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Olimpiadi 2024, Imane Khelif e Angela Carini:
l’incolumità va tutelata, ma nella competizione sportiva la parità non esiste.

Olimpiadi 2024, Imane Khelif e Angela Carini: l’incolumità va tutelata, ma nella competizione sportiva la parità non esiste.

 

Imane Khelif è una pugile algerina iperandrogina: il suo corpo produce troppo testosterone. Si vocifera anche che abbia un’anomalia cromosomica (genotipo). Quel che pare certo è che il suo fenotipo è femminile: una femmina con tratti somatici mascolini, ma una femmina. Nel suo sport ha vinto molti incontri e ne ha persi alcuni. Quando ha perso, di solito ha perso contro donne non testosteroniche ma molto talentuose, tra le più forti della categoria. La prima domanda che mi sono fatto a proposito di questa atleta è: contro chi dovrebbe combattere? Maschi? O forse bisognerebbe creare una categoria di atlete con le stesse caratteristiche, che possono gareggiare solo tra di loro? (parliamo di un due per cento della popolazione mondiale)

Angela Carini è una pugile italiana. Ha partecipato a due Olimpiadi, quella di Tokyo e questa di Parigi, quindi è forte, si è allenata duramente, e solo per questo merita rispetto, non parole a vanvera. E’ salita sul ring olimpico contro Imane Khelif, ha preso due pugni molto forti sul naso, e ha deciso che era meglio salvaguardare la propria integrità fisica che combattere fino alla fine. Dopo circa 45 secondi ha gettato la spugna. La prima domanda che mi sono fatto a proposito di questa atleta è: quanto deve esserle costato abbandonare il ring olimpico dopo i sacrifici che avrà fatto negli anni per salirci?

Entrambe sono domande sbagliate, perché non contengono un giudizio. Il dibattito pubblico deve contenere invece due cose: l’indignazione morale manifestata dall’alto di qualche pulpito e la pulsione di sputare sentenze. Intanto sono ricomparsi tutti gli specialisti che hanno preso la pergamena su Google. Poi si sono subito create le tifoserie: a destra i difensori della donna italiana, a sinistra i paladini dell’inclusione. Questi dibattiti prima esplodevano al bar, adesso sui social, dove invece di partecipare in cinque partecipano da cinque a cinque milioni di individui: tutti genetisti, endocrinologi, fisioterapisti, ex pugilisti, dietrologi. La moltiplicazione dei pareri – spesso puri rimbalzi di stentoree filippiche altrui – e delle reazioni non produce una maggiore profondità di pensiero: è semplicemente come un sasso nello stagno che fa tanti cerchi invece che pochi, perché lo stagno è un mare, ma il sasso è sempre quello. Non una pietra preziosa, non una gemma. A Ferrara si direbbe un parduz. 

Per leggere un pezzo davvero interessante sul tema dell’intersessualità nello sport, consiglio di andarsi a leggere Ruth Padawer qui.

Per leggere parole in libertà invece spaziate pure da X a Facebook. Le affermazioni maggiormente prive di senso sono quelle che sostengono di prendere le mosse da un “principio”: bisogna che la competizione si svolga su un piano di parità. Quindi a Fausto Coppi, il cui cuore batteva trenta volte al minuto, dovevano proibire di salire su una bici da corsa. Quindi Michael Phelps, apertura di braccia due metri, mani come piatti da cucina, piede 48,5, non avrebbe mai dovuto mettere piede in una piscina. Idem Roland Matthes, che aveva una struttura ossea più leggera che gli consentiva di galleggiare come un sughero, e divenne il più forte dorsista della storia. Un ciclista che, senza doparsi, ha valori di ematocrito superiori agli altri e quindi organi più ossigenati e maggiore resistenza alla fatica, dovrebbe essere bandito dalle corse?

Quando mai una competizione sportiva si svolge su “un piano di parità”? Lo sport è crudele. La natura è spietata, brutale. Il doping non esiste solo per massimizzare il rendimento del singolo atleta: assolve (anche) all’esigenza di colmare un divario che la natura ha creato tra un atleta fisiologicamente più dotato e uno meno dotato. Chiunque fa sport anche a livelli dilettantistici sa che esistono i propri limiti individuali. Poi esiste l’ avversario rispetto al quale puoi essere nelle condizioni di allenamento ottimali, e nonostante questo sai che non riuscirai mai a raggiungerlo, a batterlo, a toccare il suo limite. Ci indigniamo quando scopriamo che un atleta si dopa per migliorare la propria prestazione, perché usa un trucco per avere un vantaggio rispetto agli altri. A parte che la storia della lotta al doping dimostra spesso che ciò che è considerato doping adesso, non era considerato doping prima. Quel che è indiscutibile, è che la “parità” di partenza non esiste: è la natura stessa che crea la disparità. C’è chi cerca di colmare o ridurre il proprio gap attraverso l’allenamento, c’è chi misura le prestazioni e aiuta a trovare il proprio limite un gradino più in alto di quanto l’atleta pensasse (suggerisco al proposito di leggere una bella intervista a Francesco Conconi, che è stato due volte Rettore dell’Università di Ferrara, qui)

Nel caso Khelif – Carini, questa disparità ha rischiato di fare danni all’incolumità della Carini, che ha ritenuto di abbandonare l’incontro. Evidentemente ha sentito che non avrebbe mai potuto vincere, e ha deciso di non farsi anche fisicamente danneggiare. Rispetto per lei (che non hanno quelli che la accusano di essere una commediante e quelli che la eleggono a paladina dei diritti delle donne) e per le sue parole del dopo gara, in cui ha augurato di vincere le Olimpiadi alla sua rivale sportiva e ha detto che non è suo compito giudicare. La tutela dell’incolumità delle atlete è un valore centrale: quindi, in sport di contatto come la boxe, stabilire un tetto al testosterone “naturale” prodotto da una atleta ha senso in funzione di questa finalità. Se la si mette sul piano delle “pari opportunità”, il palco cade: è la natura che consegna opportunità dispari, ad ognuno di noi.

La storia delle persone non si esaurisce nella competizione sportiva cui prendono parte, per quanto importante (per loro, in primis). La stessa caratteristica che conferisce a Imane Khelif un vantaggio competitivo nel suo sport, le ha causato e le causerà un bel po’ di problemi in altri campi della vita. Dovrà essere più forte come persona che come pugile.

 

 

Photo cover tratta dal profilo Instagram di Imane Khelif.

Noa, un’artista per la pace

Noa, un’artista per la pace 

Non tutti i cantanti hanno il coraggio di iniziare un proprio concerto con 3 parole.
Il 30 luglio scorso, iniziando la sua esibizione a Comacchio, la bravissima Noa lo ha fatto elencando una lunga serie di situazioni a cui ha detto i suoi “no, sì e grazie”.

No alla guerra, no alla violenza, no ai soprusi, no alle ingiustizie, no alle oppressioni, no alla prepotenza, no alla tirannia, no a ….
Sì alla pace, sì al dialogo, sì al rispetto, sì alle diversità, sì all’inclusione, sì alla candidatura della “sorella” Kamala Harris alla presidenza degli Stati Uniti, sì a….

Grazie a chi si adopera per una soluzione pacifica dei conflitti e grazie al pubblico presente.

Noa, musicista ebrea di origini yemenite nata in Israele ma cresciuta a New York, “né nera né bianca”, ha una voce straordinaria e magica che, da anni, mette a disposizione del suo grande impegno civile. Infatti ci ha tenuto a precisare che «Non c’è niente di più importante, per me, che usare la mia voce, le mie parole e il mio carisma per promuovere la comprensione, la compassione e la pace». Del resto, Noa ha spesso usato le sue canzoni come veicolo di un dialogo musicale per la pace, adoperandosi sempre a favore del riavvicinamento fra popoli in conflitto, con particolare riguardo alla questione mediorientale.

La sua musica intrisa di influenze mediorientali, spaziando dal jazz al rock, riesce a travalicare le barriere culturali e religiose.

Nel concerto, organizzato da Emilia Romagna Festival a Comacchio, Noa ha presentato brani del suo repertorio (There must be another way, Wildflower, I don’t know, Today, Now forget, Ma-ma improvisation, Child of man, Keren Or) e, in prima nazionale, quattro brani del suo nuovo album che uscirà ai primi del 2025 (Water, To all the broken hearts, I’m yours e Fear and the river. Quest’ultima canzone, ispirata alla poesia di Khalil Gibran [1], è un vero e proprio invito a non aver paura del cambiamento; mentre I’m yours esprime tutto l’altruismo della cantante consapevole di mettere la propria arte a disposizione della pace e dell’amicizia fra i popoli).

Richiamata dai tanti applausi del pubblico presente in piazza della Cattedrale, Noa ha terminato il suo concerto di pace e speranza con Shalom salam e Beautiful that way, dalla colonna sonora del film di Roberto Benigni “La vita è bella”.

Insieme a Noa (voce e percussioni) hanno suonato il suo amico e collaboratore di lunga data Gil Dor (chitarra e direzione musicale), Ruslan Sirota (pianoforte) che ha suonato un suo brano intenso per piano solo, Omri Abramov (sax e EWI) e Daniel Dor (batteria).

Di tutti i messaggi espressi da Noa, durante il concerto bellissimo, ne riporto uno perché è un insegnamento di una verità allo stesso tempo semplice e profonda, in cui credo fortemente: “Non lasciare che la vita ti accada. Crea la realtà in cui vuoi vivere. Nessuno lo farà per te. Gandhi lo ha detto meglio di chiunque altro: Se vuoi vedere un cambiamento, sii il cambiamento”.

Abbiamo bisogno come l’aria di artisti dalla profonda umanità come Noa che riescono a toccarci l’anima regalandoci, in maniera diretta e sincera, il loro messaggio universale di pace e speranza.

[1] Dicono che prima di entrare in mare
il fiume trema di paura.
A guardare indietro
tutto il cammino che ha percorso,
i vertici, le montagne,
il lungo e tortuoso cammino
che ha aperto attraverso giungle e villaggi.
E vede di fronte a sé un oceano così grande
che a entrare in lui può solo
sparire per sempre.
Ma non c’è altro modo.
Il fiume non può tornare indietro.
Nessuno può tornare indietro.
Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.
Il fiume deve accettare la sua natura
e entrare nell’oceano.
Solo entrando nell’oceano
la paura diminuirà,
perché solo allora il fiume saprà
che non si tratta di scomparire nell’oceano
ma di diventare oceano.

Cover e foto di corredo all’articolo di Mauro Presini.

Per certi versi /
Poesia per Pavese

Poesia per Pavese

nessuno
Come lui
Ha tenuto stretto
L’amore
Con la morte
Infelice il primo
Il più infelice
Degli amori infelici
Resta la seconda

Coi Suoi occhi
Fuori
Da ogni dove
Si è staccato
Vagando nell’universo
disperato

Avesse avuto
La fame certa
Del leone
Il veleno caro
Del serpente
La ironica follia
Di un buffone
Era e rimase
Un uomo
Un uomo
Solo
Che la campana
Fece suonare
Per sé

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Marco Revelli e la ricerca della Sinistra perduta

Marco Revelli e la ricerca della Sinistra perduta

intervista di Emiliano Sbaraglia
articolo originale da Collettiva del 3 agosto 2024

 

 

Nel suo ultimo libro (Einaudi 2024) l’autore dialoga con una figlia immaginaria, nel tentativo di riannodare i fili generazionali di un passato complesso, e sempre più remoto.

Che fine ha fatto la Sinistra? In Italia se lo chiedono in molti, non soltanto dalla caduta del Muro di Berlino ma da quando, in questo secolo che ha ormai raggiunto il primo quarto, l’avanzare di un capitalismo nevrotico e sempre più spietato sembra aver preso il sopravvento incontrastato, e in maniera irreversibile. Le ultime elezioni politiche nazionali hanno poi riportato all’ordine del giorno i rigurgiti di una matrice ideologica, quella fascista, nel nostro Paese mai del tutto condannata e sconfitta, a cui si aggiunge uno scenario geopolitico internazionale a dir poco preoccupante, malgrado in Europa la recente tornata elettorale in Gran Bretagna e Francia sembra poter offrire qualche spiraglio di speranza.

Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Marco Revelli, autore di numerosi libri che analizzano in uno stile del tutto personale la politica e la società italiana moderna e contemporanea, il cui ultimo Questa sinistra inspiegabile a mia figlia (Einaudi, pp. 163, euro 16,50) racconta del dialogo con una figlia immaginaria nel tentativo di spiegare una sinistra divenuta, in particolare negli ultimi venti-trent’anni, inspiegabile anche a sé stesso.

 

 

Professor Revelli, quando nasce l’idea di questo dialogo generazionale?

L’occasione esteriore mi è stata data dall’editore, quando Einaudi mi ha chiesto un classico libro della serie “xy spiegato a mio figlio”, in questo caso con la sinistra come soggetto, considerandomi evidentemente un uomo rappresentante della sinistra italiana.

Non si sente così?

Sì, certo. Però questo ha innescato una cascata di pensieri e riflessioni, a cominciare dal fatto che non mi sentivo di spiegare un concetto simile a chiunque, men che meno a un figlio o un adolescente di ultima generazione, perché nel momento in cui mi sono concentrato sul tema mi sono accorto che era inspiegabile anche a me stesso come fosse diventata quella identità entro cui ero nato e cresciuto…

E come ha risolto il problema?

In verità non mi ero mai posto il problema dell’essere di sinistra, dato il contesto famigliare, l’educazione, il tipo di memoria che ho ereditato, in una collocazione che in una prima fase aveva dei costi in termini di solitudine, nel senso che la mia infanzia e prima adolescenza, vissuta nella bianca Cuneo, bianca ma antifascista, mi portava a questa condizione. Poi le cose sono cambiate.

Cosa è accaduto?

Sono arrivati quei momenti che nel libro chiamo di “felicità pubblica”, dalla seconda metà degli anni Sessanta e nel decennio Settanta. Ma a un certo punto mi sono reso conto che il sentiero si era perduto, e quell’identità di sinistra era diventata impalpabile, introvabile, quasi all’improvviso apparteneva soltanto alla memoria e non al presente; e che tutte queste cose, a un giovane nato all’inizio di questo secolo, dicevano poco, non appartenevano più al suo orizzonte. Da qui la domanda che è alla base di questo libro: quando la sinistra ha cominciato a scomparire, quando ha iniziato a perdersi?

Ha trovato una risposta?

Credo tutto sia iniziato nel momento in cui gli esponenti della sinistra, italiana ed europea, hanno smesso di essere riconosciuti come tali per le loro scelte politiche e sociali.

Nel libro infatti si parla anche di Massimo D’Alema, di Tony Blair…

Sì, e del lucido cinismo dell’Avvocato Agnelli, quando affermò che “solo un governo di sinistra può fare una politica di destra”… Credo lo disse proprio al tempo del Governo D’Alema; d’altronde, lo smantellamento delle conquiste del mondo del lavoro ottenute negli anni Sessanta e i primi Settanta è opera più degli eredi del Partito comunista, e degli ultimi socialisti, che non della destra. Nel nostro Paese siamo arrivati al paradosso che uno come Silvio Berlusconi si è potuto permettere di proporsi come populista.

In alcune pagine viene evidenziata una sorta di ineluttabilità nel destino dell’uomo di sinistra, condannato a un diverso rapporto con il senso del tempo, a una “coscienza infelice” in virtù di un “disagio della realtà” che lo affligge.

Si tratta di un mio pensiero recente, maturato nello scrivere questo libro. Il fatto che essere di sinistra, non da oggi, implichi mettere in conto una certa quota di dolore e sofferenza, è un tema che ho voluto approfondire. Perché chi è antropologicamente di sinistra, al di là delle rispettive culture politiche, vive empaticamente lo scandalo delle ingiustizie di cui è pieno il mondo, il nostro presente. E l’uomo di sinistra è tendenzialmente infelice nel presente, ben lontano dal filosofico “grande meriggio” nietzschiano del qui e ora, perché il presente genera dolore anche se non è un dolore legato alla propria specifica persona, partecipando della sofferenza altrui. In altre parole è il disagio dell’essere in nome di un dover essere, per cambiare il presente, che in un tempo di edonismo narcisistico diventa un sentimento improponibile, quasi impensabile.

Nel libro la sua figlia immaginaria la rimprovera per questa infelicità sempre in sottofondo…

“Mi hai reso infelice trasmettendomi i tuoi valori”, dice a un tratto, un tratto esistenziale del presente, che però da un quarto di secolo a questa parte appartiene all’orizzonte di vita delle nuove generazioni, il cui imperativo è essere felici dell’esistente, perché questo viene richiesto loro.

Eppure qualcosa sembra muoversi, almeno in Europa, in attesa del voto statunitense. Penso al recente voto in Gran Bretagna, al Front Populaire in Francia. Non ci sono spiragli per la costruzione di un’altra sinistra?

Sinceramente dal risultato inglese non mi attendo nulla, anche perché è un successo determinato soprattutto dal crollo dei Tories, e non dall’avanzata dei Labour che, per intenderci, in termini di voti hanno preso meno di Jeremy Corbyn. Personalmente sulla Gran Bretagna ho messo una croce sopra, credo che il mondo anglosassone in buona misura sia una terra perduta per la sinistra. Per il Front Populaire in Francia il discorso è diverso, una miracolosa reazione che in un mese e una settimana ha ribaltato un destino che appariva ormai ineludibile. Ma questa reazione è il prodotto di uno spirito profondo, pre-politico, di un sentire partitico insoumise, non sottomesso, che appartiene non solo all’area-Mélenchon, e non si rassegna a consegnarsi al post-fascismo del Rassemblement National. Un sentimento che ha portato a votare milioni di elettori che si erano ritirati dalla politica, 10 milioni in più rispetto alle precedenti Europee, e che non è un merito di Macron, ma di una Francia antropologicamente irriducibile.

Non possiamo pensare a un risveglio simile, seppur diverso, anche in Italia?

Come dice la mia figlia immaginaria, dovrà pur esserci una reazione a queste “faccine di circostanza”, o al negazionista di turno, al di là del pessimismo cosmico trasmesso in questi anni… Io penso che arriverà un soprassalto fisiologico alle forme sfacciate di ingiustizia, allo scandalo delle diseguaglianze che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Essere di sinistra, malgrado tutto, continua a significare provare empatia per chi soffre, e questo sentire non può esser svanito per sempre.

 

Presto di mattina /
L’amicizia apostolato primordiale

Presto di mattina. L’amicizia apostolato primordiale

Gli amici di sempre

In questi giorni la liturgia ci ha ricordato gli amici di sempre di Gesù, quelli più nascosti, silenziosi, riposanti, vivandieri. Quelli posti – verrebbe da dire – dietro le quinte del Regno dei cieli, anche se sommamente presenti perché sempre pronti a ospitarlo nei momenti decisivi, difficili della vita di Gesù.

Sono quelli che assumono lo stesso stile di Maria di Nazareth, la Madre, silenziosa e pur presente, a differenza degli altri amici che riempiono di continuo la scena quotidiana della vita di Gesù, sempre in primo piano ad ogni pagina del vangelo, tanto da risultare invadenti: i dodici apostoli.

Il riferimento è, come s’intuisce, agli amici di Betania, i cui nomi sono noti: Marta, Maria e Lazzaro. Gli stessi che nel racconto della morte di Lazzaro l’evangelista Giovanni indica come «amati» da Gesù (Gv 11,5). E usando il verbo “agapào” anziché − come ci si aspetterebbe − “philèo” (i.e.: amore di amicizia), Giovanni vuole sottolineare l’amore della più grande intensità, quello che induce persino a dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13).

Questi tre, chiamati per nome da Gesù più volte, sono chiamati fuori dai loro ritiri e chiusure: la casa, l’affanno del fare, il lutto, il sepolcro. Ciascuno a suo modo, ci testimoniano i tratti essenziali dell’Amico e confidente: Marta, attraverso le pratiche dell’ospitalità, vive l’amicizia come servizio, dedizione all’altro.

Maria esprime la propria amicizia attraverso l’ospitalità dell’ascolto e della custodia della parola di Gesù, mentre Lazzaro fa della sua amicizia un affidamento (il suo nome significa colui di cui Dio si prende cura; Dio ha aiutato il povero) e perciò vive in confidente attesa dell’arrivo dell’Amico, anche quando è in ritardo sulla morte e sembra non esserci più niente da fare, ormai stretto e avvinto dalle fasciature funerarie.

L’amicizia fa abitare gli uni negli altri in un movimento di amore. È un andare e venire, un perdersi per ritrovarsi. Non è un caso che il verbo dimorare e rimanere torna spesso nel vocabolario di Giovanni proprio per esprimere lo stare dinamico di Gesù nel Padre suo e quello dei discepoli con Lui al modo della vite e dei tralci. E Marco annota: «Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli – perché stessero con lui e per mandarli a predicare», (3,14).

Non sorprende allora che Aelredo di Rievaulx (1110-1167), un monaco cistercense che scrisse un testo sull’amicizia spirituale, abbia intrepretato le parole di Giovanni “Dio è amore” (1Gv 4,16) con “Dio è amicizia e colui che rimane nell’amicizia rimane in Dio e Dio in lui”.

Inviati dall’Amico: l’apostolato silenzioso dell’amicizia

Apostolato è una parola non più molto usata, rispetto alla quale si preferiscono oggigiorno termini come evangelizzazione e azione pastorale. Connotato storicamente con diversi significati, l’apostolato divenne una forma di ministero strutturato gerarchicamente nella diversificazione dei compiti tra clero e laicato per la diffusione della fede cristiana nel mondo. Apostolo significava infatti originariamente colui che è inviato da un altro, e apostoli erano per l’appunto gli inviati a vivere il vangelo tra la gente.

Mutando la coscienza ecclesiale circa la missione della chiesa in rapporto al mondo contemporaneo, il Concilio cominciò a ripensare l’apostolato in termini diaspora. La presenza dei cristiani nel mondo oggi è paragonabile a una goccia nel mare direbbe Michel de Certeau, una voce tra tante.

E Karl Rahner sottolineava il cambio di paradigma missionario, in forza del quale ogni cristiano è inviato, in ragione del vangelo, alla gente. Per questo la sua presenza nel mondo è posta sotto il segno di una dispersione, «diaspora» appunto.

