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Ferrara film corto festival

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CAPITALISMO = FAME + GUERRA.
“Rapporto Globale 2023 sulle Crisi Alimentari”: numeri e cause di una catastrofe civile e umanitaria

Realizzato dalla Rete Globale contro le Crisi Alimentari (Global Network Against Food Crises) e dalla Rete di Informazione per la Sicurezza Alimentare (Food Security Information Network), è stato pubblicato l’ultimo Rapporto Globale 2023 sulle Crisi Alimentari, un’ampia e puntuale ricostruzione, realizzata con il supporto di diverse organizzazioni specializzate e agenzie delle Nazioni Unite, sulla situazione della fame e delle crisi alimentari, della loro dimensione e del loro andamento, su scala globale, con particolare riferimento ad alcuni specifici casi e contesti.

Il Rapporto è, infatti, il risultato di una analisi svolta su base collaborativa, che coinvolge sedici istituzioni partner, e che basa il suo apparato analitico, soprattutto, sui dati dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) o del Cadre Harmonisé (CH), che esprimono stime e dati inerenti alle popolazioni bisognose di cibo, nutrizione o assistenza per il sostentamento, ma anche sui dati del Famine Early Warning Systems Network (FEWS), del Programma Alimentare Mondiale (WFP) e i documenti-Paese, vale a dire le panoramiche dei bisogni umanitari specifici per Paese. L’obiettivo del Rapporto è, quindi, duplice: da un lato, fornire uno strumento utile per fondare su dati le indicazioni e le proposte per le politiche dell’area umanitaria e dello sviluppo; dall’altro, rappresentare un’istantanea sulla problematica della fame del mondo, sulla sua portata e il suo andamento, sulla situazione delle popolazioni dei più diversi Paesi.

L’importanza della questione, e la drammatica dimensione dei suoi contorni, sono, del resto, ormai ampiamente noti, e da anni: l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, vale a dire il quadro di riferimento globale per affrontare le sfide planetarie del tempo presente a livello nazionale e in ambito internazionale, nel fissare i 17 obiettivi e i 169 sotto-obiettivi dello sviluppo sostenibile, legati alle sue tre dimensioni-chiave (la dimensione economica, la dimensione sociale e la dimensione ecologica), pone in cima a questa “griglia”, esattamente l’obiettivo di «sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo» (obiettivo 1) e quello di «porre fine alla fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere l’agricoltura sostenibile» (obiettivo 2).
È perfino pleonastico, a tal proposito, ribadire, come spesso si sente ripetere, che «non c’è più tempo»: l’obiettivo si declina, infatti, alla scadenza del 2030, e, proprio per quella scadenza, fissa l’impegno programmatico di: a) porre fine alla fame e garantire a tutti e tutte, in particolare alle persone più vulnerabili, un accesso sicuro a cibo nutriente e sufficiente per tutto l’anno; b) porre fine a tutte le forme di malnutrizione; c) garantire sistemi di produzione alimentare sostenibili e realizzare pratiche agricole capaci di aumentare produzione e produttività, proteggendo, allo stesso tempo, gli ecosistemi.

Il quadro che emerge, tuttavia, dall’ultimo Rapporto Globale 2023 sulle Crisi Alimentari, con le specifiche cause e responsabilità che il documento stesso individua, è a dir poco allarmante. Quasi 258 milioni di persone in 58 Paesi del mondo sono, nel 2022, in crisi alimentare o insicurezza alimentare particolarmente grave, in netto incremento rispetto ai 193 milioni in 53 Paesi che erano stati indicati nel 2021. Non solo si tratta del dato più alto e più drammatico dal 2017, ma si tratta, nello specifico, del quarto anno consecutivo di aumento del numero di persone in tale situazione.
Più in dettaglio, oltre il 40 % della popolazione in tale situazione di particolare gravità risiede, nel 2022, in soli cinque Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Afghanistan, Nigeria e Yemen. Numeri particolarmente allarmanti di persone in situazione considerata catastrofica sono in Somalia, Sud Sudan, Yemen, Afghanistan, Haiti, Nigeria e Burkina Faso. In una situazione considerata di emergenza grave si trovano ben 35 milioni di persone in 39 Paesi del mondo.

Cause e responsabilità di questa vera e propria catastrofe sono ben individuate dal rapporto: la guerra è il fattore più significativo in 19 Paesi, in cui 117 milioni di persone si trovavano in una situazione grave o estremamente grave; un dato comunque inferiore rispetto al 2021, quando il conflitto era considerato il fattore principale in 24 Paesi con 139 milioni di persone in tali situazioni di insicurezza alimentare acuta.
L’altro fattore principale è costituito dalle crisi economiche, dal momento che gli shock economici sono diventati, nel 2022, il fattore principale in 27 Paesi con quasi 84 milioni di persone in una situazione grave o estremamente grave, rispetto ai poco più di 30 milioni di persone in 21 Paesi che erano stati riportati nel 2021.
Vengono ovviamente considerati gli effetti delle politiche di gestione dell’emergenza pandemica e le conseguenze dell’impatto della guerra in Ucraina; ma il fatto che la guerra, con l’intreccio degli interessi economici e strategici degli attori dominanti e delle potenze imperialistiche, e le crisi economiche, legate alle modalità di produzione e riproduzione del modello economico dominante, rappresentino i fattori principali di tale, vera e propria, catastrofe civile e umanitaria, costituisce un elemento, estremamente e drammaticamente, significativo.
È sempre più una questione di «paradigma» e di modello di sviluppo; vale a dire di sistema economico e sociale; sempre più capitalismo fame e guerra, strettamente intrecciati, innescano una spirale perversa e distruttiva.

Nota: Questo articolo è uscito sulla agenzia internazionale pressenza

Parole a capo
Rita Greco: “Poesie”

La poesia non ricerca la mera produzione intellettuale. La poesia è conoscenza, confronto, libertà espressiva, capacità di sintesi, ricerca, sperimentazione. La poesia è memoria, visione del futuro, lavoro costante sul linguaggio, sul già detto o scritto per superare rime desuete o gabbie espressive e retaggi ritmici intimistici. La poesia non si commenta ma si cimenta dentro schemi sempre in cammino. La poesia è approfondimento, è gioia e continuo tormento. La poesia va verso il mondo in cui è incardinata, si fa verso della vita quotidiana, cerca una sintonia, una relazione con la comunità, aspira ad essere parte di una sinfonia plurale.”
(Pier Luigi Guerrini)

 

Tutta la casa era un alibi
o un fiume

che scorreva verso di me

pensavo l’eternità
come si pensa
un fiocco di neve.

*

Mi chiesero
strambo sopravvissuto
dove te ne vai?
Mostrai loro il fermento
dei polsi
la gola annodata al ramo secco
poi scoperchiai un coro
di spavento
ciascuna voce
era la mia.

*

Bisogna aspettare, allenare la pazienza
abitare la faticosa sedia della pausa
dignitosamente immobili
superstiti indecisi se vivere
sia ancora un miracolo o una punizione.
Come un giocattolo rotto
mi assedia il tempo perduto
e non mi rimedia quello che resta
le facce sgargianti delle possibilità
attorno alle mie mani incapaci.

*

Prima che il giorno accada
saremo abbondantemente nati.

Viaggiavamo sul ciglio del dirupo
come affacciati a una finestra

stringiamoci, mi hai detto,
cos’altro ci resta?

*
Tu credi che io
non abbia voce
è solo che mi hanno detto
nel dubbio, taci.

Ma il dubbio
è il nostro pane quotidiano

e allora ho lasciato
lievitare
un soffice silenzio.

Da “La gioia delle incompiute” (Ladolfi Editore, 2021)

Rita Greco è nata e vive a Mesagne (Br). Ha pubblicato le raccolte di poesie “Perché ho sempre addosso un cielo” (2007) e “La gioia delle incompiute” (Ladolfi Editore -2021), prefazione di Alfonso Guida.
Diplomata attrice professionista, conduce laboratori di teatro-poesia per bambini. È vicepresidente dell’associazione culturale Solidea 1 Utopia. Suoi testi sono stati pubblicati su vari siti e blog, tra cui Rai Poesia, Atelier, Interno Poesia, Versante Ripido, Poesia del nostro tempo, Laboratori Poesia, L’Estroverso. E’ inoltre presente nella rivista Poeti e Poesia diretta da Elio Pecora e nel tredicesimo volume “Sud I poeti” (Macabor Editore) a cura di Bonifacio Vincenzi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

ACCORDI
Call It Dreaming: i sogni lungo la strada di Iron & Wine

Abbiamo tutti delle canzoni che, per vari motivi, fanno parte di noi. Ce le portiamo appresso come una cicatrice, una ruga o un tatuaggio. Magari non ci ricordiamo il titolo o l’autore, ma in un modo o nell’altro continuano a farci provare quelle sensazioni di cui non vorremmo mai fare a meno.

Ma perché hanno questo potere su di noi? Cos’è che ci lega visceralmente a delle canzoni? Di risposte credo che ce ne possano essere a bizzeffe, poiché ognuno di noi può avere mille ragioni per affezionarsi a un brano: melodia, testo, ricordi personali, senso di appartenenza a qualcosa.

Mi limiterò quindi a farmi trasportare, ancora una volta, da una di queste canzoni per approfondire la questione. Si tratta, forse, del brano più country del mio personalissimo lotto: si intitola Call It Dreaming, ed è una ballata del cantautore americano Iron & Wine, nome d’arte del barbuto e pacioso Samuel Ervin Beam.

Di Iron & Wine possedevo già l’eccellente Ghost On Ghost, quando nell’autunno del 2017 mi decisi ad acquistare il suo ultimo album, Beast Epic. Lo comprai allo storico Disco D’Oro di Bologna, e iniziai ad ascoltarlo durante il viaggio di ritorno a Ferrara con quell’aggeggio novecentesco chiamato lettore CD.

Ebbene, ci vogliono più o meno 50 minuti, no? La metà di questi li ho trascorsi con la traccia numero 6, che di minuti non ne dura neanche quattro. Fate voi i conti di quante volte l’ho ascoltata.

È così che funziona: al primo colpo sai già che quella voce, quell’andamento e quell’arpeggio ti stanno portando da qualche parte. Non sai bene dove, e forse non lo saprai mai, ma è un posto in cui – come canta lo stesso Sam Beam – il sole non tramonta così facilmente e la luna è sempre pronta a splendere.

Call It Dreaming è una di quelle dolcissime road song che danno un senso a tutto ciò che osservi dal finestrino. Ne vuoi sempre di più perché ogni volta che l’ascolti ti immagini un pezzo di vita che hai già vissuto, che potresti vivere o che non vivrai mai. Ed è un pezzo di vita che, nonostante tutto, vuoi assaporare per almeno quattro minuti.
Battisti ci suggeriva di chiamarle emozioni, Iron & Wine le fa diventare dei sogni a occhi aperti.

“Where the time of our lives is all we have
And we get a chance to say, before we ease away
For all the love you’ve left behind
You can have mine”

Vite di carta /
Una cartolina dal passato

Vite di carta. Una cartolina dal passato

Sono perplessa. Le cose che continuano a succedere nel mondo inquietano, non ne trovo una che realizzi quelle aspettative ottimistiche a cui faceva pensare il duro periodo della pandemia: ne usciremo migliori e via dicendo.

E mentre ho in testa immagini storiche della cronaca di questi giorni, re Carlo III nel suo saluto dal balcone di Buckingham Palace o il volto del direttore generale dell’Oms che dichiara finita la pandemia da Covid, mi si parano davanti aggrovigliate tra loro le corsie su cui corrono i fatti grandi e piccoli, brevi e di lunga durata.

Continuo tuttavia  a praticare la narrativa e mantengo la fiducia verso la letteratura. Leggo storie, chissà che ancora una volta non riescano a darmi distanza dalle cose e un po’ di sana presbiopia. Un vedere meglio da lontano che aiuta a dipanare il groviglio.

la cartolina anne berestÈ quello che fa Anne Berest nel suo bel libro La cartolina, uscito presso le edizioni E/O lo scorso anno, quando  ricostruisce  indietreggiando nel tempo la tragica storia della sua famiglia ebrea.

L’investigazione nasce così:  sua madre Lélia ha  ricevuto  nel 2003 una strana cartolina su cui sono scritti quattro nomi, Ephraim, Emma, Noémie e Jacques, che appartengono ai nonni e agli zii morti ad Auschwitz, e da questa traccia così labile solo alcuni anni dopo ella sente di dover avviare la ricerca sul loro passato.

Inizialmente è lei la sola a indagare, poi le subentra la figlia Anne, che ora è divenuta adulta e madre di una bambina. A spingere entrambe è una sorta di voluttà della conoscenza verso il complesso universo famigliare, l’attrazione che esercita su di loro la dinamica storica della shoah che ha fatto scempio delle  vite dei Rabinovitch.

Di Nachman, padre di Ephraim, che un brutto giorno parla ai suoi figli e li spinge a lasciare la Russia, dove sente “tornare nell’aria un odore di zolfo e di marcio” a svantaggio degli ebrei e, nella piccola diaspora che ne consegue, prende la via della Palestina insieme alla moglie e diventa produttore di arance.

Per Ephraim e per la giovane moglie Emma cominciano anni di trasferimenti forzati da un paese all’altro, sempre per la necessità di sfuggire alle restrizioni antisemite ogni giorno più pericolose. Prima in Lettonia, poi in Palestina per raggiungere i genitori, infine nel 1929 a Parigi, dove la famiglia ha modo di radicarsi.

Dove Ephraim si sforza con ogni mezzo di ottenere la cittadinanza francese e di cambiare il proprio cognome per dare stabilità e sicurezza  alla sua attività professionale e agli studi delle figlie Myriam e Noémie, del figlio più piccolo Jacques.

Trascorrono dieci anni di pace prima che la furia nazista invada la Francia e cominci anche per la famiglia di Ephraim l’incubo della persecuzione.

Per Anne e Lélia, che stanno scoprendo quanto grande sia stato il talento dei figli Rabinovitch verso le arti e quale sapore avesse la loro giovinezza parigina, il momento più drammatico è quando si trovano davanti alla loro cattura a opera dei nazisti e poco dopo anche a quella dei genitori: in seguito alla deportazione moriranno tutti e quattro nel lager di Auschwitz nel 1942.

L’unica sopravvissuta è la sorella maggiore Myriam, la madre di Lélia, che ha sposato il figlio del pittore Francis Picabia e ha affrontato gli anni della occupazione tedesca nascondendosi sotto una falsa identità.  Spostandosi in Provenza per prendere parte con lui alla lotta partigiana.

In tutti gli anni che sono seguiti alla fine della guerra Myriam ha parlato molto poco del passato, dei genitori e dei fratelli perduti. Lélia pensa che il silenzio le abbia offerto una sorta di protezione da se stessa, consentendole di andare avanti anche dopo la perdita del marito, di trovare rifugio in un nuovo matrimonio e nel contenitore di una vita normale.

Le rivelazioni a cui va incontro con la sua ricerca fanno, invece, molto rumore: le restituiscono molta sofferenza e col tempo la sfiducia di poter ottenere un qualche risultato. A un certo punto smette di cercare chi possa averle inviato la cartolina e l’indagine viene ripresa da Anne.

Quante sorprese attendono Anne, per esempio quando scopre che il suo nome è anche quello della protagonista del romanzo che Noémie aveva cominciato a scrivere prima di essere deportata. Scopre che le divergenze tra Myriam e Noémie sono le stesse che ha con sua sorella Claire, come se nell’alveo della famiglia si ripetessero temperamenti individuali e pezzi delle parabole di vita.

