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Crisi in Niger: La Francia neo coloniale mostra i muscoli ma rischia di perdere altro terreno in Africa

La Francia si trova ad affrontare un dilemma strategico. Se permette al Niger di perseguire una vera indipendenza, rischia di perdere l’accesso alle preziose risorse naturali del Paese. Molte delle sue ex colonie sono state a lungo fonti di estrazione di risorse, che hanno acquisito un’importanza maggiore per la Francia alla luce delle sfide attuali. Il suo coinvolgimento militare in Ciad si è concluso con una sconfitta e le sue basi in Costa d’Avorio, Senegal e Gabon non dispongono di un numero sufficiente di truppe per fungere da basi di partenza per un’invasione.

di Salah Uddin Shoaib Choudhury
direttore di Blitz independent newspaper

Il Presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato con veemenza che qualsiasi aggressione a cittadini francesi, diplomatici, esercito o basi francesi comporterà un’immediata rappresaglia da parte della Francia. Questo severo avvertimento riflette la gravità della situazione.

Tuttavia, la prospettiva di un’invasione francese del Niger comporta il potenziale di un conflitto franco-africano su ben più larga scala. Sono infatti numerose le ex colonie francesi che storicamente sono state fonte di estrazione di ingenti risorse. Considerate le sfide che la Francia si trova ad affrontare attualmente, queste risorse potrebbero essere di importanza persino maggiore che in passato.

Appena insediatosi, il nuovo governo nigerino ha chiarito che qualsiasi aggressione o tentativo di aggressione contro lo Stato sarà affrontato con una risposta immediata. Il governo ha sottolineato che questa minaccia non è rivolta a Paesi amici come il Burkina Faso e il Mali, anch’essi sotto il dominio militare degli insorti. In una dichiarazione congiunta, il Burkina Faso e il Mali hanno avvertito che qualsiasi intervento militare contro il Niger equivarrebbe a una dichiarazione di guerra.

Con l’acuirsi delle tensioni, il governo militare del Niger ha rescisso diversi accordi di difesa con la Francia, compresi quelli relativi alla presenza di truppe francesi in Niger e allo status del personale militare impegnato nell’azione di contrasto al jihadismo.

Dopo i recenti mutamenti geopolitici nella regione la Francia non ha molte possibilità. Il suo coinvolgimento militare in Ciad si è concluso con una sconfitta e le sue basi in Costa d’Avorio, Senegal e Gabon non dispongono di un numero sufficiente di truppe per fungere da basi di partenza per un’invasione.

I leader dell’Africa occidentale hanno minacciato di intervenire militarmente se la presa di potere militare in Niger non sarà annullata entro una settimana. La Francia ha avvertito di una ritorsione immediata, mentre la Spagna ha sospeso la cooperazione bilaterale in seguito alle proteste di persone favorevoli al colpo di stato davanti all’ambasciata francese.

La Francia si trova ad affrontare un dilemma strategico. Se permette al Niger di perseguire una vera indipendenza, rischia di perdere l’accesso alle preziose risorse naturali del Paese. Molte delle sue ex colonie sono state a lungo fonti di estrazione di risorse, che hanno acquisito un’importanza maggiore per la Francia alla luce delle sfide attuali.

Il presidente Mohamed Bazoum, salito al potere con un trasferimento non violento di autorità due anni fa, è attualmente detenuto nel Palazzo presidenziale. Il generale Abdourahamane Tchiani si è dichiarato nuovo leader nazionale. La comunità internazionale ha ampiamente condannato il colpo di stato, in primis la Francia, dati gli interessi economici e la presenza militare in Niger essenzialmente motivati dalle risorse di uranio.

La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) ha delineato un piano per un potenziale intervento contro la giunta che ha preso il controllo del Niger. Tuttavia, la missione dell’ECOWAS per reintegrare Bazoum e il ritiro della giunta dagli accordi di cooperazione militare con la Francia, hanno aggravato la crisi in una regione alle prese con forti gruppi jihadisti.

La Francia si trova ad affrontare delle sfide per mantenere la sua presenza militare e i suoi interessi in Niger.
La situazione induce a riflettere sulle relazioni neocoloniali del Paese e sulla sostenibilità dei suoi interventi nella regione. La complessità della situazione è ulteriormente aggravata dal coinvolgimento dell’Algeria, una potenza regionale contraria all’influenza occidentale.

Nel mezzo di queste tensioni, aumentano le preoccupazioni in Europa riguardo alle esportazioni di uranio dall’Africa, data la significativa produzione nigerina di questa risorsa. L’impegno della Francia nell’estrazione dell’uranio attraverso società come Orano, l’ha posizionata come uno dei principali attori del settore. Nonostante le potenziali interruzioni, le autorità francesi ed europee minimizzano l’impatto immediato sul fabbisogno di uranio.

La situazione tra Francia e Niger è caratterizzata da tensioni crescenti e complessità strategiche. Le potenziali conseguenze di un’invasione francese, l’importanza delle risorse e i cambiamenti geopolitici nella regione contribuiscono a creare un panorama precario che richiede un’attenta considerazione e la cooperazione internazionale per essere affrontato.

L’autore:
Salah Uddin Shoaib Choudhury è un giornalista bengalese pluripremiato a livello internazionale, scrittore, ricercatore e studioso di anti-militanza, nonché direttore di Blitz, un giornale che pubblica dal Bangladesh dal 2003. Scrive regolarmente per testate locali e internazionali ed è possibile seguirlo su X @Salah_Shoaib

Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi. Revisione di Thomas Schmid.

Wislawa Szymborska ovvero la gioia di scrivere:
ancora 2 settimane per visitare a Genova una mostra originale e bellissima

Wislawa Szymborska ovvero la gioia di scrivere:
ancora 2 settimane per visitare a Genova una mostra originale e bellissima

Ci sono ancora due settimane di tempo per chi volesse visitare la bellissima mostra su Wislawa Szymborska [Qui alcune delle sue poesie più famose] allestita a Genova. Il 3 settembre, infatti, al Museo d’arte Contemporanea di Villa Croce si conclude “Wislawa Szymborska. La gioia di scrivere”.
L’organizzazione è del Comune di Genova ma vede numerosi Enti tra i co-promotori che ne hanno permesso la realizzazione. Ne citiamo alcuni: il Teatro Pubblico Ligure, l‘Istituto Polacco di Roma, il Goethe- Institut Genua, il Festival Internazionale di Poesia “Parole spalancate”.

Questo importante evento è curato da Sergio Maifredi, con la consulenza e la collaborazione scientifica di Andrea Ceccherelli e Luigi Marinelli. L’esposizione a Villa Croce si sviluppa su tre piani.
Purtroppo senza la presenza di un ascensore:  questa grave mancanza crea non pochi problemi di fruizione ai visitatori che devono fare diverse rampe di scale e l’accesso alle persone con disabilità motorie è fortemente inibito.
A parte questa inspiegabile leggerezza da parte degli organizzatori, la visita si è comunque rivelata una miniera di spunti, piena di scoperte e anche di emozioni. Una esperienza nuova (una mostra su un poeta) che consigliamo a tutti, non solo ai cultori dell’opera di  Wislawa Szymborska.

La mostra si presenta ricca di materiali fotografici, documenti, testimonianze audiovisive, carteggi, opere grafiche, sperimentazioni.
A proposito di quest’ultima particolarità, nella “Storia della letteratura polacca” (CSEO Biblioteca, 1983) Czeslaw Milosz (Nobel per la Letteratura nel 1980) scrive che “in Polonia, le stranezze della censura favorirono gli scrittori che si tenevano lontani dalla politica e si impegnavano in vari tipi di sperimentazione artistica. Erano i tempi della “poesia linguistica”, che scomponeva e ricomponeva in modo nuovo parole e frasi. Da alcune case editrici di stato furono pubblicati piccoli volumi di poesia, a malapena comprensibili, e ciò faceva parte di una politica generale che mirava a placare la gioventù insoddisfatta”.

Una ricchezza che colpisce. Sergio Maifredi l’ha concepita come un viaggio nella vita e nell’universo creativo della grande poetessa polacca.

La mostra in pillole

Nella stanza iniziale del piano terra, il visitatore incontra un collage “espanso” in cui si può entrare come in un libro pop-up. Nella seconda stanza possiamo entrare e conoscere il tempo in cui Szymborska ha vissuto in Polonia: la storia, la politica, l’arte. Numerosi i collage sempre più raffinati e, spesso, carichi d’ironia dissacrante che la poetessa ha realizzato per tutta la vita inviandoli ai suoi amici. Lei li chiamava “collanti d’amicizia”.

Al secondo piano si dipanano alle pareti i pannelli con immagini come, ad esempio, l’infanzia, i primi scritti, il matrimonio, il premio Nobel a Stoccolma, il funerale e scritti sulla sua vita.

Al terzo piano sono stati disposti documenti e fotografie di viaggio ed un film documentario. Vi sono oltre ottanta suoi collage originali, il libro di inglese che Wislawa illustrò da ragazza, frammenti del suo taccuino, lettere d’amore e dieci poesie inedite, appena ritrovate tra le carte del suo primo marito.
Una poetessa che, pur non essendo conosciuta dal grande pubblico internazionale, con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957, in Polonia vende oltre cinquecentomila copie.

Aveva molti estimatori anche tra personaggi famosi come Woody Allen, a cui regalò un suo collage, Tadeus Kantor, Jerzy Marian Grotowski. Citata in diversi film e canzoni (Roberto Vecchioni le ha dedicato una canzone). Nel 2009 Umberto Eco, in un estemporaneo omaggio alla poetessa, lesse i versi di Possibilità.

Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa su tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d’altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti,
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

Perché una mostra su Wislawa Szymborska a Genova?

Ha trascorso i suoi ultimi vent’anni di vita spesso a Genova dove ha conosciuto Pietro Marchesani, professore di Polonistica all’Università di Genova, che ha tradotto l’opera omnia della poetessa.
Inoltre, sempre a Genova, nel 1961, l’editore Silva pubblicò “Poeti polacchi contemporanei“, a cura di Carlo Verdiani, in cui uscirono per la prima volta in Italia 7 sue poesie.

 

Iniziative e convegni in arrivo per i cent’anni dalla sua nascita

  • Mostra “Szymborska: il mondo-collage” dal 27 settembre al 5 novembre al Museo di Palazzo Poggi di Bologna e dal 20 novembre al 15 dicembre allo MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea di Roma.
  • Dal 20 al 22 novembre a Roma avrà luogo il Convegno internazionale “Szymborska e:”. Studiosi polacchi e italiani indagheranno sui “:” che stanno per poesia, arte, lingua, traduzione e tradizione polacca, italiana, europea.

 

Per conoscerla un po’ di più

Chwila (L’attimo, 2002. Edizione italiana: Scheiwiller, 2004)
Dwukropek (Due punti, 2005. Edizione italiana: Adelphi, 2006)
Opere, a cura di Pietro Marchesani: Adelphi (collana La Nave Argo, 2008)
La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009): Adelphi, 2009 (con testo polacco a fronte)

Foto della cover e nel testo di Pier Luigi Guerrini

Breve elenco di idee inascoltate per una Città Laboratorio Culturale.
Ma l’idea di cultura del Pd ferrarese è subalterna al turismo mordi e fuggi della destra oggi al potere.

Da cittadino ferrarese ed elettore Pd, ho letto con attenzione il progetto, il programma, che il “referente per la cultura e il turismo” del Partito Democratico, Enrico Segala, ha inviato agli iscritti e agli elettori. La formula, in verità povera e non motivata, è che bisogna allargare i ‘grandi eventi’ alle periferie e alle frazioni, che bisogna maggiormente coinvolgere gli operatori del turismo e organizzare una programmazione biennale. In sostanza una accettazione ed un aggiustamento di quanto sta facendo l’amministrazione attuale.

Non ci si domanda per chi? da chi? non ci si pone il problema degli strumenti e dei temi. Manca ogni concreto esempio.

La conoscenza della città è il punto di partenza per volgersi ai cittadini, fare opera di integrazione, accrescere e qualificare la presenza turistica.

Ferrara sito Unesco è attualmente utilizzata come prestigioso contenitore per iniziative che rimangono prive di collegamento con le strutture cittadine.
Il ‘grande evento’ è, istituzionalmente, autosufficiente: chi vi partecipa non si interessa al contenitore, terminato se ne va.
Il risultato di tale politica è un testimoniato drastico calo della presenza turistica.

L’enfatizzazione, a parole, dei due secoli del vicariato estense non ha portato a ricadute sulla città; lo stesso progetto di mostre dedicate al rinascimento ha dato risultati modesti sul piano dei numeri (solo 70mila presenze), non ha accresciuto conoscenza e comprensione, ha ripetuto formule critiche obsolete senza nuove acquisizioni.

La conoscenza deve comprendere l’intera storia di Ferrara, dalla fondazione all’età contemporanea, costruendo iniziative, percorsi, valorizzazione delle plurime testimonianze esistenti. La città deve divenire interesse del visitatore e degli abitanti, non cornice per altro. Ferrara come soggetto e primo protagonista.

I percorsi debbono comprendere gli edifici religiosi, i palazzi, gli spazi verdi, i musei. Un insieme coerente e non sezionabile che invita a tempi pacati e non a un turismo mordi e fuggi. L’istituzione del ‘museo della città’ non sarebbe cosa futile.

E’ una possibile risposta al problema dell’integrazione dei nuovi cittadini.
Non ci si può inserire in una realtà se non la si conosce, conoscendola non solo la si accetta ma se ne possono utilizzare le potenzialità: muta il rapporto, da estranei si diviene compartecipi. E’ necessario che i ferraresi abbandonino lo stereotipo ‘estense’ per riconoscere la complessità e i condizionamenti dell’intera storia che ha costruito l’ambiente in cui viviamo.
E’ ora di finirla di considerare i due secoli della Legazione pontificia come un periodo buio e di decadenza. Bisogna dare spazio alle testimonianze della cultura scientifica, in gran copia custodite presso l’Università.
Accrescere i motivi di interesse, proporre diversa e articolata attenzione arricchisce la promozione turistica, ne potenzia la presenza, allarga il numero dei visitatori.

A Ferrara oltre alla presenza istituzionale, esiste una numerosa serie di associazioni, dalla Accademia delle Scienze al Centro Gramsci, dagli Amici della Musica a quelli della Ariostea: attive e capaci di progetto e di sollecitazioni. Faccio un unico esempio, molti altri se ne potrebbero fare: l’Accademia delle Scienze ha appena edito un volume dal titolo “L’Università di Ferrara nell’età del Riformismo pontificio e in epoca Napoleonica”, aprendo ancora di più alla conoscenza del XVIII secolo.

Esiste il forte tema del rapporto con l’università, il massimo istituto di cultura presente in città: i legami vanno rafforzati e potenziati. Si potrebbe, con l’Ateneo, organizzare una biblioteca consorziata di storia dell’arte che a Ferrara manca: strana omissione della quale nessuno parla.

Esiste il problema del raccordo fra le associazioni, le biblioteche e i musei. Esiste la necessità di un migliore utilizzo della legislazione regionale. Richiamo al rispetto delle convenzioni esistenti, non attuate a scapito del Comune, con lo Stato per la Pinacoteca, con la BPER per la palazzina di Marfisa.

Il documento non parla del progetto in via di attuazione di un ‘polo museale’ ferrarese che comprende solo i musei statali ed esclude quelli della università, i civici, quelli della curia, quello della Shoa. Varrebbe la pena di esprimersi, domandarsi il senso di tale operazione.

Esiste il problema dell’Archivio di Stato chiuso, quello irrisolto delle biblioteche, dei musei, dell’accesso per i disabili a quasi tutte le istituzioni pubbliche.

Esiste il problema della inadeguatezza dei responsabili apicali del settore cultura, privi di titoli e di competenza specifica.

Esiste il problema della attività di ‘Ferrara Arte’ che troppo spesso esonda.

Molto altro si potrebbe aggiungere a quanto già detto da Italia Nostra per il parco Bassani, dal movimento che ha contrastato il progetto Feris,, dalla quotidiana attività delle associazioni.

Credo varrebbe la pena, come Partito Democratico, di individuare dei temi, di organizzare incontri, di proporre soluzioni.
Il Centro Gramsci organizzò, in anni lontani, convegni sui musei, sul turismo, sul verde pubblico; l’Associazione Amici dei Musei, nel 2011, sui musei; la Ferrariae Decus edita un bollettino ove si affrontano molte questioni. Ne scaturiscono proposte operative e confronto con le istituzioni.  Finché ci si limiterà a documenti come quello ricordato sarà quasi impossibile costruire opinioni e indicazioni che valgano a contrastare l’attuale insoddisfacente proposta culturale avanzata dalla amministrazione civica.

Mi domando se esista una politica culturale del Partito Democratico a Ferrara, penso che fare politica sia altra cosa da quanto presentato dal ‘referente cultura e turismo’.

Per certi versi /
E vidi l’aurora

E vidi l’aurora

Un muro
Di luce chiara
Sul pave’
Della terra
Un abbraccio
Che si dilata
A ogni sguardo
Ci avvolge
In un grande scialle
Sottile
Ignoto
Al suo levarsi
Saremo
Saremo farfalle
Saremo

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Alan Fabbri chiude “a tutela della incolumità pubblica” La Resistenza.
Per un mese o fino alle elezioni? Staremo a vedere.

Un piatto servito freddo
Ho letto anch’io l’ordinanza del Sindaco che chiude “temporaneamente” le porte del Centro Sociale La Resistenza, e devo purtroppo dire che non riesco a condividere il cauto ottimismo degli amici della Resistenza. E non solo per il fatto che per eseguire i lavori imposti dall’ordinanza ci vogliono molte migliaia di euro e molto di più di 30 giorni. Sono infatti pronto a scommettere: il centro rimarrà chiuso fino alle prossime elezioni amministrative di giugno 2024. Almeno. poi si vedrà.
Frequento spesso La Resistenza, per la presentazione di un libro ma anche per scambiare due chiacchiere con giovani e meno giovani. E’ un posto che mi piace, molto tranquillo, che non mi pare fatiscente. Anzi, è molto bello arrivare alla Resistenza, uscire, se dio vuole, dal “salotto buono” (lindo, pulito, ancorché pieno di gabinetti da campo per il concerto di turno) del nostro Centro Storico inamidato.
Dunque la mossa del Sindaco, priva com’è dei requisiti d’urgenza, mi pare tutt’altro che estemporanea. Sembra piuttosto un atto premeditato. Un piatto da servire freddo, un piccolo trofeo da offrire  ai sostenitori più sfegatati. La  prima giunta orgogliosamente di destra dal dopoguerra in avanti, quella che aveva accantonato l’idea (almeno per il momento) di intestare una via di Ferrara al  glorioso Trasvolatore nonché mandante dell’uccisione di Don Minzoni,  non poteva accettare l’esistenza di un “Centro Sociale” (orribile a dirsi), per giunta “autogestito”. E soprattutto con quel nome indigeribile: La Resistenza.
Francesco Monini

Alan Fabbri chiude “a tutela della incolumità pubblica” Il Centro Sociale La Resistenza

Il sindaco di Ferrara ha chiuso il Centro sociale La Resistenza, aderente all’Ancescao, “a tutela della incolumità pubblica”, con una ordinanza firmata il 16 agosto. La stessa ordinanza impone lo svolgimento dei lavori necessari “entro 30 giorni”.

Deve essere messo a norma l’impianto elettrico interno ed esterno, certificata ai fini di sicurezza una vasta copertura esterna in metallo o in mancanza smantellata, sgombrati gli annessi non autorizzati e la piccola biblioteca al primo piano perché non munita di uscita di sicurezza. Questi i principali lavori da eseguire entro il 15 settembre!

Più che ispirato da sana amministrazione, sembra un atto suggerito da “coniglismo mannaro”.
Non servono commenti, ognuno di noi è esperto nell’arte di corteggiamento a lungo termine di elettricisti, idraulici, muratori. Figuriamoci a Ferragosto!
E cosa succede se alla data fatidica i lavori non saranno stati completati?  Ancora l’ordinanza: “le opere verranno effettuate dal Comune, senza ulteriori comunicazioni ai proprietari (ma guarda caso, il proprietario è il Comune!), ponendo a carico dei legittimi detentori ogni spesa inerente e susseguente all’intervento”,
Il sottotesto sembra chiaro: non ce la farete mai entro metà settembre, e noi i lavori li faremo quando potremo. E intanto il centro rimarrà chiuso.

E loro, i soci del centro sociale La Resistenza, che fanno? Si dichiarano “felici: infatti l’ordinanza ferragostana prevede il rientro dei soci al completamento dei lavori”. Dunque il Comune pare retrocedere rispetto ad una precedente delibera che escludeva la sede di via della Resistenza dagli stabili dati in gestione all’Ancescao di Ferrara.

Infatti, da anni più di un esponente dell’attuale amministrazione l’ha giurata a quel Centro Sociale, l’unico superstite in città. Lo testimoniano sui social i soliti commenti e dichiarazioni d’amore pro-Alan, dichiarazione apparse sui canali di comunicazione e comportamenti sconcertanti degli uffici comunali che non rispondono alle Pec del Centro, concedono risposte vaghe al telefono, salvo poi, all’improvviso accampare problemi di sicurezza, lavori da svolgere in urgenza e infine decidono che quello stabile l’Ancescao lo deve mollare e basta.
Ora non sembra più così: è probabile che la concessione in mano all’Ancescao, valida fino al 2034, sia risultata giuridicamente inattaccabile. Rimane l’atteggiamento punitivo del Comune nei confronti di associazioni e gruppi non omologati alla maggioranza di destra, confermato anche dallo sfratto ai danni del Centro Servizi del Volontariato e ad oltre venti associazioni.

Probabilmente l’intensa attività associativa del Centro sociale fatta di corsi, incontri, buffet, manifestazioni, laboratori, concerti a totale autofinanziamento, contrasta in maniera troppo stridente con la concezione di politica dello spettacolo, cene galanti, concertoni, ricevimenti sfarzosi che pratica il Comune interamente a spese dei cittadini e a vantaggio degli organizzatori privati.

