3 ottobre 2013-3 ottobre 2o23: dieci anni dal naufragio di Lampedusa, 10 anni di indifferenza
Il 3 ottobre 2013 persero la vita al largo di Lampedusa 368 persone. Il Comitato 3 Ottobre (https://www.comitatotreottobre.it/), un’organizzazione senza scopo di lucro nato all’indomani del naufragio con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi dell’inclusione e dell’accoglienza attraverso il dialogo con cittadini, studenti e Istituzioni, ha voluto raccontare cosa è successo da allora fino ad oggi, in questi 10 anni durante i quali sono morte in almeno altri 10 naufragi altre 27mila persone nel disperato tentativo di attraversare il Mediterraneo: https://www.youtube.com/watch?v=upGIvDFvZLk.
E mentre in questi anni nelle acque del Mare Nostrum si consumava un eccidio, l’Europa si affannava a tirare su barriere. Come certifica il Comitato 3 Ottobre nel suo dossier#10annidindifferenza, sono stati almeno 10 i muri costruiti in questi anni: in Bulgaria al confine con la Turchia, per 235 km; in Grecia al confine con la Turchia, per 12,5 + 27 km; tra la Macedonia del nord confine e la Grecia, per 37 km 4; al confine tra Ungheria, la Serbia e la Croazia, per 158 + 131 km; al confine tra la Slovenia e la Croazia, per 198 km; in Spagna al confine con la Marocco (Ceuta e Melilla), per 8 + 12 km; nell’EuroTunnel tra la Francia e il Regno Unito, per 1 km; tra l’Estonia e la Russia, per 4 km; tra la Lettonia e la la Russia, per 93 km; al confine tra la Lituania, la Russia e la Bielorussia, per 45 + 71,5 km.
Secondo un documento pubblicato dal Parlamento Europeo a fine ottobre 2022, nel 2022 si contavano 2.048 chilometri di barriere ai confini Ue in 12 Stati membri, nel 2014 erano appena 315, nel 1990 zero.
Già nell’ottobre 2021, dodici Stati membri (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) hanno inviato alla Commissione una lettera chiedendo finanziamenti Ue per i “muri”. “Barriere fisiche – scrivevano – appaiono un’efficace misura di protezione dei confini che servono gli interessi di tutte l’Ue” e dunque “devono essere oggetto di fondi aggiuntivi adeguati dal bilancio Ue con la massima urgenza”.
Fra qualche giorno ricorrerà il decennale di quella tremenda strage. Dieci anni trascorsi calpestando la dignità delle persone, tra “chiusura dei porti”, decreti sicurezza, “guerre” alle Ong e a chi cerca di aiutarle a salvare vite umane, porti assegnati sempre più lontano al solo scopo di complicare l’azione di salvataggio, improbabili processi ai presunti scafisti, motovedette “donate” alla guardia costiera libica, violazione sistematica di norme di diritto internazionale e di quelle costituzionali e smantellamento delle esperienze virtuose d’accoglienza. Dieci anni di complice indifferenza, se non di una vera e propria criminalizzazione di chi si mette in viaggio in cerca di una vita degna. Intanto, durante questi due lustri, ogni giorno nel Mediterraneo qualcuno moriva.
Nel 2016 fu istituita la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza in ricordo di quel 3 ottobre 2013. Come ci invita a fare il Comitato 3 Ottobre dovremmo iniziare a porre con forza alcune domande e pretendere risposte: come è possibile che oggi si verifichino ancora naufragi con centinaia di morti, con rimpalli di responsabilità e promesse che non verranno mantenute? Come è possibile che la commozione di dieci anni fa si sia trasformata in indifferenza, se non in ostilità verso chi fugge da guerre e persecuzioni? Come è possibile che l’Operazione Mare Nostrum sia stata archiviata, e Italia e istituzioni europee abbiano cercato solo di stipulare “patti con il diavolo”, pagando signori della guerra e capi di Stato/dittatori, perché “si tenessero” i profughi?
Il Comitato 3 Ottobre ha organizzato una “tre giorni” per raccontare e offrire spunti di riflessione in merito a cosa è successo dal 2013 fino ad oggi a Lampedusa, dando voce alle persone sopravvissute ai naufragi, a chi fa soccorso in mare, ai parenti dei morti e a chi ha cercato di dare un nome alle salme, a chi si occupa dell’accoglienza.
Vergogna
A cominciare
Dalla mia
Ai funerali
Funerali operai
Della strage
Di Brandizzo
Nessuno
Non c’era nessuno
Del Governo
Nessuno della opposizione
Cara Schlein
Hai perso una occasione
Nessuno dei sindacati
Soli lasciati soli
Maledetti
Li avete lasciati soli
I funerali operai
Senza stato
E bisogna pregare
Tanto succede
Pure la Chiesa
Lascia. Interdetti
Cosa significa (oggi, domani e domani l’altro) rubare?
‘Rubare‘ significa “Appropriarsi, impadronirsi con mezzi e in modi illeciti, di oggetti, valori e beni che appartengono ad altri; indica di norma un’azione compiuta senza ricorrere alla violenza, ma usando la destrezza e l’astuzia, il sotterfugio e l’inganno, di modo che il proprietario o altri non se ne accorga subito; non ha preciso significato giuridico, ma può comprendere vari reati come il furto, la truffa e la frode, il peculato e la prevaricazione, l’abigeato” [Enciclopedia Treccani].
Mi chiedo se questa definizione sia ancora esaustiva in questa epoca postmoderna di digitalizzazione.
Sicuramente si può rubare un bene materiale. Vado al mercato e rubo le arance, dal macellaio la carne e dal fruttivendolo la frutta. Oppure rubo portafogli sulla metro affollata e catene d’oro al collo di signore ricche, oppure ancora organizzo truffe entrando nella casa di persone anziane, spacciandomi per un tecnico dell’A2A, stordendole e facendo in modo che mi consegnino i soldi che hanno.
È successo a una mia vicina di casa. Per fortuna che un passante ha capito che c’era qualcosa di strano e ha fatto scappare i ladri. La mia vicina di casa è morta con un brutto ricordo di quell’esperienza. Rubare i soldi è un conto, rubare la serenità di una persona un altro, più grave e duraturo. Quanto può valere la serenità di una persona? Tutti i soldi che uno ha, tantissimi o pochissimi che siano, e anche molto di più.
Purtroppo, però non esistono solo questi “furti” che appartengono alla brutta tradizione di questo paese pieno di contraddizioni, ma ne esistono di più sottili, cattivi e con potenziale devastante.
Uno riguarda la maldicenza. In contesti molto competitivi dove ci si confronta ogni giorno per accaparrarsi lavoro, e quindi denaro, la maldicenza impera. Diffondere notizie false sui competitor è un gioco da ragazzi all’ordine del giorno.
Ecco così che in epoca passata un bravo professionista (o gruppo di …) ha fatto pessimi lavori, non si sa bene né dove né come. Oppure ha voluto soldi senza consegnare il lavoro finito, oppure ha organizzato consessi “strani” per farsi pagare in maniera illecita …. e chi più ne ha più ne metta. Non credo di avere sufficiente fantasia per descrivere tutte le falsità inventabili e fatte circolare per “rovinare” qualcuno.
Mi vengono in mente Mia Martini, il presidente della repubblica Leone,Enzo Tortora … personaggi all’apice di questi processi distorti che creano informazioni false ma credibili e che distruggono le persone. Senza prove non si affermano verità cattive e nemmeno le si suggerisce.
Dall’altra parte non bisogna essere disposti a credere all’ultimo arrivato che ti racconta, con atteggiamento amichevole e cospirante, delle assolute falsità infanganti e che sicuramente danneggeranno qualcuno. Anche in questo caso si può usare il verbo “rubare”. Rubare la serenità, se non il futuro a una persona è un atto che ripugna, non è legittimo, puzza.
La creduloneria è un male di quest’epoca e, purtroppo, non è una cosa strana. Un ‘credulone’ è una persona che, per troppa ingenuità, è pronta a credere a tutto quanto un altro dice o vanta o promette (sempre Treccani). Esiste un surplus di informazioni circolanti che non permette di andare dritto alla fonte per capire cosa stia succedendo, transitano continuamente nella rete notizie senza che ci sia la possibilità di discriminare in maniera sicura la veridicità del contenuto.
Ovviamente non è tutto così e non è sempre così. Esistono ancora contesti positivi che anelano alla trasparenza, io ne conosco e non voglio che mi si consideri una pessimista cronica, ma credo che i veri latrocini non riguardino i beni materiali, i veri latrocini riguardano pezzi di vita degli altri, possibilità e risorse umane e professionali degli altri.
Alla base dei furti di vita c’è l’invidia, un’invidia con radici negli abissi, che è un male di questo mondo capitalista, consumista, arraffone e indifferente. Il peggio di noi si esprime nel togliere possibilità di vita agli altri in nome della necessaria salvaguardia di sé stessi, dei propri figli. Ho paura che se questi “figli” sapessero in che contesti vengono citati e con quali scopi prenderebbero a odiare i genitori e si scatenerebbe una guerra famigliare. Non citate i vostri figli a sproposito, lo diceva già la Bibbia.
Eppure, è così. Citare bambini legittima il peggio che si può esprimere in termini di ruberie. Non si ruba la vita agli altri in nome delle arance del mercato, del posto di lavoro, della propria realizzazione, ma in nome dei propri figli. Credo che questa sia una delle porte dell’inferno. Se la porta esiste ed è aperta ci si va dritti, altrimenti ci si va appena qualcuno la apre.
Anche i sistemi mafiosi usano questo tipo di legittimazione per i reati, questo modo subdolo che aiuta la mente e il cuore a piegarsi al danno e alla vendetta come armi salutari e irrimediabili. La seconda forma di legittimazione di questa perversione comportamentale è l’appartenenza al gruppo.
Chiunque abbia studiato i sistemi mafiosi sa che è così. Consiglio a chi non l’ha ancora fatto di mettersi a studiare. Provate, ad esempio, a leggere il libro di Michele Santoro che s’intitola Nient’altro che la verità. Questo argomentare potrebbe portare lontano, ma qui mi fermo, per ora.
Passando a ciò che vediamo tutti i giorni, mi vengono in mente tutte le ruberie del mondo digitale in cui viviamo. Password, numeri di telefono, codici fiscali, numeri di carte di identità o carte di credito: tutti questi nostri dati, finiti nelle mani sbagliate, possono consentire a dei ladri/malfattori di compiere atti illeciti a nostro nome.
Il furto di identità digitale rappresenta una minaccia sempre più diffusa, in ragione del fatto che i servizi informatici sono sempre più estesi nella vita quotidiana e la maggior parte delle attività sono condotte online, tramite strumenti tecnologici come il pc, lo smartphone o il tablet: tutte le informazioni che un utente inserisce, ad esempio all’interno di forum online, social network o piattaforme di e-commerce, sono esposte al rischio di essere sottratte da parte di criminali informatici.
Secondo il RapportoCensis-DeepCyber sulla sicurezza informatica in Italia, pubblicato in aprile 2022, nel 2021 sono stati rilevati nel web “4,5 miliardi di dati sottratti a individui tra e-mail, carte di credito, Carte di Identità e passaporti”.
Secondo i dati del Rapporto Censis 2022 al 64,6% dei cittadini (75,6% tra i giovani, 83,8% tra dirigenti) è capitato di essere bersaglio di email ingannevoli il cui intento era estorcere informazioni personali sensibili, presentandosi come provenienti dalla banca di riferimento o da aziende di cui la persona era cliente. Il 44,9% (53,3% tra i giovani, 56,2% tra gli occupati) ha avuto il proprio pc/laptop infettato da un virus.
L’insicurezza informatica viaggia anche tramite i pagamenti online: al 14,3% dei cittadini è capitato di avere la carta di credito o il bancomat clonato, al 17,2% di scoprire acquisti online fatti a suo nome e a suo carico. Il 13,8% ha subìto violazioni della privacy, con furti di dati personali da un device oppure con la condivisione non autorizzata di foto o video.
Al 10,7% è capitato di scoprire sui social account fake con il proprio nome, identità o foto, al 20,8% di ricevere richieste di denaro da persone conosciute sul web, al 17,1% di intrattenere relazioni online con persone propostesi con falsa identità.
Diffuso anche il cyberbullismo: il 28,2% degli studenti dichiara di aver ricevuto nel corso della propria carriera scolastica offese, prese in giro, aggressioni tramite social, WhatsApp o la condivisione non autorizzata di video. Che dire, una ruberia continua che, come minimo, causa uno stato di malessere e di insicurezza dannoso. Alcune di queste cose sono successe a tutti, quindi non è necessario descriverle oltre.
Mi viene in mente tutto questo ogni volta che parlo in un microfono. Con la digitalizzazione chiunque parli in un microfono sa che la sua voce può essere registrata, le parole tagliate e riassemblate fino a comporre frasi che dicono il contrario di quanto si è affermato, che si possono creare avatar che dicono assurdità con la nostra voce. Le parole riassemblate possono essere vendute, citate, usate per fini cattivi. La tecnologia permette tutto questo, il nostro senso etico.
E allora mi viene da fare una preghiera ai potenziali ladri della mia voce: per favore lasciatemi la mia voce! Non posso vivere senza di essa.
Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta su Periscopio cliccasul nome dell’autrice
Moka (all’anagrafe Monica Zanon) ha imparato a comunicare con la poesia durante gli studi tecnici che le sono serviti per apprendere l’arte della manutenzione degli elicotteri.
Il “vuoto d’aria”, anche se si riferisce a quando l’elicottero perde quota all’improvviso, è un’espressione errata, come scrive l’autrice nella breve nota introduttiva, “perché non può esserci assenza d’aria altrimenti non potremmo volare o vivere. Eppure il ‘vuoto d’aria’ è la metafora perfetta che rappresenta ciò che accade nel volo della mia vita.”
Una poesia in cui si rincorrono, si sfidano legami profondi con la propria terra e desiderio di assaporare briciole d’infinito mentre s’incrocia l’aria vista di profilo.
Ho volato volato volato
Ho volato volato volato
sui tempi d’oro
della gioventù dirò,
ho camminato
su storie incredibili.
I tumulti sono orme
infilate in passaggi stretti,
misurati con le mie ossa,
tuffi in grandi attese.
Salvati!
Ho urlato nelle mie orecchie,
perché cadere
è rendersi fragili:
si sfilano le tracce di noi
e a nulla serve lasciare
nuvole di memoria.
Non ci sono più misure
in cui riconoscersi.
L’orecchio discute, sente i messaggi del vento. Una dialettica del dialogo tra significato e suono.
Il profondo legame con la natura, in cui Moka è immersa mentre dall’alto della sua casa guarda lontano oltre il Lago Maggiore, con quello che qualcuno chiama Creato, lo senti, lo fissi in “Reggi l’anima coi denti”.
Reggi l’anima coi denti
Ci laviamo con le lacrime
il viso nel risveglio,
hai una voglia di ciliegie in bocca,
mentre fissi il soffitto di stelle.
Reggi l’anima coi denti
senti il suono della ranza
e il profumo dell’erba nel latte,
c’è un po’ di gelosia nel tuo respiro
per i colori dei fiori ancora da travasare.
Terra e cielo dialogano di continuo, si rimandano segnali colorati in carenza d’infinito. Guardare la terra dall’alto per abbracciarla e lasciarsi passare dai sentimenti. Nell’aria dei pensieri.
Tante sono le parole che sentiamo e tante sono quelle che non ci arriveranno mai. Anche vicino a noi.
La siccità del vuoto
Si svuota la casa
in poco tempo,
i vestiti i cappotti,
non resta nulla di sé,
restano i muri a secco
resta la siccità
del non detto.
Liriche spesso brevi, che punteggiano una quotidianità capace di unire una malinconia sotterranea e una poesia che irrompe impaziente.
L’impazienza della poesia
Avvolta in una tuta da meccanico,
con la malinconia liquida nel petto,
volevo fare il pilota d’elicottero
solo in autorotazione recupero i battiti,
ma l’impazienza della poesia
mi ha insegnato a volare.
Ogni tanto traspaiono, emergono cenni “biografici”, desideri di una vita personale attenta all’essenzialità, alla positività nei rapporti personali. Iosif Brodskij scriveva che “in poesia, come in qualsiasi altra forma di discorso, il destinatario non è meno importante del parlante”.
Atlante di vite insoddisfatte
Infinitamente insoddisfatti
distratti distruggiamo gli altri,
in vece portiamo acri disappunti
di un sogno irraggiungibile chiamato vita.
Se fossimo davvero attenti
non perderemmo tempo con inutili parole
compiacendo il nostro ego infelice,
ago che cuce indefinite amarezze.
Monica Zanon, in arte Moka (1982) è nata e vive a Solcio di Lesa (NO). Nel 2014 ha fondato l’Associazione Licenza Poetica, insieme ad alcuni amici. Alcune sue pubblicazioni: “L’orso logorroico”, Youcanprint, 2016; “La casa dell’indigeno“, Youcanprint, 2017; “Nella mia selva sgomenta la tigre“, Le Mezzelane Casa Editrice, 2018; “Un tempo assente“, Le Mezzelane Casa Editrice, 2019; “Difettosa“, Youcanprint, 2020; “Buchi temporali“, Youcanprint, 2020; “Vuoti d’aria”, Le Mezzelane Casa Editrice, 2021. Crea e collabora all’organizzazione di eventi letterari. Cura il suo sito personale (www.mokaend.com) e la collana digitale “I Girini” di poesia de Il Babi Editore.
Nella rubrica Parole a Capo abbiamo pubblicato altre sue poesie il 26/11/2020.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
TERRA 1
Le potenzialità generative della creta nella Psicoterapia Espressiva integrata all’Arte
Irpinia, scultura nella piazza di Conza Nuova, costruita dopo il terremoto del 1980
Nella stanza dei materiali un cartello dice “la terra può essere rigenerata con l’acqua”. Mesi più tardi ci sarà un’altra avvertenza d’uso: “La terra indurita può essere scolpita”.
Penso a mia madre che desiderava essere sepolta sotto terra perché “ questo è il processo naturale delle cose”, l’unico luogo che potesse accogliere il corpo.
L’anima, per lei che era credente, era un altro discorso.
Penso alla mia scoperta della creta tanti anni fa.
Maria Belfiore mi propone di manipolare un po’ di terra, così mentre parliamo, le mie mani si muovono accompagnando le parole, le pause, i ricordi, il dolore.
Le dita piegano, pressano, lisciano la terra e la terra asseconda i gesti e si piega, si comprime, si leviga.
Dal niente, nasce la mia prima scultura.
Oggi, so e posso dire, che non era dal niente. Quel mucchietto di terra conteneva già, in attesa, un potenziale generativo. L’intervento delle mie mani aveva liberato una forma tra tutte quelle possibili.
La terra si era permeata delle mie emozioni, docile e resistente a un tempo….
L’incontro con la creta ha dato origine ad una ricerca che mi ha messo in contatto con parti profonde e oscure della psiche. Ho avuto il riscontro che il toccare con mano la terra risveglia sentimenti arcaici e fondamentali.
Il mistero che vorrei svelare riguarda la potenza della creazione. Quel momento di pura creatività per cui da una massa scaturisce una forma che non è solo una immagine estetica, ma è un concentrato di emozioni, di energia, di vita.
