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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Storie in pellicola /
Air, il grande salto

Nike e Air Jordan, la straordinaria ascesa di un marchio che credeva di non farcela. Un contratto che cambierà per sempre il mondo dello sport e le sue regole di marketing.

Correva il 1984, Reagan alla Casa Bianca, le Adidas, le Converse, il primo Macintosh e la Nike. Molti di noi, vedendo le immagini di Air – La storia del grande salto, per la regia di Ben Affleck (qui anche attore), ricordano i tempi del liceo e quando la marca Nike, a chi frequentava il classico, portava senza dubbio alla “vittoria”. Ma poi come si pronunciava?

Qualcuno indossava timidamente le scarpe con la riga azzurra, con quel moderno logo Swoosh (la mia cara compagna di banco le aveva, una delle prime, ci giocava a tennis e quanto gliele invidiavo…), altri preferivano le Adidas o le Converse (o le italiche Superga, molto più nazional popolari). Si giocava sui colori, ma le si collegava ai grandi campioni.

Swoosh, onomatopea che in lingua inglese indica la velocità e il fruscio del vento. Un logo che, nella mente della sua creatrice Carolyn Davidson, rappresentava una stilizzazione delle ali della dea unita all’idea di velocità e di movimento. Eravamo pochi a saperlo.

Con esso, gli esordi di un giovanissimo Michael Jordan, per chi seguiva il basket, guardia della squadra collegiale di North Carolina che nel 1982 vinceva il titolo NCAA da protagonista (scelto poi nel draft NBA del 1984 dai Chicago Bulls con la scelta numero 3).

Un talento emergente conteso. Con quali scarpe avrebbe esordito agli NBA?

L’assalto al talento, conteso da Adidas e Converse e che di Nike non ne vuole sapere, viene sferrato da Sonny Vaccaro (Matt Damon), dirigente della divisione basket all’inizio degli anni Ottanta della Nike allora guidata dal visionario co-fondatore e amministratore delegato Phil Knight (Ben Affleck). Runner al college e nell’anima.

Vaccaro, grandissimo esperto di basket giovanile, ha l’intuizione di puntare tutto il budget a sua disposizione su un solo atleta, astro nascente: Michael Jordan, MJ.

Perché diventi la punta di diamante dell’azienda. Vaccaro, per spuntarla sulla concorrenza, cerca di convincere la famiglia Jordan ad accettare il contratto, facendo leva soprattutto sulla madre dell’atleta, Deloris (Viola Davis), la vera guida dietro il successo del figlio, la capofamiglia che ha fiuto per gli affari e grande intuizione. Lungimirante.

Il film-biopic racconta, con dialoghi brillanti e colpi di scena (e qualche parolaccia di troppo), la funambolica e avvincente opera di convincimento nei confronti di MJ e la creazione del famoso marchio Air Jordan, la scarpa che vola, fatta su di lui e per lui, una scarpa che si adatta al campione.

Una partnership leggendaria che rivoluzionerà per sempre il mondo dello sport professionistico e delle sue regole di marketing.

La leggenda di MJ parte proprio da quel contratto, che lo ha reso uno degli sportivi più iconici e ricchi di tutti i tempi, con un patrimonio personale di 2 miliardi di dollari.

 

Una storia di successo figlia del grande sogno americano.

 

Air – La Storia del Grande Salto, di Ben Affleck, con Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman, Marlon Wayans, Chris Messina, USA, 2023, 112 mn.

 

Aperta a Milano la mostra “Amazonia”, la più grande mai allestita in Italia.
L’abbiamo visitata senza pubblico, in compagnia di Sebastião e Lélia Salgado.

“L’ Amazzonia la si deve sentire dentro” queste le parole di Lélia e Sebastiao Salgado alla conferenza stampa per l’inaugurazione della mostra Amazonia che si tiene alla Fabbrica del Vapore a Milano dal 12 maggio al 19 novembre 2023 presso la Fabbrica del Vapore. Si tratta della esposizione di 200 opere del grande fotografo brasiliano, la più ampia mai allestita in Italia. 

Avevamo incontrato e dialogato con  Sebastião Salgado e Lélia Wanik Salgado ai primi di marzo nella conferenza stampa di presentazione della mostra [vedi il mio articolo su Periscopio], ora abbiamo avuto il privilegio di visitare  “Amazonia” appena prima dell’apertura, senza pubblico, insieme a Leila e Sebastião, per un un ultimo controllo dell’allestimento.

L’incipit della mostra  “Amazonia” – ph. Anna Pitscheider

Varcando la soglia della mostra si ha la sensazione di entrare nel ventre primigenio del nostro pianeta,  e si capisce come quel “sentire dentro”  fa riferimento a tutti i nostri sensi, non solo quelli visivi, ma quelli uditivi, olfattivi, tattili, gustativi; quei sensi biologici che si formano nell’utero e che legano il corpo umano alla sua dimensione spirituale e alla dimensione spirituale del nostro pianeta.
Si, perché c’è un dialogo continuo tra le nostre cellule  e l’ambiente circostante che informa il cervello e il cuore, esattamente come la cellula uomo/donna dialoga costantemente con la natura che lo circonda e con l’universo. Siamo interconnessi e lo sappiamo. Ma perché tutto ciò diventi consapevolezza c’è bisogno del Tempo, il tempo dell’attesa, che noi occidentali spesso consideriamo un tempo inutile, inefficiente, sprecato. Uno dei meriti di questa mostra è anche rimettere al centro questa dimensione del tempo.   

Lélia Wanik, curatrice de0la mostra e del catalogo, durante la nostra visita – ph. Anna Pitscheider

Le 200 foto che Lélia ha accuratamente scelto per la mostra sono il frutto di un lavoro sul campo lungo (7 anni) e appassionato del fotografo ed esploratore Salgado. E in questi 7 anni, 58 lunghi viaggi che lui stesso definisce come “una traversata transatlantica”, per il senso di vastità e dell’ignoto che si deve abbracciare. 

“Bisogna saperci stare in questa dimensione del tempo, si apprende solo con l’esperienza e la determinazione a portare a termine una missione. Le donne la conoscono bene! “, Sebastião Salgado lo racconta grazie ad una domanda acuta della mia compagna di visita, la fotografa Anna Pitscheider, sulle difficoltà tecniche a lavorare in Amazzonia.

Per fotografare ha sorvolato la foresta con l’elicottero dell’esercito brasiliano, da lì ha potuto documentare non solo la vastità ma anche la varietà del paesaggio amazzonico che si snoda anche sul massiccio più alto del Brasile. “Erroneamente  pensiamo spesso alla foresta amazzonica come piatta su cui si snodano grandi e lunghissimi fiumi” ha puntualizzato lo stesso Salgado, che rivendica nuove scoperte scientifiche,  grazie al suo lavoro.

Una volta è salito su una barca e per 38 giorni non ha mai messo piede sulla terra ferma. “Quando si fa un lavoro del genere – piega Salgado – che richiede anni di vita, ci vuole un concetto creativo, non si può semplicemente andare in Amazzonia così per andarci, e dunque abbiamo fatto una scelta precisa: non troverete  foto  degli incendi, delle fattorie, di quello che di brutto succede in Amazonia. Abbiamo voluto proprio che ci fosse la purezza di quella che l’Amazzonia è sempre stata, perché li vive il concetto culturale più importante del mondo: 200 tribù che parlano 186 lingue  diverse che convivono in modo che non esiterei a definire assai raffinato!”  

Quando poi andava nelle comunità indigene, vi si recava sapendo quando partiva ma non quando sarebbe ritornato. Portava con se un grande studio fotografico portatile, 6 metri di larghezza e 9 di lunghezza , srotolabile a seconda delle condizioni meteo.

La sfida fotografica del ritratto o dei ritratti di gruppo è quella di sapere dare al soggetto l’ importanza che merita, è la costruzione di una sincera relazione tra chi fotografa e chi si fa riprendere e le relazioni hanno bisogno di cura e di conoscenza reciproca. “Quando si ha a che fare con una comunità indigena bisogna aspettare che siano loro  a volere venire a farsi fotografare e quindi c’erano giorni in cui non veniva nessuno e giorni in cui arrivavano a decine” racconta Salgado.

Lo sfondo scuro su cui si stagliano volti decorati e interi gruppi di indigeni  (fino a 30 40 persone) è stata una scelta precisa. Gli indigeni sono fieramente decorati e magnificamente tatuati  in tutto il corpo, un decorazione che parla della loro anima, che collega anima a corpo e natura e all’universo, e “se ritratti nel mezzo della foresta sono talmente ben camuffati da rendere molto difficile dissociarli dall’ambiente circostante, e invece se fotografati con uno sfondo neutro si mostra tutta la loro potenza, tutta l’importanza della loro cultura che ovviamente si portano dietro nel loro corpo”  continua Salgado.  

foto da non usare
Gruppo di indigeni – © Sebastião SALGADO

C’è bisogno dunque dell’attesa rispettosa. Un tempo che noi donne conosciamo bene, i 9 mesi di gravidanza. Quello stesso tempo che ci richiede “la natura quando fa il suo corso e trasporta l’immensa produzione di umidità della foresta amazzonica  (ulteriore scoperta scientifica fatta durante questo lavoro fotografico) fin qui da voi in Italia”, continua Salgado. Infatti la foresta amazzonica è l’unico luogo al mondo in cui il sistema di umidità dell’aria non dipende dall’evaporazione degli oceani. Ogni albero disperde centinaia di litri d’acqua al giorno, creando fiumi aerei anche più grandi del Rio delle Amazzoni.

Noi visitatori abbiamo dunque il privilegio di assaporare il tempo lungo della scoperta, condensato nell’essenziale grazie alla sapiente curatela di Lélia, compagna di  vita di Sebastião, che tesse la narrazione in una regia magistrale. Le foto in grandi dimensioni occupano lo spazio della Cattedrale di Fabbrica del Vapore, fluttuando sospese in modo da creare uno spazio immersivo, i suoni dei compositori brasiliani con le tre installazioni a forma di “ocas” (la case comuni indigene),  nelle quali si ascoltano le voci dei capi indigeni.

La grande sala di Fabbrica del Vapore, chiamata Cattedrale, dove è allestita la mostra “amazonia” –ph Anna Pitscheider

Un sapere ancestrale emerge con forza:  i suoni delle gocce della pioggia ci accarezzano la pelle, il fruscio delle foglie ci ricordano i primi passi sulla terra nuda, il canto degli uccelli –  tutte arrangiate da Jean Michel Jarre – la beatitudine della musica e  le composizioni di Heitor Villa-Lobos e Rodolfo Stroeter, i suoni primordiali dell’utero, e poi la vastità degli spazi dei cieli e delle acque, e l’altezza smisurata degli alberi ci lasciano attoniti per la loro prorompente bellezza.
Ma l’Amazzonia “si deve sentire dentro” e a Milano , per la prima volta, ci sarà anche una sezione Touch per gli ipovedenti e i non vedenti e il primo  libro fotografico Touch a ricordarci che non basta vedere con gli occhi: l’invisibile si mostra in tanti modi, basta darsi  il tempo, il tempo dell’attesa.

È un paradigma che sposta radicalmente la prospettiva occidentale da un esasperato  antropocentrismo alla relazione sacra tra esseri umani /natura /universo, tra  sacro e scienza, e di cui i popoli indigeni sono gli ultimi testimoni.
Conclude
Sebastião Salgado: “Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo, è che tra 50 anni questa mostra non assomigli a una testimonianza di un mondo perduto. L’Amazzonia deve continuare a vivere e, avere sempre nel suo cuore, i suoi abitanti indigeni.”

AVVERTENZA
Le 2 foto di Sebastião Salgado, di cui una in copertina, sono state concesse in esclusiva a Periscopio per questo articolo, non possono essere riprodotte e stampate altrove della mostra. Anche gli altri scatti che illustrano questo testo, realizzate dalla fotografa della fotografa professionista Anna Pitscheider, sono sotto copyright.

UN AIUTO PER L’EMILIA ROMAGNA

L’aiuto e l’autoaiuto sono cose belle tra le tante cose brutte che ci stanno intorno. A Periscopio non abbiamo nulla nemmeno contro la Beneficenza: il nome è un po’ vecchiotto ma l’etimo ci tranquillizza. Abbiamo solo una sana diffidenza, che condividiamo con tanti; che poi è una semplice domanda: dove vanno a finire i soldi? Chi li usa? Come li spende?
Così, anche quando il Covid 19 faceva strage a occhi chiusi, quando a Bergamo e altrove, nelle case, negli ospedali, nelle residenze per anziani si moriva come mosche, non abbiamo aderito all’appello  del Ministero dell’Interno, e non abbiamo pubblicato Numero Verde e IBAN per versare un obolo a un corpo centrale dello Stato. Crediamo riusciate a capire il perché.
Questa volta è diverso. Conosciamo bene la Protezione Civile dell’Emilia Romagna, nelle sue file ci sono decine di amici/che, volontari/rie impegnati in queste ore a prestare soccorso,  conosciamo le loro facce, il loro impegno, la prontezza e l’efficienza con cui intervengono in Italia e in Europa,  ovunque ci sia bisogno di aiuto. Di loro ci fidiamo e pubblichiamo il loro appello e il loro conto corrente.
Un terzo della nostra Regione è ancora sott’acqua. In decine di migliaia hanno dovuto lasciare le loro case e tutte le loro cose, alcuni hanno perso la vita.
Diamo un piccolo aiuto a chi sta aiutando.

(Francesco Monini)

🔴 In queste ore così drammatiche in tanti ci avete scritto per poter dare una mano, anche per fare donazioni.

Per questo abbiamo deciso di aprire una raccolta fondi a favore delle persone e delle comunità colpite dalla drammatica alluvione. E come sempre abbiamo fatto, resoconteremo tutto fino all’ultimo euro: quanto raccolto e il suo utilizzo.

Iban:        👉🏻 IT69G0200802435000104428964
intestato a: Agenzia per la sicurezza territoriale e la protezione civile dell’Emilia Romagna

Grazie a chiunque deciderà di donare, condividiamo il più possibile.

 

IL CONCERTO SOTTO L’ALLUVIONE
Una superstar che arriva, un sindaco sordo, un governatore distratto, un parco in pericolo

IL CONCERTO SOTTO L’ALLUVIONE. Una superstar che arriva, un sindaco sordo, un governatore distratto, un parco in pericolo

Ieri, 16 maggio, un’altra giornata di passione. Piove piove piove, In tutta la Romagna è emergenza rossa. Faenza, Forlì, Ravenna sott’acqua, spiagge mangiate dal mare, fiumi esondati, gente sui tetti, 2 morti . Pochi giorni fa, la stessa scena, ed altri 2 morti in Emilia, 100 chilometri più a Ovest. Sempre Ieri,  a leggere il Resto del Carlino, in mezzo c’è un’isola felice, una terra mezza Emilia e mezza Romagna, una città chiamata Ferrara.
Naturalmente non è vero, anche qui piove con brevi interruzioni da più di una settimana, la città è nel caos ma il “grande cantiere” al Parco Urbano Bassani non si ferma. Ci lavorano giorno e notte più di mille persone: italiani e americani , a pestare l’erba verde diventata fango, a montare un palco mastodontico e pali, torri di 30 metri per dare luce, strutture al coperto per distribuire magliette, birra e panini. Passando dalla via che separa le Mura rinascimentali dall’oasi verde del parco, si vede un viavai di camion e mezzi pesanti. In mezzo, altissima troneggia una gru.

A Ferrara, l’alluvione (morti compresi) diventa un semplice maltempo. Ecco l’incipit dell’articolo osannante del Carlino. Un reperto che vi invito a stampare e conservare, un caso esemplare di giornalismo  non solo codino (quel che fa un sindaco di destra è sempre buono e giusto), ma cieco, cinico, vergognoso.

Eccolo:
” Sembra di vedere un’orchestra nel pieno dell’esecuzione di un’ouverture. Ognuno ha la sua partitura. Tutto procede armonicamente, nulla si sovrappone. Nulla è di più, nulla è di meno. L’allestimento del parco Urbano per il concerto di giovedì si presenta più o meno così.  La macchina organizzativa procede a ritmi serrati, nonostante il maltempo. Il palco sta via via prendendo forma. Un lungo braccio di una gru giganteggia sull’area. Il lavoro per la realizzazione dello show di Bruce Springsteen ha una portata mastodontica. Il maltempo? Poco male. Le pompe sono in azione e l’area in cui si terrà il concerto, ieri mattina, si presentava percorribile. Certo, il maltempo previsto nella giornata di oggi potrebbe essere di impiccio, ma i messaggi che arrivano anche dalle maestranze sono rassicuranti.
Ieri mattina ai primi raggi di sole si percepiva entusiasmo. Molti dei lavoratori hanno lavorato fino a tarda sera, l’altro giorno, per garantire lo svolgimento del tutto. “Ma la soddisfazione di vedere tutto procedere in questo modo è tantissima”, ci dice uno di loro.”

E via di questo passo e con questo tono.

Oggi, 17 maggio, c’è un cielo nero. Ha piovuto per tutta la notte, ora la pioggia si è fermata, ma si sentono i tuoni, è solo una pausa: le previsioni danno piogge intense fino alla fine del mese.

