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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Quando la società ti fa ammalare: lo stigma

L’arte che cura. Quando la società ti fa ammalare: lo stigma

La sofferenza mentale non è sempre una questione biologica, cioè non è sempre una malattia organica.

Alle persone con una maggiore vulnerabilità allo stress, quindi con una predisposizione genetica che potrebbe però rimanere senza conseguenze sulla salute per l’intera vita, può succedere che,  al sommarsi di fattori psicosociali negativi, si ammalino. Un innesco che non segue la logica causa effetto (il modello biomedico ) ma è il risultato di fattori bio-psico-sociali che si incontrano e si sommano in determinate condizioni.

Spesso la malattia mentale è una questione culturale che con i pregiudizi colonizza la mente e mina negli individui il proprio senso del sé, della identità, del diritto ad avere un posto nel mondo per sé e le proprie differenze.

Molte volte è una questione di contesto sociale che, discriminandoti, escludendoti, restituendoti l’immagine di essere sbagliato, ti porta ad essere un giudice spietato, ad adottare verso di te lo stesso sguardo senza indulgenza della società, a credere più reale delle tue idee e bisogni quello che la gente pensa di te.

Se sei giovane e quindi più vulnerabile al contesto ambientale e relazionale ti detesti, ti odi, ti nascondi, ti fai del male, vuoi morire.

Se, per il mio lavoro, arriviamo ad incontrarci e riusciamo a parlarne, può nascere l’idea di una possibile rivoluzione: tu che ti ribelli al mondo, tu che difendi le tue ragioni, tu che puoi esprimerti con convinzione e non piangere silenziosamente. Tu che vai bene così come sei. Anche se è anche il mondo che dobbiamo cambiare.

Lo specchio infranto

1.

La mia vita è come il volo di un’allodola

Che uno specchio che scintilla fa cadere giù

Le sue ali stanche sono fragili

Ninna nanna per un volo che è finito

Camminare in questo mondo non è facile

Se tu sei diverso gli altri non capiscono

Io non so come farò a difendermi

Se è importante dimostrare chi non sei

Non lo so, non lo so

[Gian Pieretti, Come il volo di un’allodola

https://www.youtube.com/watch?v=wHvNPSFBUao]

Sei un bel ragazzo, un giovane adolescente, arrivi da lontano, hai un nome “strano”, lo cambi con uno che non incuriosisce ed è pronunciabile ma non basta. Quando ti guardi allo specchio vedi il colore della tua pelle che non è bianca come quella degli amici. I tuoi occhi, bellissimi, hanno una forma a mandorla che ti tradisce e i tuoi capelli neri neri dritti e indomabili anche se tagliati alla moda, sono insopportabili. “Voglio una ragazza di Ferrara, bionda, bianca”, “ diventare ricco”.

Riversi la colpa della tua infelicità sui tuoi genitori: tuo padre che incarna quello che ti ha “venduto”, tua madre che lo ha sposato e perciò non può essere tutta per te, sostituendo “ l’altra” che non c’é mai stata.

Scomodando Freud si potrebbe parlare del vecchio Complesso di Edipo. Noi – io e te – sappiamo che questo odio e questo amore assoluti sono il tuo modo di riparare un abbandono e dare significato alla tua vita sradicata, meticcia.

Dopo varie vicissitudini e importanti rotture familiari pare che tu stia trovando un modo di ricucire la tua immagine. Spontaneamente ti dedichi a una sorta di mandala dove motivi floreali orientali si sposano con le iniziali del tuo nome originale. Il rosa è il tuo colore preferito e lo dividi in una campinatura che dovrebbe riproporre, nell’insieme, il simbolo dello Yin e dello Yang. Ma sei insoddisfatto, si avverte un senso di riluttanza, lo si percepisce anche dalla confusione dell’immagine, dal disordine e dall’approssimazione. Lascerai il lavoro incompiuto e deciderai di interrompere la terapia.

S.14 anni

2.

(…)Mia madre bussa sulla porta della mia camera, mi trova morto
Senza nessun, nessun ricordo
E le mie ultime parole sono scritte con quel cacciavite, un cacciavite rotto
Lo sai che ho ucciso il mostro

E adesso non mi riconosco, oh-oh, oh
E adesso non mi riconosco, oh-oh, oh
E adesso non mi riconosci nemmeno tu

All’ultimo piano, appeso a testa in giù
Pronto a fare un tuffo dove il cielo è più blu
Posso urlare finché non mi sente Dio
Qui nessuno mi ama veramente, specialmente io
Seguo la dannazione, eh, si allungano le ombre, eh
Corro sulla neve senza lasciare impronte
La vita è un sogno, tu c’hai paura della morte
E adesso non mi riconosco, oh, 
yeah
Sono diventato il mostro

[Mace, centomilacarie, Salmo, “ Non mi riconosco”

https://www.youtube.com/watch?v=m1jIi-Op9V0]

Sei una giovane donna intelligente, colta, sensibile. Parlare con te è un arricchimento ed un piacere. Ma non ti piaci, sei troppa, sei come una piccola bimba, una neonata che si sente sicura solo tra le braccia della mamma. E di questo primitivo legame rimangono il bisogno di cibo e di dormire.

Hai tentato di farti fuori ma è rimasto solo il senso di colpa e la morte dentro.

Sai scherzare, sai scrivere poesie intense, le tue immagini artistiche sono belle ma sembra che non riescano a restituirti la tua di bellezza. In bilico tra la voglia di cambiare e lasciarti alle spalle la sofferenza e la paura di rinunciare alla tua malattia che almeno conosci. Vuoi uccidere il mostro ma, se lo fai, non ti riconosci e adesso sei tu il mostro.

Ti propongo un collage con le stoffe. Le selezioni con cura, le accarezzi con delicatezza, provi sotto i tuoi polpastrelli le diverse texture, mi spiegherai che rappresentano diverse parti di te.

La volta successiva desideri completare il lavoro e ascoltando una canzone sceglierai le frasi come didascalie per le diverse parti del lavoro.

Il collage è ordinato. Nello spazio del foglio ci sono stoffe più spesse, materiche, vellutate, trasparenti, altre come la sovrapposizione di strati di nero appaiono come un agglomerato denso seppur nato da stoffe leggere come il tulle. Sei attenta a non uscire dai bordi. Le diverse parti sono tutte contenute nel supporto ma, per ora, ognuna per sé. Il filo conduttore la canzone Non mi riconosco. Il titolo che scegli Sono diventata il mostro.

M. 27 anni “Sono diventata mostro”

3.

Chiudere i coperchi e chiudere la vista

Colmare la rottura ed evitare la vita

L’intera Terra è diventata una terra desolata

Una palude intensa, una palude di pianura

Non così piatto come desolato

E nel profondo del veleno e del rimpianto

Piango ad alta voce mentre vengo trascinato sotto

E un corpo pende dall’asta della doccia

Come un asciugamano lasciato ad asciugare

Le gocce gridano la loro protesta in una stanza buia e vuota

La tristezza decora il silenzio

Come un raduno dell’oscurità

Le mie grida sono l’eco di un suicidio perduto da tempo

Un angelo sanguinante, una colomba morta

[Kaio Dot, The mortality of Doves traduzione dall’inglese]

https://youtu.be/s3FaV9PnTU4?si=OezLUB79msfY-eO- 

Per amore fin da piccolo ti hanno spinto ad assomigliare a chi non sei. Con le buone, con le cattive, con indirette persuasioni, con esplicite disapprovazioni.

No. Non andavi bene ma cosa fare senza sembrare ingrato verso i tuoi genitori?

Hai fatto tutto quello che desideravano e bene, perchè sei educato, ubbidiente e ti fidi del loro parere. Soprattutto vuoi essere amato.

Poi, da grande, sono cambiate alcune cose, importanti tragedie che ti hanno travolto ma che, inaspettatamente, ti hanno liberato. Sembrava.

Adesso sei quello che vuoi, ma ti tormenta l’idea di aver tradito chi ti amava e vivi ogni giorno la fatica di pensare che hai sbagliato e sei sbagliato e che questa società non è per te. Vivi trascinando la tua vita sognando la morte come una liberazione ed una irreversibile sconfitta.

Al primo incontro per descrivere la tua situazione hai disegnato te seduto in trono con una spada enorme che pendeva sulla tua testa. A questo disegno poco tempo dopo è seguito il seguente che hai intitolato Ansia. Aggrappata con artigli, ti penetra nella testa e ti piega con il suo peso enorme. Il ragazzo disegnato, procede su quella linea sottile sulla quale appoggia, rassegnato ad andare avanti.

Morire è il tuo pensiero di liberazione, il terrore di tutti ma il gesto estremo da compiere ti fa paura.

E ti condanna.

Le mie grida sono l’eco di un suicidio perduto da tempo

(…)Oltre la mostruosità

chiudere i coperchi e chiudere la vista

colmare la rottura ed evitare la vita

Ansia

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioliclicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.

Come raccontare il cambiamento sociale?
12 film su storie di non profit da vedere

Come raccontare il cambiamento sociale? 12 film su storie di non profit da vedere

L’effetto dei mass-media sulla raccolta fondi non è un’ipotesi: è il caso di Justice Defenders che con un mini-documentario andato in onda nella tramissione 60 Minutes (programma televisivo in onda sul canale CBS dal 1968) ha ottenuto un aumento del 2.110% delle donazioni online annuali in sole cinque settimane.

Come tutti gli storytelling fatti bene, i documentari possono invitare il donatore a rendersi parte attiva e dunque anche a donare.

Sappiamo bene che realizzare un documentario potrebbe essere fuori budget per la maggior parte delle organizzazioni nonprofit. Tuttavia, altre organizzazioni se lo potrebbero permettere ma non lo fanno.
Il video documentario può essere un incredibile strumento di raccolta fondi e non è un qualcosa di nuovo: una ricerca del 2003 ,pubblicata sulla Stanford Social Innovation Review, sosteneva, con esempi concreti, come la realizzazione di documentari da parte delle organizzazioni nonprofit e la loro diffusione tra i mass media vada ad influenzare positivamente la comunicazione, il brand e le donazioni di un’organizzazione nonprofit.

Sfortunatamente, però – come molte organizzazione del settore nonprofit – la maggior parte delle storie non riesce a catturare abbastanza attenzione e pubblico per diventare mainstream. Nel mare dei contenuti, è difficile emergere.

Ecco quindi 12 film provocatori sul cambiamento sociale (senza un ordine particolare) che puoi e dovresti guardare su Netflix, in streaming o in DVD.

Per questo fine settimana ti diamo i tre seguenti compiti da fare:

1. Scegli un film: ogni film è un invito all’azione, dallo schermo al cambiamento.

2. Guarda il film.

3. Poi riscrivi la sceneggiatura della tua organizzazione nonprofit.

Serie, film e documentari consigliati

Il ciclo del progresso

the pad project

Onp: The Pad Project (India)

Link: Netflix – The Pad Project

Il  documentario segue un gruppo di donne a Hapur in India, mentre imparano a utilizzare una macchina che produce assorbenti biodegradabili a basso costo, che vendono ad altre donne che non se li possono permettere. Ciò non solo aiuta a migliorare l’igiene femminile fornendo accesso ai prodotti di base, ma sostiene e dà alle donne la possibilità di eliminare in India un tabù sulle mestruazioni, contribuendo nel contempo al futuro economico della loro comunità.

La città della gioia

Locandina

Onp: PANZI Foundation (Congo)

LinkNetflix – La città della Gioia 

Il documentario racconta le origini di Città della Gioia, un centro fondato nel 2011 nella regione orientale della RDC per aiutare le donne vittime dei continui conflitti minerari nella zona. Il centro è stato istituito dal fondatore dell’ospedale Panzi, Dr. Denis Mukwege, dall’attivista per i diritti delle donne Christine Schuler Deschryver ed Eve Ensler, autrice di “Monologhi della vagina” e fondatrice di V-Day.

Il diritto di opporsi

il diritto di opporsi

OnpEqual Justice Initiative (Stati Uniti)

LinkNetflix – Il diritto di opporsi

Il film segue il giovane avvocato Bryan Stevenson e la sua storica battaglia per la giustizia. Dopo essersi laureato ad Harvard, Bryan avrebbe potuto scegliere di svolgere fin da subito dei lavori redditizi. Al contrario, si dirige in Alabama con l’intento di difendere persone condannate ingiustamente, con il sostegno dell’avvocatessa locale Eva Ansley. Uno dei suoi primi casi, nonché il più…

Il ragazzo che catturò il vento

Film Il Ragazzo Che Catturo Il Vento

OnpMoving Windmills Project (Malawi)

Link: Netflix – Il ragazzo che catturò il vento 

La storia vera di un ragazzo di quindici anni del Malawi, che riesce a progettare un mulino a vento, indispensabile per superare la carestia che affligge il suo villaggio, diventa un bellissimo racconto di solidarietà, di intraprendenza e del potere di riscatto dell’istruzione.

He named me Malala

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OnpMalala Fund (Pakistan)

LinkAmazon Prime – He named me Malala

Dopo che i talebani cercano di uccidere Malala per essersi espressa a favore dell’educazione delle donne, l’adolescente pakistana Malala Yousafzai emerge come leader nella difesa dei diritti dei minori e diventa la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace.

How to Survive a Plague

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OnpTreatment Action Group (USA)

Link: Amazon Prime – How to Survive a Plague

È la storia inedita degli sforzi di persone che hanno agito per migliorare le condizioni di vita dei malati l’AIDS. Racconta dell’improbabile gruppo di giovani che, senza formazione scientifica, si è infiltrato nelle agenzie governative e nell’industria farmaceutica contribuendo a identificare nuove soluzioni, accelerando i test clinici e la loro distribuzione nelle farmacie in tempi record.

How to Change the World

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Onp: Greenpeace

Link: Amazon Prime – How to Survive a Plague 

Un gruppo di amici salpa verso una zona dove sono realizzati test nucleari e la loro protesta cattura l’immaginazione del mondo. Questa è la storia dei pionieri che hanno fondato Greenpeace e segnato il movimento ambientalista.

Chasing Ice

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Onp: Earth Vision Institute 

Link: Google Play – Chasing Ice 

Nella primavera del 2005, il celebre fotografo James Balog si diresse verso l’Artico per portare a termine un incarico commissionatogli dal National Geographic: catturare immagini che potessero aiutare a capire meglio il cambiamento climatico della Terra.

Caschi bianchi

caschi bianchi

Onp: The Syria Campaign (Syria)

Link: Netflix – Caschi Bianchi

Oltre 600.000 siriani sono stati uccisi e milioni sono stati costretti a fuggire dalle loro case.Nelle zone sfuggite al controllo del regime, chi resta dipende da gruppi di volontari dedicati a salvare chiunque ne abbia bisogno.

Virunga

virunga

Onp: The Virunga Foundation (Congo)

Link: Netflix – Virunga

Un gruppo di coraggiosi individui rischia la vita per proteggere gli ultimi gorilla di montagna dalle milizie armate, dai bracconieri e dalle forze oscure che lottano per il controllo delle ricche risorse naturali del Congo.

Mission Blue

mission blue

Onp: Mission blue

Link: Netflix – Mission Blue

La leggendaria oceanografa e vincitrice del premio TED, la Dott.ssa Sylvia Earle, è impegnata in una missione per salvare i nostri oceani. Mission Blue è in parte un’avventura d’azione, in parte un’esposizione di un disastro ecologico.

Francesco Santini
Dall’università in Economia e Management delle Organizzazioni Nonprofit dell’Università di Bologna alla Fund Raising School dellaIndiana University (USA), si interessa di nonprofit da sempre. Dal 2006 inizia a lavorare in Fondazione Carisbo e oggi è il responsabile Ufficio Attività Istituzionale.

Gli spari sopra / Genocidi

Genocidi

Raphael Lemkin, avvocato e giurista polacco docente dell’Università di Yale, fu il primo a coniare la parola genocidio (ghénos, “razza”, “stirpe”) e dal latino caedo (“uccidere”) definendolo nei seguenti modi:

«per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico (che) intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte da individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale».

Tuttavia nella grande e immane sapienza del web, non esiste un elenco, un dettaglio di tutti i genocidi perpetrati dall’uomo dall’età del bronzo ad oggi. È un mestiere da storici, è una ricerca che attraversa centinaia di ma e mille però. Il XX° secolo è stato il secolo clou per quanto riguarda lo sterminio scientifico, ma siamo sicuri che tutti gli omicidi e le violenze perpetrate ad un popolo abbiano lo stesso peso tra i libri di storia? Siamo sicuri di ricordarcene almeno qualcuno, oltre alla immane ed aberrante violenza dei nazisti nei confronti degli ebrei e alle altrettanto criminali violenze staliniane compiute tra purghe e gulag?

Io, di mio, non ne sono sicuro.

La Turchia ha compiuto almeno due genocidi quasi dimenticati nell’arco di uno stesso secolo contro la popolazione curda e contro la popolazione armena – stiamo parlando di oltre un milione di morti solo di armeni turchi.

E’ sempre l’individuazione dell’altro come estraneo e portatore di insicurezza e pericolo il leit motiv di un’azione di genocidio. Harff e Gurr (1988) individuano tre tipi di azioni che rilevano la presenza di genocidio: l’omicidio deliberato di molti civili, il numero delle morti elevato (calcolabile in migliaia), una campagna di sterminio sistematico che duri almeno sei mesi.

Nel conteggio non viene mai o quasi mai preso in considerazione l’immane massacro perpetrato dagli Europei nei confronti degli Amerindi o Nativi, forse perché tali popoli nemmeno avevano la dignità di esserlo, non erano nemmeno considerati esseri umani. Gli stermini coloniali forse non avevano i numeri o la dignità per “indossare” la parola genocidio? L’annullamento di interi villaggi, di intere tribù, da parte di inglesi, francesi, italiani, tedeschi, olandesi, belgi, che sono, se non genocidi mirati e chirurgici per fare “spazio” alle popolazioni di pelle bianca? Ci ricordiamo i genocidi dei Tutsi in Ruanda dove circa il 25% della popolazione fu annientata da parte degli Hutu, e però non ricordiamo il genocidio delle popolazioni indigene dell’Oceania, dove oltre ad uno sterminio sistematico veniva vietato chirurgicamente alle donne di partorire, venivano strappati i bambini dal grembo materno per farli diventare manodopera minorile o “occidentali”.

Il genocidio in Cambogia da parte dei Khmer è decisamente più famoso del genocidio degli Herero e dei Nama in Namibia, avvenuto ad inizio secolo fra il 1904 e il 1907 ad opera dei colonizzatori tedeschi. Si tratta del primo massacro di tale portata del Novecento, caratterizzato anche dalla comparsa di campi di concentramento e sterminio.

Gli stermini del califfato e tutti quelli compiuti in nome di qualunque divinità, il massacro di Srebrenica da parte dell’esercito serbo-bosniaco, le varie pulizie etniche dei Balcani, sono genocidi o i morti sono ancora sotto soglia?

Non tutte le vite e le etnie hanno pari dignità, non tutte le vite umane hanno lo stesso valore, non tutti gli sterminatori hanno uguale cattiveria. Cosa cambia se a perpetrare un massacro di massa è una nazione totalitaria o democratica? Eppure le bombe, i gas, le pallottole, le malattie, hanno sfumature diverse.

Arrivo alla chiusura per attirarmi gli strali dei benpensanti, perché non è possibile chiamare genocidio ciò che accade in Palestina da quasi ottanta anni? In cosa differisce da ciò lo sterminio di un popolo considerato terrorista nella sua totalità da parte di uno stato democratico, quale è Israele, con il sostegno (o l’acquiescenza) di tutta la comunità internazionale? Dal criminale attacco di Hamas del 7 ottobre, a civili inermi in Israele, alla pioggia di bombe su Gaza sono passati circa otto mesi, oltre la metà delle abitazioni della Striscia sono distrutte, compreso scuole e ospedali, un rapporto delle Nazioni Unite di maggio indica i territori come aree non adatte alla vita umana. I morti da ottobre sono circa quarantamila, più della metà sono donne e bambini. Fonti mediche accreditate dicono che ad ogni morto sotto le bombe corrispondono altre quattro o cinque persone la cui morte è causata indirettamente dalla situazione di guerra.

Perché la parola genocidio, così chiara nella sua definizione, oggi è un vestito che non tutte le salme possono indossare?

Poi non chiedetemi perché sogno un mondo senza confini e senza frontiere.

 

La “nuova” Europa, tra voglia di socialismo e rischio di barbarie

La “nuova” Europa, tra voglia di socialismo e rischio di barbarie

Come ormai solito, la grande parte dei media mainstream ha raccontato la rielezione di Ursula von der Leyen a Presidente della Commissione Europea in modo superficiale e politicista. Quello che è stato veicolato, sostanzialmente, sono state le alleanze politiche che l’hanno resa possibile  (popolari, socialdemocratici, liberali e verdi) e quelle che l’hanno osteggiata (le varie destre e il gruppo della sinistra), soffermandosi, in particolare qui da noi, sui tentennamenti da parte della Meloni nella scelta e sul “duello” tra la stessa e Salvini, per verificare chi ha l’effettiva egemonia nel diversificato schieramento di destra.