In questo tempo che segue la modernità, l’oggetto della fede è stato come sottratto, svuotato dal suo rivestimento, disperso con il conseguente frammentarsi ed entrare in crisi del corpo ecclesiale e delle sue “autorità”, istituzionali, sacramentali, liturgiche. I cristiani così sono tenuti «a vivere in mezzo ad una cultura, ad uno Stato, ad una politica, ad un’economia, ad una scienza, ad un’arte per nulla affatto ispirata al solo cristianesimo, questo costituisce certamente una sfida all’apostolato» (K. Rahner, Missione e Grazia, Roma 1964, 42).

Da dove ripartire?

Un assist ci può venire dai tre amici di sempre, inviati da Gesù a testimoniare nelle pratiche quotidiane l’apostolato silenzioso dell’amicizia. Sta nella pratica dell’amicizia come legame di amore con l’altro, che è ascolto, cura, fiducia che sa attendere tempi e momenti dell’altro, la condizione stessa della credibilità del vangelo, direi l’anima irrinunciabile ad ogni incontro del vangelo con la gente.

È, d’altronde, lo stile stesso dell’amicizia di Gesù che libera e fa passare dalla condizione di servi a quella di amici, da estranei a confidenti dell’intimità del Padre suo: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv. 15,15).

L’idea amica, vivere sotto lo sguardo dell’Amico

L’anima di ogni apostolato: è questo il titolo di un famoso libro, un classico della spiritualità, dell’abate trappista Jean-Baptiste Chautard (1958- 1935) scritto nel 1930 mai così attuale, che circolava quando ero in seminario. Un invito ad andare alle radici interiori dell’apostolato, visto come un fenomeno di esuberanza spirituale e personale, come un atto di amore traboccante, amicizia spirituale che si effonde in testimonianza e azione tra la gente.

Come l’amico, così l’apostolo vive sotto lo sguardo dell’Amico: «che è diventato il principio e lo scopo di tutta la loro attività; la fede ne fa scoprire la presenza e l’amore in tutti i luoghi e in tutti i tempi. La persona viva e presente di Cristo è diventata l’idea-forza, l’idea-amica, l’elemento dinamico della loro vita.

L’idea-amica è ben diversa dall’idea-fissa, che è un’ossessione da cui non si riesce a liberarsi. L’idea-amica è stabile, perché ci si ritorna continuamente per un bisogno del cuore. È un’idea-forza, perché è il frutto d’una volontà libera e cosciente e perché spinge a grandi realizzazioni.

Il cuore dà all’intelligenza una capacità d’intuizione irraggiungibile dalla sola ragione. L’idea-amica è un’attenzione semplice, perseverante, gioiosamente voluta e continua, verso la persona di Cristo, le sue parole, la sua azione. Invece di affaticare, dà coraggio e moltiplica le energie. È uno sguardo del cuore amorosamente fisso su Gesù», (Dom Chautard, L’anima di ogni apostolato, Cinisello Balsamo [Mi] 1987, 55-56).

Cisterne non canali

Senza contemplazione non vi è amicizia vera e duratura, così come senza cisterne dalle acque profonde e chiare i canali – anche quelli delle comunicazioni in chat – restano all’asciugato, inariditi, screpolati. Scrive Dom Chauthard ricordando san Bernardo: “Purtroppo, oggi abbiamo tanti canali nella Chiesa, ma poche cisterne. Coloro che contengono per noi l’acqua del cielo sono sospinti dalla smania di darla prima di riceverla. Sono molto più disposti a parlare che ad ascoltare; sono ansiosi di insegnare ciò che non hanno imparato, e bruciano dalla voglia di guidare gli altri, quando non sono capaci di dirigere se stessi” (Serm. in Cant., 18,3 ).

Lo stesso san Bernardo dava questo consiglio al papa Eugenio III: “Non è saggio chi non lo è innanzi tutto per sé stesso. Chi è saggio per sé è veramente saggio, e berrà per primo l’acqua del suo pozzo. La tua meditazione cominci da te e, meglio, essa finisca in te; e dovunque spazia, richiamala perché porti frutti di salvezza…

L’apostolato attivo non deve essere altro che lo straripamento d’una vita d’unione con Dio. La predicazione, l’insegnamento della dottrina, l’organizzazione delle attività educative, caritative e sociali deve sgorgare dalla fonte della contemplazione. Prendi esempio dal Padre supremo di tutti, che invia il suo Verbo e lo conserva in sé stesso. Il tuo verbo è la tua meditazione, che non si deve assentare quando esce. Fai in modo che proceda senza uscire; che parta senza andarsene», (ivi. 65-66).

Così l’immobilità e la sterilità di esperienze e comportamenti ecclesiali anche attuali dànno da pensare perché tendono ad inaridire ed irrigidire persino le formule dogmatiche e dottrinali sorte invece per annunciare e animare la Vita della vita.

Pensava così anche don Milani

«Quelli che si danno pensiero di mettere nei loro discorsi ogni pie’ sospinto le verità della fede sono anime che reggono la fede disperatamente attaccata alla mente, e lo reggono con le unghie e coi denti, per paura di perderla, perché sono interiormente rosi dal terrore che non sia proprio poi tutto vero ciò che insegnano. Ogni nuova idea, ogni nuovo governo, ogni nuovo libro, ogni nuovo partito li mette in allarme, fanno pensare alla psicosi del crollo che si è diffusa dopo il crollo di Barletta. Gente sempre col puntello in mano accanto al palazzo, che sono incaricati di custodire e della cui solidità dubitano.

Non potrei vivere nella chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato, io ci vivo e ci parlo in assoluta libertà di parola, di pensiero, di metodo, di ogni cosa. Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco, perché gli voglio bene, e capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza!!! E così di tutto il resto della dottrina». (Lettera del 10 novembre 1959, a Giorgio Pecorini).

L’amicizia: apostolato primordiale

In questo tempo di transizione epocale non bisognerà forse ripartire con un altro stile di comunicazione del vangelo, quello scaturente dall’amicizia? Non è questa la forma dell’apostolato primordiale, di segno gesuano: “vi ho chiamati amici”? Il vangelo non viene forse dall’Amico?

Figura di valore di questo apostolato primordiale, quello di un’amicizia generativa di fraternità – l’amore fraterno non è forse il cuore stesso del vangelo? – figura di valore è stato Fratel Charles de Foucauld (1858-1916). Scrive Pierangelo Sequeri di lui: «De Foucauld mi appare infatti come uno dei profeti dell’esilio meno chiassosi e più incisivi che siano stati destinati da Dio alla nostra contemporaneità ecclesiale La sua fu – letteralmente – voce nel deserto, che preparava con prodigioso anticipo la condizione che è nell’accadere delle cose, qui e ora» (P. Sequeri, Charles de Foucauld. Il vangelo viene da Nazaret, Vita e pensiero, Milano 2022, 11).

Così la prima forma evangelizzatrice la troviamo nella stessa prossimità di Gesù alla nostra umanità è fatto di noi, il legame di amicizia con lui è già figura primordiale dell’“apostolica vivendi forma”.

Mandato dal vangelo a diventare amico di un popolo abbandonato, perché è così che si «diventa del paese», che si diventa «così avvicinabile» da tutti, e «così piccolo» in mezzo a tutti, frère Charles scriverà il 13 agosto 1905: E tu, tu sei a Tamanrasset come il povero». (Opere spirituali. Antologia, Fabbri editori, Milano 1998, 29-30).

Alla cugina Maria scrive: «Non tormentatevi nel vedermi solo, senz’amici, senz’aiuti spirituali; non soffro affatto di questa solitudine, la trovo dolcissima; ho il Santo Sacramento, il migliore degli amici, a cui parlare giorno e notte, ho la Santa Vergine e san Giuseppe, ho tutti i santi; sono felice e non mi manca niente» (ivi 286).

L’espressione apostolato primordiale è di René Voillaume (1905-2003) un prete francese attratto in un primo tempo dai missionari Padri Bianchi operanti in Algeria. Dopo la lettura della biografia di padre de Foucauld, scritta da Hervé Bazin, si sentì chiamato a seguine le sue tracce e lo stesso stile apostolico, tanto che nel 1933 fonda insieme con alcuni discepoli la prima comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, ispirata agli scritti e alla vita di frère Charles.

Amicizia: “admirabile commercium”

Così egli riassume la spiritualità dell’eremita del Sahara: «“Presenza a Dio, presenza agli uomini”. Vi è in lui un senso profondo della preghiera, una ricerca appassionata del Cristo: tutta la sua vita si riduce ad uno sguardo fisso sul suo “Bene amato Fratello e Signore Gesù”, ad un commercio di amicizia con Lui

Questa presenza non ha nulla che s’imponga, ma è una amicizia che si offre; non esclude nessuno, poiché egli è il “Piccolo Fratello universale”; essa è particolarmente tenera per i più piccoli, per i più poveri, i più abbandonati. In questo contatto con gli uomini, Padre di Foucauld trova un alimento per la sua vita di unione a Dio; non ha egli forse il dovere di credere, di sperare, di amare per tutti coloro ch’egli porta nella sua preghiera, e la cui grande miseria è di essere privi di fede, di speranza e di carità? Una tale spiritualità quanto è adatta all’apostolo» (R. Voillaume, Come loro, Paoline, Roma 1953, 7-8).

Per far comprendere che quella di fratel Charles era una forma di apostolato, anche se così diversa da quelle conosciute in quel momento storico della chiesa, René Voillaume scrisse un piccolo libretto, L’apostolato dell’amicizia e la vita di preghiera in padre de Foucauld (Edizioni Corsia dei Servi, Milano 1958), in cui chiariva come la via dell’amicizia fraterna dei Piccoli fratelli e sorelle di Gesù tra la gente, il carisma stesso del loro ispiratore, esprimesse l’apostolato primordiale, la fonte di ogni apostolato.

Charles de Foucauld «va a vivere in mezzo agli uomini e tuttavia non vuole usare i mezzi ordinari di evangelizzazione e di apostolato. Se è vero che il primo comandamento di Gesù è quello dell’amore fraterno, non si avrà il diritto di dire che ogni azione, ogni parola, ogni modo di essere o di vivere che contribuisca a diffondere nel mondo l’amore fraterno, che contribuisca a insegnarlo e a farlo praticare è un vero apostolato, soprattutto se una tale predicazione dell’amore fraterno è fatta attorno all’eucarestia in nome di Gesù e per lui solo?», (ivi, 13).

Aprire gli occhi su ciò che sta in principio: “Verbum caro factum est” (Gv 1, 1; 14)

Allora come oggi nel nostro tempo constatiamo ancora di più fenomeni laceranti dell’umanità. Le divisioni e le ostilità tra i popoli sono in aumento e sono dovute – come già sottolineava Voillaume – non solo alla lotta tra le classi, ma anche ai nazionalismi: «che raramente sono stati così vivi, vi sono i pregiudizi razziali che sembrano esacerbarsi e vi è la rivolta che serpeggia nella maggior parte dei paesi coloniali. Bisogna aprire gli occhi e consentire a guardare le cose in faccia».

Così «non ci si può contentare di assegnare come primo scopo all’apostolato l’amministrazione dei sacramenti dimenticando che bisogna prima dare la vita dello spirito, la fede. La, vita secondo il Vangelo è l’atto di un uomo libero, ed è difficile insegnare agli uomini ad amarsi, a rinunciare a se stessi, è difficile insegnare agli uomini a pensare cristianamente. Non conviene dunque affermare che impiantare la carità in nome del Cristo nel cuore degli uomini è un apostolato primordiale? Importa forse vedere fino a che punto deve arrivare questo amore di cui Gesù ha fatto l’essenza del suo messaggio» (ivi, 14; 15).

Che cosa mi attendo dalla chiesa?

Che metta in atto ancora una volta un rinnovamento dell’amicizia nella forma dell’amore più grande; che ripresenti al vivo Colui che da ricco si fece povero per noi perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (Cf. 2Cor 8,9).

Scopo della carità – ricorda ancora Voillaume – non è quello di dare delle cose, ma manifestare e infondere amicizia: «Forse abbiamo dato il nostro tempo e la nostra vita, ma senza pensare abbastanza a dare noi stessi in una vera e umile amicizia» (ivi, 17-18).

«Oggi sembra soprattutto che si attenda dalla Chiesa un rinnovamento dell’amicizia che deve esistere tra tutti gli uomini. Ora il bisogno più importante a cui dobbiamo rispondere attualmente non è forse di contribuire, a sopprimere le divisioni tra gli uomini e di lottare contro tutti gli odi? Su questo punto siamo capaci di rispondere all’attesa del secolo? Se l’umanità che non crede più in Dio, se l’uomo razionale e ateo è più avanti su altri punti, non lo è forse, temo, anche in questo campo?

…Bisogna essere scesi nel cuore del povero, nel cuore delle razze dette inferiori per capire tutto il doloroso complesso di cui soffrono. Vi è più facile intravvedere ora perché Padre de Foucauld ha voluto mettere i suoi Piccoli Fratelli in condizioni di vita che facilitassero la realizzazione di una tale amicizia.

…Io penso che sia apostolato lo spogliarsi e il restare volontariamente in una tale condizione di povertà da poter dimostrare con i fatti che è possibile un’amicizia vera, profonda, in parità con i più poveri» (ivi, 22- 23).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Ricchi & Lusso, la nuova nazione nomade mondiale

Ricchi & Lusso, la nuova nazione nomade mondiale

Uno dei tratti caratteristici della nostra epoca è il mercato del lusso (moda, hotel, cibo, design, auto, nautica, gioielli, occhiali, vini, alcolici,…), in continua crescita nonostante l’impoverimento che ha colpito il mondo da 3 anni (prima pandemia, ora le guerre, esplosione dell’inflazione e dei prezzi energetici e delle materie prime) e che ha colpito la grande maggioranza dei cittadini occidentali e le stesse classi medie.

Nella sua ultima newsletter Federico Fubini, giornalista del Corriere della Sera, racconta di un imprenditore abbastanza agiato che ha rinunciato ad andare in vacanza a Paraggi (S.Margherita Ligure) dopo 40 anni che ci andava, in quanto l’ombrellone in prima fila costa 350 euro al giorno (250 in 2^ fila, 200 in 3^), 48 euro il posteggio, quasi mille euro un giorno di hotel oppure 80 euro al pasto, mentre la concessione per la spiaggia che il privato paga allo Stato è di “5.840 euro all’anno, più o meno i ricavi di un paio di file di ombrelloni in un giorno per mettersi a posto un anno”. A parte l’assurdità di beni pubblici svenduti dallo Stato ai privati, colpisce che nonostante questi prezzi stratosferici la spiaggia sia piena di turisti (80% stranieri), per i quali evidentemente quei prezzi non sono poi così alti.

Per capire questo fenomeno bisogna leggere il Report 2024 Global Wealth della banca svizzera UBS (fallita ma assorbita dalla concorrente Credit Suisse) che analizza la quantità di ricchi nel mondo, salita a 60 milioni. Gli svizzeri se ne intendono di ricchi, in quanto ne hanno più di tutti. Si tratta di chi ha almeno un milione di dollari di patrimonio, il che significa che tra mogli, mariti e figli stiamo parlando di circa 200 milioni di persone, il 2,5% della popolazione mondiale ma capaci di incidere anche per il 50-70% su molti settori economici (dalla moda agli hotel 5 stelle che, non a caso, si vogliono ora costruire in tutte le città “attraenti”).

Milionari e % sulla popolazione

                     Ultraricchi

Ultraricchi (patrimonio di almeno 100 milioni di dollari)

Miliardari e quanto non pagano di tasse

In Italia gli ultraricchi sono 8.930 (2022) per un patrimonio totale di 978 miliardi, pari al 10% nazionale, in media hanno 110 milioni a testa (fonte Ubs). Nella terza Tab. sono indicati i miliardari, quanto pagano di tasse e quanto pagherebbero se solo pagassero il 2% sul patrimonio. Si potrà notare che l’Europa fa pagare pochissimo, come America Latina e Africa, mentre Cina, Giappone e Usa tassano molto di più.

Ci sono poi altri 200 milioni di benestanti con uno standard di vita nettamente più elevato della media, che vivono nel loro paradiso terrestre lontano da quello purgatoriale o proprio infernale del resto del mondo. I ricchi ci sono sempre stati, ma i “nuovi” si distinguono dal passato per alcune peculiarità: vivono in un mondo globale e hanno reti di relazione globali, lavorano spesso nella finanza, moda, spettacolo, media, sport, nelle grandi Istituzioni internazionali e sono come “nomadi” in continuo movimento. Fanno le vacanze in posti glamour, vivono 6 mesi qui e 6 mesi là, in modo da evadere le imposte e benchè siano ancora in maggioranza occidentali (84%), hanno sempre più rapporti con gli altri ricchi arabi, cinesi, indiani, messicani, brasiliani, russi. Sono favorevoli alla logica del mercato e del profitto, all’innovazione tecnologica, alla sostenibilità (almeno a parole), alla cultura woke e alla stessa immigrazione, un problema per gli Stati, ma non per loro, che anzi selezionano i “migliori” nelle loro aziende multinazionali, in quanto fattore di sviluppo e identità multiculturale, perché producono beni e servizi globali e il loro interesse non è mai quello nazionale – ancor meno locale – ma globale.

Alcuni hanno facoltose fondazioni, ma sono (quasi sempre) del tutto disinteressati allo sviluppo e alle relazioni con le proprie comunità, che era invece una caratteristica dei vecchi ricchi, i quali spesso portavano qualche vantaggio ai loro compaesani.

Ovviamente sono anche il più potente gruppo di pressione sui governi (sia democratici che autoritari) e i loro consumi alimentano alcuni settori come quello della moda, della finanza speculativa, delle criptovalute, dell’immobiliare di lusso, del turismo di lusso e i mercati. Purtroppo anche i politici guardano sempre più spesso a questi magnati per lo sviluppo delle citta che amministrano: i 70 hotel a 5 stelle di Bolzano e Trento, la speculazione immobiliare di Brugnaro a Venezia, quella di Tosi a Genova, per non dire di ciò che succede nel Sud d’Italia.

Altospendenti e filantropi

I principali clienti sono i ricchi americani, europei e i cinesi, che alimentano il mercato del lusso da 353 miliardi (stime di Bain & co.) e che potrebbe crescere a 540-580 nel 2030. Altospendenti li chiamano gli esperti: l’Italia è uno dei paesi dove è maggiore la presenza di marchi del lusso (anche stranieri, da Chanel a Louis Vuitton, Hermes), in quanto usano fornitori italiani che tradizionalmente  sanno lavorare con qualità. I ricavi della sola moda hanno raggiunto in Italia i 107 miliardi (+16% sul 2021 e +9% sul 2019). Il tessile italiano è cresciuto del 32% e del 30% gli occhiali, che esportano il 90% dei 5 miliardi di produzione (erano 4 nel 2019) – da qui l’interesse di Zuckerberg per Luxottica.

Del resto durante i due anni di pandemia (e di impoverimento generale) c’è stata un’accelerazione nell’arricchimento dei pochi ricchi che non ha precedenti: essi hanno guadagnato in due anni di pandemia più dei 23 anni precedenti. Oggi i miliardari possiedono il 13,9% del Pil globale, mentre nel 2000 ne possedevano solo il 4,4% (fonte Oxfam).

La disuguaglianza ha raggiunto vette incredibili ed è spinta dalla finanza da cui provengono i maggiori profitti. Gli statunitensi detengono la cifra monstre di 33.530 miliardi tra azioni e funds. Vuol dire che ogni americano detiene circa 100mila dollari tra azioni e fondi, ma (come nella media del pollo di Trilussa) la realtà è che il 90% è posseduto dal 10%. In sostanza 22 milioni di americani possiedono (in media) a testa un milione di dollari di prodotti finanziari, mentre il restante 94% degli abitanti solo 11mila dollari. I veri ricchi detengono disponibilità per decine di milioni e ciò spiega la crescita incredibile del consumo di lusso.

In sostanza, non sanno dove mettere i soldi, al punto che 200 miliardari hanno chiesto agli Stati di essere più tassati e tutti i maggiori miliardari hanno realizzato fondazioni benefiche che stanno gradualmente sostituendo il ruolo dello Stato nel welfare: per cui sono spesso i ricchi più lungimiranti che decidono come redistribuire una parte della ricchezza. Si consideri che negli anni ’50 del secondo dopoguerra l’aliquota dell’imposta sul reddito era in Usa del 90% oltre 400mila dollari all’anno, mentre oggi è del 37% oltre 540mila dollari (per chi ovviamente non li nasconde nei paradisi fiscali).

I settori dove si fanno più affari sono: cibo, materie prime, energia, tech, armi, farmaci/vaccini (finanziati dagli Stati in anticipo e senza chiedere la partecipazione nei brevetti). Pfizer nel 2022 ha raggiunto la cifra monstre di 100 miliardi di ricavi e 14 miliardi di dollari di profitti (intanto, solo in Italia, ci sono in magazzino 122 milioni di vaccini in scadenza o scaduti). Ferrari ha venduto 13.255 auto nel 2022 (+18,5%) e aumentato i profitti del 13% (un miliardo) e così agli operai è stato dato un bonus di 13.500 euro (hanno super ordini fino al 2024-25). Vendute 599 Daytona SP3 che costano 2 milioni di dollari l’una. Record anche per Lamborghini (da quando è nata nel 1963) con 9.233 auto vendute (+10%), merito della Huracan Sterrao e altri modelli di alta gamma già tutte vendute anche nel 2023-24. Nella nautica (7 miliardi di fatturato) mai come nel 2022 si sono venduti yacht di lusso (593 oltre i 24 metri) e noi italiani con Azimur Benetti, Sanlorenzo, Ferretti, The italian Sea group, Overmarine, Palimbo, Baglietto, Cantiere delle Marche siamo leader nel mondo. Tutta venduta anche la produzione di lusso del 2023 e 2024.

Ai primi di gennaio 2023 è stato rinnovato a New York l’Hotel Waldorf-Astoria, nato nel 1931. E’ diventato un residence per milionari con oltre cento appartamenti e quattromila metri quadri di servizi comuni (piano bar, piscine, saune, spa di ogni tipo, campi da gioco, locali per feste e pranzi collettivi, giardini e molto altro). Lo studios più economico costa 1,8 milioni di dollari, un monolocale 2,7 milioni, un appartamento con 4 camere da letto 18,5 milioni. Prezzi incredibili anche per New York dove pure il costo medio di una casa non scherza (14mila dollari al metro quadro).