“Riteniamo che i costi per i lavori siano in gran parte di competenza del Comune – prosegue il comunicato del Centro sociale –. ciononostante non ci tiriamo indietro. Le tempistiche e le modalità proposte dal Comune rappresentano una sfida per i soci, che ora si trovano a dover coordinare la ricerca sia di manodopera qualificata che di una azienda edile disponibile durante il periodo delle vacanze estive. In questo contesto è fondamentale il supporto e la partecipazione di tutti, ricordando che lo spazio appartiene all’intera comunità ferrarese”.

Migranti. La Cassazione condanna la Lega: «I richiedenti asilo non sono clandestini»

di Nello Scavo
Pubblicato da Avvenire il 18 agosto 2023
Il partito di Matteo Salvini aveva attaccato una parrocchia di Saronno. Sentenza definitiva. Ora la Lega rischia una montagna di denunce e risarcimentri per l’uso improprio del termine «clandestino»
Chi arriva in Italia per chiedere protezione non può essere chiamato «clandestino», neppure in un manifesto politico. Lo ha sancito la Cassazione che ha respinto un ricorso della Lega, ricordando al partito di Matteo Salvini che la libertà di fare politica «non può essere equivalente, o addirittura prevalente, sul rispetto della dignità personale degli individui».

La sentenza, depositata il 16 agosto, conclude una vicenda iniziata nel 2016 quando per contrastare l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza messo a disposizione da una parrocchia di Saronno, la Lega aveva convocato una manifestazione affiggendo cartelli per i quali ora il partito dovrà pagare un risarcimento: «Saronno non vuole i clandestini. Vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni e aumentano le tasse, Renzi e Alfano complici dell’invasione».

Le associazioni Asgi e Naga avevano agito in giudizio davanti al tribunale, affermando che qualificare i richiedenti asilo come clandestini costituisce «molestia discriminatoria», un comportamento idoneo a offendere la dignità della persona e a creare un clima umiliante, degradante e offensivo. I giudici di primo e secondo grado avevano già accolto le ragioni delle associazioni, condannando la Lega a pagare anche un risarcimento del danno. Ma il partito di Matteo Salvini aveva poi proposto il ricorso in Cassazione, perdendo anche quest’ultimo.

Secondo la Corte «gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese di origine, di subire un “grave danno”, non possono a nessun titolo considerarsi irregolari e non sono dunque “clandestini”». La Corte ha anche respinto la tesi degli avvocati della Lega che invocavano il diritto del partito politico alla libera manifestazione della propria posizione. I giudici hanno dovuto ricordare che «il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello di organizzarsi in partiti politici, non può essere equivalente o addirittura prevalente, sul rispetto della dignità personale degli individui».

Per la Lega e per Matteo Salvini vi è ora il serio rischio di dovere affrontare decine di cause giudiziarie e una montagna di risarcimenti, poiché la decisione della Cassazione diventa integrante nella giurisprudenza. In questi anni decine di interventi pubblici di esponenti leghisti hanno adoperato la terminologia bocciata dalla Cassazione, e che spesso è stata usata sui social network anche dai vertici del partito.

«La sentenza, benché riferita a una vicenda di anni fa, dice molto anche alla politica di oggi – commenta l’avvocato Alberto Guariso che aveva presentato le denunce con il collega Livio Neri, entrambi di Asgi – e in particolare sulla inaccettabile consuetudine di continuare a usare il termine “clandestini” per coloro che arrivano sul nostro territorio, comunque arrivino, per cercare protezione: persone con una dignità da rispettare e non clandestini».

Premio Letterario Senza Premi “Le nostre Parole per l’Alluvione”.
La giuria è al lavoro, a novembre l’uscita di un’antologia con i testi migliori

Il 22  luglio scorso si è conclusa la prima fase del Premio letterario internazionale senza premi “Le nostre Parole per l’Alluvione”, una iniziativa lanciata nei  giorni dell’alluvione dalla Associazione Culturale Ultimo Rosso, in collaborazione con il quotidiano online Periscopio.[Qui vedi il Bando]

Un breve riepilogo. Al Premio si partecipava con opere edite o inedite, in lingua italiana, in vernacolo o lingua straniera (purché corredate da traduzione in italiano a cura dell’Autore candidato), a tema libero (senza richiamarsi obbligatoriamente alla tragedia dell’alluvione).
La partecipazione al Concorso prevedeva un contributo di adesione libero di almeno 5 Euro, da versare autonomamente alla Protezione Civile dell’Emilia Romagna per aiuti alle persone delle aree alluvionate.
Ogni Autore poteva partecipare a più di una Sezione, con un massimo di un’opera per ciascuna di esse.
Il Concorso era suddiviso nelle seguenti Sezioni:
Sezione A _Poesia singola edita o inedita a tema libero, lunghezza massima 40 versi, carattere Times New Roman 14, interlinea 1,5.
Sezione B_ Racconto edito o inedito a tema libero, lunghezza massima 20.000 battute (spazi inclusi), carattere Times New Roman 14, interlinea 1,5.

Nel termine previsto dal bando, sono pervenute all’indirizzo mail di Ultimo Rosso 31 poesie e 14 racconti brevi. Una buona risposta, tenuto conto del carattere anomalo e anticonvenzionale di un concorso che volutamente non prevedeva nessun podio e nessun premio. Un grazie ai poeti e scrittori che da ogni parte d’Italia hanno voluto aderire ad una proposta culturale e sociale insieme.

La commissione giudicatrice ha iniziato la fase della lettura e selezione dei testi che si concluderà entro il 30 settembre. Le liriche partecipanti che supereranno la selezione operata dalla Giuria, saranno pubblicate all’interno della rubrica Parole a Capo del quotidiano online Periscopio.

Dopo un ulteriore selezione, le opere migliori (poesie e racconti) verranno inserite in un’antologia dal titolo: “Le nostre Parole per l’Alluvione”.
Il prezzo di copertina sarà indicato successivamente, non potendolo definire in anticipo  il numero complessivo delle pagine. La pubblicazione dell’antologia è prevista nella prima decade di novembre. Pagate le spese, gli introiti della vendita del volume saranno interamente devoluti alla Protezione Civile dell’Emilia Romagna.

Cover; Libri alluvionati dalla –Biblioteca Manfrediana di Faenza. Foto da Agenzia Dire (www.dire.it).

Uno scandalo chiamato Ortazzo:
500 ettari del parco del Delta del Po svenduti a un magnate ceco

Come mai il Parco non ha protestato pubblicamente, chiesto aiuto alla cittadinanza, per acquisire l’area? Con una sottoscrizione della cittadinanza si sarebbe facilmente raggiunta quella quota. Perché nulla è trapelato da parte di alcun ente prima che Italia Nostra portasse all’attenzione la vicenda? E viene normale chiedersi, se non fosse stato per Italia Nostra, Parco, Comune o Regione ne avrebbero dato notizia? E soprattutto, cosa ne sarà ora di quell’area? E come mai il Comune di Ravenna, nonostante i soldi fossero stati stanziati, decise di non comprare l’area protetta e successivamente non concesse neppure un misero prestito al Parco?

Alla foce del Bevano, in Romagna, c’è una meravigliosa area protetta, 500 ettari tra dune costiere, pineta demaniale litoranea e zone umide interne, chiamate Ortazzo ed Ortazzino. Comprese all’interno del Parco del Delta del Po, è un unicum ambientale di ben due Riserve Naturali dello Stato, zone Ramsar, Rete Natura 2000 e Parco del Delta del Po, sottoposte anche a vincolo paesaggistico. Una settimana fa Italia Nostra ha scoperto che sono state svendute ad una società immobiliare [vedi la nota di Italia Nostra Ravenna su Periscopio del 14 agosto, ndr]. Il Parco ammette che non è riuscito ad acquistarle per il suo magro bilancio, vedendosi negato anche un prestito da Comuni, Regioni e CDP. Si parla di una cifra non altissima, appena 500 mila euro.

“Negli anni settanta, – ricorda Francesca Santarella presidente di Italia nostra Ravenna, che per prima ha sollevato il caso – in quest’area vastissima e straordinaria dal punto di vista ambientale, grazie al WWF e a persone come Giorgio Lazzari e come il pretore Vincenzo Andreucci, una battaglia memorabile sventò una speculazione immobiliare spaventosa da 3,5 milioni di metri cubi di nuove edificazioni che avrebbe cancellato la foce del Bevano, realizzato colate di cemento, villette, campi da golf su pinete e zone umide di Ortazzo ed Ortazzino ed un porto turistico (“Porto Gaio”) alla foce del Bevano. Chi conosce i luoghi, sa quale paradiso preziosissimo avremmo perduto. Eppure, l’ingordigia dell’uomo e delle amministrazioni non si ferma. E il pericolo è tornato. Da mare, subsidenza, erosione ed innalzamento del livello del mare avanzano inesorabili, e le straordinarie dune un tempo estese ed altissime sono ormai collassate dal lato mare. – spiega Santarella – La piattaforma Angela Angelina continua ad estrarre metano dai giacimenti sottostanti – anche la terraferma – senza nessuno stop dagli anni 70 almeno fino al 2027, nonostante i tanti annunci di possibile chiusura e le “compensazioni” milionarie fatte di ripascimenti e fittizie ricostruzioni ambientali, che ben quantificano il danno commesso e ovviamente non lo risarciscono, con tassi di subsidenza co-indotta fino a -2 cm anno. Da terra, a sud premono la terrificante lottizzazione di Lido di Classe in via del Lombardi, ed è notizia di questi giorni che dovrebbe partire anche quella omologa a nord, a Lido di Dante, che raddoppierà la località. Il territorio sprofonda ed il rischio mareggiate ed alluvioni è sempre più frequenti (con necessità di potenziamento idrovore per far fronte alle nuove cementificazioni, ovviamente).”

Come se non bastasse, “nel totale silenzio degli enti pubblici (Regione, Provincia, Comune, Stato, Parco del Delta del Po), l’immensa zona (circa 500 ettari) della Immobiliare Lido di Classe S.p.A. di Roma (capitale sociale di 255mila euro, detenuto da Italmobiliare spa, Banca Nazionale del Lavoro, Parsitalia spa), che ne deteneva la proprietà dal 1971, è stata venduta alla immobiliare CPI Real Estate Italy S.p.A., operativa nell’intermediazione immobiliare e con sede a Roma. Senza che nessun ente pubblico (Stato, Regione, Provincia, Comune di Ravenna, Parco del Delta del Po) facesse valere il diritto di prelazione. Cifra in ballo: poco più di 500 mila euro per quasi 500 ettari, cioè 10 centesimi di € a metro quadro.

La CPI Real Estate Italy S.p.A., fa capo a CPI  Property Group,  società fondata nella Repubblica Ceca e con sede in Lussemburgo, operativa sul fronte immobiliare in mezzo mondo, quotata nella borsa di Francoforte. La CPI  Property Group opera con prevalenza nell’Europa centro-orientale, ma anche in Italia, soprattutto a Roma. Fondatore e socio di maggioranza risulterebbe essere proprio il magnate ceco Radovan Vítek, con un portafoglio immobiliare di 9,8 miliardi di euro e un fatturato di 291 milioni. Il suo gruppo è impegnato con 19 progetti nella Capitale, di espansione urbanistica e cementificazione, fu lui a rilevare i debiti del gruppo Parnasi (famosi immobiliaristi romani) con Unicredit, acquistando il 100% delle società Capital Dev, Parsitalia ed Euronova. In pratica, Vitak si sta comprando Roma, soppiantando anche i palazzinari nostrani. L’operazione di compravendita della Foce del Bevano, tra Immobiliare Lido di Classe (il cui capitale sociale è controllato da Parsitalia) nasce quindi all’interno di uno stesso fronte immobiliare romano, visto che Parsitalia spa era stata rilevata da Cpi Property Group.

Così oltre a Roma il magnate ceco si è comprato un pezzo del parco del Delta del Po. Per farci cosa?

L’operazionecome specifica il Resto del Carlino lascia intendere di essere finalizzata alla edificazione di un’ampia area ora indicata come seminativa a nord ovest di viale dei Lombardi (quasi novanta ettari) e a ridosso della zona a tutela naturalistica: un’area che, come si legge nella certificazione comunale allegata al contratto di compravendita, viene indicata come prevista dal Psc del 2007 e dal Rue del 2009 come ‘spazio urbano prevalentemente residenziale con percorsi pedonali, ciclabili, spazi e strutture pubbliche e luoghi di culto’. Anche se il Comune rassicura che questo non avverrà, visto che ormai è proprietà privata nessuno può dormire sonni tranquilli.

“I vincoli del piano territoriale del Parco e di rete Natura 2000 rendono l’area di fatto intoccabile e assolutamente protetta da ogni punto di vista” assicura anche il Parco.

Francesca Santarella nutre però dei giustificati dubbi e ci mostra le mappe:

“La zona verde scuro è l’unica zona di massima tutela (“A”) dell’intero Parco del Delta del Po Emilia-Romagna ma come si vede dalle mappe, l’area su cui qualcosa potrebbe essere realizzato è di almeno 80 ettari dentro il perimetro rosso, ed è color verde acqua (zona “C”) in basso a sinistra. La linea sinuosa che si vede sono le strade asfaltate tuttora esistenti, del primo scempio edilizio poi sventato”.

Da capire anche perché nessun Ente abbia fatto valere il diritto di prelazione.

Nel contratto di compravendita, siglato a marzo 2023, è anche evidenziato che la Immobiliare Lido di Classe il 19 ottobre 2022 notificò all’Ente Parco del Delta l’intenzione di vendere “ai fini dell’esercizio, entro il termine di tre mesi, del diritto di prelazione” e che al 19 gennaio 2023 non era pervenuto “alla parte venditrice alcun provvedimento di esercizio del diritto di prelazione”.

L’Ente Parco si è giustificato  dicendo che in realtà si era interessato all’acquisto dell’Ortazzo e dell’Ortazzino, “ricercando tutte le modalità per garantire l’acquisizione dei beni ambientali”, ma nessuno gli aveva concesso un misero prestito.

“Ci siamo subito attivati per chiedere mutui alla Cassa Depositi e Prestiti dello Stato ed anche a due banche diverse, inclusa la tesoreria attuale, ma non ci sono stati concessi. La causa? Il nostro irrisorio bilancio – spiega la nota del Parco – a detta delle banche stesse, non offriva sufficienti garanzie per un mutuo di appena 500 mila euro. Ancora una volta la carenza di fondi è alla base di tutte le difficoltà dell’Ente. Il Parco ha bussato a tutte le porte, chiedendo finanziamenti anche agli Enti locali, presentando dossier che illustravano l’importanza del sito e le possibilità di conservazione e valorizzazione dei siti, ma ciò non ha sortito l’apertura di linee di credito. L’Ente Parco ha dovuto, quindi, accettare suo malgrado, che l’area finisse nuovamente nelle mani di società private”

Ma come mai il Parco non ha protestato pubblicamente, chiesto aiuto alla cittadinanza, per acquisire l’area?
Con una sottoscrizione della cittadinanza si sarebbe facilmente raggiunta quella quota. Perché nulla è trapelato da parte di alcun ente prima che Italia Nostra portasse all’attenzione la vicenda? E viene normale chiedersi, se non fosse stato per Italia Nostra, Parco, Comune o Regione ne avrebbero dato notizia? E soprattutto, cosa ne sarà ora di quell’area?

Anche il Coordinamento Ravennate per il Clima Fuori dal Fossile ritiene “uno scandalo vero e proprio la questione della vendita di Ortazzo e Ortazzino. Prevediamo che ora inizi il rimpallo fra i diversi livelli istituzionali, e che nessuno si vorrà assumere la responsabilità, responsabilità in ogni caso molto gravi che secondo noi investono tutti i livelli di potere, dal Governo centrale, alla Regione allo stesso Comune di Ravenna. Solidarizziamo senza riserve con la protesta intrapresa da Italia Nostra, e con tutte le voci che in questi giorni – nonostante le disattenzioni ferragostane – si stanno levando per rivendicare che le aree in questione rimangano intatte”.

Fermenti anche tra le opposizioni politiche, in particolare Ravenna in Comune, Potere al Popolo e Lista per Ravenna promettono battaglia.

La cosa più grave è che la Giunta de Pascale affermava nel 2017 di star lavorando per un’acquisizione dall’immobiliare, tanto che nel giugno 2021, erano stati stanziati fondi per l’acquisto dell’area.

Nel Documento Unico di Programmazione 2021/2023 (pagina 258) c’e’ infatti un riferimento all’ “Acquisto area naturalistica denominata: “Ortazzo/Ortazzino” a nord di Lido di Classe” con 514.400,00 EUR per il solo 2021. Il 2022 e 2023 non sono valorizzati. (https://www.comune.ra.it/wp-content/uploads/2020/12/Schema-Nota-Aggiornamento-DUP-2021_2023.pdf). Nel Documento Unico di Programmazione 2023/2025 però non ci sono accenni all’Ortazzo. Come mai questo improvviso cambio di rotta?

Come mai il Comune, nonostante i soldi fossero stati stanziati, decise di non comprare l’area protetta e successivamente non concesse neppure un misero prestito al Parco? Chi e perché ha impedito che Ortazzo e Ortazzino tornassero al Comune?

“L’impegno è scolpito nella pietra – rassicura il sindaco De Pascale con una breve frase su FB – neppure un centimetro dell’area Ortazzo- Ortazzino sarà toccata”.

Sarà pure scolpito nella pietra, ma ne ha permesso la svendita senza batter ciglio, quando erano stati stanziati i fondi per acquistarlo.

Un altro obiettivo di mandato per il 2016-2021, anche questo non compiuto, era l’eliminazione della zona militare dell’Ortazzo e Ortazzino”. Una zona militare di esercitazioni nel bel mezzo di una zona protetta, che vanno avanti da molti anni. Ed anche questo obiettivo, è stato depennato. Forse scolpito nella pietra anche questo?

“Lo scandalo della svendita di Ortazzo e Ortazzino, aree pregiate del Parco Delta del Po, ad una società immobiliare con sede in Lussemburgo, dopo il mancato finanziamento all’Ente Parco da parte di Comune di Ravenna, Regione, Cassa Depositi e Prestiti della risibile somma di 500 mila euro, mette in luce responsabilità politiche molto gravi. Il Sindaco di Ravenna, la Regione Emilia-Romagna, la Cassa Depositi e Prestiti, cioè il Governo. Qualcuno deve assumersi la responsabilità di questo scandalo e dimettersi – afferma Paolo Galletti, portavoce di Europa Verde, insieme alla consigliera regionale di Europa Verde Silvia Zamboni, che ha presentato una interrogazione in merito: – la Regione acquisti le aree e si proceda a dotare il Parco di fondi e personale adeguato. E si operi per istituire il Parco Nazionale Delta del Po (ora solo regionale)”.

Questo articolo è uscito sulla agenzia internazionale pressenza il 16 agosto 2023

In copertina: Foce del Bevano  (foto di Francesca Santarella)

Storie in pellicola / Romantiche

“Romantiche”, il film di Pilar Fogliati che diverte e fa riflettere sorridendo

È un ritratto simpatico, divertente, delicato, ironico ma anche molto affettuoso quello di quattro giovani ragazze molto diverse tra loro che, con le loro insicurezze, paure e desideri, cercano di trovare il loro spazio nel mondo.

La trentenne Pilar Fogliati – che avevamo visto in un Passo dal Cielo, Corro da te e, recentemente, nella serie Netflix Odio il Natale – firma sceneggiatura e regia di Romantiche, un vero “one woman show”: ne è, infatti, anche attrice poliedrica e talentuosa, interpretando tutte e quattro le protagoniste. Un vero camaleonte.

Un film vincitore, nel 2023, del Nastro d’argento alla Migliore attrice in un film commedia a Pilar Fogliati e di due Globo d’oro, come Miglior commedia e Miglior attrice a Pilar Fogliati.

Sullo schermo scorrono le storie di Eugenia Praticò, un’aspirante sceneggiatrice palermitana approdata al quartiere romano un po’ bohemienne del Pigneto per far produrre il suo copione, “Olio su mela”, e che sarà destinata a parecchie delusioni. È capace però di inventare favolosi titoli alle canzonette pop, su gentile richiesta delle amiche (appare anche Levante, che interpreta sé stessa).

Uvetta Budini di Raso è, invece, un’aristocratica che vive fuori dal mondo e con la testa fra le nuvole che frequenta solo cugini ‘ricchi ma alternativi’ ma che vuole provare l’emozione di andare a lavorare (il lavoro, che tema originale !!!) da un fornaio, fra il colore bianco della soffice farina e l’odore del pane caldo. Con tanto di panettiere romantico.

C’è poi la più popolana Michela Trezza, una ragazza semplice della più periferica Guidonia che si imbatte in un amico d’infanzia per il quale ha sempre avuto un debole e che la fa ripensare a tutta la sua vita; e, alla fine, Tazia de Tiberis, una pariolina alla moda e aggressiva che crede di saper dominare gli uomini e impartisce lezioni sul tema alle amiche. Salvo che quando il tradimento tocca anche lei (ci casca il suo Riky, interpretato da Edoardo Purgatori), la musica cambia…

A unire queste quattro vite, un po’ macchiette ma con una grande anima, una brillante psicologa, la dottoressa Valeria Panizzi (Barbara Bobulova) che tutte frequentano, raccontandole le proprie storie personali. Con tanto di finale a morale della storia.

Un film comico, con molta attenzione al genere, i cui personaggi ricordano quelli del maestro Carlo Verdone, per la ‘romanitas’ e la tenerezza, con l’importante presenza di Giovanni Veronesi, come coautore del soggetto e della sceneggiatura (quest’ultima scritta insieme anche a Giovanni Nasta). Personaggi scombinati e un tantino ingenui che suscitano però molta empatia. Davvero divertente.