Vale la pena, invece, andare un po’ più a fondo e chiedersi qual è il profilo che emerge e che viene proposto per l’Europa dei prossimi anni. Da questo punto di vista, la lettura critica dei testi originali, il discorso tenuto davanti al Parlamento europeo  e gli Orientamenti politici per la Commissione Europea 2024-2029 ci forniscono, come sempre, qualche elemento illuminante.

In essi viene evidenziato in modo sufficientemente chiaro che esiste, da una parte, una continuità su alcuni punti fondamentali delle politiche dell’UEin particolare per quanto riguarda la scelta prioritaria di mettere al centro il dato della competitività del sistema economico, fondato sul mercato e visto come leva centrale per costruire la “prosperità” – e, dall’altra, una sorta di discontinuità, che però avevamo già visto all’opera negli ultimi 2 anni, in particolare per quanto riguarda i temi della difesa e della sicurezza, dell’immigrazione e delle politiche ambientali. Sulla difesa e la sicurezza, c’è il segno profondo della guerra che ritorna ad essere fattore permanente nei rapporti tra gli Stati, con un’enfasi decisamente fuori luogo sulla vicenda ucraina (negli Orientamenti politici per il 2024-2029 si legge, ad un certo punto che “il migliore investimento nella sicurezza europea è investire nella sicurezza dell’Ucraina”), abbracciando totalmente l’orizzonte di costruire una reale Unione europea della difesa, supportata da un incremento forte della spesa e degli investimenti nell’industria bellica. Sulle politiche relative all’immigrazione, si riprende la stretta compiuta negli ultimi anni con l’idea di promuovere la “Fortezza Europa”, rendendo le frontiere comuni più forti e sviluppando gli accordi con i Paesi terzi ( vedi Libia e Tunisia), in particolare con quelli di origine e transito dell’immigrazione, ben poco attenti ai diritti umani. Sulle politiche ambientali, checchè ne dica il gruppo dei Verdi, si registra un significativo allentamento del “Green New Deal”, sostituito dall’ “Industrial Clean deal”, commisurato all’idea di metter da parte il vecchio approccio, giudicato “ideologico” e iper-regolatorio e, invece, ora, basato sulle “opportunità” che si possono costruire per la manifattura europea.

In quest’orizzonte, peraltro, non trovano posto, se non in qualche passaggio marginale, due grandi questioni. Il fatto di eluderle fa sì che quella narrativa, sbagliata e non condivisibile nei suoi obiettivi, nel momento in cui si assumono mercato, guerra e contrasto all’immigrazione come stelle polari del proprio agire, alla fine risulti persino inefficace e non realizzabile. La prima questione è relativa ai nuovi equilibri economici e politici che si stanno costruendo nel mondo, a partire dalla guerra commerciale (solo così, fino a quando?) tra USA e Cina, dal nuovo e importante ruolo dei Paesi cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che, di fatto, stanno mettendo in discussione l’egemonia americana che dura dalla metà del secolo scorso, compresa la supremazia del dollaro come unica moneta mondiale. Una situazione nella quale, in particolare USA e Cina, stanno investendo risorse molto consistenti per sostenere e innovare la propria base produttiva, mentre l’Europa appare sostanzialmente ferma alla declamazione, nel momento in cui, dopo l’emergenza pandemica, ha abbandonato la strada di procedere all’emissione di debito comune (che forse potrà essere riesumata solo per l’industria della difesa), sotto la spinta dei nazionalismi che si sono rafforzati al suo interno. Alla fine, così facendo, rendendosi subalterna agli Stati Uniti.

La seconda questione rilevante, che viene “curiosamente” omessa nei documenti cui ho fatto riferimento, e che aggrava ulteriormente il tema della scarsità di risorse che l’UE sarà in grado di mobilitare, è relativa al nuovo Patto di stabilità e crescita dell’UE approvato alcuni mesi fa e che porterà ad una nuova stagione di politiche di “austerità” nei prossimi anni per i vari Paesi membri. Sebbene più lasco di quello precedente, accantonato solo temporaneamente nella fase pandemica, esso comunque prevede, per quanto riguarda il debito pubblico, che esso vada ridotto in media dell’1 % all’anno se il debito è superiore al 90% del PIL, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%. Per quanto riguarda il deficit pubblico, esso dovrà diminuire almeno dello 0,5% annuo fino a quando non si rientrerà al di sotto della soglia del 3% (oggi l’Italia è al 7,4%). Ciò significa, per il nostro Paese, intervenire con tagli di circa 10-12 mld. di € l’anno per i prossimi anni, che si realizzeranno attraverso la riduzione della spesa corrente.

Insomma, ci troviamo di fronte ad un’Europa che ha perso se stessa: non più intenzionata a riproporre il “modello sociale” su cui si era progressivamente costruita dal secondo dopoguerra, basata sull’affermazione della pace e sulla lotta alle disuguaglianze, che ha sostituito con l’idea dell’ineluttabilità della guerra e la centralità del mercato; nello stesso tempo, incapace di misurarsi alla pari con le grandi potenze del mondo, USA e Cina in primis, e debole, nel momento in cui, per diverse ragioni, viene meno l’asse franco-tedesco che ne ha sempre costituito l’ossatura di governo, e cresce la forza dei nazionalismi, in misura proporzionale all’allargamento della stessa UE.

Eppure, questo non è un quadro inevitabile né immutabile. Ci sono forze ed energie per provare a metterlo in discussione, a condizione di ridare voce ai movimenti e ai soggetti politici che si battono per la pace e l’uguaglianza sociale. Ce lo dicono le vicende francesi dei giorni passati, dove, da una parte, la straordinaria vittoria del Fronte Popolare è stata sì prodotta dalla volontà di arginare la destra, ma, dall’altra, essa poggia anche su un programma, voluto in primo luogo da France Insoumise, il partito di Melenchon, che si caratterizza come molto avanzato per le politiche sociali e l’intervento pubblico. Che non a caso i potentati economico-sociali vorrebbero eliminare, ricorrendo anche a campagne false e strumentali (una per tutte l’accusa di antisemitismo nei confronti di Melenchon, solo perché strenuo difensore della causa palestinese, come a suo tempo si fece con Corbyn, ex leader di un partito laburista allora spostato su posizioni radicali). Ma tutto ciò non può occultare che la partita, quella vera, in Europa e in Francia, nel medio periodo si giocherà tra una destra reazionaria e neofascista e una sinistra rinnovata e radicale nei contenuti. Un’Europa senza testa e senz’anima, come quella prefigurata con il secondo mandato alla von der Leyen, potrà allungare i tempi del suo declino e di quello delle politiche neocentriste ( e di centro-sinistra), ma non è in grado di evitarlo. In questi tempi difficili, per usare una celebre metafora, si ripropone l’alternativa tra “socialismo o barbarie”: occorre esserne consapevoli e lavorare conseguentemente.

 

Questa Europa spiegata semplice

Questa Europa spiegata semplice

L’idea di una Europa unita e “polo” di pace nel mondo è nata durante la catastrofe della seconda guerra mondiale a Ventotene da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Un’idea grandiosa che si è realizzata inizialmente (1951) con il Trattato di Parigi avviando un piccolo mercato comune della CECA (carbone e acciaio) tra 6 paesi (Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo), essendo risorse strategiche per l’industria e la guerra e gestirle insieme (provenivano dalla Rhur e dall’Alsazia) avrebbe prevenuto altre guerre.

Crollata l’URSS si avvia nel 1992 l’Unione Europea col Trattato di Maastricht che vedrà poi un grande sviluppo nel 2001 con la nascita di una moneta comune (euro) tra 15 Paesi. L’Unione Europea, nata col beneplacito degli Stati Uniti (e con dentro la Gran Bretagna dal 2013) sale fino a 28 paesi. Come però ha scritto Lucio Caracciolo su La Repubblica del 7 luglio “il postulato su cui dalla 2^ guerra mondiale si orientano gli strateghi verte sulla necessità di impedire che in Eurasia nasca una contropotenza capace di sfidare il primato a stelle e strisce. Occorre stroncare ogni velleità di intesa visibile o sotterranea fra russi e tedeschi. Dalla fine del secolo scorso la catena ha aggiunto il terzo anello, quello cinese. Un’intesa Berlino-Mosca-Pechino sarebbe una versione aggiornata e assai più minacciosa dell’asse Roma-Berlino-Tokyo…un obiettivo che nella guerra in Ucraina Biden ha già raggiunto col sabotaggio del gasdotto baltico Nord Stream che connetteva l’energia a basso prezzo russa alla Germania”.

Dunque l’Europa è nata puntando tutto sull’economia (liberista): moneta unica e libertà dei mercati, non potendo contare sulla “Politica” e una propria autonomia.

All’inizio ha funzionato anche perché stare in un mercato più grande porta (teoricamente) vantaggi economici a tutti i partecipanti se ciascuno si specializza nelle cose che sa fare meglio e le esporta nel mercato unico (più grande) europeo. Ma se il libero mercato è abile a far crescere la “torta”, poi la divide in modo diseguale, per cui se non c’è una “Politica” che mitiga i “fallimenti del mercato” (per usare l’eufemismo degli economisti liberisti), le conseguenze sono quelle che abbiamo oggi dove 2/3 dei cittadini ci hanno perso e 1/3 ci hanno guadagnato. E così dicasi per i territori, con periferie e campagne marginalizzate, che votano le opposizioni: Le Pen in Francia, Labour in UK (dopo 14 anni di Conservatori), Meloni in Italia (unico partito all’opposizione da 20 anni).

Un’Europa con un ampio mercato unico interessava molto anche agli Stati Uniti, che hanno avviato nel 1999 una nuova fase della globalizzazione all’insegna della deregolamentazione finanziaria. Tanto più se è un mero mercato senza “Politica e Autonomia”, in modo da estendere l’impero e la “pax atlantica americana” inaugurata nel secolo scorso.

Il “traino” viene dal libero mercato (business as usual) favorendo in particolare le grandi imprese, multinazionali e la finanza anglosassone che esportano senza passare dalle singole normative dei 27 Paesi e avvantaggiarsi di una globalizzazione in cui più si è grandi, più si ha potere di mercato, mentre l’Europa è bloccata dalle sue misure antitrust (a tutela del mercato interno e delle singole nazioni) che impediscono la creazione di quei campioni europei capaci di sfidare americani (e oggi anche cinesi). Una situazione ideale per gli americani per acquisire le migliori aziende europee. E ciò spiega l’enorme aumento di patrimoni e redditi degli Stati Uniti negli ultimi 20 anni, rispetto per esempio all’Italia, anche se è stato sequestrato dai ricchi di entrambi i paesi. Lo dice oggi anche Mario Draghi nel suo rapporto “economico”, che ora tutti plaudono, senza rendersi conto che l’Europa ha bisogno non tanto di “più economia e finanza”, ma di “più Politica”, che significa prima di tutto fermarsi nell’allargamento ed Unirsi davvero prima che sia troppo tardi, e tantomeno includere la Gran Bretagna o i 9 paesi dei Balcani “un luogo in cui si produce più storia di quella che si consuma in loco e perciò la si esporta” (Churchill).

Fino al 2008 l’Europa cresceva come redditi, occupati, pil, i mercati si integravano, l’euro si apprezzava sul dollaro (da 1.1 a 1:1,5). Segnali pericolosi per gli Stati Uniti che si chiedono se questo nuovo potenziale colosso economico di nome Europa (che ha i piedi politici di argilla) non si sia montato la testa. Ci penseranno i derivati sub prime made in Usa nel 2008, frutto avvelenato della nuova finanza deregolamentata e speculativa ad azzopparla. La recessione dura  anni e ridimensiona l’Euro salito troppo sul Dollaro.

Intanto l’Europa liberista (euro+mercati-welfare) e atlantica (a guida Usa) ci mette del suo e fa 5 gravi errori:

1 ) non avvia alcun processo per essere una vera superpotenza politica autonoma e un “polo” di pace, che implica una propria politica estera e una propria difesa, anche perché (diciamolo) gli Stati Uniti non vogliono;

2 ) allarga ulteriormente il suo mercato unico dal 2004 ai Paesi dell’Est (100 milioni di lavoratori), creando enormi complicazioni nel raggiungere accordi politici, favorendo però la globalizzazione e le imprese americane e accentuando le disuguaglianze territoriali a svantaggio dei paesi del Sud Europa (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma anche Francia, Gran Bretagna e Germania non sono immuni) e a vantaggio dei paesi dell’Est;

3 ) pensa che il solo liberismo (euro+libero mercato) possa risolvere i problemi di equità e delle fasce deboli e invece scopre che l’americanismo liberista applicato all’Europa, senza un welfare comune e senza politiche di compensazione di chi “rimane indietro”, produce una “rabbia” crescente che alimenta non le sinistre (scomparse nel nome della stabilità) ma le destre (spesso all’opposizione) e il populismo che soffia sul fuoco dell’immigrazione, dell’impoverimento dei ceti più deboli, degli operai abbandonati dalle sinistre che dovendo essere “mature” e democratiche, devono essere moderate. Il fatto è che anche il ceto medio e i territori periferici entrano in crisi. Solo ricchi e benestanti (1/3 della popolazione) si avvantaggiano di questo modello;

4 ) non fa regole finanziarie autonome per cui subisce i danni dei sub-prime made in Usa che la portano in recessione dal 2008 fino al 2014;

5 ) non aveva messo in conto che prima o poi l’espansione americana ad est della Nato, per rompere ogni possibile alleanza tedesco-russa, avrebbe prodotto l’invasione dell’Ucraina e una saldatura della Russia col vero nemico: la Cina. Così, stretti nella morsa di tale conflitto, anziché porci come un “polo di pace nel mondo”, avremmo dovuto scegliere l’alleato USA, rinunciando a tutti i vantaggi di un ruolo autonomo e di pace dell’Europa (seppure armato per conto proprio) capace di mediare tra Usa e Cina e di trarre vantaggi dalla cooperazione multilaterale (che comunque prima o poi avverrà). Il che non significava schierarsi con Cina e Russia (o Brics) che sono Stati autoritari, ma favorire quegli accordi mondiali sui temi globali su cui c’è interesse comune (commercio, clima, disarmo,…), che avrebbero portato vantaggi a tutto il mondo ma soprattutto all’Europa. La via che si segue invece è quella di soffiare sul fuoco di un conflitto USA-Cina che già porta svantaggi per tutti (e all’Europa in particolare e all’Italia nello specifico).

Come scrive Mauro Magatti sul Corriere della sera del 25 giugno : “C’é un modello economico che ormai da molti anni non riesce più a integrare i gruppi sociali e i territori. Le differenze di reddito tra chi ha visto migliorare la propria situazione e chi invece l’ha vista peggiorare sono sempre più ampie. Così come si amplificano i divari territoriali: ci sono intere aree che si sentono abbandonate e sempre più lontane dai centri dello sviluppo…non solo si va sgretolando il ceto medio, ma si disgregano anche i territori e le culture…la politica non sembra avere più l’autorità sufficiente per prendere le decisioni necessarie…in questo clima cresce la sfiducia e il populismo”. E astensionismo e volatilità dei voti alla ricerca di una soluzione che non arriva mai. Un’analisi che si può estendere anche a Francia e Gran Bretagna (e presto a Germania) e che spiega perché gli elettori cercano di cambiare i Governi in carica.

Oggi, in questo contesto ci sono 3 possibilità per l’Europa:

1 ) ritornare a dare sovranità agli Stati Nazionali;

2 ) continuare con piccoli cambiamenti (i “piccoli passi” della von der Leyen);

3 ) rilanciare l’Europa dei fondatori, cioè federale, con un bilancio comune di almeno 10% del Pil (oggi è 2%) e con misure rilevanti di Green Deal (ma con risorse reali aggiuntive), rilanciare un welfare comune per integrare i gruppi sociali e i territori che vengono esclusi dalla prosperità diseguale che genera lo stesso Green Deal, il libero mercato, facendo domande agli Stati Uniti e prendendo le distanze in modo che siano rispettati anche i nostri interessi di lungo periodo (e non solo i loro).

La prima via è stata sperimentata dalla Gran Bretagna con la Brexit nel 2019. Il risultato è stato negativo in quanto alle famose promesse di grandi benefici non c’è stato seguito, nonostante la Gran Bretagna avesse risorse (finanziarie, una propria moneta, relazioni internazionali) che nessun paese in Europa ha. Ci sono stati invece seri problemi alle dogane con la necessità di assumere 100mila impiegati pubblici che sono un costo supplementare. Ha pesato anche l’alta inflazione e la spesa nel settore militare (2,5% difesa sul Pil) per via della guerra in Ucraina (politiche che il Labour non cambierà) e di conseguenza poco arriva ai cittadini in termini di migliori servizi e le case e gli affitti nelle città (con le disuguaglianze anche territoriali) hanno prezzi alle stelle. Il Labour promette 300mila case pubbliche all’anno, un’agenzia nazionale pubblica sull’energia che faccia scendere le bollette, di sistemare la sanità e nazionalizzare i treni dopo la privatizzazione della Thatcher. All’immigrazione di tipo europeo è subentrata quella dai paesi del Commonwealth, ma è sempre esplosiva al punto che UK è cresciuta negli ultimi 4 anni di un milione di abitanti. Sta di fatto che i sondaggi dicono che se si votasse oggi la Brexit non si farebbe più (dal 51,6% con cui vinse, i favorevoli sono scesi al 45%). Ciò che ha travolto i Tory, insieme alle bugie sui benefici mai visti della Brexit, è l’enorme immigrazione e la mala sanità, così dopo 14 anni gli inglesi vogliono cambiare. In conclusione uscire dall’Europa non sembra vantaggioso.

La seconda via sarà quella che verrà intrapresa (i piccoli passi) dall’attuale maggioranza “Ursula”, che non solo non cambierà le tendenze in atto, ma porterà ad una ulteriore crescita delle destre e dei movimenti anti Europa e anti-immigrazione (come avvenuto in Italia, Francia, GB e Germania), in quanto crescerà lo scontento generato dalle politiche di austerity (che ora riprendono) nel segno del liberismo. La Strategic Agenda Europea dei prossimi 5 anni è peggiorata. 5 anni fa si diceva: “Costruire un’Europa climaticamente neutrale, verde, equa e sociale” con un rimando all’attuazione del pilastro dei diritti sociali, sia a livello centrale sia negli Stati membri”.
Oggi il preambolo dell’Agenda uscito prima delle elezioni a Grenada identifica ben altre priorità: “Sicurezza e difesa, resilienza e competitività, energia e migrazioni”. A riprova che la destra aveva condizionato la linea ancor prima del voto europeo. In sostanza si passa da un Piano ecologico (Green Deal), da un piano sociale e da un debito comune a un Patto di austerità e a scorporare dai deficit nazionali solo le spese in aumento militari e nessun debito comune. Per l’Italia significa un taglio di spesa pubblica di 13 miliardi all’anno fino al 2032 per non far crescere il debito pubblico. Lo stesso Green Deal è a rischio in quanto non si sa dove siano i 500 miliardi annui aggiuntivi che la stessa Commissione indica necessari per finanziarlo. Un ulteriore disastro per i nostri salari e occupati arriverà dall’ingresso dei 9 paesi Balcani “low cost”. Avremo così un’Europa ancora più extralarge dedita più alla guerra che al Welfare.

Rimane una terza via che però l’attuale maggioranza non vuole percorrere sia perché è fortemente atlantista, sia perché non si vogliono toccare i “fondamentali” (liberi mercati, rendite finanziarie, evasione ed elusione fiscale, le poche imposte sui ricchi, l’austerità) e tantomeno trovare le risorse per finanziare il Green Deal, un Welfare Europeo minimo comune, mitigare le disuguaglianze crescenti che genera il libero mercato e il Green Deal che produrrà molti esclusi.
La logica del “dio quattrino” senza veri leader politici, che è il vero valore che traina l’Occidente, non sarà capace di toglierci dai guai, al di là dei nostri miti narrativi ad uso interno e di consenso (libertà, democrazia, diritti formali, eguaglianza, inclusione, welfare) che pure ci sono ancora (anche se sempre meno) e che fanno dell’Europa il luogo migliore ancora dove vivere. La “marea nera” crescerà ancor più in Francia e in UK con Farage (già salito dal 2% al 14%), se gli effetti dei “piccoli passi” di Starmer non saranno in grado di ridurre il malcontento diffuso.

Uno scossone potrebbe avvenire dall’elezione di Trump in Usa. L’uomo d’affari, fuori dagli schemi, potrebbe portare novità inaspettate tra cui interrompere le guerre (lo ha già fatto con l’Afghanistan), abbandonare l’ideologia americana di controllare tutto il mondo (e quindi continuare a fare guerre, peraltro, perdendole). Un’America più concentrata su se stessa, potrebbe essere un bene per il mondo e costringere l’Europa, ad avviare nuovi processi di cooperazione e multilateralismo, facendola diventare adulta e autonoma, con una propria difesa (che non significa più spesa militare ma una sua ottimizzazione) e una propria politica estera.

