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Vite di carta /
Amy Foster e il vecchio che aveva le ali

Vite di carta. Amy Foster e il vecchio che aveva le ali.

Certi racconti  possono riapparire in un giorno torrido di agosto e riportare intatte le loro suggestioni. Mi è successo con Amy Foster, il racconto lungo che Joseph Conrad scrisse e pubblicò nel 1901 e che in tempi recenti ha avuto due nuove traduzioni: di Tania Zulli per le edizioni Marsilio nel 2019 e di Susanna Basso per Einaudi nel 2022.

È andata così: rimetto in ordine interi faldoni di fotocopie e documenti degli anni scolastici passati e salta fuori dall’annata 2003/04 un racconto di Gabriel Garcia Márquez, Un signore molto vecchio con certe ali enormi.

Il  titolo è accattivante, come accade spesso nella sua narrativa, e c’è accanto una mia nota a matita che dice “Il racconto preferito da Martino Gozzi“. Fermi tutti, un lettore di grande esperienza come Martino mi lancia subito l’imperativo categorico di leggere il testo. Lo incomincio, lo lascio e poi ne riprendo la lettura mentre sotto la superficie della storia si creano a strati ricordi e risonanze di altre storie.

vite di carta un signore molto vecchio con certe ali enormiQuella in cui mi inoltro è strana, piena del realismo magico che è uscito a fiumi dalla penna di Márquez e gli ha valso il Nobel nel 1982: un vecchio dall’aspetto di “uno straccione” viene trovato nel fango da una coppia che vive in un paesino dell’America Latina non meglio precisato: è un naufrago?

Se lo chiedono Pelayo ed Elisenda, che intanto lo chiudono nel loro pollaio, perché non sanno che fare con uno che è dotato di un paio di ali giganti e non riesce quasi a muoversi nella mota che si è creata dopo tre giorni di pioggia.

Arrivano i vicini a guardarselo e a chiedersi chi sarà. Qualcuno dice che è un angelo e scatena con questa voce un via vai ininterrotto di visitatori, malati e non, vicini e lontani, che vengono a vederlo, sperando di trovare in lui il salvifico “alcalde del mondo” o il “generale” capace di vincere tutte le guerre.

Intanto passano i mesi dell’inverno: l’angelo vecchio resiste al freddo e al cibo ondivago che gli viene buttato; non ha reagito alle domande di tanta gente, perché parla una lingua incomprensibile, si è lasciato osservare e colpire dai sassi esplorativi che qualcuno gli ha lanciato. Dopo mesi di clausura e di pazienza, mentre le pareti del pollaio si sfasciano, a lui rinascono nelle ali certe “penne grandi e dure”, con cui un bel giorno tenta di riprendere a volare.

Elisenda lo vede dalla finestra mentre cerca di prendere quota e prova sollievo nel vederlo andare via, anche se si è arricchita grazie a lui, facendo pagare un biglietto di ingresso ai fiumi di visitatori che ha avuto per casa.  Troppo greve il carico di avere nel proprio cortile l‘altro, il diverso, il non comprensibile che ora passa sopra le ultime case sostenendosi “con un arrischiato starnazzare di avvoltoio senile”.

Elisenda, come Amy Foster, alla fine vuole liberarsi di un peso, desidera tornare alla sua vita non deformata dal carico della conoscenza, dall’incontro con il diverso.

vite di carta amy foster joseph conradvite di carte amy foster joseph conradTiro fuori il testo di Conrad nelle due traduzioni. Pochi mesi fa ci ho lavorato in collaborazione col mio Liceo per mettere a confronto le scelte espressive delle due traduttrici e ragionare sulla potenza della lingua, ma oggi è il naufrago Yanko Goorall a mettersi prepotentemente al centro del discorso.

La sua storia, “un montanaro dei Carpazi che resta vittima di un naufragio sulle coste dell’Inghilterra sud-orientale mentre sta cercando di raggiungere l’America, è quella di Conrad e di ogni emigrato in ogni tempo e luogo“, come osserva Zulli nella intensa introduzione al libro.

È una storia di esclusione e di sopruso: “uomini arrabbiati e donne aggressive” lo tengono a distanza dalla loro piccola comunità nel Kent, cominciano scambiandolo per un animale selvaggio di memoria omerica uscito dal mare e solo qualcuno sa riconoscergli piano piano la natura di uomo. La sola Amy gli dà da mangiare, lo frequenta e lo ascolta parlare la sua lingua sconosciuta dai suoni armoniosi. Lo sposa e gli dà un figlio.

Accanto alla sequenza del naufragio della nave su cui viaggia Yanko, accanto alla riga che dice “si videro figure scure con le gambe nude apparire e sparire nella schiuma” ho annotato “come a Cutro (26/02/2023), 87 vittime di cui 35 minori alla data del 18 marzo“. Quanti altri naufragi e morti del mare potrei annotare alla data di oggi.

Meglio rientrare nel solco dei due racconti e lasciar parlare la loro conclusione, dove ci attendono le due figure femminili di Elisenda e Amy nel loro ruolo di protagoniste assolute.

Ciò che fanno o che si rifiutano di fare determina infatti l’intero corso della storia: Elisenda non fa nulla per fermare il volo del vecchio angelo, Amy non soccorre il marito gravemente malato. Non gli dà l’acqua che lui morente le chiede, usando la sua lingua lontana, perché in lei sono più forti la paura nell’assistere alla agonia di Yanko e la ripulsa per il suo volto contratto, in cui riaffiora lo sconosciuto di un tempo.

Nota bibliografica:

  • Joseph Conrad, Amy Foster, Marsilio, 2019 (traduzione di Tania Zulli)
  • Joseph Conrad, Amy Foster, Einaudi, 2022 (traduzione di Susanna Basso)
  • Gabriel Garcia Márquez, Un signore molto vecchio con certe ali enormi, in Tutti i racconti, Mondadori, 2013

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Appunti su Ferrara:
perché un’utopia non si trasformi in distopia

Mi armo di immodestia e aggiungo alcune note sparse al dibattito su Ferrara innescato su queste pagine, tra gli altri, dal prof. Farinella e dal prof. Varese. Parto dalle due cause endogene che, a mio avviso, hanno determinato l’avvicendamento al vertice amministrativo della città: il tema Carife e il tema sicurezza.

Carife: un delitto sociale ed economico

Carife, la principale azienda del territorio, la banca dei ferraresi dal 1838, fu fatta saltare il 22 novembre 2015 per decreto del governo Renzi, dopo alcuni anni di malagestio travestita da grandeur napoleonica, soprattutto durante la gestione del Direttore Generale Murolo. Ne ho scritto in varie occasioni, ma per richiamare i dettagli più diabolici della vicenda – mai come in questo caso il diavolo si nascose nei dettagli – mi limito a riportare il link a questo articolo. Basti aggiungere che le due figure politiche di estrazione locale, Luigi Marattin (allora consigliere economico del Presidente del Consiglio Renzi) e Dario Franceschini (allora Ministro della Cultura e del Turismo), che avrebbero potuto orientare dal governo il destino di Carife, assecondarono o tollerarono la dichiarazione di morte della banca del loro territorio; al punto che, per farlo rieleggere in Parlamento, il PD dovette ricandidare il primo in un collegio lontano da Ferrara, mentre il secondo perse a Ferrara all’uninominale e fu “ripescato” grazie al collegio plurinominale di Ravenna, Rimini, Forlì e Cesena.

Non era possibile mostrarsi più acquiescenti al proprio capo politico e, al contempo, più indifferenti alle sorti della propria gente. Nemmeno il sindaco Tagliani (unico a distinguere la propria posizione, se non altro perchè doveva rispondere direttamente ai propri cittadini) credeva che potesse succedere, invece accadde. Nessuno della catena politica del Pd locale, a partire dai due esponenti di prima fila sopra citati, mosse un dito per tutelare non i dirigenti, ma i risparmiatori e i lavoratori della banca del proprio territorio. Da sindacalisti interni trovammo una sponda informativa e politica in Giovanni Paglia, allora deputato di sinistra di Ravenna. Ferraresi? Non pervenuti. Quella ferita, come tutte le ferite, si è andata a rimarginare col tempo, ma ha lasciato una cicatrice slabbrata, dolorosa. Quella vicenda mostrò con evidenza lancinante la distanza astronomica tra i cittadini e i rappresentanti espressi dal territorio, consegnando – anche schifiltosamente: ricordiamo l’accusa di “speculatori” alle famiglie sottoscrittrici di azioni e obbligazioni subordinate – il tema nelle mani degli oppositori politici.  Si trattava di difendere l’apporto sociale e culturale che la Fondazione garantiva alla provincia. In fondo, si trattava della propria base sociale, politica ed elettorale.

Intendiamoci: la banca locale non era esente da difetti. Dopo tanto tempo si incistano conflitti di interessi, non c’è adeguata distinzione tra chi dà e chi prende, l’ordinante e il beneficiario tendono a coincidere. Ma distruggere il gioco è valso la candela? Adesso una banca del territorio non esiste più, e il principale effetto di questa mancanza, per un territorio fragile come il nostro, è che i soldi che vengono raccolti qui vengono tendenzialmente prestati fuori da qui. A questo punto, che fare? Ricostruire una banca del territorio è impossibile: ormai il mondo bancario va in direzione opposta. Un’ amministrazione che volesse lasciare una sua impronta dovrebbe guardare almeno ai soggetti fragili, alle microimprese, ai cosiddetti “non bancabili” e alle possibili sinergie realizzabili non solo attraverso l’interlocuzione con le banche più vicine ai territori (i crediti cooperativi?), non solo stimolando i giganti del credito a fare quello che dichiarano, ma anche rapportandosi con realtà di intermediazione come l’Ente Nazionale per il Microcredito (leggi qui e anche qui).

La sicurezza è una cosa di sinistra

Sentirsi tranquilli a casa propria, non avere paura nel percorrere una via da sole/i, avere un lavoro stabile, non essere alla mercè di tre ubriachi o fattoni che ti distruggono il bar. Secondo me sono declinazioni dello stesso concetto: sicurezza e tutela. Mi sento sicuro e tutelato se ho un lavoro che mi dia una prospettiva per il futuro, ma anche se non devo temere che mi entrino in casa quando sto fuori due giorni, se posso passeggiare tranquillo senza rischiare uno scippo, una rapina, una minaccia o un “semplice” disturbo al bar, da cliente o da gestore. La vecchia amministrazione ha scisso le declinazioni: ha rubricato la parte “ordine pubblico” a percezione esagerata, ad argomento strumentale. In parte poteva essere vero, ma il fatto di non avere approfondito le ragioni di questo stato d’animo, per padroneggiarlo e gestirlo, ha consegnato il tema alla destra. Un po’ come se parlare di ordine pubblico per la sinistra significasse, in automatico, avere la riserva mentale dello “stato di polizia” ed essere tacciabili di razzismo, per via degli spaccini nigeriani – così sposando il punto di vista dei “giustizieri della notte” in salsa leghista. La lettera aperta dei gestori cinesi del bar Condor (leggila qui) dimostra che le forze dell’ordine servono a chiunque voglia salvaguardare l’incolumità propria, dei propri clienti e la propria attività: sia esso italiano o straniero. La gestione della sicurezza andrebbe messa in cima all’agenda comunale, specie vedendo quanto chi ha sguazzato in questa propaganda si stia dimostrando inadeguato ad affrontare il problema. A meno che non si pensi che spostare microcriminalità, spaccio e teppismo dai giardini del Grattacielo per sparpagliarlo nel resto della città, centro storico incluso, costituisca una soluzione.

Personalmente non sono scandalizzato da cancelli, protezioni e recinzioni supplementari, specie se accompagnati da un popolamento dell’arredo interno e da iniziative che diano vita alla zona. Di parchi urbani recintati a Ferrara ce ne sono da tempo – ad esempio il Parco Massari. Sono irritato dalla propaganda di destra che pretende di avere risolto il problema mettendo inferriate e giochi per bambini in un paio di luoghi (e chiudendo chioschi senza una ragione e senza offrire un’alternativa). Sarei ugualmente irritato da un’ impostazione “da sinistra” che perseverasse nell’errore di rimuovere il problema, o si limitasse a rinfacciare agli attuali amministratori l’incapacità di governarlo (come se l’incremento della microdelinquenza fosse una bella notizia da cavalcare, visto che governano Fabbri e Naomo Lodi). Purtroppo, a volte non basta la socialità per garantire l’ordine pubblico, ma serve anche una polizia che controlla e presidia il territorio. E per farlo occorrono risorse. La sinistra che mette risorse nel presidio dell’ordine pubblico, esatto. E’ un tabù da sconfiggere: l’idea di una polizia che fa il suo lavoro al servizio dei cittadini non può continuare a far evocare il fantasma della morte di Federico Aldrovandi, perchè sono cose diverse.

Mobilità e qualità dell’aria: affinché un’utopia non diventi una distopia

Parto col dire che le considerazioni di Romeo Farinella (qui) sono affascinanti, ariose e disegnano una visione alternativa per la città, che ci deve essere perchè non si può vivere di sola amministrazione dell’esistente. Una visione serve a scuotere dalla rassegnazione o dal torpore chi non vota più: ed è altrettanto importante che far cambiare idea a chi ha votato Lega per stanchezza o frustrazione. Limitarsi a rimarcare le inadeguatezze, le malefatte o le macchie personali del naomo di turno viceversa non sposterà un solo voto, perchè la pura polemica è al tempo stesso autoriferita e inutile: gratifica chi già pensa il peggio di costoro, ma non sposta un consenso tra coloro che li hanno votati proprio perchè “sono fatti così”.

Ferrara ha, credo, delle peculiarità “urbanistiche” (lo dico da cittadino non addetto ai lavori). Intanto ha nove chilometri di mura tutte percorribili a piedi, in bicicletta e senz’altro anche in monopattino. Ci sono città che hanno mura più lunghe, ma non tutte percorribili. Ci sono città che hanno mura più antiche, ma che sono state rifatte varie volte. A Ferrara le mura sono state restaurate ma sono sempre quelle originarie. Non mi posso definire un giramondo, non sono un esperto di realtà urbane. Partendo dalla mia limitata esperienza comparativa, però, non mi viene in mente un’altra città italiana di dimensioni paragonabili che possa essere girata tutta a piedi o in bicicletta da un capo all’altro, semplicemente percorrendo le mura.

Quindi Ferrara potrebbe essere la città delle biciclette.

Ma lo è già: c’è anche il cartello all’ingresso della città!”

 

Vero. Il cartello c’è e riporta una frase diventata luogo comune. Un luogo comune è una specie di assioma,  assimilato a un dato di natura, ma riflette anche un possibile scostamento tra il senso comune e la realtà dei fatti.

 

Se ci limitiamo all’Italia, per Ferrara prevale ancora la prima accezione. In effetti è la città italiana che vanta il maggior metraggio di ciclabile per abitante (1,14 mt), anche se ho trovato molto più a portata di mano (e di vista) le postazioni di bike sharing di Milano. Ma se non siete mai passati per Odense (Danimarca), e mi limito ad una città più popolata di Ferrara ma dalle dimensioni simili, non potete capire. Cito solo un numero: 150 km di ciclabili a Ferrara, 545 a Odense (intesa come pista esclusiva, sennò arriviamo a oltre 1000 km). Inoltre parliamo di strade larghe, dalla larghezza paragonabile a quella delle strade per auto, moto e mezzi pubblici. A Odense non sacramenterei contro i ciclisti che occupano la carreggiata come fosse loro. Perchè là hanno intere e larghe strade che sono loro – o mie, quando inforcassi la bici. Non dico che sia un paradiso: di sicuro non è l’inferno che albergava nella mente di Hans Christian Andersen, illustre nativo. Evidentemente in due secoli la Danimarca di strada “civile” ne ha percorsa. Noi abbiamo ancora molti margini di miglioramento.

Non saprei dire se sia il caso di creare “nuove” ciclabili a Ferrara (e ho anche apprezzato molto l’accenno più generale alla de-costruzione fatto dal Prof. Farinella). Però, professore, se hanno appena asfaltato strade larghe sei metri al parco Urbano, perché non approfittarne? Perché non aggiungere alla trama che permette di passare “ecologicamente” dalla città alla campagna, e viceversa, anche queste vie, invece di intignarsi solo sulla loro presunta servitù di passaggio dei camion che porteranno i palchi del prossimo Springsteen? Vero: altri parchi cittadini hanno strade larghe ma nacquero come aeroporti, noi non dobbiamo partire dal parco e fare il percorso inverso. Vero, il Teatro Comunale non dovrebbe avere titolo per fare opere stradali. Ma le carte bollate, se devono arrivare, arrivassero adesso, prima che sia tutto completato. Dopo, basta. Chi arriverà ad amministrare non dovrebbe puntare a disfare il già fatto – a meno che non sia un mostro di cemento, ovviamente – ma a considerarlo una possibilità da armonizzare nel tessuto cittadino. Ferrara può diventare una vera città delle biciclette, di dimensione europea. E con un centro storico libero dal traffico a motore privato.

A una condizione: che il turista (o il cittadino extra -mura) che arriva al limine della città in macchina e la molla in un parcheggio scambiatore fuori mura – come potrebbe diventare obbligatorio – non debba fare la fila per salire su un tram che passa ogni quarto d’ora e magari ha la fermata a mezzo chilometro dal parcheggio. L’età media dei ferraresi è di 49,5 anni. Non è solo questione di cambiare le abitudini di gente che prende la macchina anche per fare 500 metri. Molti di coloro che sono oltre la media anagrafica non metterebbero più piede in un centro storico senz’auto, se dovessero sbattersi oltremisura per arrivarci. E il centro storico è già abbastanza penalizzato adesso, per assestargli altri colpi.

Queste ultime considerazioni potrebbero sembrare ovvietà. Oppure potrebbero essere il punto di intersezione tra visione e realismo, affinchè l’utopia coraggiosa che intravedo nelle idee del prof. Farinella eviti di trasformarsi in una distopia che scoraggerebbe o metterebbe in difficoltà molte persone. Anche per questo occorrono risorse.