Attraverso la creta, le mani e con esse il corpo che partecipa, la mente, immersa in una dimensione intima, atemporale e infinita, inizia un moto naturale, spontaneo, estasiato che genera l’opera artistica.
Solo successivamente, di fronte al proprio “capolavoro”, l’artista può guardarlo attentamente e cercare di decodificarlo.
L’argilla è un materiale concreto, tangibile che permette di usare la tridimensionalità. L’oggetto è un oggetto vero, non solo una rappresentazione, può essere esperito da più punti di vista, il fruitore vi può girare intorno, occupa uno spazio e questa valenza rafforza il senso di potenza.
La terra richiama il significato del procreare e quindi si collega imprescindibilmente con l’archetipo materno.
Inno a Iside
Perchéiosonocoleicheèprimaeultima
Iosonocoleicheèvenerataedisprezzata,
Iosonocoleicheèprostitutaesanta,
Iosonosposaevergine, Iosonomadreefiglia,
Iosonolebracciadimiamadre,
Iosonosterile,eppuresononumerosiimieifigli,
Innumerevoli sono le rappresentazioni della Dea Madre, del suo culto, del suo simbolismo e molto di tutto ciò che è legato al suo archetipo rimane e si svela. Pachamama, ad esempio,inArgentina,èoggettodivenerazioneancoraoggi.Ritornatainaugeperlequestioniecologicheambientalistiche,nelSuddelmondononhamaismessodiesserecelebrataconritiefeste,convivendoconaltretradizionipopolariereligiose. Ma è presente anche nel lavoro artistico e nel processo terapeutico quando la terra è lo strumento privilegiato per esprimersi.
Pachamama
Donna, terracotta di G. Tonioli
Contenitori
Ogni contenitore costruisce un confine tra interno ed esterno, tra dentro – ciò che è contenuto- ed esterno – ciò che racchiude. Creare dei confini è già un modo per strutturare l’esperienza e organizzare il mondo interiore.
Il Lacrimatoio
“Il lacrimatoio”, terracotta dipinta di A., 2020
A. non piange, anzi racconta le cose drammatiche vissute intercalandole con bellissimi sorrisi. “la sera, mi dice, quando nel silenzio e nel buio penso a quello che sto vivendo mi si inumidiscono gli occhi, ma, via via ! ci sono i figli e non bisogna farsi prendere dalla tristezza. Già alla prima telefonata mi aveva colpito la leggerezza e l’ironia con la quale mi accennava a traumi irreversibili che avevano sconvolto la sua vita. Ho pensato siamo lontane da una elaborazione che passa anche attraverso la rabbia e il pianto.
Nel tempo, approfondiamo la nostra relazione terapeutica.
Oggi sento che è il momento di usare la terra. Ne prende poca, comincia la sequenza dei gesti più consueti e spontanei, alla fine, il suo contenitore plasmato nell’incavo della mano decide che deve diventare prezioso. Pensa ai lapislazzuli e all’oro una combinazione elegante che le ricorda l’infanzia passata in Egitto e agli oggetti sacri. Non sa dire di più ma, al momento di salutarci, si ferma come presa da una illuminazione. Mi ricorda un lacrimatoio. Sorride.
Sin dall’antichità esistono i lacrimatoi, dei contenitori nei quali si raccolgono le lacrime. Il raccogliere le lacrime è giustificato dal fatto che esse segnano sempre un momento di passaggio e di rinnovamento che segna la fine di qualcosa, dunque aiutano a accettare una trasformazione.
La seduta successiva mi riferisce di aver pianto quel giorno stesso, ma proprio con tanto dolore. Penso gocce che testimoniano un disgelo, siamo arrivati al momento in cui può avere compassione di sé e autorizzarsi al dolore, alla perdita, alla paura.
Picasso, Vase deux anses hautes, 1953
Nidi,caverne,grotte
Sono spesso questi i temi preferiti dei bambini, ma compaiono di frequente anche nelle opere adulte. Partendo da una sfera compatta di argilla si arriva ad una forma che somiglia ad un trullo o un igloo, forme molto antiche di abitazioni umane. Spesso vi si arriva anche mediante lo scavo modellando un cumulo di terra e iniziando a forarlo alla base. Non è difficile pensare a queste costruzioni: case grotte tane nidi come rifugio, metafora del primo contenitore – l’utero.
Richiamano l’esperienza di “luogo sicuro”, privo di pericoli, il primo quello del ventre materno, e suggeriscono la ricerca, il desiderio, la necessità di trovare una nuova forma di contenimento per sé, fondamentale per un senso di sicurezza, protezione, appartenenza.
Essendo spazi che, oltre che accogliere, permettono il movimento opposto dell’andare fuori, sono anche simboli della nascita e riproducono l’uscita dalla vagina, o nelle prime esperienze infantili, l’andare fuori per la esplorazione e la conquista del proprio posto nel mondo.
A questo proposito, interessante a mio avviso è stata l’esperienza di un gruppo sul tema del trauma. In quella occasione avevo chiesto ai partecipanti di creare un’ immagine di ciò che intimamente poteva essere il proprio personale “luogo sicuro”. Tra le tante rappresentazioni realizzate, molte erano state fatte privilegiando, tra i vari materiali a disposizione, proprio la creta, e molte di esse erano grotte, contenitori o allegorie più esplicite a riferimenti materni.
La grotta, o il ventre materno, scultura di S. donna 33 anni
Bambino che manipola la creta per gioco
La mano, realizzata da G., uomo 49 anni
Buchi,varchi,passaggi
Sono anch’essi prodotti che spesso vengono realizzati intuitivamente. Nel concreto svolgono la funzione di una possibilità di attraversamento, di una situazione mediana tra due stati, tra due dimensioni.
Si potrebbe dire che in terapia sono la metafora del passaggio da una situazione conosciuta ad una ignota, da una vecchia ad una nuova. Corrisponde al processo trasformativo e non appare molto differente dalla simbologia delle molteplici morti e rinascite che la Terra comprende in sé nel suo ciclo vitale.
Pizze,focacce,torte
Sonoleformepiùfacilie spontanee durantelamanipolazionee rimandano in maniera molto diretta al cibo e al nutrimento.
La terra viene schiacciata, premuta, allungata. Si ripetono gesti antichi: quelli delle donne che impastano e trasformano i semi della terra in cibo.
Donna, 65 anni, pensionata
Uomo, 35 anni
I lavori presentati nelle figure sono decorati, impreziositi, ricchi. La cura e l’attenzione con cui sono stati realizzati suggeriscono l’ amorevolezza e la sollecitudine per l’ oggetto di tale dedica.
C’è molto di rituale in questo.
Conoscendo più da vicino la Terra come potenziale Madre che genera e protegge mi sono imbattuta però nella sua duplice natura in cui conflitti antichi vengono riproposti e cercano una conciliazione. La Madre e la Terra possiedono ambivalenze che sono imprescindibili e che permangono nei luoghi più reconditi della nostra mente antica: l’istinto di vita Eros, e l’istinto di morte Thanatos, (Freud).
Ma ciò sarà argomento di un prossimo secondo articolo sulla Terra.
In copertina:Albero di creta, rifugio di piccoli animali, realizzato da un giovane paziente.
Per leggere gli altri interventi della rubricaL’Arte che CuradiGiovanna Tonioli, clicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.
Bologna: Extinction Rebellion inizia uno sciopero della fame
Extinction Rebellion (XR) : Oggi, 27 settembre 2023, inizia uno sciopero della fame portato avanti da Emiliano, un attivista del movimento, ed esteso e allargato a chiunque ha deciso di appoggiare le motivazioni del gruppo.
A partire da questa data lə scioperanti si incontreranno tutti i pomeriggi dalle ore 17 alle ore 20 in Piazza Maggiore per chiedere alla Regione Emilia-Romagna di abbassare gli obiettivi di neutralità climatica dal 2050 al 2030 e indire un’Assemblea Cittadina regionale per elaborare le politiche eco-climatiche necessarie a realizzare questo impegno. Il gruppo si è organizzato chiedendo a cittadine e cittadini di aderire anche solo per un giorno allo sciopero finché la Regione non si impegnerà ad agire ora accogliendo le nostre richieste, perché non è la lotta di un giovane, ma è la lotta di tutta l’umanità.
“Sono Alessandro, padre di un figlio di 23 anni. Ho deciso di aderire allo sciopero della fame perché sono molto preoccupato del collasso climatico ed ecologico che stiamo attraversando. Per questo motivo ho fame di speranza, ho fame di un futuro per mio figlio e per tutti i ragazzi, i bambini, i giovani di questo mondo”.
Decine di cittadine e di cittadini di tutte le età e di tutti i territori della Regione sciopereranno insieme a Emiliano. Scioperano perché spaventatə dagli eventi estremi degli ultimi mesi. Scioperano perché consapevoli delle responsabilità che le istituzioni hanno avuto nel guidarci verso il collasso e le possibilità che avrebbero di salvarci, se solo si dotassero degli strumenti per farlo.
Le responsabilità della Regione Emilia-Romagna
Si è appena conclusa una delle estati più calde della storia dell’umanità. Quest’anno l’Emilia-Romagna si è trovata nella situazione apparentemente paradossale di dover fronteggiare gli effetti devastanti della siccità dopo aver passato gran parte della primavera del 2023 a fare i conti con le devastazioni delle alluvioni, che hanno causato la morte di 17 persone e oltre 22.000 sfollatə. Lə primə profughə prodottə dal cambiamento climatico nella storia della nostra regione.
Di fronte a questi scenari, per XR è essenziale che le istituzioni regionali agiscano attraverso politiche eco-climatiche elaborate con la partecipazione dei cittadini e delle cittadine della regione.
Abbiamo potuto osservare il potenziale distruttivo delle alluvioni primaverili favorite da una cementificazione scellerata del suolo frutto di politiche che hanno ignorato l’alto rischio idro-geologico del nostro territorio: infatti, nonostante la legge regionale 24/2017 affermi di contrastare la cementificazione, l’Emilia- Romagna continua a essere la terza regione in Italia per consumo di suolo, e la prima per quanto riguarda le aree a rischio alluvione. Inoltre, come segnalato dal Prof. Paolo Pileri su altreconomia, il 7 agosto scorso la delibera 1407 della Giunta regionale ha dispensato le autorità comunali dal dover ricorrere al parere dell’Agenzia ambientale regionale (Arpae) sulle valutazioni ambientale strategiche dei loro piani urbanistici. Un’altra dimostrazione dell’inconsistenza delle politiche ecologiche della Regione Emilia-Romagna.
Il “Patto per il Lavoro e per il Clima” si è rivelato un guscio vuoto: mancando di una chiara formulazione sia di obiettivi intermedi che di investimenti specifici e risorse finalizzate al raggiungimento del 100% di energie rinnovabili al 2035.
Senza questi indicatori è impossibile monitorare l’attuazione dei propositi del Patto, che sono in aperta contraddizione con le grandi opere ad alto impatto ambientale, come l’allargamento del sistema autostradale-tangenziale a Bologna (il Passante di Mezzo) e il rigassificatore di Ravenna, avviate col consenso delle autorità Regionali, nonostante l’opposizione di più di settanta associazioni ecologiste regionali che fanno parte della Rete per l’Emergenza Climatica ed Ambientale dell’Emilia-Romagna.
La nostra determinazione
Dispostə a privarci del cibo, abbiamo fame di giustizia climatica, prontə a entrare in azione per fermare la violenza di questo sistema capace di generare ed esacerbare le disuguaglianze. Abbiamo fame di democrazia: l’Assemblea Cittadina regionale rappresenta un’opportunità per ri-politicizzare le comunità, un laboratorio per elaborare politiche serie ed efficaci partendo dalla scienza e da un coinvolgimento reale di cittadini e cittadine. Abbiamo fame di vita e di futuro.
Laddove la politica continua a mettere in pericolo le nostre vite, noi continueremo a ribellarci all’estinzione con i nostri corpi. Extinction Rebellion, con il supporto di tutte lə cittadinə che hanno aderito e aderiranno, continuerà lo sciopero finché la Regione non agirà.
Extinction Rebellion – Bologna
In copertina: Un precedente sciopero della fame di Extinction Rebellion (foto di Pasquale Pagano)
Papa Francesco denuncia il commercio delle armi dietro la guerra in Ucraina e si batte per trattativa e per la pace. Il presidente brasiliano Lula propone ai leader mondiali un incontro ad alto livello per rimettere al centro dell’agenda politica. La sinistra europea, che dovrebbe avere un ruolo trainante, continua a tacere.
Le nette parole di Papa Francesco dovrebbero spingere la sinistra europea a chiedersi se sta davvero agendo in modo coerente con i suoi principi morali. L’Europa dovrebbe essere un faro di pace e giustizia nel mondo, e la sinistra europea ha un ruolo cruciale in questo contesto.
Nel panorama politico europeo, una voce che sembra essersi persa negli ultimi anni è quella della sinistra europea. Mentre un tempo questa corrente politica aveva un forte impegno verso la pace e la giustizia sociale, oggi sembra essersi smarrita. Un recente intervento del Papa Francesco ha messo in evidenza una mancanza di dibattito e di azione che la sinistra europea avrebbe dovuto intraprendere da tempo.
Il Papa ha pronunciato parole di grande significato durante una conferenza stampa a bordo del volo papale, mentre si discuteva della guerra in Ucraina. Ha detto: “Questa guerra è un po’ interessata non solo dal problema russo e ucraino ma per vendere le armi, il commercio delle armi”, e ha aggiunto che “gli investimenti che danno più redditi sono le fabbriche di armi, cioè le fabbriche di morte”.
Queste parole del Pontefice sono un richiamo potente all’indignazione morale contro il commercio delle armi, una questione che sembra essere caduta nell’oblio nei discorsi della sinistra europea.
In passato, la sinistra europea era spesso una voce chiave nell’impegno per la pace. Tuttavia, negli ultimi anni, sembra essersi allontanata da questa lotta cruciale.
Mentre Papa Francesco solleva la questione del commercio delle armi e dell’uso indiscriminato di queste armi in conflitti come quello in Ucraina, la sinistra europea sembra aver perso il suo impegno e la sua voce su questo tema.
Le parole del Papa sono un richiamo alla responsabilità morale di tutti i leader dei governi europei. Ha affermato a proposito della guerra in Ucraina: “Non dobbiamo giocare col martirio di questo popolo”.
Le nette parole di Papa Francesco dovrebbero spingere la sinistra europea a chiedersi se sta davvero agendo in modo coerente con i suoi principi morali. L’Europa potrebbe essere un faro di pace e giustizia nel mondo, e la sinistra europea ha un ruolo cruciale in questo contesto.
La sinistra europea dovrebbe ascoltare queste parole e riflettere sulle sue priorità e sul suo ruolo nella promozione di un mondo migliore. La questione del commercio delle armi è una questione centrale e la sinistra europea dovrebbe tornare a sollevarla con forza nella sua agenda politica.
E invece? Si fa continuamente scavalcare da Papa Francesco. Un Papa che, nei fatti, riprende in mano con la mitezza francescana quelli che erano gli ideali e le parole d’ordine dei grandi e compianti leader della sinistra europea del secolo scorso: Willy Brandt, Olof Palme, Sandro Pertini, Enrico Berlinguer.
Questo Papa attinge a piena mani dalla grande tradizione pacifista di don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira, padre Ernesto Balducci, don Tonino Bello, don Primo Mazzolari. Una tradizione che a suo tempo incalzò non solo la Chiesa ma anche la sinistra a prendere posizione in modo meno ambiguo e più deciso sul tema dell’obiezione di coscienza alla guerra.
In un momento critico in cui il conflitto in Ucraina continua a infliggere sofferenze a un popolo innocente, che sta sacrificando decine di migliaia di persone in una controffensiva sanguinosissima, è fondamentale che i leader europei e mondiali che condividono un impegno per la pace si uniscano per cercare soluzioni diplomatiche e porre fine a questa tragedia.
L’invito a un incontro di alto livello, guidato dal presidente brasiliano Lula, potrebbe rappresentare un passo importante verso la promozione della pace in Ucraina.
Il mondo guarda ora a questi leader per dimostrare che la diplomazia e la cooperazione internazionale possono prevalere sul conflitto armato e sulla sofferenza umana. La speranza è che, attraverso il dialogo e l’impegno congiunto, si possa aprire una strada verso la pace.
Sinistra europea, se ci sei batti un colpo e sostieni gli sforzi di pace del Papa, del presidente brasiliano Lula e dei leader africani.
Nota: Questo intervento è già uscito, con altro titolo, sul sitoPeacelink
In copertina: Trattativa. foto tratta da www.pace.it
Vite di carta.La terra sbagliata dello scrittore albanese Gazmend Kapllani.
Di ogni libro che si legge bisognerebbe poter parlare con qualcuno. Oggi vorrei che Maria, mia compagna nel recente viaggio dentro il Festivaletteratura 2023 a Mantova, potesse essere qui e discutere con me del libro che Gazmend Kapllani ha presentato nella bella cornice di Santa Barbara giovedì 7 settembre.
E vorrei scrivere a Simonetta Bitasi che ha gestito l’incontro con Kapllani e con l’autrice italo-bosniaca Elvira Mujčić, per dirle che mi è servita la chiave di lettura da lei suggerita, anche se nel corso della lettura ho dovuto ridefinirne i confini semantici.
Mi è stato utile cominciare La terra sbagliata aspettandomi un romanzo politico: è vero che la politica e la storia dell’Albania escono in primo piano a un certo punto del racconto, dopo un inizio dedicato alla vicenda personale di Karl, che da emigrato torna a casa per il funerale del padre dopo molti anni di lontananza, e della sua famiglia che invece è rimasta tenacemente legata al sortilegio della città natale, Ters (in albanese con due accezioni di significato, “sortilegio” e più in negativo “malocchio”).
Il romanzo racconta la massiccia emigrazione albanese seguita alla caduta del regime comunista negli anni Novanta, quando gli studenti di Tirana in segno di protesta occuparono le università e uccisero la dittatura facendo a pezzi la statua diEnver Hoxha.
Tra questi ragazzi c’è Karl. Si trova Karl anche tra i tanti che in seguito partirono dall’Albania per materializzare i loro sogni di libertà, andando in Europa, America, Australia, ovunque potessero, o nella vicina Grecia come accade al nostro protagonista.
Il romanzo mette a fuoco molto bene anche la visione del mondo della sua famiglia rimasta a Ters, del padre e del fratello, la cui voce emerge alla fine di buona parte dei capitoli. In caratteri corsivi si leggono le parole di Frederik , la sua dissonanza rispetto alle scelte di Karl, la cui vita è andata avanti in altri paesi (dopo la Grecia, l’America), con altre donne a fianco, con il bagaglio delle lingue straniere imparate che si è accresciuto facendo lievitare in lui una identità aperta e sempre problematica.
Nella stessa pagina in cui Karl decide di fuggire dalla schiavitù a cui la dittatura ha ridotto gli albanesi e rinfaccia al padre la sua ortodossia comunista, il fratello prende la parola per ricordargli gli insegnamenti paterni sulla importanza delle radici, della famiglia e della nazione. Due modi contrapposti di rapportarsi al proprio paese, alla origine di sé e al futuro.
