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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


diario in pubblico lessico infimo

Diario in pubblico /
Lessico infimo

Diario in pubblico. Lessico infimo

Il vocabolario dei nuovi parlanti si arricchisce sempre di più nelle definizioni, borbottii, enunciazioni che infiorano i programmi di maggior successo televisivo. Mi affido ai ritornelli che commentano un programma di grande successo, in cui un passaggio e apertura di scatole blu dovrebbe far conquistare somme ‘importanti’ ai concorrenti chiamati anche pacchettisti.

Immediatamente il termine ricorrente è pazzesco! Mentre il famoso conduttore dialoga con un misterioso dottore che sfida, premia e punisce i concorrenti. Seriosamente impegnati i concorrenti di turno cercano di liberare la bancata, ovvero di far fuori il maggior numero di scatole che contengono i premi vili, ovvero quelli di color blu.

La ricerca s’affida a sensazione, cioè il pacco col numero prescelto viene chiamato, non per calcolo, ma per la suddetta sensazione, che fa rigurgitare pezzi di vita vissuta o di momenti di vita che si legano al numero.

Il furbissimo conduttore applica una logica di gioco che si esplicita in occhiate furtive al pacco a tonanti apri! a striscianti passeggiate con l’occhio pronto a cogliere l’offerta del dottore che propone il cambio. Con fare sornione poi compila assegni fasulli che rappresentano l’offerta del dottore.

E l’emozione (per loro) si esplicita nel triturare i falsi assegni in una macchinetta, che dunque convalida il coraggio o l’incoscienza del giocatore, il quale triturando l’assegno rottama l’offerta. Di nuovo incita il concorrente a dirgli se ciò che lo guida è istinto o responsabilità. E con aria sempre più seria o imbarazzata si sente rispondere che ci sono tanti ragionamenti in gioco.

Capisco che non si può pretendere da un gioco la serietà/seriosità di un programma culturale, ma ciò che impressiona è l’uso ormai spregiudicato di termini, frasi, elocuzione della lingua italiana totalmente rovesciati.

Ma non sono solo queste le offerte televisive. Ho seguito con interesse il programma di uno dei più grandi personaggi del mondo musicale con il quale ho anche collaborato: Massimo Ranieri e del quale ricordo una lunga passeggiata nel chiostro di Santa Chiara a Napoli, dove mi spiegava le ragioni culturali per cui la meravigliosa decorazione del chiostro era un linguaggio per cui attraverso la bellezza si giunge alla realtà.

Non è dunque vero che i programmi leggeri si affidino solo all’ignoranza degli infimi culturali, ma che non c’è differenza tra programmi cosiddetti leggeri o programmi cosiddetti seri, poiché tra la divina Callas o Edith Piaf o Mina o la Argerich è solo questione di grandezza naturale.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

In ricordo di un uomo instancabile

Un uomo come lui ci manca…

Talvolta questa frase si usa in un modo molto retorico ma in questi giorni di militarizzazione della politica e della lingua pubblica e privata, uno come Daniele Lugli ci manca davvero. Ho avuto la fortuna di incontrarlo due, tre volte. L’ultima volta nel contesto di una serata in un festival a Pontelagoscuro, due anni fa.
Una serata indimenticabile perché sul palco c’era un uomo molto gentile, dal parlare pacato, mai a voce alta o aggressivo con gli altri.
Voleva solo presentare al pubblico la forza della mitezza“ (prendendo spunto dal prezioso testo di Norberto Bobbio: L’elogio della mitezza)  in un mondo sempre piu bellicoso ed egoista.

Spesso i rappresentanti del movimento non-violento sono un po magri, con visi palidi, voci sussurranti, quasi santi secolari, un pò come le vacche sacre dell’India.
Invece lui fisicamente era un uomo forte, una vera quercia e non un tenero ramo di palma.
Di barba era un tardo gemello di Carlo Marx ma di cuore un fratello minore di Gandhi.
Uomini come Daniele Lugli ci mancano per anni dove le bombe e le guerre informatiche contano sempre di più delle parole e dell’umanità.

Per ricordare Daniele Lugli Francesco Monini ha scritto un bel necrologio che condivido in tutto (Qui).
Grazie Daniele per la sua lotta instancabile e non violenta e grazie Francesco Monini per il tuo bel ricordo di lui.

(Monaco di Baviera/Ferrara, 1 giugno 2023 )

Autoritratto dell’autore e dei suoi libri amati

MW: Ciao Emanuele, cosa stai leggendo di bello ultimamente?
E: Ciao Mister Writer! In questo periodo più che leggere direi che sto studiando.

MW: Puoi spiegarci meglio?
E: Se voglio svagarmi, guardo un film. I libri sono un’altra cosa. Questa differenza credo che dipenda dalla loro natura: una visiva, l’altra verbale. Le parole riverberano, hanno una vita e un modo di riprodursi, di radicarsi e ramificarsi tale per cui sento la necessità di essere attento, prudente nella scelta di cosa, quando e quanto leggere.

MW: Riavvolgiamo allora un attimo, se sei d’accordo. Ci dici che film hai visto di recente?

E: Certo. Come diceva Roberto Bolaño, una persona è più facile che abbia piacere di parlare della seconda cosa che gli sta a cuore, nel mio caso del cinema, piuttosto che della prima, nel mio caso della letteratura 🙂
Proprio ieri sera ho iniziato Elephant di Gus Van Sant. Mi piacerebbe parlarne con un appassionato di fotografia, perché le inquadrature hanno una grana e dei colori così belli che vorrei conoscere il vocabolario tecnico per descriverle, e invece rimango solo meravigliato.
Prima di tornare a Ferrara, avevo riguardato un vecchio film di Kubrick che avevo visto anni fa, quando ero ancora al liceo, The killing, o nella traduzione italiana, Rapina a mano armata.
Prima ancora avevo tentato un approccio a Karate kid, che però è fallito.

MW: Sono film molto diversi fra loro. L’unica cosa che li accomuna è di essere americani.
E: In effetti, sì. E pensa che io cerco anche di starci attento.
Il magnetismo statunitense è così potente che secondo me dovremmo sforzarci tutti quanti di guardare e leggere cose che vengono da altri posti. Non ho niente contro quella nazione, ma dovremmo prendere consapevolezza della quantità di roba che proviene da quel paese rispetto al resto del mondo.

MW: Di non statunitense hai qualcosa da consigliarci?
E: Due esempi su tutti potrebbero essere Aparajito, un film indiano degli anni ’50 che vinse il Leone d’oro, e The woman who left, un film del regista filippino Lav Diaz, che ha vinto sempre a Venezia, ma molto più di recente.
Sono delle pazzie… film a tratti inguardabili per un occhio abituato alle velocità dei film di oggi. Ma mi sforzo di guardare anche roba così, per generare un po’ di caos al mio algoritmo interno.

MW: Anche coi libri presti attenzione alla provenienza dell’opera?
E: Sì, certamente rimane una questione principale per me. Ma coi libri è più facile.

MW: Ci sono più scrittori e opere classiche provenienti da altre parti del mondo, intendi?
E: Esatto. Non che nel cinema questo non sia accaduto. Ma la differenza fra letteratura e cinema sta anche nella reperibilità delle opere.
In una qualsiasi libreria posso trovare tranquillamente le opere di Dostoevskij, Goethe, Sofocle, Cervantes, Hamsun e I Ching. Sulle piattaforme di streaming, legali o illegali che siano, difficilmente riuscirei invece a trovare i film di Fritz Lang, Bergman, Kaurismaki, Chris Marker e Kurosawa. Eppure sono dei classici e dei maestri tanto quanto gli scrittori che ho citato.
In altre parole, il motivo del monopolio dei film americani è, per gran parte, una conseguenza della diffusione e della facilità con cui è possibile reperirli.
Mentre in letteratura gli scrittori-minori-non-americani, quasi sempre, puoi trovarli in biblioteca.

MW: Il tuo discorso è molto interessante. In altre parole, stai comparando il cinema e la letteratura in termini di reperibilità.
Tu dici: nel cinema i registi davvero sofisticati non finiscono nelle grandi sale, né sulle piattaforme di streaming. Bisogna cercarli nelle sale di super-essai, oppure nei festival in cui vengono presentati. Un esempio potrebbe essere il cinema di Hou Hsiao-hsien, che è un maestro dell’epoca contemporanea ma è molto difficile riuscire a vedere un suo film in Italia.
In letteratura, invece, anche gli autori molto antichi, come i tragici greci, o i mistici orientali, sono acquistabili in librerie normalissime.
Trovare un dvd dei fratelli Lumière non sarebbe altrettanto comune.

E: Le case editrici indubbiamente riescono a garantire una eterogeneità culturale a cui Netflix, Prime o Disney non sembrano interessati e che i cinema non si possono permettere.
Oltre a questo, visto che siamo entrati in argomento, vorrei aggiungere un’altra cosa.
Ognuno di noi va creandosi un proprio immaginario, tanto in letteratura quanto nel cinema. In parte alimentato da quello che effettivamente consumiamo, in parte dai consumi degli autori che ammiriamo.
Per fare qualche esempio, la mia passione per Bolaño mi ha portato a leggere Cortázar, così come partendo da Gaspar Nöe sono arrivato a guardare un film minore di Fellini, Prova d’orchestra, che non avevo mai sentito nominare prima.
Ecco, vorrei sottolineare l’importanza dei nostri autori favoriti per scoprire opere che ancora non conosciamo.
Forse, più che farci guidare dall’algoritmo di Netflix, potremmo ascoltare l’intervista a un regista che ci piace quando siamo a corto di film da vedere. O a uno scrittore, se invece sono finiti i libri sul comodino.

MW: Avevamo cominciato a parlare di cinema quasi per scherzo, collegandoci alla tua riflessione sul fatto che se vuoi svagarti guardi un film, mentre se leggi ti proietti in un’altra dimensione, quella dello studio.
Adesso ho quasi paura a chiederti di tornare al vero tema di questa intervista, la lettura (ride).
E: Hai ragione, ho un po’ paura anche io 🙂
Possiamo sempre parlare delle nostre discoteche preferite…

MW: Che sarebbe?
E: La discoteca che preferisco ultimamente è l’Azimut di Torino.

MW: Sarebbe più difficile rispondere con la stessa sicurezza alla domanda sul tuo libro preferito?
E: Sicuramente. E pensa che una volta invece mi piaceva rispondere a questo genere di quesiti. Tipo: che musica ti piace, i tuoi film preferiti…

MW: Poi hai fatto la Holden
E: Hai capito?! Cinque mila euro all’anno per avere le idee più confuse di prima.
No, dai. Non è colpa della Holden. Più che altro sono cambiato io negli ultimi tre o quattro anni. Per esempio dei libri non mi interessano quasi per niente le trame.
All’inizio della nostra chiacchierata dicevo che i film sono per svagarmi e i libri per studiare. Forse non è del tutto vero. Un altro modo per cercare di inquadrare il mio rapporto con queste due discipline potrebbe essere: i film perché mi appassiono alle storie che raccontano, i libri perché mi danno le parole per descrivermi e delle analogie a cui riferirmi.

MW: Cosa intendi per analogie?
E: Personaggi o anche più in generale delle dinamiche che mi rispecchiano, o che riproducono nel loro ambito qualcosa che ho pensato. Sono degli appoggi concreti grazie ai quali posso dire: “Hai presente X nel libro Y? Ecco io mi sento come lui”.
È un bel vantaggio.

MW: Continua, per favore.

E: Sai, Calvino diceva che leggere letteratura specialistica lo dotava di uno strumento per esprimersi: un vocabolario di parole tecniche e teoriche.
In origine, quelle parole descrivevano soltanto un campo specifico del sapere, la fisiologia mettiamo. Passando da un manuale scientifico alla mente di Calvino, però, si trasformavano. Diventavano degli utensili per parlare delle sue esperienze.
In altri termini, quelle parole e quei concetti creavano una corrispondenza fra un ambito scientifico X e un’esperienza personale Y. Questo gli permetteva di dare un nome a cose che prima non sapeva come chiamare.

Il mio rapporto con la lettura ha molto a che fare con questo.

MW: Interessante.
Correggimi se sbaglio. Raccontare il metodo di Calvino è già un esempio di quello che intendi quando dici che per te leggere ha a che fare con l’imparare delle parole per spiegarti meglio, no? Se non avessi scoperto che anche lui faceva così, forse, non avresti saputo come descrivere il tuo rapporto con la lettura.

E: Assolutamente sì, hai colto il punto.
Con l’unica differenza che Calvino parla di libri teorici, quindi testi e letterature specialistiche. Mentre per me ogni libro è valido. Il comportamento del principe Myskin può essere utile per spiegare una parte del mio carattere quanto le regole delle scale musicali per rappresentare dei miei meccanismi mentali.
Quasi in ogni testo che mi capita di leggere colgo delle corrispondenze essenziali fra me e loro.

MW: Sembra bellissimo.
E: Da una parte è meraviglioso. Dall’altra mi sono accorto che, come dicevo all’inizio, non è un fenomeno che posso prendere alla leggera, come se non cambiasse nulla.
Voglio dire, ho dovuto ripensare ai momenti della giornata da dedicare alla lettura, che non possono essere troppo lunghi, per esempio, perché la mia mente ha bisogno di tempi di digestione. E perché non voglio essere profondo in tutte le ore.

MW: Questo genere di lettura sembra richiedere delle dosi massicce di metodo, disciplina, auto-controllo, ascolto di sé…
Non il tipo di qualità che siamo abituati ad associare alla lettura.
E: Hai ragione. Per questo motivo è difficile spiegare agli amici il mio modo di leggere e perché lo faccio.

MW: Loro cosa ne pensano?
E: Direi che non ne pensano quasi niente. La lettura non è, in realtà, un argomento di conversazione. Quando sono con gli amici preferisco parlare d’altro. Ma quelle volte in cui è venuto fuori il tema si creava uno scarto fra ciò che la lettura è per loro, e ciò che invece la lettura è per me.

MW: Immagino che per loro avesse a che fare più che altro con il piacere.
E: Di solito è così.

MW: Abbiamo parlato di cose belle, intime e profonde. Ti ringrazio molto per la disponibilità che hai dimostrato.
Adesso che ci avviamo verso la conclusione di questa intervista, vorrei domandarti un’ultima cosa. Hai detto che i libri ti aiutano a trovare le parole che ti servono per esprimerti. Ami i film, invece, per via della storia che raccontano e per la bellezza delle loro immagini.
A questo punto, sembrerebbe non esserci spazio per l’empatia nel tuo modo di consumare l’arte. È così o, invece, ha una rilevanza?

E: Me lo sono chiesto spesso anche io!
E la risposta che mi sono dato è: no. Molto poca, davvero. Ricordo, infatti, che guardando i film con mia madre lei rimaneva sbalordita dalla mia freddezza di fronte a storie paurose, drammatiche, tragiche…
Ma non è del tutto vero che nelle cose che guardo da consumatore sono soltanto freddo.
Esiste infatti un’eccezione: lo sport. Tifare, secondo me, rappresenta il momento di empatia per eccellenza.
Ho tifato a squarciagola per mille squadre e personaggi. Di solito minori. Bruno Senna in Formula 1, i Charlotte Bobcats in NBA, Bernard Tomic nel tennis, la Spal nel calcio.

MW: Che tipo di tifoso sei, allora? Cosa succede quando invece di studiare diventi un ragazzo a cui batte forte il cuore?
E: Ma stiamo parlando di sport o delle mie relazioni sentimentali?

MW: Non mi sarei azzardato a tanto!
E: Per fortuna, forse non me la sarei sentita di rispondere!
A parte gli scherzi, ho capito cosa intendi.

Quando mi trasformo in un tifoso riesco a capire cosa provano le persone che amano le serie televisive. Perché immedesimarmi in un giocatore o in una squadra significa avere a cuore le sorti della sua stagione e della sua carriera. Il punto smette di essere la qualità della singola partita, ma il successo a cui può ambire o la salvezza per cui deve lottare. In poche parole: ci attacchiamo con i denti e con le unghie allo svolgimento della “trama”.
Nelle serie televisive è così. I singoli episodi non sono pezzi d’arte, non è quella la ragione per cui la gente aspetta tutta la settimana il nuovo episodio.
Ci sono delle emozioni in ballo. Che tu sia un tifoso di sport o un fan di serie tv, vuoi sapere cosa succederà la settimana dopo, e quella dopo ancora, e speri che i tuoi beniamini vadano in paradiso, mentre che i tuoi nemici brucino all’inferno.

MW: Ricapitolando: i libri per le analogie, i film per la storia e per le immagini, mentre lo sport per l’empatia. Tutto giusto?
E: Confermo.

MW: E allora verrà messo a verbale!
Emanuele, ti ringrazio ancora una volta per la tua disponibilità.
E: Grazie a te, Mister Writer.

MW: Sei sempre il benvenuto su queste pagine. Ci risentiamo prestissimo, quando ormai ti sarai stabilito sull’isoletta di Strynø. Siamo tutti molto curiosi di ascoltare i tuoi racconti da lassù e assolutamente certi che sarà una grande esperienza.
E: Lo credo anche io! Grazie a voi e un abbraccio.

