Così si direbbe, leggendo le agenzie e i media mainstream. ADNKronos, ad esempio, ha riportato così le parole pronunciate da Blinken in una conferenza stampa a Brisbane (Australia): “L’estradizione di Julian Assange è necessaria… [perché egli] ha rischiato di causare un danno molto grave alla sicurezza nazionale” degli Stati Uniti.
Ma mettiamo quelle parole nel loro contesto. Sono, in realtà, meno perentorie di quanto possono sembrare. Blinken ha affermato che le rivelazioni scottanti di crimini di guerra USA in Iraq e in Afghanistan, fatte dal co-fondatore di WikiLeaks in base a documenti secretati, avrebbero “rischiato” di causare danni alla sicurezza nazionale. Notate che non ha detto “hanno causato,” bensì “hanno rischiato di causare.”
Ciò rappresenta un netto arretramento rispetto alle accuse iniziali contro Assange, secondo le quali il giornalista/editore australiano, con le sue rivelazioni “irresponsabili”, avrebbe effettivamente danneggiato la sicurezza nazionale e inoltre causato le perdita di vite umane. Leggete a questo proposito l’articolo di Giulia Calvani apparso il 30 luglio sul sito di Free Assange Italia: riporta sia le accuse originali contro Julian Assange, sia la successiva negazione di quelle accuse o il loro ridimensionamento sostanziale. Blinken, dunque, nel parlare di “rischio” e non di “danni reali”, non fa che riconfermare questo ridimensionamento.
Come? Gli USA pretenderebbero di imprigionare Julian Assange a vita in una cella di isolamento, non per aver effettivamente commesso un crimine, ma soltanto per aver fatto correre un rischio? Ergastolo per un rischio, peraltro soltanto ipotetico? Sarebbe questo lo Stato di Diritto?
A questo proposito, l’associazione degli ex-combattenti USA ha rilasciato un documento che afferma che gli unici ad aver messo davvero a rischio vite umane irresponsabilmente sono stati coloro che hanno mentito per trascinare gli USA e i loro alleati in guerre sanguinose ingiustificate. Proprio la posizione di Julian Assange.
Bisogna contestualizzare la dichiarazione di Blinken anche rispetto alle circostanze in cui è stata fatta. Blinken aveva accanto a sé sul podio Lloyd Austin, Segretario della Difesa ed ex componente del Consiglio di Amministrazione di una delle più grandi industrie di armamenti statunitensi, la Raytheon; Austin era andato con Blinken in Australia per vendere impianti missilistici e per rinforzare la presenza del Pentagono – cioè, per trasformare l’intero continente australe in “una gigantesca base militare con canguri”, per riprendere l’immagine della giornalista australiana Caitlin Johnstone. Così, avendo il falco Austin alla sua sinistra, Blinken doveva parlare del caso Assange usando toni da falco.
Ma per contestualizzare bene la dichiarazione di Blinken, bisogna anche tener conto di chi aveva alla sua destra, ovvero la Ministra australiana degli Affari Esteri Penny Wong. Da tempo, il governo guidato dal Premier Antonio Albanese, che Wong rappresenta, viene ferocemente criticato dai membri del suo stesso partito nonché dalle opposizioni per non aver fatto nulla per salvare un concittadino ingiustamente incarcerato (Assange è nato e cresciuto in Australia). Quindi Albanese aveva bisogno di una dichiarazione di Blinken che attestasse che invece egli aveva realmente perorato la causa di Julian presso le autorità statunitensi – seppure dietro le quinte, invisibilmente, “come vuole la diplomazia”. E Blinken l’ha accontentato sabato scorso affermando che, effettivamente, il governo Albanese aveva già sollevato con Washington le preoccupazioni degli australiani per Assange, aggiungendo poi che anche gli Stati Uniti hanno le loro “preoccupazioni” riguardanti i rischi alla sicurezza nazionale che Assange avrebbe provocato. Le parole di Blinken sono dunque da intendere come un salvagente lanciato ad Albanese per fini elettorali interni. Blinken non poteva non dirle.
