Ogni giorno a rovistare nei giornali alla ricerca di qualche notizia, nella speranza che qualcosa sia cambiato, che si stia muovendo, perché manca poco, accidenti. Notizia che però non si trova mai, nessun cenno del disgelamento del ghiaccio, al dipanarsi della matassa. Come è possibile? Mancano solo 7 mesi per decidere se sarà un deja vu o una nuova visione di città: diversa da quello che c’è adesso, diversa anche da quello che c’era prima.
Domenica, dall’altra parte, serrano i ranghi, lo avete sentito? Hanno le assise e all’ordine del giorno anche il destino dei prossimi cinque anni qua a Ferrara, con collegamento con la premier, soprattutto, con le idee molto chiare.
Ci si immagina perciò dall’altra parte una tensione altrettanto grande, anzi di più considerato lo scarto da recuperare. Del resto Ferrara si è svegliata dall’indifferenza, i cittadini si sono autoconvocati e hanno portato avanti delle battaglie importanti in nome del bene comune e contro il prevalere dell’interesse particolare di certe lobby intrecciate al potere.
La società civile ha dato segno di grande maturità in questi mesi, grinta da vendere, idee molto chiare, fino ad arrivare a indicare una via ai partiti, che invece sono gli unici a non dare segni vitali, che vadano oltre la superficie e a un certo modo di fare politica vecchio e superato e che non vogliamo vedere più. I cittadini hanno dimostrato di essere molto più avanti dei partiti, lo capite? Siete rimasti indietro.
Cari partiti ma cosa state aspettando, si può sapere? Quanto tempo ancora dovremo leggere febbrilmente tutte le cronache locali per cogliere qualche vostro segnale?
Ve lo dobbiamo dire: ci sentiamo un po’ delusi e presi in giro. Perché sul fronte del 9 giugno ci sembra la stiate prendendo un po’ troppo sotto gamba. Oggi ci giochiamo il destino dei prossimi cinque anni, lo avete capito?
Ma la domanda più importante è questa: pensate di potere vincere il 9 giugno o l’avete già data persa? Perché, ve lo diciamo con sincerità, sembrerebbe proprio di no, che non ci crediate neanche voi: da quello che fate (e non fate), dalla flemma che ci state mettendo (un anno per scrivere un programma, che ancora non c’è), dal giochetto di dire di volere un candidato civico solo per sembrare più disponibili e democratici, candidato che però vi scegliete voi, da soli, senza ascoltare la voce di noi cittadini.
Una via vi è stata indicata. Mettersi tutti intorno a un tavolo, partiti e società civile, per fare (in tempi stretti) un programma davvero condiviso e scegliere un candidato che davvero lo rappresenti. Quanto dobbiamo aspettare ancora? Lo capite che, senza di noi, non si vince?
Presidio riuscito in Via Mozzoni: c’erano i residenti, Caldirolo libera, La voce degli alberi, la stampa, alcuni politici e la pioggia clemente si è fermata dalle 17, 30 alle 18,30.
Proprio in questi giorni è stata istituita dal Consiglio Comunale una commissione informativa, affinché tutti i consiglieri possano accedere agli atti di questa intricata vicenda.
Auguriamoci che la politica risolva questo illecito amministrativo che dura da decenni e restituire l’area del Parco Urbano G.Bassani come spazio verde pubblico🌳
«Vi racconto il mio sogno impossibile: diventare un libro», è il titolo di un articolo di Luigi Sampietro (1943-2023) scelto dalla redazione (Stefano Salis) del Domenicale de Il Sole 24 Ore, (23 luglio 2023, n. 201, VIII) per ricordare l’amico e il collaboratore scomparso, uno scrittore capace di «leggere capire e narrare con stile d’umiltà».
È stato per una vita, trent’anni, colonna portante del Domenicale, docente di Letteratura americana presso la Statale di Milano, traduttore e scrittore, ma soprattutto, come egli amava definirsi, “lettore di professione”. Il suo libro La Passione per la letteratura edito da Nino Aragno, (Torino 2017) riunisce circa centocinquanta dei sui articoli su “Il Sole”.
Del resto – come affermava Thomas Carlyle ricordato dallo stesso Sampietro in un’intervista per la presentazione del libro – «la storia universale è un infinito libro sacro che tutti gli uomini scrivono e leggono e cercano di capire, e nel quale sono scritti anch’essi».
Questo desiderio di voler divenire un libro – ricorda Stefano Salis – esprime l’autenticità e l’intensità del suo essersi messo a servizio della letteratura per svelare nei libri, come in uno scrigno, un tesoro di verità e di realtà declinanti la condizione e l’avventura umana nelle sue pluriformi e infinite espressioni.
Il sogno impossibile di Sampietro, aggiunge Stefano Salis, affiora «da piccoli dettagli: dall’episodio dello zio che si ferma a raccontargli le storie, dal suo desiderio di reincarnarsi in un libro, dalla passione e dalla forza, dalla precisione e dall’arguzia che usa per parlare dei libri» (ivi, 9).
Tutto ciò rivela in Luigi Sampietro la consapevolezza che, per un umanista, il vero fine dell’attività e della critica letteraria sono la comunicazione con i lettori. Un’attività che richiede uno specifico impegno etico, il sentire della sua stessa interiorità: «la critica prepara il testo di un libro all’incontro con il suo destinatario, che corrisponde a un incontro tra due persone. Un incontro spirituale» (ivi, XVI).
Nei panni di un libro
Nei panni di un libro, così muta il titolo dell’articolo del 2005 del Domenicale nell’ampio volume di ben 775 pagine La passione della letteratura. Un articolo posto non a caso alla fine, a mo’ di post-scriptum: «mi chiedo se il mio destino non possa essere quello di invertire a un certo punto le parti e diventare un libro. Per vedere l’effetto che fa» (ivi, 747).
Ma poiché c’è libro e libro bisogna trovare quello giusto; che certamente per Sampietro non è un romanzo. Piuttosto, potrebbe assomigliare a uno di quelli che si possono aprire a caso, a spizzico, e saltando di qua e di là trovi sempre un interlocutore, come un vero amico che anche quando lo rivedi dopo molto tempo è come se l’avessi incontrato il giorno prima.
Forse si diventa un libro, ci si mette nei suoi panni, solo provando a scriverlo, incalza il nostro. Ma di che genere dovrebbe essere, egli si domanda. Certamente non un volume accademico, contenente dati ed informazioni e destinato ad essere presto dimenticato, perché superato da nuovi dati e informazioni. Ma neppure un libro di memorie, in quanto Sampietro dichiara di non aver nulla da raccontare. Forse allora una raccolta di saggi come i grandi autori; ma il rischio è quello di partorire solo pensierini, come quelli scritti sui quaderni a righe delle elementari.
Nei panni di un libro: come una specie di viaggio al culmine della coscienza, dove finalmente si distingue tra il grano e la zizzania. Ma non dovrà essere un libro confessione, no, no. Semmai deve rivelare ciò in cui si crede e si continua a credere, e non una volta, ma lungo tutta l’erranza della vita, in continuità con le parole che si sono lette e scritte, provando e riprovando a ricomporle, a scambiarle di posto, a sovrascriverle anche, fino a mostrare un’immagine, un volto, quello interiore e più profondo di sé:
«un libro che contenga la “quinta essenza”, ciò che rimane di noi, una volta passata la frontiera. Che non è necessariamente quella dell’aldilà, ma di un luogo in cui, come il grano dal loglio, si distinguono le cose futili da quelle che contano. Insomma un libro che mi riveli quello che penso: non per frammenti ma in maniera sostenuta e continua. Perché è nell’atto del mettere insieme le parole, provando e riprovando finché non corrispondono a una immagine interna, che si può scoprire ciò in cui si crede. I pensieri, come i sogni, posano sul fondo di noi stessi: non si costruiscono: si possono solo ricostruire. E un libro non è fatto del sogno di un giorno ma di ciò che la mente ha rielaborato nel tempo» (ivi, 748).
“Tendono alla chiarità le cose oscure”
Ho pensato così anch’io, meditando quest’ultimo pensiero del nostro, che la quinta essenza di un libro sia allora la parola stessa in gestazione. E il sogno, che è il silenzio dell’Assoluto in noi, si compone di parole che non si inventano indicando piuttosto un itinerario verso un altrove; parole che riceviamo da altri ed esse si posano sul fondo della coscienza come in un concepimento.
Queste poi crescono nella pagina, “la nuda e cruda parola scritta”: raccolta «in quello scrigno che è il volume cartaceo (e, oggi, il lettore di e-book), le parole rimangono ferme e sono i nostri occhi e il nostro pensiero a doverle inseguire nello spazio bianco della pagina. La quale, a sua volta, rappresenta il silenzio dell’assoluto da cui emergono» (ivi, 104).
Di più. Quel che pensa il nostro autore circa l’essenza che un libro deve contenere, sembra essere proprio la parola poetica capace di mostrare il chiarore del mistero delle cose e delle parole nell’attimo stesso del loro svanire; un itinerario sotterraneo che porta al loro compiersi.
