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Ferrara Film Festival – Day 2. Tanta Ferrara nella serata di Lucrezia

Day 2.  Storie, storie e ancora storie. Tanti film e volti noti e meno noti sfilano sulla passerella del FFF8, c’è molta Ferrara. Alcuni cortometraggi da ricordare. E poi lei, Lucrezia.

Dopo una grande apertura nel segno di Giancarlo Giannini [leggi su Periscopio il Day 1], la kermesse estense porta molte sorprese, e nelle proiezioni del pomeriggio del secondo giorno c’è davvero tanta Ferrara. Non solo in termini di pubblico, numeroso e molto attento, ma fra i registi, gli attori e la città stessa che fa da splendida e incantevole scenografia a racconti che trattano dai temi sociali a quelli più storici, se pur in chiave ironica. Magnifica cornice.

A salire sul palco, Anna Elena Pepe, Sebastian Maulucci, co-registi del cortometraggio “Miss Agata” (Anna Elena interpreta anche la protagonista), con gli attori Andrea Bosca e Yahya Ceesay, il registra teatrale Massimiliano Piva e l’aiuto regista Francesco Meatta.

Anna Elena Pepe e il team di “Miss Agata”, foto Valerio Pazzi

La “comedy-drama”, che ha appena vinto il ‘Premio Starlight International Cinema Award’ come migliore sceneggiatura a Venezia 80, affronta, con il sorriso tipico della commedia all’italiana, temi sociali importanti: le donne e il dolore del trauma dopo una violenza (il ‘disturbo da stress post traumatico’), la paura, l’incapacità a ricostruirsi una vita normale, l’indifferenza delle istituzioni e l’incapacità della società ad affrontare temi che non fanno notizia. Ci sono poi i pregiudizi verso gli immigrati, gli stereotipi, ma anche tanta dolcezza nella musica che sa di casa e che fa ballare, per un attimo spensierati, per la strada. Per le vie di una città di Ferrara che è bellissima e che prende e restituisce una luce diversa. Di Anna Elena Pepe vi abbiamo parlato, non resta che seguirla con attenzione…

Eccoci allora ad una delle première europee più attese: “Tre storie in bottiglia”, la vera sorpresa della giornata. Il regista ferrarese – romano d’adozione – Giuseppe Gandini, con, fra gli altri (ci sono una trentina di attori, fra i quali molti concittadini), Massimo Olcese, Ignazio Oliva e Christian Borromeo, ci conduce in una magica ‘enoteca’ dove le bottiglie di vino raccontano storie: la’‘enobreria’, brillante trovata, lasciateci dire.

Giuseppe Gandini e il team di “Tre storie in bottiglia”, foto Valerio Pazzi

Due avventori e l’Oste (interpretato dallo stesso Gandini) assaggiano tre vini diversi e, magicamente, tre storie iniziano a intrecciarsi lentamente.

Il regista, racconta sul palco con i suoi attori, ha ultimato il suo progetto dopo sei anni di raccolta fondi, tre anni di riprese e due anni di pandemia, che non lo hanno fermato.

Il protagonista principale del lungometraggio è il vino, il suo colore, il suo odore, il suo sapore, la sua forza. Un prodotto versatile e autentico perché viene dalla terra, è fatto dell’uomo e l’uno narra dell’altro. Il vino aggrega, fa parlare, dialogare, comprendere, sognare, innamorare, ha tanto da raccontare. Parla di gusto, di svago, di lavoro, di amicizia e di amore. Con la stessa intensità.

Il film contiene tre episodi che, pur slegati, si intrecciano nella narrazione, episodi, peraltro, girati in tempi diversi (2019, 2021 e 2022), anche perché i fondi e le riprese in aziende e consorzi vinicoli sono arrivati gradualmente.

“Il primo episodio è stato girato a Montefalco, grazie al Consorzio del Sagrantino e alla Regione Umbria”, ha raccontato Gandini in un’intervista. “Per il secondo ho trovato un imprenditore toscano vicino a Pisa, nel Chianti; il terzo invece, con un finanziamento privato, sono riuscito a girarlo a Castello di Torre in Pietra, vicino a Roma”.

La trama dei tre episodi? Il primo narra la storia di un brillante fotografo alla ricerca della foto perfetta e difficilissima, l’occasione della vita, che, come oggetto, avrà l’odore del vino. Nel secondo, il protagonista è un giovane rampollo di famiglia (i Cinciallegra) che attraverso un’obbligata esperienza in vigna, cambierà la sua visione del mondo. Il terzo è una storia romantica fra non più giovanissimi, una sorta di moderno ‘Romeo e Giulietta’ fatta di tenerezza e romanticismo. Tutto a lieto fine. Assolutamente da vedere.

Interessante poi il cortometraggio “Un cuore, due colori”, di Marco Maraniello (sul palco i due attori protagonisti Alessandro Orrei, Francesco Piccirillo), che precede l’ultima première cinematografica della serata.

Una storia intensa, coinvolgente e commovente che racconta di Gennaro (Francesco Piccirillo) e Lorenzo (Alessandro Orrei, noto al grande pubblico per il ruolo di Mimmo nella fiction “Mare fuori”), due ragazzi diversi, agli antipodi, conosciutisi grazie ai social, che, a Napoli si trovano, apparentemente, su due fronti opposti. Juventus vs Napoli, agio vs disagio, Posillipo vs Quartieri Spagnoli, spensieratezza vs complessità, ricchi vs poveri. A unirli la passione per il pallone, una partita di calcetto dove, alla fine, sportivamente, ci si scambia la maglietta e il fischietto. Il match, infatti, non li vede totalmente contrapposti: Gennaro, a causa di una malformazione cardiaca, è costretto ad arbitrare.

Team di “Un cuore, due colori”, foto Valerio Pazzi

Ma i fronti sono opposti solo apparentemente. L’amicizia e il destino uniranno i due lembi di un incredibile e tragico disegno. Verso lo stesso cuore generoso, dove ci si salverà insieme, dove la ricchezza e il benessere serviranno a ben poco. Il corto è in corsa per il David di Donatello 2024. Gli auguriamo buona e immensa fortuna.

Infine, al suo debutto sul grande schermo, “L’incantevole Lucrezia Borgia (Première Event) di Marco Melluso e Diego Schiavo, con Tullio Solenghi e Lucrezia Lante della Rovere, che racconta l’appassionante storia di Lucrezia Borgia d’Este, donna tormentata da scandali e pettegolezzi e per secoli ritenuta simbolo di crudeltà e amoralità.

Ve ne avevamo accennato durante le riprese, oggi finalmente lo vediamo. Grande curiosità.

Il film è divertente, racconta la vita di Lucrezia, figlia del cardinale spagnolo Rodrigo Borgia (il futuro papa Alessandro VI), come una telenovela moderna, con tanto di telefonini, social e like. L’originalità, a parte la stessa colorata e vivace modalità narrativa, sta nella riscoperta del personaggio di Lucrezia, dello svelare la manipolazione cui tutta la sua vita è stata oggetto, da parte di una famiglia ingombrante e intrigante, i Borgia, del suo essere vittima di interessi e giochi di potere superiori, di cui lei è stata, spesso inconsapevole, pedina.

Lucrezia & team, i registi Marco Melluso e Diego Schiavo, foto Valerio Pazzi
Lucrezia Lante della Rovere, foto Valerio Pazzi

La sua bellezza ed eleganza l’hanno condotta a matrimoni combinati voluti da altri, le stesse, insieme alla sua generosità, che hanno salvato la città, ai tempi del matrimonio con Alfonso d’Este, della guerra scatenatasi fra la Francia e il papato di Giulio II (lo spietato e temuto avo dell’attrice, Giuliano della Rovere) e dell’amicizia con l’umanista Pietro Bembo.

Tanta storia raccontata con il sorriso e resa intellegibile al grande pubblico.

E poi si vede tanta Ferrara, soprattutto dal cielo, bellissima nelle sue geometrie regolari. Una piacevole riscoperta anche per i ferraresi.

Foto di Valerio Pazzi

100 anni con Lorenzo Milani. Un incontro per conoscerlo meglio. Attraverso le sue lettere

100 anni con Lorenzo Milani. Un incontro per conoscerlo meglio. Attraverso le sue lettere.

Alla canonica di Sant’Agostino di Ferrara si è tenuto un interessante incontro dal titolo “100 anni con Lorenzo Milani… un cammino che continua”.
Di fronte ad una platea di un centinaio di persone, sono intervenuti Nicola Martucci, presidente provinciale Azione Cattolica, Cristiano Zagatti, sindacalista CGIL ex segretario della Camera del Lavoro di Ferrara, Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara e presidente di “Migrantes” e  Luisa Ghezzo, insegnante.

Il centenario della nascita del priore di Barbiana incrocia un altro centenario, la morte di don Giovanni Minzoni di Argenta, assassinato dalle squadracce fascisteSe per Giovanni Minzoni è stata aperta la causa di canonizzazione, per Lorenzo Milani no. Come don Minzoni, anche don Lorenzo è stato un profeta che ha lavorato sulla parola, un anticipatore, un facilitatore, un maestro.

Lettere di Lorenzo Milani, a cura di Michele Gesualdi, prefazione del Cardinale Matteo Zuppi, San Paolo Edizioni, 2023

L’occasione del centenario è per tutti motivo di conoscerlo meglio nella sua autenticità. Don Milani non va citato, ma rilanciato e vissuto.
Qual è la teologia di don Lorenzo?
Ce ne si accorge leggendo alcune sue lettere che sono state condivise durante la serata, perché è vero che tanto è stato scritto su di lui, ma per approfondire il suo pensiero, per capire il vero don Lorenzo credo sia fondamentale la sua corrispondenza, le tante lettere da lui scritte durante la sua breve vita.

La pubblicazione dell’opera omnia del 2017 dei Meridiani Mondadori ha raccolto oltre un migliaio di lettere che si possono dividere in due gruppi: quelle scritte ai famigliari e quelle indirizzate ad un esteso gruppo di corrispondenti. Di quelle lettere, nel 1973, la madre Alice curò una raccolta che ne conteneva 175.
Proprio le parole della mamma ci hanno guidato nella preparazione di questo incontro: “Tanti hanno scritto della durezza, dell’ironia, della spietatezza di mio figlio, uomo e prete e per un verso hanno ragione … voglio che Lorenzo sia conosciuto meglio, che si dica anche della sua allegrezza. Mi preme che si conosca il prete, quel sacerdote unico che Lorenzo è stato … mi preme che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa; e che anche la Chiesa renda onore al lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire, ma che gli ha dato il sacerdozio e la forza di quella fede che resta per me il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà il prete che Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche il resto.

Don Lorenzo ha scritto un solo libro, Esperienze Pastorali, perché il più famoso Lettera ad una professoressa è frutto della scrittura collettiva della Scuola di Barbiana. Anche il volume L’obbedienza non è più una virtù è la raccolta dei documenti del processo di don Milani in riferimento alla lettera che scrisse ai cappellani militari.

Il primo ospite, il professor Nicola Martucci, espone brevemente il contesto storico in cui visse don Lorenzo: nasce il 27 maggio del 1923 a Firenze, dove entra in seminario nel novembre del 43 e viene ordinato prete a luglio del 1947. L’epoca in cui don Lorenzo matura la sua vocazione e sceglie di perseguirla corrisponde al termine del secondo conflitto mondiale e alla successiva ricostruzione nazionale: un tempo in cui la chiesa vive, grazie al suo ruolo peculiare in tale ricostruzione (presenza nell’assemblea costituente, partito guida del paese di matrice cattolica la Democrazia Cristiana, presenza capillare sul territorio grazie al sistema delle parrocchie e alla vitalità dell’associazionismo laicale) il sogno di una nuova cristianità. Questo progetto di una società fondata sui valori cristiani e caratterizzata da una cultura dominante che prende spunto dagli stessi valori si infrange sulla realtà dei mutamenti sociali che presto investono anche l’Italia.

Con il processo di modernizzazione e sviluppo industriale crescono, soprattutto in certe zone del paese e in determinati ceti sociali, benessere e reddito. Don Lorenzo dal 7 dicembre del 1954 viene mandato “in esilio” a Barbiana dal cardinale Florit. Qui decide di prendersi cura dei poveri figli degli abitanti del piccolo borgo sulle montagne fiorentine.
Il 28 ottobre del 1958 è eletto papa Giovanni XXIII, che da pontefice inatteso e visto dai più come “di passaggio”, si rivela il grande visionario che decide e da avvio al Concilio Vaticano II, convinto, grazie alla sua esperienza “cattolica” di Chiesa che fosse necessario un “aggiornamento” nella vita della Chiesa e della sua azione pastorale, e che fosse oramai improcrastinabile un cambio di paradigma nella relazione fra la Chiesa e il mondo.
Giovanni XXIII inizia un processo che porta la Chiesa universale a guardarsi allo specchio, a cercare le sue origini per chiarire la propria identità e potere così dialogare al meglio con il mondo nel quale vive e che rappresenta luogo di manifestazione e di salvezza di Dio.

Durante l’incontro vengono citati alcuni  contemporanei di don Milani e a lui legati, tra i quali un altro prete “scomodo”, don Primo Mazzolari. Cremonese, calato a pieno nel suo tempo. Don Mazzolari visse il suo ministero mettendo al centro temi di grande attualità e pregnanza evangelica come l’amore verso i poveri, l’attenzione ai “lontani”, la vita e l’identità della Chiesa, la pace.
Si da lettura della lettera indirizzata a don Piero, in cui Lorenzo risponde all’amico prete che per lui era impossibile, come gli avevano chiesto, difendere i padroni industriali, mentre i lavoratori erano privi di diritti. Porta l’esempio di uno dei suoi ragazzi che ha cominciato a lavorare a dodici anni nell’industria tessile a Prato, senza assicurazione, esposto agli infortuni, con un orario di lavoro di dodici ore.

Il sindacalista Cristiano Zagatti parla di una sua passata esperienza in cui ha incontrato per diverso tempo gli studenti delle scuole superiori. In quelle occasioni rimase molto stupito nel vedere l’ignoranza dei ragazzi sull’esistenza dei diritti dei lavoratori e sulla possibilità di espressione nei luoghi di lavoro.
Per spiegare loro come affrontare il mondo una volta fuori dalla scuola, utilizzò argomenti concreti, partendo dal vissuto dei ragazzi stessi: riflessioni sull’organizzazione del loro istituto (i rappresentanti degli studenti e dei genitori, ad esempio) o la programmazione della rete dei mezzi di trasporto a disposizione degli studenti e così via. Così come si affrontano i problemi scolastici attraverso i rappresentanti di istituto, il sindacato è luogo in cui l’unione è il mezzo per affrontare i problemi dei lavoratori.

L’intervento del vescovo Gian Carlo Perego è introdotto dalla lettura della lettera ai sacerdoti della Diocesi fiorentina, indirizzata, per conoscenza, anche al Cardinale Florit. In questa lettera, scritta a quattro mani con don Bruno Borghi (che sarà il primo prete operaio italiano), i due prelati esprimono profondo dissenso per le dimissioni non motivate di mons. Bonanni dal suo incarico di rettore del Seminario Maggiore di Firenze.

Il vescovo Perego, riprendendo il contesto già spiegato da Martucci, ricorda  alcuni testimoni chiave del momento storico in cui operò don Milani: Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze, don Primo Mazzolari, il presbitero intellettuale ed editore Ernesto Balducci e don Bruno Borghi. Queste persone, nonostante la Chiesa istituzionale fosse composta da cardinali non proprio aperti a quello che il Concilio Vaticano andava facendo, Costituivano nella Firenze di quel tempo un laboratorio di pensiero e di apertura al dialogo che dovrebbe vivere anche oggi: la capacità di coinvolgere i laici.  Il vescovo Perego porta come esempio il sindaco La Pira, che nella costruzione di nuovi quartieri di Firenze, si preoccupava di edificare prima i centri di aggregazione, di cultura e i servizi, poi le case, progettate a non più di quattro piani, per favorire il senso di comunità tra le famiglie.

Nell’ultimo intervento Luisa Ghezzo, parla del progetto Erasmus, a cui ha partecipato a Parigi, nel 2002. Di primo acchito ci si potrebbe chiedere come questa esperienza possa essere inerente alla metodologia di Don Lorenzo Milani. Leggendo però le lettere, ci si rende conto come Il priore di Barbiana, insegnando ai suoi ragazzi le lingue europee per mandarli in viaggi studio-lavoro nelle città d’Europa e non solo, sia stato un precursore del progetto Erasmus.

Il nome del programma deriva dall’umanista e teologo olandese Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536), che viaggiò diversi anni in tutta Europa per comprenderne le differenti culture. L’idea di permettere lo scambio tra studenti europei ebbe origine nel 1969, grazie all’intuizione dell’italiana Sofia Corradi (soprannominata “Mamma Erasmus“), pedagogista e consulente scientifico della Conferenza permanente dei rettori delle università italiane: questo ruolo le permise di far conoscere la sua idea in ambito accademico e istituzionale. Oggi il progetto ha consentito ad oltre mezzo milione di studenti italiani di visitare stati all’interno e all’esterno dell’Unione Europea.

Luisa Ghezzo condivide alcune lettere inviate da Don Milani alla professoressa Elena Brambilla, e una al maestro Mario Lodi, pedagogista e insegnante di scuola elementare che ha ridisegnato il valore educativo della scuola cambiandone aspetti e metodologie.
Elena Pirelli Brambilla, facoltosa amica ed estimatrice di don Milani e della sua scuola, appartenente al gruppo di cattolici progressisti con cui i Milani erano entrati in contatto, per affinità di interessi culturali e di impegno sociale, è docente di Lettere e filosofia presso l’Università degli Studi di Milano negli anni ’60, moglie dell’amministratore delegato della famosa società Pirelli.