A questo punto ho dovuto ripensare al significato di romanzo “politico” e includervi una accezione di più vasta portata e una che porta lo zoom narrativo su una scala decisamente più ridotta, di carattere personale e intimo. La prima va riferita all’orizzonte più ampio e generale, quello del sistema mondo in cui la migrazione di individui e popoli è da sempre un carattere costitutivo, frutto e causa di squilibri e ri-categorizzazioni degli assetti geopolitici.
“L’essere umano vive in un complesso equilibrio tra noto e ignoto, tra necessità di un radicamento e voglia di partire, di cambiare la propria situazione, di ribellarsi a un passato che non lo definisce più. Persino il più tradizionalista degli uomini, se guardasse al proprio albero genealogico, alla costituzione del proprio DNA, scoprirebbe di essere il frutto di una qualche migrazione”: mi soccorrono le parole che trovo nella postfazione scritta dai due traduttori del romanzo, Ermal Rrena, emigrato da Tirana proprio come Karl nel 1991, e la milanese Rossella Monaco.
I quali aggiungono: “Accade che emigrare è un lavoro: presuppone visione, speranza, impegno, fatica, obblighi, in vista di una vita migliore… Ma emigrare è anche un diritto, specie – aggiungo io – quando coloro che partono fuggono da un paese che disattende i caratteri della polis e si fa terra di diritti calpestati e di guerre.
Nella parabola di vita di Karl questa prima accezione che potrei definire ecumenica si intreccia con l’altra, più intima e personale del figlio in lotta col proprio padre. “Nello scontro generazionale… si ritrova tutta la forza politica delle decisioni umane. Il figlio non comprende lo sforzo di costruzione del padre e il punto di vista del fratello che ha finito per incarnare quello del genitore. Il padre e il fratello non comprendono la sua volontà di definirsi attraverso l’incontro con l’altro“.
Allontanandosi dalla terra sbagliata ha trovato coordinate esistenziali più autentiche, come la donna che ha amato dalla giovinezza, perduta e poi miracolosamente ritrovata, e come il mestiere dello scrittore.
Quando torna per due settimane a Ters per il funerale del padre rivela a se stesso che nulla è davvero cambiato: le sue scelte confermate, la contrapposizione con la fissità della vita del fratello confermata e resa ancora più netta. Al nazionalismo di Frederik che concepisce le proprie radici soltanto in senso geografico e culturale, Karl risponde con altre radici, dal significato più ampio, esistenziale.
Se Maria fosse qui condividerei con lei un’ultima frase molto bella in cui Rrena e Monaco parlano della difficoltà del tradurre e di ogni lingua come scrigno fluido e pulsante di una visione del mondo. La frase è questa: “nella traduzione convivono… l’incontro e lo scontro, l’impossibilità di dire la stessa identica cosa in lingue diverse, la volontà di avvicinarsi ai significati, alla musica, ai ritmi, alle immagini che fanno di un popolo quel che è. Di aprirsi invece di imporsi. Di lasciar andare invece di afferrare”.
Nota bibliografica:
Gazmend Kapllani, La terra sbagliata, Del Vecchio Editore, 2022 (traduzione di Ermal Rrena e Rossella Monaco)
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
Aspettavo con emozione i due concerti che si sono tenuti al Teatro Comunale di Ferrara diretti dal maestro Gatti che, perseguendo un progetto triennale di esecuzione delle sinfonie beethoveniane, avrebbe diretto la Quarta e la Quinta e due giorni dopo la Seconda e la Sesta. Per il teatro ferrarese una convalida della qualità delle scelte e quindi l’importanza del cartellone.
Arriva la sera della prima esecuzione. Indosso la giacchetta di rito e aspetto l’apertura dell’atrio. Attorno tante persone che mi salutano affettuosamente, altre che mi guardano con aria complice come a dire «Io c’ero!», mentre nascondo le emozioni e la preoccupazione di non ricordarmi di qualcuno di loro.
I musicisti prendono posto ed esplode l’incipit della Quarta sinfonia. La memoria si mette in moto e sull’onda della musica si spalancano le porte dei ricordi. Poi, dopo il passeggio dell’intervallo, mentre ostinatamente tengo la mascherina consigliata dal medico tra gli sguardi furbetti di chi irride la misura, si ritorna tutti in sala per ascoltare la Sinfonia forse più famosa del mondo.
Gatti ne dà un’esecuzione foscoliana, quasi gridata, mentre vorticosamente la memoria mi trasporta a Bellosguardo, a Firenze, quando, dalla finestra della mia camera, osservavo il rifugio foscoliano e immaginavo il fulvo poeta mentre declama impetuoso l’inno
«- Te beata, gridai, per le felici aure pregne di vita, e pe’ lavacri che da’ suoi gioghi a te versa Apennino! Lieta dell’aer tua veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli per vendemmia festanti, e le convalli popolate di case e d’oliveti mille di fiori al ciel mandano incensi»
Così, a mio avviso, nella esecuzione del Maestro Gatti, la Quinta assume toni decisamente foscoliani e i toni -per proseguire il parallelo con la letteratura – più leopardiani o manzoniani rimangono un sussurro.
La domenica pomeriggio seduto in platea tra amici conosciuti o meno, dopo l’intervallo che mi produce ancora dubbi e perplessità su chi salutare o chi riconoscere o meno, si apre il palco di proscenio ed entrano due ragazzi con casco in testa sui dieci anni accompagnati da un’affascinante signora che tiene in braccio un pupo di due-tre anni.
Probabilmente parenti dei musicisti. Appena le prime note della Sesta si diffondono, il pupo comincia a balbettare e a tendere le mani al padre che avrà riconosciuto tra gli orchestrali. Una scena di una dolcezza straordinaria. Tutta la fisicità di chi riesce a trasformare corpi, fiati, capelli e piedi in un sogno perfetto, che è la vera conoscenza, si trasferiscono in quel gesto e dagli occhi non più abituati mi scendono le lacrime.
Il ritorno alla realtà si rivela però di una bruschezza inaudita. Mentre le ultime note, quasi sospirate, stanno per finire, un improvviso bisogno mi scuote. Ah! Come siamo ‘fragili’.
Corro spostando i vicini di posto mentre esultano. Mi precipito fuori ma – hélas! – il bagno è chiuso. Trasvolo gli spettatori uscenti e mi precipito quasi in agonia nell’albergo dei miei amici. Mi guardano perplessi, indicano il bagno e mi chiedono se voglio un aperitivo.
No grazie e rifiuto a malincuore. Poi mestamente m’avvio a casa accolto trionfalmente dai rimbombi della costruzione del garage e dalle urla ormai consuete di chi vi lavora dentro.
Un bel contrappasso!
Ma finiranno mai questi lavori? Boh! Se non lo sanno loro. Se fossi nelle macchine comincerei a preoccuparmi.
Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturiclicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Abbiamo un ricordo di Don Milani nelle sue attività topiche di prete antimilitarista, di maestro dei poveri, di critico dell’educazione, ma ci rendiamo conto che non abbiamo molte testimonianze dirette della sua opera quotidiana di persona.
Nelle numerose pubblicazioni che giustamente celebrano i 100 anni dalla nascita del priore di Barbiana ci viene incontro questo libro pubblicato da Dissensi e scritto da Sandra Passerotti in base alla testimonianza di Fabio Fabbiani: Non bestemmiare il tempo, l’ultimo insegnamento di Don Milani.
Il libro, racconta l’autrice/curatrice, ha una genesi particolare, un libro pubblicato in Francia prima che in Italia, un libro scritto a due mani, fino alla morte di Fabio nel 2017, sull’esigenza di lasciare un ricordo alle nuove generazioni di una realtà che ancora il mondo non ha accettato pienamente. Un libro scritto da persone e non da professionisti della letteratura.
Al proliferare di scuole intitolate a Don Milani non ha corrisposto una reale e profonda comprensione del messaggio pedagogico di Barbiana e meno che mai la sua applicazione nella pedagogia contemporanea.
In questo senso alcuni dei messaggi pedagogici essenziali sono perfettamente leggibili in un libro scritto in forma di diario da Fabio, allievo tardivo, direi dell’ultima generazione che vive il declino fisico ma non spirituale di Don Lorenzo, soffre con lui per la tremenda ingiustizia di un processo che ci appare dolorosamente anacronistico.
Barbiana è concretamente la scuola degli ultimi, basata sulla carità cristiana e sul riscatto del popolo; è la scuola che si fa insieme, esaltata dalla figura carismatica ma sempre accogliente del priore; è la scuola che prende posizione contro l’ingiustizia, che scrive ai potenti, che si ribella contro l’ordine stabilito.
Il libro dà testimonianza di tutto questo e lo fa con gli occhi di un ragazzo che riscopre il piacere dello studio, di quello vero, alieno dai programmi ministeriali e dalle convenzioni pedagogiche del momento; un ragazzo che fa del suo riscatto educativo una bandiera positiva, una concreta realizzazione dell’ i care.
Leggere questo libro, scritto con l’amore per il compagno, per i nipoti e per l’Umanità da Sandra, riporta alla mente quel mondo, ancora così attuale, delle aspirazioni per una rivoluzione profonda, sociale, spirituale che ha animato le migliori menti del XX secolo e lo ha reso, oltre che un secolo di tragedie, anche un secolo di grandi ispirazioni che è necessario ricordare e opportuno mettere in pratica.
Nota: questo articolo è già uscito nei giorni scorsi su pressenza
Il Dragone d’oro per il miglior lungometraggio a “Sweetwater”, dedicato alla vita di Nat Clifton. Miglior docu “Sisters of Ukraine”, la guerra vista con gli occhi delle suore che aiutano i profughi
Sabato 24 settembre si è conclusa l’ottava edizione del Ferrara Film Festival, “un grande successo dal punto di vista mediatico e qualitativo”, dice Maximilian Law, Direttore Artistico del Festival. “Abbiamo avuto una partecipazione tre volte superiore a quella del 2022, sfiorando le 30mila presenze tra proiezioni, eventi e convegni che si sono susseguiti tra Teatro Nuovo e Cine Village. Il livello dei film proiettati e degli ospiti arrivati al Festival si è alzato moltissimo, basti pensare a Giancarlo Giannini a cui è stato assegnato il Dragone D’Oro alla Carriera, a Manuela Arcuri, Edoardo Leo, Stefano Fresi, Jeremy Piven, Martin Guigui, Kevin Reynolds, Martina Stella, Daniele Taddei e ai tantissimi ospiti italiani e internazionali. Questa edizione svolta in una nuova “casa” ci ha portato più al centro della città, ed è stata una chiave vincente. È un ottimo presupposto per fare un’edizione 2024 ancora più di successo”.
Due le giurie che hanno avuto il compito di assegnare i Golden Dragons di questa edizione: la Giuria Principale, presieduta da Daniele Taddei, Amministratore degli Stabilimenti Cinematografici Studios e composta da Martina Stella, Francesco Montanari, Luca Ribuoli (regista di Speravo de morì prima, La mafia uccide solo d’estate e di Call My Agent), Nicoletta Ercole (costumista che ha curato per oltre 150 film per cinema e televisione, membro dell’Academy Awards – Oscar – e degli EFA – European Film Academy), Tonino Zera (scenografo di Il primo re, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, Vallanzasca – Gli angeli del male, e vincitore del premio Campari Passion For Film alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per il film The Palace di Roman Polanski) e Roberto Rocco (fotografo e direttore della fotografia di Angelo nero, Un bacio nel buio e Beauty Centre); la Giuria FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) che ha invece giudicato i cortometraggi formata dal Presidente Lorenzo Caravello (Presidente Fedic) e da Laura Biggi (Consigliere nazionale Fedic e Responsabile Fedic Scuola), Gianluca Castellini (Consigliere nazionale Fedic e Direttore di Sedicicorto Film Festival di Forlì), Maurizio Villani (Presidente Cineclub Fedic Ferrara) e Roberto Fontanelli (Vice Presidente Cineclub Fedic Ferrara).
Ecco i vincitori dei Golden Dragon Awards e le dichiarazioni dei premiati.
Premiere Event 2023 – Best Feature Film: “Sweetwater”, di Martin Guigui,con Everett Osborne, Jeremy Piven, Cary Elwes.
Nat ‘Sweetwater’ Clifton entra nella storia come il primo afroamericano a firmare un contratto NBA, cambiando per sempre il modo in cui si gioca il basket.
“A Ferrara ho passato dei momenti incredibili. Sono davvero onorato che il pubblico e la giuria abbiano apprezzato il film nella sua interezza. Non vedo l’ora di tornare, perché il Festival è stata per me un’esperienza eccezionale”. Jeremy Piven
“Da italiano è un onore ricevere questo premio per un film come Sweetwater. Sapere di essere tra gli italiani che hanno avuto un riconoscimento a livello mondiale mi riempie di enorme soddisfazione e orgoglio”. Massimo Zeri, Direttore della fotografia
Premiere Autore 2023 – Best Feature Film: Tre Storie In Bottiglia, di Giuseppe Gandini con Massimo Olcese, Ignazio Oliva, Christian Borromeo
In una magica ‘enoteca’ le bottiglie di vino raccontano storie. Due avventori e l’Oste assaggiano tre vini diversi e, magicamente, tre storie iniziano a intrecciarsi lentamente.
“Questo premio dimostra che “nemo profeta in patria” non è sempre per forza un detto valido. Devo davvero ringraziare tutti quelli che mi hanno sempre supportato, in particolare la mia famiglia. Tutti coloro che hanno lavorato al film lo hanno fatto con serietà e professionalità come si fa nelle più grandi produzioni. Speriamo che questo sia il primo passo perché il film possa essere presto in distribuzione”. Massimo Gandini
Best Director of Feature Film 2023: Martin Guigui, per Sweetwater
Regista, produttore, produttore esecutivo, sceneggiatore e compositore di musica per film e televisione. Tra i suoi film: 11 settembre: Senza scampo (2017), The Bronx Bull (2016), Beneath the Darkness (2012), My X-Girlfriend’s Wedding Reception (2001).
Best Lead Actor in Feature Film 2023: Massimo Olcese, per Tre Storie In Bottiglia, di Giuseppe Gandini
Attore e comico genovese lo ricordiamo in A.N.I.M.A. (2019), Rapiscimi (2019), Infernet (2016), Ti stimo fratello (2012).
“Sono molto emozionato di ricevere questo premio, che è il primo che ricevo nel ruolo di attore. Devo ringraziare Giuseppe Gandini e tutti gli attori giovani e alcuni alla loro prima esperienza, perché sono stati bravissimi”. Massimo Olcese
Best Lead Actress in Feature Film 2023 – Premio Lyda Borelli: Lucrezia Lante Della Rovere, per L’incantevole Lucrezia Borgia
Il racconto “pop” del regista Carlo Alberto Biazzi dedicato alla vita della nobildonna estense, tra le donne più controverse della storia. Nel film Lucrezia Lante della Rovere racconta la storia di Lucrezia Borgia come la più grande telenovela del Rinascimento. Inseguita da voci e pettegolezzi, Lucrezia vive tra favola e l’incubo.
Premiere Docu 2023 – Best Feature Film: Sisters Of Ukraine, di Mike Dorsey
Due volontari di Barcellona si recano in un convento nell’Ucraina Occidentale dove le suore stanno aiutando i rifugiati dopo l’invasione russa.
Best Soundtrack 2023 – Premio Radio Bruno: Sweetwater
La colonna sonora del film vincitore spazia dal jazz al blues al rock’n’roll.
Best Short Film Director 2023: Luca Maria Piccolo, per Soluzione Fisiologica, con Stefano Accorsi
Il regista si dedica in particolare alla scrittura e alla regia di cortometraggi. Nel 2019 ha vinto il premio Solinas alla migliore sceneggiatura con “Arrusi”. Nel 2021 è assistente alla regia di Ferzan Özpetek e Gianluca Mazzella per la serie TV “Le Fate Ignoranti”. Il film racconta quella che sembra un’ordinaria telefonata tra un uomo e un sex worker, ma che nasconde un intento ben più complesso. Un gesto di profonda comprensione. Un atto di amore incondizionato.
Premiere Event 2023 – Best Short Film – Premio “Weshort”: The Screens, di Erik Champney, con Harvey Lipman, Randy Borruso
Un paziente di un ospedale psichiatrico familiarizza con uno sconosciuto visitatore e capisce che potrebbero condividere una inquietante connessione.
Premiere Autore 2023 – Best Short Film: Midnight Ride, di Alessandro Farrattini Pojani, con Nancy Farino, Alessandro Maria Rossi, Matthew Coulton
Un fattorino italiano spacciatore di droga ricorre alla rapina in un locale di burrito nel sud di Londra dopo che gli sono stati rubati la bicicletta e la droga, senza sapere che potrebbe essere lui a essere preso in giro per tutto il tempo.
Il Ferrara Film Festival è realizzato con il sostegno del Comune di Ferrara, Regione Emilia-Romagna, Ministero Della Cultura, Renault Italia, Mercatorum, Italo, OroPuro Caffè, Archivio Vittorio Cini e il sostegno di UNICEF Italia nel settore umanitario. Riuscita la partnership con Studios, rappresentata durante il Festival dai Gianluca Melillo Muto in qualità di Managing Partner.
Martina Stella, foto in copertina, e altre foto della premiazione di Valerio Pazzi
Saudade per Antonio Tabucchi. Un compleanno in assenza (per i suoi 80 anni)
C’è uno strano testo disperso di Tabucchi che si intitola Lettera a un editore (non inviata). Lo scrittore si chiedeva cosa mai potessero pensare di lui in un paese (il Portogallo) che, pur essendo stato fondamentale nella sua vita professionale e privata (basti ricordare i suoi anni di insegnamento della Letteratura portoghese nelle università italiane, e il fatto che sua moglie,Maria José de Lancastre, appartiene ad una nobile famiglia portoghese), non era la sua terra nativa, e rifletteva sui complessi codici di appartenenza che ci legano al mondo che ci circonda.
Insoddisfatto delle due categorie più evidenti, secondo le quali o si è autoctoni o si è stranieri, ne evocava una terza, suggeritagli dal termine portoghese di estranjerado con il quale vengono chiamati i portoghesi che vivono altrove e tornano a casa solo per le vacanze. Sono persone che non sono né autoctone né straniere, più o meno come lo era lui in Portogallo: autoctono per vocazione, ma straniero per nascita.
E questo nonostante il forte amore per il Portogallo, di cui aveva mirabilmente studiato la letteratura, mentre si sentiva a disagio nel paese natio: l’Italia neo-fascista e berlusconiana, che non si era mai stancato di stigmatizzare, al punto che – per una serie di circostanze – avrebbe finito per allontanarsene scegliendo di vivere piuttosto in Portogallo e in Francia.
Era estanjerado dunque anche in Italia, per l’Italia (dalla quale comunque non avrebbe potuto sradicarsi mai e di cui portava con sé dovunque quanto più contava, la lingua) mentre, per ovvi motivi, non poteva dirsi autoctono negli altri due paesi prescelti. Apparteneva a tutti e tre, e allo stesso tempo per ciascuno dei tre era dislocato altrove: estranjerado dovunque, mentre per cultura, passione, predilezione, perfino per lingua,era insieme italiano, portoghese e francese.