Così scrive: l’essenza è «quel che ho in mente, pensando a Montale (“Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture”); è una sorta di viaggio au bout de la conscience» (ivi, 748).
Forse il sogno impossibile di divenire un libro è reso possibile dalla poesia, perché nasce dal desiderio di offrire ai lettori un gesto di ringraziamento attraverso un’espressione di stupore. Il desiderio di fare dono di qualcosa che è dentro l’esistenza stessa ma anche oltre colui che scrive: il suo stesso stupore, l’incanto vissuto che celebra il mistero delle cose.
In un articolo del 2014 Sampietro scrive: «Ritrovo in un mare di vecchie carte il testo di un’intervista che rileggo. Sono le parole conclusive di un ancora giovane Walcott, qualche anno prima del Nobel, che, a un professorino in pellegrinaggio a casa sua a Boston, rivela l’arcano:
«La poesia? Credo che la si possa intendere come un atto di commemorazione. Un gesto di ringraziamento. E anche come un’espressione di stupore. La grande, grandissima poesia, poi, si colloca al di là dell’idea della morte. Di sicuro è qualcosa che va oltre la vita di chi la scrive. E per sua natura, per il fatto che è costruita sul ritmo la poesia è incantagione – incantesimo – e in quanto incantesimo è celebrazione».
«E che cosa celebra? Il mistero delle cose. Lo sconcerto, forse; forse addirittura lo stordimento. Ma al di là di tutto è allo stupore, alla capacità di stupirsi davanti alla realtà, che la poesia rende omaggio. Credo anche che quella del poeta sia un’occupazione che abbia qualcosa di sacro» (ivi, 554).
«Tua strada è poesia, la tua mèta è al di là della poesia»
Anche nel libro di Hermann BrochLa morte di Virgiliola poesia genera una itineranza che porta altrove: «La mèta era al di là dell’oscurità, era al di là dei campi del passato custoditi dalle madri» (Feltrinelli, Milano 2016, 77).
«Svanire è la ventura» ci ha appena ricordato Montale, e in questo svanire, fluendo di colori e di questi in musiche, nell’esaurirsi infine anche della parola detta o scritta, chiusa e ferma nello scrigno del libro, da lì, abisso di silenzio, «vapora la vita quale essenza» – è ancora Montale.
Quasi a ricordare, almeno a me, itinerante nel cono di luce del Vangelo, quella buona ventura che è pure esemplarmente il concepimento e l’itineranza della Parola che si fa carne; del suo svuotarsi e farsi accogliente anche al vuoto della morte; kenosis della parola e suo abbassamento dentro l’umanità, fin nel fondo dei suoi scarti crocifissi.
E poi, principiare oltre, dissigillando la pietra, come voltando una pagina, riprendendo il cammino attraverso le pagine di un libro quadriforme, ad ogni pagina una piccola sosta, un respiro ampio, là dove più intensamente vapora lo spirito del Maestro. Un libro che ancor oggi chiede di esser riscritto con la vita, come un corpo scritto fuori e dentro il proprio corpo; di più: un corpo a corpo con la parola letta e riscritta, che può divenire, come la Bibbia, il corpus delle scritture in noi.
Sono debitore di questi pensieri alla ruminazione in me di alcuni frammenti di poesia di Emily Dickinson, come le briciole di quel pane della parabola evangelica che la donna Cananea rivendicava per sé e per sua figlia, fuori di sé dal male. Parole insieme avvolgenti e perforanti le sue, che trasformano le ruvide e oppositive parole rivoltele dal Maestro in parole di stupita ammirazione e gratitudine, che aprono Gesù stesso alla missione oltre i confini del suo popolo verso gli altri popoli: «Donna davvero grande è la tua fede. Avvenga secondo la tua parola».
Una parola muore
appena è detta
dice qualcuno –
Io dico che comincia
appena a vivere
quel giorno.
(Tutte le poesie, a cura di G. Ierolli, J1212 (1872) / F278 (1862).
E per Giuseppe Ungaretti il mondo, l’umanità, la sua stessa vita fioriscono dalla parola rinascente; quella affiorata dal silenzio, appena nata, scava un abisso nella vita del poeta, e questo uscir dal solco (delirante fermento), oh meraviglia: è poesia.
Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
(Tutte le poesie, 58)
Nei panni di un libro vivente
L’apostolo Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto ricorda loro che essi sono diventati, in ragione della sua predicazione, una sua lettera vivente: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2Cor 3, 2-3)
Così pure il dimorare del discepolo nella parola del Maestro è come rivestirsi delle sue parole vive, una chiamata anche oggi a metterci nei panni di quel libro vivente che è il vangelo. «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente». (Col 3, 12-17)
Il sogno cui ambire non è appena quello di diventare un libro, ma semmai è azzardare a divenire un’intera biblioteca. Così la pensa san Girolamo quando scrisse del suo discepolo Nepoziano che «con la lettura assidua e la meditazione costante aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo» (Ep. 60,10: CSEL 54, 561).
A nostro incoraggiamento di novizi merita infine rileggere un passo della vita di santa Teresa d’Avila scritta da lei medesima: «Quando si proibì la lettura di molti libri in lingua volgare, io ne soffrii molto, perché la lettura di alcuni mi procurava gioia, e non potendo ormai più leggere perché quelli permessi erano in latino, il Signore mi disse: “Non darti pena, perché io ti darò un libro vivente”» (Libro della Vita, 26).
Una manciata di fango che diventa luce
Come nasce un uomo nell’amore così nasce un libro vivente dentro di lui: «E il Signore Dio formò l’uomo dal fango della terra e gli ispirò in faccia il soffio della vita e l’uomo divenne persona vivente» (Gn 2, 7).
E così nascono i libri, nell’amore, e così nascono
i libri che nessuno legge mai, e così il
libro prima di nascere Dio lo deposita in te
come una manciata di fango che diventa luce.
Domandano tutti come si fa a scrivere un
libro: si va vicino a Dio e gli si dice: feconda
la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami
via dagli altri, rapiscimi. Così nascono i libri, così nascono i poeti.
(Alda Merini, Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, Frassinelli, Milano 23001, 81).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Ferrara. Petrolchimico, innovazione e ricerca. Uno sviluppo sostenibile si realizza insieme
Da diversi anni lo sviluppo della provincia di Ferrara, a partire dal Comune capoluogo, sembra avere come scelta di fondo l’adattamento ad un declino sempre più accentuato, soprattutto in confronto al resto della Regione.
L’attuale Amministrazione della città sembra finalizzare in particolare lo sviluppo verso il commercio, la ristorazione, gli spettacoli, gli eventi, ecc., come diretta fonte di guadagno per gli addetti e svago temporaneo per i cittadini, con la cultura mordi e fuggi e la mega-programmazione musicale in “piazza”, senza avere una visione di lungo periodo.
La stessa Università sembra essere apprezzata soprattutto per il valore aggiunto arrecato dai 28.000 studenti, di cui il 45% fuori sede, grazie agli introiti per i fornitori dei vari servizi, che superano i 90 milioni di Euro, a partire dagli alloggi, la ristorazione, gli spettacoli, ecc.
Poco più di un anno fa, appena nominato, il presidente provinciale dell’Ascom, in sede di presentazione, confidò l’importanza strategica che riveste l’Università di Ferrara per la città, con una espressione molto significativa:
«Unife – disse in modo esplicito – è tanta roba».
Impossibile contraddirlo.
Io credo che non sia questa la scelta giusta per la nostra città, soprattutto tenendo conto delle potenzialità che ha il nostro territorio e i rischi di un decadimento che si presenta davanti agli occhi, se non si punta a progetti di lungo periodo con il supporto dell’Università e delle competenze presenti nel territorio.
È l’innovazione che, traguardando nel lungo periodo, assicura lo sviluppo ed esalta le potenzialità, mentre vivere di episodi rischia di drogare l’ambiente e, senza sbocchi, creare frustrazione, anche in chi vorrebbe impegnarsi.
L’Innovazione è sostenuta dalla Ricerca e ne è un esempio evidente l’assegnazione nei giorni scorsi del Premio Nobel per la medicina alla ungherese Katalin Karikò e all’americano Drew Weissman, grazie alla messa a punto del vaccino anti Covid 19; è un risultato ottenuto grazie all’impegno di tanti altri colleghi che si sono impegnati per decenni, senza arrendersi mai, valorizzando anche gli errori, con tenacia e umiltà, doti fondamentali dei Ricercatori.
E per quanto riguarda l’innovazione faccio riferimento al nostro Petrolchimico, che da circa 80 anni ha assicurato benessere a decine di migliaia di famiglie ferraresi e non solo e all’interno del quale sono stati ottenuti eccezionali risultati scientifici e industriali, a partire dalla plastica, nata a Ferrara.
Il polipropilene in particolare, fiore all’occhiello della Ricerca italiana e ferrarese, è un materiale fondamentale per l’umanità soprattutto nella sanità, nell’imballaggio, nell’automotive, nell’edilizia, ecc.