La dichiarazione del 29 luglio sulla determinazione degli USA a estradare Assange quasi svanisce nel nulla se la contestualizziamo sul piano temporale. Il 28 luglio era l’ultimo giorno utile, prima delle vacanze giudiziarie, per consentire all’Alta Corte londinese di rigettare l’ultimo ricorso di Assange e alla polizia giudiziaria di spedirlo, seduta stante, negli Stati Uniti. (Infatti, l’ordine di estradizione risulta già firmato; l’ha fatto l’allora Ministra degli Interni Priti Patel un anno fa, il 17 giugno 2022).
La matematica non è un’opinione. Tra la richiesta di ricorrere in appello contro la sentenza del Giudice Swift del 6 giugno e l’inizio delle vacanze giudiziarie di agosto corrono ben 55 giorni in cui Assange avrebbe potuto essere estradato: bastava che l’Alta Corte si pronunciasse rigettando di quella richiesta. Ma durante quei 55 giorni, la Corte non si è pronunciata e il Regno Unito (e gli Stati Uniti) non sembrano aver fatto nulla per sollecitarla a farlo. La contraddizione è stridente. Da una parte, si dichiara di volere davvero l’estradizione di Assange ma poi, nella pratica, non si fa il necessario per ottenerla il primo possibile.
E’ lecito ipotizzare perciò che, in realtà, gli USA non vogliono quella estradizione, perlomeno non ora. E’ già cominciata campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2024 e il Presidente Biden, che corre nuovamente, sarebbe ostacolato da un’estradizione e da un processo impopolari. Addirittura, si vocifera a Washington che fosse andato su tutte le furie quando ha saputo della sentenza del Giudice Swift, che avvicinava il momento dell’estradizione.
Ma allora cosa vogliono davvero gli Stati Uniti?
I cinici diranno che probabilmente il loro Piano A era semplicemente lasciar morire Julian Assange in prigione a Londra, in attesa di essere estradato, per via della sua salute fragile oppure, colto da una depressione, per suicidio. Ed effettivamente, nei primi due anni della sua incarcerazione in un buco nero di due metri per tre, 23 ore su 24, Julian mostrava gravi segni di una salute – anche mentale – in deterioramento.
Ma poi, inaspettatamente, negli ultimi due anni è venuta alla riscossa l’opinione pubblica mondiale, grazie all’infaticabile lavoro della moglie Stella Moris e del padre John Shipton, che stanno girando il mondo intero per perorare la causa di Julian. (In Italia il silenzio stampa sul caso Assange è stato rotto dal libro “Potere Segreto” della giornalista investigativa Stefania Maurizi, il 26 agosto 2021, e dalla puntata su Assange di “Presa Diretta” di Riccardo Iacona quattro giorni dopo.) Rincuorato dalle notizie dell’appoggio massiccio in tutto il mondo che la moglie gli raccontava durante le ore di visita, Julian ha cominciato a riprendere speranza e vitalità. Così ha raccontato Stella in una recente apparizione a Roma alla Facoltà di Scienze Politiche.
L’ipotetico Piano A, ovvero l’(auto)eliminazione fisica di Julian Assange, è dunque fallito. Diciamo “ipotetico” perché non abbiamo le prove che esista; tuttavia, sappiamo, grazie ad alcuni ex agenti della CIA diventati whistleblower, di un piano realmente esistente della CIA per assassinare Assange mentre era rifugiato nell’Ambasciata Ecuadoriana. Il piano è stato poi accantonato a favore della persecuzione giuridica.
Niente Piano A, dunque.
Ma anche niente Piano B, ovvero la persecuzione giudiziaria. Infatti, l’estradizione negli USA è diventata meno desiderabile in quanto il caso è diventato ormai troppo scottante, soprattutto in periodo elettorale.
Rimane dunque, agli Stati Uniti, soltanto un (sempre ipotetico) Piano C: la trattativa.
E’ evidente che né gli Stati Uniti né il Regno Unito possono accettare che Julian Assange sia libero e che riattivi il sito WikiLeaks, facendo ogni giorno nuove rivelazioni sui loro misfatti grazie alle soffiate delle tante talpe statunitensi e britanniche che non esiterebbero a denunciare quei misfatti se fosse offerto loro l’anonimato inviolabile che solo il sito WikiLeaks garantisce. Come farla finita, allora, con l’incarcerazione di Assange, senza esporsi nel contempo a nuove rivelazioni?
