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Superbonus: una retrospettiva, tra meriti e disastri

Superbonus: una retrospettiva, tra meriti e disastri.

 

Richiamo quanto avevo scritto in aprile 2024, aggiungendo nuove considerazioni emerse dal fatto che il Superbonus ha contribuito (fonte Corte dei Conti) per il 93% alla crescita reale del 2021 e che ha consentito un aumento degli occupati e del Pil con i seguenti effetti:

  1. inflazione (che tutti i Governi hanno sempre usato per ridurre il debito pubblico)
  2. aumento degli occupati (che pagano imposte)
  3. revisione in aumento Istat del nostro PIL

Così questo Governo potrà disporre di 50 miliardi aggiuntivi di spazio fiscale così distribuiti: 9 miliardi nel 2025, 15,5 miliardi nel 2026, 25,6 miliardi nel 2027. Ecco perché si permette di chiedere poco alle banche come extraprofitti (e nulla alle società energetiche), perché sa che potrà disporre di un “tesoretto” che nessun Governo ha mai avuto. Non male per chi (Meloni) aveva dichiarato che il Superbonus aveva creato un “enorme buco di bilancio”. Ciò conferma che politiche “keynesiane” di spesa pubblica (se ben fatta) siano positive per sviluppo e crescita dell’occupazione. Ciò non significa che la misura del Superbonus non potesse essere disegnata meglio, escludendo per esempio dagli incentivi i 5,6 milioni di seconde case, favorendo i ceti meno abbienti (e non i più ricchi com’è avvenuto), dando meno incentivi (70%?) in modo che anche i privati controllassero i prezzi, più le altre critiche che anche noi abbiamo fatto. Della serie: bisognerebbe prima sperimentare in alcuni Comuni e poi, fatte le correzioni di cui sempre necessitano le sperimentazioni, promulgare una legge nazionale. Ma ciò contrasta con gli interessi elettorali dei partiti, per cui le sperimentazioni non si fanno mai. Da un lato il Governo Meloni incassa questo tesoretto di 50 miliardi, dall’altro dovrà spiegare ai suoi elettori che sta facendo una politica economica allineata a quella del Governo Draghi, che più che favorire lo Stato favorisce i grandi privati vendendo azioni delle aziende pubbliche (Eni, Enel, Poste, Ferrovie,…) per incassare più soldi possibili, ma vendendo parte dei gioielli di famiglia che erano di proprietà dello Stato. Ma non era “sovranista”?

A criticare il Superbonus sono ora quasi tutti, ma all’inizio tutte le forze politiche erano favorevoli in quanto in condizioni di recessione (2020) il rilancio dell’edilizia ha effetti moltiplicatori anche sugli altri settori. Misure radicali finanziate dal debito pubblico sono auspicabili ma devono essere fatte ovviamente con discernimento. Anche Keynes, che ne descrisse l’importanza anche a costo di impiegare i disoccupati a “scavare delle buche”, era certamente favorevole a costruire ferrovie o alloggi popolari piuttosto che scavare semplicemente delle buche per terra.

Avevamo sollevato molte perplessità su una misura che fino ad ora è costata allo Stato 122,6 miliardi di euro di detrazioni fiscali a favore di 495mila edifici (tra condomini e case singole o plurifamiliari) e che ha generato alcune centinaia di migliaia di occupati e una crescita del Pil. Gli edifici coinvolti sono stati il 4,1% del totale. Non sappiamo quanti interventi siano stati fatti sulle seconde case ma, tramite la Corte dei Conti, sappiamo che in base alle dichiarazioni dei redditi Irpef relative all’anno di imposta 2021, le detrazioni hanno interessato solo il 5,6% dei contribuenti con meno di 40mila euro, il 57% tra 40 a 150mila e il 37% di quelli con oltre 150mila euro. Una manovra quindi regressiva, nel senso che a beneficiarne sono stati soprattutto i più ricchi.

Scrive CGIA: “Se lo Stato avesse investito questi 122,6 miliardi per realizzare alloggi pubblici ad un costo ipotetico di 100mila euro cadauno, potremmo contare su 1,2 milioni di nuove unità abitative. Pertanto, in linea puramente teorica, avremmo potuto demolire tutte le 800mila case popolari presenti in Italia, molte delle quali versano in condizioni fatiscenti, e ricostruirle con tecniche innovative e con classi di efficienza energetica elevate e disporremmo di 400mila alloggi pubblici in più di quanti ne contiamo adesso”. Ciò spiega la stretta in atto del Governo che spalma su 10 anni le detrazioni e le critiche dell’Europa per un provvedimento giudicato pessimo (“all’italiana”).

Secondo il Censis, le famiglie che abitano in alloggi popolari sono 3,5 milioni di persone e se fosse stato fatto a favore di queste persone povere sarebbe stato certamente un ottimo intervento. Invece è stata una sorta di Robin Hood al contrario: ha tolto ai poveri per dare ai ricchi. “Ha tolto”, nel senso che con una spesa di oltre 122 miliardi, nei prossimi anni sarà difficile far quadrare i nostri conti pubblici, in quanto si pregiudica la possibilità di reperire nuove risorse aggiuntive da destinare alla sanità pubblica, all’edilizia sovvenzionata, al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale (quest’ultima dichiarazione del Censis, in corsivo, è sbagliata alla luce dei notevoli vantaggi derivanti proprio dalle entrate fiscali e dalla crescita del PIL).

Dati sicuri non ci sono ma pare che anche i risultati ottenuti sotto il profilo ambientale (abbattimento delle emissioni di CO²) siano molto contenuti. Tra il 2021 e il 2022 gli investimenti in edilizia residenziale sono aumentati del 60% e poiché la quota sul Pil nazionale del settore delle costruzioni è poco meno del 6%, il contributo del Superbonus alla crescita della ricchezza del Paese in questo biennio dovrebbe essere stato di circa 1,8 punti, di cui 1,2 nel primo anno (su 7 punti di crescita totale) e circa 0,7 nel 2022 (su 3,8 punti complessivi). Il numero degli occupati nel settore in questi ultimi anni, invece, ha subito un deciso aumento. Non poteva del resto essere altrimenti, con un investimento di oltre 122 miliardi di euro in cui abbiamo “drogato” il mercato, facendo esplodere la domanda e, conseguentemente, anche gli occupati in edilizia ma anche i prezzi (alle stelle) degli altri lavori in edilizia. Ora che il ricorso al Superbonus sta “scemando”, gli occupati di questo settore stanno diminuendo.

Anche in questo caso sarebbe opportuno fare una retrospettiva dei maggiori errori che, a mio avviso, sono stati:

1) quello di eliminare qualsiasi forma di partecipazione dei beneficiari al costo (che avrebbe determinato un controllo e contenimento dei prezzi dal basso);

2) includere anche le seconde case;

3) esagerare col bonus (che poteva fermarsi al 60-70%, differenziato in base al reddito del beneficiario e alla tipologia della casa);

4) non indicare sin dall’inizio una detrazione di 10 anni, e non 4;

5) non favorire i condomini e le case dei più poveri, con benefici anche in base al reddito;

6) non lasciare la misura per più anni, evitando così di ingolfare il settore e far salire alle stelle i prezzi.

Venuto meno il contrasto di interessi tra cliente e costruttore, c’è stato infatti un aumento a dismisura dei prezzi delle materie prime e dei prodotti/servizi correlati, con una ricaduta sui costi di costruzione degli edifici residenziali del tutto ingiustificata e con conseguenze molto negative anche sugli appalti pubblici e tutte le altre costruzioni non agevolate. L’impennata dei costi di moltissimi materiali sta imponendo ora una revisione dei prezzi per un gran numero di opere pubbliche già cantierate, causando alla Pubblica Amministrazione enormi difficoltà ad adeguarsi per il deciso aumento del costo dell’opera e in molti casi provocando il rallentamento o addirittura la sospensione dei lavori nei cantieri. In molti casi il costo delle opere pubbliche oggi è  per un terzo superiore a quello di 3-4 anni fa.

 

L’aggravio burocratico, comprensibile per un ammontare così elevato di fondi gratuiti a singoli cittadini, ha creato frodi per 15 miliardi, di cui 8 sono stati recuperati. Ogni intervento è costato mediamente 247mila euro: si va dagli oltre 400mila euro in Valle d’Aosta ai 183mila della Toscana. Le regioni che l’hanno usato di più sono ovviamente quelle più ricche e, al loro interno, le famiglie più abbienti. I valori medi (247mila euro di detrazione in Italia) comprendono tutti gli immobili ovvero sia i condomini, per i quali l’importo medio è più elevato (in Italia 593mila euro), sia edifici unifamiliari di singola proprietà (in Italia 117mila euro), sia unità immobiliari indipendenti ma dotate di almeno 3 proprietà (in Italia 98mila euro).

 

 

PAOLO MONTI a cinquant’anni dal censimento fotografico di Ferrara.
Convegno a Palazzo Bonacossi, sabato 19 ottobre ore 9,30

PAOLO MONTI a cinquant’anni dal censimento fotografico di Ferrara

Convegno a Palazzo Bonacossi  – Sabato 19 ottobre 2024  ore 9:30   

Sabato 19 ottobre 2024  ore 9:30 si terrà presso Palazzo Bonacossi  il Convegno: ”PAOLO MONTI a cinquant’anni dal censimento fotografico di Ferrara”.

L’iniziativa promossa dal Comune di Ferrara, dai Musei di Arte Antica e dall’Accademia d’Arte Città di Ferrara APS vedrà la presenza di studiosi e professionisti che, nelle rispettive competenze, hanno collaborato o interagito con l’opera di Paolo Monti.

L’introduzione del Convegno sarà dell’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Marco Gulinelli e di Ethel Guidi Dirigente del servizio Musei d’arte poi si avvicenderanno: Silvia Paoli, Benedetta Cestelli Guidi, Piero Orlandi, Luca Massari, Pierluigi Cervellati e come moderatore Ulrich Wienand dell’Accademia d’Arte Città di Ferrara APS. In questa sede sarà possibile vedere il video: “Paolo Monti fotografa Ferrara 1974” (15 min.) di Paolo Ravenna.
Il programma del convegno:

A conclusione del Convegno la Galleria del Carbone (via del Carbone 18/A) effettuerà un’apertura straordinaria della mostra “Paolo Monti e Ferrara: 50 anni dal censimento fotografico del Centro Storico”. 

Periscopio ha già recensito nei giorni scorsi la magnifica mostra della Galleria del Carbone: vedi Qui

In copertina: Via Terranuova (foto Paolo Monti)

 

 

“Partire da qui” di Stefano Modeo: una nota critica

Partire da qui di Stefano Modeo: una nota critica

È sfuggito alla cronaca, come è normale, la presentazione dell’ultima raccolta poetica di Stefano Modeo.

È normale perché è nella norma considerare la poesia o, davvero, “solo poesia” (come, per dire: “roba nella mente degli angeli”), oppure solo “parolume” autoreferenziale, così inflazionato e pervadente da non potergli stare dietro e credergli.

Tanto più e comunque sapendo che alla cronaca sfuggirebbe sempre l’essenziale.

Ed è proprio per questo …”sfuggire sfuggente” che l’essenziale resta sempre e solo immaginato.

Così già durante la presentazione ferrarese della sua raccolta, Partire da qui (Interno Poesia, 2024), nel mese (eliotiano) di Aprile si poteva immediatamente immaginare la “fortuna” del poeta in questione, catturandone l’essenzialità dello sguardo.

È stato Wallace Stevens a parlare in termini “pratici” di questo sguardo, quello dell’angelo invisibile che “annuncia ai pastori non una nascita divina ma una rivelazione terrestre”; lo sguardo dell’angelo della realtà che si limita a indicare la strada: l’angelo necessario che fa rivivere, il mondo, nello sguardo della poesia.

Qui terminerebbe questa modesta nota critica che , come si capisce, critica non è e, in quanto “nota”, non può che predisporre e condurre alla musica. Quella dei versi. E a questi arriveremo dopo alcune necessarie righe di … critica alla critica poetica.

Parlare di un poeta è un compito ingrato in quanto: e quello che si sa scrivere su di loro è, nella maggior parte dei casi, superfluo” [Hannah  Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino, 2011].

Al poeta in quanto “…testimone dell’onestà, spetta il compito di forgiare le parole con le quali dobbiamo vivere”.

È sul poeta che pesa, consapevolmente o meno, la responsabilità di sondare il presente, inviando uno stesso identico segnale (la parola) per ricevere un’eco di ritorno (la cosa), anche quando la pesantezza (per dire gravità) del momento è tale da impedire l’esercizio stesso di un canto poetico e di rinunciare a una sua elaborazione, relegando quel che resta della nostra “umanità” a una “cieca” obbedienza (a volte incivile perché costretta).

I poeti esistono per essere citati è un verso di Auden.

Il poeta inglese, attraverso questo verso, denunciava una “triste realtà della nostra cultura”, secondo la quale un poeta riesce a farsi conoscere e ad avere successo molto di più scrivendo o parlando della propria arte piuttosto che praticandola. E così un poeta correrebbe il rischio di “perderla”, l’arte di scrivere poesia, proprio a furia di parlarci e scriverci sopra.

Costretto da poeta a svolgere il ruolo di critico, Auden così riassunse il suo ideale di “critica letteraria”: “…qualsiasi critico coscienzioso sa perfettamente che, dovendo recensire in uno spazio esiguo l’ultimo libro di versi, presentare una serie di citazioni astenendosi da ogni commento sarebbe l’unica soluzione onesta: se però lo facesse davvero, il suo direttore direbbe che non si guadagna lo stipendio”[W. H. Auden, La mano del tintore, Adelphi, 1999].

[NdA: Il direttore di questo web magazine non lo potrebbe dire (mancando il…nome della cosa) e in ogni caso, potendolo, non lo direbbe mai. Ne sono sicuro 😊.]

E allora, ciò detto, ecco la mia quote critica su Partire da qui di Stefano Modeo vincitore del Premio poesia Città di Legnano Tirinnanzi per la sezione Opera Prima o Opera di Giovane Poeta:

Risale per le vie una verità
un risentimento delle case,
delle strade. Ma la speranza
non si prende i suoi torti,
restiamo ostili con desiderio
se il vento riprende, nostro tormento.

[da Due mari, pg.11]

 *******

 Seduti con le ginocchia nere,
non sanno cos’è un bosco di faggi,
né come fugge una volpe.
Ma in questa, di foresta,
sono come uccelli…

[da Nel vicolo, pg.13]

 *******

Ma loro non cedono al tempo
che vogliono. Piuttosto
con un tuffo restano fedeli
a quella loro limpida sapienza.

[da La tartaruga, pg.15]

*******

Dimmi se può venire
Una parola ancora
Che sappia descrivere
Il percorso della spigola
Che si caccia sulla riva,
perché se lei parla
ti prego dice,
lasciami andare.

[da Lasciami andare, pg. 27]

 *******

All’orizzonte minuscole vele
procedevano lente come coltelli


                                                   Dal margine
È più semplice immaginare di andarsene.

[da  Diario dell’inconscio, pg. 28]

 *******

Mio padre in mare si allontana
E pensa che solo il numero
Delle bracciate importi
E non quando dovrà tornare.

[da Mio padre in mare si allontana, pg 32]

*******

Proteggi lui che incespica
e sospendi ogni giudizio
ora che guadagna il silenzio,
viaggio dopo viaggio.

[da Preghiera per il figlio, pg. 38]

*******

Ora mentre fuori la tramontana
spinge i remi di una galea,
la città vuole rifare le sue strade
ma nessuno sembra capire né avvertire
sotto i colpi alle ginocchia, alle caviglie
che è già ridotta in polvere di conchiglie.

[da Noi siamo dove non ci vedete, pg. 61]

*******

…       Cosa aspettiamo a dirci addio?
Quando finisce la guerra può l’uomo
forse con più facilità tradire la terra?
Faccio testamento, depongo lascia:
mare, restituiscimi le braccia
a questa riva mi sono abituato
a non amare a non sentirmi amato.

[da Ulisse sulla spiaggia, pg. 66]

*******

Noi siamo l’aldilà della natura
espulsi con lo sguardo, assaliti
dalle frenesie. Qui non esistiamo,
come migliaia di piccoli tentativi
che scongiurano il vuoto dopo di sé.

[da I monti, pg. 73]

*******

Da lei ho imparato a seguire
l’avanzare delle stagioni sui rami,
attendere l’ultima partenza del glicine,
le prime infiorescenze del pruno.

[da Nel giardino, pg. 75]

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Stefano Modeo (Taranto 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. La Terra del Rimorso (ItalicPequod, 2018 è la sua opera prima. Ha curato le antologie di poesie di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero (Interno Poesia 2023) e di Pasquale Pinto La terra di ferro e altre poesie. 1971-1992 (Marcos y Marcos, 2023). È coautore del libro Conversazione (Industra&Letteratura, 2023) insieme a Paolo Febbraro. Compare nel volume collettivo Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2023); nelle antologie Abitare la parola-Poeti nati negli anni ’90 (Ladolfi, 2019) e in I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese (Marco Saya, 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia Atelier e della redazione del blog Universo poesia-Strisciarossa. Si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese Krabben-Tidsskrift for poesikritikk.

 

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

 

 

Limbo giuridico:
90 mila migranti in attesa da 4 anni del permesso di soggiorno

Limbo giuridico. Permessi di soggiorno, 90 mila migranti in attesa da 4 anni.

I dati sono quelli che emergono dal dossier della campagna Ero straniero per valutare l’efficacia della misura introdotta circa quattro anni fa e che evidenziano “gravissimi ritardi da parte della pubblica amministrazione” e “i limiti del ricorso periodico a tale misura emergenziale”. I numeri sono aggiornati al 30 giugno 2024 e relativi allo stato delle domande presentate tra giugno e agosto 2020 da parte degli uffici coinvolti nella procedura.

Danesh Kurosh, responsabile dell’Ufficio immigrazione della Cgil, ricorda che il provvedimento sulle regolarizzazioni nasce in un periodo, quello della pandemia da Covid-19, che aveva fatto emergere il ruolo che hanno i lavoratori domestici, motivo per il quale “quella regolarizzazione aveva un peso, c’era un’evidente esigenza”, volendo inoltre “incentrare su questo tipo di assistenza il welfare italiano”. 

A quel tempo la Cgil, insieme a Cisl e Uil, “aveva previsto una piattaforma nella quale si chiedeva una regolarizzazione in modo particolare per il lavoro domestico, proprio per la particolarità di quel periodo, ma il rimedio a quella esigenza è stato gestito malissimo” .

“Il problema – prosegue Kurosh – è nella macchina burocratica e amministrativa che fa acqua ovunque. Nel dare una risposta alle domande di regolarizzazione avanzata i tempi sono stati lunghissimi, la cittadinanza ha un tempo di attesa di due anni, che però possono diventare tre o quattro”.

Anche il rinnovo del permesso di soggiorno per chi non ha usufrutto della sanatoria ha tempi lunghissimi, lo stesso per i ricongiungimenti familiari: “La Cgil – dice Danesh – ha promosso azioni comuni che richiamano una class action. Uno strumento, però, che in Italia ha una sua particolarità, vale a dire che l’esito della class action vale esclusivamente per chi presenta i ricorsi e non per tutti coloro che stanno nelle stesse condizioni”.

“Siamo di fronte a un disastro complessivo, che nasce da una logica che possiamo definire ‘più guadagno con meno spese’. Se guardiamo i dati demografici, ci accorgiamo che senza la presenza degli immigrati la società italiana si troverebbe in grande difficoltà, conclude Kurosh: “C’è un bisogno molto pronunciato del loro lavoro in alcuni settori, da quello della cura all’edilizia, ma anche nell’amministrazione pubblica. Dicono che i soldi non ci sono, ed è il primo argomento che viene preso in considerazione in termini di risposta da una parte delle istituzioni”. 

In copertina: foto da stranieri.it

Parole a capo /
Evaristo Seghetta Andreoli: alcune poesie da “Il geranio sopra la cantina”

“Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime. ”
(Pier Paolo Pasolini)

Ringrazio Evaristo Seghetta Andreoli per aver autorizzato la pubblicazione in “Parole a capo” di alcune sue poesie.

 

Assapora molti tipi di rosso
la giovane inglese di grigio fumo
vestita, già abbronzate le gambe

al sole latino, dopo un Bolgheri
mi sorride, labbra rosso rubino
come sangue, come sole al tramonto

come il geranio sopra la cantina.

 

*

 

Preghiamo che il nostro stato di grazia
perduri senza fine, che oltrepassi
il confine breve dell’esistenza.
Non è così male se ci sorprende
con l’evento oramai inaspettato
con la felicità data al soldato
dalla guerra finita, abbandonato
il fucile, ora che la vita ci offre
uno specchio nuovo, il ritorno della
purezza, perché la bellezza vera
penetra nel cuore senza riserve
semplicemente penetra.

 

*

 

Ora mi sono abituato a visioni
di corto raggio, di breve gittata.
Ho capito tardi che si può anche
procedere senza lanci stellari.

Vivo così, di poco e anche di tanto:
di un suo sorriso e di occhi ricolmi
di felicità. Vivo per poche ore
a settimana e nella mia mente
balzana nascono fiori impazziti
che profumano di filosofia.

Rifletto un po’ su come riprendere
la via usata, la mia, la nostra
già sprofondata nel non senso poi
rifiorita così per caso dietro
a un dipinto di un profilo olandese,
per un collo fiammingo che cattura
gli occhi e meraviglia ancor più lo sguardo
anche ora che sta calando la sera.

 

*

 

Ho innaffiato le rose gialle, il pesco
e la siepe ormai poco verde della
mia fantasia con acqua fresca
attinta dal pozzo scavato nella
roccia viva che non si sfalda. Troppa
bellezza stordisce, non siamo pronti
per l’impatto con l’assoluto
scivoliamo nella strettoia della
limitatezza. Un petalo di rosa
e una carezza è ciò che resiste,
fragile stelo della poesia.

 

*

 

Sono un cocktail di tutto, una miscela
di storia, un vuoto di memoria dentro
al buio del non senso: richiedevo
le carezze da un corpo senza mani.

 

Sono strani i desideri senili
che pretendono la luna nel secchio.
E pensare che sono troppo vecchio
per cambiare pozzo o cambiare luna.

