Presto di mattina. Sul mondo, pane spezzato e vino versato
Mongolia
In questi giorni, pensando al viaggio di papa Francesco in Mongolia, mi veniva spesso in mente il deserto dei Gobi e l’altopiano degli Ordos nella Mongoglia occidentale. Luoghi che ho conosciuto per il tramite delle lettere di viaggio di padre Pierre Teilhard de Chardin, esploratore, paleontologo e geologo in Cina dal 1923 al 1946, dove le sue ricerche contribuirono alla scoperta, nel sito di Chou Kou Tien, del sinantropo, l’uomo di Pechino della specie Homo erectus vissuto circa 400.000 anni fa.
Una lunga frequentazione dei suoi testi, continuamente intrecciati da visioni ardenti e da un sentire mistico e poetico, ha accompagnato e arricchito il mio itinerario umano, spirituale e pastorale, portandomi a comprendere e a vivere sempre più la liturgia cristiana come una liturgia cosmica, tanto da celebrare l’eucaristia, la messa come la celebrava lui “sul mondo”, in quelle sterminate e solitarie steppe dell’Asia: senza pane e senza vino.
Ma non mi sarei mai aspettato che domenica scorsa, terminata la messa a Santa Francesca, mi arrivasse un messaggio di WhatsApp che diceva brevemente: “Sarai contento per la messa sul mondo di padre Teilhard ricordata dal papa in Mongolia! Un abbraccio L.”. Come caduto dalle nuvole ho risposto senza sapere e senza pensarci, improvvisando la prima parola che mi venne: “Contentissimo”.
Non ho né pane, né vino, né altare
Poi con calma nel sito www.vatican.va ho cercato il ringraziamento di papa Francesco fatto dopo l’omelia alle “Steppe Arena” (Ulaanbaatar), domenica 3 settembre 2023:
«La Messa è azione di grazie, “Eucaristia”. Celebrarla in questa terra mi ha fatto ricordare la preghiera del padre gesuita Pierre Teilhard de Chardin, elevata a Dio esattamente 100 anni fa, nel deserto di Ordos, non molto lontano da qui. Dice così: “Mi prostro, o Signore, dinanzi alla tua Presenza nell’Universo diventato ardente e, sotto le sembianze di tutto ciò che incontrerò, e di tutto ciò che mi accadrà, e di tutto ciò che realizzerò in questo giorno, io Ti desidero, io Ti attendo”.
Padre Teilhard era impegnato in ricerche geologiche. Desiderava ardentemente celebrare la Santa Messa, ma non aveva con sé né pane né vino. Ecco, allora, che compose la sua “Messa sul mondo”, esprimendo così la sua offerta: “Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla tua attrazione, presenta a Te nell’alba nuova”. E una preghiera simile era già nata in lui mentre si trovava al fronte durante la Prima guerra mondiale, dove operava come barelliere.
Questo sacerdote, spesso incompreso, aveva intuito che “l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso – in un certo senso –, sull’altare del mondo “ed è “il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile” (Enc. Laudato si’, 236), anche in un tempo come il nostro di tensioni e di guerre.
Preghiamo, dunque, oggi con le parole di padre Teilhard: “Verbo sfavillante, Potenza ardente, o Tu che plasmi il molteplice per infondergli la tua Vita, abbassa su di noi, Te ne supplico, le tue Mani potenti, le tue Mani premurose, le tue Mani onnipresenti”. Fratelli e sorelle della Mongolia, grazie per la vostra testimonianza, bayarlalaa! [grazie!]. Dio vi benedica. Siete nel mio cuore e nel mio cuore rimarrete. Ricordatemi, per favore, nelle vostre preghiere e nei vostri pensieri. Grazie».
Sono testi quelli di Teilhard sempre presenti in me, parole dormienti che tuttavia si risvegliano, fioriscono di tanto in tanto soprattutto nei momenti faticosi come i fiori di un Calicantus profumato nel cuore dell’inverno − piccoli soli, profeti di luce futura − oppure quando silenziosamente mi sorprende il chiarore dell’alba o sopravviene vestito del suo splendore infuocato il tramonto al declinare del giorno.
La messa sul mondo
Poiché ancora una volta, o Signore,
sono senza pane, senza vino, senza altare,
mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale;
e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale,
il lavoro e la pena del Mondo.