Parole e figure /
Sentirsi a casa

Sentirsi a casa, una sensazione calorosa che abbraccia ogni cuore e ogni vita. Perché viaggiare non è partire, ma tornare a casa.

“Ho sempre avuto difficoltà a considerare un luogo, una città, una casa come la mia casa. Ma tutti hanno bisogno di sentirsi a casa, no?”

L’incipit di un meraviglioso albo illustrato, Sentirsi a casa, di Davide Calì e Sébastien Mourrain, Kite edizioni, sembra parli proprio a me. Più lo leggo e più mi parla, mai come ora mi ritrovo nelle pagine, nelle parole, nelle immagini. Il piccolo protagonista va pure in bicicletta, proprio come me durante l’infanzia e l’adolescenza della cittadina da cui provengo (che, per chi mi conosce, è Ferrara). Con quasi lo stesso impermeabile giallo.

“Non mi sentivo a casa, però. Tutto era troppo piccolo, troppo stretto, mi sentivo soffocare”.

Tutto sembra stretto, limitato, limitante, senz’aria. Ancora? Gli autori mi leggono nel pensiero??? Esattamente come me il protagonista, in ogni pagina, cammina, attraversa luoghi, cresce e cambia casa. Parte con poche cose, un viaggio di scoperta. Abita in una piccola mansarda, in un quartiere studentesco con una magnifica vista sui tetti: ancora io, nel periodo brussellese e poi parigino.

“Terminati gli studi sono partito per la capitale. Avevo deciso di vivere in un quartiere di artisti. …. Avevo l’impressione che fosse esattamente quello che faceva per me: mi sentivo finalmente a casa”.

E qui un disegno dove si intravvede la scritta “Paris, boulangérie”, con il Panthéon sullo sfondo… Ancora io. Incredibile. Dieci, venti e poi più anni. Il tempo passa.

Sono viaggi dove è essenziale lasciarsi tutto alle spalle, dove si dà un senso ai luoghi da abitare, dove, con le culture degli altri che esplori voracemente, ti senti ovunque a casa.

O forse si viaggia e continuamente si cambia casa perché non ci si sente mai a casa o magari si desidera solo essere in un continuo movimento senza alcun posto da abitare. Gironzolare, assaggiare, provare di tutto senza aver bisogno di una casa?

Finché posti e visi, giorni e notti saranno sempre gli stessi e la vita sembrerà congelata come in una fotografia. Tutto sembra un film, all’inizio, poi la realtà prende il sopravvento.

E poi c’è chi non si sente a casa da nessuna parte e chi si sente a casa ovunque, un po’ come è successo a me. Un po’ di confusione e di incertezza, pochi punti fissi e certi. Se ne ha abbastanza. Le radici prima o poi chiameranno…

Finché finalmente si arriva a un punto o un luogo dove riemergono i ricordi e gli affetti e si conclude così il viaggio non solo fisico ma anche interiore: la continua ricerca della pace.

Perché viaggiare non è mai partire ma è cambiare per poi tornare a casa.

“A volte bisogna girare il mondo, solo per tornare al punto da ci siamo partiti”.

 

Sentirsi a casa, di Davide Calì, Sebastien Mourrain, Kite, 2023, 40 p.

 

Davide Calì

Scrittore di letteratura per ragazzi e fumettista italiano, conosciuto anche con gli pseudonimi di Taro Miyazawa e Daikon, è originario della Svizzera ma è cresciuto in Italia, dove ha intrapreso la carriera di fumettista. Dal 1982 al 2008 ha collaborato con la rivista “Linus” come disegnatore e dal 1998 ha cominciato a pubblicare libri per ragazzi, ottenendo un successo in Francia. I suoi lavori sono stati tradotti in più di 30 lingue e da alcuni sono stati tratti degli adattamenti per il teatro. Curatore di mostre web ed esibizioni, nel 2016 è nominato art director di “Book on a Tree”, un’agenzia letteraria londinese.

Sébastien Mourrain

Lo avevamo già incrociato nell’accattivante e tenero Bigoudì. E ci sera piaciuto. Nasce nel 1976 à Aubervilliers. Conseguita la maturità scientifica, studia disegno a Lione presso l’École Émile Cohl dove si laurea nel 2000. Oggi lavora nell’ambito dell’editoria per l’infanzia, collabora con varie riviste e fa parte del collettivo di artisti Le Bocal.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura diSimonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

10 giugno 2023: Marcia sui Sentieri per difendere l’Appennino del Mugello dall’Eolico Industriale

10 giugno 2023: in marcia sui Sentieri per abbracciare l’Appennino Tosco-romagnolo del Mugello di Monte Giogo di Villore Corella e difenderlo dall”Eolico Industriale.

Dopo tre anni di opposizione al Progetto eolico Monte Giogo di Villore con iniziative informative, cene, interventi di sensibilizzazione, camminate nei luoghi dove il Progetto prevede piste, strade, cantieri ed abbattimenti per portare e posizionare le mega pale, e infine con Ricorso al TAR del CAI e di ITALIA NOSTRA,
il 10 giugno 2023 il Comitato Crinali liberi (CTCM) promuove e organizza un’iniziativa per abbracciare fisicamente il Monte Giogo di Villore, come gia’ accadde nel 1989 quando dall’Ufficio del Turismo della Comunita’ Montana l’allora Responsabile Piera Ballabio promosse un grande Raduno dove affluirono centinaia di persone in difesa dell’Appennino mugellano, minacciato da strade. Partendo da Sentieri diversi saliremo sul Monte Giogo di Villore (Vicchio, Firenze) come Cittadini, Comunità, Associazioni, Comitati e Gruppi per affermare il Futuro di Tutela dell’Appennino Toscoromagnolo Mugellano, per la protezione dei territori, patrimonio naturale di biodiversità, habitat di aquile reali veleggiatrici, di turismo escursionistico e di economie montane secolari e produttive e nuove presenze di giovani. Tutti insieme per salvaguardare le preziose acque e sorgenti che zampillano dai monti e dalle fresche foreste, per abbracciare i crinali che non sono di alcuni o di pochi, ma sono tesoro di tutti, da consegnare, come imperativo categorico, alle generazioni future.
Fabrizia Jezzi

L’INVITO DEL COMITATO CRINALI LIBERI 

Un fine settimana importante in Mugello quello appena passato, con la Marcia di Barbiana per il Centenario di Don Lorenzo Milani e i tre giorni del Festival dell’Energia e dell’Ambiente dell’Unione dei Comuni che all’ambiente vero, quello naturale, non ha dato ne’ visibilità ne’ voce, prova ne è che l’Assessora all’ambiente della Regione Toscana non è stata invitata, per cui è stato il Comitato Crinali liberi ad assolvere a questo scopo: palesare la strenua difesa dei meravigliosi e unici crinali dell’Appennino Mugellano organizzando un Presidio per i primi due giorni del Festival e partecipando alla Marcia di Barbiana.
In tanti al  Presidio presso il Lago Viola si sono fermati di fronte alle foto che ritraggono la bellezza dei crinali domandando e chiedendosi perché mai proprio in territori talmente rari e ricchi di biodiversità per la loro contiguità al Parco Nazionale Foreste Casentinesi si fosse potuto pensare ad autorizzare un Progetto di impianto industriale eolico. E infatti più ci si pensa e meno ci si crede. Come un brutto sogno che al mattino scompare.

Il primo giorno del Festival alla domanda se si riteneva giusto cementificare i crinali, dopo le frane occorse, è stato risposto che non si accettavano provocazioni. Ma avere a cuore, non è provocare, come ben ci ha insegnato Don Lorenzo Milani, è comprendere, essere informati, possedere gli strumenti per reagire, ribellarsi, difendere e proteggere, senza timore di alcuna sudditanza.

E si spera che il TAR ponga davvero fine a questo nero incubo che incombe sui paesaggi immortali di Giotto e del Beato Angelico, sui Cammini ivi prossimi di Sant’Antonio e Dante Alighieri.

A maggior ragione adesso, dopo il disastro che ha colpito gli Appennini Toscoromagnoli, particolarmente sul versante romagnolo con i paesi a valle e in pianura sommersi dall’acqua dei fiumi esondati e dal fango.

Una tragedia che ha mostrato con estrema evidenza l’instabilità, la fragilità e franosità del sistema montuoso appenninico, se esposto a piogge forti e continuate, come saranno da attendersi in tempi prossimi, alternate a periodi di prolungata siccità.

Intere porzioni di territorio sono franate portando via con sé strade e sentieri, castagneti, campi e allevamenti.

Tante vittime e migliaia di aziende e attività economiche rovinate.

Dall’alto del Monte Giove che guarda ai liberi crinali appenninici di Monte Giogo di Villore Corella Don Milani con i suoi ragazzi avrebbe approfondito ogni singolo aspetto degli avvenimenti per comprenderne le cause, le responsabilità e mettere le conseguenti e necessarie azioni in campo.

Alla sua scuola s’imparava a capire per agire, in vista del sincero e reale interesse comune, per gli ultimi, quelli tacitati e oppressi dagli interessi dei ricchi che manovrano la politica partitica.

Per quell’I CARE, HO A CUORE umano e politico, che oggi manca nella prevenzione al dissesto idrogeologico, nell’attenta messa in sicurezza dei territori, anche agevolando e sostenendo in modo concreto e mirato la presenza di piccole comunità che tornano con coraggio a praticare l’economia di montagna.

Se i Comuni dove si sono verificate frane e danni sono rimasti fuori dallo Stato di Emergenza, chi risarcirà i danneggiati delle frane ai marroneti di Villore nel Comune di Vicchio e chi si occuperà del ripristino della viabilità principale o secondaria come le strette strade bianche che portano ai marroneti?

Chi rifonderà i danni a chi esercita attività che trovano nella popolazione che transita tra la Toscana e la Romagna i propri clienti, se la viabilità è interrotta come nel Comune di San Godenzo, incredibilmente e inspiegabilmente escluso dallo Stato di Emergenza nonostante i rilevanti danni dovuti a numerose e gravi frane?

E la frana verificatasi in questi giorni sulla viabilità di Corella, Dicomano, quella stessa strada dove il Progetto eolico Monte Giogo di Villore prevede il passaggio di enormi e pesanti mezzi per i quali si dovrà aprire ulteriori strade sui versanti abbattendo ettari di faggete, chi provvederà a fare ulteriori accertamenti e approfondimenti?

Domande importanti delle comunità del territorio che non possono essere evase e devono trovare risposte adeguate e tempestive. Il versante Toscano dell’Appennino è stato colpito in modo ridotto rispetto a quello Romagnolo, all’alto Mugello, ferito, isolato e gravemente danneggiato. Ma siamo stati avvertiti. Non possiamo continuare ad essere sordi e ciechi. La voce dei territori si leva forte. Va ascoltata. Chi amministra deve ascoltare e prevenire i disastri, non deve autorizzare grandi opere industriali sui crinali appenninici che andrebbero certamente a destabilizzare la già fragile tenuta dei nostri monti, con conseguenze tragiche per chi vive in valle. I fiumi che hanno portato morte e distruzione sono gli stessi che hanno origine nel versante regionale Toscano. La cura del territorio è una priorità che non può essere più disattesa o trattata in modo superficiale e approssimativo.

Alla Marcia di Barbiana il Comitato Crinali liberi c’era in cammino e c’era al Presidio al Lago Viola, punto di ritrovo dei partecipanti alla Marcia, c’era di fronte e dentro la Scuola di Don Lorenzo Milani, Prete e Maestro scomodo per tutti, c’era di fronte alla sua tomba, con la promessa di seguire il suo esempio: non voltare le spalle a chi viene occupato, colonizzato e oppresso per opportunismo personale o politico, stare sempre dalla parte delle cose vere e giuste, proprio quando è più difficile, non è di moda, e il clamore assordante della propaganda è forte tanto quanto l’imposizione censoria mediatica ufficiale.

In un momento in cui tutti i Cammini escursionistici nel Bel Paese vengono promossi e il Sentiero Italia 00 viene rilanciato all’attenzione nazionale, vogliamo davvero che il suo tracciato venga interrotto e cancellato sull’Appennino Mugellano da piste e cemento, cantieri, strade, disboscamenti e sbancamento dei crinali?

Il 10 giugno 2023 il Comitato Crinali liberi (CTCM) promuove e organizza un’iniziativa di cui alleghiamo la cartina: da Sentieri diversi saliranno sul Monte Giogo di Villore (Vicchio, Firenze) Cittadini, Comunità, Associazioni, Comitati e Gruppi per affermare il Futuro di Tutela dell’Appennino Tosco-Romagnolo Mugellano, per la difesa dei territori, patrimonio naturale di biodiversità, habitat di aquile reali veleggiatrici, di turismo escursionistico e di economie montane secolari e produttive e nuove presenze di giovani,  tutti insieme per proteggere le preziose acque e sorgenti che zampillano dai monti e dalle fresche foreste, per abbracciare i crinali che non sono di alcuni o di pochi, ma sono tesoro di tutti, da consegnare, come imperativo categorico, alle generazioni future.

Comitato Crinali Liberi

ROMA: GIORDANO BRUNO (IL FILOSOFO) AL ROGO
FERRARA: GIORDANO BRUNO (IL PARCO) IN GABBIA

Roma, 17 febbraio 1600, il grande filosofo nolano Giordano Bruno viene messo al rogo a Campo de’ Fiori (quando ci passate guardate per terra un tondino che ricorda il punto esatto).
Ferrara, in data da destinarsi ma prima delle prossime amministrative, il Parco Giordano Bruno sarà ingabbiato dall’Amministrazione Comunale. La sentenza verrà eseguita dal noto vicesindaco Naomo Lodi.

Il lettore mi consenta l’accostamento un po’ audace, posso avanzare due buone ragioni. Perché Giordano Bruno è, tra i moderni, il mio filosofo ed eroe preferito. E  perché come ferrarese non ne posso davvero più di gabbie e cancellate, come di feste, profumi e balocchi.
(Francesco Monini)
Il passato del Parco Giordano Bruno
Il presente e il futuro del parco

La denuncia del Comitato Giordano Bruno 

Dopo quattro anni di scientifico abbandono e molti annunci, l’amministrazione comunale ha deciso di intervenire nel Parco Giordano Bruno con la sua soluzione preferita: mettere una cancellata.
Ripercorrendo questi anni, è impossibile non riconoscere una sistematica volontà di rendere inospitale il nostro parco: non è stato assegnato a nessuna associazione sportiva il campo di beach volley che quindi è diventato un rettangolo inservibile invaso dalle erbacce; si è scelto, a differenza del passato, di non usare mai lo spazio per iniziative pubbliche, mentre lo sfalcio dei prati avveniva sempre più di rado.
Contemporaneamente, abbiamo assistito alla progressiva sparizione di ogni arredo urbano presente in modo che senza panchine fosse impossibile sostare e godere del luogo. Se prima il parco era frequentato da famiglie e riempito dagli schiamazzi dei bambini, l’aver tolto le panchine allo scopo dichiarato di combattere lo spaccio, ha ottenuto l’effetto inverso di far sparire chiunque volesse godersi la piacevolezza della sosta nel parco, tranne proprio coloro che si intendono respingere.
Da ultima è stata annunciata, senza darne prima comunicazione all’interessato, la revoca della concessione per il chiosco McMurphie, rinunciando così ad un altro punto di convivialità fuori dalle vie di transito, mente nel centro proliferano, a scapito dello spazio urbano, dehors e distese di tavolini.
Come prevedibile, tutte queste scelte hanno semplicemente acuito ogni problema – anche di ordine pubblico – preesistente.
Arrivati ad una anno dell’appuntamento elettorale in Giunta devono essersi ritenuti soddisfatti: la situazione creata ora può richiedere interventi muscolari e il vicesindaco potrà sfoggiare la sua soluzione preferita fatta di cemento e ferro, con costi di decine di migliaia di euro a carico della comunità, mentre ai cittadini del quartiere rimarrà uno spazio meno fruibile e solo negli orari scelti dall’amministrazione di turno.
Il tutto, senza il minimo rispetto dell’idea urbanistica del quartiere Giardino, che ha nel parco Giordano Bruno uno spaccato verde di passaggio, uno snodo vitale e coerente, che da domani diventerà una gabbia respingente.
Comitato Giordano Bruno

Non è Don Milani il colpevole della cattiva scuola

Dopo le critiche di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola (Il danno scolastico, ed. La Nave di Teseo) a Don  Milani, che avrebbe contribuito, con l’idea che “la scuola pubblica non può bocciare”, ad una banalizzazione della scuola, arrivano ora quelle di Ernesto Galli della Loggia che cita Adolfo Scotto di Luzio (L’equivoco don Milani, ed. Einaudi), secondo cui il priore di Barbiana è stato usato, nel post ’68, come profeta di quella “scuola democratica” che tanti mali avrebbe prodotto nell’istruzione pubblica.

Il libro di Scotto di Luzio è una documentata analisi di “Lettera a una professoressa” , che don Milani scrisse dopo che uno dei suoi allievi tentò di inserirsi nella scuola pubblica venendo però bocciato.
Scotto ha ragione su un punto: secondo don Milani, la scuola pubblica era organizzata per ratificare la subalternità sociale delle classi popolari attraverso una istruzione “colta”, priva di qualunque utilità pratica e che ai poveri diceva poco o nulla, che proponeva come modello la modernità borghese al posto della tradizione contadina e popolare: l’italiano al posto del dialetto, i grandi pensatori classici al posto dei sarmenti[1].
Del resto la riforma Gentile, ancora vigente a quel tempo, aveva l’obiettivo di formare una classe dirigente che studiasse le cose più lontane possibili dal sapere manuale e contadino.

