Adulto è colui che è cresciuto, si è fatto una cultura, o, per lo meno, una visione del mondo, e attraverso questa procede ad interpretare la propria vita e quella degli altri.
Ogni disturbo ai propri costrutti mentali è una rottura di equilibrio e poiché i corpi viventi tendono all’omeostasi, tutte le volte gli sforzi sono volti a ristabilire gli equilibri messi in pericolo.
Di solito è una buona dose di passato, immagazzinato come scorta delle proprie certezze, che aiuta in questa operazione di recupero dell’omeostasi tra il sé e il fuori di sé. Il nuovo non si può accumulare, figuriamoci poi il futuro che non c’è. Per cui tutto ciò che non appartiene a quanto è già stato consolidato (si potrebbe chiamare tradizione) viene vissuto con diffidenza.
Un giovane che cresce, e dunque non si può prevedere come si manifesterà, è uno dei tanti disturbi di fronte ai quali si possono trovare gli adulti, con il rischio di vedere messo in pericolo il proprio equilibrio con sé stessi e il mondo circostante.
La natura ha fornito i mammiferi, tra questi i primati come l’uomo, d’un sistema di difesa che consiste nell’addestramento dei nuovi nati, giusto perché l’equilibrio raggiunto in millenni di evoluzione non venga di volta in volta minacciato.
Gli uomini hanno definito questo processo “educazione” e con il tempo si sono costruiti luoghi e prassi a questo specificamente dedicati.
E poiché è esclusivo degli umani adulti avere ciascuno la sua versione del mondo, ne deriva che anche le idee sull’educazione sono molteplici, alcune assurte a sistemi filosofici, altre a visioni trascendentali della vita con la pretesa di conformare ai loro télos le nuove generazioni in modo da garantire stabilità e continuità alle comunità sociali.
È successo chele comunità sociali cambiassero più rapidamente di quanto se ne potessero avvedere gli adulti, sempre più dipendenti dal passato per poter superare il susseguirsi di nuove crisi, di rotture di equilibrio e di conseguenti sforzi per tornare all’omeostasi.
Cambiamenti e tempi di recupero andavano sempre più assumendo velocità discordanti: le trasformazioni avanzavano e le crisi degli adulti crescevano, non riuscendo più a ricostruire coerenti visioni del mondo, costretti ad assistere al venire meno degli dei e delle ideologie.
Ecco che l’educazione non poteva più funzionare, perché non c’era più una visione del mondo a cui conformare le nuove generazioni, non c’erano più certezze su cui fondare le proprie condotte di adulti e la relazione con le nuove generazioni da educare.
Era successo che i rapidi sviluppi della scienza, delle tecnologie, le ricerche e i saperi avevano preso il sopravvento, rendendo sempre più obsoleta l’educazione e sempre più urgente e necessaria l’istruzione. La necessità cioè di attrezzare se stessi e i giovani ad affrontare le dinamiche di un’esistenza in continuo divenire, portatrice di sempre nuovi problemi e di sfide inaspettate.
Eravamo stati moderni, incantati dalla nostra modernità a cui avevamo affidato il nostro equilibrio perfetto, e non ci siamo accorti, o non abbiamo voluto accorgerci, che al posto della modernità ora c’era la postmodernità e noi c’eravamo dentro.
Intanto il sapere cambiava di statuto, come ha scritto François Lyotard: “l’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più di senso”.
Cade l’educazione come principio, cadono le sue istituzioni: la famiglia e la scuola. È la morte dell’educazione, è la morte dei principi su cui poggia il nostro sistema scolastico, è la morte di chi ancora ritiene che il rapporto tra adulto e giovani debba fondarsi sull’educazione dei secondi e che, a questo scopo, siano necessarie comunità educanti.
Per Lyotard ciò che la postmodernità ha messo in crisi è il carattere principalmente narrativo del sapere, tanto da delegittimare i luoghi del suo racconto, della sua trasmissione. È un gran bene che le nuove generazioni siano naturalmente digitali, perché non è più la trasmissione che li collega ai saperi, ma la connessione in rete per avere accesso alle memorie e alle banche dati.
In Scienza con coscienza Edgar Morin scrive: “ Il vero progresso si verifica allorché la conoscenza prende coscienza dell’ignoranza che essa arreca: si tratta quindi di un’ignoranza cosciente di se stessi, e non della superba ignoranza dell’idealismo determinista che crede che un’equazione suprema gli permetta di illuminare l’universo o di dissipare il mistero”.
Abbiamo bisogno di laboratori di istruzione, di botteghe di istruzione, di luoghi dove ci si attrezza ad apprende, a conoscere, innanzitutto se stessi. Non di cattedre e di classi anagrafiche educanti.
Laboratori, perché conoscere significa negoziare, lavorare, discutere, battersi con l’incognito, che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione.
Allenarsi alla conoscenza, usarne gli strumenti, possederli anziché esserne sottomessi, sono le strade per attrezzare i giovani a gestire se stessi, esercitati fin da piccoli a misurarsi con le loro dinamiche, contraddizioni e aspirazioni, a costruire se stessi lontani da ogni tentativo di educarli per conformarli ad essere ciò che non sono e non saranno.
È necessario che gli adulti ritrovino se stessi e che gli adolescenti siano forniti dall’istruzione degli strumenti che portano al sapere e a disporre del potere del proprio cervello, per essere liberi di decidere e di scegliersi la propria ‘adultità’.
La nostra scuola soffre ancora di un orrendo retaggio che all’istruzione ha portato a privilegiare l’educazione, alla scienza la dottrina. Il Ministero dell’istruzione e del merito, per non smentire il passato, resta lì a piantonare questo retrogusto di sapore antico, riabilitando il valore formativo del merito e dell’umiliazione.
Il tema è semplice da definire, estremamente complesso da svolgere. Il sistema di istruzione pubblica del XX secolo non funziona più nel secolo XXI, nel secolo della postmodernità. La sua organizzazione e i suoi archetipi non reggono alle sfide che abbiamo di fronte.
L’ha scritto a chiare lettere l’UNESCO nel suo ultimo rapporto, occorre rinegoziare il contratto formativo, occorre un nuovo contratto sociale per l’istruzione che veda unire gli sforzi di tutti per fornire alle nuove generazioni le conoscenze e le innovazioni necessarie a plasmare un futuro sostenibile per tutti ancorato alla giustizia sociale, economica e ambientale.
Ci sono allora tre domande essenziali da porsi circa l’istruzione: Cosa dovremmo continuare a fare? Cosa dovremmo abbandonare? Cosa deve essere inventato di nuovo in modo creativo?
Ma, al momento, non mi sembra che ci sia qualcuno interessato a porsele, né a destra né a sinistra.
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Di Sisley
Sono le rose
Bianche
Dei prati
Celesti
Il volto
Più strambo
Degli attimi
Disciolti
In colori sospesi
Le nuvole di Sisley
Portano
Gli occhi
All’estremo
Limite
Della luce
Senza la gravità
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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In copertina: Alfred-Ssley, The-Meadow-at-Veneux-Nadon
C’è un’artista nella campagna inglese delNorth Yorkshire che intreccia rami. Amore per la natura e fantasia, in un luogo degno di una fiaba.
Il salice inglese prende vita e forma, intessuto e intrecciato come un ricamo, illumina le foglie verdi delle foreste con incredibili sculture all’aperto che ricordano il mondo delle fiabe.
Sono le creazioni della scultrice britannica Anna & The Willow che traspone i suoi schizzi abilmente disegnati a mano su telai di acciaio fatti su misura ai quali poi intreccia rami di salice. Con sorprendente leggerezza e abilità. Bellezza pura.
Le forme sembrano nascere nella foresta, immesse in essa paiono nate e cresciute proprio lì, con radici che dalla terra marrone svettano verso il cielo azzurro. Libere.
L’arte antica dell’intreccio del vimini è una delle più diffuse nella storia della civilizzazione umana. Il processo coinvolge la tessitura flessibile, vari materiali naturali sono uniti insieme per generare un’ampia varietà di forme.
Anna ha dato un tocco personale contemporaneo a questa tecnica senza tempo, creando incredibili sculture ispirate alla natura realizzate con asticelle di salice inglese.
Nata a Ripon, nella campagna del North Yorkshire, la scultrice ha studiato zoologia all’Università di Manchester ma non ha mai rinunciato alla sua fantasia e alla sua arte. Più di dieci anni fa, dopo un corso di un fine settimana di scultura, ha iniziato a plasmare i rami di salice. Lavorare con un materiale naturale le ha aperto un mondo nuovo, portandola a continuare ad apprendere le diverse tecniche di vimini, unendo a quelle tradizionali il proprio spirito creativo e la propria immaginazione.
Una bellissima scultura figurativa intitolata la Cacciatrice del Castello di Skipton Woods, raffigura una donna che tira una freccia da un arco. Collocato in ambiente boschivo dove poter camminare, il pezzo sembra cresciuto dal manto della foresta e prendere vita per sparare la sua freccia in ogni momento.
Ma Anna ha scolpito anche altre opere di animali a grandezza naturale, tra cui un cervo e un cavallo, che appaiono entrambi come se stessero esaminando il paesaggio che li circonda, quasi congelato nel tempo. Natura nella natura. Immagini che parlano da sole.
I ministri dell’interno di Libia e Tunisia si sono accordati a risolvere la questione dei migranti deportati dalla polizia tunisina al valico di confine di Ben Gardane.
I circa 300 migranti abbandonati in mezzo al deserto, senza cibo e senza acqua, saranno divisi in due gruppi e ciascun paese si assumerà la responsabilità di assisterli. Secondo la stampa tunisina 76 uomini, 42 donne e 8 bambini saranno presi a carico della Tunisia; circa 150 migranti entreranno in Libia e saranno reclusi nei centri di detenzione per migranti senza permesso di soggiorno.
Questa vergognosa vicenda è nata a Sfax, dopo l’uccisione di un tunisino per mano di tre camerunesi durante una rissa. La polizia tunisina ha deportato circa 2000 migranti sub sahariani al confine di Libia e Algeria, senza nessun tipo di assistenza. Alcuni di loro hanno tentato attraversare il confine per entrare in Libia clandestinamente, ma almeno 21 di loro hanno incontrato la morte per sete e per le temperature altissime che avevano raggiunto i 50°C.
Dopo le critiche di ONG umanitarie tunisine e organizzazioni dell’ONU, il governo tunisino ha ricollocato una parte dei migranti deportati in centri di accoglienza, ma un gruppo è rimasto escluso nella terra di nessuno tra i due posti di controllo del valico. Questo risultato di una soluzione condivisa tra i due governi è stato ottenuto grazie anche alla copertura mediatica, con servizi e interviste in video, da parte della stampa araba e mondiale.
Un’onta che rimarrà negli annali delle atrocità di questi due governi.
ANBAMED
Notizie dal Sud Est del Mediterraneo
In copertina: migranti deportati nel deserto (foto Nigrizia)
Per chi è profano del nuoto sincronizzato e vuole comprendere l’autentica dimensione dell’ impresa sportiva di Filippo Pelati, 16 anni, da Copparo, consiglio di evitare i siti generalisti e dare un’occhiataqui:
worldaquatics.com– sarà per il dettaglio delle varie competizioni, per la quantità di giovani atleti del mondo con cui ha gareggiato, sarà grazie all’inglese che, per una volta, rende bene l’idea di quello che Filippo fa: artistic swimming – ha restituito, almeno a me, la reale grandezza del suo livello. Ai Mondiali di Oviedo, Filippo Pelati ha conquistato la medaglia d’oro nell’individuale maschile di nuoto sincronizzato.
Sfido il patetico che si infila sempre tra le pieghe del patriottismo di paese, con il quale ci appropriamo dei trofei altrui invocando la comunità di nascita. Lo sfido perchè non posso lasciarmi sfuggire l’occasione di fargli qualche domanda. Alla fine, diamine, non capita tutti i giorni di avere un campione del mondo di sedici anni che viene da Copparo.
P:Ti ricordi quando hai iniziato con il sincro e quando ti sei reso conto che era la
cosa che volevi veramente fare? FP: Ho iniziato a praticare il nuoto artistico all’età di otto anni, per puro piacere e divertimento. Ho sempre praticato danza e nuoto e il nuoto sincronizzato era l’unione perfetta delle due cose. Mi sono reso conto che era la cosa che volevo fare veramente due anni fa, quando ho cambiato società sportiva e dal Centro Nuoto Copparo mi sono trasferito al CN Uisp Bologna. Poi l’anno scorso, grazie alle convocazioni in Nazionale Junior e Giovanile, ho trovato un punto di partenza e un motivo per impegnarmi a raggiungere obiettivi sempre maggiori.
P:E’ la prima volta che mi capita di leggere di una discriminazione “al contrario”, nel senso che il nuoto sincronizzato al maschile non è considerato quanto quello femminile. Questo pregiudizio è più marcato in Italia che in altri paesi, secondo la tua percezione? FP: Il nuoto sincronizzato è sempre stato uno sport prettamente femminile. Nella percezione comune è accomunato alla danza, ma anche nel pregiudizio. Fortunatamente i tempi sono cambiati, anche se ancora non totalmente, e gli uomini hanno cominciato a essere valutati anche solo come artisti individuali, oppure con l’introduzione del doppio misto. In realtà il panorama maschile in Italia è più ampio rispetto ad altri Paesi, però il pregiudizio è sempre dietro l’angolo. Specialmente sui social questa cosa si manifesta con commenti omofobi, o messaggi da parte di haters. Io sono giovane e ho notato che è proprio alla mia età che molti ragazzi si abbandonano ai commenti più feroci. Però è sempre a questa età che si comincia a costruire un proprio modo di pensare. Per fortuna ci sono anche molti che capiscono che, se uno sport è fatto con tutto l’impegno e l’amore, il genere non conta.
P: Il sincro maschile attualmente non è disciplina olimpica. Conti che alle Olimpiadi
del 2024 le cose possano cambiare? FP: Alle olimpiadi del 2024 il sincronizzato diventerà parzialmente maschile. Ciò avverrà con l’inserimento dell’uomo all’interno della competizione a squadre. Spero che nel 2028 a Los Angeles sia inserito il doppio misto come disciplina olimpica insieme al doppio femminile. Del resto le competizioni come il mondiale vedono gareggiare sia maschi che femmine, per cui non vedo per quale motivo un maschio non può prendere parte ai Giochi Olimpici.
P: Per alcuni nuotatori, anche molto forti, l’acqua non è un elemento così “naturale”. Se tu dovessi raccontare ad un alieno che cade sulla Terra in cosa consiste quello che fai, cosa gli diresti? Che balli? Che nuoti? Che ti piaceva ballare ma il tuo elemento “naturale” è l’acqua? FP: Se un alieno cadesse sulla Terra probabilmente gli direi che io sono acqua. Quando pratico il mio sport divento una cosa unica con l’elemento con cui entro in contatto, dai capelli alla punta dei piedi. L’acqua e l’energia del movimento scorrono inesorabili nel mio corpo insieme alla musica, al ritmo e all’adrenalina. Tutto questo insieme diventa una danza, che non è solo fisicità, ma celebrazione delle emozioni provate. Nel momento dell’esibizione queste cose si fondono insieme. La mia allenatrice mi ripete spesso la frase “qui ed ora”: è in quel momento che divento una cosa sola con l’acqua.
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Ap 12, 1).
In Giovanni, l’identità della donna misteriosa è oggetto di molteplici interpretazioni, rese ancor più varie dal riferimento numerico alle dodici stelle che le fanno da corona. Chi le interpreta come le dodici tribù d’Israele, vede nella donna l’antico popolo di Dio in cammino nel deserto. Altri, come il nuovo popolo di Dio, ovvero l’assemblea cristiana raccolta attorno ai dodici apostoli con Maria.
Del resto, “donna” è chiamata Maria nel vangelo di Giovanni, sia alle nozze di Cana, sia dal Figlio sotto la croce. Troviamo così corrispondenza, una vera evoluzione tra la madre di Gesù nel quarto Vangelo e quella nominata nel capitolo 12 dell’Apocalisse. La “madre di Gesù” detta “donna” enigmaticamente già in Gv 2,4 fa pensare pure alla Chiesa, della quale Maria, Gesù e i discepoli insieme (cfr. Gv 2,12), rappresentano la primizia.
Colui che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi la riveste del suo amore, come di un abito di sole. È la raffigurazione dell’alleanza piena e feconda; la luna sotto i suoi piedi è segno che la donna non è in balia del tempo, ma ne è uscita fuori, in un tempo altro, un tempo qualificato, dinamico e tuttavia compiuto: l’eternità.
Alle parole dell’Apostolo Giovanni si addicono quelle poetiche del precursore dell’umanesimo e della letteratura italiana. Il riferimento è a Francesco Petrarca (1304-1374), l’autore de Il Canzoniere, che Pietro Bembo agli inizi del ’500 indicò come modello di eccellenza stilistica.
Il Petrarca, ricordando il primo incontro con l’amata nella chiesa di S. Chiara ad Avignone, così lo descrive:
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi…
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi…
(Canzoniere di Francesco Petrarca, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1965, n. 90, 118).
E, scorrendo da cima a fondo il Canzoniere, scopriamo che esso termina con un canto alla “Vergin bella, che di sol vestita”.
Vergin bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede.
(ivi, n. 366, 443),
L’istinto del cuore: «Per Te spera la nostra carne oscura»
Ma veniamo più vicini a noi.
Per Elena Bono, (1921-2014) scrittrice e traduttrice, poetessa e drammaturga, la poesia ha stile francescano, è “sorella dell’uomo”, e fu, scoprendo il legame tra l’amore e la sofferenza, che cominciò ad essere cristiana, anzi terziaria francescana. Solo nel 2007 poi, E-book 2014, viene pubblicata l’Opera omnia, Poesie (Le mani editore) e per il centenario della nascita ne viene editata una raccolta: Chiudere gli occhi e guardare. Cento poesie per cento anni, (Ed. Ares, Milano 2021).
Il padre di Elena grecista e latinista l’aveva avviata allo studio dei classici e della mitologia, ma si dedicò anche allo studio le filosofie orientali. Determinante per la sua scrittura fu poi il dramma della guerra, l’esperienza della resistenza partigiana e l’apertura della fede come nostalgia di Dio.
E nessuno comprende
che non è il morire
la virtù degli eroi
ma restare tra noi
quanto vien loro comandato.
Vivere umanamente tra gli umani, soffrirne tutte le pene
più una:
nostalgia
nostalgia di Dio
(I dioscuri del Quirinale).