Di plastica se ne producono circa 400 milioni di tonnellate ogni anno, in tutto il mondo, pari a un cubo di lato 800 metri, in grande parte dopo l’uso, passate negli inceneritori, nelle discariche o disperse nell’ambiente.
In Italia si mettono a rifiuto 3.000.000 ton all’anno di plastica, di cui 900.000 ton costituite da polipropilene e polietilene, le plastiche di cui il Petrolchimico di Ferrara è il massimo detentore delle conoscenze.
Le materie plastiche (rifiuto) bruciate, o comunque disperse, rappresentano, oltre che un grave problema ambientale anche una incredibile distruzione di ricchezza, che non può permettersi il nostro Paese che importa il 93% del petrolio di cui ha bisogno.
A Ferrara è in atto un fenomenale percorso innovativo presso ilcentro Ricerche Giulio Natta, purtroppo però i risultati di tale percorso avranno ricadute industriali non da noi ma in Germania e negli Stati Uniti, anche a causa di alcune scelte produttive che stanno avendo potenziali effetti disastrosi, come la fermata del cracher di Porto Marghera.
L’innovazione di cui parlo, il progetto MoReTech con il processo molecolare, potrebbe caratterizzare un’epoca, in quanto permette di riciclare la plastica a fine vita, ossia la plastica rifiuto, con effetti positivi dal punto di vista ambientale, occupazionale, economico, scientifico.
A livello nazionale, solo per il trattamento dei manufatti di plastica (rifiuto) di polipropilene e polietilene, sarebbero necessarie almeno 7 – 8 di linee di riciclo molecolare da 125.000 ton all’anno, con a valle un cracker nel nord (a Porto Marghera) e con un cracker nel sud (in Sicilia), possibilmente sostenuti da fonti energetiche rinnovabili, per l’ottenimento del propilene e dell’etilene, per fare altra plastica senza avere bisogno del petrolio.
Ora questa importante ricchezza industriale, il Petrolchimico, la più grande nel nostro territorio, con un prestigioso Centro Ricerche di livello mondiale, rischia di decadere trascinandosi dietro il decadimento di tutta l’area ferrarese, se non prosegue nel percorso dell’innovazione.
Il Petrolchimico potrebbe trovare nel riciclo integrale della plastica il suo futuro e quello del territorio che lo contiene e mai come ora è possibile realizzare tale prospettiva, in quanto esiste la disponibilità di tecnologie efficaci, competenze diffuse, sensibilità positive.
Perchè non si muove nulla a Ferrara in questa direzione ?
Il progetto di efficientamento energetico del Petrolchimico, pubblicizzato nei mesi scorsi, è una buona cosa, ma non ha nulla a che vedere con l’innovazione strategica che può garantire sviluppo per i prossimi decenni.
Questo è quanto si realizzò negli anni ‘80 con i fenomenali breakthrough del processo Spheripol, caratterizzato da notevoli risparmi energetici ed enormi vantaggi ecologici, seguito alcuni anni dopo dal processo Catalloy, processi inventati a Ferrara e applicati in oltre cento linee produttive in tutto il mondo.
Chi ha inventato la lampadina ad incandescenza non aveva come obiettivo quello di migliorare l’efficienza delle candele di cera, praticamente scomparse con l’invenzione strategica dell’americano Edison e dell’italiano Cruto, che hanno puntato a innovare non a migliorare.
La Petrolchimica nel nostro Paese non avrà un futuro se non avvierà un ciclo virtuoso di innovazioni, che sappiano affrontare lo strapotere delle grandi aziende petrolifere che hanno stabilimenti petrolchimici di enormi dimensioni, a “bocca di pozzo” e di raffineria, con costi delle materie prime sensibilmente inferiori a quelli sopportati in Italia.
All’estero sono in atto numerosi progetti innovativi su questo argomento che coinvolgono centri ricerche, università, petrolchimici, società di ingegneria, industrie di trasformazione, società di servizi, trainati da pubbliche amministrazioni, ad esempio i Land in Germania, che stanno “mettendo a terra”, come si dice in gergo, progetti di linee di produzione che garantiscono occupazione di qualità e risparmio di materie prime fossili.
In Germania, inoltre, le pubbliche amministrazioni sono impegnate in progetti che coinvolgono competenze tecniche e scientifiche per la realizzazione di cracher elettrificati che possono ridurre del 90% l’emissione di CO2 e rendere tali impianti, fondamentali per la tecnologia del riciclo chimico della plastica, come quella del progetto MoReTech, favorevoli per l’ambiente.
In Italia con LyondellBasell, ENI Versalis e Yara abbiamo società petrolchimiche importanti, abbiamo centri ricerche di prestigio e così pure università, aziende di raccolta dei rifiuti strutturate ed efficienti, associazioni di volontariato sensibili al tema ambientale, istituti scolastici desiderosi di conoscere e operare, ecc.
Perchè non si muove nulla per realizzare innovazioni che possono portare ad uno sviluppo win-win di lungo periodo, ossia dove si vince insieme: l’ambiente, l’impresa, lo sviluppo sostenibile, il lavoro e l’occupazione, la scuola, l’identità del territorio e la partecipazione dei cittadini ?
Oscar come miglior cortometraggio animato 2015, “Feast” racconta di Winston, un cagnolino che divora qualunque cibo gli si presenti davanti. Fino a quando…
Una bella scoperta, oggi, sempre nel fantastico mondo dei cortometraggi: “Feast”, un cortometraggio animato del 2014 prodotto da Walt Disney Animation Studios e vincitore dell’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione nel 2015.
Il corto ha fatto il suo debutto all’Annecy International Animated Film Festival, il 10 giugno 2014, ed è uscito nelle sale insieme al film “Big Hero 6”. Utilizza lo stile di animazione “Meander”, che unisce il disegno tradizionale agli effetti 3D più all’avanguardia, tecnica utilizzata nel film corto “Paperman”, vincitore dell’Oscar 2013.
Il corto di sei minuti,interamente visionabile su YouTube (qui sotto), è diretto da Patrick Osborne, un animatore che ha lavorato a “Ralph Spaccatutto” e a “Bolt”.
L’idea è interessante: il corto è, infatti, la storia della vita sentimentale di un uomo vista attraverso gli occhi del suo migliore amico e cane, Winston, e rivelata, morso dopo morso, attraverso i pasti che condividono. Winston èun boston terrierche mangia qualsiasi cosa, “junk food” soprattutto.
Tutto ha il suo inizio, qui è la strada. Winston è un cane randagio, in cerca di cibo. Una notte incontra un essere umano di nome James che gli dà un paio di patatine fritte e decide di adottarlo.
Nel corso degli anni, Winston apprezza molto il cibo che gli viene offerto da James; può mangiare di tutto, gli viene permesso tutto. È il padrone della casa e dei suoi spazi. Ma un giorno James si innamora di una cameriera, Kirby, che incontra in una tavola calda. Quando iniziano a frequentarsi, Winston riceve solo cibo per cani e tante verdure – la salutista Kirby cerca di aiutarli a mantenersi sani e in forma – il che lo turba profondamente. Difficili passare da un cibo tanto incontrollato a uno così equilibrato e insapore. Poi il dramma, il punto di rottura. Un giorno, James e Kirby litigano e lei lo lascia, James cade in una profonda depressione.
Winston all’inizio è felice perché lui e James sono tornati a mangiare cibi spazzatura, ma dopo un po’ nota quanto sia stato infelice il suo proprietario. Decide quindi di rimettere insieme la coppia. Portando in bocca un rametto di erbetta verde – che pare prezzemolo – che spesso veniva messo sul cibo per cani da Kirby, Winston si reca al ristorante dove lavora la ragazza. Anche se il ristorante è pieno di tentazioni culinarie, Winston va avanti e trova Kirby. James, che sta inseguendo Winston, lo raggiunge e fa pace con il suo amore. Matrimonio, nuova casa, sempre con Winston che torna a mangiare cibo per cani, ma non gli importa più perché il suo proprietario è felice.
Un giorno, però, arriva un nuovo membro in famiglia: un figlio, che ha l’abitudine di lasciare cadere il cibo. La vita felice e piena di cibo spazzatura di Winston riprende mentre si gode il primo compleanno del bambino, godendosi la caduta dei cupcakes. La famiglia di James e Kirby continua a crescere e presto avranno anche una figlia disordinata.
Tutto è bene ciò che finisce bene. Ci vuole, in questi tempi bui.
Grande storia di buoni sentimenti, dedizione e amore, tutto in pochi muniti.
“Feast”, di Patrick Osborne, musica di Alex Ebert, Walt Disney Animation Studios e Walt Disney Pictures, 2014, 6 mn
Cara Barilla, quanto hai pagato per usare la nostra Rotonda Foschini?
Non è uno scherzo. Li avrete visti. Cartelloni giganti in giro per Ferrara, replicano la pubblicità della pasta più famosa al mondo. Quella del Mulino Bianco, del “Dove c’è casa c’è Barilla”. Bell’idea e bell’effetto: un biscottone con al centro l’ovale dello storico marchio Barilla. Eccola, la incontro di nuovo in un post su Ferrara Rinasce, la pagina Facebook dove Alan Fabbri dialoga con i suoi tanti followers.