Per onestà intellettuale, bisognerebbe evitare di tirare don Milani per la giacchetta e riconoscere il suo autentico messaggio, che anche oggi sarebbe eterodosso. Spedito dalla curia in una frazione sperduta, Barbiana, di Vicchio del Mugello, per le sue idee contro la guerra, i cappellani militari e l’obiezione di coscienza, Lorenzo Milani fu un contestatore del potere e, nell’istruzione, uno sperimentatore generoso e audace che si cimentò in quella che oggi sarebbe una piccola scuola privata (home schooling) rivolta a un piccolo drappello di contadini che mai avrebbero studiato (“la scuola è meglio della merda”) se non fosse stato per la sua iniziativa.

Non è vero – come scrive Galli della Loggia su Il Corriere della Sera del 1.6.2023 –  che “dei modi di insegnare a lui non interessava davvero nulla”. E’ stata proprio di Don Lorenzo Milani la capacità di integrare lo studio “classico” (che oggi chiameremmo “istruzione”) con le conoscenze di vita e lavoro dei suoi contadini, affermando un concetto oggi largamente accettato dagli esperti, e che cioè si apprende dallo studio, ma anche dal lavoro e dalla vita. Una acquisizione che la nostra scuola pubblica non è stata capace di inverare, nonostante diverse sperimentazioni di successo in tal senso (da Fiorenzo Alfieri, maestro elementare e assessore di Torino dal 1976 al 1980, all’odierno movimento della scuola pubblica all’aperto, alle scuole private Steiner e Montessori).

Per Don Milani il sapere si estendeva anche a quelle conoscenze popolari, contadine, che non erano meno importanti di quelle moderne e borghesi. Il sapere si esprimeva anche nel dialetto e nei sarmenti (i tralci recisi della vite, a cui i contadini cambiano nome nel momento in cui non sono più attaccati alla pianta).
Non è un dettaglio, per lo più sconosciuto ai cittadini borghesi, ma il senso profondo di un mondo contadino (oggi diremmo con un luogo comune la “tradizione”) che l’umanità ha conquistato in duemila anni di storia.
Una saggezza che sa quanto sia importante conoscere la Natura ed avere un rapporto armonico con essa, sa che esiste la vite ed esiste il tralcio. Una saggezza da cui è possibile trarre il concetto di “libertà nella responsabilità” o di “limite”. Quando questo limite viene superato, il tralcio diventa un sarmento.

Si tratta di un tema caro anche a Pier Paolo Pasolini (tradizione versus modernità) che si ripropone oggi in modo acutissimo dopo 30 anni di iper-globalizzazione e di “modernità” come nuova religione occidentale, come se tutto ciò che è tradizione fosse da buttare e ciò che è moderno fosse sempre e comunque da venerare.

Altro che don Milani! E’ nei social, nelle minacce della modernità e in una scuola imbalsamata da cinquant’anni che bisogna cercare le cause dei disturbi da ansia e depressione che sono cresciuti dal 10% al 23% tra gli adolescenti in Occidente, così come gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi a causa del bullismo social, dell’ eccesso di competitività nel rapporto coi pari legato all’abuso delle piattaforme e dei recenti lockdown con didattica a distanza.

Così crescono i ritiri scolastici, i casi Hikikomori, che colpiscono i più deboli del branco (o il revenge porn sulle ragazze). Allarmi che ora lanciano anche gli adulti, per gli effetti devastanti a cui sta portando l’accelerazione senza gradualità del digitale, dell’Intelligenza Artificiale deregolata (da chatGpt in poi) che quasi sempre rendono la vita, il lavoro e l’istruzione meno umana.
Il potenziamento della “tekhne” e delle tecnologie, senza un contraltare di regolazione umanistica e morale, distrugge forme di vita e di relazione prodotte in centinaia di anni. Un tema di cui parla diffusamente Umberto Galimberti nel suo libro L’ospite inquietante, I giovani e il nichilismo).

In tal senso non è vero che don Milani (come dice Galli della Loggia) “non ci aiuta per nulla a rispondere alla domanda cruciale dell’istruzione obbligatoria: che cosa fare con quelli che non ce la fanno?”

E’ corretto affermare che don Milani non era per bocciarli, ma non era neppure per la scuola “facilitata”. Cercava vie nuove affinché i suoi contadini potessero apprendere dalla via dell’ istruzione (che diremmo “classica”, passare dalle cento parole dell’operaio e contadino alle mille del padrone), ma anche dalla via della sperimentazione, facendo tesoro di quel lavoro manuale e della vita che i suoi studenti conducevano e operando affinché la scuola non annullasse quella cultura popolare, quelle tradizioni, quella stessa religiosità e spiritualità al posto delle quali introdurre una modernità priva di radici e alienante.

La via da seguire per la scuola pubblica non può essere quella del solo “modernizzare” in senso telematico/informatico.
Si dovrà pur riflettere sul motivo per cui metà dei quindicenni non sappiano interpretare un testo, né scrivere, né fare un’operazione elementare di matematica. Non può essere solo la “scuola facilitata” di cui parla Ricolfi, ma ci deve essere qualcosa di più profondo che ha prodotto questa devastazione.
Da qui la necessità di riprendere sperimentazioni che portino ad un apprendimento più efficace, ispirato da nuove forme di insegnamento.
Solo dopo una stagione di confronto tra esse si potrà avviare una sintesi che porti ad un rinnovamento del modo di insegnare nelle scuole pubbliche, anziché improvvisare senza alcuna sperimentazione soluzioni che, non a caso, da decenni vengono introdotte e poi non lasciano alcuna traccia.

[1]  Da ‘Lettera a una professoressa’: “…gli insegnanti smettano di fare le cose difficili che umiliano i poveri, e interroghino i poveri sulle cose che già sanno…a scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie”. Per Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (“Il danno scolastico”) è proprio questa facilitazione che spiazza i poveri, i quali hanno tutto il diritto invece di essere formati sui grandi pensatori del passato, sull’Iliade e l’Eneide. E come non essere d’accordo. Se molte cose scritte in questo libro controcorrente sono (a mio parere) condivisibili, non lo è la critica a don Milani che non c’entra nulla con la “facilitazione” della scuola. Milani fece una critica alla scuola selettiva degli anni ‘60 (morì nel 1967), severa ma anche élitaria e ferocemente selezionatrice delle classi socialmente più emarginate che, bocciate, potevano andare a lavorare. Allora la battaglia sacrosanta era per un modello di scuola meno “astratta”: non si metteva in discussione solo la selezione quasi sadica contro gli ultimi (non c’era tempo pieno, né sostegni), ma soprattutto ci si batteva per una scuola che garantisse a tutti l’accesso al pensiero, ma che motivasse anche gli alunni più poveri, parlando anche del loro mondo.

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Studente, stai sereno…
Un’ambiguità incendiaria incombe sul ritorno dell’Esame di Stato

Maturando, stai sereno…  Un’ambiguità incendiaria incombe sul ritorno dell’Esame di Stato

Occorre premettere che chi scrive vedrebbe molto di buon occhio, e non da oggi, l’abolizione del cosiddetto Esame “di Maturità” e la sua sostituzione con un qualche passaggio finale meno illogico e anacronistico.

Le ragioni sono molte. Prima fra tutte il fatto che in due settimane (con tutte le casualità avverse o propizie che vi si possono addensare) si decida del 60% dell’esito di un percorso formativo durato cinque anni. All’università, per esempio, l’esame di laurea pesa in una misura molto inferiore.

Per capirsi, è teoricamente possibile che uno studente che negli ultimi tre anni di scuola superiore abbia ottenuto dieci decimi in tutte le discipline sia bocciato all’esame qualora in nessuna delle tre prove riesca ad avere più dell’equivalente di tre decimi. Non è un controsenso?

Chi scrive ha dunque letto con favorevole interesse le dichiarazioni attribuite da autorevoli organi di stampa al Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara: «La prova orale di maturità sarà solo un colloquio su quanto si è assorbito durante l’anno e sulle scelte future». Niente più domande su italiano, matematica e «preparazione disciplinare». Perciò, «gli studenti che si stanno preparando in modo stressante all’esame, stiano tranquilli». [Vedi qui] 

L’esame, insomma, non è più un esame. Esso è abrogato di fatto, se non ancora di diritto. Bene, la direzione è quella giusta.

Sospinto dall’entusiasmo, sono andato a vedere cosa diceva in proposito il documento tecnico sottoscritto dallo stesso Ministro in primavera, la Ordinanza Ministeriale 45/2023. E lì, all’Art. 22, si legge:

1. Il colloquio è disciplinato dall’art. 17, comma 9, del d. lgs. 62/2017, e ha la finalità di accertare il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale della studentessa o dello studente (PECUP). Nello svolgimento dei colloqui la commissione d’esame tiene conto delle informazioni contenute nel Curriculum dello studente.
2. Ai fini di cui al comma 1, il candidato dimostra, nel corso del colloquio: a. di aver acquisito i contenuti e i metodi propri delle singole discipline, di essere capace di utilizzare le conoscenze acquisite e di metterle in relazione tra loro per argomentare in maniera critica e personale, utilizzando anche la lingua straniera”.

Ne ho dedotto, poiché non posso pensare che il Ministro non legga i documenti che firma, che le dichiarazioni attribuitegli dai giornali fossero state inventate, o gravemente travisate, e che egli avrebbe provveduto a smentirle a stretto giro. Ma nessuna smentita è finora arrivata.

Per questa ragione, sento l’esigenza di provare a far arrivare al Ministro Valditara un invito ragionevolmente fiducioso a intervenire.

L’ambiguità generata dalla contraddizione tra i documenti da lui sottoscritti e le parole attribuitegli è infatti incendiaria, e ancor più lo diventerebbe se sopravvivesse irrisolta fino alle soglie dell’esame o, peggio ancora, nel cuore del suo svolgimento.

Non vi è dubbio, infatti, sul fatto che dei pubblici ufficiali – quali sono i commissari d’esame – debbano attenersi con scrupolo a ciò che viene prescritto formalmente, ovvero alla lettera dell’Art. 22 sopra citato.

D’altro canto, è altrettanto certo che la stragrande maggioranza degli esaminandi e delle loro famiglie non frequenti i documenti ministeriali e quindi possa legittimamente formarsi delle aspettative sulla base delle dichiarazioni che organi di stampa autorevoli attribuiscono a un Ministro.

Non credo sia difficile prevedere che ogni aula d’esame si trasformerebbe in un Vietnam, nel quale gli studenti e le famiglie percepirebbero di essere vittime di un’imboscata. Ne nascerebbero dei conflitti tanto certi nella loro capillarità quanto imprevedibili nelle loro conseguenze. Ricordiamo che il Ministro è così consapevole del clima ostile che circonda la categoria dei docenti e della gravità dei rischi che ne derivano da aver annunciato iniziative politiche in proposito [Leggi il comunicato e la circolare del ministro].

È un congegno che deve essere assolutamente disinnescato, o smentendo le dichiarazioni attribuite al Ministro, o almeno esplicitando in quali punti esse sono state travisate e quale sia la loro interpretazione autentica coerente con le disposizioni ministeriali.

Oppure, si potrebbe rettificare l’Ordinanza allineandone le prescrizioni al contenuto delle dichiarazioni di stampa e, magari, spiegando anche come graduare l’attribuzione dei venti punti previsti per il colloquio (l’equivalente di un anno e mezzo di lavoro a scuola) rispetto alla chiacchierata prevista.

Una terza soluzione non v’è o, meglio, sarebbe in ogni caso sintomo di una drammatica allergia alle responsabilità che l’assunzione di una carica come quella di Ministro dell’Istruzione implica.

Se incredibilmente dovesse essere questo il caso e il Ministro non volesse trarne le conseguenze per intero, lo potrebbe sempre fare per metà: tenendosi il Ministero del Merito!

In copertina: Il Ministro per l’Istruzione e Merito Giuseppe Valditara.

LE VOCI DA DENTRO /
Lettera dal carcere ai giovani

Lettera dal carcere ai giovani

La lettera pubblicata di seguito è un invito ad essere attenti nella scelta delle amicizie e a riflettere bene prima di considerarsi presuntuosamente al di sopra degli altri o della legge. Chi ha scritto desiderava raccomandare ai giovani di tenere un comportamento rispettoso della legge perché, a volte, basta davvero poco per finire dietro le sbarre.
Mauro Presini

Lettera aperta ai giovani
di A.B.

Cari giovani,
chi si sta rivolgendo a voi sono persone che, oltre ad essere dei detenuti, sono anche dei padri, dei nonni e persone che sono state giovani.
Quando eravamo giovani, la possibilità di frequentare la scuola non era alla portata di tutti e quelle poche nozioni ed informazioni si potevano apprendere solo tramite giornali.
Internet non esisteva nemmeno nella nostra immaginazione quindi quello che si poteva sapere era basato solo grazie alla semplice socialità e allo scambio di parole.
Ciò che tutti noi vogliamo raccomandarvi è di cercare di fare tutto il possibile per evitare di finire nel labirinto giudiziario perché, una volta che ci siete dentro, sarà davvero complicato trovare poi la via d’uscita.
Sappiate, cari ragazzi, che in questa nazione l’impunità non esiste ed è impossibile farla franca.
Chi svolge le indagini giudiziarie per qualsiasi reato che potreste aver commesso ha a disposizione degli strumenti ed un’esperienza tale che nemmeno immaginate, ma soprattutto non lasciatevi ingannare dalla presunzione di essere più furbi della giustizia con la convinzione di poterla fare franca poiché questa possibilità non esiste ed “il delitto perfetto” oggi non è possibile che sia commesso.
Dovete sapere che per il solo fatto di essere sospettati per aver commesso un qualsivoglia reato, grazie alla cronaca che oggi monopolizza tutte le vie di comunicazione (comprese le reti internet ed i social network), in men che non si dica tutti vengono a sapere ciò che è successo.
Così viene inflitta la prima condanna mediatica senza nemmeno aspettare che la magistratura faccia il suo corso ed un giudice possa esprimersi per dichiarare l’innocenza o la colpevolezza.
Rimarrà il fatto che, per l’opinione pubblica, sarete lo stesso colpevoli di ciò per cui siete stati indagati.
Per forza di cose nell’immediatezza avrete perso diritti e dignità, non solo la vostra ma anche quella delle persone che vi circondano e dei vostri familiari considerati anche loro colpevoli di reati che non hanno commesso. Purtroppo viviamo in una società che addita le persone ed emette sentenze senza averne titolo.
Il carcere è brutto, molto brutto, non c’è assolutamente nulla di bello o di positivo.
Pensate oltretutto che in carcere sarete costretti a convivere con persone che hanno compiuto reati e che potrebbero esercitare varie forme di prepotenza. Non è un caso se il carcere, da molti paragonato ad una giungla, non è sicuramente come nei film.
Cari ragazzi, sappiate inoltre che se vi trovate in comitiva ed un vostro amico prende a pugni qualcuno e assistete passivamente all’episodio, voi verrete considerati complici al 100%.
Lo stesso vale per quanto riguarda quei casi in cui restate impassibili a registrare video di prepotenze e poi le pubblicate in rete come se nulla fosse. La diffusione di certi video è considerato un reato.
Quando si compra un qualsiasi prodotto falsificato si commette un reato punibile con il carcere. I prodotti falsificati, oltre a favorire le varie mafie, sono anche sorgenti di inquinamento in quanto vengono fatti con materie prime di basso costo e in particolare quando trattasi di prodotti che hanno uno stretto contatto con il vostro corpo, tipo occhiali o cuffiette o abbigliamento, sembra che possano danneggiare il vostro corpo in quanto il materiale che viene usato probabilmente non è a norma di legge.
Ragazzi, ragazze, cercate sempre di essere molto vigili quando siete alla guida di una bici, di uno scooter o di un’auto.
La vita è bella, molto bella e delicatissima, ma basta una piccola disattenzione per renderla un incubo.


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

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In copertina : Detenuti impegnati nel flash mob “Pope is Pop” (Carcere di Ferrara, 2016)

GRANDE TEATRO MUSICALE
Lazarus, migrante interstellare: il regalo d’addio di David Bowie al mondo

Manuel Agnelli sul palco del Teatro Comunale di Ferrara con l’opera rock Lazarus di David Bowie ed Enda Walsh, regia di Valter Malosti

Voltati e affronta l’ignoto. (Turn and face the strange)

Dopo la prima nazionale al teatro Bonci di Cesena lo scorso mese di marzo, e molte tappe intermedie in giro per l’Italia, dal’1 al 3 giugno, è arrivato al Teatro Comunale di Ferrara “il regalo d’addio di David Bowie al mondo”, Lazarus, uno straordinario e potentissimo pezzo di “teatro musicale”, scritto dall’artista poco prima della sua scomparsa insieme al drammaturgo irlandese Enda Walsh.