Al fondo di tutto si domanda cosa significhi essere ebrei, e mentre ne apprende il senso tragico attraverso la vita spezzata dei suoi parenti se lo chiede per sé e per la propria bambina, prendendo nuova consapevolezza delle loro identità.

Alla fine della ricerca viene a sapere chi ha inviato la fatidica cartolina ormai quasi vent’anni prima. Ma se la cartolina è un tassello, il vero puzzle che ora ha davanti agli occhi è quello formato dai Rabinovitch, con i loro talenti e le loro aspettative sulla vita, prima che i fatti della storia le distorcesse e le facesse morire.

Dopo La cartolina ho scelto in libreria un nuovo romanzo, mi è piaciuto il cognome dell’autrice che non conoscevo e via, l’ho comprato. L’ho aperto e sono rimasta impigliata di nuovo nella ricerca delle radici famigliari che l’io narrante ricostruisce con molto pathos.

Quale crescita di consapevolezza attende anche me nel ruolo di lettrice? Ne parlerò prossimamente.

Nota bibliografica:

  • Anne Berest, La cartolina, Edizioni E/O, 2022 (traduzione di Alberto Bracci Testasecca)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

LE VOCI DA DENTRO /
Scrivere per sentirsi liberi: un libro di “letteratura d’Evasione”… anche dal carcere di Frosinone

Scrivere per sentirsi liberi? Credo proprio di sì. E c’è una letteratura d’Evasione di un nuovo tipo, diversa da quei libri leggeri che d’estate  portiamo  in spiaggia sotto l’ombrellone. E un altro modo di evadere dal carcere. Da quello di Frosinone e da tutti gli altri.

Un paio di settimane fa sono stato alla Biblioteca Salaborsa di Bologna per assistere alla presentazione di un bel libro che si intitola: Letteratura d’evasione. Scritti dei detenuti del carcere di Frosinone  (Il Saggiatore).  Il libro è curato da Ivan Talarico e Federica Graziani ed ha le prefazioni di Luigi Manconi e di Alessandro Bergonzoni.

Ivan Talarico è cantautore, autore e teatrante. Dal 2017 conduce laboratori di scrittura creativa in diverse città italiane collaborando con associazioni culturali, scuole, accademie e lavorando anche negli istituti carcerari.

Federica Graziani è studiosa di filosofia e letteratura, lavora nell’associazione A Buon Diritto. Ha scritto 21 luglio. Fatti del G8 di Genova (in Calendario civile, Donzelli 2017) e Genova G8 (in Storia mondiale dell’Italia, Laterza 2017). Per Einaudi ha pubblicato, con Luigi Manconi, Per il tuo bene ti mozzerò la testa (2020).

Alessandro Bergonzoni, attore e scrittore, ha presentato e moderato l’incontro con la sua squisita creatività intellettuale e la sua straordinaria competenza.

Romano Montroni ha introdotto la presentazione con due citazioni di personaggi che il carcere lo hanno conosciuto molto bene: Nelson Mandela e Gandhi.
Il primo diceva “Non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili”.
Il secondo: “Tutti i criminali dovranno essere trattati come pazienti e le prigioni diventare degli ospedali riservati al trattamento e alla cura di questo particolare tipo di ammalati”.

I testi dell’antologia sono stati scritti durante il laboratorio di scrittura creativa ideato e condotto da Ivan, nell’ambito del progetto Fiorire nel pensiero, curato ed ideato da Federica.

Sono descrizioni, racconti, testimonianze, giochi linguistici e biografie davvero interessanti, toccanti, profonde che testimoniano ciò che c’è scritto sul muro di fianco alla cella che ospita la redazione di Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara: “Quando scrivo mi sento vivo, mi sento libero”.

Sono testi vivi e liberi che mostrano e dimostrano come il potere della scrittura e dell’immaginazione, guidato da sapienti proposte creative, possa aiutare ad “evadere” facendo crescere chi scrive e chi legge.

È un libro che rappresenta un vero e proprio ponte fra l’interno del carcere e l’esterno, un sentiero che permette alle persone di incontrarsi in un luogo che mescola sogni e bisogni: quello della letteratura.

Gli esercizi che le varie persone detenute hanno scritto costituiscono i vari capitoli del libro: autobiografia, autobiografia immaginaria, biografia reciproca, biografia di un personaggio immaginario, serie di ricordi, lettera, diario, diario per appunti, sguardo interno, sguardo esterno, recensione della tua cella, descrizione di un’arancia, descrizione di una fotografia, descrizione di una città immaginaria, continua l’incipit, binomio fantastico, storia con le carte, giochi surrealisti e racconto dal titolo assurdo.

Nelle note di copertina del libro c’è scritto: “Nel letto dei vostri scritti mi adagio e sogno, ma non dormo. Mi svegliate alle vite, le vostre e le mie, che adesso riconosco” (Bergonzoni) e “Questo libro dimostra la forza irriducibile della vocazione dell’uomo a narrare e a narrarsi. E, con ciò, a emanciparsi da vincoli e costrizioni di qualunque specie” (Manconi).

Consiglio a tutti, non solo ai carcerati, la lettura di “Letteratura d’evasione”.  Perché aiuta a conoscere e a conoscersi, perché scalfisce i pregiudizi che  si hanno nei confronti del carcere e delle persone detenute, perché rompe gli stereotipi ma soprattutto perché è un libro bello.

Mi viene in mente Ivano Fossati : “Per chi l’ha visto, per chi non c’era e per chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera” .

Guarda su YoyTube il video integrale dell’incontro di Sala Borsa.

La foto di copertina e nel testo sono di Mauro Presini

IL DUCE, GLI SCIENZIATI E I CIARLATANI
Un importante studio storico di Franco Stefani e Sandro Tirini: oggi alle 17 presentazione alla Biblioteca Ariostea

Martedì 9 maggio 2023 ore 17
Biblioteca Ariostea, Ferrara

Presentazione del volume 


…e il Duce preferì i ciarlatani.
Il difficile e infelice rapporto tra fascismo, scienza e tecnica
di Franco Stefani e Sandro Tirini

Dialoga con gli autori Andrea Baravelli, docente di Storia contemporanea a Unife

Negli anni terminali del fascismo e della seconda guerra mondiale (1943-45), in Italia alcuni sedicenti inventori proposero a Mussolini e ad altri gerarchi progetti di armi e congegni che a loro dire avrebbero ribaltato il corso degli eventi bellici a favore dell’Italia. Si trattò di idee fantasiose e irrealizzabili – da un “raggio della morte” a un potentissimo motore funzionante con moto perpetuo – senza basi scientifiche e tecniche costruttive serie, spesso corredate da affermazioni mirabolanti e disegni rudimentali.

Eppure, queste invenzioni vennero accolte e sostenute dal Duce e dai suoi collaboratori, oltre che da ministri come Rodolfo Graziani e Angelo Tarchi, ottenendo in alcuni casi generosi finanziamenti. Il libro, inquadrandole nel clima politico-culturale del tempo, racconta le vicende – inedite o poco conosciute – di questi “trovati”, come li si chiamava all’epoca, che non si concretizzarono mai. E insieme narra come l’Italia non colse grandi opportunità per affrontare il secondo conflitto mondiale: dal non aver costruito su scala industriale il radar che poteva essere sviluppato da un’invenzione del Premio Nobel Guglielmo Marconi (e che avrebbe potuto evitare le gravissime perdite umane causate dal bombardamento del porto di Taranto e dalla battaglia di Capo Matapan) alla mancata produzione dell’aereo a reazione Caproni-Campini, primo velivolo del suo genere al mondo.

Non solo. Obbligando ad emigrare in America scienziati come il Nobel Enrico Fermi, Emilio Segrè, Bruno Rossi e altri cervelli di prim’ordine, a causa delle famigerate leggi razziali del 1938, il fascismo diede prova di una colossale ignoranza, non comprendendo affatto la immensa portata e la potenzialità delle ricerche e del lavoro nel campo della fisica nucleare dei “ragazzi di via Panisperna”. Gli autori hanno provato a leggere attraverso questa lente la storia del ventennio fascista, concentrandosi sulle numerose occasioni mancate da un regime gonfio di retorica quanto carente di cultura scientifica e tecnica.

Franco Stefani e Sandro Tirini

 

Anteprima del volume

NOTA DEGLI AUTORI

Questo libro è una veloce incursione nella storia del fascismo in Italia, non tanto per annunciare nuove o clamorose scoperte: l’argomento ha prodotto molti studi qualificati e una bibliografia vastissima. È invece un tentativo per mettere a fuoco come il regime perseguitò alcuni grandi scienziati come Enrico Fermi, Emilio Segrè e Bruno Rossi, costringendoli all’esilio; come alti gerarchi, ministri e lo stesso Benito Mussolini non compresero l’importanza di scoperte strategiche, quali per esempio quelle di Guglielmo Marconi, propedeutiche alla realizzazione del radar, e l’aereo a reazione Caproni-Campini, ideato dall’ingegner Secondo Campini, accettando invece e talvolta finanziando strampalate invenzioni proposte da più o meno astuti ciarlatani.

Tutto ciò si risolse in un danno, economico e umano, enorme per l’Italia, che com’è noto combatté – fatti salvi il valore e il coraggio dei singoli – la Seconda guerra mondiale in condizioni di assoluta inferiorità.

I fatti che raccontiamo mostrano in diverse circostanze una concezione della scienza e della tecnica viziata da pregiudizi, ignoranza, asfissia culturale, che dalla riforma della scuola ideata da Giovanni Gentile in poi fu penalizzata da sottovalutazioni e da costrizioni ideologiche – espressioni della sottomissione a uno Stato dittatoriale – tali da svilire o gettare alle ortiche significative conquiste. L’Italia a quel tempo era un Paese eminentemente rurale, con un alto tasso di analfabetismo e un’istruzione superiore riservata ai ceti abbienti. La ricerca scientifica, negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, era sostanzialmente confinata nelle università, con una gestione non di rado personalistica. Solo all’inizio degli anni ’30 alcune grandi personalità, con le loro scoperte, intuirono che bisognava creare un sistema nazionale, collegato ai flussi del sapere esistenti a livello internazionale.

Una di queste figure – il valente matematico Vito Volterra, primo presidente del Consiglio nazionale delle ricerche – fu tra coloro che impressero un forte impulso in questa direzione.

Volterra, però, era ebreo, e per questo venne emarginato e perseguitato,

perché, secondo la dittatura, faceva parte di una razza inferiore a quella “ariana”, come sancirono le leggi emanate in Italia nel 1938.

Il suo caso, assieme a quelli che coinvolsero altri eccellenti scienziati e ricercatori, è emblematico di come l’ottusità e il disprezzo delle idee altrui abbiano regnato per tutto il Ventennio, dando origine a occasioni mancate e a clamorosi fallimenti sul piano civile e militare.

Il libro riporta notizie, poco conosciute o inedite, frutto di un’attenta consultazione dei documenti riferiti alla segreteria particolare del Duce e alla Direzione generale della pubblica sicurezza, soprattutto le carte dei 100 giorni della Repubblica di Salò, che scandirono il tramonto del regime fascista, conservati nell’Archivio centrale dello Stato.

I fatti narrati non prescindono dal succedersi degli avvenimenti storici, citati a riferimento per consentire al lettore l’inquadramento più preciso possibile.

È un modo un po’ inusuale per leggere la storia recente del nostro Paese? Forse, ma non di secondaria importanza, se pensiamo alle vicende della ricerca scientifica. Ancora oggi, pesantezze burocratiche, criteri selettivi che ignorano il merito e scarsità di mezzi costringono migliaia di ragazzi e ragazze a emigrare dall’Italia per poter mettere in pratica le proprie conoscenze e valorizzare la propria vita.

Franco Stefani e Sandro Tirini

INDICE DEL LIBRO

Nota degli autori

I Scienza e tecnica, figlie di un dio minore?
II Volterra, il Cnr e il “no” al fascismo
III L’era di Marconi, il declino con Badoglio
IV I due manifesti del 1925

Gli incompresi

V Una scoperta di Marconi? Non serve
VI Ettore Bussei e i diktat dei tedeschi
VII Potevamo avere l’aereo a reazione…

I perseguitati

VIII Enrico Fermi, un addio per sempre
IX Bruno Rossi, il mago dei raggi cosmici
X Emilio Segrè, l’ebreo di Tivoli
XI Mario Salvadori, progettista dell’atomica suo malgrado

I ciarlatani

XII Le fantasticherie di Ugo Maraldi
XIII Le invenzioni fasulle
XIV Carlo Biroli, agitatore dei mari
XV Mario Grossi e il bombardamento di New York
XVI Franco Marconi, il folgoratore a distanza
XVII Cesare Tonelli e il motore miracoloso
XVIII Oreste Trentini: ancora il “raggio della morte”
XIX Il “proietto-razzo” di Servodidio
XX Entra in scena donna Rachele
XXI «Vinceremo, con le armi segrete»

Bibliografia
Fonti consultate

Franco Stefani e Sandro Tirini, ...e il Duce preferì i ciarlatani. Il difficile e infelice rapporto tra fascismo, scienza e tecnica, Book Time Editore, Milano, 2023
Nelle migliori Librerie e in quelle virtuali.

In copertina:  Mussolini, Guglielmo Marconi, Francesco Giunta e la marchesa Maria Cristina Marconi, posano nella cabina radio dello yacht “Elettra”, 7 giugno 1930.

Parole e figure / La Regina dei baci

Baci, baci e ancora baci. Quale Regina è meglio della mamma? Se poi la mamma è anche Regina…

Una piccola e simpatica principessa vive con la sua mamma Regina in un bel castello. Lungo tavolo apparecchiato con teiera e tazze delicate, vassoi di dolcetti, candelabri argentati e vasi di fiori, tutto sa di curato e deliziosamente bello. Il luogo delle fiabe.

Una mattina vuole dalla mamma tanti baci ma la Regina, come sempre, ha troppo lavoro da sbrigare per soddisfare il suo desiderio. Come molte mamma, è sempre di corsa e indaffarata, aspetta visitatori importanti, è troppo oberata dalle difficoltà del governare da avere poco tempo da dedicare alla sua bambina in cerca di coccole. Come tutti i bimbi.

Consiglia quindi alla principessa di andare alla ricerca della Regina dei baci, prendendo il suo aereo. La principessa parte con un piccolo aereo rosso, si sente leggera come un uccellino che libra nell’aria tiepida di un cielo senza nuvole. Ha mille risorse.

Incontra la dolce Regina delle torte con i capelli gonfi come panna montata (mmmm che profumo di pasticcini, budini e biscotti dalle mille forme) e una bella e gentile signora nera dal turbante alto e colorato, con collana e orecchini, la Regina dei gatti (quando si amano questo animali si amano anche le carezze, forse la Regina dei baci sta qui). Ospita i gatti randagi per regalarli ai bambini, perché non si sentano mai soli. Che tenerezza.

Arriva la Regina dei giochi che le regala una palla, mentre la mamma, a casa, si sente sola e si chiede dove sia finita la sua amata bambina.

La Regina dei fiori dal grande cappello annaffia il suo giardino profumato e colorato, e altre, la Regina della notte dal berretto azzurro che sa di stella cometa legge alla principessa la sua fiaba preferita, quella che allontana i brutti sogni, tutte compaiono con un dono o una sorpresa ma non c’è nessuna Regina dei baci.

In fondo, meglio rientrare, vuole solo la sua mamma, altro che Regina dei baci. Solo quando sarà tornata a casa scoprirà chi è veramente questa Regina tanto cercata. Fra baci, abbracci e tenere coccole. Perché non serve andare tanto lontano…

 

Aertssen Kristien

Nasce ad Anversa nel 1953. Dopo aver studiato graphic design all’Accademia di Anversa, dove insegna, ha ricevuto una borsa di studio per specializzarsi in illustrazione all’Art Center di Pasadena (USA). Ha due figli. Attualmente vive a Gand e pubblica i suoi libri nelle Fiandre, in Olanda e in Francia. Le sue principali fonti d’ispirazione sono l’arte primitiva e naif, le miniature indiane e islamiche, i disegni dei bambini e i giocattoli.