Il Resto del Carlino pubblica una complicata mappa (la chiama proprio così, “mappa”) a beneficio  dei cittadini ferraresi, che devono districarsi  in una città piena zeppa di cartelli di divieto e di transenne, zone off limits, linee di autobus soppresse, scuole semichiuse, mega parcheggi improvvisati, strade chiuse al traffico…

La Nuova Ferrara, l’altro giornale locale – nato come contro altare del Carlino e ora fotocopia dello stesso – partecipa alla grande attesa e informa i lettori che, pioggia o non pioggia, il concerto si farà.  Tranquilli: Bruce Springsteen è già atterrato in Italia (dove dorme? nessuno lo sa), ma arriverà puntuale e proprio a Ferrara inaugurerà il tour europeo.

Da anni i presidenti di regione sono stati promossi a governatori, proprio come i governatori dei 51 Stati della grande America. Governatore anche perché, eletto direttamente, ha molti poteri. Può fare tante cose.  Stefano Bonaccini, ad esempio, ha chiesto a gran voce al Governo lo stato di calamità nazionale per la “sua” Emilia Romagna.

Ma il governatore Bonaccini poteva e doveva fare altro. Prima di tutto, e ha avuto un anno di tempo per farlo, convincere (con le buone o con le cattive) un sindaco cocciuto e in cerca di gloria (il leghista Alan Fabbri, Primo cittadino di Ferrara) a desistere dalla sua idea folle. E a spostare un maxi evento super impattante, da un parco stupendo, ma con un fragile equilibrio ambientale, ad un’altra zona più periferica e meno problematica. Insomma: fare il concerto, ma farlo da un’altra parte. Spostare la location, come gli chiedevano decine di associazioni ambientaliste e culturali nella petizione online Salviamo il parco ‘Giorgio Bassani’ di Ferrara #Save the Park , che ha raccolto più di 55.000 firme.

Oggi, anzi ieri, il governatore, davanti a una Regione sconvolta dall’alluvione, con 4 morti e migliaia di sfollati, doveva proclamare 3 giorni di lutto regionale. Non si è mai visto un “lutto regionale”? Lo decida lui per la prima volta, è o non è il governatore?

Perché la musica è una cosa meravigliosa, e dal vivo è ancora meglio, ed è sacrosanto divertirsi, ma non se sei dentro ad una tragedia (mentre scrivo il bilancio è salito a 9 morti)  e hai davanti altri dieci giorni di allarme rosso. Anche per questo il concerto di Bruce Springsteen non si doveva fare. E sono convinto che anche lui avrebbe capito. E anche tanti suoi appassionati fans.

Domani, 18 maggio, il concerto si farà. Costi quello che costi. Come vuole la legge (planetaria) del business. Come ha voluto e vuole un sindaco sordo ad ogni ragione. Dopo ci saranno da contare i danni e raccogliere i cocci.

Il Comitato Save the Park, dopo essersi impegnato per mesi e fino ad oggi per “salvare il parco” dallo scempio, ha formato una commissione di osservatori che verificherà tutti i guasti subiti dal Parco Urbano. Già l’impatto delle megastrutture, milioni di decibel e di 50.000 persone ammassate faceva prevedere danni ingenti al parco e alle decine di specie di uccelli che lo abitano. Pioggia e fango aggraveranno di molto il bilancio.

Per il Sindaco Alan Fabbri e la sua Giunta doveva essere il coronamento di 4 anni di un governo all’insegna della festa: fiere, festival, spettacoli, specchietti e luci tutti i giorni. Il gran botto del Boss a Ferrara avrebbe fatto da traino alla campagna elettorale per le amministrative della primavera del 2024. Probabilmente non andrà in questa maniera: invece di Austerlitz sarà una Waterloo.

Purtroppo, finita la battaglia nel parco, non ci sarà nessun vincitore.

Per leggere su Periscopio tutti gli articoli del direttore Francesco Monini, clicca sul nome autore.

Parole a capo
Emilio Napolitano: “L’indirizzo sbagliato” e altre poesie

Un breve pensiero sulla raccolta “La ballata del verso sbagliato” di Emilio Napolitano.
Come scrive Italo Calvino: “La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”.  L’autore nel “suo bicchiere” versa la passione di uno sguardo fatto di paesaggi mai finiti di esplorare, la ricerca disperata di un’armonia, che sembra un vezzo nell’attuale emergenza, ma che è invece un’esigenza vitale per chi non vuole arrendersi e cerca bellezza e pace nelle parole di una poesia.

 

Piccoli inganni

Conoscevo un uomo
che raccontava bugie meravigliose.
Diceva che la verità non è mai una sola.
La realtà dipende dal tuo sguardo
che può trasformare tutto.
Gli piaceva camminare controvento
pensieri spettinati, passo lento
perché non si sa dove il destino
decide di darti appuntamento.
Diceva che
il sole la luna
il giorno la notte
erano biglietti da visita dell’universo
ormai sgualciti dal tempo.
Piccoli inganni
per occhi stanchi
di vedere lontano.
Amava i libri antichi
l’odore delle pagine sfogliate
la polvere posata su storie
ormai dimenticate.
Da una tasca bucata
perse il suo ultimo sorriso.
Al vento sussurrò
tutto quello che aveva imparato
gli bastò un passo di tango
per raccontare
la storia
di un amore.

 

L’indirizzo sbagliato

 

Non dirmi di avere fretta
amo le tartarughe
e le barche a vela, sospinte dal vento.
Non parlarmi dei cacciatori
perché il volo lento degli uccelli
verso l’orizzonte al tramonto
è poesia in movimento.
Non parlarmi di giustizia
in un mondo ferito a morte
da chi ha troppo e chi troppo poco.
Non parlarmi per ore
ammiro chi usa poche parole
quelle giuste.
Non giudicarmi per quello
che sarei potuto essere
per i sogni che non ho realizzato.
Non farlo
invieresti i tuoi pensieri
all’indirizzo sbagliato.

 

Dove sorride oggi il tuo sorriso

 

Dove sorride oggi il tuo sorriso
Quali strade calpesta il tuo piede
Quali mani stringe la tua mano
Quante parole hai detto a chi non voleva ascoltare
Quanti occhi hai incontrato
che hanno guardato altrove
Quali libri dovrai leggere per capire
Ma in un tempo segnato da un orologio rotto
basta anche un giorno di nebbia
per ritrovarsi
uno sguardo per parlarsi
un passo indietro per guardare avanti

 

Poesia del non senso

 

Un vecchio bambino recitava
poesie senza senso
ma solo per chi non voleva capire.
Per una giornata di sole
metteva il cappotto
Per vento e tempesta
girava in mutande
Regalava un fiore a un uomo
un cacciavite a una donna
per risistemare cuori malati
di amori lontani.
Ai bambini regalava mappe
di territori sconosciuti
per non perdersi nella vita
alle persone anziane
regalava un giorno di gioventù
ai ragazzi un giorno di vecchiaia
perché tutti capissero
come i folli già sanno
che non c’è nulla da capire
dalle montagne al più profondo del mare
ma solo vivere e amare.

 

Appartengo alla neve

Appartengo alla neve
al suo silenzio
al modo dolce in cui cade sulla terra
come una carezza.
Appartengo al sospiro dei bambini
che guardano i fiocchi
dietro un vetro della finestra
e sognano di costruire mondi di cristallo.
Appartengo al passo
che porta su una vetta
senza l’ansia di raggiungerla,
a quello sguardo
che cerca di posarsi più lontano possibile
all’orizzonte.
Appartengo a chi apre una porta
e lascia passare
perché non ha fretta,
a chi chiede scusa
guardandoti negli occhi.
Appartengo a chi lotta
anche senza speranza
perché lo ritiene giusto,
a chi si perde nelle pagine di un libro.
Appartengo a chi legge poesie
e ne regala una
alla persona amata.

(Poesie tratte da “La ballata del verso sbagliato” di Emilio Napolitano)

Emilio Napolitano ha pubblicato nel 2014, con la casa editrice Giovane Holden, il romanzo “E se poi un giorno”; nel 2017 casa editrice Eretica edizioni racconti brevi: “ Nel verso giusto”; nel 2019 casa editrice Eretica edizioni la raccolta di poesie: “ Il suono del mondo”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

CON LA “STATALE 16” LUNGO LA STATALE 16
Cercando Paesaggi partigiani e resistenti

CON LA STATALE 16 LUNGO LA STATALE 16. Cercando Paesaggi partigiani e resistenti

Una band a me molto cara, formata da amici con le mie stesse passioni culturali e musicali, si chiama come quella che mi piace definire “la mia strada”: STATALE 16, lunga quasi quanto la penisola, visto che va dal Veneto alla Puglia e ritorno, ovviamente). E vi risparmio le notazioni autobiografiche, abbastanza intuibili…

È un nome che porta con sé un desiderio, da tempo coltivato tra i componenti del gruppo: provare a organizzare e realizzare una tournée “lungo la Statale 16”, appunto. Impegni di lavoro e altri impedimenti hanno fatto sì che questo rimanesse un desiderio irrealizzato per diversi anni.

Ma, quasi inaspettatamente, ad aprile del 2023, seppure in forma minima (pochi giorni a disposizione, quindi due soli appuntamenti), il desiderio si fa realtà e lo si fa coincidere con la scelta di portare in giro un programma particolare sperimentato lo scorso anno, il 25 aprile, che si intitola Paesaggi partigiani, modificato, per scelta degli organizzatori locali, in Paesaggi resistenti nella prima delle due tappe.

Grande attesa, impegnative sedute di prove e studio, preparativi non semplici, perché non siamo né tour operator né organizzatori di tournée artistiche, ma un tassello alla volta il puzzle si completa e definisce: ci sono le due date e le due location dei concerti, le prenotazioni alberghiere, le auto necessarie per gli spostamenti; si prenota un pulmino per la batteria e gli altri strumenti e si concordano le partenze, con anche due mogli e due amiche al seguito, disposte a fare da ‘clac’!

I componenti della band sono: Claudia Belardi, voce; Antonio Catozzi, tastiera e chitarra; Marco De Giorgio, basso; Fabiano Minni, percussioni e voce; Alberto Poggi, chitarra e voce; Rocco Sorrentino, batteria; Paolo Trabucco, chitarra e narrazione.

Prima tappa: Fano, dove un incontro casuale dell’anno precedente tra Paolo, in vacanza d’aprile con la sua compagna, e Lia, vulcanica attivista di movimenti e associazioni, ha portato ad individuare la possibilità di una esibizione nel centro culturale denominato Officina Amaranta.

Il gruppetto degli “esploratori”, giunto in loco il giorno prima della esibizione, decide di cercare il luogo, un po’ per curiosità, un po’ per un eccesso di premura, che si rivelerà azzeccatissimo. Abbiamo l’indirizzo, siamo dei buoni cercatori e uno di noi attaccatissimo al navigatore satellitare, ma ci perdiamo in giri e giri che ci conducono sempre nello stesso punto.

Sappiamo che c’è, deve esserci, anche il satellite sa che c’è, questa Officina, ma ce la colloca praticamente sui binari (in questo punto impossibili da attraversare) che dividono la SS 16 (qui col nome di Viale Piceno) dal mare.

Dobbiamo assolutamente trovarla e decidiamo di provarci a piedi: parcheggiamo in uno spiazzo tra ex fabbriche e officine e carrozzerie in corrispondenza dell’ipotetico numero civico in nostro possesso, ci sguinzagliamo nelle diverse direzioni possibili e finalmente scopriamo che l’Officina Amaranta si trova sul retro di un vecchio capannone che dà sulla strada e ha i binari di fronte.

La mattina dopo ci concediamo una passeggiata sulla spiaggia (esattamente quella che nei miei spostamenti in treno lungo la linea adriatica per tornare, ahimè sempre più sporadicamente, in Puglia mi tiene attaccata al finestrino) fino alla foce del fiume Metauro e poi un giro in centro, che ci colpisce per l’eleganza e raffinatezza dei palazzi.

L’evento, spiegherà Lia l’indomani sera, introducendo il concerto, si colloca all’interno dell’iniziativa dell’ANPI “Una mattina mi son svegliato” e si svolge in questo “non luogo, in una zona industriale, spazio importante per generazioni di Fanesi nato con lo scopo di fare musica e altro all’insegna della libertà.”

Le parole chiave che Lia sottolinea nella sua presentazione sono ‘Anarchia, Resistenza, Libertà, Rete, Connessioni’, termini e concetti che l’hanno guidata nella non facile operazione di mettere insieme realtà differenti, ma tutte collegate negli intenti e negli obiettivi; annuncia poi che la serata comprenderà anche un momento di ‘apericena’ di finanziamento a favore della Mezzaluna Rossa Curda.

Ospite locale, prima del concerto della Statale 16, si esibisce Fabrizio, che compone e canta in inglese con il nome d’arte The Pilgrim e, accompagnandosi con la chitarra, esegue canzoni tratte dai suoi primi album Pocket songs voll. 1 e 2.

A conclusione della serata, mi faccio raccontare da Alessandro, il ‘padrone di casa’, la storia di Officina Amaranta: un progetto utopico collocato in questo capannone industriale con l’intento di raccogliere diverse realtà di creativi, a partire da un laboratorio artigianale dedito alla lavorazione degli scarti e ora centro culturale che fa ‘concerti a porte aperte‘ e numerose altre attività.

Seconda tappa: Bitonto, dove Antonio e sua moglie Anna hanno preso contatto col circolo ARCI Resilienza. Anche questo centro, mi raccontano gli operatori, si pone come obiettivo prioritario quello di attingere alle risorse del territorio e promuoverle, attraverso laboratori, corsi e collaborazioni significative, come quella con la Libreria del Teatro nella organizzazione e promozione di concerti, mostre, cinema.

La cittadina (detta così confidenzialmente, ma abitata da ben 60.000 persone) pugliese ci accoglie con il biancore della bella cattedrale e con i sapori e profumi dell’ottimo pane, dei taralli e dei dolcetti di pasta di mandorle; con la pittoresca processione di San Francesco da Paola e i festeggiamenti per la vittoria in campionato della squadra di calcio femminile a 5.

E veniamo al punto: i Paesaggi Partigiani e Resistenti che gli amici della Statale 16 ci hanno fatto esplorare. Il ricco programma presentato nelle due serate è costituito da diciassette brani musicali con relative introduzioni, a formare una sorta di recital musicato con un filo conduttore ben connotato, ispirato e dedicato al 25 aprile.

Vorrei ovviamente evitare di elencare i brani, perciò cerco di parlare di quelli a me più cari, ricavando, dagli appunti presi mentre Paolo li presentava, gli aspetti più salienti e qualificanti.

Il racconto della Resistenza, dice Paolo, costituisce una narrazione che si avvicina al mito e diventa geografia: i luoghi divengono tutt’uno con i personaggi e i fatti. Una sorta di rito iniziatico, per chi decideva di aderire alla lotta partigiana, era la scelta del nome, come nel verso “…e io ero Sandokan…” del brano omonimo composto nel 1974 da Armando Trovajoli ed inserito nella colonna sonora del film C’eravamo tanto amati.

“Erano alberi rami e foglie che non si volevano piegare e ogni anno il 13 aprile si parla di un temporale” comincia così il brano uscito nel 2004 per ricordare la strage nazifascista (109 vittime) del 13 aprile 1944 nel Casentino.

“…cento volte l’hanno ucciso ma tu lo puoi vedere, gira per la città Dante di Nanni…” cantano nel 1975 gli Stormy Six, raccontando del giovane partigiano inseguito e poi assediato dai fascisti, perché protagonista di numerose azioni di combattimento e sabotaggio e ucciso dopo una strenua resistenza, da solo in un appartamento in Borgo San Paolo a Torino, in cui si era rifugiato.

Nel 1999 Lalli (Marinella Ollino), esponente della musica alternativa, dedica a suo padre ex partigiano Brigata partigiana Alphaville “…canta la mia canzone preferita, ti prego cantala…”

Paolo usa il riferimento a questa dedica e a padri e figli e fratelli per introdurre il brano seguente, Sette fratelli, notissima canzone composta nel 2004 dai Mercanti di liquore e Marco Paolini su testo di Gianni Rodari… Gelindo Antenore Aldo Ferdinando Agostino Ovidio Ettore, tutti nati tra il 1901 e il 1921 a Campegine (Reggio Emilia), fucilati il 23 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia “…. vecchio tenero padre / olmo dai sette rami / nella vuota prigione / per nome ancora lì chiami”.

Il cuore mi batte più forte quando la band esegue Oltre il ponte, scritta nel 1941 da Italo Calvino e musicata da Sergio Liberovici “Avevano vent’anni oltre il ponte / oltre il ponte ch’è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore.”

Una storia che mi riempie di angoscia è quella di Cinzio Belletti, giovane ferroviere che, secondo la versione più nota, rientrando dal lavoro all’alba del 15 novembre 1943 (la Notte del ‘43 del racconto di Giorgio Bassani reso noto al grande pubblico con la versione cinematografica di Florestano Vancini), passò casualmente nei pressi del Castello di Ferrara, mentre era in corso la strage. Venne inseguito per non essersi fermato all’alt e assassinato in via Boldini. Paolo gli ha dedicato una canzone Cinzio 1943 “È una notte nera…quando torni cambia via…me l’avevano detto: Cinzio, mettiti al riparo…”

E per concludere, augurandomi che per molti altri 25 Aprile ancora la band Statale 16 ci dia l’opportunità di ascoltare questo significativo ed entusiasmante programma, metto in fila gli altri titoli: Lungo la strada Da Ursi Grãndola vila morena El ejercito del Ebro Ma mi Se non ci ammazza i crucchi Su in collina Dal fronte non è più tornato Cesare La ballata dell’ex.