E’ la conferma delle crescenti disuguaglianze sia in Italia che nel mondo, per cui anziché avere investimenti in beni collettivi (sanità, scuola) o consumi di base (alimenti, case a buon prezzo,…) crescono i beni di lusso personali che riguardano una piccola quota di cittadini del mondo occidentale (6-7%) e, seppure meno (0,1-0,5%) anche di quello orientale, che continuano ad arricchirsi nonostante tutto il resto vada a rotoli (scuola, sanità, welfare, poveri, cultura).

Se fossero solo ricchi …il problema è che non pagano le tasse e distruggono il pianeta di tutti. Questo modo rapace di far soldi fondato su crescenti disuguaglianze, distruzione di ecosistemi e delle comunità, produzione di schifezze, si alimenta con le guerre. A volte però nella storia arrivano svolte inaspettate, che mai avremmo pensato.

Storie in pellicola /
‘Dive’, il tuffo

‘Dive’, il tuffo

Dopo Venezia 80, al Popcorn Film Festival arriva ‘Dive’, di Aldo Iuliano. Inno alla vita

Va in scena la semplicità dei valori di sempre, al Popcorn Film Festival di Porto Santo Stefano.

‘Dive’, di Aldo Iuliano, è la storia pulita di due adolescenti che arrivano su una spiaggia isolata e ‘complicata’ per dimenticare il mondo che li circonda e passare del tempo insieme. Una storia di amicizia, forse di amore che nasce, certamente di sfida, di coraggio. Un tuffo in un futuro incerto.

La semplicità dei gesti

La storia è di per sé semplice.

Una storia che potrebbe essere come tante ma che tale non è.

Forte del suo esordio a Venezia 80, sezione Orizzonti, questo sorprendente corto ha in sé bellezza, delicatezza, tenerezza, romanticismo e spensieratezza.

Un angolo di mondo isolato in una realtà che va a fuoco. Un piccolo paradiso per due, circondato da pericoli, mentre fuori i tuoni rimbombano.

Ci sono due ragazzi giovani che vogliono solamente divertirsi, bersi una birra insieme, chiacchierando e scherzando, guardarsi negli occhi e ammirare l’orizzonte senza pensieri.

Con il mare mosso, ad un certo punto il ragazzo (Roman, interpretato da Danyil Kamensky) mette una canzone dal suo cellulare: è un pezzo dei Ricchi e Poveri ‘Mamma Maria’. Lei è Julia (Veronika Lukianenko). Entrambi si mettono a ballare e pensano di farsi un bagno, anche se dal cielo plumbeo pare faccia piuttosto freddo. Tuffo.

La danza sott’acqua è un coinvolgente scambio di gesti teneri, di meravigliosa complicità e di giovanile amorevolezza. La richiesta gentile di un bacio. Lo spettatore si trova immerso nei sentimenti più innocenti.

Tutto sembra raccontare una bella giornata vissuta tra sguardi di complicità sentimentale. Intorno a loro presto però la situazione cambia, trasformandosi in un inferno.

Una stretta al cuore per ricordarci chi siamo, nel bene e nel male.

La genesi del corto nelle parole del regista

Aldo Iuliano, nato a Crotone nel 1980, gira un cortometraggio di forte impatto emotivo e visivo, nel tentativo, ben riuscito, di riaccendere il desiderio di cercare il contatto umano ormai perduto.

Una “foto dei sentimenti che stiamo dimenticando di avere in un momento storico con tanto odio intorno”,

dichiara in un’intervista. Speranza e amore che non cedono al terrore.

La storia è stata scritta dal fratello Severino, con cui lavora sempre. In un momento di grandi sommovimenti geopolitici, fra cui il conflitto Russia-Ucraina, il regista sentiva la necessità di raccontare una storia di bellezza e di sentimenti semplici per restare concentrati su sé stessi.

I ragazzi scoprono che la spiaggia è complicata da vivere (il cartello in lingua ucraina spiegherà perché), come lo è la vita, se non di più, la tavolozza perfetta per creare un mondo a sé, togliendo il tempo che distrae dai sentimenti. Un ritratto delicato ma doloroso.

Gli attori, Veronika Lukianenko, Danyil Kamensky, sono due amici veri, e sono stati suggeriti a Iuliano da Nico Alvo, un giovane produttore di New York, conosciuto a Cannes.

Giovane anche il produttore del corto, Davide Mogna, conosciuto al Figari film festival (tutti i festival sono in connessione). Davide, ventitreenne, è noto per la regia del film Bulli a metà, uscito nel 2017, girato quando non aveva ancora diciassette anni, e frequentava il liceo Classico Bodoni di Saluzzo.

Sui due giovani attori di ‘Dive’ ha dichiarato:

“I protagonisti sono due giovani attori ucraini: Veronika Lukianenko e Danyil Kamensky. Sono molto amati in Ucraina. Li abbiamo conosciuti perché erano in Italia per studiare in un corso speciale di cinematografia che è stato istituito per accogliere gli attori ucraini durante la guerra”.

Amore a prima vista da una chiacchierata in un pub, empatici, giovani e belli, si sfioravano come serviva. Erano loro quelli giusti.

La fotografia di Daniele Ciprì

‘Dive’, ambientato a Sabaudia in provincia di Latina, vanta la fotografia del grande Daniele Ciprì, già collaboratore in lavori precedenti del regista nel corto ‘Penalty’ (2016, vincitore del Globo d’Oro nel 2017) e nel suo lungometraggio, ‘Space Monkeys’ (2022).

Le scene sott’acqua riescono a creare un’atmosfera di sospensione dal mondo circostante, di isolamento dalla bruttezza che sta intorno. Quasi una nuvola magica nella nebbia.

Intensi e convincenti gli aspetti cromatici delle immagini e nelle inquadrature sempre esteticamente pregevoli.

Il titolo stesso invita ad ammirare l’armonia di due corpi giovani nell’acqua che, come un sacco amniotico, li protegge da un mondo privo di pietà. Che resta in agguato, facendoci riflettere sulla fragilità ma anche sulla forza della bellezza dei sentimenti più profondi e veri.

Meravigliosa la musica di Rashod Krasniqi, ‘Mallëngjimi’, interpretata da Elsa Lila.

Il montatore è Marco Spoletini, premiato con il David di Donatello, e che ha lavorato nei film del regista Matteo Garrone.

‘Dive’, di Aldo Iuliano – backstage con Daniele Ciprì

Pubblicato su Taxidrivers

Fate riposare la Terra

Fate riposare la Terra

Nelle Facoltà di Ingegneria (ma non solo) la parola ‘terra’ è stata sempre sinonimo di ‘suolo’: suolo da edificare, suolo dove lavorare, suolo da dove estrarre risorse illimitatamente (fossili, in primis), comunque suolo da sfruttare.

Questa visione ideologica (che nasce con la rivoluzione scientifica: la separazione tra mente e natura) e produttivistica (capitalismo sempre più feroce ed estrattivo) ha prodotto, e continua a produrre, enormi danni al pianeta, desertificandolo, riducendo la sua biodiversità, immiserendolo.

La mitologia sottesa dagli studi di ingegneria si basa sull’abbattimento di ogni limite o barriera (il ponte più lungo, la macchina più veloce, la produzione più accelerata) e costituisce l’alleata più efficiente della crescita illimitata (alla base del mito di Odisseo che travalica le colonne d’Ercole, i limiti del divino).

È stato detto che su tutto questo domina la cultura del silenzio, una cultura che tace su tutto ciò che dovrebbe essere invece ascoltato, dibattuto, confrontato: il silenzio dei poveri, dei dannati della terra, degli sfruttati e, ora, dei tanti morti per guerre combattute per fame di terra, acqua, di risorse che questa sapientemente dispone per la nostra sopravvivenza, di una dignità ferita per sempre.

«Chi grida nella notte delle macerie?/ Non credevamo sarebbe tornata/ La razionalità ci avrebbe difeso/ Giocare a Dio non è stato un buon affare/ La hybris ci ha devastato/ Branchi di semidei vagano rabbiosi/ Noi che venimmo da un passato animale/ Dal cuore di tenebra/ Sognammo un incubo/ Il ritorno all’animale».

È tempo di cambiare paradigma e parole ormai usurate: terra significa “madre-terra” o ancora Gaia, Biosfera, ecosistema planetario, luogo che ci ospita, che produce la vita e quanto abbiamo bisogno. Definita con un neologismo la terra è ‘Matria’, luogo fisico e metaforico di accoglienza contrapposta a ‘Patria’ parola inservibile, irrecuperabile.

«Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dai maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista». Pensarsi in termini di Matria, dice Michela Murgia, consente di sradicare la prospettiva di Nazione, poiché significa madre di tutti che nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata, quella sempre desiderata.

Gli uomini sono al 100% cultura e al 100% natura, sostiene Edgar Morin. Impossibile separare; la mente non è più nobile del corpo come pensava Descartes, entrambi prodotti di un’evoluzione biologica che ci lega alla terra, non siamo abitanti occasionali, apparteniamo ad essa come gli animali e le piante. Siamo parte di un ecosistema planetario mosso e alimentato dall’energia solare. Il vento, le maree, la pioggia e tutti gli eventi atmosferici nascono da questa energia che poco riusciamo ad usare, diversamente dalla natura che ne è animata e da cui ricava la sua bellezza e abbondanza.

Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravità che determinano il movimento dei corpi celesti. Ma, afferma Hannah Arendt, per un fenomeno piuttosto curioso la gioia non fu il sentimento dominante, quanto piuttosto di sollievo per «il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre».

Nel commentare questa manifestazione Arendt sostenne che la terra è la quintessenza della condizione umana e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio. Dunque, tale sentimento “di liberazione” esprime lo sforzo di rendere artificiale anche la vita, di recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura.

Il nuovo paradigma mette al centro una nuova cultura all’altezza dei tempi, una cultura che richiede un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla terra, una cultura che permetta l’uscita dall’antropocene, una cultura che richiede una radicalità ancor più forte di quella all’origine delle pratiche e delle lotte che hanno caratterizzato il secolo passato cui molti sono ancora ancorati.

La crisi climatica e con essa, le disuguaglianze, le migrazioni, tenderanno ad aggravarsi: ce lo confermano le comunità di scienziati che al tempo stesso ci avvertono che siamo in prossimità di un punto di non ritorno. Combattere la crisi climatica richiede non solo opere di mitigazione, ma anche un atteggiamento di adattamento che coinvolge le relazioni tra persone, soprattutto quelle più fragili, quelle povere, quelle sfruttate, più oppresse.

La transizione ecologica, meglio sarebbe chiamarla conversione ecologica, come sostiene Vialedovrà essere una transizione che muove soprattutto dal basso, dove le esperienze più virtuose oggi già in atto potranno essere replicate da altre comunità.

La nuova prospettiva è quella che vede il superamento tra cultura e natura, tra spirito e materia, tra mente e corpo e che mette in discussione la crescita illimitata e lo sviluppo. La crescita altro non è che accumulazione di capitale e richiede lo sfruttamento della terra e degli esseri umani. Lo sviluppo è il suo volto presentabile sotto forma di “sostenibile”, “umano”, “ecologico”.

Questo slittamento semantico conduce verso pratiche devastanti, quali il nucleare (considerato dalla comunità europea “sostenibile”), la produzione di CO2 e il suo seppellimento (per continuare a produrre senza cambiare nulla), lo sfruttamento di interi paesi e dei fondali marini, alla ricerca dei minerali rari per la costruzione di batterie per le auto elettriche.

Ma i governi mondiali pubblicizzano tali rimedi come necessari per la transizione, nessuno di essi dice che bisognerebbe consumare di meno, spostarsi di meno. Mangiare una torta e poi ri-averla tale e quale come sostiene la definizione di sostenibilità è un obiettivo fisicamente irraggiungibile come già ci spiegava Georgescu-Roegen sulla base del secondo principio della termodinamica.

Già Giorgio Nebbia nel 1999 proponeva di abolire la parola ‘sostenibilità’ e tutti i suoi aggettivi. La sostenibilità è il trucco che i governi usano per far credere che sia possibile continuare nella stessa direzione con qualche rattoppo. Gregory Bateson, con riferimento alla sua conoscenza della Bibbia, ci ha insegnato che il dio ecologico non può essere beffato e che in ecologia non esistono scorciatoie. La conversione ecologica indica invece una conversione a U nella direzione dello sviluppo e significa in primo luogo avere cura della terra e del suo vivente.

La nuova prospettiva richiede la rinuncia alla centralità dell’uomo nell’universo, la rinuncia al patriarcato, all’imperialismo e a tutti i gretti nazionalismi, alle guerre, tutte. Ed è quella basata su comunità accoglienti e sulla valorizzazione del lavoro di cura, attività legate alla produzione e riproduzione della vita, comprese quelle sociali che tengono unite le comunità e ne rafforzano i legami.

Il vero sviluppo sostenibile, quello ostacolato dai poteri forti, è quello legato al miglioramento delle condizioni di vita di una generazione, dell’abolizione di ogni tipo di sfruttamento degli esseri umani e degli ecosistemi di supporto alla vita, quello legato all’accoglienza di chi fugge da guerre o desertificazioni, dall’abolizione degli armamenti in ogni paese e, dunque, da una ritrovata armonia con la terra.

Nella storia non c’è mai continuità; quando poteri pur forti che siano si affermano è altrettanto probabile che essi cadano velocemente a seguito di rivolte. Comunità virtuose, stili di vita diversi, pur restando silenti per anni, possono irrompere sulla scena dando luogo a capovolgimenti inediti e imprevisti, come fiumi carsici che riaffiorano prepotentemente dopo lunghi tratti attraversati nel sottosuolo, silenti.

È già accaduto. Non avverrà spontaneamente; ogni cambiamento determina lutti e gioie; è probabile che avvenga al seguito di rivolte non pacifiche, di certo non con la rassegnazione al consumismo e al pensiero unico, almeno fino a quando non ci sarà più nulla da consumare su questa terra.

C’è chi tra di noi crede che l’unico conflitto sia quello tra gli uomini per il possesso del potere o per il mantenimento del predominio. Credo che l’epoca attuale abbia fatto emergere che questo stesso conflitto vede ora quegli stessi uomini contro la madre-terra dispensatrice di beni.

Non ci sono due conflitti separati: il predominio degli uomini sui propri simili comprende quello più vasto del predominio sulla natura. L’armonia con la natura ha bisogno di pace, è pace. Come Università, come studiosi, cultori e depositari del pensiero critico disinteressato, abbiamo il dovere di contribuire a erigere queste casematte di resistenza negli atenei e nei territori; sentinelle silenti che torneranno utili nel momento in cui l’umanità, si spera, ritroverà la sua Ragione.

Nota. Il titolo riprende quello di un libro di Giovanni Franzoni del 1999

Enzo Scandurra è urbanista, saggista e scrittore. Ha insegnato per oltre quarant’anni “Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio”. Collabora con «il manifesto» e con numerose riviste scientifiche. Ha scritto molti saggi sul tema della città e dello sviluppo sostenibile. Tra i suoi libri: Un paese ci vuole (2007), Ricominciamo dalle periferie (2009), Vite periferiche (2012), Fuori squadra (2017), Splendori e miserie dell’urbanistica (con I. Agostini, 2018).

Francia: Macron si ostina a impedire al Nuovo Fronte Popolare di governare

Francia: Macron si ostina a impedire al Nuovo Fronte Popolare di governare

Grazie a questa oculata scelta dopo il NFP si è piazzato il partito di Macron e solo terzo quello dei fascisti-razzisti del partito di Le Pen-Bardella (che in diversi casi hanno avuto i voti della destra tradizionale e anche di alcuni del partito di Macron).

Secondo la tradizione della Quinta Repubblica, Macron avrebbe dovuto subito designare un eletto del NFP come premier per la formazione del nuovo governo. Ma, ovviamente, pretende imporre una coalizione che non cancelli le sue scellerate scelte liberiste (la riforma sulle pensioni, le leggi sull’immigrazione, quella fascista e razzista sulla sicurezza e anche contro i francesi di origine non cristiana, l’assenza di tasse ai grandi ricchi ecc.). Da parte sua il NFP rivendica il diritto di applicare il programma politico che gli elettori hanno votato facendolo piazzare primo partito eletto (vedi qui).

Nonostante sia solo un programma riformista di tipo rooseveltiano-keynesiano, esso è palesemente aborrito da Macron che quindi ha cominciato a tramare per una coalizione fra il suo partito e la destra tradizionale e anche una parte degli eletti del partito di Le Pen e spera di poter dividere il NFP approfittando delle ovvie differenze fra le sue componenti.

All’interno di questo NFP gli eletti di La France Insoumise (LFI) sono i più numerosi davanti ai socialisti e poi agli ecologisti e i comunisti. Tutti questi hanno promesso di arrivare assieme a designare un candidato come premier da proporre a Macron e alla prima seduta del Parlamento, che per ora ha solo eletto il presidente e le varie cariche previste per il funzionamento di questa istituzione.

In questo frangente s’è visto che Macron e le destre hanno fatto fronte comune per rieleggere come presidente quella che già c’era ed è notoriamente una della destra del partito di Macron, ma è stata eletta anche dall’attuale capo del governo dimissionario e da ben 12 suoi ministri infrangendo così la regola che ne viete il diritto di voto parlamentare (e LFI ha fatto ricorso). Il NFP, però, è comunque riuscito a far eleggere come relatore per la legge finanziaria un suo eletto e come presidente della Commissione delle Finanze, Eric Coquerel di LFI.

Quanto al candidato al ruolo di premier in un primo momento LFI e gli ecologisti hanno proposto la deputata Huguette Bello, ma i socialisti hanno bocciato tale scelta e dopo hanno proposto insieme agli ecologisti Laurence Toubiana, che era stata relatrice del COP21 del 2015, una celebre accademica esperta di questioni ecologiche. Ma LFI ha rifiutato tale candidatura perché teme che questa celebre esperta tenda a essere fagocitata da Macron che l’avrebbe anche corteggiata come sua eventuale ministra.

Si è quindi approdati a un’impasse alquanto imbarazzante che immancabilmente suscita grande preoccupazione fra gli elettori e i militanti del NFP.

Tant’è che il sindacato dei ferrovieri la scorsa settimana ha indetto a Parigi una manifestazione alla quale hanno partecipato decine di migliaia di persone per sollecitare gli eletti del NFP a trovare l’unità. E la CGT (la CGIL francese) ha sollecitato il NFP a trovare l’intesa per la designazione del candidato premier.

Il 23 luglio si è infine approdati ad una soluzione con l’indicazione dell’economista Lucie Castets come premier. Considerata da tutti brillante, integra, onesta, è stata alta funzionaria di Stato, assessore alle finanze del comune di Parigi ed è nota per il suo decennale impegno per lo sviluppo dei servizi pubblici e in particolare dei servizi sociali.

Tempo addietro aveva dichiarato “I servizi pubblici possono essere un antidoto al RN (il partito di Le Pen-Bardella), sono contro il programma del RN. Occorre una riforma sulla fiscalità del capitale, bisogna essere in grado di finanziare massicciamente i servizi pubblici”.

Da parte sua Jean-Luc Mélenchon ha dichiarato “questa scelta conferma la capacità del NFP di essere all’altezza delle circostanze nel rispetto degli impegni presi con le donne e gli uomini che l’hanno votato più di tutti gli altri”. Plauso anche da parte di socialisti, ecologisti e comunisti.

Ma, come prevedibile Macron non vuole intendere di parlarne! E la sera stessa del 23 in TV, in risposta al giornalista che gli ricordava che il NFP è la coalizione che ha avuto più voti, ha dichiarato che “La questione non è questa”, per continuare a non riconoscere che il NFP ha avuto più voti di tutti gli altri e ha ripetuto la sua solfa: “nessuno ha vinto” (SIC). E ha aggiunto che comunque non ci sarà alcuna nomina per formare un nuovo governo prima delle Olimpiadi. “Sino a metà agosto non siamo in situazione de dover cambiare”.

Ha quindi reiterato la sua rivendicazione di essere il “garante della stabilità del paese e ha rilanciato la sua richiesta alle “forze che hanno beneficiato del fronte repubblicano di trovare dei compromessi per dirigere il paese insieme”.

In altre parole pretende imporre un governo innanzitutto col suo partito, la destra tradizionale e con i deputati NFP che ci stanno.

Di nuovo Manuel Bompard, coordinatore di La France insoumise (LFI – la componente più forte del NFP) ha affermato che Macron cancella il risultato delle elezioni politiche. È una grave negazione insopportabile per la democrazia. In Francia, non c’è veto presidenziale quando il popolo si esprime votando”. Lo stesso hanno dichiarato gli altri leader del NFP.

È ovvio che se Macron continuerà a ignorare la vittoria dl NFP si andrà verso una caldissima estate e verso un altrettanto caldo autunno: tutti i sindacati sono pronti a scendere in piazza anche perché la prima legge che il NFP vuole votare è l’abrogazione della famigerata riforma delle pensioni.

Parole a Capo
Danila Di Croce: “Come se non fosse mai stato” e altre poesie

Danila Di Croce: “Come se non fosse mai stato” e altre poesie

Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo
(Alda Merini)

 

Si tradisce più dimenticando,
correndo a perdifiato – il vento in faccia
e l’erba alta a nascondere il sentiero.
Certo, una carezza è l’aria, il sole
un amo che t’aggancia,

ma i passi,

i passi faticosi e lenti
sulla pietra sanno meglio aderire
al tempo della caduta, all’ombra
incerta e fragile dell’imperfezione.

 

*

 

Come se non fosse mai stato,
così calarsi in grembo a questa sera
di giugno che sfoltisce il buio,
ne fa covoni per l’avverarsi
della luce. E quell’albero
di fico tutto foglie
ora conosce che non c’è stagione
per fruttificare: non c’è che l’istante
per addolcire la tua fame.

 

*

 

È che si impara a perdere
quando osservi la vita di profilo,
più smilza e distante, forse,
ma con l’occhio rapito dalla frangia
esatta delle nuvole.