La cultura diffusa a Ferrara esiste, ma molti ferraresi non lo sanno (quindi non è così diffusa)

L’affermazione vale prima di tutto per il sottoscritto. Attenzione: non è riducibile alla (pur veritiera) asserzione per cui non apprezzi mai abbastanza la città in cui vivi perchè la dai “per scontata”. Quello bene o male vale per tutti. Per una città che presenta una storia – non solo rinascimentale – ricca di luci e di ombre come Ferrara, la valorizzazione di tutte le associazioni del territorio che si occupano della storia e attualità culturale costituisce, probabilmente, la condizione necessaria per divulgare (anzitutto ai propri cittadini, le prime “guide turistiche” diffuse) la ricchezza intrinseca della città. Sotto questo profilo, le idee messe in fila –  declinate in parte sotto la forma dialettica definita “problemi” – da Ranieri Varese (qui) fanno intravedere l’esistenza di una rete che avrebbe bisogno di essere “semplicemente” rimessa in corrente (sulle biblioteche aspetto il contributo di Francesco Monini, che sono certo arriverà). Per far questo non c’è solo bisogno di risorse, ma anche delle persone competenti e con il retroterra adeguato per occuparsi delle variegate facce del prisma culturale. Apro una parentesi: a Ferrara queste persone c’erano, e hanno contribuito a “edificare” una proposta culturale, in particolare nelle arti figurative e nella musica, unica per originalità. Ferrara non era il luogo di atterraggio di un “evento” alieno che poi (con l’elicottero o i camion) si sposta altrove, uguale a se stesso, ma era la matrice di una proposta che aveva il “marchio” e il profilo di qualcosa che trovavi solo qui, o che qui aveva avuto la sua origine. Sarebbe bello tornare a una Ferrara come laboratorio di esperienze da esportare, anziché come contenitore occasionale di prodotti importati. 

Proprio attraverso la forza di una visione si potrebbero recuperare fisicamente a Ferrara, e metterle al servizio dell’amministrazione culturale della città, delle eccellenze che hanno sviluppato la propria carriera in altri luoghi del mondo, ma che a Ferrara sono nate e, in parte, cresciute. E che magari non fanno parte della solita famiglia più o meno allargata, illustre quanto si vuole ma decisamente onnivora.

Lascio infine sullo sfondo due elementi che sono trasversali – o dovrebbero esserlo – a tutti i temi citati.
Il primo elemento è rappresentato dall’Università, che ha delle potenzialità inespresse in termini di possibile volano anagrafico, professionale, urbanistico. L’ evoluzione di Ferrara da città con l’università a “città universitaria” rappresenta forse la più stimolante innovazione in grado di restituire effervescenza ad una città per altri versi intorpidita: dal clima, dall’anagrafe, dalla geografia – che è anche parte del suo fascino, a patto di non diventare la cifra di ogni attività.

Il secondo elemento sono le risorse. Per sviluppare e dare concretezza a tutte le visioni occorrono risorse economiche. Questo significa, in estrema sintesi, individuare una persona (o un team di persone) che abbia la capacità di risparmiare, reperire e impiegare.

Il chiosco Razzo viene chiuso.
Motivo? Chiedete al vicesindaco

Il chiosco Mac Murphy, quello al parco Giordano Bruno, per i frequentatori non più giovanissimi “i giardinetti della mutua”, insomma quello immerso nel verde e nei murales, musica reggae nei mesi estivi, approdo sicuro per chiunque volesse una birra, luogo altro rispetto a tutti i pub, bar, birrerie, con quella originalità data dal mix tra gestore e avventori e sedute, senza nessuna presunzione di essere quel che non è, perché quel che è basta e avanza – insomma, Razzo, deve chiudere.

Nato come parco di passaggio tra via Cassoli e Poledrelli, tra il centro e la stazione, tra Cavour e lo stadio, come zona verde di sosta e compensazione tra la scuola elementare confinante – artefice delle aiuole fiorite – e i piccoli condominii attigui, come occasione di sport un po’ “scazzato”, il parkour, un cesto per due tiri, perché non a tutti piace il campetto perfetto e leccato, Giordano Bruno (non a caso  frate filosofo, condannato come eretico al rogo in Campo di Fiori) abbraccia da tempo immemore il chiosco di Razzo.

La notizia della recinzione del parco, avveratasi con le sue punte acuminate e i suoi cancelli che chiudono alle 20, era cosa nota ormai da mesi. La politica della sicurezza ha le sue regole e si sa che il decoro lo fanno grate e chiavistelli. E infatti, almeno da due anni che il parco era scientemente lasciato allo stato brado, col campetto di beach volley senza gestione – un autentico terrarium in gabbia – cestini dell’immondizia straripanti e mai puliti, e naturalmente: niente panchine perché sedersi in un parchetto è un lusso per il quale serve il permesso del vicesindaco.

Così, infatti, il parco ha molto velocemente perso una qualsiasi identità, diventando un “non luogo” aperto all’insicurezza.

Ci siamo chiesti in molti come sarebbe sopravvissuto il chiosco coi cancelli, e per un po’ si è fantasticato sul fatto che alla fine una soluzione adatta a tutte le esigenze si sarebbe trovata, anche perché il chiosco con la sua attività e la sua eterogenea clientela fungeva davvero da presidio del parco, pur senza aver mai avuto né l’ambizione né l’obiettivo di controllarlo.

Ma la soluzione proposta dalla Giunta (senza che di ciò si sia mai parlato in commissione o in consiglio comunale) consiste al solito nella rimozione di tutto ciò che non coincide perfettamente con l’idea di decoro alla Naomo (idea peraltro non chiarissima, un po’ schizofrenica, data la incuria in cui versano molte zone della città, a non voler dire della gestione del centro storico).

Quindi il chiosco sarà rimosso e al suo posto pare di capire un bagno e la ricarica per le e-bike. Perché un chiosco non sia compatibile con le nuove mirabilia promesse dalla giunta non si sa. Bambinə e famiglie che vi trascorreranno il pomeriggio non avranno sete, evidentemente. Puoi ricaricare la bici elettrica ma non bere.

Della totale mancanza di rispetto e delle regole cui l’amministrazione è tenuta nei confronti del gestore ha già ben detto Andrea Raffo: nemmeno un incontro, più volte rimandato, nemmeno una ipotesi alternativa su cui ragionare, solo una laconica comunicazione con l’ordine di sgombero e rimozione nonostante la convenzione scada nel 2029.

Stesso metodo utilizzato con La Resistenza, senz’altro un caso.[Vedi qui e qui su Periscopio, ndr]

Modalità opposta per l’associazione  che occupa via delle Erbe 29 senza titolo, senz’altro una svista. [Qui e qui su Periscopio, ndr]

Nessuna spiegazione a Raffo, nessuna motivazione alla città, al quartiere, del perché un piccolo parco – cuore del Giardino – debba rinunciare ad un chiosco dove incontrarsi al tardo pomeriggio o alla sera per bere qualcosa e fare due chiacchiere al fresco.

Intelligenza artificiale e internet dei corpi:
un rischio e una sfida che non abbiamo ancora raccolto

Intelligenza artificiale e internet dei corpi: un rischio e una sfida che non abbiamo ancora raccolto

Quant’è grande la società dell’informazione

Il termine “società dell’informazione” ha più di 70 anni ma solo adesso è data a molte persone la possibilità di apprezzarne il significato concreto. Molti tuttavia pensano ancora all’informazione in modo assolutamente riduttivo, facendola coincidere con le notizie, con quello che si legge e si vede e si ascolta sui media e sui social. Credono di essere padroni di queste informazioni, di poterle usare nella misura in cui esse in qualche modo rispecchiano una realtà oggettiva.

Nulla di più sbagliato.
Nel nostro ambiente di vita sempre più digitalizzato bisogna pensare all’informazione in modo molto ingegneristico, in termini di teoria dell’informazione, in puri termini di bit.
In quest’ottica, è informazione anche qualsiasi pagamento effettuato con la carta di credito; i flussi finanziari che rendono possibile ogni scambio economico sono informazione;  è informazione ogni clic sulla tastiera, cosi come le onde che consentono la comunicazione radio e wifi. E’ informazione il flusso di dati che consente il funzionamento del GPS personale; è informazione il contenuto del web e del giornale, come ogni traccia lasciata da ogni possibile dispositivo od oggetto che sia connesso alla rete. 

Il riconoscimento di questa onnipresenza dell’informazione e, quindi, della natura pervasiva della digitalizzazione e delle scienze informatiche, permette oggi di integrare ambiti disciplinari estremamente diversi, consentendo una integrazione di tecnologie considerate fino a poco tempo fa assolutamente indipendenti. Proprio questa integrazione rappresenta la cifra distintiva della quarta rivoluzione industriale descritta da Klaus Schwab, fondatore e anima del WEF di Davos. 

La tendenza globale alla digitalizzazione non ha confini nè limiti e si sta sviluppando vorticosamente sia nel mondo fisico inanimato, che nel mondo propriamente digitale, che in quello biologico. E’ innanzitutto in questo quadro, dove il concetto chiave di “informazione” ha sostituito per importanza quelli di “materia” e di “energia”, che va collocata la sfida dell’Intelligenza Artificiale (IA). 

Intelligenza Artificiale: non è solo la chat GPT

Questo termine è entrato nel campo della ricerca tecno-scientifica circa a metà degli anni cinquanta del secolo scorso ed ha vissuto alterne vicende punteggiate da notevoli successi, da grandi entusiasmi e delusioni. Per molti l’idea di intelligenza artificiale è connessa quasi esclusivamente alla recente diffusione di chat GPT che ha aperto una certa discussione sull’uso e sulla attendibilità delle informazioni ottenute con questo strumento specifico.

In realtà la situazione è molto più complessa, sicuramente affascinante e decisamente più rischiosa. 

La sfida dell’Intelligenza Artificiale va infatti affrontata in riferimento al contesto tecnologico, economico e sociale, entro cui si pone e non certo e non solo in relazione alla possibilità di emulare il ragionamento umano  e i processi di apprendimento, che fino a poco tempo fa si ritenevano esclusivo dominio dell’uomo.
Lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale – piaccia o meno – avanza parallelamente allo sviluppo di un ambiente artificiale intelligente di dimensioni planetarie e con ramificazioni che stanno crescendo in modo esponenziale.

Internet dei contenuti e internet delle cose

Come noto, Internet rappresenta la chiave di volta di questa architettura: oggi circa 5 miliardi di persone sono connesse attraverso computer e dispositivi mobili; a rigore non sono affatto le persone ad essere connesse ma le macchine: le persone sono semmai sempre più isolate, nel senso che stanno perdendo la capacità di comunicare direttamente con l’ambiente circostante (off line) limitandosi a fruire e scambiare informazioni on line (cosa ben diversa dal comunicare). 

L’internet dei contenuti che tutti conoscono rappresenta solo la parte più visibile di un sistema gigantesco composto da tutti i dispositivi e gli oggetti collegati alla rete: sensori, telecamere, tag, lettori di codici (etc.). E’ il cosiddetto Internet delle cose (IoT) al quale vengono collegati ogni giorno milioni di nuovi oggetti attraverso i quali si sta strutturando un ambiente intelligente su scala globale, l’ambiente sempre più popolato di sensori e terminali  all’interno del quale oggi ci muoviamo in quanto esseri dotati di corpo.

Internet dei corpi (i nostri corpi)

Proprio i corpi rappresentano adesso la frontiera emergente e, in prospettiva, la più colossale fonte di business del futuro; il confluire dell’informatica e della digitalizzazione nella sfera biologica apre orizzonti che vanno dal già reale impianto di dispositivi collegati alla rete esterna fino alla concreta possibilità di creare organismi con caratteristiche specifiche attraverso la modifica del DNA (editing). 

Il corpo è quindi destinato a diventare la fonte di informazione e lo spazio di azione principale delle tecnologie bio-digitali. L’internet dei corpi (IoB) rappresenta una nuova frontiera che – già largamente superata per gli animali – sarà presto varcata dagli umani a livello di massa superando e rendendo obsolete le attuali connessioni esterne.

Per effetto di queste tecnologie, il mondo nel quale viviamo si mostra come un gigantesco flusso di  dati digitali che vengono prodotti, elaborati, trasmessi, archiviati ed analizzati. Questi flussi rappresentano di per sè un colossale settore economico e finanziario i cui sviluppi stanno portando – sia detto per inciso – alla distruzione dell’uso della moneta cartacea e alla sua completa sostituzione con forme di moneta digitale. Il possesso è il governo di questi dati è l’asset principale della nuova economia digitale.

L’enorme quantità di dati (big data) generati da queste connessioni il cui numero aumenta esponenzialmente di giorno in giorno, rappresenta la base su cui l’intelligenza Artificiale può lavorare, il cibo di cui essa si nutre.

Macchine milioni di volte più potenti, più veloci, più energivore

Per consentire la trasmissione di questi dati, le attuali infrastrutture non sono più sufficienti: da ciò la necessità assoluta di velocizzare gli scambi informativi attraverso il passaggio al protocollo 5G e superiori e di aumentare la capacità di calcolo dei computer. Se, infatti, per decenni l’aumento della potenza di calcolo è andato di pari passo con la miniaturizzazione dei circuiti elettronici, con un andamento empiricamente espresso dalla legge di Moore (secondo il quale la velocità di calcolo raddoppia ogni 18 mesi), i nuovi computer quantistici sono (saranno) in grado di esprimere potenze di calcolo milioni di volte superiori ai vecchi modelli.
Quasi inutile aggiungere che, per far funzionare tutto questo sistema interconnesso e in fortissima crescita, servono enormi quantità di energia.

In questo quadro generalissimo che ci ricorda il dubbio concetto di transizione digitale [Vedi qui la scheda nel sito ufficiale della Commissione Europea ] l’intelligenza Artificiale si pone innanzitutto come lo strumento indispensabile per regolare e gestire in ogni settore (dalla sanità all’industria, dai trasporti al commercio) questa inconcepibile complessità informativa fatta di flussi e di archivi, la cui esistenza è resa possibile da un’architettura fisica che abbraccia tutto il pianeta.
Questa delle macchine è un’ “intelligenza” capace di elaborare e di apprendere, che non richiede tuttavia alcuna consapevolezza ma solamente chiari obiettivi, potenza di calcolo e tanta informazione da macinare.

Verso un “Uomo Potenziato” e subalterno?  

Di fronte alla forza degli algoritmi che la compongono il singolo essere umano, il consumatore, rischia di essere assolutamente e totalmente impotente. Già oggi si trova a vivere in un ambiente tecnologico che lo domina ampiamente e lo dominerà completamente nel prossimo futuro se non interverranno cambiamenti radicali quanto imprevedibili.
Non a caso Elon Musk suggerisce come unica soluzione possibile a questa sfida – in piena coerenza con quanto sopra illustrato – il potenziamento tecnologico dei singoli esseri umani, installando nei loro corpi dispositivi tecnologici in grado di aumentarne drasticamente le performance cognitive.

Metaforicamente parlando, osservati dal punto di vista dell’Intelligenza Artificiale, considerati nella prospettiva del capitalismo digitale, gli esseri umani connessi alla grande rete sembrano essere semplicemente delle risorse naturali sfruttabili a piacere per generare profitto. 

Cosi, stravolta, potrebbe finire l’utopia libertaria che la tecnologia digitale sembrava promettere solo poche decine di anni fa.
E così finirà senza un impegno diffuso e una nuova consapevolezza che riporti in primo piano la persona e la società al posto del consumatore e del mercato. 

Per leggere gli altri articoli di Bruno Vigilio Turra pubblicati da Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Senza orario e senza bandiera, e senza passaporto.
La Meloni e gli altri governi pensano di chiudere il mondo, ma gli uomini del pianeta Terra si muovono, oggi e da sempre.

Il governo Meloni registra il suo fallimento nelle politiche di gestione della migrazione. Ma qualsiasi governo che si è succeduto in questi anni ha fallito. Sembra che la politica in realtà insegua il vecchio adagio “mal comune mezzo gaudio” quando si tratta di condividere i fallimenti sui migranti. Che, come ricorda Papa Francesco ogni volta che può, e recentemente anche il Presidente Sergio Mattarella (non a caso dal meeting di CL dove stanno i cattolici ammiratori della destra e denigratori del Papa), sono innanzitutto un paradigma di come pensiamo il mondo e il rapporto con il nostro prossimo.

Guardate i numeri, ma tutti i numeri

Il fallimento è prima di tutto questo: di visione. Si continua a definire, governo dopo governo, estate dopo estate, l’immigrazione una “emergenza”. Eppure, a parte il fatto logico che nessuna cosa che si ripete da anni, puntuale come un’orologio svizzero, può essere definita una “emergenza”, non è dai numeri che si deve partire per capire i motivi di questa incapacità. Questi ultimi infatti, descrivono i tratti di un fenomeno del tutto gestibile. Se non fosse per la violenza e le tragedie che spingono le persone a muoversi in questo quadrante di mondo, si potrebbero definire “fisiologici”. I numeri della migrazione verso l’Italia e l’Europa, sono persino contenuti, se si rapportano alla negazione del “diritto a restare” alla quale vengono sottoposte le popolazioni protagoniste loro malgrado delle migrazioni.

Non abbiamo niente a che fare, noi occidentali, con i disastri causati dalle guerre e dalla devastazione ambientale che spingono donne uomini e bambini a diventare erranti, a muoversi da sud e da est verso l’Europa? Basterebbe solo mettere in rapporto altri numeri, ad esempio quelli relativi all’esportazione di armi che vedono quei paesi proprio come principali mercati, per fare due più due. O i numeri relativi ai barili di petrolio che grazie alle concessioni, vengono pompati nelle pipeline a gestione delle compagnie europee. O i numeri delle estrazioni di minerali e terre rare, che di locale, in quei paesi, hanno solo la manodopera infantile spinta nei buchi delle miniere a scavare per noi. Oppure, per gli appassionati di numeri, basterebbe incrociare quelli che descrivono la desertificazione e la rarefazione di suoli coltivabili e irrigabili, con lo spostamento di persone verso nord.

L’idea di un mondo chiuso dei nostri governanti

Ma non si basa sui numeri, né su nessun raziocinio, la visione distorta, e fallimentare, che il Governo Meloni e i suoi predecessori di segno opposto, hanno sulla migrazione.
Bisogna partire da un livello più profondo per comprendere il perché continuino tutti a sbagliare e ad infilarsi in questi  cul de sac che tante sofferenze evitabili creano alle persone in movimento, e tanto male fanno alla politica, che si riduce a battibecco propagandistico continuo che alla fine è capace di esprimere solo un “pensiero unico”.
Che idea di mondo hanno i governanti dunque? Nell’epoca della globalizzazione di ogni aspetto della vita, e la pandemia recente avrebbe dovuto farci capire quanto si debba intendere immediatamente connessa la nostra vita con quella di tutti gli altri esseri umani, sembra prevalga l’immagine di un mondo circoscrivibile e rinchiudibile in “settori”.

Gli uomini si muovono, da sempre. Anche se gli neghi il passaporto

Il continuo richiamo ai “confini”, intesi come muri capaci di delimitare, impermeabilizzare pezzi di pianeta isolandoli dagli altri, forse poteva avere un senso fino a prima dell’epoca dei conquistadores, nel 1500. L’idea di un uomo che sta fermo dentro i suoi confini, non è mai stata credibile. La ricerca di poter “abitare il mondo”, di scoprirlo fino all’ultimo angolo, non può essere sequestrata da qualche ricco e potente, perché appunto, è un’idea, e dunque, non imprigionabile. La libertà di movimento appartiene a tutti e tutte, e nessun sovrano la impedirà per sempre.
La teologia ci aiuta di più della politica, da questo punto di vista. La ricerca della “terra promessa”, il bisogno di un’esodo, può essere dunque solo un privilegio di pochi?