Testo d’accompagnamento: Barilla sceglie #Ferrara e la sua rotonda Foschini.
La foto pubblicitaria:
Sotto la foto: 250 Like e una sfilza di commenti entusiasti.
In Italia siamo speciali per regalare le nostre bellezze, i nostri tesori, la nostra arte. I musei e le biblioteche straniere si fanno pagare fior di quattrini lo sfruttamento commerciale delle immagini dei loro tesori, in Italia spesso ci accontentiamo di farci pagare una copia della foto.
Almeno Totò (in “Totò Truffa”) la Fontana di Trevi cercava di venderla. Non era il legittimo proprietario della celeberrima fontana di Pietro Bracci, ma aveva una sua personale ragione: perché tutti quegli stranieri potevano vedere e toccare il nostro monumento senza pagare il biglietto? Potevano forse bastare le 100 lire buttate nella vasca?
Totò è grandissimo ma non può essere un esempio, almeno nel caso della fontana, dove da il meglio di sé come attore ma è pur sempre un truffatore. Io, pero, nel caso Barilla/Rotonda Foschini mi sento il truffato.
La Barilla non è solo la marca di pasta più conosciuta e (forse) più venduta, è anche una grande multinazionale, con stabilimenti in tutto il mondo, e che nel 2022 ha fatturato 4,663 miliardi di euro, con un utile netto di 192 milioni di euro.
La Barilla, insieme a Volkswagen e Ferrero, è top spender in pubblicità: solo in Italia, ogni anno il Gruppo Barilla spende circa 90 milioni di euro in spazi pubblicitari: sui muri, in televisione, sui giornali, sui social media.
Allora, io non contesto la pubblicità della Barilla con la Rotonda Foschini. Anzi, a me piace, infatti Barilla spende tantissimo ma le sue pubblicità sono sempre originali, alcune volte geniali. Però chiedo: perché nella pubblicità non c’è nessun riferimento a Ferrara e al suo Teatro? Nemmeno una scritta piccola piccola.
E soprattutto, questa volta la domanda è per il Sindaco e la sua allegra squadra, la potentissima Barilla ha pagato qualcosa – il pagamento di una royalty, un cospicuo rimborso, almeno un’ elemosina – per prendersi la nostra Rotonda Foschini?
La scorsa primavera, Bruce Springsteen si è preso gratis quel gioiello del Parco Urbano e se n’è andato lasciando fango al posto dell’erba. I danni non li ha pagati lui ma la Fondazione Teatro Comunale (con i nostri soldi ovviamente).
Ora la Rotonda Foschini, cioè il Teatro Comunale, cioè Ferrara, entra (in forma anonima) in una famosa pubblicità.
In fondo sarebbe una bella cosa, un piccolo orgoglio, qualcuno dice: un onore; non esageriamo. Ma se, anche questa volta, abbiamo regalato le nostre bellezze ai miliardari è solo una beffa. Anzi, un furto legalizzato.
La guerra viene usata per riaffermare a casa nostra il modello neoliberista e diseguale, in vista della prossima austerità. Anche per questo la lotta per la pace è un’assoluta priorità
Mi stavo accingendo a mettere insieme idee e materiali relativi alla NADEF (Nota di Aggiornamento Documento Economia e Finanza) approvata dal governo nei giorni scorsi e su cui si basa la manovra di politica economica e sociale che viene presentata in questi giorni, quando mi è sopraggiunto una sorta di blocco, di sentimento di inadeguatezza rispetto al fatto di concentrare lì la mia attenzione. Infatti, in quegli stessi momenti si dispiegava l’ingiustificabile attacco terroristico di Hamas al popolo israeliano del 7 ottobre, una vicenda così grave e pesante, destinata a cambiare i destini del mondo.
Dopo la guerra tra Ucraina (e non solo) e Russia e dopo gli accadimenti della guerra in NagornoKarabakh, con la persecuzione nei confronti degli armeni, ora la guerra tra Israele e Hamas, con l’aggressione al primo e il rischio di un inammissibile genocidio nei confronti dell’intero popolo palestinese, diventa sempre più evidente che la paventata Terza Guerra mondiale a pezzi sta prendendo forma.
La guerra torna ad essere, al contrario del ripudio ben chiaro nella nostra Carta Costituzionale, “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”
La guerra che, anche da noi, si alimenta diuno spirito bellicista veramente impresentabile e foriero di limitazione delle libertà democratiche. Non solo non c’è alcuna analisi sullo stato delle relazioni internazionali, su dove sta andando il mondo, ma si prova a creare un clima che va nella direzione suindicata, affidandosi, da parte di molti commentatori interessati, adargomentazioni animate da un puro approccio vendicativo, rispolverando la logica perversa dell’ “occhio per occhio, dente per dente”.
Uno per tutti, il neodirettore di Libero Mario Sechi, da cui ci è toccato sentire che non è possibile distinguere tra Hamas e il popolo palestinese e che è inevitabile che la risposta israeliana comporti l’uccisione di moltissimi civili palestinesi. Oppure, abbiamo assistito all’incredibile contestazione del sindaco di Milano Sala, perché ha osato esporre al Municipio la bandiera della pace assieme a quella di Israele, per non parlare della proibizione da parte di Macron in Francia delle manifestazioni a sostegno della Palestina.
La realtà è che il dispiegarsi della guerra, come è sempre successo nella storia, diventa uno strumento formidabile per restringere la democrazia e scaricarne il prezzo sui ceti più deboli e poveri. Qui sta il nesso tra realtà della guerra, attacco alle libertà democratiche e proseguimento e accentuazione di politiche con caratteristiche classiste e antipopolari. Perché è questo che si sta provando a mettere in campo anche nel nostro Paese.
Intanto, le scelte del governo Meloni, ma anche gli orientamenti dell’Unione Europea, stanno riportandoci progressivamente ad una “nuova austerità”. Alla faccia di chi aveva esaltato la svolta epocale del Recovery Plan supportato dall’emissione di debito europeo, l’Unione Europea con il 2024 darà vita ad un nuovo Patto di Stabilità e crescita. Il suo parto non è agevole, esistono allo stato discussioni aperte sulla maggiore o minore rigidità e cogenza da dare alle sue regole, che saranno senz’altro più lasche del Patto di Stabilità e Crescita esistente prima della pandemia, ma che, ancora una volta, ruoteranno attorno alla priorità di ridurre il debito pubblico e, soprattutto, didiminuire la spesa per investimenti e quella corrente. Quella spesa, per intenderci, che sostiene lo Stato sociale, e cioè in primo luogo sanità, previdenza e istruzione.
Il governo italiano di destra, come del resto il precedente governo Draghi, e non solo, si sta prontamente adeguando a questa nuova impostazione, visto che ne condivide la sostanza. Infatti, la NADEF, e la manovra che ne seguirà, segue quel solco: il saldo della spesa primaria ( in sostanza, il rapporto tra spesa pubblica corrente e per investimenti e entrate correnti) dovrebbe passare da un disavanzo dell’ 1,5% del 2023 ad un avanzo dell’ 1,6% nel 2026. La spesa corrente dovrebbe diminuire dal 46,7% del PIL nel 2023 al 44,9% nel 2026 e, nonostante questo, il debito pubblico rispetto al PIL si manterrà sostanzialmente costante, attorno al 140%. Risultati, questi, che significano, appunto, un forte taglio della spesa sociale, dopo che, peraltro, già nel 2023 abbiamo già visto all’opera l’anteprima di questa nuova austerità: per il tramite dell’inflazione calcolata al 5,8% la spesa pubblica reale è già scesa del 5%, con i redditi da lavoro pubblico dipendente al 5,1% e le prestazioni sociali al 3,7%.
Va anche notato che gli obiettivi per i prossimi anni, che comportano già di per sé un serio peggioramento nelle condizioni dei ceti più deboli e poveri, si basano su previsioni che difficilmente potranno essere realizzate: le stime di crescita del PIL sono sovradimensionate, come da ultimo evidenziato da Bankitalia, le spese per gli interessi, al contrario, rischiano si essere sottostimate, la previsione di entrate per ulteriori privatizzazioni (circa 20 miliardi di € da qui al 2026), al di là della scelta non condivisibile, sono molto probabilmente irrealistiche. Tutto ciò sarebbe appena sufficiente a coprire l’abbassamento del cuneo fiscale per i lavoratoti dipendenti già in vigore con il 2023 e il ridisegno delle prime 2 aliquote IRPEF, e, si badi bene, solo per il 2024. Insomma, siamo in presenza – ed è già un giudizio ottimistico – di una manovra che è, contemporaneamente, di attacco alle condizioni di vita dei ceti popolari e di puro galleggiamento, spostando poco più in là nel tempo il redde rationem del ritorno ad una pesante austerità.