Insomma Tabucchi è stato un grande scrittore europeo, in un’Europa che non aveva (e non ha ancora) saputo/voluto abbattere le frontiere creando una comune societas. Ma chissà che questa mancanza di collocazione non abbia contribuito a nutrire, almeno in parte, la sua inquietudine, facendo di lui un intellettuale esemplare, il modello di quello che si può chiedere a un’arte narrativa in grado di unire maestria tecnica e impegno, invenzione e capacità di segnalare in modo lieve (come si conviene alla vera gravitas) un profondo turbamento esistenziale. In questo, e non solo in questo, insomma, il nostro autore era maestro, perfetto figlio di un secolo che si era avviato a Parigi, in anni nei quali negli altri paesi mancava – e sarebbe a lungo mancata – la libertà.
“Gli scrittori devono avere due paesi, quello al quale appartengono e quello nel quale vivono realmente”, ha scritto Geltrude Stein nel suo Paris France.
Tabucchi di paesi ne aveva tre, ma diversamente da quanto scriveva la Stein (“Il secondo è ‘romanesque’, è separato da loro, non è reale, anche se è realmente là”), nessuno dei suoi era ‘romanesque‘, nessuno era separato da lui, ognuno era reale, anche se non era ‘realmente là’. Ma come sappiamo, la saudade – parola e malattia lusitana tanto cara ai suoi personaggi, alle atmosfere dei suoi racconti e romanzi – si nutre anche di questo.
Non è un caso allora che Tabucchi abbia scelto a proprio nume tutelare un poeta alloglotta e moltiplicato per eteronimi come Pessoa, che tramite un “baule pieno di gente” ha dato voce all’altro da sé realizzando la struttura cubica e ortogonale di una diffrazione della personalità.
Uno scrittore che ha scritto che “Tutto è noi e noi siamo tutto”, aggiungendo “ma a che serve questo, se tutto è niente?”, e che ha sostenuto che “la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (è da qui che nasce non solo il tabucchiano Elogio della letteratura che apre il postumo Di tutto resta un poco – la sua splendida raccolta di saggi -, ma la conclusione: “Trovate un uomo a cui la vita basti: costui non farà mai letteratura”).
Il trascorrere da un luogo all’altro, da una patria all’altra (fino a vivere e a morire altrove, in quel Portogallo dove adesso riposa accanto ai grandi scrittori portoghesi), sono diventati un modo per tradurre nel quotidiano la transitabilità non solo della vita ma dell’arte.
Alla percezione di irreversibile e nostalgia, e al desiderio dominante di essere altrove, Tabucchi ha dato parola letteraria inventando storie nelle quali gli spostamenti, gli interscambi di città (Pisa, Roma, Parigi, Lisbona, Madrid…) e di personaggi sono frequenti, dove in definitiva a dominare è l’eterotopia, cioè un tempo (per definizione inafferrabile) che si concretizza in uno spazio tangibile che ricava però dalla sua singolare genesi una sorta di straniata consistenza.
Gli spazi della narrativa tabucchiana, benché localizzabili (anche se spesso è difficile essere veramente sicuri che ci si trovi in un luogo preciso) sono luoghi fuori dai luoghi, luoghi ripetibili, duplicabili, quasi anonimi. Gli incontri più significativi tra i suoi personaggi avvengono sui treni, negli scompartimenti ferroviari, nelle stazioni, negli ospedali, nei caffè, nelle biblioteche, nei musei.
A dominare è l’effetto specchio, che moltiplica l’io, lo confonde con l’altro, anche nel luogo che Foucault ha considerato eterotopico per eccellenza: il cimitero. Un luogo dove il tempo si accumula mentre perde la sua identità (come avviene anche nelle biblioteche e nei musei)e dove è possibile mantenere un contatto con l’assenza; un luogo dove, come nello specchio, si riflette ciò che non esiste ma che ci assomiglia e a cui si continua a dare un nome.
Il passaggio dall’eterotopia all’eterocronia diventa allora possibile; i tempi, i luoghi si sovrappongono, così come la partenza e il ritorno. Tutto si condensa e cerca significato nel luogo-non luogo ossimorico per eccellenza che domina l’inizio di uno dei suoi romanzi più belli (Requiem) e la città di Lisbona: il Cemitério dos Prazeres.
A moltiplicarsi ogni volta per i tanti suoi lettori, in ogni paese, in ogni lingua, è la suggestione della scrittura: quanto fa leggere e induce a tornare a rileggere i suoi libri (da Notturno indiano a Sostiene Pereira, dal Gioco del rovescio a Tristano muore, dalla profetica Testa perduta a Si sta facendo sempre più tardi…), trovandoli ogni volta diversi, ricchi di piste che avevamo perduto e/o dimenticato, sempre pronti come sono, quei libri, a divertire, ad appassionare, a sollecitare turbamenti e domande, non solo sulla finzione, ma sulla vita, sul suo destino, sul suo senso.
Inaugurato il 28 aprile del 1877, Stamford Bridge è uno degli impianti sportivi più antichi del Regno Unito, nonché il primo e finora unico stadio nella storia del Chelsea Football Club. Tuttavia, il proprietario fondiario di Stamford Bridge non è lo stesso Chelsea, bensì un’organizzazione non profit creata nel 1993 e composta perlopiù da tifosi dei Blues: una sorta di azionariato popolare che, oltre alla suddetta proprietà, detiene anche i diritti di denominazione del club londinese. L’organizzazione in questione, cioè la Chelsea Pitch Owners, fu istituita dall’ex presidente del club Ken Bates al termine di una vicenda legale che mise a rischio il futuro di Stamford Bridge, sul cui terreno, se non fosse stato per lo stesso Bates, sarebbe sorto probabilmente un elegante complesso residenziale.
Cominciamo dall’inizio di questa vicenda, cioè dal fatto che il già citato Ken Bates, proprietario e presidente del Chelsea dal 1982 al 2003, non riuscì ad acquistare la proprietà fondiaria di Stamford Bridge dal suo predecessore Brian Mears, il quale si ostinò a non venderla. Senonché, nel 1984 lo stesso Brian Mears trasferì quella proprietà alla società di sviluppo immobiliare Marler Estates in cambio di un milione delle sue azioni: una cessione che, dati gli interessi della stessa società, non prometteva nulla di buono per il Chelsea e per il suo stadio. Pochi mesi più tardi, infatti, il presidente della Marler Estates ottenne il via libera dal consiglio distrettuale di Hammersmith e Fulham alla riduzione di Stamford Bridge, il quale, stando a tale progetto, sarebbe dovuto diventare “uno stadio molto più piccolo e compatto”. Insomma, la situazione apparve piuttosto critica, e nel 1986 il club londinese lanciò la campagna “Save the Bridge“ allo scopo di sensibilizzare i tifosi e raccogliere 15 milioni di sterline, cioè il prezzo al quale sarebbe stato possibile riacquistare la proprietà fondiaria del suo stadio.
Nel frattempo, il Chelsea continuava a usufruire di Stamford Bridge in leasing, cioè quello concesso a Bates nell’atto di cessione del 1982. Tuttavia, quell’accordo sarebbe scaduto nel 1989 e, in virtù della vendita effettuata da Brian Mears, il Chelsea avrebbe dovuto rinegoziarlo non più con il suo ex presidente, ma bensì con la Marler Estates. Data la difficoltà di questa trattativa, la strategia di Bates fu piuttosto chiara: esasperare l’avversario attraverso una serie di piccole dispute legali e, di conseguenza, guadagnare sempre più tempo. Sta di fatto che nel 1989 la Marler Estates cedette la proprietà fondiaria di Stamford Bridge a un’altra società di sviluppo immobiliare, la quale presentò immediatamente un avviso di sfratto al Chelsea: si trattava della Cabra Estates, i cui legali dovettero anch’essi scontrarsi con la tenacia di Ken Bates. Stando a quanto dichiarato dall’avvocato che affiancò lo stesso Bates, quest’ultimo si aggrappò a una clausola secondo la quale il Chelsea avrebbe avuto il permesso di riqualificare Stamford Bridge – e quindi di prolungare la sua permanenza in tale stadio – nel caso in cui avesse portato a termine i lavori di ristrutturazione avviati nella prima metà degli anni ’70. Così, in un modo o nell’altro, il club londinese cercò più volte di dimostrare che avrebbe concluso quei lavori.
Il punto di svolta dell’intera vicenda arrivò nel 1992: il Regno Unito entrò in recessione, il mercato immobiliare subì una forte crisi e, nel giro di pochi mesi, la Cabra Estates fu costretta ad avviare la procedura di liquidazione del suo patrimonio. La Royal Bank of Scotland assunse il controllo della proprietà fondiaria di Stamford Bridge, e il 15 dicembre di quello stesso anno raggiunse un accordo con il Chelsea: oltre al rinnovo ventennale del leasing, il club inglese riuscì a ottenere un’opzione di acquisto fissata a 5 milioni di sterline. Di lì a breve, Bates trasferì tale opzione alla neonata Chelsea Pitch Owners al fine di evitare ulteriori “convivenze” con proprietari o investitori esterni, e nel dicembre del 1997 la stessa organizzazione non profit acquistò la proprietà di Stamford Bridge grazie a un prestito erogato proprio dal Chelsea, il quale ottenne in cambio l’utilizzo dello stadio in leasing per i successivi 199 anni.
Il risultato di tutto ciò è che adesso i tifosi dei Blues possono decidere le sorti di quello che, da più di vent’anni, è a tutti gli effetti il loro stadio. Al momento, sono state vendute circa 22.000 partecipazioni azionarie della Chelsea Pitch Owners, e per acquistarne una basta compilare un semplice modulo in PDF che è scaricabile dal sito ufficiale del club[Qui].
Leggendo queste frasi poetiche si riescono a cogliere contemporaneamente sia il silenzio della solitudine che la melodia della speranza. Si avverte la ricerca della meditazione come percorso che può attraversare il dolore conseguente al senso di colpa per arrivare ad una sorta di redenzione. Mauro Presini
La scuola di umanità
di H. J.
Solitudine, isolamento, dolore, soffrire nel silenzio. Nessun maggior dolore che ricordarsi dei tempi felici nella miseria.
L’esperienza porta consapevolezza. Il mondo ha sete di valori veri.
Il canto della liberazione, la capacità di ascolto, la semplicità, l’umiltà, la pazienza che apre il cuore dell’anima.
L’umile insegnamento della pace.
Ansia, nausea, confusione, disillusione, disperazione… lì sembra di aver già consumato la vita senza mai trovare la pace.
Vivere la prigione come una Redenzione. Una perfetta dose di sofferenza. Le tenebre del giorno cercano un senso. Sognare di riparare il misfatto. Essere pieno di progetti per domani, nonostante il dolore e la perdita.
La triste condizione è la mancanza di ideali e valori.
Umiliato e confuso, nel suo cuore non c’è traccia di risentimento, perché non giudica nessuno.
In ogni situazione della vita, anche la più negativa, è nascosta la via per un’altra via; per dimenticare la via del male. Cercare la felicità.
Qualcuno ha odio verso la sua persona, egli non odia l’altro.
Un fuoco nero lo consuma, si sente stanco a fare nulla.
Quello che è deprimente è l’inazione perpetua.
La solitudine di ogni momento.
Seduto a guardare il nulla.
Malinconia, angoscia, monotonia, promiscuità.
Non ha più una vita intima.
Gli manca la famiglia e l’odore della terra bagnata con l’acqua del mattino.
Si sente perso nel deserto del cuore umano.
Cover: un’ opera di un detenuto nelle carceri di Ferrara
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A Gaia Tortora il Premio Estense 2023, edizione dei record. Federico Rampini si aggiudica il prestigioso riconoscimento Gianni Granzotto. Sgarbi: “il premio più democratico d’Italia”.
Sembra esserci davvero tutta la città in un Teatro Comunale elegante e scintillante, insieme al gotha del giornalismo italiano e all’imprenditoria di una regione innovatrice e produttiva, che dalle grandi difficolta esce sempre a testa alta. Proprio come “Testa alta, e avanti”, di Gaia Tortora, che vince la 59° l’edizione del Premio Estense, l’edizione dei record. Record per il numero dei libri candidati, ben 69, per le presenze, anche di tanti giovani, per la sua giuria popolare che dibatte, sullo stesso piano, con una giuria tecnica prestigiosa, ribaltando, a volte, ogni pronostico. Il che lo rende “il premio più democratico in Italia”, sottolinea Vittorio Sgarbi nel suo intervento in chiusura delle votazioni.
I membri della giuria tecnica sono: Alberto Faustini, Michele Brambilla, Luigi Contu, Tiziana Ferrario, Paolo Garimberti, Jas Gawronski, Giordano Bruno Guerri, Agnese Pini, Venanzio Postiglione, Alessandra Sardoni e Luciano Tancredi.
Il filo conduttore di questa scelta, è la memoria, ricorda Alberto Faustini, presidente della giuria tecnica, al momento del dibattito per le votazioni. La vicenda di Enzo Tortora, la donna dimenticata di Marcello Sorgi, il racconto dell’anno fondamentale della storia italiana (il 1922) di Ezio Mauro e dei traditori che ci sono stati, e ancora ci sono, in Italia, fin dallo sbarco alleato del 1943, di Paolo Borrometi.
Il dibattito far le due giurie sarà intenso e acceso. Ricco, appassionato, coinvolgente, emozionante. Un testa a testa fino alle fine, il vincitore decretato dopo cinque votazioni, quasi un ex aequo (peraltro invocato da due finalisti che, per la prima volta nella storia del premio, hanno “fatto irruzione” nella sala dei votanti dalla vicina sala al ridotto del Teatro da cui osservavano la discussione).
Emerge subito l’importanza di come la storia vada fermata sulle e nelle pagine, indagata, capita, sviscerata, compresa e raccontata. “Sono ancora troppi i misteri italiani, spesso coperti dal segreto di stato. Il cittadino ha diritto di sapere”, sottolinea Tiziana Ferrario. Temi attuali, come il “cancel culture” ante litteram della scrittrice Mura, avvolta da una misoginia che riporta alla triste cronaca dei nostri giorni.
La storia della bolognese Maria Assunta Volpi Nannipieri, in arte Mura, raccontata da Marcello Sorgi, che riuscì vendere, in un paese illetterato, fino a un milione di copie scrivendo romanzi di letteratura rosa con un pizzico di erotismo, tollerato dal regime, in quanto era stata anche a lungo la fidanzata del giornalista Alessandro Chiavolini, racconta tutto il cortocircuito della censura fascista, la sua contraddittorietà. Il suo romanzo, “Sambadù amore negro”, del 1934, la mise al bando, in fondo, solo per la copertina che raffigurava una donna bianca abbandonata tra le braccia di un uomo di colore. Nessuno lesse il libro, al centro della lotta intestina ai vertici del regime, fra Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, e il potente capo della polizia Bocchi.
Il libro di Ezio Mauro viene, da qualcuno, definito “perfetto”: è didattico, perfetto per le scuole, ha una scrittura eccellente, lineare e non barocca, segue il metodo del cronista. Misurato dal numero delle suole e dei taccuini consumati, il cronista indaga, ripercorre i luoghi in cui si sono consumati i fatti. Ed Ezio Mauro ha sempre fatto questo, come con il racconto della caduta dei Romanov. Per “L’anno del fascismo. 1922. Cronache della marcia su Roma” ha effettuato ricerche accurate negli archivi di stato, spulciato testimonianze, cercato le storie, come solo lui è in grado di fare, definito “retroscenista” dei fatti. Comunicandosi emozioni, nell’indifferenza italiana, in un “paese ipnotizzato”, incapace di capire dove tanta violenza avrebbe portato.
Il libro di Paolo Borrometi, invece, racconta dei traditori del nostro paese, di chi si è servito dello Stato ma anche dei tanti eroi che hanno servito lo Stato. Un disegno inquietante non ancora compreso né completo. L’importanza di portare alla luce e parlare di quest’ombra e lato oscuro del paese, per sapere, ricordare e non dimenticare, viene sottolineata da una giovane studentessa del liceo cittadino Dosso Dossi. Lei è Elisa Rizzi è ed è andata a Milano, a piazza Fontana. Ha letto, studiato, cercato di sapere e di capire. Anche grazie alla sua professoressa. Alcuni giurati ammettono, altri forse solo lo pensano, vorrebbero avere una figlia o una nipote così. C’è speranza, penso io, fra me e me.
Agnese Pini non esita a supportare il libro di Gaia Tortora. Si tratta di “una memoria familiare che diventa collettiva”, sottolinea, “non un errore giudiziario ma un orrore giudiziario. E poi rimette in questione il ruolo di certa stampa”, quella sensazionalistica, che non esita a condannare prima di ogni sentenza. “In questa vicenda si legge tutta l’epicità della condanna degli innocenti, narrata dal Vangelo fino a Dante”, conclude, “una storia intima, vista e raccontata dagli occhi di una quattordicenne, impegnata, nel giorno dell’arresto plateale del padre, nel suo esame di terza media”. Un padre assente ma che, a causa del carcere, è diventato presente. Un carcere che sapeva la verità. “Perché nel carcere” dirà Gaia al momento del ritiro del premio, “tutti sanno la verità, appena entri”.
Jas Gawronski fa una emozionante confessione, un mea culpa sincero, quello di avere avuto qualche dubbio di fronte a un Enzo Tortora in manette.
Molti di noi ricordano quel viso attonito e incredulo, noi che guardavamo Portobello, che avevano nelle nostre camerette il gioco in scatola che riproduceva quel mercatino televisivo, un gioco compagno di tante domeniche spensierate.
Personalmente dubbi non ne ho mai avuti. Un processo mediatico terribile e spietato, invece, aveva deciso ancora prima di ogni sentenza di tribunale. Una gogna, la gogna. La mia memoria va, d’istinto, a Raul Gardini, a Maureen Kearney del recente film, “La verità secondo Maureen K.”, di Jean-Paul Salomé, a “Il penitente” di David Mamet.
Il libro di Gaia – una biografia emotiva come ricorda Faustini, perché il giornalismo è anche emozione, – è scorrevole, la scrittura è lieve, c’è amarezza ma non ci sono odio né rancore; del sistema, non è tutto da buttare, questa donna coraggiosa continua a credere nella democrazia e nella giustizia. Incredibile, ma vero. Meritava di vincere.
“Nel mio cuore considero la vittoria al fotofinish con il mio amico Paolo Borrometi un ex aequo, sono due libri che raccontano la storia d’Italia seguendo filoni paralleli, sui quali ci sarebbe ancora molto da dire. Dedico questo riconoscimento a quella ragazza di terza media e quindi ai ragazzi delle scuole e delle carceri dove continuo ad andare, soprattutto in quelle minorili. Vorrei che i ragazzi, attraverso il mio libro, comprendessero che giudicare subito è sbagliato e che utilizzassero la loro testa per farsi una propria idea”. Gaia Tortora
Il 39° “Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione”è stato assegnato aFederico Rampini, editorialista del “Corriere della Sera” e già corrispondente de “la Repubblica” da New York dal 2009. Giornalista dal 1979, Rampini è stato vicedirettore del “Sole 24 Ore” e inviato e corrispondente da Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino. Ha insegnato nelle università di Berkeley, Shanghai e in Bocconi. Lo ritira ricordando l’amico Andrea Purgatori, che lo aveva vinto nel 2020.