Romantiche, di Pilar Fogliati, con Pilar Fogliati, Barbora Bobulova, Claudia Lagona, Diane Fleri, Giovanni Toscano, Edoardo Purgatori, Levante, Italia, 2023, 108 minuti.

Epilogo del caso Carife:
da grandi poteri derivano grandi irresponsabilità

Epilogo del caso Carife: da grandi poteri derivano grandi irresponsabilità

Con un pezzo comparso su questo giornale nel novembre 2021 (si può leggere qui) prendevo atto con sconcertata desolazione dell’accordo tra Banca d’Italia e colui che è stato direttore generale di Carife dal 2000 fino al 2009. Accordo con il quale la stessa Banca d’Italia, dopo aver proclamato a mezzo stampa che avrebbe chiesto un centinaio di milioni di danni a CdA, Sindaci, Revisori, Direttori, Presidenti e giù giù fino ai commessi, ha liberato l’ex DG (nel 2019) in cambio della miseria di 500.000 euro; con ciò depotenziando tutta la parte civilistica delle azioni di risarcimento nei confronti dei presunti responsabili “minori” del dissesto della banca. Oggi assistiamo all’epilogo. Nel versante dell’accusa penale ancora aperto – quello per bancarottai Pubblici Ministeri (quelli che hanno il ruolo e la funzione di pubblica accusa) hanno chiesto l’archiviazione delle accuse contro i nove indagati. Ripeto: chi istituzionalmente dovrebbe motivare l’accusa nei confronti degli indagati, ha detto che non ci sono ragioni per andare avanti. Si archivi.

 

Sembra un episodio di Topolino. Sei il custode di una ricca casa. Un giorno, un poliziotto ti accusa di avere dissipato le ricchezze di famiglia, e ti inserisce dritto in una banda Bassotti di presunti dissipatori come te. Dopo dieci anni il capo del poliziotto dice al giudice che non hai commesso nessuno dei reati contestati. Nel frattempo, la casa in questione è stata espoliata di tutti i suoi beni rimasti, e ce n’erano ancora tanti. Sparisce tutto: denari, risparmi, argenteria di famiglia e metà dei dipendenti. A fare sparire tutto però, apprendiamo oggi, non sono stati i custodi, la presunta banda Bassotti. Al massimo possono essere accusati di avere dato la chiave di casa alle persone sbagliate. Già. E chi sono le persone sbagliate?

Beh. Basta guardare i nudi fatti. All’atto del commissariamento di Banca d’Italia (maggio 2013), Carife aveva 350 milioni di patrimonio. Dopo due anni di commissariamento, di quel patrimonio rimangono le briciole. Il minimo è fare scroscianti applausi ai commissari per l’oculatissima gestione. Segnalo che costoro avrebbero per compito istituzionale quello di preservare il patrimonio dell’istituto che gestiscono.

A questo punto, a buoi già quasi tutti scappati dalla stalla, su proposta di Banca d’Italia (evidentemente risoltasi al male minore, dopo la formidabile gestione dei suoi emissari) un Fondo privato – non pubblico, privato – con dentro i soldi di tutte le banche (Fondo Interbancario Tutela Depositi) delibera di mettere 300 milioni in Carife, per ricapitalizzarla e salvare i risparmi dei clienti. Gli azionisti dicono “va bene” (luglio 2015). Eppure questi soldi tardano ad arrivare. Si comincia a capire che non arriveranno mai quando il governo Renzi diffonde la bufala che la Commissaria Europea alla concorrenza avrebbe scritto che questa specifica operazione è vietata, perchè sono fondi pubblici (come scrivevamo già qui e anche qui).

Abbiamo chiesto pubblicamente all’onorevole Luigi Marattin di esibire questo documento della commissaria europea.  Lui ne dovrebbe sapere qualcosa, visto che allora era il consigliere economico di Palazzo Chigi e grande propugnatore dell’operazione di scioglimento in acido di Carife, nostro concittadino di formazione, ex assessore, oggi deputato di Italia Viva e genio dell’economia. Non avremo mai nè la risposta nè il documento. Non avremo la risposta, perchè non siamo degni di lui. Non avremo il documento, perchè un documento che contenga questo divieto non esiste.

Questo infine sanciscono i magistrati inquirenti: da una parte abbiamo alti funzionari di banca dalla gestione disinvolta, un organo di vigilanza prima distratto poi draconiano, commissari di dubbio spessore e un governo ballista che, ciascuno per la propria quota di responsabilità, hanno contribuito a smantellare pezzo dopo pezzo la principale realtà economica del territorio. Di costoro, non paga nessuno. Dall’altra parte abbiamo tutti i cittadini e i lavoratori che hanno riposto soldi e fiducia nella banca del loro territorio. Costoro pagano tutti senza avere avuto alcuna colpa.

“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” è una frase divenuta celebre nelle serie Marvel dell’Uomo Ragno. Evidentemente Peter Parker non ha mai volteggiato per i tetti di Ferrara, altrimenti avrebbe dovuto aggiornare la massima.

Cover: l’Uomo Ragno (licenza Creative Commons, https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/)

LE PAROLE CI PARLANO
Mantova Festivaletteratura 2023. Da mercoledì 6 a domenica 10 settembre

Anche quest’anno, come facciamo da un decennio a questa parte, Periscopio seguirà con passione e interesse il Festivaletteratura.  Per il nostro giornale, saranno a Mantova  le inviate Roberta Barbieri e Maria Calabrese, per seguire dal vivo gli eventi più interessanti, realizzare interviste  e partecipare alle presentazioni per la stampa. 
Lunga vita, dunque, a Festivaletteratura, il padre-madre di tutti i festival.
La Redazione di Periscopio

Mantova Festivaletteratura 2023. Da mercoledì 6 a domenica 10 settembre

Trovare le parole è la sfida che attraversa la ventisettesima edizione di Festivaletteratura che si terrà a Mantova da mercoledì 6 a domenica 10 settembre, e che arriva in un momento storico in cui dare nome alle cose e a quanto ci succede intorno sembra sempre più arduo e ingannevole.

Mettere insieme le parole, provare a ricucirne il senso, misurarne la “tenuta” e farne dialogo è lo sforzo che da sempre impegna Festivaletteratura e si esprime nel chiamare autrici e autori da tutto il mondo, nell’aprire sempre nuovi spazi di ascolto e di scambio, nel tentare operazioni di aggancio più o meno ardite tra linguaggi e narrazioni diverse per leggere – attraverso la letteratura – una realtà che parla e ci sembra non dire.

Questa ricerca nell’edizione 2023 prende la forma di un possibile rovesciamento dei canoni sotto la spinta di generi, cittadinanze e appartenenze che si vanno ridefinendo; di un’inedita alleanza con le arti, per dare più forza ed evidenza alle parole e riportarle in piazza; di una partita da riaprire con la letteratura e la storia del nostro recente passato; di istanze sociali che premono per rientrare nel discorso collettivo; di modalità più intense e raccolte di confronto tra autori e lettori; di ragazze e ragazzi che per primi sentono l’urgenza di ritrovarsi nelle parole e al Festival arrivano desiderosi di interrogarle, ridiscuterne il significato, aprirle alla propria esperienza.

Spingersi in questa direzione porta Festivaletteratura anche a uscire dai suoi luoghi più “tradizionali” muovendosi dentro e fuori la città e insieme a lavorare sui tempi lunghi con centri di studio, musei e altre realtà per far sì che le parole restino e continuino a raccontare.

il racconto dei subcontinenti

Dall’India alle Americhe, dalle molte anime dell’Europa al Mediterraneo, il ricco panorama internazionale del Festival è un crocevia di presenze ormai emancipato da canoni letterari nazionali ed etichette della letteratura postcoloniale: prestiti, rimandi, citazioni e derivazioni rendono oggi ogni opera letteraria patrimonio comune. In una vasta proposta di narrativa che guarda a diversi contesti geografici, l’attenzione si rivolge soprattutto a scrittrici e scrittori del subcontinente indiano, capaci di raccontarne le molteplici e spesso tragiche contraddizioni, come lo srilankese Shehan Karunatilaka, vincitore del Man Booker Prize 2022, l’astro nascente del noir indiano Deepti Kapoor o Pankaj Mishra, tra i più brillanti saggisti e giornalisti indiani dei nostri giorni.

In un momento in cui è fondamentale ritrovare nella letteratura una risposta alla brutalità cieca della guerra, delle barriere e dei regimi autoritari, torna a Mantova il Premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk; largo spazio viene dato alle memorie della diaspora balcanica e albanese, che trova voce nel dialogo tra la scrittrice croata Ivana Bodrožić e Lella Costa o nell’incontro tra Gazmend Kapllani ed Elvira Mujčić. Le molte, diverse Americhe vivono nelle parole di Ken Kalfus e David Sedaris, in quelle dell’attivista cilena Cynthia Rimsky, e nelle peregrinazioni tra Sud America ed Europa raccontate dal romanziere Miguel Bonnefoy. Al ruolo della scrittura come intrinseca dissidenza intellettuale guarda invece l’intervento al Festival del narratore di origini turche Hakan Günday, mentre l’irlandese Audrey Magee discute insieme a Marcello Fois delle gabbie vernacolari di cui son spesso prigionieri gli abitanti di un’isola. Sul racconto della catastrofe, imminente o prossima ventura, si sofferma la saggista e narratrice statunitense Elvia Wilk. Autrice tra le più amate dal grande pubblico, arriva quest’anno al Festival Valérie Perrin.

(auto)narrazioni

Tra romanzi, autobiografie e memoir, la letteratura più recente sembra sempre più segnata dall’affermazione dell’autofiction, ovvero di quelle forme di narrazione in cui l’autore si pone come protagonista, instaurando una particolare interrelazione tra verità e finzione, deformazione del ricordo e proiezione del sé. A parlarne al Festival sono Paolo Giordano e Walter SitiEmanuele Trevi e Francesco PiccoloMarco Drago in dialogo con Marta Cai, nonché numerosi degli ospiti stranieri presenti in una serie di incontri che, tra ricordi familiari, amori e ossessioni adolescenziali, osservazione del quotidiano, disillusioni dell’età adulta e straordinarie colonne sonore, racconta l’insopprimibile tentativo di riappropriarsi della propria vita attraverso la parola, ma soprattutto tenta di guardare al presente e al recente passato con maggiore autenticità e nitidezza.

Di romanzi che prendono a prestito atmosfere, frammenti, situazioni, singoli episodi delle biografie personali o familiari per dare sostanza e colore all’impasto narrativo offrono diversa testimonianza le presenze in dialogo di Francesca Capossele e Silvia Di Natale, di Olga Campofreda e Mavie Da Ponte, e –sconfinando nei territori del fumetto – di Piersandro Pallavicini e Sualzo, di Vincenzo Latronico e Manuele Fior.

Calvino in gioco

Nel centenario della nascita di Italo Calvino non potevano mancare appuntamenti dedicati a uno dei più grandi scrittori del Novecento. Da Se una notte d’inverno un viaggiatore – il romanzo di Calvino che più di ogni altro gioca con i meccanismi della creazione narrativa e l‘esperienza della lettura – nasce Ludmilla, l’escape room ideata e sviluppata dallo studio di game designer We Are Muësli e aperta al pubblico già dal weekend antecedente a quello d’inizio ufficiale del Festival. Un’attigua “sala di atterraggio” – realizzata in collaborazione con il Laboratorio Calvino, la Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori e altri archivi e istituzioni culturali – dopo l’esperienza di gioco consente di (ri)avvicinarsi all’autore grazie a una selezione di libri, documenti, recensioni, interviste video. Non mancano incontri con scrittori e studiosi come Greta Gribaudo, Marco Belpoliti, Silvio Perrella, Francesca Rubini e Domenico Scarpa per proporre alcune chiavi di lettura per ripercorrere i romanzi, i racconti e gli scritti critici di Calvino.

l’odissea romantica

Amati, citati, travisati, mitizzati: sono i letterati tedeschi che segnarono il passaggio dallo Sturm und Drang al Romanticismo, attraversando con audacia e giovanile ardore la transizione dal secolo dei Lumi all’età Napoleonica, e incidendo in maniera decisiva sull’estetica europea. Con gli eventi di l’odissea romantica, il Festival racconta l’identità intellettuale di nomi ormai scolpiti nella storia della letteratura e della filosofia – Goethe, Schiller, Hölderlin, Fichte, Schelling, Novalis, Schlegel – partendo dalla pubblicazione del carteggio integrale tra Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller curato dai germanisti Maurizio Pirro e Luca Zenobi, ospiti di un incontro; per proseguire lungo un itinerario che riporta alla luce la straordinaria vitalità di una poetica dalle molte anime attraverso la performance sonora per voce, laptop e dischi curata dalla cantante e musicista NicoNote tra le quinte del Teatro Bibiena, e il suggestivo itinerario serale nei giardini di Palazzo d’Arco con lo scrittore Alberto Rollo e l’attore Giovanni Franzoni.

percorsi poetici

È una poesia che sfida, contesta i pregiudizi, grida contro la violenza, si interroga sulla letteratura, gareggia con l’arte visiva, si mette in gioco quella che attraversa questa edizione di Festivaletteratura. Ospite di punta è la poetessa di origine somala Warsan Shire, tra le voci più originali dei black british poets, che racconta di esilio e terre perdute, mentre gli altri incontri previsti in programma si interrogano sul rapporto tra creazione e studio, sulla produzione poetica italiana degli ultimi cinquant’anni, su quelle zone dell’immaginario poetico che confinano con la favola, il folklore, il soprannaturale. E se con il progetto Ekphrasis si fanno gareggiare la forza descrittiva della parola e quella dell’immagine pittorica, poeti di pagina e di palco si affrontano in Page vs Stage in una sfida all’ultimo verso. Non mancano appuntamenti dedicati ai più piccoli, tra cui i workshop di Junior Poetry Mag, prima rivista di poesia per ragazzi.

in dialogo con la letteratura

I classici, opere o autori che si illuminano ogni qual volta un lettore li riscopre come parte di sé, caratterizzano il Festival sin dalla sua genesi: anche in questa edizione, accanto all’ampio focus dedicato a Calvino, al romanticismo tedesco e alle scrittrici italiane del Novecento, sono numerosi gli incontri che leggono e rileggono storie di scrittura tra pièce memorabili e trame ingiustamente cadute nell’oblio, con una particolare attenzione alla letteratura tra Otto e Novecento.

Il teatro è uno dei luoghi privilegiati di questa esplorazione, dallo spettacolo di Roberto Abbiati dedicato a Franz Kafka al monologo Erodias che rivela il talento drammaturgico di Giovanni Testori, fino alla grand soirée con Luca Scarlini e i lettori della Compagnia della lettura incentrata sul Dizionario infernale di Jacques Albin Simon Collin de Plancy.

Con l’apporto degli allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, prosegue la riscoperta di Atti unici del ‘900 italiano, dedicati quest’anno a Ettore Petrolini, Natalia GinzburgGiorgio Manganelli, Carlo Emilio Gadda, Ida Omboni e Paolo Poli.

Il dialogo sui libri, la critica letteraria e la prassi della scrittura è il leitmotiv di tre cicli di appuntamenti che dopo il successo delle passate edizioni tornano al Festival: la serie delle collane, organizzate in collaborazione con la Rete Bibliotecaria Mantovana, in cui autori ospiti vengono invitati a individuare parentele sorprendenti tra cinque o più titoli delle Biblioteche Baratta e Teresiana; la parte dei critici, serrata ricognizione di Vincenzo Latronico sullo stato di salute della critica letteraria; e gli incontri sul fuoco sacro della scrittura a cura di Christian Mascheroni ed Elsa Riccadonna.

Di vite tra i libri parleranno autori come Domenico Starnone, Teresa Cremisi e Francesco Permunian, mentre le vite e le opere di tre protagonisti indiscussi della letteratura mondiale – Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann e Anna Achmatova – saranno oggetto degli interventi di Julia KristevaColm TóibínPaolo Nori. Alla collezione di libri viennesi per bambini dell’architetto e designer Otto Prutscher è dedicato l’incontro con James Bradburne.

Francesco Piccolo e il regista Mario Martone ci guidano alla (ri)scoperta della fitta rete di vicende pubbliche e private da cui nacquero 8 1/2 di Federico Fellini e Il Gattopardo di Luchino Visconti, mentre Giacomo Poretti conversa sulle sue interminabili avventure tra i libri insieme a Bruno Gambarotta.

strade gialle

Negli appuntamenti sul giallo dell’edizione 2023, il Festival dedica una particolare attenzione al rapporto quasi congenito tra questo genere e i media. In questo contesto, tra i tanti incontri, non potevano mancare due giganti del racconto mediatico delle pagine più buie e controverse della cronaca nera del nostro Paese: Carlo Lucarelli, voce e volto per oltre un decennio, del programma di culto Blu Notte, e il giornalista Stefano Nazzi, che con il popolarissimo podcast Indagini ha raccontato delitti entrati a pieno titolo nell’immaginario collettivo. Sul fronte internazionale spiccano gli incontri con la giovane autrice indiana Deepti Kapoor e con un giallista di razza come l’inglese Anthony Horowitz; mentre un amichevole duetto a tinte noir è quello offerto da Giancarlo De Cataldo e Alessandro Robecchi. Sul popolarissimo filone del giallo a fumetti si confrontano invece Luca Crovi e il disegnatore Daniele Bigliardo, mentre Donato Carrisi propone un’inedita lezione sulla paura.

nei corpi/sui corpi

È la letteratura, spesso, il mezzo che dà forma al vissuto del corpo: un corpo desiderante e desiderato, a volte sentito estraneo, spesso oltraggiato, mercificato, fatto oggetto di discriminazione; un corpo comunque fragile, che ci avvicina all’esperienza della fine.

Quest’anno il Festival si addentra nei territori di confine tra la vita e la morte, chiamando in causa – insieme alla narrativa – la filosofia, la religione, la scienza e la psicologia. Tre incontri legati al progetto del Festival Staccando l’ombra da terra – inaugurato lo scorso febbraio con un corso di lettura e scrittura e un ciclo di film dedicati al fine vita – vedono protagonisti lo psichiatra Paolo Milone, la poetessa Elia Malagò, la pastora della Chiesa Valdese di Mantova Ilenya Goss e la monaca buddhista Anna Maria Iten Shinnyo Marradi, la scrittrice Cristina Rivera Garza, che, come Antje Rávik Strubel, affronta il tema dalla prospettiva della violenza di genere. Al dolore, alla vecchiaia, alle fragilità dei corpi danno voce le presenze di Daniele Mencarelli, Michela Murgia, Lidia Ravera e Antonella Viola, così come l’incontro pensato in memoria di Ada D’Adamo.

Filippo Timi reinterpreta sul palco il mito novecentesco di Marilyn Monroe, emblema di un fascino irresistibile, vulnerabile, tragicamente umiliato; corpi percepiti come fuori dalla norma – per colore e misura – sono quelli raccontati da Anna Maria Gehnyei e Giulia Muscatelli; mentre la britannica Polly Barton propone una riflessione a più voci intorno al porno.

il posto delle donne

Aspettando il giorno in cui parlare di letteratura e arti “al femminile” sarà insensato quanto definire certi romanzi capisaldi della letteratura “al maschile”, il Festival torna su una parte importante della nostra recente storia letteraria rimasta ai margini del canone ufficiale proprio perché opera di donne. In continuità con l’edizione del 2022 che aveva reso omaggio alla figura di Maria Bellonci, quest’anno il Festival con Olga Campofreda e Francesca Massarenti entra nelle stanze di alcune eccezionali autrici del Novecento italiano da poco oggetto di nuove attenzioni editoriali: Alba de Céspedes (1911-1997), Dolores Prato (1892-1983), la romanziera napoletana Fabrizia Ramondino (1936-2008) e la geniale e cosmopolita Fausta Cialente (1898-1994).

Se un’attenzione particolare viene dedicata quest’anno al pensiero e all’opera di Carla Lonzi, con l’economista Azzurra Rinaldi, la sociologa Francesca Coin, la sociolinguista Vera Gheno, la scrittrice Melania G. Mazzucco, la filosofa Annarosa Buttarelli e la grecista Giulia Sissa si conversa di canoni segnati dal predominio maschile, dei limiti di pensiero entro cui la condizione femminile è rimasta troppo a lungo ingabbiata e privata di dignità, e dell’influenza della disparità di genere sul benessere economico.

spazio sociale

Attraverso un percorso di appuntamenti tra economia, diritti e trasformazioni sociali, il Festival attiva quest’anno un ideale laboratorio di riflessione su alcune urgenze sociali evidenti e spesso inascoltate. Molti i temi trattati: dal fenomeno delle grandi dimissioni raccontato dalla sociologa Francesca Coin al significato di inclusione e di discriminazione di genere in ambito economico con Fabrizio Acanfora e l’economista Azzurra Rinaldi, dal complesso tema dell’inflazione raccontato da Stefano Feltri fino al necessario discorso sulle carceri affrontato dal sociologo Luigi Manconi insieme a Zerocalcare. E ancora turistificazione, dematerializzazione dell’economia, crisi demografica, politiche abitative, futuro delle aree interne insieme a Sarah Gainsforth e la incessante fuga dei cervelli con Maria Castellito e la blogger Michela Grasso alias @Spaghettipolitics. Il filo rosso della pace tiene uniti il dialogo tra Tonio Dell’Olio e Guido Rampoldi, la testimonianza e i laboratori della Scuola di Pace di Montesole, l’azione di Michelangelo Pistoletto al Tempio di San Sebastiano; mentre una più larga riflessione sul significato di “credere” nel nostro tempo mette a confronto lo stesso Pistoletto con Matteo Zuppi.

giornalismo narrativo

Decimo compleanno per Meglio di un romanzo, il progetto di Festivaletteratura che dal 2014 – sotto la guida di Christian Elia – invita autori tra i 18 e i 30 anni a sostenere progetti inediti di reportage narrativi di fronte a scrittori, giornalisti e addetti ai lavori in presenza del pubblico del Festival. Tra gli incontri pensati quest’anno per festeggiare Meglio di un romanzo, oltre alle tradizionali sessioni di pitching e alla presentazione dell’ultimo reportage vincitore, vanno ricordati la conversazione con due maestri internazionali del reportage narrativo come Cynthia Rimsky e Witold Szablowski, e un podcast speciale con molti protagonisti delle passate edizioni.