Per certi versi / Mala  Strana

Mala  Strana

Quando le muse
si arrabbiano
La mia anima
Si impiglia
Nelle punte ferrate
Dei cancelli
Nel gelo freddo
Dei macelli
Trema
Alla combine
Di silenzio e niente
Il cielo non ha domani
Non ricorda
Ospita balene annuvolate
Si scontrano
Si sventrano
Esplodono
Granate
Tutto ritorna azzurro
integerrimo
È un fatto mentale
Di sentire
Male fino a che
Non mi abbracci
A una luce
Tua
Mi illumina
Gli occhi
Sento la ramina
Delle tue mani
Raccogliere
I  sogni
Come
gnocchi
In copertina: Mala Strana – Praga 
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Tre racconti brevi del sud

Tre racconti brevi del sud

L’appuntamento

Gelsomina era analfabeta, intelligente, vecchia non so quanto, stanca di tanti anni a zappare sassi e terra rossa. Gelsomina coniugata Dimunno. Tutti i Dimunno maschi in Argentina, per decenni, erano tornati solo da vecchi. Poi uno a uno erano morti, era rimasta lei, l’ultima. Anche oggi Gelsomina aveva un appuntamento.

Ogni mattina usciva dal suo basso senza luce, indossava  il vestito della domenica, blu a pallini bianchi, i sandali quelli belli, i capelli bianchi raccolti dietro la nuca. Non parlava più con nessuno, la figlia Adele, il genero Luigi, i nipoti che già erano grandi. Appena faceva luce si sedeva sulla sua seggiola appena fuori l’uscio di casa. Alle otto si alzava dalla seggiola, attraversava lentamente il cortile del padrone con la palma e il gelsomino; oltre il cancello c’era la strada. Non passavano macchine in quella contrada, la strada era invasa dal sole, ma l’antica casa nobiliare proiettava un breve rettangolo di ombra. Gelsomina si metteva lì, in piedi sul ciglio della strada e aspettava. Cosa aspetti, Chi aspetti Gelsomina? Anche oggi  non è venuta, Gelsomina mi rispondeva così. Tornava verso il cancello, attraversava il giardino con la palma e il gelsomino, tornava a sedersi sulla sua seggiola, fino al prossimo appuntamento.

Quando le passavo davanti aveva quasi sempre gli occhi chiusi. Non dormiva, sentiva i miei passi e apriva gli occhi. Non guardava me, guardava un po’ più lontano, oltre il cancello.  Mi piaceva quel suo nome profumato, forse, anzi, ero sicuro, a 16 anni Gelsomina era un fiore, un gelsomino di Spagna.

 

Una scoperta

Ospiti tutta la mia famiglia dai cugini, nella antica villa, un vecchio casino di caccia ingentilito nel Settecento con stemmi, volute e balconi. Nel cortile, una cappella che alla domenica mattina serviva per la messa della piccola contrada. La palma faceva una chiazza d’ombra contro un sole già infuocato.

Alle 8 meno dieci una piccola campana chiamava a raccolta i pochi fedeli, e pochi, non più di una ventina, ne poteva accogliere la cappella. Intanto era arrivato l’officiante, si era chiuso nella chiesa, una vecchia lo aiutava a vestirsi. Era vecchio anche lui, vestito di nero, in abito preconciliare, lungo fino alle caviglie e una infinità di bottoni sul davanti. Avevo quattordici anni, mai visto un prete fatto così, un marziano. Ma avevo già assaggiato Manzoni, quello non era un parroco, era un prevosto, un curato, un tipo di quel tipo.

Tutto normale fino alla predica, sempre girato di spalle alla piccola assemblea, preghiere biascicate. Invece no, arriva alla predica ed è tutto un fuoco d’artificio, un’ eruzione vulcanica, una filippica. Parte da Abramo e tira diritto con tutti i profeti, fino all’acme dell’ultima frase, che ripete due volte “Il cristianesimo è tutta una tragedia!”. Il tono lugubre, definitivo, invitava al riso, ma per me, nei giorni successivi continuavo a pensarci, era una scoperta. Non c’entrava il cristianesimo, quello andava avanti da solo da millenni, senza il mio aiuto. Scoprivo un’altra tragedia, quella continuamente evocata da mia nonna, il marchio di famiglia. Scoprivo il carattere tragico del meridione d’Italia. Scoprivo che anche io, senza saperlo, anche se deportato al nord da generazioni,  anche io ero meridionale. Senza rimedio. Tragicamente. Fieramente.

 

Il principe

Non si discute, principe era principe il Palmieri, nella sua insegna un monticello, sul monticello una palma, sopra la palma una stella. La sua villa era bassa e lunghissima, un torrone da fiera coricato per terra, brutta, bianchiccia, con un interminabile viale che dal cancello che affacciava sulla provinciale raggiungeva una misera scala d’ingresso.

Il principe aveva le maniere distratte degli aristocratici, innaturali, progettate con cura per essere esposte in pubblico. Due baffi incredibilmente sottili, alla Aramis, come si usava al sud molti anni addietro. Rideva sommessamente, senza mostrare i denti. Sfilava una sigaretta ovale senza filtro da una piatta tabacchiera d’oro con inciso il suo stemma, un’operazione che compiva al rallentatore, a favore di ogni interlocutore gli fosse abbastanza vicino per notarlo.
Così il principe Palmieri poteva anche essere ridicolo, ma non mi era parso né signorile né simpatico.

Cambiai idea una mattina di mercato nella città più vicina. Camminavo per una viuzza bianca del centro storico. Il principe mi vide e mi venne incontro per un saluto. Era uscito improvvisamente da una minuscola bottega – Sei già stato nella nostra antica cattedrale? Faccio in un attimo, chiudo l’ufficio e ti accompagno.

Perché il principe, decaduto fin che si vuole, era avvocato patentato. Ogni mattina partiva con la sua utilitaria e si recava in città. Alle 9 in punto alzava la saracinesca e riceveva il popolo dei suoi piccoli clienti. Alle 12,30, al tocco della vicina cappella del Carmine, abbassava la saracinesca e chiudeva bottega. Che non era una bottega, ma uno studio legale fornito di ogni occorrente: un tavolino, tre seggiole, due mensole con i codici. Nessuna insegna, non ce n’era bisogno, tutti in città conoscevano l’avvocato Palmieri. Che avvocato era avvocato ma anche principe.

 

®  Francesco Monini 2024

Autonomia Differenziata: serve la tua firma per abrogarla

Autonomia Differenziata: serve la tua firma per abrogarla

Da giovedì è attiva la piattaforma pubblica per la raccolta delle firme digitali per i referendum contro l’autonomia differenziata.
La raccolta delle firme digitali è possibile dal 2021 grazie a un emendamento aggiunto alla legge di conversione del decreto semplificazioni: l’emendamento aveva previsto una norma transitoria per cui i comitati promotori avevano potuto raccogliere le firme senza alcuna necessità di intervento da parte di organismi pubblici, attraverso cioè una piattaforma predisposta da un ente certificatore convenzionato con l’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid).

Ora con un decreto della presidenza del Consiglio pubblicato in Gazzetta Ufficiale è stata istituita anche la piattaforma pubblica, che renderà molto più semplice raccogliere firme digitali per i referendum: prima infatti per ogni firma era necessario che i comitati organizzatori pagassero quasi 1,50 euro per far certificare ogni firma, mentre con la piattaforma pubblica questo procedimento è gratuito.

Naturalmente le firme si raccolgono anche dal vivo nei banchetti in ogni città d’Italia. 

L’obbiettivo è raccogliere entro settembre almeno 500.000 firme.


Il quotidiano nazionale indipendente Periscopio aderisce alla campagna di raccolta firme contro l’Autonomia Differenziata.

 

LA SCHEDA
Autonomia differenziata, cos’è e perché abrogarla

Come funziona la legge che spacca l’Italia? E come il referendum può bloccarla?


LE 23 MATERIE

Sono 23 materie, tra queste anche la tutela della salute. Ci sono poi, tra le altre, istruzione, sport, ambiente, energia, trasporti, cultura e commercio estero. Quattordici sono le materie definite dai Lep, Livelli essenziali di prestazione

COSA SONO I LEP

La concessione di una o più “forme di autonomia” è subordinata alla determinazione dei Lep, ovvero i criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito – è specificato nel testo – in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. La determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, e quindi dei Lep, avverrà a partire da una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio. L’articolo 4, modificato in Aula al Senato da un emendamento di FdI, stabilisce i principi per il trasferimento delle funzioni alle singole Regioni, precisando che sarà concesso solo successivamente alla determinazione dei Lep e nei limiti delle risorse rese disponibili in legge di bilancio. Dunque senza Lep e il loro finanziamento, che dovrà essere esteso anche alle Regioni che non chiederanno la devoluzione, non ci sarà Autonomia.

LA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA

L’undicesimo articolo, inserito in commissione, oltre a estendere la legge anche alle regioni a statuto speciale e le province autonome, reca la clausola di salvaguardia per l’esercizio del potere sostitutivo del governo. L’esecutivo dunque può sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni quando si riscontri che gli enti interessati si dimostrino inadempienti, rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica e occorra tutelare l’unità giuridica o quella economica. In particolare si cita la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali.

LA CABINA DI REGIA

È composta da tutti i ministri competenti, assistita da una segreteria tecnica, collocata presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie della Presidenza del Consiglio. Dovrà provvedere a una ricognizione del quadro normativo in relazione a ciascuna funzione amministrativa statale e delle regioni ordinarie, e all’individuazione delle materie o ambiti di materie riferibili ai Lep sui diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale.

I TEMPI DELL’ENTRATA IN VIGORE

Il governo entro ventiquattro mesi dall’entrata in vigore del ddl dovrà varare uno o più decreti legislativi per determinare livelli e importi dei Lep. Mentre Stato e Regioni, una volta avviata, avranno tempo cinque mesi per arrivare a un accordo. Le intese potranno durare fino a dieci anni e poi essere rinnovate. Oppure potranno terminare prima con un preavviso di almeno dodici mesi.

IL REFERENDUM ABROGATIVO

Il referendum abrogativo di una legge ordinaria, come quella sull’autonomia differenziata, deve superare una serie di requisiti prima di poter essere convocato, come la raccolta di 500mila firme di cittadini, e deve superare nelle urne il quorum di almeno il 50% più uno degli elettori aventi diritto. La Costituzione prevede che esso possa essere richiesto anche da cinque Consigli regionali, che nel caso dell’autonomia differenziata. Entro il 30 settembre le firme devono essere depositate in Cassazione, che ne fa il conteggio e controlla che siano state raccolte secondo i requisiti richiesti. Se la Consulta ammette il quesito il governo convoca il referendum che si celebra una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno.

 

Le voci da dentro /
Dino Tebaldi: “Tutti naufraghi” (1995)

Dino Tebaldi (1935-2004)

Pubblico il secondo capitolo, intitolato “Tutti naufraghi”, tratto dal libro “Dietro le sbarre” di Dino Tebaldi.
Il volumetto è un’autoedizione non in commercio che racconta delle sue prime esperienze di insegnamento nella Casa Circondariale di Ferrara nell’anno scolastico 1995-1996.
Dino, persona straordinariamente umile e generosa, credeva nella rieducazione delle persone “ristrette” ed era sicuro che, per rendere l’uomo più libero ed emancipato, la via più importante da percorrere fosse quella dell’istruzione.
(Mauro Presini)

 

Tutti naufraghi

di Dino Tebaldi 

Non sento più la campanella che dappertutto – alle 8,20 precise – invita alunni ed insegnanti ad entrar nelle classi.
Però io entro lo stesso, perché quest’anno la scuola – col tipo cli allievi che mi sono affidati – anche senza la campanella ha significato per me, e promette umane soddisfazioni.
Non so nulla degli alunni, ed il proposito di non voler saper niente del tutto, addirittura mi fa dubitare del passato che riguarda me stesso.
Nell’aula ancor vuota – mentre dispongo sulla cattedra registro, schede e materiali – inevitabilmente ripenso con nostalgia ai bambini di qualche anno fa, e con disagio a quelli che ho appena lasciato.
Dei primi sento di poter dire tutto il bene possibile; degli ultimi, non altrettanto.
Mi hanno fatto desiderare di farla finita, e mi hanno reso allettante ogni altra opportunità. Degli allievi di quest’anno conosco nomi, cognomi, età e nazionalità, soltanto se guardo l’elenco da trascrivere in apertura del più tradizionale registro cli classe.
Dei “precedenti” – di scuola o di altro genere – relativamente a ciascuno, non voglio saper niente, anche se tante volte sarò tentato di chiedere: “Che cosa hai fatto, per finire qui dentro?” Una risposta cortese non basterebbe.
Sentirei immediata la voglia di chiedere ancora: “Da quanto tempo e per quanto dovrai rimanere qui dentro?”.
Potrei – insistendo – averne risposte esaurienti; ma è certo che dopo d’allora ciascuno potrebbe dubitare della mia natura di maestro, qui venuto – ufficialmente – per esser d’aiuto a ciascuno ed a tutti, al di là di giudizi che non mi competono, al di sopra di pregiudizi che mi avvilirebbero.
Di me, che sento non tanto diverso da loro, so di preciso che – quando la direttrice mi ha proposto la scuola carceraria – io non ho avuto il coraggio di dirle che non avevo il coraggio di tentare un’esperienza del genere.
Ho pensato però che nemmeno avrei avuto il coraggio – se avessi detto di no- di guardarmi allo specchio o dentro il cuore per chissà quanto tempo; o di presentarmi – poco dopo – davanti a mio padre morente.
Alla direttrice ho detto sì, senza pensare agli scolari che lasciavo nella scuola di …, ed alla collega che aveva fatto tutto il possibile per rendermi agevole un difficile e tormentato anno di scuola e di vita familiare.

Magistero paterno

Ho pensato soltanto a mio padre, che da me – sempre – avrebbe voluto atti di cui andar fiero. Mi voleva militare di carriera, ed invece l’ho deluso più di una volta: alla prima chiamata di leva, m’ero presentato magro al di sotto del limite. Primo risultato: rivedibile.
L’anno dopo, ero ingrassato un pochino, ma il torace ancora non arrivava alla misura. Secondo risultato: rivedibile.
Alla terza chiamata, a peso valido ed a torace più largo, avevo aggiunto – con sorpresa anche mia – i piedi piatti, o quasi.
Terzo risultato: per ridotte attitudini militari, assegnato alla riserva.
Avrei potuto servire in caso di guerra (però mio padre questo non si augurava) per utilizzi alla censura, all’ufficio stampa, od in depositi di vettovaglie: “… dove non si conquistan medaglie o menzioni d’onore…”, aveva commentato mio padre, sconfitto.
Da allora ho pensato a tutt’altra … mezza carriera.
Mio padre si è rassegnato.
Ha cominciato ad andare orgoglioso di me, quando ha visto la mia firma su giornali o sui libri, e più d’uno – negli ambienti da lui frequentati – gli ha chiesto se “quel Dino Tebald¡ che scrive di storia ferrarese e di cronaca” fosse un suo parente.
Mio padre non avrebbe immaginato che per me – quando ormai la pensione è vicina – ci sarebbe stata ancora una “chiamata di leva”: l’occasione per dimostrare coraggio virile.

La grande sfida

Quando la Direttrice Didattica mi ha fatto la proposta, mio padre aveva le ore contate.
Ho pensato a lui solamente, convinto di non dovergli negare una mia decisione per la quale potesse dir a tutti ed a se stesso d’esser contento.
Ho sfidato me stesso (non sono mai stato un forzuto…); mia moglie (“Avresti dovuto chiedere anche il mio parere…”); le colleghe (“Con noi l’anno scolastico ti sei trovato male?“); e le bidelle (“Chissà che cosa diranno i genitori per il fatto che lei ha preferito i detenuti…”).
Ho pensato soltanto a mio padre, che il giorno dopo se n’è andato per sempre.
Lo sento ogni istante vicino, come in questo momento.
Mi pare che dica d’esser contento di me: meno male! Ai miei scolari di quest’anno, anche lui avrebbe dato una mano.
Gli bisbiglio – appena posso – che gli scolari-uomini a me affidati hanno bisogno di un maestro che sappia ascoltarli, impegnarli, aprirne i cuori alla speranza.

Sulla medesima maxi-zattera

Alla vigilia, nella lista erano una dozzina, o poco più; ma fin dalla prima mattina, mi è stato detto che quattro avevano avuto il trasferimento.
Io sono entrato nell’aula, mentre gli allievi venivano chiamati col telefono dalle varie sezioni.
Non sono venuti tutti, ma i due assenti non possono essere obbligati, sgridati, puniti per aver fatto fuoco… scolasticamente.
Sono adulti, e prima d’oggi han combinato cose peggiori di questa.
Nessun giudice li ha condannati a riprendere libri, penne e quaderni; ad imparare da un vecchio maestro la lingua italiana; a fingere – la mattina – d’esser bambini.
La Casa Circondariale di Via Arginone, ai bordi dell’alta Val Sammartina, pare una maxi-zattera in balìa della nebbia che si alza, ondeggia, ed avvolge.
Scolari, maestri ed altri vi si muovono come naufraghi in cerca d’un qualche approdo.
Siamo stati tutti travolti dalla medesima onda, tutti sballottati di qua e di là, senza rispetto per i ruoli ed i titoli.
Molti ce la faranno a salvarsi, perché la persona ha risorse impensabili: potranno uscire di qui molto diversi da come sono entrati; e cercheranno di restarne lontani fino alla fine dei giorni terreni.
Però chiedono – fin da adesso – d’essere aiutati umanamente, perché il mondo è un mare sempre in burrasca, che risucchia chi manca d’una gomena o d’una ciambella di salvataggio.
La scuola può aiutarli a ritrovare la strada smarrita, quella che fa riflettere prima di combinare qualcosa.
Sono naufraghi che vogliono ritornare sull’onda, per mettere – alla fine – i piedi su terra ferma.
Sarò io capace d’insegnare loro i segreti della navigazione verso rotte che hanno valore? Pensavo tutto questo, mentre aspettavo gli allievi.
Ma non è questo che dovrò insegnare esplicitamente.
Dovrò – invece – stabilire un rapporto umano con alunni che già sono “matricolati.
Saranno loro a dirmi di che cosa hanno bisogno.
Da parte mia serve soprattutto la disponibilità umana e professionale.
Adesso so questo, ed a questo debbo pensare.

(21 ottobre 1995)

Cover: La fotografia utilizzata in copertina è di Francesco Cocco ed è tratta dalla pubblicazione “Repertorio di immagini degli spazi trattamentali delle carceri in Emilia-Romagna”, a cura del Garante delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale. Ritrae un cortile della Casa Circondariale di Ferrara dedicato all’ora d’aria.

 

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Dalla Civiltà delle macchine alla (in)civiltà degli algoritmi.
La lezione di Leonardo Sinisgalli

Dalla Civiltà delle macchine alla (in)civiltà degli algoritmi. La lezione di Leonardo Sinisgalli.

Saranno robot iperspecializzati a scavare le miniere e a esplorare le profondità degli oceani e dello spazio. Saranno i cobot a intervenire chirurgicamente sul nostro corpo e a prendersi cura di noi; saranno le macchine a guida autonoma a spostarci, “camminarci”, e forse “finirci”; sarà l’AI a fare giornalismo, fotografia, letteratura e persino arte.

È sotto gli occhi di tutti: oggi il sapere viene prodotto con (e dalle) macchine.

Come avvertito da molti autori a cominciare dal nostro Roberto Calasso (L’innominabile attuale, Adelphi, 2017) o  da Byung-Chul Han (Psicopolitica, Nottetempo, 2016), l’idealismo kantiano scaturito dalla fede nel soggetto umano quale unico produttore della conoscenza è stato sostituito dalla (apparente) consistenza degli algoritmi: l’essere umano ha abdicato alla propria posizione di produttore del sapere e consegna la propria sovranità agli algoritmi.

L’…algorismo ha posto fine all’idealismo e all’umanesimo.

Se volessimo tentare una lettura del presente attraverso la parabola seguita da macchine e materiali che, nel corso della storia, sono diventati di volta in volta sempre più leggeri e invisibili (si pensi al passaggio dai giganteschi server all’impalpabile cloud o quello dal piombo delle tubature romane all’atomo di Hiroshima e Chernobyl), non potremmo che farci accompagnare da un poeta-ingegnere antesignano del marketing digitale e dell’epoca dei Big Data che stiamo vivendo.

Chi volesse dettagliate informazioni storiche e biografiche su Leonardo Sinisgalli, può fare riferimento al ricchissimo e dettagliato archivio della sua fondazione [Qui] . In questo contributo ci limiteremo a ripercorrere brevemente il suo ruolo editoriale di riviste aziendali per mettere meglio a fuoco la sua idea di “macchina”.