Davvero si apprende a cedere ore
e pretese, a rintanarsi in pochi
angoli di prato, per non scordare.
E accade che persino il lungo fiume
degli addii s’incanali infine
con più capace abbandono.

Sì, è altura spoglia da conquistare
questo verso mandato a memoria
e s’impara anche solo guardando
chi dorme sul cartone, lungo i portici,
così, con un sogno addomesticato.

 

*

 

Risale asciutto il taglio
dalla potatura: non gronda
sangue e il suo grido
è visibilmente sfrondato.

Anche così s’impara la bellezza,
riducendo l’ampia linea
del sopracciglio, perché poi lo sguardo
stia stretto sulla gioia, sul dolore

(a interrogarne la somiglianza).

 

*

 

Chi dice che il mondo non possa poi ridursi
a poco, ai confini di una stanza,
al respiro di ogni uomo.
Che ne sa il mondo intero della risalita
di un fiato, della curva di una bocca,
della spinta degli occhi.
Non ha gesti, il mondo, che non siano
le mosse minime di chi abita
i pochi centimetri del cuore.

 

(Queste poesie fanno parte della silloge “Ciò che vedo è la luce”, perQuod, 2023)

 

 

Danila Di Croce vive ad Atessa (CH) e insegna Italiano e Latino al Liceo Scientifico. La sua più recente raccolta poetica, Ciò che vedo è la luce (peQuod 2023), è risultata vincitrice al Premio InediTO – Colline di Torino 2022 (in palio la pubblicazione dell’opera) e più recentemente, per la poesia edita, prima al Premio Vito Moretti 2024, quinta al Premio San Domenichino e finalista ai Premi Europa in Versi e Versante ripido.
Nel 2023 si è classificata prima con testi inediti nei seguenti premi letterari: Lago Gerundo, Daniela Cairoli, Chiaramonte Gulfi – Premio Sygla, Arturo Giovannitti, Città di Acqui Terme (anche con il premio della Stampa) e Città di Sant’Anastasia. È stata premiata o è risultata finalista ai concorsi Gozzano, Europa in Versi, Bo-Descalzo, Città di Como, Ossi di Seppia, Montano, Arcipelago itaca, Gianmario Lucini, Sinestetica, Rodolfo Valentino, Poeti Oggi. Suoi testi figurano nel Settimo repertorio di poesia italiana contemporanea (AA. VV., Arcipelago itaca, 2023), in Distanze verticali. Escursioni poetiche sulla montagna (Macabor Editore 2024, a cura di Irene Sabetta), su alcuni blog e su antologie legate a premi letterari. Ha pubblicato il suo primo libro di poesia, Punto coronato (ed. Carabba), nel 2011 e prossimamente uscirà per la casa editrice puntoacapo l’opera vincitrice del Premio Lago Gerundo 2023 per la poesia inedita. È membro di Giuria in alcuni concorsi.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini, inaugurata nel maggio del 2020, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 240° numero.  Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Mariana Mazzuccato, Rachel Reeves, Angela Rayner
Le tre donne del Labour e la speranza di una politica nuova

Mariana Mazzuccato, Rachel Reeves, Angela Rayner: le tre donne del Labour e la speranza di una politica nuova.

Dopo 14 anni di governi Conservatori in Gran Bretagna ha vinto il Labour. Come già abbiamo detto è stata più che una vittoria del Labour, una sconfitta dei Tory, favorita dal nuovo partito di destra di Farage che ha portato via dai Tory il 14,3% dei voti facendoli crollare in moltissimi dei 650 collegi dal 43% (di 5 anni fa) al 23%, sotto quindi il Labour (33,7%) che ha così vinto 412 seggi su 650 prendendo anche meno voti (in valore assoluto) di 5 anni fa (anche se è cresciuto in percentuale di +1,7%).

Il Labour ha ottenuto anche la quota di voti più bassa di sempre nelle aree svantaggiate e la più alta nelle aree più benestanti, in coerenza con la svolta moderata del suo leader Starmer, il quale sa bene quanto rischia alle prossime elezioni, soprattutto se non riuscirà a limitare e regolare l’immigrazione (che è il cavallo di battaglia di Farage) e a non invertire il declino del benessere nella maggioranza dei britannici.

Il programma di Starmer si basa su tre filoni dietro ai quali stanno tre donne ispiratrici (due al Governo e una fuori, a noi nota perché è un’economista italo-americana). Si tratta di Mariana Mazzuccato che sostiene da sempre l’importanza del ruolo propulsivo dello Stato nell’economia, con massicci investimenti pubblici nella politica industriale capaci di catalizzare le imprese private verso obiettivi ambiziosi, e in cui il ruolo strategico rimane quello dello Stato o di imprese controllate dallo Stato. Una scelta opposta all’idea che il “libero mercato” possa generare benessere per la maggioranza e quindi di uno Stato che si defila e appalta le grandi scelte alla finanza e alle grandi corporation.

Rachel Reeves

La seconda donna è Rachel Reeves, nuova ministra delle finanze del governo britannico e prima donna a ricoprire questo ruolo, autrice di “The Everyday Economy” (L’economia della vita quotidiana) dove sostiene che la politica economica deve tornare a preoccuparsi dei beni e servizi importanti nella vita quotidiana delle persone: trasporti, sanità, assistenza sociale, istruzione, servizi di pubblica utilità, piccolo commercio, dopo l’ideologia (che va avanti da 20 anni) dell’importanza della gestione finanziaria e che solo il privato è bello.

Angela Rayner

 

La terza donna è Angela Rayner, ex sindacalista, cresciuta in una famiglia poverissima con la sola madre, che si occuperà come ministro delle politiche per la casa, delle comunità e del governo locale e con particolare attenzione ai “luoghi che non contano, dove sono cresciute le diseguaglianze sociali, economiche, in territori marginalizzati e diventati anonimi, in quanto i Tory avevano puntato tutto sul potenziale innovativo della classe creativa nelle grandi città, sui servizi finanziari della City e sull’alta tecnologia.

 

Così potrebbe essere (ma va verificato) che stiamo passando da leader dove l’immagine è tutto a leader veri, che lavorano dietro le quinte, che sanno costruire una squadra e in cui il fare è più importante dell’immagine,
Se il programma Labour dovesse rispondere con successo alla diffusa rabbia e risentimento, un sentiment che è presente in tutti i paesi occidentali (dall’Europa agli Stati Uniti), sarebbe una scelta inaspettata. Per questo sarà importante seguire con attenzione il caso britannico.

Cover: Mariana Mazzucato – ph. Stuart Robinson

Vite di carta /
Ferraù e la seconda scelta

Vite di carta. Ferraù e la seconda scelta

Sto rileggendo il primo canto dell’Orlando furioso insieme a Federica, che recupera la storia letteraria di quarta liceo dopo avere fatto l’intero anno scolastico all’estero. Nell’universo grande  costruito da Ludovico Ariosto col suo poema non è piccolo l’universo che si incontra nel primo canto: le antologie della scuola superiore lo presentano come canto indicativo dei temi e di modi narrativi della poesia ariostesca. Vero. A leggerlo con cura ci si fa un’idea di come debba essere il poema, con i restanti 45 canti già avviati dal motore narrativo del primo. Con i tempi risicati che ha la didattica questo pregio esce dal testo e si trasforma in un secondo, graditissimo: quello di dare una spintarella allo “svolgimento del programma”.

Ciò che non dirò a Federica è la propensione che provo per un personaggio minore, anche lui talmente preso dall’amore per Angelica ora in fuga nella selva, che non ha esitazioni nel lasciare ciò che stava facendo per rincorrerla quando la vede passare a cavallo.  Di innamorati così, ne girano altri nelle 81 ottave che compongono il canto e vengono tutti da lontano: letterariamente, escono dalle pagine incompiute dell’Orlando innamorato del Boiardo e si gettano nel nuovo labirinto tessuto dai fili narrativi delle ottave del Furioso.

Il mio preferito resta Ferraù, il cavaliere saraceno spagnolo che nell’Innamorato aveva ucciso in combattimento il fratello di Angelica, Argalia. Tra l’ottava 14 e la 31 si consuma l’epopea individuale di questo cavaliere, non meno cortese dei cugini Orlando e Rinaldo e pronto alla “tenzone” in difesa della bella fanciulla. La vede passare a cavallo vicino al fiume dove egli ha trovato riposo (ma ha perduto qualcos’altro) rispetto alla battaglia che si combatte presso Parigi tra l’esercito cristiano di Carlo Magno e il suo, quello infedele del re Marsilio. Appare “pallida e turbata” mentre fugge da Rinaldo (lo odia perché, sempre nell’altro poema, ha bevuto a una fontana fatata), Ferraù la riconosce e subito interrompe la ricerca dell’elmo che gli è caduto in acqua e affronta in un cruento duello il suo inseguitore (ottave 17- 18).

In un poema fatto di donne, cavallier, arme, amori, cortesie e audaci imprese, come proclamano i due versi iniziali, Ferraù è al posto giusto. In un poema che prende il motivo corale delle armi proveniente dalle chansons de geste e lo fonde con i temi del ciclo bretone, l’amore e il gusto dell’avventura individuale, Ferraù è la figura esemplare del cavaliere che nello spazio della stessa giornata combatte per il suo re e duella per amore. 

Nello spazio delle successive 13 ottave gli accade di: interrompere  saggiamente lo scontro e unire le forze per cercare Angelica insieme a Rinaldo, procedere con lui “per selve oscure e calli obliqui” fino a dove il sentiero si biforca, lasciare Rinaldo e mettersi “ad arbitrio di fortuna” (sempre lei, volubile e donna, come dice Machiavelli) in una delle due strade, non sapendo quale abbia percorso la donna. Infine ritrovarsi, dopo un lungo giro nel bosco, esattamente al punto di partenza.

Non dirò a Federica che anche a lei sta accadendo qualcosa di simile col programma di Italiano: ha fatto un lungo giro per seguire l’anno scolastico negli Usa e ora è tornata nel punto in cui lo aveva lasciato (il programma).

Scherzi a parte, non vorrò dirle quanto mi sia vicino l’errare di Ferraù, un zigzagare fuori di sé nella selva e anche dentro i suoi desideri (i nostri desideri) seguendo il proprio cammino di uomo prima che di cavaliere in un poema epico-cavalleresco.

Ci penseranno le pagine del manuale a perimetrare per lei la grandezza inventiva e narrativa di Ariosto, in quel suo poema che è opera aperta, piena di spifferi e di folate soffiate dalla mutevolezza del vivere che spingono i personaggi in ogni dove, ognuno con un desiderio in testa. Orlando, il cui desiderio folle verso Angelica è destinato a rimanere deluso, sarà il più inappagato di tutti. Perduto e poi recuperato il senno che Astolfo gli ha portato giù dalla luna, negli ultimi canti uscirà in via definitiva dal filone dei romanzi bretoni per infilarsi nel genere epico della Chanson de Roland: farà la guerra e solo la guerra, portando alla vittoria il suo re, Carlo Magno.

Senza occupare troppo spazio, Ferraù come Orlando mostra a chi legge qual è la parabola della vita dentro al poema. Indica quale sia la circolarità complessiva del suo movimento: corri corri, fai sempre lo stesso giro dietro a obiettivi che non cambiano o, se cambiano, soffiano all’indietro per predisporti ad accettarli.

Di Ferraù mi incanta il suo adeguarsi alla mutevolezza del mondo. Fallita la prima scelta, quella d’amore, si adegua a sposarne una seconda. Che poi è la prima che aveva interrotto: insomma cerca l’elmo caduto nelle acque del fiume.

Sulla spinta delle parole del fantasma di Argalia che è sbucato dall’acqua, Ferraù si prepara a uscire dal canto con la testa piena di un ulteriore desiderio: impadronirsi dell’elmo che è più elmo di tutti, quello di Orlando.

Federica apprenderà dal suo manuale che nel caso di Ferraù la ricerca dell’elmo è una ricerca degradata, il surrogato cioè di una meta più alta e irraggiungibile. Nel Furioso l’inchiesta come motore dell’azione individuale alla fine fallisce e i personaggi devono ripiegare su un oggetto sostitutivo, e via di nuovo col meccanismo della ricerca, quello che nel mio manuale preferito di docente viene definito il “meccanismo comico dell’attesa delusa”.

Con la sua sensibilità di diciottenne apprezzerà, credo, che nella architettura così complessa del Furioso la monade narrativa del primo canto rechi in sé l’intero DNA del poema e del suo altissimo valore letterario.

Quello che non vorrò suggerire è di far uscire Ferraù dalla pagina per dirle che spesso così è anche la vita fuori dal poema. Federica ha sogni e progetti che non è ancora tempo di relativizzare davanti al suo sguardo acceso di futuro.

 

Nota bibliografica:

  • Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Garzanti i grandi libri, 1994

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Referendum Autonomia differenziata: 100.000 firme on line in meno di due giorni

Referendum Autonomia differenziata: 100.000 firme on line in meno di due giorni

Le adesioni online alla richiesta di referendum per abrogare la legge sull’Autonomia differenziata hanno superato quota 100.000 in meno di due giorni, il 20% delle 500.000 richieste, un obiettivo alla nostra portata.

Ma non ci accontenteremo e continueremo a raccogliere le firme per tutto il tempo disponibile, sia sul web che nei banchetti che abbiamo organizzato e che intendiamo moltiplicare in maniera capillare in tutta Italia.

Per noi è fondamentale parlare con il maggior numero possibile di persone, spiegare le ragioni della nostra mobilitazione e rendere questa battaglia sempre più condivisa e partecipata: una battaglia democratica in difesa dell’unità e della coesione nazionale, del welfare pubblico e universalistico e delle prospettive economiche e sociali del paese.

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Leggi anche

→ Materiali grafici

→ Tutte le notizie sulla Campagna referendaria

Nota Bene
Periscopio, quotidiano online indipendente, aderisce alla campagna referendaria contro l’Autonomia differenziata

 

Quando la società ti fa ammalare: lo stigma

L’arte che cura. Quando la società ti fa ammalare: lo stigma

La sofferenza mentale non è sempre una questione biologica, cioè non è sempre una malattia organica.

Alle persone con una maggiore vulnerabilità allo stress, quindi con una predisposizione genetica che potrebbe però rimanere senza conseguenze sulla salute per l’intera vita, può succedere che,  al sommarsi di fattori psicosociali negativi, si ammalino. Un innesco che non segue la logica causa effetto (il modello biomedico ) ma è il risultato di fattori bio-psico-sociali che si incontrano e si sommano in determinate condizioni.

Spesso la malattia mentale è una questione culturale che con i pregiudizi colonizza la mente e mina negli individui il proprio senso del sé, della identità, del diritto ad avere un posto nel mondo per sé e le proprie differenze.

Molte volte è una questione di contesto sociale che, discriminandoti, escludendoti, restituendoti l’immagine di essere sbagliato, ti porta ad essere un giudice spietato, ad adottare verso di te lo stesso sguardo senza indulgenza della società, a credere più reale delle tue idee e bisogni quello che la gente pensa di te.

Se sei giovane e quindi più vulnerabile al contesto ambientale e relazionale ti detesti, ti odi, ti nascondi, ti fai del male, vuoi morire.

Se, per il mio lavoro, arriviamo ad incontrarci e riusciamo a parlarne, può nascere l’idea di una possibile rivoluzione: tu che ti ribelli al mondo, tu che difendi le tue ragioni, tu che puoi esprimerti con convinzione e non piangere silenziosamente. Tu che vai bene così come sei. Anche se è anche il mondo che dobbiamo cambiare.

Lo specchio infranto

1.

La mia vita è come il volo di un’allodola

Che uno specchio che scintilla fa cadere giù

Le sue ali stanche sono fragili

Ninna nanna per un volo che è finito

Camminare in questo mondo non è facile

Se tu sei diverso gli altri non capiscono

Io non so come farò a difendermi

Se è importante dimostrare chi non sei

Non lo so, non lo so

[Gian Pieretti, Come il volo di un’allodola

https://www.youtube.com/watch?v=wHvNPSFBUao]

Sei un bel ragazzo, un giovane adolescente, arrivi da lontano, hai un nome “strano”, lo cambi con uno che non incuriosisce ed è pronunciabile ma non basta. Quando ti guardi allo specchio vedi il colore della tua pelle che non è bianca come quella degli amici. I tuoi occhi, bellissimi, hanno una forma a mandorla che ti tradisce e i tuoi capelli neri neri dritti e indomabili anche se tagliati alla moda, sono insopportabili. “Voglio una ragazza di Ferrara, bionda, bianca”, “ diventare ricco”.

Riversi la colpa della tua infelicità sui tuoi genitori: tuo padre che incarna quello che ti ha “venduto”, tua madre che lo ha sposato e perciò non può essere tutta per te, sostituendo “ l’altra” che non c’é mai stata.

Scomodando Freud si potrebbe parlare del vecchio Complesso di Edipo. Noi – io e te – sappiamo che questo odio e questo amore assoluti sono il tuo modo di riparare un abbandono e dare significato alla tua vita sradicata, meticcia.

Dopo varie vicissitudini e importanti rotture familiari pare che tu stia trovando un modo di ricucire la tua immagine. Spontaneamente ti dedichi a una sorta di mandala dove motivi floreali orientali si sposano con le iniziali del tuo nome originale. Il rosa è il tuo colore preferito e lo dividi in una campinatura che dovrebbe riproporre, nell’insieme, il simbolo dello Yin e dello Yang. Ma sei insoddisfatto, si avverte un senso di riluttanza, lo si percepisce anche dalla confusione dell’immagine, dal disordine e dall’approssimazione. Lascerai il lavoro incompiuto e deciderai di interrompere la terapia.

S.14 anni

2.

(…)Mia madre bussa sulla porta della mia camera, mi trova morto
Senza nessun, nessun ricordo
E le mie ultime parole sono scritte con quel cacciavite, un cacciavite rotto
Lo sai che ho ucciso il mostro

E adesso non mi riconosco, oh-oh, oh
E adesso non mi riconosco, oh-oh, oh
E adesso non mi riconosci nemmeno tu

All’ultimo piano, appeso a testa in giù
Pronto a fare un tuffo dove il cielo è più blu
Posso urlare finché non mi sente Dio
Qui nessuno mi ama veramente, specialmente io
Seguo la dannazione, eh, si allungano le ombre, eh
Corro sulla neve senza lasciare impronte
La vita è un sogno, tu c’hai paura della morte
E adesso non mi riconosco, oh, 
yeah
Sono diventato il mostro

[Mace, centomilacarie, Salmo, “ Non mi riconosco”

https://www.youtube.com/watch?v=m1jIi-Op9V0]

Sei una giovane donna intelligente, colta, sensibile. Parlare con te è un arricchimento ed un piacere. Ma non ti piaci, sei troppa, sei come una piccola bimba, una neonata che si sente sicura solo tra le braccia della mamma. E di questo primitivo legame rimangono il bisogno di cibo e di dormire.

Hai tentato di farti fuori ma è rimasto solo il senso di colpa e la morte dentro.

Sai scherzare, sai scrivere poesie intense, le tue immagini artistiche sono belle ma sembra che non riescano a restituirti la tua di bellezza. In bilico tra la voglia di cambiare e lasciarti alle spalle la sofferenza e la paura di rinunciare alla tua malattia che almeno conosci. Vuoi uccidere il mostro ma, se lo fai, non ti riconosci e adesso sei tu il mostro.

Ti propongo un collage con le stoffe. Le selezioni con cura, le accarezzi con delicatezza, provi sotto i tuoi polpastrelli le diverse texture, mi spiegherai che rappresentano diverse parti di te.

La volta successiva desideri completare il lavoro e ascoltando una canzone sceglierai le frasi come didascalie per le diverse parti del lavoro.

Il collage è ordinato. Nello spazio del foglio ci sono stoffe più spesse, materiche, vellutate, trasparenti, altre come la sovrapposizione di strati di nero appaiono come un agglomerato denso seppur nato da stoffe leggere come il tulle. Sei attenta a non uscire dai bordi. Le diverse parti sono tutte contenute nel supporto ma, per ora, ognuna per sé. Il filo conduttore la canzone Non mi riconosco. Il titolo che scegli Sono diventata il mostro.

M. 27 anni “Sono diventata mostro”

3.

Chiudere i coperchi e chiudere la vista

Colmare la rottura ed evitare la vita

L’intera Terra è diventata una terra desolata

Una palude intensa, una palude di pianura

Non così piatto come desolato

E nel profondo del veleno e del rimpianto

Piango ad alta voce mentre vengo trascinato sotto

E un corpo pende dall’asta della doccia

Come un asciugamano lasciato ad asciugare

Le gocce gridano la loro protesta in una stanza buia e vuota

La tristezza decora il silenzio

Come un raduno dell’oscurità

Le mie grida sono l’eco di un suicidio perduto da tempo

Un angelo sanguinante, una colomba morta

[Kaio Dot, The mortality of Doves traduzione dall’inglese]

https://youtu.be/s3FaV9PnTU4?si=OezLUB79msfY-eO- 

Per amore fin da piccolo ti hanno spinto ad assomigliare a chi non sei. Con le buone, con le cattive, con indirette persuasioni, con esplicite disapprovazioni.

No. Non andavi bene ma cosa fare senza sembrare ingrato verso i tuoi genitori?

Hai fatto tutto quello che desideravano e bene, perchè sei educato, ubbidiente e ti fidi del loro parere. Soprattutto vuoi essere amato.

Poi, da grande, sono cambiate alcune cose, importanti tragedie che ti hanno travolto ma che, inaspettatamente, ti hanno liberato. Sembrava.

Adesso sei quello che vuoi, ma ti tormenta l’idea di aver tradito chi ti amava e vivi ogni giorno la fatica di pensare che hai sbagliato e sei sbagliato e che questa società non è per te. Vivi trascinando la tua vita sognando la morte come una liberazione ed una irreversibile sconfitta.

Al primo incontro per descrivere la tua situazione hai disegnato te seduto in trono con una spada enorme che pendeva sulla tua testa. A questo disegno poco tempo dopo è seguito il seguente che hai intitolato Ansia. Aggrappata con artigli, ti penetra nella testa e ti piega con il suo peso enorme. Il ragazzo disegnato, procede su quella linea sottile sulla quale appoggia, rassegnato ad andare avanti.