In programma anche numerosi appuntamenti che, attraverso la lente del giornalismo, mettono a fuoco le vicende cruciali che segnano il nostro tempo: oltre ai già ricordati incontri sui temi delle migrazioni, della giustizia climatica, della gentrificazione fuori controllo dei tessuti urbani e di abbandono delle aree interne, va segnalato quello sulle macromafie, con Floriana Bulfon e Antonio Talia; mentre a più ampie geografie guardano i reportage di Witold Szablowski e Patrik Svensson.

passato (e trapassato) prossimo

Festivaletteratura non smette di confrontarsi con la storia, alla continua ricerca di ragioni e chiavi di lettura per quello che accade oggi o è appena accaduto. Tra storie personali, cronache e documenti pubblici si discute di Anni Ottanta, guardando alla nascita di esperimenti espressivi ancora modernissimi come la rivista di culto Frigidaire con Vincenzo Sparagna, al dilagare della tossicodipendenza con Giulia Scomazzon e Vanessa Roghi, e alla tragica parabola discendente del terrorismo con Carole Beebe Tarantelli Alessandro Portelli; ma si parla anche dei primi vent’anni di questo XXI secolo, dalle Torri Gemelle ai meme, con Alessandro Barbero, Mattia Salvia e Ivan Carozzi, o si retrocede sulla linea del tempo per tornare al disastro del Vajont con Mauro Corona, alle conseguenze delle leggi razziali italiane nell’incontro intorno all’archivio EGELI, ai fasti dell’antico Ghetto di Mantova con Paolo Bernardini e Stefano Scansani. Un peso particolare, per il legame con il territorio mantovano, assume l’omaggio del Festival nel centenario della nascita a Gianni Bosio, straordinaria figura di scrittore, militante politico, animatore culturale, studioso della cultura popolare e della tradizione orale.

migrazioni naturali

“La migrazione ha creato il mondo”, scrive Ruth Padel, è una sorta di filo rosso che lega il viaggio originario delle cellule, le migrazioni animali e le diaspore umane. Questo parallelismo è anche la chiave dell’incontro della poetessa inglese con lo scienziato Telmo Pievani, uno degli appuntamenti previsti al Festival sul tema delle migrazioni. Sulla complessità della condizione di migrante e della necessità di cambiare prospettiva nella valutazione del fenomeno, intervengono la scienziata inglese Gaia Vince, che affronta il tema delle migrazioni climatiche, così come Fabrizio Gatti e Maurizio Pagliassotti, testimoni dei muri letterali o metaforici innalzati dall’Europa e dalle singole comunità.

intelligenze

Gli ultimi mesi hanno visto l’esplosione del dibattito intorno alle intelligenze artificiali: tecnologie come ChatGPT e altre IA generative sono state messe a disposizione del grande pubblico, che ne ha scoperto con meraviglia le fantascientifiche potenzialità ma ne ha intuito anche, con certa preoccupazione, inquietanti prospettive. Tra gli eventi dedicati alla necessaria riflessione sul tema delle intelligenze umane, post-umane e non umane, vanno segnalati quelli con il neuroscienziato Gerd Gigerenzer, con l’esperto di IA Nello Cristianini e con lo scrittore e artista James Bridle. Sulla necessità di coltivare un atteggiamento consapevole nei confronti della tecnologia si soffermano Chiara Valerio, Carlo Milani e il CIRCE (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche), attraverso laboratori e lezioni rivolti a adulti e ragazzi. Nell’intersezione tra tecnologia e geopolitica si incontrano Alessandro Aresu e Simone Pieranni per parlare della guerra dei microprocessori tra Cina e Stati Uniti. All’intelligenza del mondo e delle sue leggi fondamentali sono dedicati gli interventi di Paolo Zellini (sul teorema di Pitagora) e di Guido Tonelli (sulla materia).

consapevolezza verde

Anche quest’anno con consapevolezza verde il Festival si occupa di emergenza climatica e di quella transizione energetica non più rimandabile se si vuole contenere il riscaldamento globale. Questa sezione del programma comprende una serie di lavagne – le lezioni a cielo aperto di Piazza Mantegna – dedicate alle sfide tecnologiche della decarbonizzazione in cui Gianluca Ruggieri, Gianni Silvestrini, Nicola Armaroli, Gianfranco Pacchioni e Ferdinando Cotugno insegnano al pubblico a orientarsi tra fondamenti scientifici, potenzialità e limiti delle possibili soluzioni. Spazio anche al nucleare con un dibattito Oxford Style con quattro relatori, due pro e due contro, ma anche a temi più ampi come biodiversità, acqua, paesaggio, mobilità sostenibile, giustizia climatica altrettanto fondamentali per la sfida ambientale contemporanea, di cui discutono tra gli altri i fotografi Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, lo scrittore Daniele Rielli, il nivologo Michele Freppaz, il giornalista Federico Ferrazza, l’esperto di storia del paesaggio Mauro Agnoletti e Giorgio Vacchiano. Tra gli ospiti anche la giovane divulgatrice e attivista Sofia Pasotto che conduce Altra marea, una serie di interviste ad autori e autrici sul tema della giustizia climatica.

pensieri in esercizio

Dopo due edizioni trascorse a raccogliere idee per la scuola del futuro, grazie al progetto del Comune di Mantova Generare il futuro, il Festival entra nella Scuola Pomponazzo e la trasforma in uno spazio per incontri altamente interattivi in cui il pensiero diventa protagonista. Con pensieri in esercizio all’abituale dimensione delle piazze e dei teatri il Festival sostituisce quella più raccolta della classe, in cui adulti e ragazzi si misurano con l’uso della tecnologia, le idee di comunità, l’educazione attraverso le piante nei workshop con Beate Weyland, Irene FabbriMichela MartonLorenzo Chicchi e il collettivo CIRCE e la Scuola di Pace di Montesole, o partecipano a lezioni “orizzontali” costruite come riflessioni dialoganti su temi come violenza di genere, confini e responsabilità sociale della scienza e tenute, tra gli altri, da Vera GhenoElvira Mujčić, Gianfranco Pacchioni e Telmo Pievani. Accanto agli incontri, il Museo delle Cose Possibili, a cura di Monica Guerra, Lola Ottolini, Lula Ferrari e l’Associazione May, cerca di creare con i contributi del pubblico del Festival una collezione di idee potenziali, risorse da condividere, memorie da mettere a frutto per il futuro che ci attende.

adolescenti al festival

Alla ricerca di parole, storie, rappresentazioni che li aiutino a entrare in relazione, convivere, combattere con la realtà che li circonda, ragazze e ragazzi trovano in questa edizione diverse occasioni di confronto.

Intorno a tre questioni per loro particolarmente sensibili – scuole, generi e cittadinanze – lettrici e lettori under 20 intendono ingaggiare al Festival tre words match con Alfredo Palomba e Domenico Starnone (scuole), Randa Ghazy e Manuela Manera (generi), Gazmend Kapllani e Annamaria Gehnyei (cittadinanze) a partire da romanzi, poesie, graphic novel, film, canzoni che si richiamano a quei temi.

Accanto agli incontri con Kevin Brooks e Annet Schaap, stelle della letteratura internazionale under 20, una piccola sezione intergenerazionale si sofferma su graphic novel e dintorni, presentando come protagonisti Leo OrtolaniTeresa RadiceStefano Turconi e Marco Magnone.

Passports – il percorso su identità migranti e nuovi italiani nato dal progetto europeo Read On – quest’anno assume la forma di un laboratorio condotto da Grace Fainelli e Manuela Manera dedicato alle parole di frontiera e di una serie di incontri dedicati al conflitto culturale tra adolescenti e adulti, al modo di raccontare le migrazioni tra mediazione letteraria e cruda testimonianza, alla capacità del fumetto di dare voce a chi è straniero nel nostro Paese.

A Piazza Alberti riapre Area 6, centrale operativa delle iniziative rivolte agli adolescenti e collegate al progetto i 6 gradi della lettura – sostenuto da Fondazione Cariplo – che coinvolge il Festival con la Rete Bibliotecaria Mantovana, il Comune di Mantova e Cooperativa Charta. Qui i giovani lettori possono trovare una biblioteca temporanea con i libri delle bibliografie di words match e quelli segnalati attraverso Read More – l’attività di libera lettura promossa nelle scuole secondarie da Festivaletteratura, arrivata alla sua sesta edizione – nonché alcune occasioni per conoscere coraggiose e inusuali esperienze di lettura con e tra i ragazzi svolte in tutta Italia.

Tornano al Festival anche gli appuntamenti di blurandevù, le interviste ad autrici e autori realizzate dai giovani volontari, assistiti quest’anno da Espérance Hakuzwimana.

bambini in movimento

Bambine e bambini invadono anche quest’anno la Casa del Mantegna. La dimora del grande artista del Rinascimento si prepara ad accogliere autori e artisti provenienti da tutto il mondo e lettrici e lettori under 12 allestendo nel giardino una tenda per gli incontri, una libreria e un’area ristoro e al primo piano uno spazio per laboratori, performance e animazioni. Il piano terreno ospita invece – dopo tre anni di assenza – la grande giostra di Girotondo, il percorso dalla struttura circolare che quest’anno i dipartimenti didattici di Collezione Peggy GuggenheimFondazione Sandretto Re RebaudengoMart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e RoveretoMuseo tattile statale OmeroPalazzo delle Esposizioni e Triennale Milano trasformano in un museo senza museo dove giocare, pensare, parlare, inventare, attivare i sensi con e intorno all’Arte.

Il programma per i bambini quest’anno è tutto incentrato sull’ampliamento dei propri orizzonti, comprendendo percorsi tra arte e scienza alla scoperta delle stelle, attraverso le stanze di Palazzo d’Arco e Palazzo Ducale e l’Osservatorio Astronomico di Gorgo di San Benedetto Po, incontri dedicati ad avventure in terre esotiche e misteriose con Laura OgnaMarco Paci Anselmo Roveda o tra le mappe della Biblioteca Teresiana, e ancora storie di paura con Manlio Castagna e percorsi alla scoperta della Natura in città con Gianumberto Accinelli.

Molti gli appuntamenti con autori e autrici internazionali, da quelli con Anthony Horowitz e Aina Bestard al focus dedicato alla letteratura olandese – realizzato nell’ambito di FuturoPresente, programma speciale per la promozione delle arti tra le nuove generazione dell’Ambasciata e Consolato Generale dei Paesi Bassi in Italia e di quattro grandi istituzioni culturali olandesi (Performing Arts Fund NL, Dutch Foundation for Literature, Cultural Participation Fund, SeeNL) –, che vede coinvolti Enne KoensEdward van de Vendel e il performer Ton Meijer, protagonista al Teatro Bibiena di uno spettacolo dedicato alla musica operistica.

Tra le tante attività della Casa del Mantegna anche la seconda edizione del Reading Slam, una competizione di consigli di lettura con quattro scrittori in gioco, tra cui Igiaba Scego Carlo Lucarelli, e un libro vincitore, decretato dal voto del pubblico presente sugli spalti. E ancora una nutrita serie di conversazioni tra scrittori e ragazzi, in cui sono coinvolti tra gli altri Fabrizio AcanforaNadia Terranova e Silvia Vecchini; workshop che toccano quest’anno i temi della pace, della cucina naturale, della fotografia e del fumetto.

tra arte e letteratura

Nel corso degli anni il Festival ha continuamente esplorato i territori delle arti figurative, della fotografia, del design, e anche quest’anno sono molti gli appuntamenti portano l’Arte non solo come tema ma come voce in campo: Michelangelo Pistoletto torna in città dopo vent’anni per cucire un grande stendardo per la pace nel Tempio di San Sebastiano, mentre Roberto Conte innalza in Piazza Sordello un grande tiglio su cui raccogliere parole capaci di ricordare la fragilità della natura e insieme la nostra.

Parola poetica e arte figurativa si sfidano nel progetto Ekphrasis, in cui nove poeti si confrontano con gli affreschi di Giulio Romano a Palazzo Te e i murales del quartiere cittadino di Lunetta, mentre – come già ricordato – Girotondo coinvolge le sezioni didattiche di alcuni dei più importanti musei italiani, e alla Scuola Pomponazzo il Museo delle Cose Possibili espone idee per il futuro.

Un focus speciale viene dedicato in questa edizione alla critica d’arte e femminista Carla Lonzi – che comprende, tra le altre iniziative, una conferenza spettacolo di Lunetta Savino e Viola Lo Moro e un incontro sull’attualità del suo pensiero con Laura Iamurri, Luca Scarlini, Carla Subrizi ed Elvira Vannini –, mentre altri incontri sono dedicati a figure di artisti eclettici e inclassificabili come Jean Cocteau e Toti Scialoja e ad architetti come Marc Sadler, ospite al Festival, e Angelo Mangiarotti. Architettura e letteratura saranno nuovamente in dialogo nei due appuntamenti di città-mondo, che ci portano quest’anno a Parigi con Umberto Napolitano e a Tunisi con Karim Chaabane.

colonne sonore

Per tre sere in Piazza Alberti la rassegna Volume, ideata in collaborazione con la webradio Radio Raheem, porta tre DJ – Giulia CavaliereNinette e Vittorio Gervasi aka Jazz Hunters – alla console per mettere le musiche che risuonano tra le pagine di certi romanzi, dalla Rimini di Pier Vittorio Tondelli, alla Giamaica rarefatta di Marlon James, alle fumose jazz caves di San Francisco di Jack Kerouac.

Tornano anche le lavagne musicali in Piazza Mantegna con Marco Drago, Giulia Cavaliere e Dario Falcini, fatte per aprire mente e orecchio, in un viaggio nella musica popolare degli ultimi decenni da Frank Zappa al rap italiano. Il Teatro Bibiena torna a essere spazio di dialogo tra musica e letteratura ospitando, tra gli altri eventi, un bonus track d’eccezione con la cantautrice italo-palestinese Laila Al-Habash e lo scrittore Jonathan Bazzi, protagonisti di un incontro tra parole e musica, e un dialogo dello storico Alessandro Vanoli con i dodici pezzi eseguiti dal Trio Icarus Ensemble di Le stagioni di Čajkovskij, per raccontare la storia del clima e delle stagioni.

La musica sarà presente in altri luoghi e contesti del Festival, come nell’incontro di Inedita energia, che vedrà la partecipazione quest’anno di diversi personaggi legati al mondo musicale, con l’immancabile Neri Marcorè a dirigere il traffico; nel dialogo sui temi dell’accoglienza e della fragilità che unisce Marco Annoni e il cantautore Niccolò Agliardi; la lettura concerto che Giancarlo De Cataldo, insieme al quintetto Alkord, dedica a Giuseppe Mazzini sul sagrato dell’Ossario di Solferino.

pagine dello sport (e della cucina)

Lo sport, grande fucina di narrazioni dei nostri tempi, torna sul palco del Festival grazie a Federico Buffa, che incontra uno dei quattro uomini più veloci d’Italia, il campione olimpico Filippo Tortu; mentre Tiziana Scalabrin intervisterà Sara Gama, capitana della nazionale italiana di calcio. Una serie di appuntamenti realizzati con la redazione del magazine online Ultimo Uomo torna su appassionanti vicende sportive del passato: la tempestosa rivalità tra due leggende dell’apnea come Enzo Maiorca e Jacques Mayol, quella tra Bjorn Borg e John McEnroe sui campi da tennis, e la straordinaria carriera della campionessa di ginnastica artistica Nadia Comaneci. Non mancano storie inusuali come quella che unisce uno sfortunatissimo astronomo del Settecento ad alcuni impareggiabili perdenti del ciclismo raccontata da Leonardo Piccione, e una lavagna con Emanuele Atturo dedicata al modo in cui certe tecnologie stanno cambiando il futuro del calcio.

Passando dai campi da gioco alle cucine, Luca Cesari si destreggia tra pizza e maccheroni, Giuseppe Barbera traccia una storia culturale, botanica ed economica degli agrumi, mentre Corrado Assenza ragiona insieme a Marco Malvaldi su cucina, territori e comunità planetaria.

Anche per questa edizione il programma cartaceo di Festivaletteratura, strumento indispensabile per navigare e vivere la manifestazione, torna come piccolo catalogo completo delle schede di tutti gli appuntamenti con una copertina disegnata da Nicola Giorgio, che sarà presentato nella seconda metà di luglio.

A cura del Mantova Festivaletteratura

Scarica il programma del Festivaletteratura 

APPUNTI PER UN FUTURO URBANO.
In margine al dibattito su una possibile Ferrara Nuova

APPUNTI PER UN FUTURO URBANO
In margine al dibattito su una possibile Ferrara Nuova

Tutto è ‘relativo’ quando si parla di complessità

Da quando me ne occupo, il mio modo di leggere i problemi delle città è cambiato notevolmente. Più lo sguardo si ampliava al mondo più si relativizzavano le categorie che usavo per descrivere e interpretare ciò che vedevo. Sono giunto quindi alla conclusione che oggi la parola “città” non è sufficiente per descrivere il mondo urbano che si incontra girando per il pianeta.

Certamente questa mia consapevolezza è stata alimentata dalla conoscenza del geografo francese Marcel Roncayolo, che ho avuto la fortuna di frequentare. Roncayolo era un normalien, quindi in lui metodo e spirito critico trovavano una sintesi virtuosa: affascinante da ascoltare e difficile da praticare. La puntigliosità nell’esercizio della classificazione dei fenomeni e delle cose, che emergeva sempre dalle sue riflessioni, mi ha portato a diffidare delle semplificazioni della complessità.

Una delle categorie sulle quali abbiamo discusso a lungo è stata quella dello “spazio pubblico”. Un concetto valise, come lui lo definiva, associandolo ad altri, nel senso che trascina con sé una quantità di significati e declinazioni non sempre coerenti tra loro, anzi spesso in conflitto. Diviene pertanto necessario precisarne l’uso in relazione a contesto, tempo, economia, cultura e visione. Analoga cosa potremmo dire del dibattito sul futuro delle città e sul come porci nei confronti della crisi climatica in corso.

Lo sviluppo della rivoluzione industriale si è basato sul contrasto e l’intreccio tra ricchezza e povertà, capitalismo e filantropismo, capitale e lavoro, diritti e disuguaglianze. Lo dice bene il filosofo inglese Bernard Mandeville nella sua riflessione metaforica sui vizi privati e le pubbliche virtù della società inglese del Settecento, intitolata La favola delle api.

Nel testo si descrive la sporcizia di Londra, associata al cattivo odore e al degrado che si riscontra nelle strade della città, ma tale condizione, afferma il filosofo, rappresenta comunque un indicatore di benessere, un segno di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali e dall’avvio di quel processo che prenderà il nome di rivoluzione industriale.

Tutta la letteratura dell’epoca vittoriana e in parte post-vittoriana ci racconterà questo mondo: da Dickens a London, da Balzac a Zola, a Musil. È quindi nelle relazioni, che si determineranno tra “ricchezza” e “povertà”, che si giocherà il futuro delle città, ma anche del pianeta.

Secondo l’ipotesi di James Lovelock, ripresa da Bruno Latour, Gaia non sparirà semmai muterà, secondo un processo che potrebbe non vedere più la presenza dell’essere umano. Il concetto stesso di “Antropocene” è probabilmente superato perché, tirando in ballo l’umanità intera, si basa su di una presupposta neutralità concettuale che lo rende depoliticizzato.

La festa è finita

Non tiene conto delle differenze sociali, storiche, di genere, etniche, mentre l’umanità non è una comunità indifferenziata, dove tutti hanno le medesime responsabilità. Tra il 1884 e il 2020 l’Africa ha emesso 48 miliardi di tonnellate di CO2, a fronte di una emissione globale di 1700 miliardi di tonnellate.

L’impronta di carbonio dell’Africa rappresenta pertanto il 3% mentre Stati Uniti, Europa e Cina sono ancora oggi i maggiori responsabili delle emissioni a livello mondiale. L’Italia emette più carbonio del Brasile (1,7% con 58 milioni di abitanti contro 1,2% con 216 milioni di abitanti).

La tecnologia salverà il mondo?

A volte si ha l’impressione che la comunicazione mediatica più che informare sui fatti, anche con approfondimenti e argomentazioni critiche, tenda a determinarli: creare il problema (o l’aspettativa) e poi offrire le soluzioni tecniche (sempre riconducibili a portatori di interessi in grado di condizionare la politica, che generano quel fenomeno oggi noto come greenwashing).

La tecnica, secondo Emanuele Severino, è una forma di razionalità: la più alta raggiunta dall’uomo. Appartiene alla struttura essenziale del capitalismo che ha subordinato ad essa le altre manifestazioni della civiltà occidentale, ma spesso attraverso la tecnologia si dà una risposta ai problemi del mondo senza chiedersi il perché delle cause (politiche, economiche e sociali) che li hanno generati.

Si segnalano i ‘bisogni’ senza parlare di ‘diritti’, ci si impegna nel contrasto alla ‘povertà’ tacendo sul problema delle ‘disuguaglianze’. Vengono propagandate soluzioni che non trovano riscontro nella complessità sociale della città, del pianeta e dei processi che li riguardano.

Ragioniamo su quanti alberi piantare in città e di che tipo, per contrastare l’inquinamento dell’aria che misuriamo con dispostivi sempre più sofisticati, ma non ci chiediamo quale è la causa dell’aumento dell’inquinamento. Non mettiamo in discussione il fatto che forse il problema è il modello di sviluppo e l’organizzazione delle nostre città, completamente dipendenti dalle automobili private e che quindi il problema deriva dall’uso dei combustibili fossili (riguardante, ovviamente, non solo le auto).