Nella prima lettera Don Milani chiede a Elena se può regalare ai ragazzi della scuola, un corso su giradischi di lingua tedesca. Nella seconda, datata 4 giugno 1963, Don Lorenzo sta organizzando il viaggio a Parigi di 5 ragazzi e chiede ad Elena se ha conoscenze di persone francesi che possano parlare in francese con i ragazzi.
Nella terza lettera dell’ 11 settembre 1966, Don Milani racconta ad Elena che finalmente riesce a far partire per l’Inghilterra Carla, la prima ragazza della scuola di Barbiana ad andare all’estero.

Luisa Ghezzo spiega poi che proprio nel 2023 cadono i vent’anni dalla sua partecipazione al Progetto Erasmus. All’inizio del mese di agosto si è tenuto in Sardegna un incontro con gli studenti che erano con lei a Parigi nel 2002. Ha ritrovato i suoi amici di allora cui ha chiesto un commento sul significato che ha avuto per loro vivere un anno in Erasmus. Ne è uscito un breve documentario intitolato “Se tutti facessero l’Erasmus non ci sarebbe la guerra”, una frase pronunciata da una sua compagna di studi irlandese molto simile alla conclusione della lettera indirizzata dai ragazzi di Barbiana a Mario Lodi.

Lampedusa meravigliosa.
Gesti straordinari di persone normali: una piccola isola contro il cinismo della politica

Lampedusa meravigliosa. L’ Amore vincerà sull’odio.

Non abbiamo ancora ben chiaro, a questo mondo, la potenza di alcune forze che si sprigionano dagli esseri umani in determinate circostanze.
O anzi, è più corretto dire che non indaghiamo abbastanza quelle che non fanno notizia, quelle del bene.
Quanto possano essere feroci in guerra gli uomini, lo sappiamo. Quanto siano capaci di infliggere sofferenze purtroppo, anche.

Ma ad esempio, abbiamo davvero capito quanto potentissimo amore per il prossimo sia esploso nella piccola, benedetta isola di Lampedusa in questi giorni?
Da chi si è gettato in acqua per salvare persone disperate, aggrappate alle rocce di costa Tabaccara, migranti che stavano per affogare proprio quando toccavano già la terra, a chi ha aperto la propria casa per condividere un piatto di pasta con questi viaggiatori erranti del nostro tempo che giravano affamati e sperduti per i vicoli. Senza conoscerli prima, senza guardare il colore della loro pelle, con l’unica paura che tutti ne avessero avuto abbastanza dopo tutto quello che avevano passato, in terra e in mare.

Farebbe molto bene a tutte e tutti noi, nutrire un po’ le nostre anime guardando i volti, lo sguardo, di questi isolani. Togliendo di mezzo ogni romanticismo, e concentrandoci proprio sulla potenza, sulla forza che sta intorno a questi atti, a questo modo di intendere lo stare al mondo.

Lampedusa in questi giorni si è riempita di migliaia di piccoli gesti, visibili ed invisibili, pieni di un altro mondo possibile. Un altro modo di intendere il perché di un’incontro così irrituale, per qualcuno come i turisti, forse unico e irripetibile, con quegli esseri umani che vengono dal deserto e dal mare, da paesi lontani. Ognuno di quelli che li hanno compiuti, quei gesti di cura e di amore verso chi aveva bisogno di aiuto, non pensa in cuor suo di essersi trovato lì per caso. Troppo grandi le forze che vengono messe in gioco, che si palesano, grazie ad un abbraccio con chi ha ricevuto solo bastonate fino ad allora, una bottiglietta d’acqua data in mano, con un sorriso, invece che lanciata in mezzo alla massa, come fossero animali di uno zoo.

Stava andando a cena con gli amici, Antonello Malta, vigile del fuoco, quando si è trovato davanti una decina di ragazzi del Burkina Faso che chiedevano qualcosa da mangiare. “Uno di loro si è perfino inginocchiato. Erano stremati” racconta Antonello. “Avanti ragazzi, tutti in veranda che adesso mangiamo!”. E con la madre ha organizzato una bella spaghettata. “Ma tutti i lampedusani lo stanno facendo” ci tiene a dire. Il selfie che lo ritrae insieme agli ospiti speciali, attorno al tavolo, felici, rende più di qualsiasi parola.

“Servono scarpine per bambini, chi ne ha le porti in negozio” scrive Anna sulla chat di wazzup.

Gesti immensi, che paragonati al cinismo con il quale la “politica” affronta queste sfide, davvero sembrano compiuti da giganti. Ma non è il caso qui di fare questi paragoni: chi ha fatto e fa tutto questo perché “sente” un altro in difficoltà, non va raffrontato a chi non sente nulla.
Una condizione, quella dei “ciechi e sordi” alle sofferenze altrui, così terribile da far provare pietà per loro: quando mai potranno, coloro che stanno tutto il giorno a pensare alle navi militari che devono affondare i barchini, ai consensi da prendere a seconda di quanti esseri umani sono capaci di respingere in mare o di far chiudere in un lager, provare la gioia dell’aver aiutato, dell’aver curato?

E’ il privilegio questo, della gente normale. Che compie gesti come questi, perché gli viene dal cuore. “Sono come noi, potrebbero essere fratelli, madri, padri, figli. Sono come noi”, ripete un ragazzo lampedusano con una bandana nera e la candela in mano, mentre partecipa alla fiaccolata in memoria di Mama Traorè, cinque mesi, annegata davanti agli occhi della sua giovane mamma proprio davanti al molo.

Il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, ha indetto il lutto cittadino per questa piccola preziosa vita andata persa tra le onde. “Per tutti i morti in mare, che sono i nostri morti” dice, mentre apre la processione insieme a Don Carmelo, il parroco, e a centinaia di concittadini . Il Sindaco ha anche dichiarato che “serve una Mare Nostrum, una missione militare in mare per soccorrere i naufraghi senza che siano costretti ad ammassarsi a Lampedusa, ma possano essere trasportati direttamente nei porti siciliani” e ha aggiunto una volta si pensava che le ong fossero un pull factor, ma non è vero. Dovremo collaborare tutti insieme, chiedere il loro aiuto”.

L’amore, la cura. Se fosse questo l’approccio anche istituzionale, il raziocinio di una politica pragmatica per affrontare la questione, ne uscirebbe finalmente risanato. Si toglierebbero le scorie ideologiche che fino ad ora hanno solo prodotto caos e sofferenze.

Molti migranti in questi giorni girano per l’isola. L’altra sera si sono uniti in un ballo liberatorio insieme a turisti ed abitanti, dopo l’orrore patito in Libia e in Tunisia. Si è scaricata la tensione, insieme, e la musica è una terapia speciale. L’amore e la cura. Il contrario dell’odio e della paura. “Paura che non bisogna avere la tentazione di cavalcare” dice il Presidente Mattarella.

Per fortuna che c’è Lampedusa a renderci un grande paese capace di piccoli gesti straordinari.

Nota: Questo articolo di Luca Casarini è uscito ieri, il 16 settembre, con un altro titolo, sul quotidiano l’Unità.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Luca Casarini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Diario in pubblico /
Vivere col rimbombo

Diario in pubblico: vivere col rimbombo.

L’è dura!!!! Nella calda giornata di questo settembre fuori dalla norma, aspetto con timore, quasi paura, ciò che dovrò sentire dagli implacabili lavori del parcheggio in costruzione che alla fine mi entrano addirittura in casa. Le note profonde della voce del capocantiere sostituiscono ormai i tonfi ritmici dei macchinari. Discute, urla. bestemmia alternandosi con un’altra voce più umana, e tutto mentre faticosamente tento di ristabilire un contatto più armonioso col mondo e con questa non voluta esperienza.

Tutto inutile! Come nel più profondo girone dell’inferno sono punito chissà per quale orrendo peccato commesso e il giusto contrappasso è il rimbombo eterno. Quel che mi stupisce, però, è l’indifferenza con cui il vicinato accoglie lo stravolgimento (son sei mesi) del proprio ritmo vitale. Le “autorità” tacciono.
Ho sperato di contattare la sovrintendenza ai beni artistici e ambientali essendo il palazzo in cui vivo dichiarato d’interesse nazionale. Silentium. Voci annoiate mi rispondono dall’ufficio. Insomma, la “naturale” reazione del servizio pubblico.

Aggiusterò a mie spese la cornice ottocentesca del quadro che le vibrazioni hanno staccato dal muro, cercherò di resistere e di farmi una ragione che la proprietà (così viene chiamata dagli operai) abbia la bontà di contattarmi. Ma credo sia una pia illusione.

Domanda indiscreta. Ma i grandi architetti, i prof. universitari di architettura hanno consapevolezza di questo lavoro? Hanno constatato quali novità (!) abbia portato la risistemazione di un intero quartiere?

E mentre la pioggia cade s’affievolisce il rombo. Tregua o resa ai diritti della natura?

Tra percorzo, resistenza, social, femminicidi, sbarchi, Giorgia ed Ely… guardare un telegiornale è un’impresa difficilissima: come seguire i 5 minuti del Vespa nazional-ortodosso. Perfino la- una volta- stimata Gruber crolla con la perfida intervista alla purtroppo debole Schlein. Mi rifugio allora tra i libri e ammasso le ultime novità, sperando che la sistemazione dei miei libri offerti alle biblioteche pubbliche abbia una risposta e un fine “ferrarese”

Va molto la parola ‘mago’ e non a caso, dopo i maghi classici da Thomas Mann a Coimbin o quelli più reali e amati, cioè i giocatori del calcio, ecco l’ultimo romanzo di un bravo scrittore, Emanuele Trevi, La casa del mago (Ponte alle Grazie, Milano, 2023). L’argomento a me molto caro perché vissuto di persona parla di un guaritore d’anime il padre dello scrittore psicanalista junghiano e quindi non a caso questo romanzo si pone tra le fondamentali scoperte e prezioso tesoretto di questa annata culturale.

Altro tema svolto con classe e consapevolezza è quello affrontato da una scrittrice israelo-francese Anne Berest, La cartolina (edizioni e/o, Roma, 2022). Una cartolina mette sulle tracce dei parenti morti ad Auschwitz la scrittrice che rivive così gli ultimi cento anni della sua famiglia. Straordinario.

Così mi trascino tra i rimbombi, sperando che nella mente tutto s’aggiusti senza provocar altri danni oltre quelli dell’età.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Gli Spari sopra /
I giovani? Possono solo fare meglio di noi

Siamo sicuri che la generazione di oggi sia peggiore della nostra?

Noi siamo quelli delle grandi compagnie, dei motorini, della socializzazione, dell’ adolescenza infinita e degli ultimi giochi antichi, ma poi siamo diventati grandi. O avremmo dovuto diventarlo. Ora i cinquanta, sessanta e settantenni sono la classe dirigente di questo mondo. Sono quelli che se hanno lottato, lo hanno fatto infinitamente meno delle generazioni precedenti, quelle nate dalla guerra e dalla dittatura, spesso col condimento della fame.

Ora ci rivolgiamo ai ragazzi come ad entità a sé stanti, come fossero esseri catapultati su questo pianeta da Marte. Ma i genitori siamo noi, non gli alieni. Gli adulti o presunti tali sono quelli che decidono, spesso dirigono, altre volte supportano i padroni del vapore. Non raccontiamoci che Gesù Cristo è morto dal freddo, lui che era il padrone della legna.

Sono mille i difetti che noi vediamo nei giovani figli di altri, ovviamente mai nei nostri. Noi babbioni siamo un flusso continuo di lamentele, sono maleducati, sono sdraiati, non hanno voglia di fare un cazzo, fosse mio figlio il cellulare non lo vedrebbe più eccetera, una sequela di masturbazioni mentali sul come era bello il mondo di ieri in confronto al mondo di oggi.

Ricordo agli smemorati che alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta le strade traboccavano di eroina, la violenza era ovunque, addirittura intrinseca nelle periferie e nelle borgate. Meglio o peggio di oggi? Non lo so, non ho il calibro per determinarne lo spessore.

Certo in molti avevamo grandi sogni sul futuro del mondo, ma quali di questi abbiamo realizzato? (Forse solo la S.P.A.L. in serie A, ma quella è un’altra storia, grande e piccola)

Siamo quelli che hanno assistito inermi e in silenzio allo smantellamento delle utopie, in cui dicevamo tanto di credere. Abbiamo visto il cadavere delle nostre idee galleggiare nel fiume per poi riemergere sulla spiaggia del cambiamento pimpante, arzillo e in doppio petto. Abbiamo seppellito le idee di rivolta e di ribellione sotto un confortante e inevitabile mucchio di terra chiamato “tengo famiglia”.

Il capitalismo si è mangiato la speranza di un mondo migliore senza che noi ce ne accorgessimo, oppure ce ne siamo accorti ma abbiamo continuato, fischiettando, a innaffiare il nostro orto.

I giovani sono figli nostri, sono una speranza, non sono il problema. Sono quelli a cui noi, che siamo quelli di erano meglio i nostri tempi, abbiamo lasciato un mondo di merda.

Un globo terracqueo (cit.) unipolare, unidirezionale, dove i potenti (spesso nostri coetanei) spingono bottoni, facendo le guerre, per saturare i propri patrimoni e conti in banca, adiacenti tra buoni e cattivi. Dove nel continente più ricco del mondo vivono le persone più povere, dove lo sfruttamento è da secoli sistema e si pretende pure che chi muore di fame lo faccia in silenzio, senza scappare né protestare.

Questo mondo è gestito da gente nata negli anni ’50 e ’60. Con tutto ciò cosa c’entrano i giovani? C’è qualcuno che me lo spiega?

Ultimamente, pur essendo un nostalgico della mia adolescenza, faccio fatica a sopportare i paragoni tra le epoche. In cinquant’ anni il mondo è cambiato talmente in fretta che i film di fantascienza della nostra gioventù sono invecchiati male, salvo poche eccezioni.

In una cosa le generazioni non sono cambiate: le colpe dei padri vengono scaricate sui figli, per pulirsi la coscienza e lasciare loro le scorie puzzolenti di una decadenza causata principalmente da noi.

Ma io ho lottato, ho fatto, ho cercato … .Ognuno parlerà con la propria coscienza. I giovani possono solo fare meglio di noi.

Il Ferrara Film Festival entra nel vivo – Day 1

L’ottava edizione del Ferrara Film Festival parte in forza, ma l’attenzione è tutta per lui, il Maestro Giancarlo Giannini.

È partito in quarta, il Ferrara Film Festival, giunto alla sua ottava edizione, con il logo proiettato verso l’infinito. Un programma ricchissimo e con grandi novità – vi avevamo avvertiti – che Periscopionline intende seguire al meglio. Tanti gli ospiti nazionali e internazionali, tanti i film in programmazione, molti dei quali premières.

L’apertura è stata eccezionale, a partire dagli incontri allo Studios Lounge live. Ma tutti l’attenzione e l’attesa sono per lui, vincitore di quasi 50 riconoscimenti e oggi con un posto sulla Walk of Fame a Hollywood.

Protagonista della serata inaugurale del Festival, durante la quale ha ricevuto il Dragone d’Oro alla Carriera, inaugura il “Meet the Stars” della kermesse.

Premio alla carriera a Giancarlo Giannini, foto Valerio Pazzi

Eccolo, arriva, passo lento e rassicurante, entra con i suoi capelli canuti ondulati e gli occhi azzurri magnetici. Il magnetismo è nell’aria, il passaggio sul tappeto rosso è leggero.

Lo aspettavano tutti, giovani e meno giovani. Porta con sé la storia del cinema e del nostro paese. Sul palco del Teatro Nuovo ci sono solo due sedie: una per lui, il Maestro Giancarlo Giannini, e una per Anna Bisogno, Professore associato di cinema e televisione all’Università Mercatorum, l’ateneo digitale delle Camere di Commercio italiane, con il non semplice compito di accompagnarlo in un dialogo con il pubblico che sarà un’emozione meravigliosa. Sarà bravissima. L’incontro è avvolgente, caloroso, empatico, intenso, di quelli che non si dimenticano e restano, per sempre, una ricchezza del cuore e dell’anima.

Anna Bisogno e Giancarlo Giannini, foto Valerio Pazzi

Un perito tecnico di formazione che voleva fare grandi scoperte e trovatosi a fare cinema quasi per caso, dopo un articolo 13 di un regolamento militare che gli permise di ottenere un congedo illimitato. E poi Napoli, Roma e l’Accademia d’Arte Drammatica.

Ricorda il teatro e il suo ruolo nel folletto Puck (affidato, prima di lui, quasi sempre a ragazza) in “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare, il “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli, Anna Magnani che voltava le spalle al mondo con i suoi lunghi capelli neri (in “La lupa”, sempre sotto la direzione di Zeffirelli). E ancora Mina e Rita Pavone, che segna l’incontro felice con Lina Wertmüller (nel 1966 gli offre il suo primo ruolo da protagonista nel musicarello Rita la zanzara, al fianco appunto della irrefrenabile Pavone). Lina che per lui era il piacere di vivere e la positività continua.

Quest’uomo trasmette energia pura e gioia di vivere, quella che, racconta, è il regalo che dovremmo farci ogni giorno. Ogni giorno c’è una scoperta, anche piccola, a dare senso alle nostre giornate, piccoli misteri che aiutano a non interrogarsi sul grande mistero sul quale non ha senso interrogarsi. “Sono credente e non ho paura della morte”, dice, “è il percorso naturale della vita stessa. E poi dopo potrò fare tante domande e ricevere risposte”.  Domandarsi perché è la curiosità, il sale della vita, il suo principale ingrediente. “I bambini sono i più grandi e primi filosofi”, sorride, “domandano sempre perché”.

D’altronde il Maestro ha anche scritto un libro, “Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)”, in cui racconta le sue idee, le sue invenzioni, gli aneddoti della sua vita, pubblicato in Italia nel 2014 da Longanesi e vincitore del Premio Cesare Pavese 2015, nella sezione romanzi. Lo sguardo dei bambini ma lo sguardo in generale sulla vita fanno la vita stessa e fanno, soprattutto, l’attore. “Non mi immedesimo mai nei personaggi”, dice, “l’attore è sempre il tramite per raccontare una storia”. Attraverso di lui arrivano le parole.