La visione dunque di un mondo rinchiuso a settori, rimanda a moderne profezie come Blade Runner, e la costruzione di un immaginario capace di “imprigionare” il desiderio di scoperta del mondo a Matrix. Ma i governi se la prendono con gli “illegali”, i “clandestini”.
E allora vediamo ciò che provoca l’illegalità:
con il nostro passaporto noi abbiamo accesso a 124 paesi senza nemmeno passare per il visto. Un cittadino statunitense 115. Un uomo o donna afghana in possesso di passaporto, può recarsi in 6 paesi. Un siriano in 9. Un irakeno 10, chi viene dalla Somalia 11. Dalla Libia un cittadino con il suo passaporto può raggiungere 15 altri paesi.
Il “passport index” sarebbe un buon metodo per capire il perchè le persone debbano spesso affidarsi ai passeur, ai trafficanti per potersi muovere.

Il Sistema Mondo produce l’immigrazione illegale 

Dunque se ci fossero governanti desiderosi di capire perché falliscono, dovrebbero intanto prendere coscienza che il mondo è stato organizzato così, cioè per avere la stragrande maggioranza dell’umanità costretta ad affidarsi a viaggi illegali, lunghissimi, pericolosi, per poter migrare.
L’illegalità delle migrazioni, è un prodotto del sistema mondo, non una scelta degli esseri umani. Gli otto miliardi di abitanti del pianeta, per il 99% non vogliono lasciare la loro terra, i luoghi che conoscono e dove sono nati. Ma per quei cento milioni che si stanno spostando, in maggioranza “forzatamente” a causa di condizioni nelle quali non è possibile vivere, la “punizione” è l’inferno. La morte. Le torture, la sofferenza, gli stupri. La violenza.

I migranti e i profughi poi, sono poveri. Vanno bene se vengono messi al lavoro.
Questo governo di destra ha fatto in termini di quote di ingresso, quello che vergognosamente i governi “democratici” non hanno mai osato fare, e cioè portare a 500.000 ingressi in tre anni il flusso programmato. Ma se vengono solo in quanto esseri umani, siano adulti o bambini, diventano sempre un’emergenza.
Ma com’è che ciò che vive può diventare “emergenza”? E’ forse legato al fatto che siamo un paese di anziani e con più morti che nascite? Di sicuro c’è che quella vita che non viene riconosciuta come un dono ma come un problema, è racchiusa da pelle scura e non bianca.

L’invenzione del nemico

Storia antica questa, capace di trasformare il sacro “hospis” in “hostis”, nemico. Ma storia molto più recente è anche quella del “capro espiatorio”, come insegnavano i manuali di Goebbels. Se non c’è il nemico bisogna crearlo.
Perchè occuparci dell’aumento della povertà in Italia, quando la “risposta” è facile e a portata di mano? Perchè dover rendere conto ai cittadini dell’aumento delle bollette dell’energia e del prezzo dei carburanti, quando c’è un’invasione di poveri e neri alle porte? L’unica vera emergenza in Italia, è il sistema di accoglienza.
La legge Bossi – Fini, ancora in vigore (incredibile che nessun governo di centrosinistra abbia mai davvero pensato di abolirla) , è una legge che produce “clandestinizzazione”. Crea illegali, spinge i nuovi arrivati ai margini, rende impossibile percorsi di integrazione nella vita sociale del nostro paese. D’altronde siamo sempre quel paese nel quale ancora più di un milione di giovani nati e cresciuti qui, non ha la cittadinanza.

Il successo elettorale di uno che vuole farsi ricordare dai posteri costruendo un ponte gigantesco come i faraoni si facevano costruire le piramidi, corrisponde al fallimento umano di una persona convinta che l’aver smantellato il sistema di accoglienza degli Sprar e dell’ospitalità diffusa, sia una cosa di cui andar fiero. Miserabili fortune in questa terra che descrivono l’idea del prossimo, dell’altro, che può avere chi del mondo, e degli esseri umani, ha una considerazione pari allo zero.  Una “castrazione chimica dello Spirito” che purtroppo deve aver funzionato bene in questo soggetto, temporaneamente affidatario dei poteri pubblici di governo.

Ma in concreto, se volessimo affrontare l’emergenza accoglienza, smettendo di chiamare emergenza la migrazione, bisognerebbe sedersi ad un tavolo con sindaci e società civile, e approntare ciò che va fatto per rendere dignitoso ed efficace ciò che oggi non lo è.
La “bussola” dovrebbe essere il fatto che sono esseri umani, che ci rende orgogliosi ospitarli, che per un paese civile è la base non solo della sua Costituzione, ma del suo futuro. Perchè è ovvio, ma non per i governanti, che tutto ciò che faremo agli altri, poi tornerà su di noi. Se tratteremo da fratelli e sorelle, saremo trattati come tali. Se li faremo soffrire, questa sofferenza ci sommergerà.

Dovremmo dunque pensarci come “comunità dell’accoglienza”, istituzionale, laica, religiosa. Come dovremmo pensare ad una “comunità del soccorso” quando parliamo di Mediterraneo, con i suoi duemila morti l’anno che gridano dal fondo i loro nomi, per sempre. E invece di fare la guerra alle Ong, altro capro espiatorio, aiutare chi si impegna a soccorrere, ricordandoci che nessuno si salva da solo. E nessuno fallisce da solo. Anche se governa la Meloni.

Questo intervento di Luca Casarini è uscito oggi 29 agosto, con un altro titolo, anche sul quotidiano l’Unità 

Per leggere tutti gli articoli e gli  interventi di
Luca Casarini su Periscopio, clicca sul suo nome.

Parole e figure /
Cronaca di una giornata storta

Quando si è sbadati si possono perdere tante cose, oltre alla testa. Ma si può sempre recuperare. Una giornata storta: un regalo da comprare e un compleanno da festeggiare diventano un’impresa indimenticabile per una mamma con il suo bambino

La sbadataggine fa brutti scherzi, soprattutto quando è dovuta alla fretta. Ci sono giorni, poi, dove pare regnare sovrana e indisturbata.

Sara Lundberg ce lo racconta, fra i mille colori, con brio e simpatia, in Un giorno sbadato, edito da Orecchio Acerbo, con il piccolo Noa e la sua mamma.

Noa sta ancora dormendo perché è sabato e non c’è scuola (per fortuna), ma sua mamma è già in fermento perché oggi è il compleanno di Alma e devono cercarle un bel regalo da portarle alla festa. Se ne era davvero dimenticata…Noa si deve dunque svegliare, giù dal letto!

Si stava così bene al calduccio… Noa non è tanto contento perché quella bambina la conosce appena (e poi, uff, che barba, ci sarà tutta la classe …) e non sa dare consigli sul regalo da farle. Solo di una cosa è sicuro: non una Barbie.

Noa è lento, lui e la mamma escono di corsa, quanta gente per la strada e nei grandi magazzini! Che caldo lì dentro! Gente sempre fra i piedi, stoccafissi che fissano il loro cellulare in mezzo alle gallerie, quanta folla, Noa non ama davvero tutta quella confusione.

Però che bei colori sgargianti hanno quei vestitini, ma che prezzi! Giocattoli? Pupazzi? Libri? Parrucche e diademi? Maschere e travestimenti strani? Quante belle cose.

Da un negozio all’altro, da una dimenticanza all’altra, fra su e giù dagli autobus affollati e il piccolo Noa che lascia in giro, strada facendo, pezzi del suo vestiario (giacca e berrettino, e un bambino che giura di non perdere più nulla), la giornata si fa piuttosto convulsa e complicata fino ad arrivare a un finale a sorpresa dove, dopo la merenda, si dimostra che i diademi hanno molti usi e che anche le mamme confondono le date dei compleanni.

Ma di una cosa lei e Noa sono certi: domani è domenica e si sta a casa a poltrire insieme sul divano rosso. Tranquilli e sereni. Un omaggio all’andare piano, al giusto riposo e alla bellezza. Domani non si farà proprio niente! Dolce far niente.

“C’è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio”. Milan Kundera

 Un libro per

  • tutti i distratti
  • le mamme che corrono
  • regalarlo a un compleanno
  • i collezionisti di Sara Lundberg.

Sara Lundberg, classe 1971, svedese, ha iniziato la sua formazione negli Stati Uniti (al McDaniel College di Westminster, nel Maryland) dove si è laureata in teatro e arte nel 1994. Agli inizi della carriera ha lavorato come pittrice, ma ha anche esplorato la settima arte. Contemporaneamente si diploma anche all’Accademia di Stoccolma, e da questo momento si dedica quasi del tutto all’illustrazione, ottenendo molti premi e riconoscimenti. “Le ali di Berta”, la cui lavorazione è durata due anni, è al momento il suo lavoro più imponente con quasi centotrenta pagine tutte illustrate. Lavoro che le ha fatto vincere, nel 2017, il premio August e Snöbollen come miglior libro svedese per bambini dell’anno.

Sara Lundberg, Un giorno sbadato, Orecchio Acerbo Editore, Roma, 2023, 48 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

BRICS: il summit trionfale di Johannesburg inaugura un “nuovo” mondo multipolare, ma Il modello capitalista e neo-colonialista rimane il medesimo. Alcuni dati e qualche riflessione sui temi caldi

Un mondo multipolare ed eterogeneo è senz’altro più interessante di uno dominato da un’unica potenza, quella statunitense, con l’Europa al seguito. Il recente allargamento dei BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – con l’ammissione di altri sei Paesi – Iran, Argentina, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – pone tuttavia alcune domande su cui vale la pena di riflettere, senza pretendere di trovare subito tutte le risposte.

Molti dei punti della Dichiarazione del vertice di Johannesburg appena concluso sono condivisibili : ad esempio la riforma dell’ONU, il rafforzamento dei meccanismi di disarmo e non proliferazione, l’appoggio al dialogo e alla diplomazia per risolvere il conflitto in Ucraina e un nuovo approccio al problema del debito estero.
Al di là delle belle parole, si avverte però un’impostazione basata principalmente su criteri economici ed equilibri geopolitici, che non mette in discussione il modello capitalista e consumista responsabile dell’attuale disastro. Al momento di decidere l’ammissione di nuovi membri, il PIL pare contare più di altri fattori, fondamentali invece per un giornalismo indipendente e nonviolento come il nostro.

Vediamo allora la situazione di vari dei Paesi vecchi e nuovi appartenenti ai BRICS dal punto di vista dei diritti umani, della pace, del disarmo e dell’ambiente, ossia alcuni dei temi più cari a pressenza. (temi fondanti anche per il giornalismo di Periscopio, Ndr) 

Diritti umani

In Egitto i prigionieri politici sono oltre 60.000 e le detenzioni arbitrarie, le torture, le sparizioni forzate, le condanne a morte, la persecuzione dei giornalisti indipendenti e la repressione di ogni dissenso sono all’ordine del giorno.

In Iran le manifestazioni di protesta seguite all’assassinio della giovane Masha Amini sono state represse con brutalità, arrivando a diverse condanne a morte dopo processi-farsa. Anche qui sono diffusi arresti (spesso di giornalisti, accusati di aver documentato proteste e abusi), torture, sparizioni forzate, per non parlare della discriminazione nei confronti delle donne e della persecuzione di gay e lesbiche.

L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta dove i diritti umani vengono sistematicamente violati, la libertà di espressione attaccata e le donne discriminate per legge. Anche qui si registrano processi iniqui, detenzioni arbitrarie e condanne a morte spesso comminate per aver semplicemente partecipato a sit-in e proteste. Con i bombardamenti in Yemen l’Arabia Saudita ha inoltre causato stragi di civili e una delle più gravi crisi umanitarie del mondo.

Negli Emirati Arabi Uniti le relazioni omosessuali consensuali tra adulti sono criminalizzate e i dissidenti politici sono vittime di abusi, detenzioni arbitrarie e maltrattamenti. La libertà di stampa viene ostacolata e limitata da controlli e divieti.

In India la democrazia sta degenerando verso una forma sempre più totalitaria e punta a trasformare un Paese multilingue e multireligioso in un’entità monolitica dominata da un partito fanatico hindù. Proteste e dissenso vengono repressi e le minoranze religiose ed etniche perseguitate.

A partire dal 2022 la Ong Reporter senza frontiere classifica la Cina come uno dei dieci Paesi al mondo con la minore libertà di stampa.

In Russia gli obiettori di coscienza e tutti coloro che si rifiutano di partecipare alla guerra contro l’Ucraina vengono perseguitati, arrestati e incarcerati.

Il Brasile, l’Argentina e il Sudafrica sono gli unici membri dei BRICS ad aver abolito la pena di morte.

Pace e disarmo

La Cina ha invaso il Tibet nel 1950 e lo ha annesso nel 1959, reprimendo nel sangue la rivolta della popolazione. Una situazione che continua ancora oggi.

La Russia porta avanti da oltre un anno una guerra di invasione in Ucraina che ha causato migliaia di morti e feriti e terribili devastazioni, a cui si contrappone una politica guerrafondaia altrettanto criminale da parte della Nato, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti.

Al momento solo il Brasile e il Sudafrica sono tra i 92 firmatari e 68 Stati parte del Trattato per la proibizione delle armi nucleari.
Tra i restanti membri dei BRICS l’India, la Russia e la Cina sono potenze nucleari con arsenali in espansione.

Ambiente

Gli Stati Uniti detengono il primato di produzione di petrolio, seguiti da Russia, Arabia Saudita, Iran, Cina, Brasile ed Emirati Arabi Uniti; eppure i combustibili fossili sono tra i principali responsabili della crisi climatica sempre più incombente e il loro abbandono a favore delle energie rinnovabili è un’esigenza irrimandabile.

L’enfasi posta nel summit dei BRICS sul “sud globale” che punta ad affrancarsi dalla disumana oppressione dell’Occidente è stata contestata dagli attivisti africani, asiatici e ucraini riuniti a Innes Park, sempre a Johannesburg , secondo i quali le dichiarazioni altisonanti celano in realtà progetti di neo-colonialismo.
Un esempio eclatante è costituito dallo Stato cinese con le sue compagnie private, impegnate a costruire un enorme oleodotto dal nord dell’Uganda alle coste della Tanzania, distruggendo intere comunità in cambio di compensi irrisori, o pronte a estrarre petrolio dal Lago Alberto, minacciando così una delle maggiori risorse d’acqua.

Naturalmente molti Paesi del “blocco occidentale” si possono accusare delle stesse iniquità elencate più sopra – e infatti non manchiamo mai di denunciarle.

Restano comunque in sospeso delle domande fondamentali:
da dove verrà il cambiamento profondo di cui l’umanità – anzi, tutti gli esseri viventi – hanno bisogno per sopravvivere e continuare nella loro lunga evoluzione?
Dai governi, o dai movimenti?
O forse dai governi sotto la pressione e lo stimolo della base sociale e in particolare dei giovani attivisti, preoccupati di un futuro che si annuncia fosco, a meno di un cambio di rotta radicale?

Come realizzare una rivoluzione interna, di mentalità, valori e comportamenti, che porti al superamento definitivo della violenza nei confronti degli esseri umani e della natura e alla costruzione di una Nazione Umana Universale?

Questo articolo è uscito con altro titolo su pressenza  di domenica 27 agosto.  

Cover: la passerella dei leader dei paesi più forti dei BRICS – foto da Contropiano : giornale comunista online.

Anima e corpo
un racconto

Anima e corpo

Con Aggiustatutto non è che sia andata a finire sempre bene. Mi riferisco, per dirne una, alla volta in cui tentò di portarmi con sé in questo centro benessere e massaggi cinese di nome Anima e Corpo. «So io cosa serve a te», esclamò sicuro quella volta, «questo aiuta a superadivorzi».

Sì, il nome è proprio quello, Anima e Corpo, non scherzo. Poi lo sanno tutti che lì dentro è più una questione di corpo, che di anima non v’è traccia e non fanno mica solo massaggi le cinesine.

Dunque, in una di queste occasioni, ecco che, non so come, d’un tratto un bandito si asserraglia all’interno del locale. Lo so, è da non crederci. E infatti non ho potuto fare altro che osservare la scena con una strana, fastidiosa sensazione di dèja vu. Dico fastidiosa perché, più della paura, lo straniamento mi ha come pietrificato e, davanti ai cinesi, ho finito per fare la figura del codardo. Accidenti se è strano, lo straniamento: come non avere più muscoli. Mi sentivo appena nato. Non c’è che dire.

Comunque, il fatto è andato più o meno in questo modo: una volta entrato, il tizio impugna la pistola, prende due ragazze in ostaggio e avvia una sorta di rapina a mano armata da classico telefilm americano. Ora l’uomo, sulla quarantina, autoctono e praticamente inadatto al ruolo prescelto, dopo avere estratto la pistola e averla puntata dritta alla tempia del dipendente che terrorizzato sbraita frasi incespicate e incomprensibili, si ritrova alle prese con la mole di Giorgio costretto a interrompere il coito per vedere chi diavolo stesse urlando a quella maniera. Già, non avrei voluto essere al suo posto. Aperta la porta del vano interno, i due si ritrovano faccia a faccia per qualche secondo. Il malvivente, non troppo convinto, intima a Giorgio di sdraiarsi o qualcosa del genere e lui invece con uno scatto fulmineo gli sottrae l’arma, lo afferra alla gola, lo solleva con tre dita a mezzo metro da terra: il pollice, l’indice e il medio lo strangolano comprimendo la carotide, dopodiché lo scaraventa a terra lasciandolo tramortito, violaceo e tumefatto. Quando poi gli si getta addosso con gli occhi spiritati di rabbia, non lo nego, sarebbe stato proprio il caso di intervenire.

Ebbene, non riuscivo a muovermi, questa è la verità. Per cui col primo pugno a occhio e croce gli frattura la mandibola, al malcapitato, e i fiotti di sangue schizzano dal muso verso le pareti e la porta d’ingresso a vetri. L’uomo è già stramazzato e stordito, un rivo gli parte dalla bocca e si biforca verso l’orecchio e all’altezza della tempia. Dopo il secondo, violentissimo colpo al volto, devo essere svenuto.

Ho nella testa, però, quest’ultima immagine: a un certo punto Giorgio viene come trafitto dal pianto disperato della piccola prostituta, fuori di sé, piegata nelle ginocchia e con le mani alla nuca e gli avambracci a coprirle i sottili occhi a mandorla. Giurerei pregasse una lingua sconosciuta, l’esile cinesina, sembrava un po’ rappresentare tutte le lingue del mondo, tutte le umane disperazioni, fatte di semplici suoni che non necessitano di alcuna traduzione e aveva qualcosa in comune con la nenia del signor Amorini, con i latrati di Gisella e con qualsiasi altra anima o essere dolente su questa terra. Io ero lì, me ne stavo rintanato in un angolo, pallido e muto, forse già svenuto. Giurerei che, quella volta, sia stata lei, sì, è stato quel pianto antichissimo della cinesina a salvare la vita del disperato. Fatto sta che, dopo l’arresto del tizio, il centro benessere Anima e Corpo ha ritenuto di premiare Giorgio per il suo coraggio con un abbonamento speciale, dodici mesi a un costo decisamente irrisorio e la tessera a punti gold.