Saint Louis du Sénégal e l’erosione dell’oceano Atlantico

Gli effetti del cambiamento climatico stanno diventano drammatici, ce lo dice l’IPCC e le soluzioni, come ci rammenta Anthony Giddens, devono essere improntate alla massima complessità di processo e di progetto, tenendo insieme tutti gli aspetti politici, etici, tecnici, gestionali, locali e globali che questo comporta. In realtà stiamo vivendo una stagione dove, secondo Edgar Morin, se da un lato viene enfatizzata la potenza umana (nel dominio tecnologico), dall’altra si fa sempre più strada l’impotenza dell’uomo nel controllarne gli effetti.

Spesso sui media (anche alcuni nostri importanti giornali nazionali) ci vengono presentate, come soluzioni avveniristiche, progetti che propongono città eco-tecnologiche, sorte in contesti estremi come i deserti, gli oceani, addirittura su Marte e ultimamente sulla Luna (dove pare porteranno delle opere d’arte). Utopie realizzabili, grazie alla tecnica e all’estro delle archistar (e al capitale di Development Corporation e di società di Real Estate) ma, a ben guardare, sono forse delle distopie.

Il principio insediativo di questo mondo urbano “resiliente”, che riesce a sopravvivere alla mutazione climatica, è la ‘bolla’, ovvero un microambiente che simula una situazione urbana, anche estesa (una città?) in grado di creare delle forme di vita sostenibili, energeticamente performanti, circolari e socializzanti, ma a condizione che si resti nella ‘bolla’.

In un mondo di oltre 8 miliardi di persone, di cui oltre la metà vive in aree urbanizzate ed in insediamenti informali e poveri, chi potrà permettersi di accedere a queste bolle dove la città è dei 15 minuti, la mobilità è automatizzata ed elettrica, l’agricoltura è idroponica, l’energia è solare?

La distopia di questi progetti (alcuni si stanno concretamente realizzando, se ne potrebbe parlare) sta nel loro essere progetti esclusivi, e quindi fautori di disuguaglianze, lo dimostra il fatto che tutti questi progetti iper/eco-sostenibili sono realizzati da paesi autoritari, che non rispettano i diritti umani, in grado di sfruttare le enormi risorse che gli vengono dal petrolio e la cui costruzione si fonda da un lato sul savoir faire tecnologico e finanziario occidentale e dall’altro sullo sfruttamento degli immigrati dei paesi poveri. Anche in questo sta la distopia.

Perché pur sapendo non hanno agito?

La storica della scienza dell’Università di Harvard, Naomi Oreskes, in un suo saggio romanzato, Il crollo della civiltà occidentale, scritto insieme al collega Erik Conway, racconta dal 2393 le cause del grande crollo della civiltà occidentale avvenuto 300 anni prima, quindi nel 2093. Lo fa attraverso lo sguardo inventato di un giovane storico della Seconda Repubblica Popolare Cinese.

Il fatto più sorprendente che viene segnalato è che le vittime di questo crollo sapevano cosa stava accadendo e perché stava accadendo e dunque la domanda che il ricercatore si pone è: perché la società politica ed economica non fece niente? Perché la scienza non riuscì a comunicare con efficacia quanto stava accadendo? Perché molti continuarono a negare l’evidenza di ciò che stava capitando?

Si tratta di un racconto posto nel futuro ma chiaramente rivolto ad un presente che ci viene ben precisato ormai da numerosi rapporti scientifici. In una recente intervista sul quotidiano francese Le Monde, la bio-geografa sud-africana Debra Roberts e il climatologo tedesco Hans-Otto Pörtner dichiarano che noi non siamo preparati agli impatti estremi e nemmeno alle sorprese che ci riserva la mutazione climatica.

In generale gli ecosistemi sono già fortemente toccati e molte zone del mondo in particolare nella fascia equatoriale e mediterranea stanno raggiungendo i limiti della adattazione climatica, con fenomeni di estremizzazione meteorica sempre più forti (siccità e grandi piogge), che ci condurrà verso processi di migrazione climatica che riguarderanno umani e animali.

Il rischio che solo una parte del pianeta rimanga abitabile sarà reale e questo ridurrà gli spazi di vita. Molti sono coscienti degli impatti di questa trasformazione, però le misure di adattamento, associate alle politiche degli stati e degli organismi internazionali sono frammentate.

Del resto dai dati e dalle misurazioni di numerose autorità ed enti di ricerca internazionali appare evidente come la “transizione ecologica” sia più enunciata che praticata. Il recente COP 27 svoltosi a Charm El-Cheikh ha confermato che più che su misure reali, piani sostenibili in via di attuazione, politiche condivise il dibattito è stato ancora contraddistinto da desideri, proposte e appelli. Lo stesso potremmo dire per il recente summit per l’Amazzonia a Belem.

In un suo recente articolo l’editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia, Paul Krugman sostiene che il problema del contrasto al cambiamento climatico, e di conseguenza del negazionismo, si sta spostando su di un piano difficile da controllare che è quello culturale e identitario.

La sua riflessione verte sulle differenze delle politiche ambientali di democratici e conservatori negli USA, ma emergono alcuni punti di riflessione che contraddistinguono i dibattiti anche in altri paesi e su cui bisognerà fare attenzione in una prospettiva elettorale.

Lavorare per la transizione ecologica, attuando scelte sostanziali, e non retoricamente generiche, può essere impopolare, ma sono imprescindibili per un campo progressista, mentre quello conservatore può tranquillamente farne a meno, trincerandosi dietro il fatto che si vuole attaccare lo stile di vita identitario del paese (americano, italiano, francese, ecc.).

Riprendendo una canzone di Giorgio Gaber si potrebbe ironizzare che la cucina a gas, il barbecue che usa carbone o legno, la macchina parcheggiata in doppio o tripla fila, sono di destra, mentre i fornelli a induzione, la pedonalizzazione della piazza parcheggio nel centro storico, il trasporto pubblico, la comunità energetica sono di sinistra. L’interesse particolare è di destra, quello generale è di sinistra. Sono queste semplificazioni che rendono preoccupante la dimensione culturale/identitaria del dibattito sui cambiamenti climatici, perché antepone l’interesse individuale (o di clan, o di tribù) a quello collettivo.

Decarbonizzare le città

Lo scarto tra obiettivi e pratiche concrete è forte, anche in realtà urbane e metropolitane molto più attive delle nostre città. Le città e i territori urbanizzati sono oggi responsabili dell’80% delle emissioni di gas a effetto serra.

La “città decarbonizzata” è dunque un obiettivo lungimirante, doveroso, che non richiede slogan ma politiche e pratiche intrecciate, multi-scalari e multi-attoriali, attraverso il ricorso ad una “cittadinanza attiva” consapevole e informata.

Una città che oggi si appresta a votare può su questo tema costruire una visione di futuro?  Certamente, ma si tratta di fare scelte precise sulle fonti energetiche (prevalentemente elettricità da fonti rinnovabili e idrogeno verde), di conseguenza diviene necessario ripensare i modelli della mobilità urbana e territoriale, privilegiando il più possibile il trasporto pubblico, ciclopedonale e su rotaia dentro le città e tra città caratterizzate da fenomeni di pendolarismo quotidiano.

Va rinnovato il patrimonio edilizio sia residenziale che terziario, ripensando l’organizzazione delle nostre città, anche attraverso interventi di “decostruzione”. La naturalizzazione delle città va orientata verso la complessità ecosistemica e non può ridursi solo nella messa a dimora di qualche albero in più mentre vanno gestiti i fenomeni meteorici sempre più estremi, ponendosi il problema del controllo e riuso e dell’acqua piovana anche attraverso il ridisegno degli spazi pubblici.

Milton Keynes. Parco urbano e agricolo

Se la biodiversità e la cultura sono dei valori non negoziabili, i luoghi vanno usati in base alle loro caratteristiche, senza inibire la possibilità di organizzare eventi ludici di varia natura, ma trovando i luoghi giusti. Il turismo va gestito nella sua complessità, associando tempo libero e cultura, diluendolo nel tempo e potenziando le opportunità che possono derivare a una città dall’essere sede universitaria.

Non si può eludere infine il tema energetico abitativo e quindi una politica seria orientata verso la costituzione di comunità energetiche. Potremmo pertanto affermare che, per realizzarsi, la “città decarbonizzata” richiede un totale cambio di politiche e pratiche (di paradigma potremmo dire) in termini urbanistici, sociali, tecnologici, economici.

Si tratta di capire se siamo pronti a questo cambio di abitudini nei nostri comportamenti (perché anche di questo si tratta) e nell’uso delle nostre città. E soprattutto è necessario capire in che misura questo cambio inciderà sulle spalle dei cittadini di differente condizione economica.

In ogni caso bisognerà impegnarsi affinché il “decarbonizzare” non diventi una di quelle categorie valise, di cui parlavo prima. Dovremo scegliere con attenzione e cognizione di causa i significati da mettere nella valigia che ci porteremo dietro in questo complicato viaggio.

Per leggere gli articoli di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Riprendiamoci la città

Riprendiamoci la città

di Guido Viale
Pubblicato da Comune-info

È sbagliato prospettare la transizione ecologica come mera sostituzione di fonti di energia rinnovabile a quelle fossili perché le cose possano continuare a svolgersi come prima. Ci sono molti altri fattori che incidono sul riscaldamento globale e che incideranno sull’organizzazione delle nostre vite.

Innanzitutto, l’agricoltura industriale che insterilisce e uccide il suolo, impedendogli di assorbire carbonio ed emette gas che contribuiscono al riscaldamento della Terra molte volte più della CO2.

La maggior parte dei suoli coltivati e delle derrate prodotte è destinata all’alimentazione animale, cioè alla produzione di carne e latticini, che per questo sono fra le cause maggiori dei cambiamenti climatici. Anche il riscaldamento dei mari e degli oceani riduce la loro capacità di assorbire carbonio.

Sono processi che continueranno ad aumentare il riscaldamento globale  per decenni anche se l’emissione di CO2 cessasse domani; il che, ovviamente non può succedere: non solo perché, anche volendo, la costruzione degli impianti per la generazione di energia rinnovabile richiede tempo, ma soprattutto perché la necessità di lasciare gli idrocarburi sotto terra non è ancora entrata nella testa della maggior parte della gente e soprattutto in quella di coloro che con i fossili fanno profitti o pensano che abbandonarli minerebbe il loro potere.

Poi, lo scioglimento del permafrost emette metano e la scomparsa dei ghiacciai e delle calotte polari aumenta l’assorbimento del calore prodotto dai raggi solari. Sono processi che si alimentano da soli, spingendo il riscaldamento globale verso l’irreversibilità.

Questi processi obbligheranno comunque tutti a cambiare abitudini: a cercare di vivere con meno perché la terra assolata, desertificata e attraversata da uragani e alluvioni produrrà meno; e anche l’industria, il commercio e il turismo, sconvolti da disastri ambientali sempre più frequenti, non saranno più quelli che conosciamo.

Le nostre vite saranno comunque sempre più difficili e ai nostri figli e nipoti andrà anche peggio. L’alternativa che abbiamo di fronte è lasciare che la “natura”, sconvolta, faccia il suo corso, peggiorando progressivamente la vita di tutti, a partire da quella di chi ha meno, fino alla completa estinzione del genere umano; oppure ridurre ovunque in modo programmato il consumo di madre Terra e le diseguaglianze che permettono a pochi di continuare ad arricchirsi e a vivere nel lusso a spese dei più, della loro miseria e, sempre più spesso, della loro morte.

Bisogna adoperarsi non solo per bloccare al più presto il ricorso ai fossili (mitigazione), ma anche prepararsi alle condizioni più difficili in cui ci si verrà a trovare (adattamento). Ma a imboccare una strada del genere non saranno certo le imprese o i Governi.

L’ecologia “calata dall’alto” è sempre menzogna. Ma nemmeno si può pensare a un cambio di rotta lasciando che ognuno si arrangi “come può”.

Bisogna creare l’ambito in cui possa svolgersi una vera transizione o, meglio, una conversione ecologica consapevole, volontaria e desiderabile: certo, affidata all’urgenza di evitare il peggio; ma anche, e soprattutto, a una svolta culturale irrinunciabile.

Non c’è più niente da sostituire: la cultura, intesa come capacità di confrontarsi con i problemi della propria epoca, è morta da tempo, sloggiata dal sequestro dell’informazione da parte dei big della rete (la Grande Cecità ha ormai investito tutti i settori); ma soprattutto azzerata dalla perdita del confronto fisico, dell’incontro faccia a faccia, dello sguardo rivolto non solo alle altre persone, ma anche a tutta la vita che ci circonda.

Per questo l’ambito di questa transizione non può che nascere dalla ricostituzione di una comunità, di molte comunità, fondate su relazioni il più possibile dirette tra le persone e tra persone e cose: “naturali” e artificiali, belle o brutte, utili o dannose; dobbiamo imparare a curarci anche delle cose brutte e dannose per trasformarle, o cancellarle con cose belle e utili.

Per portare avanti la transizione le comunità dovranno riunirsi – specie là dove prevalgono le interdipendenze, ma perseguendo ciascuna il massimo di autonomia possibile – in quegli aggregati di abitanti che sono le città, dove ormai si ritrova più della metà della popolazione mondiale.

Il termine città indica un territorio, il suo assetto urbanistico, i suoi rapporti con la vegetazione e gli animali dentro e fuori dell’abitato, il suo clima e i suoi collegamenti (la ville); ma soprattutto le pratiche e la cultura condivise da una parte significativa dei suoi abitanti, la cité (Richard Sennett): due risvolti di una stessa realtà indissolubilmente intrecciati e reciprocamente condizionati.

Nel processo di transizione questa cultura non può avere una configurazione rigida e identitaria; deve essere aperta e flessibile: un cammino in fieri che coinvolge tutti coloro che vedono nella ricostituzione di una o tante comunità, cioè di relazioni il più possibile dirette tra le persone e con il proprio ambiente, il passaggio obbligato per la conversione ecologica.

Vista in questa luce, la città non è una realtà né statica né armonica, ma conflittuale: vedrà contrapposti, con alterne vicende, coloro che intendono partecipare alla transizione a coloro che ancora in qualche modo traggono vantaggi dalla situazione esistente; questi, forti delle risorse che controllano; i primi, sostenuti dalla forza delle loro coalizioni, ma anche dall’evidenza dell’aggravarsi della crisi climatica e delle sue conseguenze.

Si tratterà di un processo, mai interamente definito e concluso, di progressiva riappropriazione di spazi, strutture, servizi, beni comuni, poteri decisionali: “Riprendiamoci la città”.

Cinquant’anni fa, in un orizzonte ancora non dominato dall’imminenza di una catastrofe ecologica, questa parola d’ordine trasformata in programma era stata lanciata – in un’arena sociale, territoriale, generazionale e di genere differenziata, ma sotto la spinta di una classe operaia allora in lotta quasi permanente – come sbocco necessario di un conflitto che voleva superare l’impianto meramente operaista delle principali lotte in corso.

Ma in quegli stessi anni, e del tutto indipendentemente, però in una prospettiva analoga, il sociologo francese Henri Lefebvre pubblicava un libro sul Diritto alla città, palesemente influenzato dalle teorizzazioni situazioniste sulla “deriva urbana” (la presa di coscienza dell’influenza che gli assetti urbani esercitano sulla psicologia e la cultura di una popolazione).

Quei temi, poi ripresi nel 2006 dal geografo inglese David Harvey, sono oggi al centro di un ripensamento radicale del ruolo giocato nei processi trasformativi dal territorio, dall’iniziativa dal basso, dalla partecipazione al conflitto in forme non istituzionalizzate di democrazia di base.

Una prospettiva che non rende la democrazia partecipativa incompatibile con quella rappresentativa, sempre più impotente; ma che destina la prima ad esautorare progressivamente le funzioni della seconda; in modo non dissimile da come i governi costituzionali sono stati a lungo, e ancor oggi, compatibili con la permanenza della nobiltà, dei suoi lussi e dei suoi sprechi, pur avendone da tempo espropriato sostanzialmente i poteri.

In copertina: Calendimaggio nella piazza di Assisi

L’impianto per la produzione di biometano nel Comune di Ferrara:
parliamo delle ricadute sulla salute

“Poesia nei Cortili” di Oleggio. Torna i primi 3 sabati di settembre la rassegna di incontri e letture sul Lago Maggiore

Torna  a settembre, la rassegna di incontri con poetesse e poeti contemporanei. Tre appuntamenti in tre case storiche di Oleggio, dove saranno ospitati due poeti e un moderatore, i lettori e il pubblico. Una sorta di appuntamento al buio con la poesia, un incontro magico e inaspettato, un incontro intimo, in cui la poesia entra in punta di piedi nelle anime lasciando segni indelebili del suo passaggio.

Sabato 2 settembre ore 19
incontro con Francesca Del Moro da Bologna e Romano Calandra di Oleggio. Dialoga con gli autori Monica Zanon (Moka), presidente dell’Associazione Licenza Poetica e redattrice. Letture a cura di Elena Locatelli e Beppe Deiana

Sabato 9 settembre ore 19
incontro con Rossana Frattaruolo da Ivrea e Alfredo Rienzi da Torino. Dialoga con gli autori Claudio Ardigò, critico letterario di Cremona. Letture a cura di Elena Locatelli

Sabato 16 settembre ore 19
incontro Maggie (Maria Mancino) da Imola e Ilaria Biondi da Parma. Dialoga con le autrici Monica Zanon (Moka). Letture a cura dell’Associazione L’Altra Eva di Oleggio.

È obbligatoria la prenotazione presso la Libreria Piccola Officina del Libro oppure via telefono/whatsapp al numero 346/9741228, poiché solo prenotando si potrà scoprire il cortile che ospiterà l’incontro.
Evento organizzato in collaborazione con la Piccola Officina de Libro di Oleggio, Il Babi Editore di Borgomanero e l’Associazione Licenza Poetica di Lesa.

In Copertina: un’immagine della edizione 2022 di “Poesia nei Cortili”

 

Parole a capo /
Mariateresa Bari: “Le stelle sono pesci” e altre poesie

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità. Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio. Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
(WISŁAWA SZYMBORSKA)

Al centro

Martellare un tu al centro
nel sasso lanciato
drenare lo squilibrio del fallimento
nel naufragio dei giorni
Compensare il tetro
con la luce del tuo nome
Rimbalza ora
sui pugni chiusi di pupilla
il verbo all’infinito
Tu coniughi mura e respingi

Multiversi

Almanaccando almanaccando
la vita si mette in cammino
e dilata navate
sul precario dei nostri orizzonti
Prima che si sciolga
in urlo d’azzurro
omelia di luce l’aurora
deflagra istanti
Prima che si compia
la bugia della fine

Le stelle sono pesci

Chiusa la custodia
odora di pece la pace
Ti abita
l’abbraccio della tavola
ti veste ti spoglia
nudo e muto
ti riconosce
Quando l’abisso si declina
le stelle sono pesci
ad ostentare un mare di silenzio

Fiancheggiare l’oltre

Nella furia di finestre d’alba
ruvido il trapasso di una stella
Il corpo adagiato
su creste arruffate
arruffate d’ombra e dolore
ingoia un sussulto
Nel fiancheggiare l’oltre
l’anima invortica

Il taglio di parole

Per rattoppare le storture
del disagio
rapace segreto
m’infilo nella cruna e pungo l’ignoto
Chiedo dimora a melodie arrossate
dalla vergogna della colpa
sul grido ancestrale
di armonie ribelli al piano
In sosta dal forte
pungo e cucio il taglio di parole

Mariateresa Bari è nata a Monza nel 71. Diplomata in violoncello presso il conservatorio N. Piccinini di Bari, ha al suo attivo un’intensa attività concertistica sia in formazioni da camera che orchestrali. Innumerevoli le sue collaborazioni ( in qualità di violoncellista) a recital poetici. È del 96 “Verso… Luzi”, per due voci e violoncello, portato in tournée in prestigiosi teatri italiani, con debutto a Firenze alla presenza del grande poeta fiorentino.
Mariateresa insegna nella scuola secondaria di primo grado, e vive a Palo del Colle (Ba), con la sua famiglia. Impegnata nel sociale, è presidente della fondazione Vittorio Bari, che ha come mission riproporre coraggiosamente l’arte come strumento educativo e la bellezza come modello di vita, ed essere faro per la promozione di eventi culturali.
Coltiva da sempre la passione per la scrittura poetica. Nel 2020 si è classificata seconda alla prima edizione del premio “Culture del mediterraneo” con la poesia “Archeologia di uno sguardo”.
Nel 2021 si è classificata al primo posto al concorso indetto dal comune di Palo del Colle sul tema “Il ruolo della donna nella società ” e al terzo posto al concorso nazionale “Alessandro Fariello” sul tema “sulle ali della libertà”. Seconda al concorso letterario nazionale “La cura della natura” associazione Maria Ruggeri città 2022, premio speciale del presidente dell’Accademia delle culture e dei pensieri del Mediterraneo nel 2022, menzione d’onore al premio Internazionale di poesia e narrativa città di Bitetto e terza al premio di poesia di Anzi, “Innanzitutto, poesia nel borgo”. Nel 2020 ha pubblicato con Nep Edizioni la sua prima silloge: “Intraverso, spiragli nell’essere”, che gode già di importanti recensioni. Alcune poesie sono presenti in antologie poetiche (“L’isola di Gary“, “L’isola di Gary, paesaggi di guerra e di pace”, “Fili d’erba”) ed anche nell’enciclopedia di poesia contemporanea edita dalla Fondazione Luzi. È Attiva nei Readings per la diffusione della parola poetica. Alcuni suoi versi sono stati pubblicati e commentati su diverse riviste letterarie e letti in dirette streaming e tradotti in spagnolo.

LO SCAFFALE POETICO
Com’è ormai consuetudine, inseriamo nella rubrica alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia. Buona ricerca poetica.