La passione, poi, deve guidare ogni professione, deve essere motore e nervatura di ogni nostra azione. “Bisogna fare bene le cose, osservare, sbagliare per imparare. Come quando si prepara il sugo al pomodoro” racconta ridendo. “Si guarda la nonna o la mamma e si rifà, ogni giorno si sperimenta, magari con un nuovo ingrediente. Gli errori servono sempre”. Del passato gli mancano tanto anche i sapori.

Emanuela Arcuri. Giancarlo Giannini, Maximilian Law, foto Valerio Pazzi

Coraggio, perseveranza, impegno, studio, dedizione, questo ci pare questo immenso artista, un Uomo innamorato della Natura. “Guardandoci intorno, scopriamo la bellezza, essa sta ovunque”, racconta a un pubblico sempre più ipnotizzato, “nella perfezione degli alberi, delle piccole radici che prendono posizione sulla terra”. Tutto ciò che ci circonda è un autentico miracolo. E lui fa sicuramente parte di questo grande miracolo.

In Comune con tanti ospiti, foto Valerio Pazzi
Emanuela Arcuri, foto Valerio Pazzi

Cari lettori, ci siamo concentrati sul Maestro. Ma, ovviamente, alla sua premiazione è seguita una proiezione, quella, in anteprima europea, di “Sweetwater”, preceduta dall’incontro con il regista argentino Martin Guigui e l’attore Jeremy Piven. Ispirato a una storia vera, è un film sul giocatore di basket professionista Nathaniel Clifton (affettuosamente conosciuto come ‘Sweetwater’ in famiglia e tra gli amici, probabilmente per il suo amore per le bevande analcoliche e il carattere calmo), il primo giocatore afroamericano a firmare con la National Basketball Association (NBA) negli anni ’50. Il regista Martin Guigui, che è anche l’autore della storia, ha avuto l’idea per il film mentre ascoltava alla radio i playoff NBA tra New York Knicks e Indiana Pacers a South Burlington, nel Vermont, mentre era seduto nel parcheggio del famoso negozio di forniture Staples. ‘Sweetwater’ è interpretato da Everett Osborne.

Sito del Ferrara Film Festival

 

Fotografie di Valerio Pazzi

Per certi versi /
Il mare non ha tempo

Il mare non ha tempo

(In memoria di mio babbo)
Il mare non ha tempo
Lo emargina
Dalle sue pagine
Rotocalco
Uno spazio si diffonde
Nel guardare
Mi sento inadeguato
Mi sento io
Dopo tanto tempo
Ma ho perso
Tranciata
Una parte di vita
È una lotta
Tra ricordare
E scordare
Lo svago
È oro colato
Non ha tempo
Il mare
Non ha tempo
E la casa era chiusa
Tutta in ordine
Come se nulla
Fosse stato
C’eravamo noi
Addietro
C’era mio babbo
Tutto è in ordine
La pineta
Non profuma
L’erba è finita
I daini
Girano in paese
Nei campi verdi
A brucare
No
Non ha tempo
Il mare
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Numeri /
Liberté (de peu), disparité, avidité:
i paradigmi della società neoliberista

Liberté (de peu), disparité, avidité: i paradigmi della società neoliberista

Secondo uno studio di World Ultra Wealth realizzato da Altrata, i ricchi sono coloro che posseggono come patrimonio (non come reddito) almeno un miliardo di dollari (mille milioni), mentre i super- ricchi (395mila persone nel mondo) ne posseggono almeno 30, per un totale di 45.430 miliardi di dollari, mentre i ricchi (da 1 a 30 miliardi) ne hanno “solo” 36.200 miliardi. In totale sono 81.630 miliardi. Se fossero redistribuiti a tutti gli 8 miliardi persone andrebbero 10mila euro a testa.

Gli ultra ricchi in Italia sono 8.930 persone per una ricchezza totale di 978 miliardi, circa il 10% del totale nazionale, in media hanno 110 milioni a testa. Il maggior numero è in Usa (130mila), seguito da Cina (47 mila), Germania (quasi 20mila), Giappone (quasi 15 mila), UK (14mila), Canada (13.320), Hong Kong (12.615), Francia (11.980), Italia (8.930) e India (8.880). Anche nel 2022 il patrimonio dei super ricchi è cresciuto e si trova ora al 10,6% di tutta la ricchezza mondiale.

Da 30 anni sono in continua crescita anche perché gran parte di questa ricchezza è frutto della distorsione dello sviluppo capitalistico. Al di là dell’ideologia neo-liberale, che si fonda sul libero mercato e la concorrenza, gran parte di questi patrimoni (sia in Occidente che nei paesi autocrati o dittatoriali) è frutto di monopoli, soprattutto artificiali, di rendite, di sistemi economici distorti al riparo di una vera concorrenza e di leggi che riducono sempre più l’imposta di successione, la progressività, per non dire dell’evasione nei paradisi fiscali.

L’Occidente è considerato più “avanti” di altre aree mondiali da molti nostri esperti per le sue maggiori libertà individuali che consentono a ciascun individuo di poter godere di molte libertà, rischiare, mostrare i propri talenti ed essere appunto “liberi”. Ma se questa libertà di arricchirsi non viene temperata da leggi (antitrust, limitazione dei monopoli, imposte sull’eredità e progressive) in modo che gran parte della ricchezza generata si traduca in diritti sostanziali per tutti come lavoro, salute, scuola, pensioni, sostegno ai poveri (cioè in welfare sociale distribuito a tutti), la deriva è verso un mondo in cui le disuguaglianze superano quelle dei faraoni o degli imperatori di un tempo e, come tale, la società “liberale”, cioè basata sulla mera libertà individuale, non sostenuta dalla “sostanza” (direbbe Aristotele), diventa sempre più una formalità che troverà sempre meno consensi in quanto la grande maggioranza sarà sempre “più libera ma più povera delle cose che contano nella vita”.
Le previsioni sono di un ulteriore aumento dei super ricchi in tutto il mondo, ma cosa ce ne facciamo di un mondo così demenziale?

E l’Occidente che ha diffuso questo modello capitalistico e predatorio ovunque, non sarebbe ora che invertisse questo trend, proprio in nome dell’etica, dell’”egalité, fraternité e liberté a cui continuamente si richiama con patenti di valori che non avrebbero le società dittatoriali?

Storie in pellicola /
Se basta un minuto…

“Ce l’hai un minuto?”: un Corto di Rai Cinema in esclusiva assoluta in streaming free su Rai Cinema Channel. Sono passati alcuni anni, ma sempre divertente.

La nascita del cinema coincide con l’uscita del film La sortie des usines” (“All’uscita dalla fabbrica”), dei fratelli Lumière, il 22 marzo 1895. Durata 49 secondi. Anche se alcuni storici, come Jean-Claude Morin, indicano che il primo film presentato al pubblico daterebbe 1891, ovvero il Dickson Greeting” – un piano fisso di 10 secondi – di Laurie Dickson, l’assistente di Thomas Edison che aveva ideato il cinetoscopio (un dispositivo destinato però solo alla visualizzazione individuale), resta il fatto che la breve durata caratterizzava il cinema degli esordi. Breve sarebbe stato fino agli anni Trenta.

Quello che oggi è il cortometraggio – la definizione varia da paese a paese, in Francia lo sono i film che durano meno di 40 minuti, in Italia quelli fino a 52 minuti – resta ancora un prodotto relegato a festival dedicati e specializzati, tranne piccole eccezioni su alcune piattaforme. Se non si può giudicare un film dalla durata, ammettiamo che a noi di Periscopio piacciono molto, non certo perché di pochi minuti, ma perché sono chiari, concisi, incisivi, precisi spesso quasi chirurgicamente e mirano direttamente al cuore e alla mente. E poi sono sempre di più il prezioso trampolino di lancio per giovani autori.

In un recente Speciale su Periscopio (lo trovate in fondo alla Homepage) abbiamo fatto una prima carrellata di alcuni corti recensiti, ma vi abbiamo annunciato essere solo l’inizio. Corti che passione, infatti, ci piacciono davvero tanto, e nella nostra continua ricerca scopriamo delle perle. Per cui intendiamo continuare.

Oggi è il turno di “Ce l’hai un minuto?”, di Alessandro Bardani (oggi al cinema con “Il più bel secolo della mia vita”), con Giorgio Colangeli e Francesco Montanari, nove minuti di allegria e simpatia prorompente. Anche se del 2012, è un piccolo momento di svago da non perdere, peraltro interamente visibile, on line e gratuitamente [Qui]

Candidato al David di Donatello 2012 come miglior cortometraggio, l’opera ha ricevuto oltre 50 riconoscimenti nazionali e internazionali (nel 2013, è proclamato da Cinemaitaliano.info, come “Corto più premiato in Italia dell’anno”), vincendo anche il premio “Il Giro del Mondo in 80 Corti”, svoltosi in 10 tappe, con la partecipazione di opere da tutte le parti del globo, durante l’Amarcort Film Festival, nell’edizione 2016.

Oggi piace ancora molto. Una commedia arguta, intuitiva e concisa che scherza con le barriere della comunicazione, soprattutto linguistiche.

“Ce l’hai un minuto?”, questo chiede Oreste (Giorgio Colangeli), un simpatico e loquace signore romano, al frettoloso Madhi (Francesco Montanari), un ragazzo palestinese, prima di fornirgli le indicazioni stradali necessarie per arrivare dalla periferia romana fino in Palestina. Non sarà un racconto semplice…

L’incipit pare quasi condurre nel bel mezzo di un thriller, grazie anche al montaggio alternato che fa vedere e vivere in parallelo la folle corsa di un furgoncino, con un mediorientale dall’aria nervosa alla guida, che fa pensare al peggio (Francesco Montanari) e l’indolenza di un placido signore dai capelli bianchi che inganna il tempo, osservando la strada dal tavolino di un bar. E che, scopriremo, scrive e legge in arabo.

Due persone che non si sarebbero mai incontrate ma che, grazie alla richiesta di una semplice informazione, vedono trasformare tale fortuita circostanza in una divertente commedia degli equivoci, che per una parola pronunciata (o interpretata) male vede mutare strade e località dei dintorni di Roma in un immersivo tour dell’Asia Minore. Con incredibili dettagli sui porti, i traghetti, i personaggi da coinvolgere, le soste da fare, i bivi ai quali girare.

L’idea nasce, una sera d’estate, una di quelle sere che trascorri a chiacchierare con un amico passando dai ‘locali a Roma’ al ‘G8’”, dice il regista in un’intervista. “Ero con Andrea Rappartipoli… un tizio, improvvisamente si avvicina a noi trafelato, di corsa e affannato ci chiede un’indicazione porgendoci un foglietto, lì però non c’era scritta la destinazione che ci aveva chiesto lui ma un’altra, completamente diversa… questo misunderstanding ci ha fatto prima sorridere, poi tutto d’un tratto mentre eravamo sulla strada di casa Andrea diventa serio e mi dice: “Questo è un corto!”. Da lì è iniziato questo fantastico cammino… Abbiamo scritto il soggetto e poi con Luca Di Prospero ho scritto la sceneggiatura”, conclude.

Un lungo viaggio arricchito da divertenti aneddoti e malinconici ricordi, un’evasione dalla solitudine che si trasforma in un incontro surreale e ironico tra i due empatici protagonisti. Con tanto di piccola sorpresa finale, che, battuta dopo battuta, fa tornare a sorridere.

Ce l’hai un minuto? di Alessandro Bardani, con Giorgio Colangeli, Francesco Montanari, Marco Rulli, Alessandro Bardani, Mary Aliquò, Vittoria Spinella, Italia, 2012, 9 minuti

Backstage

GIÙ LA MASCHERA DEGLI IMBONITORI.
Ecco il programma della città da amare…

Giù la maschera degli imbonitori: ecco il programma della città che vogliamo.

La città che vogliamo ha le scuole aperte tutto l’anno, anche d’estate, e tutto il giorno, anche di pomeriggio. I ragazzi non vengono più risucchiati nell’imbuto della solitudine digitale perché nella scuola, terminate le lezioni, sono accolti, socializzano tra pari, trovano una sponda nello studio, praticano gratuitamente attività sportive, ricreative e culturali.

Quando i genitori finiscono di lavorare, si torna a casa assieme.
Ognuno fa il suo mestiere. Le istituzioni assicurano servizi e welfare, come dovrebbero. I genitori lavorano e fanno i genitori, e sulle donne non grava più il peso defaticante del welfare famigliare che le sfianca e, oltretutto, le discrimina. Più servizi, più Fil, più occupazione femminile, più Pil, che alla fine è quello che (solo) pare contare nei report. Si corre perfino il rischio che cresca la natalità e che si alzi di qualche grado la temperatura del gelo demografico in cui siamo sprofondati da tempo ormai.

La città che vogliamo ha cacciato maghi, illusionisti e imbonitori. Con un profluvio anestetico di volute roboanti e di eventi spettacolari hanno dato esibizione della propria grandezza muscolare, dietro cui però c’è il nulla se non il tentativo goffo di nascondere gli olezzi che provengono delle stanze del palazzo del potere, usando la leva della distrazione di massa. Ma le maschere sono cadute, finalmente.

La città che vogliamo mette al centro i Quartieri, la partecipazione e valorizza il proprio tessuto sociale, composto da associazioni, piccole attività imprenditoriali, artigianali e culturali. Le ascolta, le incontra, si cresce assieme. Di certo non le spegne con la scusa del decoro, come invece succede oggi.

I Quartieri, oggi dimenticati, saranno il cuore di questa città.
In ogni quartiere ci saranno assemblee periodiche aperte ai cittadini, e parteciperanno anche gli amministratori per un confronto continuo che non si chiuda una volta archiviata la propaganda elettorale. Oggi a Ferrara non c’è più uno spazio pubblico dove incontrarsi per parlare, per conoscersi.

In ogni quartiere ci sarà anche un Consiglio dei Ragazzi, i cittadini del futuro e del presente, che con le loro idee potranno essere di grande stimolo per migliorare la città, intanto che imparano le regole della democrazia e della partecipazione.

Nella città che vogliamo il sindaco continuerà, nell’interesse dei minori, a trascrivere i certificati di nascita, nell’attesa di una legge nazionale che garantisca il riconoscimento dei figli di tutte le coppie omogenitoriali.

La città che vogliamo accoglierà gli immigrati come cittadini di serie A, perché sono cittadini di serie A, e di cui tra l’altro c’è anche un gran bisogno, e non li andrà certo a cercare in singolari battute di caccia indegne di un paese civile.

In onore di tutte le donne coraggiose e contro qualsiasi discriminazione, la fermata dell’autobus di fronte al Castello di Ferrara sarà la “Fermata Rosa Parks”.

Se vi piace il nostro programma, condividetelo, passate parola.

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Parole a capo /
Gabriela Fantato: Nel chiarore e altre poesie

La poesia è l’arte della concentrazione, della riduzione. Per il lettore – la cosa più interessante è andare ‘a ritroso lungo il raggio di luce’, cioè ripercorrere le vie per cui si è giunti a questa concentrazione, stabilire in quale attimo, nel frazionamento a noi tutti comune, per il poeta comincia a balenare la luce di un denominatore linguistico.”
(Iosif Brodskij)

Farsi del male

                           a Valeria

Le ferite sono profonde,
quei solchi neri ti attraversano
_ il braccio,
Una scrittura che solo tu
sai tradurre nel silenzio.

Nascondi i tagli
sotto la manica lunga
a chi non vuol sapere.
Scavi, cerchi il tuo nome
nella carne
sino all’ osso sbiancato,
a lui chiedi, come la voce
di una madre perduta
inventi ancora quel tuo gioco
a nascondino.

Piccola, sei piccola
nei tuoi sedici anni contati
al calendario,
attorcigliata al bianco
aspetti che qualcuno venga,
passi di lì,
tra le vene e i nervi fragili,
venga dietro l’angolo
proprio dove stai tu.

Vengo a cercarti senza nome,
e intanto il tuo corpo
lontano, abbandonato
in questa primavera.

(inedita)

 

Nel chiarore

Non so la nudità di un volto
immerso nel chiarore,
non la luce che abbaglia
– alla nascita.

Sul ramo sventola l’allegria
di una foglia piegata
poco prima del volo,
un incolmabile richiamo
a ciò che resta immobile.

Guardo questa distesa
nella fragilità luminescente
preziosi sono i resti di ciò che era
intero, afferrato – nel nulla.

La terra, la terra tutta
è calpestata, divorata
da passi – dove vanno gli umani?
Dov’è la traiettoria
della cometa mentre incontra
la predicazione di un santo?

Improvvisa una musica,
nel tentare l’uragano
di una parola
e domani un temporale
sarà acqua del battesimo.

Nel cavo della mano
gesti possibili, ancora
– non inventati.

(inedita)

***

Poesie da TERRA MAGRA ( Il Convivio editore, 2023)

Ritorni

Dalla spiaggia ritorno sempre
con un sasso, un ramo liscio
o una conchiglia.
Ho pezzi minuscoli
di isole che non ricordo.
Scaglie, ossa persino e
frantumi di colonne.

Stanno nella ciotola, vicini
come bambini nel cortile.

Non so se ricordano il nome che li fece
– interi, la pianta che li univa
e il dolore, prima dell’arsura.

Le voci, certo le voci
le hanno addosso,
una sintassi di calcare e vento.
Le guardo riposare,
non chiedo, non posso sciupare
– il patto.

 

Infanzia della specie

Laggiù nel bianco,
tra il basalto e strati d’arenaria
si affaccia – l’infanzia,
e coltiva ancora il grano
dentro i sogni.

La vita cresce selvatica
dentro ogni perimetro,
le ossa raccolte,
una preghiera semplice,
imparata da piccoli…

Siamo cellule
nell’eco della specie,
un’origine senza un nome,
senza nome.


Custodire

               ai miei figli

I passi non sono più una fuga,
sono echi dentro la testa,
gesti nel bianco delle lenzuola.

Il timore è nato oggi al mondo,
la gioia disegna
il suo nome sul muro,
la mano la tiene, senza
afferrarla mai.