Lì in fondo, il sole appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo
del primo Oriente.
Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme,
la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio.
Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica
e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti.
Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta
alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra,
si eleveranno e convergeranno nello Spirito.
Vengano pertanto a me
il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata.
(Inno dell’universo, Queriniana, Brescia 1992, 9).
Con questa preghiera Teilhard ha fatto rivivere il mistero della sua fede dentro il cuore impazzito, lacerato del mondo in guerra fin dentro le trincee, nella carneficina della battaglia di Verdun durata dieci mesi, dal 21 febbraio 1916 al 19 dicembre 1916.
Così egli celebrava la messa sul mondo anche senza il pane e il vino, ma mai senza tutto lo sforzo e il patire della creazione, nel confliggere dei popoli, delle genti. E soprattutto mai senza il sacrificio e la pienezza del Cristo, quello della sua umanità trafitta, offertasi nell’umanità di ogni uomo e ogni donna, in ogni vagito e in ogni grido, o rantolo di morente; in ogni fibra dell’universo, in ogni vivente che nasca o che gioisca, che soffra o che muoia.
La messa sulle cose
Giunto nel deserto degli Ordos nel 1923 egli scrive: «Un po’ troppo assorto nella scienza per dedicare molto tempo alla filosofia, ma quando discendo in me stesso, sono sempre più intimamente persuaso che in ogni cosa ha valore solo la scienza del Cristo, ossia la vera scienza mistica.
Una volta tornato alla geologia, mi lascio riprendere dal gioco. Ma ogni minima riflessione mi mostra limpidamente che questa attività (vitale per me quanto più fa corpo col “gesto intero” della mia vita) non ha in sé nessun interesse definitivo.
Continuo ad elaborare a poco a poco, e un po’ meglio, la mia “messa sulle cose” nella preghiera. In un certo senso mi pare che la vera sostanza da consacrare ogni giorno è l’accrescimento del mondo per quel giorno, – essendo il pane buon simbolo di ciò che la Creazione riesce a produrre, e il vino (sangue) di ciò ch’essa fa perdere in fatica e in sofferenza nel proprio sforzo» (Lettere di viaggio, [LV] Saokiaopan [Ordos sud-est], 26 agosto 1923, 26-27).
La sua “Messa sulle Cose” è allora da considerarsi come un nucleo testuale multiforme, in divenire e sempre in trasformazione, perché in permanente relazione temporale all’evento dell’altare, alimentato a quel focolaio ardente che per lui fu la celebrazione eucaristica quotidiana.
La sua messa, che egli “approfondisce e rielabora senza sosta”, è pure testo dai “molti nomi” conosciuti – Il Sacerdote (1918), La Messa sul Mondo (1923), Il Sacramento del Mondo (1934) – o anonimi, perché rifusi, amalgamati nell’intreccio con gli altri testi, come filo rosso ad essi trasversale e loro segreto ordito: «Se avrò il tempo, – scrive nel 1929 – ne scriverò, il prossimo autunno, l’ennesima stesura. Penso che adesso essa si avvicini alla perfezione massima che sono in grado di darle» (Lettere a Léontine Zanta, 23 agosto 1929, 135).
Teilhard ha aperto una nuova prospettiva per declinare il mistero eucaristico. Mediante la riscoperta delle estensioni fisiche e reali della presenza eucaristica, nello spazio e nel tempo della esperienza credente, ritrova “il posto fondamentale dell’Eucaristia nell’economia del mondo” (cfr.: Il mio Universo (1924), in Scienza e Cristo, 92-93).
Questa “messa” sentita come irradiazione della presenza eucaristica nel cosmo, attivatrice della sua cosmogenesi, è pure generativa nella storia di una itineranza per le vie del mondo: una cristogenesi. Non si sta chiusi in chiesa, ma si si esce come lui all’incontro con le genti. Una messa che continua così ad essere celebrata nella vita, intrecciando le storie delle persone, strada facendo con loro, spezzando il pane e offrendo il calice della benedizione, il gioire e il patire della propria vita.
