Skip to main content

Presto di mattina /
In ogni cosa c’è una parola che attende

Presto di mattina. In ogni cosa c’è una parola che attende

Rorate cieli de super

«… Finché un poeta inseguirà l’umano di Dio nei suoi versi, avrai materia per i tuoi mattutini. Non scoraggiarti e non temere, mio caro don». Così un carissimo amico mi ha scritto dopo l’ultimo mattutino a refrigerio dei miei “arsi calami”. Come rugiada, la sua parola amica, nel cespuglio arido, dal quale tuttavia, nell’umido della notte rinasce una promessa di parole nuove, ancora rosate, irrorate, asperse – dice la sua raffinata etimologia.

E così ricambio l’amicizia con parole antiche ma molto rugiadose: quelle di Ugo Foscolo nell’Adelchi (Coro Atto IV):

Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier,
Discende il refrigerio
D’una parola amica.

Così le parole nascoste negli steli riarsi delle espressioni logorate dall’uso sono come il Messia veniente cantato dal salmo 109 (110): “dal seno dell’aurora come rugiada sono generate». E allora sì «Rorate! stillate ancora o cieli dall’alto» e anche voi poeti continuate senza posa, perché si possa trovare ancora questa umanità di Dio che attende in ogni cosa.

Oggi il pensiero religioso e la stessa teologia soffrono di autoreferenzialità, prigionieri o di un linguaggio specialistico o di un devozionalismo superficiale, estetico e non estatico, senz’anima. Entrambi mancano di un’intima immaginazione, del soffio vitale. Eppure continuando su questa strada non avranno futuro. Senza immaginazione creativa, incapaci di pensare e dire l’umano di Dio, che attende in ogni cosa, in ogni esperienza, in ogni avvenimento e relazione, lo stesso vangelo resterà muto.

Scrive il teologo Pierangelo Sequeri: «Nella comunità cristiana come anche, rispettivamente, nella società civile, la teologia è praticamente senza peso. In entrambe, sia pure con le debite differenze, la dichiarazione di non voler aver nulla a che fare con la teologia dei teologi suona come un crisma di attendibilità, e rispettivamente di autenticità della testimonianza della fede.

La fede non è un’ideologia, non è una teoria, non è una morale, non è una politica, ripetono tutti. In questo senso, i più coraggiosi aggiungono: non è neppure una teologia. Naturalmente, tutto questo ha una sua essenziale verità: la fede non è una teoria» (Vita e pensiero, 4 2021, 71-72).

La teologia e il pensiero religioso devono così tornare a dischiudere il mistero nascosto in ciascuno e in ogni cosa, a partire dall’esperienza umana di tutti gli uomini. E lo potranno fare a condizione di un mutamento dell’immagine del divino e di un recupero della dimensione estetico-affettiva.

Continua Sequeri: «Diverso è l’orizzonte, se il campo di conoscenza e di azione del regno di Dio – ossia il piano del realismo della fede – è il mondo dato, la vita esistente, l’umano che è comune. Il futuro secolare avrà una teo-logia se la teologia cristiana cesserà di essere un semplice strumento di addestramento dottrinale del personale ecclesiastico…

Non sono necessariamente gli intellettuali più frequentati dalle accademie teologiche. Ma lo dovranno diventare, nel futuro della teologia. Perché nell’epoca che viene la teologia che scaturisce dell’adorazione di Dio in spirito e verità farà tesoro della testimonianza della samaritana e del pubblicano, non dell’isolamento dei leviti e dei sacerdoti» (ivi, 74; 76).

Per selve a me oscure perché la via era smarrita

walt whitman foglie d'erbaE così oggi ho intrapreso un sentiero sconosciuto verso quella selva oscura che è Foglie d’erba, l’opera poetica di Walt Whitman. Foglie d’erba che a un tempo simboleggiano il singolo, distinto e unito nell’uguaglianza agli altri individui, fili d’erba in una lussureggiante distesa di un popolo.

Inizio un cammino, ma non da solo, in compagnia di una buona guida, Antonio Spadaro sj. Scrittore, critico letterario e direttore de La Civiltà Cattolica, studioso della letteratura italiana e di scrittori statunitensi, e in particolare di Whitman. E così grazie a lui dal filo d’erba spero di riuscire a veder le stelle e in carne d’uomo e di donna il verbo incarnato e amante.

Credo che un filo d’erba non valga meno del lavoro
giornaliero delle stelle,
E la formica è parimenti perfetta, e un granello di sabbia,
e l’uovo dello scricciolo,
E il rospo volante è un chef-d’oeuvre supremo,
E la mora di rovo ben potrebbe ornare i saloni del cielo,
E la più sottile giuntura della mia mano si fa beffe di qualsiasi
macchinario,
E la mucca ruminante a testa bassa la vince su ogni statua

Credo che le zolle fradice diverranno un giorno amanti
e fiaccole,
E che compendio dei compendi sia la carne di un uomo
o di una donna,
E che culmine e fiore sia il sentimento che l’uno nutre
per l’altra

Io credo che quelli come te dovranno star per forza con le
mie poesie, e che anzi sono loro stessi le mie poesie,
poesie dell’uomo, della donna, del bambino, del ragazzo,
della moglie, della madre, del padre, del
giovane e della giovane. 
(Foglie d’Erba, Meridiani, Milano 2017, 141; 139; 237)

“Quel premere, quel premere delle onde verso terra. Eternamente in cerca della riva” (ivi, 1147)

L’opera poetica di Whitman consiste, si radica e si amplifica nella visione di una terra, sull’immensità sconfinata della sua terra, compresa non tanto nel suo essere ma nel suo divenire. Un popolo e una terra proiettati verso un futuro oltre le frontiere. I suoi scritti stanno al centro del canone letterario statunitense. Testi a cui la comunità ha riconosciuto un particolare valore, la cui influenza ha segnato anche la letteratura italiana del novecento.

Sarebbe meglio dire allora che le sue parole, i suoi versi, attestano piuttosto un’aspettativa insperata e pur attesa; l’attesa di una visione, come onde sempre in cerca di un nuovo approdo. Uno sguardo che guida il presente con una mano amica verso ciò che gli sta oltre.

Altri adornano il passato – ma voi, oh giorni presenti, siete voi che io
adorno!
Oh giorni del futuro, io credo in voi!
Oh America, poiché tu costruisci per l’umanità, io costruisco per te!
Oh scalpellini tanto amati! Guido quelli che decisi e abili, fanno
progetti,
Guido il presente con mano amica verso il futuro.

Questa notte sono felice,
Mentre guardo le stelle che brillano, mi viene un pensiero sulla
chiave dell’universo e del futuro.
(Foglie d’erba, Newton Compton Editori, Roma 2014, 268; 335).

Scrive Antonio Spadaro che quello di Whitman è «il tendere inesausto verso una novità radicale, la profezia di un rapporto pieno tra l’uomo e la sua terra, di una fratellanza radicale tra gli uomini, di una laboriosità maestosa che sia reale con-creazione del mondo, l’attesa di una parola “vera” che dica la realtà e non resti solamente appesa a fantasie. Ogni verso di Whitman vive dell’immagine realizzata di questo desiderio» (La Civiltà Cattolica, 3671, 2003, 440).

Celebro me stesso,
E ciò che immagino tu immaginerai,
Perché ogni atomo che appartiene a me appartiene davvero anche a
te.
Io fantastico e invito l’anima mia,
Mi adagio e fantastico a mio piacimento, soffermandomi su un filo
d’erba estivo
(ivi, 196).

La verità della terra non è una massima, ma un principio vitale.

Infinita ricerca è allora la sua poesia, quella di parole che attendono solo in ciò che vive, solo ciò che è vivo e rende vivi.

Tenere insieme gli uomini con carte e sigilli, o con la forza, a nulla
serve,
Solo ciò che è principio vitale tiene gli uomini uniti, come ciò che
unisce le membra del corpo o le fibre delle piante.
(ivi, 269)

La verità nell’uomo non è una massima, ma è parte vitale come la
vista,
Lì dove c’è un’anima, lì è la verità – dove c’è un uomo o una donna,

è la verità – dove c’è uno spazio fisico o morale, lì è la verità,
Se c’è volontà o equilibrio, lì è la verità – qualunque cosa vi sia sulla
terra, lì è la verità.
O verità della terra! O verità delle cose! Sono pronto a percorrere
tutta
la strada verso di te,
A sondare la tua voce! Dietro di te io scalo montagne o mi tuffo nel
Mare
(ivi, 232-233).

In lui, pertanto, la creatività poetica non è semplicemente espressione del sentimento o immaginazione fantastica, ma confronto con la vita, slancio vitale suo e di un intero popolo: slancio vitale che sboccia più fragrante delle rose dalle vive gemme, quando le piogge estive le gonfiano di rugiada. È un’immaginazione concreta, celata nel reale proprio perché partecipata e condivisa:

La terra non si nega, ma piuttosto è generosa,
Le verità della terra aspettano di continuo, e non sono neppure così
nascoste,
Sono calme, sottili, incomunicabili sulla carta,
Sono impregnate di ogni cosa e con gioia entrano in relazione,
Comunicando un sentimento e un invito della terra – non mi stanco
di
ripetere,
E io non parlo, ma se tanto tu non mi senti, a cosa ti posso servire?
Generare – migliorare – se manca questo, a cosa posso servire?
(ivi, 432)

Mentre guardo le stelle che brillano, mi viene un pensiero sulla
chiave dell’universo e del futuro
(ivi, 335).

Le verità attendono in tutte le cose

«Occorre lasciar vivere questa attesa, scrive Spadaro, e leggere Foglie d’erba come un libro che a partire dal presente dice un paradiso che sempre vivrà nel cuore dell’uomo, al di là di ogni realizzazione storica di quell’ideale… il desiderio e l’attesa di una pienezza umana al di là di ogni compimento», (Spadaro, 441).

Ogni verità attende in ogni cosa,
Non affretta il proprio parto né oppone resistenza,
Non ha bisogno del forcipe del chirurgo,
L’insignificante per me è grande quanto il resto,
Che cosa è più o meno importante del toccare?
La logica o un sermone non convincono mai,
L’umidità della notte arriva più a fondo nell’anima mia.
Solo ciò che arriva a dimostrarsi a ogni uomo o donna è quel che è,
Solo ciò che nessuno smentisce è quel che è
(Meridiani, 139)

Resta da chiarire un dubbio, si domanda ancora Spadaro: «Whitman è il bardo degli Stati Uniti? È, insomma, solamente un poeta nazionalista o liberista? Sarebbe un abbaglio sostenerlo. È l’ampia storia della ricezione dei suoi testi a dirci che non è così. I suoi versi, radicati in una terra e in un popolo, sono in grado di parlare a chiunque, come dimostra il numero e la varietà di scrittori che a lui si sono ispirati» (ivi, 433).

Non è lui allora, anche se “celebra se stesso”, il messia del nuovo mondo. Il messia veniente e presente al tempo stesso lo riconosce semmai nel volto di un giovane morente: «un volto né infantile né adulto, calmissimo, di un bel tono d’avorio, / O giovane, io credo di conoscerti – credo che questo è il volto di Cristo, / Morto, divino e fratello di tutti: che qui di nuovo è morto» (ivi, 442).

Il Cristo è sempre oltre, in divenire e tuttavia nascosto e in attesa nell’umanità dei suoi fratelli e sorelle: «Ricordati di Cristo, fratello dei reietti – fratello degli schiavi, dei criminali, degli idioti e dei matti e dei malati… Se non riesci ad afferrarmi subito, non ti scoraggiare, Se non mi trovi in un posto, cercami in un altro, Io da qualche parte mi fermo ad aspettare te» (Foglie d’erba, Newton Compton 370; 155).

Camminando e navigando attraverso lo spazio e il tempo

«Spazio tempo! Ora vedo che quel che intuivo era vero, quel che intuivo reclino sull’erba…/ E ancora camminando sulla spiaggia sotto le stelle che al mattino impallidiscono» (ivi, 126-127).

Così, per Whitman, la strada, le frontiere dei mondi, gli approdi dei mari, degli universi spirituali ed esistenziali costituiscono i luoghi in cui incontriamo gli impeti e le delicatezze delle sue visioni e il venire alla luce della sua immaginazione. Non le crea le immagini, ma le riceve strada facendo, lo attendono in ogni cosa. Così lungo la via canta le gioie della vita, le gioie di tutti: della natura e degli uomini e delle donne in cammino.

Camminando:

Sopra le floride canne da zucchero, sopra la pianta di cotone,
sopra la bassa umida risaia
Sopra il grano saraceno bianco e bruno, vibrante e frusciante
Come tutto il resto.
Sopra il verde scuro della segala che s’increspa e fa ombra nella
brezza,
Scalando montagne, sollevandomi con prudenza, reggendomi su rami
bassi e scheletriti,
Camminando lungo il sentiero battuto nell’erba e battendo contro le
foglie degli arbusti,
Dove la quaglia fischia tra i boschi e i campi di grano,
Dove il pipistrello vola nelle serate di luglio, dove il grande scarabeo
d’oro cade giù attraversando il buio,
Dove la trebbiatrice batte il tempo sul pavimento del fienile,
Dove il ruscello sgorga dalle radici di un vecchio albero e scorre
verso il pascolo.
(ivi, 127-128).

Conosci tu le gioie eccellenti della giovinezza?
Le gioie dei cari compagni e della parola allegra e del
viso ridente?
La gioia del lieto giorno radioso, la gioia dei giochi di ampio
respiro?
La gioia della dolce musica, la gioia della sala sfavillante
e dei ballerini?
E tuttavia, O anima mia suprema!
Conosci tu le gioie dell’assorto meditare?
Le gioie del cuore libero e solo, del cuore tenero e mesto?
Le gioie della passeggiata solitaria, dello spirito piegato
ma fiero, della sofferenza e della lotta?
Gli spasimi dell’agone, le estasi, le gioie delle solenni
riflessioni diurne o notturne?
Essere un marinaio nel mondo alla volta di tutti i porti
Esser la nave stessa (a guardare queste vele che dispiego al sole e all’aria).
Una nave veloce gonfia di vento, colma di parole preziose,
colma di gioie
(Meridiani, 421-423; 425).

Vai! Uno ti cammina accanto

E strada facendo, attraversando le colline della Giudea, Whitman incontra pure lo “splendido Dio gentile” che gli si avvicina e cammina con lui giorno e notte, quando arretra e quando avanza, quando è pieno e quando è vuoto, instabile o bramoso e conosce tutte le sue vie.

Approdando ad ogni porto per traffici e avventure,
Trascinato dalla folla moderna avido e volubile come chiunque altro…
Camminando per le antiche colline della Giudea, con lo splendido
Dio gentile [beautiful gentle God by my side] al mio fianco

Correndo [speeding thru] attraverso lo spazio, correndo attraverso il cielo e le stelle,
Correndo attraverso i sette satelliti, e l’ampio anello, e il diametro di
centomila chilometri,
Correndo con stelle comete, gettando globi di fuoco come fanno gli
altri,
Infuriando, gioendo, programmando, amando, ammonendo,
Arretrando e riempiendomi, apparendo e scomparendo,
Giorno e notte percorro queste strade
(ivi, 153-155)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

La panchina incompiuta

La panchina incompiuta

C’erano una volta dei sentieri
nel Parco Bassani di ieri.
Ora sono dei vialoni
che aspettano le sorelle circonvallazioni.
Mancano passaggi pedonali
dossi e incroci autostradali,
i semafori arriveranno
prima della fine dell’anno.
Attrezzato con libro e giornale
mi son detto “adesso mi siedo
e mi appoggio allo schienale”.
Mi guardo attorno e vedo
un cubetto maledetto
che starebbe meglio alla Biennale,
sono anziano ma devo stare attento
perché se mi addormento
potrei cadere tra i pensieri
e mandare accidenti non è
tra i richiesti pareri.

(Pier Luigi Guerrini)  

In copertina: Parco Urbano Bassani di Ferrara, nuovissima panchina anti- ergonomica con stradello cementato e un bel cane – Foto di  Barbara Goberti

Diario in pubblico /
Luoghi tempi persone

Diario in pubblico. Luoghi tempi persone

 C’è un senso nel riconoscere nei nomi un destino, una rivelazione, una verità nascosta. Nella mia lunga vita ho abitato luoghi tra i più belli del mondo, non solo nella loro reale posizione, ma anche nel nome che hanno. Uno fra tutti che è e rimarrà esemplare: Via di Bellosguardo a Firenze.

Altri invece nel nome-destino portano misteriosamente un legame che la titolazione stessa evoca: Via Ricasoli sempre a Firenze, dove comprai un appartamento che ricorda il personaggio storico, Bettino, la cui esistenza comporta un aggancio storico-politico con Ferrara.

La via in cui abito a Ferrara invece suggerisce un riferimento storico nazionale che ha soppresso nel nome la sua condizione di maggior via d’acqua per approdare alla residenza dei duchi estensi in Castello. Ma la peggiore intitolazione forse in ogni senso è via Zanella al Lido degli Estensi ora giustamente chiamata ‘la Via del Rumore’.

Non mi ha fatto cambiare idea nemmeno il fondamentale studio critico di uno tra i 5 miei amici del cuore Anco Marzio Mutterle che nel 1988 scrisse Il professore ombroso. Quattro studi su Giacomo Zanella. Erano gli anni eroici della visitazione della letteratura moderna e contemporanea e a lui, compagno inseparabile della nostra avventura pavesiana, toccò il compito della rivalutazione di uno scrittore che a noi giovani intellettuali sembrava un relitto da cancellare, o perlomeno da ‘non ti curar di loro ma guarda e passa’.

Ma il luogo forse più carismatico, quello che segnò per sempre la mia storia esistenziale e culturale fu il Bagno Alpemare al Forte dei Marmi, che la generosità della famiglia Volterra ci aveva messo a disposizione. Lì incontravo Eusebio-Montale, lì confluivano quegli intellettuali che poi si radunavano al Caffè Roma, lì mi sentivo orgogliosamente ultra-radical-chic, altro che la Capalbio del ventunesimo secolo, a cui dedica un acuto commento Ritorno a Capalbio Massimo Gramellini nel Corriere del 25 luglio, dove la constatazione “Capalbio è un marchio di infamia snobistica un modo di dire e di sfottere” che andrebbe approfondito.

  Ora l’Alpemare è il bagno alla moda (naturalmente secondo dopo quello del Twiga Beach Club della intraprendente madame d’Asburgo Santanchè) gestito dal cantante Boccelli; ma – è questione di gusti – che resta dell’aura culturale? Francamente non lo voglio sapere. Per fortuna nel mio Laido degli Estensi forse la nota più positiva risiede nella cucina del Bagno Onda Blú, ottima e a prezzi accessibili ai comuni mortali anche se intellettuali….

Un articolo di Concita De GregorioLe due eredi designate, apparso nella Repubblica del 23 luglio 2023, prende in esame le eredi del potere politico-sociale-economico del nuovo corso italiano, Giorgia Meloni e Marina Berlusconi, sottolineando quanto sia complesso essere donne al potere e quanto costi tenere a freno le inevitabili pretese della superiorità maschile.

E ormai a livello occidentale la presenza delle donne in politica è straordinariamente cambiata rispetto a pochi decenni fa. Inutile fare la conta, basta consultare qualsiasi sito specializzato che ci informa sulle quote un tempo dette rosa per renderci conto della consistente presenza femminile .

Con questo non si vuole assolutamente affermare che sia meglio essere governati dalle donne, ma semplicemente constatare l’innegabile aumento delle donne alla guida di importantissime strutture sociopolitiche in Occidente. La prova provata rimangono, in Italia, le due signore in oggetto e la presidente del PD Elly Schlein, che ancora fatica, e lo scrive uno dei suoi elettori, a trovare la via di una ripresa consistente della sinistra italiana.

L’aria si fa più leggera se devo riferirmi alla autorevole presenza giornalistica al femminile, ma la consuetudine con le signore mi rende l’impresa facile e consolatoria: Natalia Aspesi, prima inter pares e, alla rinfusa, scusandomi di dimenticarne molte: Lucia Annunziata, Lilli Gruber, Giovanna Botteri, Barbara Palombelli, Luciana Litizzetto, Stefania Battistini, Dacia Maraini, Michela Murgia;

le storiche e straordinarie testimoni della Shoah: Lia Levi, Edith Bruck, Liliana Segre ; inoltre le studiose dell’ebraismo Dora Liscia, Igina Bemporad, Jael Liscia e anche Portia Prebys e Paola Bassani. Nell’ambito ferrarese poi studiose che hanno svolto anche attività giornalistica come Ethel Guidi, Mirna Bonazza, Maria Teresa Gulinelli e le sue sorelle.

Come si può notare e che ci conforta comunque nell’attesa di una possibile parità invocata, ma troppo spesso elusa, è che non è più eccezionale la presenza di una donna che illustri con il suo esempio il mondo intero, che al loro tempo si chiamavano Maria Callas, Edith Piaf, Elsa Morante, le mie amatissime.

E, forse, l’atteggiamento più adatto a coloro che desiderano e pretendono la eguaglianza tra le due parti del mondo va ancora indicato in un precursore troppo spesso dimenticato: Pier Paolo Pasolini.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Considerazioni (in)attuali di un sociologo urbano. In risposta al prof. Farinella

Considerazioni (in)attuali di un sociologo urbano.
In risposta al prof. Farinella

Le riflessioni promosse dal prof. Farinella nel suo denso intervento mettono al centro una serie di problematiche che vanno al di là della specificità del contesto ferrarese e toccano il governo delle città in questa epoca di crescente incertezza e difficoltà.
Taluni aspetti della contemporaneità evidenziano quanto le città siano divenute, o meglio ridivenute, luoghi sempre più centrali nelle politiche sociali, economiche e culturali. In altre parole, la scala urbana assume un ruolo decisivo nel progettare e nell’implementare interventi che alimentano a livello locale dinamiche talvolta anche in conflitto con le leggi nazionali, come anche recentemente si è assistito sul caso di figli e delle figlie di coppie omosessuali, oppure le cosiddette citta santuario dove si accolgono migranti e rifugiati contro le limitazioni legislative dei governi centrali. Tale autonomia di governo è un valore significativo nel momento in cui il decentramento decisionale permette di essere prossimi alle istanze dei cittadini, di essere vicini alle problematiche territoriali e, infine, di conseguire obiettivi simbolici e pratici dentro alla logica dell’inclusione e della piena cittadinanza. Tuttavia, lo sappiamo molto bene, questo orizzonte si scontra con realtà, “troppo” spesso e volentieri, in cui le dinamiche di potere locale conseguono specifici interessi di parte, relegando eventuali critiche, progetti alternativi quali fastidi rispetto alle proprie scelte ritenute del tutto appropriate.
Da queste sintetiche osservazioni, nel solco aperto da Farinella, sorge un problema urgente sul quale è oltremodo necessario riflettere, ovvero il rapporto tra città e democrazia. Negli ultimi anni la sociologia urbana ha affrontato temi importanti all’interno di questa relazione, ad esempio la gestione degli spazi pubblici, le politiche abitative, le politiche di welfare, le strategie di sviluppo socio-economico e le trasformazioni delle istituzioni e delle amministrazioni per far fronte alla complessa articolazione dei problemi (crisi economica e sanitaria, aumento delle povertà, transizione ecologica).
Sulla base di un ampio repertorio di ricerche condotte in diverse città e aree metropolitane europee emerge un quadro sufficientemente chiaro: la chiave di volta per affrontare tale complessità, come richiamato in maniera esemplare da Farinella, è ridefinire e innovare i processi di partecipazione democratica dei cittadini e delle cittadine al fine di condividere priorità e finalità dell’agire pubblico.

