai denti, iniziano la ricerca. Alla luce fioca di una candela, si incamminano nella notte buia e trovano qualcosa che assomiglia molto a un drago… Carica! Ma non è il drago! Da Bridgman a Maria Enrica Agostinelli, la consolidata tradizione del “sembra ma non è”, tra ombre e sagome da indovinare, si conferma fonte di preziosi stimoli per i piccini, ma soprattutto un grandissimo divertimento.

Un ingegnoso gioco di luci e ombre che generano un equivoco dopo l’altro, incantando grandi e piccini, perché niente è mai come sembra.

Il secondo traguardo è la vittoria del premio nazionale Nati per Leggere nella categoria 6-18 mesi con il libro “Mela Merenda” con la seguente motivazione: per le immagini fotografiche calde e di immediata riconoscibilità e per la qualità sonora del testo che incoraggia la produzione verbale, la ripetizione e la lettura dialogica.

Il titolo fa parte di un progetto editoriale rivolto alla primissima infanzia, nato dalla collaborazione tra Elisa Mazzoli, Elena Spagnoli Fritze e Cristina Petit. Dopo “Mela Merenda”, il progetto si prefigge di accompagnare i piccoli lettori in tutte le fasi successive della crescita con una serie di titoli di prossima uscita.

Alla semplicità di “Mela Merenda” è sottesa una grande attenzione allo sviluppo del linguaggio che procede, pur nelle diversità tra i bambini, per tappe consecutive e naturali. Quando alle prime vocali emesse si aggiungono le consonanti, dalla vocalizzazione si passa alla lallazione, e ci si diverte a sentire la propria voce che ripete, accosta, riproduce, canta, dice. Lo sbocciare di queste competenze di linguaggio e ascolto è concomitante all’affinarsi della vista e i neuroni specchio si attivano immediatamente quando gli occhi agganciano un’immagine familiare. Da qui la scelta di utilizzare delle immagini fotografiche, selezionate prima di tutto in relazione alla sillaba scelta e raffiguranti oggetti conosciuti e di uso comune e quotidiano come la mela, la banana, il ciuccio, la palla… La scelta del tipo di fotografie, dello sfondo bianco, dell’inquadratura, della prospettiva e del colore è a servizio della massima leggibilità e accessibilità.

Il cartonato “Mela Merenda” è uno dei primi libri dell’abbraccio fra adulto e bambino. Educativo.

“l’Angolo del caffè”: far colazione in mezzo ai libri

“l’Angolo del caffè”, un posto dove si beve, si legge, e si conversa

Un dato positivo, nella generale transizione culturale che stiamo attraversando con l’egemonia della tecnologica comunicazione “veloce e breve”, è che pare che la cultura del libro abbia una sua tenuta. Alla chiusura del salone internazionale del libro di Torino, il Sole 24 ore, sulla base dei dati dell’ Associazione italiana degli editori riporta un aumento nella vendita  di 13 milioni di libri rispetto al 2019.
Il dato interessante è che le librerie consolidano nel 2023 la loro posizione come primo canale di vendita, mentre calano gli acquisti online. Il dato viene interpretato come una precisa scelta dei lettori che preferiscono un contatto fisico con la libreria e con il libro, oggetto culturale per eccellenza, nel momento dell’acquisto. Crescono parallelamente le esperienze di lettura senza acquisto sia promosse dalle biblioteche, sia dai Comuni (come il libro lasciato a disposizione  sulla panchine, o le casette dei libri a Trento). L’esperienza del “book bar”, diffusa da anni nel nord Europa  e in via di affermazione nelle principali città italiane, si inserisce in questa offerta di lettura gratuita nei momenti di relax, contaminandola con la consumazione di un drink e di qualcosa da mangiare.

È questa la filosofia a cui si ispira la titolare de “l’Angolo del caffè”, Giulia Alice Cristofori,  che destina una parte dell’ampio locale (170 m2) alla conversazione e alla lettura, fornendola di tavoli, divano e librerie ad albero, riempite da libri ricevuti in dono dai clienti , che  a loro volta possono  leggere sul posto i libri o portarseli liberamente a casa.