In una lirica alla Madonna del Belvedere, dipinto in S. Maria dei Servi a Siena, Elena Bono vi vede ritratta la condizione di marginalità delle donne, ma sperimenta che anche l’esclusione e il silenzio possono divenire uno spazio di ascolto, oltre i linguaggi monopolizzati e istituzionalizzati dagli uomini: «Luna luna non piangere perché sei sola. Il cuore più solitario di tutti/ a tutti appartiene» (in Conforto).
Madonna di Belverde,
giardino di ombre
fresche nell’aria…
o solitudine verdesognante
o silenzio che ascolti
il silenzio di Dio”
(OpOmn 2007: 161).
Drammatico è il profilo di un’altra Maria, quella di Magdala, unita sotto la croce alla madre nel medesimo destino, quello di un dolore che ascolta, entrambe: donne in ascolto dell’istinto del loro cuore.
Maria Maddalena
I soldati ridevano:
“Ehi la bella dagli occhi rossi”.
Ma lei non la riuscirono a strappare
da quella croce,
che vi stava con le unghie confitta,
singhiozzando senza voce.
E poi si mise ad asciugargli i piedi
coi suoi capelli
Li asciugava dal sangue
e non osava
alzare gli occhi per guardarlo in viso
(OpOmn, 2007: 233).
Al n. 18 della Costituzione conciliare Gaudium et spes leggiamo: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte».
Nell’imminenza della festività dell’Assunzione, scorrendo le pagine di queste poesie, non mi sarei mai aspettato di trovarne all’improvviso una che potesse esprimere in due righe, al modo di un haiku, il segno grande apparso nel cielo della donna vestita di sole e coronata di stelle che diviene soglia per la speranza umana.
Per l’assunzione di Maria
Perché il tuo corpo è tra le stelle
spera, Maria, la nostra carne oscura.
(Alzati Orfeo, Garzanti, Milano 1958, I32).
Dormitio virginis il nome antico dell’Assunta innalzata
Dormitio dice insieme koimesis sonno, pausatio riposo, transitus passaggio, dies natalis nascita al cielo.
Donna di speranza, che camminò nella fede, nel segno di una provvidenza di amore Maria «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce» (Lumen Gentium 18).
Per questo Maria è donna degli inizi e di ogni fine, custode di ogni fede in cammino, colei che indica la via e mostra la meta; nell’erranza sa cosa sia la sosta e il raccoglimento. È la stella mattutina, che trascina fuori tutta la notte, facendola riposare nella luce dell’aurora.
Ora è entrata nella sua morte come prima ancora era entrata nella la morte del Figlio: Maria morta due volte,come ogni madre a cui strappano via il figlio. Così ella muore nel desiderio del sepolcro che nella fede riconosce come la casa nuova del Risorto, la loro casa aperta sull’infinito, ove lei in lui riposa.
Dormono stanchi gli occhi nel volto brunito; ora Maria dorme e ascolta come un tempo il figlio bambino nella casa di Nazaret semmai la chiamasse ancora dall’altra stanza; attende la sua parola che le dice: “Il cuore pronto muovi alla fonte vivente che giunta è per te l’alba, Maria viso grazioso che rifrange dolce in un ultimo Fiat l’eco eterno del tuo Magnificat”.
Uomini, non chiudete quella porta di pietra
o lasciatemi entrare.
Donne, voi lo sapete
che quella è la mia casa
di cui sempre parlavo,
è la mia casa nuova
per me e mio figlio.
Ben la conosco poi che
quante volte
io la vidi nel sogno.
O dolce casa
io bacio le tue porte
che mi facciano entrare
con mio figlio.
Sempre dalle altre case
il mio figlio partiva
per un lungo cammino,
qui viene per restare
con la sua stanca madre
e stanco cuore.
…
La morte di Maria
S’addormentano gli occhi
stanchi
e il lieve
volto appassito.
Ed ora è come
quelle lontane notti
che sorridente
dubitosa
ella dormiva ed ascoltava
se dalla stanza accanto
la chiamasse il bambino.
…
L’aspettante cuore muovi
Che appena è l’alba
Muovi alla tua fontana
O fanciulla Maria
Viso d’oliva.
(Chiudere gli occhi e guardare).
Si alzò e andò in fretta
Quale invito a compiere le salite del cuore, l’Assunzione comincia sempre dalla terra; essa ha la forma di una dedizione alla terra, all’umano. Racconta Luca che, dopo il consenso all’annuncio dell’angelo, Maria «si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» A questo saluto Maria rispose con il canto del Magnificat.
“Si alzò e andò in fretta”. È questo il movimento nuovo e sempre antico della fede: il levarsi e il protendersi verso l’altro nella forma di una diaconia di amore, dove l’andare in fretta non rimanda ad uno stato di ansietà ma, al contrario, di sollecitudine. La parola è composta da sollus = tutto, intero e dalla particella citus = pronto, in movimento fuori e dentro, intento interamente, con piena attenzione, con commozione anche, mossa dall’amore. Questo movimento del credere, della fede come amore e come speranza che principia con l’alzarsi in fretta, viene espresso nel testo di Luca con uno dei verbi usati per esprimere la risurrezione del Cristo.
“Si alzò” traduce il greco anastãsa, dal verbo ’anistemi, rialzarsi, essere rialzato e raffigura la fede, come quella piccola risurrezione nel quotidiano, ad ogni ora, di giorno e di notte: la Pasqua dell’estate così è chiamata anche l’Assunzione di Maria, la sua Pasqua, che declina ed attua la fede nel Risorto come quell’abbassamento che innalza, quello svuotamento che riempie, quel perdersi che è un ritrovarsi, quel servire che libera, quel distacco che unisce: la fede voce che abita il suo silenzio.
Canto quel tutto che s’acquista
Tutto perdendo
Io nuda voce
In te nudo silenzio.
(ivi)
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
L’illustratore e autore Lorenzo Mattotti firma, per il sesto anno, l’immagine del manifesto ufficiale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia giunta all’80°edizione (30 agosto – 9 settembre 2023)
“On the road”, sulle tracce di Jack Kerouac, di Easy Rider o di Thelma e Louise, libertà, avventura, voglia di evadere, ritorno alle radici, irrequietezza, scoperta di nuovi territori.
L’immagine scelta per il manifesto ufficiale della 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, che si apre a fine mese, è di Lorenzo Mattotti e “si ispira alla tradizione del cinema on the road”, spiega. “Ho giocato con la grafica”, sottolinea l’autore, “per rappresentare mondi nuovi da esplorare attraverso il Cinema”. Guardare verso nuovi orizzonti, cercare nuove strade e nuovi linguaggi, proiettarsi al futuro memori del passato, esplorare mondi nuovi, proprio come solamente il cinema sa fare. Guardando lontano.
In questo manifesto luminoso e allegro ognuno potrà ritrovare il suo film, quello magari che ha risvegliato sensi, paure e sogni, seguire la propria strada, immaginare i propri sentieri e il proprio destino. Vedere avanti.
Piace ricordare che il parigino d’adozione Lorenzo Mattotti, autore di graphic novel come Fuochi, Stigmate e Ghirlanda, nonché regista del film d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia(presentato a Cannes 2019, nella sezione Un Certain Regard, e ispirato alla favola di Dino Buzzati), è ormai un habitué dei manifesti veneziani. Oltre che firma delle sigle animate dell’evento.
Lo scorso anno, per la 79° edizione, ha presentato un’immagine che raffigura una leonessa che si libra in alto e porge il 90°anniversario dalla prima edizione della Mostra. Linee classiche, così come classica la scelta del fondo oro, ma anche un po’ provocatoria. “Qui il leone, simbolo di potere e forza, si è trasformato in una leonessa, che ha in sé eleganza e creatività. Dopo 90 anni, il leone di Venezia, simbolo della Mostra, è diventato una leonessa che vola attraverso la storia con energia e leggerezza, simbolo di speranza, lontano dall’aggressività e dalla ferocia”, sottolinea l’artista.
Anche la 78° edizione, del 2021, parla Mattotti, con un manifesto che raffigura “due personaggi che si filmano reciprocamente in una sorta di danza, di duello giocoso”, spiega, “in un rapporto mediato dalla cinepresa. È una danza sotto i riflettori di un set, un movimento di energie comuni, un rituale di sguardi. Sguardi a confronto potrebbe intitolarsi l’immagine, in un periodo in cui lo sguardo acquista forza come una nuova relazione tra le persone. I due personaggi simboleggiano due visioni diverse che si incontrano e si confrontano, si guardano e si studiano, ma non si oppongono: grazie al Cinema e al suo ruolo centrale, creativo, propositivo”.
Nel 2020, in occasione della 77° edizione della Mostra, è il momento di colorati acrobati colti nel mezzo di un salto, un manifesto quasi simbolico, quasi a voler rappresentare la precarietà post-covid, come se fossimo colorati equilibristi sospesi su un filo sottile che potrebbe, da un momento all’altro, spezzarsi. Una sfida contro la paura del vuoto, alla fine, vinta, pur a prezzo di enormi sacrifici.
Il manifesto di Venezia 76, nel 2019, raffigura una coppia abbracciata, su una gondola, un chiaro omaggio alla città di Venezia che Mattotti ama molto.
Su quello di Venezia 75 (2018), invece, il primo della serie, campeggia una figura femminile che guarda, misteriosa, attraverso un obiettivo che assume le sembianze della Terra. “Penso che un manifesto debba avere qualcosa di intrigante, che attira l’occhio, che attira il pensiero, ma senza svelare troppo. Che ci sia un enigma, una sorta di mistero da risolvere. Dopo varie prove è venuta fuori quest’idea di una ragazza”, ha spiegato l’artista, “di questo personaggio femminile dal viso molto grafico, non realistico che guarda con un’espressione abbastanza seria attraverso un obiettivo. E al posto di questo obiettivo c’è la Terra, il pianeta Terra, per simboleggiare lo sguardo su di noi. Poi c’è il quadrato bianco, e mi sembra che questo abbinamento sia un incontro felice, perché ci si domanda: cos’è il quadrato bianco? Credo che sia naturale pensare allo schermo del cinema, lo schermo bianco. Lo sguardo sul pianeta, lo sguardo sulla realtà, deve passare per questo mezzo, deve essere filtrato attraverso lo schermo”.
Fantasia in libertà, senza fine, senza confini. Opere d’arte meravigliose.
Lorenzo Mattotti vive e lavora a Parigi. Studia Architettura e Venezia ed esordisce alla fine degli anni ‘70 come autore di fumetti. Nel 1984 realizza Fuochi, che vincerà importanti premi internazionali. Per il cinema, ha collaborato nel 2004 a Eros di Wong Kar-wai, Steven Soderbergh e Michelangelo Antonioni, curando i segmenti di presentazione di ogni episodio. È stato consulente creativo per Pinocchio di Enzo D’Alò. Con Incidenti, Signor Spartaco, Doctor Nefasto, L’uomo alla finestra e molti altri libri fino a Stigmate, il suo lavoro si è evoluto secondo una costante di grande coerenza. Oggi i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e pubblica su quotidiani e riviste nazionali e internazionali. Ha illustrato vari libri per l’infanzia, tra cui Pinocchio ed Eugenio che ha vinto nel 1993 il Grand Prix di Bratislava. Numerose le sue esposizioni personali, tra le quali l’antologica al Palazzo delle Esposizioni di Roma, al Frans Hals Museum di Haarlem, ai Musei di Porta Romana.
Realizza manifesti, copertine, campagne pubblicitarie; suo il manifesto del Festival di Cannes 2000 e quelli per l’Estate Romana.
Viviamo un’epoca di continue “emergenze” descritte con parole apocalittiche che hanno l’effetto di impaurire e paralizzare il pensiero e l’azione personale della gente, deprimendola: la sindemia da Covid-19, la guerra in Ucraina con annunciato pericolo nucleare, il fenomeno delle migrazioni e il collasso climatico.
Per il profondo malessere che sto provando di fronte all’incredibile escalation degenerativa del dibattito sulla crisi climatica ed ecologica, traccerò dunque una riflessione poiché è giusto chiamare le cose con il proprio nome, in un periodo storico dove la confusione regna sovrana.
Nell’attuale dibattito sul clima ci sono due posizioni che stanno generando l’ennesima polarizzazione del dibattito: quella del negazionismo climatico, che si presenta come volgare e che offende l’intelligenza di molti; e quella dell’emergenza climatica, che sempre più si sta consolidando come mediatica ricca di inesattezze, di narrazioni tossiche e di notizie fuorvianti, che se da un lato focalizzano il tema sull’ambiente, dall’altro mandano evidentemente messaggi eterodiretti affinché qualcuno, sulla crisi climatica, possa marciarci.
La questione del cambiamento climatico oggi viene cavalcata come “emergenza” dai media. Il capitalismo da sempre chiama “emergenza” ciò che gli serve per giustificare politiche repressive. Anche in questo caso, spacciare la crisi ecologica come un fattore emergenziale serve per indurre alla paura, alla paranoia, ma soprattutto per fare subdolamente della “rassicurazione sociale”: è un’emergenza, prima o poi finisce… Quando in realtà non è vero. Un fattore strutturale rimane e poi può sfociare nei suoi punti di non ritorno, nelle sue contraddizioni. Perché oggi viene veicolata questa narrazione?
Il collasso climatico è alle porte e lo si vede da molti fattori(degradazione del territorio, inaridimento dei terreni fertili, monocolture intensive, allevamenti intensivi e sviluppo tecnologico con la sue abnorme impronta ecologica). Forse qualcuno non si ricorda, ma in questi ultimi vent’anni, sistematicamente nei Paesi occidentali, coloro che si occupavano e che sensibilizzavano sul tema dell’inquinamento, dell’importanza di cambiare modello di sviluppo, venivano definiti “pauperisti”, “contro il progresso”, e ridicolizzati come dei nostalgici del primitivismo.
Ricordo benissimo quando le parole “ambientalista” ed “ecologista” sembravano insulti all’udito della gente. É solo dal 2015, con la Cop21 di Parigi, che qualcosa è iniziato a muoversi a livello di sensibilità collettiva fino ad arrivare al movimento dei Fridays for Future. Eppure la narrativa sull’ambiente è molto cambiata negli ultimi cinque anni, e ha preso sempre più un’impronta neoliberale, spacciando per “ambientalista” ciò che “ambientalista” non è.
Oggi vi è una reale operazione di greenwashing di massa, dove i grandi capitalisti stanno proponendo una narrazione tossica per la quale, con la scusa di salvare l’ambiente (che hanno deturpato e stuprato fino ad oggi), ci stanno dicendo che è con lo sviluppo tecnologico che si salva l’ambiente. Questo permette ai grandi capitalisti di rigenerare i loro brand, di aprire nuovi mercati e di rigenerare anche la loro immagine esemplarizzata di fronte al mondo.Ecco dunque che queste narrazioni tossiche servono a consolidare il “green capitalism”, come ha spiegato molto bene il presidente socialista della Bolivia Luis Arce; la “green economy” fatta con gli schiavi adulti e minorenni in Congo e con il modello estrattivista e distruttore dell’ambiente; il “net-zero washing”, ovvero quello che la biologa Silvia Ribeiro ha chiamato “colonialismo climatico”. Il capitalismo finanziario ha inventato, insieme ai colossi dell’energia fossile, il mercato mondiale per lo scambio dei permessi di inquinamento.
La British Petrolium (Bp), che in cambio di un generoso contributo per rendere sempre più ecologiche le produzioni agricole nello Stato messicano di Veracruz (40 dollari per ognuno dei 133 contadini della comunità di Coatlila e per quelli di altre 58 comunità) ha ottenuto 1,5 milioni di crediti di carbonio su 200.000 ettari, che può vendere, a un valore (nell’ipotesi peggiore) quattro volte superiore a quello pagato alle comunità. É il capolavoro del greenwashing, con cui i grandi inquinatori ritardano, mistificano ed evadono l’azione a favore della tutela del clima facendo però, contemporaneamente, grandi affari.
Come scrive Ribeiro:“Invece di ridurre le emissioni di gas che causano il caos climatico, pagano alcune comunità o ejidatarios [comunità agricole nate con la rivoluzione zapatista del 1910 alle quali lo Stato assegnava delle terre in usufrutto, ndt] perché continuino a curare i loro boschi, oppure pagano altri soggetti perché piantino monoculture di soia, palma da olio e altre colture. Colture che presumibilmente assorbono anidride carbonica e che “compenserebbero” il fatto che le aziende continuino a inquinare.”
Inoltre, oggi il green capitalism e la green economy vogliono far coincidere le espressioni “transizione ecologica” con “transizione digitale”, due cose che gli ecologisti di vecchia data sanno bene essere completamente distinte. Il fine è quello di aprire al soluzionismo tecnocratico sul clima e all’implementazione della tecnologia, fino a riproporre l’energia nucleare come una fonte “sostenibile” . Ma sappiamo che lo sviluppo indefinito, il mito del “progesso”, la mentalità riduzionista-dualista-estrattiva, il mantra della “crescita economica” e la distopica tecnofilia dei miliardari californiani (Gates, Bezos, Musk etc… ) compresa la colonizzazione dello spazio (definita da Musk come la più grande impresa commerciale dalla scoperta dell’America) sono la radice della crisi ecologica.
Alcuni dati:
Sono necessarie 13 tonnellate d’acqua per produrre 1 smartphone
Sono necessarie 15 tonnellate d’acqua per la produzione di 1kg di carne di manzo
Silicon Valley ha un’impronta ecologica 6, ovvero se il mondo fosse come la Silicon Valley sarebbero necessari 6 Pianeti
Il 40% delle emissioni climalteranti è prodotto dall’agro-industria
La colonizzazione dello spazio si concretizzerà come modo per estrarre minerali, gas e litio dai pianeti colonizzati.
Silicon Valley e Big Food sono facce della stessa medaglia e la tecnofilia, come le soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica proposte dai capitalisti, sono la continuazione della crisi ecologica. Il cambiare tutto per non cambiare nulla, se non per peggiorare le cose. Vandana Shiva questa cosa la denuncia molto bene: contro gli OGM, contro l’ingegnerizzazione della Natura (editing genetico, ingegneria genetica, geoingegneria), contro la chimicizzazione della vita, la promozione di cibi ultratrattati coltivati in laboratorio (clean meat e plantbased meat).
Come militanti ed attivisti abbiamo il dovere politico e linguistico di dire che la TRANSIZIONE ECOLOGICA non ha nulla a che spartire con la TRANSIZIONE DIGITALE dell’Agenda ONU 2030 (vedasi riflessioni dell’ecogiornalista Nicoletta Dentico a riguardo). La transizione ecologica, come sostiene l’ecofilosofa Gloria Germani, avverrà quando cambieremo stile di vita, metteremo in discussione il modello di sviluppo, di produzione, la stessa società industriale e le basi conoscitive su cui si fonda tutta la scienza cartesiana-newtoniana occidentale e il suo antropocentrismo. Oggi più che mai è un dovere semiotico e politico partire da questa distinzione, per creare nuovi immaginari politici e liberarci dalla colonizzazione dell’immaginario operata sia dalla società industriale sia dai mass media.