Partecipazione e cittadinanza attiva

La parola magica partecipazione è presente nella maggior parte dei progetti europei e nazionali cha hanno quale loro scopo la gamma degli interventi nelle città, dalla progettazione sul sociale alla riqualificazione urbana nelle loro distinte variazioni. Anche in questo caso, sovente, l’effettiva partecipazione rimane nell’alveo delle buone intenzioni, configurandosi quale retorica del consenso piuttosto che divenire strumento democratico e di emancipazione collettiva. In altre parole, i processi partecipativi si caratterizzano per il loro essere in molti casi mera consultazione invece di raffigurarsi nella dimensione della reale co-progettazione in riferimento sia alla definizione del problema, sia alla ricerca delle risposte compatibili con esso. Dal lato dei singoli, o gruppi organizzati, di cittadini il tema della cosiddetta cittadinanza attiva risulta oltremodo significativo in questa prospettiva. Il termine presenta una certa variabilità concettuale così come nella sua manifestazione. Il filo rosso che tiene insieme questa articolazione sta nella costituzione di ambienti, relazioni e pratiche condivise tra le persone per avanzare problemi, costruire possibili soluzioni, promuovere inclusione e responsabilità collettive.
La cittadinanza attiva è un valore aggiunto nelle dinamiche democratiche locali poiché esercita il ruolo e la funzione di soggetto politico nel senso nobile della parola di occuparsi delle questioni e delle scelte di pubblico interesse. In diverse occasioni le prerogative di tale attivazione possono assumere i contorni di un conflitto con l’esercizio del potere locale. Forse è necessario ribadire che il conflitto, termine diventato oramai quasi blasfemo, è una palestra di democrazia, un terreno dove si apprendono e maturano competenze politiche e sociali decisive e dove si sperimenta l’agire cooperativo, quest’ultimo fattore determinante nel prossimo futuro per contrastare gli effetti delle problematiche che abbiamo in precedenza delineato. Altresì il conflitto ha effetti benefici sugli attori e sulla configurazione del potere locale poiché potenzialmente innesca circoli virtuosi di apprendimento delle problematiche espresse, di individuare nuove competenze nell’amministrazione e, non certamente ultimo, di aumentare la capacità di leggere e di rispondere alle questioni via, via emergenti. Di conseguenza, non si deve aver timore di affrontare eventuali istanze conflittuali, ma viceversa cogliere l’occasione per aprire spazi e luoghi di confronto entro i quali esercitare il gioco democratico.
Questo non significa assolutamente annullare in una sorta di immaginaria pace sociale le differenze di visione, o peggio, di appiattire le specifiche diverse culture politiche. Sarebbe altrettanto dannoso. Si tratta, viceversa, di alimentare e vivificare il rapporto tra società urbana nella sua articolata composizione e democrazia nel momento in cui appare all’orizzonte la minaccia di un progetto politico di governo autoritario delle città, tema su cui insieme al professore Farinella stiamo da tempo lavorando.

La città autoritaria

Per “autoritario” s’intende identificare dinamiche che escludono progressivamente i cittadini dalla loro capacità di mobilitazione, dal loro riconoscimento in quanto soggetti attivi e, al contempo, un’egemonia del valore commerciale sul valore sociale della città che ha un effetto di ridurre i problemi solo nella loro valenza economica.
Il rischio di ciò che abbiamo chiamato città autoritaria è l’esito di dinamiche che rispondono a un modello neoliberista ritenuto l’unica medicina per curare quegli stessi mali che ha contribuito a creare. Sarebbe opportuno ripensare tale modello il quale reca con sé l’incapacità di creare le condizioni per promuovere l’eguaglianza, l’equità e la sostenibilità socio-ambientale che, al contrario di quanto la vulgata asserisce, saranno le imprescindibili fondamenta per uno sviluppo economico di un determinato territorio.

Il caso Ferrarese

Riflettendo sul caso ferrarese è del tutto evidente che siamo di fronte a una situazione entro cui si possono individuare elementi rilevanti. La costituzione del Forum Ferrara Partecipata raffigura un esempio significativo all’interno di una cornice di rinnovata relazione tra cittadinanza e governo. Infatti, la mobilitazione non si pone solo su un piano di esclusiva critica a una scelta amministrativa ma si propone anche diffondere saperi e di integrare la singolarità dell’intervento all’interno di una visione più ampia dell’abitare un luogo, di per sé contradditorio e mai definito una volta per tutte. Qui sta il senso più deciso della cittadinanza attiva: ampliare i confini del diritto alla città nell’ottica di scenari democraticamente disegnati, discussi e condivisi. La democrazia è una continua pratica di rivendicazione, di ascolto, di proposte e di dialogo. Non si può esimersi da questa semplice, forse banale, constatazione.
Ferrara in tal senso è sicuramente un laboratorio di cui è assolutamente decisivo coglierne l’opportunità.

L’università e la città

Infine, alcune brevi considerazioni sul ruolo dell’Università come discusso da Farinella. Al di là delle evidenti valutazioni che si possono fare sull’importanza dell’Ateneo in termini di ricadute economiche sulla città, è chiaro che ciò non è sufficiente.
Il mondo accademico negli ultimi tempi è chiamato nelle sue componenti ad aprirsi alla città. Termini quali “terza missione”, “public engagement”, i quali appaiono un filo oscuri a chi non ha certe frequentazioni, delineano questo obiettivo secondo le nuove linee ministeriali di valutazione dei singoli atenei. Il fatto che venga istituzionalizzato il rapporto tra territorio e università è sicuramente un fatto di cui essere piuttosto contenti. Tuttavia, è altrettanto rilevante riflettere sulle modalità con cui tale rapporto dovrà stabilirsi e, in particolare, quali possano essere i contenuti sui quali lavorare congiuntamente. Su questi aspetti il dibattito è aperto: da un lato, l’università può assumere un ruolo di sostegno a politiche socio-economiche che assecondano il sopra citato modello neoliberista; dall’altro può promuovere saperi e competenze capaci di gettare le basi per una seria alternativa socio-economica e socio-culturale.

Nel mezzo di questa polarità, ovviamente, ritroviamo tante sfumature, tanti differenti percorsi non riconducibili fedelmente a uno dei due. Conseguentemente dentro alle mura universitarie appare urgente definire quali indirizzi dare a questa inedito rapporto attraverso il continuo dialogo con la complessità amministrativa, l’articolazione sociale ed economica espresse dalla città nel suo insieme. E ciò deve essere fatto nel modo più trasparente e pubblico possibile al fine di dare impulso a una effettiva rigenerazione che tenga insieme i frammenti sparsi di un mosaico di cui, purtroppo, ancora non conosciamo l’immagine conclusiva.

Salario minimo legale:
perchè conviene

Salario minimo: la situazione nel mondo

Il salario minimo è stato introdotto in quasi tutti i 38 paesi OCSE e negli Stati Uniti[1] in quanto viene considerato uno strumento utile in quelle economie che hanno un problema di crescente disuguaglianza, con una quota estesa di persistenti bassi salari e di lavoro povero. L’Italia non fa eccezione in quanto ci sono circa 5,2 milioni di dipendenti (il 30-31% del totale) che guadagnano da 5 a 10 euro all’ora. Sono quelli dei settori commercio, pulizie, sicurezza, sport, ricreazione, arte, viaggi e servizi vari alle imprese, operai e apprendisti che in percentuale del 20-40% guadagnano meno di 1.200 euro netti al mese, pur lavorando molte ore. Nel dettaglio, Istat indica in 2.945.877 coloro che percepiscono meno di 9 euro all’ora (ma c’è chi ne prende anche 4 o 5), poi ci sono 2.248.308 che ne prendono tra 9 e 10 euro all’ora e infine altri 11,5 milioni che prendono più di 10 euro. Anche nel “ricco” Centro-Nord sono 1.970.150 lavoratori che prendono meno di 9 euro all’ora (15,9% del totale). Al Sud crescono al 25,1% (1.032.262; 17,2% è la media nazionale tra i dipendenti). L’alta inflazione ha ridotto tutti i salari nel 2022 (in media del 7,5%, -8,4% al Sud), dato record in Europa se si pensa che in Francia e UK sono cresciuti, in Usa sono calati di -2,3%, in Germania -3,2%. Rispetto al 2008 le paghe si sono ridotte al Sud del 12% (fonte Svimez). Le cause principali sono la minore occupazione nella manifattura e una crescita di occupati nei servizi e turismo (che pagano meno) e usano di più part-time e lavoro stagionale (al Sud gli occupati a termine sono il 22,9%).

In alcuni Paesi ci si è opposti (pochi per la verità) perché più alti salari minimi scoraggerebbero alcune assunzioni e favorirebbero il lavoro nero, ma l’esperienza di 30 paesi nell’Ocse su 35 mostra il contrario, che salari minimi ragionevoli non riducono affatto l’occupazione, anzi. In Usa il salario minimo è 7,25 dollari per ora (8 euro), un livello molto basso specie per i lavoratori delle aree urbane. Per cui alcuni Stati (Massachusetts,…) lo hanno alzato fino a 14,25 dollari (se non si hanno altri sussidi pubblici). L’evidenza mostra piuttosto che il salario minimo riduce le disuguaglianze aiutando quel 20-25% circa di lavoro povero che esiste in quasi tutti i paesi occidentali (e sta crescendo). Ovviamente il salario minimo non è la panacea di tutti i mali e andrebbe accompagnato con altri provvedimenti, ma è comunque un tassello utile a tutela del lavoro povero.

Il salario minimo legale non peggiora l’occupazione

David Card, Joshua Angrist, Guido Imbens sono stati insigniti del premio Nobel per l’economia 2021 in quanto i loro studi “hanno fornito nuove informazioni sulle dinamiche del mercato del lavoro e le relazioni causali”. Gli studi di Card sono di grande attualità, nonostante risalgano ai primi anni ’90, quando dimostrò che l’aumento del salario minimo nei ristoranti fast food del New Jersey da 4,25 dollari a 5,05 all’ora non solo non provocò una riduzione di occupati in quel settore ma neppure un trasferimento dei costi sui prezzi dei clienti, come sostiene da sempre l’economia neo-liberista che va per la maggiore. Gli studi in America sono per alcuni versi molto interessanti, in quanto c’è una situazione del tutto speciale dovuta alla presenza di 50 Stati con regole spesso diverse ma con condizioni socio-economiche comparabili e che sono quindi ideali per fare confronti. Gli effetti dell’aumento del salario minimo in New Jersey videro (contrariamente alle aspettative) un incremento del 13% sull’occupazione, mentre nulla avvenne nel vicino Stato della Pennsylvania che non aveva effettuato l’aumento di salario minimo. Studi analoghi in altri contesti confermarono cose simili. Come mai ciò può accadere? Qualcosa di simile avvenne anche in Italia negli anni ’70 quando l’aumento significativo dei salari produsse un aumento dell’occupazione a causa di un vincolo (ragionevole) posto dai sindacati alle imprese di non poter contare su bassi costi salariali e doversi “dare da fare”, avviando quasi sempre un’innovazione organizzativa e dei macchinari che portò ad un aumento della produttività del lavoro nelle singole imprese e ad un aumento delle esportazioni e, di conseguenza, anche dell’occupazione. Una strategia “win-win” che non si è più ripetuta negli anni successivi. E’ comprensibile che i datori di lavoro resistano ad aumenti in quanto con bassi costi salariali “il business è più remunerativo e semplice”, ma da sempre il valore delle imprese è dato soprattutto dai lavoratori (il cosiddetto capitale umano) e quando un’impresa crea un clima favorevole è lei per prima a trarne vantaggio. Lo sanno bene le piccole imprese che si litigano gli operai migliori e le grandi che glieli rubano.

I sindacati italiani per anni hanno resistito ad una legge sul salario minimo perché non vogliono perdere il “potere contrattuale” che tramite il salario è in grado di mobilitare i lavoratori ed ottenere altre rivendicazioni, ben al di là del salario base. Tuttavia oggi ci troviamo con quasi mille contratti nazionali (molti “pirata”) e 3 milioni di lavoratori (2 al Nord e 1 al Sud) che hanno tariffe salariali molto al di sotto di minimi contrattuali decenti (anche 5 euro con contratti firmati) e quasi un terzo di chi ha avuto un lavoro nell’ultimo anno ha avuto un salario inferiore alla linea di povertà Istat (vedi Michele Bavaro su lavoce.info). Per questo sono in molti a chiedere che anche in Italia ci sia una legge per un salario minimo decente com’è in tutta Europa (fissato in genere al 40-50% del salario mediano).

Oltre all’Italia in Europa solo Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca non hanno il salario minimo, e di recente anche un paese povero come Cipro l’ha introdotto. In Austria e nei tre Paesi nordici ci sono già buoni minimi salariali in tutti i settori e per questo non è stato ancora introdotto. Significativo è che anche il conservatore Boris Johnson abbia proposto di aumentare il salario minimo inglese da 8,55 a 9,05 sterline (11 euro) che comporterebbe circa 900 sterline annue di aumento per i salari bassi.

La lotta contro i contratti “pirata”

Il problema in Italia è anzitutto per quei lavoratori che sono pagati 4-5 euro all’ora con contratti “pirata”. Nel Sud il costo della vita è del 20-30% inferiore a quello del Nord e quindi, in presenza di un minimo nazionale, potranno essere poi le singole regioni del Nord ad aumentare il minimo. La questione impatta anche col Reddito di Cittadinanza, che al Sud è stato fissato (come al Nord) ad un livello alto (550 euro circa), per cui l’incentivo a lavorare in regola diminuisce, diversamente dal precedente Reddito di Inclusione (che prevedeva un sussidio minore – circa 350 euro-, ma, intelligentemente, se il povero trovava un lavoro manteneva 2/3 del sussidio). Chi invece trova lavoro col Reddito di Cittadinanza perde l’80% del sussidio e ciò è un disincentivo a lavorare e a prendere solo il sussidio, arrotondandolo poi con 200-300 euro in nero al mese che è più facile da ottenere al Sud e che implica spesso un minor numero di ore di lavoro di un compenso regolare (che però porta più dignità e anche entrate per lo Stato). Questa era la riforma da farsi: invece il nuovo Governo ha proceduto semplicemente togliendo il RdC a circa 800mila persone single che potenzialmente possono lavorare (e per un massimo di 8 mesi anziché 18), al fine di risparmiare 3 miliardi sugli 8 di spesa pubblica annua per questa misura.

[1] Vedi www.dol.gov/agencies/whd/minimum-wage/state. Nel gennaio 2023 variano da 8,5 dollari a Porto Rico a 16,5 nella città di Washington. In media sono su 12-13-14-15 dollari.

Il volo libero di Zaki e il capitombolo di Giorgia

Per il nostro amico e fratello Patrick, per i suoi familiari, il suo avvocato e per i tantissimi che in Italia hanno partecipato alla campagna di Amnesty International, è stata una settimana al cardiopalma. Nel breve giro di 3 giorni (condanna – grazia – scarcerazione) Patrick Zaki si è liberato dal filo spinato che lo avvolgeva da due anni e che minacciava di spezzare completamente la sua vita. Appena due giorni dopo, col passaporto in tasca, ha preso un normalissimo volo di linea (class economy) e domenica pomeriggio è atterrato nella sua amata Bologna.

Mentre gioivamo per il volo libero di Patrick Zaki, Giorgia Meloni capitombola sul rifiuto dello stesso Zaki di salire sul Volo di Stato, messo “generosamente” a disposizione dal governo italiano. Poi, per trovare una via d’uscita al grande imbarazzo istituzionale, Giorgia cerca di intestarsi il merito della liberazione di Zaki.  

Per comprendere la furbata (non riuscita) di Giorgia, per vederla scivolare a terra con un penoso capitombolo, bisogna concentrarsi sulla “riconoscenza”. Che è una parola un po’ ottocentesca, una parola che, come il suo sinonimo “gratitudine”, si usa ormai così poco che può succedere di dimenticare il suo significato, o addirittura di usarla attribuendole un significato inverso. E quello che è successo a Giorgia Meloni, quella che parla- interviene-promette tutto “a 360 gradi” (vedi un magnifico blob diventato virale).

Secondo il vocabolario della lingua italiana La riconoscenza è  il “Sentimento o manifestazione di devozione per un benefattore, di solito associato all’intenzione di ricambiare il beneficio: avere, sentire r. per (o verso) qualcuno; assolvere a un debito di r”. Ne deriva che:
1 ) la riconoscenza è un sentimento che può provare il beneficiato verso il beneficiante per un dono o un favore ricevuto. Non è un obbligo, ma solo una possibilità;
2 ) che non è previsto quindi che il beneficiante possa pretendere o anche semplicemente aspettarsi la riconoscenza del beneficiato. Diversamente il suo non sarebbe stato un dono o un favore gratuito;
3 ) ancora più impossibile “aspettarsi riconoscenza” per un dono e un favore che non si è mai fatto. Per intenderci: se Antonio regala 10.000 euro a Riccardo (ridotto sul lastrico), Antonio può aspettarsi la riconoscenza di Riccardo (anche se non è molto fine), ma è escluso che possa aspettarsi riconoscenza Alessandro che non ha mosso un dito per aiutare il povero Riccardo.

Quando Patrick Zaki rifiuta il Volo di Stato e l’incontro con Giorgia Meloni e ministri vari, dice senza dirlo quello che tutti sanno o dovrebbero sapere: che è tornato libero senza che il governo italiano possa vantare alcun merito.

Di conseguenza, la risposta di Giorgia Meloni assume un aspetto surreale, ridicolo, farisaico:
“Non mi aspetto riconoscenza”.  Ma per cosa? Ma quando mai?
“Era giusto liberarlo”. Come se a liberarlo fosse stata la pressione diplomatica italiana sul il presidente egiziano.

Naturalmente, l’abitudine alla menzogna, il vizio di raccontar balle agli italiani, non nasce con Giorgia e il suo governo di destra. Rimaniamo in Egitto. Sono passati 7 anni dal sequestro, le sevizie e l’omicidio di Giulio Regeni, In tutte le piazze italiane rimane appeso lo striscione giallo della grande campagna promossa da Amnesty International, proprio quella campagna che lo stesso Zaki aveva portato anche in Egitto e che gli era costata l’arresto.
Lo sappiamo, l’Egitto è un grande partner commerciale dell’Italia. C’è il petrolio da importare. Ci sono le nostre armi da vendere all’esercito egiziano. Ci sono le aziende italiane che fanno affari e lavorano in Egitto. Lo sappiamo, è sempre stato cosi, per tutti i governi: gli affari vengono prima dei diritti. Quindi non si può fare nessuna azione concreta, nessuna pressione commerciale, nessuno sgarbo diplomatico: la Verità per Giulio Regeni, come la liberazione di Patrick Zaki non si può pretendere. Al massimo si può sperare nella clemenza di un dittatore, e se sei abbastanza cinico, aspettarti un grazie

“Non mi aspetto riconoscenza. Era giusto liberarlo”
Dichiarazione di Giorgia Meloni dopo il rifiuto di Patrick Zaki di imbarcarsi nell’Aereo di Stato

La riconoscenza non esiste in natura, è dunque inutile pretenderla dagli uomini.
Cesare Lombroso

I riconoscenti − una farsa.
Elias Canetti

La Gabri Scaccianuvole

Il nome del locale è un omaggio alla Bandabardò, una delle band preferite di Gaia, ma vale anche come manifesto. Allo Scaccianuvole si sono tenute nel tempo riunioni, confidenze, presentazioni, cene che precedevano o seguivano eventi del Movimento Nonviolento come delle più diverse associazioni ferraresi, culturali e di volontariato. Essendo situato a poche decine di metri dalla stazione e nel quartiere dove più spesso il confronto tra culture diventa scontro, la sua vetrina accesa è un riferimento importante. Gabri e Gaia sono l’anima di questo posto, e anche altro.

Ho conosciuto Gabriella Ludergnani molti anni addietro, ero poco più che bambina e frequentavo la parrocchia del mio quartiere dove lei era un punto di riferimento, come educatrice e in tutte le attività. Era insegnante allora, di educazione fisica in un istituto superiore, un mestiere che ha svolto con fermezza e passione come tutte le cose. Intanto, alla Caritas, era tra i volontari nella cucina della mensa.

In parrocchia con la figlia, Gaia, qualche anno più giovane di me, mi ritrovavo a strimpellare canzoni, dagli Alleluia a Edoardo Bennato, e a organizzare giochi per i bambini, caccie al tesoro, scenette improvvisate. Gaia poi con il teatro ha continuato e ne ha conservato la presenza scenica, il sorriso, la discrezione, la voce squillante e gioiosa.

Ferrara è circondata dalla cinta muraria (“forse le più belle del mondo”, direbbe Piero Pinna) e lì ho ritrovato la Gabri qualche anno dopo, sempre in zona stazione, in un chiosco aperto nei mesi estivi. Lo gestiva insieme alla figlia. Nel resto dell’anno si concedevano qualche viaggio importante da cui tornavano con tisane e ricette insolite.

Erano diversi gli ingredienti della loro attività: fermezza e passione, anche qui, ma poi ricercatezza – degli ingredienti, delle proposte – e semplicità nell’offrire, nel rispettare le persone. Non hanno mai blandito nessuno, un pregio che altri gestori dovrebbero imparare. Offrivano le loro specialità con piacere e convinzione per il desiderio di far star bene le persone con il loro lavoro, ma non facevano giravolte per compiacere il cliente.

Gabriella Ludergnani, Gabri per tutti

Capitava che gruppetti di immigrati dal nord Africa o dall’Est Europa si avvicinassero al chiosco o stazionassero nelle panchine poco distanti. La Gabri era netta nell’accogliere tutti allo stesso modo esigendo però un uguale rispetto delle regole di convivenza. Erano tempi in cui alcuni gruppi politici facevano dell’immigrazione e della microcriminalità una bandiera. Lei ci teneva molto a che le due cose non venissero confuse. “Io dico a quei ragazzi: «Perché non venite nel tardo pomeriggio, quando ci sono gli anziani, così vi presento!? Questo è Tonino, questo è Luigino, e vedrete che se vi conoscono smettono di avere paura di voi». (È inteso che nel suo discorso battezzava Tonino e Luigino i cittadini stranieri, non gli anziani autoctoni; un passaggio di per sé significativo del suo modo di andare alla sostanza che ci rende eguali).