La coraggiosa impresa  di Giulia Alice è  ancor più lodevole per collocarsi nel quartiere Corti di Medoro, quartiere riqualificato, sorto sulle ceneri del tristemente famoso (per i ferraresi) Palazzo degli Specchi.

Il locale (fornito di tavolini all’aperto) si affaccia una graziosa piazzetta, curata e miracolosamente silenziosa, essendo collocata a pochi metri dalla trafficata via Beethoven, circondata da gradevoli condomini residenziali.  Si affacciano sulla piazzetta, oltre al bar di Giulia, un negozio di ottica e  una lavanderia a gettoni; poco distante, uno studentato e una palestra in via di ristrutturazione. Nel complesso la sensazione, recandomi sul posto, è stata di tranquillità e pace, di quei luoghi che sorgono nelle caos cittadino come luoghi protetti, ma non isolati.

Un dato molto sentito per me  come donna è la possibilità di stare sola e in sicurezza al bar, luogo che nel passato era tradizionalmente riservato agli uomini e che, se non per una passaggio velocissimo,  frequentavo sempre accompagnata.

Si nota che la riqualificazione del quartiere è ancora in itinere, e in questo senso il locale di Giulia Alice si può definire come un vero e proprio servizio al quartiere, luogo di socializzazione, dove è possibile incontrarsi, consumare il pranzo a prezzi modici, stare in pace leggendo un libro.
Le potenzialità del locale,  vanno  comunque ben oltre quello di essere un prezioso luogo di aggregazione per i residenti, ma possono svilupparsi nella direzione di essere luogo di promozione di eventi culturali, presentazione di libri, dibattiti e conferenze. L’idea con cui Giulia Alice ha avviato il suo locale è quella infatti di offrire alla clientela un luogo di crescita culturale, di condivisione e di scambio, di confronto e di studio. Le dimensioni del locale e la disponibilità di Giulia Alice sono dei punti di partenza favorevoli allo sviluppo dell’iniziativa. Un luogo da scoprire e frequentare: la prossima parola spetta alla cittadinanza.

La precarietà non crea lavoro.
Intervista all’economista Emiliano Brancaccio

La flessibilità fa aumentare i profitti e riduce i salari, non aumenta l’occupazione. Lo spiega l’economista Emiliano Brancaccio

di Roberta Lisi
(pubblicato su Collettiva del 13.06.24)

E per di più, forse soprattutto, ha indebolito fortemente il sistema produttivo italiano. Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio, autore di ricerche sugli effetti della precarietà del lavoro pubblicate da varie riviste accademiche internazionali, illustra come sia la ricerca scientifica a certificare che i fautori della precarietà avevano e hanno obiettivi diversi dal creare lavoro di qualità. E i referendum della Cgil sono un utile strumento per cominciare a cambiare modello sociale ed economico.

È vero, come dicono i sostenitori del Jobs Act, che la libertà di licenziamento crea lavoro?

I sostenitori del Jobs Act si basano sul fatto che negli anni successivi all’approvazione di quella legge si è verificato un incremento dell’occupazione. A loro avviso, questo sarebbe in quanto tale sufficiente per sostenere che queste norme che precarizzano il lavoro creano occupazione. Questo modo di ragionare è totalmente estraneo al metodo scientifico. Non sta in piedi perché trascura tutte le altre variabili che sono in gioco e che concorrono a determinare l’occupazione. Non tiene conto, ad esempio, del fatto che dopo l’approvazione del Jobs Act si è messa in campo una politica economica sempre più espansiva, che chiaramente ha favorito l’occupazione. In un certo senso, il modo di pensare degli apologeti del Jobs Act somiglia al discorso dello stregone. Uno stregone dice: se fai la danza della pioggia e magari subito dopo cade la pioggia, allora deve essere la danza ad aver provocato la pioggia. Un ragionamento ridicolo, eppure molto diffuso.
Se invece guardiamo alle evidenze scientifiche?
La letteratura scientifica, che cerca di capire se la precarizzazione del lavoro abbia accresciuto i livelli di occupazione, ci dice che una relazione statistica tra precarizzazione e maggiore occupazione non esiste. L’88 percento degli studi scientifici pubblicati su riviste accademiche internazionali nega che il precariato crea posti di lavoro. È un risultato empirico talmente forte che persino istituzioni notoriamente favorevoli alla liberalizzazione del mercato del lavoro come il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse e la Banca mondiale, magari a denti stretti e malvolentieri, lo hanno dovuto ammettere.