Sul tema “Ferrara patrimonio Unesco” Periscopio ospita un intervento di Ilaria Baraldi, consigliera comunale del Partito Democratico.
Siamo alle solite.
Un cospicuo numero di cittadine e cittadini sottoscrivono una petizione promossa da +Europa per chiedere una verifica sulla capacità dell’amministrazione nel tutelare e promuovere il patrimonio dell’umanitàche èFerrara, la nostra città, di tutte e di tutti; con insperata e opportuna celerità il ministero competente garantisce un esame della questione ed ecco il sindaco Fabbri intervenire col consueto garbo attaccando la funzionaria preposta e offendendo le persone che, avendo a cuore Ferrara, si permettono di criticare la gestione attuale.
Per Fabbri le accurate osservazioni del Ministero sarebbero solo frutto di un “errore estivo”, mentre 1.378 cittadine e cittadini diventano improvvisamente “qualche disperato oppositore politico”.
Dileggiare le persone che la pensano diversamente dal sig. Sindaco, che pure lui rappresenta, è ormai una costante del suo mandato.
Non sappiamo che esito avrà l’indagine del Ministero della Cultura ma la notizia è buona di per sé. Anzitutto perché ricorda a chi amministra che c’è un controllo superiore che si attiva per verificare che permangano le condizioni poste da Unesco per avere il privilegio di essere considerati patrimonio dell’umanità. Speriamo che non intervenga la longa manus del solito Sgarbi a bloccare, per il tramite del gaffeur Ministro Sangiuliano, l’iniziativa. Ma la notizia è buona soprattutto perché rammenta a Fabbri e alla sua maggioranza che il patrimonio loro affidato non può essere usato a loro piacimento, senza tenere conto delle sue caratteristiche e della sua preziosità.
Patrimonio che transitoriamente questa amministrazione, come quelle passate e future, si trova a gestire, con l’onere di proteggerlo e tramandarlo intatto alle generazioni future, valorizzarlo e non sfruttarlo, farlo conoscere anziché coprirlo di sponsor.
Per fare tutto questo occorre che chi governa sia consapevole della responsabilità di “essere” patrimonio Unesco, e lavorare allo scopo di rendere altrettanto consapevoli residenti e turisti di ciò che significa vivere e visitare una città patrimonio dell’umanità, nella sua interezza e complessità.
È un lavoro che richiede uno sforzo enorme e non basta appendere la bandiera Unesco o usarne il logo sui documenti ufficiali.
Comporta un lavoro culturale – a partire dalle scuole – che è altro rispetto a occultare monumenti e piazze con continue iniziative ed eventi.
Se c’è chi si sente offeso (nel senso di ferito) dall’occupazione transitoria della nostra piazza da wc chimici o bidoni dell’immondizia e in modo permanente da auto e furgoni, significa che quel senso di sfregio della bellezza – come valore culturale – in una parte dei ferraresi c’è, così come c’era nei veneziani che hanno lottato contro il passaggio delle navi da crociera in laguna a ridosso della fragile e bellissima San Marco.
Che ci siano cittadine e cittadini che pensano altro, o semplicemente non si pongono il problema, è naturale e legittimo.
Credo invece sia grave che una amministrazione non sappia dosare le proprie proposte e azioni in funzione delle specifiche caratteristiche del bene (materiale e immateriale) che ha l’onere di governare. Non puoi valorizzare se prima non proteggi e per proteggere occorre sapere che cosa ti è stato affidato.
Nella notte di San Lorenzo, di solito (anche se adesso pare che sia slittato il calendario) cadono un po’ di stelle e si esprimono, senza dirli a voce alta, i desideri.
Stanotte, sulla via Tiburtina, altezza Casal Bruciato, c’è qualche briciola di quelle stelle cadenti al bar Manhattan, vicino al Bingo.
Seduto su una seggiola, da solo, c’è un maciste tatuato che potrebbe essere il buttafuori della sala giochi.
Ha un codino come Travolta in Pulp fiction e un fisico strapalestrato che lascia immaginare un periodo in cui, di diventare una stella, ci ha creduto. Stasera ha un’aria malinconica e solitaria, anche se qualcuno passa a salutarlo e si vede che l’ammira, toccandogli le pagnotte tatuate dei bicipiti.
Lui lo guarda con un’aria un po’ malinconica, forse vuole tenere le distanze, non si sa mai.
Perché Manhattan è aperto tutta la notte e ha frequentazioni di tutti i tipi.
Ora a un tavolino, una coppia di lesbiche mature e mascoline si sta consolando per qualcosa andata storta. In un angolo, una procace quarantenne vestita da ghepardo guarda chi entra dalla porta con sguardo da predatrice.
Arrivano altri culturisti, ragazze con tatuaggi strampalati.
Niente di particolarmente hard, ma c’è un profumo di America del Midwest.
Manuel, uno dei miei due figli di altri padri, che mi ha introdotto al Manhattan, dice che ci viene spesso nelle sue notti bianche, perché prova attrazione per i luoghi distopici.
E certo questo bar, già dalle luminarie che sognano una lontanissima Las Vegas, ha qualcosa di incongruo con quello che uno immagina della via Tiburtina.
A partire dalcocomeraro che, pochi metri più in là, offre uno scorcio di una romanità vintage, coi tavolacci di legno macchiato di umido dove stasera, un signore solitario mangia la sua fetta d’anguria seduto accanto al suo cane, che si è piazzato sulla sedia come una moglie e sembra che se la mangi assieme a lui.
Una Roma notturna piena di giovani in bande, indaffarati coi loro smartphone, ma quieta, un po’ scettica: Roma non appare violenta. Non è nemmeno sovraeccitata, frizzante o schizzata.
E’ una città che non esprime più erotismo, come si fosse ammosciata. La vita non è più così Dolce, se mai lo è stata.
E anche se non sono certo in grado di stilare un rapporto Kinsley sulle abitudini sessuali dei romani, m’immagino che a far l’amore siano in pochi e tanti invece a compiere casti rituali coniugali o dedicarsi a sfoghi più o meno deludenti.
Ma in fondo che ne sappiamo? Sul lato intimo dell’umanità, abbiamo solo finzioni.
A Roma d’estate, la notte è il momento migliore per uscire in strada. Si cammina senza troppa paura, anche per i viali della periferia, un tempo luoghi deputati solo alla prostituzione.
Al semaforo c’è sempre Ahmed, da almeno sei anni. L’ho visto invecchiare, imbiancare i capelli e anche perderli. All’inizio lo trovavo invadente, con quella spazzola sempre in agguato.
Ora lo vedo e lo chiamo. “Eh non c’è lavoro capo, niente lavoro” mi dice, alle due di notte, mentre insapona il cristallo cercando di sbrigarsi prima che venga il verde.
Io gli do la moneta e lui, dopo avermi ringraziato, fa dei segni al cielo, come se parlasse con Allah. Non so come farà mai a tornare al suo paese.
Forse, mentre il semaforo è verde, se avrà la fortuna di vedere una stella cadere, può ricordarsi di esprimere il suo desiderio. Ma dentro di sé, non ad alta voce.
Per leggere tutti i capitoli del Diario di Daniele Cini: “Diario di un agosto popolare” scorri l’homepage fino alla sezione SPECIALI
Da domenica 23 a giovedì 27 luglio, Ferrara ha ospitato il Congresso internazionale della Società di Biologia Molecolare ed Evoluzione-Smbe.
Si è tenuta a Ferrara l’edizione 2023 del Congresso internazionale della Società di Biologia Molecolare ed Evoluzione-Smbe. Un appuntamento molto importante per la comunità scientifica di tutto il mondo, che ha visto questa piccola capitale italiana del Rinascimento selezionata per ambientare un appuntamento seguito da tutti gli specialisti del settore e che porterà in città oltre 1600 persone, tra relatori, congressisti e partecipanti. È questo il pubblico che da domenica 23 a giovedì 27 luglio 2023 ha seguito i 31 simposi dedicati alle varie tematiche legate alla biologia molecolare, l’evoluzione e la genomica. L’organizzazione di questo evento – spiegano gli organizzatori dell’Università di Ferrara – è stata assegnata dopo una selezione avviata nel 2019 e che ha visto prevalere Ferrara su Mosca e Copenhagen.
Apparentemente dedicata a tematiche da addetti ai lavori, la biologia molecolare evolutiva in realtà ha attinenza con tutti gli aspetti della vita che possono riguardare l’attualità e il quotidiano. Questa scienza permette, per esempio, di studiare se e come i batteri si adattano agli antibiotici o come le specie possono invadere nuovi habitat, ma è anche utile per interpretare il peso di un’evidenza genetica a partire dai reperti trovati su una scena del crimine. E può dare risposte a quesiti che assillano fatti e scelte al centro delle cronache.
C’è chi si è chiesto, in questo senso, se gli orsi del Trentino che sono stati immessi dalla Slovenia sono differenziati geneticamente tra loro o sono discendenti da poche coppie di capostipiti. Un altro tema molto importante riguarda il rischio di estinzione di una specie, e la biologia molecolare evolutiva può spiegare in che misura questo dipende da fattori ambientali o ha a che fare con fragilità genetiche.
Insomma, una materia apparentemente riservata a pochi eletti, ma con risvolti concreti che hanno una grande influenza sulla vita di tutti i giorni. Non a caso quindi la biologia molecolare e l’evoluzione biologica saranno al centro di un summit con dibattiti ambientati nei più bei palazzi e monumenti storici del centro cittadino.
Ma come ha fatto una città di dimensioni medio-piccole come Ferrara ad aggiudicarsi la location di uno dei più importanti appuntamenti scientifici internazionali?
Lo spiega il docente di genetica dell’Università di Ferrara Giorgio Bertorelle, presidente del comitato scientifico e organizzatore dell’evento. “Negli anni passati – ricorda il professore – il congresso è stato organizzato in città come Barcellona, Chicago, Vienna, Kyoto, Auckland e Manchester. L’Italia ne ha ospitato un’unica edizione, 21 anni fa, a Sorrento. Nel 2019, però, abbiamo pensato di candidare Ferrara e da lì è iniziata l’idea e via via la proposta dell’evento, che abbiamo voluto progettare come congresso diffuso, all’interno di un centro storico pedonale. Un enorme sforzo organizzativo, reso possibile grazie anche alla collaborazione del Comune di Ferrara e dell’Università di Ferrara”.
Un’idea vincente, che ha portato Ferrara a essere la prescelta rispetto a grandi città concorrenti come Copenhagen e Mosca in tempi ancora lontani dagli attuali scenari.
“Sì, credo che abbia funzionato molto l’idea di far soggiornare conferenzieri e studiosi in una location ricca di storia, dove gli studiosi possono venire con la famiglia che ha così un ambiente intorno che si presta al soggiorno piacevole e alla visita. La collocazione geografica di Ferrara, tra l’altro, consente in tempi molto contenuti di raggiungere i luoghi italiani più attraenti per un pubblico straniero, che rappresenta il 90 per cento dei partecipanti a questo appuntamento. Teniamo conto, infatti, che da Ferrara in un’ora si arriva a Venezia, Ravenna, poco di più per Firenze e che in tempi più che ragionevoli si può fare andata e ritorno da Roma”.
In quali location sono organizzati i seminari scientifici?
“Il congresso è anche un esperimento di convegno scientifico diffuso, in quanto si terrà in diverse sedi del centro storico cittadino: il Teatro Comunale, il Castello Estense, il Palazzo Bevilacqua-Costabili, il Polo Adelardi, il Chiostro di San Paolo. Ma anche Palazzo Pendaglia, sede dell’istituto alberghiero Orio Vergani a cui è stata affidata tutta l’organizzazione dei momenti di ristoro, e il Parco Massari che ospiterà la cena di gala”.
Un impegno organizzativo e finanziario molto complesso. Il finanziamento arriva da un organismo universitario?
“Il convegno viene organizzato ogni anno dalla SMBE, che è legata alla casa editrice della rivista scientifica Molecular Biology and Evolution, leader mondiale nel settore della biologia evoluzionistica. Nata negli Stati Uniti nel 1982, la Società e la rivista si occupano di diffondere i risultati e di sostenere i ricercatori che hanno l’obiettivo di capire i processi evolutivi a livello molecolare”.
I risultati degli studi possono rivelare elementi importanti per la nostra vita?
“Assolutamente sì. Studiando il Dna e le proteine è possibile ricostruire l’evoluzione dell’uomo e di altre specie animali e vegetali. Queste scoperte mostrano i cambiamenti dei virus e in che modo favoriscono o riducono la loro pericolosità. Sempre grazie alle ricerche di quest’ambito scientifico possiamo scoprire se e come la biodiversità delle specie potrà mantenersi. Da qui si può studiare infatti in che modo le specie potranno adattarsi, nonostante i rapidi recenti cambiamenti ambientali e climatici dovuti alle attività dell’uomo”.
Chi sono i relatori e gli studiosi che parteciperanno al convegno ferrarese?
“Al momento, il comitato ha ricevuto 1640 contributi (riassunti di studi scientifici) da ricercatori provenienti da 49 paesi diversi. Circa 200 sono stati selezionati per comunicazioni orali in uno dei 31 simposi che si terranno nelle diverse sedi. Tra i relatori ci saranno alcuni dei più grandi scienziati che negli ultimi trent’anni hanno contribuito allo sviluppo di questi studi, come il genetista statunitense Micheal Lynch, docente di Evoluzione, Genetica delle popolazioni e Genomica dell’Indiana University, che in passato ha ricoperto anche la carica di presidente della Smbe”.
Il comitato scientifico e organizzatore è presieduto da Giorgio Bertorelle, professore ordinario di Genetica all’Università di Ferrara, ed è composto dai docenti Silvia Ghirotto (sempre di Unife), Andrea Luchetti (Unibo), Luca Pagani (Unipd), Omar Rota Stabelli (Unitn) e Emiliano Trucchi (Univpm). Il congresso è anche un esperimento di convegno scientifico diffuso, in quanto si terrà in diverse sedi cittadine: il Teatro Comunale, il castello Estense, il Palazzo Bevilacqua-Costabili, il Polo Adelardi, il Chiostro di San Paolo, Palazzo Pendaglia, e il Parco Massari
Entrare in un cinema quasi vuoto, un sabato sera, sperando in una piccola evasione per interrompere la solitudine. Riandare con la mente a quando i cinema erano affollati e ci si stava come in un luogo misterioso, guardando il film anche due volte e, uscendo, si rimaneva coinvolti nell’avventura appena vista.
Le storie spesso colpivano al cuore, si ricordavano per settimane gli amori e i dolori, i drammi delle guerre, le gesta
degli eroi mitologici, gli occhi stellati delle dive, gli alieni provenienti da mondi lontanissimi di chissà quali universi, le buffe smorfie dei comici.
E poi c’erano i film western: istintivamente dopo averli visti ci si trasformava in uno dei tanti sceriffi coraggiosi e come lui si assumeva per un po’ la sua andatura eretta, lo sguardo fiero, i gesti decisi, il linguaggio rado e scabro.
Anche le musiche western restavano impresse a lungo nella mente, e le si cantava in una lingua inventata, che di inglese aveva poco o nulla, per imitare quella dei cowboys.
Gli spettatori dei cinema sono sempre meno, molte sale chiudono. Nelle case gli schermi tv saranno anche giganti, ma non è la stessa cosa, non si vivono i momenti di avventura o di tensione in attesa del duello finale tra gli sceriffi e i fuorilegge in città dai nomi scolpiti nel ricordo: Tombstone, Dodge City, Santa Fe, Yuma…
Non si percepisce il vento che solleva la polvere e fa volare i cespugli di mesquite, non colpiscono i raggi del sole a picco, non meravigliano i tramonti maestosi sulla prateria, non emoziona la musica incalzante o l’attesa spasmodica della fine, quando il buono vincerà o dovrà morire sacrificandosi per gli altri.
Non si avverte il brivido che suscitano le urla degli indiani, lo sfrenato galoppo dei cavalli, la fuga disperata della diligenza, il carro Conestoga che si rovescia con i passeggeri atterriti dall’assalto dei pellirosse…
Oggi si sanno più o meno molte cose su ogni film, che prima di uscire è già in parte raccontato e valutato dalla critica.
Tra non molto, forse, chiuderanno gli ultimi cinema e ci mancheranno – ah, come mancheranno! – i ricordi, perfino i trasalimenti della memoria. Non ci potremo rinchiudere nel buio complice di una sala, dove si trasformava fantasticamente la realtà che ci attendeva una volta usciti.
Tra le poche nuove misure della nostra, ormai sfasciata, scuola pubblica, si ritorna a fare “orientamento” nelle ultime classi delle superiori.
Gli orientatori aiuteranno gli studenti a capire com’è oggi il mondo del lavoro e verso quali professioni o università possono orientarsi. Compito ingrato perché – ahimè – gli stessi orientatori si troveranno disorientati.
Si tratta di una pratica che è stata presente per la verità anche in anni passati, ma che non ha inciso sulla qualità della scuola. Noi del CdS (Centro Ricerche documentazione e Studi) lo abbiamo fatto professionalmente negli anni ’80 e ’90 (anche con una guida promossa dalla Provincia alla “Scelta dopo la terza media”), in quanto è soprattutto dopo la 3^ media che c’è un primo grande bivio: scegliere un Liceo e proseguire all’Università o scegliere Istituti Tecnici-Professionali e, subito dopo, il lavoro. Svolgendo questo lavoro anche all’Università con le imprese e per i laureandi, abbiamo però capito (con il Percorso di Inserimento Lavorativo) molte cose che allora non sapevamo, e che ancora oggi la maggioranza delle persone non sa.
La prima cosa che abbiamo scoperto è che la maggior parte delle imprese è più interessata ad una buona formazione di base che ad una specialistica. Se deve scegliere, per esempio, tra un giovane laureato triennale e uno (meno giovane) magistrale, preferisce il primo perché la formazione dell’ “ultimo miglio” la fa l’impresa stessa. Una seconda scoperta è che le conoscenze umanistiche non sono così disprezzate come si crede, perché oggi lavorando in équipe e dovendo risolvere continui problemi e innovare, spesso le imprese preferiscono un laureato con una buona istruzione di base, vocato alla collaborazione, piuttosto che un super specialista abituato a lavorare da solo.