Allo stesso tempo la Gabri, classe 1942 cioè non più giovanissima, rimetteva in riga tutti e non aveva paura di nessuno. “Vengono sulle mura a bere, a ubriacarsi, e poi buttano le bottiglie. L’altro giorno ho urlato: «Eh no, non si fa mica così! Adesso venite giù, le prendete e le buttate nel cestino!» Han cominciato a protestare, ma io: «Venite giù ho detto. Non potete lasciare le mura in queste condizioni. Poi vi lamentate se gli italiani dicono che non avete rispetto. Scendete a pulire!»”.

Sembra una sciocchezza, non lo è. Conosco poche donne oltre la sessantina che da sole parlerebbero a quel modo a un gruppo di giovanotti ubriachi che si esprimono in una lingua sconosciuta. La Gabri aveva questa scorza apparentemente ruvida, maturata in una vita di cui conosco poco ma credo non facile, unita a una risata franca e diretta, un’ironia sferzante, un’apertura sincera.

Quando le Belle Arti hanno deciso che i chioschi sulle mura cittadine, e quindi anche il suo, deturpavano il paesaggio (argomento discutibile già allora, e ancora di più per come la città si è trasformata in seguito) in tanti siamo rimasti increduli. Lo commentavamo insieme a Daniele Lugli apprezzando l’attività, e mentre scrivo sono certa che se fosse qui questo articolo lo scriverebbe lui, in un modo bellissimo e ironico che non so nemmeno immaginare. Attività di quel tipo, più che uno sfregio a un monumento erano una luce accesa in un quartiere di cui si parlava solo per le risse, lo spaccio, il degrado e la prostituzione. Si sa che praticare i luoghi moltiplicando le occasioni di incontro e di conoscenza tra le persone è un modo per renderli più sicuri. Per dare un contributo in questa direzione, nel nostro piccolo abbiamo organizzato al chiosco qualche presentazione di Azione nonviolenta

Daniele Lugli a un dibattito sulla nonviolenza

Sfortunatamente la decisione della Sovrintendenza è stata irrevocabile ma la Gabri e Gaia non si sono perse d’animo. Hanno rilevato un ristorante pizzeria a pochi metri dal chiosco e hanno portato avanti entrambi gli esercizi finché è stato possibile per poi concentrarsi decisamente sullo Scaccianuvole, dove la filosofia è la stessa, con una gamma più ampia di possibilità consentite dall’essere un luogo che funziona anche sotto le intemperie, dove si trascorre più tempo e si può gustare di tutto, dalla pizza all’antipasto al dessert. Tra i segni di inclusione apprezzo sempre la presenza di dolci senza lattosio (per noi intolleranti è raro), o senza glutine, o per diabetici, e una politica dei prezzi che va incontro a tasche diverse. E poi c’è la voglia di giocare e di variare, di sperimentarsi, con le serate a tema e gli abbinamenti tra la cucina e altri modi di stare insieme.

Quando si entra allo Scaccianuvole si dà uno sguardo ai tavoli. Generalmente c’è qualcuno da salutare. Molto associazionismo per i diritti umani, la salvaguardia dell’ambiente, la pace, la cultura e l’arte… ruota attorno a questo locale, dove si spazia dalla grigliata mista a quello che io chiamo “vegano gaudente” (in opposizione al vegano penitenziale, innegabile), e dove le incursioni nelle cucine di altre culture si coniugano bene con le tradizioni locali.

Non per niente la Gabri – si legge dietro alla foto che Gaia ha preparato per distribuirla agli amici, all’ultimo saluto del 24 luglio scorso nella Chiesa di San Cristoforo – è una “mamma amatissima, cintura nera di cappellacci e di zuppa inglese”.

Parole a capo
Poetare in verso: diverse sensibilità tra vissuto e realtà quotidiana

Quando uno scende nella poesia
non trova più l’uscita…

(Vladimir Holan, traduzione di Serena Vitale)

 

 

Coniugata con la vita

La mia pelle è un cielo

di cui prendere le misure

Sempre chiaro il suo colore

punteggiato di stelle scure

(Miriam Bruni)

 

Forse hai smarrito il mio cuore

Forse hai smarrito il mio cuore,

le mie palpebre,

i gomiti induriti a scriverti,

il corpo piegato come un arco

quando ti aspetto e

 

con la colonna vertebrale a pezzi

quando smetto di aspettarti

forse hai capito che la tenerezza

è una esagerazione,

forse è stato un sollievo

non dover più aprire le braccia,

forse soltanto hai pensato

quanto la mia chioma bianca

può essere ancora pericolosa.

(inedita)

(Natalia Bondarenko)

 

52 

Vita che non paga. silenziosa vita. vita rarefatta. savia e sottotono. silenziosa vita. vita mirata.

sfrondata. lasciata all’orizzonte. disadorna vita. vita sfrenata dai capelli sulla china. vita lanciata nella

corsa. folle. a cinquantadue metri all’ora. una striscia d’olio sull’asfalto. e un sospetto di veleno. lui che

sbanda apposta l’evasione.

(Loredana Semantica)

 

30

Arida la lingua senza sole. nonostante sembrasse un pozzo senza fondo. nonostante avesse in corpo.

slanci d’azzurro e verdi foglie. anche a pescare con la schiumarola. niente affiora. nessun suono.

nessuna parola. questa l’ora trentesima. risacca dell’insignificanza. pena nera. nera pietà del mondo.

(Loredana Semantica)

Le due precedenti poesie sono tratte da “L’informe amniotico – Appunti numerati e qualche poesia” , Limina mentis Editore, 2015)

 

Le poesie taciute

Le poesie taciute

sono parole lasciate sepolte nel sangue

parole che rimbalzano

come sassi piatti sull’acqua

pulsano come sassifraga

nella roccia

e si moltiplicano

in nuovi prodigi

si innalzano

come sciame unico di farfalle

come il suono dell’erba

nel suo germinare

dalla terra che profuma di rosso

(inedita)

(Rita Bonetti)

 

 

Notturno d’estate

nella burrasca di notte

l’acqua si confonde,

si nasconde nel mare

prima di uscire sulla battigia

si era chiesto seriamente

se ne valeva la pena,

se la sentenza era adeguata

ai possibili incontri,

per dare slancio a questa vita

grigia, di cronaca comune

il frutto della riflessione

aveva il profumo

dell’universo naturale.

Il caldo dell’estate

si mescolava

al freddo slargo di mare

pieno di stelle affacciate.

(inedita)

Pier Luigi Guerrini

 

Ho stretto amicizia con una pianta

Ho stretto amicizia con una pianta

dell’androne, accanto al portaombrelli.

Le racconto dei girasoli — di come

è grande la mia gioia quando saltano

agli occhi da un cavalcavia: chissà

se può immaginare i loro dolori.

Vedo stralci di Milano dalle vetrate

sbeccate del portone, uomini e donne

con le buste della spesa, bambine

svelte sui gradini. Qualcuno c’è

che mi saluta senza più sorpresa.

Da qualche mese vivo arresa —

accampata finché non torni

in fondo alla rampa delle tue scale.

(inedita)

(Lara Pagani)


LO  SCAFFALE POETICO
Alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia.

  • Fare poesia (a cura di Paola Springhetti e Gian Carlo Olcuire), Editrice A.V.E., 1994
  • Roberto Dall’Olio, I ragazzi dei Giardini, Pendragon, 2022
  • Roberta LippariniLavanda per l’orco, Secop edizioni, 2023

la rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Emilia Romagna: da illusorio «modello» a «hotspot della crisi climatica».
Quale futuro immaginare?

di Wu Ming
Pubblicato su

Pochi giorni fa si è svolto a Cesena il convegno di Energia Popolare, la «non-corrente» (sic) bonacciniana del Partito Democratico. Tra gli ospiti Romano Prodi, che ha parlato della necessità, da parte del PD, di un «radicalismo dolce». Numerosi gli articoli e i servizi tv – per non dire delle photo opportunities su Facebook e Instagram – dedicati a quest’ennesimo pseudoevento politicante, ovviamente svoltosi in una sala con l’aria condizionata.

Mentre i notabili di Bonaccini – tutti con curriculum ominosi: alfieri della cementificazione, difensori di un’economia ecocida, favorevoli ai rigassificatori e quant’altro – se la cantavano e se l’applaudivano, nel mondo si batteva ogni record di temperatura e aumentava la frequenza di fenomeni estremi e disastri. L’Europa cuoceva a fuoco rapido. Le foreste canadesi bruciavano da mesi. Il fumo faceva tossire persone a migliaia di chilometri di distanza.

In capo a poche ore, sulla stessa Romagna che ospitava il convegno si sarebbe abbattuta, di nuovo, la furia degli elementi. Ma l’aria condizionata dà sollievo, aiuta a non pensare, a continuare col tran tran anche se fuori, letteralmente, si crepa di caldo e le città sono sempre più roventi… anche a causa dei condizionatori.

La mente condizionata della classe dominante

Quello che chiamano «mercato» è un circolo vizioso di stupidità e brevimiranza. Il mercato ha una mente bacata: se gli chiedi la soluzione al problema dell’afa, ti venderà macchine che aggravano il fenomeno, pompando aria calda all’esterno e aumentando consumi di elettricità ed emissioni climalteranti.

La maggior parte di noi ha un’esperienza dell’aria condizionata intermittente, passa da ambienti con ad altri senza, e da spazi chiusi a spazi aperti. Della canicola, quantomeno, se ne accorge. Invece la classe dirigente, a ogni livello, vive in una bolla pressoché interamente condizionata, passa da un ambiente di comfort artificiale all’altro, e crede di poter continuare a farlo. È uno dei fattori che rendono la gravità della situazione non ponderabile, impensabile. Lo ha detto bene un’attivista climatica filippina, Natasha Tanjutco, intervistata dal New Yorker: «No one can make a proper decision from an air-conditioned room».

Bisognerebbe sabotare gli impianti di condizionamento delle sedi istituzionali e dei quartieri generali delle grandi aziende, per vedere l’effetto che fa.

«La Romagna batte l’alluvione»

Il 20 luglio, accanto agli articoli al vuoto pneumatico sul convegno di Energia Popolare, il supplemento bolognese del «Corriere della sera» sparava un titolo che attirava la nostra attenzione:

Crescono fatturati e occupati, la Romagna batte l’alluvione: «Ora intervenire sui mutui»

Si parlava di un rapporto di Confindustria Emilia-Romagna. Siamo abituati da tempo all’angustia mentale e all’indolenza intellettuale dei padroni, eppure il titolo ci è parso oltraggioso – viste tutte le persone ancora in ginocchio, rovinate, traumatizzate – e soprattutto idiota, proprio nel senso originario di incompetente, ignorante. Tra noi abbiamo commentato: «La Romagna batte l’alluvione… fino alla prossima pioggia».

Di lì a poco, neanche a farlo apposta, sulla Romagna e sull’Emilia orientale, come in altre parti di val Padana, sono cadute grandinate inaudite, palle di ghiaccio del diametro di 10-15 centimetri hanno devastato le coltivazioni risparmiate dal fango del maggio scorso. È una conseguenza del surriscaldamento dell’atmosfera: l’aria calda rispinge più volte verso l’alto i chicchi di grandine, che continuano a ingrossarsi, e quando finalmente cadono sono enormi.

Oltre alla grandine, tempeste «downburst» – impropriamente chiamate  «trombe d’aria» – hanno colpito diversi centri, tra i quali Conselice, cittadina-simbolo dell’alluvione, scoperchiando tetti, distruggendo automobili, abbattendo decine di alberi e persino tralicci.

«Le prime tre file di ombrelloni»

Nel mentre, poco più a Sud, si abbatteva un’onda definita «anomala». Così la raccontava il 22/07 l’edizione pesarese del Resto del Carlino:

«Mentre la gente prendeva il sole e, a pochi chilometri da lì, in Emilia Romagna, una tempesta di grandine e vento aveva travolto gran parte della regione, si è formato un improvviso cumulo di nubi sempre più scuro, come se stesse per abbattersi sulla spiaggia una tromba d’aria. Raffiche di vento sempre più vigorose hanno cominciato a battere la spiaggia. Poi è stata questione di qualche secondo: un’ondata, o meglio un’improvvisa marea, ha raggiunto le prime tre file degli ombrelloni […] L’evento si è manifestato con intensità diversa un po’ su tutta la riviera, da levante a ponente fino a Senigallia, Portonovo e Ancona.»

Episodio meno anomalo di quanto sembri: rientra nel sempre più frequente susseguirsi di «mareggiate» che in realtà semplici mareggiate non sono. Finora accadeva più spesso d’inverno, quando al mare non c’era nessuno. Stavolta – ma non è la prima – ne hanno fatto esperienza i turisti. Non sono semplici mareggiate bensì manifestazioni di eustatismo, cioè di innalzamento del livello del mare dovuto al suo riscaldamento e al disgelo delle calotte polari.

Lo facciamo notare da anni: svariati studi dicono che entro il 2100 l’Adriatico potrebbe alzarsi di circa un metro e sommergere l’attuale entroterra nord-adriatico. I territori in cui entrerebbe più a fondo sono i polesini veneti e ferraresi, ma è a rischio un’area che va dal nord delle Marche a Trieste.

2100

L’area nord-adriatica nel 2100 in caso di innalzamento dell’Adriatico di 1 mt. Immagine tratta dall’ormai “classica” proiezione di Alex Tringle, realizzata a partire dal 2007. C’è però un problema semiotico: l’acqua di cui stiamo parlando non sarà per niente blu. Non sarà nemmeno acqua, vedi sotto.

Il fenomeno è già in corso. Una sua avanguardia è il «cuneo salino», la risalita dell’acqua di mare lungo corsi d’acqua indeboliti da lunghi periodi di siccità. Durante l’estate, l’acqua salata risale il corso del Po di decine di chilometri. Quell’acqua non solo è inutilizzabile per irrigare i campi, ma permea il terreno, mettendo in pericolo la vegetazione e nel tempo contaminando le falde d’acqua potabile.

Non è che l’inizio del problema, perché quella che arriverebbe nei territori non sarebbe semplice acqua, ma una melma altamente infetta e tossica.

Dopo decenni di speculazioni spinte dal turismo di massa, la costa adriatica è pesantemente urbanizzata, cementificata. Passando in quelle aree, l’acqua salata si comporterebbe come quella dei fiumi emiliano-romagnoli esondati nel maggio scorso. Le alluvioni hanno fatto scoppiare le fogne, travolto cassonetti e discariche, trascinato via quantità inimmaginabili di liquami e spazzatura, strappato a case, negozi, magazzini e fabbriche ogni sorta di sostanze chimiche e carburanti. «Consumo di suolo» vuol dire anche questo: sempre più schifezze sono dove non dovrebbero essere.

L’acqua del mare farebbe lo stesso, ma su una scala ben più vasta.

Nelle proiezioni da qui al 2100, la linea di costa recede in modo drastico, cedendo terreno a un Adriatico – questo nelle mappe non si vede – via via più inquinato. Un vasto entroterra reso inabitabile, profughi climatici, scomparsa di terreni agricoli, perdita di falde d’acqua potabile, inquinamento dell’aria, miasmi annusabili a decine e decine di chilometri di distanza… Anche i territori non raggiunti direttamente dalla melma subirebbero conseguenze gravissime.

Accadrà, se non si fa qualcosa prima, qualcosa che non sia un mero rattoppo, un tentativo di prolungare il presente e ritardare l’inevitabile.

Fai il bagno in mare e ti viene la candida

Già oggi, dopo l’arrivo dei fanghi delle alluvioni, in riviera l’Adriatico è una broda infetta. Un’amica farmacista ci racconta che decine di persone le chiedono prodotti contro infezioni genitali e intestinali, tutte insorte dopo il weekend in spiaggia. Altre testimonianze parlano di eczemi ed eruzioni cutanee di vario genere. «Correlazione non è causalità», ma è lecito pensare che la decisione di dichiarare l’Adriatico balneabile sia stata più politica che altro.

Qualcuno ci ha detto che il mare fa schifo al tocco. «Raramente l’ho trovato così sporco», riferisce un amico. Forse dovremmo rovesciare l’assunto: difficilmente lo vedremo ancora così pulito.

La testa nella sabbia

Da qualunque parte lo si guardi, il turismo balneare in riviera non ha futuro, è condannato. Già oggi è tenuto in vita con un meccanismo che pare escogitato da Zeus per punire Sisifo: ogni anno, in vista della stagione, si importano colossali quantità di sabbia – da altri luoghi devastati ad hoc – per ricreare le spiagge consumate.

Su quest’aspetto e altri che riguardano l’erosione delle nostre coste consigliamo l’agile ma denso libretto di Alex Giuzio La linea fragile. Uno sguardo ecologista alle coste italiane (Edizioni dell’Asino, Bologna, 2022).

Giuzio descrive molto bene il convergere di vari processi: la cementificazione e le attività estrattive targate ENI causano subsidenza – abbassamento del suolo – proprio mentre il mare s’innalza. Descrive anche una classe di amministratori che

«davanti all’inevitabilità del problema, anziché ragionare di piani di arretramento gestito, interruzione delle cause antropiche dell’erosione e conversione e decementificazione delle attività turistico-balneari, si sono sempre concentrati a conservare una situazione a misura di turista, limitandosi a ributtare ogni inverno la sabbia perduta per far trovare la spiaggia pronta per la stagione degli ombrelloni.»

Agosto 2018. Una spiaggia dei lidi ravennati dopo una «mareggiata».

Amministratori non solo miopi ma servi dei servi di ENI:

«Nel ravennate, per esempio, le piattaforme “Angela” e “Angelina” di ENI – situate ad appena due chilometri dalla costa – hanno provocato l’abbassamento del suolo di 45 centimetri dal 1984 al 2011, con le spiagge di Lido di Dante, Lido Adriano e Punta Marina che sono letteralmente sprofondate e che sono oggetto di continui ripascimenti finanziati in parte da fondi pubblici e in parte dalla stessa ENI: la potente multinazionale dal 1993 firma infatti un accordo triennale col Comune di Ravenna che prevede il versamento di cifre importanti (nel triennio 2018-2020, l’ultimo disponibile, si trattava di tre milioni di euro all’anno) a titolo di compensazione dell’impatto ambientale della propria attività estrattiva al largo. Tali fondi sono usati soprattutto per costruire e manutenere i pennelli anti-erosione e per ripristinare con i ripascimenti la sabbia perduta […] oltre a questi tre milioni di euro annui, la presenza di ENI nel ravennate significa migliaia di posti di lavoro e altri milioni di euro in sponsorizzazioni per qualsiasi evento culturale e sportivo – dalle stagioni teatrali alle partite di volley e pallacanestro, dai concerti di Riccardo Muti al “mese dell’albero in festa” durante il quale i bambini di tutte le scuole elementari e dell’infanzia piantano nuovi alberi – cittadini e amministratori locali non sono propensi a contestare la potente multinazionale.»

En passant: stante questa subalternità ai combustibili fossili, a chi li estrae e a chi ne incentiva l’uso, non c’era da attendersi alcun dissenso sul rigassificatore a Ravenna. Certo non a livello locale, e nemmeno a livello regionale: Bonaccini il rigassificatore lo volle, sempre volle, fortissimamente volle, tanto da “blindarlo” contro le critiche – comunque poche – circolate nella sua coalizione.

Non rattoppi ma ripristino di ecosistemi

Non si può continuare così. Né si può pensare di ergere dighe o scogliere artificiali pur di tenere in vita il turismo e, in generale, lo status quo.

Giuzio accenna a «piani di arretramento gestito, interruzione delle cause antropiche dell’erosione e conversione e decementificazione delle attività turistico-balneari».

Per convertire l’attuale economia rivierasca è indispensabile partire da una constatazione: quel modello è comunque destinato al tracollo.

Permetteteci, da scrittori, di mediare al rialzo, cioè di prefigurare scenari che i politici non osano o non sono in grado di immaginare. Tanto saranno loro a mediare al ribasso, in nome di una realpolitik sempre più staccata dalla realtà.

La costa adriatica va decementificata e depavimentata il più possibile, per ripristinare gli ecosistemi precedenti all’urbanizzazione – dune e foresta litoranea – e, in alcuni casi, alle bonifiche.

Attuate un po’ ovunque negli immediati entroterra di Friuli, Veneto ed Emilia-Romagna, dalla fine dell’Ottocento a oggi le bonifiche hanno privato quei territori di preziose zone umide, ecosistemi ideali a catturare e immagazzinare carbonio. All’epoca dei prosciugamenti non si poteva sapere, e l’ordine di problemi era un altro, ma oggi si sa, e avrebbe senso invertire la rotta. Del resto, molte bonifiche furono controverse, contestate già all’epoca e oggi ritenute fallimentari. Sul caso ferrarese, si può vedere il bel documentario Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio (2016).

I posti di lavoro – sovente lavoro precario, supersfruttato, sottopagato – nel turismo di massa sarebbero sostituiti da nuovi e meno frustranti impieghi, quelli generati da una grande riprogettazione ecologica del territorio e da un grande recupero, seguito da una cura perenne, degli ecosistemi.

Lido degli Scacchi, riviera ferrarese. Dune che resistono. Dove ci sono ancora, vanno liberate dal cemento intorno e dalla pressione antropica. Dove c’erano, devono tornare.

Tutto questo costituirebbe una barriera reale e sensata all’erosione costiera e alla catastrofe ambientale nell’entroterra. Non solo: potrebbe attrarre una nuova curiosità ecologica ed estetica, su cui fondare un “turismo” – urge coniare un nuovo termine – lontano da quello omologato e rapace di oggi.

È un approccio che si può traslare e adattare a tutti i territori minacciati. Alcuni dei quali possono diventare strategici laboratori. È il caso del basso ferrarese, del quale ci siamo più volte occupati, e su cui torneremo.

È chiaro che simili suggestioni vanno contro l’interesse immediato di troppe lobby e potentati economici, contro abitudini diffuse e consolidate, contro la spinta inerziale dell’esistente. Per questo non verranno mai raccolte dall’attuale classe dirigente – locale, regionale, nazionale o europea che sia. Classe dirigente di cui sarebbe d’uopo, e urgente, sbarazzarsi.

La precondizione per sbarazzarsene è saper immaginare un futuro diverso.

I punti di forza erano in realtà punti deboli

La val padana – cuore pompante del capitalismo italiano, nonché area tra le più inquinate, cementificate e surriscaldate d’Europa – è il territorio che subisce nel modo più spettacolare gli sconquassi del caos climatico.

In val padana, l’Emilia-Romagna è la regione più flagellata da eventi «estremi». E non è un caso.