Tutte le foto, comprese quella di copertina, sono di Maria Calabrese.

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul suo nome.

RIDISEGNARE VOLANO. COSTRUIRE SCENARI, PROPORRE AZIONI.
Seminario promosso dal Dipartimento di Architettura Unife, lunedì 22 maggio 2023

RIDISEGNARE VOLANO. COSTRUIRE SCENARI, PROPORRE AZIONI

Hotel Rurale Cannevié, Strada per Volano 45 , Codigoro (FE)
Lunedì 22 maggio, dalle 9,30 alle  13,00

Primo Seminario  sul lavoro di ricerca del Dipartimento di Architettura di Unife
sulla salvaguardia del tratto di costa del Lido di Volano

 

Introduzione di Romeo Farinella 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo seminario costituisce il primo momento ufficiale di presentazione del DISSLab_Delta and Coastal International Sustainable Strategies, un raggruppamento di ricerca avviato dal Dipartimento di Architettura, che coinvolge più competenze e settori scientifici dei vari Dipartimenti di UNIFE che lavorano insieme sui temi posti dai territori costieri e fluviali.

L’approccio è pertanto intedisciplinare, e in questo primo seminario incontreremo il “territorio” per verificare insieme alcune linee di lavoro che stiamo sperimentando a Volano, un tratto di costa che presenta alti valori ambientali e paesaggistici, particolarmente colpito dalle recenti mareggiate.

Un ringraziamento particolare alla Associazione “Volano Borgo Antico” con la quale l’evento è organizzato.

Massimo Pedullà: un elettricista poeta nella difficile terra della Locride

Massimo Pedullà: un elettricista poeta nella difficile terra della Locride

“Frammenti e riflessi” è il titolo della pubblicazione che racchiude 68 componimenti, che sono eco di chissà quante e quali letture cercate e conquistate per dare forma, nella lingua che non ha potuto imparare a scuola, a un mondo di sensibilità, sentimenti e talento, che ha sentito di non poter tenere inespresso.

Dalle letture allo scrivere, per Massimo Pedullà, è come quel “grido in cerca di una bocca” che canta Giorgio Gaber nella canzone Il grido.

Prima ancora di scomodare il registro poetico ed estetico è il caso di soffermarsi su quello civile, per l’uso cercato, voluto e sudato della parola come via di “crescita e formazione”, come scrive Antonella Dieni, specie in una terra – la Locride – che troppo spesso fa parlare di sé.

È di questi giorni la notizia dell’operazione Eureka, la “più grande operazione mai realizzata contro la mafia calabrese in Europa”, ha scritto l’Ansa lo scorso 3 maggio.

Persone come Massimo Pedullà sono la testimonianza che è ancora possibile schierarsi dalla parte della parola, codice impotente e indifeso eppure capace, se diventa fiumara, di travolgere le radici della barbarie.
La sua poetica è come il canto di dolore di un uomo e la sua terra è metafora privilegiata e ricorrente per dare voce a un groviglio di ricordi, di sentimenti, di perché senza risposta.

È parola di una Calabria storia di miseria e fatiche, terra selvaggia e aspra, luogo di abbandoni, strappi e vuoti di tanti che, purtroppo, sono costretti ad andarsene. Borghi e contrade che si spopolano e anche scempio di “case e strade prima di pietre e poi in cemento e di nero bitume”, come scrive nella poesia Profumi e riflessioni.

Considerazione

La nostra è una costa illusoria,
avvinta da quell’aspro
che tanta magnificenza offusca;
un agrodolce che ti confonde,
sino ad oscurarti
i confini del giusto.
Soffro del tardo capir mio,
di tanto allontanamento;
non fu torpore,
bensì adattamento,
a quel qualcosa
che boccheggia nell’aria.

Dal suo scrivere affiorano i tratti di un’esistenza segnata dalla salita. Nel suo incessante domandarsi si chiede “Il perché di un padre alcolista” (Il perché delle cose), tema che ricorre nello “spettro dell’alcol e dalla miseria dell’uomo perso” (Julien a ferragosto), in relazione alla casa e al ricordo della madre: “In quel catoio (…) il volto di mia madre (…) che dentro alle tue mura tanto patisti, urla nel vuoto urlasti (…). Un’amara crescenza, la mia, in quell’umile casa (…) a quei tramonti sbiaditi e per te privi di colori e tutti uguali” (A mia Madre).

Ma la forza poetica di Massimo Pedullà ha la capacità di dilatare la sofferenza intima di un uomo in quella, quasi leopardiana, come scrive la Dieni, dell’uomo.

Un esempio è il suo ascolto delle cicale (La massa e il canto delle cicale): “In cerca dell’identità mia che non trovo; (…) forse è nel canto delle cicale (…) in quel pensare ciò che a loro ci accomuna. La fermezza in un punto, la precarietà e il cicalare”.
La precarietà, oltre alla sofferenza, accompagna questo viaggio interiore sulla condizione umana in un altro suo meditare sul paesaggio (Fragile forza).

Fragile forza

La radice del fico spacca
l’anima alla roccia viva;
basta la fragilità
della foglia dell’edera
per farlo appassire.

E poi l’immagine sontuosa delle querce in La quercia nel vento, sentinelle verdi che punteggiano il paesaggio calabro con esiti che sembrano sculture: “Guardiola d’infinita bellezza (…) tra aspre montagne e mare. Di forza radicata e ferma; come a voler fermare venti e tempeste”.

La quercia del vento

Quercia che sei e fosti
e di grandezza espandi,
su quell’altura, dove l’inverno
batte i tuoi rami svestiti,
e l’estate adombra
la tua stessa curva,
che sentiero è per la montagna.
Guardiola d’infinita bellezza,
quella sommità in cui t’affacci,
e punta Stilo e lo Zeffirio vedi;
colori nuovi bisognerebbe inventarsi,
talmente essi si fondono l’un con gli altri,
col mutar delle stagioni
e delle ore.
E ti par di volare,
tra quelle magnitudini celesti,
che in un attimo ammiri,
tra aspre montagne e mare.
Di forza radicata e ferma;
come a voler fermare venti
e tempeste.
Ti curvi, ti spogli, ma poi ti rivesti,
sotto quel sole che vedi spuntare;
ora pallido per poi infuocarsi,
per poi riposare.

Un paesaggio di cui Pedullà arriva a cogliere l’intima ambivalenza, tra mare e terra, in una tensione irrisolta tutta esistenziale: “La nostra è una costa illusoria, avvinta da quell’aspro che tanta magnificenza offusca; un agrodolce che ti confonde, sino ad oscurarti i confini del giusto”.

Forse c’entra la psicoanalisi, ma il fatto che Pedullà di mestiere faccia l’elettricista può essere non casuale, nel suo inesausto tentativo di portare la luce dove si stendono tante ombre, dentro e fuori, in quell’angolo della Locride che è Sant’Agata del Bianco.

Per questo, credo, meritino un rispettoso e grato inchino persone come Massimo Pedullà, come lo merita il giovane sindaco del Comune, Domenico Stranieri, laureato in filosofia e vicino alla seconda laurea in filologia su Saverio Strati, altro scrittore nato a Sant’Agata (1924-2014). Anche Stranieri, dal 2016 (anno della sua elezione), ce la sta mettendo tutta per portare un po’ di luce.

E lo meritano persone come Silvana Scarfone, figlia di un muratore di Sant’Agata che scriveva poesie e maestra per vent’anni nella scuola elementare di San Luca, cuore della Locride. Una scelta di vita per portare anche lei la luce dell’istruzione, dell’educazione e del bello, in una scuola intitolata allo scrittore Corrado Alvaro (1891-1956), che in Quasi una vita scrisse:

Dai greci i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”.

Massimo Pedullà
Classe 1962, vive da sempre a Sant’Agata del Bianco, un borgo della Locride in provincia di Reggio Calabria di circa 500 anime che fa Comune.
Di mestiere fa l’elettricista ed è l’autore di una raccolta di poesie presentata da Antonella Dieni, pubblicata nel 2020 da De Paoli edizioni d’arte (Fiesole).

Per leggere gli articoli di Francesco Lavezzi su Periscopio [vedi qui]

Life coach: psicologo professionista o guru-imprenditore?

Life coach: psciologo professionista o guru-imprenditore?

Viviamo un’epoca in cui emergono sempre più spesso figure di riferimento discutibili, che si impongono come risolutori della sofferenza umana, dei fallimenti, delle incertezze, dei dubbi, dei tentennamenti e disorientamenti che inevitabilmente possono raggiungere ciascuno di noi in momenti particolari della nostra vita, inaspettati, a volte persistenti, impattanti e scoraggianti.

Accanto a professionisti seri e preparati dopo lunghi anni di studio approfondito sulla mente umana, le relazioni interpersonali, la conoscenza del sè, troviamo i “venditori di felicità”: appaiono su TikTok, assumendo mille smorfie e manfrine, sorrisini che dovrebbero essere accattivanti, allusivi, invitanti, su uno sfondo di pseudo studi sulle cui pareti campeggiano attestati e qualifiche acquisite da qualche parte.

Usano espressioni verbali studiate a tavolino, parola per parola, che suonano immediatamente di poco spontaneo, roboanti emissioni di promesse improbabili. Impazzano nel web catapultandoci addosso la loro smania di protagonismo, la loro presenza stereotipata costruita ad hoc, che dovrebbe ricordarci “quanto poco valiamo” senza di loro.

Uno stuolo di guru-imprenditori di se stessi si propongono per assaltare il colossale business del disagio, la sofferenza, il dolore, il bisogno di cambiamento, la ricerca di risposte per affrontare il futuro, l’elaborazione del passato, la perdita, il vuoto interiore. Perché tutto ciò può trasformarsi in fatturato, se di fatture regolari si può parlare

Aiutare gli altri non è più una propensione, ma diventa un mestiere retribuito – troppo spesso improvvisato o affrontato dopo una manciata di ore in “corsi di preparazione” – con introiti non da poco, e questo fa gola.

Una jungla di life-coach, tra cui gente seria e attendibile, ma anche personaggi senza scrupoli o ignoranti, che mancano effettivamente di cultura di base e conoscenze solide in campo umanistico e scientifico, con la presunzione di poter dare una svolta alle vite degli altri (o della propria!?!).

Alcuni si scagliano contro gli psicologi, quasi fosse un incontro paritario tra gladiatori, in cui il coach dovrebbe avere la meglio per meriti e competenze indefiniti, quando sarebbe assolutamente necessario riconoscere nello psicologo una figura professionale completa e competente negli ambiti patologici ed esistenziali, può aiutare a crescere, cambiare, raggiungere obiettivi.

Perché un mental coach dovrebbe saperne di più elargendo felicità e successo? Il nome coaching trae origine da Kochs, un villaggio ungherese a una decina di chilometri da Budapest, rinomato per la produzione di carrozze. L’accostamento semantico tra “carrozza” e quello veicolato dalla parola “coach” è evidente.

Le origini del coaching risalgono alla fine degli Anni Settanta, da un’intuizione del maestro di tennis Timothy Gallwey. L’istruttore voleva dimostrare come i giocatori di tennis riuscissero ad autocorreggersi e dare il meglio di sé quando, ai consigli, inviti, suggerimenti esterni, si sostituivano domande aperte con un approccio più rilassante legato al vissuto, orientato sul “fare”, sospendere il giudizio e formulare obiettivi concreti e formati.

Negli Anni Ottanta il coaching si divulgò in Europa e da allora è diventato pratica diffusa, a proposito e a sproposito. Oggi il rischio di affidare le nostre risorse interiori a venditori di fuffa è reale e la cronaca se ne occupa frequentemente segnalando casi.

Il rischio maggiore è quello però di assuefarci alle promesse di aiuto facile da parte di affabulatori, spesso individui la cui pochezza è palpabile, che promettono la “felicità in 120 ore”, l’elisir che risolverebbe i nostri fardelli, dimenticandoci o rinunciando ad indagare in noi stessi per trovare le risorse necessarie a rialzarci e trovare la barra delle nostre esistenze.

La credulità densa di superstizione medievale è superata oggi dall’informazione, dai dati accessibili a tutti, la possibilità di ricercare e verificare per trovare conferme o smentite senza farci abbindolare. Perché di guru prodigiosi, grandi esperti della mente e dell’anima, tronfi di un’autostima che non trova riscontro nei fatti, finti profeti che vantano un link privilegiato con forze soprannaturali se non con Dio, elevandosi a emissari diretti del Cielo, ne facciamo a meno.

Per leggere gli articoli di Liliana Cerqueni su Periscopio [vedi qui]

Parole oltre lo sguardo: scrivere l’immagine e immaginare la scrittura.
La mostra fino a venerdì 19 maggio al Circolo Bolognesi di Ferrara.
Poi comincerà il suo viaggio nelle biblioteche e nelle scuole dell’Emilia Romagna

La mostra  “Parole oltre lo sguardo”  ideata e organizzata dall’Associazione Culturale Ultimo Rosso e dal gruppo fotografico Norsisti – è stata inaugurata con grande successo il 12 maggio al Circolo Arci Bolognesi di Ferrara. Ha voluto sondare relazioni, effetti e conseguenze del connubio tra due arti: la Poesia e la Fotografia, che abitano il mondo infinito  e tutte le possibili atmosfere dell’umano.

Il dialogo tra parola poetica e immagine fotografica si è rivelato un incontro emozionante. Lo si è visto  proprio nella serata inaugurale, dove i poeti e i fotografi protagonisti dell’evento, e con loro i numerosi spettatori/ascoltatori intervenuti, hanno dato vita ad un gioioso reading, commentando le opere esposte.

Ovviamente. non solo le poesie possono essere lette, ma anche le fotografie, le immagini. Foto e testi poetici ci inviano sensazioni, rimandi nella memoria personale che possono favorire un viaggio oltre la superficie delle cose. Le immagini anticipano storie. La scrittura poetica raccoglie il testimone e ne amplifica le vie espressive d’uscita. E’ una strada a due sensi, da percorrere avanti e indietro, facendo ogni volta nuove scoperte.

La scrittura poetica e l’immagine fotografica propongono ipotesi per “sceneggiature” che probabilmente resteranno “in nuce”. Da sempre la poesia ha amplificato uno strumento espressivo per mettere a fuoco la realtà, o quello che a noi sembra tale, all’interno e all’esterno di noi. Leopardi teorizzava l’esistenza di una “doppia vista”, come di una facoltà della pupilla e parallelamente dell’anima di conoscere meglio e in profondità, ciò che ci circonda. Da tempo le neuroscienze ci dicono con certezza scientifica che per costruire la nostra visione del mondo  (meglio sarebbe parlare di elementi di visioni, tasselli non sempre conciliabili tra loro) ci “serviamo” delle tantissime immagini che abbiamo accumulato nel tempo.

Viviamo  immersi nella Società dell’immagine: onnipresente, ossessiva, dominante: un simulacro che sembra sostituire la realtà stessa. La fotografia, l’immagine come arte ci chiede invece una pausa, un tempo che ci rimanda ad altro, alla memoria dentro e fuori noi stessi,  al sogno, al nostro desiderio più segreto.  Esattamente come avviene in poesia, che non descrive, ma crea scenari, mondi, una lingua causale e non casuale.

L’occhio esteriore del fotografo,  come l’occhio segreto del poeta, hanno la capacità di leggere dentro le oscurità, dentro i colori, le forme, le ipotesi di un’azione, o nel movimento, così come nel tempo, per tradurre poi ogni entità in un mondo di immagini e parole.
Scrivere l’immagine e immaginare la scrittura sono, quindi, i due poli che questa mostra  restituisce allo spettatore, chiamandolo a partecipare a questo caleidoscopio della mente.

 

Dal prossimo mese di giugno la mostra Parole oltre lo sguardo  comincerà il suo viaggio presso Sale Pubbliche, Biblioteche, Scuole e Centri Culturali dell’Emilia Romagna e fuori Regione. Per prenotare la mostra, contattare l’Associazione Ultimo Rosso: email lultimorosso.ferrara@gmail.comTel. 347 9000845 

 

Di seguito, gli scatti del servizio fotografico realizzato da Valerio Pazzi il 12 maggio 2023 durante la serata inaugurale della mostra.

In Copertina:  la poeta bolognese Rita Bonetti racconta una sua poesia e la foto associata alla stessa (foto di Valerio Pazzi)

Parole e figure /
Evoluzione: non una storia qualsiasi

L’evoluzione, questa storia meravigliosa di una grande e unica famiglia. Curiosità e coraggio. Darwin sia!

Viaggiare, scoprire, osservare, toccare, assaggiare, narrare, il bello della vita.

Per e con queste direzioni, ecco a voi un libro per persone curiose, quello del filosofo della scienza Santiago Ginnobili, In continua evoluzione, illustrazioni di Guido Ferro, di Kalandraka edizioni, un’ennesima scoperta di questa interessate casa editrice.

Per essere noi stessi provetti ricercatori, nella vita e della vita. E per la vita.