La soluzione potrebbe stare nel trattare con Assange per offrirgli la libertà in cambio di una rinuncia a riattivare il sito WikiLeaks.
Immaginiamo questa ipotetica offerta a Julian: l’esilio in una fattoria isolata dell’Australia, insieme a Stella e ai bambini, ma senza Internet, quindi senza la possibilità di “fare danni” (dal punto di vista USA/UK). Sarebbe come mandarlo al confino, ma con la famiglia e in condizioni confortevoli. A Stella Assange, durante la sua conferenza presso il Club della Stampa di Ginevra il 10 luglio scorso, è stato chiesto cosa pensasse di una soluzione del genere. Per la sua risposta, vedi il videoclip in inglese o la trascrizione e traduzione in italiano.
In sostanza, Stella ha risposto che Julian non ha bisogno di riattivare WikiLeaks per dimostrare la sua validità come strumento di informazione indipendente e che, per il momento, la cosa più importante è consentirgli di riprendere una vita normale.
Premesso ciò, la ipotetica trattativa potrebbe anche includere un patteggiamento, ovvero una riduzione della pena detentiva in cambio di un’ammissione di colpa per un reato minore oppure, nel caso di un patteggiamento Alford, dell’accettazione di una pena ridotta senza ammissione della propria colpa. In questo contesto, il richiamo di Blinken il 29 luglio potrebbe costituire un mezzo di pressione su Julian per fargli firmare l’ipotetico patteggiamento offertogli. Come se Blinken gli dicesse: “Firma, altrimenti sarà l’estradizione e subito. Noi non indietreggeremo mai su questo punto!”
Parlare di patteggiamenti fa ribrezzo ai sostenitori di Julian Assange, riconosce il parlamentare australiano Julian Hill, anche lui un sostenitore, ma aperto ai compromessi. Sembrano preferire vederlo “soffrire come martire”, aggiunge Hill, piuttosto che scendere a qualche compromesso per riavere la libertà. “Non sono a conoscenza di negoziati in corso,” conclude il parlamentare, “ma francamente so che noi parlamentari gli staremmo a fianco fino in fondo per trovare un patteggiamento, se è quello che sceglie di fare”.
Invece gli attivisti del gruppo “Perugia per Assange,” che hanno manifestato per Julian durante il recente Festival Internazionale del Giornalismo tenutosi nel capoluogo umbro, hanno un’opinione diversa. “L’esigenza di libertà assoluta per Julian Assange – compresa la possibilità di riattivare il sito WikiLeaks – a noi non sembra una velleità; è essenziale perché ci sia un’informazione veramente indipendente”. E aggiungono: “Non è sufficiente avere una cosiddetta ‘stampa libera’ mainstream. A parte le poche testate autofinanziate, i mass media mainstream in Italia sono quasi interamente controllati da quattro famiglie miliardarie – Agnelli, Berlusconi, Cairo, Caltagirone – che possono benissimo mettersi d’accordo con il potere per scegliere le informazioni da rivelare o no al pubblico. Ci vuole invece un organo davvero libero e non inquadrato – com’è stato WikiLeaks sotto la guida di Julian Assange – per difendere il nostro diritto di sapere.
La persecuzione di Julian Assange va oltre, dunque, la pur drammatica vicenda di un giornalista ed editore coraggioso che ha osato dire la verità in faccia al potere. E’ una spia che rivela il tentativo del potere di sopprimere qualsiasi organo di stampa non omologato o controllato. E questo fa davvero riflettere sul livello di democraticità dello Stato in cui viviamo.
Alla luce di tutte queste considerazioni, le parole proferite dal Segretario di Stato Blinken in Australia appaiono davvero ipocrite. Le sue accuse nei confronti del co-fondatore di WikiLeaks risultano facilmente smontabili, come abbiamo visto. E il suo insistere sull’estradizione di Julian Assange, contestualizzato e ridimensionato come abbiamo fatto, suona tutt’altro che roboante. Non è un ruggito, è uno squittio – amplificato a dismisura dai media internazionali, certo – ma pur sempre uno squittio.