I sensi
Non sono
Più opachi
Quella patina
Che attutiva
E feriva
Il mio gusto
Della vita
Si è dipanata
Le ferite
Però
Non vanno
Mai a dormire
Proseguono nei sogni
Nel profondo sonno
Il loro salasso
Di energie
Lo sento
Avverto i miei cali
Improvvisi
E progressivi
La vista
Sul baratro
Tuttavia
Non mi dà
Vertigini
Preferisco
Il cielo
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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“La Comune di Ferrara” scende in campo: un’affollata assemblea di cittadine e cittadini. Con la voglia di contare.
Possiamo definirla un successo di critica e di pubblico l’Assemblea organizzata da LA COMUNE DI FERRARA alla Sala macchine della Factory Grisù tenutasi il mattimo di ier1, sabato 23 settembre 2023. La partecipazione ha superato le 100 presenze.Tanti i giovani e giovanissimi.
Si è trattato di una esperienza nuova, inedita per Ferrara: nei contenuti come nei metodi.
Il gruppo di cittadine e cittadine che ha dato vita a LA COMUNE DI FERRARA non ha proposto una piattaforma elettorale preconfezionata, ma alcuni spunti di discussione, alcune idee su cosa fare per promuovere una Ferrara meno povera, più verde, più democratica, più inclusiva.
Alessio Papa, “il custode del tempo”
Presentato anche il sito www.lacomunediferrara.it (ora visitabile da tutti).
Nel sito tutti i temi sono declinati al futuro: brevi testi raccontano “un dopo”, nel quale un cambiamento si è realizzato. Una visione utopica, distopica o fantascientifica? Un Libro dei sogni? No, hanno detto gli organizzatori, ma solo un modo di concentrarci sul radicale cambio di rotta che, dopo le elezioni del prossimo giugno, il nuovo governo di Ferrara dovrà prendere, assumendo scelte politiche coraggiose da verificare passo per passo con la cittadinanza di Ferrara.
Il sito verrà aggiornato nei prossimi giorni con i contributi emersi dall’Assemblea di oggi.
Tra le cittadine e i cittadini, ci sono anche le bambine e i bambini. Anche loro hanno partecipato: giocando e lavorando per immaginare una “città gentile”.
Divisi in piccoli gruppi per dare a tutti la possibilità di esprimersi ed ascoltarsi, ci si è chiesti quali qualità e caratteristiche deve avere un candidato/a sindaco/a e quali caratteristica dovrebbe avere una campagna elettorale innovativa che interessi veramente le persone e le coinvolga.
“Presto – precisa Anna Zonari, portavoce de La Comune di Ferrara – verranno resi noti i prossimi passi e appuntamenti.”.
La Comune di Ferrara Per aderire e per proporre idee e contributi: info@lacomunediferrara.it
Altri scatti della Assemblea partecipata:
Foto di Valerio Pazzi e Andrea Firrinceli
In copertina: la città pensata dai bambini e dalle bambine. In evidenza: la scuola, la caserma dei pompieri e tanto verde.
Autonomia differenziata, la secessione dei ricchi.
Intervista al prof. Gianfranco Viesti dell’Università di Bari sul SECESSIONE .
di Roberta Lisi
pubblicato su Collettiva il 19.09.2024
Parlamento esautorato, cittadini e cittadine confusi da una spessa cortina fumogena innalzata. Per non parlare delle reali conseguenze che l’approvazione del disegno di legge sull’autonomia differenziata condiviso da tutto il governo porterebbe con sé. Dall’imposizione fiscale nazionale arriverebbero più soldi a quei territori che storicamente hanno già ricevuto di più, e che pretendono anche di diventare proprietari delle parti di infrastrutture nazionali che risiedono sui propri territori. Lo sostiene l’economista dell’Università di Bari Gianfranco Viesti, che ha da poco dato alle stampe il volume Contro la secessione dei ricchi edito da Laterza. Diritti esigibili a seconda di dove si risiede, fine del contratto collettivo nazionale e indebolimento delle tutele e dei diritti di lavoratori e lavoratrici.
Il presidente del Veneto Zaia sostiene che affermare che l’autonomia differenziata sarebbe la secessione dei ricchi significa non avere argomenti per contrastare. Lei, professore, argomenta in un intero libro questo concetto. Ci spiega?
L’atteggiamento assolutamente prevalente dei sostenitori dell’autonomia regionale differenziata è quello di negare qualsiasi confronto nel merito. È l’intelligente tentativo politico di tenere la materia oscura, il meno comprensibile possibile per i cittadini e le cittadine fino all’approvazione delle intese fra il governo e le regioni. Perché appena si comincia a discutere del merito, delle competenze, dei meccanismi economici e delle conseguenze che può provocare, diventano evidenti gli enormi problemi che questo processo può provocare. L’autonomia differenziata del ddl Calderoli e le conseguenti richieste di Lombardia e Veneto sono talmente negative da meritarsi il termine di secessioniste.
Ci illustra perché?
Per due principali motivi. Il primo è la straordinaria ampiezza delle competenze richieste. Quelle di Veneto e Lombardia non sono delle proposte serie, mirate a organizzare meglio il riparto delle competenze tra Stato e Regione. Sono delle proposte tutte politiche: l’atteggiamento delle due Regioni è quello di chiederle tutte le materie possibili. Se venissero concesse tutte queste competenze si tratterebbe di una secessione di fatto. L’Italia, unico Paese al mondo, avrebbe al suo interno delle regioni-Stato in grado di governare da sole tutte le principali politiche pubbliche. Ma comodamente sarebbero parte di un Paese componente dell’Unione europea e della Nato. Non avrebbero, cioè, problemi di politica estera e di politica monetaria, ma sarebbero totalmente sovrani al proprio interno.
E poi?
Il secondo motivo per cui si tratta di richieste di tipo secessioniste è ciò che esse postulano: i cittadini che vivono in quelle regioni devono essere trattati meglio dei cittadini che vivono nelle altre. Tra le richieste di entrambe le regioni, infatti, quella di ottenere molte più risorse dal bilancio italiano di quelle che oggi vengono spese all’interno del loro territorio, per usarle come meglio credono, senza vincoli di destinazione. Le risorse del bilancio dello Stato, è bene ricordare, derivano dalla tassazione nazionale, cioè lo Stato tassa e le Regioni possono spendere questi soldi come meglio credono. Stabilire per principio che alcuni cittadini italiani, per il fatto di vivere in una certa regione, debbano essere trattati meglio di altri è, a mio avviso, un atteggiamento secessionista che mira a dividere su diversi livelli di diritti delle cittadine e dei cittadini italiani.
L’autonomia differenziata era stata subordinata all’approvazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. A questo fine era stata istituita una commissione, ma mi pare di capire che essa si sia perlomeno arenata. Alcuni dei suoi componenti si sono dimessi sostenendo non ci fossero le condizioni per portare a termine il compito assegnato. Cosa è successo?
L’attuale maggioranza, per rendere formalmente più digeribile questo processo secessionista agli occhi degli italiani, e soprattutto per non perdere voti nelle regioni del Centro-Sud, ha alzato una spessa cortina di fumo e cioè ha cominciato a parlare di Lep. I livelli essenziali delle prestazioni, nonostante il nome non adatto, sono un pezzo fondamentale del nostro contratto sociale nazionale: sono i diritti che devono essere riconosciuti a tutti i cittadini italiani, indipendentemente da dove vivono, quindi sono importantissimi. L’iniziativa del governo è solo fumo negli occhi perché mira esclusivamente a definirli, ma solo definirli non serve, devono essere finanziati e poi raggiunti. Non c’è assolutamente nulla nella proposta del governo che parli di finanziamento e di raggiungimento dei livelli essenziali, anzi è previsto che tutta l’operazione sia a costo zero per la finanza pubblica. E siccome sarebbe davvero esagerato pensare che in seguito a questa definizione dei livelli si spenda più al Centro-Sud e meno proprio nelle regioni più forti, è del tutto evidente che si tratti esclusivamente di una cortina fumogena. Insomma, definire i livelli essenziali è importante, è importante soprattutto però misurarli, finanziarli e stabilire dei percorsi per raggiungerli.
E peraltro abbiamo l’esempio dei Lea in sanità.
Esattamente. I Lea sono la definizione dei diritti in materia di prevenzione, di servizi territoriali e di servizi ospedalieri di cui tutti i cittadini e le cittadine dovrebbero godere. Sono definiti in maniera molto dettagliata, ma non sono finanziati. Ogni anno il ministero della Salute li misura e certifica che non sono raggiunti nella maggioranza delle regioni, soprattutto in quelle del Sud, ma a seguito della misurazione non succede assolutamente niente. Quindi sono un indicatore utile per capire la situazione, ma certamente non sono uno strumento di alcuna utilità per cambiare.
C’è chi afferma che per finanziare i Lep basterebbe fare riferimento alla spesa storica utilizzata fin qui per finanziare i diritti nelle varie regioni. Cosa non va nell’assumere la spesa storica come parametro di riferimento per l’autonomia differenziata?
Tarare i diritti sulla spesa storica significa fotografare le disparità esistenti, perché la spesa storica non nasce da una misurazione dei bisogni e dei diritti. E non lo dico solo io, l’Ufficio parlamentare di Bilancio l’ha scritto in atti ufficiali. Insomma, Veneto e Lombardia vogliono una cosa molto semplice: un trattamento da regioni a statuto speciale che ruota attorno al concetto di aliquota di compartecipazione, che sostanzialmente si traduce nel fatto che a queste regioni in futuro si offriranno molte più risorse rispetto a oggi. Non solo. C’è ulteriore richiesta di queste regioni, e su questo si è aggiunta anche la Puglia, di cui non abbiamo nessunissima notizia: quella di avere pezzi del patrimonio pubblico nazionale. In sostanza l’autostrada del sole fino al ponte sul Po diventerebbe di proprietà della Lombardia. Mi pare, se questo dovesse diventare realtà, il simbolo del crollo dell’unità nazionale
Il ddl Calderoli rischia di portare con sé un ulteriore elemento di frattura del Paese. Con l’autonomia nel campo dell’istruzione e della sanità, si rischierebbe di vedere saltare il contratto collettivo nazionale di lavoro per lavoratori lavoratrici di questi settori?
Assolutamente sì. Questa è una delle conseguenze che potrebbero produrre le richieste di Lombardia e Veneto.
Vorrei però dire in premessa che dobbiamo smettere di chiamarlo col nome di Calderoli, il ddl è stato approvato all’unanimità dal governo è quindi è più corretto chiamarlo disegno di legge Meloni. Insomma credo che sia bene richiamare alla loro responsabilità anche gli uomini e le donne di Fratelli di Italia. È il governo Meloni che sta proponendo al Parlamento di suicidarsi, cioè di votare un percorso per la concessione dell’autonomia che impedisce al luogo della rappresentanza e della sovranità popolare di discutere. Poi, per stare al merito della domanda, tra le conseguenze dell’eventuale scellerata concessione alle regioni dell’autonomia in materia di istruzione e sanità, oltre che alla regionalizzazione della scuola e la definitiva morte del servizio sanitario nazionale, una delle tante importanti conseguenze di queste eventuali decisioni sarebbe un abbattimento molto forte dei diritti e dei poteri dei lavoratori e delle lavoratrici. La regionalizzazione comporterebbe la fine, non solo del contratto collettivo nazionale, ma anche della tutela che i lavoratori e le lavoratrici riescono ad avere dall’azione sindacale nazionale. Trovo veramente sorprendente che uno dei tre sindacati confederali nazionali non si accorga di questo e sia dall’inizio completamente silente su questo tema dell’autonomia differenziata, visto che farebbe un enorme danno anche alla sua attività di rappresentanza. Mi sto riferendo, naturalmente, alla Cisl.
Ma tutto questo che lei ci ha raccontato cosa c’entra con l’articolo 5 della Costituzione?
Dobbiamo premettere che tutto questo che vi ho raccontato non è che una piccola parte dei problemi a cui andremo incontro se il disegno del governo si realizzasse. Molti costituzionalisti sostengono che le due cose non si tengono: ovviamente la Corte costituzionale non può essere chiamata a una valutazione prima dell’approvazione del testo. Non solo, intelligentemente i sostenitori dell’autonomia differenziata hanno fatto attenzione per evitare bocciature preventive, tutte le specifiche norme attuative saranno emanate attraverso decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. Quindi chiamare in causa la Corte costituzionale potrebbe essere molto tardi rispetto a un processo che, quando avviato, difficilmente potrà essere fermato. Occorre fare di tutto per evitare che questo processo parta, nessuna autonomia differenziata deve essere concessa in tale contesto politico. Bisogna soprattutto raccontarlo alle cittadine e ai cittadini italiani del Nord, del Centro e del Sud che non sanno niente di questa storia e che invece dovrebbero essere perfettamente informati. A essere danneggiati non sarebbero solo i cittadini del Sud, ma quelli di tutto il Paese.
Il mattone e la calcina
Nei cortili dei muratori
E l’albero della mattina
Quando cominciano i lavori
E tu guardi com’è di fuori
Dove va sui tetti viola
La debole nube bambina
E odi la voce sola
Di un uccello dai vuoti prati
Dove sono ritornati
Fiori tante volte morti.
(Franco Fortini, Tutte le poesie, Ebook, Mondadori, Milano 2015, 207).
Ferrara: novità fatta di verità antiche (Interbooks, Padova 1991) è il libro scritto da Carlo Bassi nel quale, nei panni del moderatore, egli racconta di un dibattito immaginario a Palazzo Crema, durato ben quattro giornate, tra i maestri muratori del passato che operarono nella nostra città tracciandone la forma.
Tra essi egli ricorda dapprima Pietrobono Brasavola come muratore-capomastro, ingegnere ducale, che lavorò a Ferrara nel 1400. Autore della seconda addizione di Borso, Brasavola fu l’inventore delle baldresche: “strutture molto ardite che permettevano di avere al piano terreno le aree più libere” e una loggia rialzata sopra come a Casa Romei e in via Vecchie.
Carlo Bassi ricorda poi Biagio Rossetti, che con il Palazzo Roverella, costruito ad appena otto anni dalla sua morte, scriveva con i cotti, le pietre e il marmo, “una pagina straordinaria di sapienza architettonica, di competenza grafica, di cultura plastica”, intendendo così ribaltare l’opinione dei più accaniti critici del tempo che lo definivano “un grezzo muratore”.
L’immagine di un architetto-muratore può apparire un’indebita commistione, quasi un ossimoro, tanto che verrebbe da dire: a ciascuno il suo. E tuttavia gli antichi maestri muratori la pensavano diversamente. Progettare era, al tempo stesso, edificare, un fare insieme alle maestranze, un praticare quanto disegnato sulla carta.
Fu grazie a questa prossimità, a quest’amalgama, avvolgendosi della cultura, delle storie e dei problemi della città, che ne sortì come un’alchimia, qualcosa di nuovo e nuove più ampie prospettive che si addizionarono all’antico.
Così il rinnovamento della città andava fabbricandosi proprio dall’immergersi fin nelle fondamenta, nelle sue verità e carte più antiche, come ricorda il titolo dell’opera di Carlo Bassi.
Genius loci
Per l’architetto Carlo Bassi fu questa continua frequentazione del Genius loci della città, calcando le orme degli antichi e del loro sentire plurale – interdisciplinare diremmo oggi – e pure sinottico, a plasmare la sua forma mentis et cordis.
Il dialogo di Carlo con l’“intelletto amoroso” dei maestri del passato che diede forma a Ferrara generò in lui l’orientamento convinto a pensare diversamente l’architettura, come fosse un itinerario: partendo dall’architettura per arrivare alla poesia, come disse in un’intervista a Telestense: “vorrei che l’architettura fosse percepita come poesia”.
Il Genius loci di una città, il suo DNA, si esprime infatti con il linguaggio poetico; è “quella quidditas segreta, quel pathos e quel sentire nascosti che dimorano nei luoghi, nei vissuti stratificati degli ambienti – così mi scriveva in una lettera (22.20. 2013) – è ciò che fa di una architettura e di un luogo un avvenimento unico, irrepetibile” (ivi).
È quell’attitudine, il Genius loci, a ‘con-venire’, a ‘col-laborare’, intenti a custodire, innovare ed edificare insieme leggendo le varie stratificazioni, “la verità del luogo” che permane integro, che rende una città “radiosa e magnetica” nonostante i mutamenti del tempo e della storia.
La scrittura stessa di Carlo nelle sue lettere testimonia uno stile grafico che ispira immagini poetiche. Una volta gli risposi così: “Assomigliano le tue lettere ad una architettura marina, permettimi questa immagine di stagione. Aprendo la tua lettera sul tavolo mi sembra infatti di vedere un tratto di mare: onde eleganti che si rincorrono tranquille, la tua scrittura azzurrina, andante e un poco mossa” (14.07.2014).
Non è certo una questione puramente estetica, quella di arrivare alla poesia attraverso l’architettura per renderla semplicemente bella: è un’istanza etica quella che nasconde: perché scoprire il tracciato poetico nascosto porta alla luce i mondi e i vissuti abitati di una città, di una chiesa, di una via o di un monumento, porta all’incontro con i suoi umanesimi, con la sua socialità e religiosità, le segrete aspirazioni.
Pensare all’architettura come a una fedeltà a cose future anzi, eterne
In un’altra lettera mi scriveva: “Quello di cui sono certo è che alla fine due sono stati nella mia vita professionale i temi centrali ai quali ho dedicato tutta la mia passione: lo spazio sacro per gli uomini di oggi e la lettura della città fuori dagli schemi per catturarne la poesia. Perché è la poesia il fine ultimo di queste mie passioni…
È a Milano la chiesa che è il mio riferimento, Gli Angeli custodi, commissionata allo studio Bassi-Boschetti, dopo quella esperienza esaltante ci sono state quelle di Buccinasco, di Malcantone, di Saronno ,di Melzo, di Limbiate, tutte oggetto di una passione indicibile.
Mi piace dire: “Signore, lo zelo per la tua casa mi consuma” (Sal 69, 10). Come mi piace pensare all’architettura come “sostanza di cose sperate”, che è la definizione della fede nella Lettera degli Ebrei” (09.10.2013). Ma lo sperare credendo non è la sostanza stessa di ogni poesia, di ogni umana attesa, fosse anche la più disperata?
Nella stessa lettera egli cita poi la parola di un autore sudamericano: “la disperanza”, come figura sintetica del suo stato d’animo in quel momento: “I due significati di speranza e disperazione si alternano nell’arco della giornata e tengono il mio animo in tensione. Ma fino a quando?”(ivi).
Non sorprende allora che nell’introduzione di Roberto Pazzi a Perché Ferrara è bella. Guida alla comprensione della città (Corbo, Ferrara 1994, XII) si legga: «Carlo Bassi si è imbarcato sull’eternità della sua città, costruendo questa mappa della navigazione delle sue forme, apparentemente affidata alle leggi scientifiche dell’architettura, in verità arresa alla poesia».
Una visione senza alcun dubbio poetica
Nella Nota al testo di Perché Ferrara è bella lo stesso Carlo Bassi precisa: «questa visione di assieme ci consente di renderci conto di come alla fine tutto si tenga e di come le ‘geometrie’ che siamo andati scoprendo, e che sono a nostro avviso uno dei motivi segreti che fanno Ferrara bella, siano sostanza intrinseca alla complessa realtà dei suoi stessi spazi.