Qui entra in gioco la nota strategia di evocare il nemico esterno, che siano i migranti, o la crisi energetica o ancora la guerra che aleggia per tutto il mondo. E magari, se le elezioni europee non daranno l’esito sperato dalla destra, anche l’ “Europa matrigna”. Bisogna poi individuare anche i nemici interni, in particolare, oltre all’opposizione sociale e politica, la magistratura e la stampa, che vanno entrambe ricondotte a più miti consigli e ad una loro subalternità al potere esecutivo.
Il fallimento che arriverà delle politiche economiche e sociali ispirate al neoliberismo, da cui non si discosta neanche la maggioranza di destra, deve essere in qualche modo occultato e imputato ad altri fattori e, per quanto possibile, arginato facendo leva sul rilancio di un’ideologia e di una pratica autoritaria e nazionalista, di un’aggiornata – ma neanche tanto- rispolveratura del “Dio, Patria e Famiglia” di infausta memoria.
Il punto di fondo, in realtà, è che, dopo la Grande Crisi del 2007-2008 che ha segnato la fine dell’illusione neoliberista e della globalizzazione trainata dal mercato e chiusa la fase che aveva promesso crescita della ricchezza, peraltro in modo molto diseguale, la prosecuzione di quel medesimo modello neoliberista, visto che non poteva basarsi su un presunto consenso, si è avvalso della paura e delle preoccupazioni indotte nelle persone: il rischio del default nel 2011-2012, la crisi pandemica, e oggi la guerra che si diffonde nel mondo.
E’ l’idea della “schock economy”, ben descritta negli ultimi anni da Naomi Klein, che mina la democrazia e vira pericolosamente verso l’autoritarismo. È quel che vediamo diffondersi nei paesi del civile Occidente.
Non è un destino ineluttabile. Ci sono, per fortuna, molte forze ed energie anche nella nostra società che intendono contrastare questa deriva e proporre un’alternativa di modello sociale e produttivo.
Da ultimo, l’abbiamo visto a Roma il 7 ottobre, con la straordinaria manifestazione promossa dalla CGIL e da oltre 100 Associazioni per difendere e attuare il dettato costituzionale, per affermare pace, diritti e lavoro.
Occorre, però, avere presente che, nel nuovo contesto di oggi, la lotta per la pace rappresenta una assoluta priorità, e che essa va coniugata con la lotta per la democrazia e per l’affermazione di scelte politiche basate sulla ricostruzione dell’eguaglianza sociale. Questo oggi è un passaggio decisivo, che si deve mettere in campo da subito e su di esso raccogliere una vasta coalizione sociale e una forte mobilitazione delle persone, cui far seguire un’adeguata rappresentanza politica.
Certamente non mancheranno le occasioni per tornarci sopra, proprio perché lo impone la necessità dei tempi presenti.
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“Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’illusione di poter partecipare in qualche modo a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane.”
(Fabrizio De’ André)
Piango
con l’autunno,
le sue foglie,
i suoi figli.
Non c’è nulla
di più verosimile da fare
adesso.
Le parole sono pietre
che feriscono
chi non vuole ascoltarle
e nessuno vuole più
ascoltare
nulla.
Mi sento poesia
che sfida la guerra,
ma sono anche la
guerra,
che sfida l’impossibile.
Tutti siamo la guerra,
perché essa esiste.
Ma verrà il momento
che vorremo che non
esista più
e avremo tutti pena
di noi stessi.
Chiederemo scusa,
con l’anima sepolta
nella vergogna,
al vento,
all”acqua,
alla terra dove riposare
da vivi , non da morti.
Poi io me ne andrò,
a stringere il cielo,
come da bambina.
*
Come trascorre la notte,
di una terra
dissanguata?
Che odore ha il buio,
un tempo del sogno?
Come ci si prepara
al levarsi di un nuovo
sole?
Forse, rimane un gallo
che canta,
con migliaia di madri
che non serve svegliare,
nel loro pianto desolato,
sussurrate parole di
stelle
troppo lontane,
per i figli straziati,
per i figli appena
conosciuti.
Nulla anticipa più l’alba
del latte e del miele.
L’esistenza non è che
una poesia
scritta sulla sabbia,
imparata a memoria
e dimenticata.
*
Ci muore addosso,
un altro autunno.
Tornerà la neve
a smarrire il rosso
del fogliame,
del sangue
d’altri miserabili
senza terra amica.
E tutto sembra un
mondo
senza età,
che si compone e si
scompone
nel fiato caldo di Dio .
*
Si desta la luna,
sul mio impasto
d’ingredienti bianchi.
Ed è inghiottito
dal profumo dei limoni,
l’umido armistizio
della sera piovosa.
Un ritorno buono
di pacifiche serate,
quasi come
in un altro tempo.
Fragranze di uomini
raccontati.
come eroi stanchi,
alle guerre.
Sto preparando
i biscotti al limone
e penso che la pace
emani la stessa essenza.
Propagandosi
di confine in confine
come un vento di
zucchero,
ad asciugare il pianto
del mondo.
*
Non sento più
nessun vento che giochi.
Che porti via
elemosine di cielo
dagli occhi.
Che dirotti
quest’esistenza
ad un favore migliore.
Ad un sonno facile,
ad un giorno nuovo,
ad una comprensione
vera
di noi stessi.
Dov’è il tuo volto?
Non voglio perderlo.
Non sento più
nessun vento che tracci
il tuo volto, Dio.
Sonia Tri (Pordenone). Appassionata di scrittura, si dedica alla stesura di racconti in prosa, uno dei quali è scelto come racconto d’appendice nel libro ” Teologia della Follia” di Mattia Geretto (2013). Il suo esordio, invece, avviene qualche anno prima, collaborando ai racconti per l’infanzia del Corrierino del Friuli Venezia Giulia, con Guglielmo Donzella editore. Le sue poesie presenti in molte antologie, sono raccolte in buona parte in due sillogi: “Senti come respirano gli alberi” (2012); “I colori del cielo a settembre” (2020). Di queste, l’autrice cura la pagina FB: Le parole di Sonia Tri. In “Parole a capo“, abbiamo pubblicato altre sue poesie l’1 luglio 2021 e il 17/02/2022.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
“La formula può essere sostanza”. La Comune di Ferrara propone alle forze d’opposizione un punto d’incontro con i cittadini che parte da un cambiamento di metodo.
La Comune di Ferrara è un gruppo spontaneo di cittadine e cittadini che si è formato con l’intento di favorire e sostenere forme di aggregazione politica attorno a due temi centrali: giustizia climatica e sociale. La sostenibilità è un tema trasversale che deve orientare ogni scelta della futura amministrazione in ogni campo. Dal welfare all’urbanistica, dalla cultura all’economia.
L’iniziativa dal basso La Comune di Ferrara ha coinvolto centinaia di cittadine e cittadini, parte di quella Società Civile che in questi 4 anni, organizzandosi in varie forme, si è attivata per contrastare le scelte sbagliate della Giunta di Destra guidata da Fabbri e per proporre idee innovative e coraggiose per la città. Ricordiamo la battaglia vinta contro il Progetto Fe.ris. che voleva consegnare Ferrara alle grandi imprese private, le decine di migliaia di firme contro la trasformazione del Parco Urbano in un’area dedicata ai grandi eventi, la proposta di superare la gestione privatistica di Hera Spa dei Beni Comuni come il ciclo dei rifiuti e l’acqua, la richiesta di avviare un piano di sviluppo delle biblioteche pubbliche.
Esiste quindi oggi all’interno della società ferrarese un ricco patrimonio di idee e competenze che chiedono un cambio radicale, nei contenuti come nei metodi, a partire da questa campagna elettorale: dalla individuazione dei punti fondamentali del programma alla scelta partecipata del Candidato/a Sindaco/a e della sua squadra. Occorre insomma, pena la sconfitta, uscire dal vecchio modo di far politica.
Dopo alcuni mesi di studio, di incontri laboratoriali, e di confronti informali con esponenti di partiti, La Comune di Ferrara ha quindi deciso di mettere a disposizione di tutti i partiti e le forze di opposizione una proposta “di metodo” da usare a supporto della prossima campagna elettorale per le amministrative. Non una scelta di fare a meno dei partiti, o addirittura “contro i partiti”, ma al contrario, una proposta concreta ai partiti e alle forze di opposizione di aprirsi a un metodo democratico e partecipato, discutendo e decidendo insieme a centinaia di cittadini come (con quale programma e con quale candidato) opporsi alla lista della Destra.
“Riteniamo che sia giunto il momento di dare un segnale chiaro alla cittadinanza: dimostrare di avere una volontà ferrea di proporre un’alternativa per l’amministrazione della città che cresce basandosi su un metodo partecipativo” – dice Anna Zonari, portavoce del gruppo. “Comprendiamo e apprezziamo il lavoro svolto per creare un clima di collaborazione e coesione tra le forze d’opposizione, ma riteniamo che le scelte del “Tavolo” sarà vissuto da molti ferraresi come una scelta calata dall’alto e rischia di rivelarsi ancora una volta perdente. E’ invece necessario superare le barriere che separano politica e società civile, inaugurando una nuova fase nella quale i partiti di aprono ad un confronto diretto e collaborativo con i cittadini.”