Se non è funzionale all’occupazione, allora a che cosa serve la precarietà e a chi conviene?

L’evidenza empirica anche su questo punto è lampante: ogni volta che si riducono le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, cioè ogni volta che si accresce la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, si verifica anche un calo delle retribuzioni reali e una diminuzione della quota salari sul prodotto interno lordo, il che comporta pure un aumento della quota profitti e della quota rendite sul prodotto interno lordo. Richard Freeman, dell’autorevole National Bureau of economic Research, sintetizza questi risultati empirici dichiarando che la flessibilità del lavoro non aiuta l’efficienza della produzione, non accresce i volumi di produzione, ma determina semplicemente la distribuzione del reddito tra capitalisti e lavoratori che si crea con quella produzione. In altre parole, la flessibilità del lavoro non ha a che fare con l’efficienza del capitalismo ma con la lotta di classe nel capitalismo, che è cosa ben diversa.

Si può affermare, allora, che l’aumento della precarietà nel lavoro è una delle ragioni per le quali in Italia i salari sono saliti meno che in altri Paesi europei e sono comunque sono tra i più bassi?

In un quarto di secolo, l’Italia ha visto precipitare gli indici di protezione del lavoro in misura molto più accentuata rispetto alla media dei Paesi europei. Questo è certamente uno degli elementi che hanno concorso alla stagnazione salariale italiana. Però il problema è per certi versi più generale. Di fatto, in Italia abbiamo adottato una politica economica che ha assecondato lo sviluppo di un sistema di piccole imprese frammentate, scarsamente efficienti, molto spesso capaci di restare sul mercato solo grazie a prebende pubbliche, evasione fiscale, bassa sicurezza e precariato. Da qui è scaturita la crisi di produttività, il declino competitivo e quindi anche i bassi salari.

I referendum della Cgil, oltre a restituire maggiori tutele e maggiore e dignità al lavoro, possono essere anche un elemento di contraddizione in questo meccanismo perverso del capitalismo italiano, un modo per invertire la tendenza?

Da decenni abbiamo a che fare con una tendenza al degrado del capitalismo nazionale. Potremmo dire che è tempo di mettere “una zeppa” nell’ingranaggio, un “granello” di sabbia nel meccanismo generale della crisi di produttività. Possiamo interpretare l’iniziativa referendaria anche in quest’ottica.

E potrebbero anche innescare quel movimento che contribuisce a svegliare un po’ le coscienze?

Indubbiamente le giovani generazioni stanno offrendo testimonianze di un risveglio delle coscienze, delle iniziative politica, delle istanze di lotta. I referendum della Cgil potrebbero rappresentare anche un modo per intercettare questo nuovo vento di rinnovamento, di ripresa di lotte di emancipazione che vengono dai più giovani. Sarebbe una delle rare occasioni in cui, come dire, gli adulti si mettono in sintonia con questo nuovo vento che viene dai più giovani. Sarebbe anche ora, direi.

 

Serata Dance Party a sostegno di Anna Zonari Sindaca
mercoledì 15 maggio, dalle ore 19,00 al Black Star

Serata Dance Party a sostegno di Anna Zonari Sindaca

Una serata di musica ‘70-’80 con Lufer al Circolo Black Star per  contribuire alla campagna elettorale di Anna Zonari Sindaca. Ferrara,
mercoledì 15 maggio – dalle ore 19,00La lista La Comune – Anna Zonari Sindaca è lieta di annunciare una serata speciale di musica degli anni ’70 e ’80 con Lufer, alias Luca
Ferraglia, eclettico artista e designer, nonché appassionato DJ per le occasioni speciali.  L’evento si terrà mercoledì 15 maggio, a partire
dalle ore 19, presso il Circolo Black Star, situato in via Ravenna 104.