Sono tutti segni specifici, visibili, di una realtà urbana che non è solo un esempio eminente ed universalmente citato di urbanistica rinascimentale, ma essa stessa poesia, se affidiamo a questa parola magica anche il dominio sull’architettura della città concepita come compiuta struttura di pensiero.
Allo stesso modo della grande pittura dei Maestri dell’Officina, della universalità dell’Ottava d’Oro di Ludovico Ariosto, della sofferta carica esistenziale del poetare di Torquato Tasso e della proustiana narrazione della città entro le sue mura del romanzo di Giorgio Bassani…
Le varie parti dell’organismo urbano, infatti, sono analizzate secondo un metodo che è proprio delle indagini urbanistiche vere e proprie, anche se con attenzioni molto sofisticate, ma che si è voluto deliberatamente caricare di amorosi sensi attraverso l’approfondimento di frammenti di un discorso urbano capace di intense suggestioni esistenziali.
Frammenti che abbiamo chiamato “luoghi”, identificandoli come concentrazioni di qualità poetica e come momenti di attenzione e di attrazione psicologica ed esistenziale che hanno coinvolto la nostra personale esperienza» (ivi, XVI).
Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simili
Il centenario della nascita di Carlo Bassi, l’anno stesso della sua consorte Paola Ferraresi, è stato venerdì 15 settembre. E sabato 16 nella chiesa del monastero delle Clarisse al Corpus Domini ho celebrato l’eucaristia con i parenti e gli amici. È una chiesa a misura di Paola, diceva Carlo, perché la poesia di quel luogo era tutt’uno con la preghiera; lì lo spirito di Francesco, Chiara e Caterina de Vigri erano riuniti in un unico abbraccio con tutta la città, la sua storia, la sua arte, la sua poetica.
Mi trovavo a commentare il vangelo del giorno: «Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile. È simile a un uomo, un architetto che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia».
Una parabola che in Luca serve a mostrare il vero discepolo: facitore e non solo editore della parola e, parallelamente, in Matteo conclude il discorso di Gesù sul monte, quello delle beatitudini, che costituiscono la rivelazione del suo progetto di umanità nuova, il ribaltamento delle sorti e destini umani.
Sono le ultime ma decisive istruzioni ai discepoli per realizzare la costruzione dell’uomo interiore, di colui che si rinnova di giorno in giorno perché, non solo ascolta, ma vive praticando la novità del vangelo. Colui che pratica/ospita la parola, come chi ospita l’umanità dell’altro, è simile a colui che edifica la sua vita scavando molto profondo e ponendo la sua umanità come una casa sulla roccia: su quella roccia che è l’umanità del Cristo.
Pensavo a Carlo ed ho visto nel racconto evangelico una sintonia con il suo pensiero non solo per il fatto di un uomo che vuole costruire una casa. Così come non basta lo studio dell’architettura, l’apprenderne la scienza, ma occorre giungere alla poesia a quel processo che nel praticarla le dà vita e la realizza nel suo senso più profondo, come un sentire e abitare pienamente l’umano.
Allo stesso modo il discepolo, se ascolta la Parola ma non la vive, resta senza fondamento, costruisce un edificio pericolante, esposto agli eventi minacciosi, perché è mancante di quella relazione unitiva che porta fin nell’intimo del vangelo ne rivela la sostanza di cose sperate e che si raggiunge solo se questo diventa la tua stessa casa.
Anche nel discorso delle beatitudini si potrebbe così rilevare un’architettura poetica. Le beatitudini sono il farsi della parola, l’incarnarsi, il divenire e venire di Gesù parola di Dio nella nostra umanità, “Verbo incarnato delle umane genti”: Gesù come la poesia umana di Dio.
Con uno sguardo amoroso
L’architettura poetica, che è quel fare con la vita, l’edificarsi in vita concreta, scaturisce da uno sguardo generato da un “intelletto amoroso”, l’espressione è di Carlo, sguardo di comprensione e di pietà, quel disegnare, progettare che non rimane sulla carta ma che diventa vita per gli altri, avvolta nella cultura dalla storia della città e delle persone.
Carlo Bassi desiderava così che nella descrizione urbanistica vi entrassero i “romanzi” delle vite delle persone, le loro vicende; che essa interagisse con l’ambiente vitale, raccogliendo il passato per scrutare il futuro vivendo il presente.
Il vangelo è il progetto di Dio sulla carta, ma realizzato nella vita di Gesù. Scritto nel suo corpo, il vangelo è anche il progetto urbanistico della città futura, affidato agli uomini e alle donne amati da Dio: quello della nuova Gerusalemme, continuato attraverso il dono dello Spirito lungo la storia e in ogni luogo fino ai confini della terra.
In particolare le beatitudini nascono dall’intelligenza e sentire poetici di Gesù, perché scaturiscono dal suo intellectus amoris, dall’intelligenza del suo cuore trafitto e aperto per aver preso su di sè e condiviso fino in fondo i destini e le vite degli uomini e delle donne delle beatitudini per ribaltarne le sorti, per intraprendere con loro la costruzione della casa di Dio tra gli uomini: una cattedrale vivente.
Il pensiero va così a quella iniziata dall’architetto spagnolo Antoni Gaudì, una cattedrale ancora in corso d’opera, con i cantieri aperti. Parimenti anche il vangelo è architettura in divenire mai finita e affidata a noi come la Sagrada Familia. Gaudí si ispirò alle grandi cattedrali gotiche e simbolicamente voleva ripercorrere la vita di Gesù di nuovo tra noi sulla terra, tanto che le tre facciate dovevano rappresentare la Natività, la Passione e la Gloria.
I sette muratori
Sabato scorso, al termine della celebrazione, in sacrestia, il figlio di Carlo, Paolomi ha fatto dono di una poesia di Franco Fortini come ricordo del centenario dei suoi genitori, dicendomi che era un testo molto caro a Carlo, frequentato e meditato spesso.
La poesia inizia con un imperativo: E tu pregali, i sette muratori.
Pietro Cardelli redattore della rivista on line di poesia e poetica formavera e fondatore del collettivo Liberamente, ha studiato l’uso dell’imperativo negli scritti di Fortini, questo modo verbale è riconosciuto come uno dei suoi elementi stilistici più ricorrenti e distintivi.
Viene usato in quelle frasi in cui si vuole modificare una situazione esistente, attraverso un ordine, un consiglio, un’esortazione o un’invocazione, una preghiera. Ed è il nostro testo una supplica all’azione, a lasciar spiragli in ciò che è murato, prima nel testo poi nella realtà, fessure proprio dentro la morte, un passante alla vita.
Il sentire poetico diventa forza dell’agire, sua vibrante espressione, impulso al movimento a favore di chi sta con le spalle al muro come chi muore. Ai sette muratori si chiede di lasciare spiragli di vita, perché almeno passi la sostanza di ciò che si è sperato insieme a chi fa vivere, e non venga meno, ma continui a lasciar passare luce, pane, acqua, il profumo dei fiori, le spighe, l’uva, la frescura dei boschi; non venga meno alla fede, anche nel transito ultimo, quella memoria sovversiva del Risorto che scalda il cuore proprio nel morire.
Un imperativo orante ai sette muratori, ma rivolto anche a noi chiamati alla responsabilità creatrice del ricordo e della sua trasmissione; vocati a lasciare spiragli nei muri chiusi della memoria dei dimenticati e farla nuovamente viva; non resti come un’architettura senza poesia, senza amoroso sguardo, né come un’intelligenza senza cuore o un ricordo senza speranza di futuro.
E tu pregali, i sette muratori,
Pregali, pregali, i sette maestri
Muratori che devono murare,
Perché lascino a te
Sette spiragli al muro,
Perché arrivino a te
La luce e il pane.
E da uno ti venga
Una sorgente d’acqua,
Ricordo di tuo padre;
E da un altro ti venga
Il profumo di fiori
Delle sorelle che avevi;
E da un altro ti vengano
Spighe lunghe di grano
Con tutto il loro frutto;
E da un altro ti venga
La vite della vigna
Con i grappoli pieni.
E da un altro ti venga
Qualche luce di sole
Che ti riscaldi il cuore
Che non si spenga tutto.
E il vento, il fresco del vento,
Il vento fresco dei boschi
Arrivi fino a te,
Che ti rinfreschi il capo,
Non marcisca il tuo capo.
Oh tu pregali, pregali, pregali
I sette muratori!
(Fortini, ivi, 113)
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Il Ferrara Film Festival porta tanti temi e tante novità. Le giornate del 19 e 20 settembre parlano di malattia e di lavoro
Periscopio continua a seguire il FFF8. Per leggere i Day 1, Day 2e Day 3
La giornata di martedì 19 settembre è stata caratterizzata da un dibattito intorno a temi importanti, come la malattia, e la relazione cinema-salute, ovvero di quanto e come il cinema possa parlare della malattia.
Alle ore 16, per la rassegna “Retrospettiva Cinema & Salute”, il festival ha proposto il toccante film britannico “Living” di Oliver Hermanus, con Bill Nighy, Aimee Lou Wood e Alex Sharp. Candidato a due Premi Oscar 2023, il film, ne abbiamo parlato, diretto dal sudafricano Oliver Hermanus e sceneggiato dal premio Nobel per la letteratura Kazuo Ishiguro, è un riuscito remake del capolavoro di Akira Kurosawa del 1952, Ikuru (Vivere), nella classifica dei 100 più grandi film secondo il Time. Nella Londra degli anni ’50, un burocrate privo di senso dell’umorismo decide di prendersi una pausa dal lavoro per sperimentare la vita dopo aver ricevuto una triste diagnosi. Sarà una sorpresa, per tutti, un messaggio di come la malattia ci faccia capire le vere priorità.
La Premiere del tardo pomeriggio, “Sisters of Ukraine” (categoria “Premiere docu”), storia di due volontari di Barcellona che si recano in un convento nell’Ucraina occidentale dove le suore stanno aiutando i rifugiati dopo l’invasione russa, è stata preceduta dal cortometraggio “The Delay”, diretto da Mattia Napoli.
Un’opera che tocca il difficile tema della malattia degenerativa e dell’andare fuori fase e fuori binario.
Arturo è un bravo interprete, una persona solitaria, metodica e regolare. Da qualche tempo, però, sta avendo problemi a svolgere il suo lavoro: è andato fuori sincrono. I suoni arrivano in ritardo rispetto a ciò che vede. La sua è una malattia degenerativa: il ritardo cresce giorno dopo giorno. Dopo aver perso il lavoro e aver provato inutilmente a eliminare qualsiasi fonte sonora, Arturo, quasi per caso, inizia a osservare il mondo con un nuovo e assurdo approccio. Quello che appare come un assurdo e limitante handicap può però diventare un’opportunità per osservare la realtà da un nuovo punto di vista. La disarmonia tra suono e sguardo crea sorprendenti effetti, a volte comici, a volte spiazzanti. Realtà difficile, ma… Senza poter più comunicare con il resto del mondo, Arturo ha la possibilità di diventare una persona più ricca e migliore di prima. Perché la bellezza è ovunque, basta saperla vedere e trovare.
Alle ore 22 è andato in scena “Peripheric love”, dello svizzero Luc Walpoth, con Iazua Larios, Fabio Troiano, Alessio Lapice. Maria, una giovane donna peruviana che lavora come babysitter presso una famiglia di industriali torinesi, è incinta. Suo marito Giorgio, che fa il guardiano presso la fabbrica di proprietà di quella stessa famiglia, è sterile.
Come gli darà la notizia, cosa penserà di lei? Quando Maria chiede a Giorgio di rifare il test di fertilità lui, colpito nell’orgoglio e offeso, si allontana da lei e riprende a bere, un vecchio vizio pareva superato. Incapaci di ritrovare uno spazio di relazione, i coniugi si evitano e si avvicinano sempre più ai loro nuovi confidenti. Ma si amano profondamente. Maria studia il momento giusto per dargli la notizia, cercando di fargli capire che forse non si è sterili per sempre. Giorgio resiste alla voglia di bere, pur convinto ormai che lei gli nasconda qualcosa. Quando per caso trova i documenti medici che dicono che la moglie è incinta, crolla e soccombe ai propri demoni. Incapacità di comunicare che porta a strade che non si incrociano, almeno per un po’, ma che ad un certo punto (ri)convergeranno.
Anche qui questa intensa première è stata preceduta da due interessanti cortometraggi, “Al di là del mare”, di Carlo Alberto Biazzi, con Eros Pagni, Serena Grandi, Marco Iannone e la prima apparizione sullo schermo del giovane Gabriele Casavecchia e “Scomparire”, di Daniele Nicolosi.
“Al di là del mare” narra la storia del piccolo Nicola che, nel dopoguerra, perde il padre partito per Buenos Aires in cerca di fortuna. Il nonno, per non arrecare troppo dolore al bambino, gli racconta che il papà è stato rapito dal mare. Nicola non accetta questa situazione e riesce a trovare il coraggio di andare a cercarlo. Girato tra la Liguria e la Toscana, il film, che ha vinto il Premio del pubblico, il Premio miglior attore a Eros Pagni, il Premio miglior fotografia al “Napoli Cultural Classic” (2023), il Premio miglior attore a Marco Iannoneal “Ciak Film Festival” (2023) e il Grifone d’oro al miglior mediometraggio al “Love Film Festival” (2023), sarà su Prime Video e Chili il 30 ottobre.
“Scomparire” è, invece, il cortometraggio diretto da Daniele Nicolosi, presentato in concorso nella sezione Dramma al “Prato Film Festival” 2023, con Andrea Bosca ed Euridice Axen. Un uomo incontra una donna in una casa di montagna. Improvvisamente l’uomo si sveglia e si ritrova nel suo appartamento in una Torino del 2046 dove la tecnologia ha preso il sopravvento anche sulle relazioni umane. A scomparire sono sia i personaggi, sia i ricordi, sia, soprattutto, gli eventi passati (e presenti) che non si ripeteranno mai più. Passato, presente e futuro si incontrano e si intersecano mettendo i protagonisti, e lo spettatore stesso, anche di fronte a delle scelte.
Il programma di mercoledì 20 settembre è stato, invece, caratterizzato dall’’incontro, alle ore 19, all’interno del format Studios Lounge Live, con Stefano Fresi, protagonista di “Romanzo Criminale” (2005) e “Smetto quando voglio” (2014). In quest’ultima pellicola, ispirata alla serie tv americana “Breaking Bad”, Fresi interpreta il personaggio di un laureato in chimica, costretto a lavorare come lavapiatti in un ristorante cinese, per il quale riceve una candidatura al David di Donatello come miglior attore non protagonista.
L’attore ha raccontato aneddoti della sua carriera sul set, dando consigli e suggerimenti ai giovani che vorrebbero intraprendere un percorso professionale nel mondo del cinema. “Fondamentale”, ha esordito, “è saper mantenere l’umiltà nei confronti del mestiere, perché non si smette mai di imparare e lo si fa da tutti. Il mio consiglio è quello di appassionarsi a tutto. Significa che se vuoi fare l’attore non puoi non conoscere la storia del cinema o il modo in cui i più grandi attori si sono approcciati nell’interpretazione di un personaggio che li ha resi celebri”. “E poi, ha concluso, “credo sia necessario guardare tanti film e farlo il più possibile all’interno delle sale cinematografiche. È un qualcosa che ormai si sta perdendo come abitudine, ma i film vanno visti lì, quando è possibile”.
Ma la vera novità è stata la proiezione serale della première italiana del film francese “La verità secondo Maureen K.” di Jean-Paul Salomé, con Isabelle Huppert, Grégory Gadebois, François-Xavier Demaison, Pierre Deladonchamps, già nella sezione Orizzonti l’anno scorso al Festival di Venezia e in sala da oggi, 21 settembre.
Un’indagine thriller ambientata nel mondo del nucleare e della politica. Tratto dalla vera storia dell’irlandese Maureen Kearney, un’esponente sindacale tutta d’un pezzo che ostacola il mondo e i giochi dei potenti, in un mondo fatto e dominato dagli uomini.
Maureen Kearney (Isabelle Huppert) è la sindacalista delegata della CFDT (Confederazione Democratica Francese del Lavoro) di Areva, una multinazionale francese del settore nucleare, mandato dopo mandato. E non intende affatto mollare, di fronte alla sete di giustizia, della quale è paladina. Sposata con un musicista (Grégory Gadebois) sempre dalla sua parte, è decisa, impassibile, algida. Un vero bulldozer.
Quando viene a sapere dell’accordo segreto che il nuovo dirigente sta stringendo con la Cina, e che minaccia il posto di lavoro di cinquantamila operai, si dimostra disposta a tutto pur di farlo uscire allo scoperto. Allora cominciano le minacce, le intimidazioni, i pedinamenti, fino all’ultima tappa e decisiva, la brutale aggressione. La polizia non le crede, ha fretta di trovare il responsabile, se non il capro espiatoria, e in poco tempo da vittima a diventa la principale sospettata.
Il duo Isabelle Huppert – Jean-Paul Salomé si riunisce dopo il successo di “La padrina – Parigi ha una nuova regina” (2019), per raccontare una storia vera di coraggio personale e di vergogna collettiva, in cui la violenza privata e quella politica si fondono sulla pelle di una donna, costretta dalle circostanze e dalla propria forza di carattere a una battaglia più grande di lei. Con tanto di inquadratura hitchcockiana dello chignon nel quale la Kearney ha appena raccolto i capelli, un attimo prima di subire violenza, e di lunga dissolvenza a nero che sospende la visione dei fatti nei minuti cruciali. Colori, poi, perfetti.
Il film è il personaggio stesso, perché è lei la “questione” al centro del piatto: il suo essere donna, l’aver subito già violenza che la fa diventare la vittima perfetta, il suo essere fragile e il suo essere forte allo stesso tempo. Una Huppert favolosa, in un film dove donne aiutano donne, donne che spesso restano inascoltate.
Foto in evidenza e della giornata del 20 settembre di Valerio Pazzi
Venerdì 7 ottobre 2023 alla Rivana di Ferrara, via Gaetano Pesci 181, si terrà un incontro-dibattito sul tema delle malattie rare e autoimmuni. Una realtà purtroppo in aumento tra le patologie che colpiscono le persone di tutte le età. L’iniziativa è salutata dall’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Ferrara e coadiuvata dai rappresentanti delle associazioni di categoria (CFAD, CFU, AISM, AssiSLA e Fondazione ACAReF).
Per informazioni sull’evento: 3480528603 (Marcella)
Un futuro per la chimica industriale ecocompatibile è possibile. L’esempio è la prossima apertura di un impianto innovativo in Germania per il riciclo delle plastiche, basato su una tecnologia messa a punto dal Centro Ricerche Natta di Ferrara
BASF, SABIC e Linde, rispettivamente un’azienda chimica tedesca, una chimica saudita e un’azienda di ingegneria tedesca avviarono il 24 marzo del 2021 (con conferenza stampa) un progetto per realizzare il primosteam crackerelettrificato al mondo presentando domanda di finanziamento pubblico per la costruzione di un impianto dimostrativo presso il sito BASF di Ludwigshafen (Germania).
Gli steam cracker svolgono un ruolo centrale nella produzione dei composti chimici di base e i processi di scomposizione chimica degli idrocarburi di partenza in olefine e composti aromatici, richiedendo una notevole quantità di energia.