 

Occorre tanta fortuna nelle notti
in cui brillano solo gli occhi dei gatti,
quando il buio respira di nero
e i lampioni distratti in fila indiana
illuminano la fine delle illusioni.

 

*

 

Quanto è pesante questa stagione
con le sue guerre, il suo frigore,
con i suoi virus scorrazzanti, i prezzi
fluttuanti, e questo peso in fondo al cuore
che non va più via.

 

Perché non mi abbandoni tempo infausto?
Già sono esausto e di cattivo umore.
Ma il benzinaio egiziano mi ha fatto
dono di un amuleto a suo dire
appartenuto a Nefertiti (forse
Made in China o in Haiti). Le proprietà
taumaturgiche, evitano rovina
e scacciano i pensieri neri.

 

Ci voglio credere. Chissà che questo
ragazzo giunto col barcone sia
il tramite tra noi e gli dei del Nilo?
Ci voglio credere e spero nei mesi
del colore, del calore e anche della
felicità.

 

*

 

Tutti i gatti hanno paura dei botti
mi sarebbe piaciuto il palindromo
come quello “i topi non avevano
nipoti” ma qui non si torna indietro
ai gatti scoppia l’udito e il cuore.

 

Essi hanno il terrore del botto come
del rombo del tuono, del suono acuto
dello squillo improvviso che scuote anche
il Paradiso Terrestre, creato
e tramandato, forse tramontato,
finché l’uomo nel suo furore
futurista non aprisse la pista
al fragore incontrollato.

Così insonorizzo la legnaia,
le fascine a proteggere le cucce
di cartone, vicine alle bottiglie
di Malvasia, poi il telo di versi,
il filtro fatto solo di parole,
e l’eloquente silenzio della
poesia.

 

Evaristo Seghetta Andreoli è nato nel 1953 a Montegabbione, in provincia di Terni, dove vive. Le sue raccolte di versi: I Semi del Poeta (prefazione di Patrizia Fazzi, Polistampa, 2013), Morfologia del Dolore (prefazione di Carlo Fini, Interlinea, 2015, Premio Confindustria Rovigo), Inquietudine da Imperfezione (prefazione di Franco Manescalchi e Giuseppe Panella, Passigli, 2015, Premio Mario
Luzi), Paradigma di Esse (prefazione di Franco Manescalchi e Carlo Fini, Passigli, 2017, Premio Certamen Apollinaris Poeticum Università Pontificia), In tono minore (Passigli, 2020), Il geranio sopra la cantina (Puntoacapo Editrice, 2023). È presente in varie riviste e in antologie italiane e straniere.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 252° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

UNA NUOVA FRONTIERA INTERNA ?
Migrazioni verticali e cambiamenti climatici nella metromontagna italiana
 Giornata di Studi, 22 ottobre 2024 – ore 14:30, Roma

                             

UNA NUOVA FRONTIERA INTERNA?

Migrazioni verticali e cambiamenti climatici nella metromontagna italiana

Giornata di Studi 

22 ottobre 2024 – ore 14:30
Palazzetto Mattei in Villa Celimontana – via della Navicella, 12 – Roma

La giornata di studi, promossa dall’Associazione Riabitare l’Italia in collaborazione con la Società Geografica Italiana e con Donzelli Editore, si propone di sviluppare una discussione transdisciplinare a partire dal volume “Migrazioni Verticali. La montagna ci salverà?”, a cura di Andrea Membretti, Filippo Barbera e Gianni Tartari (2024).

La scelta di lasciare le città – in modo definitivo o intermittente – e di andare a vivere in aree montane e interne, sta emergendo come un fenomeno interessante, ancorché quantitativamente limitato, nel nostro paese. Tra i fattori che spingono in questa direzione si evidenziano la diffusione del lavoro a distanza e l’affermarsi di immaginari positivi associati alla montagna, per certi versi colta e rappresentata come una “nuova frontiera”.

In un contesto di cambiamenti del clima e aumento globale delle temperature, le aree montane alpine e appenniniche iniziano infatti ad essere percepite e agite come un’alternativa alla situazione di crisi socioeconomica ed ecologica delle grandi città: in questo modo, esse vengono caricate di significati simbolici e di aspettative sociali – non prive di contraddizioni – contribuendo a delineare i tratti di una nuova mobilità umana, che si caratterizza per essere (anche) climatica e “verticale”.

Con un approccio trasversale – tra sociologia, geografia, demografia, psicologia e climatologia – e sulla base dei dati originali raccolti nel 2023 tramite il progetto di ricerca MICLIMI (“Migrazioni Climatiche Interne nella Metromontagna padana: www.miclimi.it) il volume “Migrazioni verticali” traccia le caratteristiche principali di questo fenomeno, mostrandone ragioni, prospettive, vantaggi e criticità, anche grazie al lavoro sul campo e al dialogo con le comunità e con i nuovi residenti.

La giornata di studi offre l’occasione per presentare quanto raccolto nel volume e per interrogarsi collettivamente sulla possibilità che le nuove forme della migrazione verticale e climatica possano favorire l’emersione di una inedita frontiera dell’abitare metromontano, tutta interna al Paese anche se proiettata sui suoi margini.

Il Programma

14:30 – 15:00 Introduzione

Carmine Donzelli, Riabitare l’Italia, Presidente

 

15:00 – 16:00 Tavola Rotonda di presentazione del volume “Migrazioni verticali. La montagna ci salverà?”

Alessandra de Renzis, Riabitare l’Italia

Silvia Di Gennaro, Euclipa.it

Andrea Membretti, Riabitare l’Italia

Daniele Panzeri, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) Paolo Piacentini, Autore esperto d’Appennino

 

Modera Filippo Santelli, La Repubblica

 

16:00 – 17:00 Contributi al dibattito

Mauro Varotto, Università degli Studi di Padova

Barbara Staniscia, Università degli Studi di Roma La Sapienza Francesca Impei, Società Geografica Italiana

 

17:00 – 17:30 Conclusioni

Claudio Cerreti – Società Geografica Italiana, Presidente Sabrina Lucatelli – Riabitare l’Italia, Direttrice

 

Con il patrocinio di: IOM – Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – Re-Place, un progetto Horizon Europe di Sapienza Università di Roma

 

 

Se il capitalismo deregolato americano ed europeo avvantaggia la Cina

Se il capitalismo deregolato americano ed europeo avvantaggia la Cina

La Cina finché non è entrata nel WTO (World Trade Organization, Commercio Mondiale) nel 2001 era un paese poverissimo. Crollata l’URSS nel 1991 e a lei applicati dagli esperti (repubblicani) di Clinton 10 anni di liberismo (con la complicità di Eltsin) che hanno impoverito i russi in modo impressionante al punto che le maestre elementari vendevano giornali pornografici nel metrò di Mosca per sopravvivere, si è aperta l’ascesa di Putin, che oggi raccoglie un consenso attorno all’80% in patria, in quanto ha riportato non solo occupazione e benessere in Russia ma quel “rango” di potenza mondiale che era sparito negli anni di Eltsin.

Francis Fukuyama scriverà “La fine della storia” nel 1992, con l’idea (che si rivelerà errata) che con la vittoria del liberismo, gli Stati Uniti sarebbero diventati padroni anche dell’altro mondo (quello ex comunista) e potuto esportare il proprio modello liberale ovunque nel mondo. De-localizzando molte produzioni in Cina, dove il costo del lavoro era 20 volte più basso di quello made in Usa, le multinazionali americane, avrebbero fatto una montagna di profitti e, in effetti, è stato così, se si pensa che Apple nel 2021 ha guadagnato in un anno più che in tutti i 30 anni precedenti.

Non si era valutato però che i cinesi (come i giapponesi) sono bravi a copiare e che presto si sarebbero appropriati non solo della conoscenza di alcune tecnologie occidentali ma, sfornando 5 volte ingegneri, matematici e fisici, etc. di europei e americani, avrebbero potuto superare Stati Uniti e Europa in molti settori e conquistare alcune leadership tecnologiche rese oggi ancora più efficaci per via del controllo della grande maggioranza (80%) delle materie prime rare (o critiche) essenziali per l’innovazione tecnologica e l’Intelligenza Artificiale.

Così la Cina ha già oggi (in termini di potere d’acquisto) un PIL maggiore di quello Usa e un mercato interno (di 500 milioni di cinesi) con un reddito analogo a quello dei 340 milioni di americani.

I politici americani non hanno saputo resistere alle pressioni delle lobby di multinazionali e banche (finanza) per avere ancora più profitto, mentre i politici cinesi (che non sono certo liberali) regolano duramente imprese e banche cinesi impedendo ogni trasferimento di capitali e ricchezza fuori dal paese. Ne sa qualcosa Jack Ma, il capo di Alibabà (l’Amazon cinese) che voleva far entrare capitali occidentali in Alibabà e che è stato prestamente ridimensionato dal potere politico cinese (si “è dedicato” alla filantropia), così come tutte le joint venture con le imprese occidentali sono a maggioranza cinese e il risparmio dei cinesi finisce nelle banche cinesi.

Adesso ci risiamo con l’Europa e con Stellantis che, in crisi strategica, ha acquistato il 20% di Leapmotor (una piccola automotive cinese), che produrrà 500mila auto cinesi elettriche (ed extended range) a Tychy in Polonia (nella fabbrica ex Fiat) da fine 2024 e le venderà in tutta Europa, bypassando così i dazi che l’Europa metterà presto sulle auto cinesi.
In tal modo Stellantis guadagna come produttore solo il 20% (tanto è la sua quota in Leapmotor) e una parte come “commerciante”. La politica europea non può farci niente perché siamo paesi liberali e la libera concorrenza deve stare al di sopra di tutto. Così potremo comprare anche in Italia il modello elettrico Leapmotor T03 a 19mila euro che è molto più basso della Citroen e-C3 venduta a 23.900 euro o di Dacia Spring.
Poi arriverà anche il Suv Elettrico C10 di Leapmotor al prezzo di 36.400 euro, in quanto pare che Stellantis abbia fatto un accordo per vendere tutte le Leapmotor fuori dalla Cina tramite una società in cui è in maggioranza (51%), lasciando in minoranza i cinesi (49%). Stellantis diventa così un “commerciante” in cui guadagna la metà dei cinesi che rimangono però i proprietari della produzione e delle innovazioni tecnologiche.

Non è escluso che avvenga quello che la Fiat e le case americane facevano decenni fa nei paesi del “terzo” mondo, cioè rimontare pezzi propri insieme ad alcuni (di minor livello tecnologico) fatti dal paese “terzo”. In gergo si chiama “completely Knockeddown- Ckd”, cioè smontare tutto e rimontare. Il che potrebbe avvenire anche con il possibile investimento in Italia dell’altra automotive cinese Dongfeng, per far si che in Italia (dopo la dismissione di Stellantis) si torni a produrre un milione di auto (questa volta per metà cinesi), sempre per aggirare i dazi europei ai cinesi.

Trump dichiara che darà enormi incentivi a chi produce in Usa (come già fa la Cina) e che creerà nuova occupazione e super dazi agli stranieri che vogliono vendere negli Stai Uniti, l’Europa segue più timidamente, sapendo che gli attuali 13 milioni di occupati nell’automotive di Volkswagen, Bmw, Daimler, Renault, Stellantis (che hanno perso negli ultimi 3 anni dal 40% al 69% della capitalizzazione) si ridurranno molto e per mantenere quei posti c’è chi pensa (come l’Italia) che bisognerà far venire in Europa le produzioni cinesi. La logica della concorrenza produrrà così un enorme impoverimento questa volta non dei paesi del “terzo mondo”, ma degli europei che lavorano. Per i ricchi e gli azionisti sarà invece uno sballo, compresi quelli di Unicredit che si appresta a lasciare l’Italia (di fatto è già una banca americana).

I cinesi invece sono “sovranisti”, nel senso che applicano il capitalismo ma lo regolano in modo che i vantaggi vadano soprattutto ai loro cittadini.
Se la guerra commerciale con Usa ed Europa si fa dura, con reciproci dazi e protezionismi (che ovviamente sono la negazione della libera concorrenza), sono disposti a fare accordi come quello con Stellantis, in cui stanno anche in minoranza (49%), a patto che le loro auto siano vendute da Stellantis fuori dalla Cina senza dazi (e sbaragliare la concorrenza), così da guadagnare comunque la metà e rimanere in possesso della tecnologia e relativa innovazione. Stellantis ha si la maggioranza (risicata, 51%) ma diventa una sorta di commerciante e un assemblatore (più che un vero produttore) in Polonia.

Stellantis passa così da leader a follower, da marchio pregiato a commerciante “free rider”. Ma non credo sia un problema per il Ceo di Stellantis Carlos Tavares (abbiamo sentito di recente il  suo aggressivo intervento al parlamento italiano) che guadagna 36 milioni all’anno. Anche in questo caso (come ai tempi della Cina nel WTO) la logica dei profitti a breve per gli azionisti, trasforma Stellantis in un “cavallo di Troia” per le auto cinesi in Europa, che faranno la concorrenza a tutti gli altri marchi europei.

Così un sistema autoritario come quello cinese dà più vantaggi ai propri cittadini di quello liberale occidentale, dove la libertà di guadagnare consente ad un singolo marchio (Stellantis) di essere un “free rider” (libero “cavaliere” o, meglio, libero avventuriero) che guadagna a scapito degli altri marchi e di tutti i lavoratori europei. Del resto la BCE (Banca Centrale Europea) ha come unico obiettivo della politica monetaria la lotta all’inflazione, mentre anche la Federal Reserve (Usa) ha nel suo statuto sia la difesa della moneta dall’inflazione, sia l’occupazione che la BCE non ha.

Siamo più prussiani (liberisti) del re di Prussia (Usa), i quali stanno cambiando idea anche sui fondi sovrani, che sono quei fondi di proprietà dello Stato nazionale usati per difendere le proprie imprese strategiche o per acquistare/entrare a farne parte sul mercato mondiale. Il più noto è quello norvegese (1.500 miliardi, 270mila euro per abitante) alimentato dai profitti dal petrolio e gas pubblico norvegese. Noi abbiamo CDP (Cassa Depositi e Prestiti) con 478 miliardi di capitalizzazione).

Secondo Global Swf  i fondi sovrani statali sono cresciuti nel mondo a 12.400 miliardi a cui si aggiungono 15.900 delle banche centrali e 23.800 miliardi di fondi pensione pubblici per un totale di 52mila miliardi (quando nel 2000 erano solo 12mila). Ora anche il primo ministro laburista Starmer ha deciso di usarli e farà un fondo da 7,3 miliardi di sterline e Kamala Harris ha detto che lo farà anche lei (se vince). Benvenuti anglosassoni all’idea keynesiana che il ruolo dello Stato nell’economia sia importante!

Intanto lo studio Mediobanca su 1900 imprese italiane, quasi tutte con oltre 500 dipendenti (48% del fatturato della manifattura, 42% dei trasporti, 45% della distribuzione commerciale) mostra che i profitti delle imprese italiane sono ai massimi, mentre i salari hanno perso il 7,6% del loro potere d’acquisto dal 2021 al 2023.

E’ quindi lecita una domanda: un sistema è più “democratico” se reca vantaggi ai suoi cittadini o agli stranieri e ai ricchi azionisti ?

 

In copertina: Carlos Tavares, Amministratore Delegato di Stellantis.

 

 

Festival Internazionale 2024 a Ferrara
Una bella avventura

Festival Internazionale 2024 a Ferrara. Una bella avventura.

 Anche a Ferrara, dove abito dal 1988, come a Venezia, dove ho trascorso i dieci anni precedenti, un evento più di altri rappresenta il mio ‘abbraccio’ con la città che mi ospita. A Venezia era la Mostra del Cinema, fantastico momento che coincideva col ritorno dalle vacanze estive, il ritrovare gli amici, la ripresa ‘dolce’ dell’anno scolastico che mi avrebbe vista impegnata nei mesi successivi.

Il Lido di Venezia splendeva di incontri, film, luci e colori e, nei momenti liberi dagli spettacoli, mi offriva il calore e la luce delle sue spiagge settembrine. Le proiezioni poi si ripetevano in serata in Campo Sant’Anzolo e lì mi sentivo ‘a casa’.

Dal 2007 l’inizio di ottobre è ricco, vivace e stimolante, a Ferrara, grazie al Festival di Internazionale. Mi ritrovo, conservato in una cartella, l’articolo che scrissi, sempre per Periscopio, a commento del primo evento dell’edizione del 2022 e mi tornano sensazioni che, dopo un anno in cui altri impegni mi hanno tenuta lontana da Ferrara nel weekend del Festival, mi hanno avvolta pure in questa diciottesima edizione, nel muovermi e osservare per le vie e le piazze il “popolo di Internazionale”: giovani e meno giovani, ferraresi e non, con in mano o nelle tasche di giacche o zaini, il “libretto giallo”.

Quest’anno il valore aggiunto, per me, è stato aver ricevuto, dal ‘mio’ giornale, l’accredito-stampa, che mi ha permesso, previa prenotazione degli ingressi, di accedere agli eventi saltando le file, così che potessi trovare quasi sempre un buon posto a sedere, indispensabile per la mia necessità di prendere appunti con matita e quadernetto.

In realtà, quando vivo il festival da semplice appassionata mi piace pure fare le file, perfino quelle per i tagliandi, condite dal rischio di sentirsi dire che quell’evento a cui tenevi tanto era tutto esaurito. Le file a Internazionale sono spesso occasione di begli incontri, di scambio di riflessioni, pensieri, commenti e chiacchiere stimolanti.

E veniamo ad una sintesi, spero ragionata ed interessante, degli eventi significativi che ho seguito nei tre giorni. Spinta dagli stimoli ricevuti due giorni prima all’interno di un incontro organizzato dal gruppo Ferrara, le donne e la città (di cui ha parlato l’amica Roberta Barbieri nel suo articolo Vite di carta. Il gelso di Gerusalemme e l’ecocidio, pubblicato su Periscopio mercoledì 9 ottobre) e dal mio interesse pluriennale, anche di docente, per la città, ho scelto venerdì 4 ottobre l’intervento del sociologo Alfredo Allietti e dell’urbanista Romeo Farinella dal titolo Contro la città autoritaria.

Ero andata a colpo sicuro nella scelta del primo evento, prima ancora di consultare l’intero programma, sia per il tema che per la stima certa nei confronti dei due relatori, di cui già avevo letto e ascoltato interventi interessanti e coinvolgenti.

Poi Marco Bresadola di UniFe introduce l’incontro e lo inserisce in un ciclo di tre, tutti dedicati alla città e tutti organizzati in collaborazione con Agenda 17 – Web magazine del Laboratorio Design of Science – che non conoscevo e che all’istante mi incuriosisce.

E così si delineano, a partire da questi sicuri appuntamenti, le mie tre giornate di Internazionale! Sabato 5 ottobre tornerò qui In aula, facoltà di Economia, a sentir parlare il fisico Donato Vincenzi di Sostenibilità a domicilio e domenica 6 ottobre ascolterò le filosofe del diritto Maria Giulia Bernardini e Orsetta Giolo ragionare di Abitare i diritti.

L’incontro di venerdì è coordinato da Michele Fabbri, direttore, con il già citato Marco Bresadola, di Agenda 17, che si fa portatrice dei 17 obiettivi ONU della città sostenibile (sconfiggere la povertà- sconfiggere la fame – salute e benessere – istruzione di qualità – uguaglianza di genere – acqua pulita e igiene – energia pulita e accessibile – lavoro dignitoso e crescita economica – industria, innovazione e infrastrutture – ridurre le disuguaglianze – città e comunità sostenibili – consumo e produzione sostenibili – agire per il clima – la vita sott’acqua – la vita sulla terra – pace giustizia e istituzioni forti – partnership per gli obiettivi) e che contiene, tra gli altri significativi materiali, il Manifesto contro la città autoritaria redatto proprio da Allietti e Farinella.

Il punto di vista del sociologo è stato coniugato da Allietti in un percorso che, delineando i diversi momenti di vissuto dentro e fuori delle città tra gli anni ’70 e l’oggi, si è concentrato sull’importante tema della ‘crisi della ragione democratica’ e connesso ‘infantilismo della politica’ con conseguente ‘egemonia dell’economico’ che crea disumanizzazione: da ciò la città autoritaria, in cui profitto e rendita portano a forme di riduzione di diritti e di spazi di democrazia.

Festival Internazionale 2024 – Farinella-Fabbri-Allietti

La visione dell’urbanista è stata articolata da Farinella a partire dal collegamento con il riferimento, verso la conclusione dell’intervento di Alfredo Allietti, ai guasti del neoliberismo che, sostiene Farinella, non è in crisi anzi è in crescita: esso, nei paesi autoritari, si materializza nei molti esempi di rigenerazione urbana e nella invenzione di nuove città e nei paesi democratici determina situazioni più complesse, giacché spesso la ricerca del bello da parte dell’uomo consumatore produce sfruttamento di risorse, di migranti; si crea il fenomeno della gentrificazione, si realizzano città smart che rispecchiano il paradigma della nuova realtà urbana che non tiene conto delle condizioni di vita dei lavoratori.

L’analisi completa dei due relatori e il successivo dibattito non possono essere ridotti in queste poche righe, per cui rimando chi fosse interessato alla lettura dei molti interventi su questo e altri temi legati ai 17 obiettivi ONU presenti nelle molte ricche pagine online di Agenda 17.

Ulteriori spunti sul versante dei consumi energetici ha offerto il giorno seguente l’intervento, dall’emblematico titolo Sostenibilità a domicilio, del fisico Donato Vincenzi, che, a partire da definizioni e dati relativi alle fonti energetiche, rinnovabili e non (nucleare, solare, geotermica, combustibili fossili), ci conduce a definire la necessità di ripensare le città in chiave sostenibile, ipotizzando un modello nuovo che tenga conto del dato importante secondo cui la transizione ecologica è per il 22 % realizzabile in ambito residenziale: è opportuno quindi definire il ruolo degli edifici accanto a quello del settore industriale e quello dei trasporti.