“Sì può fare in tanti modi diversi, ma la formula che si sceglie può determinare la sostanza. È necessario innanzitutto – precisa Anna Zonari – lasciarsi alle spalle la tentazione di adottare il vecchio metodo della cooptazione e delle liste civetta, che tanti danni hanno fatto in passato. I partiti devono saper cogliere la grande opportunità che viene dall’accettare un metodo di co-progettazione con altri soggetti sociali, in una posizione di pari dignità di pensiero ed azione.”
“Con questo obiettivo ci sentiamo di proporre alle forze di opposizione di aderire alla proposta di costituire un nuovo spazio politico allargato, all’interno del quale ospitare tutte le voci interessate ad agire in favore di un cambiamento di segno e di passo nell’amministrazione della città”
Non abbiamo tanto tempo a disposizione, la campagna elettorale sarà lunga e molto combattuta. La Comune di Ferrara chiede al “Tavolo delle opposizioni” e ai singoli Partiti e Forze di Opposizione che ne fanno parte una risposta chiara e sollecita.
La Comune di Ferrara
Per saperne di più, per aderire, sostenere La Comune di Ferrara:
Funziona il carcere nel nostro Paese? Ha ancora senso scontare una pena rinchiusi dentro una cella? Si può scommettere su pene alternative? Mosso dalle stesse domande che anche il magistrato Gherardo Colombo si è posto nel suo libro “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla”, il detenuto autore di questo articolo si interrogasul senso della detenzionee sulla giustizia.
(Mauro Presini)
Le Voci da Dentro. Può l’umanità fare a meno del carcere?
di G.M.
Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, su 100 persone che hanno scontato una pena in carcere, quasi il 69 per cento tornano a delinquere. Solo il 31 per cento non lo fa. Questo significa una cosa piuttosto semplice: così com’è, il carcere non funziona.
Mi si perdoni il paragone rozzo e banale, ma qualsiasi persona, anche la più stolta, se si rendesse conto che un rubinetto della propria abitazione perdesse il 69% dell’acqua, lo sostituirebbe subito.
In Italia, invece, questo sistema di trattamento dei rei viene accettato senza troppe considerazioni critiche.
Il DAP ogni anno impiega quasi tre miliardi di euro per le sue necessità. Ciò significa che una parte non trascurabile della spesa pubblica italiana finisce in un sistema inefficace, se non controproducente.
A ciò si aggiunga un altro dato: in Italia il 90,1% del personale penitenziario è composto da agenti di polizia. Cosa vuol dire tutto questo? Significa che in Italia la cultura carceraria è in larga parte basata sull’aspetto repressivo.
Non è vero che ci sia una carenza di poliziotti penitenziari – nonostante la strumentalizzazione del securitarismo imperante dica il contrario – mentre è evidente la limitata presenza di educatori e di soggetti in grado di svolgere una funzione riabilitativa dei ristretti.
Spostiamo la nostra attenzione. Si deve criticare solo il “mal di carcere” o il “carcere in sé”? A mio avviso, sarebbe limitante pensare che la reclusione sia la migliore se non l’unica soluzione possibile per il reo. Si tratta di un discorso delicato, il quale non deve essere affrontato con ingenuità.
Una società priva di elementi sanzionatori non può darsi. Nemmeno l’anarchia fa a meno dei concetti di giustizia e di pena. Nessun’organizzazione sociale può prescindere da una dimensione morale. Nessuna morale può di conseguenza prescindere dalla dicotomia bene/male e da un giudizio sui comportamenti e sulle azioni dei singoli individui e dei gruppi sociali.
La reità è sempre esistita e sempre esisterà. Sono le regole a tenere insieme una società. Per definizione, a esse non si può contravvenire. Regole senza sanzioni sono del tutto inefficaci e insensate. Le regole hanno un senso in quanto servono a tutelare i più deboli. Certo, è innegabile che esse finiscano con il rispettare gli interessi di chi le ha dettate, ma mai nessuno nella storia ha combattuto per un mondo senza regole. Si è sempre combattuto per nuovi ordini sociali, più giusti, più o meno sensibili alle istanze di chi ha meno, ma mai per il caos generalizzato.
Detto questo, però, è abbastanza curioso che l’uomo abbia potuto recarsi sulla luna, possa scindere l’atomo e volare, ma non abbia mai tentato di attuare una forma di recupero dei rei che fosse diversa dalla reclusione. Pensandoci bene, l’uomo è l’unico animale che fa prigionieri, nessun’altra specie ha questa peculiarità.
E allora la domanda non può che essere questa: in pieno XXI secolo, ha ancora senso il carcere? Esso, inteso come modalità trattamentale, fin quanto durerà? Un anno, dieci o in eterno? È possibile un suo superamento oppure, in realtà, siamo arrivati al punto massimo raggiungibile nel rapporto tra chi ha commesso un reato e chi si incarica di reinserire nella società queste persone?
Si tratta di un tema sul quale riflettiamo poco o niente. Come qualsiasi altra istituzione totale – si pensi al manicomio – il carcere non serve dunque a chi vi entra. I principali beneficiari della sua invenzione sono i cosiddetti “onesti”. Escludere i cattivi dalla società consente agli onesti di autolegittimarsi la convinzione di essere probi, esattamente come quando lavano il pavimento e tolgono dalla sua superficie la sporcizia, dicendo più o meno in modo esplicito a loro stessi, di essere puliti.
Gli “onesti” non hanno interesse di recuperare. Il loro obiettivo è più limitato: non risolvere la questione, ma estirparne gli effetti. Non comprendere, bensì isolare. I processi individuali e collettivi che si svolgono all’interno delle strutture chiuse sono secondari, in termini di necessità personali, rispetto ai desideri di chi non vi vive.
A livello conscio, un ospedale serve per curare i malati; un cimitero a preservare i cadaveri; un carcere a rieducare e così via. A livello inconscio, invece, le funzioni sono assai meno nobili: un ospedale serve a non farci vedere la sofferenza; un cimitero serve a rimuovere il concetto della morte (della nostra in particolare); un carcere a evitare che la quotidianità degli onesti si inquini con il male. Peccato che la sofferenza, il male e la morte siano elementi costitutivi dell’esistenza umana e che sia inevitabile, prima o poi, trovarsi faccia a faccia con essi.
Il carcere è un luogo in cui la deprivazione è quotidiana. Questo non perché le persone che vi lavorano siano cattive, ma perché il meccanismo dell’istituzione le sovrasta e ne determina i comportamenti. Una persona illuminata, all’interno di un istituto penitenziario, fatica a imporre le proprie convinzioni poiché si incontra con una serie di incrostazioni culturali che ne ostacolano l’azione.
Un carcere non priva gli esseri viventi solo dello spazio e della libertà personale. Se si limitasse a questo, tutto sommato esso farebbe poco. Un carcere priva l’uomo della capacità di relazionarsi al prossimo e ne fa emergere gli aspetti peggiori.
È chiaro che un reo, che sia effettivamente tale, ha violato e viola più regole universalmente accettate. Ma se nel recluderlo, lo Stato viola anch’esso i diritti essenziali riconosciuti a tutti gli esseri umani, non si pone sullo stesso piano di coloro i quali si è solito definire delinquenti? Non si delegittima? Non autorizza involontariamente, forme di odio e di accanimento verso di sé?
La detenzione è una lunga e lenta lobotomia praticata a un gruppo ampio di “irregolari”. La dignità del recluso è un concetto del tutto teorico, scolpito a lettere maiuscole sulla carta, eppure misteriosamente assente nei corridoi delle sezioni e tra le mura delle celle, le quali oggi, in un trionfo di ipocrisia sono state rinominate in “camere di pernottamento”.
Anche quando il potere costituito concede un diritto, esso ti fa sentire in obbligo e ti dice che ti sta facendo un favore che prima o poi dovrai pagare. La cosa più triste è che chi incarna l’autorità, ritiene che l’abuso sia il modo con cui possa essere normalmente regolata la vita carceraria. Quando un uomo si rende conto di tutto questo, che i suoi discorsi filano ed è conscio di avere qualche ragione, si sentirà veramente perso.
Non so se l’umanità possa fare a meno del carcere. Mi sono più volte posto questo interrogativo, senza tuttavia trovare risposta.
Fatta qualche eccezione, sui quasi trenta istituti che ho visitato, queste sono le riflessioni e le percezioni che ho avuto in oltre vent’anni di detenzione. Qualcuno potrà domandarsi legittimamente, come mai un uomo condannato all’ergastolo abbia la sfacciataggine di scrivere tutto ciò.
Non di certo perché la condanna non l’abbia meritata.
Ritengo solo che la mia colpevolezza non possa essere motivo di altrettanta nefandezza da parte di chi rappresenta la giustizia.
Quando arriverà il momento di andare via, spero di poterlo fare con più leggerezza d’animo e quanto più dignitosamente possibile.