Il deserto sorride, fiorisce, profuma
Suggestive sono pure le descrizioni dell’ambiente circostante:
«Attraverso interminabili alture rivestite di odorose artemisie, di liquirizie a foglie di acacia, di esedre che hanno steli di equiseti e frutti a forma di lampone, abbiamo raggiunto l’angolo sud–est dell’Ordos, mèta definitiva del viaggio. Ancora una volta la nostra tenda è piantata in mezzo al deserto in una cerchia di dirupi terrosi. Ma qui il deserto sorride, e i dirupi sono grigi, gialli e verdi anziché bianchi e rossi.
Siamo accampati in fondo al cañon tortuoso, ritagliato a 80 metri di profondità, in piena steppa, dallo Chara-usso-gol, le cui acque di limpido fango rumoreggiano accanto a noi sopra una barriera di pietre… Per tutto un mese prolungheremo il nostro soggiorno sulle rive dello Chara-usso-gol fiorite di ginestre color lilla e di una specie di lavanda a spighe di un azzurro profondo che i mongoli chiamano con termine scorretto ma grazioso l’artemisia degli “argali”.
Fra le dune, le fitte piantine di un piccolo aglio a fiori rosa stendono un tappeto marezzato simile a quello che, in questa stagione, rallegra, a quanto dicono, la tristezza del Gobi. Tutto ciò manda un buon profumo e splende gioiosamente nella calda luce. La steppa è una vera bellezza sotto il suo fugace travestimento negli ultimi giorni d’estate» (LV, Agosto 1923, 36-38).
La terra, carne ferita, umanità in cammino
Ed anche: «Noi altri geologi, venuti qui come nell’Ordos in cerca delle “Cattive Terre,” (detto di vastissime zone di terreni argilloso-sabbiosi che, in seguito alla forte erosione delle acque, prendono forme tormentate e instabili) non ci lasciamo sedurre dalla comoda pace dei campi mollemente ondulati. Ci immergiamo, invece, nelle crepe più profonde della montagna, quelle dove la terra rossa appare, come una carne ferita, sotto gli spessi strati grigi.
Là biancheggiano le ossa dei rinoceronti, delle giraffe, delle antilopi, che durante il Miocene (da 23 a 5 milioni di anni fa) erravano qui come oggi galoppano nelle praterie tropicali dell’Africa. Anche là, sotto le alte muraglie di loess, sono disseminate le vestigia dell’uomo i cui occhi han guardato la Cina prima che essa indossasse la sua veste di terra gialla.
Ma già nei campi anneriscono la spiga dolcemente curva del miglio e la pesante e rigida granata delle saggine. L’autunno e il freddo stanno per scendere sugli altipiani dell’Asia. Per i viandanti è il momento di tornare nelle più miti pianure della Cina orientale…
Pellegrino dell’avvenire, torno da un viaggio compiuto interamente nel passato. Ma, visto in un certo modo, può il passato trasformarsi in avvenire? Una coscienza più estesa di ciò che è e di ciò che fu, non è la base essenziale per ogni progresso spirituale? L’intera mia vita di paleontologo non è forse confortata dall’unica speranza di contribuire ad un cammino in avanti? …
Convinto che l’unica scienza consista nello scoprire, la crescita dell’universo, io mi inquietavo per aver visto soltanto, durante questo viaggio, le tracce di un mondo dissolto. Ma perché questa inquietudine? Il solco lasciato alle spalle dall’umanità in cammino non ci rivela forse il suo movimento allo stesso modo della schiuma che si solleva sul filo della prua dei popoli?» (LV, settembre, ottobre 1923, 39; 42-43).
In quel vuoto e in quel silenzio, in quelle terre rovistate, erose dal vento e scavate dall’acqua, terre ferite riempite di polvere e detriti, il “Dio ignoto” annunciato da Paolo all’Areopago di Atene dimora anche lì sotto le tende, le yurte dei nomadi della Mongolia.
Gli “obo muti” testimoni della sacralità in ogni cosa
Ma non è sempre stato così fin dai tempi di Abramo? Anche qui in laboriosa attesa, in questo deserto ancor prima, fin dall’inizio dei tempi. A questo fanno pensare pure le descrizioni di quei manufatti di culto, “obo muti” (ovoo/oboo in mongolo) li chiama Teilhard, mucchi di pietre sormontati da fascine e pertiche, «altari sempre deserti disseminati nella solitudine […] misteriosi, selvaggi, impressionanti», simboli che testimoniano della sacralità del luogo, accumulati dai viandanti come segno di devozione e preghiera, ma anche come punto di riferimento per orientarsi durante il viaggio.