  • Valentina Meloni,  La tessitrice, Yod Edizioni, 2022
  • Giorgio Bolla – Valentina Meloni, Corrispondenze da un mondo increato, La vita felice, 2018
  • Vernalda Di Tanna, Fraintendere le stelle, Samuele Editore, 2021

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Salario minimo.
Firma la petizione a sostegno della proposta di legge

Pensa a tua figlia. Pensa a tuo figlio. Pensa alla loro vita. Pensa al loro lavoro. Pensa al loro futuro. Pensa al tuo.

Pensa che nella Costituzione italiana c’è scritto che la retribuzione deve essere equa e proporzionata. Pensa che in Italia ci sono tante persone che lavorano senza avere un contratto e una paga degna di questo nome. Pensa che ci sono anche tanti contratti firmati da gente che pattuisce retribuzioni inique e non proporzionate. Pensa che questa gente spesso non rappresenta nessuno ma fissa le condizioni per tutti, perchè ci sono imprenditori che accettano di firmare questi contratti. Per risparmiare sulla pelle e sul lavoro di tua figlia, di tuo figlio, o di te stesso.  Firma per la loro dignità, e per la tua.

leggi e firma qui

NOTA
17 agosto 2023: raccolte in pochi giorni oltre 200.000 adesioni

Contro il senso comune: ascoltare senza giudicare.
I genitori accolgano il disagio dei figli

Questa è la seconda parte del mio intervento su genitori, figli e scuola con cui mi inserisco nella discussione aperta su Periscopio da Mauro Presini e Nicola Cavallini, il primo con l’articolo  Che cosa APPrenderanno?, il secondo con l’articolo Il virtuale è reale: non è vero che i ragazzi non comunicano più . Sono veramente contenta di questa occasione che mi consente di esporre ciò che ho acquisito nell’approfondimento del tema introdotto da Mauro Presini, quello della preoccupazione per il ruolo della tecnologia nella vita delle e degli adolescenti. Posso perfino contare su una prima consapevolezza che Nicola Cavallini fa pensare sia già presente nella riflessione generale per sperare che il mio discorso, forse difficile da ricevere, possa non cadere nel vuoto. Nella prima parte,  qui,  ho scritto in “difesa” degli adolescenti; ora vorrei illustrare un punto di vista diverso sui genitori.

Contro il senso comune: ascoltare senza giudicare

“Affermare che questa cosa [il mondo virtuale] è negativa perché non la si capisce, può portare a vietare o stigmatizzare lo strumento in sé, che è esattamente il rovescio della medaglia di lasciarlo usare senza alcun limite e senza alcuna coordinata”, dice Nicola Cavallini. Sono d’accordo. Da qualche parte, forse fra i commenti all’articolo di Mauro Presini, una maestra scriveva di una mamma che non riusciva a togliere il cellulare di notte al bambino che altrimenti piangeva. Tali giudizi sui genitori ricorrono continuamente. Intanto è da notare che il padre non è citato nel discorso della maestra, poi questo tiro incrociato cade proprio sulla croce rossa: genitori ritenuti incapaci, spesso più le mamme, ma anche i padri, additati come colpevoli, che io vedo più come vittime o come figure fragili.

A me pare di notare che fra i genitori di ragazzi o ragazze con disagio, magari con psicopatologie, i padri, spesso, assumano un atteggiamento di negazione, di rimozione o stigmatizzazione e che a volte abdichino al loro ruolo o addirittura scompaiano fisicamente. Le madri devono quindi accollarsi completamente il peso di una relazione con i figli non solo difficile di per sé, ma anche in questo modo viziata. Non è sempre così: ci sono anche padri meravigliosi e madri meno efficaci, ma è chiaro che gli stereotipi e i condizionamenti sociali provocano tali effetti. Nella scena illustrata da Mauro Presini io immagino mamme succubi dei figli, e assenza della figura paterna. È forse lo stile prevalente oggi.

Eppure conosco genitori che, spinti dalla necessità impellente di affrontare la sofferenza dei figli, si mettono in discussione giungendo, con dubbi e lacerazioni, ad acquisire elevate competenze relazionali e di cura. Diventano dei veri esperti del malessere dei loro figli, solo che quasi sempre quello che apprendono è controintuitivo, e il senso comune non lo riconosce come corretto. 

Quello seguente è un esempio di ciò che intendo. Sul sito di Hikikomori Italia si trovano le cosiddette  “buone prassi” , elaborate dallo psicologo esperto del tema e fondatore del sito, Marco Crepaldi, e confermate dagli altri esperti. Tali buone prassi comprendono il mantenimento di una buona relazione con l’hikikomori e l’assoluta rinuncia a intervenire sui comportamenti sintomatici: l’utilizzo ininterrotto della rete, l’inversione degli orari tra sonno e veglia, il rifiuto di andare a scuola e tanto altro. Questo perché i sintomi sono conseguenza, non causa, di un malessere ed occorre curare il male per eliminare i sintomi. Per spiegarmi meglio uso la metafora che ho sentito da una psicoterapeuta che parlava di anoressia: il sintomo è una stampella. Serve a chi sta male per compensare un vuoto. Se si toglie la stampella, la persona sofferente crolla.

Probabilmente non vi sarà difficile immaginare che i genitori che applicano le “buone prassi” siano spesso giudicati e stigmatizzati, da insegnanti, familiari, amici che osservano dall’esterno. Questi genitori vengono considerati spesso deboli e acquiescenti e le figlie viziate. “Io lo butterei giù dal letto!”, “Bisogna portarla a scuola di peso!”, “Bisogna staccargli internet”.

Eppure la prima cura è proprio non esercitare nessuna pressione: non fare, dicono le psicologhe. Potete immaginare quanto ciò risulti difficile: supponiamo che vostro figlio abbia mal di pancia la mattina e non voglia andare a scuola. Voi non dovreste fare niente, non dovreste costringerlo a fare le analisi mediche, non dovreste sgridarlo perché sta su internet tutta la notte, non dovreste dirgli di andare da uno psicologo. Dovreste farvi vedere tranquilli e confortanti dicendo che è importante la sua serenità, che a tutto c’è rimedio. Immaginate il rapporto di questi genitori con i nonni, o gli zii, o magari fra padre e madre e poi con gli insegnanti: “Se non viene a scuola, come facciamo ad aiutarla?”. Perfino i servizi sociali a volte denunciano i genitori per evasione dell’obbligo scolastico. Anche certi psicologi spingono a forzare.

Quando i genitori presentano alle insegnanti queste situazioni, spesso sono denigrati, non creduti, definiti “avvocati dei figli”. Nemmeno gli psicologi a volte vengono ritenuti degni di fede, perché tanti insegnanti ancora non riescono a svincolarsi dall’idea di scuola che trasmette contenuti nel modo e nella quantità apprese da loro. La scuola non ha ancora chiarito a se stessa il suo mandato, per cui chi non è capace di raggiungere certi risultati, in un certo modo, non è adatto alla scuola, cioè non è. D’altronde mi pare che la concezione attuale sia quella di una scuola produttivistica, che forma per il lavoro, non per la cittadinanza e la ricerca della propria identità.

Con tutto questo non voglio certo dire che i genitori non sbaglino. Me compresa. Matteo Lancini sostiene che il problema sono gli adulti: una società che emargina i giovani, che non dà spazio, che li giudica incapaci e manchevoli, una società competitiva, che pretende il successo e il conformismo; genitori che non sopportano di vedere i figli in difficoltà o nella sofferenza, perché questo rivelerebbe il proprio fallimento.  Genitori che non vedono, che non accettano. Scuola che spesso, anche se vede, non si ritiene competente a gestire le situazioni.

Dal mio punto di vista, alla scuola, ai genitori, manca l’abc della comunicazione, che consentirebbe di essere capaci di ascoltare, dialogare, non colpevolizzare,  riconoscere le emozioni e i bisogni in sé e negli altri. Nel mio blog ho iniziato a introdurre riflessioni e suggerimenti pratici, (vedi qui), perché penso che questa sia la chiave per cambiare le cose, per cambiare la scena di quei bambini, di quelle adolescenti. I genitori vengono criticati a ragione, ma io penso che l’obiettivo non sia di trovare il colpevole: giudicare cristallizza una realtà, non la cambia. Io penso che occorra accettare, creare consapevolezza, dare potere.

Se almeno gli, le insegnanti apprendessero a comunicare, quella maestra, oltre a un semplice commento, riuscirebbe a empatizzare con la difficoltà della mamma e a sostenerla. Quella madre riuscirebbe ad accettare il pianto del figlio e il figlio, compreso nel suo dolore invece che rifiutato, ce la farebbe a rinunciare al telefono per dormire.

Vite di carta /
Storia della patriota Paola Del Din.

Vite di carta. Storia della patriota Paola Del Din.

Il 26 luglio 1944 Paola Del Din, che ha assunto il nome di copertura Renata per diventare agente del SOA (Special Operations Executive), parte da Udine per arrivare al sud, oltre le linee nemiche, e compiere la sua prima missione da patriota recapitando importanti documenti utili alla Liberazione nella parte d’Italia già raggiunta dagli Alleati.

nome in codice Renata Alessandro CarliniÈ il 26 luglio di questo 2023 e per coincidenza ho cominciato la lettura dell’ultimo libro scritto da Alessandro Carlini, Nome in codice: Renata. Storia di Paola Del Din, combattente della Resistenza e agente segreto, edito da UTET e uscito in marzo.

A pagina 45 trovo la data col giorno e il mese di oggi e mi soffermo a pensare: caspita, esattamente 79 anni fa, quando mia madre e mio padre erano ragazzi, poco più che ventenni. Ho scelto una lettura storica per questo scorcio bollente dell’estate, sottraendomi ai libri da leggere sotto l’ombrellone (quando mai li ho letti, tra l’altro?).

Altri libri dedicati alla seconda Guerra mi attendono per il resto di agosto, sono scritture più intime dedicate a persone che hanno lasciato memoria di quegli anni. Di uno di loro ho addirittura la copia del manoscritto e vivo con una certa emozione la fiducia che mi ha accordato la pronipote nell’affidarmi le parole che le restano del bisnonno.

Cercherò di entrarci in punta di piedi, con lo stesso delicato rispetto con cui Alessandro Carlini si è intrattenuto in lunghi incontri nella casa di Paola, a Udine, dal 2020 al 2022. Due anni di conversazioni intense, in cui Paola ha raccontato la sua vita all’ ‘allievo’ venuto per lei, per tesaurizzarne la memoria sugli anni che più lo interessano come giornalista e come autore di due pregevoli gialli storici ambientati a Ferrara nel periodo della Resistenza e nell’immediato dopoguerra.

Paola, che Carlini conosce nel 2020, grazie al presidente dell’ANPI di Poggio Rusco, mostra di avere una grande energia nonostante sia quasi centenaria, essendo nata nell’agosto del 1923 a Pieve di Cadore. Ha ricordi precisi e circostanziati. Custodisce con altrettanta limpidezza i dettagli sulle situazioni oggettive in cui si è imbattuta e sul loro significato storico, i dolori personali e familiari.

Custodisce le emozioni non dimenticabili con la compostezza a cui è stata educata in famiglia: su tutte la tragedia del fratello Renato, entrato nella Resistenza prima di lei e ucciso dalla milizia durante l’assalto partigiano alla caserma repubblichina di Tolmezzo, esattamente un anno prima della Liberazione.

Il libro comincia così: “Quale nome in codice ha scelto?” In principio c’è sempre il nome. Paola Del Din lo sa bene… In ogni nome c’è una storia. L’etimologia è questo, in fondo: trovare la storia dentro le parole“. Nell’atto di diventare un’agente del servizio segreto britannico Paola sceglie senza esitazione di chiamarsi Renata, per ridare vita al fratello che non c’è più e al significato di rinascita contenuto nel suo nome.

Per agire in difesa dei valori della democrazia come autentica patriota, è così che si definisce. Secondo Carlini la parola prevale in lei per lo spirito risorgimentale a cui rimanda e per la presenza duratura nel tempo storico che manca invece alla parola partigiano.

Partigiano si riferisce a una breve stagione della storia e contiene una accezione di significato più specifica, circoscritta a una sola parte politica. Pur avendo combattuto vicino a partigiani dei più distanti orientamenti politici, durante e dopo la guerra Renata si è tenuta distante dagli orticelli separati della politica: il suo rifiuto verso “le lotte intestine e spesso fratricide come quelle combattute in Friuli” all’interno delle brigate partigiane è il segno di una visione più ampia della democrazia che va riconquistata, dove le differenze vengono incluse anziché rimarcate.

C’è una cornice narrativa nel libro che a tratti si stacca dal quadro di Renata e della sua storia: in questa cornice il narratore-autore abbandona i panni dell’intervistatore, smette di essere l’ ‘allievo’ a cui la professoressa Del Din tiene una esemplare lezione di Storia ed Educazione Civica, per assumere due altri ruoli, uno più prezioso dell’altro.

gli sciacalli alessandro carliniIl primo è quello di giornalista, che gli ha permesso di ottenere in netto anticipo sulla data del 2024 il personnel file HS 9/414/5 con i documenti dell’agente segreto Renata conservati negli archivi di Stato britannici a Londra. Nel dicembre 2020, mentre “Regno Unito e Unione Europea concludono il loro divorzio, più o meno consensuale e pur sempre traumatico”, arriva la tanto attesa documentazione da Londra.

Carlini però non è in grado di consegnarla e condividerla subito con Paola: viene ricoverato in ospedale in attesa di un trapianto di cuore e rene che potrà restituirgli la sua speciale rinascita. La distanza forzata dura parecchi mesi ma rinsalda anziché spegnerla la solidarietà che è nata tra i due: l’ ‘allievo’ diviene compagno di viaggio.

Entrambi ora conoscono il logorio esistenziale di una lunga attesa, la difficoltà di tenersi pronti a un evento esiziale. Per Paola la seconda missione dell’aprile 1945, venuta dopo i lunghi mesi dell’addestramento in Puglia e in Toscana: trasferire documenti e materiali nel Friuli ancora da liberare paracadutandosi da un C47 nelle vicinanze di Udine. Per Alessandro affrontare il delicato trapianto, che sarà fattibile solo nella primavera del 2021.

il nome del male alessandro carliniQuando si rivedono nella casa di lei c’è il profondo interessamento di Paola per la salute dell’ospite ritrovato. Subito però si immergono nel recupero della memoria sugli anni della guerra e nella lettura dei documenti mandati da Londra. Renata vi compare come un ottimo agente al servizio della Liberazione. Va detto che nel 1961 anche in Italia, nella piazza d’armi di Padova, le sarà conferita la medaglia d’oro al valor militare.

Ma siamo ormai nel 2022, Paola è divenuta anche molto altro negli anni che sono seguiti alla guerra: moglie, madre, insegnante in Italia e ricercatrice negli USA.

Dopo quasi due anni di conversazioni, dopo avere condiviso e poi raccontato un tratto di strada tanto intenso, Carlini chiude il suo prezioso libro rivelando un dettaglio che dettaglio non è: in alcune mail scritte nei mesi dell’attesa a Paola è sfuggito di dargli del tu.

Nota bibliografica:

  • Alessandro Carlini, Nome in codice: Renata, UTET, 2023
  • Alessandro Carlini, Gli sciacalli, Newton Compton Editori, 2021
  • Alessandro Carlini, Il nome del male, Newton Compton Editori, 2022

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Nell’era dell’Ebollizione Globale

Nell’era dell’Ebollizione Globale


di Tommaso Perrone
Da LifeGate del 9 agosto 2023

Il mese di luglio che ci siamo lasciati alle spalle è cominciato con un giorno, poi due, poi tre. Infine quattro record di temperatura massima su base giornaliera a livello globale, dal 3 al 6 luglio. È poi proseguito con una settimana, poi due, poi tre. Infine, tutto il mese che si è appena concluso è stato da record: luglio 2023 è stato il mese più caldo mai registrato sul nostro pianeta, la Terra, da quando sono cominciate le rilevazioni ufficiali.

Dopo aver anticipato, già dopo “sole” tre settimane, che quello di luglio 2023 sarebbe potuto essere un mese senza precedenti nella storia dell’umanità, l’8 agosto i ricercatori di Copernicus – il programma dell’Unione europea che fa capo all’Agenzia spaziale europea – hanno confermato le loro previsioni. Il mese di luglio 2023 è stato più caldo di 0,7 gradi Celsius (°C) rispetto alla media dei mesi di luglio del periodo 1991-2020 e di 0,3 gradi rispetto al mese di luglio 2019, che finora deteneva il record. Non solo, i ricercatori stimano che il mese scorso abbiamo varcato “temporaneamente” la fatidica soglia di aumento della temperatura media pari a 1,5 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, cioè agli anni compresi tra il 1850 e il 1900. La soglia che scienziati e politica si sono dati nel 2015 con l’Accordo di Parigi (“ben al di sotto dei 2 gradi”) come tetto massimo per evitare che la crisi climatica si trasformi in una catastrofe.

Entrando nei dettagli, il record di temperatura media globale su base giornaliera è stato infranto nel mese di luglio. Il nuovo record oggi appartiene al 6 luglio 2023, con 17,08 gradi. Il record precedente era stato segnato il 13 agosto 2016 quando erano stati raggiunti i 16,8°C.

Ma la cosa straordinaria e che va sottolineata con forza è che ogni dannato giorno, dal 3 al 31 luglio, è stato battuto il record del 2016. Sui mezzi d’informazione si è cercato di coprire la cronaca, di dare i fatti più “rumorosi”, ci siamo tutti concentrati sul “poker di record” fatti registrare tra il 3 e il 6 luglio. Ma anche tutti – ripeto, tutti – i giorni successivi, fino al 31 luglio compreso, hanno superato il record del 2016. Questo significa che i 29 giorni più caldi della storia dell’umanità ora sono tutti firmati “luglio 2023”. E il record del 2016 dovrebbe essere scivolato in 30esima posizione.

Una condizione che ha spinto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres a uscire allo scoperto e annunciare alla comunità globale che l’epoca del riscaldamento globale è finita: “È iniziata quella dell’ebollizione globale”.

E le cause di tutto questo sono chiare, ormai ovvie. Per Carlo Buontempo, direttore del dipartimento Climate change service (C3s) di Copernicus, le temperature da record “sono parte di un trend di aumento delle temperature globali a dir poco drammatico. Le emissioni causate dalle attività umane sono il vero motore di questi aumenti”. E le emissioni di gas serra a cui fa riferimento Buontempo, è importante ricordarlo sempre e in modo limpido, sono a loro volta causate dai combustibili fossili, cioè carbone, petrolio e gas.

Sul tema ci è tornato anche lo stesso Guterres che ha bollato come inaccettabili i profitti extra fatti in questo periodo storico dalle compagnie che producono combustibili fossili, come è inaccettabile la passività dei governi: “I leader devono fare i leader, basta con l’esitazione e le scuse. È ancora possibile limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi centigradi, ma soltanto con un’azione immediata e repentina”.

Il nostro continente, l’Europa, è stato protagonista di un’ondata di calore che ha visto polverizzati i record di temperatura massima in varie località, dall’Italia (dove Palermo ha fatto registrare i 47 gradi, mentre in Sardegna – a Jerzu – sono stati toccati i 48 gradi) alla Grecia che ha raggiunto picchi intorno ai 46 gradi. Stranamente, però, è rimasto integro il record continentale di 48,8 gradi registrato a Siracusa due anni fa, l’11 agosto 2021. Unica eccezione: l’Europa settentrionale. Solo nei paesi scandinavi, infatti, la temperatura è stata uguale o poco sotto la media del periodo.

Come dicevamo, però, il record per il mese di luglio è globale. E infatti le ondate di calore non hanno risparmiato il resto dell’emisfero boreale, cioè settentrionale. Nel continente africano, in particolare nelle regioni settentrionali e centrali, dall’Algeria alla Tunisia (dove sono stati raggiunti i 49 gradi), dall’Etiopia all’Eritrea le massime hanno raggiunto picchi inesplorati.

L’America del Nord è rimasta soffocata da temperature anomale per giorni, dal Canada agli Stati Uniti occidentali e meridionali. Nella città di Phoenix, in Arizona, solo l’ultimo giorno del mese la temperatura è scesa sotto i 43 gradi Celsius. Mentre nei territori canadesi del Nordovest, molto vicini al Circolo polare artico, sono stati superati i 37 gradi. Anche in Groenlandia le cose non sono andate meglio, come testimoniato da una recente spedizione italiana.

Infine, l’Asia. Qui le ondate di calore hanno reso la Cina (e i paesi limitrofi come Thailandia e Vietnam) quasi invivibile, con il record di temperatura massima toccato il 16 luglio nella località di Sanbao: 52,2 gradi centigradi. Siamo nella prefettura di Turpan, provincia dello Xinjiang – la Death Valley cinese. Una condizione analoga a quella vissuta in India, dove i lavori all’aperto sono diventati rischiosi per l’incolumità delle persone, come raccontato dal nostro corrispondente da Calcutta, Gurvinder Singh. Mentre il Giappone ha dovuto scartabellare negli archivi per risalire fino al 1898 e ritrovare temperature analoghe a quelle del mese di luglio 2023.

Ma per rendere il mese di luglio davvero eccezionale, non si può non verificare cosa è successo nell’emisfero australe dove ora è in corso l’inverno. La temperatura è stata più alta della media in molti paesi, come le aree settentrionali di Cile e Argentina, ma anche Uruguay e Brasile meridionale. E l’Antartide ha fatto registrare estremi che si possono definire “anomali”.