Lazarus artwork di Gavin Evans

La regia è di Valter Malosti, direttore di ERT / Teatro Nazionale, che ne ha curato la versione italiana confrontandosi con lo stesso Walsh. Nel ruolo del protagonista Thomas Jerome Newton uno dei nomi di punta della musica italiana, il versatile e potente Manuel Agnelli, cantautore e storico frontman degli Afterhours, affiancato dalla cantautrice e polistrumentista vincitrice della XIV edizione di X-Factor Italia Casadilego e dalla coreografa e danzatrice Michela Lucenti. Un ricco cast di 11 interpreti di talento: Dario Battaglia, Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini; e 7 musicisti, tra i migliori della scena musicale italiana: Laura Agnusdei, Jacopo Battaglia, Ramon Moro, Amedeo Perri, Giacomo Rossetti, Stefano Pilia, Paolo Spaccamonti.

Manuel Agnelli, Casadilego, Valter Malosti, foto Laila Pozzo

Malato, ma nel pieno della sua creatività e genialità, l’elegante e aristocratico “Duca Bianco”, definito dalla BBC come “il più grande intrattenitore del ventesimo secolo”, ha lasciato al suo pubblico una navicella spaziale lanciata verso il futuro, frutto della speranza, che, insieme al suo album Blackstar uscito due giorni prima della sua morte, è da considerarsi il suo testamento creativo.

E proprio con Elvis Presley che, sullo sfondo di una televisione sempre accesa che sa di passato e futuro canta il suo Black Star, inizia lo spettacolo. Quella stella nera, la morte, che porta subito al Blackstar di Bowie uscita l’8 gennaio 2016, un giorno di compleanno condiviso con Elvis.

Every man has a black star / a black star over his shoulder / And when a man sees his black star / He knows his time, his time has come.

Newton è solo, sprofondato su una poltrona nella penombra del suo appartamento. Una piccola stella nera al collo, un teschio sul tavolino, una tuta da astronauta.

Manuel Agnelli in Lazarus, foto di Fabio Lovino

Proprio quest’ultimo elemento riporta subito alla mente il romanzo originale del 1963, da cui la pièce prende spunto, The Man Who Fell to Earth di Walter Tevis (lo stesso autore del libro che ha dato origine alla fortunata serie televisiva La regina degli scacchi), e l’omonimo film di Nicholas Roeg, che ha visto Bowie nei panni di attore.

È l’infelice storia del migrante interstellare Newton, costretto a rimanere sulla Terra, prigioniero sempre più isolato nel mondo, chiuso in uno spazio angusto, in preda alla depressione e vittima dei suoi fantasmi e della dipendenza dal gin: un moribondo che non riesce a morire.

In questa situazione disperata, Newton riceve segnali dal passato attraverso la TV, capta visioni del futuro generate dalla sua mente, mescola realtà e sogni ad occhi aperti. Vari personaggi – forse fantasmi o forse sue proiezioni mentali un poco deliranti – si aggirano nello spazio claustrofobico del suo appartamento, buio e opprimente, pieno di oggetti (o nel continuum devastato della sua mente?).

Una pedana rotante, che fa intuire subito l’instabilità mentale del protagonista, fa da palcoscenico ad Agnelli e ai suoi compagni di viaggio che intonano le canzoni di Bowie con una passione che travolge fin dalla prima nota.

Dario Battaglia, Michela Lucenti in Lazarus, foto Fabio Lovino

La band, composta da sette elementi, si integra perfettamente nella scenografia ed è potente nella realizzazione dei diciassette brani che compongono la colonna sonora dello spettacolo. Si può anche ascoltare la voce di Bowie direttamente in scena, in due diversi momenti (il grido “shut up!” al termine di It’s No Game e un frammento di D.J. durante uno dei momenti clou).

Troneggia lo stesso Duca, è presente con forza, è (forse) la storia della mente di un uomo che va in frantumi durante i suoi ultimi momenti di vita. Newton è chiaramente David Bowie, ma potrebbe essere anche ognuno di noi (nella locandina originale si evidenziavano le lettere US di Lazarus).

Casadilego in Lazarus, foto Fabio Lovino

Giunto al termine della sua esistenza terrena, come l’artista (e si vede nelle battute dei personaggi), “l’uomo che cadde sulla terra” subisce un tiro mancino da parte della sua psiche devastata: l’illusione di una possibilità di fuga, la costruzione dal nulla di un razzo che lo riporterà tra le stelle. La speranza, quella che, alla fine, guida. I fantasmi che gli fanno visita sono proiezioni della sua mente lì per far emergere i ricordi dei momenti più disparati della sua vita.

E così Lazarus, opera incompiuta, diventa una collezione di frammenti di memoria intensi e futili, quasi alla rinfusa, dove la figura dell’alieno rappresenta tutti i “diversi”, o meglio quelli che la società considera tali.

Manuel Agnelli in Lazarus, foto Fabio Lovino

Bowie – afferma Malosti – era un’antenna sensitiva dello spirito del tempo e delle arti, percepiva umori e atmosfera, e poi digeriva e rimescolava tutto in una sintesi geniale, direi alchemica, visto il suo interesse per questa materia, in cui l’androginia e l’energia dionisiaca fanno esplodere l’interiorità e l’identità in mille frammenti e altrettante maschere”.

“Alla luce della sua morte – prosegue il regista – tendiamo a leggere tutto ciò che Bowie ha creato nei suoi ultimi anni come allegoria autobiografica, specialmente quando ci viene data una serie di indizi come quelli di Lazarus. Ma Bowie, come sempre nelle sue creazioni e nei suoi alter ego, usa la persona di Newton, mobilitandola come veicolo per una serie di temi costanti che troviamo nella sua musica: l’invecchiamento, il dolore, l’isolamento, la perdita dell’amore, l’orrore del mondo e la psicosi indotta dai media. Newton è allo stesso tempo Bowie e non è Bowie”.

Bravissimo Manuel Agnelli, alla sua prima prova come attore, dalle performance canore che portano a immensa empatia, belle sorprese quelle di Casadilego nei panni di Marley, e di Dario Battaglia, che impersona un Valentine che ricorda Andy Warhol. Chiude il quartetto dei protagonisti Michela Lucenti nei panni di Elly, l’assistente di Newton posseduta da Mary Lou, vecchio amore del protagonista, perfetta nel rendere palese la follia del personaggio con i movimenti sciolti del corpo.

Manuel Agnelli, Camilla Nigro in Lazarus foto di Fabio Lovino

Tantissimi gli applausi per questa compagnia che propone un prodotto al di fuori degli schemi comuni, in grado di toccare le corde del grande pubblico. Perché, come ha detto Manuel Agnelli durante l’incontro con il pubblico, bisogna avere coraggio di proporre altro, quell’altro che, se gli viene dato adeguato spazio, è in grado di raggiungere tutti. Davvero tutti.

Complimenti, allora, per questo saper osare.

Playlist: Lazarus / It’s No Game / This Is Not America / The Man Who Sold the World / No Plan / Love Is Lost / Changes / Where Are We Now? / Absolute Beginners / Dirty Boys / Killing a Little Time / Life on Mars? / All the Young Dudes / Sound and Vision / Always Crashing in the Same Car / Valentine’s Day / When I Met You / Heroes.

Una produzione esecutiva di Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale realizzata insieme a importanti Teatri Nazionali: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale e al LAC Lugano Arte e Cultura.

Il testo della versione italiana di Valter Malosti sarà pubblicato con la Nave di Teseo/Baldini di Elisabetta Sgarbi.

Interpreti / Personaggi: Manuel Agnelli – Newton; Casadilego – Ragazza, poi Marley; Michela Lucenti – Elly; Dario Battaglia – Valentine; Attilio Caffarena – Michael; Maurizio Camilli – Zach; Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, coro delle Teenager; Camilla Nigro – Maemi / Donna giapponese; Isacco Venturini – Ben / Il doppio di Newton; in video Roberta Lanave Mary-Lou

LAZARUS, di DAVID BOWIE e ENDA WALSH
ispirato a The Man Who Fell to Earth (L’uomo che cadde sulla terra) di Walter Tevis. Versione italiana Valter Malosti

Uno spettacolo di VALTER MALOSTI, con MANUEL AGNELLI, CASADILEGO, MICHELA LUCENTI, DARIO BATTAGLIA e (in o.a.) Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini

la band (in o.a.)
Laura Agnusdei sax tenore e sax baritonoJacopo Battaglia batteria, Ramon Moro tromba e flicorno, Amedeo Perri tastiere e synth, Giacomo “ROST” Rossetti basso,
Stefano Pilia chitarra, Paolo Spaccamonti chitarra

Progetto sonoro GUP Alcaro; scene Nicolas Bovey; costumi Gianluca Sbicca; luci Cesare Accetta; video Luca Brinchi e Daniele Spanò; cura del movimento Marco Angelilli; coreografie Michela Lucenti; cori e pratiche della voce Bruno De Franceschi; maestro collaboratore Andrea Cauduro; assistenti alla regia Jacopo Squizzato, Letizia Bosi; direttore tecnico Massimo Gianaroli; direttore di scena Lorenzo Martinelli / Stefano Orsini; macchinista Riccardo Betti; fonici Angelo Longo, Nicola Sannino, Giacomo Venturi; datore luci Umberto Camponeschi; sarta Eleonora Terzi; trucco e parrucco Nicole Tomaini; foto di scena Fabio Lovino

over: Manuel Agnelli in scena – foto Fabio Lovino

“Rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza…”
Per la Politica son solo parole, non un preciso compito costituzionale

Se cerchiamo la parola solidarietà in un dizionario, questa è la spiegazione: la solidarietà è un sentimento di fratellanza, di aiuto materiale e morale tra le persone di un gruppo, di una collettività.  Oggi “solidarietà” è un termine inflazionato soprattutto nelle dichiarazioni della politica, in occasione di calamità (vedi la  partecipazione a sostegno dei cittadini colpiti nel corso della recente alluvione), ma resta estraneo quando si tratta di gestire un Paese garantendo a tutti condizioni di vita accettabili.

Si ritorna alla seconda parte dell’articolo n° 3 della Costituzione “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

“Garantire tale dettato della Costituzione significa dare fondo al sentimento della solidarietà, proposto in teoria con la leva della fiscalità ma nella realtà non pianamente realizzato a causa di una tolleranza colpevole nei confronti della elusione e della evasione fiscale, di un sistema di distribuzione della fiscalità inadeguato che salvaguarda le rendite e i patrimoni acquisiti nel passato”, scrivevamo in un Blog del CDS del mese scorso.

Come si esprime la solidarietà in una nazione? Insieme alle testimonianze verbali, alle dichiarazioni di sostegno morale, alle manifestazioni più o meno folcloristiche quelli che contano sono gli atti concreti, come ci indica la Costituzione e qui non è possibile fraintendere perché esiste solo la leva fiscale per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”.

E qui nel nostro Paese si verifica un blocco che impedisce la realizzazione di questo dettato, vengono premiate tutte le proposte che eludono tale obiettivo come i condoni, la carente lotta all’evazione fiscale, il sostegno alle elusioni, la solidarietà con i piccoli evasori (le tasse considerate “pizzini di Stato”), l’applicazione della flat tax e neppure è presa in considerazione una reale riforma fiscale progressiva, una tassa patrimoniale per i super ricchi, una seria imposta di successione, considerate scelte quasi eversive.

Sono gli stessi ceti medi o medio-bassi che solidarizzano nei fatti con i super ricchi e bocciano, nelle elezioni e nei consensi (anche se non vengono penalizzati), proposte che negli altri paesi europei sono considerate segno di civiltà.

Osservazioni come quella che … i venti cittadini più ricchi in Italia possiedono beni pari a quelli dei dieci milioni più poveri sono banalizzate, non scuotono le coscienze, come se tale ingiustizia fosse effetto del destino.
Persino il Fondo Monetario Internazionale ha fatto notare come negli ultimi decenni i più ricchi in Italia abbiano usufruito di basse tasse nel nostro Paese, suggerendo di aumentare la progressività dei prelievi fiscali per compensare almeno in parte l’ulteriore incremento delle diseguaglianze causato dalla pandemia nei confronti dello stato sociale, sanità, istruzione, ecc.

Un esempio è fornito dall’imposta di successione, una tassa che si applica ai beni ricevuti in eredità, introdotta nel 1862 come tassa «liberale» da Camillo Benso, Conte di Cavour, … non proprio un rivoluzionario, con lo scopo di combattere la rendita e promuovere la mobilità sociale. In Italia, purtroppo nel tempo tale imposta ha perso valore e il risultato è che il gettito dell’imposta ora è piuttosto modesto. Secondo i dati dell’OCSE, il gettito derivante da tale imposta in Italia è stato pari a soli 820 milioni di euro nel 2018, ovvero lo 0,05 per cento del Pil.

Tassa di Successione in Italia e in altri Paesi: dati OCSE 2018 – blog del deputato Claudio Cominardi.

Si tratta di una cifra lontana da quanto incassato negli altri principali paesi europei, come riportato da Huffpost. In Francia, per esempio, nel 2018 il gettito dell’imposta su successioni e donazioni è stato pari a 14,3 miliardi di euro, in altre parole, quasi tredici volte il gettito italiano in rapporto al Pil, con 6,8 miliardi di euro troviamo invece la Germania, il Regno Unito è a 5,9 miliardi di euro al cambio del 2018 e la Spagna a 2,7 miliardi di euro, tutti paesi che riescono a incassare quasi cinque volte l’Italia (sempre in rapporto alle dimensioni dell’economia).

Per capire meglio questa differenza può essere utile fare un esempio. Consideriamo un’eredità del valore netto di 1 milione di euro lasciata da un genitore al proprio figlio: quante imposte dovrebbero essere pagate su questo trasferimento? In Italia la franchigia di 1 milione è sufficiente a evitare completamente l’imposizione, mentre negli altri paesi non è così: in Spagna l’imposta ammonterebbe a circa 335.000 euro, in Francia a 270.000 euro, nel Regno Unito a 245.000 euro e in Germania a 115.000 euro.

Conosciamo tutte le obiezioni sollevate dagli ‘esperti’: a) la predisposizione di una nuova imposta,  in questo caso un’imposta patrimoniale, fornisce un alibi di risorse aggiuntive per alimentare la spesa pubblica, b) la ricchezza dei veri ricchi è principalmente finanziaria e spesso si annida in strutture societarie opache come trust e fondazioni collocati in paradisi fiscali più o meno esotici, c) occorre ricordare il lato pubblico delle rendite cioè quelle rendite fiscali create dalla spesa pubblica, ecc.
Embè, anche se tali obiezioni avessero una base di verità, cosa ci sta a fare la politica? In una democrazia il ruolo dei partiti è anche quello di modificare le regole che si rivelano sbagliate.

E gli italiani, perché corrono in soccorso a chi perpetua le differenze?

Nota: questo articolo è già uscito con altro titolo il 2 giugno 2023 sul  Blog del CDS Cultura.

Per certi versi /
Una serata di donne iraniane

Una serata di donne iraniane

Una sera
Tante donne
raccontano
Raccontano cose
Terrificanti
Iran
Afghanistan
Donne chiuse
Senza voce
Belucistan
All’uranio
Iran
I gas a scuola
Le frustate
La forca
Gli ayatollah
La violenza
Dei pasdaran
La forca
Di nuovo
Tutti zitti
I contratti
Gli affari
Si fanno
In silenzio
Una serata
Di donne iraniane
Raccontano
Hanno bisogno
Di noi
Tante donne
Testimoni
Della rivolta
Ancora una
Volta

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Presto di mattina /
Amicizia sociale

Presto di mattina. Amicizia sociale

Sgranano i sogni le pupille

Uomini e sogni siamo d’una fibra
E in noi sgranano i sogni le pupille
Come bambini all’ombra dei ciliegi,

E alza la luna sulle cime il corso
D’oro pallido per la vasta notte.
… Affiorano così dal fondo i sogni

E vivono come un bimbo che ride,
Avanti a noi, grandi nell’onda alterna
Come la luna desta dalle cime.

Penetrano le vene più profonde;
Come mani di spettri in una stanza
Hanno dimora e vita in noi perenne.

Ed una cosa è l’uomo, l’astro e il sogno.
(Hugo von Hofmannsthal, Narrazioni e poesie, Mondadori, Milano 1989, 33).

Non finzione, evanescenza notturna, né inutile ombra di un astro lontano. Il sogno, nella poetica di Hofmannsthal, è coscienza viva di come nel presente si nasconda sempre l’ignoto, al cui apparire potrebbe mutarsi tutto: «questo è un pensiero che dà le vertigini, ma che consola», così egli scrive ne Il libro degli amici.

Poiché di un’unica fibra son fatti uomini e sogni, affiorando dal profondo, dimorano nella vita, penetrando in essa. Convivono nel sorriso dei piccoli, sono davanti come mani di occhi neonati sgranati nell’ombra dei ciliegi, come luna che sale dalle cime segnando con ombroso lume la vasta notte perché «una cosa è l’uomo, l’astro e il sogno».