Morire è il tuo pensiero di liberazione, il terrore di tutti ma il gesto estremo da compiere ti fa paura.

E ti condanna.

Le mie grida sono l’eco di un suicidio perduto da tempo

(…)Oltre la mostruosità

chiudere i coperchi e chiudere la vista

colmare la rottura ed evitare la vita

Ansia

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioliclicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.

Come raccontare il cambiamento sociale?
12 film su storie di non profit da vedere

Come raccontare il cambiamento sociale? 12 film su storie di non profit da vedere

L’effetto dei mass-media sulla raccolta fondi non è un’ipotesi: è il caso di Justice Defenders che con un mini-documentario andato in onda nella tramissione 60 Minutes (programma televisivo in onda sul canale CBS dal 1968) ha ottenuto un aumento del 2.110% delle donazioni online annuali in sole cinque settimane.

Come tutti gli storytelling fatti bene, i documentari possono invitare il donatore a rendersi parte attiva e dunque anche a donare.

Sappiamo bene che realizzare un documentario potrebbe essere fuori budget per la maggior parte delle organizzazioni nonprofit. Tuttavia, altre organizzazioni se lo potrebbero permettere ma non lo fanno.
Il video documentario può essere un incredibile strumento di raccolta fondi e non è un qualcosa di nuovo: una ricerca del 2003 ,pubblicata sulla Stanford Social Innovation Review, sosteneva, con esempi concreti, come la realizzazione di documentari da parte delle organizzazioni nonprofit e la loro diffusione tra i mass media vada ad influenzare positivamente la comunicazione, il brand e le donazioni di un’organizzazione nonprofit.

Sfortunatamente, però – come molte organizzazione del settore nonprofit – la maggior parte delle storie non riesce a catturare abbastanza attenzione e pubblico per diventare mainstream. Nel mare dei contenuti, è difficile emergere.

Ecco quindi 12 film provocatori sul cambiamento sociale (senza un ordine particolare) che puoi e dovresti guardare su Netflix, in streaming o in DVD.

Per questo fine settimana ti diamo i tre seguenti compiti da fare:

1. Scegli un film: ogni film è un invito all’azione, dallo schermo al cambiamento.

2. Guarda il film.

3. Poi riscrivi la sceneggiatura della tua organizzazione nonprofit.

Serie, film e documentari consigliati

Il ciclo del progresso

the pad project

Onp: The Pad Project (India)

Link: Netflix – The Pad Project

Il  documentario segue un gruppo di donne a Hapur in India, mentre imparano a utilizzare una macchina che produce assorbenti biodegradabili a basso costo, che vendono ad altre donne che non se li possono permettere. Ciò non solo aiuta a migliorare l’igiene femminile fornendo accesso ai prodotti di base, ma sostiene e dà alle donne la possibilità di eliminare in India un tabù sulle mestruazioni, contribuendo nel contempo al futuro economico della loro comunità.

La città della gioia

Locandina

Onp: PANZI Foundation (Congo)

LinkNetflix – La città della Gioia 

Il documentario racconta le origini di Città della Gioia, un centro fondato nel 2011 nella regione orientale della RDC per aiutare le donne vittime dei continui conflitti minerari nella zona. Il centro è stato istituito dal fondatore dell’ospedale Panzi, Dr. Denis Mukwege, dall’attivista per i diritti delle donne Christine Schuler Deschryver ed Eve Ensler, autrice di “Monologhi della vagina” e fondatrice di V-Day.

Il diritto di opporsi

il diritto di opporsi

OnpEqual Justice Initiative (Stati Uniti)

LinkNetflix – Il diritto di opporsi

Il film segue il giovane avvocato Bryan Stevenson e la sua storica battaglia per la giustizia. Dopo essersi laureato ad Harvard, Bryan avrebbe potuto scegliere di svolgere fin da subito dei lavori redditizi. Al contrario, si dirige in Alabama con l’intento di difendere persone condannate ingiustamente, con il sostegno dell’avvocatessa locale Eva Ansley. Uno dei suoi primi casi, nonché il più…

Il ragazzo che catturò il vento

Film Il Ragazzo Che Catturo Il Vento

OnpMoving Windmills Project (Malawi)

Link: Netflix – Il ragazzo che catturò il vento 

La storia vera di un ragazzo di quindici anni del Malawi, che riesce a progettare un mulino a vento, indispensabile per superare la carestia che affligge il suo villaggio, diventa un bellissimo racconto di solidarietà, di intraprendenza e del potere di riscatto dell’istruzione.

He named me Malala

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OnpMalala Fund (Pakistan)

LinkAmazon Prime – He named me Malala

Dopo che i talebani cercano di uccidere Malala per essersi espressa a favore dell’educazione delle donne, l’adolescente pakistana Malala Yousafzai emerge come leader nella difesa dei diritti dei minori e diventa la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace.

How to Survive a Plague

How To Survive A Plague La Locandina Del Film 250776 Jpg 400x0 Crop Q85

OnpTreatment Action Group (USA)

Link: Amazon Prime – How to Survive a Plague

È la storia inedita degli sforzi di persone che hanno agito per migliorare le condizioni di vita dei malati l’AIDS. Racconta dell’improbabile gruppo di giovani che, senza formazione scientifica, si è infiltrato nelle agenzie governative e nell’industria farmaceutica contribuendo a identificare nuove soluzioni, accelerando i test clinici e la loro distribuzione nelle farmacie in tempi record.

How to Change the World

greenpeace

Onp: Greenpeace

Link: Amazon Prime – How to Survive a Plague 

Un gruppo di amici salpa verso una zona dove sono realizzati test nucleari e la loro protesta cattura l’immaginazione del mondo. Questa è la storia dei pionieri che hanno fondato Greenpeace e segnato il movimento ambientalista.

Chasing Ice

chasing ice

Onp: Earth Vision Institute 

Link: Google Play – Chasing Ice 

Nella primavera del 2005, il celebre fotografo James Balog si diresse verso l’Artico per portare a termine un incarico commissionatogli dal National Geographic: catturare immagini che potessero aiutare a capire meglio il cambiamento climatico della Terra.

Caschi bianchi

caschi bianchi

Onp: The Syria Campaign (Syria)

Link: Netflix – Caschi Bianchi

Oltre 600.000 siriani sono stati uccisi e milioni sono stati costretti a fuggire dalle loro case.Nelle zone sfuggite al controllo del regime, chi resta dipende da gruppi di volontari dedicati a salvare chiunque ne abbia bisogno.

Virunga

virunga

Onp: The Virunga Foundation (Congo)

Link: Netflix – Virunga

Un gruppo di coraggiosi individui rischia la vita per proteggere gli ultimi gorilla di montagna dalle milizie armate, dai bracconieri e dalle forze oscure che lottano per il controllo delle ricche risorse naturali del Congo.

Mission Blue

mission blue

Onp: Mission blue

Link: Netflix – Mission Blue

La leggendaria oceanografa e vincitrice del premio TED, la Dott.ssa Sylvia Earle, è impegnata in una missione per salvare i nostri oceani. Mission Blue è in parte un’avventura d’azione, in parte un’esposizione di un disastro ecologico.

Francesco Santini
Dall’università in Economia e Management delle Organizzazioni Nonprofit dell’Università di Bologna alla Fund Raising School dellaIndiana University (USA), si interessa di nonprofit da sempre. Dal 2006 inizia a lavorare in Fondazione Carisbo e oggi è il responsabile Ufficio Attività Istituzionale.

Gli spari sopra / Genocidi

Genocidi

Raphael Lemkin, avvocato e giurista polacco docente dell’Università di Yale, fu il primo a coniare la parola genocidio (ghénos, “razza”, “stirpe”) e dal latino caedo (“uccidere”) definendolo nei seguenti modi:

«per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico (che) intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte da individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale».

Tuttavia nella grande e immane sapienza del web, non esiste un elenco, un dettaglio di tutti i genocidi perpetrati dall’uomo dall’età del bronzo ad oggi. È un mestiere da storici, è una ricerca che attraversa centinaia di ma e mille però. Il XX° secolo è stato il secolo clou per quanto riguarda lo sterminio scientifico, ma siamo sicuri che tutti gli omicidi e le violenze perpetrate ad un popolo abbiano lo stesso peso tra i libri di storia? Siamo sicuri di ricordarcene almeno qualcuno, oltre alla immane ed aberrante violenza dei nazisti nei confronti degli ebrei e alle altrettanto criminali violenze staliniane compiute tra purghe e gulag?

Io, di mio, non ne sono sicuro.

La Turchia ha compiuto almeno due genocidi quasi dimenticati nell’arco di uno stesso secolo contro la popolazione curda e contro la popolazione armena – stiamo parlando di oltre un milione di morti solo di armeni turchi.

E’ sempre l’individuazione dell’altro come estraneo e portatore di insicurezza e pericolo il leit motiv di un’azione di genocidio. Harff e Gurr (1988) individuano tre tipi di azioni che rilevano la presenza di genocidio: l’omicidio deliberato di molti civili, il numero delle morti elevato (calcolabile in migliaia), una campagna di sterminio sistematico che duri almeno sei mesi.

Nel conteggio non viene mai o quasi mai preso in considerazione l’immane massacro perpetrato dagli Europei nei confronti degli Amerindi o Nativi, forse perché tali popoli nemmeno avevano la dignità di esserlo, non erano nemmeno considerati esseri umani. Gli stermini coloniali forse non avevano i numeri o la dignità per “indossare” la parola genocidio? L’annullamento di interi villaggi, di intere tribù, da parte di inglesi, francesi, italiani, tedeschi, olandesi, belgi, che sono, se non genocidi mirati e chirurgici per fare “spazio” alle popolazioni di pelle bianca? Ci ricordiamo i genocidi dei Tutsi in Ruanda dove circa il 25% della popolazione fu annientata da parte degli Hutu, e però non ricordiamo il genocidio delle popolazioni indigene dell’Oceania, dove oltre ad uno sterminio sistematico veniva vietato chirurgicamente alle donne di partorire, venivano strappati i bambini dal grembo materno per farli diventare manodopera minorile o “occidentali”.

Il genocidio in Cambogia da parte dei Khmer è decisamente più famoso del genocidio degli Herero e dei Nama in Namibia, avvenuto ad inizio secolo fra il 1904 e il 1907 ad opera dei colonizzatori tedeschi. Si tratta del primo massacro di tale portata del Novecento, caratterizzato anche dalla comparsa di campi di concentramento e sterminio.

Gli stermini del califfato e tutti quelli compiuti in nome di qualunque divinità, il massacro di Srebrenica da parte dell’esercito serbo-bosniaco, le varie pulizie etniche dei Balcani, sono genocidi o i morti sono ancora sotto soglia?

Non tutte le vite e le etnie hanno pari dignità, non tutte le vite umane hanno lo stesso valore, non tutti gli sterminatori hanno uguale cattiveria. Cosa cambia se a perpetrare un massacro di massa è una nazione totalitaria o democratica? Eppure le bombe, i gas, le pallottole, le malattie, hanno sfumature diverse.

Arrivo alla chiusura per attirarmi gli strali dei benpensanti, perché non è possibile chiamare genocidio ciò che accade in Palestina da quasi ottanta anni? In cosa differisce da ciò lo sterminio di un popolo considerato terrorista nella sua totalità da parte di uno stato democratico, quale è Israele, con il sostegno (o l’acquiescenza) di tutta la comunità internazionale? Dal criminale attacco di Hamas del 7 ottobre, a civili inermi in Israele, alla pioggia di bombe su Gaza sono passati circa otto mesi, oltre la metà delle abitazioni della Striscia sono distrutte, compreso scuole e ospedali, un rapporto delle Nazioni Unite di maggio indica i territori come aree non adatte alla vita umana. I morti da ottobre sono circa quarantamila, più della metà sono donne e bambini. Fonti mediche accreditate dicono che ad ogni morto sotto le bombe corrispondono altre quattro o cinque persone la cui morte è causata indirettamente dalla situazione di guerra.

Perché la parola genocidio, così chiara nella sua definizione, oggi è un vestito che non tutte le salme possono indossare?

Poi non chiedetemi perché sogno un mondo senza confini e senza frontiere.

 

La “nuova” Europa, tra voglia di socialismo e rischio di barbarie

La “nuova” Europa, tra voglia di socialismo e rischio di barbarie

Come ormai solito, la grande parte dei media mainstream ha raccontato la rielezione di Ursula von der Leyen a Presidente della Commissione Europea in modo superficiale e politicista. Quello che è stato veicolato, sostanzialmente, sono state le alleanze politiche che l’hanno resa possibile  (popolari, socialdemocratici, liberali e verdi) e quelle che l’hanno osteggiata (le varie destre e il gruppo della sinistra), soffermandosi, in particolare qui da noi, sui tentennamenti da parte della Meloni nella scelta e sul “duello” tra la stessa e Salvini, per verificare chi ha l’effettiva egemonia nel diversificato schieramento di destra.

Vale la pena, invece, andare un po’ più a fondo e chiedersi qual è il profilo che emerge e che viene proposto per l’Europa dei prossimi anni. Da questo punto di vista, la lettura critica dei testi originali, il discorso tenuto davanti al Parlamento europeo  e gli Orientamenti politici per la Commissione Europea 2024-2029 ci forniscono, come sempre, qualche elemento illuminante.

In essi viene evidenziato in modo sufficientemente chiaro che esiste, da una parte, una continuità su alcuni punti fondamentali delle politiche dell’UEin particolare per quanto riguarda la scelta prioritaria di mettere al centro il dato della competitività del sistema economico, fondato sul mercato e visto come leva centrale per costruire la “prosperità” – e, dall’altra, una sorta di discontinuità, che però avevamo già visto all’opera negli ultimi 2 anni, in particolare per quanto riguarda i temi della difesa e della sicurezza, dell’immigrazione e delle politiche ambientali. Sulla difesa e la sicurezza, c’è il segno profondo della guerra che ritorna ad essere fattore permanente nei rapporti tra gli Stati, con un’enfasi decisamente fuori luogo sulla vicenda ucraina (negli Orientamenti politici per il 2024-2029 si legge, ad un certo punto che “il migliore investimento nella sicurezza europea è investire nella sicurezza dell’Ucraina”), abbracciando totalmente l’orizzonte di costruire una reale Unione europea della difesa, supportata da un incremento forte della spesa e degli investimenti nell’industria bellica. Sulle politiche relative all’immigrazione, si riprende la stretta compiuta negli ultimi anni con l’idea di promuovere la “Fortezza Europa”, rendendo le frontiere comuni più forti e sviluppando gli accordi con i Paesi terzi ( vedi Libia e Tunisia), in particolare con quelli di origine e transito dell’immigrazione, ben poco attenti ai diritti umani. Sulle politiche ambientali, checchè ne dica il gruppo dei Verdi, si registra un significativo allentamento del “Green New Deal”, sostituito dall’ “Industrial Clean deal”, commisurato all’idea di metter da parte il vecchio approccio, giudicato “ideologico” e iper-regolatorio e, invece, ora, basato sulle “opportunità” che si possono costruire per la manifattura europea.

In quest’orizzonte, peraltro, non trovano posto, se non in qualche passaggio marginale, due grandi questioni. Il fatto di eluderle fa sì che quella narrativa, sbagliata e non condivisibile nei suoi obiettivi, nel momento in cui si assumono mercato, guerra e contrasto all’immigrazione come stelle polari del proprio agire, alla fine risulti persino inefficace e non realizzabile. La prima questione è relativa ai nuovi equilibri economici e politici che si stanno costruendo nel mondo, a partire dalla guerra commerciale (solo così, fino a quando?) tra USA e Cina, dal nuovo e importante ruolo dei Paesi cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che, di fatto, stanno mettendo in discussione l’egemonia americana che dura dalla metà del secolo scorso, compresa la supremazia del dollaro come unica moneta mondiale. Una situazione nella quale, in particolare USA e Cina, stanno investendo risorse molto consistenti per sostenere e innovare la propria base produttiva, mentre l’Europa appare sostanzialmente ferma alla declamazione, nel momento in cui, dopo l’emergenza pandemica, ha abbandonato la strada di procedere all’emissione di debito comune (che forse potrà essere riesumata solo per l’industria della difesa), sotto la spinta dei nazionalismi che si sono rafforzati al suo interno. Alla fine, così facendo, rendendosi subalterna agli Stati Uniti.

La seconda questione rilevante, che viene “curiosamente” omessa nei documenti cui ho fatto riferimento, e che aggrava ulteriormente il tema della scarsità di risorse che l’UE sarà in grado di mobilitare, è relativa al nuovo Patto di stabilità e crescita dell’UE approvato alcuni mesi fa e che porterà ad una nuova stagione di politiche di “austerità” nei prossimi anni per i vari Paesi membri. Sebbene più lasco di quello precedente, accantonato solo temporaneamente nella fase pandemica, esso comunque prevede, per quanto riguarda il debito pubblico, che esso vada ridotto in media dell’1 % all’anno se il debito è superiore al 90% del PIL, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%. Per quanto riguarda il deficit pubblico, esso dovrà diminuire almeno dello 0,5% annuo fino a quando non si rientrerà al di sotto della soglia del 3% (oggi l’Italia è al 7,4%). Ciò significa, per il nostro Paese, intervenire con tagli di circa 10-12 mld. di € l’anno per i prossimi anni, che si realizzeranno attraverso la riduzione della spesa corrente.

Insomma, ci troviamo di fronte ad un’Europa che ha perso se stessa: non più intenzionata a riproporre il “modello sociale” su cui si era progressivamente costruita dal secondo dopoguerra, basata sull’affermazione della pace e sulla lotta alle disuguaglianze, che ha sostituito con l’idea dell’ineluttabilità della guerra e la centralità del mercato; nello stesso tempo, incapace di misurarsi alla pari con le grandi potenze del mondo, USA e Cina in primis, e debole, nel momento in cui, per diverse ragioni, viene meno l’asse franco-tedesco che ne ha sempre costituito l’ossatura di governo, e cresce la forza dei nazionalismi, in misura proporzionale all’allargamento della stessa UE.

Eppure, questo non è un quadro inevitabile né immutabile. Ci sono forze ed energie per provare a metterlo in discussione, a condizione di ridare voce ai movimenti e ai soggetti politici che si battono per la pace e l’uguaglianza sociale. Ce lo dicono le vicende francesi dei giorni passati, dove, da una parte, la straordinaria vittoria del Fronte Popolare è stata sì prodotta dalla volontà di arginare la destra, ma, dall’altra, essa poggia anche su un programma, voluto in primo luogo da France Insoumise, il partito di Melenchon, che si caratterizza come molto avanzato per le politiche sociali e l’intervento pubblico. Che non a caso i potentati economico-sociali vorrebbero eliminare, ricorrendo anche a campagne false e strumentali (una per tutte l’accusa di antisemitismo nei confronti di Melenchon, solo perché strenuo difensore della causa palestinese, come a suo tempo si fece con Corbyn, ex leader di un partito laburista allora spostato su posizioni radicali). Ma tutto ciò non può occultare che la partita, quella vera, in Europa e in Francia, nel medio periodo si giocherà tra una destra reazionaria e neofascista e una sinistra rinnovata e radicale nei contenuti. Un’Europa senza testa e senz’anima, come quella prefigurata con il secondo mandato alla von der Leyen, potrà allungare i tempi del suo declino e di quello delle politiche neocentriste ( e di centro-sinistra), ma non è in grado di evitarlo. In questi tempi difficili, per usare una celebre metafora, si ripropone l’alternativa tra “socialismo o barbarie”: occorre esserne consapevoli e lavorare conseguentemente.

 

Questa Europa spiegata semplice

Questa Europa spiegata semplice

L’idea di una Europa unita e “polo” di pace nel mondo è nata durante la catastrofe della seconda guerra mondiale a Ventotene da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Un’idea grandiosa che si è realizzata inizialmente (1951) con il Trattato di Parigi avviando un piccolo mercato comune della CECA (carbone e acciaio) tra 6 paesi (Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo), essendo risorse strategiche per l’industria e la guerra e gestirle insieme (provenivano dalla Rhur e dall’Alsazia) avrebbe prevenuto altre guerre.

Crollata l’URSS si avvia nel 1992 l’Unione Europea col Trattato di Maastricht che vedrà poi un grande sviluppo nel 2001 con la nascita di una moneta comune (euro) tra 15 Paesi. L’Unione Europea, nata col beneplacito degli Stati Uniti (e con dentro la Gran Bretagna dal 2013) sale fino a 28 paesi. Come però ha scritto Lucio Caracciolo su La Repubblica del 7 luglio “il postulato su cui dalla 2^ guerra mondiale si orientano gli strateghi verte sulla necessità di impedire che in Eurasia nasca una contropotenza capace di sfidare il primato a stelle e strisce. Occorre stroncare ogni velleità di intesa visibile o sotterranea fra russi e tedeschi. Dalla fine del secolo scorso la catena ha aggiunto il terzo anello, quello cinese. Un’intesa Berlino-Mosca-Pechino sarebbe una versione aggiornata e assai più minacciosa dell’asse Roma-Berlino-Tokyo…un obiettivo che nella guerra in Ucraina Biden ha già raggiunto col sabotaggio del gasdotto baltico Nord Stream che connetteva l’energia a basso prezzo russa alla Germania”.

Dunque l’Europa è nata puntando tutto sull’economia (liberista): moneta unica e libertà dei mercati, non potendo contare sulla “Politica” e una propria autonomia.

All’inizio ha funzionato anche perché stare in un mercato più grande porta (teoricamente) vantaggi economici a tutti i partecipanti se ciascuno si specializza nelle cose che sa fare meglio e le esporta nel mercato unico (più grande) europeo. Ma se il libero mercato è abile a far crescere la “torta”, poi la divide in modo diseguale, per cui se non c’è una “Politica” che mitiga i “fallimenti del mercato” (per usare l’eufemismo degli economisti liberisti), le conseguenze sono quelle che abbiamo oggi dove 2/3 dei cittadini ci hanno perso e 1/3 ci hanno guadagnato. E così dicasi per i territori, con periferie e campagne marginalizzate, che votano le opposizioni: Le Pen in Francia, Labour in UK (dopo 14 anni di Conservatori), Meloni in Italia (unico partito all’opposizione da 20 anni).