Un libro, per tutti, che racconta la storia della vita sulla terra, questo dono meraviglioso che necessita e chiede rispetto, e che spiega le coraggiose ricerche e il lascito del naturalista Charles Darwin, che ci hanno aiutato a capire meglio chi siamo e da dove veniamo. Considerando, sempre, la bellezza, la complessità e la diversità del mondo che abitiamo.

I curiosi si fanno domande che pochi o nessuno ha mai fatto prima, per definizione, e noi lo siamo, con l’autore. Bisogna scavare, arrampicarsi, mettersi al lavoro. Quante dita hanno gli animali che abbiamo in casa? Perché noi ne abbiamo cinque in una mano? Perché non possiamo volare o respirare sott’acqua?  Perché i membri della stessa famiglia si somigliano? Qui le risposte, o almeno quelle che abbiamo finora, non definitive (perché tutto scorre e cambia), ma quelle più belle e interessanti.

Allora, c’era una volta un ragazzo come noi, Charles, che aveva uno sguardo simile al nostro, quello di un furetto veloce, curioso e intelligente, mai soddisfatto. Passava giornate intere a osservare animali e piante, e, desideroso di viaggiare e conoscere, s’imbarcò su una nave, la HMS Beagle, per una spedizione intorno al mondo che aveva lo scopo di migliorare le mappe dell’epoca. Per cinque anni viaggiò ed ebbe modo di imparare molte cose e di convincersi dell’evoluzione degli esseri viventi. I suoi esperimenti continuarono al rientro a casa. La sua insaziabile voglia di conoscenza non si placava. Sempre indagava, si faceva domande, si interrogava.

Per esplorare le idee di quest’uomo eccezionale, immagineremo, di essere in un parco, dove, seduti comodamente all’ombra di statue, lampioni ed alberi secolari, vedremo piante, pietre, animali vestiti… Similitudini e differenze. Un viaggio unico con parole e disegni incantevoli. E il suo fil rouge.

Questo bel libro mette in risalto il legame indissolubile tra tutti gli organismi viventi del pianeta, rappresentato nell’immenso albero della vita. Un albero al quale scienziati e scienziate hanno aggiunto un ramo dopo l’altro, da allora.

Alla fine, noi esseri umani siamo soltanto un altro ramo di questa grande famiglia che continua a crescere e a evolversi. Famiglia. Questa grande invenzione, questa immensa parola e vocazione. Perché la conoscenza si costruisce collettivamente.

“Chissà se Darwin, nella piccola serra di casa sua, circondato da piante carnivore e orchidee, immaginava che le sue idee avrebbero cambiato il mondo, che avrebbero cambiato il nostro modo di pensare agli altri animali e al nostro posto nella natura… Sarebbe bello raccontarglielo, ma è impossibile. Non possiamo parlare con i nostri antenati, solo leggerli e immaginare come si sentivano. E prendere esempio da loro modo di pensare, con coraggio e originalità”.

Santiago Ginnobili (autore), Guido Ferro (illustrazioni), In continua evoluzione, Kalandraka, 2023.

Se parlate spagnolo…

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

ACCORDI
Trent’anni di Wild Wood, l’album più raffinato di Paul Weller

A volte basta una chitarra e un buon giro di accordi per fare centro. Se poi ti chiami Paul Weller e ci infili pure un andamento cadenzato e quasi ipnotico, il risultato non può che essere un instant classic del pop d’autore britannico.

I 3 minuti e 27 secondi di Wild Wood (1993) hanno ispirato un sacco di connazionali dello stesso Weller (Stereophonics, Oasis e Richard Ashcroft su tutti), dando maggiore respiro alle sonorità perlopiù elettriche dell’allora neonato Britpop. D’altronde, è difficile non subire il fascino di una ballata folk che sembra uscita da Harvest di Neil Young.

Il cantato è a tratti languido e mellifluo, a tratti rauco e dirompente, ed esprime senza troppi giri di parole una riflessione da vecchio saggio che potremmo riassumere così: “prendi una direzione chiara e decisa nella vita, sii deciso, fidati delle tue capacità, continua a provarci e vedrai che troverai un modo per uscire da questa giungla”.

L’album omonimo è uno dei più eleganti e raffinati dell’immenso catalogo di Paul Weller, che all’inizio degli anni ’90 intraprese una carriera solista a metà strada tra il punk-rock degli esordi e il soul-pop degli Style Council. Dentro Wild Wood ci sono almeno altri due brani acustici di rara bellezza (All The Pictures On The Wall e Foot Of The Mountain) che alimentano quell’atmosfera rilassata e ammaliante introdotta dalla suddetta title track. Un’atmosfera che ha lo stesso effetto di una carezza o di un bacio gentile in un pomeriggio soleggiato al parco.

Perché sì, in fin dei conti Wild Wood è un disco dal sapore bucolico: dalla copertina al video, passando per gli arrangiamenti. Sedici tracce che sono in controtendenza con tutto ciò che stava accadendo, o stava per accadere, nell’industria musicale del 1993.

Piove in montagna … alluvione in pianura.
L’Appennino è un territorio fragile e gli impianti eolici industriali moltiplicano il rischio

Dopo mesi di Allarme Siccità, l’’alluvione dei primi di maggio in Emilia Romagna, a seguito delle ingenti piogge concentrate in poche ore, che hanno causato l’esondazione di fiumi come il Montone, il Lamone, il Santerno e il Senio, dovrebbe far riflettere tutti,  e in particolar modo le amministrazioni regionali dell’Emilia Romagna e della Toscana, sulla fragilità del territorio dell’Appennino tosco-emiliano-romagnolo.

Insieme all’alluvione si sono verificate tutta una serie di frane che hanno causato disagi enormi e anche terribili tragedie. Sono morte delle persone e in centinaia sono dovuti sfollare dalle proprie case inagibili. Tra il 2 e il 3 maggio è caduta la stessa quantità di pioggia che normalmente cade in 3 mesi: da 150 a- 200 mm a seconda delle zone.

Uno dei fattori principali che influenza negativamente la corsa della pioggia dalla montagna verso la pianura accelerandola, è la diminuzione della capacità d’infiltrazione dell’acqua nel terreno che a sua volta è favorita invece dalla presenza della copertura vegetale, che trattiene l’acqua delle precipitazioni con la sua parte aerea, e con le radici ne facilita la penetrazione nel terreno. In particolare, nelle aree appenniniche soggette a frane e smottamenti, la copertura vegetale rappresenta una difesa importantissima e imprescindibile per la salvaguardia del territorio.

L’aumento del consumo di suolo che lo rende impermeabile all’acqua e la riduzione delle superfici boscate per lasciare posto a siti turistico-commerciali e/o industriali, come gli impianti eolici, cementificati e impermeabilizzati, rappresenta un grande pericolo per la stabilità dei territori sia quelli montani che quelli delle pianure confinanti.

Come ci insegnano i geologi e gli idraulici l’onda di piena di un bacino idrografico antropizzato è grande tre volte quella di un bacino naturale, e quella di un bacino impermeabilizzato addirittura sette volte. Questi dati dovrebbero far riflettere sull’opportunità di realizzare grandi opere di cementificazione nelle aree di montagna e di collina, di effettuare abbattimenti indiscriminati di aree boscate senza pensare a quelle che sono le conseguenze negative per tutto il territorio circostante e anche più lontano, ma che così lontano non è.

Tra le osservazioni che sono state inviate nei primi giorni di gennaio del 2022 da Italia Nostra sul Provvedimento autorizzatorio della Regione Toscana in relazione all’iter di approvazione dell’impianto industriale eolico sul monte Giogo di Villore, voglio ricordare quelle che riportavano le valutazioni dal punto di vista idrogeologico dei rischi ambientali per il territorio che derivano dall’impermeabilizzazione di ettari di suolo sia nella fase di realizzazione (impatto dei cantieri) sia durante il normale funzionamento delle pale eoliche, che funzioneranno da ostacolo per il movimento delle nubi che transitano sul crinale aumentando la concentrazione della pioggia nelle cosidette ‘bombe d’acqua’. 

L’interessante studio riporta come il solo basamento di un torre eolica, può portare in 15 minuti può portare ad un aumento di  6 metri cubi di acqua raccolta e non infiltrata e che si riverserà a valle lungo il pendio. Ancora un estratto dallo stesso studio: A seguito della costruzione dell’impianto eolico è stimato un incremento di 456 metri cubi delle portate totali che si riverseranno nei fossi dai crinali di Giogo di Villore in solo 15 minuti che, tradotto in peso, equivale a 456 tonnellate di acqua che verranno scaricate in soli 15 minuti e che si muoveranno con una velocità crescente, da una altezza sul livello medio mare di oltre 1.000 metri e quindi carica di una considerevole energia distruttiva esponendo così a rischio alluvioni tutte le zone a valle.”

Lo studio scientifico commissionato da Italia Nostra enumera con precisione i rischi di dissesto idrogeologico che correrà il territorio a causa della realizzazione  dell’impianto eolico industriale di Giogo di Villore: ,  cosi come vengono elencati dallo studio commissionato da Italia Nostra: 

Alterazione del sistema di smaltimento delle acque;

Aumento dell’erosione;

Aumento dell’esposizione a rischio inondazioni, frane e smottamenti dei territori a valle;

Aumento di rischio di dissesto idrogeologico;

Aumento delle portate idriche da smaltire, per ogni singolo impluvio del crinale del Giogo di Villore.

Per non parlare dei possibili inquinamenti delle acque piovane ad opera degli idrocarburi e degli olii minerali e di tutti le sostanze inquinanti che vengono usate nei cantieri per gli scavi  e che si disperderanno facilmente e velocemente ad opera delle acque meteoriche fino a valle.

Per questi motivi è sorto nel Mugello un movimento di cittadini e montanari che si sta battendo da tempo contro questo pericoloso progetto e per la tutela del patrimonio naturale e ambientale del nostro appennino. Il  Comitato per la Tutela del Crinale Mugellano  sta organizzando nuovi eventi per dire NO all’eolico industriale sul giogo di Villore e Corella!.  

Per contatti:
Comitato per la Tutela del Crinale Mugellano:  libericrinali@gmail.com 

“Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli
: un romanzo per scoprire e affrontare la fragilità che è in ognuno di noi.

Incipit

Una mano sulla spalla, mi scrolla sempre più violentemente.
«Mencarelli, ’nnamo ’n po’.»
È l’infermiere, sta tentando di svegliarmi.
«Daje, so’ le undici passate, tra ’n quarto d’ora te deve vede’ er medico.» Mi prende per le spalle e mi tira su.
«Buongiorno principino, te sei fatto ’na bella dormita. E te credo, co’ quello che t’hanno sparato ’n vena, ce la fai a dimme come te chiami? Provece ’n po’?»
Ho la bocca secca. La testa rimbomba.
«Daniele. Daniele Mencarelli.»
L’infermiere si cimenta in una specie di sorriso. Avrà una cinquantina d’anni, forse qualcosa in più, il viso segnato profondamente dall’acne degli anni che furono.
«E bravo Daniele. Io so’ Pino invece, e Pino ama mette subbito le cose in chiaro: se tu stai bòno io so’ bòno, se tu fai er matto cattivo io divento più cattivo de te, chiaro? E credeme, i sani sanno esse più cattivi dei matti, capito?»
La faccia di Pino si è indurita, mi sforzo di rispondere, malgrado l’intorpidimento generale:
«Ho capito.»
«Altra cosa fondamentale, è vietato anda’ in giro, tu puoi sta’ qui o nella saletta della televisione che sta affianco. Mai e poi mai anda’ nelle stanze che stanno dopo la saletta della televisione. Lì dentro non so’ come voi, ce stanno quelli cattivi, chiaro?»
«Chiaro.»

“Tutto chiede salvezza“, da cui è stata tratta la serie TV su Netflix, è il romanzo di sapore autobiografico, vincitore del Premio Strega Giovani nel 2020, di Daniele Mencarelli. Di Mancarelli poeta, forse dove riesce ad esprimersi fino in fondo, ha già parlato su questo quotidiano Andrea Zerbini, riportando una sua bella poesiaIl romanzo è centrato sul racconto dell’esperienza di una settimana di ricovero in ospedale per il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) e dell’incontro con cinque compagni naviganti nella tempesta, ognuno con la sua particolarità.

E’ una lettura che  non può lasciare indifferenti. Mi viene da dire: indispensabile. Commovente. Una prosa parente stretta della poesia.  Mencarelli ci fa vedere un’umanità vera, quella che vive in ognuno di noi, la fragilità che ci accomuna. La forza di quella fragilità quando è condivisa.  La forza che ogni fragilità rivela quando è accolta.
È un indispensabile generoso dono, questo romanzo, per conoscere una realtà che solo apparentemente non ci appartiene. Una realtà che teniamo solitamente ben distante da noi perché ci inquieta.

Difficilmente tolleriamo il pensiero della nostra fragilità, soprattutto di quella che sembra sottrarci al contatto con la realtà, che sembra toglierci il controllo. Scopriamo allora quanto sia doloroso vivere quella percezione esaltata e sottile delle proprie emozioni rimanendone in balia. E scopriamo quanto la stessa sensibilità sia condivisa dal protagonista con i suoi fratelli nella tempesta, con cui la verità si manifesta direttamente dall’anima, profondamente, senza barriere, come attraverso la pelle.

Non sappiamo nulla della malattia mentale e di come incide sulla vita delle persone, fino a quando non ci incappiamo improvvisamente e tutto sembra crollare. Mencarelli ci dona il suo sguardo empatico e profondo sulle persone che incontra nella sua esperienza di TSO, e le rivela come particolarmente sensibili dalla malattia, oppure ammalate a causa di questa sensibilità. Non sono persone carenti, da ‘aggiustare’, anzi, la loro umanità, consapevolezza, saggezza, bontà, altruismo, ne risultano arricchite da questa terribile esperienza.

Tutto chiede salvezza: i malati e i sani, forse più i sani che i malati. Abbiamo paura della follia, ma ci chiediamo veramente cosa sia?
Mi sono convinta che follia abbia un significato diverso da quello di far qualcosa che non vogliamo o di cui ci vergogneremmo. Follia – la vera follia – vuol dire fare consapevolmente e con coerenza illogica, con motivi contrari alla ragionevolezza, quello che ci disconnette dagli altri. Qualcosa come la guerra o la sopraffazione, qualcosa come contrapporsi, dividersi, alienarsi dalla comune umanità.

Scrive Daniele Mencarelli:Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.”

“La mia malattia si chiama salvezza, tutto chiede salvezza”, dice il protagonista, guidato da  una nostalgia di assoluto, di purezza, incompatibile con la quotidianità del nostro vivere.  Non c’è salvezza qui, ma nemmeno la cerchiamo. Non la trova però neanche colui che la cerca perché è la sua malattia. Non c’è nel mondo reale, non c’è nella razionalità, ma c’è nel mondo della condivisione umana più profonda. al di là del ruolo o del prestigio,  quando cadono tutte le difese, come nella estrema fragilità in cui si ritrovano quei cinque eroi accomunati dalla rivelazione che la malattia mentale concede.

Daniele Mencarelli,  Tutto chiede Salvezza, Milano, Mondadori, Anche in formato Kindle 

LA BIODIVERSITA’ MINACCIATA:
in pericolo il 25% delle specie animali e vegetali.
Il Rapporto IPBES fornisce dati e strumenti per evitare la Sesta Estinzione di Massa

Il 25% delle specie animali e vegetali potrebbero sparire in brevissimo tempo. Davanti alla concreta prospettiva della Sesta Estinzione di Massa della storia del pianeta Terra, il rapporto IPBES  fornisce dati, strumenti e indica ai Governi la strada della tutela della biodiversità e della rigenerazione delle risorse naturali.

22 maggio: Giornata mondiale della biodiversità

Le Nazioni Unite, per ricordare l’adozione del testo della Convenzione per la Diversità Biologica (22 maggio 1992), hanno proclamato come Giornata Internazionale per la Biodiversità quella del 22 maggio di ogni anno. Ciò allo scopo di aumentare la comprensione e la consapevolezza dei problemi legati alla biodiversità e di evidenziare l’importanza per tutte le persone del pianeta delle azioni che tutti noi possiamo e dobbiamo fare, ogni giorno dell’anno, per conservare, ripristinare e condividere equamente la natura e la miriade di benefici che fornisce agli esseri umani.
(Dal sito ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale)

 Cosa può fare la finanza etica

La finanza etica può fornire un importante contributo e offrire al tempo stesso risposte sostenibili in termini di crescita economica, salute e benessere. Gli investimenti ESG– attivi nei settori della finanza che mettono al primo posto l’ambiente (Environment), la società (Society) e il governo d’impresa (Governance) – sono l’applicazione del concetto di sostenibilità al mondo del business.

La finanza etica mette le persone e l’ambiente al centro della sua attività creditizia e di investimento, spostando in questo modo gli abituali metodi di valutazione economica (rapporto rischio-rendimento) anche e soprattutto sul piano etico e della sostenibilità.