Come abbiamo scritto in articoli precedenti, le attività e produzioni su cui si basano il mitico «benessere» e il mitico «buongoverno» emiliano e romagnolo sono quanto di più tossico e climalterante si possa immaginare. I presunti punti di forza dell’economia di queste parti  – un mix di plastica, motori, cemento e tondino, poli logistici, agroindustria, allevamenti intensivi e turismo di massa – si stanno rivelando punti deboli. Sembravano punti di forza, e si menava vanto del loro successo, perché si tenevano ambiente e clima fuori dal quadro. Ora ambiente e clima sono rientrati con violenza, e l’economia emiliano-romagnola si rivela la peggiore possibile.

Facciamo un solo esempio: la plastica.

La plastica ci sta avvelenando, come ha titolato di recente il New Yorker. Lo fa perché si decompone in micro- e nanoplastiche (MNP) che si disperdono nell’ambiente, raggiungendo gli angoli più remoti del pianeta, infiltrando gli organismi a monte e a valle della catena alimentare. Il mare è pieno di MNP. Tutto è pieno di MNP. Le mangiamo e le beviamo. S’infilano nel nostro cervello e aumentano il rischio di Alzheimer e altre malattie degenerative; sono nei nostri fluidi corporei e mettono a forte rischio la fertilità maschile (andrebbe fatto notare ai fascisti, che si lamentano della «denatalità» e al tempo stesso difendono l’industria della plastica!); sono nella placenta umana, ancora non si sa con quali conseguenze.

Riciclare la plastica non solo è una falsa soluzione, ma aggrava il problema, perché il processo produce ulteriori microplastiche e secondo sempre più ricerche la plastica risultante è tossica e può contaminare gli alimenti con cui entra a contatto.

Come? La «bioplastica»? Ma figurarsi… La bioplastica, o «plastica compostabile», è plastica e basta. Il suo uso è al centro di una grande truffa ideologica. Come ha ben titolato The Atlantic«la plastica compostabile è spazzatura».

L’unica via praticabile è vietare la produzione e l’uso di plastica monouso, superare la cultura dell’usa-e-getta. Poi andranno trovati modi di decontaminare, rimuovere la maggior quantità possibile di plastica dai corsi d’acqua, dai mari, dall’ambiente. Ma prima va fermata la produzione.

Infografica – con refuso nel termine-chiave – tratta dal sito artea.it.

A fronte di tutto questo, è accettabile, è all’altezza della situazione e delle sfide del nostro tempo il fatto che in Emilia-Romagna la «Packaging Valley» sia considerata un’eccellenza, un fiore all’occhiello, una realtà da tutelare così com’è, anziché un grosso problema?

Parliamo delle circa duecento aziende situate nel cuore dell’Emilia che fabbricano, citiamo da un entusiasta reportage del Sole 24 Ore,

«apparecchi che dosano e impacchettano sigarette, medicine, saponi, cosmetici, bibite, alimenti, mobili… Tutto ciò che ogni giorno passa tra le nostre mani con una confezione rigida o flessibile attorno».

Produzione incentrata sulla plastica, finalizzata alla diffusione di plastica, fondata sulla cultura dell’usa-e-getta.

Sono le stesse aziende che dal 2019 si sono opposte a una modesta, inadeguata tassa sull’uso di plastica monouso per gli imballaggi, neanche fosse una misura rivoluzionaria, facendone rinviare l’introduzione e infine riuscendo a farla saltare.

Bonaccini, com’è ovvio, stava dalla loro parte.

La destra, la «sinistra» e l’ipocrisia climatica

Il caso di studio dell’Emilia-Romagna dimostra… plasticamente che il problema non sta solo nella destra «negazionista» e nel circolo vizioso da cui essa trae beneficio, ben descritto da George Monbiot sul Guardian:

George Monbiot

«Mentre l’impatto dei nostri consumi si fa sentire a migliaia di chilometri di distanza e le persone arrivano ai nostri confini cercando disperatamente rifugio da una crisi che non hanno avuto quasi nessun ruolo nel causare – crisi che può includere vere inondazioni e vere siccità – [le destre] annunciano, senza un briciolo di ironia, che siamo “inondati” o “prosciugati” dai profughi, e milioni di persone si uniscono al loro appello a sigillare i nostri confini […] Quando i governi si spostano a destra, bloccano le politiche volte a limitare il collasso climatico […] Se volete sapere come si presenta un possibile futuro – un futuro in cui si permette a questo ciclo di accelerare – pensate al trattamento dei rifugiati attuali, amplificato di diversi ordini di grandezza. Già oggi, alle frontiere europee, i profughi sono respinti in mare. Vengono imprigionati, aggrediti e usati come capri espiatori dall’estrema destra, che allarga il proprio appeal incolpandoli di mali in realtà causati dall’austerità, dalla disuguaglianza e dal crescente potere del denaro in politica […] Ovunque, possiamo aspettarci che il successo [della destra] sia seguito da una riduzione delle politiche climatiche, con il risultato che un numero sempre maggiore di persone non avrà altra scelta se non quella di cercare rifugio nelle zone sempre più ristrette in cui la nicchia climatica vivibile rimane aperta: spesso proprio le nazioni le cui politiche li hanno cacciati dalle loro case.»

Vero, ma parziale.

Con tutto lo schifo che fa l’estrema destra, e con tutti i pericoli che d’ora in poi ci farà correre, la maggiore responsabilità dell’attuale situazione ce l’hanno il centro e la «sinistra» neoliberali. Sono stati loro a governare la globalizzazione capitalistica climalterante, a farci sprecare tempo prezioso con finte politiche climatiche come l’«Emission Trading», e sono loro a fare greenwashing mentre tutelano gli interessi di multinazionali ecocide e portano avanti i modelli di sempre.

Quanto agli orrori dei respingimenti, dei porti chiusi e delle morti in mare, delle detenzioni e violenze in Libia, l’ideologo di tutto questo è stato Marco Minniti, dirigente del PD, dal dicembre 2016 al giugno 2018 ministro degli interni di un governo italiano di «centrosinistra». È un dato di fatto noto a livello internazionale, tanto che, nel marzo 2019, Minniti fu accolto alla London School of Economics da contestatori e contestatrici con le mani imbrattate di sangue finto.

Londra, 12 marzo 2019. Il «comitato d’accoglienza» a Marco Minniti.

Tornando alle questioni climatiche, mentre la destra dichiarata se ne fotte in modo esplicito, la «sinistra» è più ipocrita: finge di averle a cuore, ma se ne fotte almeno altrettanto.

Se c’è un luogo dove tale atteggiamento è giunto al suo picco, quel luogo è l’Emilia-Romagna. E se c’è una capitale dell’ipocrisia climatica, quella è Bologna.

Qui da noi si può definire «opera simbolo della transizione ecologica» un’autostrada a diciotto corsie che passerebbe dentro la città, aumentando il traffico urbano – sono stime dei proponenti stessi – di 25.000 veicoli al giorno e facendo da volano a decine di altre opere asfaltizie – allargamenti, raccordi, bretelle, svincoli, parcheggi – a Bologna e nel suo circondario.

Qui da noi il Comune disegna erba e fiori intorno ai cassonetti perché «nessuno abbandonerebbe un sacchetto di rifiuti in mezzo a un prato», mentre si distrugge il verde vero, disboscando e buttando giù alberi ovunque.

Non può durare.

Il vento delle tempeste rimuoverà il velo.

Le lotte dovranno fare il resto.

In copertina: 22 luglio 2023, traliccio abbattuto dalla tempesta «downburst» nel Ravennate – Foto tratta da meteoweb.eu.

I 5 Pilastri (traballanti) del Memorandum Tunisia – Unione Europea:
la nuova filosofia ‘olistica’ anti migranti di Giorgia Meloni

Domenica 16 luglio è stato siglato a Tunisi l’ormai famoso “Memorandum Tunisia – Unione Europea”. Gran commis Giorgia Meloni, ritratta in tutte le pose sorridenti e stringimano possibili. Il nome “memorandum” evoca il patto siglato con le milizie libiche e fior fiore di criminali vari di quel disgraziato paese, dal governo italiano nel 2017, per volere di Minniti. Sarebbe bastato questo per suggerire a un ghost writer avveduto, di usare un altro termine.

Comunque sia, lasciando da parte la propaganda e le foto opportunity, la prima cosa che salta agli occhi scorrendo il testo, al capitolo “Migrazione e mobilità”, è quel rifiuto da parte della Tunisia, scritto nero su bianco, di diventare futuro luogo di centri di detenzione per migranti respinti e deportati dall’Europa. Dei “cinque pilastri”, come li hanno definiti, che compongono il memorandum, è inutile che Giorgia Meloni, Ursula Von Der Layen e l’olandese Rutte, tentino di nascondere il fatto che proprio questo era quello portante.
Gli accordi sulla “stabilità macro – economica”, sulla ’”economia e il commercio”, sulla “transizione energetica verde” e sul ”unire le persone”, altro non fanno che da contorno al piatto forte, quello di cui italia ed europa hanno “fame”: come bloccare le persone migranti prima che arrivino sulle coste continentali, e come far diventare la Tunisia, un paese terzo da poter utilizzare come il Regno Unito vorrebbe utilizzare il Rwanda. Un paese in grado di detenere il numero sempre più alto di respinti che si annuncia con la ulteriore restrizione del diritto di asilo, contenuto del nuovo “Patto su Migrazione e Asilo” già sottoscritto dai ministri degli interni dell’Unione e in via di approvazione definitiva a Bruxelles.
L’approccio “non predatorio”, la formula “radicale” usata da Meloni per tentare di occultare l’impostazione “leggermente” neocoloniale che trasudano viaggi e tramestii nei paesi mediterranei dell’Africa, nel Memorandum è diventato “approccio olistico” sulla migrazione. Un’abbondante retorica illustra i vantaggi per lo sviluppo dei paesi, rappresentati da un rapporto corretto con il fenomeno migratorio, nello spirito migliore dei padri costituenti e bla bla bla.
Come quando si tira di fioretto, i ghirigori attorno al corpo del nemico, quasi a definirne dolcemente i contorni, preparano l’affondo, dritto al cuore. E infatti, dopo questi olistici bla bla bla, uno sprazzo di verità si affaccia tra le righe: il patto serve a “stroncare la migrazione irregolare”.
Per uno che voglia vedere la realtà, la stessa che ha costretto obtorto collo la “campionessa dei blocchi navali” e della “difesa dei confini a ogni costo”, a fare i conti con mille sbarchi al giorno e 75mila arrivi da inizio anno, la “migrazione illegale” è inversamente proporzionale ai canali di accesso e agli strumenti di protezione ed asilo che noi offriamo.

Più si chiude la possibilità per donne, uomini e bambini, per famiglie divenute erranti per costrizione, di avere il modo di migrare dove scelgono di voler provare a vivere, e più aumenterà la “migrazione illegale”.

Migrare, un diritto umano riconosciuto nella Dichiarazione Universale, non può essere “illegale”. E soprattutto, le persone che migrano non possono essere illegali. Nessun essere umano è illegale.

E dunque tutto questo Memorandum, la sua filosofia di fondo, rivela il vero scoglio culturale sul quale alla fine rovinano, sbattendo addosso alla realtà, tutti i condottieri a parole che il Mediterraneo ha conosciuto in questi ultimi anni. Le persone arrivano, provano, insistono, usano ogni mezzo possibile per tentare di fuggire da situazioni assurde e insostenibili, che non hanno scelto nemmeno in minima parte.
Il Memorandum, così olistico, partorito una domenica di luglio a Tunisi, va letto bene: quello “stroncare” diventa fare la guerra alle persone che migrano. Il nemico, sui quali contorni il fioretto indugiava prima di puntare al cuore, alla fine sono le donne, gli uomini e i bambini.
E certo, il tutto va letto in maniera assolutamente olistica: la transizione energetica “verde” di cui si blatera, andrebbe messa insieme al tema delle concessioni a favore dei colossi europei del “nero” petrolio e del gas, che pompano dal sottosuolo miliardi di extraprofitti in cambio di pochi spiccioli per chi li ci abita.
O la “valorizzazione della società civile”, capitolo incredibile e davvero da leggere, dovrebbe essere raffrontata allo scioglimento in Tunisia di ogni cosa democraticamente eletta, all’arresto degli oppositori politici e dei giornalisti scomodi, al potere concentrato su un solo uomo, grazie a un referendum farsa celebrato senza popolo.
Kaïs Saïed, altissimo presidente dittatore, non vuole solo milioni di euro o dollari per evitare che una guerra civile di gente affamata lo spazzi via. Bisogna nutrire anche la sua vanità, il suo ego, come quello dei molti capi di stato e di governo africani convocati a Roma per il loro momento di notorietà.
Saïed è un’autocrate che per prepararsi alla firma del Memorandum, ha fatto catturare casa per casa 1200 migranti che abitavano in Tunisia, e li ha fatti deportare in due diversi pezzi di deserto, uno al confine con la Libia e uno al confine con l’Algeria. Sono morti a decine, bambini, donne incinte, di sete, di caldo del giorno e di freddo della notte.
Sorridevate per quello nelle foto con lui, cari rappresentanti della civiltà cristiana e democratica europea? Certo, perché Saïed ha detto, nonostante foto e video che hanno fatto il giro del mondo, che si tratta di “fake news” delle Ong. Sempre lui, nel discorso di febbraio con il quale ha dato il via alla campagna di odio razziale contro i “neri”, parlava di un piano per la sostituzione etnica in Tunisia. Viene il dubbio che questo stretto rapporto tra Italia e Tunisia, preveda la condivisione tra i due governi anche dei responsabili della comunicazione.
Ma comunque, tutto si muove nel Mediterraneo. Le navi del soccorso civile ci sono e aumentano, nonostante il tentativo di criminalizzazione e di sabotaggio con i “porti lontani”.
La Geo Barents ha effettuato 11 operazioni di soccorso in sequenza, coordinata dalla Guardia Costiera italiana. La Libia, per far vedere che è cambiata, si è intestata il salvataggio alla frontiera con la Tunisia, nel deserto, di parte dei deportati abbandonati da Saïed. Speriamo che ora non li “accolgano” in un lager. Il Parlamento Europeo ha votato per acclamazione una mozione in cui chiede una missione di soccorso in mare europea. Salvini parla di tasse, perché non sa come spiegare agli elettori cornuti di Pontida, che il “suo” governo ha fatto il decreto flussi per migranti in ingresso per lavoro, più grande da dieci anni, per mezzo milione di migranti.  La rozza e brutale “dottrina Minniti”, a causa della quale tanti e tante sono stati uccisi e violentati nei lager in questi anni, o sono morti in mare, sembra lasciare il passo ad una più raffinata strategia “olistica” di parternariato come si deve.
E nel frattempo, perché tutto si muove, non solo i giochi elettorali e geopolitici fatti sulla pelle dei più disperati, le reti dei rifugiati stanno organizzando un contro vertice a Roma. Da una parte i capi di Stato africani, dall’altra gli africani. C’è un “underdog” con cui fare i conti sempre, cara Giorgia.

(pubblicato sulla pagina Fb dell’autore)

In copertina: Tunisi 19.07/23: la stretta di mano tra il Presidente del Consiglio italiano  Giorgia Meloni e il Presidente Dittatore tunisino Kaïs Saïed dopo la firma del Memorandum (foto da Avvenire)

Parole e figure /
Il giardino incantato: una statua e la sua voce d’incanto

Appena uscito in libreria “Il giardino incantato”, di Luca Tortolini e Maja Celija. Un delicato albo che sa vedere oltre, oltre il giardino.

Canto e incanto, la voce fuori campo di un’elegante statua marmorea che, scolpita con abilità e delicatezza, stagione dopo stagione, racconta i piccoli mutamenti che osserva, nel corso del tempo, che scorre lento, in un piccolo giardino. Panta rei. E lei assiste.

È la magia dell’albo illustrato di Luca Tortolini (che ci ha abituato a libri bellissimi, ricordiamo quello sul giovane Truffaut), illustrato da Maja Celija, Il giardino incantato, Orecchio Acerbo editore.

Un mondo fatato. Con la primavera tutto comincia a muoversi: i bambini tornano a giocare agli esploratori, i piccoli animali a mostrarsi, i fiori a sbocciare. In aprile il tempo pare accelerare il suo movimento, il giardino si risveglia al canto festoso e allegro degli uccelli. Lumache pallide, mosche svolazzanti, talpe impiccione e formiche frettolose fanno capolino e corrono di qua e di là.

Durante l’estate c’è un bel viavai, i colori sono più intensi, gli scrosci di pioggia si alternano alle brezze che puliscono il cielo. Odori, rumori e mutamenti continui, luce soprattutto.

In autunno, col vento sempre più teso, il giardino si svuota e le foglie si ammucchiano. Il caldo lascia spazio al freddo, in venti iniziano a soffiare più ostinati e fastidiosi, sempre meno persone visitano il giardino, salvo il giardiniere che è sempre presente. I colori cambiano ancora, le foglie imbrunite danzano al ritmo di note immaginarie e il vento se le porta via. Delicatamente.

Poi arriva il silenzio che annuncia l’inverno e che si fa ascoltare: tutto si ferma, il giardino si chiude su sé stesso, quasi a farsi forza. Il giardino dorme e sogna.

Ed è in questa solitudine, quando nessuno guarda o ascolta, che la narratrice di pietra, una statua, si concede la sua passeggiata. Con un misterioso amico che i piccoli animali del parco le hanno costruito, per farla sentire meno sola. Lei che non smette(rà) mai di amare quel luogo.

Fino al giorno in cui una nuova piccola gemma si affaccia, riscaldata da un tenue raggio di sole. Il giardino sonnolento, sbadigliando, ritrova il desiderio del risveglio. E tutto ricomincia.

Una favola meravigliosa, avvolgente e carica di speranza, di quelle da leggere e rileggere, a tutte le età, a tutte le ore e in tutte le stagioni.

Luca Tortolini è scrittore e sceneggiatore. Vive a Macerata e ha pubblicato, tra gli altri libri: “La volpe e l’aviatore” (selezionato al Prix Nénuphar de l’album jeunesse, 2018 Francia), “Il catalogo dei giorni”, “La vera storia di King Kong” (Kite edizioni) e “Anna e la famosa avventura nel bosco stregato” (Bao Publishing). È docente di scrittura, ama i gatti, i giardini e i libri. I suoi libri sono tradotti in diverse lingue. Nel catalogo di orecchio acerbo: “Le case degli altri bambini” illustrato da Claudia Palmarucci (Menzione Speciale Opera Prima al Bologna Ragazzi Award 2016, e selezionato al premio Janusz Korczak 2017 in Francia), “Ernest e Biancaneve” illustrato da Alice Barberini (2022) e “Io e Charlie” illustrato da Giacomo Garelli (2019).

Maja Celija è nata a Maribor (Slovenia) nel 1977. A cinque anni si trasferisce con la famiglia a Pula, in Croazia, dove compie gli studi classici. Nel 1995 segue il corso di illustrazione preso l’Istituto Europeo di Design di Milano e si diploma nel 1998. Nel 2002 consegue inoltre il diploma di grafica presso il C.F.P. Bauer di Milano. Da allora lavora come illustratrice per diverse riviste. Ha esposto le sue illustrazioni in molte mostre collettive e personali in Italia e all’estero ed è stata selezionata alla Mostra del Libro per Ragazzi di Bologna nel 1999, 2005 e nel 2007. Nel 2005 ha rappresentato l’Italia alla Biennale dell’Illustrazione di Bratislava. Attualmente vive e lavora a Pesaro.

Maja si racconta

Luca Tortolini, Maja Celija, Il giardino incantato, Orecchio Acerbo editore, 2023, 44 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

note disordinate di un urbanista per il futuro di ferrara

Note disordinate di un urbanista sul futuro di Ferrara

NOTE DISORDINATE DI UN URBANISTA SUL FUTURO DI FERRARA

Il Parco Urbano Giorgio Bassani: l’addizione verde

La vista della colata di asfalto dei nuovi “stradelli” larghi circa sei metri (una strada a due corsie) del parco urbano Giorgio Bassani conferma che non si tratta di manutenzione stradale. Non è nemmeno l’adeguamento di un’area verde: è una scelta politica, forse una provocazione.

Uso questo termine perché il parco urbano, oltre a essere un’area verde, è in fondo anche un simbolo di questa città: è stato chiamato l’«addizione verde». Non è un bosco o una foresta, ma in tutti questi anni ha fortemente rafforzato la sua componente naturale e la sua biodiversità e costituisce un punto di partenza straordinario per costruire un vero bosco urbano, intrecciato con pratiche agro-ecologiche, che lo potrebbero rendere un diffuso e articolato servizio ecosistemico.

Ciò lo renderebbe il riferimento centrale di una futura trama verde e blu in grado di mettere in relazione centro, periferia e frazioni, puntando sulla qualità ambientale, paesaggistica e sulla mobilità ciclabile. Insomma, uno spazio da contemplare attraversandolo in silenzio, dove non tutto è immediatamente visibile, grazie ai giochi delle masse alberate e ad una campagna arricchita di vegetazione, ma dove la Porta degli Angeli e le mura, le ciminiere del petrolchimico, le masse edificate del Barco, di Pontelagoscuro o Francolino, ci rammentano che la città lo attornia.

Come ci insegna Leopardi, l’esperienza della percezione non si esaurisce nella vista immediata dell’immenso, ma si alimenta grazie all’esperienza del limite, della soglia, del passaggio da una dimensione all’altra che, generando stupore, diviene sublime. Le nuove strade di bitume di fatto trasformano il parco in un’area «fiere e mercati», come si diceva un tempo, per ospitare eventi e chissà cos’altro; comunque chi le ha progettate è a digiuno delle più basilari cognizioni di architettura del paesaggio (ricordo che le panchine si progettano con lo schienale, e si ombreggiano, in particolare nei parchi frequentati da persone anziane e da molte persone che amano sedersi all’ombra per leggere un libro).

I Parchi nel mondo

Nei social sta girando il messaggio di un avvocato (nel CDA della Fondazione Teatro Comunale), che ha affermato che tutti i parchi hanno le strade asfaltate; quindi, che cosa vogliono i contestatori di Save the Park? Perché rompono le scatole? In realtà le parole che ha usato sono più scurrili, forse è così che si parla nelle riunioni in Teatro, in ogni caso chi ha «postato» questo testo ha citato parchi non comparabili con quello ferrarese, perché tutti dentro ad aree urbane e non al limite esterno come il nostro.

Il Central Park di New York è grande quanto Ferrara dentro le mura ed è uno snodo di strade ciclabili che connettono quartieri diversi consentendo agli abitanti anche di recarsi al lavoro. A Londra, Hyde Park è appena più piccolo di Ferrara ed è attraversato da strade, mentre nell’Englischer Garden di Monaco vi sono addirittura sedi di istituzioni che devono essere raggiungibili.