L’obiettivo, relativamente agli edifici, dovrebbe essere espresso nella formula Nearly ZERO energy building, energia degli edifici vicina allo zero. Per cui, dopo aver illustrato aspetti e benefici del fotovoltaico, Vincenzi si è concentrato sul tema, di cui in tempi recenti ho sentito spasso parlare esperti e non; soprattutto mi hanno attratto gli svariati esempi di concreta realizzazione da parte di conoscenti: le Comunità Energetiche Rinnovabili. Si tratta, ci spiega, di un “soggetto giuridico formato da clienti finali e/o produttori che si aggregano in una forma di società” regolamentato da una Direttiva Europea RED II del 2018 e, in Italia, dal D. Lgs. 199/2023.

I punti forti della CER, riassumibili nell’importante risultato del “creare valore”, si concretizzano nel procurare lavoro, flussi di cassa e garantire investimenti a baso rischio. Il sistema che sta alla base delle CER prevede un sapiente intreccio delle fasi di: costituzione della squadra, progettazione, replicazione, realizzazione, gestione e governance e questo intreccio non è sempre di facile attuazione, ma è bene sapere che se riusciamo a superare gli ostacoli il futuro è già qui.

Il tema insopprimibile dei diritti è stato affrontato in termini filosofici e giuridici domenica 6 ottobre da Maria Giulia Bernardini e Orsetta Giolo nell’incontro moderato da Marco Bresadola, che ha introdotto, inquadrandolo in una visione di città che tenga conto, anzi che deve tener conto, dei principi fondativi della πόλις greca, da cui derivano le nostre comunità cittadine.

Festival Internazionale 2024 – Bresadola-Bernardini-Giolo

Abitare i diritti è il significativo titolo dell’incontro, che Orsetta Giolo apre con una potente quanto drammatica dichiarazione, rapportata alla esplicativa immagine di una città bombardata: LA GUERRA COME NEGAZIONE DEL DIRITTO. La relatrice afferma, l’unico orizzonte valido per la concreta realizzazione dei diritti è la città in pace.

L’applauso caldo che accoglie queste parole si offre quasi come ‘tappeto sonoro’ ai discorsi che seguiranno. Dopo una premessa tesa ad illustrare le principali caratteristiche delle teorie critiche del diritto, cui le due relatrici rapportano i loro studi, Maria Giulia Bernardini ci porta nel concreto degli spazi, visto che il diritto, afferma, ha bisogno di un “dove applicativo”, e occorre riflettere sul modo in cui gli spazi sono regolati; è la città il nuovo centro di analisi e riflessione in tema di diritti.

I diritti umani sono, devono essere universali, aggiunge Orsetta Giolo giacché appartengono a tutte le persone, nessuno escluso; se, ragionando alla luce del nesso tra soggetti, diritti e spazi urbani, si osserva che nella città contemporanea i diritti vengono rapportati a singoli territori, essi si depotenziano e si trasformano in privilegi. La città come spazio del potere precarizza i diritti, non rileva lo status di persona; si creano gerarchie dell’umano, si assiste alla frammentazione del godimento dei diritti.

La tensione tra diritti e città è oggi fortissima. Si accentuano, fa notare Bernardini, le forme di marginalizzazione di quello che lei chiama “soggetto a-vitruviano”, che perde perfino il “diritto a esserci” (fa gli esempi dei disabili e degli anziani e di altri soggetti, che non si adattano alla città e che vengono ‘confinati’ in istituzioni totali o collocati in luoghi lontani dalla città).

Elenca termini e problemi già evidenziati da altri relatori e di frequente stigmatizzati: gentrificazione, abbandono (espulsione?) dei centri cittadini, barriere architettoniche, forme di “architettura ostile”. La soluzione sta nel ripartire dai diritti e “costruire” la libertà di abitare.

Una prospettiva, suggerisce Orsetta Giolo in conclusione, capace di offrire uno sguardo sapiente sulla progettazione e gestione delle città è quella femminista, che propone soluzioni pratiche e riflessioni teoriche a partire dalla teoria critica alla neutralità… e qui un cerchio si chiude, giacché proprio di città femminista si è parlato a lungo nel Convegno di giovedì 3 ottobre che ho citato in precedenza come motore di mie scelte ed interessi vecchi e nuovi.

Ma la mia ‘storia bella’ con Internazionale non è finita qui: non mi potevo perdere un “incontro galeotto” degli studenti e studentesse del Liceo Ariosto, rappresentanti dell’ormai noto, fra gli scrittori, progetto Galeotto fu il libro: sabato 5 ottobre al Ridotto del Teatro ho seguito l’interessante e perfino divertente dialogo a più voci con il climatologo e meteorologo Giulio Betti sui temi e problemi che lui affronta nel saggio Ha sempre fatto caldo.

E, regalone conclusivo, il pomeriggio di domenica 6 ottobre, seduta in prima fila nella platea dello splendente Teatro intitolato a Claudio Abbado, uno stimolante viaggio lungo le “Strade” tracciate dalla giornalista di Internazionale Giulia Zoli nell’intervista a due voci, tra ironia e poesia, a Alice Rohrwacher e Zerocalcare.

Alice Rohrwacher
Zerocalcare

Cover: Giulia Zoli con Alice Rohrwacher e Zerocalcare – Festival Internazionale, 6 ottobre 2024

Immagini realizzate dall’autrice

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Oltre l’oscurità (l’arte è salute mentale)

Oltre l’oscurità (l’arte è salute mentale)

Mi chiedo perché ad una performance sulla salute mentale, elaborata e presentata da chi convive con il disagio, il pubblico fosse per lo più composto da chi il disagio lo conosce da vicino, perché ci convive quotidianamente.

 

Ho assistito con partecipazione alla presentazione offerta dal gruppo “Due Punti Aperte Le Virgolette: Cose di salute mentale e dintorni”, al Teatro Verdi,  giovedì 10 ottobre 2024, nella Giornata Mondiale della Salute Mentale. L’evento è stato promosso dall’Associazione La Formica, dal Servizio Sanitario, dal Comune di Ferrara.

La locandina recita: un dialogo dell’anima, un’esplorazione multidirezionale senza bordi rigidi,

un viaggio tra persone oltre la grotta oscura del pregiudizio, dello stereotipo, dello stigma

Una rappresentazione, nei quadri esposti e nelle storie raccontate, vivida e toccante. Ognuno, ognuna di noi vi può riconoscere qualcosa di proprio, perchè, nelle nostre esperienze, è solo il grado di sofferenza che cambia: per la maggior parte di noi è passeggero, mentre per altri è permanente e intenso.

Non si può scegliere la propria condizione, occorre un adattamento, un accomodamento per resistere e ricominciare a vedere la luce. In uno dei racconti è stato detto che non è come rompersi un braccio, che una volta guarito torna come prima.

Quando un equilibrio si perde nella salute mentale, bisogna cambiare equilibrio, bisogna saper guardare oltre al ritornare come prima, bisogna inventarsi di nuovo.

Per questo il sottotitolo recita “l’arte è salute mentale”. L’arte è guardare oltre, alla ricerca di sè, e a me sembra che questo esprima il concetto di “recovery”, che è stato illustrato come il percorso con il quale si costruisce il proprio benessere personale.

Inventarsi di nuovo, quanti, quante di noi ne avrebbero bisogno: vedere le immagini, ascoltare le parole di riflessioni e poesie, ci ha accompagnato ad esplorare un mondo che solo apparentemente non ci appartiene. Ci ha rivelato fragilità e realismo nel dichiarare il dolore, il vuoto, il buio. Mi chiedo: quanti o quante di noi sono capaci di guardare in faccia ai propri fantasmi?

Abbiamo sentito e percepito nella presenza degli autori e autrici il coraggio che noi non abbiamo o che non abbiamo avuto occasione di mettere in pratica, la forza, la perseveranza, nonostante le ricadute, la sfida nei confronti del proprio male, che si gioca anche con l’ironia e il distacco filosofico.

Ci hanno aperto le porte della loro anima: il dolore non è per forza annullamento di tutte le nostre facoltà, ma può essere una leva che ci fa scoprire risorse inaspettate. Abbiamo ricavato ispirazione per i nostri percorsi di vità, arricchendoci di prospettive. Nella “recovery” non basta un’operazione personale: occorre un pubblico, perché se dal disagio non si torna come prima, occorre re-inventare anche il modo di stare insieme.

Allora comprendiamo anche il nome scelto: due punti aperte le virgolette, ora parlo. È un atto di condivisione, un invito, un richiamo, in un mondo sempre più individualista e per questo sofferente, a connetterci con noi stessi e con gli altri.

La comunità, per il suo equilibrio e benessere, deve riconoscere l’unicità dello stare al mondo e diventare l’insieme di queste unicità che si rafforzano a vicenda. Ci serve il coraggio di accogliere le nostre fragilità, le nostre inadeguatezze e imparare che la via d’uscita c’è sempre, ma è la NOSTRA via d’uscita, unica e irripetibile.

Questo abbiamo imparato e questo è il motivo per cui nessuno è sbagliato, nessuno va corretto, ma ogni diversa esperienza è preziosa per tutti e tutte, come è quella di questo meraviglioso gruppo.

Per leggere gli articoli di Daniela Cataldo su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

 

La Crisi (annunciata) di Berco e la deindustrializzazione della Provincia Ferrarese

La Crisi (annunciata) di Berco e la deindustrializzazione della Provincia Ferrarese

Che possiamo dire di questa crisi annunciata del sistema produttivo provinciale, legato soprattutto alla meccanica del nostro territorio? Possiamo dire che gli effetti saranno devastanti, se non adeguatamente “governati” e contrastati con ingenti investimenti; in particolare Berco continua a barcamenarsi, da anni, fra una ristrutturazione e l’altra. Da oltre 2000 addetti degli anni ’90, l’azienda ha dimezzato i propri occupati, ridotto drasticamente il fatturato e ridotto la propria capacità commerciale nel mondo. Siamo passati da un management legato al territorio, ad un management estraneo a qualsiasi logica di radicamento territoriale, nella quasi indifferenza generale. E pochi, tra politici e amministratori di ogni livello, dal 2010 in poi, che abbiano tentato di capire dove Thyssen stesse andando, quale logica ci fosse dietro alle scelte che tendevano a ridurre, un po’ alla volta, la capacità produttiva del colosso copparese.

Un tempo durante la prima crisi del 1979, il territorio intero si mobilitò e spinse la politica a cercare soluzioni, dopo un’analisi attenta del mercato, fatta da soggetti competenti, che stava cambiando fino a far diventare l’azienda di Copparo una multinazionale.  Un movimento di popolo che con il sindacato e i partiti, aveva studiato, ingaggiando economisti e studiosi, per capire quale poteva essere una via d’uscita. Oggi sembriamo impotenti, incapaci di qualsiasi iniziativa, sorpresi dalle mosse di una multinazionale che propone, da tempo, unicamente dei tagli per andare, probabilmente, a produrre altrove grazie ad una globalizzazione criminale che facilità i movimenti di capitale più ancora della vita e della dignità delle persone. E’ una situazione sempre più comune nella nostra regione, che presenta dei tratti di deindustrializzazione preoccupanti in particolari nelle aree più deboli della Regione come quella ferrarese.

Un territorio il nostro senza più capo né coda, senza un soggetto istituzionale di riferimento, com’era la provincia, oggi diventata impotente, perchè spogliata dei suoi poteri di rappresentanza da una legge prodotta dall’ex ministro Del Rio, del centro sinistra, un po’ di anni fa. Oggi il Comune di Copparo è solo e non mi pare che sappia come porsi, di fronte ad una crisi che andava affrontata per tempo, anni fa. La Regione è forse l’unica che può cercare di porre un argine a questa deindustrializzazione, visto che la politica industriale è la grande assente in questo paese e in questa provincia, sempre più povera di lavoro e di lavoratori. I dati “falsi” che ci vengono propinati parlano di una disoccupazione che viaggia fra il 7 e l’8%, la verità è che l’occupazione è composta da lavori poveri a tempo determinato e legati, sempre più, ad un settore fragile come il turismo che fa scendere il valore dei redditi, e del PIL procapite come ci dimostra l’Istat. Servirebbero grandi investimenti pubblici per sostituire quelli privati che mancano e persino Draghi, sembra essere di questo parere.

La crisi dell’industria, europea e tedesca in particolare, non aiuta e le guerre in corso hanno frenato l’attività produttiva con soggetti come la Russia che per Berco era comunque un mercato di rilievo. Eppure, l’Europa politica anziché frenare la guerra la incita, fornisce armi, non produce quell’azione diplomatica necessaria per uscire dalla crisi. Altri cluster industriali come quello di San Giovanni di Ostellato, incominciano a dare segnali di sofferenza, dove si sente parecchio la crisi dell’automotive. Insomma, un quadro che dovrebbe vedere le nostre istituzioni compatte a gestire le crisi, o tentare di farlo, con qualche idea o conoscenza di come stanno andando le vicende industriali in Europa e nel mondo, in grado di produrre, insieme al sindacato e a qualche buon economista non liberista, una analisi che consenta di individuare una qualche via d’uscita.

In questa Regione, al di là della crisi di oggi, servirebbe una politica che tenda a riequilibrare gli investimenti territoriali, un po’ come successe con i copiosi fondi europei che arrivarono a Ferrara a cavallo fra gli anni ’90 e i primi anni 2000. Si completò il polo di Ostellato e si fece crescere qualche grande impresa come Conserve Italia, insieme ad un tessuto di PMI, che per 20 anni hanno offerto sviluppo industriale e occupazione. Del resto, questa è una provincia che ha saputo perdere anche l’unica banca del territorio, che bene o male aveva alimentato investimenti locali e che è andata perduta anche grazie all’insipienza della politica del governo Renzi e dei suoi adepti ferraresi; una infamia che ha pesato sui consensi elettorali. Altri tempi certo, ma senza coesione territoriale e senza un’idea di futuro, un piano di sviluppo della nostra provincia, che vada oltre la creazione delle deboli ZLS, sarà difficile uscirne. E di certo il polo chimico di Ferrara e l’ex distretto centese (anch’esso fortemente indebolito) non basteranno a questa provincia per restare a galla.

Diego Carrara
ex assessore del Comune di Copparo e della Provincia di Ferrara

 

 

Parole e figure / Retrobottega

Ci sono luoghi che sprigionano magia e tutti ci vanno per sentirla, respirarla. “Retrobottega”, di Nadia Al Omari, edito da Kite, è uno di questi. 

Abitudini, incontri inattesi, atmosfera delicatamente onirica e alquanto retrò.

C’è questo, e molto altro, nel recente albo “Retrobottega”, scritto da Nadia Al Omari e illustrato dall’esordiente Marco Leoni, edito da Kite.

L’esile proprietario di retrobottega accoglie tutti e per ognuno ha qualcosa. È generoso. C’è sempre la fila davanti al suo negozio, da anni. Ma un giorno nella sua vita routinaria accade qualcosa: arriva qualcuno che rischia di essere l’incontro della sua vita.

Retrobottega è il posto dove vivo. Dalla mattina al tramonto. Dal tramonto all’alba.

Le strade prendono il colore dell’alba e del tramonto, un poco anche della sabbia portata, leggera, dal Ghibli; sembra di essere ad Algeri, le torri e le finestre merlettate tipiche del mondo orientale, le case bianche e il profumo di gelsomino e di menta che aleggia nell’aria. E poi il nostro piccolo proprietario ha un copricapo particolare che a quei paesi ci riporta, insieme alle sue molteplici e multiformi teiere d’argento.

L’aria è frizzantina, tutto vibra e infonde energia. La magia ci avvolge, leggera.

Retrobottega è pieno di scaffali. E scatole, barattoli, vasi che hanno il suono della latta e del vetro. Io svito tappi e alzo coperchi. I clienti cominciano ad arrivare la mattina presto.

Entriamo, curiosiamo, sogniamo. L’atmosfera è incantata, difficile non rimanere attratti dalla voglia di scoprire e di trovare qualche oggetto che riporti alla mente una storia lontana e magari romantica. Di fronte a tanti oggetti, la curiosità prevale e la fantasia vola. Come accade nelle soffitte, quando cerchiamo orme. Tradizioni perdute, ricordi passati, vite che si intrecciano, mani che si sfiorano, racconti che si parlano e magari si scontrano, teiere che ricordano e parlano di incontri davanti ad una tazza calda e fumante.

Quando il vento soffia ed è troppo freddo per uscire, nel mio Retrobottega ordino e riordino, per colore, grandezza, per nome e data.

Fuori tira vento, dentro fa più caldo, si sta meglio. Le tante teiere ci ricordano le tre tazze di tè di molte tradizioni. Il Pakistan…

“La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero; la seconda, un ospite onorato; la terza, sei parte della famiglia”. Haji Ali, capo del villaggio di Korphe, Pakistan (da libro Tre tazze di tè, di Greg Mortenson e David Oliver Relin)

O il Mali, dove il tè è una vera istituzione, dal colore verde, dal sapore molto intenso e dalla preparazione che osserva regole e movimenti quasi rituali: le teiere vengono riempite tre volte e la prima tazza ad essere servita è “forte come la morte”, la seconda è “dolce come la vita”, mentre la terza è “zuccherata come l’amore”.

Dopo il tè, si torna al nostro luogo magico pieno di storia e di storie. Quando piove si scrive. I raggi del sole entrano nelle belle giornate, si spolvera mentre tutti sono al mare, l’ombra rinfresca. Qualcosa manca, qualcosa non c’è più, qualcos’altro può aspettare. Una creatura arriva inaspettata, sorride e si siede…

Qui arrivano tutti, il lattaio, il dottore, il giornalaio, la sarta, il giardiniere, l’autista, l’avvocato, e poi anche i bambini saltellanti e vocianti, prima di andare a scuola, con un soldo tondo si riempiono le tasche ed escono felici.

Tutti cercano qualcosa e per ognuno ci sarà qualcosa, basta saperlo cercare.

 

Nadia Al Omari è nata a Merate nel 1980. Laureata in Scienze dell’Educazione, legge libri illustrati senza tregua da quando è nata, prima per passione e poi per lavoro. In seguito, come naturale conseguenza, ha iniziato a scriverli… Facebook

Marco Leoni è illustratore, visual development per cortometraggi di animazione e narratore di giochi di ruolo per bambini e ragazzi, ha frequentato l’Accademia di belle Arti a Firenze, indirizzo di incisione e calcografia e una scuola privata di animazione. Facebook

 

Nadia Al Omari (autore), Marco Leoni (illustratore), Retrobottega, Kite edizioni, Padova, settembre 2024, 32 p.

 

“Censimento a Ferrara”:
in mostra le foto di Paolo Monti che 50 anni fa hanno indirizzato il piano di conservazione storica

In mostra le foto di Paolo Monti che 50 anni fa hanno indirizzato il piano di conservazione storica di Ferrara

Può il reportage di un fotografo segnare il destino di una città? E una serie di foto può servire a proteggere case e strade? Il progetto del “Censimento fotografico del centro storico di Ferrara” ci dice di sì. Gli scatti fotografici possono salvaguardare la memoria storica e indirizzare le scelte urbanistiche. La ripresa fotografica sistematica delle strade e dei palazzi che costituiscono il cuore della città è stata commissionata a Paolo Monti e venne usata, nel 1974, come strumento di conoscenza del patrimonio ferrarese. In base a quelle foto lì, l’Amministrazione comunale decise di tutelare e valorizzare una specifica zona di città – in questo caso il centro storico di Ferrara.

via Boccacanale Santo Stefano (foto Paolo Monti)

Le foto sono particolarmente belle e preziose, perché ogni arteria di Ferrara si mostra in maniera completa e sistematica. E non c’è mai un’automobile a nascondere pezzi di edifici, strade o marciapiedi. Cinquant’anni fa c’erano così poche macchine? Macché! Il fatto è che l’operazione fu presa con molta serietà e zona dopo zona, la città venne svuotata dai mezzi di trasporto. Anche il traffico venne interrotto per il tempo necessario a far sì che le immagini fornissero ogni particolare, con rigorosa esattezza.

Via Terranuova (foto Paolo Monti)

Il compito di portare a termine questa mappatura visiva nel 1974 venne affidato dall’Amministrazione comunale di Ferrara a Paolo Monti, uno dei fotografi più affermati dell’epoca in tema urbanistico e architettonico. Il suo compito era quello di fotografare in maniera sistematica tutta la parte di Ferrara racchiusa dentro le antiche mura.

Foto-ritratto firmato Paolo Monti e Paolo Ravenna

Un’operazione memorabile della quale, però, si erano perse le tracce documentarie. Qualcuno ricordava i grandi pannelli  con le riproduzioni fotografiche, che mostrano le vie acciottolate e quelle asfaltate. Si va dalla centrale piazza Trento Trieste fino alle viuzze della parte medievale: via Boccacanale Santo Stefano con i suoi portici, il sontuoso corso Ercole I d’Este con il Palazzo dei Diamanti prima della ripulitura, i Bagni Ducali in versione magazzino, il chiostro di via Mortara con l’erba alta, via Terranuova, via Zemola, via Brasavola. Immagini riprodotte su tavole a grandi dimensioni, un metro × 70 cm, montate su alluminio. Che però non si sapeva più dove fossero andate a finire.

Bagni Ducali e Chiostro via Mortara (foto Paolo Monti)

A far riemergere quel patrimonio ha contribuito la determinazione di diverse persone con la passione per l’arte, la cultura e la storia di Ferrara. Il gallerista ferrarese Paolo Volta aveva bene in mente quella documentazione e, da geometra attivo in quegli anni, ricordava che era stata immagazzinata dal Comune. La caccia al tesoro è partita così. Fino a quando le casse con quei pannelli sono state ritrovate, solo in parte catalogate, nella Fototeca di Palazzo Bonacossi, sede dei Musei civici d’arte antica di Ferrara, grazie alla determinazione e alla collaborazione di Ivana Cambi (Comune di Ferrara) insieme con Andrea Malacarne (Italia Nostra), Ulrich Wienand (associazione Accademia d’arte città di Ferrara) e Monica Cavicchi (archivista coop Cidas).
Il progetto si è poi avvalso della collaborazione del Comune di Ferrara attraverso il bando di Sostegno a progetti culturali e turistici di valenza locale rivolto ad associazioni per l’anno 2024.

Mostra sul “Censimento fotografico di Ferrara” alla Galleria del Carbone (foto GioM)

I pannelli fotografici sono ora esposti alla Galleria del Carbone (via del Carbone 18/a, Ferrara), dove la mostra è visitabile fino a domenica 20 ottobre 2024.