Durante la serata, gli ospiti avranno l’opportunità di gustare un delizioso apericena (al costo di 5€ presso il bar del circolo), mentre
saranno intrattenuti da una selezione di musica vintage, curata personalmente da Lufer. Inoltre, sarà possibile partecipare a una
lotteria per contribuire al finanziamento grass-roots della campagna elettorale di Anna Zonari, candidata Sindaca alle prossime elezioni
amministrative. Il primo premio della lotteria sarà un emozionante giro sul famoso tandem simbolo di Anna Zonari.

Questa serata promette di essere divertente e coinvolgente per tutti i presenti e vi invitiamo a partecipare. La musica diventa qui un
linguaggio universale di pace.

Ringraziamo Lufer e il Circolo Black Star per la loro generosità nell’organizzare questa iniziativa a sostegno della campagna elettorale

La Comune di Ferrara

L’obbligo della pace:
la lezione di Maria Zambrano e Simone Weil

L’obbligo della pace

Dopo tante guerre combattute (e troppe ancora in corso), in teoria, tutti dovrebbero votare per la pace e deporre tale voto almeno nell’urna invisibile della propria coscienza di essere umano. Ma in molti casi non si è certi che questo voto, a favore dell’unico programma elettorale sensato, venga accompagnato da una effettiva consapevolezza di quali problemi seri e profondi, uno “stato di pace” comporti.

Lo stesso si può dire per quelli che continuano a sostenere la cosiddetta real politik della guerra e che, in nome di Qualcosa ( evidentemente e inspiegabilmente più Grande della vita stessa), ne difendono la causa: anche in questo caso il voto per la guerra non sembrerebbe accompagnato dalla coscienza e dalla conoscenza  degli scenari che alla fine dello “stato di guerra” bisognerà affrontare e comunque: di tali scenari se ne perde subito memoria!

Perché la questione non è semplicemente che ci sia pace  (ovvero che non ci sia guerra) ma è stabilire la vita in vista di uno “stato” che chiamiamo “di pace” (ovvero “di dopoguerra”). E la pace non è mai solo una  “semplice” assenza di guerra ma è molto di più e solitamente del tutto differente da quanto immaginato.

La pace è innanzitutto un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere… esseri umani.

La filosofa Maria Zambrano nel 1990 scrisse già tutto questo (I pericoli per la pace in Le parole del ritorno pubblicato in Italia da Città aperta Edizioni, nel 2003) è definì la pace come quella “…condizione primaria  per la realizzazione dell’ essere umano nella sua pienezza…” perché la vera promessa non è un astratto vagheggiamento al diritto di vivere in pace ma un vero e proprio obbligo: diventare un… essere umano.

Dopo la guerra, dopo qualunque guerra, entrare in uno stato di pace potrebbe essere paragonato a una transizione di fase quella che in fisica è riconoscibile grazie alla formazione di una superficie che si crea, ad esempio, nel passaggio da uno “stato” solido a uno stato liquido (o viceversa).

Nel nostro caso una tale superficie dovrebbe separare nettamente una storia già trascorsa e passata – e dunque un “essere umano” vecchio – con un’altra storia, nuova e ancora da cominciare – e di conseguenza con un nuovo “sentire” e un altro essere umano.

Si tratterebbe dunque dice la Zambrano “…del duplice compimento di quel sogno di rivoluzione pacifica che hanno sognato tanti…” esseri umani compiuti, esseri cioè obbligati a mantenere quella promessa di compiutezza umana.

Compimento duplice perché oltre ad essere una rivoluzione pacifica, avrebbe come contenuto, appunto, la pace. Compiutezza anch’essa duplice perché oltre a mostrarne la possibilità di mantenerla, consente a tutti gli altri esseri umani di potersi confrontare con la “propria capacità e volontà” di realizzarla.

Retrocedere davanti a questa soglia non è possibile. Essere o non essere, vivere in pace o cessare di vivere, questo è il problema. Perché  in questa circostanza è la necessità che obbliga alla morale.”

E come non pensare, a proposito di quest’ultima affermazione della Zambrano, ad un’altra grande intellettuale del secolo scorso, Simone Weil?

 

Tra gli scritti londinesi del 1943  (tradotti in Italia da Franco Fortini nel  1954 con il titolo La prima radice), la filosofa francese introduce un ripensamento critico della nozione  di diritti umani.  La Weil parlando dei bisogni dell’anima introduce l’obbligo come un valido sostituto radicale e naturale del diritto:
“L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano , per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire…” [ La prima radice, SE Milano, 1990].