Alla fine, forse solo con la morte riusciamo a essere allo stesso livello, solo la morte ci purifica.
L’umana condizione scompare dando spazio solo alla natura, laddove siamo tutti lo stesso prodotto.
Cover: un’opera di un detenuto nel carcere di Ferrara
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NOTE FERRARESI. L’inquinamento dell’aria, i lavaggi e gli alberi
Alcuni giorni fa due articoli usciti su quotidiani importanti ci hanno ricordato che l’aria che respiriamo tutti i giorni è una delle peggiori d’Europa. Il quotidiano britannico The Guardian ha dato rilievo internazionale al nostro territorio dichiarandolo per l’appunto uno dei più inquinati d’Europa, mentre ilSole 24 Ore ci ha informato che a Ferrara le medie annue relative al livello di Pm 2,5 hanno registrato una crescita di oltre sei punti percentuali, confermandola come una delle città tra le più inquinate non solo d’Italia, ma d’Europa.
A tale riguardo l’Assessore all’Ambiente di Ferrara in una intervista sulla stampa ha associato l’inquinamento dell’aria della città e, più in generale, della pianura padana alla particolare conformazione naturale del territorio.
Leggendo, mi è tornato alla mente Winston Churchill, Primo Ministro della corona britannica, quando commentò il fenomeno del Great Smoke che interessò Londra nel 1952. Quell’anno, la stagnazione dei fumi sulla città fu causata dall’inversione termica generata da un anticiclone che, nel periodo invernale, alimentava spesso nebbie e foschie. Le nuvole spesse intrappolarono i fumi di tutto ciò che usava carbone come energia motrice: dai camini delle case alle fabbriche, dai treni a vapore ai transatlantici.
Tale evento non fu un’eccezione; simili situazioni erano ricorrenti in inverno, anche se più brevi di quanto accadde nel 1952. Le fonti ufficiali parlarono di circa 4.000 morti, seppure ulteriori ricerche stimarono poi circa 12.000 decessi per malattie cardiache e respiratorie, casi di polmonite e influenze.
Tuttavia, il Primo Ministro dichiarò che si era trattato di morti naturali e insistette nel continuare a bruciare carbone per dare l’illusione di un’economia solida. Non disse, ovviamente, che gran parte delle morti avevano riguardato l’East London, la parte più povera della città, e che i venti e le correnti d’aria che arrivavano prevalentemente da ovest, dove crescevano i quartieri benestanti e più salubri, spostavano i fumi e lo smog sui quartieri popolari orientali.
L’Assessore Balboni, pur riconoscendo che le cause di questo inquinamento della pianura padana e di Ferrara dipendono in grande parte dalle caldaie a combustione, dai gas di scarico delle auto e dal comparto produttivo – e aggiungerei anche dagli allevamenti intensivi (del resto cause note da decenni) –, imputa alla particolare conformazione del nostro territorio questo ristagno di aria inquinata.
Che questo sia un carattere della Padania lo sappiamo da secoli; certo un tempo l’emissione di gas climalteranti non era ai livelli di oggi ma, per restare nel Regno Unito, nel 1963 il rapporto Traffic in Town di Colin Buchanan, tradotto e divulgato anche in Italia, mise in guardia dai potenziali danni causati dall’automobile, suggerendo al contempo modi per mitigarli o eliminarli, tra cui il contenimento e la diminuzione del traffico da bilanciare con la riqualificazione urbana, il potenziamento della mobilità pubblica e la costruzione di nuovi corridoi verdi.
Insomma, una strategia composta da scelte basate sull’intreccio di politiche di mobilità, di contenimento delle espansioni, di rafforzamento non episodico del verde urbano. Questa riflessione è continuata nei decenni successivi, arricchendosi di numerose esperienze, fino a giungere alle politiche orientate verso città car free, grazie a un fortissimo potenziamento del trasporto pubblico e della mobilità attiva. In sostanza, il primo passo da compiere – o programmare – è eliminare le cause e, nel frattempo, mitigare.
Quindi, ritornando a quanto prospettato dall’Assessore all’Ambiente, temo che la pulizia delle strade e la messa a dimora di alberi, seppur soluzioni positive, non siano sufficienti. Mi par di capire che anche i dati del progetto Air Break dimostrino un peggioramento della qualità dell’aria.
Si può contribuire a risolvere tale problema solo se lo si rende strutturale, agendo in maniera sinergica sulle diverse cause. Per quanto riguarda la mobilità, si tratta di potenziare il trasporto pubblico per chi vive in città e per chi ci viene da fuori, pensando a dei parcheggi scambiatori lungo le principali direttrici di ingresso (e non sotto le mura) collegati con navette e, perché no, in futuro anche con il tram.
La mobilità ciclistica va trasformata in un sistema di circuiti interconnessi (anche con il trasporto pubblico) e non una sommatoria di segmenti. È necessario aprire dei tavoli comunali, intercomunali, metropolitani, regionali e nazionali, dove affrontare, con risorse e progettualità, il tema del trasporto pubblico metropolitano, specie quello elettrico, invece di continuare a costruire autostrade e ponti arditi.
Certo, la soluzione non sarà immediata eppure, è necessario iniziare a parlarne, informare i cittadini non solo sulla qualità dell’aria, ma anche sulle scelte (visto che la qualità continua ad essere pessima) che una comunità, consapevole dei rischi a cui sta andando incontro, deve assumere in termini di mobilità e, più in generale di modello di sviluppo.
Il Sindaco di Ferrara (sempre il 3 ottobre sulla stampa) è stato chiaro quando ha dichiarato che per lui Ferrara è una sorta di grande ‘Circo Barnum’, quindi un immenso baraccone di eventi che mettono addirittura in secondo piano il restauro del campanile albertiano della Cattedrale.
E sulla mobilità cosa pensa? È intenzionato a dare attuazione al PUMS, ad ampliare le zone 30 e le ZTL, potenziare il trasporto pubblico per ridurre il traffico automobilistico di attraversamento che rende la città ostaggio delle auto e pericolosa per ciclisti e pedoni?
Diversamente, diventa retorico parlare di transizione ecologica. Se vogliamo sopravvivere, questo percorso va intrapreso con maggiore decisione e vigore, poiché riguarda certo le politiche, ma anche la consapevolezza (di noi cittadini) che qualcosa dovrà cambiare, anche nelle nostre abitudini e comportamenti.
La politica deve stimolare e agevolare questo processo di presa di coscienza e non soffiare sugli egoismi e i comportamenti individuali. Se vogliamo affrontare il problema della transizione ecologica, dell’inquinamento dell’aria, dei cambiamenti climatici dobbiamo passare dall’“io” al “noi”.
Non ci sono appartenenze partitiche che tengono e, come sostiene Gustavo Zagrebelsky, per governare crisi strutturali come quella che stiamo vivendo, servono politiche e azioni, e non i sedativi inoculati attraverso ricerche e approcci scientisti che girano attorno ai problemi, o i ricorsi a strategie comunicative tranquillizzanti o edulcorate.
Infine, nella parte terminale della sua intervista l’Assessore fa riferimento ad un generico forum europeo, dove verrà presentato il “modello” Ferrara.
Spero che nei prossimi giorni, tale modello ci venga spiegato, anche per capirne i punti di forza, visto che i parchi vengono trasformati in autopiste per eventi di massa, che muoversi in bicicletta significa passare da un segmento all’altro, cercando di farsi meno male possibile, che ormai le automobili si sono appropriate del centro storico, con strade residenziali trasformate in autostrade a scorrimento veloce con gare notturne di velocità, come Corso Isonzo o Via XX Settembre (l’elenco potrebbe essere più lungo ed esteso a periferie e frazioni), che, infine, lo spazio pubblico tende sempre più ad essere privatizzato.
Un “modello” è qualcosa che può divenire un punto di riferimento, di riproduzione, di imitazione e anche di emulazione, come è stato per l’addizione Erculea, di cui ritroviamo tracce in giro per il mondo. Se la Ferrara di oggi è un “modello”, significa che la via verso la transizione ecologica è un vicolo cieco.
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Esce oggi, con Kite edizioni, il bellissimo albo “Rododendro”, di Davide Calì e Marco Paschetta. Piccole grandi cose e il metro della vita.
Lo specchio ha cambiato posto? Di solito era più in alto… Chi lo ha spostato? O forse, durante la notte, si è ristretto? Come mai ora per guidare la macchina si deve usare una pila di cuscini? E perché mai, al lavoro, la scrivania è tanto grande? Soddisfazione che dura poco, il capo licenzia, i clienti prediligono gli uomini grandi. Anche alla fermata dell’autobus tutto paiono giganti. Che piedoni che hanno… E che bei disegni, dove dominano il verde della natura, il colore della speranza, e il rosa della delicatezza…
Un uomo – Giacomo, che presto diventa Giacomino – si accorge che sta rimpicciolendo, di punto in bianco tutto cambia. Cambiano le dimensioni del mondo, cambia la prospettiva.