Leonardo Sinisgalli (Montemurro, 9 marzo 1908 – Roma, 31 gennaio 1981)

Nel 1929 Leonardo Sinisgalli ha 21 anni ed è studente di ingegneria all’Università di Roma. Dopo essere stato selezionato da Enrico Fermi nel 1927 per fare parte di un gruppo di ricerca d’avanguardia (i famosi ragazzi di Via Panisperna), declina l’invito per seguire la sua più autentica vocazione che è la poesia: la musa Calliope dunque prevalse sulla musa Urania.

Conseguita la laurea in Ingegneria Industriale continuò comunque a frequentare le due muse attraverso attività letterarie vere e proprie e prime collaborazioni con l’industria: fin da questi esordi si occuperà della redazione di riviste aziendali tanto da venir notato da Adriano Olivetti  che lo volle responsabile dell’ufficio  tecnico della pubblicità ( quello che oggi si chiamerebbe ufficio marketing).

È molto probabile che fu proprio Sinisgalli a mettere in contatto Adriano Olivetti con Enrico Fermi per intraprendere la produzione di calcolatrici elettroniche nel 1949.

Dopo la tecnica, Sinisgalli venne chiamato alla Pirelli come direttore artistico, figura che a quel tempo iniziava a occuparsi non solo della pubblicità aziendale ma anche dell’allestimento di mostre, della preparazione di convegni e della sperimentazione di nuove forme di comunicazione.

Forte delle proprie capacità di ideazione e scrittura Sinisgalli pose al centro di questa attività una rivista aziendale che divenne il primo esempio di cross contamination fra arte, scienza, tecnica e letteratura.  A questa esperienza milanese  seguirà quella romana presso Finmeccanica ( azienda che oggi si chiama Leonardo) per la quale Sinisgalli fonderà il suo gioiello editoriale rappresentato dalla Civiltà delle macchine  una rivista iconica nel nome e ricchissima di contenuti e sulla quale venivano invitati a scrivere, scienziati, letterati, filosofi, artisti, architetti, registi, manager aziendali, ingegneri, rappresentanti dei lavoratori.

Già nella concezione di questa “opera editoriale” si riesce a riconoscere l’idea che Sinisgalli aveva della  “macchina”: non si trattava di una cosa strettamente collegata al modo di produzione, per lo meno non solo a questo. Sinisgalli poeta era ben consapevole dei problemi che la meccanizzazione spinta avrebbe potuto produrre e amplificare: era chiaro per lui che l’avvento della macchina avrebbe portato alla parcellizzazione delle competenze, all’alienazione degli operai dalla visione del tutto, alla trasformazione dei cittadini in consumatori.

La macchina per Sinisgalli dunque non poteva essere altro dall’attività umana, riconoscendo nella tecnica la vera natura dell’uomo. Pertanto la macchina costituiva una sorta di protesi delle capacità umane in grado sia di spalancare nuove possibilità ma anche provocare inquietudini: in ogni caso essa restava il segno inequivocabile di una nuova fase della civiltà e un punto di non ritorno.

L’estetica delle macchine sulle quali Sinisgalli indugiava aveva sempre un’origine e un fine umani e dunque a fianco all’estetica era necessaria un’etica delle macchine: la macchina non doveva costringere l’uomo a rinunciare alle proprie prerogative ma porsi come complemento indispensabile per operare trasformazioni  fuori e dentro di noi.

La macchina pertanto non poteva e non doveva essere autonoma!

Potremmo dire che l’etica delle macchine di Sinisgalli è un’etica della complementarità.

È facile riconoscere l’assoluta attualità di questa concezione rispetto all’analogo moderno delle macchine o di quello che sono diventate. Attualità che possiamo comprendere trasferendo il concetto di macchina  e di transizione tecnologica dagli anni del boom economico ai nostri anni.

Se a quel tempo l’industrializzazione e l’innovazione tecnologica furono caratterizzate da macchinari ingombranti  e dispiegati nelle loro fisicità e fascinazione estetica, nella nostra epoca non ci sono più macchine ingombranti, ma soprattutto c’è una tendenza all’impalpabile, all’immateriale messa ancora più in luce dalla differenza tra hardware e software.

I recenti sviluppi hanno portato alla quasi evaporazione degli ingombranti macchinari  quali i server nella “nuvola” virtuale: una volta operata questa traslazione da hardware a software, da macchina reale a macchina virtuale (l’algoritmo!), l’etica delle macchine di Sinisgalli potrebbe farci comodo: le macchine non devono essere autonome!

Le automobili a guida autonoma, i droni e gli altri apparati quali i robot e i collaborative robot in grado di “sfuggire” anche per un solo attimo al nostro controllo: si pensi all’ultimo Big Crash che ha mandato in tilt i terminali degli aeroporti di mezzo mondo) impongono la necessità di recuperare quella sana inquietudine e chiara attenzione sul loro impiego.

Vale la pena quindi citare l’appello che Leonardo Sinisgalli lanciò ai poeti e di riflesso agli intellettuali nel 1951 e tenerlo presente per scongiurare una possibile inciviltà degli algoritmi:

“Ma che cosa sono questi strumenti e mezzi meravigliosi che hanno smisuratamente allargato il potere delle nostre pupille?[…] Sono tante similitudini di un’onda, sono le metamorfosi di un raggio, sono le luci plurime che ci servono nella nostra difficile esplorazione. Che la retorica e il buon senso possano trascurare queste meraviglie, queste conquiste, può essere perfino comprensibile. Ma sarebbe una grave sciagura se di queste ipotesi si disinteressassero i Poeti. L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una qualità sottile, è una verità che è di natura sfuggente, probabile più che certa, una verità ‘al limite’ che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino a un certo punto e soccorre una illuminazione, una folgorazione improvvisa. Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti. I Poeti non devono avere sospetto di contaminazione.”
[L. Sinisgalli, Natura, calcolo, fantasia, in Pirelli, III (1951), 52-53]

Duran Duran:
la mia band ottimista preferita (di pessimiste ne ho già tante)

Duran Duran: la mia band ottimista preferita (di pessimiste ne ho già tante)

Capodanno 1982, un paio d’ore dopo il malaugurato brindisi. Nell’ atmosfera paludosa e senza scampo della pianura padana, cerco di scavallare la notte intruppato senza un motivo dentro un circolo Arci locale. Vago da una saletta all’altra incrociando gente senza volto che tossisce, immersa nel grigio, nel fumo, e nella noia. Ad un certo punto vengo catturato da una piccola televisione che trasmette in loop dei videoclip con colori vividi ambientati in luoghi esotici, ora giungle ora templi ora mercati all’aperto, attraversati da cinque ragazzi vestiti pastello che si muovono come dentro il plot di un Bond movie. Una macchia di colori e suoni, rock ma come ricoperti da una patina cromata che li attutisce e li stilizza, che esce da una scatoletta racchiusa dentro uno scatolone bianco e nero. L’effetto è straniante, come se gli anni ottanta avessero lanciato un fumogeno multicolore dentro gli anni settanta. Lì dentro è tutto così prevedibilmente scuro, compresa la musica, io sono annoiato e depresso come tutti lì dentro, come ogni ultimo dell’anno e come gli altri giorni di quell’anno – tranne quelli appiccicosi e folli di Paolo Rossi. Quelle immagini mi ipnotizzano e, per qualche motivo, hanno il potere di portarmi verso il mattino scacciando l’istinto suicida dell’essere teenagers a san silvestro. Da quel giorno i Duran Duran diventano la mia band ottimista preferita. Di artisti pessimisti preferiti ne avevo già e continuerò ad averne.

Duran Duran è un nome ossimoro per la frustrata stampa musicale italiana, che ne pronostica l’estinzione entro la fine degli anni ottanta. E infatti il 23 luglio 2024 li ho visti al Lucca Summer Festival, e non per un concerto revival, nel senso che non sono mai spariti. Dal 1978 al 2024 hanno continuano a fare nuova musica e nuovi concerti, perdendo e ritrovando se stessi e alcuni membri fondatori lungo la strada. Del resto, alzi la mano uno che non si è mai perso in vita sua, e che frequenta ancora assiduamente quattro amici conosciuti 45 anni fa.

Video killed the radio star

Nonostante abbiano lavorato con David Lynch, loro grande fan; nonostante Lou Reed abbia affermato che la loro versione di Perfect Day sia fatta meglio di come l’ha fatta lui; nonostante le collaborazioni con David Gilmour, Graham Coxon, John Frusciante, Milton Nascimento; nonostante William Burroughs sia comparso in un video degli Arcadia – quel Burroughs il cui racconto gay porn The Wild Boys ispirò la canzone omonima; nonostante Korn e Deftones, stimate metal band, abbiano fatto cover della loro inarrivabile “The Chauffeur”; nonostante tutto questo, in Italia dopo quarant’anni gli chiedono ancora di quella tipa che scrisse “Sposerò Simon Le Bon”. La Duranmania in Italia arrivò in ritardo e ne fu proiettato mediaticamente solo l’aspetto isterico, che prima di loro riguardò anche i Beatles ed Elvis Presley, ma a loro fu perdonato; forse perché gli uni si estinsero, l’altro morì ed entrambi divennero quindi sacri oggetti di culto per la critica, quella che si prende molto su serio. I Duran Duran invece hanno alcune colpe imperdonabili: la prima è quella di essere ancora vivi. La seconda è di piacere molto alle donne, fatto che il critico serio e snob detesta perché è maschio, polveroso e non se lo fila nessuno.  La terza colpa è forse la peggiore: sbattere in faccia a tutti il jet-set way of life, yacht e belle donne mentre altri gruppi cercavano di “cambiare il mondo”- perché gli anni ottanta sono stati fatuità, effimero ma anche impegno sociale, sono stati tutto e il suo contrario, leggere Pier Vittorio Tondelli per credere.

Tanto per cominciare, non era uno yacht (nel senso in cui lo intendiamo noi) ma una barca a vela. Inoltre i membri della band provengono da famiglie piccolo borghesi, i loro primi vestiti li prendono nelle boutique post punk di Birmingham. La moda griffata arriva dopo, quando anche parte di questi sarti diventano celebrità. Quanto al cambiare il mondo: è come dire che Miami Vice è reazionario mentre Starsky e Hutch è progressista, o che James Bond è uno stronzo perché sessista, razzista e reazionario (lui un pochino lo è, in effetti, ma la politically correctness non può rivaleggiare con il fascino di Sean Connery). Quindi: un gruppo che prende il suo nome da un personaggio (Durand Durand) del film Barbarella di Roger Vadim, una science fiction del ’68 ambientata in un lontano futuro in cui la protagonista/viaggiatrice dello spazio si fa un sacco di gente strana, sarebbe reazionario? O piuttosto attinge ad un immaginario che anticipa i temi della liberazione sessuale e della sessualità fluida?

Questi quattro artistoidi da Birmingham (più il cantante, nato a Bushey) hanno il fiuto di percepire in anticipo l’enorme potenziale delle nuove tecnologie – prima coi video e MTV, poi con Internet –  lavorando su un’immagine fancy con meticolosa pianificazione, il che ha oscurato le loro doti di musicisti e soprattutto creatori di gioielli verse/chorus, anche se ha regalato loro una fama irraggiungibile per tutti i coevi. L’immagine, la parte visuale, è stata quindi al contempo la loro delizia e la loro croce. Non è possibile sentire una canzone dei Duran senza “vedere” i Duran, un binomio che in precedenza solo David Bowie aveva esplorato tanto, sicuramente con un taglio più trasgressivo – anche se pure i Duran hanno subito la censura (Girls on Film) o lo stigma del politically correct (Electric Barbarella). Quando penso ad entrambi li vedo più come artisti multimediali che come semplici musicisti.

Sing blue silver

Ma il concerto di Lucca quindi? Da appassionato che cerca di rendere più oggettiva possibile la sua percezione, affermo che Simon Le Bon ha un ottimo terapista vocale: nel 2011 si giocò di brutto alcuni semitoni della gamma, ma poi ha fatto riabilitazione e continua a cantare molto alto (non così alto come su disco, ma molto più alto di qualunque popstar vivente) e becca le note in modo più dritto e meno lezioso di quanto facesse all’apice della fama. La sezione ritmica dei Taylor è precisa ed essenziale, a volte quasi funambolica –  i virtuosismi sono banditi in questo gruppo, chiedere un assolo di batteria a Roger Taylor equivale a fargli venire l’orticaria; tuttavia John Taylor è autore di alcune linee di basso memorabili, cito Rio per tutte; la chitarra elettrica è passata di mano in mano, ma Dom Brown adesso fa la sua figura, e ci mancherebbe visto che ormai la sua permanenza nella band supera quella dell’originario sferzante rocker Andy Taylor e dello zappiano Warren Cuccurullo (del quale rimpiango la eccentrica creatività e la capacità armonica). La macchina elettronica del controller Nick Rhodes ormai funziona da sola: lui è il più visionario programmatore di intelligenza artificiale applicata alla musica (quanto poco, in apparenza, muova le mani sulle tastiere rispetto al tappeto sonoro che produce è una cosa che non finisce di sorprendermi). Iniziare il concerto con Nightboat e proporre The Chauffeur è stato un omaggio all’anima scura del gruppo, altra apparente contraddizione (in realtà diversi darkettoni, liberatisi con l’età dalla vergogna per il ludibrio del branco, amano questo lato della band); ma il momento più emozionante della serata è stata la nuova versione di New Moon on Monday, che per qualche misteriosa ragione ha riportato molti ragazzi di sessant’anni ad avere una pelle d’oca, legata al proprio vissuto personale, che è diventata collettiva oltre le aspettative.

Torno infine all’adolescente del 1982. L’incidenza del look duraniano sulla fluidità del “gender” è stata più massiva (soprattutto sui maschi) rispetto al primo Bowie o ad altri protagonisti estremi dell’en travesti (Sylvester, Boy George), perchè più convenzionale e rassicurante: i Duran non erano muscolosi, indossavano accessori femminili, si truccavano, mettevano le spalline e si cotonavano i capelli, ma a differenza dell’alieno Bowie restavano maschi etero che potevi incontrare per la strada, dopodiché diventarono simboli erotici attaccati a migliaia di muri (anche se da quel momento incontrarli per strada divenne impossibile per un decennio). Questo esercitò un’enorme influenza sui ragazzi timidi (altra contraddizione solo apparente) riassumibile nel concetto “non ho bisogno di esibire il testosterone per piacere alle ragazze”.  L’individualismo veicolato non fu quello (anti) sociale della Thatcher, ma quello del costume e dello stile: non avere timore di esprimere te stesso.

 

Storie in pellicola /
‘Vision d’été’, una realtà perturbante, la nostra

‘Vision d’été’, una realtà perturbante, la nostra.

Proiettato a SiciliAmbiente, il corto-documentario ‘Vision d’été’, di Anna Crotti, Anais Landriscina e Lucrezia Giorgi, ci porta in un mondo che crolla, quello di oggi.

Le registe si sono aggiudicate la Menzione speciale per il film Vision d’été nella sezione cortometraggi della XVI edizione del SiciliAmbiente Film Festival.

Vincitore del Premio Segni, sezione Cinema in Trasgressione, ‘Vision d’été’ non fa sconti e tratta, con grande attenzione, originalità e sensibilità, la deriva del mondo moderno.

Coinvolgenti la voce narrante di Sophie Zayan e le musiche di Domenico Clapasson.

Cambiamento climatico, questa mostruosa creatura umana

Nel mezzo di un’estate torrida, come quella che stiamo attraversando in questo giorni infuocati, la protagonista, una giovane francese, chiama sua madre confidandole in maniera concitata di sentirsi stritolata dall’atmosfera cittadina e dalla crescente gentrificazione del territorio su cui sorge la sua città natale, Marsiglia.

Qui, una volta di più, il cambiamento climatico appare in tutta la sua inarrestabile potenza: è l’inizio di un viaggio quasi drammatico, di una fuga disperata che non troverà risposte ma solo altre domande. Domande senza risposte.

Marsiglia va a fuoco

Le prime immagini introducono immediatamente al tema: foschia, una terra arida e brulla, industrie in lontananza, una fiaccola. E poi i grattacieli, i manifesti elettorali con mille proclami, una foto strappata di Martin Luther King, anno 1963. La parola resistenza pare campeggiare sui muri che restano muti e inermi di fronte allo scempio umano.

Marsiglia è multiforme, cangiante, mediterranea, nelle sue vie si parlano il provenzale, il Patuet (il dialetto della lingua catalana parlata nel Maghreb, soprattutto in Algeria, durante l’amministrazione francese), il dialetto (l’argot). Ci sono africani, armeni, mediorientali, una città multicolore e multiforme. Salsedine che si scioglie sotto la lingua, gocce di sudore sotto un hijab nero pece, cemento consunto dei marciapiedi. Caldo, tutto va a fuoco.

Case alveari

Le case sono quasi impilate, una sopra l’altra. Il grande condominio che pare un alveare dà l’idea di chi soffoca, di chi si perde nella moltitudine. La camera che si concentra su quella costruzione mostruosamente tentacolare fa perdere l’individualità. Uno fra tanti, un giovane maghrebino strizzato in una tuta di plastica incandescente quasi si vergogna. Si teme di venir contaminati, la gente del centro in quel quartiere non va, ha paura. Lì si vive quasi incastonati e incastrati fra le rocce. Isolamento soffocante. Qui si nasce e si muore senza sapere nulla degli altri. Non che altrove vada meglio. L’unico segno distintivo è un tendone a righe colorate, qualche pianta. Il resto è piatto, tutto uguale, il resto è noia.

Le foto in bianco e nero e il (bel) tempo che fu

Sfilano immagini in bianco e nero, fra passaggi di Seneca e dell’Apocalisse di Pietro, vecchie fotografie riportano alla memoria momenti passati e spensieratezza e leggerezza. Ricordi di un bel tempo che fu, di attimi fuggenti fatti di felicità e serenità. Ma il circo incombe, i tori combattono contro i drappi rossi che un uomo triste ed egoista gli pone davanti per il suo unico divertimento e compiacimento.

Animali che si inginocchiano, lagune che, al tramonto, cercano uno spazio.

 

“E’ per questo che sono partita. Ma ora, nella quiete profonda, comprendo infine che quando tutto sarà stato consumato, non resterà altro che il silenzio. E in mezzo a questa immensità assordante, solo un gemito flebile si farà strada, dalle viscere risalendo su fino al cielo, la terra martoriata piangerà il suo destino, ma nessuno potrà sentirla”.

E, su note melodiose, mentre le vallate e le cime dei monti dormono, insieme ai rettili, alle fiere e alle api, le immagini si soffermano sugli uccelli dalle lunghe ali e gambe. I fenicotteri dominano con il loro colore rosa, quel colore che più è intenso e più conquista la componente femminile di quella specie meravigliosa. Il corteggiamento ha il colore rosa. Sulle lunghe ed agili zampe, sul piumaggio del corpo. Rosa forever. Qualche speranza.

La natura non ha forma

Un vecchio senza nome e cittadinanza ricorda che quando c’è un angolo o un’ombra, c’è un’aggressività insopportabile. La natura, invece, è straordinaria. Tutto si muove, le forme ortogonali non esistono da nessuna parte. L’uomo ha invece otto volanti, capannoni, sfere e monete, il tempo delle camere ad ore, degli amori fugaci, del mordi e fuggi. Tutto gira, tutto ha un valore edonistico ed economico, nulla resta.

Le terre fertili, i boschi pieni di frutti, la pesca primordiale, i ruscelli carichi d’acqua, la bellezza, il sole che bacia i campi di grano, a noi interessano altri valori. C’è un’altra realtà lontana dai casermoni in cemento. Questa ci piace. Perché noi siamo Terra.

ANNA CROTTI, nata a Bergamo, nel 1998, si è laureata in Scienze Sociali presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul documentario come mezzo di ricerca antropologica. Attualmente frequenta il Master in Media e Sistemi Editoriali presso l’Università degli Studi di Bergamo.

LUCREZIA GIORGI, classe 1994, si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali presso l’Università di Bologna con indirizzo Studi Africani in Svezia, ha poi conseguito un Master in Storytelling: Letteratura, Cinema, TV presso la IULM di Milano. Lavora nell’editoria.

ANAÏS LANDRISCINA, nata a Milano nel 1999, è diplomata in Scenografia, Drammaturgia e Spettacolo presso la Libera Accademia di Belle Arti di Brescia.

Articolo pubblicato su Taxidrivers

ZIBALDONE
Appunti di viaggio: Recanati – Scanno – Villalago        

ZIBALDONE. Appunti di viaggio: Recanati – Scanno – Villalago

Recanati mare

E mentre sono all’ombra, seduta su una panchina del lungo mare di Recanati, osservo tre bambini assorti nel disegnare su dei sassi bianchi e piatti con le matite colorate. Ai bambini piace colorare e fare disegni, lo fanno con passione, con concentrazione massima, con spontaneità, pitturano su qualsiasi superficie.

Recanati spiaggia
Recanati lungomare

Penso che, purtroppo, questa naturale creatività verrà imbrigliata da regole e giudizi e la maggior parte dei bambini non si avvicinerà più all’arte come esigenza estetica  e immaginativa. Verrà archiviata in quella che le neuroscienze chiamano memoria implicita, dove i ricordi sensoriali ci sono, ma non sempre intercettabili e muti.