Gli anni in cui il progetto è stato realizzato sono quelli in cui lo storico dell’arte Andrea Emiliani era il sovrintendente per i Beni Artistici e Storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna. Nel 1974 Emiliani fondava anche l’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna. L’IBC, operativo fino al 2020, è stato organo tecnico-scientifico e strumento della programmazione della Regione, portando avanti attività di ricerca, di restauro e valorizzazione del patrimonio.

La mappatura ferrarese è approdata anche nel volume “Il centro storico di Ferrara”, curato dall’architetto e urbanista Pier Luigi Cervellati (Ricardo Franco Levi editore, Modena, 1976), che già aveva elaborato il Piano per Restauro e Conservazione del centro di Bologna (1972-1973) e di Modena (1974-1975).

Inaugurazione della mostra alla galleria del Carbone

Al Carbone, la gallerista Lucia Boni fa notare: “La conoscenza degli spazi cittadini è l’obiettivo di questi scatti. Sono immagini che mostrano come tutta la città sia da conservare. Come spiega bene Cervellati nella prefazione del catalogo, Paolo Monti usa la fotografia come mezzo di progettazione. Un messaggio diverso da quello delle foto Alinari, che valorizzano singoli monumenti. Questo servizio fotografico su Ferrara ha dimostrato come il monumento cittadino da preservare fosse tutto il centro storico, la vitalità della città nel suo complesso”.

Via Ripagrande (foto Paolo Monti)

Non resta quindi che andare a vedere, pannello dopo pannello e strada dopo strada, come la città sia stata conservata. Con anzi una spinta pionieristica verso la pedonalizzazione, che ha fatto spiccare Ferrara prima che si parlasse di città pedonali e ciclabili. Perché – come mostra un video che scorre in galleria – ancora molte zone del centro, in quell’epoca, erano trafficate. Le macchine giravano anche accanto al Duomo. E tanti edifici monumentali, come Palazzo dei Diamanti, ma anche i Bagni Ducali e il Chiostro di via Mortara, erano bisognosi di recupero.

Corso Ercole I d’Este (foto Paolo Monti)

Fotografare, insomma, può servire ad avere una visione della città e aiutare a programmare e vivere meglio.

“Paolo Monti e Ferrara, 50 anni dal censimento fotografico del centro storico di Ferrara”,
Galleria del Carbone, via del Carbone 18/a, Ferrara.
Visitabile con ingresso libero fino a domenica 20 ottobre 2024, dal mercoledì alla domenica, orari 17:00-20:00.

Europa senza accoglienza.
Il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo sarà presto legge

Europa senza accoglienza.
Il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo sarà presto legge.

di da Collettiva del 15 ottobre 2024

Il 10 Aprile 2024 il Parlamento Europeo ha ufficialmente approvato il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo. Un mese dopo il Consiglio lo ha adottato. E ora il nuovo testo si prepara a diventare legge. Si tratta di 10 regolamenti che prevedono procedure accelerate alla frontiera, l’estensione della detenzione amministrativa, e un nuovo meccanismo di distribuzione tra i diversi paesi.

Il testo stato accompagnato da vibranti proteste da parte della società civile europea, che lo considera, di fatto, lo smantellamento del diritto di asilo nell’Ue. Entro giugno 2026, in ogni caso, il Patto migrazione e asilo sarà legge su tutto il territorio dell’Unione.

Il patto

Fra due anni, infatti, gli Stati membri dovranno uniformare le procedure alle frontiere esterne, con l’obiettivo di valutare rapidamente la fondatezza delle richieste d’asilo. Le persone richiedenti asilo saranno trattenute in centri di detenzione fino a 12 settimane, in attesa di una decisione.

In particolare, chi proviene da Paesi con un tasso di riconoscimento dello status di rifugiato inferiore al 20% sarà obbligato a seguire questa procedura standardizzata, senza che la sua domanda venga esaminata individualmente. Questo inasprimento delle regole mira a velocizzare i rimpatri, soprattutto per coloro che provengono da nazioni considerate relativamente sicure. Tuttavia, si sollevano preoccupazioni riguardo alla possibilità di rimpatriare persone in Paesi come Iran, Afghanistan, Siria o Pakistan, a causa dell’ampliamento del concetto di “Stato terzo sicuro”.

Una delle misure più criticate riguarda la riforma del sistema Eurodac, che prevede un rafforzamento delle operazioni di identificazione. Oltre alle impronte digitali, verranno raccolte immagini del volto e altri dati personali. Questo sistema è al centro delle critiche di alcune organizzazioni, che denunciano l’espansione della sorveglianza digitale sui migranti.

La riforma introduce inoltre misure controverse che riguardano i minori. L’età minima per l’applicazione delle nuove procedure viene infatti abbassata da 14 a 6 anni, rendendo vulnerabili anche i bambini molto piccoli a queste pratiche.

Sul piano operativo, però, sorgono molti interrogativi. Non è chiaro se i Paesi ai confini dell’Ue, già sotto pressione a causa dell’alto numero di migranti, riusciranno a gestire queste nuove procedure, e se verrà rispettato il principio di solidarietà tra Stati membri. In molti temono che la riforma possa ulteriormente sovraccaricare un sistema già al limite, con gravi ripercussioni per l’intera Europa.

Inoltre, nonostante queste misure restrittive, non si prevede che il flusso migratorio si arresti. Al contrario, le stime indicano un aumento delle migrazioni, anche a causa delle crescenti conseguenze del cambiamento climatico e delle guerre in atto.

 

GKN, Rexnord, Berco:
utopia contro distopia, e Ferrara nell’ occhio del ciclone

GKN, Rexnord, Berco: utopia contro distopia, e Ferrara nell’ occhio del ciclone

 

Sabato 5 ottobre, il Festival della rivista Internazionale ha visto salire sul palco del Teatro Comunale di Ferrara un attore e alcuni operai del collettivo di fabbrica GKN, per alcune letture denominate “Pezzi di capitale”, parti di un un lavoro teatrale che è ancora un work in progress.

La vicenda è nota, e anche Periscopio ne ha scritto in diverse occasioni (tra le altre, quiqui e qui). Nel frattempo, la realtà ha corso più rapidamente persino della sua cronaca. Regal Rexnord (ex Tollok), azienda metalmeccanica di proprietà statunitense con una fabbrica a Masi Torello (FE), manda una pec ai 77 dipendenti per comunicare loro che saranno licenziati per chiusura della fabbrica e trasferimento della produzione in India. Nelle stesse ore, Berco, società del gruppo Thyssen Krupp, annuncia 550 esuberi, di cui 480 solo a Copparo, stabilimento che attualmente in organico ha circa 1.200 persone.

Periscopio afferma di avere un occhio glocal, perchè spesso si occupa di questioni locali che hanno un correlato globale. Le vicende di Campi Bisenzio e Ferrara mostrano come un vetrino di laboratorio cosa può voler dire glocal: in nome della vendita globale, si chiude la produzione locale.  Si produce localmente dove costa meno per avere più profitti a livello globale. Attenti: non si tratta più della mera sostituzione di manodopera con altra che costa meno, ma della sostituzione di manodopera (anche) ad alta specializzazione con altra altrettanto specializzata, ma che costa meno perchè vive in zone del mondo meno ricche della (mediamente) opulenta e decadente Europa. In questo modo la povertà irrompe nella ricchezza, gettando nell’indigenza e nella precarietà interi nuclei familiari, interi pezzi di popolazione abituati da generazioni a costruire la propria esistenza a partire da un lavoro decentemente pagato, ma soprattutto stabile.

Ovviamente ci possono essere delle cause specifiche alla base delle crisi aziendali. Nel caso di Berco, ad esempio, non è difficile vedere sullo sfondo la recessione tedesca, alimentata dall’incremento dei prezzi dell’energia a propria volta originato dalla distruzione dell’asse economico  Germania-Russia, conseguenza diretta della guerra russo-ucraina. E interi settori dell’industria italiana che lavorano per committenti tedeschi o (come nel caso di Berco) fanno parte di gruppi con la testa in Germania, non possono che accusare le conseguenze di questo domino (Nota: le sanzioni economiche alla Russia staranno forse danneggiando l’economia della sanzionata, ma stanno sicuramente danneggiando le economie dei sanzionanti. Non si può dire senza essere annoverati nelle file dei seguaci di Putin, almeno in Italia. Però è così).

Nel caso di Regal Rexnord, visto che tutte le parti interessate descrivono come una “doccia fredda” o come un “fulmine a ciel sereno” la decisione dei licenziamenti collettivi, eventuali cause specifiche sono meno intuibili. Probabilmente, chi è più addentro le vicende dell’azienda le conosce. Sulla stampa le dichiarazioni ufficiali si limitano, per ora, a rappresentare una situazione quasi incomprensibile. Ed è proprio quando la decisione appare come del tutto inaspettata che emerge l’elemento tragicamente comune a queste delocalizzazioni (termine inesatto: sarebbe più corretto parlare di rilocalizzazioni): il cinismo del capitale multinazionale, e anche la completa libertà di esercitarlo, questo cinismo.

Infatti, a parte l’obbligo di rispettare delle procedure di previa informazione e quello di non procedere ai licenziamenti prima di un certo termine dalla comunicazione, si è nelle mani di giudici che annullino i licenziamenti con la motivazione del comportamento antisindacale – appunto, qualcosa che ha a che fare più con la violazione di regole di buona creanza che con la sostanza dei provvedimenti. Basta guardare allo stato dell’arte della vicenda GKN. I licenziamenti sono stati annullati dal giudice, l’azienda è passata di mano, ma un piano industriale reale non è mai arrivato, nonostante le rassicurazioni di un advisor rivelatosi un autentico cioccapiatti, come si dice a Ferrara. Nel frattempo il collettivo di operai si è autoorganizzato e ha prodotto un piano di riconversione industriale del sito e una iniziativa di azionariato popolare che ha raccolto oltre un milione di euro. In estrema sintesi il piano propone di riconvertire il sito su due produzioni, alternative tra loro: produrre componentistica per il trasporto sostenibile (autobus, treni, camper) oppure realizzare componenti per la costruzione di elettrolizzatori, attraverso i quali si ottiene idrogeno green, ma anche di pannelli solari (qui è possibile leggere la relazione integrale sul Piano). Però intanto la Cassa Integrazione è finita, e siamo arrivati a nove mesi senza stipendio per chi non si è rassegnato ed è ancora lì, o per chi non ha ancora trovato un’alternativa fuori per ricominciare a mangiare tutti i giorni.  Nel frammento di spettacolo visto a Internazionale non si sono sentiti racconti infarciti di retorica della resistenza a tutti i costi, ma l’utopia sfibrata di voler progettare come operai una riconversione produttiva.

Proprio ieri alla presenza di Greta Thunberg il collettivo ha prodotto una risoluzione che prevede: approvazione del progetto industriale; conferma del supporto della reindustrializzazione dal basso della ex Gkn; nomina del comitato tecnico-scientifico solidale a partecipare ai tavoli istituzionali; convocazione di un tavolo tecnico di reindustrializzazione con le istituzioni; ampliamento dell’azionariato popolare fino a 2 milioni di euro, nel caso in cui parta una seria discussione tecnica con istituzioni e finanziatori. Ma se questo processo non troverà uno sbocco entro il 15 di novembre, il collettivo deciderà se liberare le disponibilità raccolte e restituire il denaro. E la “stanchezza” confessata da Dario Salvetti, lavoratore e portavoce del collettivo ex GKN, al Teatro Comunale sembrava un miscuglio tra il logoramento mentale e la spossatezza fisica.

C’è una utopia di Campi Bisenzio che prova con disperazione a farsi strada dentro la distopia di tanti luoghi come Campi Bisenzio e come Ferrara, che diventano periferia economica e occhio del ciclone della deindustrializzazione. Nell’occhio del ciclone, come si sa, è tutto calmo. Ma è una calma apparente e transitoria. Quando l’occhio si sposta arriva l’uragano. E quanto appare tragicamente suggestiva la correlazione tra quello che sta succedendo al pianeta e nel mondo sociale della specie umana che lo abita. Quanto violento e possente e a modo suo efficiente è il pianeta Terra nell’adattarsi all’antropocene, quanto fragili siamo noi davanti alla ferocia del libero capitale e insignificanti al cospetto della natura, che con furia indifferente riconquista i suoi spazi e ripristina la sua entropia.

 

Cover photo: L’occhio del ciclone, opera di Enrico Tomassi, tratta dal sito pattys.it

 

 

Sconnessi?

Sconnessi?

Guardare avanti, si dice. Guardare fisso, invece, la propria mano che sostiene un apparecchietto nero con schermo, detto smartphone. Consultare, sbirciare, controllare, scrollare, ascoltare, pagare, scrivere, parlare, filmare… Al ristorante, per strada, in chiesa, nel passeggino, al cinema, in arrampicata, al supermercato, in auto, in classe, in ospedale, sul bus, sul water, a letto, in bici, al lavoro, ai mari e ai monti… in tasca, in mano. A testa bassa.

Paesaggio umano smisuratamente social. Ognuno di noi al guinzaglio del proprio smartphone. Ad ogni latitudine, più o meno. Ad ogni età, neonato e pensionato, per ogni sesso. Super intersezionale. La psichiatria, che ha il naso fino, ha inventato il problematic smartphone use (PSU) Ma quale problematicObvious smartphone use. Non è un gingillo, è una Lampada di Aladino dai mille favori. È un essere più che uno strumento tecnico.

Non sono un filosofo e torno a incantarmi con questo congegno luccicante che ci ha catturati, dionisiacamente “sussunti” direbbero gli intenditori. Se fossi nato vent’anni fa non mi stupirebbe toccar quotidianamente con mano la nostra universale dedizione all’Angelo Custode che ogni giorno ci accompagna e ci nutre, mi sarebbe risuonato perfettamente naturale, oggettivo, da sempre. Una felice evoluzione dell’umanità.

Di chi è figlia questa alchimia universale? Del capitalismo digitale, di quello cognitivo, di quello zombi? Di un neo colonialismo psichico? Di una fantomatica tecnodittatura? Di un dio cattivo, o anche buonino, che escogita una nuova religione? Di quei cinque o sei giovanottoni diventati Paperon de’ Paperoni giocando con il web e inventando questo e quello? Di un presente a capitalismo morto, che sarebbe ancora peggio del capitalismo vivo? Di me boccalone e dei miei simili che ci facciamo accalappiare da questa sbalorditiva pietra filosofale rettangolare?

Se esiste un capitalismo sciamanico, ecco, è quello. Fascinans et tremendum, come diceva saggiamente qualcuno parlando del Sacro. Sull’affascinante non ci sono dubbi, si comincia a nutrire qualche timore sul tremendo. È un coitus un po’ interruptus e un po’ no il rapporto che abbiamo con lo smartphone. Ricevere di continuo stimoli e scariche di dopamina genera una gradevole eccitazione che alla lunga si esaurisce in una fiacca generalizzata quasi comatosa. Gli alti e bassi di odio amore per l’aggeggio in questione sono snervanti e paradossalmente corroboranti. Ci fanno sentire vivi per il contrasto che creano in noi. La voglia di liberarcene, almeno per un po’, e la ricerca inquieta della gratificazione che ci procura, scrollaggio forsennato e ostinato cliccaggio si accavallano e si accartocciano, sommergendoci.
Un doping senza frontiere. Se me lo chiedessero risponderei spavaldo che “smetto quando voglio”, arrossendo per la fandonia appena formulata. Nel cellulare ci sto in comoda forma trinitaria: come lavoratore che addestra a sua insaputa algoritmi e produce valore per qualche santone camuffato da piattaforma, come merce perché miniera da cui estrarre dati, profili, tendenze, contatti, desideri, come consumatore vorace che si rimpinza del sublime e dell’orrido della rete in una delle infinite nicchie a me assegnate.

Alimenta questa fermentazione cosmica una Terra Santa, una Valle con le sue diramazioni planetarie tra Russia e Cina. Si chiama Silicon Valley e verrebbe da definirla Fasciston Valley e sarebbe non solo sbagliato, ma anche semplicistico. La Silicon, e aggregati, si è poco per volta tramutata in un Olimpo con divinità di vario calibro, un centro di pensiero nello stesso tempo avveniristico e reazionario, con teologie e mistiche adeguate, che qualcuno elegantemente definisce Lungotermismo Accelerazionismo, affiancati da una galassia che si autodefinisce, non arbitrariamente, Gramsciani di Destra. L’esponente più in vista è Elon Musk, tifoso di Trump, bannato in Brasilevenerato da Giorgia M. e criticato severamente dal Financial Times, che è tutto dire.

Se io sono un dato, se lo è il gatto che non ho, se lo è Mozart e il mio vicino di pianerottolo, se presente, passato e scaglie di futuro sono data, se le-parole-che-sto-scrivendo sono data, se Tutto è datificabile e datificato e me lo ritrovo nel gingillo cellulare alla maniera di travolgenti scritture e audio e video e relative notifiche da cui sono implacabilmente sedotto, ebbene qualche pensierino mi viene.
Il più presentabile dice: è possibile modellare una ecologia mentale che renda lo smartphone e la sua seduzione meno totalitaria, il feticcio un po’ meno feticcio, la demenza meno demenza? Che la soggettivazione che ci impone sia meno pervasiva e meno guidata dal siliconvalleypensiero? “Non c’è problema”, dice lui in formato Google: c’è una vasta gamma di app che ti aiutano a disintossicarti. Che sarebbe, dico io, come rivolgersi al migliore spacciatore per farsi aiutare a smettere. Cioè la perfetta logica del neoliberismo (o come lo vogliamo chiamare) che si alimenta delle crisi che provoca.

Vorrei sottrarmi in modi che non so ancora alle attrattive dello smartphone, l’Onnipotente, e dei mille mondi che contiene, giusto per scalfire l’intontimento che mi provoca e oppormi al flusso di incantesimi che mi rovescia addosso. Essere più lucido, meno eccitato dalla merda e dal miele che cola dalla rete. Non per ritrovarmi in armonia con l’universo, ma in conflitto con lui così come si è venuto conformando. In resistenza.

Vorrei una pedagogia dei connessi, per parafrasare Paulo Freire, una pedagogia liberatoria che trovi le strade per sconnettersi dalla colonizzazione in atto, da questo entanglement spurio, che elabori percorsi critici di riappropriazione digitale non consolatori, che preveda luoghi non da remoto e rigorosamente off line di confronto e di progetto. Una pedagogia politica non dedita alla palingenesi universale né al benessere del singolo. Che si dedichi all’equipaggiamento di salva.gente mentali per piccoli nuclei di persone composte da nativi digitali e mortivi digitali come me. Disposti a pagare il costo psichico che l’operazione di salvataggio comporta.

Un’utopia? Un sogno? Una baggianata?

Riferimenti bibliografici:

  1. Juan Carlos, De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, add editore, Torino, 2023: Un’analisi esauriente ed acuta degli aspetti tecnici e culturali del nostro apparecchio, chiamiamolo così.
  2. Tiziano Bonini, Emiliano Treré, Algorithms of resistance. The Everyday Fight Against Platform Power, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2024: gli algoritmi come campo di battaglia hanno soggetti che li contestano dall’interno. Una ricerca innovativa che mi auguro di rileggere in italiano.

Claudio Canal
Ricercatore on the road, è collaboratore saltuario di alcune testate giornalistiche, attivo in ambito teatrale e musicale. Ha scritto qualche libro.

 

Lettera/Appello:
proclamare uno sciopero dei produttori e dei consumatori contro la guerra

Proclamare uno sciopero dei produttori e dei consumatori contro la guerra

La voce del popolo della Pace non arriva sui media e non è udibile dalla gran parte della popolazione.  I conflitti armati continuano in un’ escalation senza limiti e le persone continuano a morire senza che si intraveda una possibile soluzione pacifica: nel conflitto ucraino, a Gaza,in Libano e in diverse altre parti del mondo.

In Italia e in tutta l’Europa i Governi  non mettono la loro autorevolezza e la loro iniziativa al servizio di trattative di Pace, nulla viene fatto per far terminare i massacri a Gaza e in tutta l’area mediorientale.

Scriviamo questa lettera appello rivolta a tutti i sindacati italiani affinché valutino l’indizione di uno sciopero generale nazionale che noi proponiamo sia dei produttori e dei consumatori. Il Paese si deve fermare e fare arrivare al Governo la nostra richiesta: lavorare per fermare le guerre e per una politica di Pace che metta al bando le armi, soprattutto quelle nucleari.

Invitiamo tutti i lavoratori, le lavoratrici, i giovani, i pensionati e tutte le persone che condividono l’idea a sottoscrivere la lettera al link seguente:

https://www.change.org/p/proclamareunoscioperodeiproduttoriedeiconsumatoricontrolaguerra di divulgarla e di promuovere iniziative di discussione e mobilitazione. Per comunicazioni potete scrivere all’indirizzo:

piacenza@mce-fimem.it

 Lettera/ Appello per uno sciopero contro la guerra

Si è appena concluso ad Assisi l’Incontro Nazionale delle Costruttrici e dei Costruttori di Pace promosso dalla Fondazione Perugia Assisi e in diversi abbiamo partecipato il 18 maggio all’Arena di Pace a Verona con Papa Francesco e tutti i movimenti che chiedono Pace e Giustizia. Ma la voce della Pace non arriva nei media e sulla stampa. A parlare sono sempre generali, ministri, deputati, magari con intensità diversa, ma sempre a favore dell’ineluttabilità della guerra. Coloro che sono a favore della Pace e di un modo diverso di affrontare i conflitti non trovano spazio.

In una Nazione fondata sul ripudio costituzionale della guerra chi invoca e lavora per la Pace viene attaccato, espulso dal sistema, messo all’indice. Papa Francesco all’Arena di Pace ha detto che per risolvere i conflitti armati, lui ha fiducia soprattutto nei popoli. Forse è per questo che anche sua Santità viene messo a tacere e non viene preso in considerazione.

C’è un’alternativa alla guerra, ma non le si dà spazio e non viene sperimentata. Si continua a perpetrare il conflitto armato. Dopo 940 giorni di guerra in Ucraina, dopo 350 giorni di massacri a Gaza, noi dobbiamo riconoscere che alcune forze potenti stanno facendo di tutto per trascinarci in guerra e che i principali responsabili della politica internazionale, europea e italiana non stanno facendo nulla per impedirlo.