Testo tratto da: Sandro Abruzzese, CasaperCasa, Rubetttino, 2018, p.177-178.

© Sandro Abruzzese, è vietata la riproduzione anche parziale del testo

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Per certi versi /
Adamello

Adamello

Il cielo
È ancora
Di cobalto
Le sale delle lobbie
Non sono cambiate
Sembrano
Ignorare il tempo
Ospitano
Un mondo solitario
Di luce
Tutto tranne
Tranne la grande tovaglia
Che si lacera
Le cascate
Sono il sangue
Dei ghiacciai
Che latrano
Paurosamente
Le lingue
Moreniche
Sbavano
Sulle cengie
Implorando
Freddo
Sbavano
L’ultima saliva
Dei crepacci
Collassati
Su sassi tremanti

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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ISPEZIONE ALLA NAVE MARE JONIO:
” Hanno costruito un meccanismo per impedire che ci sia una nave del soccorso civile sotto bandiera italiana. Ma noi non ci arrendiamo!”

Un altro capitolo che si aggiunge alla guerra infinita dei governi italiani contro il soccorso civile in mare, che ha visto proprio negli ultimi giorni una recrudescenza con il fermo amministrativo di Aurora Sea-Watch, Open Arms e Sea-Eye-4, unicamente colpevoli di aver salvato vite umane in supposta violazione delle inumane regole del Decreto Piantedosi.

Dopo la conclusione dei lavori di manutenzione, adeguamento e potenziamento dei dispositivi di soccorso, da martedì 22 agosto scorso la nave MARE JONIO è sottoposta a ispezione finalizzata all’ottenimento del Certificato di Idoneità necessario per riprendere le sue missioni in mare.

Ieri sono stati ufficialmente comunicati gli esiti dei primi, accurati e severi controlli effettuati per nove ore a bordo della nave da una Commissione guidata dalla Capitaneria di Porto di Trapani, affermando che “all’attualità non sussistono le condizioni per il rinnovo/rilascio del Certificato d’idoneità.” La stragrande maggioranza della “irregolarità” contestate sono riferite alla richiesta di certificare la nave per il servizio di “salvataggio/rescue.” Si intende negare questa attribuzione perché la nave non corrisponderebbe alla caratteristiche tecniche previste dalle Circolari n. 166 del 2021 e n. 167 del 2022 (Governo Draghi). Mentre da una parte si riconosce che la nave è ben equipaggiata per le attività SAR, dall’altra si contesta il fatto che la nave non è certificata secondo il Codice internazionale SPS (Special Purpose Ship) 2008, che prevede per le unità costruite dal maggio 2008 in poi di stazza superiore alle 500 tonnellate, particolari criteri costruttivi per gli scafi, la loro compartimentazione e i calcoli di stabilità, strutturalmente inapplicabili a un rimorchiatore costruito nel 1972 come la MARE JONIO.

Gli effetti di queste due Circolari devono essere letti in rapporto con il Decreto Piantedosi (poi convertito in Legge 24 febbraio 2023 n.15 – Governo Meloni), là dove recita che “la nave che effettua in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare opera in conformità alle certificazioni e ai documenti rilasciati dalle competenti autorità dello Stato di bandiera.”

In sostanza, dagli ultimi due governi è stata introdotta una normativa tecnica finalizzata a rendere impossibile che vi sia una nave civile di soccorso operante sotto la bandiera italiana.

La situazione è resa paradossale dal fatto che, proprio nel maggio scorso, la MARE JONIO ha ottenuto dall’autorevole Ente tecnico riconosciuto dalle stesse Autorità di bandiera italiane, il Registro Italiano Navale RINA, la conferma della piena certificazione come “nave Rescue, particolarmente attrezzata per il recupero e l’alloggio di naufraghi.”

Paradosso ulteriore è che, sotto qualsiasi altra bandiera Europea, la classificazione del RINA sarebbe più che sufficiente per certificare la MARE JONIO come nave da salvataggio e consentirle di operare liberamente.

È questo un altro capitolo che si aggiunge alla guerra infinita dei governi italiani contro il soccorso civile in mare, che ha visto proprio negli ultimi giorni una recrudescenza con il fermo amministrativo di Aurora Sea-Watch, Open Arms e Sea-Eye-4, unicamente colpevoli di aver salvato vite umane in supposta violazione delle inumane regole del Decreto Piantedosi. Una guerra insensata che continua, senza alcuna giustificazione, mentre nel Mediterraneo centrale oltre 2.000 donne, uomini e bambini hanno perso la vita negli ultimi otto mesi, e la situazione in mare richiederebbe invece di unire ogni sforzo all’attività di soccorso faticosamente svolta ogni giorno dalle altre navi della Flotta Civile e dalle unità della Guardia Costiera e delle altre forze militari italiane.

Ma noi non intendiamo affatto arrenderci: siamo già al lavoro per il superamento delle “irregolarità” minori che sono state contestate, in modo da ottenere al più presto quelle certificazioni che consentano alla MARE JONIO di tornare comunque a navigare lungo le rotte del Mediterraneo centrale.

MEDITERRANEA Saving Humans
Trapani, 26 agosto 2023

Lettera al Sindaco e alla stampa locale: noi non siamo “il bar delle risse”

Alle redazioni della stampa ferrarese,

Siamo la famiglia Wen, proprietari e gestori del bar Condor di via San Romano.
Ci piacerebbe condividere con le redazioni dei quotidiani ferraresi e con i vostri lettori questa lettera aperta che ieri pomeriggio, venerdì 25 agosto, abbiamo inoltrato agli uffici del sindaco.
Il nostro bar é stato colpito nell’ultima settimana prima da due fatti di cronaca la cui origine é stata erroneamente ricondotta al nostro locale, e poi colpita da provvedimenti per la chiusura da parte di questura e Comune.

La nostra lettera, oltre a voler chiarire i fatti avvenuti (e non sempre correttamente riportati dalla stampa locale), vuole essere un tentativo e un modo per aprire un dibattito sui sempre più diffusi fenomeni di degrado e microcriminalità in centro storico, e un invito all’Amministrazione a confrontarsi con i gestori delle attività per cercare insieme delle soluzioni, piuttosto che colpirle con provvedimenti che pesano sull’economia ma senza toccare i veri responsabili dei problemi urbani.

Speriamo di poter fare arrivare la nostra voce alla città, e apriamo l’invito a farci visita nel nostro bar anche a tutta redazione.

Gentile sindaco Alan Fabbri,

Le scriviamo questa lettera per chiederle personalmente un appuntamento, o quantomeno la possibilità di aprire un canale di comunicazione con Lei e le istituzioni che rappresenta. Siamo la famiglia Wen, titolari del bar Condor, all’angolo tra via san Romano e via Carlo Mayr, attività che purtroppo nel corso dell’ultima settimana è stata vittima non solo di due episodi di disordine e criminalità (situazioni purtroppo sempre più frequenti in diverse aree del centro storico), ma anche di una non veritiera e potenzialmente diffamatoria rappresentazione sulle cronache locali, che oggi rischia di produrre pesanti ripercussioni sul nostro lavoro.

Come probabilmente saprà, la nostra attività è stata colpita da un provvedimento del questore che ne ordina la chiusura per cinque giorni, in seguito a due risse che si sono purtroppo concluse in mezzo ai nostri tavoli. Episodi che tuttavia, contrariamente a quanto riportato dalle cronache della stampa locale, non avevano avuto origine nel nostro bar, ma lungo via san Romano.

Giovedì scorso, un ragazzo inseguito da altri quattro giovani ha fatto irruzione all’interno del nostro locale, andando a nascondersi dietro al bancone per non essere picchiato. Nei minuti successivi la situazione si è fatta molto difficile: nostra figlia e il nostro barista, che lavoravano al bancone, sono stati intimoriti, insultati e minacciati, una vetrina è stata danneggiata, diversi clienti si sono comprensibilmente spaventati e si sono allontanati dal locale. Abbiamo subito contattato le forze dell’ordine perchè intervenissero per riportare la calma e per far uscire dal locale i protagonisti dell’episodio che, ribadiamo, era iniziato e si era sviluppato ben lontano dal nostro locale, che si è trovato danneggiato dalla conclusione del fatto.

Una realtà dei fatti purtroppo molto diversa da quella riportata da parte della stampa locale, che il giorno successivo ha descritto, senza verificare direttamente sul posto, una rissa scoppiata tra i clienti ai tavolini del nostro bar. Imprecisioni ed errori continuati anche nei giorni successivi, che hanno purtroppo dato l’immagine di una gestione in qualche modo condiscente verso gli atteggiamenti violenti, fino a definirci nell’edizione odierna come “il bar delle risse”.
Forse anche questi errori e questi giudizi diffamatori nelle cronache (per i quali stiamo valutando azioni legali verso le testate responsabili) hanno influenzato la decisione del Comune di Ferrara e del vicesindaco, che secondo i quotidiani starebbe valutando di colpire il nostro locale con la chiusura pomeridiana per i prossimi sei mesi.

Signor Fabbri, ci consenta di scriverle con franchezza e sincerità. Da almeno un paio di anni i fenomeni di degrado e microcriminalità in alcune aree del centro sono in aumento e la colpa non è, e non può essere fatta pesare, sui gestori delle attività economiche. Il nostro bar, così come molti altri, contatta puntualmente le forze dell’ordine di fronte a ogni caso di tensione, ma purtroppo nella stragrande maggioranza dei casi ci viene detto che finchè non si verificano dei veri e propri reati, finchè non viene commessa una vera e propria irregolarità o violenza, il loro intervento è impossibile.
Questo da un lato è comprensibile, ma dall’altro lascia spazio a un’infinità di comportamenti che per i gestori di un attività sono difficilmente arginabili e che rischiano costantemente di degenerare.
Le ragazze che lavorano al bar si trovano a sopportare comportamenti sgradevoli e ammiccanti, e spesso cerchiamo senza successo di allontanare personaggi che pretendono di restare seduti per ore alla distesa del bar senza consumare. Gli stessi personaggi che a volte (è il caso della settimana scorsa) fanno scoppiare una rissa nelle vie circostanti per poi “trascinare” il problema dentro a un bar. Sono situazioni purtroppo presenti in questo tipo di lavoro, ma così come per le forze dell’ordine non è facile avere a che fare con certi personaggi e certe dinamiche, nemmeno per noi lo è. Chi gestisce un’attività deve essere allo stesso tempo gentile ma deciso, cercare di stemperare e prevenire ogni problema, e chiamare polizia e carabinieri quando è necessario. Noi abbiamo sempre fatto la nostra parte e abbiamo sempre fatto tutto il possibile per sostenere le istituzioni, ed è per questo che essere colpiti in questi giorni da un provvedimento, da parte di Questura e Comune, oggi ci ha molto amareggiati.

Signor Fabbri, purtroppo in questi ultimi anni in centro storico si sono sviluppate alcune dinamiche di degrado che non devono passare inosservate, e in particolare nell’area tra via San Romano e Carlo Mayr. I titolari e i dipendenti di attività come la nostra non possono riuscire a fronteggiare questi problemi da soli, ma hanno bisogno dell’aiuto delle istituzioni: vorremmo sentire più vicina la presenza degli agenti quando è il momento di prevenire i fatti, vederli più spesso all’interno del nostro bar e nelle vie attorno al locale, aiutandoci a prevenire i comportamenti fuori dalle righe, piuttosto che dover subire le punizioni per i reati commessi da altri. Né il provvedimento della questura né quello del Comune vanno a colpire i veri responsabili dei disordini che si sono verificati: cosa succederà se ripeteranno altrove le loro azioni? Si imporrà un’altra chiusura a un altro bar?

Ci piacerebbe poterle spiegare di persona queste situazioni, questi episodi e i nostri punti di vista, e creare una vera collaborazione con le istituzioni contro quei sempre più diffusi fenomeni di degrado nella nostra zona. Anche per questo chiudiamo questa lettera con un invito: venga a trovarci nel nostro locale, quando ne ha il tempo e la possibilità. Saremmo felici di instaurare un rapporto diretto con Lei e spiegarle di persona i tanti problemi e le tante dinamiche che hanno a che fare con il lavoro di chi gestisce un bar, ma che spesso passano inosservate alle autorità e alle istituzioni. Siamo convinti che ascoltando direttamente la testimonianza di chi ha subito certi episodi e certe situazioni, anche lei si renderà conto che è possibile una collaborazione più diretta ed efficace con le attività economiche per favorire l’ordine pubblico. Dal canto nostro, siamo disponibili a aperti ai consigli e alle indicazioni che l’amministrazione ci vorrà dare, e dopo i fatti che ci hanno colpito stiamo valutando l’implementazione di un nuovo sistema di videosorveglianza o di un servizio privato di security. Le chiediamo però di non lasciarci soli di fronte a una serie di problemi e dinamiche che non hanno a che fare con il nostro bar, ma con ampie porzioni della zona che ci circonda. Le chiediamo di coinvolgerci nel percorso di valorizzazione e riqualificazione della nostra città, per non far sì che un’attività si ritrovi a scontare le responsabilità altrui. Siamo sicuri che instaurando un rapporto più diretto e ascoltando direttamente la voce dei titolari delle attività economiche, anche il vostro lavoro e le vostre politiche potrebbero trarne vantaggio e incidere in maniera più efficace e mirata sulla qualità della vita e sull’economia dei ferraresi.
Per il momento, sperando in un nostro futuro incontro, la ringraziamo per l’attenzione, con un augurio di buona giornata e buon lavoro.
A presto

la famiglia Wen, proprietari e gestori del bar Condor di via San Romano

Germogli /
Il generale Vannacci è un infiltrato:
lavora per la lobby Lgbt

“Quando vedo una persona di pelle scura non la identifico immediatamente come appartenente all’etnia italiana”.

“Omosessuali, non siete normali. Fatevene una ragione”

“Famiglia tradizionale? Squadra che vince non si cambia”

“Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare, Mazzini e Garibaldi”.

Gen. Roberto Vannacci

 

Enea era un turco di pelle scura originario di Dardania e figlio di Afrodite, che lo diede alla luce sul monte Ida dopo un rapporto occasionale con un pastore.

Romolo era figlio di Marte e Rea Silvia, vestale che doveva rimanere casta. Infatti Marte la stuprò.

Giulio Cesare era detto “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti”. Vedete voi.

Mazzini era di Genova, finalmente un italiano. Peccato che quando nacque Mazzini, Genova facesse parte dell’impero francese.

Garibaldi piantò la seconda moglie appena sposata sul sagrato della chiesa, perché scoprì che era incinta di un altro (chi la fa l’aspetti).

 

Se nelle sue vene scorre un po’ del sangue di tutti questi eroi, il Generale Vannacci è chiaramente un infiltrato. Gen. sta per gender, ed è al soldo della lobby Mondialista Lgbt per l’amore libero.

 

Presto di mattina /
Lo sguardo allo sperar della mattina

Presto di mattina. Lo sguardo allo sperar della mattina

La conversione dello sguardo

«Lo sguardo allo sperar della mattina! La fuga delle nuvole v’illumina»
(C. Betocchi, Tutte le poesie, 136).

A volte basta un solo verso di un poeta amato e le parole ritornano a guardarsi, e si abbracciano, rivelando le cose che si erano spente nel sonno della notte senza più figure.

Questo mattutino volgersi alla luce e abbracciar con lo sguardo il dilatarsi delle nuvole e poi il loro dileguarsi in chiarore di speranza, è immagine suggestiva, che esprime con efficacia la conversione dello sguardo, la sua luce nascente, appunto come uno “sguardo allo sperar della mattina”.

O benedetta, benedetta sia
la cristallina,
benedetta mattina:
benedetta la gente
che va che viene,
benedetta la mente che l’avvia,
ciascuno alla sua prova.
Come un campo fiorito si rinnova
(ivi, 187).

Lo sperare mattutino verso cui converge lo sguardo è tale perché è il luogo dell’immaginazione del possibile, del non ancora, apertura alle realtà o verità ancora infinitamente possibili: “se esiste il senso della realtà deve esistere anche il senso della possibilità” (R. Musil). Questo senso sa che ciò che era impossibile ieri, lo sguardo estroverso, portato oltre se stesso, lo attende come possibile, veniente così “la speranza è la passione del possibile” (E. Borgna).

La conversione dello sguardo richiede l’attesa perseverante di un altro sguardo. È un mutare la direzione dello sguardo, il suo farsi estroverso ad un orizzonte invisibile: «se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,25). È nello scambio e convergenza di sguardi che acconsentono l’uno all’altro che appare un orizzonte altro, un vedere nuovo. Cambiando il punto di vista mutano gli orizzonti e le cose nascoste vengono alla luce.

La conversione dello sguardo implica così una decisione della libertà, una scelta, una rottura anche con ciò che è dato, saputo e visto per ospitare un nascere, un vedere con gli occhi d’altri, con occhi altri.

È questo infatti uno sguardo che sa farsi sequela dietro a un altro sguardo e impara a vedere ciò che vede l’altro, un passo un altro passo, uno sguardo un altro sguardo: nei suoi occhi i nostri occhi. È questo così un processo che cambia con lo sguardo, la vita; itinerario attraverso i volti umani, una via di crescita e maturazione, di cambiamento e superamento infiniti. Attraverso i volti veniamo alla luce, viviamo di nuovo.

Lo sguardo che salva

Nel deserto del Sinai il cammino del popolo di Dio era insidiato da serpenti velenosi annidati tra le pietre. Il libro dei Numeri racconta che la guarigione da quei velenosissimi morsi veniva dallo sguardo rivolto a un serpente di bronzo innalzato da Mosè e indicato da Yhwh come simbolo di salvezza. Così la spiegazione di quell’episodio riportato nel libro della Sapienza (16,6-7): «Chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da Te, salvatore di tutti».

Nel Vangelo di Giovanni Gesù stesso, nel dialogo notturno con Nicodemo, riprende questa figura mostrando un parallelo tra quel segno di salvezza innalzato e offerto agli sguardi dei morenti e «il Figlio dell’uomo innalzato», cioè lui stesso innalzato sulla croce posto sotto gli occhi di tutti.

Queste le sue parole: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14). Come a dire che lo sguardo che attraversa e abita la sofferenza d’altri, trafigge quel dolore, è ferita portatrice di salvezza.