Kristien Aertssen, La Regina dei baci, Babalibri, 2013, 40 pp.

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Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

FARE MUSICA E DANZARE… E FARLO INSIEME: appuntamento sabato 13 alle 10,30 al Centro Culturale Slavich con i ragazzi di Musijam e il gruppo DanzInsieme

Sabato 13 maggio prossimo alle ore 10,30, nell’area del Centro Culturale Slavich in Viale Alfonso d’Este n° 13, si terrà un momento musicale di grande interesse, che vedrà coinvolti gli studenti e le studentesse di due classi della scuola primaria TUMIATI di Ferrara e un gruppo di allievi e allieve della scuola di musica MUSIJAM.

L’interazione tra le due realtà scolastiche si inquadra all’interno dell’obiettivo di Musijam di instaurare collaborazioni con le scuole del territorio e diffondere la cultura musicale e, in questo caso specifico, anche quella della danza ebraica. Le classi 4 A e 4 B della scuola Tumiati sono state coinvolte in un percorso laboratoriale con Isabella Gallesini, maestra del gruppo DanzInsieme dell’Associazione Musijam con l’intento di avvicinare gli studenti al significato e al valore della danza in cerchio.

L’esibizione di sabato 13 maggio, aperta al pubblico, segnerà la restituzione di questo percorso. In un’otica di integrazione musicale, culturale e intergenerazionale, si è allargata la partecipazione anche ad un gruppo di allievi Musijam, con l’intento di creare e rendere visibile il gioco di ruoli che si manifesta all’interno di una formazione musicale, che può presentarsi come una sorta di microcosmo di società.

Verranno presentati i brani MA NAVU e GAM GAM.
Il primo è una danza calma, ben ritmata e relativamente moderna, ballata su musica con melodia tipicamente orientale; il testo è ispirato a un versetto di Isaia: Come sono belli, sui monti, / i piedi del messaggero di buone notizie / che annunzia la salvezza / che annunzia la pace; verrà danzata dagli studenti della Tumiati, suonata dall’Ensemble Musijam diretto da Elio Pugliese e cantata da Marco Ferrazzi.
GAM GAM, che verrà suonata dalle due formazioni insieme, è una canzone composta negli anni Ottanta del Novecento su testo tratto dal Salmo 23 “Il Signore è il mio pastore” e diventata famosa perché inserita da Ennio Morricone nella colonna sonora del film Jona che visse nella balena: è un simbolo, uno degli “inni” più toccanti della Shoah.

Una danza a sorpresa eseguita dal gruppo DanzInsieme, con i ritmi degli allievi percussionisti di Musijam concluderà l’evento, che si preannuncia ricco e stimolante.

Vi aspettiamo numerosi. Per informazioni n° cell 3204878109.

 

Il concerto di Springsteen è alle porte, ma Save the Park non cede le armi:
oggi l’ incontro con il prefetto: blinderanno Ferrara?

 

Fino alla fine! L’impegno e la mobilitazione di Save the Park e  di tante persone contro l’assurda decisione del Sindaco di Ferrara di mettere a rischio il patrimonio inestimabile del Parco Urbano Bassani per ospitare il maxi concerto del Boss continuerà fino all’ultimo giorno utile. 

Sono in tanti a condividere la causa della difesa del Parco.  Lo stanno a dimostrare le decine di migliaia di firme raccolte. Presentate al Sindaco e dal sindaco snobbate. Negli ultimi mesik si sono moltiplicati i flash mob, ik girotondi, i cartelli, i lenzuoli, le lettere di protesta… Una protesta che non si limita alla città, che non riguarda solo i ferraresi. Per portare un solo esempio, la settimana scorsa è venuto in piazza a Ferrara per portare il suo sostegno e la sua solidarietà, il grande autore e attore bolognese Alessandro Bergonzoni. (Vedi l’illustrazione di copertina di questo articolo).

E mano a mano che passano i giorni e ci avviciniamo alla data del fatidico evento, aumentano i disagi, i divieti… e i brutti presentimenti. Il Parco è pieno di macchine, trattori, potatori, livellatori. E la città si sta riempiendo  di cartelli e di transenne. Si parla di chiudere piazze, strade e scuole per consentire l’arrivo di 60.000p spettatori e delle loro automobili. Una follia: un grande pezzo di città e di vita urbana chiusa a chiave, come per il terremoto, e tutto per assecondare una scelta pericolosa e sbagliata.  Altro che Born to run, Born to close! recita la vignetta più sotto.

Lo sappiamo da un anno c’erano due alternative periferiche, due location migliori, ragionevoli, assolutamente meno impattanti. Ora tutti si stanno accorgendo che il Parco non era l’unica location possibile”, è solamente la location peggiore. E chi ne farà le spese, sarà l’ecosistema del Parco Urbano, l’avifauna, ma anche i cittadini, gli studenti, i genitori, la popolazione anziana.

Ecco  le ultime segnalazioni e il  programma delle iniziative di Save the Park per i prossimi giorni:

A pochi giorni dal 18 maggio, data del concertone di Springsteen, il parco urbano “Giorgio Bassani” è occupato manu militari da un serrato servizio di vigilanza che impedisce l’accesso ad un’area ben più ampia di quella necessaria al cantiere temporaneo. Le “ronde volontarie” del gruppo Save the Park, interrogando il personale in divisa, hanno scoperto che l’azione di sbarramento di quest’area pubblica non è supportata dalla necessaria delibera dell’autorità politica.

Era successo che le prime transenne, piazzate lungo i sentieri di contorno della zona del palco del Boss, appesantite dal telo ombreggiante, sono crollate a terra sotto le folate di vento della scorsa settimana, creando uno stato grave di pericolo per le persone. Il terrore che qualcuno si faccia male a pochi giorni dall’evento a causa dell’incuria degli organizzatori, giustifica evidentemente lo spregio di ogni regola.0

Domani, martedì 9 maggio, il Prefetto ha convocato una rappresentanza del gruppo Save the Park, assieme all’assessore comunale di riferimento dell’evento. Save the Park, mobilitato da mesi in città con l’intento di far suonare Springsteen nella zona sud della città e non nel delicato parco urbano, porterà al Prefetto un lungo elenco documentato dei danni previsti all’ambiente, dei dubbi sulla volontà e capacità degli organizzatori di riparare in maniera efficace, sui dubbi che i costi ricadano solo sulle casse pubbliche, sui danni per i cittadini in una città dai servizi bloccati per giorni interi, prima e dopo il concerto.

Per sabato 13 maggio, infine, Save the Park ha organizzato l’ultima manifestazione dentro al Parco Urbano “Giorgio Bassani”, con corteo di biciclette, esposizione di striscioni, grandi lenzuolate con disegni e vignette.

 

 

 

In copertina: Alessandro Bergonzoni tra Andrea Firrincieli e Marianna Suar di Save the Park

Di male in peggio! Il fallimento totale dei decreti antimmigrazione:
intervista ad Anna Brambilla, avvocata di Diritto d’asilo dell’Asgi

L’avvocata di Diritto d’asilo, Anna Brambilla, parla di un fallimento totale e dettaglia i danni delle misure spot per regolare il fenomeno sistemico dell’immigrazione

di  Simona Ciamaritano
(tratto da da Collettiva del 8 maggio 2023)

“Siamo a un livello mai visto, è sconcertante. È la sconsolata conclusione che trae l’avvocata di Diritto dell’immigrazione e dell’asilo Anna Brambilla, consigliera del direttivo Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) dopo avere analizzato il cosiddetto decreto Cutro, che lei preferisce però non chiamare così, perché quanto accaduto nel mare di Calabria deve rimanere come memoria di una tragedia e non preso a pretesto per un provvedimento che non contribuisce a salvare vite umane.

Anna Brambilla cerca di contare i numerosi decreti in materia di immigrazione che si sono succeduti negli ultimi 20 anni e sono quasi una decina: quelli chiamati Sicurezza del 2008 e 2009, quello voluto da Matteo Salvini e poi modificato da Luciana La Morgese, nelle loro funzioni di ministro, e ancora altri. Tutte norme varate “sulla base di supposte necessità di urgenza, che non corrisponde alla realtà andando in direzione inversa alla logica di costruire politiche normative e di gestione di un fenomeno sistemico come l’arrivo di persone che a volte cercano asilo o protezione internazionale”. 

La politica dei decreti è quindi fallimentare e da criticarsi nella sua natura prima ancora che nei contenuti, spiega l’avvocata, perché quello che occorre è una visione d’insieme, mentre vengono usati strumenti che invece “spezzettano e frammentano il quadro normativo che ha invece bisogno di essere uniformato”. Quelli messi in campo sono poi interventi che “creano lacune e generano questioni di interpretazione, arrivando ad avere anche profili di incostituzionalità, tanto che, per l’ultimo decreto, gli uffici legislativi del Quirinale hanno fatto rilievi che renderanno necessario un correttivo”. E ancora, queste norme “appesantiscono il sistema giudiziario perché – dice – faremo molto più ricorso ai giudici, visto che il decreto, anziché fornire tutele, favorisce l’irregolarità, quindi sfruttamento, grave marginalizzazione e precarietà”.

Solleva poi un’altra questione davvero preoccupante Anna Brambilla: le norme approvate, anche con passati decreti, ricalcano “le riforme volute dall’Europa e infatti a livello Europeo alcune nostre disposizioni sono molto ben viste, perché in qualche misura rispondono a politiche migratorie più ampie. Siamo nella solita situazione di ambiguità”.

Il messaggio che lancia il governo è chiaro, dal momento in cui si aboliscono le conversioni di alcuni permessi di soggiorno, come quello per cure mediche, in permessi per motivi di lavoro e si riducono quelli per i minori non accompagnati che arrivano in Italia e poi diventano maggiorenni. Tutto questo “peserà tantissimo sulle persone che assistiamo – testimonia l’avvocata -, avremo grandi difficoltà per la tutela effettiva, avremo gli strumenti per aiutare magari 2 o 3 persone, i nostri assistiti, ma quanti saranno però coloro che non potranno avere una difesa, magari perché chiusi in hotspot per quattro settimane e poi rimpatriati velocemente senza valutare in modo effettivo il loro bisogno di protezione?”.

Nell’intervista trattiamo poi il versante che riguarda il lavoro, la concezione che sta tra le basi del provvedimento secondo la quale gli immigrati sono solamente braccia da lavoro da fare entrare in Italia secondo i bisogni degli imprenditori. Brambilla sostiene che si tratta di una visione distorta del mercato del lavoro, spiegando che ci sono due livelli di stortura: “Da una parte la precarietà, la irregolarità e la marginalizzazione dei migranti, dall’altra le richieste fatte dall’Europa che ci portano a sperimentare alcuni meccanismi, come accaduto in Grecia”.

La volontà manifestata con l’ultimo decreto è comunque quella di “evitare i percorsi di integrazione dei migranti”, così da fare venire meno i motivi per consentire la loro permanenza nel nostro Paese i e infatti “tolgono i corsi di italiano e alcuni servizi per i richiedenti asilo”. L’ultima considerazione di Brambilla è amara: “Pensiamo tutte le volte di essere arrivati al peggio e invece c’è sempre una maggiore distruzione della cultura dei diritti umani europea”.

Cover: Migranti in gabbia , foto Marco Merlini – www.collettiva.it

Milano, Fiera del bebè “WISH FOR A BABY”:
informazioni per l’acquisto di ovuli, embrioni (e bambini?)

ALLA FIERA DELL’OVEST informazioni per l’acquisto di ovuli, embrioni (e bambini?).
A Milano il 20 maggio si ritenta la fiera del bebè WISH FOR A BABY

Scrivono nero su bianco gli organizzatori della Fiera:

“Se sei alla ricerca di opzioni di trattamento a livello locale e/o in tutto il mondo, di terapie complementari, dei più recenti prodotti e tecnologie in ambito di fertilità, di consulenza legale, di una rete sociale o di un’assicurazione, li potrai trovare qui.”

‘Wish for a baby’ è organizzata in collaborazione con cliniche per la fertilità che dichiaratamente si occupano di surrogacy, cioè di utero in affitto (IVF Babble), e che assicurano gravidanze e parti garantiti, nonché banche del seme e di ovuli (disponibilità, sicurezza, varietà e costi inferiori).

Basterà prenotare una “consulenza personale” durante la fiera milanese per accordarsi per una surrogazione di maternità all’estero?

La pratica dell’utero in affitto consiste nel disporre di corpi di donne per avere bambine e bambini su ordinazione.

Ci chiediamo come sia possibile che in un paese in cui la legge 40 vieta espressamente questa pratica e la sua stessa pubblicità, tale Fiera possa essere organizzata e pubblicizzata.
Un nuovo mercato, senza che ci sia un dibattito pubblico serio e approfondito sulla sua legittimità, approda nel nostro paese e le istituzioni tacciono.

RETE DICHIARIAMO
Donne di:
Libere Femministe Genova,
Libreria delle donne di Milano,
Arcilesbica,
Resistenza Femminista,
Collettivo Donne Baggio,
TRAME Pescara,
Biblioteca delle donne e centro di consulenza legale Udipalermo,
Se Non Ora Quando Libere,
Se Non Ora Quando? San Donà di Piave,
UDI Napoli,
Città Vicine,
Rete antiviolenza La Ragna Tela di Catania,
La Città Felice,
La Marlettaia Foggia,
Rete Ecofemminista.

(sono attese altre adesioni)

Per certi versi
Ballata della primavera

Ballata della primavera

Spinge il sole
sulle gote della terra
la sua apologia
di primavera
cura
i molti fiori
si vedono
le foglie progredire
con innata geometria
e cautela
sotto la tutela
della natura
così si coltiva
sui fogli
l’utopia
pura
dei prati folti
di trifoglidai campi si sollevano
gettate di vapore
una densa foschia
appanna la luce
fiori e foglie
serrano i gomitoli
dei loro profumi
dei loro colori
chiusi
in una tomba di calce
impalpabilegli aironi bianchi
ritmano col collo
i tempi del banchetto
sulla terra bagnata
inermi
distesi su pozze
di fango
si dibattono i vermi
facili prede
dei becchi taglienti
attorno ai salici
piangenti
passeri e rondini
svuotano l’aria
d’insetti apparecchiata
nell’abbraccio che incede
tra la vita e la morte
piomba
come un dolce
brusco miraggio
di una lepre
lo scatto
la paura
fatta coraggio

una fredda brezza
levantina
solleva dalla terra
le sue lenzuola
i panni bagnati
da pesante foschia
lana sospesa
sfollata via

libro aperto
l’orizzonte
una pagina porpora
una pagina plumbea
nel mezzo
il sole catturato
discende
un nodoso grappolo
di nubi
ferisce il cielo
con pugni ardenti
grandi candele
di pioggia
si schiantano in terra

poi il mare
linea azzurrina
mentre il sole cadente
nell’altro emisfero
accende le stelle
con il suo ultimo
cero

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Milano in piazza: “Nessuna persona è illegale. No al decreto Cutro.”
Piazza Oberdan, domenica 7 maggio alle 15,30

BASTA MORTI IN MARE E AI CONFINI

Domenica 7 maggio 2023 alle 15,30
Piazza Oberdan, Milano

Le migrazioni non sono un’emergenza, ma un fenomeno sociale che riguarda da sempre la storia dell’umanità. Quello che cambia, spesso in peggio, sono le condizioni e le cause per cui le persone si spostano e l’accoglienza che ricevono nei luoghi che attraversano e in cui arrivano.