E poi ci sono i mari e gli oceani. Ovvero la maggior parte della superficie terrestre, anche se molto spesso ce ne dimentichiamo solo perché viviamo sulla terraferma. In questi giorni, infatti, il Mediterraneo è stato descritto come un mare in ebollizione, con temperature da vasca da bagno più che da mare aperto. Temperature mai viste prima: la mediana giornaliera ha raggiunto i 28,71 gradi centigradi. Un dato che ha spinto il meteorologo scozzese Scott Duncan, diventato popolare sui social per le sue coperture precise e costanti, a scrivere in un tweet (si chiamano ancora così?) che “il Mediterraneo è ora fuori da ogni misurazione fatta fin qui. Non abbiamo mai misurato questo livello di calore nel bacino mediterraneo in qualsiasi periodo dell’anno. Ed è solo luglio. Di solito il picco viene raggiunto in agosto”.

In generale, però, da aprile a oggi le temperature delle acque superficiali sono state decisamente alte in tutto il pianeta, complice anche l’inizio del Niño, il fenomeno naturale per cui la superficie dell’oceano Pacifico si riscalda in modo considerevole su tutta la fascia equatoriale. Da metà maggio in avanti le temperature delle acque superficiali hanno raggiunto livelli anomali per qualsiasi periodo dell’anno e vicine ai 21 gradi centigradi.

“Mi piace pensare che la gente sia guidata dai fatti e dalle evidenze”. Vorrei chiudere questo numero straordinario di nuovo con le parole di Carlo Buontempo, l’italiano al vertice del C3s di Copernicus. Un uomo che sta contribuendo a rendere il nostro futuro migliore grazie alle osservazioni, alle ricerche e alle scoperte. Nell’intervista rilasciata al giornalista Ferdinando Cotugno per il quotidiano Domani ha dichiarato che il suo compito “è solo fornire le evidenze. Poi sta alla politica decidere”. E se la politica considerasse la transizione impopolare, allora è giusto che sappia – e che tutti noi sappiamo – che ci troveremo presto “a vivere in un clima molto diverso da quello in cui la nostra civiltà si è evoluta”.

E conclude lanciando un messaggio ai negazionisti che oggi si stanno divertendo a “inquinare” il dibattito pubblico, dalla tv ai social: “Contestare il legame tra emissioni e riscaldamento globale è come il terrapiattismo. Tagliare le emissioni non è solo una questione di responsabilità morale rispetto ai nostri figli, è una questione pragmatica. Conosciamo i fatti, abbiamo la possibilità di gestire il rischio”.

Immagine di copertina  National Geographic

Una montante marea di NO al Ponte sullo Stretto:
Messina inondata dai manifestanti

Una montante marea di NO al Ponte sullo Stretto: Messina inondata dai manifestanti

Il sabato appena trascorso ha visto la città di Messina inondata da una marea di manifestanti non solo costituita da cittadini peloritani: moltissime sono state le presenze dall’altra sponda dello stretto; così come pure diverse sono state le presenze registratesi dalle altre realtà territoriali regionali, intervenute con nutrite delegazioni; o soggettività venute a protestare anche da altri territori della penisola con significative rappresentanze.

Le cronache parlano di un successo straordinario, di un corteo enormemente cresciuto – qualitativamente e quantitativamente – rispetto alla partecipazione del presidio di Torre Faro, indetto lo scorso giugno per contestare la passerella politica del  ministro delle infrastrutture, Salvini, invitato dalla CISL ad un vero e proprio spot-dibattito pro-ponte.

Ma questo dell’altro ieri, bisogna ribadirlo, è stato un vero grande successo che, così come ha commentato  Corrado Speziale, in un suo articolo su scomunicando, «ha trasformato l’altrettanto importante corteo di Torre Faro, dello scorso 17 giugno, in un’ “anteprima” che ha dato il via ad una serie di manifestazioni in divenire, che assumeranno sempre più forza e consistenza nel tempo. Perché se il ministro Salvini e i suoi interlocutori interessati – scrive ancora Speziale – intendono rispettare quello che definiscono un cronoprogramma che porterà tra meno di un anno alla fatidica posa della prima pietra, in riva allo Stretto la protesta non tenderà affatto ad attenuarsi. Anzi, crescerà sempre di più».

La giornata è iniziata a Piazza Cairoli punto di concentramento del corteo, da cui i manifestanti – stimati nell’ordine di circa 5000 – hanno preso il via sfilando lungo le vie della città, per lanciare una massiccia campagna di resistenza e per dire – in modo chiaro e deciso – un grosso NO alla folle impresa di costruire il mega ponte sullo stretto.

Nella fase finale dell’iniziativa,  a Piazza Unione Europea (dove il lungo serpentone si è sciolto) campeggiava lo slogan No al ponte – No alle grandi opere, proiettato dagli organizzatori sulla facciata municipale. Nel frattempo, diversi interventi si sono alternati poco prima della chiusura, la quale è stata  affidata ad un concerto tenute da gruppi musicali dei territori di Scilla e Cariddi.

Vogliamo inoltre registrare un’importante rivendicazione, segnalata opportunamente anche da  Speziale, portata all’attenzione dal gruppo “Disabili pirata”  che – nel corso del corteo – si è fatto apprezzare per aver lanciato lo slogan originale Contro ponte e betoniere, abbattere tutte le barriere. Il predetto gruppo, «in virtù della sensibilizzazione per l’abbattimento delle barriere nell’ambito della difesa dei diritti delle persone con disabilità, ha promosso il prossimo Disability Pride che per la Sicilia, a conclusione del circuito nazionale di sette tappe, si terrà a Palermo il prossimo 22 ottobre».

Infine prendiamo nota di quanto ha dichiarato Luigi Sturniolo, da sempre attivista in prima fila delle battaglie NoPonte, sull’efficacia della manifestazione del 12 agosto: « la sua ricchezza, la sua pluralità, la gioia che ha trasmesso, ha scosso gli agit prop locali del ponte. Non sono tanti, ma sono influenti». Ed in modo ancora più incalzante continua: «Alcuni di loro ci guadagnano già col ponte e fanno parte di quel blocco sociale che trae vantaggio dal riavvio dell’iter progettuale.  Sì, proprio così – sottolinea l’ambientalista -, non dalla costruzione del ponte, ma dall’attivazione del cronoprogramma. Noi gli stiamo rovinando i piani e loro reagiscono scompostamente».

Concludendo, ci dice Sturniolo: «Provano a “definirci”, a “classificarci”, ma lo fanno male, non sanno che quando i movimenti irrompono nella società cambiano tutti gli equilibri pre-esistenti. Non possono capirlo perché misurano il proprio tempo di vita con la partita doppia delle entrate e delle uscite. Con buona pace di coloro che disinteressatamente hanno una preferenza per il ponte, questi che si avvantaggiano attraverso il riavvio dell’iter non hanno alcun interesse a una polemica razionale. Promettono galera e cariche della polizia, ma verranno travolti dalla gioia della comunità che difende il proprio territorio. Ci dispiace tanto, ma non abbiamo tempo da perdere con loro».

Insomma, dalla Sicilia sembrano risvegliarsi nuove speranze resistenziali che richiamano alla mente le grandi lotte del passato e che, scorrendo lungo la dorsale appenninica, si collegano al conflitto delle comunità alpine della Val di Susa. Non a caso nel tripudio di bandiere fra le altre sventolavano quelle dei NoTav

In copertina: immagine di Giordano Pennisi – Scattomancino. Messina, 12 agosto 2023

Diario in pubblico /
Notizie dal mondo che raggiungono il Lido degli Estensi

Notizie dal mondo che raggiungono il Lido degli Estensi

Nella quiete del Lido spesso Laido ma non più di tanto giungono le notizie del mondo e dei luoghi più importanti della vita intellettuale nazionale di cui Viareggio è stata ed è uno dei centri fondamentali. Qui operano le carissime amiche Anna e Laura che con cene quotidiane radunano amici, allievi, colleghi per tenere alto il nome della cittadina e le sue importanti istituzioni.

Naturalmente le telefonate quotidiane molto mi fanno rimpiangere i tempi in cui anch’io vivevo a Viareggio, avevo casa, partecipavo di quel clima e di quelle avventure intellettuali compreso il Carnevale che ho sempre molto amato.
Con fare disinvolto Anna mi tiene al corrente degli inviti e di chi partecipa alle sue grigliate che alimentano riccamente il mercato del pesce viareggino.

A questo punto scoppia l’invidia e con fare subdolamente ironico le dono un nome che rimarrà nella nostra storia privata e pubblica: la Grigliadora. Alla mattina cominciamo la telefonata a base dei piatti mangiati quando io scelgo la cena nel ristorante del bagno che ottimamente ci fornisce. E lei rovesciandomi nomi di chili di pesce comprati per la grigliata sente, credo con un po’ di invidia, che il mio piatto preferito, i ravioli di cernia, sta spopolando presso parenti e amici tanto da diventare la star della cena per il compleanno di Vittoria.

Mi risponde nominandomi ristoranti tipici che fanno parte dell’ambiente lucchese-viareggino come quello che ancora primeggia nell’amatissima Massarosa e in quella Versilia teatro decenni fa della mia vita mondana culturale tra la Bussola, la Capannina, il caffè Roma del Forte dei Marmi.

Ma è inutile ripercorrere il passato se non se ne distanzia il valore e le possibilità. Frattanto i pronipoti amatissimi, Sapientino e le Sbarabegole. il trittico intellettuale della famiglia si sono dati ad una attività commerciale di famiglia. Intrecciano portachiavi e braccialetti di filo di plastica che venderanno in spiaggia e presso i parenti.
Hanno pure un referente bancario il divano bank gestito dagli zii soprattutto da zia Doda che ha fatto del divano il suo luogo di soggiorno marino.

Alla mattina c’è il complesso affido di Benny che ormai sa che da noi troverà solo coccole, molte fette di mela il suo cibo preferito e Irina che vive in simbiosi con lui. Non abbaia più quando ce lo portano ma con aria di sufficienza attende la sua inesauribile porzione d’affetto che gli viene rovesciato addosso senza limiti. Mi guarda ironico come a voler dire <<visto come sono intraprendente?>>.

Nella via principale, tirata a lucido, i vogliosi commercianti con le super offerte dettate dagli sconti esibiscono facce annoiate e deluse. Sembra che il mercato non tiri, ma credo sia condizione nazionale ed europea.
Lenti passano i giorni ma nello stesso tempo incredibilmente veloci mentre io sogghigno pensando a quei presuntuosissimi intellettuali che hanno scritto e detto che la vecchiaia è l’età della saggezza. Ma quale saggezza. Probabilmente è l’età della disperazione perché per tutti lasciare la vita è il sacrificio supremo.

Beati coloro che credono. Almeno spes ultima dea non ha lasciato il vaso di Pandora.

Cover: La spiaggia di Forte dei Marmi a fine stagione

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Parole e figure /
Alla ricerca della felicità

La felicità sta nelle piccole cose. Anche in una tazza di tè

Una favola moderna quella che oggi presentiamo ai nostri lettori, un viaggio alla ricerca della scoperta della cosa più importante nella vita, sotto il segno dell’amicizia.

È il lungo e divertente viaggio quello dell’albo di Eulàlia Canal e Toni Galmés, La felicità è una tazza di tè, appena uscito in libreria per Terre di Mezzo editore.

Orso ha perso gli occhiali e li cerca ovunque. Senza non vede davvero nulla, i color sono sbiaditi e tutto gli pare in bianco e nero. Non può far nulla, nemmeno andare a pescare. Ed ha pure in programma una cenetta con Orsa, come mai farà senza i suoi preziosi occhiali, regalo del nonno?

Tasso ha perso il sonno. È quindi alla ricerca del riposo perduto. Che baccano e quante nuvole! Orso e Scoiattolo lo hanno davvero svegliato nel bel mezzo di un bellissimo sogno. E piove a dirotto pure, ora, con fulmini che squarciano il cielo grigio. Tanto vale accettare l’invito di Tasso ed entrare nella sua tana. Al coperto e al riparo si starà senza dubbio molto meglio. Quando poi viene offerto loro un delizioso e profumato tè alla fragola, con tanto di teneri biscottini al cioccolato, l’invito è ancora più bello.

Bisogna ammettere, però, che Scoiattolo batte tutti: si è messo in testa di trovare… la felicità. “Ah, e com’è la felicità?” gli chiede Orso. “Non lo so ancora”, risponde Scoiattolo, “ma ne parlano tutti…”. Tutti alla sua ricerca, allora.

Lupo è, invece, in cerca di amici. Nelle favole è sempre il cattivo e desta sempre molti timori. Gli stessi che hanno Orso, Tasso e Scoiattolo nel farlo entrare quando bussa alla porta della tana di Tasso, bagnato e infreddolito. Non si fidano. Forse i lupi non sono poi tutti uguali, qualcuno si salva. In fondo, non tutti gli scoiattoli sono imbroglioni, non tutti i tassi degli ingrati e non tutti gli orsi collerici…Nessuno scappa, Lupo cerca solo amici, lo ammette, e qui ne trova tre. Con una coperta e una tazza di tè, e tanta gratitudine.

La felicità, per Orso, è forse riavere i propri occhiali che si è mangiato per errore, con l’aiuto dello sciroppo del dottor Volpe? O fare una passeggiata romantica con Orsa, mano nella mano? Per Tasso è forse ritrovare il sonno? Per Lupo avere nuovi amici? E per Scoiattolo? Partire, girando il mondo, dopo aver incontrato mucche, pecore, pipistrelli, aironi, cavalli, castori e mandrilli, giraffe, aquile e serpenti per poi tornare? Chissà, forse sta semplicemente nelle piccole cose, di ogni giorno regalato.

Eulàlia Canal (testo) e Toni Galmés (illustrazioni), La felicità è una tazza di tè, Terre di Mezzo editore, 2023, 56 p.

 

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Eulàlia Canal è una psicologa e autrice catalana di libri per bambini e ragazzi, lavora come psicologa.

Ha vinto il Premio Barcanova de literatura infantil y juvenil. In Italia è uscito I fantasmi non bussano alla porta (Valentina edizioni).

 

Toni Galmés è un illustratore catalano. Insegna Storia del Teatro all’Università di Barcellona. Ha illustrato, tra l’altro, la serie per primi lettori, La casita bajo tierra (Penguin Random House Spagna).

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Dialogo-Invettiva tra un profeta matto e sé stesso

Dialogo-Invettiva tra un profeta matto e sé stesso

Non vi riconosco più. Non vi conosco più, e sono anche stanco di frequentarvi, di sentirvi parlare del nulla mentre il mondo, l’ambiente intorno a noi sta letteralmente collassando.
Volete qualche data? Eccovela. Nel 2050 parte della pianura padana sarà forse sott’acqua, ma voi continuate, continuate pure a parlare di dove andrà Lukaku.
Migliaia di persone ogni giorno muoiono di fame e di malattia in Africa, il continente che ha visto l’origine della nostra specie, si sta desertificando sempre più.

E Voi? Voi avete paura, paura che vengano qui, a prendervi il vostro benessere, le vostre cene al ristorante, il vostro aperitivo, le Nike da trecento euro, l’Iphone, le Audi e le Mercedes, le BMW. Più il disordine nel mondo aumenta e più invocate ordine interno, disciplina, intolleranza e mezzi repressivi attorno a voi, nella speranza di salvarvi. Ogni uomo dovrebbe occuparsi degli altri, salvare o aiutare il prossimo, non pensare solo a sé stesso, o ai soli familiari, invece voi lo fate, li fate morire in mare come bestie annegate in un sacco. Ma non capite, non capite che non sarà redento niente di ciò che non è stato assunto? Non vi riguarda vero? Nessun impegno verso il prossimo, nessuna assunzione di responsabilità: “Tanto non ci posso far niente, è inutile, sono troppi, ma poi io che c’entro? Che vadano a lavorare”. Intanto li state condannando a morte, consumando a più non posso, sottraendo risorse e materie prime ai loro paesi, per riempire gli scaffali dei centri commerciali. Negate loro la vita, la dignità, la salvezza, qui ed ora. Eppure continuerete, continuerete a far finta di niente, a costruire tante piccole felicità, vuote e personali, venate di malinconia negata, intrise di rabbia, continuerete a non pensare, a credere che non vi riguardi.

Volete altre date? Tra poco più di vent’anni è molto probabile che, in Italia, non ci saranno più soldi per pagare le pensioni di anzianità, già adesso il rapporto lavoratori/pensionati è 1:1. Sarà una sorta di punto zero dell’economia, anche i più anziani dovranno tornare a lavorare, come in Africa, come in certi paesi asiatici. Dite che non succederà? Può darsi, sempre ammesso che li abbiamo davvero vent’anni, forse è tutto quello che ci resta, perché si sta sciogliendo l’intera Groenlandia, assieme a buona parte del Pack al Polo Nord, e nessuno sa dire di quanto si alzerà il livello dei mari nei prossimi anni.

I grandi laghi ed i fiumi principali, in diverse parti del mondo, si stanno prosciugando a causa del prelievo eccessivo di acqua, come il Giordano, che gli israeliani hanno usato per irrigare le loro colture, o il lago Ciad, che fornisce acqua dolce a 20 milioni di persone. È solo questione di tempo. Dite che non c’è problema? Tanto dissaleremo l’acqua del mare. Peccato che per ogni metro cubo di acqua dolce, un dissalatore ne produce tre di acqua ipersalata, ma per un po’ basterà, poi ci penseranno gli altri, le generazioni a venire, non è un problema vostro.

Lo sappiamo tutti, lo vediamo attorno a noi, eppure fate finta di niente. Stiamo correndo verso l’autodistruzione, ma tanto cosa vi importa, avete i vostri vini pregiati, i vostri ristoranti esclusivi, male che vada, se avete meno soldi, il vostro spritz… Aperol o Campari? Scegliete. Un po’ di salatini, due patatine? No, meglio una bella apericena, e giù pasta fredda, crema fritta, affettati, pizza, olive all’ascolana…

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi.
Valeva solo per gli apostoli, non è vero? Basta divertirsi e non pensare più a nulla, se non a sé stessi, avere soldi in tasca da spendere, a tutti i livelli, tanti o pochi che siano. Nutrire solo il corpo, non l’anima, ma l’anima è immortale, che lo vogliate o no, non si nutre di cibo, e la mancanza di pensiero, l’assenza d’amore per il prossimo lentamente la atrofizzano, per sempre. Ad un certo punto, non la sentirete più dentro di voi, diverrete aridi, sola prassi, tecnica, azione e reazione.

Ma tanto che vi importa? Basta consumare. Infatti stiamo consumando l’intero pianeta, come locuste in un campo di grano. Non ci fermiamo mai: avanti, avanti, sempre avanti, tanto il progresso ci salverà! Ho visto a cosa serve il progresso. A riempire di chiacchiere inutili, di opinioni infondate e dannose, di sfide pericolose i Social; ad annichilire intere generazioni, sublimate dagli smartphone che annullano la realtà fisica in funzione di quella virtuale, riducendo al minimo le relazioni, attraverso mondi inesistenti. Del resto, la realtà fisica è oramai troppo degradata per essere affrontata senza averne paura. E voi l’avete, tanta. Siete così terrorizzati da negare tutto ciò che sta arrivando: cambiamenti climatici sempre più invasivi, mancanza di risorse e materie prime, d’acqua, di cibo. Il futuro è un baratro insondabile, di fronte al quale la mente vacilla. Ma non importa vero? Godiamoci il presente…

Eppure attorno a voi, tanti lavorano tutto il giorno, lottano fino allo sfinimento con bollette, dentista, caro libri scolastici, malattie invalidanti (proprie, dei figli, dei parenti), aumento dei prezzi, del cibo e del carburante. E voi, in tutto questo? Voi pensate ad arricchire. Introdurre una patrimoniale? “Ma scherziamo? Perché devo dividere i miei soldi con gli altri? La mia villa, il motoscafo d’altobordo, me li sono guadagnati io, e poi lo Stato si prende già abbastanza in tasse…”.

Ormai non ho più parole per voi, mi dispiace. Fatico anche ad amarvi, voi, piccoli e grandi ricchi del pianeta, ma anche voi, persone comuni, che ne imitate in minore lo stile ed i modi di vita, che comprate Gratta e vinci o giocate al Superenalotto nella speranza di arricchire improvvisamente e fregarsene di tutti. Non sopporto più la vostra indifferenza, la vostra insensibilità. Voi, venduti ad un falso dio, il Denaro.

(da “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano“, del 13 agosto 2023)

Succede a Barbieland

Barbie è un film uscito negli Stati Uniti nel 2023 e attualmente presente nei circuiti italiani, diretto da Greta Celeste Gerwig. Regista, sceneggiatrice e attrice statunitense, la Gerwing è diventata famosa dopo aver lavorato in diversi film mumblecore. Ha collaborato con Noah Baumbach in ‘Lo stravagante mondo di Greenberg’ (2010), ‘Frances Ha’ (2012) e ‘Mistress America’ (2015). Ha anche recitato in film come ‘To Rome with Love’ (2012), ‘Jackie’ (2016) e ‘Le donne della mia vita’ (2016). La pellicola Barbie è il primo adattamento cinematografico live-action della celebre serie di fashiondoll della Mattel ‘Barbie’.

Il film ha inizio nel fantastico mondo di Barbieland, una società dominata dalle femmine, dove la classica Barbie e tutte le altre amiche conducono una vita appagante, ricoprendo professioni prestigiose come dottoresse, avvocate e politiche, mentre i loro corrispettivi maschili, i Ken, si dedicano ad attività ludiche, soprattutto in spiaggia.

Un bel giorno nella mente della protagonista emergono pensieri ‘umani’, come quello sulla morte. Da quel momento in poi niente è più come prima. Da bambola perfetta, Barbie inizia a sviluppare imperfezioni che finiscono per farla sentire un’emarginata. Decide così di rivolgersi alla saggia Weird Barbie, anche lei emarginata dalla società per i suoi difetti fisici, che le consiglia di andare alla scoperta del mondo reale, dove troverà la soluzione a tutti i suoi problemi. Decisa a riappropriarsi della sua precedente perfezione, Barbie parte per il mondo umano, dove viene raggiunta inaspettatamente da Beach Ken, che si nasconde nella sua decappottabile.