Impariamo la corsa
il primo giorno che siete nati
e siete già qui…
Impariamo il silenzio
e il pianto.

 

Figli

I figli vanno dove nessuno sa,
vengono da un incontro di cellule,
dal caso o da un destino.

Il compito resta ancora
                   sfuggire le trappole,
                  dissodare il terreno
con la determinazione di chi
semina fagioli, ogni anno a marzo.
E non sa se ci sarà la mano
a raccoglierli.

Gabriela Fantato poetessa, critica e saggista, tradotta in inglese, francese, arabo e spagnolo. Suoi testi sono presenti nell’antologia: Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e il poemetto A distanze minime in «Almanacco dello Specchio» (Mondadori, 2010).Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le più recenti: Codice terrestre (La Vita Felice, 2008); L’estinzione del lupo (Empiria, 2012); La seconda voce (Transeuropa, 2018); Terra magra (Il Convivio, 2023).
Ha curato con L.Cannillo La Biblioteca delle voci (Edizioni Joker, 2006). Interviste a 25 poeti italiani. Ha diretto la rivista «La Mosca di Milano». Attualmente è nella redazione della rivista «Metaphorica» (Edizioni Efesto); Ha scritto testi per la musica, andati in scena nei maggiori teatri italiani, con le musiche di Carlo Galante.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

“ITHAKA” il docufilm di Ben Lawrence sulla vicenda di Julian Assange fondatore di WikiLeaks:
Ferrara, 20 settembre, ore 20,30 al Cinema Apollo

Anche Ferrara per Assange

Un gruppo di cittadini ferraresi con il sostegno della comunità Emmaus ha organizzato per mercoledì 20 settembre 2023 alle 20,30 – Cinema Apollo sala 1 (via del Carbone 35 – Ferrara) la proiezione di “ITHAKA”, il film-documentario di Ben Lawrence sulla vicenda del giornalista australiano Julian Assange fondatore di WikiLeaks. Sei invitato a partecipare!

Il film, in lingua inglese sottotitolato in italiano, è stato realizzato e prodotto dalla famiglia di Assange. Un film toccante che racconta la storia e i fatti che hanno coinvolto in modo drammatico il giornalista e editore fondatore di WikiLeaks.

E’ una vicenda che è importante conoscere perchè riguarda sia la vita di una persona e della sua famiglia, sia il nostro diritto ad essere informati dei fatti che accadono nel mondo, da ogni punto di vista e senza omissioni o censure. Julian Assange ha scelto in modo coraggioso di diffondere notizie fondamentali per la comprensione e la valutazione di eventi politici, economici e sociali nel mondo, consentendo ai cittadini di costruirsi una propria opinione. Notizie pubblicate grazie alla rete Wikileaks dalla stampa di tutto il mondo. Per questo tipo di azione è ora rinchiuso da oltre 4 anni – dopo 7 anni trascorsi da rifugiato nell’Ambasciata dell’Ecuador – nel carcere inglese di massima sicurezza Belmarsh (Regno Unito), in attesa di estradizione negli Stati Uniti per una condanna, mai formalmente emessa, di 175 anni di carcere.
E’ questa una punizione “esemplare” che vuole di fatto limitare la libertà di stampa, un messaggio chiaro ai giornalisti: non è permesso rivelare i fatti quando sono scomodi, per il mondo occidentale, USA e Regno Unito in questo caso specifico.
La sua liberazione dovrebbe essere l’obiettivo di ogni cittadino che viene a conoscenza della sua vicenda. Il film è appunto la storia di Julian raccontata da un padre che lotta per la libertà del proprio figlio.
L’iniziativa è realizzata da un gruppo di cittadini ferraresi con il sostegno della comunità Emmaus.
La partecipazione è a offerta libera. È vivamente consigliata la prenotazione inviando una mail a ferraraperassange@proton.me(fino ad esaurimento posti). L’offerta, oltre a coprire i costi dell’organizzazione, permetterà di sostenere altre iniziative di informazione, di volontariato e impegno civile nella nostra città.
Sarà inoltre possibile, nel corso della serata, ricevere informazioni per aderire alla campagna internazionale in difesa di Julian Assange e di un giornalismo libero.
Ferrara per Assange
Per informazioni e per adesioni all’iniziativa (associazioni, singoli, istituzioni):
scrivere a ferraraperassange@proton.me
oppure contattare Simona Massaro al nr. 349-3576390 (Whatsapp)

URGENTE!
Il Marocco è a terra: puoi dare il tuo aiuto in modo diretto e sicuro

🚨🚨🚨 urgente 🚨🚨🚨

Il Marocco è a terra, le famiglie stanno lottando per salvare i propri cari intrappolati sotto le macerie, utilizzando qualsiasi attrezzatura. Danni significativi alle infrastrutture, strade bloccate e la forte presenza di detriti impediscono alle ambulanze di raggiungere i feriti.
E noi abbiamo il dovere morale di rispondere a tale richiesta.

In questi giorni mi sto organizzando con l’aiuto di altri volontari nel portare aiuti di qualsiasi genere di prima necessità il più velocemente possibile alla popolazione della mia terra, che in queste ore sta vivendo una grandissima tragedia. La soglia di mortalità ha superato le 3.000 persone e altrettante sono i feriti.

Se desideri sostenerci per poter fornire aiuto concreto già da subito, potete utilizzare le seguenti coordinate bancarie con la seguente causale: “Erogazione liberale Terremoto Marocco”. Puoi farlo in due modi: 

A ) Il modo più diretto è fare un bonifico al conto corrente italiano dell’attivista Nadia Karouiti che coordina la raccolta in Italia dei beni di prima necessità in costante contatto con l’Associazione Wafaa Without Borders che opera nei villaggi dell’Atlante più isolati.
IBAN: IT73Z0538713003000003576241

Nadia Karouiti
Email : nadinsara18@gmail.com

B ) Oppure puoi versare il tuo contributo utilizzando il conto corrente marocchino della Associazione Wafaa Without Borders
IBAN: ABMMAMC350810000000000861530602

Associazione Wafaa Without Borders
Contatto telefonico in Marocco:
Najia Arjdale
+212601013114

NOTA BENE
Come sempre. quando si tratta di raccolta di beni di necessità e/o di sottoscrizioni in denaro, la redazione di Periscopio verifica attentamente l’attendibilità e la serietà del richiedente, privilegiando i canali non istituzionali, diretti e gestiti da associazioni, gruppi o singoli conosciuti e comunque affidabili.

In copertina: la distruzione provocata dal terremoto della notte tra l’8 e il 9 settembre a Moulay Brahim, in Marocco (foto Vatican News)-

Adolescenti e violenza: cosa ne pensano, come reagiscono, come si difendono: un’indagine Ipsos ActionAid

Adolescenti e violenza: ccosa ne pensano, come reagiscono, come si difendono: un’indagine Ipsos ActionAid.

Com’era facile aspettarsi, l’unica risposta che questo governo poteva dare dopo i fatti di violenza contro le donne di Palermo e Caivano non poteva che essere repressiva. [Vedi anche articolo di Leonardo Fiorentini su Periscopio]

Renato Guttuso, Marsigliese contadina

Senza ascoltare, come scrive la rivista Animazione Sociale“chi ogni giorno ha la mente, il cuore, i piedi e le braccia nelle strade e nelle periferie d’Italia” e che in maniera pressoché unanime sottolinea come “punire quieta l’emotività, ma lascia irrisolti i problemi[Qui l’articolo completo] E senza sforzarsi più di tanto di capire cosa pensano gli adolescenti di quanto è accaduto.

Per questo, assume particolare rilievo l’indagine “I giovani e la violenza tra pari” [Vedi qui] che Ipsos ha condotto per ActionAid, cercando di scattare una fotografia di cosa pensano gli adolescenti sulla violenza, come reagiscono, come si difendono e quale è il ruolo degli stereotipi e dei pregiudizi di genere sulla loro vita. Una fotografia che ci mostra che: 4 su 5 pensano che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole; 1 su 5 pensa che l’abbigliamento o un comportamento provocante delle ragazze possa scatenare una violenza sessuale; 1 su 3 crede che molte persone si identifichino come non binarie/fluide/trans per una moda del momento.

Le cause della violenza

Al primo posto della ricerca Ipsos, realizzata con il supporto dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, come causa di violenza vengono indicate le caratteristiche fisiche (50%), poi l’orientamento sessuale (40%) e l’appartenenza di genere (36%).
Per quanto riguarda i danni invece, il primo indicato dal 27% degli intervistati, senza distinzione di genere, è il malessere psicologico, al secondo posto isolamento e depressione (21%) e al terzo posto disagio e vergogna (18%).

Perché non la si denuncia?

Emerge poi la difficoltà a denunciare. La vergogna di raccontarlo agli adulti è la prima motivazione. Seguono la paura di dirlo, l’inutilità della denuncia, nonché la paura di ulteriori minacce da parte dell’aggressore. Solo un/una giovane su tre (34%) è certo/a di conoscere persone e/o servizi all’interno della propria scuola a cui potrebbero riferire atti di violenza che accadono a sé stessi o ad altri/e. Un altro 36% non saprebbe a chi rivolgersi a cui va sommato un ulteriore 30% di insicuri/e. La fascia d’età 17-19 che appare la più colpita da atti violenti, dato che può derivare da una maggior consapevolezza di quanto viene vissuto.

Ma cos’è per gli adolescenti la violenza?

Per l’80% dei giovani,
quattro su cinque, è violenza toccare le parti intime di qualcuno senza il loro consenso, mentre uno su cinque non riconosce questa violenza. Al secondo posto è considerata violenza picchiare qualcuno, comportamento che registra il 79% dei consensi, in assoluto quello più citato dai maschi. Al terzo posto, con il 78%, fare foto/video in situazioni intime e diffonderle ad altre persone, soprattutto per le ragazze con 84% delle citazioni.

E chi la subisce di più?

Sono le ragazze, più dei ragazzi, a vivere con maggior frequenza atti di violenza tra pari, in qualsiasi forma essa si manifesti
: molto più spesso dei coetanei assistono a gossip, prese in giro, insulti, scherzi, esclusione di persone dai gruppi, a situazioni in cui le parti intime di una persona vengono toccate senza il suo consenso, alla diffusione non consensuale di foto e video di situazioni intime.
Inoltre, le ragazze rischiano più spesso di ricevere molestie verbali mentre camminano per strada, di essere toccate nelle parti intime, di essere vittime di scherzi o commenti a sfondo sessuale e della diffusione di foto/video che le ritraggono in situazioni intime.
I ragazzi invece rischiano principalmente di essere picchiati e le persone transgender/fluide/non binarie di venire insultate.

Le iniziative da attivare tra le mura scolastiche per la prevenzione della violenza tra pari?

Prima fra tutte applicare punizioni severe a chi commette violenza (42%), al secondo posto garantire l’efficace funzionamento del supporto/sportello psicologico (37% che sale al 44% tra le ragazze che vedono in questo l’iniziativa più urgente da sostenere). Un altro 37% vorrebbe veder introdurre programmi stabili di educazione affettiva e sessuale per studenti e studentesse, condotti da personale specializzato; il 36% chiede di garantire la presenza a scuola di docenti, tutor o figure esperte riguardo al benessere di studenti e studentesse; il 35% vorrebbe vedere aumentare la sicurezza tra le mura scolastiche (soprattutto i ragazzi con il 38% delle citazioni); il 34% chiede campagne di sensibilizzazione che coinvolgano non solo i/le giovani ma anche le loro famiglie; il 32% sottolinea la necessità di una migliore e più specifica formazione di docenti e personale scolastico; il 31% ritiene sia importante fornire a studenti e studentesse strumenti e garanzie perchè possano esprimersi liberamente (es. carriere alias, bagni neutri, attività di supporto tra pari ecc.) e per chiudere, un/una giovane su cinque (20%) chiede di creare uno spazio gestito direttamente da studenti e studentesse, a conferma della necessità di una presenza adulta su queste tematiche.

La severità della pena

Anche al di fuori delle mura scolastiche l’iniziativa più efficace citata dai/dalle giovani richiama alla severità della pena: il 40% sostiene l’importanza della condanna effettiva di chi è colpevole; al secondo posto (38%) la realizzazione di campagne di sensibilizzazione che aiutino a riconoscere i segnali che possono precedere atti di violenza; al terzo posto (36% che sale al 40% tra le ragazze) insegnare ai/alle giovani le pari opportunità e i pari diritti tra tutte e tutti, a prescindere da qualsiasi caratteristica individuale; al quarto, con il 35% delle citazioni, fornire un numero telefonico gratuito per denunciare o avere consigli e informazioni. Seguono una serie di iniziative legate a leggi più severe (34% che sale al 40% tra le ragazze), l’azione tempestiva della polizia (33%), un’applicazione appropriata delle leggi esistenti (28%) e dotarsi di maggiori regole e sanzionare chi promuove l’odio e le discriminazioni sui social network (28%). Chiudono la classifica, la realizzazione di una campagna di informazione sui media (22%), organizzare corsi o laboratori nei luoghi frequentati da giovani (18%) e sviluppare un linguaggio inclusivo che non rafforzi il genere maschile (16% che sale al 20% tra le ragazze).

Si tratta di dati che dimostrano che i giovani sono concordi su chi commette atti di violenza in Italia: i ragazzi maschi, soprattutto se in gruppo, e gli uomini adulti. Eppure, restano incertezze su quali siano i comportamenti violenti e quali no e  permane una mancanza di chiarezza su cosa e dove sia la violenza. Dati che confermano la necessità di occuparsi di violenza oltre che di bullismo e cyberbullismo, che colpiscono soprattutto gli under 14.

Come sottolinea Maria Sole Piccioli, Responsabile Education di ActionAid“La violenza tra adolescenti ha le radici nella società patriarcale che ancora oggi influenza il processo di crescita delle nuove generazioni e non permette di sovvertire dalle fondamenta la cultura dello stupro”. Occorre perciò intervenire con un’educazione all’affettività e sessualità che non si concentri solo sugli aspetti biologici, ma anche su quelli psicologici, sociali ed emotivi, come raccomandato dall’Unesco e dall’OMS.

Mediterranea. La minaccia del Governo italiano: “Sbarcate le attrezzature di soccorso o vi arrestiamo” e le falsità della Guardia Costiera sul caso Mare Jonio

Porto di Trapani. La minaccia del Governo italiano contro la nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans: “Sbarcate le attrezzature di soccorso o vi arrestiamo”. 

Mediterranea: “nuova escalation nella insensata guerra contro il soccorso civile in mare.”

La volontà del Governo italiano di ostacolare e bloccare le navi del soccorso civile ha fatto registrare nelle ultime ore un ulteriore negativo salto di qualità: è stato infatti ordinato dalle Autorità alla Società armatrice della nostra MARE JONIO di “rimuovere dalla nave prima della partenza le attrezzature e gli equipaggiamenti imbarcati a bordo per lo svolgimento del servizio di salvataggio.” Pena la violazione dell’art. 650 del Codice Penale che prevede l’arresto fino a tre mesi e sanzioni pecuniarie.

L’ordine e l’intimidazione sono arrivati all’esito della visita ispettiva condotta dalle Autorità Marittime italiane a bordo della MARE JONIO, l’unica appunto della flotta civile di soccorso battente la bandiera del nostro Paese.

Dopo un’ispezione lunga, approfondita e severa, iniziata infatti il 22 agosto e conclusa il 6 settembre scorso, sono stati rinnovati tutti i documenti che consentono alla MARE JONIO di navigare, ma è stata ancora una volta negata la sua certificazione come nave “da salvataggio / rescue”.

I pretesti “burocratici” addotti sono noti: nonostante la nave sia riconosciuta come ben equipaggiata per l’attività di ricerca e soccorso (SAR) e sia stata per questo certificata del Registro Navale Italiano (RINA), essa non risponderebbe ai criteri di due Circolari emanate dalle Autorità nel dicembre 2021 e febbraio 2022, che richiedono particolari caratteristiche tecniche dello scafo corrispondenti al codice internazionale SPS emanato nel maggio 2008. Pretesa in sé assurda, e aggravata dal fatto che il Governo italiano vorrebbe far diventare questo lo standard per tutte le bandiere europee, in modo da ostacolare l’intera flotta civile.

In questi anni pensavamo di averle viste tutte nella insensata guerra dei governi italiani contro il soccorso civile in mare: i codici di condotta e i porti chiusi, i controlli strumentali e le detenzioni tecniche, le inchieste per favoreggiamento e le multe milionarie, da ultimi gli sbarchi selettivi, i porti lontani e gli ingiustificati fermi amministrativi.

Ma con l’assurdo ordine impartito alla MARE JONIO di sbarcare i dispositivi di soccorso si fa un ulteriore passo nella direzione della disumanità: che senso ha imporre a una nave, che si prepara a navigare nel tratto di mare più pericoloso e mortifero del pianeta – dove oltre 2.300 persone hanno perso la vita dall’inizio dell’anno – di privarsi di salvagente, battelli gonfiabili, farmaci ed equipaggiamenti medicali e quant’altro è necessario per salvare vite umane in pericolo?

Questo ordine è per noi semplicemente oltraggioso e inaccettabile, così come la minaccia di conseguenze penali per i nostri armatori. Insieme a tante e tanti altri lo rifiutiamo e da subito contesteremo questo provvedimento in ogni sede.

CONSIGLIO DIRETTIVO MEDITERRANEA
Trapani, 11 settembre 2023 

La replica di Mediterranea: le tre falsità della Guardia Costiera sul caso Mare Jonio.

Con disappunto e dispiacere ci troviamo costrettə a replicare al comunicato diffuso ieri dall’Ufficio Stampa del Comando Generale delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera sul caso che riguarda la nostra nave MARE JONIO.