A partire dagli anni ’70 l’Italia si è trasformata in un paese di immigrazione e non solo di emigrazione, in cui la popolazione anziana è in progressivo aumento, mentre molti giovani continuano a lasciare il Paese in cerca di opportunità migliori. Altri giovani, invece, si muovono verso l’Europa anche a causa di crisi geopolitiche e di crisi climatiche, oltre che dell’assenza di politiche di pace e di adeguati investimenti nella cooperazione allo sviluppo.

Di fronte a tali sfide, negli ultimi decenni l’Italia e l’Europa hanno scelto di usare i confini come uno strumento di esclusione, producendo discriminazioni e disuguaglianza attraverso muri, hot spot, fili spinati, applicazione selettiva delle direttive, accordi secretati con Stati antidemocratici, codici capestro per le ONG a cui viene impedito di fatto di contribuire al soccorso dei naufraghi in mare.

Anche la nostra Milano produce confini, come è accaduto fino al mese scorso in Via Cagni con le ricorrenti violenze ai danni di persone richiedenti asilo; con il problema tuttora presente delle lunghissime attese per fare domanda d’asilo, anche a causa della difficoltà di accesso al sistema di prenotazione; con l’assenza di un intervento decisivo rispetto all’attesa lunga tre anni per l’emersione di lavoratori e lavoratrici immigrate; con la carenza di centri di accoglienza dignitosi per le persone in transito; o l’espressa volontà di non chiudere il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di via Corelli, nonostante continue violazioni e abusi e l’oggettiva incompatibilità stessa dell’istituto della detenzione amministrativa con il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona.

Assistiamo oggi a proposte sempre più regressive, nel nome del mito della “razza” e della nazione, proposte che minacciano la coesione sociale in città già meticce e sui territori, tolgono diritti invece che estenderli e al contrario di quanto dichiarano, togliendo tutele e possibilità di ottenere documenti regolari, alimentano l’insicurezza per tutt*.

Il decreto Cutro, orribilmente denominato proprio con il toponimo del luogo della recente strage nel Mediterraneo, si propone di rinforzare i confini interni, di moltiplicare i CPR invece di chiuderli definitivamente, di legittimare le violazioni dei diritti. Oggi per le persone senza la cittadinanza, domani per tutt*. Per questo saremo in piazza per dire Non in nostro nome, nessuna persona è illegale.

ASSEMBLEA BASTA MORTI IN MARE E AI CONFINI

 

Prime adesioni:

Acli Milano, Naga, I Sentinelli, Comunità di Sant’Egidio, Rete Scuole Senza Permesso, Asgi Milano, Centro Fil. Buonarroti/Scuola binari, Cambio passo, CGIL Milano, Comunità Nuova, Emergency Volontari Milano, La Comune, Mai più lager/No CPR, Mediterranea Saving Humans Milano, Milano Prossima, RESQ People, Cub Milano, Rifondazione Comunista, Volt, Diem, Sinistra Italiana, Giovani Democratici, Amnesty International, Fondazione Arché, Amnesty International, Avvocati per niente, 6000 Sardine, Casa della Carità, Laboratorio Giambellino – Lorenteggio, Milano in Comune, Mamme a scuola ETS, Cooperativa Lotta Sontro l’emarginazione, Osservatorio democratico sulle nuove destre.

Con il supporto di Radio Popolare.

Per adesioni scrivere a bastamortiaiconfini@gmail.com

“Misteri al Castello”: raccontare Ferrara ai ragazzi

 

Di questi tempi, negli scaffali che le librerie predispongono per ospitare la letteratura per l’infanzia contemporanea si trovano alcune opere egregie, diversi testi normali e moltissima “croda”.
Quest’ultimo termine, preso a prestito dal vocabolario ferrarese, significa “frutta caduta dall’albero”, non da vendere a baco, cassetta ma da destinare alla sidreria. l’ho scelto perché esprime bene il senso di un prodotto di scarsa qualità che non riesce a conquistare l’attenzione dei lettori per la sua trama banale e poco significativa.

Ce ne sono tanti di questi libri in commercio; sembra che gli autori pretendano di conquistare i piccoli lettori edulcorando le loro storie con il semplice inserimento di qualche simpatico animaletto che agisce seguendo una presunta morale. Insomma, vedo pochi libri degni di nota destinati ai bambini e ai ragazzi. Fra questi, mi piace segnalare l’opera d’esordio della giovane giornalista ferrarese Cecilia Gallotta che si intitola “Misteri al Castello” (Robin Edizioni).
È un libro adatto a chi ha dai 10 anni in su.
È un racconto che si legge bene perché è scritto bene.
È una storia che incuriosisce ed attrae man mano che si procede.
È un testo che si presenta “appetitoso” quindi lo si “divora”.
È uno scritto in cui l’autrice riesce a mescolare sapientemente diversi ingredienti: storia e mistero, realtà e fantasia, passato e futuro.
È una trama dove gli intrighi attirano magneticamente il lettore e dove ci sono inviti indiretti ad approfondire, a ripassare e a studiare la storia della nostra città.
Infatti, due ragazzi si ritrovano catapultati nella Ferrara rinascimentale per risolvere un mistero del passato che potrebbe cambiare la realtà del futuro.
Cecilia racconta: “Ho cercato di creare più immedesimazione possibile attraverso la narrazione in prima persona della protagonista di 12 anni, nel tentativo di rendere la lettura leggera e fruibile pur avendo inserito cenni culturali a piccole dosi. Non manca poi un messaggio trasversale a tutte le età, quello del valore dell’amicizia, del coraggio e soprattutto della capacità di riconoscere quando compiere una scelta – anche se difficile e impegnativa – può cambiare le cose.”

La protagonista è Sara, una ragazzina di origini italiane trasferitasi negli Stati Uniti con la sua famiglia, che ha ricordi sfocati del suo paese natale; presto però ci tornerà in gita scolastica, e la prima tappa sarà proprio Ferrara. Lì, fra voci misteriose e indizi enigmatici, verrà trascinata da un irresistibile richiamo legato alla nostra città dal fascino rinascimentale, dietro cui si cela un incredibile segreto. Sarà l’inizio di un’avvincente avventura per Sara e il suo migliore amico Matt, che dovranno trovare il coraggio di compiere una scelta decisiva per le sorti del loro futuro, fra salti nel tempo e nella storia, suspense e colpi di scena.

Dal Castello Estense al Parco Massari, passando per il Duomo e per Le Mura d Ferrara, un ruolo fondamentale è poi dedicato anche al Museo della Cattedrale, dove Cecilia ha tenuto percorsi di guida didattica con la Fondazione Enrico Zanotti, e dai quali ha attinto qualche pillola di curiosità culturale sapientemente inserita nella vicenda.

“Misteri al Castello” è un libro perfetto per una lettura in chiave didattica e io lo consiglio sinceramente perché penso che sarebbe un bel testo da adottare a scuola a partire dalla classe quinta della scuola primaria e a continuare nelle tre classi della scuola secondaria di primo grado.

È raro infatti che un libro per ragazzi offra diversi elementi positivi: la motivazione alla lettura, il piacere nel leggere, la curiosità di approfondire e l’interesse verso la propria città.

L’autrice inoltre si rende disponibile per incontri con le classi e un’ottima occasione per partecipare alla presentazione del libro che avverrà, insieme a Sergio Gessi, nel pomeriggio del 13 maggio, alle ore 17.30 presso la libreria “Il Libraccio” di piazza Trento e Trieste a Ferrara.

Presto di mattina /
Il giacinto e la rosa

Presto di mattina. Il giacinto e la rosa

Due mondi

Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
(C. Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991)

cristina campoVisibile e invisibile, due mondi sono quelli di Cristina Campo (1923-1977): il mondo del senso preciso delle cose, della realtà tangibile e quello dell’invisibile. Celata realtà e tuttavia nello sprofondo del mondo tutta raccolta: “Lume coperto”, “sepolto Sole”, “portentoso Fiore”. Tesoro nascosto nel campo pure, «un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44).

Di lei abbiamo appena ricordato il centenario della nascita, il 29 aprile, e una raccolta di saggi ne ritrae ora e rilancia un profilo nel segno dell’amicizia: Cristina Campo. “Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile”, Mimesis edizioni, Milano 2023. Scrive la curatrice e coautrice Chiara Zamboni: «È la fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento di prospettiva e il rovesciamento dello sguardo, per il quale l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà. È allora che la vita risplende» (ivi, 7). Nell’attesa un attimo di perfezione appare, fulgore di bellezza, un soffio si leva e subito si smorza.

Questo avviene grazie alla parola ascoltata, alla voce che come un filo di spola è tessitura nel visibile dell’invisibile, nel tremendum del fascinans: «poiché qui Dio non parla nel vento,/ Dio non parla nel tuono:/ parla in un piccolo alito/ e ci si vela il capo per il terrore» (La tigre assenza, 48).

 

Gli Imperdonabili

«Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,14).

Vi è come un diaframma tra due mondi, un taglio vivente che congiunge e, al contempo, separa ciò che fa luce e ciò che oscura la vita. Non tutte le voci dicono questa tessitura del mondo nell’ordito dell’invisibile. Solo quelle degli “imperdonabili”, che come nel racconto di Belinda, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, chiedono come dono «una rosa, solo una rosa in pieno inverno» (“Una rosa”, in Gli imperdonabili, Milano 2014, 11). E l’amore di Belinda trasformerà il mostro in un giovane principe.

Ma pure il cantico spirituale di Giovanni della Croce è una storia d’amore: «una classica storia d’amore e di viaggio alla ricerca del Principe incomparabile. Vi si parla di monti e di riviere, di tane di leoni e di isole strane, di superfici argentee nelle quali affiorano occhi, di letti nuziali difesi da scudi d’oro. Si fa voto partendo di non cogliere i fiori, di non temere le fiere, di valicare fortezze e frontiere. La fiaba delle fiabe, il viaggio dei viaggi, Il libro di Tobia, s’illumina di un vivido bagliore allorché il vecchio padre proferisce, rivolto allo sconosciuto dal pesce e dal bordone (L’angelo Raffaele): «O tu che conduci agli Inferi, tu che ne riconduci… » (Gli Imperdonabili, 22-23).

cristina campo gli imperdonabiliGli imperdonabili sono coloro che non rinunciano alla propria bontà, che è come dire al proprio destino. Essi sono quei personaggi o autori e le loro opere – riportati, tradotti e interpretati da Cristina Campo nel libro omonimo – che amano il loro tempo nonostante tutto sembri venir meno; anzi sembrano appassionarsi proprio a quanto è perduto o dimenticato. Essi, come Cristina, sfidano il destino perché si ostinano a cercare attraverso la fiaba, la poesia e la preghiera, la mistica e il rito, nelle loro fragilità e contingenze, forza e stabilità, nell’imperfezione la perfezione, nell’orrido la bellezza, nella maledizione la benedizione, nel rifiuto la grazia, nel peccato il perdono, nella necessità la libertà, nella disperazione la gioia e nella morte la vita sempre di nuovo risorgente.

«L’esempio di quei poeti – scrive Cristina Campo – era soltanto un esempio. Imperdonabile è, per il mondo d’oggi, tutto ciò che somiglia al giacinto di Persefone», Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? È un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino. Si può senza dubbio chiamare “esorcismo” questo attrarre, per mezzo di figure, lo spirito, che di certe cose ha sempre una grande paura. Questo fanno i miti. Questo dovrebbe fare la poesia», (Sotto falso nome, Adelphi, Milano 200, 203).

Gli imperdonabili, ostinati, più forti di ogni altra ostinazione, di una ostinazione dell’altro mondo. Essi vedono nelle ferite la guarigione, scorgono nella paura il coraggio, nella fine un inizio e, continuando ad essere abbandonati, offesi e calpestati, si abbandonano fiduciosi. Intravedono nell’umiliazione la gloria, nella liturgia e nel rito che si ripete i segni di una metamorfosi, l’incontro che apre a una trasformazione; nella mistica, nella liturgia e nella poetica sta la tessitura inconsutile – priva di cuciture – come la tunica del Cristo al calvario, tra il tempo e l’eterno, la carne e lo spirito, parola di carne che rivela alla fine il buon annuncio come ai piccoli, agli ultimi, ai semplici appartenga il Regno dei cieli, perché è già in loro ed è attraverso loro che l’Invisibile si fa visibile, il Lontano vicino, presente e reale l’Assente.

Sono imperdonabili perché si lasciano ferire e sedurre dalla parola ascoltata, la mettono in pratica, credono alla sua voce, la riconoscono come quella del pastore e si lasciano allora rialzare e condurre e portare via da lui verso un altrove. Si fanno essi stessi dolorosa e insieme dolcissima soglia anche per noi tra visibile e invisibile: la soglia del cuore trafitto a pasqua. Si lasciano attraversare come da una lama di luce, che discerne nel cuore i pensieri e le azioni, distinguendo quelle che mortificano, falsificando la realtà, da quelle che la vivificano portandola a salvazione. Gli Imperdonabili si fanno ricettacolo ospitale dell’illuminazione, della grazia, della bellezza taciuta; sono voci del visibile nell’invisibile, tessitori come la stessa Cristina Campo dell’inesprimibile nelle parole già udite, del nuovo latente nella tradizione. Veglia su tutti contro la tenebra «il santo ideogramma»: la mano benedicente del Cristo Pantocrator dei mosaici bizantini.

La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dallo spirito delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture dagli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni
Due mondi – e io vengo dall’altro.
(ivi, 45-46).

O chiave che apri e non chiudi,
chiudi e non apri e conduci
teneramente il vinto fuor della casa del carcere
e fuor dell’ombra della morte
e il senzatetto negli atri luminosi
dei mille occhi impassibili
di chi ha compiutamente patito
e delle mani contro la notte levate
nel santo ideogramma della benedizione.

L’invisibile? Ciò che mi interessa

È questo il titolo del saggio della teologa Antonietta Potente nella raccolta ricordata prima. Sono pagine che ritraggono Cristina Campo come lei ritrasse a sua volta l’amica María Zambrano: un volto e un dito sul labbro. Come a indicare «lo stupore di chi sta sulla soglia di quel Mistero che piaceva molto a entrambe e che, entrambe, accoglievano con “le labbra chiuse”, come avviene in ogni via mistica» (ivi, 67).

E continua: «In lei l’amore per l’invisibile non distrae, ma attrae lo sguardo sulla realtà che, per Cristina Campo, riluce grazie, appunto, all’invisibile: “Credo pochissimo al visibile, credo molto all’invisibile ed è forse la cosa che mi interessa di più” dichiarò nell’unica intervista rilasciata nel corso della sua vita. Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli; testi ricchi di realtà e invisibilità, che scavalcano l’orizzonte del visibile e lasciano sempre e solo intravedere l’altrove. Mi sembra questa una delle luci più belle dell’amorosa sapienza che Cristina Campo ci ha lasciato: l’unione tra realtà e invisibilità» (ivi, 68).

Per Cristina Campo tuttavia l’invisibile non si impone dall’alto, né dissolve il visibile, ma è nascosto in esso come semente. L’invisibilità germoglia dalla terra, fermenta come lievito la realtà, non si vergogna di rivestirsi o meglio di incarnarsi nell’umano attraverso i suoi sensi. Questo il suo insegnamento: «Lei insegna che all’invisibile si arriva per l’apertura dei sensi e la percezione; quei cinque sensi, che diventano cinque porte per far entrare l’invisibile» (ivi, 69).