L’ignoto: un estraneo sulla strada

Anche nel sogno di papa Francesco, quello affiorante nella sua lettera Fratelli tutti (3 ottobre 2020), si nasconde l’ignoto, lo sconosciuto, il samaritano della parabola evangelica, anima spirituale e cuore del suo testo. L’Ignoto accade, come quella volta sulla via che va da Gerusalemme fin nello sprofondo di Gerico. Viene incontro non senza speranza pur tra ombre di un mondo chiuso, indifferente, dove molti passano oltre. Lo straniero avanza come opportunità di un mutamento possibile, di un ribaltamento delle sorti, sia per la comunità ecclesiale sia per quella umana.

Nella lettera del Papa si descrive lo scenario del presente: sogni che vanno in frantumi, diritti umani non sufficientemente universali, perdita della coscienza storica, dignità umana smarrita alle frontiere, globalizzazione e progresso prive di una rotta comune, conflitto e paura, aggressività, informazione senza saggezza, e tuttavia «malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene».

L’ignoto come speranza «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore» (nn. 54-55).

Per papa Francesco il male più grande oggi è l’esclusione sociale. Per questo ci ha consegnato questa enciclica sociale «come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (n.6).

Fraternità e amicizia sociale

Quello sognato da papa Francesco non è cosa nuova, è un sogno che viene da lontano, si intreccia con il sogno del Poverello di Assisi, rilancia pure quello di fratel Charles de Foucauld, il fratello universale, ma molto prima penetra le vene più profonde delle parabole del Regno. L’Ignoto, colui che nessuno ha mai visto, dimora tuttora nei sogni e nelle parabole rivolte dal Figlio dell’uomo ai suoi fratelli.

Affiorano così dal fondo della umanità i sogni del Figlio amato come quelli di Giuseppe, il sognatore, il figlio prediletto di Giacobbe, che sognava futuro contro ogni futuro, anche per i suoi fratelli che avrebbero provato a negarglielo calandolo in un pozzo vuoto per venderlo poi ai mercanti come schiavo in Egitto. Ma l’Ignoto, dimorante anche in quel pozzo come tanti sogni sepolti e dissolti nel nulla, avrebbe cambiato tutto per Giuseppe e i suoi fratelli, per Gesù e per i suoi amici.

«C’è un riconoscimento basilare, essenziale da compiere – incalza papa Francesco – per camminare verso l’amicizia sociale e la fraternità universale: rendersi conto di quanto vale un essere umano, quanto vale una persona, sempre e in qualunque circostanza. Se ciascuno vale tanto, bisogna dire con chiarezza e fermezza che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità. Questo è un principio elementare della vita sociale, che viene abitualmente e in vari modi ignorato da quanti vedono che non conviene alla loro visione del mondo o non serve ai loro fini» (n. 106).

L’amicizia sociale si costruisce per papa Francesco da un continuo incontro con le differenze ed implica un dialogo costante.
La fraternità aperta a tutti e l’amicizia sociale costituiscono all’interno di ogni società due poli inseparabili di coesione e indispensabili a salvaguardare e promuovere la dignità delle persone e dei popoli. Separarli provoca polarizzazioni riduttive e deformanti, che lacerano il comune modo di vivere e si frappongono alla realizzazione dell’unica appartenenza umana:

«Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca» (n.36).

Così papa Francesco indica come pietra angolare, su cui costruire insieme la comunità umana e il consenso di tutti, il riconoscimento della dignità assoluta di ogni essere umano e lo fa cercando di universalizzare la fraternità a partire da una prospettiva e impegno di amicizia sociale.

La vicinanza d’amore che rende amici

Già nel 2011, ancora cardinale, Bergoglio ricordava in un discorso intitolato Dio nella città che «lo sguardo d’amore non discrimina né relativizza perché è sguardo d’amicizia. Gli amici si accettano così come sono e gli si dice la verità.

È anche questo uno sguardo comunitario. Porta ad accompagnare, a riunire, ad essere qualcuno in più al fianco degli altri cittadini. Questo sguardo è la base dell’amicizia sociale, del rispetto delle differenze, non solo economiche, ma anche ideologiche. È anche la base di tutto il lavoro del volontariato. Non si può aiutare chi è escluso se non si creano comunità inclusive».

Grazie all’amicizia la fraternità può aprirsi oltre i confini e le appartenenze esclusive e radicarsi profondamente nella vita sociale e politica. Aiuta a pensare e generare un mondo aperto. Ciò che la caratterizza è l’amore per l’altro in quanto tale, essa si esprime come un’uscita della persona verso l’altro in libertà e dedizione.

Scrive papa Francesco: «Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi una specie di legge di “estasi”: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere. Perciò in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso» (n. 88).

Il valore della dignità umana viene accresciuta se la guardiamo con gli occhi dell’amicizia; l’altro vale non solo in ragione della giustizia della misericordia in quanto fratello e pari nell’umanità ma si accresce se l’altro ha pure la dignità di amico.

La vicinanza che rende amici ci permetterà di apprezzare profondamente anche i valori, la fede dei poveri di oggi: «l’opzione per i poveri deve portarci all‘amicizia con i poveri… Alla luce del Vangelo riconosciamo la loro immensa dignità e il loro valore sacro agli occhi di Cristo, povero ed escluso come loro e insieme a loro. A partire da questa esperienza di credenti, condivideremo con essi la difesa dei loro diritti» (n. 234).

Architettura nel segno dell’amicizia sociale

L’architettura come l’amicizia sociale può divenire un “agente di cambiamento”. È questo il messaggio che ci viene da quel “laboratorio per il futuro” che vuol essere la Biennale di Architettura 2023, dal 20 maggio al 23 novembre 2023 a Venezia.

La 18a Mostra Internazionale di Architettura si è focalizzata “sull’Africa e sulla sua diaspora”. All’evento partecipa anche il Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione con un padiglione espositivo nell’abbazia dell’Isola di san Giorgio maggiore.

L’Amicizia sociale: incontrarsi nel giardino è il tema che è stato proposto dagli organizzatori per rilanciare le prospettive di una cultura dell’incontro così come è stata declinata nelle lettere encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020).

Il presidente della biennale Roberto Cicutto ha dichiarato che «un laboratorio del futuro non può prescindere da un punto di partenza preciso, da una o più ipotesi in cerca di verifica… È un punto di partenza che invoca l’ascolto di fasce di umanità lasciate fuori dal dibattito, e apre a una molteplicità di lingue zittite per molto tempo da quella che si considerava dominante di diritto in un confronto vitale e improcrastinabile. Io credo che questo sia il vero compito della Biennale di Venezia come istituzione, e non solo per quanto riguarda l’architettura».

La curatrice Lesley Lokko ha ricordato che «per la prima volta, i riflettori sono puntati sull’Africa e sulla sua diaspora, su quella cultura fluida e intrecciata di persone di origine africana che oggi abbraccia il mondo… Spesso si definisce la cultura come il complesso delle storie che raccontiamo a noi stessi, su noi stessi. Sebbene sia vero, ciò che sfugge a questa affermazione è la consapevolezza di chi rappresenti il “noi” in questione.

Nell’architettura in particolare, la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità – dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale – come se si ascoltasse e si parlasse in un’unica lingua. La “storia” dell’architettura è quindi incompleta. Non sbagliata, ma incompleta. Ecco perché le mostre sono importanti» (ivi).

Fare un passo indietro

Un passo indietro può essere la condizione di molti passi avanti, un’opportunità per coinvolgere tutti, per cambiare un limite in opportunità di ascolto dei territori e di coloro che li abitano.
Il coraggio di “far fare un passo indietro all’architettura”: questo l’invito del poeta e cardinale portoghese Josè Tolentino de Mendonça dal 2022 prefetto del Dicastero per la Cultura.

Il suo motto episcopale è un passo poetico del vangelo nel discorso delle Beatitudini: Considerate lilia agri, è l’invito ad osservare contemplando come crescono i gigli del campo. Egli ha voluto così sottolineare la necessità di un cambio di paradigma, sollecitando un’architettura che guardi alla modestia, preferendo la pratica di gesti semplici, prendendo spunto dall’uso quotidiano familiare e dal modello meditativo di vita monastica per vivere la globalità come un ambiente più familiare e domestico.

L’architettura, quindi, come luogo di quiete, di riflessione, di interiorità, in grado di favorire in chi la vive la capacità di accorgersi anche delle piccole cose, di quelle nascoste e partecipare a quelle situazioni, relazioni e azioni meno appariscenti o date per scontate e tuttavia portatrici di senso: profetiche. Per questo nel giardino del monastero di San Giorgio la disposizione delle coltivazioni è stata posta in relazione con gli elementi della natura: sole, terra, aria, acqua.

Architettura del mondo come esercizio di responsabilità

«Può sembrarci una categoria insolita quella dell’“amicizia sociale” – scrive Josè Tolentino de Mendonça – siamo abituati a declinare l’amicizia come una categoria personale e privata e, per parlare delle relazioni nella società, ricorriamo a termini più generali come rispetto, solidarietà, civismo, cittadinanza.

Riserviamo la parola “amicizia” alla cerchia elettiva dei nostri affetti, cosa peraltro consigliata da varie tradizioni sapienziali a partire da quella biblica. Ma la proposta del Papa prende le mosse dalla situazione del nostro tempo, in cui la globalizzazione ci ha resi vicini ma non fratelli…. Come si legge nell’enciclica, «certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano» a scapito di un altro (Fratelli tutti, n. 18).

L’“amicizia sociale” è un tentativo di invertire questa situazione. La sfida che ci lancia Francesco è ad andare “oltre”… L’ “amicizia sociale” è una categoria da inquadrare nell’ambito della fraternità, di una compassione attiva e della pratica concreta della speranza. E ci chiede di progettare l’architettura del mondo come esercizio di responsabilità, invece che come normalizzazione dell’egoismo e dell’indifferenza.

Il papavero e il monaco

il papavero e il monacoUn libro di haiku è quello scritto di recente da Josè Tolentino de Mendonça; questo genere poetico è infatti un invito a guardare, mettersi in ascolto, facendo silenzio affinché altri prendano la parola, o semplicemente si ascolti il loro silenzio che parla linguaggi differenti.

Il tutto, come ci ricorda l’autore, favorito dal fatto che «l’haiku non descrive ma fa apparire l’altro, si presenta come un’istantanea che cattura il flagrante e l’implicito, la meraviglia e la tensione interni alla vita» (Il papavero e il monaco, Quiqajon, Bose [Bi] 2022, 17).

Scrivere haiku è allora come fare un passo indietro per seguire e lasciarci guidare da altri passi: «I passi che ascolto / non si dirigono verso di me», qui l’io non è più misura di tutte le cose; vi è un cambio di paradigma, dall’introversione all’estroversione; l’io si fa discepolo di un tu che cammina oltre.

Sia tale il tuo silenzio
che neppure il pensiero può pensarlo

Far tacere per far dire:
paradossale ingiunzione
il silenzio parla di se stesso;

La primavera a ronzare
Con i suoi occhi azzurri di papavero:
belle e nuove le vesti di Dio

L’estate
insegna la stessa preghiera
al papavero e al monaco

Oggi le nuvole sembrano
monaci che prendono il tè
in silenzio

Vuoi sapere che cosa prego quando prego?
tronchi secchi, ramoscelli
recinzioni e creta rossa

Chiedi quanto devo pregare?
Il papavero sulla collina
È sempre rosso

Adorare
è sorprendere Dio
nella più piccola briciola

In Dio tutto si assomiglia:
la tua preghiera e il canto
della rana

Quel che a parole è nascosto
Nel silenzio crepita
Più intimo

Azzurra la luna
si alza sopra i tetti
e la citta con lei

Ora resta soltanto
che tu diventi
poesia

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Un ricordo di Daniele

Tutti gli amici e le amiche, i compagni di viaggio e di lotta di Daniele Lugli, i gruppi e le associazioni che l’hanno visto impegnato, chiunque voglia lasciare un suo ricordo, possono inviarlo a:  direttore@periscopionline,it

Come Coordinamento Provinciale di Libera abbiamo appreso con dolore e con sconcerto dell’improvvisa scomparsa del caro Daniele Lugli, che è stato fra i fondatori del nostro gruppo ed il nostro primo referente. Siamo vicini ai suoi famigliari e agli amici del Movimento Nonviolento, ai quali rivolgiamo un forte e caloroso abbraccio, e ci uniamo ai tanti messaggi di condoglianze da parte dei molti che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di condividere con lui un tratto di strada.

Ti immagino in cammino, con gli amici di sempre al tuo fianco, seguito da tutti coloro che, in questi lunghi anni di tua militanza nonviolenta al servizio della collettività, ti hanno conosciuto ed apprezzato.
Ci siamo conosciuti, Daniele, a metà degli anni novanta del secolo scorso. Con alcuni amici cercavamo di far conoscere Libera, appena nata a livello nazionale, sul territorio regionale e farle mettere radici. A Ferrara ci hai accolto, consigliato, fatto conoscere. La nostra storia, a Ferrara, inizia con il tuo incontro. Sei stato il nostro primo Referente, fino al Maggio del 2008, quando sei diventato il Difensore Civico della Regione Emilia Romagna. Ricordo che, allora, sei venuto nel mio ufficio, a Bologna, per darmi la bella notizia.
Ora siamo in cammino, dietro di te, fra i tanti che piangono la tua scomparsa.
Buon cammino Daniele, qualunque esso sia e dovunque esso ti porti!
Daniele Borghi
Referente di Libera Emilia Romagna

Ho votato Daniele come primo Referente per il Coordinamento di Ferrara di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
L’ho fatto 16 anni fa con la stessa fiducia con la quale lo rifarei oggi. Perché Daniele, per la persona che era e per la sua storia, possedeva tutte le qualità necessarie per fondare e guidare il nostro Coordinamento. Per dare spinta, visione e direzione, aggregando individui e realtà associative diverse, essendo naturalmente coerente con l’insieme di valori alla base di Libera.
Ha continuato a farlo, con pacata autorevolezza, sino al momento in cui, prima ancora che qualcuno potesse porre la questione, ha ritenuto opportuno fare un passo indietro, mettendo le sue competenze al servizio dei cittadini emiliano-romagnoli come Difensore Civico.
Mi e ci mancherà il confronto con lui, la sua voce, anche “fuori dal coro”, il suo supporto e la sua amicizia.
Donato La Muscatella
Referente di Libera Ferrara

Ho conosciuto Daniele quando ho iniziato la mia attività di volontariato nel Coordinamento di Ferrara di Libera: una sorta di saggia guida, anche se forse a lui questa espressione non sarebbe piaciuta.
Solo in seguito, quando ho scoperto del Movimento Nonviolento e di tutto il resto, ho capito che Libera era solo uno dei tanti tasselli attraverso i quali ha speso le sue energie per la comunità, intesa nel senso più ampio, tanto che forse sarebbe meglio dire le comunità. Mi e ci ha insegnato tanto, ci mancheranno la sua onestà, la sua integrità e soprattutto la sua credibilità, la sua mitezza e, come ha detto una volta, la sua ‘calma fermezza’.
Ciao Daniele, tu sicuramente hai seminato tanto e bene, ora sta a noi continuare a coltivare nel tuo solco.
Federica Pezzoli
Co-referente di Libera Ferrara

LA GRANDE FESTA POPOLARE DEL CPIA

 

CPIA IN FESTA: TEATRO IN PIAZZA CATTEDRALE

Grande festa di chiusura della scuola Cpia, sabato 3 giugno, ore 18.30 in Piazza Cattedrale a Ferrara dove si esibirà il gruppo teatrale della scuola statale per adulti STRALIANI THEATRE,  con lo spettacolo “ QUESTO SONO IO” diretto dal regista Massimiliano Piva.

Ogni scuola festeggia a proprio modo la fine delle attività didattiche ma il Cpia, in cui l’utenza è in maggioranza adulta e straniera, lo fa con una grande festa di piazza invitando la città intera.

Per il gruppo Straliani Theatre, composto da studenti e docenti del Cpia, stranieri e italiani, si tratta orami di un lungo percorso di attività iniziato nell’anno scolastico 2016-2017 messo in scena nel laboratorio teatrale che si svolge durante l’anno scolastico.  Dopo il successo di “Dove comincia l’ascolto, messo in scena nonostante la pandemia.

La serata di festa vede un notevole coinvolgimento di tutte le componenti della scuola Cpia, infatti il materiale scenografico è stato prodotto dal laboratorio di falegnameria attivato presso il Carcere di Ferrara, in cui il Cpia gestisce i corsi di istruzione dall’alfabetizzazione primaria fino alla fine dell’obbligo scolastico.

Spazio dunque ai talenti dei propri studenti, anche in ambito musicale con lo studente togolese Zambè, coreografo e musicista che, chiuderà la festa invitandoci a ballare al ritmo dei suoi travolgenti tamburi africani.

In caso di maltempo il Comune ha concesso lo svolgimento dell’evento al riparo della Galleria Matteotti.

L’evento è gratuito.

Info: segreteria@cpiaferrara.edu.it

Gruppo e Comunità (2) /
Come continua la storia: I have a dream

Eravamo tutti lì per lo stesso motivo. Almeno ci sembrava… Per verificarlo, dedicammo il primo incontro a raccontarci quale sogno avevamo.