Con disappunto perché il comunicato contiene almeno tre falsità:

1) La Società armatrice che gestisce la nave al servizio di Mediterranea non ha mai rinunciato a richiedere la certificazione della MARE JONIO per il servizio di salvataggio. Riteniamo invece che le Circolari citate non siano applicabili a una nave come la MARE JONIO e rappresentino il frutto di una volontà politica, e non tecnica, di ostacolare le attività di soccorso civile in mare. Ci batteremo in ogni sede affinché questo perverso meccanismo sia smontato e l’attività di soccorso esercitata dalla MARE JONIO e dalle altre navi della Flotta Civile sia riconosciuta e certificata. Intanto abbiamo richiesto alla Capitaneria di Trapani di rilasciare, “innanzitutto e comunque”, le certificazioni indispensabili per navigare.

2) “Le attrezzature e gli equipaggiamenti per il servizio di salvataggio/ rescue” non sono affatto “pericolose” né “intralciano” la navigazione della nave in servizio di carico/Cargo. Gli stessi ispettori della Capitaneria saliti a bordo non hanno mai contestato questo. Quindi la presenza di questi materiali a bordo, che incrementano la sicurezza della MARE JONIO e la capacità di soccorso di vite in pericolo, è perfettamente compatibile con le certificazioni già rilasciate.

3) La Capitaneria – con comunicazione PEC ufficiale protocollata n. 39176 in data 08.09.2023 – non ha mai parlato di “alcune attrezzature” ma ci ha diffidato a rimuovere prima della partenza tutte “le attrezzature e gli equipaggiamenti imbarcati a bordo della MARE JONIO per lo svolgimento del servizio di salvataggio”, cioè tutti i materiali presenti e inventariati nel Piano Rescue già approvato dal RINA (Registro Navale Italiano), includendo in queste reti giapponesi per il recupero dellə naufraghə dal mare, coperte termiche per la protezione dall’ipotermia, kit con asciugamani e vestiti di ricambio, bagni chimici, docce e lavandini, forniture aggiuntive di acqua potabile e cibo per lə naufraghə, trecento giubbotti salvagente aggiuntivi, zattere autogonfiabili, centifloat e rescue raft di salvataggio, farmaci e dispositivi medicali contenuti nel container del punto di primo soccorso.

Se hanno nel frattempo cambiato idea, sarebbe il caso che ce lo comunicassero ufficialmente, invece di scrivere – letteralmente – che la diffida per lo sbarco delle attrezzature ed equipaggiamenti di salvataggio “ha valore di ordine legalmente dato ai sensi e per gli effetti dell’art. 650 del Codice Penale” che prevede appunto l’arresto fino a tre mesi di carcere per lə contravventorə.

Ma replichiamo anche con dispiacere, oltre che con disappunto, perché – nonostante il potere politico continui a utilizzare cinicamente pezzi di questo Corpo nella sua insensata guerra contro la solidarietà – la nostra stima e gratitudine nei confronti delle donne e degli uomini della Guardia Costiera italiana, che solo negli ultimi mesi hanno soccorso e sbarcato in Italia almeno 70mila persone, restano immutate. E con loro ci sentiamo parte di una “comunità del soccorso” che annovera nelle sue fila civili e militari, attivistə non governativi e marinaiə delle marine mercantili. Servirebbero anzi ben più mezzi e risorse per questo Corpo e ben più mezzi e risorse per il salvataggio di vite in mare dovrebbero essere a bordo di qualsiasi nave si trovi a solcare le acque del Mediterraneo.

CONSIGLIO DIRETTIVO MEDITERRANEA
Trapani, 12 settembre 2023 

Sergio Mattarella: “Lavorare non è morire”

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha inviato al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Elvira Calderone, il seguente messaggio:

Roma, 12/09/2023 

” In occasione dell’avvio del corso di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro desidero porgere un caloroso saluto a tutti i partecipanti.
Le morti sul lavoro feriscono il nostro animo. Feriscono le persone nel valore massimo dell’esistenza, il diritto alla vita. Feriscono le loro famiglie. Feriscono la società nella sua interezza.
Lavorare non è morire.
Il nostro Paese colloca il diritto al lavoro e il diritto alla salute tra i principi fondanti della Repubblica. Non è tollerabile perdere una lavoratrice o un lavoratore a causa della disapplicazione delle norme che ne dovrebbero garantire la sicurezza sul lavoro.
I morti di queste settimane ci dicono che quello che stiamo facendo non è abbastanza.
La cultura della sicurezza deve permeare le Istituzioni, le parti sociali, i luoghi di lavoro.
A voi, ispettori tecnici, spetta un ruolo attivo in questo processo di garanzia e di prevenzione.
Faccio appello alle vostre intelligenze e al vostro impegno per contrastare una deriva che causa troppe vittime. Anche da voi e dalla vostra attività dipende la vita di madri, padri, figli, lavoratrici e lavoratori che, finito il proprio turno, hanno il diritto di poter tornare alle loro famiglie.
Mentre rivolgo ai nuovi ispettori tecnici il mio incoraggiamento, ringrazio gli ispettori già in servizio – che ogni giorno si spendono per intercettare le irregolarità in materia di sicurezza e garantire l’applicazione delle regole – e formulo a tutti i migliori auguri di buon lavoro.”

Documentazione

Morti sul Lavoro in Italia – Dati a Luglio 2023 

[…] Sono 559 le vittime sul lavoro in Italia: quelle in occasione di lavoro sono aumentate del +4,4% rispetto a luglio 2022 (430 contro 412) mentre quelle in itinere hanno visto un calo del -17,8% rispetto a luglio 2022 (129 contro 157).
La regione con il maggior numero di vittime in occasione di lavoro è la Lombardia (74). Seguono: Veneto (40), Lazio (36), Campania e Piemonte (33), Emilia Romagna (31), Puglia (29), Sicilia (26), Toscana (21), Abruzzo (16), Marche (14), Umbria e Calabria (13), Friuli Venezia Giulia (12), Trentino Alto Adige e Liguria (11), Sardegna (10), Basilicata (5) e Valle d’Aosta e Molise (1). […]
Qui dati e statistiche complete 

Numeri /
Come dovrebbero funzionare le Banche e come non funzionano

Banche: come dovrebbero funzionare e come non funzionano

Secondo uno studio de Il Sole 24 ore le sei maggiori banche in Italia (Intesa San Paolo, UniCredit, Mediobanca, banco BPM, BPER, MPS) hanno ottenuto nel primo semestre 2023 profitti superiori del 60% allo stesso periodo 2022 (11,5 miliardi anziché 4), che pure era stato un semestre ottimo e dovrebbero essere circa 36 miliardi i profitti nel complesso.

Le banche hanno aumentato i tassi dei prestiti e mutui, che sono passati per le famiglie dal 2% al 4-5-6-7% e per le imprese (specie quelle piccole e artigiani) anche al 10-11% (ma ci sono anche casi superiori). La scusa è che la BCE (Banca Centrale Europea) ha alzato i tassi – da 0 che erano 14 mesi fa – al 4,25% per combattere l’inflazione. A parte il fatto che questa restrizione monetaria avrà effetti tra 12-18 mesi, quando cioè i prezzi saranno già scesi (in Italia sono al 5,9% oggi), è un buon motivo per le banche per chiedere più soldi a coloro cui li prestano.
Ma non dicono, le banche, che continuano a pagare i depositi ai loro clienti (2.600 miliardi) ad un costo medio che è di circa 0,73%, che scende per i depositi non vincolati a 0,32%, quando 14 mesi fa era  0,02% (fonte ABI).

Non è quindi esattamente rispondente al vero che prendono soldi dalla BCE al 4,25% e basta: usano (anche) i depositi dei loro clienti (che pagano con tassi ancora prossimi a zero) e fanno pagare invece molto cari i prestiti, specie alle imprese piccole.

E’ così che si fanno “le budella d’oro” (extra-profitti) mentre però contribuiscono a distruggere il lavoro reale delle imprese (specie se piccole) e degli artigiani che ovviamente riducono le assunzioni e investono sempre meno (-37% in un anno, visti anche gli alti tassi di interesse), quando non falliscono, gravate da rate che non riescono più a pagare.

In altri paesi, come la Germania, il 40% delle banche è ancora pubblico o statale. Da noi sono tutte private – con una parziale eccezione, che peraltro terminerà con la prossima dismissione della quota pubblica, costituita da Monte dei Paschi.

Il Governo Meloni, più furbo del precedente, propone una tassa sugli extra-profitti delle banche (poi vedremo se alla proposta seguirà la realtà e quante realmente saranno; ricordate Draghi con il naufragio di fatto della misura di prelievo sugli extra-profitti delle imprese energetiche?), ma basterebbe imporre alle banche di alzare i tassi che pagano ai loro clienti o fare in modo che la differenza tra tassi pagati ai depositanti e a chi li chiede in prestito non ecceda il 5%, che è appunto il costo del servizio bancario (stipendi dei lavoratori bancari, spese fisse, etc.). Ma questo violerebbe le sacre regole del “libero mercato”, siamo o no una democrazia neo-liberale?

Poi, siccome dal 1999 tutte le banche possono fare speculazioni finanziarie, vanno in giro tra le piccole imprese in difficoltà a proporre di chiudere tutto e di investire sui mercati finanziari il patrimonio della vendita con la prospettiva di lucrare di più e faticare meno, cioè passare da imprenditore (che fa funzionare un’azienda con tutti i problemi che ci sono) a redditiero da finanza speculativa (magari green).

Così va l’economia occidentale nel XXI secolo: con una finanza speculativa che distrugge gradualmente l’economia reale, finché non crollerà anche quella finanziaria (i soldi non si fanno a lungo se non c’è dietro del lavoro vero e, in ogni caso, lucrare con la speculazione finanziaria è un furto fatto a chi –altrove- lavora, spesso i paesi poveri): così ci troveremo tutti con le “pezze nel culo”, anche se siamo una democrazia neo-liberale.

Parole e figure /
Niente di niente

Un potente albo illustrato di Kite edizioni in ristampa a settembre: “Niente di niente”, incontro di due solitudini

“A Kite Edizioni amiamo molto questi titolo”, ci dice la responsabile dell’ufficio stampa, nonché autrice e editor, Giulia Belloni Peressutti, “al punto che ne abbiamo deciso una ristampa dal 7 settembre” (la prima edizione è del 2014, quasi dieci anni fa). Abbiamo parlato di Giulia quando abbiamo scritto del libro “Mind the gap”, di cui è co-autrice. Oggi abbiamo seguito il suo prezioso consiglio nel presentarvi “Niente di Niente”, dell’illustratrice argentina Yael Frankel. L’ennesima sorpresa di questa interessante, innovativa e originale casa editrice padovana, fondata nel 2016 da un progetto di Caterina Arcaro, e oggi diretta da Valentina Mai.

Niente di niente è quello che può succedere a una pietra che non viene guardata né in estate né in inverno. Bambini, passanti, nessuno nel quartiere la nota. Tutti a passeggiare assorti in altri pensieri, affaccendati in altre faccende. Amici? Nessuno, tantomeno madre, padre, giochi o divertimenti.

 

A questa pietra non succede niente, non sente niente, né caldo né freddo, non mangia, non beve, non chiede, non prende, non dà, non parla, non suona, non discute, non chiacchiera, non pensa, non vede le farfalle. Non va a scuola né al cinema o a teatro, non ci sono parchi, boschi, giardini o laghi. Semplicemente sta. Apatia. Invisibilità. Inutilità. Indifferenza. Non fa proprio niente, d’altronde non ne varrebbe nemmeno la pena. A chi potrebbe mai interessare il suo destino?

Ma da qualche parte del mondo c’è anche un bambino.

Neanche a lui succede niente, mai, né in estate né in inverno, niente di niente. Sta nel suo lettino, al caldo, con la lampada sul comodino accesa, ma non ha amici, né giochi o divertimenti. Legge ogni tanto qualche giornalino di pesca o di fumetti, da solo. Ma non fa niente, non ha niente. Non gli accade mai nulla. Fino al giorno in cui quel bambino inciampa su una pietra. E qui…

Una storia d’incontro di solitudini, un racconto d’amicizia che si imprime come un timbro e ci racconta di come la vita, senza i nostri incontri sia niente, ma proprio niente di niente.

Yael Frankel vive a Buenos Aires in Argentina, dove lavora come grafica e illustratrice. Nel 2013 è stata selezionata per il catalogo “México Iberoamerican Illustration”. Nel 2014 è stata selezionata per la “Sharjah Children’s reading festival exhibition”, per il “Ukranie Cow Design Festival” e il “Portugal Illustration Festival”. Nel 2016 è invece entrata nella selezione del Bologna Children’s Book Fair. È arrivata finalista nell’edizione 2016 del “Silent book contest”, Italia. Ha vinto il “Premio de Ilustración Fundación SM Argentina”, nel 2015 e il BRAW Bologna Ragazzi Award nel 2023.

Yael Frankel, Niente di niente, Kite edizioni, Padova, 2023

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

I giovani sono cattivi?
Per il “Decreto Caivano” l’unica ricetta è la punizione

I giovani sono cattivi? Per il “Decreto Caivano”  l’unica ricetta è la punizione.

Che non bastasse l’operazione ad alto impatto (solo mediatico) delle forze dell’ordine di qualche giorno fa a sedare la famelica narrativa interventista del Governo Meloni lo si era capito subito. Così è arrivato il Decreto Caivano [ecco in sintesi le misure approvate, Ndr], un provvedimento puramente propagandistico che non incide in alcun modo su cause di degrado e disagio, se non con un intervento spot a Caivano, comunque sbilanciato sul lato repressivo. Implementa ulteriormente invece il sistema repressivo, colpendo al cuore la giustizia minorile italiana, assecondando la bulimia penale ormai patologia del nostro paese.

Come per il decreto Rave i giovani sono il nemico, le droghe lo strumento, la repressione il fine ultimo.
L’anno scorso il nemico da colpire era già davvero facile da identificare: giovani che ascoltano musica rumorosa e che usano droghe occupando la proprietà altrui senza alcuna autorizzazione. Figuriamo oggi, che sono pure coloro che commettono gli stupri e si riuniscono in baby gang.

Indifendibili, e pure minoranza. Se negli anni 60, 70, 80 e forse pure 90, i giovani rappresentavano una moltitudine capace di far paura alla società, soprattutto quando chiedevano di cambiarla, oggi invece rappresentano una porzione divenuta residuale della popolazione italiana. Sempre facilmente identificabili come nemico – “non ci sono più i giovani di una volta” è il lamento che li accompagna sin da Caino e Abele – sono oggi così marginali da non essere nemmeno un pericolo elettorale.

Così nel decreto Caivano non c’è nessun investimento sulla cultura, sull’educazione sessuale, sulle politiche giovanili: basta un osservatorio sui giovani, badate bene considerati solo perché devianti, e l’estensione dei DASPO ai quattordicenni e più carcere per lo spaccio di lieve entità.
Nessun investimento reale sul sociale e sulla salute, sul lavoro, sulla prevenzione dei NEET (gli inattivi): solo interventi spot, ma arresto in flagranza dei minori per droghe che però poi potranno avere l’alternativa dei lavori socialmente utili. Nessun investimento strutturale sul sistema scolastico e sulle cause della dispersione scolastica: briciole per le scuole del Sud, compensate dal carcere per i genitori.

Il populismo penale permette questo: dare l’apparenza di fare qualcosa, rispondendo ad una legittima domanda di sicurezza, senza dover mettere mano al bilancio e alle politiche pubbliche.
È pura apparenza che per contraltare ha immensi costi sociali, culturali ed economici. Sia in termini di apparato repressivo e di detenzione che di salute e di ricadute sociali e culturali. Oltre che la grande colpa di continuare a criminalizzare i giovani e di cercare di smantellare un sistema, quello della giustizia minorile, che pare funzionare meglio di quello della giustizia ordinaria. Del resto, la giustizia minorile ha il grande difetto – per la destra italiana – di privilegiare l’educazione alla punizione e di considerare come extrema ratio il carcere, che interessa oggi poche centinaia di minori in Italia.
Secondo l’annuale rapporto di Antigone sono solo 380 i giovani detenuti nelle carceri minorili al 15 marzo 2023 (tra questi solo 12 sono ragazze): rappresentano il 2,7% dei ragazzi in carico alla giustizia minorile.

Nel Decreto-legge è previsto anche l’innalzamento delle pene per i fatti di lieve entità: un provvedimento ingiustificato e gratuito che non avrà alcun effetto sulla presenza di spacciatori sulle strade. Questi già vengono arrestati in flagranza e finiscono giudicati, la gran parte in direttissima, con un rapporto complessivo di condannati per processo di 7 a 10. Per gli altri reati il rapporto è 1 ogni 10. Saranno come sempre sostituiti da altri, molti di questi disponibili a correre il rischio anche perché confinati nell’illegalità dalla Bossi-Fini. Avrà invece un pesante effetto sulle nostre carceri (già per un terzo piene di “spacciatori”) per via dell’insensato allungamento delle pene. E soprattutto sulle persone che vi entrano.

Mentre viviamo una vera e propria crisi rispetto ai suicidi nelle nostre prigioni, è inconcepibile far entrare più persone, sempre più giovani, nel circuito detentivo. Il Governo Meloni fa proprio questo, assecondando una tendenza che ha visto già l’anno scorso aumentare del 15% i minorenni accusati di spaccio.

La distinzione fra spaccio “ordinario” e fatto lieve è molto variabile, e ancor più flebile il limite fra lieve entità e possesso per uso personale. Secondo uno studio della Cassazione, pubblicato sul Libro Bianco quest’anno, si può essere condannati per spaccio “ordinario” sin da 0,6 grammi di cocaina, mentre il range per la lieve entità risulta essere tra 0,2 e 150 grammi. Per cannabis il limite inferiore per la punibilità è 0,55 grammi, solo 0,05 grammi sopra la soglia definita dal Testo Unico per il consumo personale.
Certamente dipende dalle circostanze e dal Giudice, ma molto – se non tutto – dalla condizione socioeconomica dell’imputato. Non serve prova dello scambio, è sufficiente la detenzione. Per supporre lo spaccio bastano pochi elementi – contanti, bilancia, a volte la sola pellicola trasparente – presenti in tutte le case. Un’inversione di fatto dell’onere della prova che è difficile affrontare senza un’adeguata difesa.