Scrive Simone Weil: «Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che la salvezza sta nello sguardo. Il serpente di bronzo è stato innalzato affinché gli uomini che giacciono mutilati al fondo della degradazione lo guardino e siano salvati… Tutti gli uomini, qualsiasi cosa stiano facendo, dovunque si trovino, dovrebbero poter tenere lo sguardo fisso, per tutta la durata del giorno, sul Serpente di bronzo. Ma dovrebbe anche essere riconosciuto pubblicamente, ufficialmente che la religione non consiste in nessun’altra cosa, se non in uno sguardo» (Attesa di Dio, 159; 165-166).

E ancora per la Weil «lo sguardo è la sola forza efficace in questo ambito della trascendenza, poiché è lo sguardo che fa discendere Dio fino a noi. E quando Dio è disceso fino a noi, ci solleva, ci dà le ali» (Amore di Dio, 110).

Ripartire dallo sguardo

‘Sguardo’ è una parola chiave nel lessico di papa Francesco. Del resto nella spiritualità ignaziana la trasformazione dello sguardo è molto importante. L’uso del verbo ‘mirar’ (guardare) è uno dei più presenti negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola e si coniuga con altri verbi come ‘osservare’, ‘discernere’, ‘contemplare’ e anche ‘prendersi cura’.

Nel discorso ai vescovi a Città del Messico, nella cattedrale dell’Assunzione il 13 febbraio del 2016 egli ricordava che la prima riforma ecclesiale sta negli atteggiamenti, e tra essi fondamentale e quello dello sguardo che si specifica come sguardo di tenerezza, capace di tessere, attento e vicino, non addormentato, sguardo d’insieme e di unità:

«Dio vi chiede di avere uno sguardo che sappia intercettare la domanda che grida nel cuore della vostra gente, l’unica che possiede nel proprio calendario una “festa del grido”. A quel grido bisogna rispondere che Dio esiste ed è vicino mediante Gesù. Che solo Dio è la realtà sulla quale si può costruire, perché Dio è la realtà fondante, non un Dio solo pensato o ipotetico, ma il Dio dal volto umano».

All’Angelus del 30 ottobre 2022, commentando l’episodio evangelico di Zaccheo, ancora papa Francesco ricordava che la conversione dello sguardo parte dal basso. Lo sguardo dei cristiani e della Chiesa deve sempre abbracciare dal basso e cercare “chi è perduto, con compassione” – come quello di Gesù verso Zaccheo – e non può essere “uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza ed esclude”. Sguardo che a volte rivolgiamo anche a noi stessi, quando “ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo”, e non cerchiamo invece “l’incontro con Gesù che guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare”.

Nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia del 2016 la conversione dello sguardo diviene l’ordito dell’intero testo. Vi è esplicitata l’esigenza di una conversione dello sguardo sulle abitudini familiari, sulla dottrina matrimoniale vista nel suo aspetto prevalentemente giuridico, sull’agire pastorale nella chiesa e nelle comunità. Per questo cambiamento di prospettiva occorre partire dallo sguardo di Gesù che «ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio» (ivi, 60).

Anche in Querida Amazzonia papa Francesco ha invitato ad uno sguardo decentrato per far emergere un nuovo sviluppo sociale, una diversa cultura, un’altra relazione con la natura, una singolare forma ecclesiale.

Il volgersi degli occhi per abbracciare con lo sguardo

Occhi del mattino, occhi di discepoli che incalzano nell’ombra il venire della luce nell’abbraccio dello sguardo. Questo abbraccio cominciò a Betlemme, segnò l’inizio della missione di Gesù e della chiamata a sé dei discepoli; culminò sul Golgota e ripartì di nuovo dalla Galilea delle genti per non fermarsi più.

Il volgersi dello sguardo di Gesù a quella domanda dei discepoli di Giovanni all’inizio del suo ministero pubblico quando vedendo che lo seguivano egli chiese: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?”. E la risposta fu e continua ad essere ancora quella, anche oggi: “Venite e vedrete” (Gv 1, 38-39).

Il volgersi dello sguardo di Gesù è rivelativo della sua persona. Il suo sguardo si volge là dove qualcosa germina o muore, dove è ferita da risanare, dove è soffocamento da rianimare, chiusura da aprire, caduta da rialzare. Si volge verso l’ignoto e il mistero di ogni volto per illuminare nel suo, lo sguardo del Padre nostro.

Fondamentale è lo sguardo di Gesù nei vangeli e ogni evangelista ne tratteggia un particolare aspetto. Esprime la sua attenzione di amore. Si pensi allo sguardo con cui Gesù abbraccia i discepoli e le folle all’inizio del discorso della montagna (Mt 5,1), o a quello con cui fissa il «giovane ricco» (Mc 10,21), o a quello rivolto a Maria di Magdala il mattino di Pasqua. Letteralmente è l’amore che guarda.

Gesù “si volge” verso qualcuno perché questi si volgano a loro volta, alzino il loro sguardo verso di lui e ricevano il suo: uno sguardo altro, uno sguardo diverso sulla realtà circostante, una conversione appunto. È lo sguardo della sua fede come fiducia filiale, che egli trasmette e chiede ai suoi discepoli e alla gente che incontra: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 36-37). E ancora: «Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore!» (Lam 1, 12).

La prima forma di amore

Volgere lo sguardo è la prima forma di amore: è come aprire una porta per farne uscire la luce, quella di uno spazio di ospitalità inatteso, imprevedibile per colui che sembrava bussare invano. Si dischiude un altro mondo, un altro senso possibile: “lo sperar della mattina”.

E negli sguardi che convergono si genera attenzione ed energia di vita, tanto che passa qualcosa capace di colmare il cuore e lavare gli occhi pieni di polvere. È la luce dell’intimità dell’altro che appare nel volgersi dello sguardo: «I tuoi occhi sono come una lampada: se i tuoi occhi sono semplici, tu sei totalmente nella luce» (Mt 12, 34)

Aprite dunque la porta e noi vedremo i frutteti,
Berremo l’acqua fresca ove la luna ha posto a sua traccia.
La lunga strada brucia, ostile agli stranieri,
Noi camminiamo ignari e non troviamo un luogo dove fermarci.
Vogliamo vedere dei fiori. Qui ci divora la sete.
Aspettando e soffrendo, eccoci davanti alla porta.
Se occorre, abbatteremo la porta con le nostre mani.
Spingiamo con tutte le forze, ma essa è troppo robusta.
Dobbiamo languire, aspettare, guardare invano.
Guardiamo la porta: è chiusa, incrollabile.
Vi fissiamo lo sguardo: piangiamo, tormentati.
La vediamo sempre; il peso del tempo ci opprime.
La porta è davanti a noi: a che serve volere?
Meglio rinunciare, abbandonare la speranza.
Non entreremo mai. Siamo stanchi di guardarla …
E la porta, aprendosi, lasciò passare tanto silenzio.
Ma né frutteti né fiori abbiamo visto;
Solo lo spazio immenso dove sono il nulla e la luce
Ci apparve improvvisamente da ogni parte, ci colmò il cuore
E lavò i nostri occhi quasi ciechi sotto la polvere.
(S. Weil, L’amore di Dio, 73).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Le Voci da Dentro /
Lettera-appello: “Per salvare qualche vita non bastano due telefonate in più al mese”

Pubblichiamo e sottoscriviamo in maniera convinta questa lettera-appello firmata da Ristretti Orizzonti, dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e dall’Associazione Sbarre di Zucchero in cui si chiede un cambiamento vero nelle modalità in cui viene scontata la pena detentiva.
(Mauro Presini e la redazione di Periscopio)

Per salvare davvero qualche vita non bastano due telefonate in più al mese

 È da anni che noi portiamo avanti la battaglia perché alle persone detenute sia data la possibilità di curare gli affetti e rafforzare le relazioni.

Abbiamo tirato un sospiro di sollievo a leggere che il ministro Nordio si era reso conto dell’importanza di dare una svolta a tutta la negatività che sta travolgendnorfionordioo le carceri puntando proprio in particolare sull’aumento delle telefonate. Ma poi siamo ripiombati nella dura realtà di proposte inconsistenti, perché crediamo che tutti quelli che come noi entrano tutti i giorni in carcere tale reputino la proposta di aumentare da quattro a sei le telefonate mensili.
Ma cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di 10 minuti l’una in quelle vite di solitudine isolamento lontananza dalle famiglie?

Da quando è scoppiato il Covid abbiamo continuato a dire che quelle telefonate in più (concesse dopo le rivolte con cadenza quotidiana o quasi) che avevano salvato il sistema dal disastro, non potevano più essere tolte, anzi andavano potenziate.

E invece è successo quello che non doveva succedere: fermata l’epidemia si è deciso di fermare anche molte delle telefonate in più, salvo in quelle carceri dove la forza del volontariato e del Terzo settore, delle persone detenute e dei loro familiari ha trovato una risposta saggia delle direzioni e il buon uso delle loro prerogative per mantenere le telefonate.

Sappiamo benissimo che sarebbe importante la modifica della legge, però sappiamo anche che molto si può fare già da ora, e soprattutto che non bisogna mollare la presa, tanto più in un periodo in cui in carcere si manifesta sempre più alto il disagio con suicidi e atti di autolesionismo, uniti alla desertificazione delle estati negli istituti di pena.

A chi risponde che “hanno sbagliato e devono pagare” non si ricorda mai abbastanza che secondo la nostra Costituzione le pene devono tendere alla rieducazione e non si rieduca rispondendo al male con altrettanto male.

I nostri governanti sembrano ignorare che la pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti.

Perché qui si fa del male anche ai familiari, che non hanno nessuna responsabilità, anzi hanno bisogno di essere incoraggiati e aiutati.
E ricordiamoci che ci sono paesi in cui le famiglie indigenti vengono sostenute dalle istituzioni. Le telefonate le persone detenute in Italia se le pagano: qualcuno non venga a dirci che non si possono creare differenze tra chi può pagarne di più e chi non può, si tratta piuttosto di aiutare e sostenere chi non ha possibilità, tanto più che se queste persone avessero come prescrive la legge un lavoro, questo problema non esisterebbe.

Una copertina di “Ristretti Orizzonti”, Il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova e. dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca di Venezia.
L’ultimo numero della storica rivista “Ristretti Orizzonti”,

Sono anni che Ristretti Orizzonti e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia portano avanti importanti battaglie in particolare sul tema degli affetti (che significa anche colloqui, colloqui intimi, massimo ampliamento dei colloqui con terze persone…). In quest’ultimo anno si è aggiunta poi l’Associazione Sbarre di zucchero, nata in seguito al suicidio di una giovane donna detenuta, Donatela Xodo, una realtà che ha portato in queste battaglie passione, intelligenza e capacità di comunicazione.

Insieme chiediamo al Ministro della Giustizia un gesto di cambiamento vero.
Chiediamo di sostenere questa nostra richiesta al presidente Mattarella e a Papa Francesco.

Ristretti Orizzonti
Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia
Associazione Sbarre di Zucchero

Cover: immagine tratta da L’Unità

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Storie in pellicola /
La signora Harris, ‘dame’ d’altri tempi

Una commedia brillante, umorismo, eleganza e romanticismo: perché Parigi è sempre Parigi

Londra 1957 e una governante che sbarca il lunario, rimasta sola dopo la scomparsa del marito in guerra, fra clienti più o meno esigenti ed altre signore eleganti che si dimenticano di pagarla. Tanta fatica, impegno e voglia di riscatto (e di bellezza).

È una storia di pregiudizi sociali, quella dell’invisibile Ada Harris (Leslie Manville), tratto dall’omonimo romanzo di Paul Gallico (Frassinelli), ma anche una divertente avventura fra magnifici vestiti (ideati dalla costumista Jenny Beaven, tre volte premio Oscar, oltre ad alcuni originali) e una sempre meravigliosa e romantica Parigi. E poi ci sono tanta complicità, empatia, semplicità e amicizia in La signora Harris va a Parigi, di Anthony Fabian.

 

Quando la simpatica signora Harris scopre nell’armadio di una delle sue ‘datrici di lavoro’ (Lady Dant, interpretata da Anna Chancellor), uno sfavillante e luccicante abito di alta moda dai colori tenui (il modello Dior Ravissante), se ne innamora e insieme a quella meraviglia s’innamora anche dell’idea di essere vista, ammirata, riconosciuta, guardata. Insomma, notata e considerata. Quell’abito diventa metafora di un riscatto tanto desiderato, di una pausa dalle preoccupazioni quotidiane, noiose, sempre uguali, spesso senza senso. Un sogno che deve diventare realtà. Costi quel che costi.

Il prezzo di quel sogno è di cinquecento sterline, non poco per quell’epoca storica. E poi bisogna aggiungervi i soldi del volo per Parigi e per restarci qualche giorno. Sterlina dopo sterlina, fra un bicchierino di sherry e qualche pasticcino, ogni incasso viene annotato attentamente su un taccuino, la pensione del marito Eddie arriva, subito dopo una vincita improvvisa; tutto servirà ad alimentare quell’incontro con la bellezza che sta per avverarsi.

Così Ada vola a Parigi, entra nel tempio della moda, la Maison Dior ad Avenue Montaigne (spazio intimo ed elegante, perfettamente ricostruito, insieme alle esclusive sfilate e alle iconiche Dior ‘Medaillon Chair’), sfidando gli sguardi snob che la scrutano dall’alto al basso e i commenti classisti della direttrice dell’atelier, Claudine Colbert (Isabelle Huppert), che di lei non ne vuole sapere.

Ma qui, testa alta e spalle dritte, fiera di poter accedere a quel posto esclusivo, anche grazie all’invito cortese del Marchese di Chassagne (Lambert Wilson), la signora Harris avrà la sua rivincita.

Trasformandosi pure, in un intreccio di eventi avvincenti, in paladina dei diritti dei lavoratori e ‘aggiustatrice’ delle vite altrui, insieme alla modella Natasha (Alba Baptista) che legge Sartre e al timido ma intelligente contabile André (Lucas Bravo), che salverà la Maison dal fallimento.

Un’atmosfera incantevole, alcune vedute parigine ricordano scene di “Midnight in Paris”, di Woody Allen, tanti buoni sentimenti. E poi i vestiti, che vestiti …Basti pensare che cinque capi d’archivio Dior compaiono in La signora Harris va a Parigi, mentre dodici sono stati ricreati dallo staff della produzione appositamente per le riprese. I restanti provengono anch’essi dall’archivio Dior ma sono repliche realizzate negli anni ’90 dalla Maison proprio per dare nuova vita a dei modelli storici considerati ormai immortali.

Oltre all’iniziale abito da cocktail Ravissante, che fa innamorare la signora Harris di Dior e dell’alta moda francese, compaiono il famoso Bar Suit, completo iconico presentato nella prima collezione del 1947, l’abito in organza bianca con finiture in velluto nero Vaudeville (1957), il modello Caracas (1957), realizzato in seta color acquamarina, il Cachottier (1951), composto da una giacca in shantung color avorio e di abito di lana alpaca nei toni del grigio e il modello Porto Rico (1955), in seta nera con decorazione di pois bianchi. Venus è, invece, uno degli abiti più significativi del film in quanto lo vediamo in diversi stati della sua lavorazione, dalla sfilata alla consegna alla sua cliente, fino alla sua triste fine. Frutto dell’immaginazione della costumista, l’abito segue la metamorfosi della signora Harris che dal tulle rinasce e riscopre la sua femminilità, proprio come una moderna Venere. Un abito di seta verde smeraldo, lo stesso colore della speranza. Temptation – ovvero l’abito rosso che conquisterà il cuore di Ada – rappresenta, infine, una delle (ri)creazioni più pregiate elaborate da Beavan. Punta della collezione presentata nel film, è ispirato allo storico modello Diablotine, del 1957. Pura meraviglia, di che rifarsi gli occhi.

Non si può, allora, non tifare per la generosa Ada, per il suo vestito fatto su misura per lei, che stravolge le regole del gioco, per i suoi piccoli ma grandi sogni, per la sua vittoria.

Il grande merito di questo film, che cambia davvero l’umore e trasporta in un’altra dimensione per due ore, è quello di far riflettere sulle persone invisibili ma capaci e preziose, spesso insostituibili, che, standoci accanto, popolano, in silenzio, le nostre vite. Far capire che non siamo il nostro lavoro, quello che lui dice di noi, che sognare non fa male a nessuno. Alla riscoperta di un’umanità che si sta perdendo e smarrendo.

Video intervista al regista Anthony Fabian, a cura di Manuela Santacatterina

La signora Harris va a Parigi, di Anthony Fabian, con Lesley Manville, Isabelle Huppert, Lambert Wilson, Alba Baptista, Lucas Bravo, Gran Bretagna, Ungheria, 2022, 115 minuti.

Universitari fuori sede.
“Settembre andiamo, è tempo di migrare”… con la tenda appresso

Universitari fuori sede: ci risiamo con i prezzi alle stelle per una stanza

Siamo a pochi giorni dall’avvio del nuovo anno accademico e da qualche settimana è già ricominciata la corsa alle stanze da parte degli studenti fuori sede, che si aggiunge a quella dei lavoratori. Lavoratori e universitari che anche quest’anno dovranno fare i conti con rincari dei prezzi, che continuano ad essere proibitivi, nonostante un’offerta del mercato più cospicua, visto l’aumentare diffuso degli alloggi di questa tipologia.

L’ultimo rapporto di Immobiliare.it Insights, società del gruppo di Immobiliare.it, registra infatti un aumento dell’offerta molto importante soprattutto nei centri satellite, come Brescia (+75%), Latina (+68%), Bergamo (+49%), che ora si propongono come alternativa ai poli di maggiore dimensione, grazie anche alla presenza di collegamenti rapidi con la grande città e un’offerta didattica spesso similare. Una crescita degli alloggi disponibili che dovrebbe portare ad un maggiore equilibrio tra domanda e offerta e che potrebbe dare un freno alla risalita dei canoni di locazione. Anche se per il momento questo calo non si registra e i costi medi per una stanza crescono: i prezzi medi vanno da 626 € al mese per una stanza a Milano (+1% rispetto al 2022), a 482 a Bologna (+8%), città che supera Roma dove il prezzo medio è di 463 €. A Bologna, a causa dei costi elevati, gli studenti cercano fuori città e così la domanda è calata del 14%. A Padova si registra un calo del prezzo (-12%), mentre a Venezia il prezzo è aumentato del 10%  a causa degli affitti turistici. A Bari  vi è l’incremento maggiore dei costi, con un +22%, seguita da Brescia e Palermo con il +18%, e da Parma e Pescara, con un +16%. A Firenze e Trento i prezzi sono invece calati del 4% e del 2% rispettivamente. Qui per maggiori info

E mentre il mercato privato continua a farla da padrone e risulta sempre più proibitivo, l’offerta pubblica di posti per studenti fuori sede continua ad essere drammaticamente insufficiente, coprendo appena il 5% del fabbisogno.
L’obiettivo del PNRR, come si sa, è quello di arrivare al 20% con la creazione di 60mila posti letto entro il 2026. Ma la prima fase della misura è miseramente fallita. Sulla gestione del PNRR i conti non sembrano tornare, almeno secondo l’Unione degli Studenti Universitari e la CGIL, che hanno scritto alla Commissione Europea di effettuare verifiche puntuali in merito al numero degli alloggi universitari legati ai fondi del PNRR: “Il Pnrr Italiano – affermano Cgil Udu nella lettera inviata a luglio alla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen – prevede un’opportunità incredibile, grazie a uno stanziamento di 960 milioni per realizzare 60mila posti letto per studenti universitari entro il 2026. L’Italia ha dichiarato di aver raggiunto il primo obiettivo di 7.500 posti letto che dovevano essere realizzati entro il 2022, ma dai numeri presentati risultano rendicontati anche alloggi già esistenti e operativi, i quali sono stati censiti e la destinazione d’uso è stata vincolata. L’obiettivo di realizzare 7.500 posti letto ci risulta pertanto raggiunto soltanto per il 58%”.