[Se non l’hai ancora fatto, leggi prima Gruppo e Comunità (1): Chi ben comincia…

Paola ci accolse in una grande sala, con le sedie predisposte in cerchio. Ci spiegò poi che il cerchio era una forma che facilitava l’inclusività e la reciprocità. Permette di vedersi in faccia e di trovarsi lungo un immaginario filo che collega tutte e tutti.
Questa disposizione favorisce alcuni tipi di riunione, come quella che aveva in mente.

Cosa vi muove? Perché siete qui?

Ci propose di raccogliere le motivazioni che ci avevano portati ad entrare nel gruppo su un grande cartellone. Lo chiamò “il Guardiano”.
Lo avremmo ritrovato ogni volta, silenzioso, ad attenderci e a ricordarci i motivi profondi del nostro agire assieme. Ci avrebbe ricordato la posta in gioco.
Paola faceva di mestiere la facilitatrice e ci spiegò che, nelle fasi iniziali in cui un gruppo si forma, è importante condividere le motivazioni ideali e profonde, quelle che spesso si danno per scontate. Mentre parlava, andavo con la memoria a tante riunioni che avevo frequentato e mii rendevo conto che sono frequentemente caratterizzate da un confronto di idee, pensieri o cose da fare ed organizzare.
Più difficile stare sui perchè.

Che erano motivi basati su bisogni profondi lo capimmo subito.
Ci sedemmo in cerchio e ciascuno fu invitato a rispondere alla domanda: Perchè sei qui?  
L’invito era di connettersi con la propria “pancia”, con la parte più emozionale di quelle motivazioni, lasciando per un attimo in stand by la testa.
Non era mica facile. Ci stava chiedendo esprimere i propri sentimenti e non le proprie idee. Non siamo abituati.

Stefania prese subito la parola, quasi non aspettasse altro e, tutto d’un fiato e con molta emozione disse: “Sentire di aver finalmente trovato persone con cui condividere l’ansia e la preoccupazione per la crisi climatica e quello che comporterà nella nostra vita e soprattutto nella vita dei nostri figli, mi dà sollievo e conforto. Sono anni che leggo e mi documento e provo molta angoscia e senso di impotenza. Ho bisogno di attivarmi, di sentire che ancora ha senso agire e tentare almeno di ridurre il danno. Vedere tante persone a pochi chilometri da noi perdere tutto per una alluvione mi spaventa terribilmente.”.
La voce di Stefania si strozzò, in un attimo di commozione. Con la coda dell’occhio vidi che anche Laura si era commossa. ‘Eco ansia’ la chiamano. L’angoscia derivante dalla presa d’atto che la catastrofe climatica in cui siamo immersi è molto più grande, globalizzata e degenerata di quanto si creda comunemente.

Paola con delicatezza, lasciò qualche momento di silenzio, per permettere a tutto il gruppo di stare in questa emozione che era arrivata così forte.

Senza fretta di mettere nuove parole. Dopo un po’ Giorgio riprese il filo. Con una leggera timidezza, ci disse che soprattutto da dopo il lockdown sentiva il bisogno di stringere relazioni. L’isolamento era stato molto difficile emotivamente. Si era accorto di quanto le nostre vite siano diventate delle corse frenetiche al fare fare  fare…. E di quanto i rapporti si fossero fatti superficiali, frettolosi.

Desiderava quartieri più vivibili, meno anonimi. Un ritmo più lento. Fantasticava angolini di piazza, con tavolini e panchine che favorissero la socializzazione, magari sgomberi dalle auto, dove i bambini potessero giocare, come quando era piccolo. “Forse sarà perchè sto invecchiando, ma ricordo con tanta nostalgia come erano le nostre strade alcuni decenni fa, quando il ritmo della giornata era più lento e i rapporti apparivano più solidali e gentili”.
Giorgio pensava che favorire una socialità diffusa nella città, fosse un modo per rafforzare la coesione sociale e un vicinato di prossimità. “Come fanno i cittadini a condividere i propri bisogni e idee se non ci sono spazi in cui conoscersi e ritrovarsi? Una socialità diffusa, ecco perchè sono qua”, concluse.

Poi fu il turno di Davide. Avrà avuto una trentina d’anni. Appena aprì bocca, capimmo subito che era un tipo molto carismatico. I più rimasero con gli occhi sbarrati, come ipnotizzati. Aveva la naturale capacità di infiammare i cuori, di formulare delle frasi brevi, efficaci, che facevano leva sulla necessità di prendersi il proprio pezzo di responsabilità personale, di rompere l’indifferenza e l’individualismo: “Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano. Io ho un sogno. Che in questa città, i cittadini possano mettere a disposizione i propri talenti e competenze per il bene di tutti. Potremmo censire questi talenti e competenze. Vi immaginate che laboratorio di saperi avremmo a disposizione?”

Poco alla volta il giro terminò e guardammo il Guardiano. Si era riempito di parole chiave che Paola aveva diligentemente riportato via via che ciascuno parlava. Erano parole che avevano risuonato in noi. Nel cerchio si era creata un atmosfera particolare, piena di intensità, di stupore, come un brivido ci correva lungo la schiena… e un motto di speranza. nel cuore.

Tornammo a casa un po’ scossi, quasi disorientati. Era successo qualcosa tra noi in quel cerchio.

IL CERCHIO D’ORO

Con questa rappresentazione, Simon Sinek, scrittore e saggista inglese, propone un modello interpretativo per spiegare per quale motivo alcuni gruppi (e team di lavoro) funzionano efficacemente, hanno successo rispetto alla mission per cui nascono ed altri no, nonostante siano composti da persone molto competenti.
Alla base della interpretazione che propone vi è la biologia, non la psicologia.

Il Cerchio d’Oro

Di solito nei gruppi umani si procede dall’esterno all’interno; dal COSA al COME, sorvolando o accennando appena al PERCHE’. Procedere dall’esterno (dal COSA) all’interno (PERCHE?) implica l’attivazione della neocorteccia, la zona cerebrale di più recente costituzione e deputata al linguaggio, al ragionamento, alla razionalità e al pensiero analitico. Tutte funzioni importantissime ma non legate all’azione e al comportamento.

In altre parole, se comunichiamo dall’esterno all’interno, la gente comprende quello che diciamo come benefici, fatti, numeri, ma questa comprensione non guida il comportamento. E se comunichiamo solo a questo livello, è molto facile entrare in conflitto sulla sfera del pensiero e delle idee.

Quando invertiamo la direzione e comunichiamo dall’interno all’esterno, dal PERCHE’ al COSA, parliamo direttamente alla parte del cervello che controlla il comportamento, ovvero al sistema limbico. Questo sistema comprende una serie di strutture cerebrali e un insieme di circuiti neuronali presenti nella parte più profonda e antica del telencefalo, connessi al lobo limbico e correlati alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie.
E’ implicato nella sfera delle emozioni, dell’umore e del senso di autocoscienza, che determinano il comportamento dell’individuo.

Quando riusciamo a comunicare dall’interno (il PERCHE’) all’esterno (il COSA), parliamo direttamente alla parte del cervello più arcaica, quella che muove all’azione.
Ciò significa che non dobbiamo parlare del come fare le cose e di quali cose occuparci?
No, significa che prima dobbiamo ascoltare e condividere cosa ci muove all’azione.
E lo si trova nelle nostre viscere. Splagchnizomai“, l’amore viscerale, quello che muove le montagne. Quello bisogna andare a cercare per prima cosa. Quello la gente riconosce e per quello è disposta ad impegnarsi e, a volte, a dare la vita.

Simon Sinek, motivatore e consulente di marketing, in questo TED, spiega come una leadership efficace comincia con con un “cerchio d’oro” e la domanda: “Perché?”
Le organizzazioni più innovative, coinvolgenti ed efficaci agiscono e comunicano attraverso meccanismi alla cui base vi è la biologia, non la psicologia. 

In copertina: friendship-affective-bond-that-unites-us-to-people – immagine tratta da baiug.org 

LA PARITÀ DI GENERE È UNA CHIMERA?
Seminario di “Fare Diritti”, 6 giugno ore 15,30, Castello Estense

La Parità di Genere è una chimera? Un seminario di Fare Diritti sugli strumenti normativi per ridurre il divario di genere. Ferrara, Castello Estense, 6 giugno 2023, ore  15,30. 

Con questo titolo Fare Diritti offre alla cittadinanza ferrarese, alle donne in particolare, alle istituzioni e al mondo dell’impresa, un seminario in cui saranno illustrati gli strumenti normativi che il nostro Paese ha messo a disposizione in questi anni per rendere effettivo il diritto alla parità dei diritti fra donne e uomini.

Innanzitutto sul lavoro, considerato come la via obbligata per consentire alle donne di accedere all’autonomia economica e ad una maggiore libertà.

Il nostro Paese, che non brilla in Europa e nel mondo per uguaglianza di diritti fra uomini e donne, nel mondo del lavoro registra le disparità maggiori, come testimoniano i dati di alcuni Istituti internazionali di rilevazione. Fra questi, il Global Gender Gap Index , nella classifica del 2021, colloca l’Italia al 63° posto su 156 paesi del mondo.
L’Unione europea, che ha messo a punto, attraverso l’ EIGE, Istituto europeo per la Gender Equality, un indice che rileva le posizioni dei 27 Paesi membri su 31 indicatori, riserva all’Italia il 14° posto per quanto riguarda il punteggio complessivo, soltanto il 27° , nella parità di genere nel mondo del lavoro.
Il punteggio assegnato all’Italia su questo indicatore è di 63,2 punti a fronte di una media europea di 71,76), con un livello di partecipazione femminile al lavoro tra i più bassi (68,1 contro 81,3). Un dato inquietante soprattutto se si affianca al basso punteggio raggiunto dal nostro Paese nell’indicatore che misura il tempo libero, che vede le donne italiane in una posizione fortemente sbilanciata rispetto agli uomini nelle attività di cura dei figli, delle persone anziane e nel lavoro domestico.
A questo punto, alla domanda posta dal titolo si potrebbe rispondere che l’obiettivo della parità di genere, se non è una chimera, è certamente un’utopia, quasi un miraggio che ha indotto le fondatrici di Fare Diritti a sostituire all’obiettivo della Parità, quello molto più realistico e concreto della riduzione della disparità.

Secondo il PNRR perseguire l’obiettivo della parità di genere, “intervenendo sulle molteplici dimensioni della discriminazione, diretta e indiretta, verso le donne.” è una priorità non solo sul piano del diritto, ma anche dello sviluppo del Paese, come più volte hanno detto la Banca mondiale e la stessa Bankitalia.
Sottrarre alle donne un diritto costituzionale (art.1, 3 e 4, 35, 37) impoverisce il Paese di risorse e della qualità intellettuale dell’impegno delle donne, che hanno dimostrato in molteplici occasioni di saper gestire situazioni complesse e difficili.

Nel corso del seminario del 6 Giugno il Gruppo ha invitato rappresentanti delle Istituzioni e del mondo imprenditoriale ad illustrare strumenti e norme che potrebbero fare la differenza rispetto al passato, nel mondo del lavoro e più in generale nelle dinamiche sociali, se applicati con convinzione e continuità.

Al nostro Paese non mancano le buone regole, mancano le buone prassi. In sostanza non c’è la volontà politica e la lucidità culturale necessarie per passare dalle buone intenzioni ai fatti.
Lo sguardo severo dell’Europa, che ha subordinato l’erogazione dei fondi del PNRR ad un nuovo modello di inclusione sociale, più giusto, democratico ed egualitario, riuscirà a convertire lo scetticismo e l’indifferenza, trasversale a tutta la nostra società nei confronti delle disuguaglianze di genere?

L’azione di Fare Diritti nasce dalla fiducia che questo possa avvenire, ma anche dalla consapevolezza che nulla sarà regalato alle donne – che non sono una minoranza svantaggiata, ma la maggioranza attiva ed essenziale al Paese – se esse per prime non sapranno far valere la loro forza, rendendo esigibili i diritti scritti sulle sacre carte: dalla Costituzione, alla Dichiarazione universale dei Diritti umani, all’Agenda 2030 dell’Onu.

Accanto a Fare Diritti in questa occasione a scendere in campo è la Provincia di Ferrara, che ospiterà il Seminario del 6 Giugno nella Sala Consiliare del Castello Estense e vedrà la Consigliera provinciale di Parità, dottoressa Annalisa Felletti , fra le relatrici ei relatori.

Storie in pellicola / Cannes 2023 è donna… ma la parità ancora fatica

Un Festival che parla al femminile, con sette registe donne in concorso. Palma d’Oro a Justine Triet: e il cinema si fa portavoce sociale.

Il Festival di Cannes 2023 ha riservato tante sorprese. Nonostante i nostri canali televisivi nazionali non abbiano ritenuto di alcun interesse presentare agli spettatori la cerimonia di premiazione finale del 27 maggio, gli appassionati cinefili hanno potuto seguirla in diretta sul canale YouTube del Festival.

Udite, udite! Questa settantaseiesima edizione, per la prima volta nella sua storia, ha visto in gara sette registe, lo scorso anno erano state cinque. Sono l’italiana Alice Rohrwacher (La chimera), l’austriaca Jessica Hausner (Club Zero), la tunisina Kaouther Ben Hania (Les filles d’Olfa), la francese Justine Triet (Anatomie d’une chute), la francese Catherine Breillat (L’été dernier), la francese, di origini senegalesi, Ramata-Toulaye Sy (Banel et Adama) e la francese Catherine Corsini (Le retour). Molta Francia.

Se nel 2012 in gara non c’era nessuna regista, qualche progresso è stato fatto (non è mai abbastanza), anche se, generalmente, la parità è maggiore nelle sezioni parallele del Festival. La Settimana della critica, ad esempio, ha selezionato sei lungometraggi su undici di registe donne.

La sfida della parità non è però solo a Cannes. La Berlinale, che pubblica le sue statistiche dal 2002, ha come record il numero di sette registe in gara, ma pare faccia molta fatica a superarlo (record quest’anno eguagliato dall’evento francese).

A Venezia gli ultimi tre Leoni d’Oro sono andati a registe donne: Chloé Zhao (Nomadland nel 2020), Audrey Diwan (La scelta di Anne nel 2021) e Laura Poitras (Tutta la bellezza e il dolore nel 2022).

A Cannes, solo due donne avevano vinto la Palma d’Oro: la francese Julia Ducournau nel 2021 con Titane e la neozelandese Jane Campion a pari merito nel 1993 con Lezioni di piano. Quest’anno arriva la terza: Jane Fonda ha premiato, con la Palma d’Oro, la francese Justine Triet, classe 1978, per Anatomie d’une chute, thriller psicologico di una madre che deve difendersi dall’accusa di aver ucciso il marito.

Justine Triet, dopo aver conseguito il diploma presso l’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, ha realizzato due opere sul ruolo dell’individuo all’interno di un gruppo: Sur Place (2007), girato durante le proteste studentesche, e Solférino (2008), realizzato durante le elezioni presidenziali. Nel 2009, ha girato Des Ombres dans la maison a San Paolo. Successivamente, il suo primo cortometraggio di finzione, Two Ships, ha vinto numerosi premi in festival francesi e internazionali, tra cui l’European Film Award alla Berlinale nel 2012, il Gran Premio al Festival Premiers Plans D’Angers e al Festival di Belfort, e riceve la candidatura al César nel 2013. Il secondo lungometraggio, Tutti gli uomini di Victoria (2016), esce nelle sale parigine nel settembre 2016. Nel 2019 ha diretto Sibyl – Labirinti di donna.

La regista, al momento del ritiro del premio, si è scagliata contro la riforma delle pensioni del governo francese, una contestazione in atto importante che riguarda anche il mondo del cinema, e la “mercificazione della cultura difesa dal governo neoliberista, in procinto di rompere l’eccezione culturale francese. Questa stessa eccezione culturale – ha aggiunto – che mi ha cresciuta e formata e senza la quale oggi non sarei qui, davanti a voi”.

Scatenando, con le sue affermazioni, la dura reazione del Ministro della cultura Rima Abdul Malak, felice della vittoria ma “disgustata dal suo discorso così ingiusto. Quel film non avrebbe mai visto la luce senza il nostro modello di finanziamento francese al cinema che permette una diversità unica al mondo. Non dimentichiamolo”.

Secondo premio per importanza, il Gran Premio della Giuria è andato all’inglese Jonathan Glazer per il suo drammatico The Zone of Interest, storia di una famiglia nazista che vive accanto al muro di Auschwitz, tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis scomparso pochi giorni fa. Entrambi i film vincitori dei riconoscimenti più prestigiosi hanno la stessa attrice protagonista, la tedesca Sandra Huller.

Justine Triet e Sandra Huller a Cannes 2023 foto Victor Boyko, GETTY IMAGES

Miglior attrice è invece è la turca Merve Dizdar, per Kuru Otlar Ustune (Dried Herbs) di Nuri Bilge Ceylan, nel ruolo di una donna che si innamora di un insegnante in una remota provincia turca. “Vorrei dedicare questo premio a tutte le donne che lottano per superare le difficoltà di esistere in questo mondo e per mantenere viva la speranza”, ha detto, aggiungendosi alle artiste che hanno posto al centro della Croisette il tema della donna.

La tedesca Gunnur Martinsdóttir Schlüter è infine la vincitrice della menzione speciale per i cortometraggi con Far & Flóra mentre Flóra Anna Buda ottiene la Palma d’Oro per i cortometraggi per 27 anni.