Durante il loro viaggio, Barbie e Ken affronteranno varie sfide e vivranno esperienze significative. Nel frattempo, Ken viene a conoscenza del sistema patriarcale e si sente rispettato e accettato per la prima volta. Tornato a Barbieland, convince gli altri Ken a prendere il sopravvento e le Barbie vengono sottomesse a ruoli minori come governanti, casalinghe e fidanzate. A loro volta, le Barbie si liberano dai Ken, manipolandoli sentimentalmente e facendo in modo che combattano tra loro.
Dopo vari accadimenti, le Barbie si rendono conto dell’errore del loro precedente sistema sociale e decidono di cambiare Barbieland, iniziando un percorso verso la parità di trattamento per i Ken e tutte le bambole emarginate. Alla fine, la Barbie protagonista, ormai insicura sulla sua identità, decide di diventare umana e tornare nel mondo reale.

Il film ha avuto un grande successo:

– È il film, diretto da una donna, che ha incassato di più nel primo giorno di programmazione, 155 milioni di dollari.

– È il primo film live-action, diretto da una donna, a raggiungere il miliardo di incassi nel mondo.

– È il film che ha registrato il miglior incasso per una pellicola della Warner Bros.

Inoltre, il film ha destato alcune critiche da parte di esponenti politici del Partito Repubblicano e dell’area conservatrice americana che vedono, nella separazione tra la ‘visione’ del mondo delle Barbie e quella dei Ken, l’esaltazione di un femminismo oltranzista. Altra critica è stata quella di aver inserito alcuni attori appartenenti alla comunità LGBTQ+ nel cast. Entrambe le critiche mi sembrano fuori luogo.

La visione di questo film fornisce lo spunto per alcune considerazioni:

1- Il mondo di Barbie che apre il film è stato definito, in maniera inappropriata, un matriarcato ma il matriarcato non è solo un patriarcato al contrario, come superficialmente è stato definito da produttori e critica. ‘Matriarcato’ deriva dal latino mater (madre) e dal greco -άρχης (arché). A questo termine si tende ad attribuire il significato di ‘dominio delle madri’ o ‘governo delle madri’, per indicare un sistema sociale speculare al patriarcato ma con ruoli di potere ribaltati. In realtà, non è così. Il significato più antico del termine ‘arché’ non è dominio ma ‘inizio’ (e quindi traducibile con una frase del tipo ‘All’inizio le madri’).
I sistemi matriarcali non sono un patriarcato rovesciato, ma organizzazioni sociali con caratteristiche uniche. Secondo Goettner-Abendroth (si veda: https://www.hagia.de/it/chi-siamo/), la struttura del matriarcato si articola su quattro livelli: a livello economico, è una società di mutualità economica basata sulla circolazione dei doni, dove le donne distribuiscono i beni; a livello sociale, è una società orizzontale, di discendenza matrilineare, in un contesto di uguaglianza di genere; a livello politico, è una società egualitaria di consenso, in cui la casa del clan è il nodo di connessione del processo decisionale; a livello religioso e culturale, è una società di culture sacre del divino femminile, con una profonda attitudine spirituale che permea ogni aspetto della vita.
È proprio la centralità del ruolo economico e spirituale delle donne che, nelle società matriarcali, dà loro grande potere locale e influenza sull’attività degli uomini. L’autorità femminile mette in atto dei modelli diversi rispetto alla leadership maschile ma non necessariamente ribaltati o in antitesi come la contrapposizione matriarcato/patriarcato propone. Tra l’altro, tali modelli non sono quasi mai supportati da struttura di rinforzo come polizia o istituzioni di controllo.
Chiarito ciò, matriarcato e patriarcato non sono il rovescio della stessa medaglia ma strutture organizzative molto diverse che si basano su premesse etiche e valori non opponibili.

2- Un secondo tema affrontato nel film è quello della disabilità.
A Barbieland una Barbie con difetti è emarginata. È così nel film ma era così anche con le Barbie-bambole. Mi ricordo quando ero piccola e mi è stata regalata la mia prima Barbie. Altissima, magrissima e biondissima. Il motivo per cui mi piaceva molto era proprio quello. Incarnava il modello di donna appetibile in quegli anni. L’antitesi della disabilità e l’incarnazione dello stereotipo imperante.
Non mi sarebbe di certo piaciuta se fosse stata miope, grassa e con l’acne.
È stato così per me, come per molte altre adolescenti. È utile ricordare che la società occidentale, fin dalle più remote origini, si è fondata su alcuni canoni estetici incentrati su un corpo proporzionato e armonico. Proprio per questo motivo, ha respinto nelle categorie della ‘diversità’ quelle persone che – a causa di menomazioni fisiche, psichiche e sensoriali – si discostavano dai canoni estetici dominanti.
Oggi la sfida per le persone con diversa abilità risiede soprattutto nella possibilità di guadagnarsi lo spazio per il riconoscimento della propria individualità, per pensare e progettare guardando al futuro e nel rispetto del riconoscimento della normalità. La normalità è un diritto che riguarda la possibilità di partecipare ai vari contesti di vita, potendo assumere diversi ruoli: nella scuola, come studente che apprende; nel mondo del lavoro, come individuo che contribuisce alla produzione, nel contesto culturale ricreativo, come fruitore, nello sport, come atleta. Le persone con disabilità, come tutti, vogliono essere riconosciuti nelle loro competenze, capacità ed interessi; vogliono essere riconosciuti nella loro individualità, e proprio come chiunque altro affermano il diritto di poter parlare da protagonisti. Anche su questo fa riflettere questo film che parla di barbie.

3- Un terzo tema affrontato da questo film è quello del mondo umano che è il mondo ‘vero’,  dove non è tutto bello, ma dove si può vivere ritrovando sé stessi.
Questo è forse il più utopico dei contenuti proposti dal film. Davvero il mondo umano è quello dove si può ritrovare sé stessi? Chi dice questo a tutte le donne vittime di violenza maschile? A tutte quelle che hanno perso il lavoro o che sono state lasciate per donne più giovani e belle?
Ma vale anche se si parla di uomini. Chi lo dice a tutte le vittime di incidenti sul lavoro, a tutte gli uomini lasciati, a tutti gli uomini vittime di malattie professionali?

Eppure, nonostante la leggerezza del film, questo ancoraggio al mondo reale come unico luogo all’interno del quale si può formare una solida personalità in grado di resistere al tempo che passa, mi sembra degno di attenzione e anche geniale nella sua ricorrenza cinematografica.

Proprio nella caducità del mondo reale pieno di accidenti dai quali non necessariamente si riesce a rialzarsi, si intravvede la strada per ritrovare sé stessi. Tale strada è quella di acquisire sufficiente lucidità per fare i conti con il deterioramento fisico che inevitabilmente ci aspetta e con il suo epilogo, la morte. Attraverso questo percorso interiore ed esteriore insieme, accidentato, non a senso unico, a volte doloroso e a volte anche violento, esiste l’unica via possibile per ritrovare un senso al nostro esserci. Quel senso vero e profondo che non ha bisogno di capelli biondi e di fisici perfetti ma che si nutre di ossigeno per vivere, di cibo per crescere, del cervello per inventare, della preghiera per sperare.
Un mondo reale che permette di superare le limitazioni che ciascuno ha, rendendoci conto che facciamo parte di un ‘tutto’ molto più grande di noi e che questo ‘tutto’ ha in sé il germe dell’eternità. In questo senso il film barbie è carino e sereno, da consigliare per una sera estiva in cui si sospende il tempo frenetico delle nostre giornate in città, e poi, mentre si guarda il film, si può mangiare il gelato, uccidere una zanzara, smettere per un po’ di guardare l’orologio e pensare che è tempo di vacanza. Non perché la vacanza rappresenti la stupidità, al contrario, perché sia un tempo rigenerante e, al contempo, molto reale. Regaliamoci un po’ di leggerezza in più. La trovo una delle strade possibili per convivere con gli accidenti della vita, senza troppo rancore. Ritornando al film, è da notare che quando la protagonista comincia a pensare alla morte inizia la sua storia, quella vera.

Il Parco del Delta del Po conferma la vendita dell’Ortazzo a società immobiliare. Se hanno a cuore l’ambiente, si dimettano.

Non ci sarà bisogno di accedere agli atti: il Parco del Delta ha già ammesso, ma solo dopo il nostro articolo, che le centinaia di ettari della proprietà cosiddetta “Immobiliare” a Lido di Classe, sono stati acquistati non da un ente pubblico, ma da un’altra società immobiliare. Un’area tra le più importanti per biodiversità dell’Alto Adriatico, sottratta alla furia cementificatrice degli anni ’70 con una battaglia memorabile dal WWF, con la collaborazione anche di Italia Nostra e di tanti naturalisti che lottavano con coraggio sul campo per la tutela delle nostre zone più preziose, giunte a noi solo grazie a loro e che oggi assistono attoniti a quanto successo.

Il Parco del Delta del Po, unico tra i vari Enti coinvolti, ha ritenuto di dover replicare al nostro articolo, e lo fa nel modo peggiore: alludendo addirittura ad una “calunnia”. Si legge infatti “Prima di dichiarare pubblicamente che l’Ente Parco non si è interessato all’acquisto dell’Ortazzo e dell’Ortazzino, siti naturalistici in area ravennate presso la foce del Torrente Bevano, bisognerebbe informarsi se questa dichiarazione corrisponde al vero, altrimenti diviene una bonaria calunnia, espressa per gettare discredito sul Parco stesso”. Ebbene, nell’articolo Italia Nostra invece aveva scritto semplicemente, citando il parco del Delta una sola volta: “… pare che nel totale silenzio degli enti pubblici (Regione, Provincia, Comune, Stato, Parco del Delta del Po), l’immensa zona (circa 500 ettari) cosiddetta “dell’Immobiliare” a Lido di Classe, compresa tra la Riserva e la Pineta di Classe, sia stata aggiudicata all’asta giudiziaria per una bazzecola (sembra, 500 mila euro) non già da un ente pubblico, ma… da un’altra immobiliare!”

Nessuno ha parlato dell’interesse o meno all’acquisto da parte del Parco – cosa che infatti non potevamo sapere -, ma dell’imbarazzante silenzio con cui è stata avvolta la vicenda, che viene rivelata solo ora dopo il nostro articolo, e a cose fatte. Verso la fine, la nota si conclude con: “Tuttavia, preme ricordare ed evidenziare, a chi avesse dubbi e timori, come i vincoli del piano territoriale del Parco e di rete Natura 2000 rendano l’area di fatto intoccabile e assolutamente protetta da ogni punto di vista. L’impegno a non cambiare queste norme costituisce al momento, in assenza di fondi disponibili, ciò che l’Ente Parco può fare. E non è cosa da poco.” Non è cosa da poco rispettare leggi e Direttive europee dall’ente preposto alla conservazione dell’ambiente del Delta del Po, su un’area di quella rilevanza? Un’affermazione che lascia attoniti.

Bene, se i professionisti alla guida del Parco si sono trovati in queste condizioni, dove nessuno degli enti dotati di capacità di spesa ha voluto farsi carico di una cifra irrisoria ma ha lasciato che un patrimonio ambientale rilevantissimo e unico a pochi metri dal mare finisse nuovamente nella mano privata dei costruttori immobiliari, ed anzi, l’unica cosa che possono fare è di garantire ciò che d’ufficio e d’obbligo dovrebbe essere già pacificamente assicurato, abbiano un moto di dignità, si rechino da coloro che li hanno nominati, vadano dai Comuni e dalla Regione inadempienti e rassegnino le proprie dimissioni.

Italia Nostra sezione di Ravenna

Documentazione:

Il Resto del Carlino, 13 agosto 2023, La vendita di Ortazzo e Ortazzino I proprietari puntano a edificare

Estense.com, 9 agosto, 2023, Ortazzo e Ortazzino, la precisazione dell’Ente Parco

In copertina: uno scatto dell’Orto e Ortazzino (foto www.lidodiclasse.com)

Lo Cunto de le Cunti /
Chi ha dormito nel mio letto?

Un progetto a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini
Hanno collaborato Fabrizio Bonora e Marcello Brondi

Prosegue su Periscopio  – e vi terrà compagnia ogni giorno per almeno un mese – la  ‘Lo Cunto de li Cunti’: Il riferimento è naturalmente al grande Giambattista Basile (pseudonimo anagrammatico: Gian Alesio Abbattutis, Giugliano in Campania, 1566 – 1632), il primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare.
Siamo partiti da una idea semplice, essenziale, quasi elementare: presentare al pubblico (quello di Ferraraitalia e quello più vasto di You Tube) brevi ‘letture ad alta voce’ . Adottando però una formula inedita. A differenza delle tantissime (e lodevoli) esperienze del genere, e che si sono decuplicate durante questo tempo di clausura virale, qui troverete solo Racconti di Qualità interpretati da Lettori di  Qualità (almeno, questa è stata la nostra ferma intenzione).  Abbiamo scelto racconti brevi (non più di 10 minuti di lettura, a volte molto meno), racconti  classici e contemporanei, editi o inediti. E abbiamo affidato la lettura a voce alta a professionisti o semiprofessionisti. Vedrete anche che ogni video rispetta un format particolare, anche l’abbigliamento degli attori-lettori, il bianco o il nero, alludono a qualcosa: al pubblico svelare questo piccolo segreto.
Agli Autori, agli editori e agli interpreti abbiamo chiesto e ottenuto una liberatoria. Crediamo infatti che il lavoro culturale
(la scrittura come lo stare in scena) debba essere adeguatamente compensato: oggi in Italia questo non succede, ed è uno scandalo per un Paese che dovrebbe essere un faro dell’Arte, della Cultura, della Bellezza. Quando questo quotidiano avrà un minimo di portafoglio a disposizione, dare il giusto compenso a chi produce e veicola cultura sarà la prima cosa che faremo: ci prendiamo questo impegno già da oggi.
Intanto: buona visione, buon ascolto, buona lettura.
(I Curatori)

Francesco Minimo, Chi ha dormito nel mio letto, letto da Marcello Brondi

CHI HA DORMITO NEL MIO LETTO?

Chi ha bevuto dal mio bicchiere? Chi ha mangiato nella mia scodella, chi si è seduto sulla mia poltrona, chi ha usato il mio spazzolino, chi ha fumato la mia pipa. E soprattutto (quella cosa lo faceva veramente imbestialire) chi ha dormito nel mio letto.
Tutte le notti era la stessa storia.

Piano, ragioniamo, mi chiamo Filippo Torelli e questa è la mia casa, di mia esclusiva proprietà, me l’ha lasciata mio zio. Sono figlio unico, niente moglie e niente figli. Cioè a dire che nessuno, dico nessuno, può vantare un qualche diritto sulla mia bellissima casa. Ora, date un’occhiata ai catenacci, alle chiavi (ma chiavi sul serio, non delle yale da due soldi), controllate le sbarre di ferro, le inferriate doppie, i cancelletti di maglia d’acciaio davanti alle portefinestre; insomma, credetemi, in casa mia non entra nemmeno un topino, figuratevi un ladro, un intruso, un vagabondo. Eppure non si riesce a stare in pace. Tutte le notti è la stessa storia.

Ma non era un problema solo del fu ingegner Filippo Torelli. Gli altri la pensavano esattamente come lui. Anche gli altri, una trentina o qualcuno in più, gridavano, minacciavano, sbattevano i piedi. Ognuno protestava il suo sacrosanto diritto sul proprio bicchiere (e tutti il medesimo bicchiere), e sulla scodella, la poltrona, lo spazzolino da denti, il vecchio letto di noce. Al numero civico 43 di via Fondobanchetto tutte le notti c’erano discussioni. E non era la solita animata, rissosa, tipica assemblea di condominio, vi giuro, era mille volte peggio.
Fino a mezzanotte filava tutto liscio. Era una zona tranquilla della città, la più antica, il cosiddetto “castrum byzantinum”. Ma ecco, a mezzanotte in punto, l’ora canonica dei fantasmi, iniziava la baraonda. Che durava per ore. Le voci si spegnevano, di colpo, solo con il primo raggio dell’aurora.

Se pensate che tutti i fantasmi, tutte le anime dei trapassati, siano presenze diafane, timide e discrete, malinconiche e amanti del silenzio, siete fuori strada. Questo non era comunque il caso dei proprietari della casa di via Fondobanchetto 43. La casa, dall’anno di costruzione ad oggi, era stata ripetutamente oggetto di atti di successione, e donazioni, compravendite, addirittura di un paio d’aste giudiziarie a seguito del fallimento del proprietario.
Non si scappa, de jure tutti i fantasmi inquilini erano titolari del medesimo titolo di proprietà. Il punto era fargli capire che tale titolo, esclusivo fin che si vuole, poteva e doveva essere esercitato in comunione con tutti gli altri aventi diritto. Macché, abituati in vita a disporre di quel bene – dico la casa e tutto ciò in essa contenuto – in modo totale, senza restrizioni di sorta, non gli entrava in testa che il loro nuovo status imponeva un diverso comportamento.

Io, vivo e vegeto se dio vuole, visitando per conto di una stimata agenzia immobiliare la casa infestata (così era rinomata per quel fastidioso baccano notturno e per questo preciso motivo non trovava punto un acquirente), mi sono apposta trattenuto oltre il tramonto, per tutta la notte, fino all’alba.
Per spiegare la situazione. Per farli ragionare.
Sono un buon parlatore, un ottimo agente, ma non c’è stato verso. Allo scoccare della mezzanotte, non un minuto più tardi, una donna dalla voce stridula si è messa a gridare come un’ossessa: Chi ha mangiato nel mio piatto? Alla sua, si è sovrapposta la voce per me irriconoscibile dell’ingegner Torelli (da vivo ci frequentavamo, era persona mite e dai modi cortesi) sbraitando: Chi ha bevuto dal mio bicchiere? E una terza, totalmente fuori di sé: E chi ha dormito nel mio letto?

Niente. Non mi hanno fatto nemmeno parlare.

Francesco Minimo, Chi ha dormito nel mio letto, tratto da: Noi fantasmi. Racconti quasi fantastici, inedito, 2018

Guarda le altre videoletture del Cunto de li Cunti [Qui] 

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Carcere assassino

In carcere si muore e non è solo una metafora per dire la non-vita di quel non-luogo: si muore concretamente, suicidati dal carcere. Susan, quarantatre anni, deceduta nella notte di ieri, dopo un mese di digiuno durante il quale chiedeva invano di poter rivedere il piccolo figlio. Azzurra, 28 anni, affetta da problemi psichiatrici, trovata impiccata in cella, ieri pomeriggio.

di Nicoletta Dosio
da pressenza del 12.08.2023

Entrambe erano recluse al Lorusso Cutugno di Torino, una da poco più di un mese, l’altra da alcuni giorni. Con loro il numero dei suicidi nelle carceri italiane nei primi otto mesi del 2023 sale a quarantatre, sedici tra giugno e agosto.

Occupavano due celle di quello che viene pomposamente definito “Reparto di articolazione tutela salute mentale” . In realtà si tratta di due squallide celle, le prime della sezione Nuove Giunte, che differiscono dalle altre solo perché più disadorne, illuminate giorno e notte, sotto l’occhio insonne della telecamera.

Di tutela della salute mentale non c’è neanche l’ombra… caso mai è vero il contrario: non solo non esiste personale specializzato, ma, rispetto al resto della sezione, aumenta l’isolamento, l’impossibilità di socializzare, il controllo poliziesco, il vuoto pesante di un tempo che non passa mai e l’angoscia che sale con la precarietà del futuro.

Il carcere non solo non cura la malattia mentale, ma la crea e la alimenta.

La notizia di queste morti rimbalza sui giornali e mette in moto il rimpallo delle responsabilità, insieme alle dichiarazioni di impotenza. I sindacati delle guardie carcerarie chiedono più agenti, la direzione si giustifica col sovraffollamento e la precarietà delle strutture.

Quanto ai garanti dei diritti dei detenuti, la garante comunale si lagna che “Nessuno ci aveva informati”. E il garante regionale è ancor più sintetico…

In realtà, nella maggior parte dei casi , a garantire il rispetto minimo dei diritti e ad ottenere qualche miglioramento della condizione carceraria sono,  come sempre, le lotte dei detenuti, mentre i garanti, più che una presenza concreta, sono un ufficio del palazzo comunale e regionale…

Oggi, insieme al ministro della Giustizia Nordio, giunto in visita alle Vallette, c’erano tutti. Il succo dei colloqui è stato esposto in conferenza stampa. Promesse generiche di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, con progetti fumosi, nel cui orizzonte non entrano indulti né amnistie, caso mai la separazione tra detenuti più e meno pericolosi con l’utilizzo di strutture quali le caserme dismesse: dunque non l’alternativa al carcere, ma il carcere diffuso…

Se c’era qualche timore di inchieste, il ministro ha contribuito a fugare le preoccupazioni dei responsabili. “La mia non è un’ispezione, ma una manifestazione di vicinanza del ministro e del suo staff in questo momento di dolore, ma anche di vicinanza alla direzione e alla polizia penitenziaria…”.

Loro, le vere vittime, i dannati della terra e le ragioni per cui qui “si vive o si muore per un sì o per un no” sono rinchiusi più in là, nei gironi interni della prigione.

Mentre negli uffici della direzione si scattano le fotografie di rito, ai blocchi di detenzione si alza la protesta: fischi, grida, battitura delle sbarre e dei blindi… L’umanità reclusa urla rabbia e dolore, l’invivibilità delle celle sovraffollate, la sete d’aria libera, il sopruso quotidiano di un mondo senza giustizia, il bisogno di dignità e l’angoscia del dopo, di un fuori che si preannuncia come ostile e inospitale.

Sono loro la voce di Susan, Azzurra, Graziana, Antonio, Denys…

Il carcere uccide anche la speranza.

Eppure la soluzione opposta al carcere esiste ed è la giustizia sociale, quella che renderebbe il mondo più bello, più vivibile per tutti.

Questo non è il sogno. E’ la meta.

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