Gran parte dei posti letto realizzati – proseguono Cgil e Udu – non favoriscono l’accesso all’Università, dal momento che arrivano a costare 900 € al mese. Il Ministero ci rassicura, affermando che il 20% dei posti letto dei privati sono destinati al diritto allo studio. Tali rassicurazioni non sono però accompagnate da prove oggettivamente verificabili, nonostante abbiamo chiesto ripetutamente trasparenza e precisi vincoli sui posti letto. Il Ministero non ha coinvolto le parti sociali e questi sono i pessimi risultati”.

Per Cgil e Udu: “Non è accettabile che vengano contati migliaia di posti letto già precedentemente occupati da universitari. Peraltro, ci risulta che le autorità italiane abbiano richiesto ulteriori 500 milioni di euro per questa misura. Auspichiamo che la Commissione Europea esiga trasparenza, domandando che i posti letto realizzati favoriscano effettivamente l’accesso all’università, tramite condizioni economiche accessibili alla maggioranza degli studenti”.

All’orizzonte si va sempre più delineando un fallimento del PNRR sugli alloggi universitari (e non solo, purtroppo).
Proprio l’Unione degli Universitari aveva per tempo cercato di mettere in guardia dai pasticci che si profilavano, presentando a maggio scorso la ricerca dal titolo “DIRITTO AL PROFITTO: Come sperperare i fondi del PNRR”. [Leggi qui]  Il sindacato studentesco aveva denunciato soprattutto l’apertura incondizionata a qualsiasi soggetto privato. Scriveva l’UDU che: “anche se apparentemente gli interventi pubblici e privati sembrano equivalersi nel numero, in realtà la maggior parte delle risorse e dei posti letto si concentreranno principalmente sui privati, con un rapporto di 3 a 1 rispetto al pubblico. Gli atenei e gli enti per il diritto allo studio hanno infatti preferito concentrarsi su interventi più piccoli, per i quali sicuramente era più facile disporre di risorse e mezzi sufficienti: sui dieci interventi più grossi, ben nove risultano essere proposti da soggetti privati (e il decimo è quello della Statale di Milano che si rivolge comunque a un soggetto privato).
Ad emergere sono specialmente due realtà note: Campus X e Camplus. […] Nello specifico, per la prima tranche di finanziamenti PNRR, la protagonista principale è stata proprio Camplus, un soggetto che oggi gestisce un patrimonio immobiliare di oltre 700 milioni di euro. Sulle 82 residenze cofinanziate, fanno riferimento al mondo Camplus (Fondazione CEUR, Fondazione Camplus, Camplus International SRL) ben 23 residenze che hanno ottenuto contributi pubblici pari a circa 106 milioni di euro”.
Un dato emblematico emerso dalla ricerca dell’UDU è che i privati hanno ottenuto contributi pubblici pari  a 210 milioni di € (73%), mentre soltanto 77 milioni di € (27%) sono andati al pubblico.

Appare perciò sempre più urgente, secondo l’Unione, rimettere al centro il soggetto pubblico, specificare che i posti letto realizzati devono essere veramente nuovi, imporre una quota minima di posti letto destinati al Diritto allo Studio, tramite la sottoscrizione di una convenzione con atenei ed enti per il Diritto allo Studio. Infine, la messa a punto di un piano pluriennale di investimento da 3 miliardi di € per realizzare 30mila posti letto e riqualificarne 20mila. “Solo così, sottolinea l’UDUriusciremo a garantire realmente il Diritto alla Casa e allo Studio”.

In copertina: Pecore a Milano in via Monte Napoleone (foto da 7giorni)

C’ERA UNA VOLTA TERRAVIVA:
30 meravigliosi anni di un sogno diventato realtà. Ma oggi la logica di mercato e la miopia politica hanno rovinato tutto

Il Comune delle banane: due pesi e due misure, entrambe sospette

Ho chiesto ad Andrea Gandini, un caro amico e un prezioso collaboratore di questo giornale, di raccontarci la storia di quei 4 ettari di “campagna in città” fino alla recente vexata quaestio dell’oasi verde intra mura di Via delle Erbe, che tutti a Ferrara conoscono come Terraviva [Qui il mio recente articolo su Periscopio]. Dal 2001 al 2017, Gandini è stato uno dei principali protagonisti dell’Associazione Nuova Terraviva . So che se ne è andato disgustato, insieme a tutti coloro che vi avevano lavorato volontariamente per oltre un decennio. Ma prima di dargli la parola, non posso non rilevare una coincidenza/differenza tra due casi che in città fanno molto discutere.

Il Comune di Ferrara, invocando la tutela di pubblica sicurezza,  ha emesso (in pieno Ferragosto!) un’ordinanza che vieta l’accesso agli spazi del Centro sociale La Resistenza, fintanto che non saranno ultimati i lavori di messa a norma della struttura (impianto elettrico eccetera). Se l’associazione non trovasse i denari necessari e non riuscisse ad individuare un’azienda che completi i lavori entro il termine draconiano di 30 giorni, gli stessi verranno effettuati con comodo dal Comune, ponendo a carico del Cps La Resistenza le spese.  Da notare che all’ultima ispezione che ha dato origine alla ordinamza, ha partecipato anche il solerte Vicesindaco, per dimostrare la tempestività e  l’efficienza del Comune.
Per buona sorte a Ferrara è partita una gara di solidarietà [Vedi qui] per raccogliere i fondi necessari per effettuare i lavori e salvare La Resistenza, l’unico Centro Sociale sopravvissuto a Ferrara.

La gestione attuale di Terraviva invece opera sin dal febbraio 2020 (sono passati 3 anni e mezzo) in locali interamente abusivi, nei quali si svolgono anche i campi per bambini, con wc abusivi, cucina abusiva, nonostante una sentenza del Tribunale di Ferrara (febbraio 2020) avesse intimato di sgomberare e abbattere i “manufatti incongrui”. Ma qui il Comune di Ferrara non vede e non sente. Anzi, al bando del 2022 per riassegnare l’area dopo aver aperto le buste della gara e aver visto che Terraviva aveva perso (80 a 67), annulla la gara e ne fa un’altra ad hoc per lei, togliendo pure l’affitto da pagare al Comune.
Due pesi e due misure, tipiche di un Comune delle banane.
Francesco Monini
direttore di Periscopio

C’era una volta a Ferrara una Terra Viva (Terraviva)

Qui comincia l’avventura 

Per 15 anni (fino al 2017) ho contribuito con molti altri/e a valorizzare la “campagna in città in quei 4 ettari straordinari di bene pubblico che furono inventati da Serafino Monini. L’ingegnere “ricco e generoso”, come lo chiamavamo noi giovani ribelli, che gli avevamo chiesto di far pagare l’affitto ai propri inquilini in base al reddito (max 13%). E lui lo fece.
Uomo straordinario che come assessore (e costruttore del residenziale di via delle Erbe 29-55) convinse nel 1985 Nara Forti (moglie di Eugenio Ravenna, salvato dai russi sul tavolo operatorio di Auschwitz e fratello di Paolo Ravenna, presidente di Italia Nostra che si inventò “l’Addizione Verde”, restauro delle Mura e Parco Urbano) a vendere al Comune per una modestissima cifra (180 milioni, oggi 220mila euro) quei 4 ettari di campagna che fanno oggi di Ferrara la città in Europa con la più vasta campagna in centro storico. Ai politici (ancor più a quelli di oggi) quello straordinario posto non è mai interessato molto.

E la terra divenne Terra Viva

Lo coltivarono ad agricoltura biodinamica dal 1987 fino al 2000 i fondatori di Terraviva (Silvio Vignali, Francesca Squarzoni, Paolo Pistis, Alessandro Grandi e Paolo Poggi).
Nel 2000 siamo arrivati anche noi e lo abbiamo ulteriormente trasformato in un posto bellissimo: alberi, siepi, percorsi spirituali (come quello a lemniscata suggerito da Paolo Pistis, oggi in abbandono come quasi tutto), un frutteto di 15 alberi patriarchi (i più antichi della loro specie) che consente a Ferrara di entrare nella rete regionale dell’Arpa di studio sul clima e far vedere a bambini e scolaresche come sono fatti i veri meli o il melograno di Forlì (che i gestori di oggi chiamano di Piacenza).
Poi le due casette sugli alberi e il percorso arboreo, il tunnel verde dentro una gigantesca siepe, mentre Riccardo Sarto curava le api come fossero sue figlie. Inserito pecore, capre, sculture e installazioni artistiche (oggi scomparse).

Lo abbiamo fatto per creare bellezza e un luogo ricco di incontri, corsi e spiritualità. Nuova Terraviva ha vissuto un periodo d’oro fino al 2017, arricchito dai campi estivi che il maestro Waldorf Mattia Gandini ha sviluppato portando le presenze dei bimbi da 100 a 600. Tante iniziative culturali e corsi di maestri/e come gli acquerelli di Maria Pia Tonioli, Anna Tambini, la potatura di Massimo Casoni, la lana cardata, le conferenze di Marcello Girone, le feste di primavera, le pizze della Marianna, i pranzi di Gianni, Alessio e Vasuki, le domeniche di avvento in preparazione del Natale, l’entusiasmo dei soci e di una presidente architetto come Costanza Cavicchi, la bellissima esperienza degli orti condivisi di Anna Faccini, Riccardo Guirrini, Marcello Guidorzi, Mirco Micheli e gli altri 30 loro soci, inventando un modo di coltivare in cui si stava insieme. Giorni felici e comunità viventi con qualche litigio, come avviene dove c’è vita.

Il colpo di mano dentro l’Associazione

Nel 2017, in una fase di riorganizzazione interna dell’Associazione per la partecipazione al nuovo bando, si sono introdotte persone che hanno estromesso tutti i soci volontari di lunga data e cambiato volto e finalità dell’Associazione, appropriandosi senza alcuno scrupolo di tutto ciò che l’Associazione aveva costruito e seminato nei precedenti 30 anni. Fu subito chiaro che questo gruppo non voleva partecipare ad un bando pubblico ma trovare un modo per rimanere nell’area sfruttando il posto straordinario e l’avviamento “ereditato”.

Giovanni Dalle Molle, contadino bio, che ha curato la terra dal 2007 e venduto le sue verdure per 10 anni, arricchendo il posto col suo insopprimibile protagonismo – tra concerti estivi, colazioni letterarie e cene d’autore – dopo aver chiesto di poter ulteriormente prorogare la concessione, ha accettato civilmente l’esito della sentenza del Tribunale dell’11.2.2020 che lo intimava a lasciare questo “raro brano di campagna dentro le mura”, come lo ha sempre definito la Sovrintendenza.
Questo amato luogo, che è prima di tutto un luogo pubblico, meritava infatti una nuova procedura trasparente per l’affidamento della gestione, valutata per merito del progetto e affidabilità e professionalità dei gestori, al fine di portare nuova linfa e risalto per il bene della città e oltre. La Convenzione prevedeva (giustamente) a fine periodo (11.11.2017) di smantellare i manufatti incongrui (confermata dalla sentenza del Tribunale dell’11.2.2020) contro Nuova Terraviva che voleva rimanere “a tutti i costi” nell’area.

Finalmente il bando pubblico

Dopo che per 2 anni il Comune concede a Nuova Terraviva una gestione temporanea (senza intimare di abbattere i manufatti incongrui, come pure chiedeva il Tribunale), finalmente indice nel 2022 un bando dove si prevedevano importanti investimenti nell’area per il gestore ed un canone annuo minimo di 11.500 euro.
Pensavamo che la nuova Amministrazione avesse capito l’importanza di valorizzare questo posto e dare spazio a nuovi protagonisti e nuove idee, come il bosco in città dell’ass. Patriarchi della Natura, leader in Italia coi suoi 650 alberi patriarchi e tante altre idee lungimiranti, che in effetti sono state elaborate da un ampio gruppo di oltre 10 tra associazioni, imprese e Università sotto la guida dell’Azienda Agricola Corte Frazza e coordinate dall’ing. Alberto Minotti.

Il colpo di mano del Comune: annullata la gara a buste aperte

E infatti, la qualità della proposta della nostra ampia cordata è stata apprezzata dai 3 dirigenti valutatori con il massimo punteggio tra i partecipanti (67 punti) contro i 53 dell’associazione Nuova Terraviva.
Ma a qualcuno non andava bene che vincesse un soggetto diverso, per cui (a buste già aperte!) la gara è stata annullata, con la falsa giustificazione che “non c’era ancora il PUG”, Il Piano Urbanistico Generale che il Comune avrebbe dovuto approvare nel 2021.

La giustificazione si è rivelata palesemente falsa anche perché il PUG ha continuato a non esserci anche 6 mesi dopo, quando è stata fatta una seconda gara ad hoc, organizzata velocemente (con soli 15 giorni di informazione tra le festività di San Giorgio e del Primo Maggio), presentata dal Direttore Generale, cosa non vietata, ma molto anomala e successa pochissime volte nella legislatura, a cui potevano partecipare però solo le associazioni del Terzo settore residenti a Ferrara (guarda caso, come l’associazione Nuova Terraviva che poi ha vinto).

Salta fuori un secondo bando. E un vincitore sicuro.

Il nuovo bando appare “strano”,  tanto da far pensare a un testo sotto dettatura, ma quello che più colpisce è che  –  a differenza del Bando originale che prevedeva un introito positivo per i cittadini in termini di lavori, manutenzione di qualità e valorizzazione dell’area e di affitto per le casse del Comune – viene previsto un contributo a fondo perduto per l’associazione aggiudicataria e nessuna traccia degli obblighi di sviluppo dell’area e di manutenzione ordinaria e dei grossi investimenti previsti nel primo bando (illuminazione della pista ciclabile pubblica, demolizione dei manufatti esistenti e realizzazione di nuovi a norma, etc.,).

Si è così “privilegiato” (ho usato un eufemismo)  quel gruppetto che si era impadronito per interessi personali della storica Associazione Nuova Terraviva.  Stupisce la miopia degli amministratori del Comune che buttano nel cestino il lavoro prezioso di progettazione di tante associazioni, imprese, esperti per il bene della città (validato dai commissari valutatori) in spregio alle più elementari regole di gestione della cosa pubblica.

Cosa ha perso Ferrara, cosa dobbiamo riconquistare

Si depotenzia così un futuro che poteva essere straordinario, anche se ancora aleggia la bellezza del luogo e quella creata da 300 soci e migliaia di cittadini che hanno fatto viva questa terra bio, ora abbandonata.
E tutto a che scopo? Perché qualche soldino si può fare comunque non pagando l’affitto (che incredibilmente il Comune ha tolto), limitandosi ad una manutenzione minima, e tanto l’orto la fanno i lavoratori socialmente utili, che non costano (collaborazione anche questa ereditata dalla precedente gestione). Si pagano poco le giovani educatrici dei campi estivi, si prende il cibo al Metro (quello che c’è scritto sul sito web risale a 10 anni fa).
Ben altra cosa era l’idea di costruire e manutenere un luogo magico e di attrazione internazionale, con tanti servizi per la città.

Da 4 anni abito in Trentino. E quando racconto come vanno le cose in quel di Ferrara ai leghisti di qui, mi guardano straniti, perché i Trentini, che ci tengono tantissimo alle loro comunità, sanno che per “tirar vanti”, insieme alle buone tradizioni e alla difesa del local, bisogna valorizzare chi ha talenti, professionalità, risorse, se si vuole generare qualità e bellezza (e sviluppo locale).
Non credo sia un caso che nel 2022 a Trento l’occupazione sia cresciuta di 3mila unità sul 2021, mentre a Ferrara sia calata di 1.500 persone (siamo al 6° ultimo posto in Italia su 106 aree, insieme a Caserta, Crotone, Caltanissetta; fonte Istat). Gli amministratori hanno annullato anche le indagini che si facevano sull’occupazione locale, sperando che nella nebbia, nulla si veda, ma la realtà (e la verità) prima o poi viene a galla.

Ma non priviamoci di sperare, seppur nel “paese delle banane” (quale stiamo diventando) perché al bel l’è in t’l’ultim!”.

Parole a capo
Francesca Del Moro: poesie tratte da “Questo posto buono”

Fai che per te io sia l’estate anche quando saran fuggiti i giorni estivi.
(Emily Dickinson)

Poesie tratte da “Questo posto buono” (plaquette realizzata da Silvia Secco per le edizionifolli in 100
copie numerate nell’agosto 2023).

Erano di luna piena
e sole a picco
quei giorni di luglio
e in me s’è fatto buio.
Lui è arrivato come un’alba
ha colorato il giorno
ha acceso mille luci nella notte.

*

Nonostante
la bocca ferita, la lingua
impastata di dolore,
imparare
un linguaggio nuovo
come dire
l’amore buono
tutte le parole
del bene.

*

“Ci siamo scelti”
mi ha detto. Io piangevo.
Gli occhi fissi sulla strada,
smesse le vesti
di eterno bambino allegro.
“Ci siamo scelti”,
l’impegno
che nessuno
si sarebbe mai preso,
l’amore buono, il dono
della vita inatteso.

*

La notte insieme a lui
io amo e poi rido di gioia
e la coperta è la tenda
che protegge i bambini
dalle cose brutte
e le tre donne
dallo schianto del pianeta

*

Lui ha le mani leggere,
mi sfiora all’improvviso.
La notte mi avvolge
come una coperta
mi dice io sono
la tua coperta di Linus
e quando mi coglie
un pensiero triste
anche se gli do le spalle
lui se ne accorge.

*

Con un dito tiro via
dalle ciglia la tristezza.
“Bella” mi ripete
e mi cinge a difesa.
Lui conchiglia,
io perla.

Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato 10 libri di poesia tra cui “Gli obbedienti” (Cicorivolta, 2016), “La statura della palma. Canti di martiri antiche” (Cofine, 2019), “Ex Madre” (Arcipelago itaca, 2022) e “Questo posto buono” (edizionifolli, 2023).
Ha tradotto o curato numerosi volumi di saggistica e narrativa e, in poesia, ha pubblicato le traduzioni delle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (Le Cariti, 2010) e dei Derniers Vers di Jules Laforgue (Marco Saya, 2020). Dal 2017 organizza eventi con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival Bologna in Lettere.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

AIUTACI A RIAPRIRE LA RESISTENZA.
Il traguardo dei 15.000 euro in donazioni è vicino!