Ovviamente tali apparecchiature, di cui una unità era in esercizio anche nel petrolchimico di Porto Marghera (ora chiuso), sono indispensabili nel processo di riciclo molecolare delle materie plastiche per il trattamento dell’olio pirolitico.
Di solito, in questi enormi forni, le reazioni si innescano a temperature intorno agli 850 gradi Celsius; temperature che, almeno fino ad oggi, si raggiungono attraverso la combustione di materiale di origine fossile.
Alimentando il processo con energia elettrica, questo nuovo progetto mira a ridurre notevolmente le emissioni di CO2.
Utilizzando elettricità derivata da fonti rinnovabili, la nuova tecnologia potrebbe ridurre le emissioni di CO2 fino a meno del 90%.
Il 14 settembre 2023 le tre società comunicano (conferenza stampa riportata da Polimerica) che sono in dirittura d’arrivo i lavori di costruzione dell’impianto dimostrativo per il riscaldamento, mediante forni elettrici, di un’unità di steam cracking di idrocarburi, per produrre olefine, presso il sito BASF di Ludwigshafen.
Sono stati infatti installati i nove trasformatori necessari per convertire la corrente nella tensione richiesta dai forni, quindi l’impianto dovrebbe essere pronto entro la fine del 2023, a poco più di un anno dall’inizio dei lavori.
Una volta messi i funzione i nuovi forni elettrici, saranno testate in parallelo due diverse tecniche di riscaldamento, per trattare circa 4 tonnellate di idrocarburi l’ora con un consumo stimato di 6 megawatt di energia rinnovabile.
Con il riscaldamento diretto viene applicata una corrente elettrica direttamente ai tubi che corrono all’interno del reattore:
Nel secondo approccio, il riscaldamento indiretto, si sfrutta l’effetto radiante di elementi riscaldanti posti intorno ai tubi.
L’unità dimostrativa, integrata in uno steam cracker in funzione a Ludwigshafen, servirà a valutare l’efficacia del processo, da cui ci si attende – a regime – come già detto dai responsabili delle aziende – una riduzione delle emissioni di CO2 di almeno il 90% rispetto alle tecnologie oggi in uso.
Con tale innovazione si ottiene una sensibile riduzione dei costi energetici e soprattutto un fenomenale miglioramento per quanto riguarda l’inquinamento ambientale.
Il progetto, come previsto, è finanziato dal Ministero tedesco dell’Economia e della Protezione del clima attraverso un contributo di 14,8 milioni di euro nell’ambito del programma “Decarbonizzazione nell’industria”, supportato dal fondo NextGenerationEU dell’Unione Europea.
Contemporaneamente LyondellBasell porta avanti l’ingegnerizzazione per costruire l’impianto commerciale di riciclo chimico di materie plastiche presso il sito di Wesseling (Germania),utilizzando la tecnologia proprietaria MoReTec, messa a punto presso il Centro Ricerche Giulio Nattadi Ferrara.
Questo impianto di riciclo su scala commerciale trasformerà i rifiuti di plastica pretrattati in materia prima per la produzione di nuova plastica.
I rifiuti di plastica utilizzati sull’impianto di riciclo saranno forniti da una joint venture (Source One Plastic) realizzata tra LyondellBasell e 23 Oaks Investments, Leiferde in Bassa Sassonia (Germania).
L’impianto della Source One Plastic selezionerà e riciclerà, utilizzando energia eolica e biomassa una quantità di rifiuti di imballaggio in plastica generati da circa 1,3 milioni di cittadini tedeschi all’anno. Questi rifiuti oggi non vengono riciclati e sono per lo più inceneriti.
Yvonne van der Laan, vicepresidente esecutivo di LyondellBasell, ha affermato: “ … Stiamo lavorando attivamente per far progredire l’economia circolare … Questa tecnologia differenziale ad alto rendimento ci consentirà di convertire i rifiuti di plastica in olio di pirolisi e gas di pirolisi da utilizzare nei nostri cracker come materia prima per la produzione di nuovi materiali plastici … “.
Queste informazioni rappresentano una ulteriore dimostrazione che “si può” collaborare fra Pubblica Amministrazione e aziende private con diversa mission per raggiungere lo stesso obiettivo, a differenza di quanto sembra accadere da noi dove le uniche notizie relative alla petrolchimica sono quelle che arrivano da Brindisi con la chiusura, ora sembra parzialmente smentita (???), dell’impianto P9T di LyondellBasell oppure, precedentemente, la chiusura dell’unico cracker di ENI Versalis presente nel nord del Paese.
“La Petrolchimica nel nostro Paese non avrà un futuro se non avvierà un ciclo di innovazioni che sappiano affrontare lo strapotere delle grandi aziende del settore, che hanno impianti di enormi dimensioni, con costi delle materie prime sensibilmente inferiori a quelli sopportati dalle nostre aziende”.
Cover: Ludwigshafen (Germania). la multinazionale tedesca chimica e il più grande produttore chimico del mondo.
Roberto Dall’Olio: Alcune poesie per mio babbo Orfeo
“Mio padre non mi ha detto come vivere; ha vissuto e mi ha fatto osservare come lo faceva.”
(Clarence Budington Kelland)
Sul mezzo traguardo
Del Tourmalet
Mi sono accorto
Di te
Caro babbo
Non c’eri
Mi sono accorto
Freddo
In una stanza
Gelida
In un sacco
Da frigo
Non c’era più
Il tuo solito
Viso
Ho pianto
Non ti riconoscevo
Scavato
Da giorni
Di sole flebo
Gli occhi
Da tempo chiusi
Ora spalancati
Fissi
La bocca aperta
Li ho chiusi
Nei loro abissi
*
le sere d’estate
andavamo
da Siro
al circolo del tennis
fuori San Vitale
aveva una altalena
bellissima
mi legava
lui e il babbo
e mi facevano
volare
è così la vita
gli sentivo dire
*
In campo
Luci soffuse
Nicola Pietrangeli
Novant’anni
Come te babbo
Per festeggiare
Il tennista
My Way
Piaceva tanto
Anche a te
The voice
Vibrante
Calda
Profonda
Tra le due
Sponde
Dell’oceano
Ti ho pensato
Con la tua racchetta
Cecoslovacca
Imparasti il tennis
Da Rossi Amelio
Prigioniero degli Inglesi
Dieci anni
La tua Maxima
Di legno
Che fu la mia
Poi Aznavour
La sua voce
Caucasica
E da Rive Gauche
Piaceva a tutti noi
La mamma tu e io
Che folata
Prima che il silenzio
Se la porti via
*
Il babbo
Aveva due mani
D’oro
Costruiva
I giochi
Per me
Per gli amici
I fucili
Come i pellerossa
Le pistole
I soldatini
I carri armati
Il camion
Del rusco
Le racchette
Da ping-pong
Il puzzle
Più pazzo
Del mondo
Cantava
In bagno
Le fotografie
Le diapo
I film a manovella
Dei tre porcellini
Visti anche
Dai miei bambini
*
Come erano verdi
I tuoi occhi
Babbo
Tingevano la pineta
Della vita
Facevano luce
Nei fondali
Dei giorni spenti
Mi ricordano
Ancora
Quei golfi
Di Oristano
Tharros
L’Inchnusa
Dove siamo
Passati anche
Noi
Con piedi leggeri
Come erano verdi
I tuoi occhi
Babbo
Dei prati alla Drava
erano luce
In cantina
Quando
Si facevano
Le bottiglie
Come dicono
A Bologna
Verdi
Eleganti
Sul letto
Che ha tenuto
Il tuo ultimo
Respiro
*
Mia mamma
Sulla tomba
Sente tutti
Ma proprio
Tutti
Gli anni
Passati col babbo
Le sue lacrime
Fanno vivere
I fiori finti
Del congedo
I nostri cuori
Sono bulbi
Sotterrati
Ogni volta
Nei prati
Del cimitero
Mi dice
Che sono bravo
La tengo su
Di morale
Non sono bravo
Sono suo figlio
Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco (Ed. Pendragon), I ragazzi dei giardini, Ed Pendragon, 2022. Ha pubblicato il saggio Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000). Redattore della rivista “Inchiesta” diretta da Vittorio Capecchi. Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese dove è presidente della sezione locale dell’ANPI. Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
LO SCAFFALE POETICO Segnalazioni editoriali interne (o contigue) al mondo della poesia.
DORIS BELLOMUSTO, Fra l’Olimpo e il Sud, Poetica Edizioni, 2021
AGNESE COPPOLA, La sete della sera, La vita felice, 2021
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerriniesce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]
Intelligenza Artificiale, Ambiente Computazionale, Realtà Aumentata… <br> Un Nuovo Capitalismo sta espropriando (gratis) tutte le informazioni. E le nostre stesse vite.
Dove ci sta portando la potenza inarrestabile della Intelligenza Artificiale guidata da un Nuovo Capitalismo? Concentrazione della ricchezza e del potere, iper-controllo sulle persone, manipolazione sistematica tramite l’ingegneria sociale sono rischi che aumentano man mano che, insieme all’integrazione tecnologica digitale, cresce l’isolamento sociale e la paura. Mai come oggi riprende vigore la fatidica domanda: “Che Fare?” (prima che sia davvero troppo tardi).
C’è un processo globale in corso che non sembra in alcun modo arrestabile [Qui il mio precedente intervento su Periscopio]. Si tratta dellacrescita esponenziale del numero di oggetti che vengono connessi alla rete internet mediante i più svariati tipi di sensori. Miliardi di questi dispositivi catturano elaborano ed inviano informazioni che vengono raccolte ed elaborate, per essere quindi utilizzate nei modi più diversi ed originali.
In maniera un po’ semplicisticae a lume di senso comune, chiamiamo internet delle cose(IoT) il sistema fisico che consente tutto questo, chiamiamo big data la massa di informazioni digitali che vengono raccolte ogni minuto secondo e chiamiamo (I.A.) l’insieme di algoritmi implementati su reti di calcolatori sempre più potenti che possono consentire la ricerca, l’organizzazione e l’elaborazione automatica di questa enorme e crescente massa di dati.
Trasformare, partendo da sensori installati ovunque, ogni spazio fisico, dall’interno di una casa (demotica), ad un ufficio (smart office), da una fabbrica (industry 4.0) ad una intera città(smart city), in un “ambiente navigabile” nel quale veder tutto ciò che accade; automatizzare grazie all’informazione elaborata i processi della casa, dell’ufficio, della città(e infine del mondo). Portare l’elettronica in ogni oggetto rigido, non solo nelle cose inerti ma anche anche in ogni cosa elastica e malleabile, negli oggetti del mondo vegetale ed animale: tutto questo rappresenta l’orizzonte della rivoluzione digitale in atto.
Tutto questo indica anche una precisa direzione di sviluppo tecnico che porta i sensori sul e dentro il corpo umano, come già fatto con successo per gli animali domestici e da allevamento, attraverso le tecnologie indossabili e la micro sensoristica (nano bot) associata alle bio tecnologie.
Se tutto questo è centrale a livello tecnologico e scientifico, esso rappresenta anche l’ultimo territorio di conquista delcapitalismo; un territorio – quello digitale –che era ancora quasi sconosciuto e perfettamente vergine solo 20 anni addietro: un territorio che è stato colonizzato con modalità predatorie che ricordano la conquista violenta del west nord americano e di buona parte del mondo da parte delle potenze coloniali occidentali. Se al centro di quelle conquiste violente vi era la ricerca della ricchezza monetaria, dell’oro e di risorse materiali preziose, l’acquisizione di nuove terre e la ricerca di nuovi mercati, al centro di questa vi è l’informazione.
Ogni informazione che sia immessa nella rete internet è preziosa: in un certo senso, tutto è informazione, nella misura che ogni cosa può diventare fonte di informazione utilizzabile. Lo è a puro titolo di esempio, il cane dotato di chip e di localizzatole GPS (Qui), il bambino che gioca con il suo giocattolo digitalizzato,l’anziano collegato al proprio salvavita (Qui), lo sportivo con il suo fitness tracker (Qui), Lo sono ovviamente i PC, gli smartphone, i tablet, i telefoni, le carte di credito e debito; lo sono le telecamere installata sulle piazze e sulle strade, le auto con il loro navigatore , i dispositivi antifurto GPS, e così via. Il cane dell’esempio cosi come la persona connessa (in qualsiasi modo) sono, in quest’ottica, dei giacimenti dai quali estrarre il bene più prezioso: l’informazione.
E tra questi, giacimenti, il corpo (il nostro corpo) è forse il giacimento di informazione che diventa sempre più importante. Movimenti nello spazio, azioni di manipolazione, parole e scritti innanzitutto; ma anche e soprattutto stati interni del corpo: pressione, battiti cardiaci, temperatura, composizione sanguigna solo per citare i più noti.
Non è eccessivo affermare che già oggi e sicuramente nel prossimo futuro, elaborando questi flussi crescenti di dati, gli algoritmi di Intelligenza Artificiale(pur non avendo reale coscienza) finiranno col conoscerci molto meglio di come noi conosciamo noi stessi.
Il nuovo capitalismo ha saputo trovare modi altamente creativi per estrarre valore economico e soprattutto finanziario dalla gestione di questo mare di dati tradotti in informazioni utilizzabili attraverso gli algoritmi della cosiddetta Intelligenza Artificiale.
Lo attestano in modo esemplare la crescita esponenziale di imprese del mondo digitale come Google e FaceBook e le politiche di acquisizione di tali imprese per accaparrarsi il maggior numero di fonti (ovvero piattaforme digitali molto frequentate) pagandole miliardi di dollari. Il loro successo clamoroso deriva infatti direttamente dalla loro capacità di impadronirsi dei dati generati tecnicamente (dovuti soprattutto agli utilizzatori della rete), elaborarli e tradurli in informazioni che possono essere valorizzate e rivendute.
In particolare, è proprio su questo che si fonda un “economia predittiva” che estrae conoscenza dal passato per indirizzare al meglio il business del presente e del futuro, un economia capace di anticipare i comportamenti dei consumatori ed orientarne pesantemente degli stessi consumatori.
Ad interessare come giacimento informativo da cui tutto origina, non sono i contenuti delle nostre comunicazioni online ma i dati che attestano i nostri comportamenti in termini di spostamenti, scelte di consumo, orari, luogo reali e virtuali visitati, preferenze; insomma tutto quello che può esseredesunto dai nostri comportamenti nel mondo virtuale e dai nostri comportamenti nel mondo “reale” captati attraverso i diversi tipi di sensori.
Nessuna regola sullaprivacy – pur indispensabile – può oggi proteggerci seriamente da questo prelievo coatto di informazione.
Da un punto di vista più sociologico la creazione di un simile ambiente computazionale, (ambiente intelligente), è parte integrante dal processo di liquefazione della società descritto da Zygmunt Bauman. Più precisamente, la digitalizzazione in corso rappresenta propriamente una liquefazione del mondo fisico, un inglobamento del mondo reale (“offline”)nelmondo virtuale (“online”), la trasformazione di quella che poteva essere detta fino a pochi anni fa “realtà sensibile” in una “realtà aumentata” e navigabile tecnologicamente..
Il sistema tecnologico computazionale libera l’informazione espropriata agli umani (miniere di dati) da ogni sua radicamento dalla vita sociale, la sgrava da ogni considerazione morale, politica, valoriate, contestuale, sociale. Essa diventa puro dato tecnico computabile automaticamente.
Piaccia o meno, da tutto questo – in particolare dalla crescita esponenziale dell’internet delle cose, della potenza computazionale, e dall’Intelligenza Artificiale – derivano alcune conseguenze fondamentali dalle profonde implicazioni sociali, filosofiche ed antropologiche.
La prima riguarda l’aumento proporzionale di creazione divalore finanziario attraverso l’estrazione di informazioni e l’esproprio di dati personali utilizzati per alimentare un economia predittiva, radicata in una società del rischio che è, paradossalmente, iper-organizzata e al contempo descritta (dai media)come estremamente insicura e pericolosa e come tale percepita dai cittadini. In assenza di rimedi drastici (che non si vedono all’orizzonte) tale processo concentrerà la ricchezza verso l’alto in misura superiore a quanto già succede oggi.
La seconda riguarda l’aumento esponenziale del controllo sui singoli cittadini (meglio: consumatori) con la possibilità non solo di sanzionare e punire ma anche di escludere dal sistema (ad esempio bloccando i conti correnti a fronte di una violazione, o al mancato rispetto di norme imposte dal potere costituito).
Si ha sotto questo duplice profilo un effetto paradossale:il trionfo dell’iper competizione propria del libero mercato di ispirazione neoliberista e – contemporaneamente – il trionfo del potere coercitivo dello stato sul cittadino.
Una terza conseguenza connessa alla enorme e crescente disponibilità di informazioni in real time elaborabili tramite algoritmi di Intelligenza Artificiale, fa balenare la possibilità di una societàbasata sulla sperimentazione costante e potenzialmente estesa a tutta la popolazione mondiale; una società caratterizzata da pratiche di ingegneria sociale diffuse, profonde e sistematicamente pervasive.
In tale situazione è la politica stessa che rischia di essere spazzata via, in quanto lenta ed obsoleta, per essere sostituita da decisioni strategiche che possono essere prese in modo più veloce ed efficiente dagli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale.
Concentrazione della ricchezza e del potere, iper-controllo sulle persone, manipolazione sistematica tramite l’ingegneria sociale sono rischi che aumentano man mano che, insieme all’integrazione tecnologica digitale, cresce l’isolamento sociale e la paura.
Mai come oggi riprende vigore la fatidica domanda: “Che Fare?” (prima che sia davvero troppo tardi).
La scelta del candidato/a da opporre alla destra e ad Alan Fabbri è importante, ma occorre esprimere un programma di fondo per la città realmente alternativo, a partire da una nuova pratica di democrazia e dai beni comuni. Ora sono in ballo (o lo saranno prossimamente) la gestione del servizio dei rifiuti urbani e di quello idrico. Vogliamo finalmente voltare pagina?
Mancano un bel po’ di mesi alla scadenza elettorale amministrativa del 2024 che coinvolgerà anche il Comune di Ferrara ed è partita, soprattutto sulla stampa locale, la corsa al toto-nomi del possibile candidato/a sindaco, in particolare per quanto riguarda il campo largo del Centrosinistra e della Sinistra.
Ora, non c’è dubbio che tale scelta sia rilevante, sia perché il sistema elettorale relativo ai Comuni assegna al candidato/a sindaco un ruolo molto importante (persino troppo, a mio parere, spingendo in una direzione di personalizzazione che non fa bene alla politica), sia perché le caratteristiche di questa figura, in un contesto come quello ferrarese, dove si tratta di provare a mandare a casa l’attuale Amministrazione di Destra, sono tutt’altro che ininfluenti rispetto a quest’ultimo obiettivo.
Però, sono convinto che partire dalla scelta dal candidato (e troppe volte fermandosi qui) significhi farlo con il piede sbagliato. Non faccio quest’affermazione semplicemente per ribadire un’impostazione che dovrebbe essere acquisizione condivisa, persino un po’ troppo scontata, e cioè che occorre, se non prima, almeno contemporaneamente, esprimere un programma di fondo per la città e il/la candidata che dovrebbe sostenerlo e attuarlo.