I disegni, tacciati come cose da bambini appunto, andranno sostituiti dalla storia dell’Arte, dalla fruizione delle opere (i capolavori, i geni), con un atteggiamento per lo più concettuale e colto, il gusto di creare dalla autorevolezza inconfutabile dei critici del bello e, non ultimo, dal valore stabilito del mercato.

Ma mentre seguo le mie elucubrazioni, i tre bambini si accorgono del mio interesse e mi chiamano per farmi vedere le loro opere.

Le dispongono in bell’ordine, mi spiegano le figure che hanno disegnato: una casa, il sole, “mamma ti voglio bene”, accostamenti di colori. Sono molto accalorati nel parlare e poi…

Poi non credo alle mie orecchie. Mi dicono:“ i sassi piccoli costano 50 centesimi, quelli grandi 1 euro, per gli altri ci mettiamo d’accordo”.

Rimango un po’ stralunata. Sono sassi, ne posso trovare a migliaia nella spiaggia vicina! Ho con me gli acquarelli! Non è neppure una operazione tanto originale come souvenir.

Arriva la mamma di uno dei tre e chiede: “quanto avete fatto su?”…Però! E non è ancora l’ora del passeggio”.

Non ci posso credere, si vende anche la naturalezza, la spontaneità dei bambini diventa un prodotto da commerciare.

Certo per i bambini rimane soprattutto, fortunatamente, l’aspetto ludico. Lo abbiamo fatto tutti: “io faccio la signora del negozio e allora tu mi dicevi: “ signora voglio tre etti di prosciutto” e poi io, mimando il gesto, li affettavo e ti dicevo “ va bene così’?” e allora tu mi pagavi e, con le mani vuote, mi davi i soldi che non c’erano e io li prendevo nell’aria e con la voce imitavo il suono della cassa”.

Quindi niente di scandaloso ad imparare “come fanno i grandi” per stare al mondo e capire che i soldi hanno un valore.

Ma qui? Il gioco è commercio e il guadagno reale servirà per comprare cose e prepararsi ad essere, senza aspettare di diventare grandi, dei buoni consumatori.

E i sassi della spiaggia? Beh! verranno depredati finché ce ne sono.

Confesso.

Un sasso l’ho comprato, mi hanno anche fatto un prezzo di favore. Ma, a mia discolpa, volevo giocare anch’io e scacciare i pensieri avvilenti.

Recanati città dell’Infinito

Siccome sono a Recanati come non andare in pellegrinaggio nella “sua” città.

Vista di Recanati

Obbligo il mio compagno che è un insegnante di italiano a raccontarmi la vita di Giacomo, a spiegarmi le poesie, a farmi capire la filosofia di quel giovane favoloso.

Se a scuola mi sembrava di una pesantezza insopportabile, adesso mi intriga e voglio sapere sempre di più.

Soprattutto voglio sedermi sulla famosa panchina e sentire l’effetto del mio sguardo che incontra l’Infinito.

Così si va’. È a pochi chilometri dal mare. Si sale tra verdi colline.

Sono emozionata.

La prima cosa che vedo è il cartello di Recanati che titola La città dell’infinito. Certo come non vantarsi di tale cittadino!

Poi incontro “Pizzeria A Silvia”, giusto nella via della casa di Leopardi, sappiamo la storia…

Procedendo verifico che anche le librerie non vendono solo libri ma calamite e gadget vari intitolati al poeta. Ogni altro negozio ha insegne con versi dei suoi poemi che danno lustro alla macelleria, al tabaccaio, al bar.

Pizzeria “A Silvia” – Recanati
Amaro locale di Recanati

Ci avviciniamo sempre più al Parco dell’Infinito. Mi dico: qui ci sarà un’atmosfera magica.

Mentre avanzo le vie diventano sempre più affollate di turisti. Stanchi di stare al mare sono qui a prendere il fresco.

In ciabatte, calzoncini, occhiali da sole, tutti rossi, tutti sudati, attraversano il paese in due minuti spuntando la lista- cosa c’è da vedere a Recanati- e prendono  d’assalto bibite e gelati in centro.

Mordono e fuggono.

Non desisto, io lo sento che, quando guarderò oltre la siepe, tutta questa superficialità vacanziera incontrata non  lascerà traccia nei miei ricordi pronti a intercettare molto di più.

Finalmente arrivo! Ma per salire sulla torre, quella famosa, bisogna pagare un biglietto. Ma scusate l’orizzonte e l’infinito non sono di tutti?

Il FAI ha comprato la torre e per proteggere questo patrimonio artistico non chiede ai visitatori di essere educati, silenziosi, decorosi, pochi per volta! NO chiede quattrini e poi : ”sciabatta ignorante come vuoi!”

Non pago. Non sono in cima, ma l’orizzonte lo vedo anche da questa terrazza naturale limitata da siepi.

Paolo mi declama tutta la poesia e diventa dolce naufragare in questo mare.

Scanno e gli orsi

Una via di Scanno – Foto di G. Tonioli

Dopo questa pausa di avvicinamento ci spostiamo verso la nostra vera meta, Scanno. Un Borgo meraviglioso dentro un parco, riserva naturale protetta.

Qui hanno sparato a Morena un’orsa femmina, per paura.

Ma adesso c’è Gemma, sempre un’orsa, che gli abitanti conoscono da almeno quattro anni. Gemma viene in Paese per mangiare, cambia ristorante ogni sera. Ieri, ci raccontano, ha preferito una pizzeria. L’hanno trovata che dormiva pancia all’aria nelle vicinanze. “Pazienza” dice il gestore.                                                      

Per strada ci sono manifesti che titolano: “ Queste le regole per salvare la vostra vita e quella degli orsi”. Ci sono volantini con le istruzioni anche sui comodini del mio bed and breakfast (camera con caffè si dice dalle parti di Gallipoli e mi piace molto di più).

C’è gentilezza in questo luogo verso i non umani e c’è coscienza che gli animali sono animali.

Per una possibile convivenza ci vuole rispetto e conoscenza degli altri esseri che vivono con noi.

Uno dei simboli di Scanno – foto G.Tonioli

Il proprietario della pizzeria non è arrabbiato, non ha messo taglie per la cattura né chiesto l’espatrio forzato di Gemma, è giustamente seccato per lo sporco lasciato, per i sacchi di farina rotti. Ma si assiste quotidianamente ad atti di vandalismo da parte dei nostri consimili e non per fame.

Però, diciamola tutta, l’orso produce pubblicità al paese e a Scanno la sua immagine è ovunque, souvenir, dolci, dediche.  E non tutti, purtroppo, parteggiano per Gemma.

Villalago: Quando la banda passò                                    

Io l’orso non l’ho visto, ma più volte ho pensato che tra i boschi e le selvatiche e affascinanti gole, lui sbirciava curioso e annusava l’aria per conoscermi.

In compenso un pomeriggio succede una cosa da favola.

Passeggio nel borgo di Villalago, si sta preparando una importante festa religiosa. Una donna al parcheggio tiene il posto per il furgone dei croccanti in arrivo, mi spiega che è una festa tradizionale, che dura tre giorni, oggi la madonnina verrà trasferita in una piccola chiesa da quella in cima al paese e poi ci sarà la processione per le strade.

Luminarie e concerti. Oggi è stata invitata la banda, che suonerà attraversando strade e vicoli in faticosissima pendenza.

Io la sento già che fa degli accordi di prova e desidero seguirla.

Mi piace la banda, mi dà gioia, e mi ricorda quando, ancora bambina, a Ferrara si fermava davanti alle case a Capodanno per dare il buon anno e tutti, col sorriso, buttavamo dalla finestra qualche soldino. Una casa e dopo un’altra fino a sera.

Lasciamo i ricordi, sono immersa in questa atmosfera, calma, lenta, antica e sto cercando la banda quando…Noo! Impossibile! Davanti sbucano silenziosi con i loro occhi dolci e in tutta la loro bellezza, due cervi.

Mi guardano, rimangono tranquilli e, sulla scia della musica e nella scenografia di queste case di pietra, riprendono il cammino. Mi invitano a seguirli, mi aspettano quando esito, ammutolita e con gli occhi sgranati che sono diventati enormi e dolci come i loro

Procediamo, poi, in un punto ben preciso, svoltano convinti, sempre a passi leggeri.

Li seguo e Oh mio Dio! In un piccolo parco c’è un intero branco che bruca. Dietro di loro la montagna che è casa.

Non mi accorgo dell’arrivo di un uomo anziano che in dialetto risponde alla  domanda che non avevo ancora formulato.Vengono perchè hanno paura dei lupi. Quando hanno i figli vengono qui per chiedere protezione”.

Ma non vi fanno danni ai giardini agli orti? “Signura, “stace”(che sarà mai). Ci sono i lupi e ci stanno le creature”.

Mi risveglio, la banda adesso la sento più forte, deve essere vicina.

Lascio il branco a brucare e ritorno al mio proposito.

L’uomo mi saluta, è tornato qui dopo aver lavorato tanti anni in Germania. Ciàve (ciao) Signura ci vediamo capabballe (giù dalla discesa) che la banda arriva in piazza”.

Affretto il passo e ho un senso infantile di gioia, come quando guardavo Biancaneve di Disney che cantava in coro con gli uccellini, gli scoiattoli e “i bambi” e ci credevo.

“lu muànn’ jé cchiù bbèlle ‘ndurn’ a tta” (il mondo diventa più bello intorno a te) [Da ‘Na matèine (a la Marèine)  Fernando D’Annunzio]

Cover: Il lago di scanno foto di Giovanna Tonioli

Per leggere gli articoli di Giovanna Tonioli su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Costituzione e referendum: l’errore dell’articolo 138

Costituzione e referendum: l’errore dell’articolo 138

La stagione referendaria si apre col tentativo di cancellare l’Autonomia Differenziata, ma proseguirà con ogni probabilità con i referendum costituzionali su premierato e separazione delle carriere in magistratura.

È evidente che vi è un attacco alla nostra Costituzione da parte delle destre al potere, ma il male viene da lontano, e la sinistra “sinistrata” ne è complice ed anzi protagonista.

Non ci riferiamo tanto a questioni specifiche, pur molto gravi, come per esempio la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dalle sinistre, e che ha aperto la strada alla Autonomia Differenziata. Riteniamo, più in generale, che la classe politica italiana nel suo complesso, a partire dalla “seconda Repubblica”, e anzi ancor prima nel corso degli anni Ottanta, sia completamente venuta meno al compito storico che i padri e le madri costituenti le avevano assegnato scrivendo la nostra Carta fondamentale.

Nelle intenzioni originarie il potere legislativo e il potere esecutivo dovevano essere il luogo di ciò che il vecchio P.C.I. chiamava “la democrazia progressiva”: garanzia (ovvia) dei diritti civili e politici e affermazione di sempre nuovi e sempre più significativi diritti sociali. Sappiamo come è andata a finire.

Per la verità le attuali difficoltà sono anche dovute ad un limite originario. I Costituenti presi dall’ebrezza di un ottimismo populista, figlio della vittoria nella guerra partigiana, immaginavano il futuro come una marcia radiosa e lineare verso il realizzarsi del potere popolare. Che la storia potesse tornare indietro pareva impossibile.

Si propose, ad esempio, di mettere in Costituzione il sistema elettorale proporzionale, ma poi non se ne fece nulla, molto probabilmente (e paradossalmente) perché la cosa sembrava ovvia ed erano tutti d’accordo. (Non si mette in Costituzione che due più due fa quattro!).

Comunisti e socialisti inoltre attaccarono con violenza l’idea di una Corte Costituzionale, ritenendo che in questo modo si volesse mettere un freno al parlamento, espressione della lunga marcia del popolo dentro le istituzioni. Gli altri partiti, invece, la difesero temendo che i comunisti andando al governo trasformassero l’Italia in un paese socialista. Lo so che si stenta a crederlo, ma questo era il clima del tempo!

In questo contesto nacque quell’art. 138 della nostra Carta che è l’unico (parere personale) che andrebbe modificato. Grazie ad esso per approvare una legge di revisione costituzionale basta la maggioranza assoluta dei voti di ciascuna Camera.

In pratica, a parte la possibilità del referendum, qualunque maggioranza parlamentare, in qualunque momento, può modificare la Costituzione.
Errore! La Costituzione non si cambia, tranne che non intervenga un nuovo processo costituente, figlio di una nuova “rivoluzione”, o comunque di una forte cesura storica.

Al massimo, giusto per dare spazio a questioni universalmente accettate, si potrebbe modificare l’art.138, prevedendo che le leggi di revisione costituzionale debbano avere una maggioranza dei tre quarti degli aventi diritto di ciascun ramo del parlamento. (Si potrebbe pensare anche ai due terzi, ma solo con una legge rigorosamente proporzionale).

Ciò, naturalmente, non darebbe nessuna garanzia che la Carta non possa essere modificata nei fatti, o resa inattiva con operazioni più o meno “subdole” e “striscianti”.  Gli esiti dello scontro politico non possono essere decisi dalle norme costituzionali, ma le garanzie e gli indirizzi generali che la Carta prescrive andrebbero sempre rispettati.

Antonio Minaldi
Militante nei movimenti fin dal 68. Esponente del movimento studentesco del 77 e fra i fondatori dei COBAS SCUOLA nell’87. Si occupa di attualità politica e di studi di filosofia collaborando con varie riviste.

Parole a Capo
Rita Bonetti: un dialogo oltre il tempo

In occasione dell’uscita del suo nuovo libro “Un azzurro spietato”, abbiamo intervistato l’amica autrice Rita Bonetti.

1) Sono innumerevoli le definizioni della “parola” poesia che avrai incontrato fino ad oggi e chissà quante ne incontrerai! Che cosa significa per te questa parola?
Per quanto mi riguarda, la Poesia non può essere definita. È, allo stesso tempo, tutto e niente: dunque una contraddizione che si afferma non lasciandosi prendere, che non c’è ma è dentro di noi. Non ho assunto un ruolo per migliorare il mondo, motivo per cui la mia poesia, quella che scrivo, è per me consolatoria. Perché consolatoria risulta la sua capacità di mettermi davanti a quel che sono e a quel che mi accade o mi è accaduto.

NON SO SCRIVERE UNA POESIA

Io che scrivo in versi
a dire il vero
non ne sono capace
la poesia non mi accade

fabbricare una poesia
riuscì a qualche artigiano del secolo scorso
oppure anche di questo
ma nessuno ancora  lo sa con certezza

bisogna avere la magia
di chi vive la luna in pieno giorno
o la calma
di chi sta dalla parte dell’infinito

io che scrivo d’amore
e di luce d’estate al mattino
fabbrico solo sogni
e memorie senza nostalgia

2) “Street poetry” è una poesia che hai inserito in questa tua ultima silloge. In “Parole a capo” l’ho già pubblicata, a margine di uno dei readings organizzati a Ferrara dall’Associazione Culturale Ultimo Rosso di cui sei una socia fondatrice. Come l’hai ideata?
Ho conosciuto l’Associazione Culturale Ultimo Rosso in quanto mi era stato riferito, qualche anno fa, che organizzava readings di poesia in diversi luoghi pubblici della città di Ferrara. Ho pensato che questo approccio coincideva con il mio desiderio di proporre una poetica accessibile e popolare: se hai una poesia, ti serve solo uno spazio per renderla pubblica, non esiste un modello per fare poesia metropolitana. La parola d’ordine è la stessa per tutti: gettare parole al vento come semi, perché nelle strade fiorisca la poesia: quindi è nata “Street Poetry”. [vedi Qui] 

3) “A Francesco in memoria” è una struggente lirica che hai dedicato a Francesco Lorusso, studente ucciso l’11 marzo 1977 a Bologna da un carabiniere. Ricordi di un periodo movimentista che, credo, ci abbia accomunato. Nella mia mente c’è scolpito il ricordo del lunedì successivo, in quel surreale funerale al cimitero, in una Bologna blindata, incredula e un po’ straniera. Cosa ti è rimasto di quel periodo e di quei sentimenti?
Ho il ricordo dei momenti che precedettero quel giorno, quella sensazione di leggerezza, del poter essere tutto o niente, anche “cani sciolti”, che ci faceva sentire vincenti rispetto ai fratelli maggiori sessantottini. Invece quel giorno tragico forse fu lo spartiacque fra la leggerezza e quelli che poi furono gli “anni di piombo”. E noi che eravamo giovanissimi, ci trovammo grandi all’improvviso, cresciuti nelle tragedie.

 

(A FRANCESCO IN MEMORIA)

la neve scendeva ogni stagione
dalle sfere di vetro capovolte
e il mare d’estate
toccava immaginarlo
in un disco per l’estate

il cortile con gli ippocastani
e il palazzone popolare
che lo circonda
adesso ha un muro zeppo di graffiti
più grandi della solitudine
di quella madre che affogò
il suo bambino
in un lago di sangue
e di quell’unica panchina
dove hanno trovato Daniele
morto di eroina

poi, bandiere e lotte già perse in partenza
nomi e volti bendati alla memoria:
il tuo sangue ghiacciava la terra
nello spazio di un lenzuolo funebre
mentre l’orrore esplodeva intorno

dove siamo andati noi in quei giorni
in quelle ore
con le impronte profonde nel petto
per imparare a tacere negli anni?

le nostre parole
inciampano sui nomi dei morti
ora che è tardi
ora che la giostra del tempo
ha divorato ogni cosa

 

4) Nel secondo capitolo “Della morte, delle domande inevase, delle mancanze”, affronti come “elemento sostanziale dell’umana vicenda” (come scrive Antonio Valentino nella prefazione) il tema della morte. “Un azzurro spietato” è il titolo di una poesia inserita in questo bel libro e che ha dato il nome alla tua silloge. Qual è la genesi di questo titolo?
La morte c’era sempre stata nei miei versi ma era in gran parte una sorta di lente per prendere le distanze. Invece nell’ultimo periodo quel motivo è diventato l’esatto opposto: un antidoto preso per partecipare meglio al teatro del mondo, una sorta di punto di vista sulla vita, di illuminante per assaporare il tempo. La fine della vita costringe a riflettere sul proprio destino, la propria storia, diventando strumento di illuminazione. La poesia “Un azzurro spietato”, da cui il nome della silloge, raccoglie miei pensieri e riflessioni in occasione del funerale di mio padre. Il cielo così splendente di quel giorno, così contrastante con la situazione dolorosa, mi ha ricordato l’indifferenza della Natura leopardiana.

UN AZZURRO SPIETATO

Sei nel nero che cancella il mondo
per ultima dimora

un’urna grigia di cenere
nel silenzio
freddo di eternità
la mente va a un passato altrove
chissà se esisti ancora da qualche parte
di certo non c’è nulla
che ci faccia superare la distanza
il valzer si è interrotto
e il cielo è di un azzurro spietato

5) Spesso ritornano frammenti di memoria legati ad amori finiti (anche con sferzante ironia come in “Ecologia di un amore”, esperienze di gioventù. Poesia, memoria, ricordi si rincorrono e si mescolano spesso...
Il lettore della mia raccolta deve aspettarsi un vortice di suoni d’amore,  l’amore rimane sempre il fil rouge del mio scrivere. Dall’amore che fugge all’amore che torna passando per gli amori effimeri. Qui sono descritti momenti d’amore, una continua ricerca, sperando sempre nel ritorno. Non devono tornare le persone ma il sentimento. In questa raccolta ci sono anche amori di quando avevo 16 anni e oltre, vissuti tra l’amore e la ricerca dell’amore perduto. Così, nel ricordo di un amore, ritornano luoghi e sensazioni, emozioni e pensieri che credevo perduti.