Un’Europa con un ampio mercato unico interessava molto anche agli Stati Uniti, che hanno avviato nel 1999 una nuova fase della globalizzazione all’insegna della deregolamentazione finanziaria. Tanto più se è un mero mercato senza “Politica e Autonomia”, in modo da estendere l’impero e la “pax atlantica americana” inaugurata nel secolo scorso.

Il “traino” viene dal libero mercato (business as usual) favorendo in particolare le grandi imprese, multinazionali e la finanza anglosassone che esportano senza passare dalle singole normative dei 27 Paesi e avvantaggiarsi di una globalizzazione in cui più si è grandi, più si ha potere di mercato, mentre l’Europa è bloccata dalle sue misure antitrust (a tutela del mercato interno e delle singole nazioni) che impediscono la creazione di quei campioni europei capaci di sfidare americani (e oggi anche cinesi). Una situazione ideale per gli americani per acquisire le migliori aziende europee. E ciò spiega l’enorme aumento di patrimoni e redditi degli Stati Uniti negli ultimi 20 anni, rispetto per esempio all’Italia, anche se è stato sequestrato dai ricchi di entrambi i paesi. Lo dice oggi anche Mario Draghi nel suo rapporto “economico”, che ora tutti plaudono, senza rendersi conto che l’Europa ha bisogno non tanto di “più economia e finanza”, ma di “più Politica”, che significa prima di tutto fermarsi nell’allargamento ed Unirsi davvero prima che sia troppo tardi, e tantomeno includere la Gran Bretagna o i 9 paesi dei Balcani “un luogo in cui si produce più storia di quella che si consuma in loco e perciò la si esporta” (Churchill).

Fino al 2008 l’Europa cresceva come redditi, occupati, pil, i mercati si integravano, l’euro si apprezzava sul dollaro (da 1.1 a 1:1,5). Segnali pericolosi per gli Stati Uniti che si chiedono se questo nuovo potenziale colosso economico di nome Europa (che ha i piedi politici di argilla) non si sia montato la testa. Ci penseranno i derivati sub prime made in Usa nel 2008, frutto avvelenato della nuova finanza deregolamentata e speculativa ad azzopparla. La recessione dura  anni e ridimensiona l’Euro salito troppo sul Dollaro.

Intanto l’Europa liberista (euro+mercati-welfare) e atlantica (a guida Usa) ci mette del suo e fa 5 gravi errori:

1 ) non avvia alcun processo per essere una vera superpotenza politica autonoma e un “polo” di pace, che implica una propria politica estera e una propria difesa, anche perché (diciamolo) gli Stati Uniti non vogliono;

2 ) allarga ulteriormente il suo mercato unico dal 2004 ai Paesi dell’Est (100 milioni di lavoratori), creando enormi complicazioni nel raggiungere accordi politici, favorendo però la globalizzazione e le imprese americane e accentuando le disuguaglianze territoriali a svantaggio dei paesi del Sud Europa (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma anche Francia, Gran Bretagna e Germania non sono immuni) e a vantaggio dei paesi dell’Est;

3 ) pensa che il solo liberismo (euro+libero mercato) possa risolvere i problemi di equità e delle fasce deboli e invece scopre che l’americanismo liberista applicato all’Europa, senza un welfare comune e senza politiche di compensazione di chi “rimane indietro”, produce una “rabbia” crescente che alimenta non le sinistre (scomparse nel nome della stabilità) ma le destre (spesso all’opposizione) e il populismo che soffia sul fuoco dell’immigrazione, dell’impoverimento dei ceti più deboli, degli operai abbandonati dalle sinistre che dovendo essere “mature” e democratiche, devono essere moderate. Il fatto è che anche il ceto medio e i territori periferici entrano in crisi. Solo ricchi e benestanti (1/3 della popolazione) si avvantaggiano di questo modello;

4 ) non fa regole finanziarie autonome per cui subisce i danni dei sub-prime made in Usa che la portano in recessione dal 2008 fino al 2014;

5 ) non aveva messo in conto che prima o poi l’espansione americana ad est della Nato, per rompere ogni possibile alleanza tedesco-russa, avrebbe prodotto l’invasione dell’Ucraina e una saldatura della Russia col vero nemico: la Cina. Così, stretti nella morsa di tale conflitto, anziché porci come un “polo di pace nel mondo”, avremmo dovuto scegliere l’alleato USA, rinunciando a tutti i vantaggi di un ruolo autonomo e di pace dell’Europa (seppure armato per conto proprio) capace di mediare tra Usa e Cina e di trarre vantaggi dalla cooperazione multilaterale (che comunque prima o poi avverrà). Il che non significava schierarsi con Cina e Russia (o Brics) che sono Stati autoritari, ma favorire quegli accordi mondiali sui temi globali su cui c’è interesse comune (commercio, clima, disarmo,…), che avrebbero portato vantaggi a tutto il mondo ma soprattutto all’Europa. La via che si segue invece è quella di soffiare sul fuoco di un conflitto USA-Cina che già porta svantaggi per tutti (e all’Europa in particolare e all’Italia nello specifico).

Come scrive Mauro Magatti sul Corriere della sera del 25 giugno : “C’é un modello economico che ormai da molti anni non riesce più a integrare i gruppi sociali e i territori. Le differenze di reddito tra chi ha visto migliorare la propria situazione e chi invece l’ha vista peggiorare sono sempre più ampie. Così come si amplificano i divari territoriali: ci sono intere aree che si sentono abbandonate e sempre più lontane dai centri dello sviluppo…non solo si va sgretolando il ceto medio, ma si disgregano anche i territori e le culture…la politica non sembra avere più l’autorità sufficiente per prendere le decisioni necessarie…in questo clima cresce la sfiducia e il populismo”. E astensionismo e volatilità dei voti alla ricerca di una soluzione che non arriva mai. Un’analisi che si può estendere anche a Francia e Gran Bretagna (e presto a Germania) e che spiega perché gli elettori cercano di cambiare i Governi in carica.

Oggi, in questo contesto ci sono 3 possibilità per l’Europa:

1 ) ritornare a dare sovranità agli Stati Nazionali;

2 ) continuare con piccoli cambiamenti (i “piccoli passi” della von der Leyen);

3 ) rilanciare l’Europa dei fondatori, cioè federale, con un bilancio comune di almeno 10% del Pil (oggi è 2%) e con misure rilevanti di Green Deal (ma con risorse reali aggiuntive), rilanciare un welfare comune per integrare i gruppi sociali e i territori che vengono esclusi dalla prosperità diseguale che genera lo stesso Green Deal, il libero mercato, facendo domande agli Stati Uniti e prendendo le distanze in modo che siano rispettati anche i nostri interessi di lungo periodo (e non solo i loro).

La prima via è stata sperimentata dalla Gran Bretagna con la Brexit nel 2019. Il risultato è stato negativo in quanto alle famose promesse di grandi benefici non c’è stato seguito, nonostante la Gran Bretagna avesse risorse (finanziarie, una propria moneta, relazioni internazionali) che nessun paese in Europa ha. Ci sono stati invece seri problemi alle dogane con la necessità di assumere 100mila impiegati pubblici che sono un costo supplementare. Ha pesato anche l’alta inflazione e la spesa nel settore militare (2,5% difesa sul Pil) per via della guerra in Ucraina (politiche che il Labour non cambierà) e di conseguenza poco arriva ai cittadini in termini di migliori servizi e le case e gli affitti nelle città (con le disuguaglianze anche territoriali) hanno prezzi alle stelle. Il Labour promette 300mila case pubbliche all’anno, un’agenzia nazionale pubblica sull’energia che faccia scendere le bollette, di sistemare la sanità e nazionalizzare i treni dopo la privatizzazione della Thatcher. All’immigrazione di tipo europeo è subentrata quella dai paesi del Commonwealth, ma è sempre esplosiva al punto che UK è cresciuta negli ultimi 4 anni di un milione di abitanti. Sta di fatto che i sondaggi dicono che se si votasse oggi la Brexit non si farebbe più (dal 51,6% con cui vinse, i favorevoli sono scesi al 45%). Ciò che ha travolto i Tory, insieme alle bugie sui benefici mai visti della Brexit, è l’enorme immigrazione e la mala sanità, così dopo 14 anni gli inglesi vogliono cambiare. In conclusione uscire dall’Europa non sembra vantaggioso.

La seconda via sarà quella che verrà intrapresa (i piccoli passi) dall’attuale maggioranza “Ursula”, che non solo non cambierà le tendenze in atto, ma porterà ad una ulteriore crescita delle destre e dei movimenti anti Europa e anti-immigrazione (come avvenuto in Italia, Francia, GB e Germania), in quanto crescerà lo scontento generato dalle politiche di austerity (che ora riprendono) nel segno del liberismo. La Strategic Agenda Europea dei prossimi 5 anni è peggiorata. 5 anni fa si diceva: “Costruire un’Europa climaticamente neutrale, verde, equa e sociale” con un rimando all’attuazione del pilastro dei diritti sociali, sia a livello centrale sia negli Stati membri”.
Oggi il preambolo dell’Agenda uscito prima delle elezioni a Grenada identifica ben altre priorità: “Sicurezza e difesa, resilienza e competitività, energia e migrazioni”. A riprova che la destra aveva condizionato la linea ancor prima del voto europeo. In sostanza si passa da un Piano ecologico (Green Deal), da un piano sociale e da un debito comune a un Patto di austerità e a scorporare dai deficit nazionali solo le spese in aumento militari e nessun debito comune. Per l’Italia significa un taglio di spesa pubblica di 13 miliardi all’anno fino al 2032 per non far crescere il debito pubblico. Lo stesso Green Deal è a rischio in quanto non si sa dove siano i 500 miliardi annui aggiuntivi che la stessa Commissione indica necessari per finanziarlo. Un ulteriore disastro per i nostri salari e occupati arriverà dall’ingresso dei 9 paesi Balcani “low cost”. Avremo così un’Europa ancora più extralarge dedita più alla guerra che al Welfare.

Rimane una terza via che però l’attuale maggioranza non vuole percorrere sia perché è fortemente atlantista, sia perché non si vogliono toccare i “fondamentali” (liberi mercati, rendite finanziarie, evasione ed elusione fiscale, le poche imposte sui ricchi, l’austerità) e tantomeno trovare le risorse per finanziare il Green Deal, un Welfare Europeo minimo comune, mitigare le disuguaglianze crescenti che genera il libero mercato e il Green Deal che produrrà molti esclusi.
La logica del “dio quattrino” senza veri leader politici, che è il vero valore che traina l’Occidente, non sarà capace di toglierci dai guai, al di là dei nostri miti narrativi ad uso interno e di consenso (libertà, democrazia, diritti formali, eguaglianza, inclusione, welfare) che pure ci sono ancora (anche se sempre meno) e che fanno dell’Europa il luogo migliore ancora dove vivere. La “marea nera” crescerà ancor più in Francia e in UK con Farage (già salito dal 2% al 14%), se gli effetti dei “piccoli passi” di Starmer non saranno in grado di ridurre il malcontento diffuso.

Uno scossone potrebbe avvenire dall’elezione di Trump in Usa. L’uomo d’affari, fuori dagli schemi, potrebbe portare novità inaspettate tra cui interrompere le guerre (lo ha già fatto con l’Afghanistan), abbandonare l’ideologia americana di controllare tutto il mondo (e quindi continuare a fare guerre, peraltro, perdendole). Un’America più concentrata su se stessa, potrebbe essere un bene per il mondo e costringere l’Europa, ad avviare nuovi processi di cooperazione e multilateralismo, facendola diventare adulta e autonoma, con una propria difesa (che non significa più spesa militare ma una sua ottimizzazione) e una propria politica estera.

Per certi versi / Mala  Strana

Mala  Strana

Quando le muse
si arrabbiano
La mia anima
Si impiglia
Nelle punte ferrate
Dei cancelli
Nel gelo freddo
Dei macelli
Trema
Alla combine
Di silenzio e niente
Il cielo non ha domani
Non ricorda
Ospita balene annuvolate
Si scontrano
Si sventrano
Esplodono
Granate
Tutto ritorna azzurro
integerrimo
È un fatto mentale
Di sentire
Male fino a che
Non mi abbracci
A una luce
Tua
Mi illumina
Gli occhi
Sento la ramina
Delle tue mani
Raccogliere
I  sogni
Come
gnocchi
In copertina: Mala Strana – Praga 
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Tre racconti brevi del sud

Tre racconti brevi del sud

L’appuntamento

Gelsomina era analfabeta, intelligente, vecchia non so quanto, stanca di tanti anni a zappare sassi e terra rossa. Gelsomina coniugata Dimunno. Tutti i Dimunno maschi in Argentina, per decenni, erano tornati solo da vecchi. Poi uno a uno erano morti, era rimasta lei, l’ultima. Anche oggi Gelsomina aveva un appuntamento.

Ogni mattina usciva dal suo basso senza luce, indossava  il vestito della domenica, blu a pallini bianchi, i sandali quelli belli, i capelli bianchi raccolti dietro la nuca. Non parlava più con nessuno, la figlia Adele, il genero Luigi, i nipoti che già erano grandi. Appena faceva luce si sedeva sulla sua seggiola appena fuori l’uscio di casa. Alle otto si alzava dalla seggiola, attraversava lentamente il cortile del padrone con la palma e il gelsomino; oltre il cancello c’era la strada. Non passavano macchine in quella contrada, la strada era invasa dal sole, ma l’antica casa nobiliare proiettava un breve rettangolo di ombra. Gelsomina si metteva lì, in piedi sul ciglio della strada e aspettava. Cosa aspetti, Chi aspetti Gelsomina? Anche oggi  non è venuta, Gelsomina mi rispondeva così. Tornava verso il cancello, attraversava il giardino con la palma e il gelsomino, tornava a sedersi sulla sua seggiola, fino al prossimo appuntamento.

Quando le passavo davanti aveva quasi sempre gli occhi chiusi. Non dormiva, sentiva i miei passi e apriva gli occhi. Non guardava me, guardava un po’ più lontano, oltre il cancello.  Mi piaceva quel suo nome profumato, forse, anzi, ero sicuro, a 16 anni Gelsomina era un fiore, un gelsomino di Spagna.

 

Una scoperta

Ospiti tutta la mia famiglia dai cugini, nella antica villa, un vecchio casino di caccia ingentilito nel Settecento con stemmi, volute e balconi. Nel cortile, una cappella che alla domenica mattina serviva per la messa della piccola contrada. La palma faceva una chiazza d’ombra contro un sole già infuocato.

Alle 8 meno dieci una piccola campana chiamava a raccolta i pochi fedeli, e pochi, non più di una ventina, ne poteva accogliere la cappella. Intanto era arrivato l’officiante, si era chiuso nella chiesa, una vecchia lo aiutava a vestirsi. Era vecchio anche lui, vestito di nero, in abito preconciliare, lungo fino alle caviglie e una infinità di bottoni sul davanti. Avevo quattordici anni, mai visto un prete fatto così, un marziano. Ma avevo già assaggiato Manzoni, quello non era un parroco, era un prevosto, un curato, un tipo di quel tipo.

Tutto normale fino alla predica, sempre girato di spalle alla piccola assemblea, preghiere biascicate. Invece no, arriva alla predica ed è tutto un fuoco d’artificio, un’ eruzione vulcanica, una filippica. Parte da Abramo e tira diritto con tutti i profeti, fino all’acme dell’ultima frase, che ripete due volte “Il cristianesimo è tutta una tragedia!”. Il tono lugubre, definitivo, invitava al riso, ma per me, nei giorni successivi continuavo a pensarci, era una scoperta. Non c’entrava il cristianesimo, quello andava avanti da solo da millenni, senza il mio aiuto. Scoprivo un’altra tragedia, quella continuamente evocata da mia nonna, il marchio di famiglia. Scoprivo il carattere tragico del meridione d’Italia. Scoprivo che anche io, senza saperlo, anche se deportato al nord da generazioni,  anche io ero meridionale. Senza rimedio. Tragicamente. Fieramente.

 

Il principe

Non si discute, principe era principe il Palmieri, nella sua insegna un monticello, sul monticello una palma, sopra la palma una stella. La sua villa era bassa e lunghissima, un torrone da fiera coricato per terra, brutta, bianchiccia, con un interminabile viale che dal cancello che affacciava sulla provinciale raggiungeva una misera scala d’ingresso.

Il principe aveva le maniere distratte degli aristocratici, innaturali, progettate con cura per essere esposte in pubblico. Due baffi incredibilmente sottili, alla Aramis, come si usava al sud molti anni addietro. Rideva sommessamente, senza mostrare i denti. Sfilava una sigaretta ovale senza filtro da una piatta tabacchiera d’oro con inciso il suo stemma, un’operazione che compiva al rallentatore, a favore di ogni interlocutore gli fosse abbastanza vicino per notarlo.
Così il principe Palmieri poteva anche essere ridicolo, ma non mi era parso né signorile né simpatico.

Cambiai idea una mattina di mercato nella città più vicina. Camminavo per una viuzza bianca del centro storico. Il principe mi vide e mi venne incontro per un saluto. Era uscito improvvisamente da una minuscola bottega – Sei già stato nella nostra antica cattedrale? Faccio in un attimo, chiudo l’ufficio e ti accompagno.

Perché il principe, decaduto fin che si vuole, era avvocato patentato. Ogni mattina partiva con la sua utilitaria e si recava in città. Alle 9 in punto alzava la saracinesca e riceveva il popolo dei suoi piccoli clienti. Alle 12,30, al tocco della vicina cappella del Carmine, abbassava la saracinesca e chiudeva bottega. Che non era una bottega, ma uno studio legale fornito di ogni occorrente: un tavolino, tre seggiole, due mensole con i codici. Nessuna insegna, non ce n’era bisogno, tutti in città conoscevano l’avvocato Palmieri. Che avvocato era avvocato ma anche principe.

 

®  Francesco Monini 2024

Autonomia Differenziata: serve la tua firma per abrogarla

Autonomia Differenziata: serve la tua firma per abrogarla

Da giovedì è attiva la piattaforma pubblica per la raccolta delle firme digitali per i referendum contro l’autonomia differenziata.
La raccolta delle firme digitali è possibile dal 2021 grazie a un emendamento aggiunto alla legge di conversione del decreto semplificazioni: l’emendamento aveva previsto una norma transitoria per cui i comitati promotori avevano potuto raccogliere le firme senza alcuna necessità di intervento da parte di organismi pubblici, attraverso cioè una piattaforma predisposta da un ente certificatore convenzionato con l’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid).

Ora con un decreto della presidenza del Consiglio pubblicato in Gazzetta Ufficiale è stata istituita anche la piattaforma pubblica, che renderà molto più semplice raccogliere firme digitali per i referendum: prima infatti per ogni firma era necessario che i comitati organizzatori pagassero quasi 1,50 euro per far certificare ogni firma, mentre con la piattaforma pubblica questo procedimento è gratuito.

Naturalmente le firme si raccolgono anche dal vivo nei banchetti in ogni città d’Italia. 

L’obbiettivo è raccogliere entro settembre almeno 500.000 firme.


Il quotidiano nazionale indipendente Periscopio aderisce alla campagna di raccolta firme contro l’Autonomia Differenziata.

 

LA SCHEDA
Autonomia differenziata, cos’è e perché abrogarla

Come funziona la legge che spacca l’Italia? E come il referendum può bloccarla?


LE 23 MATERIE

Sono 23 materie, tra queste anche la tutela della salute. Ci sono poi, tra le altre, istruzione, sport, ambiente, energia, trasporti, cultura e commercio estero. Quattordici sono le materie definite dai Lep, Livelli essenziali di prestazione

COSA SONO I LEP

La concessione di una o più “forme di autonomia” è subordinata alla determinazione dei Lep, ovvero i criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito – è specificato nel testo – in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. La determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, e quindi dei Lep, avverrà a partire da una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio. L’articolo 4, modificato in Aula al Senato da un emendamento di FdI, stabilisce i principi per il trasferimento delle funzioni alle singole Regioni, precisando che sarà concesso solo successivamente alla determinazione dei Lep e nei limiti delle risorse rese disponibili in legge di bilancio. Dunque senza Lep e il loro finanziamento, che dovrà essere esteso anche alle Regioni che non chiederanno la devoluzione, non ci sarà Autonomia.

LA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA

L’undicesimo articolo, inserito in commissione, oltre a estendere la legge anche alle regioni a statuto speciale e le province autonome, reca la clausola di salvaguardia per l’esercizio del potere sostitutivo del governo. L’esecutivo dunque può sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni quando si riscontri che gli enti interessati si dimostrino inadempienti, rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica e occorra tutelare l’unità giuridica o quella economica. In particolare si cita la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali.

LA CABINA DI REGIA

È composta da tutti i ministri competenti, assistita da una segreteria tecnica, collocata presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie della Presidenza del Consiglio. Dovrà provvedere a una ricognizione del quadro normativo in relazione a ciascuna funzione amministrativa statale e delle regioni ordinarie, e all’individuazione delle materie o ambiti di materie riferibili ai Lep sui diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale.

I TEMPI DELL’ENTRATA IN VIGORE

Il governo entro ventiquattro mesi dall’entrata in vigore del ddl dovrà varare uno o più decreti legislativi per determinare livelli e importi dei Lep. Mentre Stato e Regioni, una volta avviata, avranno tempo cinque mesi per arrivare a un accordo. Le intese potranno durare fino a dieci anni e poi essere rinnovate. Oppure potranno terminare prima con un preavviso di almeno dodici mesi.

IL REFERENDUM ABROGATIVO

Il referendum abrogativo di una legge ordinaria, come quella sull’autonomia differenziata, deve superare una serie di requisiti prima di poter essere convocato, come la raccolta di 500mila firme di cittadini, e deve superare nelle urne il quorum di almeno il 50% più uno degli elettori aventi diritto. La Costituzione prevede che esso possa essere richiesto anche da cinque Consigli regionali, che nel caso dell’autonomia differenziata. Entro il 30 settembre le firme devono essere depositate in Cassazione, che ne fa il conteggio e controlla che siano state raccolte secondo i requisiti richiesti. Se la Consulta ammette il quesito il governo convoca il referendum che si celebra una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno.