Il tema dellacentralità del programma deriva, prima di tutto, dal fatto che, se si vuole sconfiggere la destra anche a Ferrara, occorre mettere in campo un progetto realmente alternativo, non solo rispetto alle politiche sbagliate di quest’ultima, ma anche nei confronti della lettura della città e delle scelte compiute nel passato dalle Amministrazioni di centrosinistra.
Se non si supera in avanti l’idea che la partita non è la “rivincita del passato” nei confronti dell’attuale Amministrazione, non si andrà molto lontano. Sia perché – almeno questa è la mia convinzione – la vittoria alle passate elezioni della destra è più figlia degli errori delle precedenti Amministrazioni di centrosinistra che del “merito” di Fabbri e dintorni, sia perché la destra, in questi anni, ha costruito sì politiche regressive ma anche gestito la sua base di consenso in modo non banale.
Ancor più, le trasformazioni di questi anni e di quelli che ci attendono, da una parte, e la possibilità di rimotivare e far nuovamente tornare ad essere protagoniste le persone, a partire da quelle che più hanno subito i colpi della “policrisi”, dall’altra, impongono la necessità di tornare a dotarsi di un forte e strutturato progetto di futuro per la città, capace di darsi uno sguardo lungo e innovativo. Non si tratta tanto di pronunciare autocritiche, che lasciano il tempo che trovano, quanto piuttosto di avanzare idee e proposte realmente in grado di andare alla radici dei problemi aperti, ragionare con un punto di vista aperto e nuovo, supportando tutto ciò con la costruzione di una forte partecipazione dei cittadini, facendo leva anche sui segnali di risveglio sociale e civile che, per fortuna, abbiamo visto all’opera anche a Ferrara da un po’ di tempo in qua.
Non intendo certo cimentarmi con l’insieme di questo “ vasto programma”. Molto più limitatamente, mi interessa affrontare un tema specifico, quello della gestione dei servizi pubblici locali, che però può essere assunto come cartina al tornasole del ragionamento più generale cui ho accennato sopra.
É questo un tema fondamentale rispetto all’idea di futuro della città, perché rimanda alla alternativa tra un ruolo pubblico (e partecipativo) più forte per costruire legami sociali, idea di comunità, costruzione di spazi non soggetti alla logica del mercato e la spinta contraria alla privatizzazione e agli interessi aziendali e di profitto dei soggetti a questi orientati.
Porre il tema della gestione dei servizi pubblici locali significa anche ripensare e correggere le politiche portate avanti dalle passate Amministrazioni di centrosinistra – come dall’attuale Amministrazione regionale guidata da Bonaccini – che hanno aperto al modello misto pubblico-privato, a partire dalla gestione dei nidi comunali, e pensato ai dipendenti comunali come costo da abbattere, seguendo una vulgata di stampo neoliberista, per cui il ruolo pubblico doveva necessariamente restringersi. Ovviamente, questa strada è stata perseguita con ancora maggior forza dall’Amministrazione di destra, che ha applicato tale ricetta anche all’esternalizzazione delle biblioteche comunali.
Oltre a questi servizi, ora sono in ballo (o lo saranno prossimamente) la gestione del servizio dei rifiuti urbani e quello idrico.
Sulla gestione del servizio dei rifiuti urbani, ho già avuto modo di soffermarmi su questo stesso quotidiano (leggi qui) e non ho nulla da aggiungere, se non che le decisioni in proposito sarebbe meglio affidarle alla prossima Amministrazione, senza fare fughe in avanti oggi, e che l’opposizione dovrebbe pronunciarsi con maggiore chiarezza sulla questione.
Vale invece la pena di approfondire il tema della gestione del servizio idrico. Sapendo che è un tema decisamente più complesso di quello della gestione del servizio dei rifiuti, per almeno 3 motivi. Il primo è che alla scadenza delle concessioni, si tratta di costituire un’unica azienda di dimensioni provinciale. Questa scelta è imposta ancora dal Decreto SbloccaItalia del 2014 che ha previsto questo dispositivo, in una logica di accorpamento dei soggetti gestori con l’implicito “invito” ad un rafforzamento delle privatizzazioni. Ora, il servizio idrico vede la gestione di Heraspa nel comune di Ferrara e nell’Alto Ferrarese, mentre il Basso Ferrarese è interessato dalla gestione di CADF, una spa a totale capitale pubblico. Entrambe queste concessioni scadono alla fine del 2027, sulla base di una recente e pessima legge regionale, che ha disposto l’allungamento degli affidamenti in essere, giusto per fare un grande favore a Hera e Iren, che sono i maggiori protagonisti del servizio idrico in regione.
In secondo luogo,le risorse da mettere in campo per la gestione pubblica sono, da una parte, più rilevanti rispetto a quelle relative al solo servizio dei rifiuti del comune di Ferrara, ma, dall’altra, ci si può avvalere sia del ruolo di CADF sia di quello di ACOSEA (l’ azienda proprietaria delle reti idriche del Comune di Ferrara e di altri Comuni, in particolare dell’Alto Ferrarese), entrambe società pubbliche.
Terzo motivo, quello politicamente più rilevante, a fine 2027 si dovrà decidere tra l’alternativa secca della messa a gara del servizio (e cioè la sua privatizzazione, con un prevedibile ruolo decisivo di Hera),oppure della gestione totalmente pubblica del territorio provinciale.
Ci tengo a sottolineare quest’aspetto: all’ordine del giorno non ci sarà la ripubblicizzazione del servizio, ma la scelta tra privatizzazione o gestione pubblica, avendo peraltro alle spalle l’esito del referendum del 2011, che riempe tale opzione di un chiaro significato di rispetto della volontà democratica. Tutto ciò mi porta a dire che il percorso decisionale a questo proposito dovrà essere messo in campo già all’inizio della prossima consiliatura, non aspettando certamente la fine del 2027, e, quindi, sarà bene che i prossimi programmi per la scadenza elettorale di Ferrara si occupino di ciò. Anche perché occorre indicare in modo preciso se si intende o meno sviluppare un reale percorso partecipativo, non come è stato fatto in tema di gestione del servizio dei rifiuti di Ferrara, dove abbiamo assistito ad una forte tiepidezza da parte della passata Amministrazione di centro-sinistra e ad un sostanziale ostruzionismo da parte dell’attuale Amministrazione.
Insomma, la difesa deibeni comuni e la loro gestione pubblica e partecipata rappresentano uno snodo fondamentale per l’idea del futuro di Ferrara, per dare ad essa un ruolo forte nel delineare un profilo di città che sceglie la transizione ecologica e il rafforzamento dell’intervento pubblico anche a tale fine. Materia per discutere e per dire da che parte si vuole stare ce n’è in abbondanza.
Per leggere gli altri articoli ed interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.
Ancora novità al Ferrara Film Festival: la retrospettiva “Scarface”, la première di “Gran Turismo” e ancora alcuni cortometraggi interessanti. Il FFF8 continua e noi di Periscopio continuiamo a seguirlo. Leggi ilDay 1eDay 2
Lunedì 18 settembre, il programma del Ferrara Film Festival, quest’anno ricchissimo, è continuato con la première italiana di “Gran Turismo – La storia di un sogno impossibile”, del sudafricano Neill Blomkamp, in uscita al cinema il 20 settembre.
Dal videogioco cult alla pista, il lungometraggio, targato PlayStation Productions, ha un cast di eccezione: David Harbour, Orlando Bloom, Archie Madekwe, Darren Barnet, Emelia Hartford. È la storia vera di Jann Mardenborough, un adolescente appassionato di Gran Turismo, il celebre videogioco di corse automobilistiche che ha un sogno: possedere una vera auto da corsa e diventare un pilota professionista. Un sogno difficile da realizzare per un adolescente di umili origini. La sua occasione arriva grazie a un contest in cui i migliori giocatori di Gran Turismo si sfidano su vere auto da corsa. Storia di una passione consumata tra le mura di una cameretta a Cardiff, storia di un’ascesa.
La Première cinematografica è stata preceduta dal cortometraggio “Sir”, diretto da Maurizio Ravallese, un’opera che usa la magia come espediente per parlare delle relazioni umane-familiari e la malattia, con forza e grande intensità.
“Sir “è un fantasy di campagna moderno, sul tema della malattia che si insinua nelle vite di una famiglia, come purtroppo spesso accade, colpendo la nonna, membro più fragile e delicato. Il padre di famiglia è uno sciamano, capace di curare quasi ogni male, fisico o spirituale, ma questa volta non può nulla. Magia, riti di guarigione che nessuno mette in dubbio, ma che questa volta non funzionano, impotenza, forte dicotomia corpo-spirito, paesaggi freddi e selvaggi tendenti al blu e grigio-calore di casa, pur sofferente, dalle tonalità giallo-arancione.
Il regista affida il compito di apprendista strega alla figlia del protagonista, che grazie alla sua curiosità e ingenuità, riesce a curare la nonna. Questo perché lei ha il potere più grande e sacro di tutti: quello del perdono. Interessanti i giochi di luce e la fotografia.
A seguire, un altro corto, “Soluzione Fisiologica”, diretto da Luca Maria Piccolo, vincitore dell’“Adriatic Film Festival 2023”, categoria Best Actor, Best Editing e del “Cinema Secondo Noi 2023″, categoria Best Short Film, Best Actress, in concorso ai David di Donatello nel 2023 e vincitore della 24/a edizione del Lucania Film Festival 2023. Recentissima menzione speciale al Factory Film Festival di Bari.
Interpretato da Stefano Accorsi, Paola Minaccioni e Edoardo Purgatori, quella che sembra un’ordinaria telefonata tra un uomo e un sex worker nasconde un intento più complesso. Un gesto di profonda comprensione, un atto di amore incondizionato.
Un altro ospite di fama internazionale, l’attore Steven Bauer, è stato protagonista dell’evento “Meet the Stars” alle 21.30, al Teatro Nuovo, in cui ha dialogato con il produttore Edward Walson, ricordando la propria esperienza sul set di “Scarface”.
A seguire, proprio il capolavoro diretto da Brian De Palma, con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, è stato proiettato con una retrospettiva che ne celebra il quarantesimo anniversario dalla sua uscita nelle sale cinematografiche. Il gangster-movie che racconta l’irresistibile “carriera” di Tony Montana, lo sfregiato: da piccolo delinquente cubano a boss della malavita e del traffico di droga negli States. Capolavoro che tutti conosciamo.
Esce a fine settembre la nuova collana della casa editrice milanese Babalibri: “Babalibri in Musica”, un’intelligente unione fra lettura e musica classica. In anteprima su Periscopio “La zuppa di sasso”.
Alcuni classici del catalogo di Babalibri combinati con musica classica d’eccellenza eseguita dal vivo e il gioco è fatto, ecco una bella e piacevole fiaba musicale, letta da attori professionisti e che può essere ascoltata tramite un QR code presente nel libro.
È “Babalibri in Musica”, un’esperienza di ascolto totalmente nuova e che promuove la relazione fra modalità espressive diverse e complementari: due narrazioni differenti, unite armonicamente in un’unica forma di ascolto, si alternano, dialogano, guidano il bambino in un viaggio in cui parole e suoni, ritmi e colori si mescolano, dando vita a un’esperienza insieme poetica, musicale e visiva. Un progetto di grande qualità e sensibilità.
La direzione della collana è affidata a Maria Cannata, che da anni lavora nel mondo della letteratura per l’infanzia occupandosi, in particolare, della creazione di fiabe musicali.
Importanti i nomi degli attori professionisti che partecipano all’iniziativa: Giuseppe Cederna, Anna Bonaiuto, Marina Massironi, Angela Finocchiaro, Alessia Canducci.
Lo stesso dicasi dei musicisti: Riccardo Schwartz, Irene Veneziano, Carlo Bernava, Andrea Dussò, Caterina Di Domenico, Rachele De Maria.
Il primo volume in musica, in uscita il 29 settembre, è “Sulla mia testa”, scritto e illustrato da Emile Jadoule, 44 pagine colorate animate da Gaspare, l’uccellino che si sistema sulla testa di Gastone e non se ne va più. Sta troppo bene lì. E il fatto più strano è che nessun altro sembra vederlo.
Una storia di amicizia, un’avventura lieve e profondissima nei pensieri e nelle emozioni di un bambino, dove le “Bagatelle” di Ludwig van Beethoven, eseguite da Irene Veneziano, conducono l’ascoltatore attraverso una vasta gamma di stati emotivi, gli stessi che abitano, di momento in momento, i pensieri di Gastone. Emozioni su emozioni.
La voce di Angela Finocchiaro sorride lieve e dà corpo a questo personaggio apparentemente piccolo piccolo, in realtà capace di fare quello che gli altri non ricordano più: per fare magie e superare paure e costruire amicizie, basta davvero poco, solo un po’ di immaginazione.
Il secondo volume in musica, sempre in uscita il 29 settembre, è “Una zuppa di sasso”, 34 pagine, scritto e illustrato da Anais Vaugelade.
In un paesaggio innevato, sullo sfondo grigio di un cielo notturno, un vecchio lupo bussa alla porta di una gallina. Tiene sulla schiena un grosso sacco. La gallina apre la porta, il lupo le chiede ospitalità… Con garbo e intelligenza, il lupo riuscirà a ottenere una zuppa che sfamerà l’intero villaggio durante una grande cena in cui i pregiudizi lasceranno spazio a un nuovo senso di amicizia. Anche qui sentimenti potenti.
La voce di Alessia Canducci scandisce il ritmo di questa storia e fa vivere ognuno dei personaggi lasciando intravedere le loro paure, i loro pensieri, la loro spensieratezza. E poi c’è la musica di Edvard Grieg, tratta da “Pezzi lirici”, eseguita da Andrea Dussò, che segue il passo lento del lupo, accompagna, anticipa e contiene ogni momento. Aggiunge un nuovo percorso di ascolto che permette di andare più in profondità e insieme di librarsi più su a cogliere, ancora prima di leggerla in quel finale così commovente, l’armonia che è sottesa a tutte le cose.
Nasce ad Avennes, in Belgio, nel 1963. Si forma all’École Supérieure des Arts Saint-Luc di Liège. Vive in una casa in mezzo al bosco circondato da conigli, volpi e persino orsi. Quando non disegna nel suo atelier, tiene corsi di illustrazione.
ANAÏS VAUGELADE
Nasce a Parigi nel 1973. Dopo aver vissuto a lungo in campagna, torna a Parigi, dove segue i corsi di una scuola d’arte. Racconta e illustra storie “tenere e impertinenti, storie imprevedibili come i bambini”.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara
Oltre 3.700 sono state le richieste d’aiuto per gestire pensieri suicidi in sei mesi, il 37% in più rispetto al primo semestre del 2022. È quanto emerge dai dati diffusi da Telefono Amico Italia, che dal 1967 offre supporto a chi si trova in un momento di crisi, soprattutto per prevenire gesti estremi, in occasione della recente Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, che si è svolta domenica 10 settembre.
Segnalazioni che sono arrivate prevalentemente da giovani tra i 19 e i 35 anni (il 18% tra i 26 e i 35 e il 17% tra i 19 e i 25) e da adulti tra i 46 e i 55 anni (il 16%), ma negli ultimi anni è stato registrato un aumento di contatti anche da parte dei giovanissimi (under 19) che chiedono aiuto soprattutto via Whatsapp e mail. Lo scorso anno sono state raccolte da Telefono Amico Italia quasi 6.000 richieste d’aiuto da parte di persone attraversate dal pensiero del suicidio o preoccupate per il possibile suicidio di un proprio caro. Si tratta di un numero enorme che, se prosegue la tendenza dei primi sei mesi del 2023, si rischia di registrare un ulteriore aumento. D’altra parte la stessa ISTAT, seppur con con dati del 2021, ci dice che la percentuale di adolescenti in cattive condizioni di salute mentale è passata dal 13,8% nel 2019 al 20,9%.
A confermare tale emergenza è anche l’Ospedale pediatrico BAMBINO GESU’ di Roma, che dichiara di aver registrato ben 387 casi nell’ultimo anno per tentato suicidio e ideazione suicidaria tra i giovani e i giovanissimi. 15 anni l’età media e il 90% sono ragazze. Nel 2022 le consulenze neuropsichiatriche effettuate al pronto soccorso del Bambino Gesù sono state complessivamente più di 1500. Ogni giorno almeno 4 tra bambini e ragazzi accedono in emergenza per problematiche mentali. I ricoveri nel reparto protetto di Neuropsichiatria, dove vengono gestiti i casi più complessi, sono stati 544 (+10%). Il 70% di queste ospedalizzazioni ha riguardato casi di ideazione suicidaria o di tentato suicidio.
La depressione e i disturbi d’ansia tra i giovanissimi – come è stato sottolineato nel recente convegno sull’emergenza neuropsichiatrica, promosso a Roma dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù in occasione della Giornata Mondiale della Prevenzione del suicidio, che ha visto la partecipazione di pediatri, neuropsichiatri, esperti di salute mentale e rappresentanti delle istituzioni – sono in aumento esponenziale da anni e i numeri altissimi di Telefono Amico Italia (02 2327 2327) e del Bambino Gesù ci dicono che siamo di fronte a una vera e propria emergenza psichiatrica, aggravatasi in particolare dopo l’esperienza traumatica della pandemia.
I problemi di salute mentale per cui i ragazzi vengono portati in urgenza in un pronto soccorso pediatrico sono sempre di più legati all’autolesionismo messo in atto fin da bambini. È un dato che colpisce e che testimonia una sofferenza psicologica dei ragazzi che non va ignorata ma che ancora non trova sufficiente ascolto e risposte adeguate.
Come intervenire tempestivamente per aiutare i ragazzi in difficoltà?
Dobbiamo fare attenzione ad alcuni importanti segnali.
“Si dovrebbe fare attenzione se il soggetto non riesce a seguire le attività scolastiche – spiega Maurizio Pompili, Professore Ordinario di Psichiatria presso Sapienza Università di Roma e Direttore della UOC di Psichiatria presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma -, se non si applica negli sport, è ritirato dagli amici, dagli affetti, ha problematiche somatiche non ben identificabili, fa uso di sostanze in maniera importante. Bisognerebbe, inoltre, cercare di avere l’aiuto dei compagni. È importante istruire i giovani a riconoscere tra i loro pari la persona che ha bisogno d’aiuto. Bisognerebbe fare anche attenzione alle verbalizzazioni: frasi come “a che serve vivere”, “non ce la faccio più”; all’alterazione delle abitudini, ad esempio quelle del sonno (sonno disturbato, insonnia o ipersonnia); all’aumento del consumo d’alcool. Infine, bisogna prestare attenzione a cambiamenti d’umore: se un soggetto precedentemente angosciato appare improvvisamente risollevato, come se avesse risolto i suoi problemi dall’oggi al domani, potrebbe aver preso la decisione di suicidarsi. Ha capito come risolvere il suo problema nel modo più estremo”.
Non sono poche le associazioni costituite in questi anni in memoria di adolescenti e giovani morti suicidi che si adoperano per cercare di tendere una mano a chi sta male e non sa a chi chiedere aiuto. Sabina Pignataro (sull’edizione online della rivista Vita) ha raccolto i numeri utili da chiamare, ma soprattutto dato parola ad alcuni genitori: [Vedi qui]
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