Così ama l’invisibile colui che ama le storie e i racconti, che nel caso della Campo sono «quelle storie di vita di pellegrini e mendicanti che nella loro vita “cambiano improvvisamente rotta nell’inseguimento di una visione ignota e spesso soltanto per un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati, folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo ‘che è dietro quello vero’ soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti”. Queste persone non si rendono visibili a causa della giustizia o chissà per quali diritti, ma perché c’è un mondo dietro a quello vero che soccorre e guida» (ivi).

L’albero capovolto, radicato nell’invisibile nel visibile fruttifero

«Due mondi – e io vengo dall’altro» ha chiarito fin dall’inizio Cristina Campo. Come a dire io vengo da quello invisibile, senza cedere all’onnipotenza del visibile. E tuttavia quest’altro mondo determina un rovesciamento dello sguardo: così – sembra dire – riconosco e sono radicata nelle radici aeree dell’albero rovesciato, che distende le sue radici in alto mentre i suoi frutti sono raccolti in basso. Vi è così un rapporto di analogia tra i due mondi simile a quello esistente tra l’albero e l’uomo.

Rabbi Judah Loew ben Bezalel (1526-1609), detto il Maharal di Praga – acronimo di “Il Nostro Maestro il Rabbino Loew” – esegeta, talmudista e mistico affermava: «In verità l’uomo è chiamato albero del campo come è scritto: perché l’uomo è un albero del campo (Dt 20,19), ma è un albero capovolto, perché l’albero ha la radice in basso infissa nella terra, mentre l’uomo ha la radice in alto. Infatti la sua radice è l’anima che viene dai cieli, le mani sono i rami dell’albero, le gambe sono rami sovrapposti a rami e il corpo è il tronco dell’albero. E perché l’uomo è un albero capovolto? L’albero ha la radice in basso perché deriva la sua vitalità dal suolo, mentre l’uomo deriva la vitalità della sua anima dai Cieli» (Nétzach Jisra’el 7,26).

Pregare con gli alberi

È invece Rabbi Nachman di Breslav, a farci comprendere il rapporto che lega piante, animali e uomo nella preghiera, quando afferma: «Sappi che quando un uomo prega nel campo, allora tutte le erbe entrano nella preghiera, lo aiutano e danno forza alla sua preghiera. Questa è la ragione per cui la preghiera viene chiamata meditazione/ sichà, sulla base di quanto è detto: ogni arbusto/ sìach del campo (Gen 2,5). Ogni arbusto del campo dà forza e aiuta la preghiera. (Liqquté Moharan, II, Il)». Ed egli pregava così: «Tutta la vegetazione del campo e tutte le erbe e gli alberi e tutti i germogli si sveglino per venirmi incontro, si alzino e diano la loro forza e la loro vitalità alle parole della mia meditazione e della mia preghiera. Possano la mia meditazione e la mia preghiera raggiungere la più completa perfezione con l’aiuto di tutta la vegetazione del campo, in modo che tutte loro, con la loro forza e vitalità e con la loro spiritualità che sale fino alla loro radice superna, possano esse incorporate nella mia preghiera. (Liqquté Tefillòt II, 11)».

Il canto degli alberi

Quello degli alberi è un canto che trabocca nel silenzio, come ogni la preghiera trabocca nell’invisibile presenza: «Gioia canti insieme la campagna con le sue verzure e messi e animali/ Sì di gioia fremano gli alberi,/ la selvaggia foresta ne moduli il suono/ davanti a Colui che sempre viene» (Sal 96 [95]).

Sappi
che ogni pastore e pastore
ha un suo canto speciale.
Sappi
che ogni pianta e pianta
ha un suo canto speciale
e dal canto delle piante sapir
si crea la melodia del pastore.
Quanto è bello
quanto è bello e gradevole
quando si ascolta il loro canto
è molto bello stare tra loro in preghiera
e con gioia servire il Signore.
E dal canto delle piante
il cuore si riempie e anela.
E quando il cuore si riempie di canto
e anela alla Terra di Israele
una grande luce
allora si protrae e dilaga
dalla santità della terra su di lui.
E dal canto delle piante
si crea la melodia del cuore.
(Naomi Sapir Shemer (1930 -2004) cantautrice, compositrice e poetessa israeliana)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

L’Italia sceglie il Fossile.
La retromarcia ecologica del governo Meloni

L‘Italia sceglie il Fossile, ingrana la retromarcia e volta le spalle alla transizione ecologica. Nel pieno della crisi energetica e della guerra in Ucraina, inizia ad emergere in modo più chiaro la strategia energetica del governo Meloni e dei poteri forti.

L’interprete più autentico di questo nuovo corso è senz’altro il confermato presidente dell’Eni Claudio Descalzi, fedele accompagnatore della premier Meloni nei suoi viaggi dall’Algeria agli Emirati Arabi per incrementare il flusso del gas da quei Paesi all’Italia.

In una recente intervista, il nostro dice chiaramente che “quello che pensa l’Europa non è per forza quello che pensa tutto il mondo. In Europa la quota degli idrocarburi scenderà, ma non così in Cina, India, in Africa….Ora, che l’Europa voglia fare bene sul fronte ambientale è un esempio importante che sta dando a tutto il mondo, ma che pensi che la questione ambientale è l’unica componente da considerare è però un errore, perché dobbiamo parlare di competitività, di prezzi….Perchè di eccesso di virtù si può anche morire”.

Questa nuova strategia si basa sull’idea di fare del nostro Paese un “hub” del gas, cioè snodo del suo transito e scambio per tutta l’Europa, rilanciare la sua estrazione nell’Adriatico e in terraferma, mettere in funzione nuovi rigassificatori, a iniziare da Piombino e Ravenna, contrabbandare per fonti rinnovabili anche quelle che non sono tali, come il biometano, in buona sostanza decidere di continuare a stare nell’economia del fossile per i prossimi 15-20 anni.

Accanto e “coerentemente”a questo, ci si oppone alle direttive europee sull’efficientamento energetico degli edifici e sulla cessazione delle vendite di autoveicoli con motore endotermico entro il 2035.

Il risultato finale è quello di abbandonare qualsiasi ipotesi di transizione e conversione ecologica, fondate sulle fonti rinnovabili, che invece vengono ostacolate. Rinunciare all’autonomia energetica. Decidere che il contrasto al cambiamento climatico e alle emissioni climalteranti non è un problema serio e drammatico da affrontare ora.

Ma c’è persino di più: emerge anche un tentativo, assai pericoloso, di dipingere la transizione ecologica come “un lusso per i ricchi” e conseguentemente, si lasciano sole le persone, in particolare quelle a reddito medio basso, ad affrontarla, con l’idea che si possa anche dar vita ad un blocco sociale e popolare contrario alla stessa.

Per fortuna, è in campo una mobilitazione che è partita dai territori, e dai cittadini che li abitano, dove da ultimo si stanno installando o progettando i nuovi rigassificatori. Un movimento promosso e sostenuto da un arco vasto di reti e associazioni sociali, in primo luogo la Rete nazionale contro i rigassificatori, la campagna Per il clima- Fuori dal fossile, la Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna e diversi altri ancora.

Tale mobilitazione si è snodata attraverso manifestazioni che si sono svolte a Piombino l’11 marzo, a Cagliari il 15 aprile e la cui prossima tappa è prevista per il 6 maggio a Ravenna [Vedi su Periscopio il testo della convocazione della manifestazione di Ravenna] .

Inutile sottolineare la coltre di silenzio che i media mainstream hanno dedicato a questi appuntamenti e, per converso, l’importanza che esse assumono per provare a contrastare e invertire le scelte che governo e poteri forti stanno mettendo in campo.

Quest’impostazione, peraltro, ha una forte pervasività e si traduce in atti che investono l’insieme dei territori del nostro Paese. Da questo punto di vista, è emblematico anche ciò che succede nella provincia e nel comune di Ferrara. Due vicende saltano immediatamente agli occhi.

La prima
è quella che riguarda la messa in funzione dell’impianto di biometano di Villanova
: un impianto industriale molto grande, che produrrà più di 12 milioni di mc/anno, il secondo per dimensioni del genere nella regione Emilia-Romagna, che va ad aggiungersi alla cinquantina di impianti di biogas già esistenti nella provincia.

Ora, è bene chiarire, intanto, che il biometano non può essere considerato facente parte del ciclo dell’economia circolare, né assimilato ad una fonte energetica pulita e rinnovabile, visto che esso produce comunque emissioni climalteranti.

In più, il progetto presentato fa emergere seri problemi dal punto di vista dell’impatto ambientale e della salute dei cittadini, forti problematiche derivano dai volumi di traffico che si genererebbero, non sufficientemente approfonditi e altrettanti motivi di preoccupazione traggono origine dalla vicinanza dell’impianto nei confronti delle case e dell’abitato.

A cui si somma il grave problema democratico che si è evidenziato nel percorso dell’autorizzazione dello stesso: i cittadini coinvolti non sono mai stati né informati e tantomeno consultati e si è proceduto incuranti della loro opinione  e della contrarietà manifestata in numerose occasioni dalla gran parte dei residenti.

Inoltre, ci è toccato assistere allo spettacolo scandaloso offerto dall’Amministrazione comunale di Ferrara che, con una delibera votata a maggioranza dal Consiglio Comunale, ha espresso, ancora nel febbraio dello scorso anno, la propria bocciatura dell’insieme del progetto, facendo finta di non sapere che, stante l’attuale vergognosa normativa relativa all’autorizzazione agli impianti di questa natura, considerati di per sé strategici e di pubblica utilità, essa non avrebbe prodotto nessun effetto sulla decisione finale.

Mentre l’opposizione da parte dell’Amministrazione comunale alla variante urbanistica necessaria, che avrebbe bloccato l’iter autorizzativo, non è stata agita e, alla fine, è arrivato anche il parere positivo dei vari uffici dell’Amministrazione.

Anche questo vulnus democratico – un vero e proprio gioco delle tre carte – impone di azzerare la decisione, ridiscutere la vicenda in Consiglio Comunale, arrivare ad un’iniziativa del sindaco che blocchi il progetto, come chiesto in modo chiaro dalla Rete Giustizia Climatica di Ferrara e dal gruppo di cittadini che si oppongono all’impianto.

La seconda vicenda che merita di essere evidenziata è quella relativa all’incredibile aumento delle tariffe per le famiglie che sono allacciate alla rete di teleriscaldamento, ben di più di quello verificatosi per l’incremento del prezzo del gas.

La questione è che, nel comune di Ferrara, il teleriscaldamento è alimentato dalla geotermia, dall’inceneritore e dal ricorso al gas: ebbene il paradosso sta nel fatto che questo fortissimo incremento – bollette bimestrali a più di 700 € per consumi “normali”- deriva maggiormente dal costo della geotermia – derivato direttamente da un accordo tra il Comune e la multiutily Hera che gestisce il servizio di teleriscaldamento, fortemente sbilanciato a favore di quest’ultima- piuttosto che da quello del costo del gas.

Con il risultato straordinario di aver sollevato la giusta protesta e iniziativa dei cittadini interessati rispetto a questa situazione, ma anche quella di creare un immaginario collettivo – guarda caso in linea con le considerazioni svolte prima- per cui la responsabilità di quanto successo sta più in una fonte rinnovabile come la geotermia locale e meno dalle vicende del gas.

Insomma, siamo in presenza di vertenze locali importanti e che hanno visto la mobilitazione di cittadini e Reti e Associazioni, che non sono questioni ciascuna a sé stante, ma si inseriscono in un quadro che origina dalle stesse scelte di fondo. Per questo meritano di essere connesse tra loro e, ancor più, di essere inserite in un orizzonte generale capace di cogliere i nessi tra quanto avviene nei territori e le scelte compiute a livello nazionale.

Probabilmente la strada per opporsi e costruire un’alternativa credibile alle scelte regressive in tema di politica energetica e ambientale sta proprio nel tenere insieme vertenze locali e nazionali: qui si può utilmente collocare l’idea di sviluppare in modo diffuso le comunità energetiche, che ci dicono appunto che possiamo costruire concretamente soluzioni vicine alle comunità e contribuire fortemente alla realizzazione di un modello alternativo di produzione e consumo energetico.
Ma di questo avremo senz’altro modo di tornare a parlare.

Per leggere gli altri articoli ed interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Storie in pellicola / Il mio amico Nanuk

Il mio amico Nanuk; quando dall’incontro fra due cuccioli nasce un sodalizio invincibile

Un cucciolo di orso adora un cucciolo di uomo. Si sono trovati insieme rotolando e giocando. Ma anche scambiandosi il cibo.

Una storia di amicizia in un Artico che non è deserto, ma un paradiso da proteggere dove migliaia di animali si riproducono e tornano ciclicamente. Un inno alla Natura.

Un film d’avventura, quello firmato da Brando Quilici (per le scene artiche) e Roger Spottiswoode, ma anche di sterminati paesaggi, di natura incontaminata e potente oltre che di grandi affetti ad altezza di ragazzo, Il mio amico Nanuk.

Protagonista è il giovane coraggioso e indomito Luke (Dakota Goyo), alle prese con un tenerissimo e candido cucciolo di orso (di tre mesi), perso dalla madre e recuperato casualmente. Inizialmente cercherà di crescere il cucciolo e di evitargli lo zoo o la gabbia, poi, grazie anche all’aiuto di una preziosa guida esperta, Muktuk (Goran Višnjić), si avventurerà nelle ostili terre ghiacciate del Nord canadese per trovare una casa per il piccolo orso bianco. Sarà un viaggio rischiosissimo e pieno zeppo di pericoli.

Luke ha da poco perso il padre e sua madre Madison (Bridget Moynahan) è una ricercatrice che, per motivi di lavoro, lascia lui e la sorella Abbie (Kendra Leigh Timmins) per lunghi periodi per recarsi presso una lontana stazione di ricerca.

Al ritrovamento, nel suo garage, del cucciolo di orso polare separato dalla mamma catturata dalle autorità cittadine e trasportata in elicottero in una remota zona a nord della regione artica del Canada, si assume la responsabilità di ricondurlo a lei.

Violente tempeste (tanta suspense), branchi di orsi polari e il crollo di giganteschi blocchi di ghiaccio non fermeranno Luke e Nanuk che riusciranno a sopravvivere in questi spazi sconfinati, diventando indispensabili l’uno per l’altro. Una “favola ecologista”.

Per realizzare il film è stato coinvolto il miglior addestratore di orsi polari al mondo, Mark Dumas, tutti gli attori, orsi inclusi, sono in carne ed ossa, nessuna scena è stata costruita al computer. Un inno al realismo più vero. Splendida fotografia, scene nell’Artico canadese ma alcune anche nelle isole norvegesi Svalbard (1.600 km a sud del Polo Nord).

Tanti sono i temi del film: i cambiamenti climatici (sono proprio le conseguenze sul clima su questo luogo delicato del pianeta a rendere più difficile e pericolosa l’avventura di Luke), la magia dell’amicizia, la bellezza della natura incontaminata, la gentilezza degli inuit, il desiderio di protezione e libertà, la fiducia negli esseri viventi, il desiderio e la ricerca della felicità ma, soprattutto, la capacità dell’essere umano di cambiare le situazioni che non funzionano. Imperdibile.

Il mio amico Nanuk, di Brando Quilici, Roger Spottiswoode, con Dakota Goyo, Goran Visnjic, Bridget Moynahan, Peter MacNeill, Kendra Leigh Timmins, Italia/Canada, 2014, 98 minuti.

Brando Quilici

Nato a Buenos Aires nel 1958, è regista televisivo e documentarista. Figlio di Folco Quilici, ha lavorato per molti speciali su reti americane, tra cui National Geographic Channel, Discovery Channel e su reti europee, tra cui ZDF, France 5 e la Rai. Ha vinto numerosi premi, tra cui quelli al Jackson Hole Film Festival e al Trento Film Festival. Dopo Il mio amico Nanuk, nel 2022 ha prodotto, diretto e scritto il film Il ragazzo e la tigre.