Una terza scoperta è che solo un terzo dei laureati (ingegneri inclusi, medici esclusi) vuole fare la professione per cui si è laureato. Quasi 2/3 infatti preferiscono (almeno nei primi anni) “navigare” nel mercato del lavoro e fare esperienze anche apparentemente distanti dalla propria laurea. Questi dati clamorosi sono confermati anche dalle indagini Istat sulle scelte dei laureati: ci sono esempi illustri, come Marchionne (ad Fiat e poi ad Chrysler FCA) che era laureato in filosofia, o molti dirigenti di aziende informatiche che non sono laureati (Steve Jobs) o lo sono, ma in materie umanistiche.
Un’altra constatazione: le aziende usano spesso i talenti di un laureato per innovare, offrendo una mansione (nuova anche per l’azienda) a cui non avevano mai pensato. Cercano per esempio un ingegnere e assumono una laureata in scienze delle comunicazioni perché conosceva bene l’inglese, sapeva coordinare benissimo il gruppo e ha dato all’imprenditore l’idea di una mansione a cui non aveva mai pensato. Ma questo può avvenire solo se c’è un rapporto diretto tra chi assume e chi si offre, non intermediato dai Servizi per l’Impiego, che è una delle ragioni del grande mismatch esistente.
Dall’insieme di queste scoperte emerge l’importanza di una formazione meno specialistica di quanto si dica sui media mainstream, di quanto dicano gli stessi rappresentanti delle associazioni (a differenza degli imprenditori), di quanto sia importante ancora oggi una formazione “organica” basata anche sulle materie umanistiche, di quanto sia importante la formazione di un pensiero critico, di capacità concettuali ma anche sociali (queste ultime a scuola non si apprendono).
Infine, emerge quanto siano rilevanti, proprio in una società sempre più digitale e in lavori che implicano un “ingaggio cognitivo”, le materie manuali e artistiche che aiutano gli studenti a non diventare semplici operai del digitale, ma collaboratori con capacità di risolvere problemi e innovare nel lavoro: ciò in una società dove gli algoritmi (che si basano su calcoli binari 0 e 1) possono soffocare la creatività e condurre alla omologazione e dipendenza tipica della catena di montaggio, seppure in forme nuove.
Non è quindi un caso che in Finlandia abbiano introdotto al liceo classico la falegnameria come materia di base. La falegnameria è un’attività manuale che, come tale, sviluppa il fare, la sperimentazione (e non solo lo stare seduti su un banco ad ascoltare e pensare). In una società digitale e altamente tecnologizzata, esiste il rischio di rimanere sul divano a guardare sullo smartphone come sono belle le immagini di una giornata di sole, mentre fuori c’è proprio un bel sole. Emerge anche il rischio di giovani sempre meno “attivi” (sul lavoro, nella società, nel volontariato, nelle relazioni, nella partecipazione) e la crescita di una massa amorfa e supina alle logiche del potere. Ne ha parlato di recente Papa Bergoglio, citando un grande teologo poco conosciuto come Romano Guardini (Lettere dal lago di Como, La tecnica e l’uomo, scritte tra il 1923 e 1926), che ci avvertiva già 100 anni fa dei disastri della rapida modernizzazione.
Hanno fatto quindi bene al Liceo classico Albertelli di Roma genitori e insegnanti a rifiutare i 300mila euro del Pnrr per modernizzare la scuola 4.0. Il progetto promosso dal dirigente prevedeva di formare esperti del web (video making, produttori di musica digitale, Manager Digital Curator, Social Media Manager, Social Media Editor e altre figure simili). A parte l’abuso dell’inglese che fa tanto Italietta “provincia dell’impero”, docenti e consiglio vogliono invece un potenziamento dei laboratori di chimica, informatica, e la digitalizzazione dell’antica biblioteca. La scuola è già ampiamente dotata di tecnologie (41 smart tv, 7 proiettori, 49 pc notebook, 41 pc desktop,…) ma il dirigente voleva ancor più “modernizzare”. Docenti e genitori contestano la formazione di “operai acritici del digitale”, disarticolando il gruppo-classe e disinvestendo sulla preparazione necessaria per comprendere la complessità del mondo. Finalmente viene alla luce l’idea che non è vero che una più spinta digitalizzazione favorisce di per sè la conoscenza. Diversamente non si capirebbe perché, da 20 anni, la capacità di apprendimento dei nostri studenti diminuisce.
Una scuola di questo tipo rischia di formare giovani (cittadini e lavoratori) che hanno sempre meno strumenti e capacità critiche di trovare soluzioni nel lavoro e/o di innovare. L’Istruzione (Instruction Way) si basa sul principio che a scuola ad una domanda corrisponde solo una risposta giusta, mentre nella via di apprendimento della Sperimentazione (Discovery Way, tipica del lavoro e della vita) ad una domanda corrispondono molte soluzioni possibili. Una scuola che si basa quindi anche sulla via della Sperimentazione attraverso le materie manuali e artistiche, forma anche cittadini e lavoratori più consapevoli.
E, in tal senso, tornano attuali le parole di don Milani quando diceva che “la scuola non serve a produrre una nuova classe dirigente ma una massa cosciente”: se don Milani me lo permette, aggiungerei anche una nuova classe dirigente più cosciente.
“Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.”
(Italo Calvino)
CON TATTO
Per gli aculei del mondo
non ho più mani,
le tue puoi darmi,
rimosse radici di vita.
E se quel lieve contatto
di rosa sfumato
è sol nostalgia
di quel che ho donato
respiro divenga energia.
Al mio alato pensiero
che vago si muove
tra il fuoco ed il vento
non comando parole
raccolgo calpestata armonia.
(Inedito)
NON ASPETTARE PER VIVERE
Non aspettare per vivere.
La vita è nel cristallo
che rifulge di sole,
è nel battito d’ali
di una colomba,
vita è l’evento
che non avevi atteso,
la nudità dell’albero a settembre
il silenzio in un respiro.
Non aspettare per vivere.
Se necessario
smetti il tuo dovere,
vai ad osservare
un gatto o una donna
che porta fiori al cimitero,
accendi una fiamma
per chi ci ha lasciato,
per un estraneo malato
e per il mondo intero.
(Inedito)
PORTAMI PAROLE D’AMORE
Portami parole d’amore,
che mi guariscano dalla paura
di realizzare il mio disegno,
di non averne la forza.
Portami la luce dell’Equinozio
nel giorno di contemplazione
che tanto mi appartiene
eppure mi sfugge.
Portami te,
il tuo chiaro fiore
che oggi voglio odorare
e il raggio tuo, Sole,
di cui non sono che l’ombra.
LA ROSA
La rosa,
quella gemma vermiglia che irrompe nel cammino
dopo vaghi e isolati meriggi
di libertà conquistata a ogni metro
come una bacca di bosco spogliata
delle sue lacrime a maggio mi appare.
O MUSA
O Musa
quale miracolo
di giugno adorato
schiude la pioggia.
Quale visione dolce e piena,
ritrovarsi vivi
verso il villaggio la cima le aquile,
respirare colore.
Gli occhi coperti di pianto
per il nuovo giorno che nasce,
o Musa
quale miracolo.
(Poesie tratte dal libro “Accessi di eternità“, Controluna Edizioni, 2021)
Marco Sestini nasce alla vigilia dell’equinozio d’autunno del 1989. A ottobre 2021 è uscita per Controluna Edizioni la sua prima silloge poetica, intitolata
“Accessi di eternità”.
I suoi versi, essenziali e lirici a un tempo, dallo stile in costante evoluzione, tessono la trama di una biografia interiore complessa, a cavallo tra le cruciali domande
sull’esistenza umana, in apparenza insolubili, e l’anelito spirituale capace di avvicinare il terreno al divino, e viceversa.
LO SCAFFALE POETICO Segnalazioni editoriali interne (o contigue) al mondo della poesia.
Antonio Spagnuolo, Riflessi e velature, La valle del tempo , 2023
Tiziano Broggiato, Il copiatore di foglie, I Quaderni del Battello Ebbro, 1998
Alberto Ronchi, Anni meravigliosi, MODO INFOSHOP, 2019
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
La notizia del ritorno dell’esercitoa pattugliare le vie di Ferrara è di per sé inquietante: dà l’idea di una città ingovernabile e violenta. Non siamo a Beirut, né nella Belfast degli anni ottanta. E tutto questo quando, secondo i dati della questura, i reati sono in calo[1].
Ma ciò che colpisce ancora di più è la scelta editoriale del Resto del Carlino: abbinare l’articolo che annuncia la notizia [2] ad una foto di un soldato armato dietro una panchina su cui sono seduti tre ragazzi di colore. Ciò che questa immagine comunica con molto forza è che tutti i giovani neri sono potenziali criminali, da tenere sotto sorveglianza.
La stampa locale ferrareseha un pessimo record per quanto riguarda la demonizzazione dei cittadini di origine straniera,soprattutto nei periodi pre- elettorali.
Nei tre mesi precedenti le elezioni amministrative del maggio 2019, secondo lo studio “Sono solo parole” condotto da Cittadini del Mondo-Occhioaimedia di Ferrara insieme all’associazione nazionale dei giornalisti “Carta di Roma”, più del 72% degli articoli sull’immigrazione e sulle minoranze etniche pubblicati nei tre principali quotidiani ferraresi riguardavano la criminalità.
Questa pratica mediatica discutibile non si limita alla stampa locale.
La mancanza di un dibattito razionale e informato sulla questione sicurezza nel discorso politico-mediatico nazionale e ferrarese, in particolare, è palese. Forse è giunto il momento di avviarlo, evitando allarmismi e strumentalizzazioni a fini elettorali.
La notizia dell’arrivo dell’esercito significa il fallimento, almeno parziale, delle misure adottate dall’attuale Amministrazione, dalla rimozione delle panchine dai parchi alla recinzione dei giardini pubblici, dall’armamento della polizia municipale all’introduzione delle unità cinofile. Queste misure devono essere valutate una per una sia in termini di efficacia che di costi.
I problemi legati alla sicurezza di un moderno complesso urbano multiculturale non possono essere risolti con soluzioni semplicistiche e populiste: dobbiamo essere pronti ad imparare dalle esperienze di altre città simili.
Un’altra problematica che emerge dall‘immagine razzista scelta dal Resto del Carlino riguarda la profilazione razziale, cioè la pratica da parte delle forze dell’ordine di procedere a operazioni di “stop and search” (fermo, controllo documenti e perquisizione) sulla base di pregiudizi fondati sul colore della pelle. A Ferrara, secondo le testimonianze raccolte dal “progetto Yaya” e riportate dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) al Comitato Europeo per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali[3], questa pratica è molto diffusa, generando tutta una serie di problemi: non solo disagio a livello sociale, insicurezza e conseguenze a livello psicologico ma anche una generale sfiducia nelle forze dell’ordine della città.
I problemi causati dall’uso eccessivo di questi controlli non sono limitati al solo contesto multietnico. I giovani in generale e le persone economicamente svantaggiate hanno una probabilità maggiore di essere fermati e di essere insoddisfatti del trattamento riservato dalla polizia durante il fermo.
Se il contatto con gli agenti è percepito come ingiusto, questo, secondo molti studi [4], può influire in senso negativo sul rapporto con le forze dell’ordine e con le istituzioni in generale e, di conseguenza, mettere in discussione il rispetto della legge e aumentare il rischio di considerare la violenza come un’opzione per raggiungere determinati obiettivi.
La sicurezza non è un gioco elettorale.
Per il bene delle nostre generazioni future, dobbiamo cominciare a parlarne seriamente.
Robert Elliot, di Occhioaimedia-Cittadini del Mondo
In copertina; l’esercito presidia le vie di Ferrara. Si tratta di un taglio dell’immagine che accompagna l’articolo apparso sul Resto del Carlino – edizione di Ferrara. Abbiamo scelto di non riportare l’immagine integrale per non ripetere l’offesa nei confronti delle persone di colore.
“Sarebbe un errore incasellare gli adolescenti di adesso come se fossero tutti degli hikikomori”, ammonisce Nicola Cavallini nell’articolo “Il virtuale è reale: non è vero che i ragazzi non comunicano più”, che reagisce a quello di Mauro Presini: “Che cosa APPrenderanno?”, entrambi apparsi su Periscopioqualche giorno fa. Mauro Presini esprimeva preoccupazione e critica alla vista di bambine e ragazzi insieme al ristorante, ma ognuna assorbita dal proprio telefono in apparente isolamento dagli altri. Compresenza fisica ma assenza di comunicazione. Voglio dire la mia, in difesa dei ragazzi e delle ragazze, con questo articolo, e in difesa dei genitori, nel prossimo.
Condivido essenzialmente il discorso di Nicola Cavallini ma penso che la figura dell’hikikomori, da lui evocata, meriti una precisazione che può servire anche a rassicurare sull’uso della rete: questi ragazzi e ragazze si isolano, ma non per attrazione di Internet, al contrario, lo fanno per rifiuto delle convenzioni sociali che li vogliono tutti omologati, competitivi e performanti. Si isolano per timore di non farcela, perché non si vedono corrispondenti alle richieste sociali. Su Internet le relazioni non hanno bisogno di un corpo prestante, né di mettersi visivamente in mostra, basta la mente, basta la tua vera anima e puoi sperimentare quanto ti pare, fino a trovare la tua identità autentica e coloro che, simili a te, la apprezzano. Internet è cura, in questo caso, non malattia. La rete consente di allacciare delle relazioni che non sono virtuali ma reali, concretamente affettive. Anche se la carne e le ossa sono lontane all’inizio, poi con il tempo si possono organizzare viaggi e incontri di persona che portano all’uscita dall’isolamento.
Per saperne di più, il sito Hikikomori Italia, indicato nell’articolo, è quello giusto, nel senso che è quello di riferimento per le famiglie che hanno un figlio o una figlia in isolamento sociale, quello che dà le indicazioni più corrette, che offre una chat per genitori molto utile, che lavora con le istituzioni e le scuole, che è collegato ad una associazione che coordina gruppi di auto aiuto locali.
Concordo con Nicola Cavallini sul fatto che la rete offra altri linguaggi e altre modalità di stare in relazione, ma confesso che l’ho appreso in un secondo tempo, quando ho dovuto confrontarmi con un problema reale e doloroso. D’altronde sono d’accordo anche sul fatto che basti pensare alle stesse nostre abitudini di adulti: personalmente non ho mai scritto e non ho mai espresso pubblicamente le mie opinioni tanto quanto negli ultimi due anni in cui sono in pensione ed ho tempo di frequentare Facebook e i social, dove non riesco a trattenermi dall’intervenire su temi per me scottanti. Come sto facendo in questo momento.
Di questo attivismo digitale fa parte anche la creazione del blog, unascuolafuoriclasse.it, dove provo a condividere i miei approfondimenti con insegnanti e genitori, convinta che occorra operare quel dislocamento del punto di vista a cui ci sollecita Nicola Cavallini. Con questo non intendo dire che non condivido quello che scrive Mauro Presini, ma penso che sia rischioso limitare il discorso alla sola osservazione o, peggio, dargli una connotazione moralistica individuale, la responsabilità dei genitori, oppure riferirsi solo ai pericoli della modernità.
Ci fu qualche mese fa a Tutta la Città Ne Parla, su Radio3, una puntata dedicata ai pericoli della rete.
Entrambi gli specialisti, Federico Tonioni, psichiatra, responsabile, al Policlinico Gemelli di Roma del centro pediatrico che si occupa di dipendenza da Internet, e Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, docente universitario, esperto della dipendenza da Internet in adolescenza, dopo mezz’ora di trasmissione in cui giornalisti e altri intervenuti avevano parlato del web come origine del disagio e della necessità di controllare, proibire, correggere, poterono finalmente confutare tutto il discorso: non è la rete che va vietata, sono gli adulti che si devono attrezzare, ascoltando, dando spazio, cambiando la scuola perché, come dice Nicola Cavallini, non si può pretendere di continuare a chiedere ai e alle giovani di adattarsi a una didattica obsoleta dicendo loro che altrimenti sono sbagliati.
Matteo Lancini provocatoriamente afferma che Internet dovrebbe essere proibito ai maggiori di trent’anni,mentre le scuole dovrebbero essere tutte connesse e ogni alunna e alunno dovrebbe poter navigare liberamente per costruire il proprio sapere. Lui, dice, odia i social, e viene rimproverato dai suoi editori per questo, ma la società, adulta, funziona solo su di essi, salvo volerli proibire ai giovani. Mi permetto un aneddoto, che mi consente anche di indicare all’attenzione un suo memorabile intervento, un accorato, indignato, sarcastico appello proprio contro la proibizione del telefonino a scuola. Il video lo trovate su Linkedin, che forse qualcuna di voi non riuscirà nemmeno a raggiungere perché non è un social molto usato. Mi ha divertito leggervi sotto un commento che, appunto, faceva notare che purtroppo pochi avrebbero visto quel video. Penso proprio che Lancini lo abbia fatto nell’impeto del dolore per quella vicenda, usando l’unico strumento che aveva a disposizione, essendo poco pratico di dispositivi. Da esperto, sostiene anche che non esiste la dipendenza da Internet come diagnosi, nel senso che gli specialisti non riescono ad individuare parametri incontrovertibili per definirne le eventuali caratteristiche.
Anche nella trasmissione di Tutta la Città Ne Parla, Lancini ha ripetuto la sua convinzione di doversi occupare degli adulti, che sono fragili, in difficoltà e che riversano il loro bisogno di sicurezza sui figli e sulle figlie, le quali devono confermare loro che sono bravi genitori, non mostrando la propria sofferenza. Di questo tratta il suo libro L’età tradita, un testo divulgativo che rovescia i luoghi comuni sui giovani e analizza le storture sociali che li condannano.
Cosa deve fare un genitore allora? Dovrebbe essere capace di aiutare a tollerare il fallimento: ce lo vedete uno che ne sia capace? Nel libro infatti si inquadra uno stile educativo genitoriale diffuso che ne è lontano. Ma lo è anche la scuola: non solo istituzionalmente, con il rilievo dato al merito, quindi al risultato, alla performance, anziché al percorso, all’unicità, ma anche con la pratica convinta degli e delle insegnanti di una didattica trasmissiva, omologante e classificante, che non rispetta i tempi, le modalità di apprendimento personali, che non apprezza la ricerca, che non insegna a farsi domande, ma solo a rispondere a domande, fatte da altri, con una ripetizione pedissequa di ciò che viene presentato, già preconfezionato.
Tutto ciò si scontra con i veri bisogni delle e degli adolescenti, che necessitano di misurarsi, di mettersi alla prova, di sbagliare per capire quale direzione prendere e imparare ad apprezzarsi, senza essere immediatamente declassificati o cancellati dai registri irrimediabilmente. Occorre vedere il vero valore dei giovani, senza giudicare quanto diversi siano da noi, ma scoprire e riconoscere quello che valgono veramente, interessandoci alle loro modalità per quanto a noi ignote o apparentemente futili.