Tra gli strumenti finanziari a disposizione della finanza etica ci sono i Green bond, noti anche come “obbligazioni verdi”. Sono nati nel 2007 e investono ad ampio spettro in progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente: produzione di energia da fonti pulite e rinnovabili, uso sostenibile dei terreni, realizzazione di edifici eco-compatibili, trasporti a impatto zero, tutela dell’ambiente e della biodiversità, economia circolare, trattamento e riciclo dei rifiuti.
Secondo i numeri del Report d’Impatto di Etica Sgr hanno consentito di risparmiare 8.509 tonnellate di CO2: una quantità equivalente a quella emessa dal consumo di elettricità di oltre 1500 abitazioni in un anno.(leggi qui)

Il rapporto IPBES : la minaccia che incombe sulla biodiversità

Il 21 Aprile scorso, a Roma, è stato reso noto l’ultimo rapporto [1] IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), la Piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, massima autorità in tema di biodiversità, istituita dalle Nazioni Unite nel 2012. Il rapporto afferma che dall’inizio del XVI secolo in poi, almeno il 9% di tutte le specie di mammiferi allevati per l’alimentazione o l’agricoltura sono state portate all’estinzione e almeno 1000 sono minacciate: la natura sta diminuendo a livello globale a tassi senza precedenti nella storia, e il tasso di estinzione delle specie sta accelerando.

Nel comunicato stampa di IsprAmbiente, che presenta il rapporto, si legge che “la biodiversità, e i contributi della natura alle persone sono il nostro patrimonio comune e la più importante «rete di sicurezza» a sostegno della vita dell’umanità. Molti contributi fondamentali che ci offre la natura, continua il comunicato, dal cibo al legno e al sequestro del carbonio, stanno diminuendo rapidamente”, così come la diversità all’interno degli ecosistemi e tra le specie. Pur in presenza di questi aspetti negativi “abbiamo ancora i mezzi per garantire un futuro sostenibile per le persone e il pianeta”.

La pubblicazione curata da IPBES dal titolo “Assessment Report on the Different Value and Valuation of Nature”, è stata redatta da 82 esperti di scienze sociali, economiche e umanistiche. ISPRA, su richiesta del Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica e assieme allo stesso, rappresenta l’Italia presso IPBES, oltre a partecipare alla definizione dei programmi di lavoro ed indicare e stimolare la partecipazione di esperti italiani alla redazione dei rapporti.

Nel rapporto, IPBES sostiene che circa 1 milione di specie (un quarto di quelle conosciute) è a rischio di estinzione, e che il 50% di queste potrebbe estinguersi entro la fine di questo secolo.
A questo proposito gli autori della pubblicazione hanno coniato l’espressione ” specie morte che camminano” (dead species walking) riferendosi alle circa 500 mila non ancora estinte, ma che “a causa della distruzione e degradazione degli habitat a loro disposizione e ad altri fattori legati alle attività umane (sovra-sfruttamento, inquinamento, cambiamenti climatici e diffusione di specie aliene invasive) vedono ridurre le loro probabilità di sopravvivenza nel lungo periodo”.

Il 25% delle specie animali e vegetali è minacciato di estinzione. Oltre il 40% delle specie di anfibi, quasi il 33% dei coralli che formano la barriera corallina e dei mammiferi marini sono a rischio di estinzione. Sempre secondo IPBES, la biomassa dei mammiferi selvatici è diminuita dell’82% e uno studio recente calcola che il 94% della biomassa dei mammiferi terrestri oggi viventi sia rappresentata da esseri umani (36%) e animali domestici (58%). Per gli insetti, i dati disponibili fanno ritenere che almeno il 10% delle specie sia minacciato. Negli ultimi cento anni l’abbondanza media di specie autoctone, nella maggior parte degli habitat terrestri, è diminuita di almeno il 20%.

Gli scenari sviluppati da numerosi scienziati, sulla base dei dati oggi disponibili, indicano che gli attuali tassi di estinzione delle specie in natura sono da cento a mille volte superiori alla media delle estinzioni della storia del pianeta. Questi numeri portano a riferire il tempo che stiamo vivendo come sesta estinzione di massa, dopo quelle precedenti causate da eventi cosmici e planetari, tra le quali tutti hanno sentito parlare di quella che portò all’estinzione i dinosauri, 65 milioni di anni fa.

Chi è e cosa può fare IPBES?

Nel suo sito IPBES si è presenta come “la piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici istituita dagli Stati per rafforzare l’interfaccia scienza-politica per la biodiversità e i servizi ecosistemici per la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità, il benessere umano a lungo termine e lo sviluppo sostenibile”.
La piattaforma – un organismo intergovernativo indipendente – è stata istituita a Panama City il 21 aprile 2012 da 94 governi, non è un organismo delle Nazioni Unite e non ne fa parte. Tuttavia UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, con l’autorizzazione del Consiglio direttivo, fornisce servizi di segreteria alla piattaforma.

Da parte sua IPBES esegue valutazioni periodiche e tempestive delle conoscenze sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici e le loro interconnessioni, che includono valutazioni tematiche, globali e regionali complete. Ad oggi, sono state completate otto valutazioni dal momento della sua costituzione. Nella pagina www.ipbes.net/assessing-knowledge  Valutare lo stato delle conoscenze sulla biodiversità e i contributi della natura alle persone a sostegno dello sviluppo sostenibile) e nei numerosi rimandi, viene descritta l’attività della piattaforma.

Il programma di lavoro 2030 di IPBES comprende tra le diverse attività le seguenti valutazioni e documenti:
a) una valutazione tematica delle interconnessioni tra biodiversità, acqua, cibo e salute nel contesto del cambiamento climatico;
b) un documento tecnico sull’interconnessione tra biodiversità e cambiamento climatico;
c) una valutazione tematica delle cause alla base della perdita di biodiversità e dei fattori determinanti del cambiamento trasformativo e delle opzioni per raggiungere la Vision 2050[2] per la biodiversità;
d) una valutazione metodologica dell’impatto e della dipendenza delle imprese dalla biodiversità e dai contributi della natura alle persone.

Denso di informazioni è il sito di IPBES [3], che vale la pena consultare. Molto interessanti risultano i report sulle valutazioni, tra cui: Uso sostenibile delle specie selvatiche, Valutazione metodologica relativa alla diversa concettualizzazione dei molteplici valori della natura e dei suoi benefici, comprese la biodiversità e le funzioni e i servizi degli ecosistemi, Degrado e ripristino del suolo, Impollinatori, impollinazione e produzione alimentare, e poi tutti i documenti che presentano i rapporti sulla biodiversità e i servizi ecosistemici delle diverse aree del mondo.

Vivere della natura, con la natura, nella natura

Ma tornando al rapporto presentato a Roma, nel comunicato si legge che “per aiutare la politica a comprendere meglio i modi molto diversi in cui le persone concepiscono e apprezzano la natura, viene fornita una classificazione nuova e più completa dei valori della natura”.
La nuova classificazione evidenzia come diverse visioni del mondo e sistemi di conoscenza influenzano il modo in cui le persone interagiscono e apprezzano la natura e presenta quattro prospettive generali:
vivere della natura, che significa la capacità della natura di fornire risorse per sostenere i mezzi di sussistenza, i bisogni e i desideri delle persone, tra cui cibo e beni materiali;
vivere con la natura, cioè porre attenzione sulla vita “diversa da quella umana”;
vivere nella natura, nel senso di dare importanza alla natura come ambiente per il senso del luogo e dell’identità delle persone e infine vivere come natura, il che presuppone di vedere il mondo naturale come una parte fisica, mentale e spirituale di se stessi.

A conclusione e come focus sulle attività che in tale ambito vengono svolte nel nostro paese un comunicato di ASvIS che a fine luglio 2021 ha dato notizia della prima bozza dell’accordo globale sulla biodiversità per il post 2020 [4] dove viene detto che pervivere in armonia con la natura” entro il 2050 bisogna che almeno il 30% delle aree terrestri e marittime vada conservato, che occorre dimezzare la perdita di nutrienti nel terreno e investire di più nella natura.

La bozza riconosce che “è questo il decennio fondamentale per l’azione e che è necessaria e urgente un’azione politica a livello globale, regionale e nazionale per arrestare la perdita di biodiversità entro il 2030, innescata da quei modelli economici, sociali e finanziari che sono in contrasto con lo sviluppo sostenibile”. Viene infatti specificato che per l’adozione dell’Agenda 2030 sarà fondamentale garantire una ripresa ispirata dalle attività di tutela ambientale.
Nei successivi 20 anni, dal 2030 al 2050, bisogna poi portare a compimento la “2050 vision”, in modo da riuscire a “vivere in armonia con la natura, in un mondo dove la biodiversità viene valorizzata, conservata, ripristinata e utilizzata con saggezza, preservando l’integrità dei servizi ecosistemici, e sostenendo un pianeta sano e capace di offrire benefici essenziali a ogni individuo”.

La Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile

La Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASvIS ), nella pagina https://asvis.it/search/?q=biodiversità, offre moltissimi spunti, riflessioni, e documenti sul tema della biodiversità.
Nello scorso febbraio è stato approvato il 5° Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, uno studio effettuato dal Comitato per il capitale naturale (Ccn), e pubblicato dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase), dove si ribadisce che “la nostra deve essere la prima generazione che lascia i sistemi naturali e la biodiversità dell’Italia in uno stato migliore di quello che abbiamo ereditato”. Diverse sono le raccomandazioni presenti all’interno di un ampio lavoro di analisi che mette insieme tutti i pezzi necessari per garantire lo stato di salute degli italiani e degli ecosistemi. Si va dalle rinnovabili alle nature-based solutions, dalla contabilità ambientale fino al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).[5]

Riporto solo quanto viene detto nel sito riguardo la contabilità ambientale, elemento spesso sottovalutato nel dibattito pubblico e nella discussione politica. Si tratta, viene detto, di sviluppare un sistema di contabilità in grado di intercettare gli impatti dell’attività economica sulla natura, per tenere in considerazione “i conti dei flussi fisici, delle attività e dei flussi economici connessi in positivo e in negativo all’ambiente, oltre ai conti degli ecosistemi” nel processo decisionale.

Il Comitato per il capitale naturale ricorda che la Commissione statistica delle Nazioni Unite ha già identificato uno standard statistico internazionale, il System environmental economic accounting-ecosystem accounting (Seea-Ea), e anche la Commissione europea sta promuovendo da tempo l’inserimento dei conti degli ecosistemi nel regolamento sui Conti ambientali europei e sta operando per colmare il gap metodologico che ancora esiste con i sistemi di contabilità convenzionali.
Per questo motivo il Ccn ricorda che “per trasformare in chiave ecologica il nostro sistema di contabilità nazionale occorre finanziare l’intera filiera della Contabilità ambientale, comprese le attività di monitoraggio degli ecosistemi”.

[1] https://www.ipbes.net/the-values-assessment.

[2] https://asvis.it/home/4-10247/lonu-pubblica-la-bozza-di-accordo-per-salvare-la-biodiversita-wwf-inadeguata.

[3] https://www.ipbes.net/

[4] https://asvis.it/home/4-10247/lonu-pubblica-la-bozza-di-accordo-per-salvare-la-biodiversita-wwf-inadeguata

[5] https://asvis.it/home/4-14787/rinnovabili-contabilita-sussidi-dannosi-come-preservare-la-biodiversita-italiana

Per certi versi /
ADDIO  caro Parco

ADDIO  caro Parco

Gli alberi
Sono stati segati
Addio caro
Parco
Vicino al fiume
Verde e blu
ingiallito
Rosseggiavi
Nel fulvo autunno
Riempivi d’ombra
La ferma estate
piacevi spogliato
Nella neve
Erano segni
Di corteccia
Le tue primavere
Lunghe
Distese nei giorni
I “Santificetur”
Ti hanno fatto radere
A zero
Demolito
per
un fiume di catrame….
I clacson strombazzeranno
non più i cinguettii
Non più Il fiume
che correva verso il mare….
Ogni riferimento al magnifico Parco Urbano Bassani e alla sciagurata scelta del Sindaco di Ferrara di portarci 60.000 persone per il maga-concerto di Bruce Springsteen è assolutamente legittimo. (N.dr)
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

UNIVERSITÀ … PER SOFFRIRE O PER CRESCERE?
A margine della rivolta studentesca per il caro affitti

In tutte le città italiane gli studenti universitari dormono in tenda per protestare contro il caro affitti. L’Università, e la scuola in generale, soffrono di malattie ancora più gravi, con sintomi evidenti: un disagio studentesco crescente,  tanti casi di stress, depressione, abbandono scolastico, suicidi. Tanto che viene da chiedersi: si va all’Università per crescere o per soffrire?

Assistiamo all’allarmante tasso di abbandono scolastico e ad un aumento dei suicidi giovanili a causa di un rendimento ritenuto insufficiente e determinato da criteri di valutazione che non tengono conto delle esigenze dei giovani, che sono massificati come categoria sociale. Queste valutazioni, infatti, non rilevano mai né le caratteristiche individuali, né la creatività o le curiosità degli studenti e neppure l’intelligenza; non servono né a un possibile orientamento, né a sostenere continuità e non possono indirizzare a uno sviluppo futuro.
Questa indifferenza per il delicato momento di crescita in cui i giovani si trovano nel periodo scolastico è diventata evidente dopo i due anni di chiusura, dovuti alla pandemia, che li ha resi più fragili, facendoli sentire ancora più indifesi rispetto a una società di adulti che non li riconosce e non li considera. In Italia questa situazione è particolarmente grave perché la riforma scolastica attuata dalla fine degli anni Novanta, ha sostituito alla nostra istituzione basata sulla cultura umanistica e, in quanto tale complessiva, una cultura pragmatica e liberista.

“[…] serve costruire un sistema accademico ed universitario in grado di insegnarci che non siamo numeri ma persone“, dice la lettera aperta scritta dagli amici della studentessa dell’Università IULM di Milano, suicidatasi meno di tre mesi fa (qui), ma è il pensiero di tutti: commenti analoghi accompagnano le morti dei circa 200 suicidi all’anno di giovani sotto i 24 anni.

Quando si è adottato questo modello per riformare la scuola, spacciandolo come innovativo, si sono abbandonate la centralità dell’essere umano, la ricerca come atteggiamento in sé e la costruzione della qualità della vita in favore della cultura del profitto, del successo individuale e della produzione, non per un benessere diffuso, ma per l’arricchimento di pochi. Gli uomini, in questo modo, diventano dei prodotti finalizzati all’industria in un sistema che li sfrutta come macchine.

Il pragmatismo è funzionale al soddisfacimento dei bisogni concreti e immediati, quindi all’industrializzazione e alla produzione, ma è marginale rispetto alla ricerca del senso e della qualità della vita personale e comune. Quindi la scuola attuale che previlegia l’apprendimento di competenze funzionali alla domanda del mondo produttivo, che non risponde perciò alle esigenze di crescita della conoscenza di sé e del mondo, non risponde più alle domande sul senso della vita, tipiche del momento di crescita dei giovani, e li sottopone solo a misurazioni di merito e sulla quantità di competenze acquisite. Questo modello è funzionale a questa globalizzazione che è stata pensata per squalificare il lavoro, meccanizzandolo e rendendolo eseguibile esclusivamente dalle macchine. In questo modello l’essere umano è un elemento indesiderabile: protesta, mangia e può anche scioperare. La dimensione del lavoro come espressione della potenzialità creativa dell’essere umano non è considerata.

La nostra cultura classica viene da quella greca, che ha caratterizzato la civiltà occidentale e si distingue perché è fondata sull’essere umano e su un atto positivo di creazione dell’ “essere”. – Ciò che è, è e non può non essere (Parmenide)-.
Nella Grecia antica la scuola è nata per creare un linguaggio comune come strumento di condivisione delle conoscenze acquisite da un essere umano che si scopre curioso e che inizia a sviluppare tutte le discipline.  Il linguaggio comune era indispensabile anche per imparare a esercitare la capacità di riflessione sul valore dell’umanità e sulla capacità di dare valore alla convivenza umana nella pace, pace che si poteva ottenere solo attraverso la democrazia. Per poter creare la democrazia era necessaria una scuola, un metodo di apprendimento condiviso, come luogo di scambio delle conoscenze. Era necessario creare un linguaggio per ridurre le conflittualità.

Sul nostro territorio si è impressa questa orma di umanesimo, fin dall’origine, dagli Etruschi, dalla civiltà romana, che vede nella qualità della vita l’elemento che distingue dalla barbarie, per cui organizza il territorio con ponti e strade e la distribuzione dell’acqua a tutta la popolazione delle città. Infatti, Roma istituì la Repubblica, che necessitava di una conoscenza partecipata del cittadino e quindi di una scuola che ne facesse condividere i valori. Con Carlo Magno si istituì una scuola pubblica europea obbligatoria che producesse civiltà, per uniformare le diverse culture del suo Impero, per uscire dalla barbarie, per essere liberi e poter prendere decisioni, senza dover dipendere da chi sa leggere e scrivere. Questo è il processo da cui hanno origine la nostra società civile e il nostro sistema scolastico; il territorio che abitiamo è caratteristico, riconoscibile e apprezzato come attraente e desiderabile proprio per questo accumulo di vita vissuta.

La nostra cultura si fonda su questa centralità dell’essere umano come valore e la nostra tradizione scolastica si è sviluppata sul metodo socratico della maieutica che si struttura e si evolve nella pedagogia.
Questa pedagogia riconosce la singolarità di ogni essere umano e ha come compito quello di far emergere la singolarità di ciascuno, utilizzando la metodologia della domanda per innescare il pensiero critico e l’atteggiamento creativo: chi sei? Dove sei? Dove vuoi andare?