Diario in pubblico /
Lacrime in armocromia

Diario in pubblico. Lacrime in armocromia

Sempre di più il faticosissimo lavoro che mi sono imposto, quello cioè di seguire con una certa costanza programmi televisivi di successo, alternandolo con quello che è il mio naturale compito, cioè quello di critico e teorico della letteratura, mi produce straordinarie ‘dissonanze’ che nemmeno le teorie di musica dodecafonica hanno affrontato.

Da buona radical chic, posizione che sempre più si attesta tra le scelte esistenzialmente e politicamente più interessanti, molto mi ha colpito la coraggiosa intervista di Elly Schlein rilasciata a Vogue, che non sembrerebbe certo la sede più adatta per proporsi nel suo recentissimo status di nuova segretaria del PD.

lacrime in armocromia
Elly Schlein

Naturalmente le ‘belve’, vale a dire i seguaci del social nelle sue più raffinate specializzazioni, hanno trascelto dall’articolo la notizia che più di ogni altra sollecitava curiosità e interesse, vale a dire che la Schlein si affida a una studiosa di ‘armocromia’, che la consiglia nel coniugare i colori del suo aspetto fisico con gli abiti che indossa. Una rapida indagine propone questa definizione:

L’armocromia è l’equivalente dell’anglosassone Color Analysis: una vera e propria ‘scienza del colore’ che trova le tonalità più adatte a valorizzare il nostro incarnato, bilanciando il colore degli occhi e dei capelli.”

Probabilmente, però, questo termine non era mai stato associato alla politica prima di Elly Schlein. Alla domanda sulle sue scelte d’abbigliamento, Schlein ha risposto: “Dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio.

La situazione si fa interessante quando nella discussione interviene Fausto Bertinotti, a suo tempo bersagliato per il golf di cachemire indossato in molte occasioni. Egli sostiene che fu una compera della moglie al mercatino dell’usato e che comunque l’attenzione a ciò che s’indossa addirittura aveva un illustre precedente in Palmiro Togliatti (!) che invitò i parlamentari comunisti ad indossare l’abito blu per recarsi alla camera.

Ma naturalmente la dissonanza si amplifica nelle recenti indagini, quando ai cronisti davanti ai cancelli della fabbrica di Mirafiori si sentono rispondere dall’80% delle operaie “Elly Schlein? E chi è?”.

Ma- e questo è il punto – come vestono le operaie? Senza dubbio come la moda imposta dai social prescrive. Quindi? Ritorniamo al punto di partenza. La politica, come ogni altra espressione sociale, parte dalla ‘moda’, i cui più importanti tedofori sono lo sport e i divi della canzonetta.

Nelle trasmissioni più seguite comunque ciò che imperversa è la lacrima armocromata. Figli, amici, parenti di vecchie glorie si presentano alle sollecite conduttrici pronti a risuscitare sprazzi di gloria (televisiva o sportiva). Sbattendo l’occhione già umido per il racconto; poi, parte lo show lacrimoso.

Le donne delicatamente s’appoggiano la nocca dell’indice all’angolo dell’occhione perfettamente truccato e ispirando profondamente a tempo con l’intervistatore raccontano, piangono, si autocelebrano. I maschietti meno delicati grugniscono, si coprono il volto e tra le dita separate esce un vento, immagino non odoroso, che sostiene la loro virilità.

I pianti degli eroi dello sport sono naturalmente più complessi in quanto tutto ciò che induce alle lacrime dall’azione ben riuscita all’errore clamoroso s’accompagna con la scivolata sulle gambe (certo non immune dal dolore). Il tutto condito con l’urlo belluino condiviso con il pubblico e infine le copiose lacrime che condiscono il tutto.

Se dunque la moda interviene come lievito sul comportamento pubblico non ci stupiranno le mises dei politici, dai calzoni meloniani, alle giacchette renziane non dimenticando le bandane berlusconiane e – orrore! – i semi-nudi di Salvini.

Diamo spazio allora a lacrime e costumi per essere in consonanza con questa patria sì bella e (poco) amata.

Invito poi per essere maggiormente edotti di leggersi l’articolo di Claudia de LilloUn giorno al sexy shop, su ‘Il venerdì di Repubblica ‘ del 28 aprile 2023, pp.48-51, assai istruttivo.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui] 

Parole a capo
Giorgio Casali: “Per il compleanno di Claudio” e altreGiorgio Casali

La poesia è l’unica assicurazione disponibile contro la volgarità del genere umano”
(Josif Brodskij)

Per il compleanno di Claudio

Quando la sera è legale,
è primavera e spingiamo
oltre il ponte, oltre il fiume e la terra modenese
mentre una canzone ridice chi eravamo
e finisce svanendo la frequenza –
con voi Meri e Claudio e Daniele
a bere stasera scordando anniversari.

*
È vero, come siamo cresciuti
dieci estati indietro al parco
con il motorino, il primo orecchino
che ancora portiamo con fare bambino
– ci mette del tono, ci finge ribelli –
quando s’ammette, sdraiati a fumare,
il piacere che è stancarsi a lavorare.

*
Sono nuovi questi versi come riti
come danze della pioggia sui calanchi
fino a che l’afa passi via tra i viali
dove ancora ci siamo incamminati;
né tombe che ci fanno lo sgambetto
né prati nutrienti per i fiori;
cosa farci, cosa farci dell’amore
se d’amore non abbiamo più sentore.

Amarle

Quando la curva ti spara in faccia
vento forte e ti manca il respiro,
àlzati ancora più sopra nel sole
giocando a panorami e mani strette
– e stare qui seduti per colline
amarle amarle amarle
e poi non ricordarle.

da Notte provincia (seconda edizione 2023, in uscita presso Edizioni Contatti)

 

Segni sulla pelle

Hai graffiato la notte con le unghie
e con i denti, eri bella e timorosa
dei miei segni sulla pelle, graffiti
con forza che hai marcato
come le gomme
su un prato a Ferrara.

da Sotto fasi lunari (Incontri editrice, 2013)

 

Che tu goda o meno

Dalla prima volta che mi guardi
coi tuoi occhi scuri grandi
sei mistero, che tu goda o meno,
malinconico sguardo che a sbalzi
mi guarda e proprio mi rende
nel mio letto domestico atteso.

da Domestiche abitudini (Edizioni Contatti, 2020)

Giorgio Casali è nato nel 1986 e vive a Fiorano, in provincia di Modena. Ha pubblicato alcuni libri di poesia tra cui Notte provincia (Edizioni clandestine, 2011), Sotto fasi lunari (Incontri editrice,
2013), Diarietto cattolico (Giuliano Ladolfi editore, 2016) e Domestiche abitudini (Edizioni Contatti, 2020). Suoi testi sono inseriti nell’antologia Poeti di corrente (Le voci della luna, 2013), curata da Matteo Bianchi e Anna Ruotolo, e sul sito di Atelier. Con il pittore Andrea Chiesi ha pubblicato il catalogo d’arte 19 paintings 19 poems (Italian Cultural Institute of New York, 2014), dal quale è stato estratto lo spettacolo “Forma Suono Parole”, con la collaborazione musicale dei Divisione Sehnsucht, presentato la prima volta al Poesia Festival 2014. È uno dei centoquattro poeti dell’antologia Come sei bella (Compagnia Editoriale Aliberti, 2017) curata da Camillo Langone e dedicata all’Italia.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Terra. Amata Terra: la teoria di Gaia

Terra. Amata Terra.

È stato molto tempo fa. Posso ancora sentire lo stupore quando la notizia sensazionale venne diffusa dai media: “La Terra vive” o: “La nostra Terra, un essere vivente”. Come se qualcuno avesse visto la luna per la prima volta.

Non potevo credere allora, e non posso crederci nemmeno adesso, a come tante, troppe persone possano rinchiudersi in un misero isolamento. Chiunque ascolti anche solo un po’ i propri sensi non può non rendersi conto che questo meraviglioso essere, la nostra Terra, Terra Madre, è piena di vita. Respira, sente. Si muove come un’isola azzurra nell’immensità dell’universo. È magnifica, maestosa. Un’opera d’arte di terra e acqua, occupata e popolata da miriadi di creature viventi.

Su di essa, il granitico splendore delle rocce, la vita meravigliosa delle piante, il magico mondo degli animali e poi noi, gli esseri umani, dotati della capacità di una coscienza riflessiva, del magnifico dono dei sentimenti, dell’ingegnosa capacità di pensare, di individuare le connessioni, di imparare dal passato e di modellare con fantasia il futuro. In grado di riconoscere le nostre radici nell’eterno presente. Tutto questo sulla Madre Terra. Come potrebbe non essere un organismo vivente?

Ancora oggi mi vengono i brividi quando vedo con quanta noncuranza alcuni trattano la Terra che ci dà sostegno e fondamenta. La nostra astronave e la nostra casa. Ci connette alla luce delle stelle e invita il sole a fornire l’energia e il calore per la vita. Noi essere umani siamo terrestri. Di quali prove abbiamo bisogno per dimostrarne l’evidenza?

La Teoria di Gaia | I protagonisti

Ecco a voi, al vostro servizio. Sono stati due scatenati pensatori, entrambi insigniti di onorificenze accademiche, a fornire la prova dell’ovvio: la Terra è un essere vivente, come formulato nella “Teoria di Gaia”, dal nome della dea greca della Terra.

Per una volta, prima l’uomo. James Lovelock, laureato ad Harvard, astrofisico, ingegnere, ricercatore pioniere della NASA. Delineò le basi della Teoria di Gaia, fornendo prove su prove. James Lovelock visse una lunga vita. Nato nel 1919 e deceduto nel 2022, arrivò all’età di 103 anni. Il 26 luglio è sia il giorno della sua nascita che della morte.

Lynn Margulis (1938 – 2011) creò scompiglio nel mondo della ricerca per tutta la vita con le sue audaci teorie. Nel lavoro si collocò accanto a Lovelock; nel privato era sposata con l’astrofisico di fama mondiale Carl Sagan. Margulis era una microbiologa. La sua passione erano i “lampi dell’evoluzione” e questo includeva la Teoria di Gaia, che arricchì con i suoi studi.

La Teoria di Gaia | I punti principali

Lovelock e Margulis raccolsero una serie di prove inconfutabili che la Terra è un essere vivente. Queste prove comprendevano la composizione dell’atmosfera, la vitalità dell’acqua e degli oceani, i cambiamenti del clima e, soprattutto, i processi di feedback, che permettono quella che scientificamente viene definita omeostasi, ovvero la capacità di mantenere un equilibrio, un bilanciamento. Solo in questo modo è possibile far fronte anche ai cambiamenti più drastici. Questa capacità è espressione della vita stessa.

L’amore

Tutto questo può essere interessante, persino importante, dal punto di vista accademico, ma ciò che è veramente significativo è la nostra presa di coscienza, la nostra relazione d’amore con questo misterioso, grandioso, divino essere chiamato Terra. La sua pazienza con noi sembra infinita. Forse è proprio questa sua capacità che la rende una madre? La capacità di amare senza limiti, incondizionatamente, che scaturisce dal suo interno.

Terra. Amata Terra.

Traduzione dal tedesco di Barbara Segato. Revisione di Thomas Schmid.

Karl Gamper
Karl Gamper è un ricercatore della coscienza, docente e autore di diversi libri. Insieme alla moglie Jwala Gamper, ha fondato l’Accademia e il Centro di ricerca NeuLand. Il suo obiettivo è sostenere le persone nel percorso di sviluppo della coscienza e promuovere così l’evoluzione dell’umanità verso una società pacifica. (traduttore Deepl)

Una favola (triste) di uomini e di orsi

C’erano una volta in Italia, nei boschi delle Dolomiti, gli orsi. Ci vivevamo da sempre, in pace e in equilibrio con tutte le specie vegetali e animali.

Poi arrivò l’uomo, che si sentiva superiore ad ogni altra specie, un dio in terra col potere di decidere il destino di tutto ciò che lo circondava, e li ammazzò tutti.

Un giorno capitò che l’uomo si svegliò sentendosi animalista e tanto buono e si dispiacque di averli ammazzati tutti. Così andò in Slovenia, dove strappò alcuni esemplari dal loro habitat per portarli con la forza nei luoghi in cui fino a quel momento li aveva ammazzati.

L’uomo pensò di aver fatto una vera figata: aveva rimediato ai suoi errori ripopolando la zona. Così, con la coscienza a posto, smise di interessarsene. Li lasciò liberi di vivere sulle montagne. E loro stavano là in alto senza dare fastidio a nessuno.

Passarono gli anni, gli orsi si riabituarono a vivere lì. Crebbero e si moltiplicarono. L’uomo, però, non smise di assassinare l’ambiente.

Le montagne col tempo divennero luoghi inospitali nei quali per gli animali vivere era sempre più difficile. Per procurare il cibo per sé e per i propri cuccioli furono costretti, loro malgrado, a scendere verso valle avvicinandosi sempre più alle zone abitate dagli umani. Sempre più affamati, sempre più spaventati.

E fu così che, un giorno, l’uomo-dio-in-terra e l’orso-spaventato-e-affamato si incontrarono. L’uomo quel giorno ebbe paura. E invece che riconoscere il suo errore, la superficialità del suo operato e pensare a provvedimenti da attuare con urgenza che potessero permettere la coesistenza in sicurezza per entrambe le specie, l’uomo decise che l’orso era un animale selvaggio, cattivo e pericoloso e che si stava meglio quando in giro non ce n’erano. Decise quindi che la soluzione era ammazzarli nuovamente.

Morale 1: nella terribile vicenda di Val di Sole l’orso non ha avuto alcuna responsabilità, si è limitato a vivere, ovvero a sopravvivere nel solo modo che gli era possibile, subendo le scelte dell’uomo-dio-in-terra, che come è sempre stato e sempre sarà, fa, disfa, deturpa, uccide, nel nome del proprio ingiustificato delirio di onnipotenza, per poi scaricare la responsabilità dei suoi danni a terzi, che siano umani o addirittura animali.

La morte del giovane in Val di Sole è un fatto orribile, ingiusto e insopportabile per la famiglia, cui vanno le mie sentite e sincere condoglianze. Ma se di colpa si può parlare, questa non va certo addossata all’orso. Parlare di “orso assassino”, e che quindi va punito con la più severa pena possibile, oltre che essere completamente sbagliato, è un’idiozia.
L’orso non può commettere reati alla stregua di un essere umano, né può essere giudicato per le sue azioni. L’orso non fa cose buone o cattive. L’orso fa l’orso. Piantiamola di umanizzarlo e iniziamo ad assumerci le responsabilità delle nostre scelte e delle loro conseguenze.

Morale 2: in questa terribile storia qualcuno può vedere una metafora di qualcosa di ancora più grande, e più grave. Io sono tra questi.

Nella foto  di copertina:  Juan Carrito, forse lo ricorderete, l’orso buono e giocherellone, che é morto il 23 gennaio scorso, dopo 2 ore di agonia sull’asfalto, senza ricevere alcun soccorso, dopo essere stato investito da un’automobile a Castel di Sangro (AQ), nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Non era lui ad attraversare la strada, ma la strada ad attraversare il bosco, la sua casa.