Come si può assistere con indifferenza senza intervenire all’orrenda carneficina che si protrae a Gaza? Come si può fare i tifosi di fronte al milione di vittime del conflitto ucraino? E i morti della Somalia, del Myanmar, del Sudan, del Congo, del Libano e di tutti gli altri Paesi? Forse non è chiaro a tutti che continuando l’escalation potremmo arrivare ad una situazione ancora peggiore?

I potenti dimostrano assoluto disprezzo per la vita umana e per le sorti dell’umanità, si fidano solo delle armi. Non hanno un’idea di come si possa mettere fine ai combattimenti, non hanno un’idea di come si possa arrivare alla pace e stanno trascinando l’Europa intera in una guerra senza precedenti. Dall’altra parte chi è davvero convinto che siamo arrivati ad un passo dal punto di non ritorno, dovrebbe mettere in campo tutte le proprie forze per fermare le guerre.

Sappiamo che non è facile perché la propaganda di guerra in atto nel nostro Paese e negli altri dell’Europa, impedisce di avere chiara la situazione ma pensiamo che sia giunto il momento di lanciare uno “Sciopero, sia dei produttori, sia  dei consumatori” contro la guerra e le difficoltà economiche che derivano da essa. È in corso una vertiginosa corsa al riarmo mondiale, stanno aumentando le spese militari che costringono a tagliare le risorse per la salute e l’istruzione e stanno impoverendo tutti. Stanno installando nuovi missili nucleari in Europa, il che ci rende ancora più fragili.

E’ “adesso” il momento di fermare l’escalation della guerra e dobbiamo chiedere ai sindacati di valutare la proclamazione di uno sciopero generale e chiedere ai lavoratori di fermare la produzione e scendere in piazza. Mentre ai consumatori, cioè a tutti noi, diciamo di  astenersi, nello stesso lasso di tempo, dall’acquisto di qualsiasi bene di consumo. Una grande dimostrazione di opposizione alla guerra e di consenso verso la Pace. Al Governo italiano deve arrivare forte e chiaro la richiesta: No a tutte le guerre e impegno per la

Pace attraverso un’azione di mediazione che coinvolga tutta l’Europa. Sappiamo che non è una cosa facile per questa Europa, ma questi non sono momenti per risposte facili.

Che cosa rispondono i sindacati? Auspichiamo un confronto e se si pensa che questa non sia la strada ce ne indichino un’altra altrettanto o maggiormente incisiva.

La Pace non ha tempo di aspettare! Noi aspettiamo le vostre risposte!

 

Primi sottoscrittori:

Roberto Lovattini –  – insegnante / Coordinatore Europe for peace Piacenza, promotore dell’appello

Mauro Annoni – Presidente Istituto di Storia Contemporanea Pesaro

Barbara Archetti, presidente Vento di Terra

Domenico Barrilà Psicoterapeuta, Analista Adleriano – Milano

Giansandro Barzaghi – Associazione NonUnodiMeno

Pietro Bartolo – ex medico Lampedusa, già parlamentare europeo

Pierluigi Bersani- Presidente Istituto di Storia Contemporanea Piacenza

Luciana Bertinato -insegnante, già collaboratrice di Mario Lodi

Daniele Bruzzone – docente Università Cattolica

Emanuela Maria Bussolati- autrice di libri per l’infanzia

Mario Busti – Presidente Università per la pace delle Marche

Roberto Camarlinghi – Animazione Sociale

Gianluca Carmosino, giornalista Comune-info

Giulio De Vivo – insegnante e formatore

Beppe Giulietti  –  Articolo 21

Davide Guidi – Coordinatore delle attività Università per la pace delle Marche

Flavio Lotti, Presidente della Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

Alessandro Marescotti – Peacelink

Luisa Morgantini- AssoPace, già Vice Presidente Parlamento Europeo

Juri Meda – docente Università di Macerata

Daniele Novara – Pedagogista.  Direttore CPP. Scrittore

Mauro Presini- insegnante e formatore

Lauro Seriacopi – Vice Presidente Fondazione Don Milani

Laila Simoncelli – Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

Mauro Spallucci – Animatore cittadinanza attiva Trani

 

Altri firmatari a livello nazionale:

 

Sara Cambrini, Funzionario Ministero Cultura, Fano

Fabrizio Cracolici –  videomaker e attivista di pace

Carlo Devoti – Maestro dello Sport/ Ambasciatore dell’Accademia Olimpica Nazionale Italiana

Gruppo Territoriale Mce di Piacenza

Oriano Giovanelli – ex Sindaco di Pesaro, già parlamentare, consigliere comunale Urbino

Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni – Rete Pace Rimini

Paola Massaro – insegnante/formatrice Urbino

Claudio Orazi – Associazione La Lupus in Fabula (Pesaro e Urbino)

Laura Tussi  – giornalista e scrittrice

Teresa Rabitti – formatrice Associazione Clio’92 Mantova

Gruppo Territoriale Mce di Pesaro

Alessia Balducci, docente di scuola secondaria di secondo grado

Ramona Orizi, insegnante Pesaro

Michela Arseni, insegnante Pesaro

Francesco Paolo Romito, Teresa Roselli, Lucrezia Sisto, Rosaria Zonno, Francesca Damiani – Bari Scuola di Pace di Fano

Donatella Giulietti – insegnante/formatrice Associazione Clio’92 Fano (PU)

Chiara Benegiamo – insegnante Urbino

Daniele Marzi ed Emanuela Sbriscia-Fioretti – Presidenti Scuola di Pace di Senigallia

Veronica Bernini – Brescia

Scuola di Pace “L. Panzieri” di Pesaro

Chiara Balduini – insegnante

Ugo Milella – pensionato Bari

Simonetta Romagna – Presidente Biblioteca Bobbato Pesaro

Marinella Topi – ex insegnante Pesaro

Lorenzana Rossi, Milena Rossi, Lea Benoffi, Rita Giomprini , Caterina Profili – Pesaro

Corrado Donati, Roberto Bernardini,  Giacomo Alessandroni , Roberto Ricci – Pesaro

Isacco Mascarin – attivista

Samuele Mascarin – consigliere comunale Fano

Susanna Cangiotti, Giovanna Catto, Fatima Morelli

 

Volontariato:
un chiarore nelle tenebre del mondo

Volontariato: un chiarore nelle tenebre del mondo

In un momento molto difficile del panorama internazionale, dove le guerre ai confini dell’Europa fanno tremare la Terra, è difficile trovare la voglia di guardare con occhi benevoli il mondo e pensare che c’è ancora speranza per chi vive su questo pianeta martoriato. Se lo sforzo è più impegnativo, la motivazione è pressante e può essere aiutata dalla consapevolezza che senza la valorizzazione di ciò che è ancora buono, questo mondo ricco di tendenze consumiste, individualiste, capitaliste e post-moderne è destinato a distruggere sé stesso implodendo come un soufflè bruciato dall’aria bollente di un forno che nessuno è più in grado di spegnere.

Gli occhi che ci permettono di vedere il bene devono essere aiutati da buone lenti dotate di un duplice fuoco che ci assicura di vedere sia verso l’interno di ciascuno di noi (i nostri buoni pensieri, le nostre tendenze altruiste, la nostra voglia di vedere gli altri felici) sia e verso l’esterno (il mondo che sta fuori, la socialità, la voglia di comunità, la fratellanza).
Verso l’interno si può andare alla caccia dei buoni sentimenti e delle buone intenzioni che animano i nostri pensieri e i nostri cuori.
Verso l’esterno si può cercare una socialità pacifica e includente. In ciascuno di noi c’è la consapevolezza che il bene può esistere e che verso di esso si può tendere, così come esiste il risucchio verso il nichilismo e la conseguente negazione della capacità dei buoni sentimenti di colonizzare il mondo e albergare in esso a pieno titolo. È necessario adottare un approccio autoriflessivo che massimizza senza indugio la tendenza all’altruismo e la convinzione che grazie ad esso si possano fare grandi passi avanti, gli unici che sono davvero “avanti”. Solo dopo questa consapevolezza interiore si può guardare all’esterno di noi stessi verso le persone più prossime e verso gli altri più lontani. Si possono guardare con i giusti occhiali coloro che sono vivi contemporaneamente a noi, vicine e lontani, piccoli e grandi, come noi, poco diversi da noi, molto diversi da noi, divertenti solo a volte, gentili raramente.

Al cuore della questione c’è l’idea che il benessere sociale sia in grado di trascendere quello individuale per tornare alle persone come un boomerang di buone cose. Ritrovare la consapevolezza che aiutare gli altri sia l’unica strada possibile per la socialità, è la premessa per ricostruire un tessuto di buone relazioni che sappiano scavalcare la parentela e il clan per diventare un pilastro universale e fondante dell’essere umano. Un homo sapiens che riesce a vivere con i suoi simili in maniera pacifica e costruttiva.
Una tendenza verso i valori universali del rispetto dell’altro, della tutela del debole, dell’aiuto disinteressato. Principi che fanno a pugni con alcune leggi ascritte ma imperanti, dove chi ha più soldi decide le sorti degli altri, privilegiando parenti e amici. Amici che sono tali in quanto possibili vettori di privilegi. Questo non è di certo un bel mondo nel quale vivere, nessuno vorrebbe lasciare ai suoi figli una terra così.

 

Per fortuna il mondo nel quale viviamo non è sempre nichilista e corrotto e i tanti esempi virtuosi che ciascuno di noi conosce allentano la preoccupazione di una imminente catastrofe, per riportare un po’ di speranza. Credo ci sia un’ulteriore distinzione da fare quando ci si addentra nelle considerazioni sul “benessere collettivo”. Esiste una notevole differenza tra la tendenza alla socialità costruttiva insita in alcuni individui e l’appartenenza ad un gruppo che si occupa di persone bisognose. Mentre la prima pervade tutti gli ambiti della vita e accompagna tutte le scelte che una persona può fare, la seconda può avere un valore strumentale ed essere anch’essa fonte di privilegi. Quando entrambe le tensioni, l’indole altruista e l’appartenenza a un gruppo “socially oriented” convivono, si sviluppa il meglio possibile in termini di propensione individuale al bene collettivo.

Detto che l’appartenenza opportunista ad organizzazioni che si dichiarano altruiste è una contraddizione identitaria e che chi la vive si trova più o meno consapevolmente in situazione di forte stress (causato dal dover perseguire l’egoismo travestendolo continuamente con un atteggiamento altruista), va distinto il buono dal gramo e riconosciuto così che ci sono persone che provano sempre, con il tempo e gli strumenti posseduti, a fare del bene. Questa considerazione è la prima che può risollevare la nostra visione del mondo e aprirla a un panorama più ricco di proposte ed esperienze orientate al progresso, panorama positivo che può migliorare la vita, che ripudia l’egoismo smodato e ancora di più la sua legittimità settoriale.
Incanalare l’egoismo solo in alcuni aspetti della vita (ad es. il lavoro) è tanto brutto quanto lo è essere egoisti sempre.
È la stessa cosa, o sei egoista o non lo sei. Questa è la visione e questa è la strada. Ma il bene esiste e si manifesta spesso in maniera tangibile. Basta pulire le lenti dei nostri occhiali e un nuovo mondo pieno di luce si affaccia ai nostri occhi. Ad esempio, l’Italia è costellata da migliaia di associazioni di volontariato che, grazie alla dedizione di milioni di persone, lavorano ogni giorno per un mondo migliore. Tali associazioni svolgono un ruolo fondamentale nel tessuto sociale. Nei diversi ambiti in cui operano, colmano carenze strutturali e intervengono per portare conforto e un aiuto a chi ha bisogno. Dai diritti delle persone alla tutela degli animali, dalla povertà all’ambiente, i volontari mettono a disposizione tempo e risorse per il benessere della collettività.

Esistono tantissime associazioni di volontariato. Dalle più note e importanti, attive a livello nazionale e internazionale, alle più piccole che operano su scala locale. Le associazioni di volontariato sono enti non profit previsti dal Codice civile italiano. Un’associazione di volontariato unisce cittadini accomunati dallo stesso ideale o dagli stessi interessi. Nasce per iniziativa di un gruppo di soci (persone fisiche o giuridiche) che si occupano direttamente dello svolgimento delle attività dell’associazione stessa. Le finalità che un’associazione può scegliere di perseguire sono molteplici: sociale, culturale, ricreativa, religiosa, sportiva, ambientale ma ciò che la distingue da altri soggetti che operano nel Terzo settore è la presenza, necessaria, dei volontari, cioè persone che scelgono di dedicare parte del proprio tempo per realizzare, a titolo completamente gratuito, le attività dell’ente.
Per fare alcuni esempi molto conosciuti: Unicef , che è il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia. Oggi conta sul supporto di oltre 5.000 volontari in tutta Italia e di 276 mila donatori; L’ Associazione di volontariato Croce Rossa Italiana. Il suo scopo è, da sempre, l’assistenza sanitaria e sociale in tempo di pace e di guerra; Il Rotary International che è una rete mondiale formata da 1,2 milioni di persone. E poi: CESVI – Cooperazione e Sviluppo; Mani Tese; Amnesty International; Emergency; CARITAS; Cuore Amico; Gruppo Abele … e così via fino ad elencarne tantissime.
Il numero di volontari coinvolti in queste organizzazioni è impressionante: circa 6,63 milioni di persone in Italia dedicano il proprio tempo e le proprie energie a attività di volontariato. Questa disponibilità riguarda oltre il 12% della popolazione italiana sopra i 14 anni (dati ISTAT 2024), con una punta di massima disponibilità intorno ai 55. Tali numeri evidenziano l’ampiezza e la profondità dell’impegno volontario che si esprime in una vastissima gamma di settori.

A volte mi chiedo come un impegno così massivo non si traduca in un mondo migliore per tutti, altre volte vengo colpita negativamente dallo “squallore possibile” di un mondo senza la profusione di queste forze. Credo che l’apporto del volontariato sia ammirevole e lo sia ancora di più in quei casi in cui l’adesione all’associazionismo è accompagnata ad un atteggiamento che ripudia l’egoismo in ogni aspetto della vita.

Infine, mi sembra bello fare riferimento ad alcune associazioni piccole piccole che conosco bene e che mi sembrano degli esempi virtuosi e ammirevoli. Abitando in un paese bresciano di 1.500 abitanti conosco tutti e loro conoscono me. In questo paese esiste una sezione AVIS (associazione italiana donatori sangue) che vanta tantissimi iscritti. Oltre alle donazioni di sangue e a tutte le azioni che accompagnano questa attività di vitale importanza, questo gruppo di persone organizza feste all’aperto, giochi e vendite di fiori, piante grasse, cioccolato, mele per varie associazioni benefiche che hanno una natura simile alla loro (associazioni che si occupano di malati di leucemia, di sclerosi multipla, di disagio sociale e psichico, etc). Tutto fatto gratuitamente, a tempo perso, con un’organizzazione molto efficiente.
Il secondo gruppo e quello dei “Volontari del verde”. Tante persone che curano gli spazi pubblici rendendoli belli e vivi. Il parco dove giocano i bambini, il cortile delle scuole, il parco della casa di riposo, la piazza principale del paese. Il paese è diventato molto più bello grazie a loro e sempre grazie a loro il Comune è stato sollevato da una spesa che di fatto, nei modi e nella vastità in cui viene gestita attualmente l’area verde pubblica, non poteva sostenere. Sono due esempi micro ma sono la prova che il mondo si può migliorare, che non è l’apparenza che cambia le cose, che non servono i soldi per trovare ciò che è bello, che la socialità è il tessuto necessario per permeare le relazioni giornaliere di un gruppo di persone che vuole riconoscersi come comunità. Alla fine, la differenza la fa l’altruismo che vive dentro ciascuno di noi e questa non è una risorsa depositabile in una banca del tempo ma un orientamento che accompagna la vita. Allora il futuro sarà migliore, anzi lo è già il presente.

Colm Tóibín:
di che colore è la collina di Vinegar?

Colm Tóibín: di che colore è la collina di Vinegar?

Quando un romanziere famoso, inaspettatamente, decide di pubblicare una raccolta di poesie, probabilmente cede a una legge di necessità. E forse questo è il caso di Colm Tóibín, noto romanziere irlandese ( Brooklin, Bompiani 2009 e il recente  Il Mago, Einaudi 2023).

La raccolta si intitola Vinegar Hill e, a due anni dalla sua uscita in lingua inglese, viene proposta da Interno Poesia in un’edizione italiana curata e tradotta da Philip Morre e Giorgia Sensi con una luminosa prefazione del poeta gallese Patrick McGuinness.

Si diceva di questa ineludibile necessità: perché un narratore così conosciuto a livello internazionale ha voluto raccogliere e pubblicare le sue poesie, “…confezionando per altro un libro coi fiocchi per impegno e per immaginazione tematica e formale , per organizzazione interna e per intensità espressiva…” ?  (R. Galaverini).

C’è forse una necessità di confrontarsi in modo più diretto con la lingua? Oppure è una necessità di trattare ,in una forma più confidenziale e intima, argomenti dei quali Tóibín aveva già parlato nei suoi romanzi?

In una sua lectio magistralis sulla poesia (Poesiafestival, Vignola, 2017), Massimo Cacciari parla di questa “necessità” antica e ineludibile della poesia e dice: “…la nostra epoca… non considera più la poesia come qualcosa di necessaria…” perché la poesia non è più mossa, come un tempo, da una sete del sostanziale che ora (sembrerebbe) essere soddisfatta da altri.

Da chi altri? Ma dalla scienza…dal sapere tecnico-scientifico. È lì che troviamo soddisfazione alle nostre domande…”. Le troviamo nelle ragioni e nelle spiegazioni o, se volete, nella narrazioni bene articolate come quelle rese nei romanzi.

E dicendo questo cominciamo ad avvicinarci a quella necessità sostanziale della poesia, qualcosa che gli autori dal linguaggio raffinatissimo, come lo è Tóibín, comprendono molto bene.

Se mai un devoto del linguaggio (romanziere o poeta) dovesse sottostare a un unico obbligo verso la società, sarebbe il seguente: scrivere bene. Non ha altra scelta che questo “dovere” e Tóibín, in generale, non scriverebbe se non sentisse questo dovere.

E questo dovere risponde a una necessità urgente: resistere.

A chi? A cosa?

Il premio Nobel Iosip Brodskij risponde chiaramente a questa domanda: “…la società, maggioranza per definizione, presume di avere altre opzioni…” (quelle ricordate da Cacciari), per orientarsi nella nostra realtà; sicuramente opzioni “…diverse da quella di leggere versi, per quanto ben scritti”.

Ma” – continua Brodskij – “se [la maggioranza della società] trascura di leggere versi rischia di scivolare a quel livello di eloquio al quale una società diventa facile preda di un demagogo o di un tiranno”[I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1987].

Ed è proprio questo che si coglie nella raccolta di Colm Tóibín. In quanto prima raccolta di poesie di un romanziere, Vinegar Hill è un libro pienamente formato nella sua varietà metrica, nel suo senso del verso e in tante altre particolarità che evidenziano una indubitabile frequentazione dell’autore irlandese con tantissima…lettura poetica.

Nella sua prefazione Patrick McGuinness sottolinea questo aspetto di “…un libro pieno di varietà – di tono, di argomento, di tempo e luogo e forma – [di] un libro che parla del presente mentre capisce i modi in cui la storia, o meglio, le molteplici storie, sovrastano i nostri giorni”.

Così nella delicata poesia che dà il titolo alla raccolta (Vinegar Hill, pg. 81), Tóibín allude a una importante battaglia svoltasi in quel luogo nel 1798 per l’indipendenza irlandese e contemporaneamente ricorda sua madre che cerca di dipingere  la collina che si vedeva dalla loro casa.

Cosicché una semplice parola “hill” (collina) può essere la sostanza di una disfatta ( la battaglia fu vinta  dalle forze governative britanniche e irlandesi) , oppure il dilemma cromatico di un’artista, addirittura la collina può assurgere a simbolo nazionale e, perché no, a titolo di una raccolta poetica.

Di tutto questo, ovviamente, alla collina non interessa “… restando sostanza intrattabile, impenetrabile e serena”.

La poesia si conclude con una maestosa metafora finale, nella quale nuvole sognanti, smarrite e  senza una vera strategia vengono paragonate alle truppe irlandesi di quella battaglia.

Una metafora potente per chi in maniera autoironica chiede a S. Agnese , in un’altra poesia (Preghiera a Sant’Agnese, pg. 259):

Sant’Agnese, guariscimi da metafore!/Fammi dire esattamente ciò che intendo,/senza inganni e senza ricorrere/ a parole che non siano chiare e linde.

Ed eccola la necessità ineludibile del poeta Colm Tóibín: resistere a un linguaggio che si va sempre più deteriorando che diventa sempre più oscuro e sciatto; resistere al linguaggio di demagoghi, tiranni, pubblicitari e imbonitori che non sanno più dire cosa è e di che colore è la collina di Vinegar.

 

Cover: Vinegar Hill – Irlanda

 

Presto di mattina /
Jon Fosse e l’inevidenza evidente

Presto di mattina. Jon Fosse e l’inevidenza evidente

«Quando scrivo, ascolto.
Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare»
(Jon Fosse).

Ad attrarre la mia attenzione verso lo scrittore norvegese Jon Fosse è stato dapprima leggere in un articolo della sua abitudine di scrivere all’albaPresto di mattina, come riporta il titolo di questa rubrica – ma soprattutto il fatto che per lui la poesia stia a fondamento delle molteplici forme della sua scrittura.

Non mi ha sorpreso, dunque, che l’anno scorso abbia ricevuto il Nobel per la letteratura, perché – queste le parole a motivazione del premio – «la sua drammaturgia e la sua prosa innovative danno voce all’indicibile».

Tutto ciò mi ha spinto in biblioteca a cercare un suo libro e, inaspettatamente, proprio sugli scaffali delle novità nell’atrio dell’Ariostea, mi sono ritrovato con meraviglia, faccia a faccia, con il suo libro di poesie Ascolterò gli angeli arrivare (Crocetti editore, Milano 2024), che sembrava aspettasse proprio me.