Mentre le politiche più avanzate, e le stesse agenzie dell’ONU, sollecitano un processo di decriminalizzazione del sistema di controllo sulle droghe, invitando gli Stati a sostituire il carcere con percorsi alternativi risocializzanti, il Governo Meloni fa il contrario.
Il Sottosegretario Mantovano, che il 26 giugno scorso diceva di essere interessato alla persona e non alla sostanza, ha gettato la maschera e nascosto la carota. Poco conta la messa alla prova estesa ai minori, l’unica ricetta è la punizione.

Leonardo Fiorentini
Segretario di Forum Droghe

In copertina: una scena iconica di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick (1971)

Documentazione:

Le misure approvate con il Decreto Caivano

Daspo urbano ai minori

A QUALE CITTÀ PENSIAMO?
Dormire per terra non è un problema di carità, ma di sfruttamento

A QUALE CITTÀ PENSIAMO?
Dormire per terra non è un problema di carità, ma di sfruttamento. 

Quando Ilaria Baraldi, intervenendo su questo giornale [Vedi qui], pone il problema delle persone che dormono per terra, individua un tema cruciale, di cui spesso ci dimentichiamo quando parliamo di politiche urbane, di rigenerazione e spazio pubblico.
Mi riferisco alle disuguaglianze e alla miseria che contraddistinguono molte delle nostre città; una condizione che diventa evidente ai nostri occhi quando incontriamo qualcuno che dorme per strada.

In molte città del mondo si tratta di una condizione normale e accettata come tale. Non mi riferisco solo alle città del global south, ma anche a molte grandi città europee dove può capitare, come a Parigi, di passare nel periodo natalizio davanti alle vetrine sfavillanti e animate dei Grandi Magazzini e vedere dall’altra un dormitorio disteso lungo tutto il marciapiede. All’apertura dei magazzini questo mondo notturno sparisce come d’incanto.

Quando noi architetti disegniamo nuovi spazi pubblici, per far vedere come sarà o come potrebbe essere la nostra città, questi sono sempre pieni di gente gioiosa, giovani coppie con bambini che passeggiano nel parco, mentre i ragazzini giocano con lo skateboard, le ragazze fanno ginnastica ritmica e gli anziani conversano tra loro seduti su comode panchine. Il conflitto, la marginalità, la miseria è bandita da queste rappresentazioni, che devono rassicurarci, raccontandoci spesso delle bugie. Wislawa Szymborska in una sua bella poesia afferma di amare le mappe perché sono bugiarde, nascondono i conflitti e ci parlano di un mondo che non è di questo mondo. Giorgio Manganelli con il suo consueto cinismo, raccontandoci un suo viaggio in India, ci descrive invece questo mondo, mostrando la miseria che si ritrova nelle strade delle città e ci indica la strada per non restarne sopraffatti, emotivamente e fisicamente: essere indifferenti. Usare quindi la stessa arma degli abitanti locali: scansare l’ostacolo senza guardare.

A ben vedere lo sviluppo generato dalla rivoluzione industriale si è fondato sull’intreccio miseria/opulenza o povertà/ricchezza. La miseria londinese o parigina, raccontata da tanti scrittori tra metà Ottocento e inizi del Novecento, è il substrato che ha alimentato il benessere delle metropoli occidentali. Bernard Mandeville nella sua riflessione intitolata La favola delle api, individua nello sporco, nel cattivo odore, nel degrado della Londra settecentesca l’indicatore di quel benessere e di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali che daranno vita alla rivoluzione industriale. Le opposizioni ordine/disordine, pulizia/sporcizia, igiene/malattia, risorsa/sfruttamento hanno in fondo generato tale modello di sviluppo che è causa della crisi ambientale che stiamo vivendo. Nel 1889 Charles Booth pubblica un’indagine durata quattordici anni, intitolata Labour and Life of the People in London. Un problema devastante, quello della miseria urbana, che richiede delle soluzioni abitative alternative ai marciapiedi e agli anfratti di Soho, di Whitechapel e dell’intero East London.

Nel 1832 l’avvocato Edmund Chadwick introduce con le Poor Laws (leggi per il controllo della povertà e della miseria) dei modelli residenziali denominati workhouse, desunti dal panopticon, il carcere pensato e progettato da Jeremy Bentham che presuppone una sorveglianza asimmetrica (come sostiene il filosofo francese Michel Foucault: il controllore può vedere ma il controllato no). Le workhouse (evoluzione dell’Albergo dei Poveri) introdotte dalle Poor laws e criticate da Charles Dickens nel racconto di Oliver Twist, erano di fatto ospizi per lavoratori indigenti dove vigevano condizioni molto dure che sconfinavano nella reclusione e nella segregazione. Le famiglie venivano separate: i genitori dai figli e i mariti dalle mogli mentre il cibo era volutamente economico e al limite della decenza (la stessa logica delle Maison des esclaves africane). Una risposta politica alla miseria. L’ipocrisia borghese in quei decenni, e ancora oggi, ha sviluppato una forte cultura filantropica, finalizzata al portare sollievo ai poveri, ma non a combattere le disuguaglianze. Per contrastare queste si richiede una scelta di campo politica che potrebbe consentire al diseguale di diventare come me, mentre la dimensione caritatevole porta sollievo a qualcuno che è comunque destinato a rimanere povero.

I meccanismi segregativi (e non educativi) e le disparità tra povertà e ricchezza, alla base del nostro modello di sviluppo e della nostra idea di progresso, ancora permangono in molte dinamiche e processi della nostra società (basti pensare al recente Decreto Caivano) ma diventano evidenti ed eclatanti nei rapporti tra Occidente e Global South.
Oggi nel pianeta si stanno creando numerose situazioni urbane esplosive, delle vere e proprie città residenziali, composte da centinaia di derelitti, che vivono nei marciapiedi, sotto i ponti o nelle piazze delle città del Sud America ma anche in Europa e in Italia
. Il problema dei moradores de rua, come vengono definiti in Brasile coloro che dormono nelle strade, va oltre la favela o lo slum, che comunque, pur nella sua informalità, è uno spazio strutturato ed è una soluzione a un problema. Oggi il tema delle disuguaglianze si deve confrontare anche con i temi posti dalla crisi climatica. Non so se l’innovazione tecnologica renderà smart ogni nostra azione quotidiana, in ogni caso non si sta configurando come un diritto per tutti e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso. Senza aiuti umanitari seri, e non utilizzati come leva per alimentare governi o poteri locali compromessi con gli interessi occidentali, senza una redistribuzione della ricchezza, senza politiche sociali non sarà possibile ricomporre le fratture sociali e razziali che infiammano la gran parte del mondo. Amartya Sen già vent’anni fa, nelle sue riflessioni sul rapporto tra sviluppo e libertà, evidenziava come il mondo sia da un lato caratterizzato da una opulenza senza precedenti mentre le privazioni, la miseria, l’oppressione diventano sempre più grandi. Il neoliberismo ha radicalizzato una organizzazione sociale che ha reso evidenti le disuguaglianze, ha reso fortemente gerarchico il sistema economico mondiale che non mette i vari paesi in condizione di lottare (o di affrontare problemi come quelli posti dalla crisi ambientale) ad armi pari.

Thomas Piketty ha più volte evidenziato come, secondo la Banca Mondiale, nel pianeta circa un centinaio di paesi possono essere ritenuti ad “alto reddito” e la contribuzione del 0,03% del prodotto interno lordo consentirebbe di ottenere le risorse necessarie per far fronte alle crisi umanitarie mondiali attraverso l’istituzione di agenzie indipendenti in grado di operare reinventando forme di multilateralismo globale. Del resto da tempo i paesi in via di sviluppo chiedono di poter utilizzare i propri bilanci pubblici per interventi e politiche strutturali finalizzate allo sviluppo e alla equità economica e sociale senza dover essere, sempre più frequentemente, costretti ad intervenire con azioni di soccorso, prevenzione, emergenza in situazioni generate da cambiamenti climatici di cui sono responsabili per il 3% (almeno l’Africa).

Il colonialismo economico, “urbanistico” e segregativo non è mai morto, lo vediamo anche oggi nelle città del sud del mondo, interessate da ricchi progetti di urbanizzazione che impongono ipocrite smart e green city all’europea nei deserti africani o nelle foreste tropicali. A São Paulo la costruzione del quartiere di Higienópolis inizia alla fine dell’Ottocento, su di una altura attraversata dai venti e circondata dai quartieri poveri dove la febre amarela e altre epidemie imperversavano. Nei medesimi anni, la legge del 1888 abolisce la schiavitù ma sancisce la nascita dei quartieri informali perché gli schiavi (neri) vengono liberati ma non assistiti. La ricca borghesia parigina e londinese abitava a ovest perché li arrivavano i venti che spostavano lo smog (la nebbia) a est, dove abitavano gli indigenti. Oggi Dubai viene presentata come la città più felice del mondo grazie alla qualità dei suoi spazi costruiti nel deserto, ma il 90% della popolazione è costituita da immigrati dall’India, Pakistan, Bangladesh o Filippine che hanno costruito questa fantasmagorica città ma che non hanno diritti e ai quali vengono prelevati i passaporti, e obbligati a vivere in grandi camerate senza aria condizionata. Una nuova forma di schiavitù. Le informazioni che ritroviamo nel World Inequality Database ci parlano di una situazione globale dove le discriminazioni razziali, retaggio delle antiche dominazioni coloniali, sono associate all’impatto dell’iper-capitalismo finanziario contemporaneo.

Inoltre, le nostre città sono piene di edifici vuoi e non usati per convenienze economiche. L’ ex Hotel Columbia, situato in Avenida São João, nº 588 a São Paulo è diventato un simbolo di chi lotta per il diritto alla casa. Da vent’anni l’edificio ospita novantuno famiglie a basso reddito. Prima dell’occupazione, l’immobile era vuoto e abbandonato da circa trent’anni, senza essere utilizzato dai proprietari. La lotta degli abitanti è quella di rivendicare il diritto alla casa nel centro di una città dove tanti edifici sono vuoti o abbandonati. Lo sfratto, pendente da anni, rischia di lasciare tutti in strada, compresi bambini, adolescenti, anziani e persone con problemi di salute, in una città piena di moradores de rua. Siamo andati a trovarli per conoscere la loro situazione e sostenere la loro lotta. Questa ocupação è gestita dal MTSC (Movimento Lavoratori Senza Casa) coordinato da Carmen Silva e richiede politiche pubbliche per la casa per chi, pur lavorando, è povero. Carmen da quasi tre decenni lavora in difesa delle persone senza dimora ed è professoressa del Nucleo Donne e Territori del Laboratorio Arq. Futuro de Cidades.

Si stima che i processi di migrazione diventeranno sempre più intensi, non solo verso l’Occidente ma anche internamente al continente africano. Le migrazioni sono in crescita e hanno caratteristiche molto diverse dai processi che abbiamo conosciuto in Europa tra Ottocento e Novecento. L’emigrazione storica aveva un’origine e una destinazione. Oggi nelle migrazioni di massa, qualunque sia il motivo per cui si lascia la propria terra, alla coppia origine-destinazione va aggiunto il transito che può durare anni. Un periodo nel quale si vive nell’incertezza, nella precarietà e nel pericolo, essendo i migranti ostaggi di situazioni che non si controllano, come dimostrano i confini dell’Unione Europea.

Come garantire condizioni abitative civili, seppur transitorie, a una popolazione in movimento? In quali insediamenti alloggiare queste persone in transito? Il concetto di Transitory Urbanism è stato introdotto in esperienze in corso in varie parti del mondo: Vienna, Parigi, in Olanda o nel progetto brasiliano di empowerment femminile Arquitetura na Periferia.  Tale concetto, al di là delle inevitabili retoriche, associa pratiche di design initiative a politiche di community developement. Si parte da una dimensione operativa locale attivando la partecipazione degli abitanti ed agendo in prima battuta sulle risorse locali, sui canali di approvvigionamento brevi, sulla razionalizzazione dell’utilizzo degli spazi e delle risorse a partire da ciò che esiste. Si tratta di un processo di riattivazione dei cicli di vita locali, che dovrebbe essere improntato alla sobrietà e alla eliminazione dello spreco di suolo, di risorse, di beni materiali.

Il pensare una urbanistica della transitorietà, necessaria anche per far fronte a situazioni improvvise quali, ad esempio, quelle climatiche, non può essere relegato alle politiche dell’ emergenza ma deve divenire prevenzione, capacità di gestione di processi che, essendo da tempo in movimento, si possono anticipare, ed anche una città come Ferrara, che non vive le contraddizioni e i conflitti delle città che ho citato, ma che non è al di fuori da queste dinamiche, deve porsi questi obiettivi.
Il dibattito va dunque aperto o riattualizzato, in particolare in questo momento di grande progettualità per il futuro della città. I vari attori economici, sociali, associativi vanno coinvolti ma, attenzione, non si tratta di una questione settoriale o puramente umanitaria: è una questione politica.

PUSH-UP
Sollevare l’animo femminile con ironia e carattere. Un invito…

Gli albori del progetto
Siamo a fine 2019 e tra le mille idee che popolano la mia testa, ne è emersa una che mi ha colpita e che mi  ha convinta ad agire. Ho vissuto, in questi due anni e mezzo, un’esperienza davvero unica, cercando di elettrizzare altre artiste per dar vita ad un sogno.
Chi siamo ?
Dunque siamo in sei (Anna Maura Alvoni, Lidia Calzolari, Ilaria Davanzo, Elisa De Florio, Silvia Favaro, Federica Veronesi). 
Sei donne, che nella vita non sono solo artiste, (condizione che unisce tante e tanti d’altronde), bensì:  educatrici per la disabilità, impiegate, libere professioniste, studentesse universitarie e operatrici olistiche. Geograficamente sparpagliate per il nord Italia: Ferrara e provincia,  Padova, Bologna e Lecco. 
Cosa abbiamo condiviso dal punto di vista artistico ?
Fotografia, scultura, mandala, arti visive, poesia, pittura e installazioni in ferro e materiali di recupero, realizzazione di un video
Dal punto di vista umano?
Il tempo lungo ci ha concesso l’opportunità di verificare se ci credevamo veramente.
Ci siamo “aspettate”: il valore aggiunto del nostro risultato. Solidarietà e perseveranza non ci hanno fatto arrendere.
Il risultato non consiste in un assemblaggio a posteriori di opere create singolarmente, bensì nell’intreccio di ogni pensiero e sensibilità, come in una corsa in cui  il testimone  passa di mano in mano per arrivare insieme al traguardo. L’arte come una delle forme più avvincenti di solidarietà.
Il push up dunque di cosa parla? Quale è il senso ?
Il reggiseno ci ha  vestite e svestite al contempo. Che sia un indumento di seduzione o di costrizione; che lo si indossi o lo si utilizzi per ribellarsi al sistema o tentare di modificarlo dall’interno, l’importante per noi è viverlo come specchio del nostro IO più vero. Nutrirsi di autostima equivale ad imparare a sorridere e ridere di sé stesse e se lo si fa insieme ancor meglio.
Mi piace pensare che il sostegno  che, per antonomasia è collegato ad una delle funzioni del reggiseno, possa diventare un’azione collettiva di solidarietà fra donne e non solo. Una specie di abbraccio virtuale fatto di ironia, ascolto, accettazione di sé, solidarietà, creatività.
Cos’è per me indossare il reggiseno o non indossarlo?
Il mio rapporto con il seno, con i miei capezzoli, con il seno delle altre ???
Io ho risposto con molta ironia e giocando con le parole.
Questo e molto altro all’interno del lavoro delle altre artiste.
Dice Lidia Calzolari nel suo Libretto di presentazione:
«Al di fuori degli schemi, dei cliché e delle convinzioni, noi donne abbiamo un disperato, e molte volte inconsapevole, bisogno di trovare i canali giusti per ritrovarci a “casa” in una dimensione solidale e attiva di condivisione di intenti, di capacità, di desideri inespressi e di vie per esprimere le enormi potenzialità creative.
È a partire da questa consapevolezza che io mi sono innamorata di un’idea e come il più estatico dei sentimenti mi sono nutrita di sogni, fino a far nascere un progetto. Era l’anno duro della clausura forzata, il momento in cui tutto riluceva in modo diverso ed era il momento in cui ci si spogliava letteralmente di abitudini e vestiari.
Il reggiseno fa parte degli indumenti usurpati del loro potere. Sentire l’urgenza di due azioni ben distinte è stato il primo passo; toglierlo e parlarne. Raccontarlo come fosse un oggetto qualsiasi di casa, pur ricordando il ricettacolo di significati che esso esprime.
Il secondo step, ovvero cercare altre donne, artiste, ha rapito l’attenzione della promotrice che, non sazia del mero coinvolgimento in un progetto artistico a scomparti stagni, ha voluto a tutti i costi connettere gli animi di tutte. Questo ha comportato attese, abbandoni, momenti difficili ma il motto: “Tutte insieme ha un senso” ha avuto la meglio.
Il reggiseno come leitmotiv ha sorretto in primis le 6 artiste per esplodere poi, in un canto, un inno un risorgimento, uno spunto per una risata, un gioco, uno scatto. Ognuna a suo modo, con la propria sensibilità e dose di follia e semplicità, ha srotolato, sganciato, squarciato, tolto il reggiseno da ogni connotazione data, pronte alla sfida.
Ovvero… Sapranno sorprendere, coinvolgere, ispirare e SOLLEVARE gli animi delle donne? Comunicare amore per sé stesse al di là di ogni taglia indossata? Ammaliare e confondere? Cominciare a leggere la realtà a suon di tette? Con l’arte tutto il vissuto si veste a festa e, come diceva Alda Merini: “Non sono bella, Sono erotica”, le artiste vi invitano a mettervi in gioco».
Luoghi dell’evento itinerante
  • Ferrara presso il Fienile in via Pelosa 27/a  il 23 settembre dalle ore 18.30
  • Milano il 19 novembre presso il Villaggio  Barona – Sala Aletti, in collaborazione con la Casa delle artiste  e la poetessa Agnese Coppola
    (eventi in via di programmazione in altre città nel 2024)
Vi aspettiamo.
Scarpe comode che siamo in campagna
con o senza reggiseno
…il resto ce lo inventiamo insieme

Guarda il portfolio di PUSH-UP

Germogli /
Quella Nomenklatura che ci fa perdere tutte le elezioni

«Ci sono due modi di fare il politico: vivendo “per” la politica oppure vivendo  “della” politica.»
(Max Weber)
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela.»
(Enrico Berlinguer)

“Nomenklatura”, nella ex Unione Sovietica erano gli alti papaveri del Politburo e i grandi burocrati. una razza inamovibile e fautrice dell’immobilismo formale e sostanziale. Ma si sa, il vocabolo ha avuto successo anche in Germania (“Nomenklatur”), e naturalmente in Italia: “Nomenclatura”, senza la kappa.