E dunque è questo obbligo verso ogni altro essere umano e, più in generale, verso una vita (in pace), che stabilisce la morale.

Fin quando sarà la paura a determinare l’assenza di guerra continueremo a parlare di uno stato ambiguo e pericoloso, uno stato di non guerra. Perché la storia, ci ricorda la Zambrano, ha sempre dimostrato che i timori più fondati, le deterrenze meglio architettate, possono essere cancellati immediatamente in un solo istante di follia.

Una situazione che si sostiene solo sulla paura è priva di sostanza morale, di quella sostanza irrinunciabile che nasce, non dal diritto individuale (quello di vendicarsi, quello di difendersi, etc…), ma dall’obbligo che tutti gli altri, responsabilmente, sanno di avere nei confronti di un essere vivente solo e in quanto tale.

La pace non è un diritto posseduto da qualcuno e come tale suscettibile di essere imposto, persino con la guerra o con la paura. No. La pace è un dovere al quale tutti gli altri devono sentirsi obbligati per mantenere la promessa di un’umanità  davvero compiuta, per consentire la cura della prima e più profonda delle radici: la vita.

In copertina: ritratto di Mario Zambrano

“Quijote!” del Teatro Nucleo in piazza a Ferrara: manifesto spettacolare contro le ingiustizie

Quijote! del Teatro Nucleo in piazza a Ferrara: manifesto spettacolare contro le ingiustizie

La favolosa opera del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes è tornata a vivere nei giorni scorsi nelle piazze di Ferrara grazie al Rabicano – festival di teatro per gli spazi aperti.  Il titolo riassume in modo sintetico quello della lingua d’origine: Quijote!. Ed è una versione corale e spettacolare delle avventure del cavaliere delle cause impossibili. Narrazione caratterizzata dalla colorata, vivida e roboante coreografia del Teatro Nucleo. Il protagonista è affidato, o forse meglio incarnato, in Horacio Czertok, che ne firma anche la regia assieme a Natasha Czertok.

Una scena del “Quijote!”
Regia di Czertok del Teatro Nucleo
Horacio Czertok protagonista (foto Luca Pasqualini)

Quijote e il suo fido Sancho sono così tornati protagonisti, ma in sella a improbabili destrieri meccanici dotati di ruote: mezzi quanto mai degni della città capitale delle biciclette. Da lì e da altri marchingegni spassosi, che comprendono pure un attualissimo benché scalcagnato monopattino, sono stati rilanciati i messaggi di lotta contro le ingiustizie, trasmessi insieme al piacere per gli occhi e le orecchie degli spettatori.

Nel romanzo Don Chisciotte il protagonista dichiara di lottare contro tre giganti. Per il regista teatrale argentino Horacio Czertok, che di Cervantes e della sua opera ha fatto un pilastro della sua impegnata attività culturale e drammaturgica, i giganti sono molti di più. Oltre alla Paura, all’Ingiustizia e all’Ignoranza, che lo stesso Don Chisciotte cita nelle pagine del libro come nemici da sconfiggere, Czertok ha trovato altri cinque pericolosi avversari dell’umanità. Secondo il teatrante studioso, sono quindi almeno otto i giganteschi mostri che l’eroe della Mancia si mette in testa di combattere in quell’opera che si può considerare a pieno titolo uno dei capolavori della letteratura mondiale e che per prima – tra il 1605 e il 1615 – ha dato forma al concetto moderno di romanzo.

Una scena del “Quijote!” in piazza Castello a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Chi ha avuto la fortuna di assistere al monologo-spettacolo-lezione di Czertok intitolato Contra Gigantes, può avere sicuramente apprezzato anche di più quella macchina acrobatica, comica, circense e spettacolare che è stata messa in scena domenica sera nell’area pedonale accanto al Castello Estense di Ferrara.

Horacio Czertok (foto GioM 2022)
“Contra Gigantes” a Pontelagoscuro (foto GioM 2022)

Ho assistito come spettatrice alla rappresentazione Contra Gigantes che Horacio ha tenuto l’11 settembre 2022 nella sede del Teatro Nucleo di Pontelagoscuro, a Ferrara. Una visione che, a me, ha rivelato un’angolazione del tutto inedita di questa storia, che ho sempre pensato più che altro come ingegnosa e fantasiosa.