Nota di Redazione:
Se vuoi firmare la petizione “Salviamo l’orsa JJ4 dal lager del Casteller e dalla morte!” che ha già  superato le 362.000 firme, vai su:   https://www.change.org/p/salviamo-l-orsa-jj4-dal-lager-del-casteller-e-dalla-morte?source_location=petitions_browse

LIBERIAMOCI DAL FOSSILE! – 6 MAGGIO 2023 MANIFESTAZIONE NAZIONALE A RAVENNA

6 MAGGIO 2023 MANIFESTAZIONE NAZIONALE A RAVENNA

di Campagna Per Il Clima – Fuori dal Fossile – Rete No Rigass No Gnl – Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna

Il prossimo 6 maggio giornata nazionale di lotta per fuoriuscire dal sistema fossile
Costruiamo le convergenze di tutte le mobilitazioni sociali  

L’ambiente e la svolta ecologica devono diventare la frontiera avanzata della lotta per il lavoro e i diritti

In tutto il Paese e in tante parti d’Europa e del mondo sta crescendo la mobilitazione sociale per costruire la possibilità di vivere in modi diversi da quelli che fino ad ora ci sono stati imposti e che  ci stanno portando alla catastrofe climatica, che va ad aggiungersi alla crisi economica in un quadro in cui peggiora la qualità della nostra vita per difendere gli interessi di pochi.

L’aumento della temperatura, la desertificazione, la siccità, che porteranno a una sempre più grave crisi alimentare, all’impoverimento collettivo, alle guerre continue, alle inevitabili migrazioni climatiche,  e l’aggravarsi di tutti i tipi di sfruttamento e di umiliazione dei diritti  sono il motore della nostra lotta.

Le prossime settimane e i prossimi mesi saranno teatro di molte mobilitazioni sociali, per contrastare le politiche che ci governano e per riaffermare i diritti civili. In questo programma l’Ecologia non è un tema fra i tanti. Essa deve diventare sempre di più la via maestra da percorrere per costruire l’orizzonte di una società più giusta e un mondo realmente vivibile per chi verrà domani. E quindi la trasformazione radicale del modello produttivo e sociale deve divenire punto di vista strategico di ogni lotta  e delle sue rivendicazioni. Attivarsi oggi per la vera svolta energetica, per realizzare un sistema davvero alternativo che renda l’energia sostenibile in termini di costi economici ed ambientali, è una componente fondamentale per resistere alle politiche sbagliate e avviare quelle giuste.

Nei vertici del settore energetico, e purtroppo anche in gran parte del mondo politico e delle Istituzioni, si parla con insistenza di ricoprire il nostro Paese con una fittissima rete di strutture dedicate al gas. Mentre a Piombino è già arrivata la grande nave rigassificatrice, e tra poco un’altra dovrà arrivare a Ravenna, si stanno già progettando molte altre strutture di rigassificazione in Sardegna e in Calabria, si riparla del medio e basso Adriatico, si pensa al Golfo di Trieste, alla Liguria e a potenziare gli altri siti (Livorno, La Spezia e Rovigo) dove gli impianti di rigassificazione ci sono già. E naturalmente si dissemineranno le coste d’Italia di depositi di GNL. Contemporaneamente, si progettano e si realizzano altri gasdotti, altri siti di trivellazione, e tutte quelle strutture che ci legheranno al sistema estrattivista per sempre. Strutture che renderanno il gas, già ambientalmente insostenibile, più costoso.

Si punta tutto su queste opere costosissime per le tasche di tutte e tutti noi, che non ci porteranno benefici in termini di economia né di indipendenza energetica, ma che vengono spacciate per strategiche, quando in verità la strategia è solo volta a garantire extra profitti alle multinazionali dell’oil&gas.

Non va tralasciato che sono pericolose per la sicurezza e per la salute, spesso classificate fra gli impianti “ad alto rischio di incidente rilevante”, nocive per la qualità dell’aria e per l’ambiente marino, pesantissime dal punto di vista della crisi climatica.

Piombino, nave rigassificatrice  (foto greenreport.it)

La comunità scientifica insiste inascoltata nell’appello ad iniziare al più presto la riduzione delle emissioni dovute alle fonti fossili e la sua sostituzione con le fonti rinnovabili, ma da parte del Governo, di gran parte dei poteri locali e del mondo industriale si insiste a potenziare l’intero sistema estrattivista. Si vuole dichiaratamente fare del nostro Paese il punto centrale di tutto il “sistema fossile” nel Mediterraneo, con il quale  saremo condannati a convivere. Una grave minaccia al futuro, nostro, delle nostre figlie e figli, nipoti e delle future generazioni. Purtroppo dobbiamo prendere atto che anche la Regione Emilia Romagna, il cui Presidente è stato nominato (al pari di quello toscano) Commissario Straordinario per il rigassificatore, e il Comune di Ravenna, nonostante le intenzioni più volte affermate di voler favorire la transizione ecologica, fanno parte del fronte che sostiene il potenziamento e l’estensione del sistema fossile.

Questo modello di sviluppo vecchio e anacronistico va cambiato in profondità, con  una decisa svolta verso rinnovabili, produzione energetica diffusa e decentrata, risparmio ed efficientamento; le opportunità produttive e occupazionali, della svolta ecologica sono gigantesche, e in grado di contribuire al  contrasto alla povertà energetica, alla difesa dei ceti più fragili, oltre che ad espandere i processi democratici e di controllo dal basso.

La Campagna Per il Clima Fuori dal Fossile, la Rete No Rigass No Gnl, la Rete Emergenza Climatica e Ambientale dell’Emilia-Romagna stanno da anni tracciando un percorso che ha portato ad incontrare molte sensibilità e molte esperienze, cresciute nelle innumerevoli  vertenze per la difesa dell’ambiente, della salute, del clima e della democrazia, che ha segnato tappe fondamentali, fra le quali la recente lotta di Piombino con la manifestazione dell’ 11 marzo scorso. In continuità con tali esperienze, fin dall’inizio del percorso che si snoda in tutta Italia sotto il nome di “Territori in cammino”, abbiamo indicato il 6 maggio come data per la tappa ravennate. Altre iniziative di uguale rilevanza organizzate nel frattempo, che trattano le tematiche del lavoro e della lotta alla violenza sulle donne, sono altri tasselli di un disegno complessivo di lotta alle disuguaglianze, alla povertà, allo sfruttamento e al calpestamento dei diritti primari delle cittadine e dei cittadini.

Invitiamo tutte e tutti quindi alla mobilitazione in generale, nel nostro caso per la lotta alla deriva fossile alla

MANIFESTAZIONE NAZIONALE
Sabato  6 maggio 2023 a Ravenna
con appuntamento alle ore 14 in testa Darsena di città

   

Campagna Per Il Clima – Fuori dal Fossile – Rete No Rigass No Gnl – Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna

Cover: FSRU GOLAR TUNDRA NAVE RIGASSIFICATRICE FSRU GOLAR TUNDRA, PIOMBINO (foto GEA Greem Economy Agency)

Tree climbing, che passione

Tree sleeping? No, tree climbing…

Gli alberi, che meraviglia, che passione incontrollabile.

Sempre pervasi da un amore infinito per questo pilastro del mondo naturale che ci collega alle stelle del cielo, abbiamo spaziato dal pensare come un albero” al fenomeno del Tree sleeping.

Oggi vogliamo raccontarvi del tree climbing, letteralmente “arrampicata sugli alberi”, una tecnica che permette, attraverso l’uso di funi e imbraghi, di accedere alla chioma dell’albero in assoluta sicurezza. Nato negli Stati Uniti nella prima metà del ‘900 (dove, recentemente, è tornato alla ribalta della cronaca, diventando protagonista come originale forma di protesta pacifica in difesa di alcune millenarie sequoie.), si è poi diffuso in Europa principalmente come tecnica di lavoro sugli alberi ornamentali, nei parchi e in ambito urbano.

Oggi è diventata una vera disciplina sportiva che unisce l’amore per la natura con la tecnica dell’arrampicata sicura, con tanto di Campionati Italiani, dove ci si cimenta in varie prove sfidanti, quali la simulazione di salvataggio di persona in condizione di pericolo, su un ramo di un albero, o una salita sulla pianta con un finto lavoro di sistemazione e potatura della stessa. Atletismo che fa l’occhiolino alla natura.

A raccontare la breve ma intensa storia del tree-climbing italiano (una filosofia), un libro di Luca Vitali, Arrampicare gli alberi – Il tree climbing in Italia, Edizioni Montaonda, che raccoglie avventure di protagonisti sospesi tra i rami e appesi a una fune, che hanno sperimentato nuove tecniche e materiali, per toccare e incontrare gli alberi, salirli e curarli, potarli e quando necessario abbatterli, ma sempre con il rispetto che si deve a questi eccezionali e antichissimi esseri viventi.

L’immagine della copertina, del noto fotografo americano James Balog, sintetizza tutto ciò che l’albero significa: un sistema complesso e articolato, un’unicità che lo rende una montagna viva, dove l’uomo spicca per la sua piccolezza di ragnetto rosso, una mole quasi magica che sfida tempo e materia. Una centralità innegabile ed evidente nel sistema vivente terrestre.

Raccontata dalle voci dei protagonisti (climber ma anche agronomi), ecco ricostruita la storia della rivoluzione dell’arboricoltura in Italia, in tutta la sua complessità: dalle manovre in pianta alle tecniche, dalla potatura alla nuova gestione del verde urbano, dalla concretezza della professione alle nuove filosofie ambientaliste.

Nelle ampie interviste con l’istruttore-arboricoltore Renato Comin, l’istruttore tre volte campione italiano di tree climbing Alberto Anzi, l’agronomo Daniele Zanzi, esperto di alberi monumentali (e ne ha parlato a Geo&Geo nel 2013),

gli agronomi Laura Gatti e gli esperti Gianmichele Cirulli, Maurizio Coerini, Massimo Sormani, Matteo Cortigiani, Domenico Abbruzzo, vengono sviscerati gli aspetti e le vicende di un mestiere sempre più richiesto e apprezzato, che affascina e coinvolge sempre più persone. Fra le verdi chiome che sanno di infinito.

Partendo dagli anni ‘80 fino ad a oggi, il libro, che contiene anche bellissime immagini, entra nel merito delle problematiche legate alla professione e alla pratica, considerandone anche le derivazioni secondarie, quelle che spostano l’obiettivo dalla ‘cura dell’albero’ all’uomo, e propongono l’arrampicata in pianta come esperienza di crescita personale, sport e avventura o, anche, pratica di protesta. Mondi che si uniscono.

Un elemento di ulteriore grande interesse e peculiarità è l’esperienza della casa editrice Montaonda.

Luca Vitali

Nata nel marzo 2011, per iniziativa di Luca Vitali, cerca di pubblicare libri utili, ostili alla logica massificante del capitalismo avanzato, favorevoli alla decrescita e a una vita serena e soddisfacente. In pochi anni è diventata la prima casa editrice italiana per l’apicoltura, traducendo testi stranieri, ripubblicando importanti libri esauriti, proponendo nuovi libri per specialisti e appassionati, per curiosi e bambini. Non ha distributori ma ha preferito l’auto-distribuzione. Incuriositi, cercate un suo libro? Basta andare sul sito.

Luca Vitali, Arrampicare gli alberi, Il tree-climbing in Italia, Edizioni Montaonda, 2013, 216 pp.

Primo Maggio, festa della merce-lavoro

Il Primo Maggio si celebra la conquista della giornata di otto ore lavorative, iniziata nel 1867 nello stato dell’Illinois, per poi espandersi molto lentamente in tutto il territorio statunitense. Una coda tragica si ebbe il primo maggio 1886, diciannovesimo anniversario, quando durante lo sciopero a oltranza deciso dalla Federation of Organized Trades and Labour Unions come il giorno di scadenza limite per estendere, appunto, tale legge in tutto il territorio americano, la polizia uccise due manifestanti a Chicago.

Faccio il sindacalista, da un anno a tempo pieno. Mi occupo di migliorare la vita in azienda delle persone che lavorano nella mia categoria. Negozio accordi, cercando di ottenere le migliori tutele e cercando di farle applicare – cosa non così scontata. Ascolto i loro problemi, alcuni molto seri, alcuni meno gravi. In entrambi i casi, si tratta di problemi vissuti da persone che hanno un contratto di lavoro stabile, una progressione economica garantita, una previdenza assicurata, e che grazie a queste cose – non concesse, ma conquistate – hanno potuto chiedere un mutuo, farsi una famiglia, immaginare e programmare un futuro. Queste garanzie sono frutto delle rivendicazioni collettive di lavoratori che si sono organizzati in sindacati, cioè in organizzazioni miranti a tutelare interessi comuni attraverso il ricorso alla forza collettiva conferita ai loro rappresentanti da una delega.

Finora tutto bene, vero? Dove sarebbe il problema? Il problema è che le lavoratrici ed i lavoratori di cui “mi occupo” hanno almeno 40 anni. Poi vado a casa, e ascolto quello che raccontano i figli e i loro amici di 20 o 25 anni a proposito del loro lavoro. E rabbrividisco. Mi succede soprattutto quando sono reduce da consessi sindacali nei quali noi,  grazie alle nostre lotte, parliamo di problemi nel lavoro: mentre fuori da lì ci sono problemi del lavoro. Di un lavoro che non conosciamo più e di persone che non intercettiamo più. A volte, non sappiamo nemmeno dove sono.

Leggo che “i lavoratori coperti dai 207 Ccnl confederali sono circa il 97% del totale dei contrattualizzati” (Fonte: Fondazione Di Vittorio della Cgil). Poi ci sono 687 contratti firmati da organizzazioni sindacali che non rappresentano quasi nessuno, e che fanno dumping, accettando di sottoscrivere condizioni al ribasso.  I lavoratori tutelati da un contratto nazionale sono 14,5 milioni.  I lavoratori attivi (dato dentro il quale si trova un po’ di tutto) sono poco più di 23 milioni. Infine (si fa per dire) gli “inattivi” – persone che potrebbero lavorare ma non lo fanno, per vari motivi – sono quasi 13 milioni.

Dentro quei 9 milioni di non contrattualizzati c’è di tutto, ma anche dentro coloro che lavorano con un contratto c’è di tutto: a tempo determinato (più di 3 milioni), con somministrazione (dato variabilissimo, oscillante attorno alle 450.000 unità). I numeri sono importanti, darne troppi rischia di non far focalizzare gli elementi più rilevanti del quadro generale. Che a mio avviso sono tre:

più di una persona, rispetto a due che lavorano (13 milioni su 23), non lavora. Diciamo che “preferisce” non lavorare e mantenersi a un livello di sussistenza con altri mezzi che non siano il lavoro.

9 milioni di persone lavorano “in nero”, sono i “sommersi”. Un numero enorme.

-tra i contrattualizzati a vario titolo, un quarto sono a termine, e il 5% sono dipendenti delle Agenzie per il lavoro, che li somministrano ad aziende per cui lavorano ma che non hanno bisogno di licenziarli, quando non servono più, perchè non li hanno nemmeno a libro paga. E pensare che c’era una legge, che io studiai, che vietava l’interposizione di manodopera. Adesso, se ti registri come agenzia di intermediazione, puoi diventare un caporale autorizzato. La differenza è enorme: prima era vietato l’istituto, adesso è vietato non pagare lo Stato che ti autorizza a farlo.

Negli anni ’90, ben prima della fusione a freddo che diede vita al PD, arrivarono questi accademici cattolico-socialisti prestati alla politica che, non so dire se armati delle migliori intenzioni, aprirono la porta all’utilizzo del lavoro precario (che chiamarono “flessibilità”) per migliaia di imprenditori, sull’assunto che il mercato del lavoro poteva migliorare abbassando le soglie di tutela del lavoro stesso, invece che stimolando l’aumento di produttività ed efficienza delle aziende. I vigliacchi assassini delle Brigate Rosse che ammazzarono Marco Biagi, uno dei più lucidi teorici della precarizzazione del rapporto di lavoro, fecero un altro capolavoro: resero impossibile criticare le sue idee, pena l’essere accusati di giustificare un delitto.