L’Italia, dal secondo Dopoguerra fino al Crollo del Muro e al terremoto di Mani Pulite (poco meno di mezzo secolo) ha conosciuto due grandi tradizioni politiche, due grandi partiti, e due nomenclature. Entrambi, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, hanno allevato e istruito la propria solida nomenclatura. Che ha anche altri nomi: apparato, classe dirigente: non sono i super leader ma l’esercito dei fedeli funzionari e dei politici di professione. Ne servivano parecchi per “presidiare” tutto il territorio, a cominciare dalle città e dalle regioni dove il partito poteva contare su una maggioranza bulgara. La DC in Veneto, il PCI in Emilia-Romagna.

Negli anni Novanta è cambiato il mondo, i vecchi partiti sono esplosi in mille pezzi,  ma (incredibilmente?) la nomenclatura è riuscita a salvare il posto, lo stipendio, il potere. Non si sono salvati tutti, qualcuno si è dovuto ritirare a vita privata, ma i più abili, i più scaltri, i più spericolati si sono riciclati nei nuovi partiti, si sono fusi con le nuove figure emergenti, presto diventate anch’esse nomenclatura.
I casi di intelligente galleggiamento nel mare agitato della Prima e Seconda Repubblica si sprecano, forse il più noto è un uomo che nella vita è stato tutto, da segretario dei giovani democristiani a Ministro ripetutamente della Cultura, senza lasciar traccia, eccetto la rivoluzionaria invenzione del Dantedì (25 marzo, prendete nota).

Tutto il discorso vale in generale per l’Italia di ieri e di oggi, ma anche per l’Emilia-Romagna, dove il Governatore (titolo altisonante quanto idiota), dopo aver perso le primarie, nega in pubblico ma trama in privato per cambiare la legge e assicurarsi un terzo mandato: farebbero un totale di 15 anni con il medesimo uomo, la sua passione per il cemento e i suoi inguardabili rayban a goccia.

E vale anche per  Ferrara, perché un Assessore regionale di prima fascia e una Capogruppo PD nella Assemblea regionale sarebbero decisi a ripetere il capolavoro di quattro anni fa. Nel 2019 fu la loro lungimiranza a imporre (alche al PD cittadino) un candidato sindaco di partito, che prese una sonora batosta dal leghista Alan Fabbri per poi far perdere le sue tracce. Oggi (c’è un limite a tutto) un candidato sindaco prelevato dalle fila del partito è fuori discussione: “Sarà un civico”, l’han detto tutti.  Ma da dove verrà fuori il nome del civico? Dalla stessa bottega di cui sopra: prima dovrà piegare alcune resistenze interne al PD ferrarese (proprio come quattro anni fa), poi  far digerire il loro nome a tutti gli altri partiti del Centrosinistra.

Cucinare un piatto del genere richiede tempo e molta prudenza, ma il nome sta già circolando e un po’ alla volta il candidato civico battezzato dalla nomenclatura conquisterà il Tavolo delle Opposizioni. Intanto il segretario provinciale dei 5 Stelle ha già pronunciato il primo chicchirichì, un bel passo avanti.  Ma bisogna lavorare ancora, sempre al buio, stando coperti, Alla fine dovrà apparire come la scelta più semplice, più naturale, più condivisa. Poi ci sarà solo da convincere gli elettori ferraresi. Roba da niente.

Ma alla fine, scenderà o no in campo il prode Anselmo?
La nomenclatura insiste (ne va della sua stessa sopravvivenza), ma per il poco che lo conosco, penso e spero che un uomo intelligente come Fabio Anselmo non si presterà a  un’operazione pilotata dall’alto. Anche se gli dessero un bel paracadute, affrontare una campagna elettorale come “falso civico”, con addosso il timbro dell’apparato e in tasca il programma scritto da altri è la premessa di una probabile sconfitta.

In copertina: immagine tratta dal sito della Fondazione Luigi Einaudi

Vite di carta /
Festivaletteratura 2023: dai nostri inviati a Mantova

Vite di carta. Festivaletteratura 2023. Dai nostri inviati a Mantova

Giovedì mattina per tempo Antonella, che come me da tanti anni viene a prestare servizio al Festivaletteratura, è andata a ricevere a Malpensa Miguel Bonnefoy. Nel viaggio in auto per Mantova ha parlato in francese con lui, lo ha aggiornato su come sta andando l’edizione n.27.

Antonella dice che nello spazio di un trasferimento come questo si può capire molto della sostanza umana di un autore, specie se, come è accaduto oggi, lo si trova in vena di conversare e non è troppo stanco. Da anni va ad accogliere quelli che vengono in aereo, anche da molto lontano.

Poche ore dopo sediamo a pranzo in tre: la mia amica Maria, compagna storica delle avventure mantovane, e io siamo arrivate da poco da Ferrara, pronte a mescolare nei nostri discorsi il piacere di ritrovare le conoscenze preziose che ci siamo fatte negli anni con i programmi ghiotti per le due giornate in cui saremo qui.

Ne parlo ora che sono già rientrata a casa, come ogni volta entusiasta, mentre scorro il programma dei due ultimi giorni, che una antonomasia inveterata chiama “il sabato” e “la domenica” del Festival, e assaporo gli incontri che mi sono persa ieri e che oggi, domenica, davanti al pubblico più numeroso, sono come il botto finale di questa edizione.

Alle 18.30 in Piazza Castello il giornalista Wlodek Goldkorn intervista, dopo dieci anni dalla sua partecipazione al Festival, la scrittrice polacca Olga Tokarczuk, insignita del Nobel per la letteratura nel 2018. Cosa è cambiato nella sua scrittura in questi dieci anni, e quale persistenza hanno mantenuto nei suoi libri le questioni sui confini nel mondo, sia fisici che ideologici, o ancora la questione ambientale e femminile: questo mi perdo.

La nostra inviata Roberta Barbieri con Sofia, Elia e Angela gli “Ariosti” volontari al Festivaletteratura 2023

Se oggi fossi lì potrei dare un altro saluto ai ragazzi “Ariosti” del gruppo Galeotto fu il libro, che prestano servizio in questa postazione e che già venerdì ho trovato provati ma felici della loro esperienza.

Solitamente i grandi nomi si alternano in Piazza Castello e a Palazzo San Sebastiano, in realtà si incontrano in ogni luogo della città reclutato per il Festival: è possibile selezionare eventi proprio sulla base degli autori che vi intervengono, oppure del tema, o della materia che più interessa.

Ovunque sono messe al centro le parole che definiscono il mondo, per “ricucirne il senso, misurarne la tenuta e farne dialogo”, come si legge nell’incipit del programma cartaceo che ormai ho segnato e riempito di chiose e segnalibri. Dalle parole del mutamento climatico a quelle della economia e dei diritti, in senso lato direi della cittadinanza dentro la conoscenza.

Se oggi fossi lì non rinuncerei a La letteratura come motore del mondo, l’evento n.146 all’Aula Magna dell’Università. Oppure andrei a sentire uno dei contributi dedicati a Michela Murgia, che nel programma si trovano distribuiti in più giornate col suo nome tra gli autori come se fosse (ed è) presente. Talvolta conta restare nella stessa zona della città per riuscire a incastrare un evento in più nel proprio programma della giornata.

 

Lavagne. Lezioni di musica e molto altro. Festivaletteratura 2023 Piazza Mantegna – Mantova

Ho usato tutte queste bussole soggettive, nel tempo. Tanto da Mantova è garantito che si torna con idee nuove e nuovi volti incontrati, si torna con idee rafforzate e meglio declinate dentro la mappa del sapere personale. Si portano a casa anche dissonanze, che però si tramutano in libri da leggere per capire meglio, in supplementi di informazioni a cui accedere per riposizionare idee nuove e vecchie.

Stavolta ho battuto la pista della narrativa della migrazione, ma con connotazioni narrative nuove. Ho conosciuto l’autore statunitense Ken Kalfus e gli ho potuto domandare da quale dei suoi sette romanzi cominciare a leggerlo; è stato durante l’intervista riservata alla stampa, c’era il tempo per porgli una domanda un po’ inusuale, che lui ha definito interessante.

E si è messo a parlare distesamente degli suoi libri più recenti, finendo per segnalarmi Uno stato particolare di disordine, “il più americano” dei romanzi che ha scritto, in cui ha raccontato come sono gli USA oggi attraverso la vicenda personale di una coppia nel giorno dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

Di Kalfus mi è piaciuta la prospettiva originale da cui afferma di guardare il proprio paese: e se il mondo facesse a meno degli USA? E se raccontare la migrazione che interessa il paese partisse da coloro che se ne vanno verso le altre parti del mondo? Che lasciano un’America piena di contraddizioni e, come sostiene nel suo ultimo Le due del mattino a Little America, si trova esposta ai pericoli di una nuova guerra civile.

Non mi sono sfuggite le parole “parodia” e “leggerezza” con cui Kalfus ha espresso la sua ammirazione per Calvino; il Calvino a cui presso il Liceo Virgilio è dedicata un’attività di lettura giocosa, Ludmilla, dal nome della inafferrabile protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore.

 

Ritorni. l’evento dedicato a due scrittori di area balcanica Kapplan e Mujčić

Che intensità nell’incontro di giovedì sera (evento n.64) di Simonetta Bitasi con la scrittrice italo-bosniaca Elvira Mujčić e lo scrittore albanese Gazmend Kapllani: dai loro romanzi esce lo spaesamento di chi è tornato nel proprio paese dopo essere stato fuori a vivere l‘altrove.  Dai Balcani si fugge, come insegna tanta letteratura sulla migrazione e sulla nostalgia, tuttavia chi come Kapllani è tornato ci avverte che “non ritrova mai quello che ricordava”.

Maria ha acquistato entrambi i libri, La terra sbagliata di Kapllani e La buona condotta di Mujčić, come me colpita dalla lucidità dello sguardo e dalla forza che deve avere la loro narrazione, alla ricerca della convivenza possibile tra albanesi e serbi su cui si interroga quest’ultimo romanzo, in un paese come il Kosovo.

Ho conosciuto una scrittrice del nostro Novecento, Dolores Prato, che l’evento n. 79  ha fatto uscire dall’ombra per restituirle il plauso che le spetta grazie soprattutto alla scrittura straordinaria di Giù la piazza non c’è nessuno, il romanzo autobiografico sulla sua solitaria e aspra infanzia vissuta nell’entroterra marchigiano, che è stato pubblicato nel 1980 quando lei aveva quasi novant’anni e dopo una lunga vicenda editoriale, in cui ha avuto parte anche Natalia Ginzburg.

 

Luigi Manconi dialoga con Zerocalcare sulle carceri italiane

Sono andata a sentir parlare del mondo del lavoro soprattutto giovanile, del mare di Lecce nella valorizzazione programmata dalla amministrazione comunale, delle carceri in Italia. Mi preme dire quanto mi ha colpito la lingua pregnante e scabra di Luigi Manconi nella interlocuzione verace con Zerocalcare, le sue parole di una nettezza feroce sulla infantilizzazione a cui sono sottoposti i detenuti, sulla distanza siderale delle nostre carceri  da parole quali dignità, rieducazione, umanità.

Molto mi è successo nel “giovedì” e nel “venerdì” di immersione mantovana. Molto sta succedendo oggi. Mi sembra già di sentire i rumori della festa dei volontari, quella della domenica sera che si tiene alla mensa del Festival e che si conclude anche ballando sui tavoli, mentre dagli altoparlanti esce un rassicurante “Arrivederci alla edizione del prossimo anno!”

Nota bibliografica:

  • Gazmend Kapllani, La terra sbagliata, Del Vecchio Editore, 2022 (traduzione di Ermal Reena e Rossella Monaco)
  • Elvira Mujcic, La buona condotta, Crocetti Editore, 2023
  • Ken Kalfus, Uno stato particolare di disordine, Fandango, 2006 (traduzione di Monica Capuani)
  • Ken Kalfus, Le due del mattino a Little America, Fandango, 2022 (traduzione di Monica Capuani)
  • Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Quodlibet, 1980 (a cura di Giorgio Zampa)

 

In copertina: la Libreria del Festivaletteratura 2023. Tutti gli scatti sono state dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Per certi versi /
Piccola utopia

Piccola utopia

E poi
mi basta
Quella luce verde
Analcolica
Di ferie
In agosto
Le migliaia
Di farfalle bianche
Sull’erba gatta
Il cane che ride
Tra i campi
Illuminati
Per sperare
Di vivere
E lasciare
Un mondo
Per i bambini
Gli anziani
Gli affamati
Le donne libere
Di lasciare
Un mondo
Un mondo
Dove non si uccida
Per un Dio
Un mondo
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La differenza tra disagio e degrado:
quando una città diventa comunità

Proviamo a iniziare da qui: fare attenzione a come vengono spesi i soldi pubblici, rivedere la distribuzione delle risorse e chiedersi se davvero chi ci amministra sta facendo tutto quello che può per evitare che ci siano persone che dormono per terra.

Una città è solo uno spazio fisico con strade e parcheggi e supermercati. Una città diventa comunità quando le persone che la abitano sentono di appartenere a quel luogo e vivono la responsabilità gli uni verso gli altri di tenerla insieme e farla funzionare.
Bisogna che recuperiamo la capacità di distinguere tra disagio e degrado.
Tra ciò che va rimosso, evitato, pulito, e ciò che va compreso, affrontato e ricomposto.
Bisogna che torniamo a distinguere tra chi commette atti illeciti e chi è sfortunato e ha bisogno di aiuto, non di punizione.
Una persona che dorme per terra avvolta in una coperta ha bisogno di essere vista e supportata, non di essere scavalcata o rimossa come fosse un sacco del pattume.
Rappresenta una questione sociale, non di sicurezza.
Quella persona dorme per terra e non dovrebbe, non perché offenda i nostri occhi ma perché offende il senso di civiltà che ci unisce nel patto di comunità.
Per quanto “fastidio” possa destare la vista di una persona che dorme per terra non sarà mai paragonabile alla disperazione che ha indotto quella persona a scegliere la strada come casa.
La presenza di una persona che dorme all’addiaccio rappresenta una responsabilità per tuttə noi, se questa è una comunità e se noi siamo cittadinə ed è dovere di chi amministra occuparsene, non per spostare altrove il problema, non per approfittare del malcontento dei residenti ma facendosene carico per prendersi cura di chi è in difficoltà, temporanea o permanente.
Il problema non è chi dorme a terra. Il problema è non avere soluzioni per evitare che questo accada.
Non succede solo a Ferrara e non succede solo dove governa la Lega, che ci siano persone senza fissa dimora.
Quello che cambia è la sensibilità con la quale si affronta la questione e quali soluzioni vengono adottate.
Coi “calci in culo”, i daspo urbani e la rimozione delle panchine non si risolve nulla. Servono investimenti nei servizi sociali proporzionati alla crisi che stiamo vivendo.
Qualche decina di migliaia di euro li si potrebbe risparmiare dalla comunicazione pubblica, o dai costi dei cartelloni per i concerti, qualche sponsorizzazione potrebbe essere investita in progetti sociali anziché solo in eventi ludici.
Proviamo a iniziare da qui: fare attenzione a come vengono spesi i soldi pubblici, rivedere la distribuzione delle risorse e chiedersi se davvero chi ci amministra sta facendo tutto quello che può per evitare che ci siano persone che dormono per terra.

Lo straordinario concerto di Fatoumata Diawara

La fantastica Fatoumata Diawara

Fatou è magica.

Fatou è eclettica.

Fatou è magnetica.

Fatou è carismatica.

Fatou è Fatoumata Diawarala cantautrice del Mali, che giovedì 7 settembre ha aperto la seconda parte di “Ferrara sotto le stelle”, una rassegna musicale fra le più longeve in Italia dove, negli anni, si sono esibiti fior fiore di artisti.

Fatoumata ha incantato da subito il pubblico presente con la sua presenza scenica, il suo stile, la sua bellezza, il suo canto e la sua musica che mescola sapientemente i suoni delle radici africane con quelli del mondo, soprattutto blues, jazz, reggae, funky, rock, beat.

Insieme al gruppo che l’ha accompagnata ha creato un’atmosfera allo stesso tempo gioiosa ed intima, energetica e spirituale

Durante la serata ha presentato quasi tutti i brani dal suo ultimo bellissimo album “London Ko”: Tolon, Somaw, Mogokan, Sètè, Dambe, Yada, Netara, Nsera, Massa Den e la strepitosa Blues.

Oltre a questi ha eseguito Mousso Seguen, dall’album Fatou, una originalissima versione di Feeling Good di Nina Simone e Anisou.

Nel titolo del suo ultimo disco, oltre al nome della città inglese c’è un richiamo al nome della capitale del Mali: Bamako, quasi a voler sottolineare la sua scelta di creare una sorta di ponte che parte dalla musica tradizionale e arriva ad incontrare le sonorità delle avanguardie europee.