A farmi decidere però di percorrere un tratto di strada in sua compagnia è stato leggere nel saggio introduttivo di Andrea Romanzi, qualcosa dell’autore che ho sperimentato anch’io:

«“Quando scrivo bene, non sono io che scrivo. [ … ] scrivere dischiude dimensioni dell’esistenza che non si possono spiegare, ma che sono comunque attive”. La cifra spirituale della scrittura di Fosse – afferma Romanzi – risiede quindi in un’assenza, in un essere altrove e altro-da-sé, nell’esperienza paradossale del voler insistere nella fatica di comunicare l’incomunicabile.» (ivi, 8)

Letteratura è il profondo, il silenzio narrato in parole, come la scrittura è il tacere della voce, la narrazione dell’indicibile la troviamo attraversando il silenzio delle parole e la notte della luce. Dalla poesia non ci vengono informazioni, essa ci comunica la sua stessa vita.

Le stelle hanno la propria notte
e la notte ha le proprie stelle                          Esco nel mattino e
ascolto una chitarra La stella abita nella notte
e la notte dà alle stelle la propria luce                      Ti tengo la
mano
e tu tieni la mia mano                                   Entriamo in noi e
usciamo nel mondo
(ivi, 147)

«E per me, scrivere – ha ricordato Jon Fosse – è ascoltare: quando scrivo, non preparo mai niente, non pianifico niente, vado avanti ascoltando. Quindi se dovessi usare una metafora per scrivere, sarebbe ascoltare… La scrittura, come ho detto, è un’attività solitaria, e la solitudine è buona fintanto che, per citare un altro poema di Olav H. Hauge, la strada di ritorno verso gli altri rimane aperta» (Un linguaggio silenzioso 7 Dicembre 2023 – Stoccolma, discorso del Premio Nobel).

Ascoltare gli angeli arrivare

Così Ascoltare gli angeli arrivare è lo stesso che restare aperti e attendere dal silenzio il venire delle parole; ed è tutto un ascoltare il brusio del silenzio. Mi vengono così improvvise anche a me, ora, parole inattese come ricalcate su quelle del poeta, germogli sulle sue radici, replicando a modo mio le asciutte, stringate parole di Jon Fosse, senza punteggiatura e con stacchi e pause tra di esse. E così scrivo a lui di rimando:

Le parole hanno il proprio silenzio,
e il silenzio ha le proprie parole,                             Esco ascoltando il mattino
La parola abita il silenzio
e il silenzio dà alle parole la propria voce.               Tenendosi la mano
entrambi entrano in me e io rivivo,
spalancato                                                              al mondo altro.

E di nuovo la sua risposta non tarda a venire:
te ne stai nella luce del tuo volto
dove un nuovo silenzio
ha iniziato il suo lavoro
non racconti storie, sono
soltanto piccoli scorci concordati
di un insieme
troppo luminoso                        per te                             è così
che puoi raccontare
il tuo insieme illuminato, silenzioso                        silenzioso
mentre la notte canta i suoi soli
[e tu devi, tra non molto, entrare nel grande movimento
dove il giorno arriva col suo dolore]
(Ascolterò gli angeli, 85).

Come amore nei capelli

e fuori dall’ oscurità.
proprio come un amore
che ci piace respirare Ti prego
apri la finestra
e lasciami vedere
che il fiordo è azzurro
E nel fiordo ci sono barche
e il vento è trasparente
ed è come amore
nei tuoi capelli
(ivi, 137)

Colui che scrive si perde come barca tra i fiordi del mare del nord, che si muove cercando un approdo che non c’è ancora e tuttavia nella scrittura egli ritroverà se stesso come un altro, su un nuovo arenile che egli stesso non sa dire, se non nel movimento, come un’onda dopo l’altra nel flusso di quelle parole.

La scrittura è un movimento, un movimento d’amore – ricorre come un leitmotiv in Fosse – ti porta dove non te l’aspetti, verso ciò che non è ancora nelle profondità dello spirito, che è amore, e provando ad illuminarlo con parole, se vi riesci, fai luce agli altri e anche a te stesso.

«E l’amore non è mai qualcosa che è!/ È soltanto rivolto verso qualcosa che è. Per questo io sono amore! Sono rivolto verso ciò che è/ ma come movimento Sono un movimento in un movimento/ Io sono in un movimento d’amore! / E guardo le barche/ muoversi attraverso uno stretto/ E allora tutte le barche non devono far altro che arrivare» (ivi, 117).

C’è ancora un verde possibile e una scintilla nella vita trasformata in morte

I due estremi della vita narrati nei due margini del giorno: mattino e sera: un bambino nasce si chiamerà Johannes, un vecchio pescatore muore, si chiamava Johannes.

«Johannes rimane in piedi a guardare i pendii e le alture e le rocce e le case sulla terraferma, c’è la sua piccola barca a remi che si trova ormeggiata a una boa ed è attraccata anche al molo, e osserva le rimesse delle imbarcazioni e vede le case lassù in cima e lungo la strada e si sente colmare da una sensazione molto forte per via di tutto questo, per l’erica, per tutto quanto, conosce ogni cosa, è il suo posto nel mondo, è suo, tutto quanto, i pendii, le rimesse delle barche, i sassi sulla battigia e ha la sensazione che non rivedrà mai più tutto questo allo stesso modo, ma rimarrà dentro di lui, come ciò che è davvero, come un suono, sì, quasi come un suono dentro di lui, pensa Johannes e si porta le mani agli occhi e li sfrega e vede che ogni cosa riluce, dal cielo laggiù, da ogni parete, da ogni sasso, da ogni barca, tutto scintilla verso di lui» (Mattino e sera, La nave di Teseo editore, Milano 2019, 83-84).

Che cosa scintilla? Ho pensato: è la barca della più grande vita, quella rilucente nella barca grande dell’oceano, della barca che è l’oceano, che è la vita come amore.

Sono lì come barche
su un oceano
grande come tutto ciò che è
molte
barche
piccole
e piccole e immobili sono cullate avanti
e indietro
e avanti
sulle barche del grande
oceano
dentro la grande barca
sulle barche del grande
oceano
dentro la grande barca
la grande barca dell’oceano
la barca grande quanto l’oceano
la barca che è l’oceano
e che vede 1’oceano                                      Le piccole barche sul grande
oceano
Vedo le piccole barche sul grande oceano      E afferro
di fronte a me il bordo della barca
E l’amore che ho
possa
restare con voi
miei cari
(Ascolterò gli angeli, 133 e 135).

Scrittura: una mistica dell’altro

La scrittura e la parola come apertura al mondo nel suo trascendimento, sono una ricerca e movimento che si orienta verso una totalità misteriosa, un luogo dove tutto converge ed irradia e per questo rivela in Jon Fosse una sensibilità mistica, una perdita della parola nel silenzio della scrittura ed il suo ritrovamento nella lettura.

«Quando scrivo, scrivo sempre in direzione di una totalità che immagino esistere in un luogo, come qualcosa di assolutamente determinato, e qualsiasi cosa io scriva, qualunque periodo, anche una parte un po’ più estesa, qualsiasi cosa, è una ricerca della totalità di cui non ho in anticipo conoscenza alcuna, trattandosi di una totalità verso cui mi oriento scrivendo» (Saggi gnostici, Cue press, Imola 2018, 56).

E ancora, sempre nei saggi si legge: «Alcune delle mie esperienze più profonde possono, come ho compreso a poco a poco, essere definite esperienze mistiche. E queste esperienze mistiche sono connesse alla scrittura come un «essere consegnato all’altro e nelle mani di quel ch’è altro» (ivi, 25).

Scrittura: un atto musicale

Jon Fosse ritrae insieme ai paesaggi della sua terra − i monti, la nebbia e la trasparenza del vento, l’azzurro dei fiordi − anche il mattino e la sera dell’esistenza, il nascere e il morire, morte e vita, il credere e il non credere e il provare a credere di nuovo.

Nei personaggi cerca non solo l’oltre, ma lo sprofondo, ciò che vi è di più intimo e oscuro. Entra nei grovigli, nelle fragilità e resistenze della loro interiorità e sintonizza il linguaggio e le parole come una musica che si adatta di volta in volta al loro spartito d’esistenza vissuta in quel determinato momento.

Esse declinano il ritmo delle loro interiorità che fa vibrare, intensificare anche quella di chi legge: una lettura difficile quella di Fosse, perché ti costringe a corrispondere alle variazioni e ai sussulti del ritmo, delle sue parole quasi come note.

In un’intervista dice: «Le mie prime esperienze con la scrittura risalgono a quando, ragazzo, ho iniziato a scrivere testi per le melodie che componevo con la chitarra. A quel tempo per me la musica era l’elemento più importante, ma anche oggi, scrivere per me rimane comunque un atto musicale, in fondo, e questo vale sia che io scriva poesia, prosa o drammi» (Teatro, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG) 2006, XIII).

Il trascendente si cela nella scrittura

Tra i fiordi delle sue parole e i silenzi, le pause, i ricominciamenti vi si trova non solo trascendenza della parola ma ricerca del trascendente, che il più delle volte è nascosto tra i vuoti, i silenzi delle parole e nelle innumerevoli ripetizioni che rallentano ma non fermano il movimento della scrittura.

Nella letteratura patristica il simbolo della barca è molto frequente: e il gesto di Gesù di salire sulla barca è detto con l’espressione “salire sul legno” l’equivalente di salire sulla croce. Ecco allora

Il dio morto
vedo un occhio in fiore
posarsi sul fiordo, una mano
tiene aperta una finestra: un vento
da un oblio
dice nella sua foschia azzurra
che c’è ancora un verde possibile
dietro ciò che chiamiamo vita e morte                     Sulla croce Dio
ha terminato la sua vita
e le nostre vite furono terminate                              Sulla croce Dio è
morto
Sulla croce è morta la vita
morta la morte Un verde trasparente
si diffonde dal dio morto
come una foschia azzurra
di vita trasformata in morte
(ivi, 121).

Profondamente credente, a modo suo, Fosse è passato in anni recenti dal protestantesimo – nella Chiesa luterana di Norvegia – al cattolicesimo. Una volta si lasciò sfuggire che la letteratura non solo era per lui un dono, anzi una grazia, ma pure una preghiera.

Così racconta nel discorso fatto alla consegna del Nobel: «In un’intervista, molto tempo fa, ho detto che la scrittura era una sorta di preghiera. E mi sono vergognato quando ho visto quelle parole stampate. Ma un po’ più tardi ho letto, e mi ha confortato, che Franz Kafka aveva detto la stessa cosa. Allora forse – dopo tutto?».

Nel suo romanzo Melancholia vi è un personaggio Vidme, uno scrittore agnostico che, pur riconoscendo l’ispirazione artistica somigliante ad una grazia accadutagli di fronte al quadro che s’intitola Dall’isola di Borgøya del pittore Lars Hertervig (1830-1902) di cui voleva scrivere un libro, cerca altre parole per definire quell’esperienza, quel lampo di creatività, ma nessuna arrivava ad essere come quella che si rifiuta di pronunciare: “un lampo divino”.

«Vidme crede che il suo lavoro di scrittore lo abbia condotto nelle profondità più recondite di qualcosa che lui in momenti improvvisi, istanti felici di lucidità, è arrivato a considerare come un lampo di divino, ma sia il lampo sia il divino sono espressioni che a Vidme non possono piacere, se non avesse disprezzato così tanto queste espressioni avrebbe potuto dire che in singoli istanti illuminati ha avuto un’ esperienza che non può negare, un’ esperienza che può anche sembrare ridicola, è ridicola, sia per Vidme sia per la maggioranza della gente, però in alcuni istanti di grazia, se solo potesse fare uso di questa espressione, Vidme, uno scrittore fallito quanto basta, invecchiato presto, si è reso conto di essere stato in prossimità di ciò che con un’ espressione che non si sarebbe mai immaginato di utilizzare non può chiamare altro che il divino.

Per questo adesso Vidme sta camminando lungo il marciapiede. Ma il divino, per non dire Dio, è un’espressione che Vidme non può tollerare di usare. Eppure non ha un’espressione migliore con cui definirlo» (Melacholia I-II, La nave di Teseo editore, Milano 2023, 283-284).

L’abbandonarsi dell’abbandonato è la fede, un movimento resistente che ti solleva

Sto in piedi nel vento
La pioggia cade dal cielo
Apro i miei abiti
Afferro
e vedo quel movimento dentro di me
che scompare
e diventa un movimento grande che mi solleva
abbandonandomi
(Ascolterò gli angeli, 155).

L’amore: l’inevidenza evidente

mani invisibili ci guidano
intorno nessuno vede le mani nessuno sa di loro
ma senza queste mani la nera nebbia nei nostri cuori
ci trascinerebbe in un’inquietudine schiacciante
mentre stiamo lì
e non riusciamo a vedere
Sono queste mani invisibili che distendono la propria
musica silenziosa
dentro di noi
come un vortice che ci solleva
all’interno di quel silenzio
che fa sì che il giorno si possa vivere

sei così evidente
così presente
nelle cose piccole e in quelle grandi
e in tutto ciò che avresti dovuto fare
Vai lontano
Lo fai lentamente
ma per te
così infinitamente veloce
Sei il mio più grande amore
Se devo dire che cosa è l’amore
posso dire il tuo nome
Sei il mio amore
Sei il tuo proprio amore
Sei amore.
(ivi, 157 e 159)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

A GAZA UNA NUOVA EMERGENZA: LA MALNUTRIZIONE INFANTILE

A GAZA UNA NUOVA EMERGENZA IMPENSABILE FINO A UN ANNO FA:
LA MALNUTRIZIONE INFANTILE

  • 1,1 milioni di persone (metà della popolazione di Gaza) in grave insicurezza alimentare1.
  • La malnutrizione, quasi inesistente un anno fa, è in forte aumento.
  • 41.000 persone sono le perdite a Gaza dall’inizio del conflitto.
  • L’86% del territorio di Gaza è soggetto a ordini di evacuazione forzata da parte di Israele e, di conseguenza, considerato insicuro, lasciando milioni di persone senza accesso ai beni essenziali.
  • L’arrivo dell’inverno aggrava il rischio di malattie e peggiora le condizioni degli sfollati

MA un anno dall’escalation di violenza che ha colpito Gaza, Azione contro la Fame lancia un allarme preoccupante: l’approssimarsi dell’inverno e la crescente malnutrizione pongono milioni di persone in una situazione di grave emergenza. Circa la metà della popolazione di Gaza, 1,1 milioni di individui, vive attualmente in condizioni di insicurezza alimentare, con la malnutrizione che torna a colpire in modo preoccupante.

Malnutrizione e accesso limitato ai servizi essenziali

La malnutrizione, quasi inesistente prima del conflitto, è diventata una grave minaccia. L’accesso limitato a cibo, acqua, servizi igienico-sanitari e vaccinazioni di routine contribuisce a questa crisi. Inoltre, la mancanza di articoli per l’igiene, unita a condizioni abitative precarie, aggravano ulteriormente la situazione. Oltre il 60% delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza è stato distrutto, riducendo l’accesso all’acqua potabile a soli 2-8 litri al giorno per persona, ben al di sotto degli standard minimi per la sopravvivenza.

I bambini sotto i cinque anni sono ad alto rischio: quasi il 90% dei casi di malnutrizione (acuta, grave e moderata) è stato riscontrato in bambini di età inferiore ai due anni, i più vulnerabili, nati subito prima o durante la guerra. Purtroppo, almeno 34 bambini sono già morti a causa della malnutrizione (dato di giugno 2024), della fame e della disidratazione, e il numero reale potrebbe essere significativamente più alto.

I nostri operatori a Gaza continuano a curare e sottoporre a screening i bambini per verificare la presenza di malnutrizione acuta. Inoltre, molte donne fanno fatica ad allattare a causa dello stress e utilizzano integratori di latte, che necessitano di acqua potabile per evitare malattie causate da acqua contaminata.

Oltre 340 persone sono costrette a condividere un solo bagno e 1.290 si devono servire di una sola doccia, laddove queste strutture sono disponibili. A causa della scarsità d’acqua, i residenti riescono a lavare i vestiti solo sporadicamente e spesso sono costretti a utilizzare le latrine come docce.

«La malnutrizione, che sembrava un problema superato, sta tornando a livelli allarmanti», dichiara Cristina Izquierdo, coordinatrice nutrizionale del team di emergenza di Azione contro la Fame. «Un anno fa, non avremmo mai immaginato di dover misurare la circonferenza del braccio dei bambini per identificare il rischio di malnutrizione. Oggi, tutti i bambini di Gaza sono a rischio». La nutrizione è stata uno dei pilastri della nostra risposta in questa emergenza e Azione contro la Fame è diventata l’organizzazione leader in questo ambito.

Un impegno continuo per prevenire la carestia

«La malnutrizione e la carestia sono prevenibili», afferma Natalia Anguera, responsabile operativa per il Medio Oriente di Azione Contro la Fame, sottolineando l’importanza degli sforzi dell’organizzazione per fronteggiare questa crisi. Nonostante le enormi difficoltà, oltre 1.100.000 persone a Gaza sono state raggiunte con interventi umanitari da Azione contro la Fame, tra cui la distribuzione di milioni di litri di acqua potabile e la fornitura di cibo e kit igienici.

Le organizzazioni umanitarie, tra cui Azione contro la Fame, stanno fornendo circa 600.000 pasti giornalieri in tutta Gaza, ma oltre 1,4 milioni di persone non hanno ricevuto le loro razioni alimentari a settembre, secondo quanto riportato dall’OCHA2.

A causa dell’assenza di produzione alimentare e della limitata quantità di prodotti che entrano nella Striscia, la popolazione è particolarmente vulnerabile. Infatti, dal 7 ottobre 2023, gli agricoltori dei Territori Palestinesi Occupati hanno perso molti dei loro raccolti o non possono più raggiungere i loro campi. Questo non solo ha un impatto devastante sui mezzi di sussistenza e sul potere d’acquisto delle famiglie, ma sta anche distruggendo il mercato locale: il cibo è sempre più scarso e quel poco che è disponibile è estremamente costoso.

Sebbene almeno il 75% delle terre coltivabili di Gaza sia stato danneggiato, gli operatori di Azione contro la Fame a Gaza stanno già rispondendo ai bisogni sul campo, assicurando che i contadini che stanno ancora lavorando dispongano degli strumenti e delle risorse necessarie per ricostruire

Crisi umanitaria anche in Cisgiordania e Gerusalemme Est

Non solo Gaza: anche la Cisgiordania e Gerusalemme Est stanno vivendo un’escalation di violenze e restrizioni senza precedenti.
Le incursioni militari, la violenza dei coloni e il trasferimento forzato delle popolazioni sono aumentati in modo drammatico negli ultimi 12 mesi.
Le squadre di Azione contro la Fame riportano condizioni mai viste prima, con demolizioni di infrastrutture essenziali come strade, reti idriche e fognarie. La situazione richiede un intervento deciso e immediato.

Il freddo in arrivo e le condizioni degli sfollati

Con l’avvicinarsi dei mesi invernali, il freddo e la pioggia, le famiglie sfollate – molte delle quali vivono in tende danneggiate o all’aperto – affrontano un rischio crescente di contrarre malattie come infezioni respiratorie acute e diarrea. Natalia Anguera esprime profonda preoccupazione: «Le famiglie che vivono in queste condizioni precarie non sono pronte ad affrontare il freddo. Molti sono costretti a dormire all’aperto, in aree in cui si accumulano acqua piovana e rifiuti, aumentando il rischio di epidemie».

Azione contro la fame
Milano 8ottobre 2024,

Cover: Gaza, bambini in fila per il cibo – Foto: [Omar El Qattaa – Anadolu Agency]

Parole a Capo
Marta Casadei: “Quello che resta” in alcuni “scatti” poetici

Questo numero di “Parole a capo” è dedicato ad un’opera poetica piena di rimandi ad una vita vissuta a due. Un percorso intimo, profondo che Marta Casadei ha compiuto accanto al compagno di una vita. “Quello che resta” (Ed. La Carmelina, 2024) è un’opera prima che parla di ricordi, di invecchiamento assieme, di presenze ed assenze, di piccole complicità, di progetti comuni, di vuoti, del tanto amore che resta, che c’è stato e che ancora resterà nel tempo.
Nella prefazione, Piero Stefani esordisce chiamando in causa la poesia “Invecchiare“. “Quando si è in due, se si cade l’altro ti rialza, dice la parola antica, ma chi solleva sa di essere a propria volta confortato dalla constatazione che il suo essere stato lì non era privo di senso. Anche quando le forze si affievoliscono e non si è più in grado di alzare il proprio coniuge o quando non si sa più giudicare fino a che punto la propria presenza sia percepita dall’altro, rimane sempre la possibilità di stare accanto. Poi cessa anche il comune invecchiare e subentra il grande distacco. Nell’ordine del tempo “ciò che resta” riguarda innanzitutto il proprio rimanere soli”.

INVECCHIARE

Ci si incurva piano piano
non te ne accorgi…
finché d’un tratto
sempre più cose sono irraggiungibili:
la lampadina fulminata
il pacco del caffè sullo scaffale
più alto… Per altre poi
viene meno la forza e non riesci
ad aprire un vasetto sottovuoto
a sollevare la tanica dell’acqua
e ti occorre la sporta con le ruote
per fare spesa.
E la memoria ti tradisce, prima
di quando in quando e poi
sempre più spesso.
Una scoperta amara il tradimento
del corpo… e tu mi soccorrevi
mi toglievi il disagio e la paura
anzi, il decadimento inevitabile
e necessario
diventava occasione di un bacio
e di un sorriso complice
un poco scaramantico.
Era bello in fondo
invecchiare insieme
e scoprire i tanti modi
di inventarsi l’amore:
nella cura reciproca
nell’insaponarci la schiena
nel prevenire un desiderio
nell’intuire l’un l’altro i pensieri
in un’idea espressa all’unisono.
E nella tenerezza
di piccoli gesti
come quando prendevi
l’accappatoio dal gancio
per me ormai troppo alto
e mi aiutavi ad infilarlo
con le mani tremanti;
ci voleva del tempo
ma era il tempo per me
di un abbraccio dolcissimo
di una lunga carezza
delicata, occhi chiusi
a fermare il tempo.
Ora che sei inciampato nella morte,
in questa casa
straniata
dove non c’è niente
a mia misura, io mi ritrovo
inadeguata a tutto, prigioniera,
impigliata nella vita.