 

ECOLOGIA DI UN AMORE

Volevo un amore compostabile
ma non era un ambiente sostenibile

parole come scorie
veleno nelle arterie
lasciavo i giorni andare
e i fiori lì a seccare

Io
con l’acqua dentro gli occhi
a sperare l’impossibile
e tu
come sempre, riciclabile

 

MANCANO LE INDICAZIONI

E’ mai possibile che nessuno sappia dov’è il capolinea?
Se qualcuno lo sa, non me lo ha detto
mancano le indicazioni
nemmeno un cartello, come nei piccoli paesi del sud

seguo l’unica carreggiata possibile
nell’ignoto segmento di tempo
che scorre veloce di ore
non so più fare un balzo oltre un masso
sono attenta a non inciampare
potrei spezzarmi le caviglie di cristallo

Un tempo mi illudevo di giungervi per caso
e trovare ristoro all’ombra buona di un albero
sulla panchina dove mia madre mi aspettava
la domenica pomeriggio

E’ sempre più disabitata nel mio procedere, la strada
e tutta quella musica e risate e urla dalle case
hanno lasciato il posto al ronzio degli insetti

chissà dove sono finiti gli sguardi da sogno
il miele dei sorrisi e l’apparente noncuranza dell’invidia
forse sono avanti al mio passo
o sono sangue che cresce l’erba trascurata dei campi
o le radici dei rovi secchi d’arsura
oppure vagano come frammenti in volo di vento

Il cartello che vedo a Ovest in lontananza
è solo la pubblicità di un supermercato

 

Rita Bonetti nasce e vive a Bologna. Da sempre innamorata di romanzi e letteratura.
Dopo la laurea in Archeologia presso l’Università di Ferrara, inizia una stretta collaborazione di scrittura creativa con due amiche storiche e nel 2017 pubblica la prima opera narrativa, una raccolta di racconti scritti a tre mani Le Regine di Quadri. Contemporaneamente, l’autrice approfondisce la passione per la poesia e nel mese di Febbraio 2019 esce la sua prima raccolta di liriche “Persiane Blu”, Armando Siciliano Editore. Nel settembre 2019, questa raccolta di poesie si classifica al secondo posto al Concorso Internazionale POETIKA LAB. Il 18 Maggio 2019 la sua poesia Dettagli e l’11 Gennaio 2020 la sua Poesia “Scrivi per me” vengono pubblicate nella rubrica La bottega della Poesia del quotidiano Repubblica di Bologna. La sua poesia Il bacio si classifica sesta tra i dieci vincitori del PREMIO WILDE Concorso Letterario Europeo sezione POESIA D’AMORE. Nel 2020 l’autrice inizia la sua collaborazione con il sito web Lo Scrigno di Pandora, per la pagina della poesia. Nel 2021 viene pubblicato “D’amore e di altre storie”, Bertoni Editore. Nel 2024 esce “Un azzurro spietato“, Bertoni Editore. In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Rita Bonetti l’8 aprile 2021, il 3 novembre 2022, il 27 luglio 2023, e in altre occasioni collettive.
 

 

“Confiteor”, il nuovo libro di Piergiorgio Paterlini:
come una notte di veglia e di parole

“Confiteor”, il nuovo libro di Piergiorgio Paterlini: come una notte di veglia e di parole.

Mia nonna – la cito perché anche Piergiorgio Paterlini (PGP) parla a lungo di sua nonna nel suo ultimo bellissimo libro – diceva mia nonna, grande lettrice, e traduco dal dialetto ferrarese: “Si scrive si scrive … e poi scopri che l’hanno già scritto”.  Così, quando incominciate le prime righe di un nuovo libro, almeno questa è la mia esperienza, capita spesso di riconoscere una eco, uno stile, una sintassi, una scelta dei vocaboli, un mood che avete già incontrato altre volte, in altri libri e in altri autori.

Non è il caso di Piergiorgio e del suo Confiteor (Piemme edizioni, 2024), ma lo stesso si potrebbe dire di molti altri suoi libri. Confiteor, una confessione appunto. Quindi, non un romanzo tout court, non un pezzo di storia d’Italia, non una collana di pensieri forti.  E neppure una autobiografia, come mi pare abbiano inteso la maggior parte dei recensori.

Oppure sì, una autobiografia, che al centro del libro c’è comunque Piergiorgio e la sua vita, ma nelle mani dell’autore il genere autobiografico subisce una mutazione, devia dal canone per assumere altre coloriture, altri sentieri, e riserva inaspettate sorprese e illuminazioni.

Piergiorgio Paterlini, che in seminario ha trascorso gli anni della primissima adolescenza e che così bene ci racconta, non si confessa davanti a un ministro del culto e nemmeno davanti a Dio: due o tre volte nel libro ricorre una frase sintetica e senza appello “È tutta la vita che faccio a botte con Dio“. Giobbe naturalmente.

Per intendere, però, che tipo di confessione sia quella di Piergiorgio, immaginate di passare con un amico o un’amica (a me è capitato) una notte di veglia e di parole. In quella notte passato e presente si intrecciano e la voce, il tono (lo stile) si alza e si abbassa, si alternano la storia, il ricordo, il racconto per poi lasciar spazio ai grandi e controversi temi civili. E qui  Paterlini mette coraggiosamente le mani nel piatto (per chi lo conosce non è una novità), ribalta il punto di vista corrente e propone una lettura non convenzionale dei grandi temi di carattere intimo, pubblico e civile.

Così, mentre continua a fare a botte con Dio, Piergiorgio regola i conti con una certa categoria di cattolici. Non i lefebvriani o gli attivisti del movimento per la vita (troppo semplice, come sparare sulla croce rossa), ma un certo tipo di “cattolici progressisti” con l’insopportabile presunzione di etichettare come cristiani chi cristiano non è. A loro, con un felice salto stilistico,  dedica una sentenza che ha il sapore del Woody Allen migliore : ” I cattolici, se Dio Esiste, sono straconvinto non li sopporti”.

Nel suo Confiteor c’è spazio per il tema della “normalità omosessuale” (spero che PGP mi passi la definizione), che era già al centro della sua attenzione più di trent’anni fa: il suo Ragazzi che amano ragazzi (uscito nel 1991 e continuamente ristampato). Già allora Piergiorgio ha prodotto un pensiero nuovo, segnando una piccola rivoluzione culturale, il passaggio dalla categoria della identità a quella della preferenza sessuale.

C’è poi un altro tema, legato al primo, molto più importante e che Paterlini continua a esplorare, quello del desiderio, della affettività, dell’amore. Pagina 305: “Non è ideologico ma oggettivo che non esiste una minoranza sessuale, esistono maggioranze e minoranze diverse per ogni aspetto dell’affettività e della sessualità. E continua: “Oggi, ma da molto tempo, sono molto più curioso di sapere perché qualcuno si innamora cinque volte al giorno e qualcun altro una volta soltanto della vita.”

Il desiderio, l’attrazione, l’affettività, l’amore, ognuno di noi li vive in modo differente. Se ci concentrassimo su questo, “diventerebbe lampante quanto sia poco interessante che uno si innamori di una persona del proprio o dell’altro sesso”. Già, l’amore, Piergiorgio ne parla come di un miracolo, l’unico miracolo in cui “credere”,  ne esiste forse un altro sulla faccia del pianeta?

E proprio l’amore, la sua inaudita potenza, è al centro del suo romanzo breve Lasciate in pace Marcello (ristampato da Einaudi), la prova narrativa più riuscita di Paterlini, dove si avverte la lezione di Ignazio Silone; non il Silone del celebratissimo Fontamara, ma di quello che io considero il suo romanzo capolavoro, Il segreto di Luca.

Poi in Confiteor c’è la storia, tanta storia, micro e macro, personale e collettiva. Il libro è diviso in tre grandi sezioni: Ottocento, Novecento, Duemila. Una storia lunga tre secoli, vissuta direttamente dall’autore, nato nel 1954 in un piccolo borgo della campagna reggiana. Da quel punto, prima della scomparsa delle lucciole, prima del carrarmato del Boom, prende avvio la storia: la storia di un bambino che si guarda intorno, che vorrebbe fare domande di cui ancora oggi cerca le risposte.
Ecco l’Italia contadina preindustriale, la casa dei familiari e degli antenati, le leggi non scritte della società patriarcale. Le pagine dove Paterlini rivive e ci racconta questo orizzonte, che coincide in tutti i sensi con “il tempo dell’infanzia”, sono affascinanti, ma soprattutto vere, senza cedimenti alla nostalgia. Nessuna aureola bucolica. Perché quel mondo scomparso non era, per il solo fatto di essere scomparso, più bello e più facile di quello contemporaneo, era un mondo misterioso, duro, a volte crudele.

Infine, e non potrebbe essere altrimenti, c’è il lavoro, il Paterlini giornalista, scrittore, autore teatrale, editor e tanto altro. Perché da quasi 50 anni, per riprendere una sua espressione, Piergiorgio “fa a botte con le parole”. Una quindicina di libri pubblicati, l’invenzione insieme a Michele Serra e Andrea Aloi del “settimanale di resistenza umanaCuore (quanta nostalgia oggi, in un’editoria italiana che ha abolito umorismo e satira), la lunga collaborazione a Linus, e le sue rubriche, i suoi blog, i suoi articoli su tanti quotidiani. Impossibile dar conto della varietà, della quantità, della qualità soprattutto, delle esperienze e delle invenzioni di PGP.

Conterà però almeno dire di una cosa che mi ha sempre colpito (e che ho spesso invidiato) nella scrittura di Piergiorgio. Per farlo, può servire una storica rubrica collettiva di Linus, cui anche io ero stato arruolato. Il titolo di quella rubrica – Racconti di notizie – proponeva una scommessa, dichiarava la voglia di un linguaggio nuovo. Raccontare le notizie, dunque: miscelare giornalismo e letteratura, uscire dagli stereotipi del genere giornalistico, trasformare un articolo in un racconto.

Tutta la carriera e la scrittura di Piergiorgio Paterlini è piena di sfide come questa. Così in alcuni suoi libri le interviste si trasformano in racconti in prima persona (uno per tutti Matrimoni, Einaudi) e le auto-biografie (l’ultima quella scritta con il Nobel Giorgio Parisi) diventano libri a quattro mani, un intenso dialogo rivelatore.

PGP, non credo che la critica se ne sia accorta a sufficienza, non è solo un bravo scrittore, ma è uno dei pochi che ha lavorato e continua a lavorare sul linguaggio. Leggere i suoi libri è sempre un vento nuovo chiusi come siamo nel pigro scatolone del giornalismo e della letteratura italiana contemporanea. Una boccata d’aria che consiglio a chiunque.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Quella cosa chiamata città /
PENSIERI SPARSI SUL FUTURO URBANO

Quella cosa chiamata città. PENSIERI SPARSI SUL FUTURO URBANO

Da anni in tanti lavoriamo su città circolari, attive, resilienti, lottiamo contro il consumo di suolo, sul rapporto tra città e salute, sulla mobilità dolce, sull’abitare sociale, abbiamo inoltre riflettuto sugli effetti del Covid 19 nell’organizzazione delle città e nelle pratiche dell’abitare.

Nelle università si lavora da anni su questi temi, con sempre meno soldi e sempre più burocrazia, necessaria per testare la qualità del lavoro di ricercatori esasperati e disillusi. Abbiamo i cassetti pieni di progetti, ricerche e studi che prefigurano un paese e un mondo diverso. Si propongono strategie e visioni si elaborano progetti di dettaglio, tutto nel totale disinteresse della politica e della governance, come si dice oggi.

Poi arriva l’archistar di turno et voilà i problemi dell’abitare nell’era del Corona Virus sono risolti. A quel tempo, ogni giorno sui grandi quotidiani neoliberisti si intrecciavano articoli e interviste dove il gioco era a chi la sparava più grossa.

Ci vuole il “Ministero alla Dispersione” (è arrivato il nuovo Kropoktin?) perché nelle città accentrate non si può più vivere. Siamo pieni di bellissimi di borghi vuoti dobbiamo ritornare a viverci, certo, bell’idea, ma perché si sono svuotati? L’intuizione viene colta dall’allora Ministro alla Cultura che destina denari PNRR per un borgo a regione; dunque, un borgo ricco circondato da borghi abbandonati, ma il problema non era nelle strategie per le aree interne?

Dobbiamo rilanciare l’uso della bicicletta: che intuizione! E le piste ciclabili chi le fa e, quando le fa, come le fa? Visto che siamo sul tema mobilità, perché non mettiamo anche qualche tram in città e trasporto metropolitano tra le città per renderle un sistema metropolitano come nella Randstad?

Qualche giorno dopo un’altra archistar se ne esce con l’intuizione: diamo importanza all’aria e al verde. Ottima idea, ma non l’avevano già proposta i fondatori dell’Urbanistica a metà dell’Ottocento, Olmsted a Boston e a Amsterdam nel 1927 non si avvia la costruzione del grande bosco urbano?

Poi arriva quello che vuole piantare alberi dappertutto, a prescindere da dove siamo, perché noi umani dobbiamo imparare dal mondo vegetale che non è competitivo, sarà vero? Però bisogna anche migliorare le abitazioni creando gli opportuni spazi per lo smartworking, ma lavorare a casa richiede la prossimità e quindi a 15 minuti devo avere commerci e servizi.

Ottima idea, peccato che le abitazioni costino 10.000 € a mq., questo non le rende selettive? E nei quartieri sociali che facciamo, dove spesso le case sono devastate dalle muffe, e non ci sono, oltre ai mezzi pubblici (e quindi devo portare mia madre a fare le spesa in automobile nell’ipermercato), i soldi per “rigenerarle”?

La pandemia e la crisi climatica hanno accentuato la proliferazione di costruttori di “eco-tecno visioni”, ovviamente sempre più green, che, se realizzate, porterebbero qualcuno di noi, i più benestanti se non ricchi, a vivere in spazi svuotati dalla percezione dei problemi del mondo e dalle differenze che in esso vi si incontrano.

Nei nuovi quartieri di Milano, Parigi, Londra, New York, o nelle nuove città di Dubai, Neom Line, Akon, New Cairo gli abitanti abiterebbero in spazi e appartamenti con boschi nei balconi, mentre altri, a Busan, in bolle iper-condizionate, mangiando verdure e frutti idroponici e muovendosi in spazi di relazione tutti identici, iperconessi, in un tutto così smart da toglierti il piacere di decidere qualcosa della tua quotidianità, perché già prestabilito dall’intelligenza artificiale.

Un tempo l’attacco a terra degli edifici definiva il livello di complessità e interazione urbana e sociale dell’architettura (nelle case delle nonne le porte erano sempre aperte). Oggi gli edifici della città neoliberista trasformano in bisogno l’autosegregazione e la separazione, ricorrendo alle rigide recinzioni, alle pareti a specchio riflettenti, che nascondono una guardiola, o la presenza di un poliziotto privato che ti intima di andartene se ti affacci allo specchio della parete, o se lungo la strada (pubblica) fai una foto che riprende anche un edificio dove abita l’influencer del momento.

Beato lo spazio della mescolanza, di cui parla Guy Debord, perché è uno spazio non rappresentabile.

Mentre rifletto sul futuro urbano che ci aspetta leggo il giornale. L’intervistatore del quotidiano La Repubblica inizia dicendo che nel mondo ci sono 3 miliardi e mezzo di “rifugiati” quindi dobbiamo ripensare le nostre abitazioni. Buon inizio penso, da giornalismo d’inchiesta.

L’archistar Massimiliano Fuksas che, essendo un nomade che vive tra Roma, la campagna senese e Parigi, se ne intende di “rifugiati”, risponde che dobbiamo prevedere spazi per l’isolamento, così come ora si prevedono i garage e le soffitte; e un intero piano comune per lo smart working, un po’ come negli USA, dove ci sono gli spazi per il fitness (chissà a quali Stati Uniti pensa? Non certo quelli dove vivono i White o i Black Trash).

Leggo, esterrefatto per tanta banalità e presunzione, e mi aspetto che il noto giornalista Francesco Merlo gli risponda: “…ma architetto lo sa che più di un miliardo di persone nel mondo vive in slum e favelas e sono destinati a raddoppiare? Lo sa, che nel densissimo quartiere di pescatori di Saint Louis du Sénégal, in una famiglia si fanno i turni per dormire: chi dorme al mattino, chi al pomeriggio, chi alla notte, perché non c’è spazio per tutti: dove mettiamo lo spazio per lo smart working?”

Questa domanda però non arriva, ma arrivano altre ‘perle’ di Boeri, di Cucinella che vegetalizza la facciata di San Petronio per contrastare le isole di calore, mentre Mancuso vuole riempire Piazza Maggiore con grandi vasi e dentro grandi alberi. E infine Renzo Piano, che afferma con tono sapiente che “l’opposto della città non è la campagna ma è il deserto”, evidentemente non conosce il deserto e le civiltà urbane che ha espresso, resilienti da secoli.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

 

Gaza, oltre 6mila palestinesi dispersi a causa degli attacchi israeliani

Gaza, oltre 6mila palestinesi dispersi a causa degli attacchi israeliani

Articolo originale su Valigia blu del 16 luglio 2024

Ogni giorno, Abu Ali Zahir si avventura tra le macerie della sua abitazione nella speranza di ritrovare vivi alcuni dei 23 parenti rimasti seppelliti dopo un attacco delle forze israeliane. “Vado tra le macerie e urlo i loro nomi, sperando che qualcuno mi risponda”, dice al Guardian. Finora, a 60 giorni di distanza dal bombardamento, sono stati estratti 16 corpi dei suoi familiari. Gli altri sette risultano ancora dispersi.

Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), sono circa 6.400 i palestinesi ritenuti dispersi dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre, in gran parte rimasti intrappolati tra le macerie, come i parenti di Abu Ali Zahir, oppure sepolti senza essere stati identificati o detenuti da Israele, scrivono Lorenzo Tondo e Sufian Taha in un articolo sul Guardian.

“Ogni settimana possiamo ricevere tra le 500 e le 2.500 segnalazioni”, afferma Sarah Davies, portavoce del CICR. “Ci sono innumerevoli ragioni per cui le persone vengono separate in una zona di guerra. Se ci sono esplosioni nelle vicinanze, le persone sono in preda al panico, fuggono e si perdono. A volte è buio ed è pure difficile vedere. Oppure, in queste situazioni caotiche, può capitare di perdere i propri telefoni, le connessioni possono essere interrotte, le schede sim vengono cambiate”. In molti non sono in grado di sapere neanche in quali ospedali i propri familiari feriti vengono trasportati.

Le limitazioni per l’accesso di esperti forensi e dei diritti umani e gli attacchi sugli ospedali complicano ulteriormente gli sforzi di documentare le vittime e identificare i deceduti. “L’intensità degli attacchi aerei israeliani e delle ostilità tra le parti – così come le bombe inesplose e i missili tra le macerie – rende troppo pericoloso per le famiglie, i primi soccorritori e gli operatori umanitari cercare le persone disperse tra le macerie”, afferma Save The Children in un recente rapporto.

Finora, dal 7 ottobre, il CICR ha segnalato più di 8.700 palestinesi scomparsi a Gaza. Di questi, 2.300 persone sono state individuate: questo significa che le famiglie sono riuscite a trovare i parenti dispersi, vivi o morti. Ma, spiega il CICR, il numero effettivo di palestinesi dispersi è probabilmente notevolmente più alto, in parte perché non tutte le famiglie sanno di poter contattare la Croce Rossa, in parte perché in alcuni casi sono state uccise intere famiglie e nessuno può dunque denunciare la loro scomparsa.

Nei giorni scorsi gli attacchi non hanno risparmiato né scuole né zone che dovrebbero essere al riparo da attacchi. Il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha dichiarato che 141 palestinesi sono stati uccisi e 400 persone sono rimaste ferite da attacchi aerei israeliani da sabato scorso.

Un bombardamento ha colpito la zona di Al Mawasi, dove sono rifugiate moltissime persone rimaste senza casa. Al Mawasi era stata definita una “zona umanitaria sicura” dall’esercito israelianio. E invece le forze israeliane hanno ugualmente attaccato l’area, densamente popolata, a loro dire per colpire un leader di Hamas, Mohammed Deif. Tuttavia, né l’esercito né il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno potuto confermare che nel bombardamento sia stato ucciso Deif. Quel che è certa è l’uccisione di centinaia di persone rifugiate in un’area che ritenevano sicura. Secondo un’analisi delle immagini aeree del bombardamento da parte del New York Times , nell’attacco sarebbero state usate bombe da 2mila libbre (circa 900 chilogrammi) che vengono usate raramente in aree densamente popolate da civili per il loro effetto devastante.

Nelle scorse settimane altri attacchi hanno colpito diversi edifici scolastici. “Quattro scuole sono state colpite negli ultimi quattro giorni. Dall’inizio della guerra, due terzi delle scuole UNRWA a Gaza sono state colpite, alcune sono state bombardate, molte sono state gravemente danneggiate”, ha dichiarato il Commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA), Philippe Lazzarini, in un post su X.

Il 9 luglio, almeno 25 persone sono state uccise dopo un attacco israeliano vicino a un edificio scolastico che ospitava sfollati gazesi nella parte orientale di Khan Younis, nel sud di Gaza. Alcuni giorni prima, il 6 luglio, un altro attacco aveva causato almeno 16 morti in una scuola dell’UNRWA a Nuseirat, nel centro di Gaza, a cui hanno fatto seguito il 14 luglio altri bombardamenti su una scuola di Gaza City che ospitava centinaia di rifugiati e che hanno causato la morte di 22 persone.

“Quanti bambini, medici, donne, anziani e semplici residenti uccisi a Gaza vale Mohammed Deif? Quanto sangue deve essere versato per l’appetito dei vertici militari e politici? Quante persone potrà uccidere Israele fino a quando tutto questo non sarà considerato un crimine ai suoi stessi occhi? Dove si ferma il massacro?”, si chiede il giornalista israeliano Gideon Levy su Hareetz. “La risposta è preconfezionata: ‘Quanti sono necessari’. In altre parole: non c’è un limite”.