La chiamano “la paura della pagina bianca” o “il blocco dello scrittore”, una malattia di cui hanno sofferto anche grandi artisti, Mallarmé, Gogol’ e tanti altri. Scrive Van Gogh a suo fratello Theo: “tu non sai quanto sia paralizzante fissare una tela vuota che dice al pittore: tu non puoi fare nulla.”. Ma il dilemma della prima riga, la ricerca vana di un incipit, può accadere a tutti. Soprattutto a Ferragosto. Ad esempio...
– “Voglio scrivere un articolo. O forse è meglio un racconto, magari breve. Il soggetto, l’ambiente, il personaggio…
Introspettivo. O estrospettivo? Come si dice?”
– Chi telo impedisce?
– Nessuno. Forse io.
– Ma dai, che se ci pensi ci riesci.
– Dunque… “Il”… Perché non “la”?
– OK. La…oppure “le”.
– Senti qua “Le giornate chiusi in casa…”
– Inizio banale.
– “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza…”
– L’ho già letto da qualche parte .
– “Quel braccio del Lago di Como…”
– Allora insisti!?
– La fai facile tu! Allora, visto che sembri saperla lunga, dimmi tu come iniziare…
– Dai, non ti arrabbiare, ti volevo solo aiutare, ma mi taccio subito.
– Ascolta. L’altro giorno mi è venuta un’idea poi un’altra e un’altra ancora, ma non andavano d’accordo tra loro e mi sono fermato. All’improvviso mi sono ricordato che dovevo caricare il cellulare. Facciamo così: dopo Ferragosto prenderò una decisione epocale.
mai mi abbandona
la domenica sera
il sapore dei compiti non fatti.
Il logorio dell’ultimo della classe
mi accompagna nei decenni
molto oltre i cinquant’anni
il cantiere come il liceo
il giudizio dei mille capi come i prof.
Arranco sempre a fatica
mentre la vita mi scorre nelle vene
come una ferita,
le passioni mi si spengono tra le dita.
Vorrei essere da un’altra parte
ma la fabbrica mi incatena,
la polvere del piazzale
dove passano le gru mi satura la gola.
Sempre uguale
sempre l’ultimo
nessuna zattera
mi salva dal recinto.
Lontano da qui, fuori da questa galera
mentre la ruota del criceto
gira senza sosta,
e io non posso fermare questa mala giostra.
In copertina; Il polo chimico di Ferrara, soprannominato Il Fabbricone
La precarietà abitativa è stata sottostimata per anni, ma i dati più recenti mostrano un raddoppio di chi vive in strada rispetto al 2014. La condizione dei senzatetto non eterosessuali o non cisgender è completamente ignorata, eppure le statistiche all’estero dimostrano che necessita di maggiore attenzione
Cominciamo. «Sono Larbi Gilali. Anzi, ero Larbi Gilali. Poi Jessica è stato il mio nome d’arte. “Jessy”, da quando ho smesso di battere», dice Jessy. Qualcuno una volta ha scritto che la parola “rosa” non riuscirebbe a imprigionare l’essenza di quei petali, perché, anche se lo chiamassimo diversamente, quel fiore profumerebbe sempre con la stessa dolcezza. Eppure, Jessy, donna transgender che da quando ha quattordici anni fugge da una casa a un’altra in cerca della libertà che le spetta, inizia la sua storia proprio da un nome. Anzi ben tre, che marcano come pietre miliari le fasi più importanti del racconto della sua vita.-
E in quelle tre identità sono nascosti proprio gli odori delle fasi della sua esistenza e dei luoghi in cui ha vissuto. Larbi Gilali è la fragranza delle spezie d’Algeria, dove Jessy è nata. Ma è anche l’odore di carne bruciata, quella della sua pelle che suo padre ustionava con dei fili elettrici quando lei era ancora solo un ragazzino di tredici anni. Jessica sono i profumi dell’Europa, il burro di Parigi o l’acqua del mare di Napoli, che l’hanno accolta e in cui ha potuto portare avanti la transizione di genere. Ma è anche quello dei luoghi in cui ha dormito, stanze d’albergo o appartamenti, o quello del suo sangue rappreso dopo i colpi di manganello della polizia.
Jessy è oggi e non è facilmente definibile, forse perché l’olfatto funziona meglio con gli odori della memoria piuttosto che con quelli che emaniamo sul momento. Nel tempo Jessy ha avuto problemi a trovare un posto dove vivere, ma adesso è a Milano e vuole ricominciare. Dice che ormai è «pulita» da tanti anni e al momento sta aspettando la risposta di qualche datore di lavoro.
In Italia la precarietà abitativa è stata largamente sottostimata. A dicembre 2022 l’Istat ha pubblicato una nuova rilevazione che aggiorna i dati sull’argomento altrimenti basati su studi del 2014, quindi di ben otto anni fa. Quelle vecchie statistiche riportavano cinquantamila persone senza dimora sul territorio italiano. Il censimento di quest’anno ne conta invece il doppio, più precisamente 96.197 persone.
Se quello dei senza tetto è considerabile un fenomeno scarsamente considerato da un punto di vista di risposta istituzionale e da parte del dibattito pubblico, se non legato al massimo al tema dell’immigrazione, quello della homelessness Lgbtqi+ è completamente invisibile.
«È un aspetto che non è semplicemente sottostimato. Non viene stimato affatto», dice Roberta Dameno, docente di sociologia del diritto presso il dipartimento di giurisprudenza di Milano Bicocca ed esperta in tutela dei diritti fondamentali delle persone gender variant e dei senza fissa dimora. «Questo va naturalmente ad aumentare il disagio di queste persone. Possiamo dire che c’è un doppio rifiuto. Il primo da parte delle relazioni familiari, a cui va poi ad aggiungersi un totale non riconoscimento, quindi un secondo rifiuto, da parte delle istituzioni», aggiunge la professoressa.
La condizione delle persone senza dimora e dalla identità sessuale o di genere non conforme è una discriminazione intersezionale, concetto elaborato per la prima volta nel 1989 dalla giurista e attivista afroamericana Kimberlè Crenshaw, per definire le oppressioni subite dalle donne nere negli Stati Uniti. Ma, come confermato da numerosi studi, la coincidenza di più vulnerabilità genera una serie di ostacoli che rende ancora più difficile per chi è fragile uscire dalla bolla di esclusione sociale di cui è vittima. Così più si è in difficoltà più si rimane indietro, sempre più lenti, sempre più soli, sempre più invisibili.
Una relazione problematica tra un giovane e il proprio nucleo familiare porta, infatti, a una maggiore tendenza alla dispersione scolastica e, di conseguenza, a minori possibilità di trovare una fonte di reddito. La mancanza di una base economica a sua volta porta a problemi di isolamento sociale, che aumentano l’esposizione a situazioni di violenza. Bisogna considerare poi anche la dimensione psicologica, dal disagio psichico e lo sviluppo malattie mentali alla nascita di pensieri e atteggiamenti suicidi. Le persone trans devono anche fare i conti con i processi di transizione che decidono di intraprendere, con tutte le potenziali complicanze del caso.
A tutto questo si aggiunge la mancanza di una casa: per quanto sia la condizione ultima rispetto a problemi economici o socioculturali, questa determina l’ufficiale esclusione dal linguaggio non solo politico, ma anche legale, secondo Dameno. «Si tratta della perdita di tutta una serie di diritti, dal diritto al voto al diritto alla sanità, messi appunto in discussione dal fatto di vivere per strada», specifica la professoressa.
In Europa alcuni Paesi hanno cominciato a muoversi in termini di rilevazione statistica del fenomeno e i dati raccolti dimostrano un’evidenza non ignorabile. Una ricerca del 2015 in Gran Bretagna riporta che le persone Lgbtq+ tra i quindici e i venticinque anni rappresentano il venticinque per cento (quindi un quarto) della popolazione senzatetto del paese. In Spagna, invece, uno studio condotto nel 2017 riporta che lo stesso dato ammonta addirittura al trentacinque per cento.
Le persone Lgbtq+ hanno molte più probabilità di dover lasciare la propria casa, sia nel caso in cui siano allontanati da parte della propria famiglia (throwaway) o in cui fuggano di propria sponte da situazioni di violenza domestica (runaway). Indagini condotte negli Stati Uniti concordano nel ritenere che queste possibilità arrivi quasi al doppio per chi ha un orientamento sessuale non conforme rispetto alle persone eterosessuali e cisgenere. Il dato è molto maggiore nel caso di adolescenti trans, tra cui uno su cinque è o rischia di diventare senza dimora. E questa sovrabbondanza è spiegabile per ovvi motivi: una transizione non può essere nascosta.
Tra i senzatetto tanti sono migranti in fuga da comunità in cui l’omosessualità o la transessualità è punita con persecuzione fisica e legale. L’omosessualità ad oggi è, infatti, criminalizzata in circa settanta paesi, di cui quasi la metà in Africa. A maggio di quest’anno l’Uganda, in un Paese in cui l’omosessualità è già illegale da tempo e per cui in casi “aggravati” (vale a dire se con minori e disabili o quando uno dei due partner è positivo all’Hiv o sotto minaccia) è prevista la pena capitale, ha approvato un disegno di legge che prevede ulteriori dure sanzioni per le relazioni omosessuali. Amnesty International l’ha denunciata come «legge profondamente repressiva» e come «un grave attacco ai diritti umani e alla Costituzione dell’Uganda, nonché agli accordi regionali e internazionali per i diritti umani ai quali l’Uganda aderisce».
«Io ho assistito un ragazzo della Sierra leone giovanissimo, del ’99, che era scappato da un matrimonio combinato con una ragazza. Nel momento in cui lui ha fatto coming out con i genitori, il padre lo ha cacciato di casa e ha cominciato ad essere perseguitato da tutta la sua comunità religiosa. Allora è venuto in Italia», racconta l’avvocato Agostina Stano, dell’organizzazione di volontariato Avvocati di strada.
Nata come onlus nei primi anni del 2000, costola di un’altra associazione, Amici di Piazza Grande, Avvocati di strada è poi diventata un organismo indipendente. Attiva al momento in cinquantanove città d’Italia, dal 2001 l’associazione ha fornito aiuto legale gratuito a più di quarantaquattromila persone senza dimora.
Nonostante la scarsa documentazione sul tema in Italia, secondo Avvocati di strada c’è una diffusa consapevolezza tra gli operatori che si occupano di homelessness che l’orientamento sessuale e l’identità di genere possano costituire almeno una concausa della vita in strada.
Per rispondere al fenomeno, negli ultimi sette anni si sono, infatti, moltiplicate le case arcobaleno, ovvero rifugi gestiti da associazioni che accolgono persone in cerca di un tetto in quanto discriminate per il loro orientamento sessuale o per il percorso di transizione avviato. Ad oggi in Italia questi progetti di accoglienza abitativa sono attivi a Milano, Torino, Roma, Napoli, Bergamo, Padova e Reggio Emilia.
Alcune tra queste associazioni non fanno necessariamente distinzione di età e in generale si cerca di offrire una convivenza il più possibile confortevole e familiare, non istituzionalizzante. Considerando poi che si assistono persone con una stratificazione di problemi, da quelli più prettamente materiali e finanziari a quelli familiari ed emotivi, molti centri sono provvisti di servizi di counseling psicologico e psichiatrico, di educatori e assistenti sociali.
Numerosi territori, soprattutto al Sud e nelle isole, rimangono però totalmente sprovvisti di un servizio del genere. Quelli che esistono già, invece, spesso denunciano la difficoltà di tenere in vita i progetti in corso, che mancano di finanziamenti a getto continuo, ritrovandosi costretti quindi a dipendere da bandi pubblici o aiuti economici estemporanei, come i crowdfunding.
Anche l’ufficio di Milano di Avvocati di strada, il cui sportello ha sede in via Hoepli, proprio dietro al Duomo, sente il bisogno di un maggiore supporto istituzionale. «Il nostro obiettivo sarebbe quello di aprire almeno un altro sportello, o due, perché prima ne avevamo tre. Poi ci è scaduta la convenzione con il Comune. Non ce l’hanno più rinnovata», dice Stano.
Fino a due anni fa, infatti, Avvocati di strada aveva a Milano anche un altro spazio, con Progetto Arca. Nel 2021, però, l’associazione ha dovuto cedere il locale, poiché mancavano spazi per smistare le persone che il progetto ospitava nei suoi dormitori. Per cinque anni un terzo sportello è stato attivo anche presso il dormitorio di viale Ortis.
«Vedere tutti i nostri assistiti una sola volta alla settimana è impegnativo, perché in media siamo tre, quattro avvocati in turno qua. Domani per esempio abbiamo sul calendario dodici appuntamenti da fare in due ore. Così non riesci nemmeno a dedicarci tutto il tempo che vorresti, naturalmente», spiega l’avvocato.
Come Federico Zappino, filosofo e attivista queer, ha scritto in un articolo della rivista Il Tascabile, quando si parla della diseguaglianza di genere e sessuale non si pensa mai alla diseguaglianza materiale. Le si tratta, bensì, come fossero due cose distinte, come se l’oppressione e la violenza coincidessero interamente con problemi culturali, indipendenti dal modo in cui è strutturata economicamente la società. Ma, così come nell’accessibilità al mercato abitativo, la subalternità di risorse, materiali e immateriali, esperita dalle minoranze di genere e sessuali va non solo denaturalizzata, ma innanzitutto riconosciuta statisticamente e mediaticamente.
Per Jessy, che ormai è in Italia da tanti anni, non esiste qui un sistema di welfare sufficiente che tuteli i diritti e il benessere psicofisico di chi, come lei, cerca un posto dove vivere. «E per questo», dice, «io la mia storia la voglio raccontare».
Cover: Censimento del comune di Roma dei senza fissa dimora che dormono a stazione Termini – Foto Cecilia Fabiano/LaPresse, 2023
Topo Tipo & Topo Tapo. Due amici topolini intorno a un tavolo, sulle orme di Esopo. Città o campagna?
Oggi siamo incuriositi da questo bell’albo in bianco e nero, di Roberto Piumini e Irene Volpiano, Topo Tipo & Topo Tapo, che Orecchio Acerbo editore presenta come una delle novità estive.
Non c’è pausa vacanziera che tenga per la fantasia irrefrenabile. E se qualcuno di voi è, invece (fortunello) in ferie, montagna, collina o mare che siano, suggeriamo di portarsi con sé questo divertente racconto. Il ricordo di Esopo, e poi di Orazio, ci accompagna.
Non si è mai contenti di quel che si ha e di dove si vive, ma chi lascia la via conosciuta per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova… E poi … è meglio vivere in santa pace una vita modesta, piuttosto che vivere nel lusso sempre fra tante incognite, timori, spaventi e batticuori.
Intorno a un tavolo, due amici roditori stanno assaporando pietanze semplici e bevendo acqua fresca. Quattro chiacchiere spensierate in compagnia. Le code si muovono lente, cadono sul pavimento con lentezza, quasi ad accarezzarlo. Fuori si sentono solo il fruscio del vento tiepido e il ronzio degli insetti. Anche i mobili interno sembrano sonnecchiare, insieme a libri ordinati, cornici con fotografie di famiglia ed abiti appesi. Calma e quiete. L’atmosfera è incantevole, degna della fiaba più coinvolgente.
Il topo di città (Topo Tapo) è a pranzo, in silenzio, dal topo di campagna (Topo Tipo). Non che non apprezzi la quiete che lo circonda, ma in città è tutta un’altra cosa… Così invita il suo compare campagnolo, interessato e curioso, ad andarlo a trovare.
Tipo non ci pensa troppo e tre giorni dopo, con berrettino e sua bici fiammante, parte per la città. Fra soffioni che accarezzano la sua giacchetta a quadri. È elegante e nel cestino della bici ha un bel regalo per il suo amico. Mai andare a mani vuote. Ma Tapo non ha una sua casa, una dimora fissa e accogliente, tutte le case sono la sua…
Si entra in una e poi nell’altra, passando da cortili e giardini, ma per Tipo la vita in città si rivela troppo avventurosa. Sono effettivamente molte le attrattive, compreso il bagno in una piscina piena di schiuma divertente e profumata, ma il prezzo da pagare è molto alto. Da un pericolo all’altro, da una paura a un terrore: le trappole a molla dalle quali è meglio tenersi lontani, la ramazza del cuoco, gli artigli del gatto che ronfa, i grandi piedi in scarpe dall’aria cattivissima. C’è sempre qualcuno, un pericolo, che va e viene. Non si può fare nulla, tutto è proibito. E se poi si incontra un gruppo di amici, come Topone e Topacchia, è troppo tardi, non è rimasto nulla, hanno già mangiato tutto!
Non ci si annoia in città ma il cuore del topo di campagna è sottosopra e lo stomaco sempre ancora vuoto. I biscotti ricoperti di zucchero, mangiati con il patema, dopo la pericolosa arrampicata per cercare di raggiungere la scatola rotonda di metallo che li contiene, non fanno proprio per lui: meglio riprendere la bici, con la coda che dondola tranquilla come un filo d’erba nel vento leggero, e tornare alla pace di sempre. Forse là, in campagna, c’è meno cibo ma sicuramente più quiete.
Roberto Piumini, Irene Volpiano, Topo Tipo & Topo Tapo, Orecchio Acerbo Editore, giugno 2023, 32 p.
Roberto Piumini, classe 1947, ha abitato a Edolo, a Varese, a Milano. Dal 1967 al 1973 è stato insegnante di lettere in scuole medie e superiori della provincia di Varese. Per tre anni ha recitato nelle compagnie Teatro Uomo di Milano e La Loggetta di Brescia, e per un anno ha fatto esperienza come burattinaio. Dal 1978 ha pubblicato libri di fiabe, racconti, romanzi, poesie, filastrocche, testi teatrali e di canzoni, traduzioni, adattamenti e testi parascolastici. Una settantina gli editori italiani, tanti anche quelli esteri. È stato fra gli autori e ideatori della trasmissione “L’Albero Azzurro”, mandata in onda della Rai.
Irene Volpiano nata ad Asti nel 1996, ha sempre dimostrato grande passione per il disegno e ha sempre avuto le idee molto chiare su cosa fare da grande: l’illustratrice di libri per l’infanzia. Per questo ha intrapreso gli studi artistici e, conseguita la laurea in pittura, ha frequentato il master in illustrazione per l’editoria all’Ars in Fabula di Macerata. Nel 2022 l’esordio con “Mio zio Guido fa il muratore”, testo di Sgaldramuni, che ha attestato il suo talento e la sua inesauribile inventiva, trasformando il suo sogno in realtà.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara.