AIUTACI A RIAPRIRE LA RESISTENZA!


LINK AL CROWDFUNDING!

Il 16 agosto il Sindaco ha emesso una ordinanza contingibile e urgente che vieta l’accesso all’immobile di cui siamo concessionari, perché da numerosi sopralluoghi da parte di assessori e tecnici comunali, che come sapete vanno avanti da mesi, sarebbe emerso che l’immobile di via Resistenza 34 avrebbe delle criticità tali da mettere a repentaglio l’incolumità di chi vi entra.
Ma non basta: l’ordinanza del Sindaco prevede anche che i lavori debbano essere conclusi entro 30 giorni a partire dal 16 agosto, periodo in cui tutte le imprese sono in ferie. Ovviamente sarà molto difficile, quasi impossibile ed anche ciò la dice lunga. Se ciò non verrà fatto, vi provvederà il Comune, salvo poi presentarci il conto.
Come lo chiamereste voi questo comportamento? RICATTO? ACCANIMENTO?
Arriva quindi l’agognato stop al CPS Resistenza da parte della Lega. E a chi importa di quella larga parte di cittadini che usufruiva delle attività portate avanti. Soluzioni alternative proposte dal Comune? Neanche mezza in 9 mesi.
Questo però non è il momento di pensare alle ordinanze del Comune. Hanno detto e fatto di tutto per ostacolarci, perché la nostra capacità di attrarre persone, energie, volti, elaborare pensieri, diffondere cultura, in totale autogestione e senza scopi di lucro, dà fastidio. Il CPS La Resistenza da sempre si impegna a proporre una socialità diversa dal conformismo discotecaro, dove per passare una serata in compagnia devi avere il portafogli pieno.

Forse si pensava che davanti a tali nuove difficoltà ci saremmo arresi, ma così non sarà.

È il momento di riunire le forze per consentire alla Resistenza di riaprire. Vanno fatti alcuni lavori che richiedono professionalità: elettricisti, progettisti, geometri, architetti.
*Ovviamente, questi lavori hanno costi ingenti, quindi vi chiediamo di contribuire a questa raccolta fondi, ognuno secondo le proprie possibilità, donando una somma.*
Il CPS Resistenza è della collettività. Uniamo le forze, diamoci da fare.
Seguiranno aggiornamenti via via che i lavori verranno organizzati in dettaglio.

LINK AL CROWDFUNDING: [clicca qui] 

Aggiornamento al 29 agosto, ore 12, raccolti 14.678 Euro da parte di 405 donatori.

Centro Sociale La Resistenza

Diario in pubblico /
Lido/Laido: ‘au revoir’ oppure ‘adieu’

Diario in pubblico. Lido/Laido: au revoir oppure adieu 

I gabbiani sono partiti. Al loro cra cra si è sostituito il tubare dei colombacci, che pigramente svolazzano sui rami dei pini. La nostra via ferve dei preparativi per l’imminente partenza. Parenti e amici intensificano la loro attività di scopatori reali e non metaforici.

Benny, doverosamente lavato e profumato, passa le ore in cui viene come ospite da noi, osservando le mosse di Irina, pronta a tagliargli la mela d’ordinanza; poi voluttuosamente s’allunga di lato al divano dove soggiorna zia Doda, in attesa delle carezze di Sapientino e delle Sbarabegole, mentre s’attende l’arrivo del papagallo-Galeazzo per riprendere le ultime passeggiate in edicola.

Sopra il mio tavolo di studio le mini-collezioni di oggetti a me cari progressivamente raggiungono i destinatari, a cui affido per il futuro le anatrine e gli altri animali che mi guardavano dall’alto. L’unico che conserverò è il galletto di bronzo, che vigilava sulle cose Giglioli a Villamarzana, a me carissimo e segno di una convivenza con la mia famiglia allargata. Quella di Eleonora.

I libri hanno già raggiunto i destinatari. Dal corridoio le foto delle statue canoviane dell’Ermitage mi guardano altezzose, consapevoli di diffondere bellezza. Accanto al letto il quadro di Patricia nella sua meravigliosa cornice mi seguirà in città, così come la Madonnina di maiolica sopra le testate del letto.

Ma non è tempo di rimpianti. Ci saranno in futuro.

Mi apposto al mio luogo d’osservazione sul balcone e osservo le ultime mosse dei villeggianti che lasciano le loro case con un grande dispiegamento di teli, di borse e di zaini. Manovre lentissime, eseguite tra urla di improvvisati insegnanti. E su tutto l’occhio assoluto del cellulare, mentre il sole si riflette sugli occhiali a specchio tenuti, secondo le regole del bon ton canzonettistico, sulla testa.

Pance (meglio le dialettali panze) freneticamente ballonzolano sopra gambone/gambine degli adulti maschi di terza/quarta età, o sono rigorosamente in conflitto con enormi seni e altrettanto enormi deretani delle signore fasciate nei dopo spiaggia alla moda. E infine arrivano loro, gli adolescenti, a far rimbalzare palloni come attività primaria. Siano di un sesso o dell’altro in assoluta parità. Indi il silenzio diventa ferocemente assoluto.

Leggo lo scritto di Ranieri Varese, Breve elenco di idee inascoltate per una città laboratorio culturale….  apparso oggi su questo stesso giornale, approvandone ogni riga.

E, come preconizzato dai vivaisti, l’amatissima gardenia timidamente avanza un minuscolo bocciolo.

Tacciono, quasi a rispettare la malinconia della partenza, i rimbombi dei cantieri e mi soffermo con lo sguardo sugli oggetti amati. I disegnini dei pronipoti per il compleanno, i due étagère ottocenteschi che conservavano i miei libri d’università e le cartelle per la tesi tra Ferrara, Viareggio, Firenze; poi di nuovo la città estense e ora il Lido. In alto corrono ancora i cavalli selvaggi dipinti da Barbarigo.

Ogni partenza significa un abbandono: dei luoghi amati, delle persone che vivono vicino a te, del tempo (questo sì importantissimo), che non ritorna, o ritorna a seconda del tuo essere.

Ma in tempo di partenza, se ne vanno i ricordi soprattutto di persone un tempo frequentate assiduamente e che ora restano in silenzio.

Che ne sarà del Lido/Laido? Vallo a sapere. Ora lo saluto con rispetto e forse con nostalgia.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Dentro il lockdown.
Non dimenticherò mai il mio deserto. E non lo perdono

Dentro il lockdown. Non dimenticherò mai il mio deserto. E non lo perdono.

Sono madre di 4 figli. Quando dichiararono il primo lockdown, 10 marzo 2020, e la paura diventò la protagonista di ogni notizia, tentai di filtrare le informazioni, di fare in modo che il terrore non trovasse spazio tra le nostre quattro mura. Sapevo, come molti sanno grazie a un sapere ancestrale che è passato di generazione in generazione, quanto l’ansia e la preoccupazione possano abbassare le difese immunitarie e creare disagi psichici, se prolungate in una situazione di emergenza illimitato.

Da un giorno all’altro venne negato ogni libero spostamento, da un giorno all’altro “ l’altro “ divenne un possibile pericolo .

Il nemico era invisibile e poteva albergare ovunque e, se ci avesse aggredito, non ci sarebbe stato scampo. Diventare paranoici era più che plausibile. Spensi la televisione! Una narrazione che più procedeva più mi vedeva contraria perchè da subito mi sembrò suggerire regole antiumane.

La cura è fatta di relazione, di calore, di presenza, ( quante notti passate vicino al letto dei figli e dei nostri vecchi malati). Ma la narrazione parlava solo di isolamento, di distanziamento, di pericolo ovunque e in chiunque. Anche le parole tutte guerresche urtavano le mie viscere e iniziarono a insospettirmi.

Certo il virus c’era e certamente era pericoloso, ma perché non si spendeva una parola sul sano vivere, sul sano mangiare, sul rispetto reciproco, sull’amore reciproco proprio in un momento così duro e preoccupante?

Perché non una parola di incoraggiamento per i piccoli e i giovani che comunque, da subito si capì, che non correvano un grande pericolo?

Solo parole come guerra al virus, nemico, immagini di carri armati che portavano via le bare e i giovani chiamati al fronte della responsabilità di salvare vite umane quelle dei più vecchi, rischiando la loro stessa salute.

Quando giunse poi il famigerato vaccino e lessi che era stato approvato in via emergenziale, che i brevetti erano secretati e che i profitti erano privati il mio no fu netto. In principio fu un no politico.

Come si poteva dire che il vaccino era la soluzione alla pandemia globale se non si metteva in condizione tutto il mondo di farlo, i paesi di produrselo a prezzi ragionevoli, senza la rincorsa al profitto per lo più di 4 multinazionali?

Premetto che sono una attivista e da anni mi batto per l’abolizione della pratica della maternità surrogata, pratica che taglia definitivamente il cordone ombelicale con quel sapere ancestrale, un sapere dei corpi, intesi come corpi intelligenti, e non pure macchine a cui cambiare un pezzo per renderli sempre più omologati e perfetti, e certamente questo mio sguardo acuì la mia critica.

Era evidente che con il vaccino si apriva al mercato dei corpi, non solo più quello delle donne e dei bambini, ma a tutti i corpi viventi. Mi bastò porre delle domande su questi farmaci sperimentali per vedermi assegnata la etichetta di NO VAX. Non conoscevo i no vax ma andai un po’ a studiare e più cercavo di capire quel mondo più mi diventò chiaro che la loro battaglia, di cui mai mi ero occupata, aveva comunque a che vedere con i corpi e la legittima autodeterminazione che ogni individuo deve potere esercitare sul proprio, esattamente come nelle battaglie di noi femministe.

I più si definivano FREE VAX e contestavano, anche loro, il mercato dei corpi che la eccessiva medicalizzazione delle nostre società occidentali liberalizzava sfrontatamente sempre di più.

Insomma il mio no si radicò dentro di me con sempre maggiore forza. A questi studi poi si aggiunsero le notizie più tecniche su come era stato sviluppato il vaccino. Poco o nulla si sapeva sugli effetti a medio lungo termine. Università americane suggerivano ai propri studenti di congelare sperma e ovuli prima della inoculazione. Inutile dire che questo aggiunse al mio sentire intuitivo la convinzione che la medicalizzazione della società e la eccessiva medicalizzazione della maternità (oggi essere incinte è una patologia e non più una realtà fisiologica) su cui studiavo da tempo, si intrecciava con la pandemia.

È da qui che sono partita per tentare di convincere i miei figli a sottrarsi alla narrazione del vaccino per “il bene comune”.

E’ stata dura, durissima, cercare di informarli senza allarmarli troppo né in una direzione né nell’altra.

Ho tre figli grandi 27, 25 e 21 e una di 10 anni. I grandi dunque dovevano scegliere in autonomia. Solo una figlia ha scelto di vaccinarsi a fine novembre 2021 perché, sotto la pressione del lavoro appena trovato, non reggeva lo stigma sociale. Il primogenito, giocatore professionista di rugby è riuscito, con enormi fatiche e subendo molte discriminazioni a sottrarsi all’obbligo vaccinale e anche la terza figlia, per sua fortuna in Erasmus in Spagna, dove la realtà del green pass non ha mai raggiunto i livelli dell’Italia, ci è riuscita.

Tra dicembre 2021 e febbraio 2022 abbiamo tutti (in momenti diversi) contratto il Covid, compresa la vaccinata, con la ricompensa a tempo di vederci reintegrati nella società sia da un punto di vista morale che burocratico.

Non dimenticherò però cosa abbiamo passato, non dimenticherò la responsabilità di chi ci ha discriminato, fatto sentire dei sorci, degli scarti della società e ha chiuso possibilità ai nostri giovani a causa di un vaccino di cui oggi si sa i rischi superano i benefici e che non garantiscono nulla, tanto meno la riduzione del contagio. Il Green pass e ancora di più il super green pass è un obbrobrio giuridico e un insulto alla dignità di ogni cittadino.

La mia lotta al transumanesimo e al suo paradigma antiumano, di cui la tessera verde e l’obbligo surrettizio vaccinale, sono i primi mattoni per imporsi al mondo, sarà sempre più decisa e determinata e non finisce qui!

C’è molto da fare, continuare ad informare e a svelare come la narrazione del corpo macchina, perfettibile con l’intelligenza artificiale, con la medicina da remoto, con l’identità digitale, con l’ eugenetica praticata proprio attraverso la maternità surrogata, altro non sia che il sogno onnipotente di pochi uomini che si sostituiscono alla forza creatrice della natura o di Dio depotenziando l’enorme potere divino che alberga in ognuno di noi.

In copertina: una illustrazione di Riccardo Francaviglia

Lo Cunto de li Cunti
Il messaggio dell’imperatore

Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

Senza Franz Kafka, e senza il suo amico disubbidiente Max Brod che non rispettò le ultime volontà di K che gli aveva chiesto di distruggere tutte le sue carte, non solo non esisterebbero Jorge Luis Borges, o Dino Buzzati, o Julio Cortazar, ma tutta la letteratura mondiale dell’ultimo secolo avrebbe preso altre strade. Sarebbe stata diversa, peggiore probabilmente. E senza Kafka, per limitarci al caso presente, non avremmo potuto gustare quel perfetto meccanismo narrativo de “Il messaggio dell’imperatore”. Grazie al lavoro di un giovane traduttore, Francesco Tosi, siamo felici di poter donare ai lettori di Periscopio questo prezioso gioiello. In questo 2023 ricorrono 140 dalla nascita di Kafka, l’anno prossimo ricorrerà invece il centenario della sua morte, ma “Il messaggio dell’imperatore” è troppo importante, ed è rivolto ad ogni uomo sulla terra, anche a te che stai leggendo queste righe. Davvero non potevamo aspettare.
La lettura del racconto è affidata a Fabio Mangolini.
Buona lettura, buon ascolto e buona visione.
(I Curatori)

Franz Kafka, Il Messaggio dell’Imperatore (1918), traduzione di Francesco Tosi (2020), lettura di Fabio Mangolini.

Vuoi leggere il testo?

Incipit in lingua originale:

Der Kaiser – so heißt es – hat dir, dem Einzelnen, dem jämmerlichen Untertanen, dem winzig vor der kaiserlichen Sonne in die fernste Ferne geflüchteten Schatten, gerade dir hat der Kaiser von seinem Sterbebett aus eine Botschaft gesendet.

IL MESSAGGIO DELL’IMPERATORE

L’imperatore – così si dice – ha inviato a te, un uomo solo, un suddito miserevole, una minuscola ombra fuggita dal sole imperiale nell’angolo più remoto, proprio a te, l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte.
Ha fatto inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli ha sussurrato all’orecchio il messaggio; e il suo contenuto gli stava talmente a cuore da farselo ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ne ha confermato la correttezza. E di fronte a tutti coloro che si erano riuniti per assistere alla sua morte – tutti i muri che coprono la vista vengono abbattuti, e sulle ampie scalinate che si ergono imponenti, i grandi dell’impero sono disposti in cerchio – di fronte a tutti loro l’imperatore ha congedato il messaggero.
Questi si è messo in cammino all’istante; un uomo robusto e instancabile; che si fa strada tra la folla ora con un braccio, ora con l’altro; se incontra resistenza, mostra il petto, su cui appare il simbolo del sole; nessun altro avanza con una tale rapidità.
Ma la folla è immensa, le sue abitazioni si estendono all’infinito.
Se solo avesse campo libero, come volerebbe! E presto sentiresti alla tua porta il maestoso bussare dei suoi pugni.
Invece i suoi sforzi sono completamente inutili; continua ad aprirsi la strada tra le stanze del palazzo interno; non riuscirà mai a superarle; e se anche ce la facesse, non cambierebbe nulla; dovrebbe continuare a lottare per scendere le scale; e se anche ce la facesse, non cambierebbe nulla; gli rimarrebbe da attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo, che racchiude il primo; e di nuovo scalinate e cortili; e ancora un palazzo; e così via per millenni; e se anche riuscisse a superare il cancello esterno – cosa che non accadrà mai e poi mai – si troverebbe ancora di fronte alla città imperiale, il centro del mondo, piena fino a scoppiare di tutta la sua feccia.
Nessuno riesce ad aprirsi un passaggio, e ancor meno chi porta con sé il messaggio di un morto.
Eppure tu siedi alla tua finestra e lo sogni ad occhi aperti, quando si fa sera.

Franz Kafka, Il Messaggio dell’Imperatore, fa parte di Un medico di campagna, Praga, 1918.

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Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PROPAGANDA E CONTROPROPAGANDA:
l’ignobile battibecco tra maggioranza e opposizione su sbarchi e migranti

Vi è una sola cosa peggiore della propaganda in politica: la propaganda contraria.
Questo modo di fare e di pensare la discussione pubblica, rende cieco e sterile ogni confronto. Verrebbe da dire che rende persino inutile la politica stessa, se di essa si conserva una visione nobile, e non di marketing elettorale. La questione migranti si offre come uno degli esempi di questa schermaglia tra propagande, di governo e di “opposizione”. Sull’aumento degli sbarchi per cominciare.