In copertina: Gaza bombardata – frame video Channel 4 News via YouTube

BIBLIOTECHE E FORMAZIONE  DEGLI ADULTI
Viaggio ad Atene di una volontaria della Biblioteca Popolare Giardino 

BIBLIOTECHE E FORMAZIONE DEGLI ADULTI. Viaggio ad Atene di una volontaria della Biblioteca Popolare Giardino

C’è un tema che dal 2021 appassiona noi volontariə della Biblioteca Popolare Giardino di Ferrara: i viaggi all’estero. Grazie ad una proficua collaborazione con la Cooperativa EQUILIBRI di Modena è possibile effettuare permanenze all’estero nell’ambito di un Progetto Erasmus dell’Unione Europea per l’educazione permanente degli adulti.

Tali ‘attività di mobilità’, come si legge nella Presentazione curata dalle operatrici di EQUILIBRI, hanno l’obiettivo di organizzare incontri formativi sui temi della biblioteca sociale, al fine di “trasformare le biblioteche ancora di più in luoghi di apprendimento permanente per tutta la cittadinanza, migliorare e ampliare le attività culturali di promozione ed educazione alla lettura, includendo gruppi socialmente più svantaggiati e migliorare la formazione degli adulti”.

In occasioni estive differenti alcunə volontariə hanno potuto visitare biblioteche finlandesi, francesi, tedesche, danesi e approfondire la conoscenza del modello e delle esperienze di istituzioni aperte, vissute come luoghi sociali, luoghi di costruzione della comunità e di interazione con gli altri.

Tutte situazioni in cui si è potuto toccare con mano come la partecipazione sia la base fondamentale per la vita sociale: partecipazione come bisogno umano; senza la partecipazione di utenti veri e la considerazione delle situazioni di utilizzo reali, i risultati dei processi progettuali restano spesso in superficie.

I momenti di restituzione delle esperienze, svolti oltre che a Modena con tuttə i/le partecipanti, anche tra di noi nella nostra sede alla base del Grattacielo, hanno consentito scambi di stimoli, riflessioni, osservazioni e hanno contribuito alla crescita individuale e collettiva e alla individuazione di percorsi creativi e attività nuove da proporre ai nostri utenti.

Quest’anno io e la mia amica Silvia siamo state le fortunate: lei è andata a giugno a Barcellona, dove sono state effettuate visite a varie biblioteche della rete cittadina (tra cui la mirabolante Federico Garcia Lorca), con l’obiettivo di osservare gli aspetti fondanti di biblioteche come luoghi di comunità, anche in contesti di particolare vulnerabilità.

Io ho partecipato, dall’8 al 13 luglio, a un corso dall’accattivante titolo “Creare una comunità multiculturale attraverso la biblioteca”, presso la Biblioteca e Centro culturale plurilingue WE NEED BOOKS nel quartiere Kypseli di Atene.

WNB il tavolo dei nostri lavori
WBN scaffali e libri

Eravamo in 14: dieci bibliotecariə, io volontaria e due operatrici di EQUILIBRI accompagnate da una collaboratrice.  EQUILIBRIdi Modena è una cooperativa sociale con una lunga storia che parte dal 1984 grazie ad alcuni pionieri nel campo della promozione – anzi incitamento – alla lettura, oggi praticata nella forma di numerosi progetti proposti alle scuole, alle biblioteche e alla gente, cui si aggiunge il settore della editoria giovanile (libri da leggere), nonché della produzione di profondi, agili e utilissimi ‘manuali’ (libri per far leggere).

WE NEED BOOKS è uno spazio contemporaneo pionieristico che offre servizi culturali alla comunità, permettendo di accrescere il desiderio di leggere, fornendo strumenti di miglioramento delle proprie abilità e competenze a utenti di ogni età ed estrazione sociale, greci e stranieri.

A novembre 2019, nel vibrante e diversificato quartiere Kypseli, è stata aperta la prima biblioteca multilingue, con l’importante obiettivo di creare una società libera dalle discriminazioni, offrendo libero accesso alla conoscenza entro uno spazio che incoraggiasse alla comunicazione, alla immaginazione e alla gioia.

Qui si opera per favorire l’uguaglianza, la solidarietà e la difesa dei diritti umani. Si promuovono il multiculturalismo e l’empatia nelle vite quotidiane degli Ateniesi. Gli obiettivi belli e profondi e la ‘mission’ dell’associazione, nata principalmente con l’attenzione rivolta ai rifugiati politici, ci sono stati appassionatamente illustrati dalle due operatrici Johanna e Emma e dalla volontaria Margherita.

Il ricco programma dei quattro giorni di corso ha visto un accorto alternarsi di presentazioni teoriche e osservazioni sul campo, giochi di ruolo e discussioni e confronti. Ci è piaciuta molto la scelta di non chiudere al pubblico la biblioteca mentre noi eravamo là, sedutə attorno al lungo tavolo, ad ascoltare, parlare, leggere… e vedere in tal modo intorno a noi alcuni bambini aggirarsi tra gli scaffali, giocare, fermarsi a leggere.

Abbiamo desiderato entrare a far parte di questo colorato universo, per cui ci siamo associatə e, secondo una modalità bella che ci ha ricordato l’usanza napoletana del “caffè sospeso”, abbiamo lasciato le nostre “tessere sospese”

Mi è sembrata particolarmente efficace, nella prima mattinata, la proposta di ‘gioco’ utile ad autopresentarci: siamo statə invitatə a scegliere, girovagando fra gli scaffali ricchissimi di ben 14.000 libri in 60 lingue differenti, uno o più di uno che ci ‘parlasse’ o che ‘parlasse di noi’, favorendo così lo scambio e la reciproca conoscenza.

Anche i momenti conviviali sono stati opportunamente collocati nel programma con scopi sensati ed efficaci: i break a metà mattinata, le passeggiate nel quartiere e i pranzi insieme alle operatrici. Ci sono stati forniti materiali di studio, bibliografie, suggerimenti che porteremo con noi e arricchiranno il nostro lavoro in biblioteca.

Il percorso svolto ha anche contribuito a creare e/o a rafforzare relazioni stimolanti, certo favorite dal comune interesse verso gli argomenti che via via venivano trattati, ma anche dal clima positivo, leggero, sorridente e appassionato che si è venuto a creare.

È bello poter constatare come, anche in pochi giorni, si possa verificare la trasformazione di quello che era nato come “gruppo destino” in un ben assortito “gruppo progetto”, cui si è aggiunto e perfettamente integrato, il giovane John-Mark, professore scozzese presso la UEA (University of East Anglia a Norwich) appassionato di biblioteche multiculturali.

La città di Atene ha fatto da cornice speciale e di riguardo alla nostra fantastica avventura. Già la sera del nostro arrivo si è rivelata palese l’attitudine del nostro bel gruppo alle camminate – ed è proprio così, come curiosi flaneurs, che si scoprono e si gustano le città.

Atene dalla Collina del Licabetto

La meta scelta, il Lofos Lykavittos (Collina del Licabetto) ci ha regalato, dopo un bel tratto a piedi e quello conclusivo in una pittoresca funicolare, un panorama a 360°, che abbiamo dovuto conquistare passo dopo passo, praticamente sgomitando tra la folla di turisti per lo più impegnati a cercare le inquadrature più efficaci per i loro selfie (e vi risparmio le mie tirate sul turismo di massa…).

La mattina seguente il tragitto da compiere per andare dall’hotel alla sede di WE NEED BOOKS ci ha fatto conoscere ed attraversare il Pedio Areos (Parco di Ares), il più grande parco di Atene (XIX secolo), dai larghi viali costellati delle statue degli eroi della guerra d’indipendenza (1821-1832) dall’Impero Ottomano.

Quello stesso giorno, il primo del corso, Iohanna e Margherita ci accompagnano, a ora di pranzo, in giro per il quartiere Kypseli, “multietnico e popolare ma anche alternativo il giusto…rappresenta l’Atene vera per i veri Ateniesi”, come scopro curiosando nei siti turistici che offrono tour ‘al di fuori dei soliti tracciati’.

Il quartiere Kypseli – Atene
Il quartiere Kypseli – Atene

Anche le strade intorno al nostro hotel, in zona Viale Alexandras, ci appaiono animate e vivaci, con il loro alternarsi di edifici ristrutturati e altri purtroppo abbastanza cadenti, se non addirittura fatiscenti, ma resi pittoreschi dai numerosi graffiti intensi e coloratissimi… Percorrendole mi è venuto da pensare, che sembra di stare in un ‘Centro Sociale a cielo aperto’…

L’Acropoli di notte – Atene

Naturalmente, non potevano mancare, nelle nostre peregrinazioni durante i momenti liberi dal corso, i ‘pezzi forti’: l’Acropoli, ammirata in notturna da lontano e in successive passeggiate in avvicinamento prima della necessaria visita pomeridiana, sotto il sole cocente mitigato da un vento piacevolissimo.

Non posso aggiungere nulla se non condividere le emozioni davanti al Teatro di Erode Attico, pronto per ospitare concerti e spettacoli serali, o durante la salita dei Propilei, o al passaggio accanto all’Eretteo con le bianche Cariatidi e la sosta alla base del Partenone, il più grande amore della mia vita, ma anche la Fondazione Stavros Niarchos con il Centro Culturale, la Biblioteca Nazionale ‘nuova’ e l’Opera Nazionale Greca progettata da Renzo Piano.

Di quest’ultima recupero una affascinante descrizione in un articolo comparso su Donna di Repubblica nel novembre 2017: viene intervistato Costas Voyatzis che con il suo sito Yatzer, fondato nel 2007 è considerato uno degli influencer globali più apprezzati e che usa, per descrivere la ‘nuova’ Atene, aggettivi come energica, creativa, travolgente.

Centro culturale Stavros Niarchos – Atene

Per lui “Atene è la città perfetta per chi ama passeggiare, divertirsi e fare il pieno di storia sotto un cielo sempre incredibilmente blu”. E suggerisce una visita proprio allo “Stavros Niarchos Foundation Cultural center a Kallithea, appena ultimato: lo splendido, gigantesco parco, dice, collega l’edificio di Renzo Piano con il mare da un lato e la città dall’altro. La vista, grazie alla collinetta artificiale, è mozzafiato”.

Tutto vero anche per noi, che ci estasiamo nella terrazza coi divanetti bianchi e grigi, gustandoci la vista strabiliante che ci ripaga da impressioni non positive vissute, da alcunə più, altrə meno, vedendo tante, troppe guardie giurate (volute dalla Fondazione, ci dice la gentilissima direttrice) nelle sale della Biblioteca, a fronte di una frequentazione di utenti e visitatori che ci colpisce, perché davvero bassa.

Biblioteca Nazionale – Atene

Il che ci porterà la mattina seguente ad affrontare la questione con le nostre amiche di WE NEED BOOKS e a discutere sulla efficacia della creazione di simili “cattedrali nel deserto” in una zona così lontana dalla gente e, come da noi stessə sperimentato, non facilmente raggiungibile.

Io sono un po’ di parte, perché adoro Renzo Piano e difendo la sua scelta e sostengo che la bellezza deve essere portata nelle periferie, a patto che poi ci si adoperi per far sì che anche la gente, i giovani, i bambini, gli anziani, vengano portati a godere della bellezza e stimolati a frequentare Biblioteca, Centro Culturale e Opera Nazionale.

Come si evince, questa volta la parte ‘turistica’ del mio reportage, non è condita, come altre volte, con riferimenti a romanzi letti: non ho avuto, prima di partire, il tempo di arricchire il panorama delle mie letture dei libri di Petros Màrkaris, che ambienta i racconti delle indagini del commissario Charitos prevalentemente ad Atene, con indicazione dettagliata di strade e piazze ed edifici salienti.

Però non ho resistito alla tentazione di fare una ricerca su cosa di nuovo avrei potuto leggere e ho scoperto due volumi che sicuramente acquisterò e li vivrò come un prolungamento della visita a posteriori, in attesa di nuove possibilità di recarmi in Grecia. Si tratta di  Ad Atene con Markaris, di Patrizio Nassirio e di Atene nel metrò, di Petros Màrkaris stesso.

Bibliografia:

  • Cartoville Atene, Touring Editore, 2019
  • DCASA, novembre 2017
  • Patrizio Nassirio, Ad Atene con Màrkaris, Giulio Perrone Editore 2023
  • Petros Màrkaris, Atene nel metrò, La nave di Teseo 2023

Le foto della cover e nel testo sono di Maria Calabrese

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Diario in pubblico /
La postura del Graal (non santo)

Diario in pubblico. La postura del Graal (non santo)

Dal mio osservatorio-balcone, che dà nella ormai non via Zanella, scruto con interesse come viene tenuto il nuovo Graal naturalmente laico e incapace di suscitare meditazioni di carattere etico, spirituale o normalmente abitudinario.

Si sarà capito che parlo del cellulare.

Partiamo dai giovani, che inventano posture originali e diversissime. Le ragazze – o chi si pone come loro – vezzosamente lo fanno scorrere tra i capelli, lo avvicinano e allontanano dal seno con lenta circumnavigazione e infine delicatamente lo appoggiano sotto l’ombelico. Le più abili riescono con contorcimento impeccabile ad avvicinarlo ai glutei, rimanendo come un foglio di carta attorcigliato. L’età media non supera la ventina.

Altro discorso per le più giovani di solito pettinate a treccioline e con ombra di rossetto sulle labbruzze. Se ne intuisce il rispetto che portano all’oggetto perché il passo si fa solenne, la vestaglietta si ricompone, l’andatura si fa decisa e il Graal è posto come un panino che si sta per addentare.

Meno fortunati (senza distinzione di sesso) chi sta in carrozzino. Il desiderio da loro espresso sarebbe quello di usarlo a mo’ di ciuccio, ma viene impedito loro da inflessibili madri che glielo allontanano dalla bocca, mentre con l’altra rispondono alle chiamate perentorie del loro apparecchio.

La solennità dell’uso è però speciale nelle signore di mezza età che sanno di poter dominare le fila sparse della condizione, come quando è il momento di distribuire lo spaghetto casereccio. Di solito molto serie e mai eccessivamente magre lo tengono costantemente appoggiato all’orecchio destro, mentre il lato sinistro del corpo si attiva nell’esercizio del potere. Il sorriso non è contemplato.

È come ritornare ai miei tempi infantili, quando si udiva il “Via! March!” delle assistenti scolastiche. Una amica mi racconta che, quando le suddette signore indossano i pantaloni, pongono il Graal nella tasca posteriore e se necessità le costringe alla minzione, l’oggetto inevitabilmente finisce “in water”.

Non parlo delle anziane -la mia categoria preferita- che con sorriso angelico biascicano un “non sento”, quando vien loro avvicinato il Graal all’orecchio. Allora s’alza potente la ripresa orale dell’accompagnatore e loro felicemente giocherellano col nuovo aggeggio.

Sportivamente consapevole delle possibilità concesse, come in una partita del cuore, ma non diretta da ‘Gnazio’, il giovanetto maschio lo usa a mo’ di pallone, addirittura stringendolo fra i denti mentre caracolla in bicicletta o addirittura s’erge sulle spalle del compagno che pedala. Il grido è imponente: risveglia gabbiani, colombacci, cicale che accolgono con un entusiastico consenso il nuovo compagno animale.

Di solito le maggiori esibizioni si svolgono tra le due-tre di notte fino alle sei, quando il mostro di ferro che sbarra la via comincia a prepararsi per il suo urlo unico e il rimbombo copre ogni altro tentativo d’imitazione. Più riflessiva l’età media dei maschi che, fingendosi cronisti di qualche importante rete televisiva, tengono aperto un giornale e borbottano preziosi consigli non si sa rivolti a chi.

Ciò è stato controllato di persona ad un caffè del Laido che si chiama “dall’alba al tramonto”. Accanto a loro l’enorme sacca del corredo da spiaggia dove i radiocronisti si recano solo al bar per prendere un aperitivo, mentre implacabile l’urlo di chi gioca a tennis da spiaggia rimanda i risultati delle partite a chi ascolta con il Graal in mano.

Mi si potrebbe giustamente chiedere quale sia la mia condotta, a cui rispondo con una punta di timore, in quanto tutto ciò che sa di innovativo è per me fonte di mistero e di preoccupazione. Lo tengo nel borsello quando esco di casa e il suono mi risveglia timori nascosti.

Premo il tasto e, quando non riesco a capire nulla, il mio lamento si espande e coinvolge chi mi sta attorno. Lo afferro poi con due dita e di nuovo lo nascondo alla vista, salvo per poi esibirlo a mo’ di giocattolo quando i passanti rivolgono gli occhi al balcone, dove soggiorno quasi tutto il tempo per non affrontare il Laido, la sua spiaggia e soprattutto i ricordi.

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Sei povero? Cavoli tuoi.
La solidarietà al contrario del governo Meloni

Sei povero? Cavoli tuoi. La solidarietà al contrario del governo Meloni.

Il primo rapporto INPS sui primi 6 mesi del 2024 in ordine alle nuove misure del Governo Meloni (ADI+SFL) in luogo del Reddito di Cittadinanza, mostra che l’istituto è stato tagliato nei primi 6 mesi del 2024 non del 20%, come era stato scritto sui documenti di Bilancio, ma del 68% :  (https://www.inps.it/it/it/inps-comunica/notizie/dettaglio-news-page.news.2024.07.online-il-primo-osservatorio-inps-sulle-misure-di-adi-e-sfl.html).

Del resto il Governo Meloni dovrà far fronte nei prossimi anni ad un taglio sulle spese, imposto dalle misure di austerità dell’Unione Europea, di 12 miliardi all’anno (nei prossimi 7 anni fanno 84 miliardi), oltre a finanziare 1,7 miliardi di nuove armi da inviare all’Ucraina nel 2025. Inoltre incombe sempre l’ordine di aumentare di 10 miliardi il budget delle spese militari per arrivare a quel famoso 2% sul Pil richiesto dalla Nato.

Così si fa “cassa”: tagliando sui poveri. Il Reddito di Cittadinanza, il sussidio introdotto nel 2019 su spinta del Movimento 5 Stelle, non c’è più. Quella misura costava 8,8 miliardi all’anno (prima di alcuni tagli) e poneva fine allo scandalo di un’ Italia che, con la Grecia, era l’unico paese europeo a dedicare pochissimi aiuti alla popolazione più indigente.

Il Pd di Gentiloni nel 2017 aveva introdotto il Reddito di Inclusione (RdI) con molte meno risorse (2 miliardi ma a regime) che era però meglio disegnato, in quanto era gestito a livello locale – quindi i poveri si conoscevano bene e questo diminuiva il rischio di frodi – e consentiva a chi trovava un lavoro (spesso temporaneo) di mantenere il 60% del sussidio, favorendo la ricollocazione al lavoro. Il M5S ha più che quadruplicato le risorse, ma ha alzato troppo il sussidio individuale (dal pochissimo che era col RdI -187 euro al mese – a 550 euro) e insieme ha deciso di toglierlo a chi trovava lavoro, disincentivando il lavoro regolare soprattutto al Sud, dove in molti settori il salario in nero è attorno ai 700-800 euro al mese. In tal modo, oltre a esporsi alle frodi, era iniquo per le famiglie numerose e per i poveri del Nord Italia il cui costo della vita è di un terzo superiore al Sud.

La proposta M5S rispondeva però a un’esigenza reale, in un’Italia che per 20 anni era stato il solo Paese europeo a non avere alcuna forma di sostegno ai poveri assoluti, mentre questi triplicavano negli ultimi 20 anni fino a 5,7 milioni (i poveri relativi sono invece 11,5 milioni).

Il Governo Meloni ha sostituito il Reddito di Cittadinanza con due misure: 1 “Assegno d’inclusione ADI” (da gennaio 2024) e 2.”Supporto per la Formazione e il Lavoro SFL” (da settembre 2023).
L’Inps ha diffuso il 9 luglio l’ammontare dei sussidi erogati nei primi 6 mesi del 2024 per l’”Assegno di inclusione”, che costano allo Stato appena un miliardo e 39 milioni di euro (i calcoli sono miei), quando nel primo semestre dell’ultimo anno di funzionamento pieno, il 2022, il Reddito di cittadinanza aveva erogato circa 4,4 miliardi, comprensivi però delle spese SFL che sono state pari a 81 milioni nei primi 6 mesi del 2024. I sussidi ADI sono relativi a 698.000 domande accolte, pari a 1,7 milioni di cittadini e a un importo medio di mensile di 618 euro.
Non si sa però quante siano le domande fatte (pare 1,2 milioni) e rifiutate in base a parametri molto più restrittivi di ADI rispetto a RdC. Anche le famiglie numerose beneficiarie, che il Governo Meloni aveva promesso di privilegiare rispetto ai single, sono calate (118mila con importo medio di 706 euro contro le 130mila per 741 euro di RdC) . In realtà il taglio dei sussidi è enorme e riguarda tutti, famiglie numerose incluse. I sussidi ai non italiani sono solo il 10%.

Quanto al “Supporto formazione e lavoro (SFL)”, cioè il percorso offerto agli adulti ritenuti in grado di lavorare, ha riguardato solo 96.000 persone nei primi 6 mesi del 2024 (su 250.000 potenziali). Il bonus da 350 euro mensili pagato per una media di 3,7 mensilità, mostra come i corsi di formazione necessari per ottenerlo sono pochi e intermittenti. I beneficiari (e stiamo parlando di corsi di formazione, non di lavoro vero) sono molti meno di quanto previsto dallo stesso governo.