Per leggere tutti i numeri della rubrica Parole e Figure, clicca sul nome della rubrica
Ospitiamo volentieri una interessante riflessione di Ruggero Veronese sul degrado delle periferie, del Gad in particolare, e sul plateale fallimento del ‘metodo naomo’ e più in generale sull’azione antidegrado su cui si fondava nel 2019 gran parte della campagna elettorale dell’allora minoranza. Dice in sostanza Veronese, con un lodevole spirito bipartisan: dove Tagliani e le giunte di Centrosinistra avevano tentennato e preferito non agire, in quattro anni il Governo di Destra Fabbri-Lodi si è limitato agli annunci, ai blitz da trasmettere sui social e a moltiplicare le cancellate. Conclusione: il problema del disagio sociale e del degrado invece di ridursi, si è ingigantito e incancrenito. Anche se oggi non fa più notizia. Siamo davvero a un punto di non ritorno? Fra meno di un anno si andrà a nuove elezioni, la speranza è che qualcuno – fuori o dentro i partiti – affronti seriamente questo tema così doloroso per tanti concittadini, non con proclami demagogici ma con proposte concrete, realistiche e inclusive. Francesco Monini
Punto di Non Ritorno
di Ruggero Veronese
Secondo un vecchio detto le cose devono peggiorare, prima di poter migliorare. Più peggiorano, più possono migliorare. Se poi la situazione precipita e si incasina fino ad arrivare al punto di non ritorno, tanto meglio: ancora più eroico e salvifico sarà l’intervento di chi interverrà in cerca di una soluzione. Fosse anche una soluzione imperfetta, un tentativo qualunque, un rimedio tampone.
D’altra parte – si dirà – la situazione è già compromessa.
Il punto di non ritorno è già oltrepassato.
A volte è questa la sensazione che provo osservando le mirabolanti operazioni dell’amministrazione Fabbri, e in particolare del suo principale frontman, primo solista e uomo immagine, il vicesindaco Nicola Lodi.
Chi ha seguito l’avvento e l’avventura politica del buon Naomo – e non ha gli occhi completamente foderati di prosciutto ideologico – si è accorto molto presto di una cosa: il vicesindaco è uno di quei politici che ha il costante bisogno di muoversi all’interno di una crisi. Di piombare come/con una ruspa su situazioni di esplicito e palese degrado, trascuratezza e illegalità, situazioni ormai così irrimediabilmente compromesse da rendere accettabile o addirittura auspicabile qualunque soluzione, dai ‘calci in culo’ contro gli immigrati alla demolizione in diretta del campo nomadi, con tanto di riprese abusive col drone. Tanto a quel punto vale un po’ tutto.
Col passare degli anni e la progressiva istituzionalizzazione di Lodi, il Metodo Naomo ha assunto diverse forme, si è un po’ smussato, ma l’elemento cardine resta inalterato: la costante presenza di una situazione di disordine, a cui contrapporre un rimedio spettacoloso e muscolare. Possibilmente in diretta social. Possibilmente in polemica con qualche iper-schierato avversario politico in consiglio comunale e/o su Facebook.
Ad ogni modo, diversamente da buona parte delle persone che leggeranno queste parole, non penso che questo approccio sia sempre sbagliato. Certo, mi fa rabbrividire la spettacolarizzazione che il vicesindaco fa di ogni sua azione, le dirette social per additare pubblicamente e bullizzare i suoi contestatori, la violenza intrinseca in molte sue dichiarazioni entrate nelle opinioni dei ferraresi, poi fatte passare per semplici iperboli e boutade. Ma credo anche che in certi casi, ad esempio nei giardini del Grattacielo, si sia effettivamente registrato un miglioramento dopo anni di innegabile degrado, anche per effetto di alcune iniziative della nuova maggioranza.
In fin dei conti Lodi è stato il politico più votato a Ferrara proprio in virtù di quello stile e approccio in totale antitesi con l’elitarismo e il bon ton della sinistra ferrarese, percepiti ormai da molti cittadini come forme di indolenza e passività di fronte alle nuove dinamiche sociali. In questo senso non si può dire che non abbia mantenuto, almeno in parte, ciò che prometteva ai propri elettori: cambiare registro rispetto agli anni del Pd, raddrizzando le storture a suon di martellate.
Ma un po’ come la sinistra non ha potuto vivere di rendita sulla propria gloria passata, oggi nemmeno la Lega e i suoi alleati possono campare in eterno sui demeriti altrui. Sono passati tre anni e mezzo dall’elezione di Fabbri e anche per la nuova amministrazione i nodi iniziano ad arrivare al pettine: giorno dopo giorno i veri o presunti errori della sinistra scivolano in secondo piano, per far posto all’incapacità di trovare soluzioni da parte dell’attuale maggioranza. Incapacità non solo nelle questioni in cui Tagliani se la cavava piuttosto bene (come l’insediamento di imprese al petrolchimico e nelle aree industriali, uno dei punti dolenti dell’amministrazione Fabbri che potremmo pagare a caro prezzo nei prossimi anni), ma anche su quelli che dovrebbero essere i cavalli di battaglia delle politiche leghiste: la lotta al degrado, allo spaccio e alla microcriminalità.
In questi ultimi tre anni il recupero delle periferie da parte dell’amministrazione Fabbri è costellata da rumorose vittorie e silenziose, silenziosissime ritirate.
Prendiamo la situazione nel quartiere Gad, il più affidabile termometro sociale di Ferrara da 15 anni a questa parte: si può davvero parlare di una riqualificazione riuscita? Personalmente, non credo: le azioni di Fabbri e Lodi hanno sicuramente avuto un effetto positivo in alcuni dei punti più esposti e dove i problemi erano più evidenti (in particolare l’area tra il Grattacielo e il piazzale della stazione), ma nel resto del quartiere la situazione non è cambiata granchè. In alcuni casi non è cambiata affatto. A volte è addirittura peggiorata. Esattamente come quattro anni fa, il Gad è ancora il principale punto di spaccio della città. Il valore immobiliare rimane ai minimi storici, la maggioranza delle saracinesche dei negozi sono state definitivamente chiuse. Molte attività che fino a qualche anno fa provavano a resistere, anche in feroce polemica con l’amministrazione Pd, oggi hanno definitivamente alzato bandiera bianca.
Non si lamentano più semplicemente perché non esistono più.
Esattamente come quattro, o sei, o nove anni fa, chi vive in Gad può assistere quasi quotidianamente a fragorose liti tra spacciatori sulle mura o nelle vie attorno allo stadio, e spesso quando porta fuori il cane si ritrova a declinare gentilmente – io almeno cerco di farlo gentilmente – l’offerta di chi gli vuol vendere un pallino a venti euro.
No, la situazione non è cambiata granché. Quella che è cambiata, forse, è la nostra sensibilità al tema del degrado, il fatto che ormai iniziamo a fare il callo ad alcune dinamiche tipiche della nostra epoca. Certe cose non sono più una novità, non fanno più notizia. E dove prima molti vedevano una colpa della politica, del sindaco, del partito, ora scorgono solo un inevitabile segno dei tempi che cambiano. Nel frattempo il famigerato degrado, lontano dai riflettori mediatici e dai post di qualche geniale addetto alla comunicazione, continua ad avanzare. Lentamente, nei sottoscala di piazzale Castellina e tra le ombre dei parchi troppo a lungo trascurati.
Fino al punto di non ritorno.
Fino al prossimo intervento show.
Oggi è il turno di Parco Giordano Bruno, a due passi dallo stadio: completamente abbandonato a se stesso per quasi quattro anni, viene definitivamente chiuso da un lato e recintato dall’altro. Ufficialmente, per contrastare i fenomeni di criminalità. Per impedire la fuga degli spacciatori dal lato opposto quando le volanti arrivano a fare i controlli.
Sinceramente non ho mai capito cosa impedisca alle forze dell’ordine, molto banalmente, di bloccare e controllare due accessi contemporaneamente. Problemi di coordinamento? Scarsità di mezzi o risorse? Spacciatori in grado di mimetizzarsi nell’ambiente circostante? Ho l’impressione che qualunque risposta mi inquieterebbe.
Quello che so con certezza è che questa chiusura rappresenta la definitiva resa di Fabbri e Lodi di fronte ai fenomeni di degrado. Il momento in cui cade il bluff: il ritorno alla normalità che era stato promesso non arriverà mai. In questi anni il parco non è stato rivitalizzato, ma lasciato morire. Non è stata rinnovata la concessione del campo da pallavolo (negli ultimi anni letteralmente sepolto dalla vegetazione) ed è stata ordinata la demolizione del chiosco Mac Murphy, unica e ultima attività imprenditoriale ed economica, oltre che ultimo presidio di vita e socialità nella zona. Sono lontani in tempi in cui la Lega si scagliava contro il Pd per la chiusura dei chioschi sulle mura, a poche centinaia di metri dalle nuove recinzioni, sottolineandone l’importanza aggregativa e sociale. Oggi i gestori delle attività circondate dai fenomeni di degrado vengono – più o meno implicitamente – additati come responsabili della situazione che si è sviluppata attorno a loro. Come truppe sacrificabili che, dopo essere rimaste bloccate troppo tempo al fronte, vengono investite dal fuoco amico.
Il risultato è che se durante gli ultimi, contestatissimi, anni dell’amministrazione Tagliani il parco era ancora una zona per così dire contesa, in bilico tra fenomeni di degrado in aumento e una quotidianità che cercava di resistere, dopo l’elezione di Fabbri è finito completamente in mano ai gruppetti di spacciatori che oggi, applicando il Metodo Naomo, ne giustificano la chiusura.
Una politica antidegrado a cui occorre un costante aumento del degrado. Come un cane che si morde la coda.
Perché le cose devono peggiorare, prima di poter migliorare. Fino al punto di non ritorno.
Fino al punto in cui ogni soluzione è buona.
In Copertina: il vicesindaco di Ferrara Nicola Naomo Lodi in posa davanti alla nuova cancellata del Parco Giordano Bruno (immagine tratta dalla pagina fb del vicesindaco)
Sono 1,414 milioni i detenuti in Europa (102 ogni 100mila abitanti al gennaio 2021). La fonte è il rapporto SPACE 2021 Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe (vedi anche la relazione di sintesi), aggiornato annualmente dal 1983.
In Usa, Cina, Russia eTurchia, sono rispettivamente 718, 118, 328 e 325. I dati della Cina sono dubbi.
I numeri più esigui sono in Germania, Olanda, Svizzera e nei cinque Paesi nordici.
L’Italia si mantiene al di sotto della mediana, con 90 su 100mila abitanti (in lieve calo), pari a 53.329 detenuti.
I suicidi sono 5,7 ogni 10mila detenuti in Europa. in Italia il doppio: 11,4.
La durata media della detenzionein Europa è pari a9 mesi (Italia 18 mesi); in Europa il 23.5% ha una pena da 1 a 3 anni (Italia 16.3%), il 17.2% tra i 3 e i 5 anni (Italia 22.3%) e il 20.8% una da 5 a 10 anni (in Italia 29.1%). All’ergastolo sono l’1.7% del totale (Italia 4.9%). Dieci paesi hanno condizioni di sovraffollamento (tra essi l’Italia, che ospita 105 detenuti ogni 100 posti disponibili).
Tra le persone detenute solo il 5% sono donne (Italia 4.2%); il 15% sono stranieri (Italia 32%).
Per ogni membro del personale degli istituti di pena risultano esserci nella media europea 1,4 detenuti; se, tuttavia, si considera il solo personale adibito esclusivamente alla custodia, il rapporto è di 2,3 detenuti per ciascun addetto. Il costo della detenzione in carcere in Europa è di 27 miliardi, 28mila euro all’anno (50mila in Italia) per ogni detenuto.
Nei paesi nordici ci sono meno detenuti in quanto meno recidivi: migliori condizioni sia in carcere, sia altrove (metterli per esempio su un’isola in relativa libertà) costa alla fine meno, portando ad una recidiva minore (circa 30% rispetto al 70%). Una delle esperienze più avanzate in Italia è stata fatta al carcere di Milano–Bollate dalla ex direttrice Lucia Castellano che ha scritto un libro (“Diritti e castighi, Il Saggiatore, 2009).
I dati di fonte Eurostat sono diversi da quelli di Space 2021, ma i confronti tra Paesi non cambiano.
Per vedere tutte le uscite della rubrica Numeri curata da Andrea Gandini clicca sul nome della rubrica.
Segui anche la rubrica curata da Mauro PresiniLe voci da dentro : “… le voci che provengono dalla nostra coscienza e che ci parlano direttamente, ma anche quelle che provengono da chi è “dentro” cioè da persone che stanno vivendo l’esperienza del carcere…”.
Dall’8 al 13 agosto a Casacalenda (Campobasso) un programma ricco di eventi. Ben 61 film in concorso, tra gli ospiti anche Lyda Patitucci, omaggio a Sophia Loren con la video-mostra fotografica a lei dedicata e, ancora, concerti e tanti libri
La 21ª edizione diMoliseCinema si svolgerà dall’8 al 13 di agosto 2023a Casacalenda (Campobasso). Sei giorni pieni di proiezioni, incontri, ospiti, concorsi, eventi e spettacoli che animeranno le piazze e i vicoli del borgo molisano che da oltre 20 anni ospita il Festival ispirato al motto “Piccoli paesi, grande schermo”.
Sarà Isabella Ragonese la protagonista dell’apertura del Festival, martedì 8 agosto, per la presentazione del libro Tutta la vita dentro”, di cui è protagonista, edito dalla collana del Festival e a cura di Anna Maria Pasetti e Federico Pommier Vincelli. Il volume ricostruisce la sua carriera cinematografica e teatrale con saggi e interviste, tra gli altri a Roberto Andò, Giorgia Cecere, Elio Germano, Fabio Mollo, Valeria Solarino e Daniele Vicari. La pubblicazione segue quelle dedicate negli anni scorsi a Elio Germano, Alba Rohrwacher, Pierfrancesco Favino, Jasmine Trinca e Fabrizio Gifuni.
Il Festival propone cinque concorsi di corti, documentari e lungometraggi, con ben 61 film in competizione che saranno valutati da 4 giurie. Numerose le anteprime italiane di opere premiate in prestigiosi Festival internazionali come Cannes, Berlino e Clermont Ferrand. La selezione offre sguardo sul cinema contemporaneo italiano e internazionale e attraversa generi, temi e linguaggi.
Ad accompagnare i film gli ospiti Antonia Truppo, Lyda Patitucci, Nicola Prosatore, Andrea Magnani, Luca Scivoletto, Emanuele Linfatti, Matteo Creatini, Emanuele Palumbo, Sophie Chiarello, Lorenzo Conte, Isabel Achàval e Chiara Bondì Christian e Carmosino Mereu. E per gli eventi speciali saranno ospiti il giornalista Marco Damilano, la sceneggiatrice Silvia Scola e la scrittrice Maria Grazia Calandrone.
Come di consueto il Festival dedica grande attenzione al grande cinema del passato, con un omaggio alla coppia più celebre del cinema italiano, Sophia Loren e Marcello Mastroianni, ritratti nel manifesto della 21esima edizione e la proiezione della versione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Una giornata particolare, di Ettore Scola, presentato dalla figlia del regista Silvia Scola.
A Sofia Loren il festival dedica una video-mostra fotografica con una selezione di immagini dell’Archivio fotografico della Cineteca Nazionale-Centro Sperimentale di Cinematografia, a cura di Antonella Felicioni, con le musiche di Davide Cavuti. Ci sarà anche l’omaggio all’attore Paolo Turco con la versione restaurata dalla Cineteca di Bologna di Trevico-Torino di Ettore Scola, a cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale.
GIURIE E CONCORSI
Tre le giurie che giudicheranno le opere in concorso: per la sezione Frontiere. Concorso documentari italiani la regista Flavia Montini insieme al critico Fabio Ferzetti e al montatore e regista Luca Manes.
Per la sezione Percorsi. Concorso corti italiani la produttrice Antonella Di Nocera, il regista, interprete e curatore di festival Niccolò Gentili e il consulente cinematografico Giovanni Gifuni.
Per la sezione Paesi in corto. Concorso per cortometraggi internazionali saranno in giuria la critica cinematografica Alessia Brandoni, il distributore e produttore Alessandro Giorgio e l’attore Kal Weber. Per il concorso lungometraggi il premio viene assegnato dal pubblico.
Cinque i concorsi di MoliseCinema, tra i titoli in programma numerose anteprime italiane o internazionali e la partecipazione di registi e interpreti alle proiezioni. 7 i titoli di Paesi in lungo, sezione dedicata alle opere prime e seconde italiane, 6 i documentari italiani nella sezione Frontiere.24 i cortometraggi internazionali per la sezione Paesi in corto 2023.18 i cortometraggi italiani per la sezione Percorsi 2023.
A questi si aggiungono i 6 cortometraggi della sezione Girare il Molise, che concorrono al Premio della Rete dei Festival dell’Adriatico.
OPERE PRIME E SECONDE – CONCORSO PAESI IN LUNGO
Sono 7 i lungometraggi che concorrono al Premio del Pubblico – Paesi in lungo. Si tratta di opere prime o seconde del cinema italiano più giovane e innovativo.
Martedì 8 agosto apre il festival Come pecore in mezzo ai lupi, della concittadina Lyda Patitucci, con Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli. Alla presenza della regista e di Isabella Regonese. Un action movie sulla storia di vendetta e riscatto di una poliziotta infiltrata in una banda criminale. Con questa pellicola la regista ha vinto l’ultima edizione dell’Ortigia Film Festival (OFF15), il 22 luglio scorso. Questa la motivazione del Premio Miglior Film OFF15 a “Come pecore in mezzo ai lupi”: “un debutto sorprendente di un’autrice che firma un’opera prima originale e già diretta con sicurezza. Un thriller dell’anima, violento e teso nelle scene ‘criminali’ come nelle sequenze più intime che diventa nella regia di Lyda Patitucci un action movie spietato, nel quale anche i sentimenti hanno un cuore nero”.
Mercoledì 9 sarà la volta di Piano piano, opera prima di Nicola Prosatore, con Antonia Truppo, Lello Arena, Massimiliano Caiazzo. Un coming of age made in Napoli ambientato nel 1987 nell’estrema periferia della città partenopea sullo sfondo di quella felice stagione calcistica, condotta da Diego Armando Maradona, alla conquista del suo primo scudetto. Segue l’incontro con il regista e con l’attrice Antonia Truppo.
Giovedì 10 due appuntamenti a partire da La lunga corsa di Andrea Magnani, con Adriano Tardiolo, Giovanni Calcagno, Barbora Bobulova, alla presenza del regista. Il carcere, per Giacinto, è tutto tranne che un buco nero: figlio di due detenuti, lui dentro un carcere ci è nato e ci è pure cresciuto. Libero di volare via, decisamente impreparato a farlo.