 

Le voci da dentro /
Dino Tebaldi: “Tutti naufraghi” (1995)

Dino Tebaldi (1935-2004)

Pubblico il secondo capitolo, intitolato “Tutti naufraghi”, tratto dal libro “Dietro le sbarre” di Dino Tebaldi.
Il volumetto è un’autoedizione non in commercio che racconta delle sue prime esperienze di insegnamento nella Casa Circondariale di Ferrara nell’anno scolastico 1995-1996.
Dino, persona straordinariamente umile e generosa, credeva nella rieducazione delle persone “ristrette” ed era sicuro che, per rendere l’uomo più libero ed emancipato, la via più importante da percorrere fosse quella dell’istruzione.
(Mauro Presini)

 

Tutti naufraghi

di Dino Tebaldi 

Non sento più la campanella che dappertutto – alle 8,20 precise – invita alunni ed insegnanti ad entrar nelle classi.
Però io entro lo stesso, perché quest’anno la scuola – col tipo cli allievi che mi sono affidati – anche senza la campanella ha significato per me, e promette umane soddisfazioni.
Non so nulla degli alunni, ed il proposito di non voler saper niente del tutto, addirittura mi fa dubitare del passato che riguarda me stesso.
Nell’aula ancor vuota – mentre dispongo sulla cattedra registro, schede e materiali – inevitabilmente ripenso con nostalgia ai bambini di qualche anno fa, e con disagio a quelli che ho appena lasciato.
Dei primi sento di poter dire tutto il bene possibile; degli ultimi, non altrettanto.
Mi hanno fatto desiderare di farla finita, e mi hanno reso allettante ogni altra opportunità. Degli allievi di quest’anno conosco nomi, cognomi, età e nazionalità, soltanto se guardo l’elenco da trascrivere in apertura del più tradizionale registro cli classe.
Dei “precedenti” – di scuola o di altro genere – relativamente a ciascuno, non voglio saper niente, anche se tante volte sarò tentato di chiedere: “Che cosa hai fatto, per finire qui dentro?” Una risposta cortese non basterebbe.
Sentirei immediata la voglia di chiedere ancora: “Da quanto tempo e per quanto dovrai rimanere qui dentro?”.
Potrei – insistendo – averne risposte esaurienti; ma è certo che dopo d’allora ciascuno potrebbe dubitare della mia natura di maestro, qui venuto – ufficialmente – per esser d’aiuto a ciascuno ed a tutti, al di là di giudizi che non mi competono, al di sopra di pregiudizi che mi avvilirebbero.
Di me, che sento non tanto diverso da loro, so di preciso che – quando la direttrice mi ha proposto la scuola carceraria – io non ho avuto il coraggio di dirle che non avevo il coraggio di tentare un’esperienza del genere.
Ho pensato però che nemmeno avrei avuto il coraggio – se avessi detto di no- di guardarmi allo specchio o dentro il cuore per chissà quanto tempo; o di presentarmi – poco dopo – davanti a mio padre morente.
Alla direttrice ho detto sì, senza pensare agli scolari che lasciavo nella scuola di …, ed alla collega che aveva fatto tutto il possibile per rendermi agevole un difficile e tormentato anno di scuola e di vita familiare.

Magistero paterno

Ho pensato soltanto a mio padre, che da me – sempre – avrebbe voluto atti di cui andar fiero. Mi voleva militare di carriera, ed invece l’ho deluso più di una volta: alla prima chiamata di leva, m’ero presentato magro al di sotto del limite. Primo risultato: rivedibile.
L’anno dopo, ero ingrassato un pochino, ma il torace ancora non arrivava alla misura. Secondo risultato: rivedibile.
Alla terza chiamata, a peso valido ed a torace più largo, avevo aggiunto – con sorpresa anche mia – i piedi piatti, o quasi.
Terzo risultato: per ridotte attitudini militari, assegnato alla riserva.
Avrei potuto servire in caso di guerra (però mio padre questo non si augurava) per utilizzi alla censura, all’ufficio stampa, od in depositi di vettovaglie: “… dove non si conquistan medaglie o menzioni d’onore…”, aveva commentato mio padre, sconfitto.
Da allora ho pensato a tutt’altra … mezza carriera.
Mio padre si è rassegnato.
Ha cominciato ad andare orgoglioso di me, quando ha visto la mia firma su giornali o sui libri, e più d’uno – negli ambienti da lui frequentati – gli ha chiesto se “quel Dino Tebald¡ che scrive di storia ferrarese e di cronaca” fosse un suo parente.
Mio padre non avrebbe immaginato che per me – quando ormai la pensione è vicina – ci sarebbe stata ancora una “chiamata di leva”: l’occasione per dimostrare coraggio virile.

La grande sfida

Quando la Direttrice Didattica mi ha fatto la proposta, mio padre aveva le ore contate.
Ho pensato a lui solamente, convinto di non dovergli negare una mia decisione per la quale potesse dir a tutti ed a se stesso d’esser contento.
Ho sfidato me stesso (non sono mai stato un forzuto…); mia moglie (“Avresti dovuto chiedere anche il mio parere…”); le colleghe (“Con noi l’anno scolastico ti sei trovato male?“); e le bidelle (“Chissà che cosa diranno i genitori per il fatto che lei ha preferito i detenuti…”).
Ho pensato soltanto a mio padre, che il giorno dopo se n’è andato per sempre.
Lo sento ogni istante vicino, come in questo momento.
Mi pare che dica d’esser contento di me: meno male! Ai miei scolari di quest’anno, anche lui avrebbe dato una mano.
Gli bisbiglio – appena posso – che gli scolari-uomini a me affidati hanno bisogno di un maestro che sappia ascoltarli, impegnarli, aprirne i cuori alla speranza.

Sulla medesima maxi-zattera

Alla vigilia, nella lista erano una dozzina, o poco più; ma fin dalla prima mattina, mi è stato detto che quattro avevano avuto il trasferimento.
Io sono entrato nell’aula, mentre gli allievi venivano chiamati col telefono dalle varie sezioni.
Non sono venuti tutti, ma i due assenti non possono essere obbligati, sgridati, puniti per aver fatto fuoco… scolasticamente.
Sono adulti, e prima d’oggi han combinato cose peggiori di questa.
Nessun giudice li ha condannati a riprendere libri, penne e quaderni; ad imparare da un vecchio maestro la lingua italiana; a fingere – la mattina – d’esser bambini.
La Casa Circondariale di Via Arginone, ai bordi dell’alta Val Sammartina, pare una maxi-zattera in balìa della nebbia che si alza, ondeggia, ed avvolge.
Scolari, maestri ed altri vi si muovono come naufraghi in cerca d’un qualche approdo.
Siamo stati tutti travolti dalla medesima onda, tutti sballottati di qua e di là, senza rispetto per i ruoli ed i titoli.
Molti ce la faranno a salvarsi, perché la persona ha risorse impensabili: potranno uscire di qui molto diversi da come sono entrati; e cercheranno di restarne lontani fino alla fine dei giorni terreni.
Però chiedono – fin da adesso – d’essere aiutati umanamente, perché il mondo è un mare sempre in burrasca, che risucchia chi manca d’una gomena o d’una ciambella di salvataggio.
La scuola può aiutarli a ritrovare la strada smarrita, quella che fa riflettere prima di combinare qualcosa.
Sono naufraghi che vogliono ritornare sull’onda, per mettere – alla fine – i piedi su terra ferma.
Sarò io capace d’insegnare loro i segreti della navigazione verso rotte che hanno valore? Pensavo tutto questo, mentre aspettavo gli allievi.
Ma non è questo che dovrò insegnare esplicitamente.
Dovrò – invece – stabilire un rapporto umano con alunni che già sono “matricolati.
Saranno loro a dirmi di che cosa hanno bisogno.
Da parte mia serve soprattutto la disponibilità umana e professionale.
Adesso so questo, ed a questo debbo pensare.

(21 ottobre 1995)

Cover: La fotografia utilizzata in copertina è di Francesco Cocco ed è tratta dalla pubblicazione “Repertorio di immagini degli spazi trattamentali delle carceri in Emilia-Romagna”, a cura del Garante delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale. Ritrae un cortile della Casa Circondariale di Ferrara dedicato all’ora d’aria.

 

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Dalla Civiltà delle macchine alla (in)civiltà degli algoritmi.
La lezione di Leonardo Sinisgalli

Dalla Civiltà delle macchine alla (in)civiltà degli algoritmi. La lezione di Leonardo Sinisgalli.

Saranno robot iperspecializzati a scavare le miniere e a esplorare le profondità degli oceani e dello spazio. Saranno i cobot a intervenire chirurgicamente sul nostro corpo e a prendersi cura di noi; saranno le macchine a guida autonoma a spostarci, “camminarci”, e forse “finirci”; sarà l’AI a fare giornalismo, fotografia, letteratura e persino arte.

È sotto gli occhi di tutti: oggi il sapere viene prodotto con (e dalle) macchine.

Come avvertito da molti autori a cominciare dal nostro Roberto Calasso (L’innominabile attuale, Adelphi, 2017) o  da Byung-Chul Han (Psicopolitica, Nottetempo, 2016), l’idealismo kantiano scaturito dalla fede nel soggetto umano quale unico produttore della conoscenza è stato sostituito dalla (apparente) consistenza degli algoritmi: l’essere umano ha abdicato alla propria posizione di produttore del sapere e consegna la propria sovranità agli algoritmi.

L’…algorismo ha posto fine all’idealismo e all’umanesimo.

Se volessimo tentare una lettura del presente attraverso la parabola seguita da macchine e materiali che, nel corso della storia, sono diventati di volta in volta sempre più leggeri e invisibili (si pensi al passaggio dai giganteschi server all’impalpabile cloud o quello dal piombo delle tubature romane all’atomo di Hiroshima e Chernobyl), non potremmo che farci accompagnare da un poeta-ingegnere antesignano del marketing digitale e dell’epoca dei Big Data che stiamo vivendo.

Chi volesse dettagliate informazioni storiche e biografiche su Leonardo Sinisgalli, può fare riferimento al ricchissimo e dettagliato archivio della sua fondazione [Qui] . In questo contributo ci limiteremo a ripercorrere brevemente il suo ruolo editoriale di riviste aziendali per mettere meglio a fuoco la sua idea di “macchina”.

Leonardo Sinisgalli (Montemurro, 9 marzo 1908 – Roma, 31 gennaio 1981)

Nel 1929 Leonardo Sinisgalli ha 21 anni ed è studente di ingegneria all’Università di Roma. Dopo essere stato selezionato da Enrico Fermi nel 1927 per fare parte di un gruppo di ricerca d’avanguardia (i famosi ragazzi di Via Panisperna), declina l’invito per seguire la sua più autentica vocazione che è la poesia: la musa Calliope dunque prevalse sulla musa Urania.

Conseguita la laurea in Ingegneria Industriale continuò comunque a frequentare le due muse attraverso attività letterarie vere e proprie e prime collaborazioni con l’industria: fin da questi esordi si occuperà della redazione di riviste aziendali tanto da venir notato da Adriano Olivetti  che lo volle responsabile dell’ufficio  tecnico della pubblicità ( quello che oggi si chiamerebbe ufficio marketing).

È molto probabile che fu proprio Sinisgalli a mettere in contatto Adriano Olivetti con Enrico Fermi per intraprendere la produzione di calcolatrici elettroniche nel 1949.

Dopo la tecnica, Sinisgalli venne chiamato alla Pirelli come direttore artistico, figura che a quel tempo iniziava a occuparsi non solo della pubblicità aziendale ma anche dell’allestimento di mostre, della preparazione di convegni e della sperimentazione di nuove forme di comunicazione.

Forte delle proprie capacità di ideazione e scrittura Sinisgalli pose al centro di questa attività una rivista aziendale che divenne il primo esempio di cross contamination fra arte, scienza, tecnica e letteratura.  A questa esperienza milanese  seguirà quella romana presso Finmeccanica ( azienda che oggi si chiama Leonardo) per la quale Sinisgalli fonderà il suo gioiello editoriale rappresentato dalla Civiltà delle macchine  una rivista iconica nel nome e ricchissima di contenuti e sulla quale venivano invitati a scrivere, scienziati, letterati, filosofi, artisti, architetti, registi, manager aziendali, ingegneri, rappresentanti dei lavoratori.

Già nella concezione di questa “opera editoriale” si riesce a riconoscere l’idea che Sinisgalli aveva della  “macchina”: non si trattava di una cosa strettamente collegata al modo di produzione, per lo meno non solo a questo. Sinisgalli poeta era ben consapevole dei problemi che la meccanizzazione spinta avrebbe potuto produrre e amplificare: era chiaro per lui che l’avvento della macchina avrebbe portato alla parcellizzazione delle competenze, all’alienazione degli operai dalla visione del tutto, alla trasformazione dei cittadini in consumatori.

La macchina per Sinisgalli dunque non poteva essere altro dall’attività umana, riconoscendo nella tecnica la vera natura dell’uomo. Pertanto la macchina costituiva una sorta di protesi delle capacità umane in grado sia di spalancare nuove possibilità ma anche provocare inquietudini: in ogni caso essa restava il segno inequivocabile di una nuova fase della civiltà e un punto di non ritorno.

L’estetica delle macchine sulle quali Sinisgalli indugiava aveva sempre un’origine e un fine umani e dunque a fianco all’estetica era necessaria un’etica delle macchine: la macchina non doveva costringere l’uomo a rinunciare alle proprie prerogative ma porsi come complemento indispensabile per operare trasformazioni  fuori e dentro di noi.

La macchina pertanto non poteva e non doveva essere autonoma!

Potremmo dire che l’etica delle macchine di Sinisgalli è un’etica della complementarità.

È facile riconoscere l’assoluta attualità di questa concezione rispetto all’analogo moderno delle macchine o di quello che sono diventate. Attualità che possiamo comprendere trasferendo il concetto di macchina  e di transizione tecnologica dagli anni del boom economico ai nostri anni.

Se a quel tempo l’industrializzazione e l’innovazione tecnologica furono caratterizzate da macchinari ingombranti  e dispiegati nelle loro fisicità e fascinazione estetica, nella nostra epoca non ci sono più macchine ingombranti, ma soprattutto c’è una tendenza all’impalpabile, all’immateriale messa ancora più in luce dalla differenza tra hardware e software.

I recenti sviluppi hanno portato alla quasi evaporazione degli ingombranti macchinari  quali i server nella “nuvola” virtuale: una volta operata questa traslazione da hardware a software, da macchina reale a macchina virtuale (l’algoritmo!), l’etica delle macchine di Sinisgalli potrebbe farci comodo: le macchine non devono essere autonome!

Le automobili a guida autonoma, i droni e gli altri apparati quali i robot e i collaborative robot in grado di “sfuggire” anche per un solo attimo al nostro controllo: si pensi all’ultimo Big Crash che ha mandato in tilt i terminali degli aeroporti di mezzo mondo) impongono la necessità di recuperare quella sana inquietudine e chiara attenzione sul loro impiego.

Vale la pena quindi citare l’appello che Leonardo Sinisgalli lanciò ai poeti e di riflesso agli intellettuali nel 1951 e tenerlo presente per scongiurare una possibile inciviltà degli algoritmi:

“Ma che cosa sono questi strumenti e mezzi meravigliosi che hanno smisuratamente allargato il potere delle nostre pupille?[…] Sono tante similitudini di un’onda, sono le metamorfosi di un raggio, sono le luci plurime che ci servono nella nostra difficile esplorazione. Che la retorica e il buon senso possano trascurare queste meraviglie, queste conquiste, può essere perfino comprensibile. Ma sarebbe una grave sciagura se di queste ipotesi si disinteressassero i Poeti. L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una qualità sottile, è una verità che è di natura sfuggente, probabile più che certa, una verità ‘al limite’ che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino a un certo punto e soccorre una illuminazione, una folgorazione improvvisa. Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti. I Poeti non devono avere sospetto di contaminazione.”
[L. Sinisgalli, Natura, calcolo, fantasia, in Pirelli, III (1951), 52-53]

Duran Duran:
la mia band ottimista preferita (di pessimiste ne ho già tante)

Duran Duran: la mia band ottimista preferita (di pessimiste ne ho già tante)

Capodanno 1982, un paio d’ore dopo il malaugurato brindisi. Nell’ atmosfera paludosa e senza scampo della pianura padana, cerco di scavallare la notte intruppato senza un motivo dentro un circolo Arci locale. Vago da una saletta all’altra incrociando gente senza volto che tossisce, immersa nel grigio, nel fumo, e nella noia. Ad un certo punto vengo catturato da una piccola televisione che trasmette in loop dei videoclip con colori vividi ambientati in luoghi esotici, ora giungle ora templi ora mercati all’aperto, attraversati da cinque ragazzi vestiti pastello che si muovono come dentro il plot di un Bond movie. Una macchia di colori e suoni, rock ma come ricoperti da una patina cromata che li attutisce e li stilizza, che esce da una scatoletta racchiusa dentro uno scatolone bianco e nero. L’effetto è straniante, come se gli anni ottanta avessero lanciato un fumogeno multicolore dentro gli anni settanta. Lì dentro è tutto così prevedibilmente scuro, compresa la musica, io sono annoiato e depresso come tutti lì dentro, come ogni ultimo dell’anno e come gli altri giorni di quell’anno – tranne quelli appiccicosi e folli di Paolo Rossi. Quelle immagini mi ipnotizzano e, per qualche motivo, hanno il potere di portarmi verso il mattino scacciando l’istinto suicida dell’essere teenagers a san silvestro. Da quel giorno i Duran Duran diventano la mia band ottimista preferita. Di artisti pessimisti preferiti ne avevo già e continuerò ad averne.

Duran Duran è un nome ossimoro per la frustrata stampa musicale italiana, che ne pronostica l’estinzione entro la fine degli anni ottanta. E infatti il 23 luglio 2024 li ho visti al Lucca Summer Festival, e non per un concerto revival, nel senso che non sono mai spariti. Dal 1978 al 2024 hanno continuano a fare nuova musica e nuovi concerti, perdendo e ritrovando se stessi e alcuni membri fondatori lungo la strada. Del resto, alzi la mano uno che non si è mai perso in vita sua, e che frequenta ancora assiduamente quattro amici conosciuti 45 anni fa.

Video killed the radio star

Nonostante abbiano lavorato con David Lynch, loro grande fan; nonostante Lou Reed abbia affermato che la loro versione di Perfect Day sia fatta meglio di come l’ha fatta lui; nonostante le collaborazioni con David Gilmour, Graham Coxon, John Frusciante, Milton Nascimento; nonostante William Burroughs sia comparso in un video degli Arcadia – quel Burroughs il cui racconto gay porn The Wild Boys ispirò la canzone omonima; nonostante Korn e Deftones, stimate metal band, abbiano fatto cover della loro inarrivabile “The Chauffeur”; nonostante tutto questo, in Italia dopo quarant’anni gli chiedono ancora di quella tipa che scrisse “Sposerò Simon Le Bon”. La Duranmania in Italia arrivò in ritardo e ne fu proiettato mediaticamente solo l’aspetto isterico, che prima di loro riguardò anche i Beatles ed Elvis Presley, ma a loro fu perdonato; forse perché gli uni si estinsero, l’altro morì ed entrambi divennero quindi sacri oggetti di culto per la critica, quella che si prende molto su serio. I Duran Duran invece hanno alcune colpe imperdonabili: la prima è quella di essere ancora vivi. La seconda è di piacere molto alle donne, fatto che il critico serio e snob detesta perché è maschio, polveroso e non se lo fila nessuno.  La terza colpa è forse la peggiore: sbattere in faccia a tutti il jet-set way of life, yacht e belle donne mentre altri gruppi cercavano di “cambiare il mondo”- perché gli anni ottanta sono stati fatuità, effimero ma anche impegno sociale, sono stati tutto e il suo contrario, leggere Pier Vittorio Tondelli per credere.

Tanto per cominciare, non era uno yacht (nel senso in cui lo intendiamo noi) ma una barca a vela. Inoltre i membri della band provengono da famiglie piccolo borghesi, i loro primi vestiti li prendono nelle boutique post punk di Birmingham. La moda griffata arriva dopo, quando anche parte di questi sarti diventano celebrità. Quanto al cambiare il mondo: è come dire che Miami Vice è reazionario mentre Starsky e Hutch è progressista, o che James Bond è uno stronzo perché sessista, razzista e reazionario (lui un pochino lo è, in effetti, ma la politically correctness non può rivaleggiare con il fascino di Sean Connery). Quindi: un gruppo che prende il suo nome da un personaggio (Durand Durand) del film Barbarella di Roger Vadim, una science fiction del ’68 ambientata in un lontano futuro in cui la protagonista/viaggiatrice dello spazio si fa un sacco di gente strana, sarebbe reazionario? O piuttosto attinge ad un immaginario che anticipa i temi della liberazione sessuale e della sessualità fluida?

Questi quattro artistoidi da Birmingham (più il cantante, nato a Bushey) hanno il fiuto di percepire in anticipo l’enorme potenziale delle nuove tecnologie – prima coi video e MTV, poi con Internet –  lavorando su un’immagine fancy con meticolosa pianificazione, il che ha oscurato le loro doti di musicisti e soprattutto creatori di gioielli verse/chorus, anche se ha regalato loro una fama irraggiungibile per tutti i coevi. L’immagine, la parte visuale, è stata quindi al contempo la loro delizia e la loro croce. Non è possibile sentire una canzone dei Duran senza “vedere” i Duran, un binomio che in precedenza solo David Bowie aveva esplorato tanto, sicuramente con un taglio più trasgressivo – anche se pure i Duran hanno subito la censura (Girls on Film) o lo stigma del politically correct (Electric Barbarella). Quando penso ad entrambi li vedo più come artisti multimediali che come semplici musicisti.