Dal ripercorrere vicende, emozioni, esperienze, col filtro della memoria ho tratto giovamento emotivo e accettare la realtà è stato piano piano possibile. La dolente memoria della persona che più mi era stata cara, all’inizio era tremendamente acerba e non lasciava spazio ad aperture di speranza. Il tempo lentamente l’ha resa sopportabile fino a farla diventare una dolce compagnia” (Marta Casadei).

La lettura si presenta difficile non per il linguaggio o per le parole usate ma perché senza fronzoli, per la forza dei sentimenti messi in campo che coinvolgono emotivamente, che vanno dritti al cuore. Con l’andare del tempo si restringe il libero arbitrio, o almeno ci sembra. Montaigne scriveva che “la riflessione sulla morte è riflessione sulla libertà”. La si guarda in umiltà, “in timore e tremore” come diceva San Paolo.

 

LA SEDIA VUOTA

Non avverto profumi né sapori.
Sulla tavola nuda consumo
distratta il mio pasto da sola
senza arte né grazia; di fronte
la tua sedia vuota
restituisce, muta, sensazioni.
Volti e volti mi sfilano davanti
camionisti e rappresentanti di commercio
chini sul piatto, sguardi assenti
taciturni e soli.
Stanchi sorrisi di presentatrici
di quanto più mirabolante e nuovo
offra il mercato
e di professoresse segaligne,
visi rugosi e sogni adolescenti.
Su quelle rassegnate solitudini
quasi avevo pudore
di essere in due a gustare parole
al tavolo con la cartapaglia
del menù a prezzo fisso.
Era il lusso che ci regalavamo
nei nostri giorni speciali,
quelli da ricordare,
rivalsa a buon mercato.
La mente e il cuore inseguono ricordi,
emozioni passate, ma le mani
si muovono sul filo di abitudini
remote mentre tagliano la mela
ponendone metà proprio davanti
alla tua sedia… dove manca il piatto.
Una gioia di lacrime improvvisa
un calore avvolgente
(ne avevano rubato la memoria
i giorni duri che ti han portato via)
e ti ho rivisto seduto al tuo posto
dividere con me cibo e parole.
E’ stato il nostro rito
taciuto e rispettato
mangiare insieme in sala nelle feste
e nella ferialità della cucina.
Ci aspettavamo anche se era tardi
e, tutta nostra, una consuetudine,
piccolo segno di alleanza:
facevamo a metà l’ultimo frutto…
era come godere
un intimo sapore condiviso.
Era un dono reciproco a sancire
intesa e pace e complicità.
Era conferma di una comunione
irriducibile…
un gesto che nessuno ha mai notato…
ritrovarlo così ha colorato
il film in bianco e nero dei miei giorni.
E non sarà che una cosa da niente
come la morte tagli quel legame.
Tu non sarai mai più troppo lontano
non lascerai mai più la sedia vuota
e sarai qui con me, sono sicura.
Da domani
stenderò la tovaglia di bucato
e apparecchierò con molta cura
e indugerò un po’ seduta a tavola,
e potrò assaporare i tuoi pensieri
insieme ai miei:
ancora e sempre un unico sapore,
nel tempo che mi resta della vita.

 

PARLARNE CON TE

Cammino guardo leggo penso vedo
incontro osservo mi stupisco fremo
mi indigno mi ricordo di qualcosa
o di qualcuno. Vivo…
Ho un lampo di memoria, una banale
curiosità…
Mi riprometto
di parlarne con te appena torno
(o appena torni) e capita
che affretti il passo verso casa
per raccontarti una qualche novità.
A volte
ti do la voce: ma lo sai? ricordi?
E ci metto del tempo a realizzare…
tante le cose rimaste in sospeso
troppa la vita rimasta da dire.

 

E QUANDO ANCH’IO

 

E quando anch’io passerò il confine
con timore e tremore,
fra tutti quelli che mi hanno amata
vorrei che fossi tu a venirmi incontro
col tuo largo sorriso e le tue mani.
Vorrei sentire per prima la tua voce.
Chissà se ci potremo
abbracciare davvero.
E ti farò un rimprovero
(ci sei abituato!)
per avermi lasciata
per tanto tempo sola e spaventata.
E ridendo dirai che come al solito
non ho capito niente. E mi dirai
dello stupore per tutto il coraggio
che non sapevo di avere
e per le cose nuove inaspettate
e sorprendenti che mi hanno consolato,
che anche così la vita ha regalato.
E mi dirai che tutte erano state
le tue carezze all’anima
che la tua tenerezza
aveva mosso a compassione Dio.

 

Marta Casadei si descrive così: ”Sono nata a Riccione moltissimi anni fa. Da oltre 50 anni vivo a Ferrara, una città che adoro. Qui mi sono dedicata alla famiglia maturando un grande amore per i bambini e la consapevolezza del diritto di tutti i piccoli ad avere una famiglia, per cui ho scelto di dedicarmi per molti anni all’affido familiare. Per questo ho abbandonato la passione giovanile dello scrivere per riprenderla adesso in età avanzata. Per me è una terapia alla solitudine e risponde al bisogno di mettere insieme dei ricordi da lasciare ai figli. Non ho velleità artistiche, il mio è uno stile datato però a volte si compie il miracolo di un incontro di anime e diventa senza tempo e bello”. Alcune sue poesie sono uscite su “Parole a capo” il 20 aprile 2023.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 250° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

XVI Forum Internazionale per la Salvaguardia della Natura

#buildingfuturetogether: XVI Forum Internazionale per la Salvaguardia della Natura, Roma-Frascati dal 10 al 12 ottobre 

Tra crisi pandemiche e crisi belliche, crisi socio-economiche e climatiche, rischiamo di compromettere l’avvenire dell’umanità. Serve un radicale cambio di paradigma, culturale e morale, che ci consenta di passare dall’antipatia all’empatia, dalla belligeranza alla fratellanza, dall’individualismo al pluralismo, perché come indichiamo nel titolo del nostro XVI Forum Internazionale, il primo dopo il Covid, il futuro lo salviamo solo se lo ricostruiamo insieme, nella convivialità delle differenze e nella riduzione delle disuguaglianze”.

Il presidente di Greenaccord Onlus Alfonso Cauteruccio, nel presentare l’ampio e originalissimo programma del nuovo appuntamento internazionale del network ecologista di ispirazione cristiana che si svolgerà tra Roma (nella giornata del 10 ottobre presso il Centro di Preparazione OIimpica del Coni di Roma) e Frascati (nelle giornate di venerdì 11 e sabato 12 ottobre presso il Centro Giovanni XXIII), sottolinea, in particolare, alcuni aspetti. Il primo dei quali è il contributo straordinario portato dalle donne nel progresso e nella prosperità inclusiva del pianeta. “La nostra scelta di aprire il Forum con una riflessione sul protagonismo delle donne – ha ammesso Cauteruccio – nasce dal consapevole riconoscimento del valore di quanto le donne, con la loro creatività e genialità e generosità, stanno operando nel mondo in termini di attivismo, di ricerca scientifica, di sensibilità politica e di scelte concrete. Appare chiaro che le donne hanno una marcia in più e sanno essere più determinate e incisive”.

Dall’innovazione sociale alla promozione manageriale, dalla valorizzazione museale all’affermazione sportiva, le donne stanno mietendo successi incredibili e sempre più spesso i loro percorsi sono di ispirazione per le più giovani generazioni che ricercano esempi positivi in una società sempre più dilaniata dalla violenza e dall’indifferenza. In particolare, anche per l’intima relazione con l’integrità dei paesaggi e nell’evidenza che l’attività sportiva ed agonistica contribuisca al benessere fisico e psicologico degli individui, lo sport è al centro della seconda sessione di giovedì 10 ottobre.

Infatti, uno spazio apposito, programmato con il decisivo apporto del CONI e dell’USSI (Unione Stampa Sportiva Italiana) sarà dato al contributo dello sport alla sostenibilità ambientale. Lo sport è una medicina per il corpo e la mente, un bisogno imprescindibile e se praticato all’aperto è la natura stessa a rigenerare la persona. Infine non va sottovalutato il contributo che può offrire il giornalismo sportivo per sensibilizzare quanti seguono qualsiasi tipo di competizione sportiva.

La conversione ecologica, tuttavia, come periodicamente viene sottolineato dai principali report internazionali che monitorano lo stato di avanzamento delle politiche pubbliche incardinate sugli istituti della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici, è soprattutto una complessa “questione politica”. Al contributo della politica e delle Istituzioni, nonché a quello dell’economia e della finanza, ma anche della tecnologia e dell’impresa, sono dedicate, pertanto, le successive sessioni, da venerdì 11 a Frascati, con il precipuo e ambizioso obiettivo, attraverso la partecipazione di prestigiosi relatori nazionali e internazionali, non solo di fotografare i quadri conoscitivi della nostra contemporaneità, ma anche di restituire un ventaglio di prospettive e di opportunità per una transizione ecologica ed energetica equa e giusta. In dettaglio, osservando cosa succede tanto nel nostro Paese quanto in realtà emergenti come la Cina o l’America Latina, si indagheranno le evoluzioni, tra successi e criticità, dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare, delle energie rinnovabili, dell’agricoltura rigenerativa e di precisione, della decarbonizzazione urbana, delle tecnologie ecodigital e della finanza climatica.

Parafrasando il sociologo Beck, nella nostra moderna società del rischio – ha dichiarato Giuseppe Milano, Segretario generale di Greenaccord – la sfida collettiva che ci deve vedere impegnati, mediante l’uso etico e consapevole delle nuove tecnologie industriali e digitali, è sia quella dell’adattamento ai fenomeni naturali sempre più intensi e frequenti, sia quella di una profonda e coraggiosa rivisitazione dei nostri quotidiani stili di vita, nonché pratiche di consumo, perché il nostro vigente modello economico lineare impatta dolentemente sui fragili ecosistemi del pianeta esasperando la vulnerabilità dei Paesi in Via di Sviluppo che oggi sono quelli maggiormente colpiti dalle catastrofi ambientali, pur essendo i meno responsabili delle crescenti concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera. Oggi sostenibilità e solidarietà devono essere le due facce di una stessa medaglia: quella di una realtà da aumentare nei dettami dell’ecologia integrale, come ci ricorda sempre Papa Francesco”.

Un’ultima riflessione, perciò, è dedicata alla comunicazione ambientale, tra divulgazione scientifica e diffusione civica, nell’evidenza che occorra modificare, sotto la spinta e l’influenza dei social media, i linguaggi e semplificare i contenuti senza banalizzarli per rendere la conversione ecologica “socialmente desiderabile” e, quindi, democraticamente accettabile, dando cosi plastica rappresentazione al tema del XVI° Forum internazionale di Greenaccord: il mondo lo salviamo e lo ricostruiamo soltanto insieme, imparando a prendercene cura e a preservarlo per il benessere anche delle future generazioni.

In conclusione, infine, verrà conferito il “Greenaccord International Media Award”.

La sessione mattutina del 10 ottobre è riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti del Lazio come corso di formazione con relativi 4 crediti formativi.

Vite di carta /
Il gelso di Gerusalemme e l’ecocidio.

Vite di carta. Il gelso di Gerusalemme e l’ecocidio.

Da alcuni giorni rielaboro nei miei pensieri, sotto la superficie della quotidianità, quanto ho ascoltato andando a Ferrara a sentir parlare a vario titolo della città come spazio vitale. Vivo in paese, ma mi muovo spesso a Bologna e a Ferrara, dove ho ampie zone che mi sono familiari e abitudini che ogni volta trovo sempre più assediate da forme di accesso distopiche.

Dal libro di Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme, imparo a riconsiderare la categoria del” nonumano” e dopo ne parlerò; ora mi lascio trasportare da lei nell’area urbana di Roma, dove la generazione di suoi nonni, contadini, ha vissuto un rapporto di convivenza tra la terra e la città nel quartiere della Balduina, con alberi e colture a un tiro di schioppo dalla Cupola di San Pietro. Ora la città si è appropriata di ogni spazio.

Cambiare la città per cambiare il mondo mi sembra allora un titolo tempestivo. Mi è piaciuto ancora prima di partecipare al convegno di giovedì 3 ottobre organizzato dal gruppo Ferrara, le donne e la città, per riflettere sugli spazi urbani in un’ottica femminile e femminista non aggressiva e più inclusiva proprio a partire dal rapporto tra esseri umani e natura.

Ho ascoltato le relatrici e mi si è aperto un mondo, mentre raccoglievo abbozzi di idee accumulate negli anni riuscivo a  sistemarle in un quadro. Occorre un mutamento culturale per reimpostare la città come spazio di vita, serve un approccio multidisciplinare che relazioni i bisogni dei cittadini alle risposte di una politica esperta e lungimirante.

Dalla città delle disuguaglianze alla città delle pari opportunità, con spazi pubblici ripensati per essere accoglienti a tutte e a tutti, con una progettazione urbana coerente con le esigenze di aggregazione e convivenza.

Una delle espressioni chiave che ho sentito mi pare piena di bellezza anche nei suoni, ed è la città della curadella responsabilità collettiva, inclusiva e con meno barriere che si può.

Entro il programma di Internazionale a Ferrara, il festival del giornalismo giunto alla diciottesima edizione, venerdì 4 ottobre vado a sentire la scrittrice e giornalista Paola Caridi, esperta di politica del mondo arabo, che presenta il suo ultimo libro Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi.

Siamo in Sala Agnelli alla Biblioteca Ariostea, un luogo che frequento abitualmente. Sarà che gli spazi in cui esperiamo non sono fondali neutri, sarà che vengo dall’Aula magna della Facoltà di Economia, che invece mi era estranea, fatto sta che le parole di Caridi e della sua brillante intervistatrice, Catherine Cornet, mi trovano particolarmente ricettiva.

Ho accanto due studentesse del Liceo Ariosto che conosco da tempo, Sofia e Martina, due giornaliste in erba che seguono come bloggers tutto Internazionale e ci scrivono su anche per la stampa locale. Più a casa di così non potrei sentirmi.

Prendo appunti gomito a gomito con loro, che più tardi dovranno farle l’intervista; Paola Caridi intanto parla del gelso che aveva davanti alla sua casa a Gerusalemme e che non ha più trovato tornandoci dopo alcuni anni. Al suo posto, un moncherino di tronco e una assenza che lei avverte con sofferenza. Sente una mancanza culturale di quel gelso, unico rimasto in vita di sette che erano, sente il tempo della sua lunga storia sradicato con lui.

Quanti altri alberi sono rimasti travolti dalla lunga guerra israelo-palestinese dal 1948 in poi. Quanti spazi e territori sono stati ridisegnati e segnati dalle ferite di muri e linee divisorie. Attraverso gli alberi Caridi dice di avere capito molto di più del rapporto con la terra che hanno i due popoli.

Quando nasce lo stato di Israele l’atto di piantare un esercito di alberi significa legittimazione della propria presenza e totale appropriazione della terra per costruire “un paesaggio che rispecchi la visione dello Stato”. All’opposto i palestinesi, che vengono cacciati dalla loro, vedono infranto il senso di appartenenza, il legame atavico con la loro casa, con i campi e gli alberi da frutto.

Ripenso alla città come ne hanno parlato le relatrici al convegno di giovedì, al suo rapporto necessario con la campagna circostante e con l’ambiente nella sua accezione più vasta. Oggi sento Caridi definire nonumani  tutti gli elementi di un mondo fatto non solo di noi, a cui abbiamo riservato un atteggiamento distruttivo, un ecocidio. Parla di colonialismo botanico e fa l’esempio della monocultura dei gelsi in Libano, che ha provocato migliaia di morti per fame negli anni della prima guerra mondiale. Allude alla necessità di una botanica decoloniale femminista.

Mi viene in mente l’albero gigante che mio padre mi ha mostrato nei lunghi anni dei nostri giri in bici in campagna: una quercia, che ha visto piantare nel 1930 sul davanti di una casa colonica lunga e bassa. Un albero che aspettavamo di vedere dopo una curva dello stradone non asfaltato, sapendo che ci saremmo fermati sotto la sua ombra a riprendere fiato. Se voglio, ancora oggi posso raggiungerlo e in raccoglimento ricordare mio padre.

Alberi così, che Caridi chiama “alberi-piazza”, si trovavano in gran numero sul territorio di Gaza, prima che la Striscia venisse murata. Gelsi, sicomori, ulivi, carrubi, palme. Soprattutto sicomori, presso i tanti santuari sparsi in tutta la Palestina e anche dentro i villaggi e le città: alberi sotto le cui fronde era possibile incontrarsi, rifocillarsi e raccontare storie.

Alberi sacri vicini ai luoghi della preghiera. Dalla Nakba in poi, la cacciata dei palestinesi nel 1948, gli alberi sopravvissuti hanno mantenuto le loro posizioni su un territorio che si è andato riempiendo di fitte linee di demarcazione che sono l’eczema della terra di Palestina, come scrive Susan Abulhawa nel suo bellissimo Ogni mattina a Jenin.

A loro, conclude Paola Caridi, dobbiamo chiedere perdono.

Nota bibliografica:

  • Paola Caridi, Il gelso di Gerusalemme, Feltrinelli, 2024
  • Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, 2013

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Le voci da dentro /
Lettera dal carcere di Ferrara al Presidente della Repubblica

Lettera dal carcere di Ferrara al Presidente della Repubblica

Un gruppo di persone detenute nella Casa Circondariale di Ferrara ha scritto una lettera che ha inviato al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Ministro di Giustizia. Propone spunti di riflessione alternativi sul tema delle condizioni delle persone ristrette in carcere e suggerisce alcuni interventi urgenti. È scritta con intelligenza e garbo, evitando critiche sterili. Diventa pertanto credibile e degna di essere presa in considerazione in quanto scritta da chi vive i problemi dall’interno.
Mi auguro che sia letta, discussa, diffusa e spero che chi ne ha la possibilità intervenga in tempi rapidi, con professionalità, nel rispetto del dettato costituzionale.
(Mauro Presini)

 

Egr. Presidente della Repubblica Italiana Dott. Mattarella Sergio
c/o Palazzo del Quirinale P.zza del Quirinale
00187 Roma

E.P.C.
Egr. Ministro della Giustizia Dott. Carlo Nordio
Via Arenula N° 70 00186 Roma

Ili.mo Presidente,
siamo un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Ferrara “Costantino Satta” che hanno deciso di esporsi, in prima persona, per offrire uno spunto di riflessione, alternativo, sul tema, sempre più drammatico e allo stesso tempo sempre più mediatico, delle condizioni dei carcerati in Italia.
La nostra missiva vuole, senza alcuna pretesa, suggerire alcuni interventi che riteniamo essere meritevoli di ricevere attenzione, se non altro, perché immaginati da chi vive i problemi dall’interno, punto di osservazione, ahi noi, privilegiato. Ci asterremo, per cui, dal sollevare alcuna critica sterile di un sistema che zoppica, né avanzare l’ennesima richiesta di clemenza.

IL SOVRAFFOLLAMENTO

Quasi giornalmente sentiamo parlare di provvedimenti necessari per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. In quasi tutte le discussioni, viene paventato un qualche atto di clemenza che, sbrigativamente, porterebbe a una immediata riduzione del numero dei detenuti.
Abbiamo avuto modo di osservare, in passato, come, questo tipo di soluzioni, oltre a non essere risolutive, poiché il problema si ripresenta, prendono in considerazione solo l ‘aspetto quantitativo del problema, cioè il mero numero di detenuti stipati all’interno d i una struttura. Tralasciano, completamente, l’aspetto qualitativo d i questa piaga, ovvero le altre mille difficoltà che fanno, delle carceri, un luogo di immane sofferenza, dove regna il degrado e l’umiliazione.
Un atto di clemenza risolverebbe il problema della metratura pro-capite, ma per quelli che inevitabilmente restano ospiti delle patrie galere, la condizione risulta degradante, con un po’ di spazio in più, ma con tutte le criticità ancora ben presenti e irrisolte.
Come sancito da molteplici pronunce di vari organi, sia Italiani che Europei, lo spazio a disposizione nelle celle, per ciascun detenuto, non può essere l’unico parametro per valutare la vivibilità e idoneità del regime detentivo applicato. Se, al contrario fosse davvero l’unico parametro da tenere in considerazione, rispettandolo, il regime detentivo risulterebbe, iniquamente depurato da tutte quelle violazioni dei diritti umani, da troppo tempo tollerate e sedimentate, che negli anni sono divenute, addirittura, una squallida “normalità”.