A seguire I pionieri, di Luca Scivoletto, con Mattia Bonaventura, Francesco Cilia, Peppino Mazzotta, Lorenza Indovina. Alla presenza del regista. Nell’estate del 1990 Enrico ha dodici anni e tutti i problemi dei ragazzini della sua età. Ma a tormentarlo non sono gli amori non corrisposti. Il suo problema più grande si chiama Partito Comunista Italiano.
Per la sezione non competitiva Paesi in lungo special sarà proiettato, venerdì 11 agosto Mixed by Erri, di Sydney Sibilia, con Luigi D’Oriano, Giuseppe Arena, Emanuele Palumbo, Greta Esposito. Sarà presente l’interprete Emanuele Palumbo. Una storia di passione e sogni che da un basso di Napoli diventa un’incredibile avventura internazionale.
Sabato 12 in programma Margini, di Niccolò Falsetti, con Francesco Turbanti, Emanuele Linfatti, Matteo Creatini. Segue l’incontro con gli attori Emanuele Linfatti e Matteo Creatini e con il produttore Alessandro Amato. Siamo a Grosseto nel 2008 e i membri di un gruppo punk decidono di far arrivare una famosa band americana nella loro piccola città. Non tutto però andrà come speravano. Tra risate e non solo, una commedia che ha il sapore amaro della realtà.
Domenica 13 agosto doppio appuntamento con La proprietà dei metalli, di Antonio Bigini, con Martino Zaccaria, David Pasquesi. alla presenza del produttore Claudio Giapponesi. In un piccolo borgo di montagna, negli anni Settanta, Pietro, un bambino cresciuto senza madre da un padre burbero e con problemi economici, manifesta doti misteriose: piega metalli al solo tocco. Gli esperimenti porteranno il bambino a contatto col mondo invisibile, dove le leggi della fisica lasciano il passo ai desideri più profondi.
Segue Disco Boy, opera prima di Giacomo Abruzzese con Franz Rogowski e Morr Ndiaye che incontrerà il pubblico. Il film ha vinto l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo Artistico al Festival di Berlino 2023. È la storia di Aleksei, che dopo un lungo e difficile viaggio attraverso l’Europa arriva a Parigi per arruolarsi nella Legione Straniera.
FRONTIERE – PREMIO GIUSEPPE FOLCHI. CONCORSO PER DOCUMENTARI ITALIANI E DOC. SPECIAL DOCUMENTARI FUORI CONCORSO
Questi i documentari italiani selezionati per il concorso dell’edizione 2023 nella sezione Frontiere, intitolato al documentarista molisano Giuseppe Folchi, a cui si affiancheranno tre proiezioni Doc.Special, fuori concorso.
Apre il programma, martedì 8,La timidezza delle chiome di Valentina Bertani. Benjamin e Joshua sono gemelli omozigoti di 19 anni con una disabilità intellettiva. Un racconto libero e complice che mette in luce le risorse dei suoi protagonisti e riesce a farceli conoscere. Il documentario ha vinto un premio ai Nastri d’Argento e ha ottenuto una candidatura a David di Donatello.
Mercoledì 9 è la volta de Il cerchio alla presenza della regista Sophie Chiarello. Chi sono i bambini di oggi? Sophie Chiarello segue per cinque anni, con la sua telecamera, gli alunni di una classe elementare, catturando il loro punto di vista sul mondo. Il film ha vinto il David di Donatello 2023 come miglior documentario.
Giovedì 10 è il momento di Siamo qui per provare di Greta De Lazzaris e Jacopo Quadri. Protagonisti sono Daria, attrice e autrice, e Antonio coreografo e danzatore, che da anni condividono la vita artistica e, nonostante la pandemia, tentano di mettere in piedi uno spettacolo ispirato a Ginger e Fred di Fellini.
Venerdì 11 in programma Il Tempo dei Giganti di Davide Barletti e Lorenzo Conte che incontrerà il pubblico dopo la proiezione. Nel Salento, un batterio da quarantena sta uccidendo milioni di alberi d’ulivo. Un grido d’allarme e di dolore di una terra ferita che ha costruito la propria identità sul simbolo della pianta d’ulivo.
Sabato 12 viene presentato Las Leonas a cui segue l’incontro con le due registe Isabel Achàval e Chiara Bondì. È la storia di un gruppo di donne immigrate a Roma che hanno in comune la passione per il calcio. Le registe le seguono, tra speranze e aspettative, sia durante le partite del “Trofeo Las Leonas” sia durante la loro vita privata e lavorativa.
Domenica 13 chiude la rassegna dei doc in concorso Il paese delle persone integre alla presenza del regista Christian Carmosino Mereu. Nel 2014 alcune manifestazioni di massa e un’insurrezione non armata riescono a cacciare la dittatura dalla capitale del Burkina Faso ma non a cambiare lo stato di sfruttamento economico del Paese da parte di compagnie straniere e la debolezza del governo favorisce l’avanzamento di Al Qaeda e dell’ISIS.
I 24 CORTOMETRAGGI INTERNAZIONALI IN CONCORSO
Il Concorso internazionale, Paesi in corto, presenta 24 cortometraggi. Una selezione con diverse anteprime italiane e opere provenienti da grandi Festival (Cannes, Berlino, Clermont Ferrand) e scuole internazionali di cinema, che rappresenta uno degli appuntamenti imperdibili di MoliseCinema.
Ecco i titoli: An Irish Goodbye di Tom Berkeley e Ross White dall’Irlanda, vincitore dell’Oscar 2023; Bendi Miki Durán dalla Spagna; Calcutta 8:40am di Adriano Valerio, co-produzione Francia/India; Cui cuicui di Cécile Mille dalla Francia; Entre les mots di Ismail Farid da Lussemburgo. Fárdi Gunnur Martinsdóttir Schlüter dall’Islanda, menzione speciale al Festival di Cannes; Hors-saison di Francescu Artily dalla Francia. Krabdi Piotr Chmielewski co-produzione Polonia/Francia; Lel H’21/Night of the 21st di Omer Sterenberg da Israele; Martwypunkt/Blind Spot di Patrycja Polkowska dalla Polonia; Nothing Holier Than a Dolphin di Isabella Margara, dalla Grecia, premio del pubblico al Festival di Clermont Ferrand; فلسطين ٨٧/Palestine 87 di Bilal Alkhatib dalla Palestina; Poofdi Margaret Miller dagli Stati Uniti; Serpêhatiyênneqewimî/ThingsUnheard of di Ramazan Kılıç, dalla Turchia;Split End di Alireza Kazemipour co-produzione Iran/Canada; StückfürStück/Piece by Piece di Reza Rasouli dall’Austria; Takanakuy di Gustavo Vokos co-produzione Brasile/Perù; The Syrian Cosmonaut di Charles Emir Richards dalla Turchia; Tigrikdi Veronika Tsyhankova dall’Ucraina; Uhrmenschen/Primitive Times di HaoYu dalla Germania; Un petit homme di Aude David e Mikael Gaudin dalla Francia; Wild Summon di Karni and Saul, dal Regno Unito; Witchfairydi Cedric Igodt e David Van de Weyer co-produzione Belgium/Bulgaria; Xiaohui he ta de niu/Xiaohui and his cows di Xinying Lao co-produzione Cina/USA.
I 18 CORTOMETRAGGI ITALIANI IN CONCORSO
Il Concorso italiano cortometraggi, Percorsi, presenta 18 titoli, di cui alcun in anteprima. Ballatoio n.5 di Chiara De Angelis; Battima di Federico Demattè; Caramelle di Matteo Panebianco; Don’t Be Cruel di Andrej Chinappi; Editing Romance di Stefano Etter e Giovanni Greggio; Febbre di Emanuela Muzzupuppa; In quanto a noi di Simone Massi; La notte di Martina Generali, Simone Pratola e Francesca Sofia Rosso; La robe di Olga Torrico; Le variabili dipendenti di Lorenzo Tardella, David di Donatello come miglior corto; Me and You di Valentina De Amicis; Quando si ritira il mare di Francesco Lorusso; Rosa e pezza di Giulia Regini, miglior corto al Festivl di Karlovy Vary; Sciaraballa di Mino Capuano; SeMe di Lucia Bulgheroni; Sognando Venezia di Elisabetta Giannini; The Delay di Mattia Napoli e Tria di Giulia Grandinetti.
EVENTI LIVE
Anche quest’anno molti eventi live, nel segno della contaminazione tra cinema, arte e musica.
Il 9 agosto,Un uomo solo. Parole e musica intorno alle ultime ore di Luigi Tenco. Un reading musicale sul cantautore tratto dal romanzo omonimo di Antonio Iovane, con lo scrittore Antonio Iovane, la cantautrice Ilaria Pilar Patassini e il chitarrista Antonio Ragosta.
Il 10 agostoMusiche da Oscar. Concerto della Ancestral Chamber Music. Il concerto propone un programma di celebri colonne sonore della storia del cinema. Tra queste un omaggio a Ennio Morricone e le musiche di film come Pirati nei caraibi, La vita è bella, Il gladiatore, Il mago di Oz.
L’11 agosto Infanzia in technicolor. Concerto del duo Malelingue dedicato all’immaginario cinematografico dei bambini degli anni Ottanta.
Il 12 agostosonorizzazione dal vivo di Alice in Wonderland/Alice nel paese delle meraviglie, film del 1915.
LIBRI
Tra gli appuntamenti le consuete presentazioni di libri alla presenza degli autori. Ecco i titoli che saranno presentati: Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone, Einaudi, 2022. Con l’autrice ne parlano Susanna Turco e Sabrina Varriano. L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne di Filippo Tantillo, Laterza 2023. Con l’autore ne parlano Marco Damilano e Ilaria Gallace. Una posizione sociale di Giose Rimanelli, Rubbettino, 2023. Ne parlano Norberto Lombardi, Anna Maria Milone e Sebastiano Martelli. Remo Mastrovito. Disegni. 2000-2007. Il libro riscopre l’attività artistica di Remo Mastrovito, recentemente scomparso.
MOLISECINEMA SCUOLA
Durante il Festival ci sarà la presentazione dei progetti del Piano nazionale cinema e scuola curati da MoliseCinema nell’anno scolastico 2022-2023 e la proiezione dei cortometraggi realizzati dagli studenti.
MoliseCinema è organizzato dall’Associazione MoliseCinema, con la direzione artistica di Federico Pommier Vincelli. Ha il patrocinio e il contributo della Direzione generale Cinema del Ministero della Cultura; della Regione Molise; del Comune di Casacalenda. Collaborano: La Molisana; Camardo; Dimensione, Key Desk; Steiger Kalena; Biosapori; Mondo nuovo; Di Fonzo; Roxy bar; Marina Colonna; Di Majo Norante, Lega italiana per la lotta contro i tumori.
Foto e materiali ufficio stampa Storyfinders. Altre foto dal web
Crescita economica o decrescita? Meno sarebbe molto di più
di Thomas Schmid Tratto da pressenza del 6 agosto 2023
Il 19 luglio la Asian Development Bank ha diffuso con toni euforici le stime di crescita economica dei paesi asiatici per il 2023 e 2024: dopo la pausa imposta dal Covid, le economie asiatiche cresceranno in media del 4,8%. Secondo i dati, pubblicati da Inter Press Service e ripresi anche dall’edizione spagnola di Pressenza, Cina, India, Malesia, le Filippine e Vietnam hanno registrato l’anno scorso una crescita superiore al 7 %. Buone notizie? Non proprio.
Nei giorni scorsi si è diffusa anche la notizia che l’Earth Overshoot Day è caduto quest’anno il 2 agosto. Questo significa che dal 1° gennaio a questa data, l’umanità ha già esaurito le risorse disponibili sul nostro pianeta per l’anno in corso. Nei rimanenti 5 mesi, cioè da qui al 31 dicembre, sovrasfrutteremo la terra, spremendo le risorse oltre i limiti, portando il pianeta sull’orlo del collasso, ma anche consumando ciò che spetterebbe alle future generazioni.
Altro dato: la metà più povera dell’umanità (2,5 miliardi di adulti) vive con meno di 560 euro al mese, secondo il World Inequality Database. 700 milioni di persone sono estremamente povere e vivono con meno di 1,90 dollari al giorno.
Secondo l’Osservatorio delle Diseguaglianze francese“i Paesi emergenti che hanno registrato la crescita più forte hanno spesso visto aumentare le loro disuguaglianze interne, smentendo la tesi secondo cui lo sviluppo economico da solo sarebbe sufficiente a ridurre le disuguaglianze. Nel frattempo, l’1% più ricco del mondo, in gran parte statunitense, non ha ceduto nulla. La sua fetta della torta rimane uguale a quella dell’inizio degli anni 2000, dopo 20 anni di aumento dei redditi.”
Questi tre fattori, crescita economica, eccessivo impatto sul pianeta e disuguaglianze crescenti, dimostrano che non siamo affatto sulla strada verso un mondo di maggiore benessere per tutti.
Che la crescita economica (e quindi l’aumento del PIL) non sia sinonimo di benessere dei cittadini si sa da tempo. La misurazione del PIL non tiene conto di problemi sociali come l’inflazione latente, l’inquinamento, l’educazione e la salute delle persone e neppure dell’equa distribuzione delle opportunità. «Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta», aveva già detto Robert Kennedy in un suo famoso discorso nel 1968.
Il PIL aumenta ad esempio con i conflitti armati grazie alle vendite di armi e, in seguito alle distruzioni, attraverso le ricostruzioni postguerra. Gli incidenti stradali producono PIL e quindi crescita economica, attraverso le cure mediche per i feriti, le riparazioni e l’acquisto di nuove automobili. Coltivare verdure nel proprio orto non genera PIL, comprarle al supermercato sì. Accudire un anziano in casa non produce PIL, mandarlo in una casa per anziani, se la famiglia se lo può permettere, sì.
In Cina, il passaggio dalla bicicletta all’automobile ha prodotto un enorme aumento del PIL, ma anche un tremendo peggioramento delle condizioni di vita nelle grandi città, tra smog, rumore e congestione degli spazi.
SecondoGreenpeace, “la produzione attuale di plastica raddoppierà i volumi del 2015 entro il 2030-35 per triplicarli entro il 2050”. Dove? Probabilmente soprattutto nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, contribuendo a gonfiare le cifre di crescita economica. Gran parte di questa plastica finirà nei mari.
Dagli anni ‘60 del secolo scorso ci sono stati tentativi di creare indicatori alternativi di benessere o di felicità che tenessero conto dei numerosi aspetti “dimenticati” nel calcolo del PIL: i costi di degrado dell’ambiente, il lavoro non retribuito, i livelli di salute ed istruzione della popolazione, ecc.. Nel corso dei decenni sono stati proposti numerosi misuratori più innovativi come l’Indice di Sviluppo Umano o il Genuine Progress Indicator (GPI). Alcuni indicatori cercano di includere anche la percezione della felicità degli abitanti, come il Happy Planet Index o l’ Indice di Felicità Interna Lorda (FIL). Sono tentativi di uscire dalla logica del denaro come unica misura di benessere, quella logica alimentata dal PIL a cui ricorre ancora oggi la stragrande maggioranza di economisti, governi e imprenditori.
Sotto l’impulso di pensatori come Serge Latouche in Francia e Mauro Bonaiuti e Maurizio Pallante in Italia, sono sorti dalla fine del secolo scorso in poi diversi movimenti che contestano apertamente l’ideologia della crescita infinita, come ad esempio l’ Associazione per la Decrescita e il Movimento per la Decrescita Felice. Questi movimenti che oggi si stanno organizzando a livello mondiale con conferenze e festival internazionali, sostengono che la decrescita non è un programma politico, ma semplicemente uno slogan. Non vogliono imporre a nessuno con la forza la decrescita economica, tantomeno alle popolazioni povere del pianeta. Sarebbe più corretto infatti parlare di a-crescita (utilizzando la stessa radice di a-teismo): uscire dalla logica della crescita infinita su un pianeta dalle risorse limitate.
“La decrescita è stata spesso accusata di essere un lusso a uso dei ricchi, resi obesi dal sovraconsumo”, scrive Serge Latouche nel suo libro “La scommessa della decrescita”. “Mantenere o, peggio ancora, introdurre la logica della crescita nel Sud [del mondo], con il pretesto che così si potrà uscire dalla miseria che questa stessa crescita ha creato, non può che occidentalizzare ulteriormente quelle parti del pianeta”. “In Africa, fino agli anni ’60, prima della grande offensiva dello sviluppo”, continua Latouche, l’autonomia alimentare esisteva ancora. Non è forse l’imperialismo della colonizzazione, dello sviluppo e della globalizzazione ad aver distrutto questa autosufficienza?”
La decrescita propone un reale cambiamento di prospettiva che può essere realizzato attraverso le otto “R”: rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Qualcuno l’ha espresso in modo più sintetico: Meno sarebbe molto di più.
Thomas Schmid Nato nel 1960 in Inghilterra e cresciuto in Svizzera tedesca, ha studiato lingue e lavorato in Inghilterra, Francia e Italia. Vive a Montegrino Valtravaglia in provincia di Varese. Fa parte del Movimento Umanista, Fridays for Future e Mountain Wilderness. È appassionato di montagna e tematiche ambientali, e si dedica all’autoproduzione di frutta e verdura nel tempo libero. Studia e pratica la spiritualità attraverso la natura.
In copertina : Traffico congestionato a Pechino (Foto di Wikimedia Commons)
Nelle ultime settimane nell’area mediterranea si sono susseguite notizie di eventi atmosferici estremi (temporali con grandine di grandi dimensioni e trombe d’aria) o incendi distruttivi nelle regioni del sud Europa (Italia e Grecia in particolare). Questi, e altri fenomeni, hanno in comune la medesima causa: l’aumento delle temperature dovuto ai mutamenti del clima.
Il 27 luglio nella trasmissione di Radio 3 Scienza viene raccontato come il bacino del Mediterraneo sia sottoposto a ondate di caldo eccezionali che, il 24 dello stesso mese, hanno portato le acque del mare ad un livello di temperatura media di 28,7 °C, superando la soglia storica di 28,2°C registrata il 23 agosto 2003: tutto questo sta avendo effetti disastrosi specie sugli ecosistemi marini. Gli effetti di questi eventi sono vari e diversi nelle aree del pianeta, ma sempre di più portano alla distruzione dell’ambiente e spesso alla morte di esseri umani, animali e piante.
Il 2 agosto scorso è stato proclamato l’ Earth Overshoot day 2023 (Overshoot Day 2023), il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra, calcolato ogni anno dal Global Footprint Network utilizzando i dati dei National Footprint e Biocapacity Accounts, che indica l’esaurimento ufficiale delle risorse rinnovabili che il Pianeta è in grado di offrire nell’arco di un anno.