Sussidi ADI nei primi 6 mesi e beneficiari SFL da settembre a giungo 2024 per regione (fonte: Inps)

In sostanza, l’Italia dal 2024 ha fatto un taglio netto degli aiuti ai 5,7 milioni di poveri assoluti italiani di circa il 70%, molto di più di quanto messo a bilancio dallo stesso Governo Meloni (7,1 miliardi l’anno -5,3 di ADI+1,3 di SFL, contro gli 8,8 miliardi del Reddito di Cittadinanza), nonostante il numero dei poveri sia salito anche nel 2023 (+78.000 e +435.000 dal 2021, dati di fonte Istat, basati sulle rilevazioni sui consumi o le domande di assistenza sociale ai Comuni).

I risparmi riguardano anche il Sussidio Formazione e Lavoro: doveva costare 1,3 miliardi, è costato nei primi 6 mesi dell’anno 81,4 milioni. Era ovvio che molti poveri non avrebbero avuto occasioni vere di lavoro tramite improbabili corsi di formazione, in quanto l’80% dei possibili beneficiari ha al massimo la licenza media e circa la metà dei disoccupati lo è da oltre 5 anni. Quasi impossibili da ricollocare. Infatti nel 2023, anche se si sono visti quasi mezzo milione di occupati in più, la povertà in Italia è aumentata.

Alla fine il governo risparmierà sui poveri 6 miliardi all’anno (2/3 del budget RdC), confermando le bugie della Meloni  – quella che fa la lotta alle élites e difende la povera gente.

Del resto lo avevano già scritto tre economisti della Banca d’Italia – Giulia Bovini, Emanuele Dicarlo, Antonella Tomasi – con uno studio  (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2023-0820/index.html) del dicembre 2023 sulla «revisione delle misure di contrasto alla povertà», da cui risulta che il decimo dei residenti in Italia con il reddito familiare più basso subisce un taglio dell’11% (da circa 11.800 euro all’anno a 10.500 circa), mentre per gli altri cittadini non ci sono vantaggi significativi, in quanto i pochi soldi tolti ai poveri non danno alcun vantaggio al restante 90% dei cittadini. Ma per un terzo di quel 10% dei più poveri, i più poveri di tutti, la perdita è una mazzata enorme, in quanto il loro reddito scende di circa 4.000-4.630 euro, pari ad un terzo delle loro entrate: cioè, vengono nuovamente sbattuti in una condizione feroce.

Dove finiranno i 6 miliardi risparmiati sui poveri? Probabilmente a finanziare la conferma degli sgravi ai contributi dei lavoratori fino a 35.000 euro di reddito (che costano 20 miliardi per anno) e alle spese militari per l’Ucraina, spostando gli aiuti dai poveri ai ceti medio-bassi e verso le spese militari.

Nel complesso quindi la manovra delle destre è la seguente:

  1. a chi evade il fisco viene offerto, con il concordato biennale preventivo, il diritto legale di pagare solo una quota ridotta delle tasse dovute;
  2. ai titolari delle concessioni balneari viene offerta una difesa a oltranza dei privilegi acquisiti, ben oltre il senso comune e non solo oltre la legge europea.
  3. ai concessionari auto viene offerto l’uso del miliardo di euro destinato alla ristrutturazione dello stesso settore auto integralmente in incentivi all’acquisto di vetture nuove; in questo modo i fondi pubblici andranno tutti a case produttrici estere (cinesi) e ai proprietari italiani dei saloni di rivendita, invece che a imprese produttrici della filiera perché investano e diventino più competitive;
  4. i Comuni subiscono un taglio di 250 milioni;
  5. la scorsa legge di bilancio prevede 20 miliardi di euro di privatizzazioni in tre anni, anche nella forma di vendita ai privati di quote azionarie di grandi imprese pubbliche (Eni, Enel, Poste, FFSS,…);
  6. nella sanità, sempre più privatizzata, si confermano i tagli già decisi dal precedente Governo Draghi; diventa sempre più una sanità per chi se lo potrà permettere;
  7. ai poveri che non hanno una lobby (era il M5S) e non sono in grado di comprare beni e servizi essenziali, un taglio netto degli aiuti (nonostante crescano in Italia);
  8. alla Nato il favore di aumentare le spese militari.

Poiché l’Europa impone all’Italia un taglio di bilancio di 12 miliardi all’anno nei prossimi 7 anni e la Nato pretende più spese militari, non sarà semplice rilanciare i servizi senza tassare i ricchi (il ceto medio è già tartassato). Si tratta di un problema aperto anche in Gran Bretagna e in Francia, con le destre (Farage in GB è cresciuto dal 2% al 14,3%) pronte a cogliere l’occasione tra 5 anni, se poco si farà per ridurre l’enorme malumore del 70% dei cittadini europei, che si stanno impoverendo anche in paesi più forti dell’Italia.

Alcuni ricorderanno l’allarme di Peter Glotz per la società dei 2/3. Il socialdemocratico tedesco era preoccupato che il “sistema” producesse vantaggi (era il 1989) solo per 2/3 dei cittadini. Che dire oggi che il sistema ne produce solo per 1/3?

LA STORIA DELL’ARTE IN BREVE RACCONTATA DA GENNARO SANGIULIANO
(con il tacito consenso di E. H. Gombrich)

LA STORIA DELL’ARTE IN BREVE RACCONTATA DA GENNARO SANGIULIANO
(con il tacito consenso di E. H. Gombrich)

Tutto cominciò con Giotto da Vinci che, volendo disegnare una pecora sopra ad un masso, fece in realtà una gigantesca mela verde con bombetta. Il suo maestro Magritte, a cui venivano solo manghi e papaye, lo riempì talmente di legnate che il povero Giotto divenne cubista e, assieme al Punturicchio, inventò l’iniezione antidolorifica.

Poi fu il turno di Raffello Carrà che, sulla base delle teorie di Galilei, inventò il Tuca-Tuca ed i gessetti colorati alla frutta, che si potevano anche mangiare tra un affresco e l’altro, nelle Stanze vaticane. Nello stesso periodo, Giorgio Morandi, ubriaco perso, si schiantò contro un platano, andando a cento allora, perché aveva fuso il Bronzino, inventando così la natura morta con bottiglie vuote. Ricoverato in manicomio, assieme al grande capo indiano e scrittore Torquato Pazzo, autore del romanzo di fantascienza: La striscia di Gaza liberata, conobbe il Giorgione, un infermiere gigantesco dal peso di duecentocinquanta chili, che puzzava come un Goya.

Assieme al Tintoretto, i quattro aprirono una lavanderia a gettoni, dove Jackson Pollon fece le sue prime esperienze di Action Painting, decolorando con la candeggina, al grido di: “sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria!”, la Dama con la civetta di Leonardo Sciascia. Ma non finisce qui. Botero, stufo di disegnare ciccioni, divenne un agente Herbalife, mentre Botticelli dipinse La Primavera, in versione Soft Porn, per il paginone centrale di Playboy, di cui era divenuto direttore il Beato Angelico. Vittore Carpaccio illustrò il ciclo de Le storie di Sant’Ursula, per la sala del Parlamento europeo e per arrotondare, aprì un ristorante con il Pollaiolo.

Si arriva così ai giorni nostri, dove Salvini Dalì dipinge Giorgia delle sfere, ispirandosi alla vivacità dei discorsi della Meloni, e Michelangelo partecipa a Temptation’s Island, sbaragliando la concorrenza. Per forza, il programma è un’assoluta Pietà.

Cover: Arte parodiata

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Per certi versi /
L’uomo della Malga

L’uomo della Malga


Il giorno 
della liberazione
Io lo chiamo
dell’oppressione
Afferma l’uomo
della malga
Guardo i suoi occhi
Lo ascolto
Se non fosse stato
Per i cosacchi
E i tedeschi
Ci avrebbero fatto
Tutti slavi
Qui
i partigiani

A guardarlo
Si vede
L’aquila
Carnica
Che
Volteggia

In una
Selva d’azzurro 

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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L’importante è stare in scena
Un racconto

L’importante è stare in scena. Un racconto

L’armonica, eh, ci vuole l’armonica. E anche la voce, per cantare come Van Morrison, Robert Plant, Freddie Mercury, Eric Clapton e tutti gli altri. L’importante è stare in scena.

Lui viveva proprio per questo. Per che cosa, se no? Da una vita porca bisogna pur uscire in qualche modo. Con le serate. Con le donne. Con le birre e il whisky. Con le canne, la coca, l’ecstasy. Soprattutto con il casino, che più ne fai, più ti diverti. Anche se hai cinquant’anni. Perché bisogna essere beyond the barrier, oltre l’ostacolo. Andare al di là del bla-bla di tutti i giorni, dei legami, delle convenzioni, oltre la forma che l’esistenza t’impone schiacciandoti, riducendoti a un niente.

E così suonava con una compagnia di svitati come lui alle serate nei dintorni, a qualche rave in capannoni dismessi delle periferie, a feste di compleanno in cui tutti bevevano come spugne, alle fiere grandi e piccole dove per spendere poco gli organizzatori si affidavano a chiunque mettesse insieme quattro note in modo decente. Quella era la sua vita vera, l’altra era un’abitudine biologica, un tempo per campare facendo lavoretti.

Un giorno lo chiamarono per un concerto, in sostituzione di un cantante rock degli anni Sessanta che all’ultimo momento aveva dato forfait. Si preparò con cura maniacale, litigando aspramente con quelli del suo gruppo perché secondo lui sbagliavano troppo. Provò decine di volte davanti a uno specchio per studiare tutti i movimenti per il palco. Studiò e ristudiò le canzoni del suo repertorio. Trovò un vestito che avrebbe potuto indossare Mick Jagger. Trascorse ore e ore a suonare la chitarra, l’armonica e a cantare.

Giunse finalmente la sera tanto attesa. La sala era grande, rumorosa, piena di gente. Lui e la band arrivarono un po’ tardi per creare aspettativa. Salirono sul palco e cominciarono a suonare. Dopo qualche brano lui iniziò a correre sul palco come un ossesso, cercando il feeling con il pubblico.

Corse e saltò fino a quando, dopo aver tentato un volo alla Nureyev lanciandosi dalla batteria di amplificatori, cadde rovinosamente sull’assito, battendo il capo e restando immobile, come un burattino senza fili. In sala calò un silenzio assoluto che durò lunghi attimi. Poi dal fondo partì un coro: Forever young, I want to be forever young

I soliti invidiosi, pensò prima di morire.

(Da “Tre sguardi in uno” Pendragon, 2015)

© Franco Stefani, 2024

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Presto di mattina /
Sentinella alla porta di Acor

Sentinella alla porta di Acor

Padre Marcello (Carlo Zucchetti), carmelitano scalzo nasce a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese (Mi) il 29 Novembre 1914, muore a Ferrara il 13 luglio 1984. Sono passati 40 anni, ma in coloro che custodiscono la sua memoria, per dirla con il salmista «appena un turno di veglia nella notte».

Nel libro della Cronaca del convento di S. Girolamo dei Padri Carmelitani Scalzi di Ferrara si legge: «P. Marcello è morto all’Arcispedale S. Anna il 13 luglio 1984 dopo sessantacinque giorni di malattia. I funerali si sono svolti il giorno della Madonna del Carmine con larga partecipazione di fedeli e sacerdoti e di due arcivescovi, mons. Luigi Maverna, Ordinario della Diocesi e mons. Mosconi, emerito arcivescovo di Ferrara. I sacerdoti presenti concelebranti erano 82».

 Padre Marcello, o dell’essenziale

 «Si potrebbe dire: p. Marcello o dell’essenziale.

Non diceva una parola di più di quanto occorreva, né in confessionale né fuori. Come un novizio di altri tempi, sapeva sorridere senza ridere. Camminava a passi brevi, ma senza affrettarsi.

A questo tratto esteriore corrispondeva la sua immagine interiore. Era disponibile nell’intrattenersi senza tirare in lungo e senza dare corda a conversazioni non indispensabili.

Ascoltava con interesse, senza mostrarsi curioso. Era attento al prossimo quanto bastava per servirlo, senza lasciarsi distrarre dal suo dialogo interiore.

Dire l’essenziale non significa dire poco. E cosa ci sarà da dire di un religioso che ha diviso i suoi quasi quarant’anni di vita ferrarese tra il confessionale e l’ospedale dei bambini?

L’eccezionale nel quotidiano: era il sospetto che si imponeva a chi incontrava p. Marcello. La prova è venuta dopo. Dopo la morte, quando tanti hanno dovuto dire: «Non ardeva forse il nostro cuore mentre ci parlava lungo la strada?».

Quest’uomo, inspiegabilmente ricercato in vita, viene comprensibilmente ricordato in morte. Tutti ricordano, in fondo, cose molto semplici, ma per loro così importanti, cosi ricche.

Essenziale in vita; essenziale in morte. P. Marcello, prima di chiudersi nel silenzio e nell’assenza, in cui rimase per tante settimane, ha avuto l’opportunità di lasciarci il suo testamento, anch’esso naturalmente essenziale: «Vado in paradiso, vogliatevi bene». Come dire: “nada” e “todo”, tradotti per noi «duri di cuore e lenti a capire»
(Dalla presentazione di Giulio Zerbini, a D. Libanori, Padre Marcello dell’Immacolata o.c.d. Un ritratto, Gabriele Corba Editore, Ferrara, 1997, 5,-6).

 Una porta di speranza (omelia alla messa in S. Maria in Vado)

Cosa cercava chi andava da padre Marcello? Andava cercando speranza, una parola di speranza, il dono della speranza: Come è detto nel salmo 81 del Dio che libera il suo popolo dal giogo della schiavitù egiziana: «Un linguaggio mai inteso io sento: Ho liberato dal peso la sua spalla, le sue mani hanno deposto la cesta». Anche padre Marcello ha preso in mano la cesta pesante delle nostre umanità mortificate liberando dal peso che impediva il cammino della speranza.

Ci ha ricordato la preghiera di colletta all’inizio della messa che “Nell’umiliazione e abbassamento del suo Figlio unigenito il Padre ha risollevato in noi la speranza è venuto liberandoci dalla schiavitù del peccato e ha ridonato la gioia di sperare in lui”.

Ma anche le letture della liturgia di oggi aprono uno squarcio di speranza: Os 14,2-10; dal Sal 50 (51); Mt 10,16-23. Il profeta Osea è profeta del Dio sposo che conduce con sé nel deserto e parla al cuore del suo popolo come l’amato parla all’amata e dice “Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza”. È la valle vicino a Gerico il cui nome significa ‘valle di afflizione e tormento’.

Ecco padre Marcello è stato una porta di speranza nelle nostre afflizioni e turbamenti. Anche in lui sono risuonate per noi le parole profetiche di Osea nella prima lettura:

“Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente,
Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio
e metterà radici come un albero del Libano,
si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo
e la fragranza del Libano.
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano,
fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano.”

La speranza: «è come la rugiada del monte Ermon che scende sui monti di Sion, là il Signore manda la sua benedizione, la sua vita per sempre» (Sal 133, 3)

La rugiada sulla terra è simbolo della speranza che viene dall’alto, dal cielo. Così pure la rugiada è paragonata al pane disceso dal cielo; pane è speranza. Rugiada feconda è l’eucaristia, pegno dato per nutrire la nostra speranza.

È molto carmelitano questo, non foss’altro perché la parola rugiada ritorna cinquanta volte sotto la penna di Teresa di Gesù Bambino del Volto santo, ed ella fa certamente un’associazione d’idee tra la rugiada (rosée, in francese), la rosa (il suo fiore) e il sangue, senza dimenticare le lacrime (cfr. Ms A, 71r°).

Il sangue di Cristo è rugiada, che nutre la vita come nella simbologia dell’inno gregoriano Pie Pellicane Iesu Domine. E racconta la piccola Teresa che la prima parola che scrisse era cielo, perché una sera, rientrando con il padre, gli indicò alcune stelle a forma di T dicendo che il suo posto era la. Ma al cielo non era anche sempre rivolto lo sguardo di padre Marcello quando guardava sulla terra, non attingeva alla speranza in alto per irrorarla sulle nostre disperanze?

Il salmo penitenziale di Davide è invito alla lode: “La mia bocca Proclami la tua lode”, è invocazione allo Spirito il quale è come rugiada; l’epiclesi del canone secondo non afferma forse questo “Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”? Lo spirito è colui che guida e porta a compimento la speranza che riapre sempre il cammino verso di essa.

Triplice sorgente della speranza è per noi la stessa Trinità nascosta in questo salmo 50; fu il vescovo Luigi Maverna a farmi comprendere questo significato mistico riportando l’esegesi di Origene:

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo. (Non è forse lo Spirito del Padre? Fonte di speranza)
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. (Non è forse lo Spirito santo? Cammino di speranza)
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso. (Non è forse lo Spirito del Figlio? Grazia Dono di speranza?)

Nel Vangelo di oggi poi ci viene ricordato che anche nella persecuzione e nelle tribolazioni davanti ai giudici nei tribunali, anche in quelli della quotidianità, nei contrasti, nei rifiuti di non disperare: «non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi le parole della speranza».

Come sentinella alla porta di Acor

La profezia di Padre Marcello è stata quella di annunciarci e ricordarci che Dio riapre sempre a noi la porta della valle di Acor, quella della speranza, che lui teneva sempre aperta.

Padre Macello ha abitato la soglia della porta della speranza come custode, come insonne sentinella. Lì la sua dimora angusta, la soglia e il confessionale e l’incontro con le persone: non sono luoghi comodi. E tuttavia, siccome a quella porta arrivavano trafelati, come i prigionieri di Sion ricondotti dal Signore, egli per incoraggiarne il transito, sorrideva loro, dischiudendo anche la porta gioiosa e profetica dalla sua bocca con l’espressione: “Avanti, avanti”, senza timore, il Signora cammina con voi.

Suo è allora il salmo 125 che traduce l’esperienza della speranza per lui e per noi ora e per il futuro. “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

Fu questa pure l’esperienza, davvero indicibile, di Charles Peguy, il quale fa dire a Dio, nell’opera poetica Il portico della seconda virtù: «La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza. Ma la speranza, dice Dio, questa sì che mi stupisce. Me stesso. Mi stupisce. Che dei poveri figlioli vedano come tutto avviene credano che domani andrà meglio. Che vedano quel che accade oggi e credano che andrà meglio domani mattina. Questo stupisce, ed è la più grande meraviglia della nostra grazia».

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I TERRITORI SONO DI CHI LI VIVE.
DAL DON BOSCO AL RESTO D’ITALIA, FERMIAMO LA COLATA DI CEMENTO
Bologna 26 -27 Luglio 2024

I TERRITORI SONO DI CHI LI VIVE
DAL DON BOSCO AL RESTO D’ITALIA, FERMIAMO LA COLATA DI CEMENTO
Bologna, Parco Don Bosco, 26 e 27 luglio 2024

Le mani sulle città: da nord a sud, nelle aree urbane, assistiamo all’assalto alle ultime aree verdi con i progetti più vari, dai supermercati alle scuole ai tram; perfino le piste ciclabili diventano un ottimo pretesto per spargere cemento e soldi. Le aree verdi sono considerate “vuote”, zone inutilizzate da “valorizzare”.

Le mani sulle montagne: dall’arco alpino a tutta la dorsale appenninica è un continuo susseguirsi di impattanti progetti di nuovi impianti di risalita,strade e strutture turistiche dove la neve è solo un ricordo del passato.

Le mani sui mari e sui porti: gassificatori, sbancamento dei porti e dei litorali per accogliere mostruose navi da crociera.

Ovunque in Italia i/le cittadin3 si stanno organizzando per decidere sulla gestione dei territori dove vivono: a Bologna, la difesa del minuscolo parco Don Bosco è diventata un simbolo di questa nuova presa di coscienza e di attivismo contro la speculazione e il consumo di suolo; le conseguenti violenze poliziesche dell’ultimo assalto mostrano anche come il neoliberismo, incarnato a Bologna nel PD, detesti e tema questa nuova lotta.
Nella temuta imminenza di un nuovo tentativo di sgombero, il Don Bosco chiama a raccolta solidali, comitati civici, realtà ambientaliste e tutti i movimenti per la difesa del territorio di Bologna e del resto del paese per il 26 e 27 luglio, per un incontro di coordinamento, scambio, mobilitazione e convivialità. Per affermare che i problemi del territorio si devono affrontare a livello politico e non con i manganelli.

SIAMO PURTROPPO AI PRIMI POSTI IN ITALIA PER CONSUMO DI SUOLO (L’ALLUVIONE DEL MAGGIO 2023 CE LO HA RICORDATO), attraverso lo scambio di pratiche ed esperienze, vorremmo che anche da qui passi la costruzione di una rete di realtà ecologiste ed ambientaliste, che rilanci future mobilitazioni.