Tante le dichiarazioni a favore della parità di genere, dunque. Finché, per dirla con Jane Fonda, non diventerà la normalità.

Immagini copyright Festival di Cannes

Trailer del film vincitore della Palma d’Oro, Anatomie d’une chute

Ciao Daniele, guerriero senza armi.
(tutti i suoi interventi su Periscopio)

Si può scrivere qualcosa di speciale, di unico, di mai detto e mai scritto, di una persona speciale che ci ha lasciato?

Appena ho saputo che il nostro Daniele se n’era andato, improvvisamente, senza malattia e senza dolore spero, ho cercato dentro e fuori di me “parole nuove” per ricordarlo e per raccontarlo a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo e di stargli accanto. Perché Daniele Lugli, la sua gentilezza, la sua intelligenza, la sua infallibile memoria, la sua cultura che spaziava oltre ogni siepe e sembrava non finire mai, e soprattutto Daniele e le sue mille (e 1.000 questa volta è una stima per difetto) “battaglie disarmate” avrebbero davvero bisogno di parole nuove, diverse da quelle così logore che si usano nei necrologi e nei coccodrilli.

Parole speciali per un uomo speciale? Forse è una impresa impossibile: gira e rigira, cambia una lettera, leva un avverbio, ribalta una frase, ma alla fine le parole son sempre quelle, uguali per tutti. Ma ora, almeno ora che la commozione e il dolore prevalgono sul ragionamento e perfino sulla memoria, non voglio raccontare tutto quello che Daniele è stato, tutto quello che ha fatto, ideato, tentato e promosso durante la sua lunga vita operosa. Ci sarà tempo per farlo, anche su questo giornale a cui collaborava con affetto, come ad altre riviste, grandi e piccole, famose e oscure: la sua Azione nonviolenta prima di tutto, ma anche il trimestrale Madrugada e tante altre.

Ora, quello che vorrei spiegare – ma è solo il mio parere, il mio sentire personale – è il perché Daniele fosse cosi diverso da tutti noi e da tutti gli altri. Perché era unico e non sostituibile? Così unico che, se riferita a lui, l’abusata frase “non nascerà più uno che gli assomiglia”, suona invece come semplice verità. Perché allora?

Perché Daniele, cambiando lavori, incarichi, impegni, visitando tanti luoghi, ambienti, gruppi, attraversando decenni e decenni di storia locale e nazionale, è rimasto caparbiamente fedele al suo credo e alla sua passione; la Nonviolenza, la via del dialogo, il pacifismo, la grande lezione di Aldo Capitini e di Silvano Balboni. Era cosi il giovanissimo Daniele già in campo nei primi anni 50 del secolo scorso. Ed era cosi Daniele, la barba bianca e lo stesso sorriso, che interveniva la settimana scorsa durante un incontro con l’autore alla Biblioteca Popolare Giardino.

Dunque la sua coerenza, che non sarebbe gran cosa se non fosse merce rarissima in un presente scandito dal conformismo e in una politica ridotta a immagine e malata di trasformismo. Ma anche la “coerenza” di Daniele era “speciale”, non diventava mai monotonia, non era un disco rotto che ripropone una vecchia canzone dimenticata. Ogni suo gesto, ogni sua iniziativa, ogni suo intervento era assolutamente radicato nel presente, informato dei pensieri dei giovani, articolato sempre in forme nuove.

Lo ascoltavi, e Daniele ti apriva sempre vie nuove. E pensavi: “Ah, a questo non avevo mai pensato!”. Parlava a bassa voce, ti spiegava e ti convinceva che solo seguendo la stella polare della pace e la nonviolenza potevi costruire un pezzetto di Mondo Nuovo. Deponendo ogni arma, eliminando la violenza, fuori di te e dentro di te.

Daniele Lugli
Daniele Lugli (Suzzara 1941 – Ferrara 2023), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà presidente nazionale dal 1996 al 2010, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali – argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni – e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948.

[Tutti i suoi interventi su Periscopio]

Volete capirlo o no che la Centrale a Biogas non la vogliamo?
NO BIOMETANO: Assemblea Pubblica a Villanova, sabato 3 giugno ore 10

“Ma lo sapete, o fate finta di non saperlo, che il biometano non è rinnovabile, non è verde e non è sano?  Che nella nostra provincia gli impianti a biogas sono già troppi? Che la Terra, la nostra terra, deve servire ad altro che a foraggiare le centrali?  Che abitare accanto ad un impianto biogas è una condanna per la salute e il bene stare di una comunità? Insomma: come ve lo dobbiamo dire che una Mega Centrale a Biogas a Villanova non la vogliamo?”
Potrebbe essere questo un fedele riassunto della protesta, sempre più esasperata di tanti cittadini.

Poco più di 2 mesi fa, il 18 marzo, La Rete Giustizia climatica di Ferrara, che riunisce tutte  le persone, le associazioni e i gruppi che hanno cura  dell’ambiente e della salute degli umani e degli animali,  ha organizzato un incontro  con medici, scienziati ed esperti che hanno messo in fila tutte le ragioni contro le centrali a biometano. Sotto trovate qualche estratto dell’articolo di Gangaetano Pinnavaia e il link per leggere per intero quanto è emerso da quel importante momento di conoscenza e di confronto. Sabato 3 giugno alle 10 è indetta una Assemblea Pubblica proprio a Villanova. Un appuntamento da non mancare.

(Francesco Monini)


L’articolo integrale di Pinnavaia su Periscopio del 12 aprile 2023: Il biogas non è rinnovabile, non è verde, non è sano

Alcuni estratti:

… Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo. …

… Attualmente l’Italia, nel settore biogas, si colloca al quarto posto al mondo dopo Germania, Cina e Stati Uniti, con circa 2200 impianti operativi, di cui circa 1.730 nel settore agricolo e circa 470 nel settore rifiuti e fanghi di depurazione, per un totale di circa 1.450 MWe (megawatt elettrici) installati. Di questi, secondo il Gestore Servizi Energetici, circa 1000 sono nel settore agricolo. …

… Dai biodigestori, in funzione del materiale trattato, si ottiene una miscela costituita da metano (CH4) mediamente per il 60-70%, anidride carbonica (CO2), ossido di carbonio (CO), acqua, idrogeno solforato (H2S), ossigeno, azoto, ammoniaca (NH3) e altre sostanze. Per arricchire in metano questa miscela si applicano tecniche dette di upgrading che hanno appunto lo scopo di rendere massima la percentuale di questo gas fino a valori del 95/99%. …

… Il potenziale di sviluppo della filiera biogas/biometano nel breve/medio termine è consistente: stime del CIB-Consorzio Italiano Biogas identificano un potenziale produttivo al 2030 di 8-10 miliardi di m3 di biometano, pari a circa il 11-13% del consumo attuale di gas naturale in Italia e superiore all’attuale produzione nazionale. …

… Dall’intervento di Gianni Tamino, biologo, membro della Associazione italiana Medici per l’Ambiente:Si può infatti parlare di fonti rinnovabili, continua no, “solo se nel territorio di origine e nel tempo di utilizzo quanto consumato si ripristina. Ciò vale per l’energia solare e quelle derivate come il vento e l’energia idrica, ma non si applica totalmente alle biomasse intese come materiale prodotto da piante e destinato alla combustione. Se viene distrutto un bosco per bruciarne la legna, il bosco non si rigenera nel tempo di utilizzo per la combustione della legna. E’ possibile usare solo il «surplus» dell’attività forestale. Ancora più complesso il discorso se le biomasse provengono da colture agricole dedicate”. In questo caso un impianto alimentato da coltivazioni dedicate ha un bilancio energetico molto basso in quanto occorre da un lato calcolare l’energia necessaria per la produzione agricola (fertilizzanti, fitofarmaci, irrigazione, trasformazione, trasporti, ecc), dall’altro quella necessaria per far funzionare l’impianto. Oltre a ciò, afferma Tamino, “alimentare un impianto a biomasse con prodotti agricoli (mais, triticale, ecc.), che consumano terreno utile per produrre cibo, è un problema anche di ordine «etico»: mentre in varie parti del pianeta vi sono difficoltà di approvvigionamento e il nostro paese ne importa dall’estero, si preferisce utilizzarli come materiali nei biodigestori”. Va poi tenuto presente che “se si dovesse coprire il 10% del fabbisogno energetico italiano utilizzando biomasse, occorrerebbe una superficie di coltivazione grande 3 volte l’Italia”.

… La fermentazione anaerobica infatti favorisce la produzione di batteri sporigeni anaerobi come il clostridium botulinum che, attraverso il digestato successivamente sparso sui campi come concime, può determinare problemi anche mortali negli animali d’allevamento, specie volatili, ma anche per le persone. Alla luce di queste considerazioni va tenuto ancor maggiormente presente il “Principio di precauzione” ratificato nel 1992 dalla Convenzione di Rio de Janeiro e inserito nel 1994 nel Trattato dell’Unione Europea “in base al quale un prodotto o un processo produttivo non vanno considerati – come si è fatto finora – pericolosi soltanto dopo che è stato determinato quanti danni ambientali, malattie e morti producono, ma al contrario, possono essere considerati sicuri solo se siamo in grado, al di là di ogni ragionevole dubbio, di escludere che possa presentare rischi rilevanti e irreversibili per l’ambiente e per la salute”. …

… La mancanza di attenzione e di comunicazione da parte delle amministrazioni competenti nei confronti dei cittadini dei territori interessati. Queste, più volte sollecitate a dare risposte alle tante domande della cittadinanza, mai hanno mostrato interesse ad affrontare pubblicamente e a dibattere queste tematiche che tanta importanza hanno per la vita quotidiana delle aree coinvolte. …

Parole a capo /
Tre poesie contro il fango, tre pensieri per non mollare

Maggio mese nefasto per l’Emilia Romagna? Nel 2012, il 20 e il 29 maggio ci furono due forti scosse di terremoto che colpirono diverse province dell’Emilia Romagna con diversi lutti, molti danni sociali, economici, crolli (con lavori di ripristino e ricostruzione ancora non ultimati). Nel mese appena finito, oltre ad alcune esondazioni e diverse frane nel bolognese, gran parte  della Romagna è andata sott’acqua. Di nuovo ancora tanti lutti! Forlì, Cervia, Lugo, Bagnacavallo, Conselice, Faenza, Modigliana, Rimini, sono alcuni dei nomi di paesi e città balzati nelle prime pagine dei giornali, dei media, dei social. Video drammatici che hanno documentato questa immane tragedia. Il 19 maggio, nella serata conclusiva dell’evento “Parole oltre lo sguardo” organizzato al circolo Arci “Bolognesi” dall’Associazione Culturale “Ultimo Rosso”, in collaborazione col gruppo fotografico “Norsisti”, sono state lette diverse poesie. Alcune hanno toccato con forza il tema dell’alluvione. Abbiamo pensato di riproporle come piccolo gesto di solidarietà, come momento di riflessione, come volontà di riscatto.
(Pier Luigi Guerrini)

 

(TIN BOTA) TIENI BOTTA! 

La fatica
la morte
non spaventano
ma l’acqua…
“Avevamo appena finito di pagare i debiti…”
“Sono rimasta qui con i miei gatti…”
“L’ho fatta con le mie mani, questa casa.
Ho perso tutto!”
Poi l’acqua…
Tieni botta!
Forse imprechi
ma alzi la fronte…
Via! Ce la faremo
siamo gente forte
noi!
Il raccolto non c’è più
la terra, la casa…
solo acqua…
Tieni botta!
L’ho sempre visto
il fiume
sono cresciuta qui
gli voglio bene
ma ora…
ora si è preso tutto
il campo, la strada,…
solo fango
non c’è luce
sento la sua voce.
Tieni botta!
Grazie a voi…
Domani
ricostruiremo il suo argine.
(di Cecilia Bolzani)

 

Danni collaterali 
Danni collaterali
Per nostra incuria
E cieco andare
Vacilla un equilibrio
Ch’è arduo mantenere
Vento più caldo
Incatenato al gelo
Turbina l’aria
Oscura il cielo
Acqua che è vita
Sfonda le porte,
Perde i confini
Fango di morte.
Ma voi non dite
Che questa è vendetta,
Alla Natura non imputate
Lo sfacelo
La disdetta
per volontà di ritorsione
o misura colma
di sopportazione.
Colmo sarebbe
Lanciarle colpa
per nostro danno,
Pensarla umana.

(di Anna Rita Boccafogli)

Per l’Emilia Romagna (e per l’Italia) 
Il mio spirito
È in lutto
Non mi va
E basta
penso
Che siamo nei guai
Più ancora
Le generazioni future
Il mio cuore
È in lutto
Povera terra mia
tra appennini e mare
Nostra Italia
tanto Bella
Quanto fragile
da scialare
(di Roberto Dall’Olio)
Cecilia Bolzani, insegnante di italiano in un Istituto Superiore e poetessa. Ogni suo verso nasce da emozioni provocate da luoghi, oggetti, eventi che le permettono di mettere a nudo la propria interiorità, evocare situazioni, impressioni che superano la dimensione personale e toccano il cuore per divenire linguaggio universale. In “Parole a capo”  sono state pubblicate sue poesie in diverse occasioni: il 9 dicembre 2021; il 9 marzo 2022 e il 13 ottobre del 2022; il 16 febbraio 2023.

Anna Rita Boccafogli
, ex docente, laureata in Pedagogia, fondatrice dell’ Associazione Synesis con la quale, insieme a diversi soci, diffonde pratiche per il benessere e l’autoeducazione attraverso  iniziative inerenti la consapevolezza corporea e le relazioni interpersonali. A tale proposito ha prodotto un manuale interno dal titolo Dinamiche della Comunicazione, poetessa. Appassionata di culture tradizionali, ha approfondito la conoscenza della cosmovisione andina con esperienze pluriennali dirette a contatto con comunità locali, nel corso di viaggi dedicati, con la mediazione di esperti e maestri andini. Ha raccolto il senso di tali esperienze nel libro Nel grembo delle Ande, Edizioni Infinito, 2013. In “Parole a capo” sono state pubblicate sue poesie il 23 dicembre 2021 e il 9 marzo 2022.

Roberto Dall’Olio
(1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco e I ragazzi dei Giardini (per le Ed. Pendragon), nel 2022, sempre per le Edizioni Pendragon, ha pubblicato la sua ultima fatica “La ballata di Jan e versi boemi”. Sul giornale online Periscopio, tiene la rubrica settimanale “Per certi versi”.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Presentate 4 proposte di legge per invertire la rotta e affrontare il Cambiamento Climatico. Ma la Regione Emilia-Romagna, anche di fronte all’ultimo disastro, le lascia dormire in un cassetto.

In Emilia-Romagna, nonostante il propagandato Patto per il lavoro e il clima promosso dalla Giunta regionale più di 2 anni fa, continua ad essere prevalente una logica economicista e produttivista, per cui prima di tutto si guarda all’obiettivo della crescita del PIL, subordinando a ciò le scelte in materia ambientale. Si è andati avanti con uno scriteriato consumo di suolo, con un’idea che la costruzione di nuove autostrade e grandi opere produce sviluppo, con la privatizzazione di beni comuni fondamentali, come l’acqua e i rifiuti, con un’impostazione sulle politiche energetiche che asseconda la ripresa dell’ economia del fossile ( vedi la vicenda del rigassificatore a Ravenna), anziché puntare con forza verso le fonti rinnovabili.

Ho già avuto modo di occuparmi delle 4 proposte di legge di iniziativa popolare regionale promosse da RECA (Rete Emergenza e Climatica Emilia-Romagna) e da Legambiente Emilia-Romagna, sottoscritte da più di 7000 cittadini, al momento della loro presentazione in Regione, nel settembre scorso [Vedi qui].
Le 4 proposte di legge intervengono sui temi dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia e dello stop al consumo di suolo e hanno l’ambizione di riscrivere l’insieme delle politiche ambientali finora avanzate in Regione, modificando nel profondo le priorità a cui finora ci si è ispirati.

Ebbene, ora siamo arrivati ad un punto decisamente importante rispetto alla discussione delle proposte di legge.
La regolamentazione regionale in materia di proposte di legge di iniziativa popolare prevede che esse, una volta assegnate alle Commissioni consiliari competenti, vengano esaminate in quella sede nei successivi 6 mesi e che, in mancanza di quest’esame, esse arrivino direttamente all’Assemblea regionale, che le deve iscrivere all’ordine del giorno e decidere entro un ulteriore anno su di esse. I 6 mesi per la discussione nelle Commissioni consiliari sono scadute il 18 maggio scorso e lì la discussione non è nemmeno iniziata.
Un fatto grave, indice di una sottovalutazione molto forte, ma, ancor più, un vero e proprio “vulnus” democratico, visto che la normativa sulla trattazione delle leggi di iniziativa popolare indica esplicitamente tale passaggio. Peraltro, il passaggio diretto all’Assemblea regionale potrebbe anche determinare il fatto che si arrivi al voto sulle stesse, senza neanche discuterne il merito, e magari ad una loro bocciatura “in toto”.