Renzi e i suoi apostoli (ora in parte convertiti alla fede nella nuova leader, che si deve guardare da loro più che dai fascisti, perchè il loro mimetismo è imbattibile) in fondo non fecero, con il Jobs Act, che completare l’opera dei loro predecessori, a partire da Treu. Resero precario ab origine anche il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, coerenti con l’assunto che l’imprenditore dispone i fattori della produzione, e se licenzia, anche illecitamente, non deve correre il rischio di ritrovarsi quel lavoratore di nuovo in azienda: al massimo, dovrà pagare una “multa”. Il licenziamento (illegittimo) come costo d’ impresa, calcolabile ex ante. E pensare che nemmeno per l’AD di Ikea Italia (leggi qui) l’art.18 dello Statuto dei lavoratori era un problema, lamentandosi invece lo stesso dell’incertezza nei tempi della burocrazia e della politica. Eppure la sinistra contemporanea che elaborava idee d’avanguardia alla Leopolda decise che era ora di dare una bella spallata.

Tutto molto moderno, molto contemporaneo. E se succede a tua figlia? Se succede a lei, improvvisamente tutta questa modernità ti appare con un altro volto: quello della mercificazione delle persone e del lavoro.

Questo armamentario teorico promana da un filone importante della sinistra italiana. Questi giuristi sono stati selezionati all’interno di compagini, poi divenute governi, di centro-sinistra. La mercificazione del lavoro in un paese che dichiara di essere una “Repubblica fondata sul lavoro” è stata approntata e messa a terra dentro un filone di cultura politica appartenente alla “sinistra”, e questo più che un’ opinione mi appare come un dato di realtà.  Ciò detto, come è possibile meravigliarsi del fatto che milioni di persone, in particolare tra le classi sociali meno abbienti, non vadano più a votare? Forse c’è da meravigliarsi che milioni di persone ancora ci vadano (siamo in una fase talmente decadente della nostra democrazia da considerarne svuotate di senso alcune sue regole fondanti, fatto tra l’altro storicamente foriero di sventure).

E’ una celebrazione agrodolce, resa grottesca da un Consiglio dei Ministri convocato il primo maggio per deliberare misure sul lavoro, che scommetterei destinate a renderlo ancora più “flessibile” di quanto già non sia.

Lino Guanciale in Europeana, al Teatro Abbado di Ferrara

Uno splendido Lino Guanciale in Europeana di Patrik Ourednik, scampoli di Novecento, secolo contraddittorio

Uno spettacolo, quello in scena al Teatro Comunale di Ferrara dal 28 al 30 aprile, dove, per usare le parole dello stesso Lino Guanciale di cui è interprete e regista, è come stare dentro un frullatore, corollario di un secolo, il Novecento, quasi inafferrabile. D’altra parte, i frullatori – ed elettrodomestici simili – sono nostri fedeli e onnipresenti compagni quotidiani.

Europeana è un libro straordinario e insolito (una curiosità: stesso nome della biblioteca digitale europea). Sono 150 pagine che raccolgono scampoli della storia europea del Novecento, accumulati come si accumulano i giornali vecchi in uno sgabuzzino stretto, buio e polveroso. Le più diverse notizie vengono date una di seguito all’altra, con pari importanza, tutte rigorosamente alla rinfusa, un susseguirsi di scampoli, brandelli e flash della storia europea: tragedie, slanci, sarcasmi, progressi, scoperte, passioni, omicidi, politica, guerre… Un vortice di contraddizioni. Non manca nulla, pare, c’è tutto, ma a pezzettini, come ritagli di un’enciclopedia, di quelle che a scuola i boomer e i ragazzi della generazione X sfogliavano. Come se il prodigioso e terribile ventesimo secolo fosse ormai laggiù, distante e quasi sepolto con tutte le sue agitazioni, irrequietezze e pazzie; come fosse già una civiltà antica di cui restano solo frammenti. Basta parlare con i giovani e tecnologici nipoti e questa sensazione diventa subito realtà.

Il praghese Patrik Ourednik ha raccolto quel turbine di voci, di follie e aspirazioni come da una civiltà o un futuro lontani e le ha riunite in un solo respiro. La furia di questa lista è la sua potenza. Finisce per essere una storia di mille storie, in cui ci getta Lino Guanciale, avvolto dai frammenti musicali del bravissimo fisarmonicista sloveno Marko Hatlak. Atmosfera avvolgente e affascinante, emozionante. Nel buio della sala.

Palcoscenico con sfondo nero, una montagna di stracci – che scopriremo essere magliette che l’attore indossa durante il reading – che ricorda la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto (1967), l’apertura con la fisarmonica di Marko che ci regala alcune note di Oblivion di Astor Piazzolla. Tutti attenti ad ascoltare, per sapere, contro i pregiudizi.

Un vero rapporto corpo a corpo fra l’attore e il testo (d’altra parte l’attore viene dal rugby). Una fatica fisica che si vede anche nelle oltre 20 magliette indossate durante la lettura-recitazione. “Il teatro è un fatto fisico, se non è presenza non è”, dice Guanciale. E poi c’è il corpo a corpo agonistico per il lettore. È un tour de force ammaliante e ipnotizzante da cui non si può distogliere l’attenzione nemmeno per un attimo.

“Il pallino viene lasciato all’attore”, continua, “che si muove sulla base della sensazione del momento. Il rapporto con il testo che viene letto è forte e intenso, si tratta di una scelta poetica volta a restituire il funzionamento dello stesso testo. Il reading è un grande spazio di manovra nel teatro, la lettura dà valore alla versatilità dell’attore. Non è lettura e basta – o diventerebbe mortale – ma è recitare con un rapporto diretto con la pagina come struttura portante. Se si recita seguendo un testo inventando in quel momento o seguendolo come un musicista segue la sua partitura viene fugato ogni equivoco identificativo: l’attore è una cosa, il testo un’altra, l’incontro fra i due una mediazione cui partecipa il pubblico e da esso ci si aspetta un punto di vista critico nei confronti del testo”. Verissimo e nello spettacolo si vede bene.

Rispetto a Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, Europeana rinuncia all’ambizione di controllo, dice Guanciale in un’intervista. Nel testo di Kraus la voce narrante tiene insieme i pezzi, qui invece no. Lo spettatore si impegna a prendere posizione, chi ascolta deve costruire un suo pensiero, un proprio percorso critico.

Se i fatti elencati sono tanti tantissimi, avanti e indietro nel tempo, i ponti vanno immaginati e costruiti da chi “subisce” il testo, trascinato in un vortice. Ai fatti va resa la loro anima.

La lista dei fatti e dei numeri – come i chilometri fatti dalla somma delle altezze dei soldati morti durante la Prima Guerra Mondiale – mette lo spettatore sotto un rullo compressore di breaking news che scorrono 24 ore su 24, a cui si deve dare un senso e un ordine. Un accumulo di dati ed eventi che siamo noi a dover ordinare o almeno a provare a farlo.

Immersi come siamo nel frullatore che pervade la nostra società, con come compagni domestici quei frullatori e quelle invenzioni tecnologiche tanto decantate, ma anche con i morti o gli animali che perdono il loro status domestico e ne acquistano un altro di attrazione zoologica o i tanti altri oggetti che possono stare nella discarica o nell’uragano della storia, dobbiamo fare noi un bilancio, tirare filo e conclusioni.

Ogni cittadino ha avuto una sua idea di Europa a seconda dell’epoca che ha vissuto. Per alcuni è stata la contrapposizione segnata dalla cortina di ferro e dalla guerra fredda, per altri è diventata una strana signora a memoria Thatcher o Merkel, per altri ancora è legata alla caduta del muro di Berlino (e nello spettacolo ci sono anche le note di The Final Countdown degli Europe). Per molti è quella di oggi con le sue feroci ingiustizie.

Il Novecento è stato un secolo contraddittorio, legato da conquiste e sconfitte, che ha generato valori e disvalori. Scoperte e guerre devastanti, buoni e cattivi. Come sempre, d’altronde. Per Lina Wertmüller, in Un’allegra fin de siècle, di questo secolo si salvava il cinema. Per Guanciale-Ourednik, oltre alla scienza, si salvano anche la carta igienica, il reggiseno, l’elettricità e l’acqua calda in casa, per sorriderci un po’ sopra.

Il testo, del 2001, pare scritto oggi. Il suo filo è la memoria, la storia. La chiarezza su chi siamo e da dove veniamo. I regimi che si fronteggiano. Il capitalismo e il consumismo che si rincorrono. La Barbie deportata del 1986 è un esempio, terribile, per tutti, di come mercificare anche la memoria, di come il cittadino sia ormai il consumatore e il consumatore sia cittadino sono in quanto consumatore.

“E nel 1986 fu creata una bambola Barbie con la divisa a righe dei campi di concentramento con un piccolo copricapo a righe sulla testa”.

Trailer realizzato da Anna Margotti nell’ambito del corso Area Non Fiction di bottega finzioni, Bologna

Non bisogna perdere la grande eredità data dalla memoria, in un mondo che ci getta nella “marmellata”, ossia la mondializzazione e la globalizzazione in cui siamo cresciuti.

Nel 1989 Francis Fukuyama profetizzò l’imminente “fine della storia riferendosi al fatto che, dopo il crollo del comunismo sovietico e la fine della Guerra Fredda, la democrazia liberale e il capitalismo sarebbero stati destinati a pervadere, gradualmente, tutte le nazioni del pianeta. E pace, equilibrio ed uguaglianza sarebbero stati per sempre e per tutti. Pare proprio, invece, che si reiterino sempre gli errori del passato e che molte persone non conoscano questa teoria. Perché continuano a (voler) fare la storia.

 

Lino Guanciale

Nato nel 1979 ad Avezzano (L’Aquila), dopo alcuni trascorsi rugbistici, si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, dove si diploma nel 2003 e ottiene il Premio Gassman come miglior allievo degli ultimi dieci anni. Subito dopo inizia a lavorare in teatro, prima con Gigi Proietti (Romeo e Giulietta, spettacolo inaugurale del Globe Theatre di Roma), poi con Claudio Longhi (Il Matrimonio di FigaroLa solitudine dei campi di cotoneSallingerPrendi un piccolo fatto vero) e Franco Branciaroli, collaborando con alcuni tra i più importanti nomi del palcoscenico italiano, da Luca Ronconi (Atti di guerra) a Walter Le Moli (Gli incostantiAntigone), da Massimo Popolizio (Ploutos, o della ricchezza) a Michele Placido, che dopo averlo diretto in Fontamara gli affida il ruolo di Nunzio nel film Vallanzasca – Gli angeli del male. Al lavoro in teatro affianca dal 2005 l’attività di insegnamento e divulgazione scientifico-teatrale negli istituti scolastici medi superiori e nelle Università (è nel corpo docenti dello IUAV di Venezia). Al cinema esordisce nel 2008, interpretando Wolfgang Amadeus Mozart in Io, Don Giovanni di Carlos Saura, cui segue La prima linea di Renato De Maria. In seguito, è nel cast, oltre che del citato Vallanzasca, dei film Il gioiellino di Andrea Molaioli, Il sesso aggiunto di Francesco Antonio Castaldo, Il mio domani di Marina Spada, To Rome with Love di Woody Allen, La scoperta dell’alba di Susanna Nicchiarelli. Nel 2012 è stato protagonista di Happy Days Motel di Francesca Staasch, coprotagonista de Il volto di un’altra di Pappi Corsicato e nel cast corale de di Stefano Tummolini e di Maraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani. Nel 2017 è protagonista dei film I Peggiori di Vincenzo Alfieri e La casa di famiglia di Augusto Fornari, nel 2018 è in sala con Arrivano i prof di Ivan Silvestrini. In tv ha interpretato le fiction Il segreto dell’acqua di Renato De Maria, le tre stagioni di Una grande famiglia (per la regia di Riccardo Milani e Riccardo Donna) ed è stato protagonista maschile di alcune serie di grande successo in onda sulle reti Rai: Che Dio ci aiuti 2 e 3, La dama velata, le due stagioni di Non dirlo al mio capo e La porta rossa, le tre stagioni di L’Allieva. È il Commissario Ricciardi nella serie di Alessandro D’Alatri in onda su Raiuno e parte di Sopravvissuti. In teatro, dopo il successo de La resistibile ascesa di Arturo UI di Bertolt Brecht (Premio dell’Associazione Nazionale Critici Teatrali come Migliore spettacolo dell’anno), de Il Ratto d’Europa (Premio UBU 2013) e di Istruzioni per non morire in pace, tutti per la regia di Claudio Longhi, nel 2016 ha inaugurato la stagione del Teatro Argentina di Roma con Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, portato in scena da Massimo Popolizio. Nella stagione 2017/2018 è il protagonista della trasposizione teatrale di La classe operaia va in paradiso, per la regia di Claudio Longhi, che gli vale il Premio UBU e il Premio dell’Associazione Nazionale Critici Teatrali come miglior attore, e alla fine del 2018 è il protagonista maschile di After Miss Julie, per la regia di Giampiero Solari. Nelle ultime stagioni ha portato in scena Non svegliate lo spettatore, omaggio alla vita e alle opere di Ennio Flaiano, Dialoghi di profughi di Brecht e ha esordito nella regia teatrale con Nozze di Elias Canetti. Nel 2015 ha ricevuto il Premio Flaiano come Personaggio rivelazione dello spettacolo italiano.

Marko Hatlak

È un fisarmonicista sloveno, noto per le sue performance vivaci e appassionate e per l’ampia varietà di generi che adora esplorare – dal barocco alla musica contemporanea, al tango, all’etnica al jazz. Il suo percorso musicale inizia a sei anni, a Idrija, nella scuola musicale della sua città natale. Dopo essersi diplomato al Conservatorio di Ljubljana ha proseguito i suoi studi in Germania, prima a Weimar (Accademia di Musica Franz Liszt) e poi a Würzburg, dove ha concluso il suo perfezionamento con il maestro Stefan Hussong. Solista da venti anni, leader di ensemble, ha condiviso la scena con numerosi altri solisti di fama, ensemble, orchestre e direttori, che ne hanno valorizzato il suo unico e peculiare approccio. Negli ultimi anni ha composto vari lavori per orchestra e per solo, nonché brani popolari per i suoi gruppi. Tra gli artisti con cui ha collaborato ci sono Stefan Milenkovich, Vlatko Stefanovski, Stefan Hussong, Una Palliser, Neil Innes, Tommy Emmanuel, Iztok Mlakar, Miho Maegaito, Marko Churnchetz. Ha inoltre lavorato con i seguenti direttori e orchestre: l’Orchestra filarmonica di Mosca, la Jenaer Philharmonie, la RTV Slovenia Symphony Orchestra, En Shao, Marko Letonja, David de Villiers, Carmina Slovenica. Si è esibito in importanti teatri e sale da concerto nel mondo, tra cui il Kennedy Center (Washington DC, USA), Križanke – Festival Ljubljana (Slovenia), Sava Centar (Belgrade, Serbia), University of Harvard (Boston, USA), Slovenian Philharmonic (Ljubljana, Slovenia), Ronnie Scott’s (Londra, GB) e l’ensemble della BBC Terrafolk.

Lino Guanciale in Europeana. Breve storia del XX secolo, di Patrik Ourednik

Copyright © 2001 Patrik Ourednik, Traduzione Andrea Libero Carbone, © 2017 Quodlibet srl, regia e con Lino Guanciale, musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica, costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca, luci Carlo Pediani, co-produzione Wrong Child Production e Mittelfest2021, in collaborazione con Ljubljana Festival

Foto di Luca A. d’Agostino