A Parigi la quasi totalità dei parchi è in stabilisée, quindi terra compatta a granulometria variabile, per essere drenante (che si poteva usare anche a Ferrara al posto del bitume). L’asfalto o il bitume non si usa più, anche perché è un indicatore di consumo di suolo. Solo a Berlino il Tempelhof Park ha un grande asse asfaltato, ma è un ex aeroporto, oggi trasformato in parco e luogo di eventi. Questo dovrebbe insegnare qualcosa.

A queste considerazioni si sono poi aggiunte le recenti banalità di Moni Ovadia, il quale, per giustificare la risistemazione del Parco urbano (operata dalla Fondazione Teatro Comunale, di cui l’attore è consulente, e che forse si sta trasformando in società di ingegneria visto che asfalta strade), ha addirittura tirato in ballo le origini del teatro, a cielo aperto. Chissà se si riferisce ai riti dionisiaci, quindi pagani, basati su componimenti lirici dal ritmo, noti come “ditirambo”, che portavano anche al sacrificio di capre e capretti?

I luoghi per gli eventi

I termini usati per inquadrare i “rompi……” di cui parla il consigliere del teatro comunale o altre persone vicine all’amministrazione, evidenziano un astio nei confronti di chi non la pensa alla stessa maniera di chi sta governando la città. Sono toni quasi infantili, tipici del ragazzino prepotente che ha alle spalle un padre importante.

Spesso chi esercita un potere legittima il suo essere diventato potente con la foto di rito (la photo opportunity) dove abbraccia la star del momento, che ha nel contratto anche la foto con il committente (che sia Springsteen o Morandi fa lo stesso).

Del resto, una star illumina chi è nei suoi paraggi, ma è una luce effimera, un effetto momentaneo, non si passa alla storia per questo, al massimo si attraversa velocemente la cronaca. Premetto che in questo lungo dibattito sul diritto alla città e allo spazio pubblico, e l’imposizione di grandi eventi da parte dell’amministrazione comunale, nessuno si è mai dichiarato contrario agli eventi, si sono solo suggeriti altri luoghi. Questo è un punto di partenza da ribadire.

Ricerca scientifica e valutazione dei risultati

Le ragioni serie di chi si è opposto sono state ridicolizzate in nome di una euforia della leggerezza divenuta nuovo standard di felicità e spensieratezza (che in sé è del tutto lecita e condivisibile), ma espressa spesso attraverso una volgarità oratoria contro chi si opponeva, senza mai prendere in considerazione le argomentazioni, come se gli «ambientalisti» volessero togliere ai ferraresi il diritto al divertimento.

Una importante ricerca, a detta del sindaco, afferma che il concerto di Springsteen ha avuto un indotto di 10 milioni di euro. Bene, a beneficio di chi? Quali categorie di cittadini hanno tratto beneficio? Quali settori e quartieri della città hanno goduto di questi denari?

Trovo singolare che si dia conto di una ricerca condotta da ricercatori solo attraverso la sintesi giornalistica derivante dalle parole di un amministratore. La mia esperienza mi dice che una ricerca viene di norma presentata in una conferenza stampa o in un seminario dai ricercatori stessi, mentre il committente spiega il perché ha commissionato questo lavoro.

Vengono precisate le metodologie, la scelta degli indicatori, la griglia di valutazione adottata, insomma una ricerca, specie se di interesse pubblico, deve creare le condizioni per essere capita in profondità, ma anche per essere contestata, non ponendosi mai come una verità rivelata, come ci ha insegnato Karl R. Popper.

Ad esempio, l’indotto milionario ci sarebbe stato anche se il concerto si fosse svolto in un altro luogo? Avremmo avuto un risparmio senza i lavori di ripristino del parco urbano? E il disagio per la cittadinanza è economicamente valutabile? In ogni caso una analisi costi-ricavi con una ripartizione tra pubblico e privato sarebbe stata utile, altrimenti si prosegue “un tanto al chilo”.

Ferrara Summer Festival:  ricaduta sull’occupazione

Le star del Ferrara Summer Festival stanno facendo tournée in questo momento in tutta Italia; i concerti ferraresi non sono quindi un’esclusiva. Si presume quindi che il pubblico venga da località vicine, usa la città e probabilmente lascia poco denaro. Anche in termini occupazionali il risultato sembra effimero: qualche posto precario nella ristorazione o nella sorveglianza, che svanirà con la fine degli eventi.

Tra l’altro le narrazioni esaltate dell’amministrazione sugli effetti benefici di questi eventi dovrebbero essere arricchite da dati sulla provenienza del pubblico che non sembra restare in città, probabilmente sono solo passaggi momentanei, come dicevamo. I dati sul turismo presentati in questi giorni non rassicurano ed evidenziano una realtà diversa da quella che viene raccontata. Chissà se nel quadro conoscitivo del PUG, in corso di elaborazione, queste dinamiche sono misurate? Sarebbe interessante una bella presentazione pubblica dello stato di salute della città, ma è una richiesta vana.

Ferrara Summer Festival: inquinamento acustico

Va segnalato anche un altro aspetto affrontato alcuni anni fa in una ricerca del CNR, ovvero che l’inquinamento acustico, oltre alla nostra salute, danneggia anche il patrimonio architettonico-paesaggistico e ci sono ricercatori che studiano la protezione dei beni culturali dagli effetti delle vibrazioni meccaniche circostanti, incluse quelle percepite dall’orecchio umano come rumore (es. un concerto da 100 decibel).

Alcuni anni fa nel Duomo di Milano furono installati dei sensori acustici per misurare e proteggere il monumento dai rumori. È stato fatto per la cattedrale e il campanile? Sarebbe interessante conoscere il parere di chi si occupa di conservazione e restauro dei monumenti.

Sicuramente il rumore eccessivo crea problemi alla salute, all’udito e all’equilibrio psico-fisico, di chi non riesce a dormire, come denuncia anche chi abita in zona darsena. Non è difficile quantificare il disagio essendo noto che i concerti normalmente oscillano tra i 100 e i 120 decibel mentre a 110 decibel si possono verificare danni all’udito anche dopo soli due minuti di esposizione.

Ferrara Summer Festival: effetti economici sulle attività commerciali

Ormai il dibattito riguardante la città su social e stampa locale è molto ricco, ma viene probabilmente percepito come un fastidio, trovo invece che sia una spia di dinamicità in una città da sempre definita silente e introversa (dagli stessi ferraresi).

In realtà, in questi giorni si sta leggendo di tutto sulla stampa locale, spesso con errori o grandi approssimazioni. Tornando alla piazza, parlando con molti commercianti del centro, gli effetti degli eventi sulle loro attività sono nulli se non controproducenti, anzi molti ferraresi (dicono questi commercianti di cui ometto il nome) non vanno neanche più in centro e la logica del concerto è che il pubblico verso le 18 inizia ad entrare nell’arena e quindi non interagisce più con la città.

Le mie sono considerazioni “da bar”, perché non ho dati statistici, ma misurano l’umore. L’immagine del commercio in centro non trasmette l’idea di una città prospera, certo si mangia e beve molto, ma sull’asse che dal Castello va a Porta Reno (ma anche nelle vie Mazzini e Garibaldi) le insegne chiuse da anni testimoniano una difficolta del commercio, vi sono anche due storici caffè chiusi da tempo immemorabile.

Alcuni marchi di abbigliamento prestigiosi e attrattivi hanno lasciato parecchi anni fa il centro storico (al contrario di altre città più dinamiche) per localizzarsi in un centro commerciale, dove i turisti non vanno. Chi propugna la «città dei 15 minuti», come strada verso la prossimità del commercio e dei servizi, deve essere consapevole che, per realizzarsi, nelle nostre città vanno chiusi (o ridimensionati) i centri commerciali, altrimenti è solo retorica o greenwashing comunicativo.

Inoltre, la crisi climatica ci pone nella condizione di ripensare anche il disegno degli spazi pubblici e delle strade per assorbire gli effetti generati dagli eventi meteorici estremi, aspetto segnalato da un gruppo di cittadini che vivono il problema ormai ricorrente dell’allagamento dei loro quartieri.

Ci aspetta un grande lavoro di adeguamento delle nostre città che, se ben indirizzato, costituisce una grande opportunità per migliorarle, anche con lavoro qualificato. Nel frattempo, percorrendo il vallo delle mura i segni del degrado di questo straordinario spazio sono sempre più evidenti: il percorso è molto degradato e pericoloso, il prato andrebbe gestito che non significa sfalciare tutto, ma mettere un po’ di ordine visto che molte panchine non sono più praticabili, molti tratti delle mura sono infestati da erbe e muschi e tra non molto non saranno più visibili.

Mobilità urbana

Dagli interventi sulla stampa letti in questi giorni, diversi rappresentati di enti economici, professionali ed esperti si sono espressi sul futuro della città e sono emerse questioni strutturali, come ad esempio la mobilità, ma anche molta confusione.

Il presidente dell’Ordine degli Architetti, dopo aver giustamente ribadito che il listone non è lo spazio adatto per grandi concerti ripetuti, ha addirittura dichiarato che per far vivere la città bisognerebbe aprirla totalmente alle auto, perché così fanno a Città della Pieve, in Umbria (7 mila abitanti), ma Ferrara dovrebbe confrontarsi con città come Utrecht, Bordeaux, Siviglia, Avignone che vanno in tutt’altra direzione.

Inoltre, l’odore di benzina che si respira sempre a Città della Pieve, e che viene citato come fattore di dinamicità, è dannoso alla salute, e le polveri sottili sono cancerogene, mentre nel 2035 non dovrebbero più essere vendute auto con motori termici come ha stabilito la Commissione Europea.

Il tema della mobilità urbana è strategico se si vuole transitare ecologicamente verso un futuro decarbonizzato. Ma lo è se si investe sul trasporto pubblico e ciclabile; in realtà a livello nazionale questa consapevolezza è affossata da politiche che continuano a identificare il futuro della mobilità nell’automobile privata. A Ferrara quali sono le politiche di futuro in termini di trasporto pubblico?

Internazionalizzazione di Ferrara: il ruolo dell’Università

Si è parlato molto anche della internazionalizzazione della città, ma Ferrara lo è da secoli e all’estero è molto più conosciuta di quanto si creda, ovviamente per la sua storia, la sua cultura e la sua università. La città era nei percorsi del Grand Tour, grazie all’Ariosto e al Tasso e quale città di provincia in Italia può vantarsi di avere avuto tra i suoi concittadini figure come Giorgio Bassani e Michelangelo Antonioni? Mi fermo qui.

Oggi la città potrebbe diventare un grande campus in grado di distribuire su tutto il territorio comunale gli effetti culturali ed economici indotti dal suo ateneo. Ma è un processo che va pianificato, mettendo attorno ad un tavolo stabilmente tutti gli attori coinvolti ed elaborando un progetto strategico di internazionalizzazione incentrato su «Ferrara Città-Campus».

L’università, oltre ad essere una delle principali imprese della città, è anche uno straordinario attore di rigenerazione urbana in maniera diretta (visto che è proprietaria e/o gestrice di edifici e spazi) e indiretta (viste le dinamiche sociali, economiche e culturale indotte: dagli studenti che richiama in città, dall’attivismo del suo corpo docente e dai numerosi eventi internazionali che organizza).

Certamente bisogna affrontare in maniera strutturale diversi problemi, in particolare la mobilità pubblica e ciclabile e l’alloggio che sono punti critici cha da tempo gli studenti segnalano, in tutta Italia (oltre alla carenza di spazi).

Si è tenuto recentemente un seminario organizzato da ASCOM sul tema del fabbisogno abitativo, non solo studentesco, e sono emersi temi importanti, ma anche alcuni limiti che, nella visione strategica che citavo, potevano essere affrontati prima.

Il tema è nazionale, e non solo ferrarese, ma l’impressione è che si tratti di processi lunghi, mentre le proposte da parte dei privati sembrano deboli, incentrate su richieste di detassazione, quando delle misure in realtà ci sono già, come il canone calmierato o la cedolare secca, che però non vengono sfruttate perché probabilmente gli affitti brevi fanno più comodo.

L’amministratore delegato di Nomisma ha fornito un quadro chiaro dei punti critici, indotti anche dal non aver affrontato il tema “alloggi” per tempo, e ribadisce giustamente che ci sarebbe bisogno di un intervento pubblico, ma l’impressione è che a Ferrara, ad esempio, nessuno abbia associato il tema degli studentati pubblici ai fondi del PNRR (spero di essere smentito), mentre un rischio è che si possa creare tensione tra chi ricerca alloggi in locazione e le esigenze abitative degli studenti.

Il ricorso al Co-housing residenti/studenti proposto da CIDAS può essere un palliativo dall’effetto molto limitato, per tante ragioni, come dimostrano esperienze di altre città. Si tratta di numeri piccoli, in ogni caso il contributo di un’azione di tale tipo potrebbe essere più efficace se inserito dentro la prospettiva strategica di cui parlavo prima, ma che pare al momento non prendere forma.

A livello nazionale nel dibattito sul PNRR emerge la mancanza totale di una politica pubblica per il diritto allo studio, mentre sono stati dati milioni di euro di fondi pubblici a gestori di studentati privati, che praticano una politica dei prezzi non certo calmierata.

Il recente piano per la casa del Comune di Bologna, presentato ad aprile scorso, ha programmato 200 milioni per i prossimi 5 o 10 anni, per circa 3 mila alloggi dedicate alle fasce più marginali, agli studenti, a chi cerca un affitto a canone agevolato: una esperienza di grande interesse come, del resto, il recupero dell’area delle Vele a Scampia, Napoli, dove i fondi PNRR sono stati utilizzati per avviare un grande progetto di rigenerazione urbana insieme ad associazioni, comitati e cittadini e che vede l’università come attore importante.

Infine, la distribuzione degli studenti al di fuori delle mura pone seri problemi di mobilità pubblica, che dovranno prima o poi essere affrontati seriamente, come dicevo sopra. Ferrara insomma è una città che potrebbe diventare un campus esteso, dove la vita universitaria si intreccia virtuosamente con quella della città, dove la dimensione locale si alimenta di scambi internazionali ma bisogna pianificarlo, non lo diventa da sola.

L’impressione è che in città l’università venga vista come una opportunità economica per alcuni, ma anche come un corpo un po’ distaccato dalla città e dalla sua vita sociale e culturale. Questo è quanto mi sento spesso ribadire nei vari consessi democratici e partecipativi dove vengo invitato.

Governare la complessità

Insomma, le questioni emerse in città, in queste settimane, sono rilevanti non solo localmente. In questo momento storico lo sono ancora di più perché, per garantirci la sopravvivenza, dobbiamo necessariamente «decarbonizzare» il nostro ambiente e le nostre menti. Questo significa anche mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri modelli di sviluppo, forse molti non ne sono ancora consapevoli.

Rientrati dalle vacanze, vista la ricchezza del dibattito, delle opinioni espresse da vari attori, visti anche i tanti silenzi di soggetti e cittadini, con ruoli importanti, che non si sono mai espressi, potrebbe essere interessante se le testate giornalistiche ferraresi organizzassero alcuni momenti di confronto pubblico, o una giornata di dibattito, sereno, tranquillo, argomentato, su come potrebbe cambiare Ferrara nella prospettiva della transizione ecologica, consapevoli che il futuro di Ferrara e del pianeta, non è riconducibile solo alle logiche del mercato, che il futuro del mondo non può essere appannaggio degli interessi del «privato», con il «pubblico» nel ruolo di facilitatore,  e che nemmeno il “soluzionismo“ tecnologico può regolare tutti i problemi.

La transizione ecologica richiede a tutti delle scelte di campo e la tecnica, se deve essere oggettiva, non significa che debba essere neutrale rispetto a scelte che si intrecciano con i problemi sociali e delle disuguaglianze. Probabilmente la risposta è nel governo della complessità e non nel pensare gli elementi (lavoro, mobilità, cultura, diritti, ecc.) in sé stessi, ricercando soluzioni individuali o per settore.

Se vogliamo rendere i nostri stili di vita, i modi di produzione e di organizzazione sociale compatibili con la necessità di mantenere abitabile il pianeta bisogna iniziare a disinquinare il dibattito pubblico, demolendo le false promesse o le illusioni. È necessario essere lucidi su questi temi per il bene di chi verrà dopo di noi.

Ferrara: il culto dell’asse urbano

Una riflessione finale su Ferrara. Stiamo parlando di una città storica unica per le sue caratteristiche urbane. La piazza Trento Trieste e il largo del Castello costituiscono il punto di contatto tra due modelli di città: quella lineare, medioevale e l’addizione erculea. Quest’ultima è l’adattamento ad una città reale, ad un sito geografico particolare, di un modello teorico rinascimentale.

Ferrara è la città dove prima di altre il culto dell’asse diviene fatto architettonico e urbano allo stesso tempo (il Corso Ercole I° d’Este). Il culto dell’asse urbano è uno dei grandi temi che il pensiero architettonico e urbano italiano ha dato al mondo, partendo da Ferrara, passando per la Roma di Sisto V°, transitando per il barocco, arrivando a Versailles per essere poi enfatizzato dalla Parigi di Haussmann.

Panos Koulermos, professore greco di architettura alla UCLA di Los Angeles, quando mi vedeva mi ricordava sempre che Ferrara è l’unica città dove dal centro si vede (idealmente) la campagna, e questa ancora esiste dentro la città, fattore che stupisce sempre chi riesce a scovarla.

Il Corso e prima ancora Via Savonarola (addizione Adelarda), sanciscono la nascita della via “palazziale” che poi verrà esaltata dalla Strada Nuova di Genova, mentre l’architetto Sebastiano Serlio, portato alla corte di Francia dal Cardinale Ippolito II d’Este, costruendo a Fontainebleau per il prelato la residenza della Grande Ferrare, fisserà per un secolo i caratteri degli hôtel particulier costruiti dall’aristocrazia parigina a Parigi e in Francia.

Non mi dilungo sulla Ferrara novecentesca. Ecco perché Ferrara è già internazionale, questo patrimonio va trasformato in un progetto consapevole e non effimero. Ferrara non è un evento (il che non significa che non possa ospitarli nei posti adatti) è un palinsesto intrecciato di storia materiale e immateriale.

Ferrara, come scrisse lo scrittore francese Michel Butor , è una città sognata che non ha mai avuto del tutto luogo e quindi il quadrivio e altre parti sono dei morceaux réels d’une ville rêvée. Credo sia necessario ripartire da questo sogno per costruire una visione di futuro fondata sui problemi di oggi, drammatici, per contrastare la trasformazione di un sogno in un incubo.

 

Le Voci da Dentro /
Habeas corpus

Le voci da dentro: Habeas corpus

Il testo che propongo questa volta ci ricorda l’origine storica di un aspetto importante della moderna giurisprudenza; ci aiuta inoltre a ragionare sul corpo come materia e su tutto ciò che corpo non è ma fa comunque parte dell’identità di una persona. (Mauro Presini)

Habeas Corpus

di Lorenza Cenacchi

Torniamo indietro nella storia. Siamo nell’Inghilterra medievale. Ai tempi di re Giovanni d’Inghilterra. È il 1215, Re Giovanni senza terra (che è lo stesso della storia di Robin Hood, per intendersi), è costretto da alcuni nobili a sottoscrivere un documento per limitare gli arbitrii del sovrano, si tratta della Magna Charta libertatum, riconosciuta ancora oggi come la Carta fondamentale della monarchia inglese.

Subito dopo, conscio di aver perduto il suo potere scrive una lettera al papa implorandolo di annullare il documento che, dice, gli sia stato estorto con le minacce.

Il papa lo accontenta, i baroni si ribellano e scoppia una guerra civile.

Giovanni muore poco dopo di dissenteria e, per risparmiarsi problemi con i baroni riottosi, il suo successore dichiara la Magna Charta di nuovo valida.

Essa conteneva un cenno all’Habeas corpus, il principio dell’inviolabilità personale.

Dalle testimonianze giunte fino ai giorni nostri, tale disposizione venne usata per la prima volta nel 1305, ma il ricorso a questo istituto iniziò a intensificarsi nel XVII secolo, quando venne espressamente ribadito prima nella Petition of Rights del 1627 e poi nel 1679 con la promulgazione dell’Habeas Corpus Act.

In seguito quest’atto, non fu applicato con continuità.

Ad esempio fu sospeso nel 1793 per paura che gli avvenimenti della Rivoluzione francese potessero ispirare moti di ribellione anche in Inghilterra.

Il diritto fondamentale alla corporeità è stato più volte sospeso nel XX secolo, ad esempio durante la Prima e la Seconda guerra mondiale e durante il conflitto dell’Irlanda del Nord.

Ancora oggi è oggetto di dibattito sul tema del terrorismo.

Nella nostra Costituzione è contenuto nell’articolo 13.

L’espressione habeas corpus deriva da habeas corpus ad subiciendum judicium, ossia “che sia esibito il corpo (dell’accusato) per sottoporlo a giudizio”.

Ciò indicava l’ordine per cui si chiedeva alle guardie di condurre il “corpo”, ossia la persona dell’arrestato, entro tre giorni dall’arresto, al cospetto dei giudici, per evitare le detenzioni illegittime e soltanto ad essi spettava il compito di esaminare il caso e di confermare o annullare l’arresto.

“Fai portare fisicamente l’imputato nel tuo tribunale”.

“Toglilo dalla prigione e sottoponilo a un regolare processo”.

Gli arresti arbitrari, che erano all’ordine del giorno, furono vietati, ma continuarono ad essere praticati.

Ed erano vietate anche le detenzioni prima del processo per più di tre giorni.

Questa norma fondamentale venne ribadita nell’Inghilterra del Seicento in una nuova “legge generale” chiamata Bill of rights (Carta dei diritti 1689).

Essa è diventata un faro che, nel corso dei secoli, ha ispirato le norme giuridiche e le Costituzioni più avanzate del mondo, rappresentando di fatto uno dei più importanti strumenti a salvaguardia della libertà individuale contro l’azione arbitraria delle autorità.

Nella Costituzione della Repubblica italiana il principio dell’Habeas Corpus è sancito in diversi articoli, in particolare nell’articolo 13.

Esso verte sulla libertà personale, il più importante dei diritti civili.

La libertà di fare ciò che si vuole del proprio corpo, ma non completamente.

In altre parole il corpo reale vissuto soggettivamente sottoposto ad una sanzione penale, che fine fa? Il corpo inquisito è trasformato dai mass-media in un titolo, in un caso giudiziario, e la comunicazione del corpo è sostituita da un’immagine diversa da quella vissuta e riconosciuta dal proprietario reale.

Il corpo pertanto perde la propria identità e la propria memoria per divenire un’immagine mediatica.

Oggi, dopo l’atto pubblico del processo, con la detenzione e l’internamento, il corpo del soggetto perde visibilità, diventa astratto, invisibile.