La scuola attuale su modello pragmatico liberista traduce il momento di riflessione e di ricerca della propria originalità e la curiosità sul senso della vita in competizione e in una acquisizione di conoscenze che sono soltanto un accumulo di dati senza finalità e senza prospettiva, perché propongono il modello della ripetitività. In questo modo si rendono i giovani estranei alla propria esperienza, distraendoli dal poter formulare la domanda sul senso della vita; questo è molto grave per la loro crescita, soprattutto per gli italiani che vengono resi estranei anche alla propria storia e al loro territorio in cui non riescono più a riconoscersi. Oltretutto il disagio dei giovani è vissuto con fastidio, non sono riconosciuti come la generazione futura: quando esprimono il loro disagio, li si accusa di non aver più spirito di sacrificio. Una persona ragionevole dà tutta sé stessa per rispondere a un desiderio, a qualcosa che renda migliore lei, la realtà che abita e l’umanità che con essa condivide. Non esiste un essere ragionevole che sacrifichi sé stesso per uno scopo che non riconosce come proprio.

Anche il territorio che è il risultato per sedimentazione di questo processo storico viene trasformato dal liberismo in un oggetto da consumare, non più da vivere, abitare e gustare. Lo testimonia la deturpazione della città di Venezia, che non è più vivibile, che non è più città.
Sovrapporre il modello pragmatico liberista a una millenaria cultura umanistica dimostra solo ignoranza rispetto alla storia da cui proveniamo e superficialità nel sottovalutare le conseguenze disastrose che si verificano nell’abbandono scolastico, nei suicidi, nel malessere, nell’autolesionismo, nell’apatia che i giovani sempre più mostrano.
Per diffondere e difendere la cultura mediterranea e in particolare quella italiana, anziché proporre la creazione di un liceo del “made in Italy” si dovrebbe invece pensare a sostenere il liceo classico che è quello che qualifica la cultura europea e di cui le nuove generazioni avranno molto bisogno in quanto sviluppa la creatività come tipica potenzialità dei giovani.

Teatro Comunale di Ferrara al secondo posto in Italia tra i Teatri di tradizione

Qualità artistica della stagione d’opera e balletto: il Teatro Comunale di Ferrara è al secondo posto in Italia tra i Teatri di tradizione

Nell’assegnazione dei contributi per l’anno 2022, il Teatro Comunale di Ferrara si aggiudica il secondo posto per la qualità artistica della proposta lirica e del balletto nella graduatoria ministeriale che valuta i teatri di tradizione.

Il Ministero della Cultura (Direzione Generale Spettacolo) ha reso pubbliche le valutazioni sui teatri di tradizione e i rispettivi contributi economici spettanti, in relazione ai programmi delle attività musicali dello scorso anno. Per qualità artistica, il Teatro “Claudio Abbado” sale nella graduatoria nazionale al secondo posto, con 26 punti, ex aequo con la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento. A distanza di mezzo punto, al primo posto, c’è lo Sferisterio di Macerata (26,5). Il contributo per il 2022 è di 670.796 euro. Nel 2019 era di 586.103 euro.

Don Giovanni , Teatro Comunale di Ferrara, foto Marco Caselli Nirmal

“Nel 2022 abbiamo avuto un incremento di oltre 84 mila euro rispetto alla passata gestione del teatro. Nel 2021, il nostro teatro era collocato al terzo posto nella graduatoria artistica” spiega Marcello Corvino, direttore artistico del Teatro Comunale di Ferrara, “quest’anno abbiamo fatto un ulteriore passo in avanti ottenendo il secondo posto. Così è stato anche per il settore danza, che ha ottenuto dal fondo unico per lo spettacolo 117.993 euro nel 2022, rispetto ai 90.971 nel 2021.

Ora il prossimo obiettivo – conclude Corvino – è aumentare le coproduzioni internazionali, per questo siamo entrati nell’associazione Opera Europa. La volontà è aumentare il prestigio internazionale del Teatro Comunale e, con esso, della città”.

Marcello Corvino, direttore artistico Teatro Comunale Ferrara

In Italia, a oggi, sono 29 i teatri riconosciuti con la qualifica di “teatro di tradizione”, aventi il compito di promuovere, agevolare e coordinare le attività musicali nel territorio delle rispettive province. Ricevono finanziamenti, a valere sul Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo. Lo stanziamento totale delle risorse è stato di quasi 19 milioni di euro.

Christoph Willibald Gluckalceste, foto Marco Caselli Nirmal

 

Storia di Nina
(e di chi le diceva che era una buona da niente)

 

A marzo decido di trascorrere un week end al mare, ai Lidi Ferraresi.
In uno dei pochi bar aperti durante la stagione invernale, sono assorta nella lettura del quotidiano locale. Ad un certo punto mi distraggono le parole di Nina.
Seduta ad un tavolino, appoggiata al suo deambulatore, sorride alle due ragazze dietro al bancone sorseggiando il suo cappuccino.
Si scusa per non aver pagato l’ultima consumazione prima della chiusura natalizia del bar. “Non sono più risuscita ad uscire di casa” spiega.
Valentina, la barista, la guarda e teneramente le chiede: “Ma non ha nessuno che l’aiuti?”.
Nina sorride e risponde: “No, sono sola. Ho novantatré anni. Sono morti tutti. I miei genitori, i miei fratelli, mio marito, i miei suoceri”.
“Ma non ha figli?” incalza la ragazza.
Nina sorride. “E’ una domanda che mi sono sentita fare tante volte. No, non ho figli”. Dà un morso alla sua brioche prima di continuare nel suo racconto. “Adesso non ci soffro più. Quando ero giovane mi dicevano che non servivo a niente. Che ero una buona da niente. Me la sono presa io la colpa, ma non si sa se fosse mio marito che non era capace di darmi un figlio o fosse colpa mia. Mi hanno fatta soffrire tanto, la gente, la famiglia di mio marito, le persone con le quali mi facevano parlare per avere consigli su come rimanere incinta”.
Nina con voracità finisce la brioche, quale fosse la sua vita passata che si mangiava assieme alle parole di quelle persone che non le avevano lasciato pace per buona parte della sua esistenza.
“Io e mio marito saremmo stati felici lo stesso. Vi dirò che io avevo anche paura del parto. Una mia amica morì di parto lasciando due bambini piccoli. Poi il marito sposò la sorella ed ebbero altri due figli. Il mio Agostino diceva che per lui andava bene anche così, ma giustificava la mamma che non ci lasciava in pace. Mia suocera controllava se nel bucato c’erano i segni del fatto che anche per quel mese erano arrivate le mie cose. E ogni volta ricominciava a dire che ero una donna sfortunata, che suo figlio era sfortunato, che ero una buona da niente. Avrei voluto lasciare il paese, la città, ma il lavoro di Agostino era legato alla sua famiglia”.
Poi, improvvisamente ride. Prepara il suo dispositivo medico, si alza e saluta le ragazze. “Ora sono tutti morti e faccio quello che voglio” dice sorniona mentre esce dal locale.
Erano anni, quelli di Nina, dove non era previsto che una donna potesse scegliere di non avere figli. Allo stesso tempo la maternità negata era un castigo sociale, oltre che personale, se una donna desiderava diventare mamma. Proprio come è accaduto a Nina.
Oggi è una scelta? Sì, oggi si può scegliere. Ciononostante, tra il volere e il non volere (o non potere) avere figli, i giudizi della società non sono affatto cambiati.
Io non chiedo mai se una persona abbia o no dei figli. Ho sbagliato solo una volta: ad una ragazza ho chiesto se desiderasse averne. Me ne sono pentita subito. Le avrei voluto chiedere scusa, ma forse lo farà questo racconto se mai lo leggerà.
Mi ricordo un fatto accadutomi tanti anni fa: una mia collega e amica aspettava il suo secondo figlio. Lo sapeva tutto il gruppo di lavoro tranne me. Avevo carpito la notizia alla macchinetta del caffè. Alla mia domanda di come mai non me lo avesse detto, rispose che sapeva che un figlio lo stavo cercando anch’io e non arrivava. Credeva mi dispiacesse sapere di lei. Ci rimasi malissimo.

Tornata a Ferrara navigo in internet qua e là per capire un po’ a che punto siamo sull’argomento. C’è tanto sul disagio psicologico nel non riuscire ad avere figli se lo si desidera, molto poco sul sostegno per non perdere la propria autostima e nel non cadere in alcune convenzioni sociali quando non si è mamme.
Trovo, però, le parole di una giornalista, una delle poche che affronta l’argomento, e sono corrispondenti al mio pensiero:
“Come se bastasse partorire un figlio per diventare, tutto ad un tratto, materne e rendere le voci più meritevoli di ascolto di quelle di altre donne senza figli. Come se nel momento stesso in cui diventi madre, un nuovo ormone, tra i tanti in circolo, ti renda all’improvviso migliore e chiaro tutto ciò che fino al giorno prima ti era ignoto in fatto di bambini e maternità.” (Tratto da ‘Roba da donne. Non sei mamma, non puoi capire…’ a cura di Ilaria Maria Dondi).
“E’ tempo di riprenderci le nostre uova e farne ciò che vogliamo. Mettendo al centro il nostro desiderio. E’ tempo di dirci chiaro e tondo – e di dirlo al mondo – che nessuna scelta è migliore delle altre e pretendere. Non giudicateci più.” (Tratto dalla presentazione, sulla personale pagina Facebook della giornalista Ilaria Maria Dondi, della propria newletter dal titolo ‘Rompere le uova’).

Le storie di Costanza /
Maggio 2062 – Gli aironi cenerini

Le storie di Costanza. Maggio 2062 – Gli aironi cenerini

Anche maggio 2062 è arrivato e fa di nuovo caldo. A Pontalba la vegetazione è nel suo massimo rigoglio e ci sono piante ed erbe ovunque. Ci si può fermare ad ammirare le varie sfumature di verde che la stagione propone e compiacersi di quella presenza vegetale, profumata e cantilenante nel vento. Tutta questa vegetazione rinfresca l’aria e la pulisce rendendola leggera e profumata, una grande fortuna per questo paese.

La zia Costanza racconta che tra il 2022 e il 2023 ci fu un periodo di grande siccità, in cui il verde non si vedeva quasi più. Era stato sostituito dal marrone della terra arsa e secca. Come in un deserto nostrano, sorgeva una pianta qua e una là, lasciando tratti di cammino completamente brulli e arsi dal sole.

Il Lungone era quasi prosciugato e nel bel mezzo del fiume era emersa un’isola di argilla dove andavano a riposarsi gli aironi cenerini. Dal ponte ci si poteva appostare per fotografarli e per vederli prendere il volo distendendo le loro lunghe e strette ali.

Anche adesso, che la siccità è passata da molto tempo e in primavera ha ricominciato a piovere abbondantemente, lungo le rive del fiume abitano i cenerini. Uccelli bellissimi, leggeri ed eleganti e allo stesso tempo dotati di ali possenti che permettono loro lunghi voli rasente l’acqua, come tanti bagliori bianchi e grigi che attraversano l’etere all’improvviso colorandolo di stupore.

I cenerini si distinguono dagli altri aironi per le loro grandi dimensioni, sono lunghi quasi un metro e pesano un chilo e mezzo. Gli adulti hanno delle piume nere luccicanti sul collo e un ciuffo scuro sulla nuca molto pronunciato, i più giovani hanno un piumaggio più grigiastro. Le zampe e il becco sono di un bel giallo intenso.

Quando l’airone cenerino spicca il volo il suo collo si ripiega, assumendo una tipica forma a esse. Questo loro modo di volare è elegante e incantevole, una delle tante prove di come la natura sappia fare capolavori inimitabili.

Non essendo migratori a lungo raggio, iniziano la costruzione del nido già a febbraio e nel nido si vedono di solito quattro o cinque uova. Ai nidi è meglio non avvicinarsi perché c’è il rischio che l’airone senta la presenza umana e decida di abbandonare le uova.

Bisogna aspettare marzo per assistere alla schiusa e allo svezzamento dei piccoli. Una volta venuti alla luce, i cenerini sono nutriti dalla madre circa cinquanta giorni, poi se ne vanno liberi nell’aria come i delfini nell’acqua. Mangiano pesci, rane, girini, bisce d’acqua, invertebrati e piccoli mammiferi. Questi piccoli animali vengono trafitti dal possente becco degli aironi e non hanno scampo. È la ferrea legge della natura.

Alterare gli ecosistemi è quasi sempre un dramma. L’immissione di razze non autoctone altera, ad esempio, l’equilibrio floro-faunistico portando a un riadattamento dell’ambiente complicato che richiede tempi lunghi di riassestamento. L’equilibrio naturale è un capolavoro che andrebbe rispettato molto più di quanto lo si faccia.  Di questo, noi che abitiamo lungo un fiume e con la natura conviviamo quotidianamente, siamo convinti.

A volte vado a passeggiare lungo gli argini con Cosmo-111, il nostro robot di famiglia. Anche a lui piacciono le sponde del fiume e anche a lui, che impara tutto da noi compresi gusti e preferenze, piacciono gli aironi.

A volte ci accovacciamo dietro un cespuglio per ammirarli fermi sulle sponde del fiume mentre, con i loro occhi vigili e mobili, scrutano l’orizzonte. In quella posizione sono fantastici, dei pennuti che guardano l’acqua che scorre come se pensassero al loro passato e al loro futuro tutt’assieme, sospesi in quel momento che sa d’eternità.

Nel silenzio di quell’attimo perfetto si sentono, ogni tanto, dei leggerissimi rumori, tipo dei pics pics molto sommessi, è Cosmo-111 che ha azionato le sue potenti telecamere e sta fotografando gli aironi. A forza di esercizio, è diventato bravissimo e a casa abbiamo una collezione di magnifiche immagini digitali che ritraggono gli uccelli.

Tre le ho stampate, incorniciate con una banda di legno giallo della stessa tonalità del becco dei cenerini e le ho messe tutte in fila nell’ingresso di casa, sopra l’armadio basso dove Axilla e Gianblu depongono giacche e zaini quando rientrano.

Quasi sempre quando arrivano, qualsiasi ora sia e qualunque grado di stanchezza abbiano accumulato durante la giornata, depongono le loro cose e poi si fermano un attimo a guardare gli uccelli ritratti nelle foto. È anche per loro un attimo di ammirazione quotidiana che fa bene all’anima.

A volte fanno anche qualche commento del tipo: “gli aironi sono sempre belli”, “sembra che mi guardino”, “oggi sembrano più pensierosi del solito”, “chissà a cosa stavano pensando”, “chissà se sono ancora vivi”, “chissà cosa stanno facendo adesso”.

Anche Cosmo-111 ogni tanto si ferma a guardare le foto dei cenerini e fa commenti a modo suo: “balla, balla, davvaa balla” (belli, belli, davvero belli) oppure “a canarana hanna la paama baancha a gragaa, una balla sfamatara da calara” (i cenerini hanno le penne bianche e grigie, una bella sfumatura di colore).

Gianblu, che è il più avvezzo alla tecnologia e anche il più propenso ad utilizzarla in ogni circostanza, dice che si potrebbero fare degli aironi meccatronici praticamente identici a quelli vivi con prestazione che, dal punto di vista umano, sarebbero strabilianti.

Ad esempio, gli aironi-x potrebbero non solo interagire con i cenerini, ma anche con gli umani, potrebbero sia bramire che parlare. Oppure potrebbero anche essere dei mutanti, trasformarsi da cenerini-x a gufi-x, ad aquile-x e anche in cicogne-x.

Già, tutto vero e forse anche utile, ma non so se tutto ciò sia bello e quanto possa servire a preservare l’ecosistema e a migliorare la vita degli aironi che vivono lungo il fiume, esseri viventi con un cuore che batte e il sangue che circola nelle vene.

La bellezza ha qualcosa di effimero, è molto temporanea, legata a una sorta di interazione tra chi guarda e chi è guardato. Il bello ha una componente affettiva, è nella proiezione di alcuni sentimenti nobili su un altro essere vivente che improvvisamente, e forse per poco, si concretizza davanti ai nostri occhi una idea di sublime bellezza.

È in quell’attimo, in cui una nostra sensazione di benessere viene proiettata su qualcosa che sembra rappresentarla al meglio, che scoppia lo stupore, la gioia semplice e pura di vedere ciò che è perfetto. Dura poco, a volte basta che il cenerino si muova e che riprenda il suo solito volo rasente l’acqua e l’attimo di bellezza se ne va.

È attraverso quel guardare stupito e curioso che mi sono trovata a pensare che la perfezione ha una dimensione contemplativa che scaturisce dall’anima, dall’incontro tra il tempo, i sentimenti, la materia e la vita.

In quel momento, in quell’incontro, si realizza e vivifica un pensiero, prende forma un anelito che alberga sempre dentro di noi e che ci spinge verso la ricerca, il cambiamento, il cammino e lo stupore che appaga la vista e il cuore. Ciò che è per noi bello è ciò che arriva al nostro cuore senza molte mediazioni, senza artifici e senza induzione.