Il fatto che la data dell’esaurimento delle risorse quest’anno sia arrivata qualche giorno dopo rispetto ai precedenti (nel 2022 è infatti stato il 28 luglio) è una buona notizia, ma secondo economiacircolare.com “c’è poco da festeggiare…perché si conferma il dato che per stare in equilibrio avremmo bisogno di 1,7 Pianeti Terra”.[1]
E’ alla luce di questo sempre più drammatico andamento della crisi climatica e delle tante problematiche che l’ambiente terrestre si trova ad affrontare, che l’Europarlamento ha recentemente approvato una legge, la Nature Restoration Law, che, come si può leggere nel sito di ASviS (leggi qui), per la prima volta presenta norme vincolanti per il recupero degli ecosistemi danneggiati. Tutto questo da realizzarsi per il 90% entro il 2050, con un obiettivo più vicino e limitato al 20% del ripristino di aree terrestri e marine, ma anche di più spazi verdi cittadini e meno pesticidi in agricoltura.
Del tema hanno parlato a Radio 3 Scienza, in occasione della approvazione della legge, Cristina Cipriano, ricercatrice del CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), tra i coordinatori del gruppo italiano della Global Youth Biodiversity Network (GYBN), la rete giovanile globale per la biodiversità, e Roberto Danovaro, docente di biologia ed ecologia marina e sostenibilità all’Università Politecnica delle Marche, e coordinatore del progetto Ue Redress per il restauro degli habitat di acque profonde nei mari europei.
La legge è stata approvata nonostante la forte opposizione delle destre europee (governo italiano incluso) e del partito popolare europeo. Anche se, come qualcuno ha detto, la natura ha vinto, “qualche nota dolente c’è”. Nell’introduzione all’intervista di Radio 3 Scienza viene infatti riportato che “con la legge sono infatti passati anche diversi emendamenti che di fatto le tolgono forza, cancellando o modificando profondamente alcuni degli obiettivi più ambiziosi”.
Sul Manifesto del 12 luglio scorso[2] Dante Caserta scrive che “la legge sul Ripristino della Natura sarà fondamentale per la prosecuzione del Green Deal europeo di cui questa norma rappresenta uno dei pilastri. Presentata dalla Commissione europea un anno fa e già approvata dal Consiglio europeo, si tratta di una vera e propria legge per la natura, la prima con obiettivi vincolanti per recuperare gli ecosistemi danneggiati”. Una legge ambiziosa, scrive il giornalista, “che rappresenta un punto di svolta per la natura, il clima, l’economia e la sicurezza dei cittadini europei”. La distruzione della biodiversità nel mondo ha infatti raggiunto dimensioni catastrofiche e questo anche nel nostro Paese dove la diversità ecologica raggiunge valori elevatissimi. Risulta perciò inspiegabile, continua Caserta, “l’opposizione che, prima il governo italiano (uno dei pochi ad aver votato contro la Nature Restoration Law nel Consiglio europeo), e ora partiti come Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega stanno facendo a questa legge, la cui applicazione sarebbe fondamentale per il nostro Paese”. Avrebbe infatti effetti molto positivi per l’Italia, principalmente a causa della sua collocazione geografica che rende la nostra penisola particolarmente soggetta agli impatti del cambiamento climatico, intervenire sul ripristino degli ecosistemi. A maggior ragione se si considera che si interverrebbe in “un territorio già compromesso da decenni di cementificazione selvaggia, con evidenti conseguenze negative sulla sicurezza delle persone, sull’agricoltura e sulla salute dei cittadini”.
Il degrado del suolo, si legge nel sito di ASviS,[3] inoltre, “costa all’Unione 50 miliardi di euro all’annoe mette a rischio la capacità di produrre derrate alimentari”, come viene confermato dallo studio del movimento Save soil (movimento globale di Conscious planet), per “risvegliare l’attenzione dei cittadini sullo stato del suolo e sollecitare i governi ad agire”. La situazione, riporta lo studio, è tale che in Europa tra il 60% e il 70% dei suoli è in uno stato di degrado, mentre a livello globale la percentuale è al 52%. Entro 60 anni potremmo perciò perdere le terre coltivabili, e l’unica soluzione è quella di aumentare il contenuto organico nel terreno.
Sono circa seimila (Andrea Capocci, Il Manifesto, 12/07/2023) gli scienziati specializzati in clima, ambiente e agricoltura di una sessantina di Paesi (tra cui l’Ue al completo) che hanno firmato una lettera aperta a favore del Green Deal europeo, prima dell’approvazione della legge sul ripristino della natura. Ventitre accademici di Germania, Spagna, Paesi Bassi, Finlandia e Polonia ne hanno redatto il testo per rispondere punto su punto alle obiezioni con cui la destra sovranista e una parte dei Popolari chiedono di bocciare il Regolamento europeo per il ripristino degli ecosistemi e quello sull’uso sostenibile dei pesticidi, che andrà in assemblea in ottobre.
I ricercatori contestano innanzi tutto che i nuovi limiti alle attività agricole mettano a rischio la sicurezza alimentare (cioè la disponibilità di derrate agricole e alimenti). Al contrario, dicono, la metà delle terre coltivate con piante da impollinazione oggi deve fronteggiare la carenza di insetti impollinatori causata «dalla pressione dei pesticidi e dalla distruzione degli habitat naturali». Inoltre il ripristino degli ecosistemi può contribuire alla sostenibilità. Sul fronte della pesca poi non è vero che le aree marine protette ne danneggeranno le attività. La percentuale dello stock ittico pescato a livello globale è infatti salito dal 10% degli anni Settanta a quasi il 35% nel 2017.
ASviS, nella pagina prima citata, riporta un interessante rapporto della Banca Mondiale dove si afferma che il cambiamento climatico, la produttività economica, la sicurezza alimentare e idrica, i pericoli per la salute, rappresentano alcune delle sfide globali che potrebbero essere vinte se utilizzassimo le risorse naturali in maniera più efficiente. Le azioni di tutela e ripristino del capitale naturale potrebbero inoltre garantire la prosperità del genere umano nei prossimi decenni.
Il rapporto della Banca Mondiale dal titolo “Nature’s frontiers: achieving sustainability, efficiency, and prosperity with natural capital”, è stato pubblicato il 27 giugno scorso, e sostiene che attraverso la combinazione di conoscenze scientifiche, dati e modelli biofisici ed economici è possibile offrire una nuova visione sullo sviluppo sostenibile.
Richard Damania, capo economista della Banca Mondiale per lo sviluppo sostenibile, ha dichiarato: “questo lavoro ci sta aiutando a capire cosa sta succedendo e come i Paesi possono raggiungere i propri obiettivi di sviluppo senza sacrificare la biodiversità o l’equilibrio climatico. Ci sono azioni che i Paesi possono intraprendere ora per dare ai loro cittadini una vita migliore, mantenendo un Pianeta vivibile”.
Note
[1] Per l’italia l’Overshoot Day è arrivato il 15 maggio. In pratica se tutti vivessero come gli italiani servirebbero 2,8 pianeti Terra per soddisfare i bisogni collettivi.
[2]Una legge per difendere la natura. Ma l’Italia si oppone, Dante Caserta, Il Manifesto, 12/07/2023.
Si legga anche di Luca Martinelli su il Manifesto del 13/07/2023 Una legge che fa bene all’agricoltura ma osteggiata dalle imprese italiane,Nature Restoration Law. L’opposizione di Coldiretti, Confagricoltura e dell’Alleanza delle cooperative.
Ordine alfabetico non è, pensa Rossi: infatti l’hanno messo vicino a una certa Zoli, che di sicuro non comincia con la erre come lui. Però è una bella vicina, tettona e mora; una che tempestava i concorsi letterari con trucide storie rurali, ambientate al Marecchia, a Tavullia e addirittura a San Leo.
Ma anche se non è ordine alfabetico, pensa Rossi, un ordine ci sarà pure – tutto sta a capire quale. Comunque gli hanno sbagliato posto, a lui, poco ma sicuro. Qui c’è gente di tutt’altro genere, scrittori di libri storici e locali, mentre lui era un giallista medievale: famoso per Boccaccio indaga, anche se il premio più importante glielo portò Fra’ Angelico detective.
Che strano, pensa Rossi: qui son tutti scrittori ma nessuno scrive; per tutto il giorno solo prosecchi e vaghe chiacchiere, e di sera vengono certi archivisti e giù sangiovese, partite di primiera e gran discorsi su lasciti, enfiteusi e beghe patrimoniali.
– Ma chi comanda qui, perdio? – chiede Rossi a Renzo Brusamolin, autore di un romanzo sul secolo dei Lumi che ebbe, nel 1991, qualche gloria nel Triveneto (perfino una recensione sull’Arena, dal titolo La Ragione? Si dà ai matti).
– Se vede, caro, che te xè novo – dice Renzo – qui abbiamo un comitato editoriale dell’altro mondo, che coordina tutto e gli puoi chiedere anche il trasferimento, ma devi far istanza scritta. Dio, invece, nessuno l’ha mai visto.
Quella sera Rossi manda la richiesta di trasferimento, poi invita a cena la Zoli; nulla di strano, gli scrittori ci provano anche dopo morti. E infatti Rossi e la Zoli hanno cenato e si erano anche messi a pomiciare; ma poi si son distratti e – come suol dirsi – chiudono il libro.
Il giorno dopo Rossi è trasferito, con telegramma e tante scuse, al settore giallo e noir, un posto pieno di utensili che sembra il Brico o il Castorama. Colleghi simpatici, niente da dire, ma lui si accorge che anche qui stessa storia: nessuno scrive, nessuno parla di romanzi o racconti. Qui parlano solo di premi, di ospitate e di entrature nel mondo editoriale.
– Ma non scrive nessuno, qui, perdio? – chiede Rossi a uno piccolo e spettinato, col sigaro. Il tipo ride e gli dice che qui non si pubblica, carissimo, perché questo è l’aldilà e noi siamo morti.
Rossi insiste: – Vabbè, pubblicare no, ma scrivere?
Allora il tipo si innervosisce e risponde che primo, se non pubblichi, che scrivi a fare; secondo, che qui è come da vivi: cioè l’inferno, come gli autori di noir hanno sempre saputo. E quasi lo manda affanculo.
Da allora Rossi si guarda attorno con sospetto, cammina raso i banchi e tace. Arriva sabato e la Nani, una che da viva scriveva male ed era ricca sfonda e pubblicava eccome, gli fa: – Per fortuna che qui non ci si annoia mai, Rossi carissimo, che si cambia ogni settimana!
Perché nell’aldilà degli scrittori, dice la Nani, non c’è una classificazione fissa. Anzi, ogni settimana li spostano e cambiano i gruppi: una volta li dividono maschi e femmine, una volta scapoli e ammogliati, più di rado tra invidiosi e lussuriosi, ignavi eccetera, o quelli della prima persona contro quelli della terza; e poi fan tante feste: una festa bibliotecaria che è davvero galla, e poi l’autodafè degli editori, la settimana del plagio e anche il Bloom’s Day…
– A proposito, ecco… – fa la Nani strizzando l’occhio. Ha addosso una t-shirt con la scritta Yes, I Said Yes, I Will Yes stampata in Helvetica.
Allora Rossi si frega le mani, pensando che anche la Nani ci sta.
Ma non ci stava mica.
Strizzava l’occhio per dire che domani è il sedici giugno, il Bloom’s Day, festa grande per gli scrittori vivi e non.
Ci vediamo all’assemblea, dice, e ridacchia.
L’assemblea è in un posto che sembra il centro commerciale di Corticella. E c’è un sacco di scrittori, scrittori ovunque; tanti che Rossi non l’avrebbe mai creduto, che morte tanti ne avesse disfatti; eppure son tutt’altro che disfatti, ciarlieri e tabacconi come da vivi.
C’è un funzionario segaligno, col microfono, e proclama che oggi il Bloom’s Day seguirà l’ordine alfabetico, il più classico degli ordinamenti, e siccome c’è un bel sole, oggi formeranno delle coppie con la stessa iniziale e prima del tradizionale reading faranno un mercatino in piazza dell’Unità: in vendita però non la solita roba, quella da mercatini delle pulci, ma proprio gli oggetti che appaiono nei loro libri, visto che i signori scrittori si son tanto sbattuti a trovarli, prima, e poi dopo a metterceli dentro.
A Rossi gli danno per compagno un certo Ruffo, un rosso coi baffi che scriveva libri sul tango. Ruffo si accende una Lido e sussurra che lui lo sa, perché c’è tutta quella gente: è perché stanno convocando anche gli inediti; un bel problema, perché qui in Italia c’è molti più scrittori che lettori, ma poi il destino dei libri è di finire perlopiù sulle bancarelle, olvidados o al macero.
Allora a Rossi gli viene una tristezza che vuol proprio fuggir via dal mercatino, che immaginatevi che immane festa di cianfrusaglie lì in piazza dell’Unità: tazze per far la schiuma da barba e corpi di reato, pelli di zigrino e vestaglie e teiere. e vinili di ogni genere. E pieno di gente, dalla Bolognina e da fuori, anche molti studenti fuori sede e pensionati e zie.
Ruffo però non lo fa mica andar via, a Rossi. Gli offre un campari, un caffè e anche una Lido, e gli presenta certe scrittrici in età, grassottelle, che vendono delle torte. E il Bloom’s Day della Bolognina passa così – prima del tradizionale reading – con Rossi che prova a vendere fiorini d’oro e codici petrarcheschi, roba che ai mercatini proprio non incontra; e pure l’uccellame di Fra’ Angelico, che va via solo sottoprezzo; mentre il suo compare, lì tra le bancarelle, continua a ballare il tango con le zie.
Ricordando le belle parole del Presidente della Repubblica pronunciate durante la sua visita al carcere minorile di Nisida nel settembre 2021, i due autori “ristretti” riflettono sul tema della rieducazione e del reinserimento in società dei detenuti una volta scontata la pena. (Mauro Presini)
La bellezza del riscatto: favola o realtà?
di G.C e M.C.
L’ 11 settembre del 2021, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella assieme al ministro Cartabia, si è recato al carcere minorile di Nisida a Pozzuoli.
Il presidente si è reso disponibile al dibattito ed ha risposto a molte domande da parte dei giovani detenuti.
L’argomento principale cioè il tema che stava più a cuore ai detenuti era quello del dopo: “Che sarà di me una volta uscito?”
Volendo fare una considerazione lapalissiana, il tema del “dopo” preme molto a chi non si è preoccupato del “prima”.
Cattive compagnie, un carattere debole che si fa facilmente influenzare, illusione di soldi facili, condizioni di miseria, questioni di sopravvivenza, famiglie assenti, famiglie disagiate, incapacità di rispettare le regole, mentalità criminale, psicopatia.
Di regola, entrare in carcere è piuttosto facile mentre uscire è molto più complicato.
Una volta in carcere si possono seguire due strade: o si entra nella spirale dove il carcere può rappresentare una vera e propria criminalità (è la scelta peggiore) o si scegli un sano percorso rieducativo per andare incontro a un vero ravvedimento che permetta di cambiare e non tornare più in carcere.
Tornando al tema del “dopo”, il Presidente della Repubblica ha confortato i detenuti attraverso parole di speranza.
A chi gli ha chiesto di non voler essere etichettato a vita cioè di non voler portare per sempre lo stigma del carcerato, ha risposto che, una volta scontata la pena, la persona deve avere una nuova possibilità, il famoso riscatto sociale.
Ha definito il periodo della reclusione una cicatrice che scompare non una macchia indelebile.
Alle sue parole ha fatto eco il guardasigilli dicendo “Si deve e si può credere in un oltre“.
Secondo il presidente Mattarella la pregressa detenzione non deve essere in alcun modo motivo di emarginazione, di accantonamento, di preclusione. Ha anche affermato che tante persone che hanno avuto esperienze di detenzione si sono pienamente inserite con successo anche nella vita.
Dopo aver ascoltato le sue parole abbiamo riflettuto e fatto le nostre considerazioni.
È necessario un duplice impegno sia da parte del detenuto nel dare prova concreta di adesione al programma di riabilitazione previsto dall’articolo 27 della Costituzione, dall’altra ci deve essere l’impegno da parte dello Stato di fare in modo che un ex detenuto, completamente ravveduto, una volta scontata la pena non sia etichettato e venga reinserito nella società civile.
Noi riteniamo ancora difficile il reinserimento nella società per i detenuti nel nostro paese.
Partiamo da una considerazione che vuole essere soltanto realista e senza polemica; vorremmo anzi tratteggiare lo status quo proprio allo scopo di essere di esempio per chi si occupa del problema perché da dentro le cose si osservano meglio.
Tutto dipende da cosa attende il detenuto una volta fuori.
Se ad attenderlo non c’è nessuno, né dal punto di vista familiare-affettivo né lavorativo, è probabile che esso tornerà a delinquere. In questo caso, ciò rappresenterebbe un fallimento per lo Stato che deve mettere in condizione una persona di recuperare la sua dignità.
Se diversamente una famiglia, soprattutto se benestante, riaccoglie l’ex detenuto allora le cose possono cambiare.
Dunque ci vorrebbe una maggiore mediazione dello Stato, una maggiore impegno a garantire un sostegno, un appoggio, un lavoro a chi esce e rientra nella vita.
Del resto tutto ciò sarebbe previsto ma purtroppo bisogna ricordare che il popolo, quando si parla di persone detenute, “butterebbe via la chiave”… e chi non lo dice, comunque lo pensa.
Basti pensare a come siano visti da molti gli ex detenuti, con quali pregiudizi e stereotipi.
Questo è evidente quando si propongono per avere un lavoro: purtroppo spesso lo stigma rimane.
La nostra impressione è che ci sia tanto lavoro da fare in questo senso.
Un buon esempio a cui guardare è quello olandese (ma non solo). In Olanda, quando una persona ha terminato di scontare la pena, se non alternativa, viene bloccato dallo stato in un appartamento a lui concesso.
Nel corso di un certo periodo gli vengono fatte tre proposte di lavoro.
Se le rifiuterà tutte e tre, dovrà lasciare l’abitazione.
L’Olanda, come la Norvegia, la Danimarca sono Paesi molto civili e ricchi, avvantaggiati dal fatto di avere pochi abitanti.
In Italia non ci sono soldi per la spesa pubblica e questo comporta un danno anche alle carceri a chi vorrebbe fare qualcosa in più per i detenuti.
Spesso, metaforicamente, questi escono a fine pena con un calcio nel sedere.
Nel nostro piccolo, rivolgiamo un appello affinché coloro che a fine pena sono ravveduti, rieducati e pronti a rientrare in società non siano costretti dalla contingenza a reiterare i reati. Lo stato non li deve abbandonare.
Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.
In copertina: Paesaggio libero con gatto, un quadro realizzato da un detenuto nel carcere di Ferrara.
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Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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