Sing blue silver

Ma il concerto di Lucca quindi? Da appassionato che cerca di rendere più oggettiva possibile la sua percezione, affermo che Simon Le Bon ha un ottimo terapista vocale: nel 2011 si giocò di brutto alcuni semitoni della gamma, ma poi ha fatto riabilitazione e continua a cantare molto alto (non così alto come su disco, ma molto più alto di qualunque popstar vivente) e becca le note in modo più dritto e meno lezioso di quanto facesse all’apice della fama. La sezione ritmica dei Taylor è precisa ed essenziale, a volte quasi funambolica –  i virtuosismi sono banditi in questo gruppo, chiedere un assolo di batteria a Roger Taylor equivale a fargli venire l’orticaria; tuttavia John Taylor è autore di alcune linee di basso memorabili, cito Rio per tutte; la chitarra elettrica è passata di mano in mano, ma Dom Brown adesso fa la sua figura, e ci mancherebbe visto che ormai la sua permanenza nella band supera quella dell’originario sferzante rocker Andy Taylor e dello zappiano Warren Cuccurullo (del quale rimpiango la eccentrica creatività e la capacità armonica). La macchina elettronica del controller Nick Rhodes ormai funziona da sola: lui è il più visionario programmatore di intelligenza artificiale applicata alla musica (quanto poco, in apparenza, muova le mani sulle tastiere rispetto al tappeto sonoro che produce è una cosa che non finisce di sorprendermi). Iniziare il concerto con Nightboat e proporre The Chauffeur è stato un omaggio all’anima scura del gruppo, altra apparente contraddizione (in realtà diversi darkettoni, liberatisi con l’età dalla vergogna per il ludibrio del branco, amano questo lato della band); ma il momento più emozionante della serata è stata la nuova versione di New Moon on Monday, che per qualche misteriosa ragione ha riportato molti ragazzi di sessant’anni ad avere una pelle d’oca, legata al proprio vissuto personale, che è diventata collettiva oltre le aspettative.

Torno infine all’adolescente del 1982. L’incidenza del look duraniano sulla fluidità del “gender” è stata più massiva (soprattutto sui maschi) rispetto al primo Bowie o ad altri protagonisti estremi dell’en travesti (Sylvester, Boy George), perchè più convenzionale e rassicurante: i Duran non erano muscolosi, indossavano accessori femminili, si truccavano, mettevano le spalline e si cotonavano i capelli, ma a differenza dell’alieno Bowie restavano maschi etero che potevi incontrare per la strada, dopodiché diventarono simboli erotici attaccati a migliaia di muri (anche se da quel momento incontrarli per strada divenne impossibile per un decennio). Questo esercitò un’enorme influenza sui ragazzi timidi (altra contraddizione solo apparente) riassumibile nel concetto “non ho bisogno di esibire il testosterone per piacere alle ragazze”.  L’individualismo veicolato non fu quello (anti) sociale della Thatcher, ma quello del costume e dello stile: non avere timore di esprimere te stesso.

 

Storie in pellicola /
‘Vision d’été’, una realtà perturbante, la nostra

‘Vision d’été’, una realtà perturbante, la nostra.

Proiettato a SiciliAmbiente, il corto-documentario ‘Vision d’été’, di Anna Crotti, Anais Landriscina e Lucrezia Giorgi, ci porta in un mondo che crolla, quello di oggi.

Le registe si sono aggiudicate la Menzione speciale per il film Vision d’été nella sezione cortometraggi della XVI edizione del SiciliAmbiente Film Festival.

Vincitore del Premio Segni, sezione Cinema in Trasgressione, ‘Vision d’été’ non fa sconti e tratta, con grande attenzione, originalità e sensibilità, la deriva del mondo moderno.

Coinvolgenti la voce narrante di Sophie Zayan e le musiche di Domenico Clapasson.

Cambiamento climatico, questa mostruosa creatura umana

Nel mezzo di un’estate torrida, come quella che stiamo attraversando in questo giorni infuocati, la protagonista, una giovane francese, chiama sua madre confidandole in maniera concitata di sentirsi stritolata dall’atmosfera cittadina e dalla crescente gentrificazione del territorio su cui sorge la sua città natale, Marsiglia.

Qui, una volta di più, il cambiamento climatico appare in tutta la sua inarrestabile potenza: è l’inizio di un viaggio quasi drammatico, di una fuga disperata che non troverà risposte ma solo altre domande. Domande senza risposte.

Marsiglia va a fuoco

Le prime immagini introducono immediatamente al tema: foschia, una terra arida e brulla, industrie in lontananza, una fiaccola. E poi i grattacieli, i manifesti elettorali con mille proclami, una foto strappata di Martin Luther King, anno 1963. La parola resistenza pare campeggiare sui muri che restano muti e inermi di fronte allo scempio umano.

Marsiglia è multiforme, cangiante, mediterranea, nelle sue vie si parlano il provenzale, il Patuet (il dialetto della lingua catalana parlata nel Maghreb, soprattutto in Algeria, durante l’amministrazione francese), il dialetto (l’argot). Ci sono africani, armeni, mediorientali, una città multicolore e multiforme. Salsedine che si scioglie sotto la lingua, gocce di sudore sotto un hijab nero pece, cemento consunto dei marciapiedi. Caldo, tutto va a fuoco.

Case alveari

Le case sono quasi impilate, una sopra l’altra. Il grande condominio che pare un alveare dà l’idea di chi soffoca, di chi si perde nella moltitudine. La camera che si concentra su quella costruzione mostruosamente tentacolare fa perdere l’individualità. Uno fra tanti, un giovane maghrebino strizzato in una tuta di plastica incandescente quasi si vergogna. Si teme di venir contaminati, la gente del centro in quel quartiere non va, ha paura. Lì si vive quasi incastonati e incastrati fra le rocce. Isolamento soffocante. Qui si nasce e si muore senza sapere nulla degli altri. Non che altrove vada meglio. L’unico segno distintivo è un tendone a righe colorate, qualche pianta. Il resto è piatto, tutto uguale, il resto è noia.

Le foto in bianco e nero e il (bel) tempo che fu

Sfilano immagini in bianco e nero, fra passaggi di Seneca e dell’Apocalisse di Pietro, vecchie fotografie riportano alla memoria momenti passati e spensieratezza e leggerezza. Ricordi di un bel tempo che fu, di attimi fuggenti fatti di felicità e serenità. Ma il circo incombe, i tori combattono contro i drappi rossi che un uomo triste ed egoista gli pone davanti per il suo unico divertimento e compiacimento.

Animali che si inginocchiano, lagune che, al tramonto, cercano uno spazio.

 

“E’ per questo che sono partita. Ma ora, nella quiete profonda, comprendo infine che quando tutto sarà stato consumato, non resterà altro che il silenzio. E in mezzo a questa immensità assordante, solo un gemito flebile si farà strada, dalle viscere risalendo su fino al cielo, la terra martoriata piangerà il suo destino, ma nessuno potrà sentirla”.

E, su note melodiose, mentre le vallate e le cime dei monti dormono, insieme ai rettili, alle fiere e alle api, le immagini si soffermano sugli uccelli dalle lunghe ali e gambe. I fenicotteri dominano con il loro colore rosa, quel colore che più è intenso e più conquista la componente femminile di quella specie meravigliosa. Il corteggiamento ha il colore rosa. Sulle lunghe ed agili zampe, sul piumaggio del corpo. Rosa forever. Qualche speranza.

La natura non ha forma

Un vecchio senza nome e cittadinanza ricorda che quando c’è un angolo o un’ombra, c’è un’aggressività insopportabile. La natura, invece, è straordinaria. Tutto si muove, le forme ortogonali non esistono da nessuna parte. L’uomo ha invece otto volanti, capannoni, sfere e monete, il tempo delle camere ad ore, degli amori fugaci, del mordi e fuggi. Tutto gira, tutto ha un valore edonistico ed economico, nulla resta.

Le terre fertili, i boschi pieni di frutti, la pesca primordiale, i ruscelli carichi d’acqua, la bellezza, il sole che bacia i campi di grano, a noi interessano altri valori. C’è un’altra realtà lontana dai casermoni in cemento. Questa ci piace. Perché noi siamo Terra.

ANNA CROTTI, nata a Bergamo, nel 1998, si è laureata in Scienze Sociali presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul documentario come mezzo di ricerca antropologica. Attualmente frequenta il Master in Media e Sistemi Editoriali presso l’Università degli Studi di Bergamo.

LUCREZIA GIORGI, classe 1994, si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali presso l’Università di Bologna con indirizzo Studi Africani in Svezia, ha poi conseguito un Master in Storytelling: Letteratura, Cinema, TV presso la IULM di Milano. Lavora nell’editoria.

ANAÏS LANDRISCINA, nata a Milano nel 1999, è diplomata in Scenografia, Drammaturgia e Spettacolo presso la Libera Accademia di Belle Arti di Brescia.

Articolo pubblicato su Taxidrivers

ZIBALDONE
Appunti di viaggio: Recanati – Scanno – Villalago        

ZIBALDONE. Appunti di viaggio: Recanati – Scanno – Villalago

Recanati mare

E mentre sono all’ombra, seduta su una panchina del lungo mare di Recanati, osservo tre bambini assorti nel disegnare su dei sassi bianchi e piatti con le matite colorate. Ai bambini piace colorare e fare disegni, lo fanno con passione, con concentrazione massima, con spontaneità, pitturano su qualsiasi superficie.

Porto Recanati spiaggia
Porto Recanati lungomare

Penso che, purtroppo, questa naturale creatività verrà imbrigliata da regole e giudizi e la maggior parte dei bambini non si avvicinerà più all’arte come esigenza estetica  e immaginativa. Verrà archiviata in quella che le neuroscienze chiamano memoria implicita, dove i ricordi sensoriali ci sono, ma non sempre intercettabili e muti.

I disegni, tacciati come cose da bambini appunto, andranno sostituiti dalla storia dell’Arte, dalla fruizione delle opere (i capolavori, i geni), con un atteggiamento per lo più concettuale e colto, il gusto di creare dalla autorevolezza inconfutabile dei critici del bello e, non ultimo, dal valore stabilito del mercato.

Ma mentre seguo le mie elucubrazioni, i tre bambini si accorgono del mio interesse e mi chiamano per farmi vedere le loro opere.

Le dispongono in bell’ordine, mi spiegano le figure che hanno disegnato: una casa, il sole, “mamma ti voglio bene”, accostamenti di colori. Sono molto accalorati nel parlare e poi…

Poi non credo alle mie orecchie. Mi dicono:“ i sassi piccoli costano 50 centesimi, quelli grandi 1 euro, per gli altri ci mettiamo d’accordo”.

Rimango un po’ stralunata. Sono sassi, ne posso trovare a migliaia nella spiaggia vicina! Ho con me gli acquarelli! Non è neppure una operazione tanto originale come souvenir.

Arriva la mamma di uno dei tre e chiede: “quanto avete fatto su?”…Però! E non è ancora l’ora del passeggio”.

Non ci posso credere, si vende anche la naturalezza, la spontaneità dei bambini diventa un prodotto da commerciare.

Certo per i bambini rimane soprattutto, fortunatamente, l’aspetto ludico. Lo abbiamo fatto tutti: “io faccio la signora del negozio e allora tu mi dicevi: “ signora voglio tre etti di prosciutto” e poi io, mimando il gesto, li affettavo e ti dicevo “ va bene così’?” e allora tu mi pagavi e, con le mani vuote, mi davi i soldi che non c’erano e io li prendevo nell’aria e con la voce imitavo il suono della cassa”.

Quindi niente di scandaloso ad imparare “come fanno i grandi” per stare al mondo e capire che i soldi hanno un valore.

Ma qui? Il gioco è commercio e il guadagno reale servirà per comprare cose e prepararsi ad essere, senza aspettare di diventare grandi, dei buoni consumatori.

E i sassi della spiaggia? Beh! verranno depredati finché ce ne sono.

Confesso.

Un sasso l’ho comprato, mi hanno anche fatto un prezzo di favore. Ma, a mia discolpa, volevo giocare anch’io e scacciare i pensieri avvilenti.

Recanati città dell’Infinito

Siccome sono a Recanati come non andare in pellegrinaggio nella “sua” città.

Vista di Recanati

Obbligo il mio compagno che è un insegnante di italiano a raccontarmi la vita di Giacomo, a spiegarmi le poesie, a farmi capire la filosofia di quel giovane favoloso.

Se a scuola mi sembrava di una pesantezza insopportabile, adesso mi intriga e voglio sapere sempre di più.

Soprattutto voglio sedermi sulla famosa panchina e sentire l’effetto del mio sguardo che incontra l’Infinito.

Così si va’. È a pochi chilometri dal mare. Si sale tra verdi colline.

Sono emozionata.

La prima cosa che vedo è il cartello di Recanati che titola La città dell’infinito. Certo come non vantarsi di tale cittadino!

Poi incontro “Pizzeria A Silvia”, giusto nella via della casa di Leopardi, sappiamo la storia…

Procedendo verifico che anche le librerie non vendono solo libri ma calamite e gadget vari intitolati al poeta. Ogni altro negozio ha insegne con versi dei suoi poemi che danno lustro alla macelleria, al tabaccaio, al bar.

Pizzeria “A Silvia” – Recanati
Amaro locale di Recanati

Ci avviciniamo sempre più al Parco dell’Infinito. Mi dico: qui ci sarà un’atmosfera magica.

Mentre avanzo le vie diventano sempre più affollate di turisti. Stanchi di stare al mare sono qui a prendere il fresco.

In ciabatte, calzoncini, occhiali da sole, tutti rossi, tutti sudati, attraversano il paese in due minuti spuntando la lista- cosa c’è da vedere a Recanati- e prendono  d’assalto bibite e gelati in centro.

Mordono e fuggono.

Non desisto, io lo sento che, quando guarderò oltre la siepe, tutta questa superficialità vacanziera incontrata non  lascerà traccia nei miei ricordi pronti a intercettare molto di più.

Finalmente arrivo! Ma per salire sulla torre, quella famosa, bisogna pagare un biglietto. Ma scusate l’orizzonte e l’infinito non sono di tutti?

Il FAI ha comprato la torre e per proteggere questo patrimonio artistico non chiede ai visitatori di essere educati, silenziosi, decorosi, pochi per volta! NO chiede quattrini e poi : ”sciabatta ignorante come vuoi!”

Non pago. Non sono in cima, ma l’orizzonte lo vedo anche da questa terrazza naturale limitata da siepi.

Paolo mi declama tutta la poesia e diventa dolce naufragare in questo mare.

Scanno e gli orsi

Una via di Scanno – Foto di G. Tonioli

Dopo questa pausa di avvicinamento ci spostiamo verso la nostra vera meta, Scanno. Un Borgo meraviglioso dentro un parco, riserva naturale protetta.

Qui hanno sparato a Morena un’orsa femmina, per paura.

Ma adesso c’è Gemma, sempre un’orsa, che gli abitanti conoscono da almeno quattro anni. Gemma viene in Paese per mangiare, cambia ristorante ogni sera. Ieri, ci raccontano, ha preferito una pizzeria. L’hanno trovata che dormiva pancia all’aria nelle vicinanze. “Pazienza” dice il gestore.                                                      

Per strada ci sono manifesti che titolano: “ Queste le regole per salvare la vostra vita e quella degli orsi”. Ci sono volantini con le istruzioni anche sui comodini del mio bed and breakfast (camera con caffè si dice dalle parti di Gallipoli e mi piace molto di più).

C’è gentilezza in questo luogo verso i non umani e c’è coscienza che gli animali sono animali.

Per una possibile convivenza ci vuole rispetto e conoscenza degli altri esseri che vivono con noi.

Uno dei simboli di Scanno – foto G.Tonioli

Il proprietario della pizzeria non è arrabbiato, non ha messo taglie per la cattura né chiesto l’espatrio forzato di Gemma, è giustamente seccato per lo sporco lasciato, per i sacchi di farina rotti. Ma si assiste quotidianamente ad atti di vandalismo da parte dei nostri consimili e non per fame.

Però, diciamola tutta, l’orso produce pubblicità al paese e a Scanno la sua immagine è ovunque, souvenir, dolci, dediche.  E non tutti, purtroppo, parteggiano per Gemma.

Villalago: Quando la banda passò                                    

Io l’orso non l’ho visto, ma più volte ho pensato che tra i boschi e le selvatiche e affascinanti gole, lui sbirciava curioso e annusava l’aria per conoscermi.

In compenso un pomeriggio succede una cosa da favola.

Passeggio nel borgo di Villalago, si sta preparando una importante festa religiosa. Una donna al parcheggio tiene il posto per il furgone dei croccanti in arrivo, mi spiega che è una festa tradizionale, che dura tre giorni, oggi la madonnina verrà trasferita in una piccola chiesa da quella in cima al paese e poi ci sarà la processione per le strade.

Luminarie e concerti. Oggi è stata invitata la banda, che suonerà attraversando strade e vicoli in faticosissima pendenza.

Io la sento già che fa degli accordi di prova e desidero seguirla.

Mi piace la banda, mi dà gioia, e mi ricorda quando, ancora bambina, a Ferrara si fermava davanti alle case a Capodanno per dare il buon anno e tutti, col sorriso, buttavamo dalla finestra qualche soldino. Una casa e dopo un’altra fino a sera.

Lasciamo i ricordi, sono immersa in questa atmosfera, calma, lenta, antica e sto cercando la banda quando…Noo! Impossibile! Davanti sbucano silenziosi con i loro occhi dolci e in tutta la loro bellezza, due cervi.

Mi guardano, rimangono tranquilli e, sulla scia della musica e nella scenografia di queste case di pietra, riprendono il cammino. Mi invitano a seguirli, mi aspettano quando esito, ammutolita e con gli occhi sgranati che sono diventati enormi e dolci come i loro

Procediamo, poi, in un punto ben preciso, svoltano convinti, sempre a passi leggeri.

Li seguo e Oh mio Dio! In un piccolo parco c’è un intero branco che bruca. Dietro di loro la montagna che è casa.

Non mi accorgo dell’arrivo di un uomo anziano che in dialetto risponde alla  domanda che non avevo ancora formulato.Vengono perchè hanno paura dei lupi. Quando hanno i figli vengono qui per chiedere protezione”.

Ma non vi fanno danni ai giardini agli orti? “Signura, “stace”(che sarà mai). Ci sono i lupi e ci stanno le creature”.

Mi risveglio, la banda adesso la sento più forte, deve essere vicina.

Lascio il branco a brucare e ritorno al mio proposito.

L’uomo mi saluta, è tornato qui dopo aver lavorato tanti anni in Germania. Ciàve (ciao) Signura ci vediamo capabballe (giù dalla discesa) che la banda arriva in piazza”.

Affretto il passo e ho un senso infantile di gioia, come quando guardavo Biancaneve di Disney che cantava in coro con gli uccellini, gli scoiattoli e “i bambi” e ci credevo.

“lu muànn’ jé cchiù bbèlle ‘ndurn’ a tta” (il mondo diventa più bello intorno a te) [Da ‘Na matèine (a la Marèine)  Fernando D’Annunzio]

Cover: Il lago di scanno foto di Giovanna Tonioli

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Costituzione e referendum: l’errore dell’articolo 138

Costituzione e referendum: l’errore dell’articolo 138

La stagione referendaria si apre col tentativo di cancellare l’Autonomia Differenziata, ma proseguirà con ogni probabilità con i referendum costituzionali su premierato e separazione delle carriere in magistratura.

È evidente che vi è un attacco alla nostra Costituzione da parte delle destre al potere, ma il male viene da lontano, e la sinistra “sinistrata” ne è complice ed anzi protagonista.

Non ci riferiamo tanto a questioni specifiche, pur molto gravi, come per esempio la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dalle sinistre, e che ha aperto la strada alla Autonomia Differenziata. Riteniamo, più in generale, che la classe politica italiana nel suo complesso, a partire dalla “seconda Repubblica”, e anzi ancor prima nel corso degli anni Ottanta, sia completamente venuta meno al compito storico che i padri e le madri costituenti le avevano assegnato scrivendo la nostra Carta fondamentale.

Nelle intenzioni originarie il potere legislativo e il potere esecutivo dovevano essere il luogo di ciò che il vecchio P.C.I. chiamava “la democrazia progressiva”: garanzia (ovvia) dei diritti civili e politici e affermazione di sempre nuovi e sempre più significativi diritti sociali. Sappiamo come è andata a finire.

Per la verità le attuali difficoltà sono anche dovute ad un limite originario. I Costituenti presi dall’ebrezza di un ottimismo populista, figlio della vittoria nella guerra partigiana, immaginavano il futuro come una marcia radiosa e lineare verso il realizzarsi del potere popolare. Che la storia potesse tornare indietro pareva impossibile.

Si propose, ad esempio, di mettere in Costituzione il sistema elettorale proporzionale, ma poi non se ne fece nulla, molto probabilmente (e paradossalmente) perché la cosa sembrava ovvia ed erano tutti d’accordo. (Non si mette in Costituzione che due più due fa quattro!).

Comunisti e socialisti inoltre attaccarono con violenza l’idea di una Corte Costituzionale, ritenendo che in questo modo si volesse mettere un freno al parlamento, espressione della lunga marcia del popolo dentro le istituzioni. Gli altri partiti, invece, la difesero temendo che i comunisti andando al governo trasformassero l’Italia in un paese socialista. Lo so che si stenta a crederlo, ma questo era il clima del tempo!

In questo contesto nacque quell’art. 138 della nostra Carta che è l’unico (parere personale) che andrebbe modificato. Grazie ad esso per approvare una legge di revisione costituzionale basta la maggioranza assoluta dei voti di ciascuna Camera.

In pratica, a parte la possibilità del referendum, qualunque maggioranza parlamentare, in qualunque momento, può modificare la Costituzione.
Errore! La Costituzione non si cambia, tranne che non intervenga un nuovo processo costituente, figlio di una nuova “rivoluzione”, o comunque di una forte cesura storica.

Al massimo, giusto per dare spazio a questioni universalmente accettate, si potrebbe modificare l’art.138, prevedendo che le leggi di revisione costituzionale debbano avere una maggioranza dei tre quarti degli aventi diritto di ciascun ramo del parlamento. (Si potrebbe pensare anche ai due terzi, ma solo con una legge rigorosamente proporzionale).

Ciò, naturalmente, non darebbe nessuna garanzia che la Carta non possa essere modificata nei fatti, o resa inattiva con operazioni più o meno “subdole” e “striscianti”.  Gli esiti dello scontro politico non possono essere decisi dalle norme costituzionali, ma le garanzie e gli indirizzi generali che la Carta prescrive andrebbero sempre rispettati.

Antonio Minaldi
Militante nei movimenti fin dal 68. Esponente del movimento studentesco del 77 e fra i fondatori dei COBAS SCUOLA nell’87. Si occupa di attualità politica e di studi di filosofia collaborando con varie riviste.