L’individuo reale scompare e con esso la vita di relazione, per divenire un uomo astratto, caricato del significato simbolico delle aspettative della comunità, che crede di poterlo recuperare appropriandosi del suo corpo.

Un uomo privato della possibilità di comunicare chi è veramente, soggetto a interventi che mirano ad espropriarlo della propria identità, della sua immagine e della sua progettualità non potrà costruirsi un nuovo futuro perché non riuscirà a confrontarsi con ciò che è in suo possesso.

La parte più intima della persona è racchiusa nel corpo e si pensa che, attraverso la pena corporale della detenzione, si possa arrivare a trasformare la coscienza di chi lo abita.

Il corpo nella sua materialità contiene un individuo dotato di pensieri, affetti, dubbi, sofferenze, ambizioni, speranze, gioia, amore e queste ultime componenti sono barattate per vivere nell’oblio quel processo di purificazione dalla colpa, che le nostre società hanno affidato al sistema penitenziario.

Il corpo nella visione meccanicistica è altro dalla vita e diventa oggetto di scambio, talvolta fonte di guadagno.

Nel Mercante di Venezia Shylock chiede ad Antonio una libbra del suo corpo qualora non onorasse il suo prestito.

Il corpo di Antonio diviene merce ed è utilizzato come pegno, come garanzia.

E voglio darvene dimostrazione.

Venite insieme con me da un notaio, e avanti a lui firmatemi, voi solo, un impegno formale, con la clausola (ma soltanto così, per uno scherzo) che qualora in tal giorno ed in tal luogo non mi doveste rendere la somma o le somme indicate nel contratto, la penale sarà una libra esatta di carne, della vostra bella carne, da asportarvi dal corpo di mia mano dalla parte che più vi piacerà.”

Quanti Shylock incontriamo oggi vittima e carnefice di qualche Antonio? È un’illusione pensare al corpo come ad un mero contenitore materiale di cellule soggette al ciclo della vita, separato dall’anima? Cos’è il corpo?

Quanti Shylock incontriamo oggi, vittima e carnefice di qualche Antonio? Pensare al corpo come ad un mero contenitore materiale di cellule soggette a leggi fisiche, separato dall’anima che quelle cellule fa muovere in direzione della vita universale?

 


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Vertice NATO di Vilnius del 11-12 luglio l’Unione Europea accetta il ricatto di Erdogan.
Il Sultano vuole la pelle del popolo Curdo e l’avrà. 

Al vertice NATO di Vilnius del 11-12 luglio l’Unione Europea accetta il ricatto di Erdogan. Il ‘Sultano’ ha chiesto la pelle del popolo Curdo e l’avrà. 

Tratto da Volere la luna

La persecuzione del popolo kurdo è tra le più annose, sanguinose e dimenticate al mondo. Si esercita quotidianamente nei diversi paesi e territori in cui, in base al Trattato di Losanna del 1923, è stato suddiviso il Kurdistan (Siria, Iraq, Iran, Turchia), sottraendo così al suo popolo il diritto di vivere in uno Stato libero e indipendente.

La politica di strisciante genocidio portata avanti da Recep Tayyip Erdoğan è ancor più evidente e determinata, oltre che impunita, grazie all’indifferenza, ma anche alla complicità, dei governi occidentali. Il “sultano” turco è cinicamente abile nell’utilizzare ogni pretesto per dispiegare la più feroce repressione interna contro qualsiasi dissidenza e ogni spazio di libertà democratica. Lo ha fatto in modo massiccio e ancor più sistematico dopo il “tentato golpe” del 2016: da allora almeno 134.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati, tra cui oltre quattromila magistrati e giudici; centinaia di persone condannate a pesanti pene, compreso l’ergastolo; interi partiti rappresentati in Parlamento messi fuorilegge. Come, appunto, l’HDP, il Partito democratico dei popoli, che unisce forze filo-curde e forze di sinistra della Turchia. Il suo co-presidente, Selahattin Demirtas, condannato a 142 anni di carcere, dal 2016 continua a rimanere imprigionato nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia ripetutamente giudicato illegittima la condanna e chiesto la sua scarcerazione. In sei anni oltre 10.000 membri di HDP sono stati arrestati, comprese decine di deputati e di amministratori locali. Il pretesto, in questi casi, è la comoda coperta del “terrorismo”. Accusa che consente, tra l’altro, al regime turco di tenere segregato da oltre 24 anni il leader del popolo curdo e fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan, dopo averlo illegalmente sequestrato. Prigioniero nella prigione-isola di Imrali nell’isolamento più totale, nel 2007 ha subito un tentativo di avvelenamento; più recentemente, nell’estate 2023, ha ricevuto nuove minacce di morte, mentre sono circa due anni e mezzo che i suoi avvocati e famigliari non hanno più potuto visitarlo né averne notizie.

Quello di Erdogan è un regime finanziato da anni con diversi miliardi dalla Commissione Europea affinché impedisca ai profughi in fuga dalla guerra in Siria di arrivare nei paesi dell’Unione. È il regime con il quale, negli ultimi mesi, la NATO e i governi occidentali hanno trattato per ottenerne il placet all’ingresso nell’Alleanza atlantica di Svezia e Finlandia in funzione anti-russa. Consenso che, alla fine, Erdogan ha elargito: al solito, in cambio di complicità attiva nella persecuzione dei kurdi, con l’estradizione e la consegna da parte del governo svedese degli attivisti rifugiati da anni in quel paese.

Ma la strategia ricattatoria di Erdogan, mirata anche all’ingresso nell’Unione Europea, nonostante la Turchia non risponda agli standard richiesti in materia di diritti umani e di Stato di diritto, ha obiettivi geopolitici ancor più ambiziosi. Come dimostra il ruolo di protagonista internazionale che si è ritagliata a margine del conflitto russo-ucraino e, prima, il suo espansionismo bellico, con gli interventi in Siria, in Libia, nel Nagorno-Karabakh, e quello politico in diversi paesi africani.

Da un quarto di secolo è in atto una progressiva espansione e una mutazione strategica della NATO, nel silenzio e indifferenza internazionale, sino al ruolo offensivo avuto con i bombardamenti sulla Serbia nel 1999 – con l’uccisione di centinaia di civili, la distruzione di scuole e ospedali, l’utilizzo di armi all’uranio impoverito – in violazione dello stesso proprio statuto e nel disprezzo del diritto internazionale, non avendo avuto l’approvazione all’intervento militare da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel vertice dell’Alleanza di Vilnius (11-12 luglio 2023) si è ufficializzato l’ingresso della Svezia e deciso l’aumento delle spese militari. Dopo il decennale allargamento a Est, che ha costituito una delle premesse e delle cause scatenanti della guerra in Ucraina, con l’invito al summit di Vilnius di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda si è ora delineato e accelerato il nuovo e ancor più pericoloso scenario del prossimo futuro: la trasformazione della NATO in un’alleanza globale in funzione anti-cinese. Una prospettiva che, come già le scelte riguardo l’Ucraina, evidenzia la centralità degli interessi statunitensi e il rischio di una “vassallizzazione” dell’Europa, per usare una definizione al riguardo del presidente francese, l’unico leader dell’Unione a mostrarsi recalcitrante.

Intanto, nel nuovo quadro sancito dall’accettazione delle richieste di Erdogan, secondo Duran Kalkan, membro del Consiglio esecutivo del PKK, l’Alleanza atlantica è fortemente a rischio di divenire a tutti gli effetti anche complice della politica di negazione dei diritti e di sterminio del popolo kurdo: «il Trattato di Losanna, che ha fornito la base giuridica e il potere politico del primo genocidio curdo, trasferirà la sua funzione alla NATO. Essa svolgerà quindi il medesimo compito: diventerà il sistema di negazione e sterminio dei curdi». In questo modo, un secolo dopo Losanna, «la Turchia completerà il massacro dei curdi usando la NATO». Se questa preoccupazione si rivelasse esatta, sarebbe un’ulteriore ed ennesima riprova che, come tutte le guerre, anche quella in Ucraina produce crimini e violazioni non solo nei confronti delle popolazioni direttamente coinvolte nel conflitto, ma riverbera ad ampio raggio e con estensione globale.

Si può, in definitiva, osservare come ogni scelta internazionale che alimenti il conflitto, come ad esempio le massicce forniture di armi, non produca giustizia per gli aggrediti ma piuttosto favorisca nuove e maggiori violazioni contro i diritti dei popoli in generale. Quello kurdo è da un secolo tra i più soli, abbandonati, violentati. La Federazione Internazionale dei Giornalisti ha definito la Turchia «il più grande carceriere di giornalisti nel mondo». Anche perciò bisognerebbe che i media si occupassero con maggior attenzione, continuità ed efficacia del genocidio in corso, che vede ora un salto di qualità e una ulteriore drammatizzazione.

In copertina: Attivisti si sdraiano sulla spiaggia accanto a fiori con la scritta “Aylan Baby” in turco, dove è morto Kurdi, a Muğla, nel sud-ovest della Turchia, il 2 settembre 2022. (FOTO AA)
Sono passati sette anni da quando il corpo senza vita del bambino siriano Alan Kurdi è stato portato a riva sulle spiagge del Mar Egeo in Turchia, ma la crisi prevale mentre i migranti continuano a salpare in cerca di una vita migliore in Europa.

 

Le storie di Costanza /
La Cipolla d’oro

Le storie di Costanza. La Cipolla d’oro

Stamattina sono andata in edicola e ho comprato Sommergibile una rivista di racconti. Poi col giornale in mano ho camminato fino alla piazza principale di Pontalba e mi sono seduta su una panchina di cemento posizionata sotto un tiglio, così le larghe foglie dell’albero riparano la vista dalla luce forte e posso leggere tranquillamente.

Leggere mi piace molto. Non sempre compro libri e riviste perché, se li ho nella borsa, non resisto alla voglia di mettermi subito a sfogliarli, col rischio di dimenticarmi che ora sia e quanto tempo libero avevo preventivato.

L’uso del tempo ha una componente di essenzialità che coinvolge tutti i rapporti che una persona intrattiene. Ciò che è essenziale ha un perimetro definitorio molto forte, ognuno ritiene essenziale qualcosa di diverso e se una persona ha, come me, una grande famiglia, l’essenzialità si moltiplica tanto quanto si moltiplicano i cuori e i cervelli.

A mia madre non piace molto questa mia passione per la lettura, la considera una perdita di tempo che non può giustificare lo slittamento in avanti del giorno in cui si deve stirare, o il giorno in cui si spolvera il soggiorno.

Mentre mi accingo ad aprire la prima pagina di Sommergibile passa Camilla con la sua bici elettrica e mi saluta da lontano: – Ciao Carla, buona giornata! – Altrettanto! – urlo io di risposta. Camilla è un’amica mia e di Costanza, abbiamo fatto lo stesso liceo molti anni fa. Poi le nostre strade si sono separate dal punto di vista professionale, ma non da quello umano.

Le amicizie più vere sono quelle che durano da sempre, che sono cresciute con te sui banchi di scuola. Solo di persone che conosci da molto tempo e con te hanno condiviso l’infanzia e l’adolescenza ti puoi fidare davvero, di fatto non hanno nulla da nasconderti, ciò che potrebbe essere nascosto lo sai già. Questo rende trasparenti i rapporti e limpida l’amicizia.

Se poi si aggiunge che Pontalba ha 2.500 abitanti e che ci conosciamo tutti, questo spiega definitivamente come alcune amicizie si siano sedimentate e poi cementate in questo paese di pianura dove il Lungone è uno spione silente.

Il Lungone è il fiume che attraversa questo paese e che piace molto a Costanza. Quando scrive i racconti di Alba Orvietani descrive spesso il fiume e la gente che qui vive. Trova questo spazio geografico un piccolo esperimento antropologico, uno spaccato di storia contemporanea affascinante, dice che nel piccolo ci sta il grande, e che quello che succede qui è come quello che succede in tutto il cosmo.

Quando mi sono accorta che i racconti di Alba Orvietani sono in realtà di Costanza Del Re mi è quasi venuto un infarto. Lei non ha mai detto a nessuno che i racconti della Orvietani sono i suoi e sono ispirati a questo paese dove l’acqua e l’arcobaleno incarnano la bellezza e “dove il tempo dondola invece che proseguire deciso il suo cammino” (cito lei).

Ma io, che la conosco da sempre, me ne sono accorta e, un po’ alla volta, ho maturato la convinzione che non può che essere così. Quell’incredibile scrittrice che molti cercano e che ha già vinto diversi premi importanti, tra cui la Cipolla d’oro, è la mia amica Costanza.

Una volta ho provato a parlargliene, ma lei ha fatto finta di nulla. Mi ha guardato come se stessi dicendo qualche assurdità e mi ha detto: Ma cosa stai dicendo? Hai preso una cantonata. Io scrivo su diverse riviste, ma uso sempre il mio nome. È buona cosa che uno si prenda la responsabilità di tutto quello che pensa e che firmi ciò che scrive. Ci mancherebbe.

Bel depistaggio, devo dire, degno di lei. Anche per questo non le credo. Così adesso siamo finite in una situazione strana. Io so che lei è Alba Orvietani e lei sa che io lo so, ma nessuno dice nulla sull’argomento, siamo ingessate nelle nostre convinzioni e nelle rispettive idee di ciò che è e che non è, di ciò che dovrebbe essere.

Una volta o l’altra si inventerà un personaggio che assomiglia un po’ a me, è solo una questione di tempo. Ovviamente non lo chiamerà Carla, troverà un nome diverso. Le sono sempre piaciuti i nomi che ricordano la natura, quindi mi potrei chiamare Silvana, o Aurora o Gaia. Tra questi preferisco Aurora, ma è inutile che glielo dica, sarebbe capace di rispondermi: – Peccato che non hai avuto una figlia, le avresti messo un bel nome.

Anche Giada, la compagna di Guido, che conosce Costanza perché è da sempre amica di Guido, ha scoperto che la scrittrice di racconti è proprio lei. Entrambi conoscono bene la velocità e competenza con cui Costanza scrive e sanno che il suo cervello ogni tanto produce delle vere bizzarrie capaci di generare storie interessanti e originali.

Alcuni mesi fa sono andata da Giacinto a mangiare la pizza con Donatella, Domenico e Fernando, i miei fratelli, e ho incontrato Giada che stava rientrando da uno dei suoi giri in bicicletta. Sempre bella quella ragazza quasi cinquantenne, con i capelli lunghi e biondi legati a coda di cavallo e un fisico da atleta. Bella anche con i pantaloncini da bici e una maglietta di cotone bianco che ha visto tempi migliori.

Ci siamo salutate e lei mi ha detto: Ciao Carla, sono in preda a un tormento …quasi mi schianto con la bicicletta contro un muro della pizzeria.
– Ma cosa ti sta succedendo? – le chiedo.

– Alcuni giorni fa ero seduta su una poltrona di vimini del mio balcone, stavo aspettando Guido di ritorno da Trescia e, per ingannare il tempo, mi sono messa a leggere un racconto di Alba Orvietani sull’ultimo Sommergibile.  Sono rimasta di stucco.

Il racconto inizia con la descrizione di un viale sterrato che costeggia un fiume e passa davanti a una villa. Lo sterrato descritto assomiglia molto al Viale dei Castagni di Pontalba! quello che scende dopo il cimitero, costeggia il Lungone e passa davanti ai cancelli di Villa Cenaroli. È uguale, i sassi, la discesa, gli argini del fiume, gli alberi i cancelli della villa. È incredibile, ho pensato, la Orvietani è stata qui! Per scrivere questo racconto ha descritto un pezzo di Pontalba.

Poi ho continuato a leggere il racconto e quasi mi viene un colpo. Il racconto parla di una persona che assomiglia vagamente a me! Ha i capelli biondi, va in bicicletta ed è la compagna di un professore di storia. Ho letto il racconto una volta, poi l’ho riletto e poi riletto ancora.

Più lo leggevo e più quel modo di scrivere mi sembrava familiare, come se sentissi parlare qualcuno che conoscevo, uno strano modo di fraseggiare un po’ cantilenante e vagamente surreale che non mi suonava nuovo. Una strana sensazione di familiarità.

A un certo punto ho realizzato … Costanza Del Re! È Costanza che ha un modo di parlare molto simile a come è scritto quel racconto! Anche certe sospensioni, anche la sua predilezione per l’acqua, il silenzio, le tartarughe. Mi ricordo che una volta era venuta a trovarci a casa ed era tutta entusiasta perché davanti alla pizzeria aveva visto una tartaruga.

Sono sconvolta, ma tutto torna … la descrizione del Viale dei Castagni è molto simili alla realtà perché quello che viene descritto è proprio lo sterrato dei castagni! Mamma mia che storia … non sembra vero ma secondo me è così. Noi conosciamo Alba Orvietani.

Ho annuito con la testa senza proferire parola e ho visto Giada cambiare colore. È diventata bianca come il latte. È stata ferma un attimo come attonita e poi, quando si è ripresa, mi ha detto:
– Ma te l’ha detto lei?
– No, – le ho risposto – Lei mi ha detto che non è vero che Alba Orvietani è il suo pseudonimo e che io sono pazza. Ma secondo me è proprio lei.

– Oddio, oddio, oddio…
– Su su – le dico – mica è poi così grave. Lo sappiamo tutti che Costanza scrive bene. A un certo punto, e solo i santi sanno il perché, si è inventata Alba Orvietani e tutti i suoi racconti.

– Non ci posso credere, … in questo angolo di mondo abita una scrittrice molto brava e noi la conosciamo. Però, però … già la vita…, ogni tanto sa stupire di brutto. Per fortuna che per fare gli scrittori bisogna avere fatto tanto esperienze e aver girato il mondo. È tutto il contrario. Alba Orvietani ha sempre abitato qui!

Mi guarda con gli occhi sbarrati, come se non sapesse cosa altro dire, ferma in piedi appoggiata alla sua biciletta e con la maglietta bianca un po’ attaccata alla pelle perché fa caldo.

Poi ricomincia a parlare. Non riesco bene a riprendermi, penso al mio lavoro e dopo qualche minuto mi viene in mente Costanza con tutte le sue idee, le sue preferenze, l’amore per il fiume e per i gatti. Ma è lei, non ci sono dubbi. Vero?

Annuisco di nuovo con la testa e poi le dico: – È meglio lasciar perdere, non ne vuole parlare, credo che sia un segreto che vuole tenere solo per sé, che non è disposta e condividere con nessuno, nemmeno con le sue amiche più care.

Giada mi guarda di nuove perplessa. È meglio che me ne vada così avrà il tempo di assimilare la notizia e di capire che, tutto sommato, non è una gran notizia. Noi abbiamo la fortuna di essere amiche di Costanza, di vederla sempre, di aver già condiviso con lei un lungo periodo della nostra vita. Che poi lei scriva racconti con lo pseudonimo di Alba Orvietani e non voglia che nessuno sappia che è lei, che cosa cambia?

Niente, alla fine non cambia proprio niente. L’amicizia è una cosa seria, i racconti di Alba Orvietani lo sono molto meno. Devo lasciare il tempo a Giada di assimilare tutto questo e di arrivare alla stessa conclusione a cui sono arrivata io.

Abbasso gli occhi, guardo il praticello davanti alla pizzeria e, non so esattamente da dove, vedo arrivare con il suo passo lento e indolente, una tartaruga.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Per certi versi /
Bagno

Bagno

Ho fatto
un bagno
Lungo
Nel mare
Vuoto
Apparente
Tra i pesci
E le cicale
Ancore
Di vento
I pesci
Cadono
Nel tuffo
Olimpionico
Dei predatori
La bellezza
Nasconde
La morte
Dando vita

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La Ocean Viking nuovamente libera di salvare vite umane: revocato il fermo amministrativo.,: 5 dieci giorni dopo un discutibile fermo amministrativo

La Ocean Viking è di nuovo libera di salvare vite umane. Dieci giorni dopo il fermo a Civitavecchia, le autorità italiane hanno riconosciuto che la nave gestita da SOS MEDITERRANEE era effettivamente conforme a tutte le normative vigenti, come hanno confermato le autorità dello Stato di bandiera norvegese e la società di classificazione della nave. Il fermo è stato quindi revocato senza alcuna modifica sostanziale alla certificazione, all’equipaggio o alle dotazioni di emergenza.   

Pur essendo sollevati dal fatto di poter riprendere le operazioni con la Ocean Viking, la conferma della conformità della nave solleva dubbi sulla giustificazione del fermo. Da quando SOS MEDITERRANEE ha iniziato a noleggiare la Ocean Viking nell’estate del 2019, la nave è stata sottoposta a un numero insolitamente elevato di ispezioni di controllo dello Stato di approdo, la più recente delle quali è stata la settima in meno di quattro anni. Non solo, ma ci siamo anche trovati di fronte a interpretazioni discutibili delle regole e degli standard esistenti, così come anche altre ONG di ricerca e soccorso. Questa applicazione spesso pretestuosa delle norme ha portato a una falsa reputazione delle navi delle ONG come generalmente non conformi e non all’altezza degli standard dell’industria marittima.

L’ultimo fermo della Ocean Viking ha bloccato la nave per un totale di dieci giorni. Questa misura l’ha allontanata dal Mediterraneo centrale, dove è urgentemente necessaria per salvare le vite delle persone che cercano di fuggire dall’escalation di xenofobia e dagli scontri in Tunisia – nonché dai gravi abusi in Libia – a bordo di imbarcazioni non sicure, mentre i mezzi di soccorso sono sempre meno. Quest’anno nel Mediterraneo sono già morte e disperse più di 1.900 persone. Una crisi umanitaria in cui le esigenze di soccorso non sono coperte e sono dunque necessari tutti i mezzi a disposizione.

SOS MEDITERRANEE

Gruppo e comunità (4) /
Ti senti più sciacallo o giraffa?

Ti senti più sciacallo o giraffa?

Secondo la Comunicazione Non Violenta (CNV) provare gioia nel dare e nel ricevere con empatia fa parte della nostra stessa natura. Tuttavia, abbiamo imparato presto molte forme di comunicazione che bloccano questa tendenza naturale e che ci portano a pensare, parlare e a comportarci in modi che feriscono gli altri e noi stessi.

Ti senti più sciacallo o giraffa? Un giorno un insegnante di Comunicazione Non Violenta (CNV) fece questa domanda a bruciapelo, durante una lezione dell’Università del Volontariato a cui stavo partecipando.
Tra me e me, ho pensato che lo sciacallo, poveretto, di solito non è ben visto. Vuoi perchè assomiglia al lupo cattivo delle fiabe e spesso è ritratto mentre digrigna i denti correndo verso la preda, vuoi perchè si ciba anche di carogne… Al contempo, mi sono immaginata la giraffa, con quel lungo collo e le zampe altissime che le permettono di brucare indisturbata soprattutto le foglie di acacia e con quelle belle orecchie che sembrano fatte apposta per ascoltare. La giraffa è erbivora, pacata, silenziosa.