Il governo ha vinto in campagna elettorale attraverso l’uso massiccio di propaganda, nefanda e odiosa, promettendo i “blocchi navali”, i porti chiusi, e altre corbellerie.
La doppia azione di marketing è consistita nel creare il nemico, i migranti, e con esso la teoria dell’invasione, fino a spingersi addirittura al pericolo di “sostituzione etnica”, e allo stesso tempo promettere una soluzione facile, sintetizzata nell’altra corbelleria della “difesa dei confini”.
E’ stato un’esercizio facile, tutto sommato, perché la “paura dello straniero” è sempre, da secoli e millenni, una leva efficace per costruire un capro espiatorio che metta al riparo il sovrano dalle ire dei sudditi. Convincere l’impoverito che la causa dei suoi guai è quello più povero di lui, è un’arte che chi difende sistemi sociali sempre più fondati su privilegi e diseguaglianze, deve conoscere per forza.
Ma la propaganda ha da sempre una grande irriducibile nemica: la realtà. E dunque, succede che tutte le promesse si dissolvono come i miraggi quando cominci a guardare da vicino. E la “complessità del fenomeno migratorio” diventa il discorso della stessa Giorgia Meloni che prima aveva promesso soluzioni facili e radicalmente disumane.
Gli sbarchi di persone migranti che da soli o con le loro famiglie sono costretti a tentare la via del mare per chiedere asilo e trovare una speranza di vita in Europa, si moltiplicano invece che ridursi. Siamo dall’inizio dell’anno a quota centomila, il doppio esatto dell’anno scorso secondo il “cruscotto” del Viminale aggiornato al 14 agosto.
E’ un dato che rivela il carattere strutturale e non congiunturale del movimento di esseri umani che caratterizza il Mediterraneo.
Nessuna emergenza, tutto ampiamente previsto e prevedibile, in ragione di ciò che accade nei paesi di transito, come il Niger e la Tunisia ad esempio, o nei paesi di origine, quelli dell’Africa subsahariana. Anche il numero in sé, centomila, che potrebbe significare centocinquantamila a fine anno, per un paese di sessanta milioni di abitanti e un continente di cinquecento milioni, è pari a percentuali gestibilissime.
In mezzo a tutti questi numeri ci sarebbe sempre da fare attenzione al fatto che si tratta di esseri umani, donne, uomini e bambini, meritevoli di ogni aiuto e soccorso, per alcuni a cominciare da Papa Francesco, fratelli e sorelle.
Ma anche volendo restare alla pagana religione dei numeri, tutto conferma ciò che sappiamo. Nessuna invasione, nessuna emergenza, fenomeno da governare, da gestire con razionalità e serietà, fenomeno da rendere meno foriero possibile di morte e sofferenza.
Ma qui entra in gioco invece la propaganda contraria: la realtà che si prende la rivincita sulle menzognette da campagna elettorale, viene accoltellata alle spalle da un’altra propaganda, quella dei detrattori del governo. “Avete visto? Gli sbarchi sono raddoppiati con la Meloni, è un’incapace”.
E’ incapace, il governo, perché non è riuscito a rinchiuderli tutti nei lager libici? Perché la nostra Guardia Costiera è al mondo, proprio al mondo, quella che salva più gente in mare? E’ incapace dunque questo governo, perché non è riuscito ( grazie a Dio ) ad attuare folli e ancor più disumani propositi?
La propaganda dell’uno alla fine è sorella gemella della propaganda dell’altro. Il loro confronto, il loro battibecco, crea molto chiasso, tanto da assordare. Per questo non si riesce mai a vedere invece, quanto conti la relazione tra l’utopia, la speranza e la determinazione delle persone, dei soggetti in carne ed ossa, nell’imprimere una direzione non scontata alla storia umana.
La propaganda contraria ha bisogno anch’essa, per enfatizzare le “sconfitte” del governo, di creare allarme. L’invasione, Lampedusa al collasso, tutto che crolla, sono gli scenari nei quali finalmente si può dimostrare che sono degli incapaci.
Perché, ed è bene ricordarlo, quando le parti erano invertite le uniche politiche sulla migrazione le hanno fatte Minniti e Gentiloni con il patto scellerato Italia Libia. Quell’imprinting è stato davvero superato da chi oggi siede all’opposizione promettendo un’alternativa?
Eppure emergenze vere, da denunciare come incapacità allarmanti del governo ci sono.
Il fatto che le persone migranti siano costrette ad affidarsi al mare e a viaggi gestiti da privati senza scrupoli, è frutto dell’inazione consapevole del governo e dell’Unione Europea sul tema delle evacuazioni umanitarie e dei corridoi legali di ingresso per gli sfollati e transitanti.
In Tunisia cosa si aspetta ad organizzarle? Che muoiano tutti in mare dopo la roulette russa dell’attraversata su barchette in ferro? Stiamo parlando di un numero di persone migranti subsahariani da evacuare che oscilla tra i venti e quarantamila in un anno.
In Libia, dove risiedono, vivono e lavorano 750 mila migranti, solo alcune decine di migliaia aspirano a venire in Europa. Sono coloro che rimangono imprigionati dai sistemi di cattura come quello che Minniti e Gentiloni in accordo con trafficanti e milizie, hanno messo in piedi nel 2017.
Quel “ce li andiamo a prendere” balbettato da Piantedosi dopo l’ondata di critiche per la colpevolizzazione delle vittime di Cutro, quanto deve attendere?
Continuiamo a registrare morti, naufragi, sofferenze, torture nei lager, o lo facciamo davvero di andarli a prendere, salvando quelle vite e demolendo il business che vi si è creato attorno?
Ma la propaganda contraria è invece il sintomo che il coraggio per incalzare il governo su sfide vere, manca ai suoi detrattori. Sarebbe troppo dire “andiamo a prenderli come hai detto tu, Piantedosi” perché alla fine “mica possiamo accogliere tutta l’Africa” è un luogo comune che vale per la destra e per la sinistra.
Il marketing elettorale non è fatto di visioni alternative del mondo, ma di prodotti da vendere. Due al prezzo di uno. Il mio è il migliore.
Intanto il mediterraneo conta ogni giorno i suoi morti.
Tantissimi bambini, quattrocento, da inizio anno.
Ma uno straccio di parlamentare che vada in Libia sventolando il suo passaporto diplomatico, che chieda di entrare nei campi di concentramento, che dia voce a chi non ne ha anche a causa nostra e del nostro parlamento, mica si trova.
E’ più facile dire che il governo è incapace perché gli sbarchi sono raddoppiati.
Eppure altre emergenze vere ci sono.
Il sistema di accoglienza italiano, si può definire tale? Sempre per opera di Minniti, quel “capitano” che abbandona per primo la nave e che ben conosciamo da quando era Ministro degli Interni del governo Conte, quel poco di buono che c’era è stato smantellato. Il suo fido aiutante era l’attuale Ministro degli Interni, Piantedosi.
E quel tanto che l’esperienza di Riace e del sindaco Mimmo Lucano aveva prodotto, indicando una possibile via maestra, virtuosa, positiva, dove alla lamentela si era sostituita la capacità di fare e di organizzare la convivenza, ci aveva pensato il solito Minniti, poco prima, a criminalizzarla e darla in pasto a un giudice “di sinistra” perché la trasformasse in un reato e la sanzionasse con dieci anni di galera.
Oggi l’accoglienza con cui noi affrontiamo la situazione del mediterraneo, è semplicemente inadeguata o assente.
E allora perché non concentrare gli sforzi dell’opposizione su questo?
L’unico vero dibattito interessante sul tema è stato, paradossalmente, quello che si è generato in Veneto, e nello scontro tra posizioni leghiste. Il governatore Zaia e il sindaco di Treviso Conte per l’accoglienza diffusa, opposti a Fedriga dal Friuli Venezia Giulia che è per il sistema di controllo concentrazionario dei campi detentivi.
Accoglienza contro detenzione.
Se solo riuscissimo a silenziare le propagande e il chiacchiericcio, scopriremmo che questo è un tema globale. Ad esempio osservando ciò che accade nel Regno Unito: la chiatta prigione “Bibby Stockholm” ancorata alla fonda al largo di Portland, serve a rinchiudere 506 richiedenti asilo uomini tra i 18 e i 56 anni, mentre attendono la valutazione della loro domanda. Ed è solo per il parere contrario della Corte di Cassazione che il progetto di deportazione in Rwanda dei profughi presenti in UK, non si è ancora attuato.
La Danimarca invece, l’accordo per deportare migranti in Rwanda l’ha già sottoscritto. Anche in Italia, dopo la strage di Cutro, il governo ha decretato l’allestimento di “Centri per il Rimpatrio” ( CPR ). E la stessa Unione Europea sta discutendo l’approvazione del nuovo patto sulle migrazioni e asilo, che tra le altre cose prevedrebbe la possibilità di deportazioni dei migranti dal suolo europeo verso paesi terzi.
Uno di quelli individuati era la Tunisia, e i viaggi di Meloni e Von Der Layen da Saied hanno provato a sondare il terreno: soldi, tanti milioni di euro, in cambio della disponibilità ad allestire campi di detenzione per deportati.
Nel frattempo, in Italia, a Pozzallo viene istituito il primo CPR “per espulsioni veloci” con 84 posti. Le persone potranno essere detenute per un mese in attesa di rimpatrio. Il governo, per bocca del Commissario straordinario Valente, ha dichiarato che lì saranno detenuti i richiedenti asilo che hanno meno probabilità di vedere accolta la loro richiesta.
Dunque, visto che le richieste d’asilo sono l’esercizio di un “diritto soggettivo perfetto”, ovvero un diritto che ognuno, al di là della provenienza, possiede, qual è il criterio che porterà in un carcere, senza aver commesso alcun reato, degli esseri umani? Il paese di provenienza. E la lista dei cosidetti “paesi terzi sicuri” chi la decide? Il governo.
Ecco dunque come un diritto umano, quello che Hannah Arendt definiva “il diritto ad avere diritti”, viene trasformato da soggettivo a discrezionale.
Se sei della Costa d’Avorio, e chiedi asilo, vai diretto in galera. Queste ,carceri speciali in giro per l’Europa pensate apposta per chi chiede asilo vengono propagandate come “luoghi di residenza temporanea”.
Per i campi per deportati in Rwanda ad esempio, la descrizione è di luoghi dove “si può anche giocare a pallavolo”.
Ma il filo spinato che circonda la struttura, non è esattamente come la rete a metà campo. Possono giocare a pallavolo, ma non possono uscire. Anche sulla galera galleggiante inglese è così: possono mangiare, ma non uscire.
Accoglienza o detenzione è la cifra del dibattito. Segna anche la misura del processo di restrizione del diritto d’asilo, e quindi di ogni diritto sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
E’ un’emergenza democratica questa per l’opposizione o no? Oppure vincerà ancora la propaganda, perché il governo, che ha accordi di riammissione solo con Tunisia ed Egitto, riesce ad espellere pochi “clandestini”?
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In copertina: un campo di detenzione in Libia

Ferrara, un Comune infernale:
lasciate ogni speranza voi che entrate.

La famosa iscrizione sulla porta dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri ben si presta per il Comune di Ferrara: infatti sono ormai innumerevoli le segnalazioni che lamentano temperature elevate all’interno degli uffici del Comune di Ferrara e che ad oggi non hanno trovato soluzione.

Solo per citare le ultime in ordine di tempo, in questi giorni gli uffici del SUAP e della Ragioneria registravano quasi 33° e quelli della Biblioteca Ariostea hanno raggiunto i 36°, in barba non solo al buon senso ma anche alle disposizioni in materia di sicurezza sul posto di lavoro.

Appare quanto meno singolare che il Comune scelga di attenzionare la sicurezza del Centro Sociale la Resistenza, al punto di emanare un’ordinanza urgente per impedire l’accesso ai locali, e scelga di ignorare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti e la loro sicurezza.

Le alte temperature negli uffici comunali è solo uno dei temi legati alla sicurezza sul luogo di lavoro che dipendenti, RSU e Organizzazioni Sindacali segnalano da tempo al Comune di Ferrara senza ottenere risposte concrete; stiamo infatti ancora aspettando riscontro, tra l’altro, su:

  • le tutele previste per i lavoratori e le lavoratrici che negli anni hanno prestato servizio nella scuola dell’infanzia “I Girasoli” dove recentemente è stata rilevata la presenza di amianto
  • i percorsi formativi obbligatori per l’utilizzo in sicurezza delle nuove dotazioni del personale della Polizia Locale e per la gestione in sicurezza delle persone sottoposte a fermo presso i locali del nuovo Comando di via Tassoni
  • la verifica dell’entità del rischio insito nell’attività lavorativa del personale docente e non docente dei servizi educativi
  • le misure adottate per la tutela della salute dei lavoratori esterni durante le ondate di caldo estremo

Due pesi e due misure?
O ci ricordiamo della sicurezza solo quando serve come slogan e non quando ci impegna in prima persona?

FP CGIL                                               CISL FP                                                 UILFPL
F.to Silvia Pivetti                      F.to   Mariarosaria Rea                       F.to Davide Covi

Parole e figure /
“L’ultima isola”: un pianeta in agonia

“L’ultima isola” è il recente silent book della coreana Ji Hyeon Lee. Un pianeta con l’acqua alla gola

Un albo che affronta con delicatezza i temi cruciali del cambiamento climatico e dei migranti, un libro per chi sa leggere senza parole.

Far finta di essere sani, far finta di essere salvi. Possiamo ancora continuare a farlo? Non ci tocca? E le Hawaii?

Il vecchio sbadiglia, si sveglia col sole, guarda l’orizzonte e il volo dei gabbiani, poi si tuffa nelle acque tranquille del mare per raccogliere la sua antica nassa colma di pesci colorati. I coralli che stanno scomparendo o si stanno schiarendo qui paiono ancora salvi.

I pesci finiranno a seccarsi al sole, per momenti più duri, quando sarà meno caldo. Le acque del suo mare sono calme, il cielo è terso, le farfalle volteggiano, la natura sorride felice al mondo, tutto brilla e profuma di gioia e serenità. Le stelle, la sera, torneranno.

Tornato a riva, la sua giornata scorre felice tra musica, danze, lavoretti quotidiani e amici animali: a turbarlo, improvvisamente, una colonna di fumo all’orizzonte.

L’armonia si rompe quando il mare si mangia la spiaggia e poi tutto il resto. Un’inondazione terribile, tutto scompare e galleggia, perduto. Un vento spaventoso porta via tutto. L’acqua sommerge l’isola, gli uccelli scappano spaventati, e al pescatore non resta che fuggire con la sua piccola imbarcazione, e il suo amico animaletto in spalla, in un mare sempre più tempestoso, fino ad approdare davanti a una grigia fabbrica fumante. Che odori e colori terribili, dove è mai arrivato?

Ed è qui che… la trasmissione del documentario in tv finisce, per l’uomo ‘moderno’: qualcuno intanto bussa alla porta. È il pescatore, in cerca di un luogo dove vivere in pace.

Sarà ascoltato? Sarà accolto? Sarà il benvenuto?

Morale? Rispettare l’ambiente e le sue leggi per non soccombere al disastro che si avvicina laggiù. Anzi, che si avvicina qui, da noi, noi tutti. Sempre più veloce.

Ji Hyeon Lee è un’illustratrice coreana (Seoul 1981) diplomatasi alla Kaywon University of Art & Design e alla Hills, nel 2015 pubblica il suo primo albo, “La piscina”; segue, nel 2018, “La porta”, entrambi di grande successo e ristampati alla vigilia dell’uscita de “L’ultima isola”. In Italia, tutti e tre i volumi sono pubblicati da Orecchio Acerbo. Qui, in questa casa editrice molto attenta ai temi ambientali e sociali, immaginano che gli ideogrammi coreani, ancor più eleganti e armoniosi di quelli cinesi o giapponesi, rappresentino la radice della delicatezza e la profondità del segno di Ji Hyeon Lee, da lì traggano continuamente alimento e sostegno. E pensano che, forse, proprio la quotidiana familiarità con gli ideogrammi – rappresentazione del concetto, non del suono della parola – le ha suggerito di creare libri senza parole, in cui suggestioni e allusioni sono affidate esclusivamente alle immagini.

 

Ji Hyeon Lee, L’ultima isola, Orecchio Acerbo Editore, Roma, 2023, 48 p.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

“Gli ex fascistoni di Ferrara”, una poesia di Giorgio Bassani del 1974
e gli ex fascistoni nell’Italia e nella Ferrara di oggi

“Gli ex fascistoni di Ferrara”, una poesia di Giorgio Bassani del 1974, e gli ex fascistoni nell’Italia e nella Ferrara di oggi

Giorgio Bassani, la sua arte, non è mai abbastanza celebrato.  Il suo “Giardino” è arrivato perfino nelle scuole. Non “Gli occhiali d’oro” ovviamente, e poco o niente delle sue poesie. Si parla di lui come di un classico della letteratura italiana del secondo Novecento, molto meno del suo impegno civile e della sua ininterrotta militanza antifascista, da quando insegnava nella ‘scuola parallela’ della Sinagoga Spagnola di Ferrara fino agli ultimi anni della sua vita. La poesia che presentiamo su Periscopio – dura, ironica, molto politica – è poco conosciuta dal grande pubblico.

L’ho scelta perché mi piace molto. Perché ci racconta una faccia di Bassani rimasta un po’ in ombra. Per il suo taglio schiettamente autobiografico. E perché Bassani riferisce un’esperienza che abbiamo fatto in tanti. In fondo, è la vecchia favola del lupo che perde il pelo ma non il vizio, una parabola che vale in special modo per i fascisti di ieri ed ex fascisti di oggi.  Sono diventati grandi, hanno cambiato partito e mestiere, hanno mutato modi e guardaroba, insomma, si sono dati una bella ripulita, ma se li guardi bene, se distilli qualche frase che ogni tanto gli scappa di bocca, li riconosci benissimo. Non c’è niente da fare, al cuor non si comanda e: da fascisti non ci si dimette mai.

Vale per chi ci governa come per chi presiede il Senato della Repubblica. Ma vale, anche oggi, per la meravigliosa città di Giorgio Bassani  Chi ha abbastanza anni e un poco di memoria, ricorda uno splendido e fatiscente palazzo cinquecentesco in fondo a via Brasavola, vicino alle rovine di Sant’Andrea e alla scuola Dante.  Ora è stato ristrutturato (un po’ male per la verità) ma negli anni Settanta del XX secolo entravi in un oscuro androne, facevi una rampa di scale, lì c’era il covo dei nuovi fascisti, la sede del Fronte della Gioventù e una fiorente scuola di arti marziali.

Da lì uscivano alcuni giovani intraprendenti e dediti a menar le mani. Tre soprattutto, tristemente famosi, amici inseparabili. Dei 3 picchiatori (anche io le ho prese da uno di loro in occasione di un processo per stupro, celebrato nel vecchio tribunale di via Garibaldi), dicevo… i tre compari hanno preso strade diverse, hanno anche litigato tra loro, uno è morto, un altro è diventato un politico importante. Sono cambiati. Sono invecchiati. Se però li guardi negli occhi, se fai attenzione ai gesti, a come muovono le mani, al tono della voce, alla vecchia prepotenza che vorrebbero nascondere ma che torna sempre fuori, li riconosci benissimo. Sono sempre loro, gli ex fascistoni di Ferrara.

Gli ex fascistoni di Ferrara

Gli ex fascistoni di Ferrarainvecchianoalcunidi quelli che nel ’39mostravano di non più ravvisarmitraversano mi buttanocome a Geo le braccia al collogaffeurs incontenibilisospirano eh voipropongonodopo la dolorosapacca sulla spalla mancinal’agape casalingache al fine consenta alla monumentale mummy cattolicad’estrazione bolognese o rovigottaai brucanti in tinello strabionditeen-agers incontaminatidi incontrarlo una buona voltail già compagno di scuola talmentebravoil bravoromanziereil presidente…Hanno l’aria di insinuarenel mentre dài piantalanon lo vedi che sei tu quoquemezzo morto?E poi scusa – continuanouguali identici ormaiall’ingegner MarcelloRiminial rabbino dottor Viterbo –in che altro modo senza dinoiavresti potuto metterle insiemele tue balle con relativoappoggio di grana eccetera? Dopo tuttocazzopotresti ben cominciarea considerarci anche noi quasi dei mezzi…Coraziali? Voi quoque? Dei quasimezzi cugini? No pianoCome cazzo sifa?Primacarimoriamo.(Giorgio Bassani, Roma, 1973)