«A intervalli qualche convento di lama e su ogni punta rocciosa notevoli mucchi di pietre chiamati obo (al tempo stesso altare e punto di riferimento stradale), dove, passando, il fedele mongolo aggiunge una pietra. A un chilometro dal campo uno di questi obo, completo e complicato, conta una decina di mucchi di pietre sormontati ciascuno da una fascina che il vento dell’ovest ha piegato, come la fiamma di una torcia.
Questi simboli muti, questi altari sempre deserti disseminati nella solitudine, son davvero misteriosi, selvaggi, impressionanti. […] È la settimana di Pentecoste, mi piace pensare che lo “Spirito di Cristo” ha riempito la terra … come la Chiesa ripete in questi giorni» (LV, 10.6.1924, 57; 30.6.1924, 59).
La messa sul mondo continua ad essere celebrata anche oggi, concretamente o anche solo mentalmente, nei luoghi più disparati: persino in quelle situazioni umanamente ai margini, o umilianti e disfacenti come gli abbandoni e le guerre.
Così anch’io continuo a celebrare la messa sul mondo anche fuori delle mura di una chiesa come padre Teilhard. Una Messa celebrata segretamente nei luoghi più dimenticati e desolati, andando per strada, per le piazze, negli ospedali, ma pure sempre segnati dall’umano passaggio e dalla religiosa ricerca di un Dio ignoto, che abita il cuore di ogni uomo e che si accompagna straniero a ogni viandante pellegrino dell’assoluto.
Il Cristo sempre più grande
Invocato «tra eterni venti polverosi, sui fiori bianchi, sotto un Cielo blu» (LV 15 aprile 1929, fonte Claude Cuenot, L’evoluzione di Teilhard de Chardin, Milano 1962), il Cristo con la sua incarnazione è così associato a tutte le potenze ed alle forze che fanno crescere o diminuire la terra, nascosto tra le pieghe dei suoi sviluppi e delle sue diminuzioni. È misteriosamente presente, “latens Deitas”, in ogni passività e attività che intreccia la vita.
«A destra, press’a poco alla stessa distanza, un rosario di cinque o sei nor anche più grandi. Alle mie spalle la linea di montagne verdi che attraverseremo domani. E, finalmente, tutt’intorno, una collina erbosa, coperta di vecchi olmi contorti disseminati come i meli di un prato per una decina di chilometri quadrati. E poi, neppure un’anima viva, niente rumori.
Tre grandi obo muti col loro cumulo di fascine e di pertiche, erano testimoni del carattere sacro del luogo. Qui io ho offerto al Cristo il mondo della Mongolia: nessuno, senza dubbio, l’aveva mai invocato in questa regione interamente estranea all’influenza dei missionari.
Meno maestosi, ma di una più penetrante poesia, sono i laghetti o nor, addormentati in una cerchia di colline, dove gru, cigni, oche, trampolieri e belle anitre con splendidi colori nidificano e nuotano con quasi la stessa disinvoltura degli uccelli dei giardini pubblici. Ancora ieri la nostra tenda era piantata sulle rive di uno di questi nor.
La sera è stata deliziosa (evento piuttosto raro in questo paese dal clima tempestoso, dove 48 ore non passano senza burrasche o senza temporali). Io guardavo tramontare il sole su immense groppe basse e lisce che chiudevano l’orizzonte. Nel cielo dorato, una grossa nuvola nera, isolata, lasciava bizzarramente cadere una pioggia violetta» (LV, 59-60).
Al cuore della Materia una preghiera
Signore della mia infanzia e Signore della mia fine,
– Dio compiuto in Sé, eppure, per noi, mai finito di nascere,
– Dio che presentandoTi alla nostra adorazione quale ‘evolutore ed evolutivo’,
sei ormai l’unico che possa soddisfarci,
– disperdi finalmente tutte le nuvole che Ti nascondono ancora,
– sia quelle dei pregiudizi ostili che quelle delle false credenze.
E, per Diafania ed Incendio ad un tempo, erompa la tua universale Presenza.
O Cristo sempre più grande!»
(Il Cuore della Materia [1950], 47).
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