Ma cosa si intende in CNV per linguaggio sciacallo e linguaggio giraffa?
Fu Marshall Beltram Rosenberg, il pioniere della CNV, ad ideare questo linguaggio. A sua volta, fu allievo del grande psicologo umanista Carl Rogers, fondatore della Psicoterapia Centrata sulla Persona, che pone le sue radici nel valutare positivamente le risorse e le potenzialità presenti in ogni individuo

In CNV il linguaggio sciacallo è il linguaggio dei giudizi moralistici, di quando pensiamo in termini di giusto/sbagliato, bene/male, normale/non normale. E’ un linguaggio istintivo, di solito non basato sulla consapevolezza delle proprie emozioni e bisogni e tende a generare delle “contro reazioni” che orientano la comunicazione su piani non empatici e quindi non positivi per la comunicazione stessa.

“Se non si inizia a fare le cose fatte bene in questo gruppo, non mi vedono più”Minaccia
“Che branco di incapaci”Giudizio, etichetta
“Con tutto quello che ho fatto per te, sei proprio un ingrato”Incolpare
“Secondo me faresti bene a reagire e a farti valere in questo mondo”Dare consigli non richiesti
“Dai, datti una mossa e datti da fare. Basta perdere tempo. Reagisci”Comandare, ordinare, sentenziare
“Alla tua età dovresti avere ormai imparato a fare di meglio”Fare la predica
“Confronto a Rita, Cristina non vale una cicca”Fare paragoni
“No, guarda io non sono proprio d’accordo con quello che stai dicendo”Interrompere prima che uno finisca di parlare
“Mi sembra proprio una cazzata questa proposta”Ridicolizzare, sminuire
“Secondo me tu non hai capito la situazione” Interpretare
“Dai, non te la prendere, succede a tutti, cosa vuoi che sia, sai quante volte è capitato a me” – Sminuire
“Se tu mi volessi davvero bene non ti comporteresti così” Pretendere

Le conseguenze sul ricevente di questi tipi di comunicazione, saranno, molto verosimilmente: vissuti legati al mettersi sulla difensiva, sentirsi incompresi ed inadeguati, rabbia, risentimento, colpa, vergogna, senso di disapprovazione e disistima. Possiamo dire che il linguaggio sciacallo blocca l’empatia. Questa comunicazione sottende sempre ad  una negazione di responsabilità che viene sistematicamente scaricata sull’altra persona o su parte del gruppo.

Di solito questo linguaggio è appreso fin da piccoli ed è inconsapevole, come sono inconsapevoli le reazioni che suscita.
Un semplice esercizio per aumentare la consapevolezza del linguaggio sciacallo? Provate ad osservare dei genitori (anche noi stessi) mentre parlano ai figli, soprattutto quando i figli non hanno nessuna idea di dar retta. Provare per credere…
Osserverete quanto spesso verso i figli si usi l’imperativo.
E con il partner? Fate una prova di osservazione anche qui. Un buon modo per approcciarsi alla CNV è senz’altro osservare il proprio ed altrui linguaggio.

Rosemberg suggerisce che il linguaggio sciacallo è comunque una tragica espressione di nostri valori e bisogni.
In altre parole, possiamo dire che è una strada non efficace per esprimerli, ma, spesso, l’unica che conosciamo.
Il linguaggio sciacallo lo abbiamo acquisito fin da piccoli ed è per questo che è così difficile imparare il linguaggio giraffa, che inizialmente viene vissuto come una forzatura, qualcosa di innaturale e non spontaneo. E’ come imparare una nuova lingua, dismettendo progressivamente la lingua madre.
Questo richiede molta motivazione, applicazione, studio, pratica e tanta pazienza.

Il linguaggio giraffa della CNV è un linguaggio che scoraggia le generalizzazioni e che comporta un processo che possiamo suddividere schematicamente in fasi:
Osservare una situazione che stiamo vivendo
Riconoscere ed esprimere i propri sentimenti (connessione con se stessi).
Individuare i bisogni che sono sottesi ai nostri sentimenti (auto empatia)
(Eventualmente) formulare delle richieste. 

La CNV aiuta a riconoscere che la causa del nostro sentimento è un nostro bisogno, e non le azioni di un’altra persona.
Questo ci restituisce tutta la responsabilità di quello che proviamo.
Prova ne è che una stessa azione può venire vissuta con sentimenti diversi, a seconda della persona che la vive. Un complimento a qualcuno può generare gioia e autostima, a qualcun’ altro imbarazzo e disagio.  Ciò che gli altri dicono o fanno può essere lo stimolo, ma non la causa dei nostri sentimenti.

A proposito del riconoscimento dei bisogni, mi fa piacere condividere una mia esperienza personale. La definirei per me importante, dal momento che mi ha permesso di diventare consapevole di una modalità che stavo esercitando nella vita, senza accorgermene.
Durante gli esercizi di CNV, ho scoperto di sentirmi confusa nel riconoscere i bisogni sottesi ai miei sentimenti. Ricordo che le prime volte che tenevo in mano un foglio con l’elenco dei principali bisogni umani, sostavo a lungo chiedendomi Di cosa sento il bisogno? Questo sentimento che sto provando, quale bisogno tocca, vivo in me? Rimasi molto stupita, soprattutto perchè il mestiere di psicologa dovrebbe facilitare, o no? Per tanti anni diverse ore al giorno ho dedicato il mio ascolto e il mio desiderio di aiutare il prossimo all’accoglienza dei sentimenti delle persone che si rivolgevano a me, delle loro storie e dei loro bisogni… Come mai facevo così fatica a riconoscere i miei bisogni? E così, pian pianino, ho constatato che molte persone sistematicamente impegnate in relazioni di aiuto o in funzioni di care giver sono talmente abituate a portare la loro attenzione sugli altri, che hanno via via atrofizzato la propria capacità di auto empatia.

Permettere a noi stessi di mostraci vulnerabili, descrivendo i nostri sentimenti e bisogni con chiarezza e specificità, permette più facilmente di connetterci gli uni agli altri e di nutrire relazioni soddisfacenti. In un mondo in cui tutti hanno fretta, dove anche le relazioni sono diventate sempre più fugaci, in cui si fa fatica ad entrare in profondità, esprimere i propri sentimenti e bisogni può fare paura, soprattutto alle donne a cui è stato insegnato ad ignorare i propri bisogni, per avere cura di quelli altrui.

Immaginiamoci come potrebbero diventare le nostre organizzazioni, le campagne elettorali, i consigli comunali, le assemblee, le nostre famiglie, i rapporti di coppia, con i figli e noi stessi se utilizzassimo con fluidità il linguaggio giraffa, un linguaggio capace di connetterci con i nostri ed altrui sentimenti e bisogni, piuttosto che con le nostre idee e convinzioni sugli altri e sul mondo. Una vera rivoluzione!

E infine, concedetemi due parole sulla possibilità di formulare richieste. Quando le formuliamo, riusciamo a lasciare la possibilità all’altra persona di dirci un no? Ovvero, siamo davvero liberi quando facciamo richieste?
Anche qui un po’ di auto osservazione può renderci consapevoli di quante aspettative e pretese nutriamo nei confronti degli altri e di noi stessi.

Perchè ho scelto di parlare di CNV a proposito delle dinamiche dei gruppi? Perchè quando chiedo ai gruppi che incontro: Qual è l’aspetto più difficile della vostra vita associativa? Al primo posto mi rispondono: La relazione con gli altri del gruppo.
Insomma, porsi il tema di cosa permette ai gruppi umani di funzionare in maniera soddisfacente, viva, autentica ed onesta, implica mettersi in discussione a tantissimi livelli.

Vuoi saperne di più sulla CNV? Una bibliografia essenziale sul tema la trovi [Qui] 

Ti è piaciuto questo articolo e gli altri 3 pubblicati finora sulle dinamiche di gruppo?  Per leggerli tutti, vai in ricerca e digita: Gruppo e comunità

Ti piacerebbe approfondire un tema in particolare ? Vorresti comunque continuare a palarne? Dammi qualche feedback con un tuo commento sotto il testo dell’articolo.

Grazie comunque del tuo ascolto. (Anna Zonari)

Diario in pubblico /
Dalla nostra riviera (parte seconda)

Diario in pubblico. Dalla nostra riviera (parte seconda)

Lo spirito investigativo mi perseguita e quindi, novello Sherlock Holmes, continuo la mia ricerca sul rumore, secondo le indicazioni di Raffaella Carrà.

Telefono alla polizia locale, dove mi risponde una gentilissima, a cui espongo il mio problema, cioè, possono le imprese costruttrici avere orari e limiti al rumore di trapani e quant’altro?  e se ci sono leggi al proposito.

Un sospiro doloroso mi coinvolge e la voce mi risponde che, anche se il cantiere apre alle 7, il rumore trapanante non può che cominciare alle 8. Trionfante rispondo che quel mattino la ballata dei trapani è cominciata alle 7 e 31 e che mai si è arrestata fino a sera.

Mi suggerisce di telefonare subito alla polizia, tenendo però conto del tratto di strada e che quindi potrebbero arrivare più tardi. Sarebbe più facile controllare la ripresa che impedisce dalle 12 alle 15 di usare l’arma letale.

Comunico la ricerca ai vicini di strada e all’edicola, dove voci sempre più singhiozzanti denunciano il sopruso. Ma, dico io, perché non si muovono? Esiste un minaccioso veto della ditta costruttrice che non si rivela ma il mondo intero sa chi è? Misteri, misteri laideschi.

Eppure, non demordo. Saluto dalla strada i pets di famiglia e mi sistemo al bar di riferimento. Qui le petulanti abbondano e con gran dispendio di esibizione di cellulari commentano con spirito soddisfatto ma, sarà una mia visuale distorta, il procedere del rumore.

Così tra una brioche appena sfornata, e un caffè macchiato decido di trattarmi alla grande e di comprare il pranzo al bagno di riferimento. Un coro di “ciao, ciao” mi accoglie, poi esce trionfante la cuoca e m’illustra la meraviglia del progetto.

Singhiozzante (quasi) le espongo il tormento, ma lei, sempre più gioiosa, risponde che anche loro i trapanatori prenderanno le ferie in agosto.

A questo punto capisco che non c’è scampo. Progetto di telefonare al Sindaco di Comacchio, ma so già che nulla otterrò, perciò m’imbottisco di cioccolata accompagnata da un sonno malsano.

È forse il destino che ha posto sulla mia strada il Laido?
Helas! Mi sto convertendo a ciò a cui non avevo mai creduto: la maledizione del destino.

Vedo l’occhio triste dei pelosi di casa e del mio Sapientino che non capisce perché non lo porto in libreria o in edicola a rifornirsi di fumetti e libri.

Con la voce rotta dall’affanno gli dico: “Aspetta! Aspetta! Arriverà la stagione del silenzio e nell’orrido Laido calerà il silenzio che indurrà alla lettura“.

 

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola /
In arrivo “Manodopera” di Alain Ughetto

Quando i migranti eravamo noi. Il 31 agosto uscirà in Italia “Manodopera” (“Interdit aux chiens et aux Italiens” – “Vietato ai cani e agli italiani”) del regista Alain Ughetto

Lucky Red ha annunciato la distribuzione in Italia dell’atteso film d’animazione in stop motion Manodopera (titolo originale Interdit aux chiens et aux Italiens / Vietato ai cani e agli italiani) del regista francese Alain Ughetto, con musiche originali di Nicola Piovani.

Il poetico lungometraggio ha debuttato al Festival internazionale del film d’animazione di Annecy 2022 e ha vinto il premio per il Miglior film d’animazione agli European Film Awards 2022. Pupazzi, broccoli, carbone e zollette di zucchero. E tanto altro.

Ambientato all’inizio del Novecento in Piemonte, ai piedi del Monviso, Manodopera pesca nei ricordi e si ispira al passato della famiglia di Ughetto per raccontare la vera storia di Cesira e Luigi, una coppia di migranti italiani, trasformati in marionette “dai grandi occhi meravigliati“, che fuggono la miseria delle vallate alpine italiane per cercare fortuna e crescere una famiglia in Francia (per un’interessante intervista su Le Monde), dopo il sogno, andato in frantumi, de “La Merica”.

Nonna Cesira (la mémé vestita di nero con le mani sempre nella polenta che Ughetto ha conosciuto fino all’età di 12 anni), con il suo racconto fresco e poetico della vita sofferta e romanzesca degli emigranti di ogni tempo, avvolge e conduce lontano lo spettatore.

Un racconto che ci farà riflettere su un tempo in cui eravamo noi quelli a cui era vietato l’ingresso. L’incredibile cartello “Vietato ai cani e agli italiani” è il segno di un’epoca, ma ovviamente ha un’eco nell’attuale questione dei migranti. Il titolo forte e incisivo del cartone animato fa riferimento a un’espressione realmente esistita negli anni ’20, incisa su un cartello appeso sulle facciate di alcuni negozi o bistrot in Belgio, in Francia e in Svizzera. Italiani maltrattati e derisi sui giornali dell’epoca: “Quel che caratterizza l’operaio italiano è l’accondiscendenza: sopporta di tutto (…), piega la testa e obbedisce”. Quei Ritals”, come venivano chiamati gli italiani dai supervisori francesi, che, silenziosi e umili, lavoravano e si preoccupavano della famiglia rimasta in Italia.

“Mio padre raccontava sempre che in Italia, in Piemonte, c’era un paese chiamato Ughettera, dove tutti gli abitanti si chiamavano Ughetto, come noi. Quando mio padre morì, decisi di andare a controllare. Era vero: UGHETTERA, la terra degli Ughetto! La mia ricerca iniziò quel giorno di nove anni fa e, con essa, ebbe inizio anche la storia di questo film. Dietro al mio nome ho trovato una storia: la cronaca di una famiglia originaria del Piemonte. Ho sviluppato questa storia ispirandomi alla realtà, cercando nei miei ricordi, poi in quelli delle mie cugine e cugini, dei miei fratelli e sorelle. Guerre e migrazioni, nascite e morti… e il racconto ha preso vita” (via Film Commission Torino Piemonte).

Grazie alle testimonianze di contadini piemontesi nati alla fine del XIX secolo, il regista rievoca il percorso del nonno, nato nello stesso luogo e periodo, ed emigrato in Francia, nella prima metà del XX secolo, come migliaia d’altri italiani, raccontandone i timori (legati anche all’ascesa del fascismo), le lunghe marce, le ambizioni di una vita più dignitosa e i desideri che dettarono la scelta di fuggire da un Paese senza futuro.

Con un nobile obiettivo: ridare vita a un mondo scomparso, quella civiltà contadina dei nonni, il “mondo dei vinti”, come lo chiama lo scrittore-partigiano Nuto Revelli che ne ha raccolto le ultime parole. La storia di una famiglia unita che affronta miseria e razzismo ordinario.

Un film, costruito in nove anni, dove il regista vuole parlare del lavoro, il racconto di chi, straniero e rimasto invisibile, ha costruito le infrastrutture della Francia: ponti, tunnel, strade, dighe.

Un racconto universale carico di dolore, di solidarietà e fratellanza. Da non perdere.

Incontro con Alain Ughetto, Arras Film Festival 2022

Per una bella intervista ad Alain Ughetto di Cineuropa

Pagina Facebook di Alain Ughetto

Manodopera (Interdit aux chiens et aux Italiens), di Alain Ughetto – Italia, Francia, Svizzera, Belgio, Portogallo, 2022, 70 mn.

L’Arte che Cura /
Toni (Antonina)

Toni (Antonina)

Ho scritto questa pagina tanto tempo fa quando ancora non sapevo che l’arte sarebbe diventata la mia alleata di cura. Un dialogo profondo e rispettoso dove la mia estetica incontra l’estetica dei pazienti e produce trasformazioni e cambiamento.

Racconta una storia di tossicodipendenza in un periodo, i primi anni 80 quando i drogati, l’eroina (ma qualsiasi droga indistintamente), l’Aids erano una vergogna una “piaga sociale” cui si rispondeva con il controllo, la repressione, il carcere o la comunità a vita. Ma erano anche gli anni di quei temerari che cercavano di illuminare l’ignoranza, i pregiudizi, sostituire la paura con la scienza, servizi sanitari competenti.

Ferrara è stata per oltre un decennio una eccellenza, l’unica USL nazionale che aveva realizzato una comunità terapeutica pubblica e, all’ostracismo e/o al buon cuore, sostituiva trattamenti via via sempre più specializzati.

Per coincidenza, ma Jung dice che “il caso non è mai per caso”, in questi giorni ho letto LA TRAVERSATA DEL DESERTO -Quattordicesimo Libro Bianco sulle droghe, un rapporto sulle tossicodipendenze scritto a più mani che riflette con dati e riflessioni critiche questo fenomeno aggiornato al 2022.

Ed è così che si sono risvegliati tanti ricordi di persone, di storie, di battaglie sociali e sanitarie. Politiche!

Tra questi l’incontro con Toni.

L’arte era il suo talento da sempre e ritrovarla è stata la chiave per la sua emancipazione.

Leon Spilliaert, Bevitrice di assenzio,1907

Ho un nome da uomo, ma sono una femmina. E’ un diminutivo, così, un po’ provocatorio. Ma mi piace.

Io non sono quella che si dice un bel pezzo di figa, ma sono intelligente, creativa, estrosa, anticonformista.

E non mi frega niente dei soliti commenti di merda degli uomini e degli stereotipi insulsi nelle rosse bocche a cuore delle donne.

Sono piatta come un asse da bucato. E allora?

Non mi trucco, porto i capelli corti, porto solo le braghe, vado in moto. E con ciò?

Sono una donna libera. Cari maschi non per forza lesbica come voi, quasi fosse una offesa mi liquidate. Autonoma. “Io sono mia” per davvero.

Ho militato nei collettivi femministi, ho vissuto a Londra con i Punk, non mi sono fatta abbindolare da una rassicurante vita “borghese”. Come quella di merda dei miei, magari!

Mi sono diplomata: sono maestra d’arte. Amo studiare, le cose belle, la vita, il mondo e voglio una vita “esagerata”.

tut-to e su bi to”, “il corpo è mio e me lo gestisco io” ,“la fantasia al potere” “maschio repressoo…..

Gaetano Previati, Le Fumatrici_di_Haschish, 1887

Ce l’ho avuta una vita esagerata.

E adesso sono qui.

Comunità di recupero la chiamano. Sì perché mi sono fatta fregare. Idiota!

Libertà di fare. Già. Libertà di farmi.

Niente regole, niente precauzioni.

E adesso sono qui. Tossicodipendente da eroina e sieropositiva.

Libertà un cazzo. L’ho data via per della roba di merda, per una sigaretta, per un posto dove dormire.

L’ho data a chiunque poteva pagarmi e anche a chi diceva che mi dava di più senza guanto. Magari è lui che si fotteva senza il guanto.

Però adesso sono qui. “Per riabilitarmi”. Giusto?

Stronzate.

Robert De Niro in C’era una volta in America di Sergio Leone

Sono qui perché ho deciso che non voglio crepare e non voglio avere sulla coscienza i miei vecchi.

Ho un nome da uomo, non sono quella che si dice una bellezza ma sono intelligente, spiritosa, fantasiosa.

Qui in comunità non so cosa è successo, ma gli operatori mi trattano con rispetto e mi stimano.

Ho trovato anche un fidanzato che mi dice che sono bellissima e che mi fa tanto ridere.

Forse mi assumono come grafico.

Tornerò presto a casa dai miei vecchi che, poveri, sembrano rinati.

Carlo Carrà, La donna e l’assenzio,1911

Non è una vita esagerata, ma mi sento bene.

Non sono più tossicodipendente. Credo!

Sono ancora sieropositiva. Di certo!

Il mio nome è Antonina. Una volta mi facevo chiamare Toni, così per provocare.

Non sono mai stata bella, “un asse da bucato” dicevano.

Adesso sono qui, in una stanza di ospedale. Sono sieropositiva e non è il primo ricovero.

Se non fosse che ho grandi occhi, adesso ancora più grandi, e per i sussulti della tosse, si potrebbe pensare che sotto le lenzuola non c’è niente.

Volevo una vita esagerata e l’ho avuta.

Non ho fatto bene i conti però, ho avuto troppa fretta e ho svenduto le cose importanti, la libertà, il mio corpo, la fantasia.

Mi viene da ridere: quante cazzate!

Bacco di Caravaggio 1596                                                        

Mi viene da piangere.

Perché, lo confesso, adesso, ogni tanto, ho paura.

Nota:
Invece delle solite immagini retoriche, splatter e morbose di solito riesumate quando si scrive di tossicodipendenze, ho scelto di illustrare questo ‘racconto’ con alcune opere di grandi artisti, anche come dedica a Toni/Antonina

Immagine di copertina: Edgar Degas, L’Assenzio, 1875-76

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioliclicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.

Malamovida, si salvi chi può

#Malamovida e città italiane, si salvi chi può. Ma i Tribunali (a volte) ascoltano…

È ormai un fenomeno planetario e di quelli brutti e cattivi. Non risparmia nessuno, non ci sono arte, bellezza, monumenti e piazze che tengano. La noncuranza e il disprezzo del bene comune imperano. L’indifferenza e il laissez-faire dominano. Troppo di tutto.

La #malamovida comanda, ovunque, ma soprattutto nei centri storici delle città. Proprio in quei luoghi che meriterebbero maggior rispetto, cura e attenzione. Un ‘movimento’ fatto di schiamazzi, musica a palla, ubriacature, sporcizia, orinatoi e tanta maleducazione.

L’esodo dai centri storici, privatizzati da locali ed eventi chiassosi, è ormai inarrestabile.

Torino, foto di archivio Torinoggi.it

Si scappa, si fugge, disperati, dopo aver magari risparmiato una vita per comprarsi una casa che sia centrale e permetta, magari a chi non è più così tanto giovane, di poter fare una passeggiata senza troppi sforzi. Ma ormai, nella giungla urbana che ci circonda, questo non pare più possibile. Un miraggio, mentre si fa la gimcana fra bottiglie e bicchieri.

Ricordo questo fenomeno già nel centro di Bruxelles a inizi duemila. I belgi scappavano verso le periferie più verdi e salutari, lasciavano in centro dominato da delinquenza, un far west che oggi conosciamo anche noi. Un esodo verso quartieri più silenziosi, alla ricerca del silenzio, quello che oggi è un lusso da pagarsi a caro prezzo.

Abbiamo già parlato del silenzio, quello che ormai costa, e di quanto i cittadini soffrano dei disturbi sonori. Non solo economicamente ma anche in termini di sacrifici che si è obbligati a fare soprattutto in termini di chilometri e traffico. Perché se stai fuori città spesso i mezzi pubblici non funzionano, quando non mancano del tutto. Al danno la beffa.