OGNI CARCERE È UN MONDO A SÈ

Prima stortura del sistema che, a parer nostro, andrebbe sanata, nel più breve tempo possi bile, è l’incomprensibile diversità di trattamento e di condizioni all’interno dei vari carceri Italiani. “Ogni carcere è un mondo a sé” è un detto in voga in tutti gli istituti che, in modo semplice e chiaro, certifica l’abbandono della legalità, per favorire la praticità, spesso, a scapito proprio del rispetto dei diritti umani.
Ogni detenuto ha, già, dentro di sé le proprie fragilità personali. Vi si aggiunga lo sconforto di trovarsi in un carcere dove la parola diritto è solo un’utopia lontana e, di contro, sapere d i altri detenuti che godono di un trattamento, decisamente, più consono e rispettoso dei principi ispiratori, in un istituto che, magari, dista solo qualche kilometro da quello dove egli è detenuto. La sensazione di frustrazione e lo sconforto si possono trasformare, facilmente, in depressione.
Scontare la propria pena in una cella di oltre 20 mq, con altri due detenuti, con acqua calda e doccia in cella, in un istituto con molteplici attività proposte, possibilità lavorative importanti e, soprattutto, un programma di trattamento serio è decisamente meglio, se paragonato ad una cella di 12 mq con altri due detenuti, costretto a dormire in un letto a castello a 3 piani, senza acqua calda né doccia in cella, i n assenza d i qualsivoglia attività, che porta il detenuto a dover restare a ciondolare in sezione, anche, 20 ore al giorno. L’unico modo, per “uscire” dall’ incubo che il ristretto vive ad occhi aperti, è quello di rifugiarsi nell’abuso di sostanze antidepressive (che le amministrazioni incentivano pur di sedare, sul nascere, eventuali contestazioni).
Non è solo “diverso”, è INGIUSTO.
Non riteniamo necessario ricordare, banalmente, che l’art. 3 Cast. sancisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini, ma sottolineiamo proprio la frase che noi tutti abbiamo visto scritta a grandi lettere in tutti i tribunali Italiani: “LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI”.
Ci interroghiamo su questo tema e ne condividiamo con Lei le nostre riflessioni. Se la legge, per un determinato reato prevede una pena di 3 anni, e questi tre anni hanno un peso decisamente diverso se scontati in un carcere modello, come quello di Bollate, piuttosto che nel tugurio dell’istituto di Caltagirone, dov’è l’uguaglianza della condanna?
Oppure, 3 anni nel carcere, ??? ali ‘ avanguardia, di Padova non sono nemmeno paragonabili a 3 anni scontati in quello Treviso. Sono realtà vicinissime, dal punto di vista geografico, ma distanti anni luce se si paragonano le condizioni dei detenuti in essi ristretti.
Ci asteniamo dal contestare l ‘aspetto che concerne l’edilizia carceraria, elemento per il quale, ci rendiamo conto, evidentemente, servirebbero ingenti stanziamenti per un livellamento delle strutture.
A titolo esemplificativo, Le facciamo presente che i colloqui con, le così dette, “terze persone”, dopo i l giudizio di primo grado, sono autorizzate a discrezione della direzione dell’istituto, senza alcuna indicazione da parte del legislatore.
La conseguenza di quanto descritto è quella di avere istituti in cui si possono avere colloqui con persone diverse dai famigliari ed istituti dove, questa possibilità, è assolutamente negata.
Lo stesso vale per uno svariato ordine di autorizzazioni:
carceri in cui è consentito il possesso di un proprio persona! computer ed altri in cui non lo è; alcuni consentono l’utilizzo di lettori mp3 altri no;
ci sono istituti in cui è permesso l ‘utilizzo delle chiavette usb, mentre in altri è vietato;
carceri che mettono in chiaro solo 12 canali tv, mentre altri prevedono l’accesso alla totalità delle trasmissioni televisive;
persino sulla ricezione dei pacchi postali da parte dei famigliari ci sono autorizzazioni
differenti, che arrivano al punto di avere carceri che consentono la ricezione di generi alimentari altri che li negano completamente.
In Italia abbiamo circa 200 istituti di pena e, attualmente, circa 200 mondi diversi in cui
scontare le proprie condanne.
Non può continuare ad essere così. DEVE esserci parità di trattamento, quanto meno per le autorizzazioni.
Ci auguriamo più uniformità tra le diverse realtà delle carceri italiane, prendendo come esempio gli istituti più virtuosi e in linea con le normative comunitarie, per livellare tutti gli istituti d’Italia a quel modello.

LA STRATIFICAZIONE DEI PROBLEMI

Un altro problema che crea immani difficoltà, all’interno degli istituti, è l’abitudine, di molti operatori, (in generale tutte le tipologie di figura professionale che ruotano intorno al mondo carcerario) di procrastinare qualsiasi adempimento di loro spettanza, spesso, nell’assurda speranza che il problema si risolva da solo. In realtà, il risultato è, solamente, quello di inasprire i rapporti detenuto-operatore.
Troppe volte, alla richiesta di una prestazione, l ‘atteggiamento dell’operatore è lo stesso: procrastinare fino al cambio turno, lasciando l’incombenza all’operatore che lo sostituirà e che rimanderà, a sua volta.
Perpetrando questo comportamento fino allo sfinimento del detenuto, si creano i pretesti, mai giustificabili, per insulti, proteste, aggressioni e, nei casi più gravi e sedimentati, si può arrivare, facilmente, a vere e proprie rivolte che coinvolgono più detenuti o intere sezioni. In altri casi questa stratificazione, dei problemi irrisolti, può portare a stati depressivi, del detenuto, che possono indurre anche al suicidio.
Una soluzione, a parer nostro, potrebbe essere l’addestramento specifico del personale, impiegato all ‘interno degli istituti carcerari, nell ‘approccio ai problemi e al controllo della frustrazione dei detenuti. Ci rendiamo conto che, a volte, l’operatore può essere mal disposto perché sottoposto a richieste molto simili tra loro, se non uguali, ma è altrettanto vero che in un luogo come il carcere, dove si è privati praticamente di tutto, anche un piccolo gesto di interessamento può fare la differenza, tra il sentirsi abbandonati e i l sentirsi, invece, parte d i un sistema.
Una preparazione specifica, sotto il profilo psicologico, sarebbe, quanto meno, auspicabile per coloro i quali debbano avere un rapporto professionale con persone fragili.
Una formazione improntata al problem solving, piuttosto che alla negazione del problema sarebbe un ottimo punto di partenza.

L’AMBITO SANITARIO

Il numero estremamente esiguo, dei controlli psicologici, è un problema che riguarda tutti i detenuti. Infatti, a parer nostro, tutti i ristretti dovrebbero essere sottoposti ad uno screening periodico, atto a valutare lo stato di salute mentale.
Com’è noto, la depressione è spesso un declivio lento dello stato di salute mentale di chi se ne ammala. Altre volte, invece, è frutto di eventi traumatici.
Ad oggi, chi entra in carcere per la prima volta o comunque è sottoposto a misura cautelare in attesa di giudizio, non rientra in alcun percorso, né psicologico, né rieducativo. In molti casi si è potuto osservare come i suicidi, tra i detenuti, abbiano visto come protagonisti persone in attesa di giudizio.
La soluzione, al momento, è quella di privare il detenuto di lenzuola, indumenti e accessori, che possano essere utilizzati per farsi del male, oltre ad una sorveglianza che prevede un passaggio ogni venti minuti davanti alla cella.
Secondo la nostra opinione, oltre alle iniziative messe in atto, sarebbe opportuno attivare, in concomitanza con la carcerazione, un supporto psicologico, come già avviene, in altri ambiti, in risposta ad eventi traumatici. L’obiettivo è quello di intercettare, con anticipo, situazioni di disagio, che potenzialmente possano sfociare in gesti estremi. La nostra convinzione è rafforzata dal fatto che, spesso, la difficoltà più grande per una persona, detenuta o libera che sia, è quella di chiedere aiuto. In ambito carcerario, anche chi chiede aiuto, talvolta non può essere seguito a causa dell’ampia forbice, in termini di rapporto numerico, che c’è tra i pochi psicologi, in forza all’istituto, e il numero elevato di detenuti da seguire.
L’attivazione di contratti con psicologi che possano colmare questo squilibrio, l ‘avvio di screening periodici e un supporto psicologico immediato, sarebbero auspicabili.

IL LAVORO COME SCUOLA DI VITA

Il tasso di recidiva, nel nostro paese, supera il 70%. Un valore decisamente alto, se paragonato a quello di altri paesi europei. Molti detenuti hanno storie di vita simili, caratterizzate da ambienti sociali con scarse opportunità di lavoro, molto tempo libero trascorso oziando, in giovane età, che li ha resi facile preda della criminalità.
Un istituto carcerario che ha, come primo obiettivo, quello di rieducare al fine di reinserire il detenuto nella società, si trova molto spesso a lasciare, i ristretti, ad oziare all’interno delle sezioni. Ripropone, cioè, le stesse condizioni sociali che hanno spinto, gli stessi detenuti, tra le braccia della delinquenza.
Ci sono pochi istituti virtuosi, in Italia, che propongono un lavoro fisso alla propria popolazione carceraria. Nella maggioranza dei casi, le opportunità lavorative sono pochissime e vengono proposte rotazioni, tra i detenuti, che permettono loro di lavorare un paio di mesi all’anno.
Secondo le nostre osservazioni, la miglior scuola di vita, per chiunque, è il lavoro. Il lavoro svolge molteplici funzioni:
Una funzione economica, perché permette al lavoratore di auto sostentarsi, di essere un operatore economico in grado di risparmiare supportando, così, gli investimenti, alimentare i consumi e generare ricchezza;
Una funzione sociale, perché rende i l lavoratore parte di un ‘organizzazione. L’uomo è completo se è parte d i una comunità. Il lavoro, inoltre, permette, all’individuo, di gettare le basi per poter costruire una propria famiglia;
Una funzione psicologica, perché il lavoro restituisce soddisfazione e autostima. Inoltre alimenta l’ambizione a volersi migliorare, seguendo dei modelli virtuosi che l’ambiente stesso propone;
Il lavoro ci impegna le giornate, sostiene i nostri progetti e ci permette di perseguire i nostri obiettivi. Se viene insegnato ad assaporare il valore prezioso delle opportunità che il lavoro può dare, nella completa legalità, molti meno detenuti vorranno rischiare di perdere quanto di buono hanno conquistato, compiendo ulteriori reati.
Ed ecco, perché, secondo la nostra opinione, proprio il lavoro dovrebbe rappresentare le fondamenta del percorso atto a riabilitare il detenuto. Non può esserci percorso di rieducazione senza lavoro. Crediamo che si possano avviare collaborazioni con aziende pubbliche e private per garantire un lavoro ai detenuti.

SEZIONI DISTACCATE PER DETENUTI A BASSA PERICOLOSITA’

Seguendo questa linea di principio ci sentiamo di suggerire alcune azioni che, a parer nostro, potrebbero alleviare, in parte, alcuni problemi dei detenuti.
L’Italia è stata colpita da diverse crisi, negli ultimi anni, che hanno interessato molti settori della nostra economia. Anche i l settore alberghiero e dell’ospitalità ne ha risentito. Attraverso i telegiornali, siamo venuti a conoscenza di alberghi in difficoltà, che rischiano di dover chiudere e, nei casi più gravi, di dover dichiarare fallimento.
Acquisire, o prendere in gestione, oltre ad implementare le opportune modifiche per trasformarle in sezioni distaccate dei vari istituti di pena, questo tipo di strutture non dovrebbe avere un costo eccessivo per lo Stato, rispetto a quello necessario per la costruzione di un nuovo carcere.
In queste “sezioni distaccate” potrebbero essere allocati detenuti a bassa pericolosità sociale. In particolare, queste strutture, potrebbero essere dedicate a coloro che stanno finendo di scontare la propria pena in regime di articolo 21 O.P. (lavoro all’esterno) e articolo 50 O.P. (semilibertà).
È già previsto che questa tipologia di detenuti debba essere allocata in sezioni apposite e separata dagli altri detenuti. Queste sezioni, già oggi, sono strutturate in modo da essere molto meno restrittive del carcere tradizionale e quindi non troppo differenti da una struttura alberghiera, anche se un po’ spartana.
Anche la sorveglianza, nei suddetti casi, è molto ridotta, quindi sarebbero necessari pochissimi agenti per la gestione delle strutture.
Spesso, le domande per le assegnazioni al lavoro all’esterno o alla semilibertà vengono rigettate per mancanza di posti disponibili. Con questo semplice escamotage si potrebbero avere molte più assegnazioni .al lavoro e più detenuti ammessi a regime di semilibertà ·(quasi sempre concessa con un lavoro o del volontariato).
Queste “sezioni distaccate” potrebbero ospitare anche quei detenuti che hanno tutti requisiti per poter ottenere una misura alternativa, ma che non riescono ad accedervi in quanto non hanno un domicilio presso il quale legare la misura alternativa.
Maggior accesso al lavoro all’esterno e semilibertà, uniti alla possibilità di scontare in misura alternativa, per quelli che non hanno una casa, potrebbe alleggerire di un numero cospicuo il totale dei detenuti ristretti all’interno delle carceri, con una serie di benefici consequenziali:
Il primo, di facile lettura, sarebbe la diminuzione del tasso di sovraffollamento;
aumentando il numero di detenuti che scontano la propria pena in misura alternativa, considerando che chi finisce di scontare la propria pena in misura alternativa ha un tasso di recidiva molto inferiore rispetto a chi sconta interamente la propria pena in carcere, avremo un minor ingresso di detenuti per il futuro;
avendo molti più “detenuti lavoranti” si avrebbe anche un maggior introito dal pagamento del mantenimento carcerario. Perché, anche se tale somma è richiesta a tutti i detenuti, solo chi lavora la paga realmente, quindi l’introito potrebbe aumentare, proporzionalmente, tanto più si agevoleranno questo tipo di misure.
Risultati simili si potrebbero ottenere se il ragionamento delle “sezioni distaccate” viene riproposto anche su strutture come le caserme dismesse. Si dovrebbe tenere conto, però di tempi più lunghi per la riqualificazione degli edifici e dei costi più elevati, che sarebbero comunque inferiori rispetto alla nuova edilizia carceraria.

DIFFERIMENTO DELLA PENA

Troppe volte abbiamo avuto a che fare con detenuti che hanno commesso un reato parecchi anni prima e, dopo un brevissimo passaggio in carcere, sono stati rimessi in libertà in attesa di condanna definitiva.
Anche se la costituzione recita che la durata del processo debba avere una durata ragionevole, nella realtà constatiamo continuamente come i processi abbiano una durata estenuante che facilmente arriva a un decennio.
Questo vuol dire che, dopo il primo periodo di carcerazione (che a volte nemmeno c’è), ci potremmo trovare con persone che, dopo la commissione del reato, sono state reputate non pericolose per quasi un decennio. Appena arriva la condanna definitiva devono essere messi in stato di detenzione, per scontare la loro pena, perché considerati “pericolosi”.
Nella stragrande maggioranza dei casi, la pena residua da scontare, risulta essere ampiamente al d i sotto dei limiti di legge per poter accedere a misure alternative al carcere. Nella quasi totalità dei casi, non possono beneficiarne in quanto occorre una relazione di sintesi che deve essere redatta durante un periodo di osservazione obbligatoria post condanna definitiva.
Il risultato è che queste persone entrano in carcere per poter scontare il loro periodo di osservazione, per essere affidati ad una misura alternativa. Il periodo di osservazione coincide, in molti casi, alla pena residua da scontare, con il risultato che il detenuto accede alla misura alternativa per pochissimo tempo.
Il nostro pensiero è che, se una persona che ha commesso un solo errore nella sua vita, non ha mai più sbagliato e ha avuto una vita regolare, è ingiusto che dopo molti anni dai fatti, in assenza di errori, sia penalizzata da una pratica burocratica che si annoda su sé stessa.
A nostro avviso sarebbe opportuno prevedere un differimento pena della durata dell’osservazione necessaria a produrre una relazione di sintesi. In modo da poter ottenere direttamente l’applicazione di una misura alternativa al carcere senza dovervici per forza trascorrere infruttuosamente del tempo (se il tempo da trascorrere presso un istituto è molto breve, nessun percorso rieducativo o riabilitante è possibile, tant’è che gli operatori nulla prevedono per questa categoria di detenuti). Ovviamente bisognerebbe prevedere che il periodo di osservazione possa essere effettuato attraverso colloqui regolari con psicologi ed educatori esterni al carcere.
Se si decidesse di credere in questa idea, il beneficio sarebbe quello di avere un più basso ingresso di detenuti in carcere. Inoltre si potrebbe creare un deterrente per coloro i qual i, in attesa di pena definitiva, non dovendo più pensare “tanto in carcere ci dovrò finire lo stesso”, presi dallo sconforto, abbandonino ogni remora e, anche nel periodo di attesa del definitivo, commettano altri reati proprio perché, in cuor loro, si sentono già finiti.

APPLICAZIONE DELLE LEGGI ESISTENTI

Il governo attuale, come i precedenti del resto, hanno provato a porre rimedio, al problema delle carceri, approvando nuove leggi e decreti, che prevedono misure sovrapponibili a quelle che la legge precedente già prevedeva. Quello che a noi detenuti sembra essere il nocciolo della questione risiede nella discrezionalità affidata ai magistrati di sorveglianza che in maniera, talvolta, indiscriminata si astengono dall’interpretare la norma da applicare, ma ne generano delle loro.
In troppi casi si vedono rigetti di misure alternative, perché, “a parere” del magistrato di sorveglianza, il periodo di espiazione è troppo breve e quindi si richiede un ulteriore periodo di osservazione.
Richieste che sono supportate, come effettivamente la legge prevede, dai termini raggiunti per la concessione della misura richiesta, dalla relazione di sintesi del carcere favorevole alla concessione della misura alternativa, dalle indagini degli assistenti sociali del territorio con esito positivo e dal contesto famigliare idoneo alla concessione della misura. Questo, in pratica, vuol dire che non importa cosa dica la legge, cosa dichiarano i vari operatori che hanno avuto rapporti professionali con il detenuto, ma che l’unica decisione che conta, una volta avanzata una richiesta di misura alternativa, è l’impressione che il detenuto da al magistrato di sorveglianza, nei dieci minuti dell’udienza.
Signor Presidente, Lei, già in passato, intuendo la grandezza del problema, disse che discrezionalità non è arbitrio.
Oggi noi Io ribadiamo con forza e, altrettanto veementemente, affermiamo che la legge va interpretata seguendo il principio ispiratore del legislatore e non l’umore, del momento, di un giudice, che esprime un parere dettato dalle sue impressioni e non da dati di fatto accertati e verificati.
Se non si prevedono degli automatismi all’interno delle nuove proposte di legge, ogni nuova stratificazione sarà inutile, perché sarà immediatamente vanificata da quella discrezionalità, massima espressione di libertà di un giudice che, ad oggi; non ha limiti o imposizione alcuna.
II giudice è soggetto soltanto alla legge, recita la costituzione, ma se un giudice può disapplicare la legge in ogni momento, senza alcuna responsabilità, chi è soggetto a chi? Il giudice alla legge o la legge al giudice?

Signor Presidente, il nostro è il più umile grido di aiuto del quale siamo capaci. Nonostante i nostri errori, per i quali stiamo pagando, e la nostra attuale condizione, ci sentiamo ancora parte attiva di questo grande sistema che ci ha fatto conoscere i valori più importanti della vita e che ci ha garantito, per iscritto, una seconda possibilità. Sistema del quale vogliamo fare, ancora una volta, parte, nel rispetto della legge e dei princìpi dell’umanità. Un sistema che ci ha premiati e puniti, cresciuto e accolti, aiutato e abbandonati. Sistema del quale vogliamo essere orgogliosi di fare parte.
Questo sistema, che con gli occhi lucidi per la commozione, chiamiamo Italia. Cogliamo l’occasione per porgerle cordiali e distinti saluti.

Ferrara, 24/10/2024

Un gruppo di detenuti della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara

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A un anno dal 7 ottobre il messaggio dei Combattenti per la Pace: la pace è la via

A un anno dal 7 ottobre il messaggio dei Combattenti per la Pace: la pace è la via

Riprendiamo da Pressenza (testata nostra partner) questo articolo sul dialogo tra palestinesi e israeliani che lavorano per la PACE. l’articolo originario è Qui.

Intervista di Pressenza e ImaginAction alle combattenti per la pace (Foto di from Pressenza IPA YouTube)
Oggi, dodici mesi dopo il massacro del 7 ottobre, Israele commemora i propri morti, le famiglie degli ostaggi che (si spera) siano almeno in parte ancora vivi si sono date appuntamento nelle prime ore della mattina proprio lì, tra quei kibbutz che vennero presi d’assalto dai miliziani di Hamas, mentre Gaza piange i suoi 42 mila morti accertati ed è macerie ovunque: i bombardamenti sono proseguiti anche questa notte, la guerra non conosce pause né lutti.   

In questo scenario di totale devastazione che ormai da settimane ha esteso il conflitto all’intera regione, volentieri pubblichiamo questo messaggio di Eszter Koranyi e Rana Salman, co-direttrici dell’organizzazione israelo-palestinese Combattenti per la Pace:

Svegliandoci di fronte all’orrore del 7 ottobre, sapevamo che le nostre vite non sarebbero più state le stesse. La violenza, il dolore, la paura e la perdita che si sono riverberati nelle nostre vite sono stati testimoni dell’enorme portata della violenza. Per tutti coloro che chiamano casa questo luogo tra il fiume e il mare, ogni giorno da allora è stato come se i nostri cuori continuassero a spezzarsi più e più volte.

Oggi ricorre un anno da quella data e di nuovo chiediamo con forza un accordo di cessate il fuoco, che ponga fine alla violenza e apra la strada a una soluzione politica fondata su principi di libertà, uguaglianza e pace per tutti.

Siamo solidali con i palestinesi di Gaza che soffrono e lottano per sopravvivere sotto i bombardamenti aerei, che subiscono lo sfollamento forzato, oltre alla fame e all’infinità dei traumi. Siamo solidali con gli israeliani che hanno perso i loro cari in modi così brutali al Nova Festival e nell’area Sud del paese. Siamo solidali con i palestinesi che vivono in Cisgiordania e che quotidianamente vengono allontanati con la forza dai loro villaggi e terrorizzati dalla crescente violenza militare e dei coloni. Siamo solidali con le famiglie degli ostaggi, che aspettano con ansia di sapere se i loro cari sono vivi o se torneranno mai da loro. Siamo solidali con gli israeliani che vivono sotto un intenso fuoco di razzi e che sono stati evacuati dalle loro case nell’area nord. Siamo solidali con i cittadini palestinesi di Israele che sono stati messi a tacere per aver mostrato qualche barlume di simpatia per Gaza. Ci riconosciamo nel dolore di ogni essere umano che sta affrontando le conseguenze della violenza di questa guerra. 

Particolarmente in questo giorno, mentre piangiamo insieme e insieme tentiamo di ricucire i nostri traumi sia sul fronte personale che collettivi, continuiamo a professare la massima empatia l’uno per l’altro, compreso per il cosiddetto “nemico”. Continuiamo ad attivarci per la pace, la giustizia e la liberazione che non può essere di una parte soltanto e che perciò dovrà essere per tutti, collettiva. 

E’ più che mai imperativo adesso, come palestinesi e israeliani uniti in questa condivisa speranza che è diventato movimento in comune, far sentire la nostra voce. Sappiamo che le nostre vite e i nostri futuri sono intrecciati da sempre e che un’altra strada è possibile. 

Perché come ha detto Thich Nhat Hanh: “Non c’è via per la pace, la pace è la via”.

Eszter Koranyi e Rana Salman saranno presto in visita in Italia (dal 15 al 21 novembre) e presenteranno il libro edito da Multimage Combattenti per la Pace e non mancheremo di dare notizia dei loro appuntamenti su questa testata. A entrambe e al movimento di pace che rappresentano i nostri auguri più sinceri.

Traduzione in italiano di Daniela Bezzi

In copertina: Intervista di Pressenza e ImaginAction alle combattenti per la pace (Foto di from Pressenza IPA YouTube)