Un esito che sarebbe non solo deprecabile, ma che, inevitabilmente, renderebbe palese che anche in questa regione ( come se non ne avessimo abbastanza di quanto sta facendo il governo nazionale) si aprirerebbe una vera e propria “ questione democratica”. Questo scenario, di una possibile bocciatura delle proposte di legge, senza neanche discuterle di fatto, equivarrebbe a sancire l’abolizione della possibilità di avanzare proposte di legge di iniziativa popolare, affermare che esiste solo la democrazia rappresentativa e che quella partecipativa rappresenta solo un disturbo, lanciare un segnale devastante sull’inutilità della partecipazione dei cittadini, in un contesto in cui, tralaltro, sempre meno persone si recano alle urne per esprimere il proprio voto. Per questo, RECA e Legambiente chiedono con forza che l’Assemblea legislativa si pronunci per far tornare le proposte di legge nelle Commissioni consiliari e che da lì riprenda la discussione di merito, e stanno organizzando varie iniziative di informazione e mobilitazione per sostenere tale richiesta, a partire dal flash mob previsto per il prossimo 9 giugno alle 17 in piazza Nettuno a Bologna.

Non prendere in considerazione le proposte di legge di iniziativa popolare, poi, nella drammatica situazione seguita alle vicende dell’alluvione in Romagna e in altri territori della regione, acquisirebbe un significato decisamente inquietante.

Possiamo tralasciare la facile polemica nei confronti di chi mette sul banco degli imputati i cosiddetti  ‘ambientalisti del NO” ( anche se fa specie trovare in quella compagnia anche il sindaco di Ravenna), facendo rilevare che sarebbe singolare che, proprio nel momento in cui realtà ambientaliste significative avanzano proposte precise – addirittura sotto forma di testi di legge-, la risposta che proviene è quella di ignorarle e passare oltre.

Ciò che francamente sarebbe inaccettabile è che, ora che tanti si interrogano sulle cause dei disastri dei giorni passati e che c’è un’analisi molto diffusa e condivisa che essi, al di là dell’eccezionalità del fenomeno, traggono origine dal cambiamento climatico, dall’eccessivo consumo di suolo e dai mancati interventi in tema di riassetto idrogeologico, il governo regionale si rifiuti di confrontarsi con proposte che hanno proprio l’intenzione di affrontare alla radici quelle questioni.

Contrastare il cambiamento climatico, primo dato responsabile della ‘nuova normalità’ fatta dall’alternarsi sempre più frequente tra periodi siccitosi e fenomeni alluvionali estremi, comporta, in primo luogo, uscire dall’economia del fossile e spingere per il ricorso alle fonti rinnovabili ( altro che pensare all’Italia come hub del gas e a Ravenna come una delle sue capitali, come pensano il governo nazionale e quello regionale).

Per quanto riguarda il consumo di suolo, non c’è alternativa a fermarlo da subito, in una regione che è al 3° posto in Italia sotto quest’aspetto e addirittura la 1° per consumo di suolo nelle aree alluvionali. Decidere che occorre mettere mano al dissesto idrogeologico significa rinaturalizzare fiumi, laghi, boschi, avere uno sguardo volto al risparmio e al corretto utilizzo ( e riutilizzo) dell’acqua, oltre che, a livello nazionale, destinare a ciò ingenti risorse, riscrivendo anche il PNRR. Tutti temi presenti nelle proposte di legge e che, se ignorati o non affrontati, non possono che farci trarre la conclusione che – per inconsapevolezza o subordinazione agli interessi e ai poteri forti, o per un mix di entrambi- non si avrebbe alcuna intenzione di modificare nel profondo il modello produttivo e sociale attuale, che è condizione essenziale per andare nella direzione indicata anche nelle proposte di legge.

Già il governo nazionale ha scelto dove collocarsi: solo per esemplificare, da ultimo, esso è riuscito ad inserire nel decreto per gli aiuti alle popolazioni alluvionate una norma per “ semplificare” la messa in funzione dei rigassificatori. O, nel recente decreto contro la siccità, ci è toccato constatare come esso sia figlia di una logica vecchia, incapace di dare risposte alle problematiche esistenti, sostanzialmente piegata agli interessi delle aziende di costruzione, incentrato com’è su una visione tutta emergenziale, basata sulle grandi opere e sull’artificializzazione delle soluzioni ( vedi il ricorso agli impianti di desalinizzazione).

Sarebbe decisamente “sconsolante” vedere il governo della Regione Emilia-Romagna incamminarsi su questa medesima strada e lasciare sostanzialmente solo ai movimenti, alle Associazioni, ai cittadini il compito di accollarsi il fatto di indicare e prospettare un’alternativa reale a queste impostazioni. Comunque, non c’è dubbio che l’esito della vicenda legata alle 4 proposte di legge di iniziativa popolare regionale promosse da RECA e da Legambiente rappresenterà certamente una cartina al tornasole importante. E che, per questo, andrà seguita con attenzione e con passione, soprattutto con la mobilitazione sociale e politica che essa merita.

ACCORDI
BC Camplight fa il diavolo a quattro, e lo fa divinamente

Kickin’ Up A Fuss è un pop sofisticato e bislacco che si poggia su un’ipotetica telefonata con la reception di un hotel scalcinato. L’ospite fa un po’ i capricci – sì, come Bruno Barbieri in 4 Hotel – ed è alle prese con i suoi demoni. La frase “I don’t want to be somebody else, but I don’t want to be myself” è emblematica: Brian Christinzio, in arte BC Camplight, riassume così i problemi personali che l’hanno accompagnato nell’ultimo periodo e che l’hanno condotto a Manchester, città dalla quale pare aver assorbito il mood umido e disincantato.

Il pezzo fa parte dell’ultimo album del cantautore del New Jersey, The Last Rotation Of Earth, uscito il 12 maggio. Un album che non parla di redenzione, di cure miracolose o del farsi una nuova vita, bensì dell’immutabile condizione umana. È come se Christinzio elaborasse tutto ciò che gli è accaduto nell’ultimo biennio – la morte del padre, la separazione con la fidanzata dopo nove anni di convivenza e un esaurimento nervoso – mettendosi a nudo, senza alcun filtro.

Ne esce fuori un disco pregiatissimo, che sa cullare e spiazzare l’ascoltatore. Basti pensare alle linee vocali della già citata Kickin’ Up A Fuss: si passa dal rassicurante tono baritonale di Jim Kerr ai guizzi stralunati di Brian Wilson, e in mezzo ci sono addirittura degli intermezzi parlati che stanno in bilico tra lo sproloquio e la psicanalisi.
Insomma, come suggerisce il titolo, BC Camplight fa sì il diavolo a quattro, ma lo fa mettendo in fila pensieri, parole e melodie con una lucidità e una saggezza disarmanti.

Milano: la Fiera del Bebè e la Biodiversità cancellata.
Le contraddizioni di Giuseppe Sala, un sindaco green a metà

La fiera del bebè e la biodiversità cancellata a Milano

Il 20 e il 21 maggio a Milano si è tenuta la fiera del Bebè ” Wish for a baby.”
All’interno una ventina di stand con hostess ben vestite e sorridenti che promettono di garantire a chiunque lo desideri un figlio su misura!
Il concepimento di un figlio trasformato in un processo industriale, staccato completamente dalla relazione e dall’amore.  Scrivono nero su bianco gli organizzatori: “Se sei alla ricerca di opzioni di trattamento a livello locale e/o in tutto il mondo, di terapie complementari, dei più recenti prodotti e tecnologie in ambito di fertilità, di consulenza legale, di una rete sociale o di un’assicurazione, li potrai trovare qui.”

Wish for a baby’ è organizzata in collaborazione con cliniche per la fertilità che dichiaratamente si occupano di “surrogacy”, cioè di utero in affitto (IVF Babble). Che ti assicurano gravidanze e parti garantiti, nonché banche del seme e di ovuli (disponibilità, sicurezza, varietà e costi inferiori).

Fuori dalla fiera, ben distanziati, alle porte dei due ingressi, i presidi  di protesta.
Da un lato le forze politiche della Destra ,FDL e Lega.
Dall’altro le associazioni femministe e organizzazioni di Resistenza al nanomondo , FINAARGIT- rete internazionale Femminista contro la riproduzione artificiale, l’ideologia gender e transumanesimo-  a cui si sono uniti l’Assemblea di resistenza al Transumanesimo di Bergamo,   uniche realtà che hanno compreso veramente la posta in gioco di tutta questa narrazione edulcorata della “maternità per tutti”.

Si perché questa fiera non  bypassa solo la legge 40 con la propaganda dell’utero in affitto (vietata espressamente all’articolo 12 ),  ma si spinge sulla vitrificazione degli ovociti, sull’adozione degli embrioni, sulla compravendita di corpi e di pezzi di corpo e su informazioni pratiche per spostare da un paese all’altro materiale biologico. Insomma, una fiera indecente di cui pochi hanno parlato, e pochi continuano a parlarne perché, se davvero divenisse dibattito pubblico, forse il risveglio dell’umanità sarebbe vicino.

Da circa una decina di anni mi occupo di maternità surrogata e ho visto come questo tema sia stato sempre tenuto ai margini del dibattito pubblico o solo lievemente accennato grazie a una neo lingua che cancella la schiavitù e il disegno transumanista aberrante che si cela  dietro a questa pratica.

Ma c’è di più, una volta disvelato l’orrore di una pratica  fondata sulla separazione del cucciolo d’uomo dal ventre  della madre, l’ambiente dove è cresciuto per nove mesi,  bisogna avere il coraggio di andare a monte e parlare di PMA e di riproduzione artificiale, perché l’obiettivo non è mai stata la cura (sono tutte tecniche che non curano l’infertilità) ma, semmai, quella di  spostare il concepimento e la riproduzione fuori dai corpi viventi e immetterli nel laboratorio. 
Dovremmo avere imparato con la storia dei semi di Monsanto, che l’espropriazione della capacità riproduttiva prima dalla terra e oggi dai corpi, è finalizzata a renderli sterili per sempre e a cancellare la biodiversità a vantaggio esclusivo di certe élite che hanno un disegno preciso sul mondo.

La biodiversità è a rischio! E’ un dato di fatto. Tutti oggi si riempiono la bocca di green e di salvaguardia della biodiversità, però poi, se si va alla radice del problema, se si tenta di aprire gli occhi sulla direzione politica e finanziaria intrapresa, che è tutto tranne che green e a tutela della biodiversità, nessuno la vuole affrontare.

Doppiamente indecente  che questa fiera  si  sia svolta a Milano nel silenzio generale da parte del Sindaco  Beppe Sala e dell’ assessore alla cultura Tommaso  Sacchi, che si fregiano  però di avere inaugurato la più grande mostra italiana di Salgado dedicata  all’”Amazonia” . Una mostra tutta dedicata alla importanza della salvaguardia della biodiversità della natura ma anche di quella umana. Una celebrazione delle popolazioni indigene che sono giunte al 2023 in maniera culturalmente diversa ma non meno importante.
Fa infuriare dunque vedere questi politici onorare a parole la politica e la cultura green, sperticarsi in difesa della biodiversità senza poi attivare il seppur minimo pensiero critico riguardo a quanto, a poca distanza dalla mostra, si stava  propagandando. La leggerezza  e la superficialità con la quale affrontano temi di vitale importanza per il nostro pianeta e per le nostre comunità, lascia basiti. A sorprendere è anche l’incompetenza con cui si occupano di aree del verde nella città .

Lea Garofalo (Petilia Policastro, 24,,04.1974 – Monza, 24.09.2009) è stata una testimone di giustizia italiana, vittima della ‘ndrangheta.

Al ritorno dal presidio mi sono imbattuta nel gruppo di ambientaliste che difendono “il giardino di Lea Garofalo” in piazza  Baiamonti,  contiguo a un fazzoletto di terra con alberi centenari e un glicine maestoso che verrà tagliato per far posto a  un edificio di 6 piani: il  nuovo Museo della Resistenza, deciso dall’intraprendente e contraddittorio sindaco Sala.

Un angolo di verde storico, frequentato da bambini e anziani, in una zona urbana molto densa viene sradicato  e cancellato in nome delle solite ipocrite belle parole sulla memoria!

Le motivazioni delle Resistenti di Baiamonti  sono suonate assolutamente di buon senso anche a una ‘foresta’ come me. Non sono contro il museo ma il progetto di cementificazione non ha nessuna logica urbanistica in quel quartiere.

 

Se abbiamo da restituire qualcosa ai nostri figli questo qualcosa non è la ricetta di come costruire il loro futuro, o fornirgli “modelli replicabili”, i famigerati protocolli che sono proprio alla base della cancellazione della biodiversità, ma i principi etici e sacri  verso la terra e verso i nostri corpi ( dove per corpi, terra e suolo intendiamo anche e soprattutto l’invisibile che si muove dentro e fuori di noi), che da secoli ci tramandiamo e che in una generazione abbiamo falciato in nome di un falso “ progresso” che porterà, di questo ne sono certa, alla distruzione del senso stesso di umanità.

In copertina: Milano, lo striscione appeso dai “Resistenti di Baiamonti” nel “Giardino di Lea Garofalo”, un angolo di biodiversità minacciato da 6 piani di cemento armato del progetto di un nuovo Museo della Resistenza.

Parole e figure /
Gentilezza, gentilezza, che si fugge tuttavia…

“Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso”. Girava tempo fa sui social, anonimo. In un albo l’importanza di essere gentili

Colori tenui dalla tonalità marrone e immagini delicate per questo albo di Anthony Martinez, “Qualcosa di gentile”, Babalibri edizioni.

La donnola Nic è triste, molto triste: la sua adorata compagna, Mira, provetta pescatrice di rane, è partita. Non è uscita a fare la spesa, se ne è andata lontano come il deserto e forse non tornerà più. O almeno Nic così crede. Era arrabbiata per colpa di una volpe.

Forse Mira è partita con quella volpe molto brutta e sciocca come una rapa. O almeno Nic così crede. Se il cuore non si dà pace serve un amico.

Così, quando Nic incontra l’anatra Sam, gli confida il suo grande rammarico. Mira gli manca tanto, tantissimo, era davvero gentile e aveva un profumo così buono, come quello di un salsicciotto.

“Non la dimenticare, se ha un profumo così buono”. … “Tutto si sistemerà” lo rassicura Sam.

E, allora, proveranno a scrivere una lettera a Mira. Mentre Sam regala a Nic un salsicciotto. La generosità di un amico.

E se Nic avesse solamente bisogno del conforto di un amico? Un amico con cui camminare, fianco a fianco, che basta a sentirsi meglio? Sam ne è sicuro, e noi con lui.

“Mira, hai detto che non tornerai mai più, ma Sam pensa che forse ritornerai. È un’anatra, e sa il fatto suo. Non essere arrabbiata. Sarò sempre qui per te, perché tu sei molto gentile, e profumi di buono (come un salsicciotto). Nic”.

Anthony Martinez

Francese, dopo una laurea in arti grafiche, ha lavorato in un’agenzia di comunicazione prima di co-fondare uno studio grafico nel 2010. Nel 2018, ha iniziato a illustrare. Qualcosa di gentile è il suo primo albo illustrato.

Pagina Facebook

Anthony Martinez, Qualcosa di gentile, Babalibri, 2023, 40 p.

“Per quanto piccolo, nessun atto di gentilezza è sprecato”. Esopo

“Tenerezza e gentilezza non sono sintomo di disperazione e debolezza, ma espressione di forza e di determinazione”. Khalil Gibran

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

LE VOCI DA DENTRO /
A volte, il vento è uguale per tutti 

LE VOCI DA DENTRO : A volte, il vento è uguale per tutti 

Chi ha scritto questo testo, di solito, non scrive molto. Lo ha fatto su mio invito perché in un suo racconto mi aveva colpito un particolare: quello di tenere la finestra della cella sempre aperta in ogni stagione, con qualsiasi temperatura, per continuare a sentire aria di libertà.
(Mauro Presini)

A volte, il vento è uguale per tutti 

di A.P.

Oggi sono andato al giornale Astrolabio; ho sentito parlare ragazzi detenuti come me sulle dinamiche carcerarie reali di tutti i giorni.

Mi ha fatto capire che anch’io posso scrivere un testo sul giornale dove, secondo me, non sarei mai riuscito ad esprimere i miei pensieri. Grazie al gruppo del giornale che mi sta aiutando a mettermi in gioco, ci sto provando.

Questa carcerazione, che mi ha tolto di nuovo la libertà dopo 12 anni che non entravo in questo inferno di rabbia, odio e sofferenza; mi sta pesando tanto.

Le giornate in galera sono lunghe, non passano mai dentro queste quattro mura e dietro queste sbarre.

In cella la noia e la sofferenza si sentono tanto.

Dove si soffre, si aspetta la sera e poi la notte per buttarsi in branda con i pensieri.

Io provo ad evadere dalla mia cella tenendo sempre la finestra aperta, sia d’estate che d’inverno.

Mi dà la sensazione di libertà sentire quel venticello e quella frescura; mi sembra di non essere chiuso come dentro una scatola che mi comprime.

Spero che il sistema carcerario cambi in meglio per i detenuti e le detenute in modo che non si venga trattati come numeri ma che venga riconosciuta la dignità della persona.


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.


In copertina : opera realizzata da un detenuto del Carcere di Ferrara.