Dopo il silenzio forzato del Covid, oggi i centri della città brulicano di turisti mordi e fuggi e di cittadini ser(i)ali confusionari che sembrano aver perso ogni controllo. Peggio di prima, pare, non abbiamo imparato nulla.

A Roma sono soprattutto Trastevere (e la povera piazza Trilussa) e il martoriato Campo de’ fiori in una città in preda al degrado (ne avevamo scritto nel 2017, nulla è cambiato), a Napoli via Chiaia, a Milano corso Como, a Ferrara tutto il centro. Per citarne alcune. In nome dell’economia. Ma quale? Quella dello spritz o del gin tonic?

Comitati di cittadini esasperati e imbufaliti (mi perdoni il bufalo) scalpitano e fanno appello alle loro amministrazioni comunali o ad altre entità di rilievo.

Ferrara, Piazza Verdi, foto Sky TG24

A Ferrara, ad esempio, sono nate varie petizioni (ad esempio Ferrara chiama Unesco) e varie pagine Facebook (fra queste, stop rumore!). Qualcuno li ascolterà?

Il Tribunale pare di sì, almeno inizia a farlo e bene. Quello di Brescia è stato un interessante apripista. A giugno 2023, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di quel Tribunale che, nel 2012, aveva condannato il Comune a versare 50 mila euro a due residenti esasperati. Il giudice riconobbe l’esistenza di danni biologici e patrimoniali per la movida “a causa del rumore antropico per gli schiamazzi di avventori di alcuni locali che stazionano nei pressi dei plateatici o dei locali su suolo pubblico”. Il Comune fece ricorso e il caso finì, appunto, in Cassazione.

Oggi la Suprema Corte conferma quella condanna (anche se ci sono voluti, punto dolente, oltre dieci anni…), con la seguente motivazione: “La movida per le strade di un quartiere crea un danno alla salute per “immissione di rumore” ai suoi residenti, i quali pertanto possono chiedere un risarcimento ai Comuni “che non garantiscono il rispetto delle norme di quiete pubblica e di conseguenza non tutelano la salute dei cittadini”. Per i giudici, “la pubblica amministrazione è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, può essere condannata sia al risarcimento del danno patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione” del diritto alla salute, “ma anche del diritto alla vita familiare e della stessa proprietà”. A Torino si moltiplicano le class action peraltro vincenti. Per tutte ricordiamo quella di San Salvario.

Non è questione di bandiera, credetemi, di amministrazione di destra o di sinistra. La mia ormai pace dei sensi politica mi fa vedere questo crescente fenomeno, allarmante e inquietante, come un problema senza colore.

La maleducazione e la mancanza di rispetto degli altri è neutra, non è né rossa né nera. Spaventa il vuoto di valori, la mancanza di rispetto per l’altro (la tua libertà è più importante della mia?), il ruolo centrale del divertimento a tutti i costi, dello sballo senza limiti e confini che pervade anche la cronaca e la narrativa (soprattutto social) quotidiane.

Mi spaventano quei commenti aggressivi sui social che criticano chi vuole dormire sonni tranquilli e lo apostrofano come un vecchio rompi…c…che non sa(prebbe) godersi la vita. O che magari lo invitano, senza mezze parole, a ritirarsi in un eremo.

Continuo a chiedermi perché abitare in centro non siamo compatibile con un sano silenzio notturno o con una musica che non rompe i timpani e che magari termini all’ora giusta.

E perché, poi, gli schiamazzi notturni alla chiusura dei locali e il lancio di bottiglie? Perché nessuno controlla? Perché tanta indifferenza da parte delle amministrazioni locali?

Qualcuna agisce, svegliatasi dal torpore quasi di soprassalto: oggi ci sono i fiorentini steward della notte o quelli di Vigevano, ma in molte città italiane i cittadini organizzano ronde (o almeno ci hanno provato). Vi pare normale?

A Roma molti sono scappati, disperati, dal centro, sarà necessario anche a Ferrara?

Foto in evidenza Corriere Web

Parole a capo
Maria Cristina Sferra: “Le mani bambine” e altre poesie

La fantasia è un posto dove ci piove dentro.
(Italo Calvino)

Le mani bambine

Le mani bambine
distese sul tempo
rincorrono libellule
dalle ali d’argento.
Le mani bambine
carezzano piano
il sogno piccino
di un gioco leggero.
Le mani bambine
disegnano mute
la forma del giorno
nel giro del mondo.
Le mani bambine
dividono lente
le piccole gioie
dalle grandi sofferenze.

 

In fine

Tagliatemi le unghie,
che io non graffi la carne agli angeli
mentre arrampico sul declivio
verso l’assoluzione dalle pene.
Tagliatemi le unghie,
che non vi si infili sotto la terra,
l’aria, la tristezza. E la paura
di aver vissuto invano.

 

Ricordi

Ho messo ordine
tra i fogli sparsi
di capitoli infiniti.
Risme di parole
risuonano dal fondo
di un tempo smarrito.
Crepita la carta il suono
bianco del suo fuoco.
Ghirigori d’amore
e lacrime di fanciulla.
Lontani palpiti
di sospiri incompiuti.
In un luogo perduto
gemono piano i ricordi.

 

Fa che io sia la strada

Calpesta il mio sentiero
con passi di vento selvaggio.
Affonda le tue mani
nella mia terra fertile e greve.
Respira l’orizzonte
oltre le colline dei miei fianchi.
Fa che io sia la strada
su cui camminare verso il mondo.

 

Tu danzi

Sul bordo tra la luce e l’ombra,
sul filo aspro della lama,
sopra il margine del tempo,
sul filo lieve della vita,
tu danzi.

(Queste poesie sono tratte dalla raccolta “Attraverso il tempo”, Independently published 2021, su gentile autorizzazione dell’autrice)

Maria Cristina Sferra, nata a Novara nel 1965, vive a Milano.
Giornalista professionista e graphic designer, scrive per lavoro e per passione. Sul sito personale cristinasferra.wordpress.com, condivide narrativa e poesia.
Collabora con l’associazione culturale Cultura al Femminile e il relativo portale web, dove recensisce libri e cura la rubrica Lettere al Femminile. Suoi racconti e poesie sono inclusi in antologie collettive pubblicate da case editrici varie. Dell’antologia Storie sbagliate (Golem Edizioni, 2020), a cui ha partecipato con diverse poesie, è anche co-curatrice e firma il progetto di copertina.
Autrice indipendente, nel 2014 pubblica il romanzo A mezzogiorno del mondo (una storia d’amore), nel 2016 la silloge poetica Il soffio delle stagioni e la raccolta di racconti L’amore è una sorpresa, nel 2017 la silloge poetica Ombra di luna, nel 2019 il diario esperienziale Il corpo morbido (per)corso di teatro, nel 2021 la raccolta di pensieri e immagini White (pagine bianche) e la silloge poetica Attraverso il tempo, nel 2022 la silloge poetica Anima liquida.

LO SCAFFALE POETICO
Da alcune settimane inseriamo nella rubrica alcune segnalazioni editoriali interne (o contigue) al mondo della poesia. Questa settimana diamo spazio anche ad alcune recenti uscite editoriali che “parlano” di Italo Calvino, nel centenario della sua nascita. Buona lettura e ricerca
 poetica.

Italo. Una biografia, ricordi e sei articoli”, di Bernardo Valli, Edizioni Ventanas, 2023.
“Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni”. (a cura di Marco Belpoliti), Ed. Mondadori, 2023

  • Miriam Bruni, Concentrati sul cromosoma celeste, Ed. Il Seme Bianco, 2022
  • Roberto Dall’Olio, La ballata di Jan e versi boemi, Pendragon, 2022
  • Franco Stefani, Istanti, Genesi Editrice, 2019

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Per leggere il Bando e partecipare al Premio Internazionale Senza Premi “Le nostre parole per l’Alluvione” [Vedi qui]

Crollano i salari, L’Italia è maglia nera.

Tratto da Collettiva del 14.07.23

L’Ocse certifica il calo delle retribuzioni: giù del 7,5%, nessuno ha fatto peggio di noi. Le soluzioni? Salario minimo e contrattazione collettiva

L’Italia è il Paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie Ocse. Alla fine del 2022, erano crollati del 7% rispetto al periodo precedente la pandemia. Una discesa continuata nel primo trimestre di quest’anno, con una diminuzione su base annua del 7,5%.

L’Outlook 2023 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (che riunisce 38 Paesi con Pil pro-capite medio-alto) non porta buone notizie. L’aggressione russa contro l’Ucraina ha contribuito a un’impennata dell’inflazione, che non è stata accompagnata da una corrispondente crescita dei salari nominali. Di conseguenza, i salari reali sono diminuiti praticamente ovunque.

Italia, maglia nera

Ma qui emerge il record negativo del nostro Paese. In media, nel primo trimestre 2023 i salari reali sono diminuiti del 3,8% rispetto all’anno precedente (i dati disponibili sono su 34 Paesi Ocse). Ma noi abbiamo fatto peggio degli altri: il 7.5%, praticamente il doppio.

Anche le previsioni non sono buone. Da un lato, nei prossimi due anni il mercato del lavoro rimarrà sostanzialmente stabile, con una crescita dell’occupazione totale inferiore all’1% sia nel 2023 sia nel 2024 (a maggio il tasso di disoccupazione in Italia era al 7,6%, la media Ocse è 4,8%). Dall’altro, i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, ma l’inflazione si attesterà al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.

Le soluzioni dell’Ocse

Alla conclusione della sua analisi, l’Ocse offre anche soluzioni per mitigare la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori e garantire una più equa distribuzione dei costi dell’inflazione tra imprese e lavoratori. “Il mezzo più diretto per aiutare questi ultimi – si legge nel report – è quello di aumentare i loro salari, compreso il salario minimo legale, che è fissato dallo Stato”.

Sull’Italia pesa “l’assenza di un salario minimo” (presente in 30 Paesi Ocse su 38), ha precisato il direttore per l’Impiego e il lavoro Stefano Scarpetta. L’economista ha rimarcato “l’importanza di avere in momenti come questo un salario minimo, accompagnato da una commissione tripartita per valutarne il livello”. Secondo l’esponente Ocse il nostro Paese dovrebbe fare come la Germania, che nel 2015 ha introdotto il salario minimo pur avendo (come l’Italia) una “forte contrattazione collettiva”.

La seconda soluzione, appunto, è la contrattazione collettiva. Ma c’è un “però”: in Italia i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6% nel 2022. L’Ocse, infatti, sottolinea che “i significativi ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi (oltre il 50% dei lavoratori è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni) rischiano di prolungare la perdita di potere d’acquisto per molti lavoratori”.

Nello stesso tempo In generale, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ritiene che ci sia “spazio per i profitti per assorbire aumenti salariali, almeno per i lavoratori a bassa retribuzione” e che i governi “dovrebbero riorientare i sostegni in maniera più mirata sulle famiglie a basso reddito”.

Vite di carta /
Se “Come d’aria” vince il Premio Strega 2023…

Vite di carta. Se Come d’aria vince il Premio Strega 2023

Se “Come d’aria” di Ada D’Adamo vince il Premio Strega 2023 e se come mi hanno detto alcuni lettori esperti è un libro di valore, in una notte torrida di queste apro il tablet e subito dopo il pdf che ne contiene il testo.

So che l’autrice non c’è più, che ha saputo di essere nella dozzina dei libri finalisti nel suo ultimo giorno di vita. Penso che una coincidenza come questa  deve aver rafforzato l’onda emotiva che il libro suscita di per sé con la storia che ha dentro.

vite di carta come d'aria ada d'adamo premio strega 2023Daria è la figlia che Ada ha avuto sulla soglia dei quarant’anni: è una bambina minuscola il cui destino è segnato da una grave patologia cerebrale e dalla diagnosi mancata nei mesi della sua gestazione.

Dopo poco più di dieci anni Ada scopre di essersi ammalata di tumore e questa scoperta terribile le dà l’occasione di raccontare alla figlia la loro storia insieme.

Le parla dei mesi dell’attesa, del parto e del tunnel di disperazione in cui è caduta durante i suoi primi mesi di vita, vedendola soffrire e apprendendo la diagnosi della malformazione da cui è affetta. Non le nasconde che il suo arrivo ha portato uno tsunami nella vita sua e del suo compagno.

Si muove avanti e indietro  nella vita di madre che ha condotto con immensa  difficoltà avendo a fianco il babbo col suo amore incondizionato per Daria, e intanto riproduce i gradi della consapevolezza guadagnata giorno dopo giorno di  avere trovato  in questa figlia speciale la bellezza che ha sempre inseguito. Cercandola nella danza, nella scrittura.

Descrive i gesti, i canali sensoriali con cui ha comunicato con la figlia, la loro simbiosi.

Nella fase avanzata della malattia si esprime così: “La riduzione della vista, della mobilità, la rachicentesi che mi impone svariati giorni di stare sdraiata… La tua badante diventa anche la mia. La domenica il babbo ci solleva entrambe dal letto. È così che, ancora e ancora, continuo a identificarmi con te. Il mio corpo sperimenta, seppur in misura ridotta, i limiti del tuo. Prima li conoscevo, li sentivo, li toccavo attraverso te; poi ho cominciato via via a incorporarli”.

Non si fa peccato a  svelare le ultime parole del libro. Sembrano così leggere, così legate al titolo da formarci un gioco di parole, uno scioglilingua, in cui ogni lettera è iniziale dei nomi dei protagonisti. Ada lo scrive per Daria e le dice “Senti se ti piace: d’adamo – d’ada – d’a(di)a – d’a(ri)a – d’aria”.

A è l’iniziale del nome Ada e Alfredo, il babbo, suo compagno e poi marito. Per loro AdA è l’acronimo che significa “Ada di Alfredo” e inversamente “Alfredo di Ada”; quando è nata la loro bambina la “di” che indicava il reciproco possesso è divenuta D. Al centro esatto del loro amore, “un amore d’aria“, ecco il nome della loro piccola, l’omofono senza apostrofo che suona Daria.

La veglia indomabile di questa notte mi rende gradevole la luce lunare che esce dallo schermo del tablet. Mi domando cosa sia meglio fare di un libro come questo, che ho letto fino all’ultima parola senza potermene staccare. L’onda emotiva ha raggiunto sicuramente anche me. Trovo tuttavia inconfutabile che si tratti di una altissima testimonianza di ciò che può la sensibilità umana.

Investita dal cono di luce verdognola, cerco di dargli un destino diverso da quello che ha già conseguito vincendo un premio letterario: lo metto idealmente in una piccola capsula, che possa salire tra gli spazi siderali, una moderna bottiglia che non lancio nell’oceano, ma più su.

Lo troveranno gli altri di altri mondi?  È un divertissement fatto tante volte con gli studenti: “guardati allo specchio e descriviti con gli occhi di un extraterrestre piccolo piccolo che ti vede per la prima volta.”

Un cartiglio fatto di poche frasi spiegherebbe agli altri di altri mondi che questo libro rivela di cosa sia capace l’interiorità di una donna, vissuta nella parte occidentale del mondo agli inizi del terzo millennio.

Di come la sua cultura e la educazione alle arti le abbiano affinato la capacità di guardare lucidamente la società malata, quella sì, in cui vive. Di tollerare i più poveri di spirito, di accogliere la diversità e di trovare la bellezza, anche dove il caso maligno è andato a nasconderla di più.

Nota bibliografica:

  • Ada D’Adamo, Come d’aria, Elliot,2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Salari poveri e profitti ricchi.
L’ingiustizia “dedicata a te”

L’ingiustizia “dedicata a te”

I salari reali nel 2022, quelli cioè calcolati dopo l’inflazione, sono in calo in 30 paesi su 34 tra quelli che formano l’OCSE, l’organizzazione dei paesi occidentali. La fonte è la stessa Ocse che certifica il disastro sociale in atto che colpisce la grande maggioranza dei lavoratori (quelli meno pagati perdono ancora più della media). Solo i dipendenti di Belgio, Costa Rica, Olanda e Israele vedono aumentati i loro salari reali. In Usa calano dello 0,7%, per arrivare fino alla massima flessione dell’Ungheria (-15%). All’interno dei singoli paesi solo una piccola percentuale di dipendenti (ad alto salario, quadri e tecnici) e i grandi manager vedono crescere il loro potere d’acquisto. Così aumenta ancora la disuguaglianza.

La strategia delle banche centrali è quella di aumentare ancora i tassi di interesse per combattere una inflazione che però non cala (o cala troppo poco) in quanto è determinata da un aumento dei profitti e dei prezzi delle imprese. Essendo venute meno tutte le forme di controllo sociale e contrattuale sui prezzi, a pagare sono in ultima istanza i lavoratori.

I salari degli italiani hanno perso in media il 7,5%, una delle maggiori flessioni (siamo al 28° posto su 34). Per i salari più bassi la perdita è ancora maggiore e sale a -10,3% anche nel 1° trimestre del 2023, avendo l’Italia una delle inflazioni più alte al mondo, a causa della mancanza di controlli sia sui prezzi delle imprese che dei negozi. Com’è noto la causa principale dell’inflazione non sono più le materie prime, ma la mancanza di controllo sui prezzi delle imprese che stanno approfittando del clima di guerra, nonchè dei passati aumenti dei costi dell’energia e delle materie prime (ora però in forte calo).

Anche per il 2023 le previsioni sono pessime. Nella media dei paesi si prevede un aumento dei salari del 3,7% ma una inflazione del 6,4% (6% per l’Italia); questo significa che la previsione è di una ulteriore perdita di potere d’acquisto del 3-4% almeno per 8 italiani su 10.

L’Istat ha comunicato al Parlamento, in una specifica audizione, che l’introduzione del salario minimo a 9 euro all’ora, porterebbe ad aumentare i salari di 3,6 milioni di italiani per una media di circa 804 euro all’anno (inclusi 500mila apprendisti), con un aumento del monte salari di 2,8 miliardi. I beneficiari sarebbero coloro che guadagnano meno di 9 euro all’ora, giovani e donne che lavorano nei servizi, in agricoltura e al Sud.

Ma al momento il Governo è contrario. Nel frattempo vara una misura-carta che prevede un impegno di 1,3 miliardi denominata “Dedicata a te”, che darà a circa 1,3 milioni di famiglie individuate dall’Inps (non dai Comuni) 382,5 euro di bonus alimentare (76 euro al mese da agosto a dicembre 2023). Bisogna avere un Isee fino a 15mila euro (il doppio di quello che serviva per ottenere il Reddito di Cittadinanza). In Italia sono 15 milioni le persone sotto quella soglia. La misura è chiaramente limitata a un piccolo gruppo di famiglie, è di modesta entità (un’elemosina) e serve ad oscurare il fatto che da agosto perderanno il RdC 350mila persone (altre 265mila da gennaio prossimo). Non va a chi ha già il RdC e non è mirata ai “veri” poveri (che conoscono solo le anagrafi comunali), ma alle famiglie con 3 componenti che non sono né povere né benestanti. Un primo criterio è la differenza tra reddito medio locale e nazionale, per cui ci saranno famiglie con Isee a 15mila euro con il bonus e altre con Isee molto più basso senza bonus, a seconda se vivono in un posto più o meno ricco e popoloso. Un altro criterio è la numerosità della famiglia e la presenza di figli. Viene così stilata una classifica dall’Inps e si procede “in ordine di priorità decrescente”. Una misura limitata, palliativa e senza alcun principio universale: l’ennesimo bonus elettorale ad un gruppo di famiglie, nonostante si sappia bene che in Italia ci sono 5,6 milioni di poveri assoluti.

Il Governo vuole dimostrare che pensa agli ultimi, ma in realtà toglie a tutti quelli che lavorano attraverso la riduzione del potere d’acquisto del salario reale, non introducendo il salario minimo e riducendo il Reddito di Cittadinanza da 8 a 5 miliardi. Si procede “in ordine di priorità decrescente”: prima le famiglie con tre componenti, poi, se avanzassero risorse (che non ci sono), andrebbero anche agli altri: sono questi i nuovi “poveri” del governo Meloni.

LETTERA APERTA di SAVE THE PARK:
E’ consapevole la Regione Emilia Romagna di stare contribuendo finanziariamente allo scempio del Parco Giorgio Bassani?

LETTERA APERTA

Lo studio di Unife sull’indotto economico del concerto del 18 maggio, o meglio il resoconto che ne ha dato il Sindaco, ci ha consegnato un bilancio, che appare lusinghiero fondamentalmente per due settori, quelli ricettivo e della ristorazione. Molto meno per i lavoratori coinvolti, assunti con contratti precari e salari bassi: i numerosi operatori della vigilanza messi in campo per impedire prima e dopo il concerto l’accesso all’area, e ancora all’opera, hanno un contratto che prevede poco più di 6 (sei) euro all’ora.

Nulla dice dei danni ambientali: devastanti quelli al manto erboso, non ancora quantificabili quelli alla fauna e all’ecosistema nel suo complesso, dato il perdurante divieto di accesso all’area e i tempi comunque lunghi per la loro valutazione

Viene fornita inoltre per la prima volta una cifra relativa all’investimento, a carico questo di tutta la comunità, visto che si tratta di soldi pubblici. Il dato indicato, un milione di euro secondo quanto dichiarato, fornito comunque in maniera non analitica, è relativo sia all’organizzazione del concerto, sia al “ripristino” del parco. Poiché di un ripristino molto particolare si tratta, in quanto il parco sta subendo profonde modifiche rispetto allo stato precedente, la più eclatante delle quali è il rifacimento dei percorsi interni che vengono asfaltati e portati a 6 m di larghezza (dimensione oltre il minimo previsto per le strade provinciali), alcune domande sono ineludibili.

Con quale strumento di pianificazione si è deciso di trasformare il Parco Giorgio Bassani in area dedicata ai grandi eventi, snaturandone il progetto originario?

Esiste un progetto di trasformazione e quali atti sono stati compiuti per approvarlo e per affidare i lavori relativi?

Fino ad ora le richieste di informazione per rispondere a questi interrogativi hanno avuto esito negativo per la totale chiusura del Comune, anche nei confronti degli stessi Consiglieri comunali.

Ma soprattutto sarebbe interessante sapere, poiché tutti gli interventi, sia di preparazione del concerto sia di “ripristino” appaiono parte di un unico incarico affidato alla fondazione Teatro Comunale, sono consapevoli i finanziatori, e in particolare la Regione Emilia Romagna (100.000 euro tramite APT), che con le loro risorse si sta operando lo scempio al quale, con grande dolore, stiamo assistendo giorno dopo giorno? Nonostante la Regione stessa nel suo Piano Territoriale Paesistico Regionale classifichi l’area “di interesse naturalistico e paesaggistico” e come “ambito in cui definire progetti di tutela, recupero e valorizzazione”.

Comitato Save the Park
Ferrara, 14 luglio 2023

In copertina: Illuminazione-percorso-ciclopedonale-Parco-Urbano-Bassani