Anche Cosmo-111 ha maturato una sua idea di bellezza, che ha acquisto analizzando ciò che noi consideriamo tale. Così per tutti gli abitanti di casa mia, i cenerini sono magnifici e questo è un dato di fatto che non si discute.

A volte Cosmo-111 si confonde un po’; anzi siamo noi che lo confondiamo con i nostri sentimenti, che lui cerca di razionalizzare, con tutte le nostre preferenze che lui cerca di memorizzare, con tutte le nostre balordaggini a cui lui cerca di trovare un senso, con tutte le nostre decisioni improvvise, a cui lui cerca di trovare una filo conduttore, una causalità.

È per questo che Cosmo-111 è com’è ed è per questo che noi ci riconosciamo in ciò che fa, compresi modi e atteggiamenti bizzarri. È balordo come lo siamo a volte noi ed è bello come lo siamo ogni tanto noi.

Anche ieri siamo andati lungo l’argine e abbiamo visto un cenerino fermo su un vecchio tronco rovesciato di una robinia ormai morta. Pics pics pics.

– Cosmo-111, cosa stai facendo? – gli ho chiesto più per conversare che per verificare l’azione che stava producendo rumore, quella l’avevo già identificata.
– Sto fotografando un airone – mi ha risposto il nostro robot, stranamente utilizzando tutte le vocali in maniera corretta, cosa che non fa quasi mai.
I cenerini ti sembrano belli? – gli ho chiesto.
Si mi ha risposto Cosmo-111 Piacciono ad Axilla. –

Già, piacciono ad Axilla che ha una felpa con scritto: non buttare la plastica, gli aironi la potrebbero mangiare.
Piacciono anche a me – gli dico io,
Lo so mi risponde Cosmo-111se fossi un egoista li ucciderei tutti, così avreste più tempo per guardare me. Ma io non sono un egoista e se siete contenti voi, lo sono anch’io.

Questa considerazione di Cosmo-111 mi ha fatto riflettere. Sicuramente i sentimenti etero-riflessi sono un vantaggio in termini di gestione della pace familiare. Ma sono davvero il meglio? questa è la più impegnativa delle domande.

Non so da dove esattamente, dentro di me, nasca il dubbio. Che sia la pancia? Se Gianblu non volesse un cenerino, perché toglie tempo all’attenzione che io gli posso rivolgere sarebbe di per sé una brutta cosa? Non so da dove arrivi dentro di me la motivazione di questa risposta che sto per dare a me stessa, ma mi vien da rispondere con una certa soddisfazione “No”.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

NUMERI /
Dal 1300 ad oggi la diseguaglianza continua a crescere: solo la Peste Nera e le due Guerre Mondiali riuscirono a ridurla

Com’era la disuguaglianza dei nostri avi? Davvero ne secoli bui i poveri erano più poveri dei poveri di oggi? La disuguaglianza della ricchezza (terre e case, non c’era molto altro) era forte anche in passato. La peste nera attorno al 1350 l’ha ridotta: morendo metà della popolazione, sono aumentati i salari e c’erano più case e terre in vendita a buon mercato.

E quanto si pagava di tasse?
Guido Alfani e Pezzolo stimano che nel 1550 a Venezia erano solo il 5% del prodotto globale. L’aliquota era 5,4-6,0% del reddito per il 10% più povero, 5% per i ceti medi e 3,9-4,4% per il 5% più ricco.
I ricchi, quindi, in proporzione, pagavano meno, anche se il loro contributo era circa metà del totale (possedevano il 60% della ricchezza).
Così era a Milano, Napoli, Ferrara. A Firenze la disuguaglianza era maggiore e minore in Olanda.

Nel 1750 la tassazione era diventata ancora più regressiva: il 10% dei più poveri pagava attorno al 10%, i più ricchi il 6,6-7,5%. Le tasse servivano a finanziare difesa e guerre.

Il welfare “pubblico” non esisteva, ma nelle società cristiane medievali i ricchi dovevano provvedere con la propria carità ai poveri con una beneficenza “privata”, tramite confraternite che gestivano ospedali e ospizi per i poveri. Un po’ come oggi negli Stati Uniti dove le Fondazioni dei miliardari decidono come impiegare le tasse non pagate.

Secondo Thomas Piketty, nel 2010 il 10% più ricco della popolazione dell’Europa occidentale deteneva il 64% della ricchezza complessiva, un livello di disuguaglianza elevato e in crescita negli ultimi decenni, ma non diverso dal passato.
Nel 1300 il 10% più ricco della popolazione urbana del Piemonte deteneva il 61% della ricchezza, che aumentò sino a circa 65% alla vigilia della Peste Nera, più o meno come oggi.

La disuguaglianza arriva al massimo (90% per il 10% dei più ricchi) nel primo Novecento.

Con le lotte operaie del secondo dopoguerra e il welfare i ricchi scendono nel 1980 al 59% della ricchezza. Da allora la disuguaglianza ha ripreso a crescere.

Nell’arco dei sette secoli tra il 1300 e oggi solo immani catastrofi (Peste Nera, le due Guerre Mondiali) furono capaci di portare a una riduzione della disuguaglianza.
Chissà se in futuro gli esseri umani creeranno un mondo meno diseguale senza ricorrere a guerre o a peste (oggi anche pandemie).
Se lo desideriamo dobbiamo però fare qualcosa per realizzarla… Dopo la seconda guerra mondiale lo abbiamo fatto con un sistema fiscale progressivo e inventando il welfare universale

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“Il mio nome è Maria Maddalena”
Intervista alla femminista Roberta Trucco, autrice del romanzo

Nel romanzo Il mio nome è Maria  Maddalena (Marlin Editore)  lei descrive le vicende di una ragazza che decide di prestarsi alla pratica dell’utero in affitto per guadagnare dei soldi per continuare a studiare ma, quando le viene richiesto di praticare un aborto, si sottrae a questa imposizione ed espatria e vola in Amazzonia.

Come si pone personalmente nei confronti della pratica della gestazione per altri?

Oggi il neoliberismo capitalista tecnocratico e materialistico guarda ai corpi come ha guardato alla Terra, con sguardo predatorio ed estrattivo, come a qualsiasi altra risorsa, senza alcun rispetto per la loro sacralità. La narrazione sottostante alla definizione GPA è che questa pratica sia un dono gratuito fatto da una donna a una coppia che non può fare figli. Ma in questa pratica non c’è nulla di gratuito. I portatori di interesse sono moltissimi: case farmaceutiche, cliniche della fertilità, assicurazioni, avvocati e turismo riproduttivo.
Aggiungo che questa pratica non tiene conto minimamente del desiderio primario del bambino che è quello di stare con la madre che lo ha portato in grembo per nove mesi, quel grembo che lo ha cresciuto e di cui lui conosce ogni rumore, il battito del cuore, le emozioni e la storia, un grembo madre/terra. Chi desidera un figlio ed è disposto ad averlo attraverso la maternità surrogata deve sapere che fonda il suo desiderio sulla negazione del desiderio primario di quel bambino.

Non a caso la mia protagonista, una giovane occidentale, che si presta avventatamente come madre surrogata spinta da una motivazione economica ma anche convinta di compiere un gesto di amore, durante la gravidanza si accorge di instaurare una relazione fitta con i bambini che le crescono dentro e solo nella foresta amazzonica presso le popolazioni indigene Ye’quana scoprirà il vero senso della maternità.
I suoni e le immagini della foresta, foriere del messaggio ancestrale che da millenni le donne si passano di generazione in generazione le risuona dentro facendole riscoprire il sapere ancestrale dei nostri corpi, un sapere sacro che verrà per sempre spezzato se si trasferisce il concepimento nei laboratori e se si guarda alla vita come a un prodotto da immettere sul mercato. Tutto ciò non mi era chiaro ma è emerso dalla scrittura del romanzo che mi ha portato a indagare il parallelismo tra il nostro appartenere alla terra, Pacha Mama , e i nove mesi in cui da embrioni ci trasformiamo in feto per passare poi dal mondo dell’acqua al mondo dell’aria. E questo percorso di scrittura mi ha convinta che la pratica della maternità surrogata sia una pratica lesiva dei diritti delle donne e dei bambini e credo fortemente vada abolita a livello universale.

L’iniziativa del Governo Meloni di inviare una circolare ai Comuni per vietare le registrazioni dei genitori non biologici negli atti di nascita dei figli nati con la GPA ha sollevato reazioni da più parti e di diversa natura. Lei cosa ne pensa?

Penso sia una discussione pretestuosa. La questione dei diritti dei bambini nati da surrogata ( vorrei ricordare che in Italia la maternità surrogata è un reato) è un falso problema. Non ci sono bambini di serie B. il padre biologico lo iscrive all’anagrafe e da quel momento in poi il bambino ha tutti i diritti e le tutele di qualsiasi altro bambino. Poi il padre di intenzione ( committente) segue la via indicata dalla Cassazione, quella dell’adozione in casi particolari esattamente come deve fare una madre single se vuole che il compagno, non padre biologico, venga riconosciuto come padre del suo bambino. La registrazione di genitori non biologici, che si ritengono tali in quanto hanno commissionato un bambino attraverso la maternità surrogata, direttamente all’anagrafe oltre a cancellare la madre che lo ha portato in grembo, e dunque a cancellare le origini del bambino, diritto sancito dalla carta dei diritti del fanciullo art 7, è una discriminazione nei confronti di altri soggetti ( vedi le madri single o vedove) che invece devono percorrere la strada dell’adozione in casi particolari per il riconoscimento di un padre non biologico.

Maddalena, la protagonista del suo romanzo, trova in Amazzonia un senso all’esistenza. Secondo lei, come e quando si diventa genitori?

Maria Maddalena trova nel ventre primigenio della foresta amazzonica, a contatto con le popolazioni indigene Yequana, il profondo senso di appartenenza alla terra. La terra non ci appartiene, piuttosto noi apparteniamo alla terra.
È una prospettiva radicalmente diversa rispetto alla cultura occidentale. Al massimo noi siamo gli amministratori della terra, ma per amministrarla è necessario riconoscerne la sacralità, quella sacralità di cui le popolazioni indigene sono gli ultimi testimoni. È attraverso il parallelismo pacha mama/ gravidanza che la mia protagonista riscopre la sacralità della vita ed è questa che farà da bussola nelle scelte della sua vita.  Per approfondire questa prospettiva invito a leggere la postfazione del romanzo, scritta da Grazia Francescato, che in Amazzonia c’è stata, e che ha colto perfettamente quello che si muoveva nel mio inconscio durante la scrittura.

Per quando riguarda la domanda sulla genitorialità il tema è complesso. Gli umani sono esseri simbolici e fortunatamente sanno adattarsi. Il cucciolo d’ uomo non sopravvive se non accudito per lungo tempo, spesso molto di più di un qualsiasi cucciolo di animale. Essere genitori implica sapere dare quell’accudimento necessario allo sviluppo di un cucciolo umano fino a quando non sarà autonomo.
La condizione per eccellenza è che ad accudire il cucciolo sia la madre che lo ha portato in grembo, non a caso si parla  di endogestazione ed esogestazione, La gravidanza infatti  è un processo al termine del quale nasce un figlio e nasce una madre perché i due crescono simbioticamente per nove mesi, ma come ho detto se la madre muore o non è in grado di curarlo una madre adottiva potrà essere  una ottima madre tanto quella naturale. Il padre invece è colui che assicura la protezione della madre, in tutti i sensi.
La figura paterna infatti durante la gestazione è una figura comprimaria ma assai importante. Il suo sostegno, la sua cura, sono fondamentali per la donna gestante. Dunque per me il padre prima che essere padre in quanto portatore del seme è padre perché si assume la responsabilità di non lasciare sola la compagna che affronta una gravidanza e di sostenerla  o, se non padre biologico, comunque chi si assume di affiancarla per sostenerla nel cammino della crescita del figlio/a.  Dunque maternità e paternità sono simbolicamente molto diverse ma entrambe fondamentali per lo sviluppo dell’individuo. Ma come succede nelle popolazioni indigene, per un sano sviluppo dell’individuo è molto importante anche la comunità in cui nasce il piccolo.  La famiglia nucleare è una costruzione sociale piuttosto recente.  Su questo dovremmo riflettere.

Anche l’atteggiamento delle donne, e delle femministe in particolare, rileva un mutamento nell’orientamento verso questo fenomeno?

Il femminismo su questo tema è spaccato.
Il così detto transfemminsmo difende l’idea che la libertà di fare dei propri corpi quello che si vuole stia sopra ogni altra questione. il transfemminsmo considera una conquista per le donne vedere riconosciuta economicamente la capacità riproduttiva delle donne, e considera libertà liberarsi dal “giogo” della maternità. Una visione a mio avviso che si inscrive perfettamente nel sistema capitalista e patriarcale che riconosce un valore di mercato ormai a tutto anche agli individui. Infatti basta farsi un giro sui siti che offrono la maternità surrogata per capire che ci sono i pacchetti vip, i pacchetti economy etc a dimostrazione che la vita diventa un prodotto acquistabile sul mercato.

Poi ci sono femministe che, come me, invece considerano questa pratica una pratica aberrante che lede alle fondamenta i diritti dell’uomo perché tratta gli esseri umani come merce deumanzzandoli, anche nel caso della Gpa, o maternità solidale, perché i bambini non si comprano e non si regalano.

Finalmente si è aperto il dibattito pubblico, era ora! Io ho scritto un romanzo proprio perché volevo  che questo tema, tanto complesso e delicato, perché tocca la pancia delle persone, diventasse un tema di cui ne parlassero tutti. Con questo romanzo volevo raggiungere quella parte di consapevolezza inconscia, sembra un ossimoro ma non lo è, che secondo me è ancora incardinata nelle nostre viscere e richiamare le giovani, ma anche i giovani maschi,( ci sono personaggi maschili molto positivi nel romanzo) all’azione e a una presa di coscienza. Volevo richiamare le giovani a questo sapere ancestrale, che oggi rischia di essere cancellato per sempre. È un bene che tutti si facciano una idea di cosa sia la vera realtà di questa pratica, che si facciano una opinione su come stanno decidendo come verremo al mondo.  Forse oggi è venuto il tempo per affrontarlo veramente e questo è un bene.

Nota: Roberta Trucco collabora stabilmente al quotidiano online Periscopio; per leggere i suoi articoli è sufficiente cliccare sul suo nome.

In copertina: Padre e figlio Yanomami, Brasile. © Victor Englebert/Survival (foto da Survival International)

Notte Europea dei Musei. Sabato 13 maggio aperture serali straordinarie

Notte europea dei musei, sabato 13 maggio aperture serali straordinarie. Ingresso a 2 euro.
La mostra a Palazzo dei Diamanti visitabile fino alle 23.30

Sabato 13 maggio il pubblico potrà accedere oltre gli orari consueti per ammirare il patrimonio anche oltre il calar del sole. L’iniziativa è nata con il patrocinio del Consiglio d’Europa, UNESCO e ICOM per valorizzare l’identità culturale europea e coinvolge i musei di tutta Europa.

Il Comune di Ferrara aderisce alla giornata prevedendo l’apertura serale straordinaria, con ingresso speciale a tariffa unica di 2 euro, del museo del Castello Estense e di Museo Schifanoia e Civico Lapidario, Museo della Cattedrale, Casa Ariosto (a ingresso gratuito) con apertura dalle 19.30 alle 23.30.

Palazzo dei Diamanti in serale, foto Pierluigi Benini

Anche Palazzo dei Diamanti partecipa all’iniziativa, con l’apertura straordinaria fino alle 23.30, della mostra “Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa”.

Labics, Palazzo dei Diamanti, foto Marco Cappelletti

Suggestiva sarà la visione serale del giardino e dei nuovi spazi espositivi, recentemente riqualificati.

Alle 20.30, sempre sabato, al Caffè dei Diamanti (la caffetteria del museo, con ingresso da Corso Ercole I d’Este, 19) si terrà il concerto dalle sonorità jazz, blues e swing degli Organic 3 di Roberto Formignani, tra gli eventi di “Waiting for Bruce”.

Le biglietterie chiuderanno: alle 22:30 al Castello Estense e a Palazzo Schifanoia e a Palazzo dei Diamanti, alle 22:45 al Museo della Cattedrale e alle 23 a Casa di Ludovico Ariosto.

Link per info: https://www.comune.fe.it/prenotazionemusei, e per Rinascimento a Ferrara www.palazzodiamanti.it.

Immagine in evidenza di Pierluigi Benini

Diario in pubblico /
Michela Murgia: tra parole e realtà 

Michela Murgia: tra parole e realtà 

È una questione assai complessa quella che riguarda la decisione della scrittrice Michela Murgia affidata ad una intervista ad Aldo Cazzullo apparsa sul Corriere della Sera del 6 maggio 2023: “Mi restano mesi. E adesso mi sposo così potrò decidere il mio futuro”. Il terribile dilemma che espone con una franchezza totale, che può essere condivisa o rifiutata, riporta il discorso al MALE quello che non si osa pronunciare e che ancora nella vita comune si evita di esplicitare: cancro.

Ho conosciuto in tempi lontani Michela Murgia, alla quale fu attribuito il premio Dessì, e ne ho riportato un’ottima impressione proprio a causa di una intelligenza che non si nasconde sotto gli orpelli (spesso necessari) di chi esercita, come direbbe Pavese, il mestiere di scrittore. I suoi romanzi non mi hanno entusiasmato, ma nemmeno deluso. Insomma, una pedina vincente nell’intricato gioco degli scacchi della scrittura.