Non avevo capito – fino a quella sera – quanto fosse in realtà un lavoro di forte denuncia sociale e politica, costruito con coraggio stupefacente in pieno dominio dell’Inquisizione spagnola e di una monarchia assoluta, basata su un potere aristocratico che schiacciava e sfruttava la povera gente.

Danze con il fuoco
“Quijote!”
foto di Luca Pasqualini

Il romanzo, pubblicato in Spagna da Miguel de Cervantes Saavedra nei primi anni del ’600, usa infatti la finzione, la comicità e la fantasia per dire cose diversamente indicibili. Per farlo – ha spiegato Czertok con quella sua capacità affabulatoria e coinvolgente da grande uomo di teatro – Cervantes usa l’espediente narrativo del ritrovamento di un manoscritto arabo che lui avrebbe tradotto, riportandone le vicende di don Chisciotte.

L’invenzione di questo narratore, peraltro spesso inaffidabile, e di altri espedienti narrativi destinati a creare ambiguità nel racconto, è sicuramente una geniale trovata letteraria. Ma è anche un filtro fondamentale per poter dire cose che non sarebbero state accettate se dette in maniera diretta, in uno stile non romanzato e non acrobaticamente costruito.

Messaggi di una modernità rivoluzionaria che sono infilati dentro questo libro, camuffati da buffe lotte, dove c’è così tanta sproporzione tra l’eroe e i nemici contro i quali combatte. Perché la lotta di Don Chisciotte ha come obiettivo tutte le ingiustizie concrete che lui individua nella società del tempo e che, almeno in parte, possono essere ancora ricondotte a problematiche attuali.

Sancho Panza
Dulcinea – foto Luca Pasqualini
Scena del “Quijote!” – foto Luca Pasqualini

Prendiamo i mulini a vento. Suona assurdo, e quindi anche ridicolo e comico, il fatto che il cavaliere scambi questi manufatti per nemici. Ma non c’è nulla di folle nello slancio dell’eroe accompagnato dal fido scudiero Sancho. Perché i Mulini a Vento – spiega Horacio Czertok nella lezione spettacolo e anche (con voce fuori campo) nella mirabolante rappresentazione di strada – sono marchingegni che potrebbero aiutare a ottenere più farina macinando in modo sistematico il grano, ma diventano lo strumento per portare via soldi ai poveri contadini e metterli nelle tasche dei banchieri olandesi.

Scena del “Quijote!” diretto a Ferrara da Czertok del Teatro Nucleo

Altri temi scandalosi e rivoluzionari riguardano la condizione della donna (capitolo dedicato a Marcella e Crisostomo) e quello della giustizia nel capitolo sui galeotti. Horacio Czertok ha fatto anche notare come lo studio strutturale del romanzo rivela un don Chisciotte vincitore della metà dei 40 conflitti che affronta come cavaliere errante. Un traguardo che contrasta con l’immagine che si è imposta di lui, che è quella di un vecchio pazzo destinato alla sconfitta.

Scena della processione (foto LPasqualini)

Quijote non è un vincente – dice il regista e teatrante – ma non è nemmeno un perdente: proprio in questo preciso equilibrio sta la consistenza del romanzo. Quasi ad ogni capitolo il Don risulta bastonato e ferito nel corpo, tant’è che alla fine ne muore. Ma è una morte di sacrificio”.

Scena finale del “Quijote!”
Ferrara – foto Luca Pasqualini

Una chiave innovativa di lettura e un invito per approfondire la conoscenza di quello straordinario romanzo al quale la rappresentazione di piazza ha dato una sostanza spettacolare. Un messaggio avvolto e arricchito dai suoni avvincenti, come quelli tratti dall’aria ritmatissima e contagiosa del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, dai fuochi, dalle danze corali e dalla meraviglia. Per adulti e bambini che affollavano tutta la platea popolare, creata sull’asfalto tra il Castello e i giardini di corso Cavour. Per divertirsi e poi, magari, anche per pensare.

Reportage fotografico di Luca Pasqualini

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