I brani di Fatoumata Diawara sono cantati soprattutto nella lingua “bambara” parlata dall’80% della popolazione del Mali e parlano di temi universali come il rispetto, l’emancipazione, la pace ma anche di problemi riguardanti l’Africa, come ad esempio: l’infibulazione, i bambini soldato, la schiavitù, i matrimoni combinati che costringono le bambine a sposare maschi adulti contro la propria volontà, i bambini dati in affidamento ad altre famiglie.

Spesso ha introdotto le sue canzoni parlando al pubblico ed insistendo sull’impegno per cambiare il presente in modo che il futuro sia migliore.

Ha sottolineato la sua fiducia nelle nuove generazioni perché le considera pronte per il cambiamento.

Diverse volte ha gridato che l’Africa è la culla del mondo quindi tutti noi siamo figli di quel continente perché è lì che si è sviluppata la civiltà umana.

Il pubblico ha ascoltato, ha ballato, ha cantato, ha applaudito; è come se avesse partecipato ad una specie di rito collettivo in cui Fatoumata, come una sciamana, ha trasportato magicamente ciascuno di noi in un’atmosfera immateriale che è stata davvero bellissima, corroborante e potente.

Un concerto che definirei addirittura terapeutico.

L’esibizione di Fatoumara Diawara è stata preceduta da un set della cantante Emma Nolde che, accompagnandosi con la chitarra elettrica, ha stupito i presenti con una voce davvero unica ed interpretazioni molto intense dal punto di vista espressivo che hanno dato uno spessore particolare ai suoi testi originali.

Emma Nolde

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

Presto di mattina /
Sul mondo, pane spezzato e vino versato

Presto di mattina. Sul mondo, pane spezzato e vino versato

Mongolia

In questi giorni, pensando al viaggio di papa Francesco in Mongolia, mi veniva spesso in mente il deserto dei Gobi e l’altopiano degli Ordos nella Mongoglia occidentale. Luoghi che ho conosciuto per il tramite delle lettere di viaggio di padre Pierre Teilhard de Chardin, esploratore, paleontologo e geologo in Cina dal 1923 al 1946, dove le sue ricerche contribuirono alla scoperta, nel sito di Chou Kou Tien, del sinantropo, l’uomo di Pechino della specie Homo erectus vissuto circa 400.000 anni fa.

Una lunga frequentazione dei suoi testi, continuamente intrecciati da visioni ardenti e da un sentire mistico e poetico, ha accompagnato e arricchito il mio itinerario umano, spirituale e pastorale, portandomi a comprendere e a vivere sempre più la liturgia cristiana come una liturgia cosmica, tanto da celebrare l’eucaristia, la messa come la celebrava lui “sul mondo”, in quelle sterminate e solitarie steppe dell’Asia: senza pane e senza vino.

Ma non mi sarei mai aspettato che domenica scorsa, terminata la messa a Santa Francesca, mi arrivasse un messaggio di WhatsApp che diceva brevemente: “Sarai contento per la messa sul mondo di padre Teilhard ricordata dal papa in Mongolia! Un abbraccio L.”. Come caduto dalle nuvole ho risposto senza sapere e senza pensarci, improvvisando la prima parola che mi venne: “Contentissimo”.

Non ho né pane, né vino, né altare

Poi con calma nel sito www.vatican.va ho cercato il ringraziamento di papa Francesco fatto dopo l’omelia alle “Steppe Arena” (Ulaanbaatar), domenica 3 settembre 2023:

«La Messa è azione di grazie, “Eucaristia”. Celebrarla in questa terra mi ha fatto ricordare la preghiera del padre gesuita Pierre Teilhard de Chardin, elevata a Dio esattamente 100 anni fa, nel deserto di Ordos, non molto lontano da qui. Dice così: “Mi prostro, o Signore, dinanzi alla tua Presenza nell’Universo diventato ardente e, sotto le sembianze di tutto ciò che incontrerò, e di tutto ciò che mi accadrà, e di tutto ciò che realizzerò in questo giorno, io Ti desidero, io Ti attendo”.

Padre Teilhard era impegnato in ricerche geologiche. Desiderava ardentemente celebrare la Santa Messa, ma non aveva con sé né pane né vino. Ecco, allora, che compose la sua “Messa sul mondo”, esprimendo così la sua offerta: “Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla tua attrazione, presenta a Te nell’alba nuova”. E una preghiera simile era già nata in lui mentre si trovava al fronte durante la Prima guerra mondiale, dove operava come barelliere.

Questo sacerdote, spesso incompreso, aveva intuito che “l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso – in un certo senso –, sull’altare del mondo “ed è “il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile” (Enc. Laudato si’, 236), anche in un tempo come il nostro di tensioni e di guerre.

Preghiamo, dunque, oggi con le parole di padre Teilhard: “Verbo sfavillante, Potenza ardente, o Tu che plasmi il molteplice per infondergli la tua Vita, abbassa su di noi, Te ne supplico, le tue Mani potenti, le tue Mani premurose, le tue Mani onnipresenti”. Fratelli e sorelle della Mongolia, grazie per la vostra testimonianza, bayarlalaa! [grazie!]. Dio vi benedica. Siete nel mio cuore e nel mio cuore rimarrete. Ricordatemi, per favore, nelle vostre preghiere e nei vostri pensieri. Grazie».

Sono testi quelli di Teilhard sempre presenti in me, parole dormienti che tuttavia si risvegliano, fioriscono di tanto in tanto soprattutto nei momenti faticosi come i fiori di un Calicantus profumato nel cuore dell’inverno − piccoli soli, profeti di luce futura − oppure quando silenziosamente mi sorprende il chiarore dell’alba o sopravviene vestito del suo splendore infuocato il tramonto al declinare del giorno.

La messa sul mondo

Poiché ancora una volta, o Signore,
sono senza pane, senza vino, senza altare,
mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale;
e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale,
il lavoro e la pena del Mondo.
Lì in fondo, il sole appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo
del primo Oriente.
Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme,
la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio.
Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica
e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti.
Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta
alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra,
si eleveranno e convergeranno nello Spirito.
Vengano pertanto a me
il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata.
(Inno dell’universo, Queriniana, Brescia 1992, 9).

Con questa preghiera Teilhard ha fatto rivivere il mistero della sua fede dentro il cuore impazzito, lacerato del mondo in guerra fin dentro le trincee, nella carneficina della battaglia di Verdun durata dieci mesi, dal 21 febbraio 1916 al 19 dicembre 1916.

Così egli celebrava la messa sul mondo anche senza il pane e il vino, ma mai senza tutto lo sforzo e il patire della creazione, nel confliggere dei popoli, delle genti. E soprattutto mai senza il sacrificio e la pienezza del Cristo, quello della sua umanità trafitta, offertasi nell’umanità di ogni uomo e ogni donna, in ogni vagito e in ogni grido, o rantolo di morente; in ogni fibra dell’universo, in ogni vivente che nasca o che gioisca, che soffra o che muoia.

La messa sulle cose

Giunto nel deserto degli Ordos nel 1923 egli scrive: «Un po’ troppo assorto nella scienza per dedicare molto tempo alla filosofia, ma quando discendo in me stesso, sono sempre più intimamente persuaso che in ogni cosa ha valore solo la scienza del Cristo, ossia la vera scienza mistica.

Una volta tornato alla geologia, mi lascio riprendere dal gioco. Ma ogni minima riflessione mi mostra limpidamente che questa attività (vitale per me quanto più fa corpo col “gesto intero” della mia vita) non ha in sé nessun interesse definitivo.

Continuo ad elaborare a poco a poco, e un po’ meglio, la mia “messa sulle cose” nella preghiera. In un certo senso mi pare che la vera sostanza da consacrare ogni giorno è l’accrescimento del mondo per quel giorno, – essendo il pane buon simbolo di ciò che la Creazione riesce a produrre, e il vino (sangue) di ciò ch’essa fa perdere in fatica e in sofferenza nel proprio sforzo» (Lettere di viaggio, [LV] Saokiaopan [Ordos sud-est], 26 agosto 1923, 26-27).

La sua “Messa sulle Cose” è allora da considerarsi come un nucleo testuale multiforme, in divenire e sempre in trasformazione, perché in permanente relazione temporale all’evento dell’altare, alimentato a quel focolaio ardente che per lui fu la celebrazione eucaristica quotidiana.

La sua messa, che egli “approfondisce e rielabora senza sosta”, è pure testo dai “molti nomi” conosciuti – Il Sacerdote (1918), La Messa sul Mondo (1923), Il Sacramento del Mondo (1934) – o anonimi, perché rifusi, amalgamati nell’intreccio con gli altri testi, come filo rosso ad essi trasversale e loro segreto ordito: «Se avrò il tempo, – scrive nel 1929 – ne scriverò, il prossimo autunno, l’ennesima stesura. Penso che adesso essa si avvicini alla perfezione massima che sono in grado di darle» (Lettere a Léontine Zanta, 23 agosto 1929, 135).

Teilhard ha aperto una nuova prospettiva per declinare il mistero eucaristico. Mediante la riscoperta delle estensioni fisiche e reali della presenza eucaristica, nello spazio e nel tempo della esperienza credente, ritrova “il posto fondamentale dell’Eucaristia nell’economia del mondo” (cfr.: Il mio Universo (1924), in Scienza e Cristo, 92-93).

Questa “messa” sentita come irradiazione della presenza eucaristica nel cosmo, attivatrice della sua cosmogenesi, è pure generativa nella storia di una itineranza per le vie del mondo: una cristogenesi. Non si sta chiusi in chiesa, ma si si esce come lui all’incontro con le genti. Una messa che continua così ad essere celebrata nella vita, intrecciando le storie delle persone, strada facendo con loro, spezzando il pane e offrendo il calice della benedizione, il gioire e il patire della propria vita.

Il deserto sorride, fiorisce, profuma

Suggestive sono pure le descrizioni dell’ambiente circostante:

«Attraverso interminabili alture rivestite di odorose artemisie, di liquirizie a foglie di acacia, di esedre che hanno steli di equiseti e frutti a forma di lampone, abbiamo raggiunto l’angolo sud–est dell’Ordos, mèta definitiva del viaggio. Ancora una volta la nostra tenda è piantata in mezzo al deserto in una cerchia di dirupi terrosi. Ma qui il deserto sorride, e i dirupi sono grigi, gialli e verdi anziché bianchi e rossi.

Siamo accampati in fondo al cañon tortuoso, ritagliato a 80 metri di profondità, in piena steppa, dallo Chara-usso-gol, le cui acque di limpido fango rumoreggiano accanto a noi sopra una barriera di pietre… Per tutto un mese prolungheremo il nostro soggiorno sulle rive dello Chara-usso-gol fiorite di ginestre color lilla e di una specie di lavanda a spighe di un azzurro profondo che i mongoli chiamano con termine scorretto ma grazioso l’artemisia degli “argali”.

Fra le dune, le fitte piantine di un piccolo aglio a fiori rosa stendono un tappeto marezzato simile a quello che, in questa stagione, rallegra, a quanto dicono, la tristezza del Gobi. Tutto ciò manda un buon profumo e splende gioiosamente nella calda luce. La steppa è una vera bellezza sotto il suo fugace travestimento negli ultimi giorni d’estate» (LV, Agosto 1923, 36-38).

La terra, carne ferita, umanità in cammino

Ed anche: «Noi altri geologi, venuti qui come nell’Ordos in cerca delle “Cattive Terre,” (detto di vastissime zone di terreni argilloso-sabbiosi che, in seguito alla forte erosione delle acque, prendono forme tormentate e instabili) non ci lasciamo sedurre dalla comoda pace dei campi mollemente ondulati. Ci immergiamo, invece, nelle crepe più profonde della montagna, quelle dove la terra rossa appare, come una carne ferita, sotto gli spessi strati grigi.

Là biancheggiano le ossa dei rinoceronti, delle giraffe, delle antilopi, che durante il Miocene (da 23 a 5 milioni di anni fa) erravano qui come oggi galoppano nelle praterie tropicali dell’Africa. Anche là, sotto le alte muraglie di loess, sono disseminate le vestigia dell’uomo i cui occhi han guardato la Cina prima che essa indossasse la sua veste di terra gialla.

Ma già nei campi anneriscono la spiga dolcemente curva del miglio e la pesante e rigida granata delle saggine. L’autunno e il freddo stanno per scendere sugli altipiani dell’Asia. Per i viandanti è il momento di tornare nelle più miti pianure della Cina orientale…

Pellegrino dell’avvenire, torno da un viaggio compiuto interamente nel passato. Ma, visto in un certo modo, può il passato trasformarsi in avvenire? Una coscienza più estesa di ciò che è e di ciò che fu, non è la base essenziale per ogni progresso spirituale? L’intera mia vita di paleontologo non è forse confortata dall’unica speranza di contribuire ad un cammino in avanti? …

Convinto che l’unica scienza consista nello scoprire, la crescita dell’universo, io mi inquietavo per aver visto soltanto, durante questo viaggio, le tracce di un mondo dissolto. Ma perché questa inquietudine? Il solco lasciato alle spalle dall’umanità in cammino non ci rivela forse il suo movimento allo stesso modo della schiuma che si solleva sul filo della prua dei popoli?» (LV, settembre, ottobre 1923, 39; 42-43).

In quel vuoto e in quel silenzio, in quelle terre rovistate, erose dal vento e scavate dall’acqua, terre ferite riempite di polvere e detriti, il “Dio ignoto” annunciato da Paolo all’Areopago di Atene dimora anche lì sotto le tende, le yurte dei nomadi della Mongolia.

Gli “obo muti” testimoni della sacralità in ogni cosa

Ma non è sempre stato così fin dai tempi di Abramo? Anche qui in laboriosa attesa, in questo deserto ancor prima, fin dall’inizio dei tempi. A questo fanno pensare pure le descrizioni di quei manufatti di culto, “obo muti” (ovoo/oboo in mongolo) li chiama Teilhard, mucchi di pietre sormontati da fascine e pertiche, «altari sempre deserti disseminati nella solitudine […] misteriosi, selvaggi, impressionanti», simboli che testimoniano della sacralità del luogo, accumulati dai viandanti come segno di devozione e preghiera, ma anche come punto di riferimento per orientarsi durante il viaggio.

«A intervalli qualche convento di lama e su ogni punta rocciosa notevoli mucchi di pietre chiamati obo (al tempo stesso altare e punto di riferimento stradale), dove, passando, il fedele mongolo aggiunge una pietra. A un chilometro dal campo uno di questi obo, completo e complicato, conta una decina di mucchi di pietre sormontati ciascuno da una fascina che il vento dell’ovest ha piegato, come la fiamma di una torcia.

Questi simboli muti, questi altari sempre deserti disseminati nella solitudine, son davvero misteriosi, selvaggi, impressionanti. […] È la settimana di Pentecoste, mi piace pensare che lo “Spirito di Cristo” ha riempito la terra … come la Chiesa ripete in questi giorni» (LV, 10.6.1924, 57; 30.6.1924, 59).

La messa sul mondo continua ad essere celebrata anche oggi, concretamente o anche solo mentalmente, nei luoghi più disparati: persino in quelle situazioni umanamente ai margini, o umilianti e disfacenti come gli abbandoni e le guerre.

Così anch’io continuo a celebrare la messa sul mondo anche fuori delle mura di una chiesa come padre Teilhard. Una Messa celebrata segretamente nei luoghi più dimenticati e desolati, andando per strada, per le piazze, negli ospedali, ma pure sempre segnati dall’umano passaggio e dalla religiosa ricerca di un Dio ignoto, che abita il cuore di ogni uomo e che si accompagna straniero a ogni viandante pellegrino dell’assoluto.

Il Cristo sempre più grande

Invocato «tra eterni venti polverosi, sui fiori bianchi, sotto un Cielo blu» (LV 15 aprile 1929, fonte Claude Cuenot, L’evoluzione di Teilhard de Chardin, Milano 1962), il Cristo con la sua incarnazione è così associato a tutte le potenze ed alle forze che fanno crescere o diminuire la terra, nascosto tra le pieghe dei suoi sviluppi e delle sue diminuzioni. È misteriosamente presente, “latens Deitas”, in ogni passività e attività che intreccia la vita.

«A destra, press’a poco alla stessa distanza, un rosario di cinque o sei nor anche più grandi. Alle mie spalle la linea di montagne verdi che attraverseremo domani. E, finalmente, tutt’intorno, una collina erbosa, coperta di vecchi olmi contorti disseminati come i meli di un prato per una decina di chilometri quadrati. E poi, neppure un’anima viva, niente rumori.

Tre grandi obo muti col loro cumulo di fascine e di pertiche, erano testimoni del carattere sacro del luogo. Qui io ho offerto al Cristo il mondo della Mongolia: nessuno, senza dubbio, l’aveva mai invocato in questa regione interamente estranea all’influenza dei missionari.

Meno maestosi, ma di una più penetrante poesia, sono i laghetti o nor, addormentati in una cerchia di colline, dove gru, cigni, oche, trampolieri e belle anitre con splendidi colori nidificano e nuotano con quasi la stessa disinvoltura degli uccelli dei giardini pubblici. Ancora ieri la nostra tenda era piantata sulle rive di uno di questi nor.

La sera è stata deliziosa (evento piuttosto raro in questo paese dal clima tempestoso, dove 48 ore non passano senza burrasche o senza temporali). Io guardavo tramontare il sole su immense groppe basse e lisce che chiudevano l’orizzonte. Nel cielo dorato, una grossa nuvola nera, isolata, lasciava bizzarramente cadere una pioggia violetta» (LV, 59-60).

Al cuore della Materia una preghiera

Signore della mia infanzia e Signore della mia fine,
– Dio compiuto in Sé, eppure, per noi, mai finito di nascere,
– Dio che presentandoTi alla nostra adorazione quale ‘evolutore ed evolutivo’,
sei ormai l’unico che possa soddisfarci,
– disperdi finalmente tutte le nuvole che Ti nascondono ancora,
– sia quelle dei pregiudizi ostili che quelle delle false credenze.
E, per Diafania ed Incendio ad un tempo, erompa la tua universale Presenza.
O Cristo sempre più grande!»
(Il Cuore della Materia [1950], 47).

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