Giudicare o in questo caso porsi dalla parte o meno delle sue decisioni non mi sembra debba essere il senso del problema, quanto invece diventa fondamentale “sdoganare” la parola proibita, consegnarla alla realtà, non averne paura ma, anzi, accettandola, non renderla destino o più classicamente fato.

Esaminando le dichiarazioni di chi si pone a fianco della decisione di Murgia, assumono un’importanza straordinaria quelle di due ‘persone pubbliche’ assai presenti nello scambio culturale odierno: Paolo Crepet e Dacia Maraini.

Di Crepet, psichiatra, vorrei sottolineare un passaggio del suo intervento:

“Le parole di Michela Murgia sono laiche, rivoluzionarie. Così rappresenta e fa parlare i morituri, a cui non si dà una voce. Abbiamo raccontato storie strane e assurde ai nostri bambini sulla morte dei nonni, così il momento della fine per cultura, per tradizione, deve restare velato. Lei ha tolto il velo al patibolo. E lo ha fatto parlando di sé stessa e per farlo ci vuole coraggio.”

A sua volta Dacia Maraini, a cui mi lega una lunghissima amicizia che si perde nella giovinezza passata sulle colline di Bellosguardo a Firenze, commenta:

” Sono d’accordo con Paolo Crepet che sulla Stampa ha chiamato rivoluzionarie le parole di Michela. Tante volte l’ho scritto anch’io: creare come centro e punto di riferimento della rivoluzione cristiana un uomo morente in croce, non ha fatto bene alla nostra cultura. Non parlo dell’oggi, tempo di post illuminismo, ma dei lunghi secoli di totalitarismo religioso in cui si è insistito sulla morte dolorosa come l’unico atto sacro della esistenza umana. Non a caso i mistici ma soprattutto le mistiche, per dimostrare il proprio amore per Gesù, si imponevano di morire di fame. La morte come espiazione di una vita comunque colpevole è stata per troppo tempo la base di un pensiero condiviso.”

Dell’affermazione mi preme commentare il periodo posto in neretto.

Mi è lecito ora riallacciarmi alla mia esperienza individuale e familiare su ciò che un tempo era chiamato “male incurabile” e come sono riuscito a superare attraverso (lo ammetto) l’esperienza e il metodo impostomi dalla cultura il divieto, la proibizione il “non detto”.

La morte di mia madre rivelò che nella famiglia poteva geneticamente insediarsi il ‘ brutto male’ e la risposta dopo pochi anni la ebbi quando anch’io ne fui colpito e, assistito dalla schiera di valorosi medici-amici, cominciai dopo l’operazione a chiarificare e chiarificarmi come potevo sulla mia lotta-accettazione del male.

Le sedute divennero possibilità di scambio, fino a interrogarmi con una punta di stupore come era straordinaria la sanità pubblica italiana che mi offriva un medicinale dai costi proibitivi per i privati totalmente gratuito, a differenza di altri sistemi sanitari europei e americani e come fosse necessario difenderla e sostenerla. Allora mi fu chiaro che dire “cancro” non significava più sottomettersi al fato, ma prenderne coscienza e da parola renderlo realtà.

Condivido dunque la decisione di Murgia, anche se non la seguo sulla sua individuale e privata “queer family”, così come la difesa di una sinistra che le fa pronunciare la frase forse più sbagliata di tutte, quella cioè che vorrebbe lasciare il mondo “quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio”, che ha dato alla presidente un’ottima occasione di mandarle messaggi di conforto e nello stesso tempo di rassicurarla che non ci sarà alcuna imminenza nel trapasso della scrittrice, in quanto il governo meloniano durerà molto a lungo!

Penso dunque che compito fondamentale della Murgia sia quello di scrivere. Non importa per quanto, ma scrivere la salverà dalla dimenticanza e dalla soggezione al cancro.

Qualunque commento sulla possibilità che l’intervista sia stata concessa per pubblicizzare il suo ultimo romanzo, Tre ciotole, è così miserabile che solo dei seguaci della infelicità mentale possono avanzarla.

Cover: Michela Murgia su licenza di Wikimedia commons

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui] 

“PAROLE OLTRE LO SGUARDO”
Ferrara, dal 12 al 19 maggio la mostra foto-poetica di Ultimo Rosso: dalle 21 in poi al circolo Arci Bolognesi

“Parole oltre lo sguardo” è una mostra fotografico-poetica nata dalla collaborazione dell’Associazione Culturale Ultimo Rosso con il gruppo informale di fotografia dei Norsisti che coinvolge poeti e fotografi attivi nelle varie città e località della Regione.

L’arte della fotografia incontra la poesia, questo è il filo conduttore dell’iniziativa. Parole e immagini sono sempre state unite, le une incontrano le altre in sottili e intense corrispondenze. Dai primi libri miniati in poi le parole e le immagini sono state legate le une alle altre con rimandi iconici e comunicativi. Il concept del progetto nasce per invitare lo spettatore a riflettere sulle tematiche affrontate nelle varie poesie e fotografie, riscoprendo di volta in volta il legame non soltanto denotativo ma anche connotativo che lega le due arti e lasciandosi sorprendere dalla loro potenza evocativa.

La mostra non prevede un soggetto unico per l’ispirazione, ma ogni partecipante darà un contributo creativo libero e in maniera estemporanea, seguendo solo la propria ispirazione. Ogni poeta proporrà dei versi che verranno interpretati da uno scatto fotografico. A loro volta, le fotografie saranno “tradotte in versi”.
Questo lavoro di scambio, cui hanno aderito una quarantina di artisti, verrà presentato in anteprima a Ferrara, presso il grande spazio messo a disposizione dal Circolo Arci Bolognesi, in piazzetta San Nicolò nel centro storico di Ferrara.

La mostra verrà allestita su 16 grate espositive dove troveranno posto le immagini con le poesie corrispondenti e sarà visitabile per una settimana, dal giorno 12 al 19 di maggio dalle ore 21.00 alle 24.00. Nelle serate di apertura l’Associazione Ultimo Rosso organizzerà reading poetici e verranno presentati dei libri di poesia degli autori partecipanti. Durante il reading di chiusura della manifestazione, venerdì 19 maggio, interverranno alcuni musicisti per accompagnare le letture.

 

Scatti dell’allestimento della mostra

 

 

 

 

 

 

 

 

Storie in pellicola /
Brado: western ed esistenzialismo

Padri e figli, eterno conflitto

Girato nella campagna laziale, candidato al David di Donatello 2023 come miglior sceneggiatura non originale, Brado, di Kim Rossi Stuart, mette in scena il forte contrasto padre-figlio, in un universo dominato dalla natura, dalla libertà e dalla ribellione.

Un padre indomabile (Renato-Kim Rossi Stuart) come i suoi cavalli e un figlio, Tommaso (Saul Nanni) non si parlano da tempo. Il primo, scorbutico e sognatore, vive, isolato da tutti, in un ranch, Brado, dove gestisce una scuola di equitazione rustica e sgangherata. In quel luogo Tommaso è cresciuto, insieme alla sorella Viola (Sofia Betti), ma entrambi se ne sono poi allontanati.

Il soprannome dato al ranch potrebbe essere tranquillamente quello di Renato. Anche la moglie Stefania (Barbora Bobulova) ha lasciato la famiglia e quel marito testardo ha cresciuto i due figli con l’intento di farli diventare “più forti di lui”. Ora Tommaso viene richiamato al ranch per aiutare il padre, che ha subito alcune fratture, a domare un “cavallo matto” che Renato, arrabbiato con il mondo, considera il suo veicolo di riscatto. Ma per il figlio quel cavallo è solo un’altra delle scommesse perse in partenza da quel genitore burbero e dispotico.

I due si ritrovano per addestrare un cavallo bizzoso e recalcitrante e portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo stesso tempo provano a sciogliere la rabbia, l’ostilità e il rancore che avevano impedito loro per tanto tempo di essere vicini.

È un difficile percorso a ostacoli quello che deve compiere il cavallo, ma anche quello che padre e figlio devono affrontare per ricostruire l’amore e la vicinanza perduti.

Molti passaggi degni di western alla Clint Eastwood riportano a protagonisti che vivono la vita come una sfida continua, da guerrieri indomiti dove ogni rapporto umano è un duello.

La ricerca continua di un’identità, soprattutto per il figlio, porta a scelte drastiche e a confronti che mettono di fronte a dubbi, interrogativi e spesso, a ben poche risposte.

Un film che getta addosso, con impeto, tutti i sentimenti, tutto quello che si prova, che si vorrebbe dire e che non si dice. Ma che, alla fine, va detto.

Qualche tono cupo e scuro, colori che ricordano i temporali di fine estate, ma anche tramonti crepuscolari e romantici e la fotografia di Matteo Cocco contribuiscono a concretizzare, attraverso immagini contrastanti, la visione del regista. A sostenere la narrazione le musiche di Andrea Guerra.

Segni del tempo, quello passato e quello che passa, quello che si cerca di recuperare. Alla ricerca di sé stessi, lontani ma vicini.

Cavalli selvaggi, regista e attore, che non sopportano le imposizioni, da sempre.

 

Brado, di Kim Rossi Stuart, con Kim Rossi Stuart, Barbora Bobulova, Saul Nanni, Sofia Betti, Federica Pocaterra, Alma Noce, Paola Lavini, Rinat Khismatouline, Alida Calabria, Achille Marciano, Italia 2022, 116 mn.

 

 

Backstage

Gruppo e Comunità (1) /
Chi ben comincia…

Eravamo tutti lì per lo stesso motivo. Almeno ci sembrava: rendere la nostra comunità più coesa, più democratica, partecipata ed eco-sostenibile. E così abbiamo iniziato a riunirci in gruppo.

Le prime volte eravamo una decina. Giorno dopo giorno hanno iniziato ad aggregarsi sempre più persone… Sembrava contagioso.

Si respirava un che di elettrizzante: ci sentivamo “carichi”, pieni di entusiasmo e voglia di fare, motivati, impegnati. Il nostro tempo sembrava finalmente assumere un senso più corposo, più elevato, più esteso, come i cerchi concentrici che si formano quando si lancia un sasso in un fiume. Parte di qualcosa di più grande. Una tribù.

Le prime riunioni le ricordo per la particolare gentilezza che caratterizzava gli scambi, i sorrisi, le risate, le premure… Sguardi carezzevoli e benevoli. Sembrava di essere stati rapiti da un generale innamoramento collettivo. Le differenti idee che delineavano a volte diverse visioni non sembravano costituire un problema.
Vi era molta apertura e ascolto. Dialogo. Spesso dopo le riunioni ci si fermava a bere una birra o a fare due chiacchiere. Sono nate simpatie, amicizie a anche amori.

Durante le riunioni parecchie persone intervenivano e tante erano le proposte, talmente tante che leggendo i verbali, si potevano rintracciare dei veri e propri elenchi puntati:
1. creare un comitato di quartiere, con il compito di curare e tutelare le aree verdi, mantenerle pulite dai rifiuti
2. piantumare delle forest food
3. tenere ampie zone incolte per favorire gli impollinatori
4. flash mob itineranti nei quartieri, con volantini in ogni buchetta in cui spiegare i nostri progetti e cercare nuove idee dai cittadini
5. organizzare eventi settimanali di socializzazione: ognuno porta qualcosa, per condividere, così, per stare insieme in leggerezza, non si può parlare sempre di cose pesanti insomma, poi la gente si stanca e non partecipa più.

6, 7, 8, 9, 10…
La volta successiva si era capaci di iniziare tutto daccapo, con lo stesso entusiasmo e completamente resettando quanto detto le volte prima. Come se ci fosse una sorta di amnesia collettiva e fosse sempre tutto nuovo!

La lista delle proposte e delle cose da fare si allungava, riunione dopo riunione. Si passava il tempo a dibattere su quello che si sarebbe potuto fare. Hanno iniziato le prime discussioni animate e le prime defezioni.

Qualcuno ha iniziato ad invocare un metodo. Qui bisogna darsi delle priorità! Metodo, ci vuole metodo!
Ma cosa vuole dire darsi un metodo? Boh… I più non ne avevano idea o ne avevano una idea approssimativa.
Darsi delle regole forse. Ma no ma no, le regole rovinano la spontaneità. Chissenefrega del metodo. E poi non c’è tempo. Contenuti, stiamo sui contenuti.

Al contempo, o su mandato dell’assemblea o spontaneamente, qualche gruppetto si attivava autonomamente per provare a dare gambe ad uno dei programmi. Ma il problema è che, mentre era facile fare gli elenchi puntati, pareva più complicato intendersi sul perché era importante fare quello e non quell’altro e ancora più difficile concretizzare.

Uno dei primi problemi da affrontare era il tempo. Ce ne voleva davvero tanto tanto per attuare le proposte! E come era difficile mantenere tutto insieme, all’interno di un sistema e possibilmente di una direzione. Pareva più che altro di procedere a zig zag o come i gamberi, che fanno un passo indietro per farne due avanti. Ma forse qui se ne faceva uno avanti e due indietro. Un po’ un caos.

E qui iniziò forse la prima divisione: tra chi aveva più e meno tempo. Chi ne aveva di più era presente molte più volte e spesso chi era più presente finiva per avere più influenza e ad essere circondato da una sorta di timore reverenziale. Chi partecipava di meno, si sentiva un po’ intimidito, entrava alle riunioni con meno scioltezza di un tempo, quasi entrando in punta di piedi chiedendo permesso.

Ma perché? Qui non ci sono capi. Semmai coordinatori, portavoce… Eppure pareva proprio che qualche capo o capa, o a qualcuno piaceva più dire leader, ci fosse.

Dopo un po’ di tempo, oltre alle discussioni accese iniziarono le lamentele, soprattutto nei corridoi… Le riunioni si fecero sempre più scarne di persone e di proposte. Persero di freschezza. Quei bei colori accesi sbiadivano mano a  mano.

E nei corridoi cresceva la zizzania. Ma perché il tale non partecipa più? Oh vedi che non era mica poi tanto motivato. C’è tanta gente che parla parla ma non conclude. I bla bla blaMeglio che si sia tolto dalle balle. Ma qualcuno ha provato a chiamarlo e chiedergli perché? Magari ci sono altri motivi. Sarebbe importante capire meglio.
Silenzio.

Insomma quello che inizialmente a molti era sembrato un sogno, nel giro di pochi mesi si è trasformato in un contenitore avvizzito, acido e puzzolente. Ma cosa era successo? Cos’era andato storto?

Lo vedremo, se vi va, nelle prossime puntate…

 

“L’intelligenza non è non commettere errori, ma scoprire il modo di trarne profitto”
B. Brecht

Eirenefest: Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza. Roma, quartiere San Lorenzo, 26-28 maggio 2023

È stato pubblicato sul sito Eirenefest  il ricco programma che caratterizzerà la seconda edizione di Eirenefest, il Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza che si svolgerà nel quartiere romano di San Lorenzo dal 26 al 28 maggio.

Il programma consiste in eventi gratuiti: dibattiti, tavole rotonde, proiezioni, laboratori spettacoli e un programma per le bambine e i bambini e le scuole che si svolgerà presso la Biblioteca Tullio de Mauro e i suoi giardini di Villa Mercede.

Il festival verrà inaugurato Venerdì 26 Maggio alle 9.00 presso la Biblioteca Tullio de Mauro e si chiuderà Domenica 28 Maggio alle 18.00, ai Giardini del Verano con L’obbedienza non è più una virtù: l’insegnamento di Don Lorenzo Milani a 100 anni dalla nascita.

Il programma è frutto di un lavoro collettivo realizzato interamente da volontari che ha coinvolto il comitato promotore, le realtà editoriali e le associazioni aderenti ed anche singole persone in una costruzione nonviolenta, solidale e collaborativa, a dimostrazione che un altro mondo è possibile.

Gli stand delle realtà editoriali saranno ai Giardini del Verano; le tavole rotonde e presentazioni di libri si svolgeranno ai Giardini del Verano, alla Biblioteca Tullio De Mauro, alla Casa Umanista, alla Libreria Antigone e presso l’Associazione AMKA; le proiezioni presso la sala ENGIM; i laboratori alla Galleria delle Arti, le attività dedicate ai bambini ai giardini di Villa Mercede (esterno della Biblioteca Tullio de Mauro).

Ai Giardini del Verano, per tutto il periodo del festival sarà presente l’installazione Manifesti amo la Pace, video-proiezione di manifesti con storie vissute di pace e nonviolenza, a cura del Centro di Documentazione del Manifesto Pacifista Internazionale (CDMPI); sarà possibile scambiarsi libri presso lo Scaffale della Nonviolenza installato a cura della Comunità per lo Sviluppo Umano e del Comitato promotore del festival.

Tutte le info, l’iscrizione gratuita per restare informati e per dare eventualmente una mano durante il festival sono sul sito ufficiale del festival: www.eirenefest.it. Se pensate di ospitare qualcuno dei partecipanti al festival o di condividere il viaggio e per qualunque altra informazione scrivete a info@eirenefest.it.

Il festival ha un canale Instagram, un canale Telegram e una pagina Facebook che si possono trovare con la chiave di ricerca Eirenefest