All’inizio non ci può credere, prova ad andare avanti con la sua vita come se nulla fosse. Casa, lavoro, lavoro, casa. La situazione però precipita così velocemente che finisce per perdersi tra i fili d’erba lungo il ciglio di una strada. Fili che paiono foresta, ora, mentre le lumache passeggiano con la loro consueta calma. Si sente perduto. Destra, sinistra e poi di nuovo destra. Cercherà invano di tornare a casa con la speranza di poter trovare una soluzione a quel che gli è successo e recuperare tutto quel che ha perso. Incredibile.
Finché ecco, sulla sua strada, un delicato rododendro rosa e lei, Flora. Anche lei si è persa. Decidono di proseguire insieme, facendosi largo nella selva affollata, arrampicandosi, attraversando ruscelli, tuffandosi di tanto in tanto nelle pozzanghere. Che gioia. Quanta allegria e spensieratezza. Finalmente. Stanchi si fermano a riposare, un’imbarcazione di fortuna li aiuta ad attraversare il lago. Decidono loro, guidano la loro vita, insieme vi danno la direzione, ne tengono il timone. Finalmente.
La sorte gli darà l’opportunità di vedere le cose da una nuova, nuovissima prospettiva. Mentre il paesaggio si ripete. Ecco, allora, la domanda, le domande.
Con che metro misuriamo la nostra vita? Forse le piccole cose non sono poi tanto piccole? Forse alcune cose nascono piccole e diventano poi grandi, magari giganti, come l’amore? Perché affannarsi per cercare quanto non si ha più quando abbiamo trovato qualcosa che non avevamo? Cosa importa davvero, nella vita? Da che unto di vista osserviamo le cose? A voi le risposte.
Davide Calì (autore), Marco Paschetta (illustratore), Rododendro, Kite edizioni, Padova, uscita 17 ottobre 2023
Davide Calì è fumettista, illustratore e autore per bambini. I suoi libri escono in Italia per Kite Edizioni, Zoolibri, Orecchio Acerbo, Arca; in Francia per Sarbacane, Actes Sud e Thierry Magnier; negli Stati Uniti con Chronicle; in Portogallo per Planeta Tangerina. Ha all’attivo più di cento pubblicazioni tradotte in numerose lingue e diffuse in più di 30 paesi e ha ricevuto premi in Francia, Belgio, Germania, Svizzera, Spagna e Stati Uniti.
Marco Paschetta è illustratore e fumettista. Autodidatta, collabora con importanti case editrici e riviste italiane e straniere. È docente di illustrazione presso la Scuola Internazionale di Comics di Torino e svolge laboratori con bambini e ragazzi legati al mondo dei suoi libri. Sito web.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara.
APPELLO Cultura è Pace e Pace è Cultura. Contro il sionismo e l’occupazione di Gaza. Per il popolo palestinese ed il popolo israeliano.
Moni Ovadia ha lanciato un allarme sulla gravità di un problema enorme.
Lo ha indubbiamente lanciato a modo suo, da artista impegnato quale è ed è sempre stato, e lo ha lanciato in qualità di Direttore della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara.
Non avrebbe mai dovuto venire a Ferrara al servizio della Destra e della famiglia Sgarbi.
Ha fatto bene oggi a prendere cappello, dopo le accuse vergognose e assurde di antisemitismo del senatore Alberto Balboni e Vittorio Sgarbi.
Moni Ovadia sì è espresso con estrema facilità di comprensione da parte di qualsiasi persona, da parte di ogni individuo o da parte di ogni altra libera testa pensante alla quale potesse essere rivolto in città, come altrove ed ovunque, nel mondo. Per questo va ringraziato.
La più triste delle conferme sulla reale, enorme, gravità del problema, viene dal fatto che ad incolparlo per avere fatto questo, vale a dire che ad accusarlo pubblicamente per essersi espresso e comportato in questo modo… è stato il Presidente della Fondazione Ferrara Arte, suo grande amico ed estimatore, Vittorio Sgarbi. Colui che, al contrario di Banksy, (tanto per intenderci), lo ha portato per davvero Moni Ovadia, tra noi, in città, come interlocutore artistico e culturale ben accolto e ben remunerato.
In precedenza vi è anche stato chi, come il senatore Alberto Balboni, ha espresso “un sentimento di vergogna” per aver accolto Moni Ovadia al vertice dell’istituzione più prestigiosa della città. E di cosa si deve vergognare Ovadia? Di essere un ebreo ma contro il governo sionista di un politico corrotto come Netanyhau?
Scopo di questo appello è di porre una riflessione su una discussione inesistente, ma di cui si ha davvero un disperato ed urgentissimo bisogno. Quella che riguarda il destino di milioni di individui inseriti nel contesto geopolitico mediterraneo della Striscia di Gaza, Territori della Autonomia Nazionale Palestinese, a sua volta inserita nel contesto mediorientale inerente lo Stato di Israele, cioè laddove si sta consumando una crisi umanitaria generalizzata di estrema, massima gravità.
La discussione è impossibile mantenerla viva ed è per questo che non esiste: se solo si tenta di avviarla centrandola anche solo su uno degli infiniti aspetti della “Questione Israelo-Palestinese”, ecco che viene regolarmente e inevitabilmente chiusa sul nascere, in qualsiasi contesto.
Perché? Perché da decenni si continua (volutamente) a confondere antisionismo con antisemitismo. Perché essere antisionisti, cioè criticare una ideologia, viene visto e trattato come antisemitismo, cioè come avversione, ostilità e persecuzione razziale e religiosa contro gli appartenenti al Popolo Ebraico?
Perché oggi l’accusa di essere un o una antisionista ti può mandare in carcere?
Perché chi si oppone alle idee del sionismo, viene immediatamente additato e zittito?
Questo è uno dei principali temi su cui bisognerebbe iniziare a riflettere, poiché risulta ormai chiarissimo a tutti che il Governo dello Stato Israeliano, applicando fino in fondo la sua ideologia di matrice sionista, non si fermerà finché l’ultimo/a palestinese che vive in Palestina non sarà o espulso/a o ucciso/a.
L’invito, rivolto a tutti, è di aderire a questa chiamata per continuare la discussione con la speranza di portarla a compimento in maniera libera e partecipativa, non curanti di fastidiose interferenze che appartengono a sistemi di potere duramente provati e fortemente compromessi che di veritiero e di utile non hanno nulla, e ben poco da offrire allo sviluppo della società civile e all’affermazione della cultura universale della pace.
Essere a favore della pace contro la guerra è una necessità morale per le conseguenze che sempre comporta per gli indifesi, per i civili, per i non combattenti, Che triste certezza ammettere e constatare che le maggiori vittime di ogni guerra non sono i soldati, i combattenti e gli eserciti militari, ma le popolazioni civili, i più deboli, gli indifesi, le donne, le mamme, i vecchi, i bambini, che la subiscono ingiustamente senza nemmeno capire il perché…
Ovunque, nel mondo, tutti coloro che hanno a cuore la condizione e il destino di entrambi i popoli, vivono una angosciante montagna russa emotiva
Per chi poi vive in Occidente, nell’affrontare le problematiche conseguenze della guerra appena esplosa nel contesto mediterraneo israelo-palestinese “contro Hamas”, si è aggiunta l’aggravante di vedere i leader e i governi nazionali mettere da parte ogni pretesa di imparzialità.
Il giro in giostra, su questa angosciante roller-coaster emozionale, prevede ora il superamento del salto nel vuoto e l’attraversamento del tunnel degli orrori. Dopo la Guerra al Covid e in concomitanza con la Guerra in Ucraina, le uniche armi rimaste a disposizione sono due parole imprescindibili, intercambiabili ma mai divisibili l’una dall’altra: cultura e pace.
Per capire cosa si intende voler dire basta aggiungere un accento: cultura è pace e pace è cultura
Elezioni 2024. La giunta Fabbri ha peggiorato e impoverito Ferrara. I partiti discutono tra loro seduti al tavolo, ma per battere la destra è la Società Civile che deve indicare un programma comune e indicare un candidato sindaco.
Negli ultimi anni sono nate in città Associazioni e Movimenti, LA COMUNE FERRARA, FERRARA 2024, FERRARA 2044, e con caratteristiche diverse FORUM FERRARA PARTECIPATA e SAVE THE PARK e altre ancora, che con altri gruppi e cittadini attivi già da anni, hanno avviato un interessante dibattito su sviluppo e futuro di Ferrara.
I temi proposti e che uniscono questi gruppi, sono vari e si intrecciano tra di loro, tutela dell’ambiente e sviluppo sostenibile economicamente e socialmente, che si declinano poi in ambiente, mobilità, economia e lavoro, partecipazione, politiche della casa, ecc.. Dopo quattro anni di questa Amministrazione, su diversi di quei temi la situazione è peggiorata.
La qualità dell’aria e lo smog in città sono peggiorati è quello che ci dice un recente studio del Sole 24 Ore. Ma tra i provvedimenti della Giunta per limitare l’inquinamento, su cui incidono in maniera importante i gas di scarico delle auto, ci sono i blocchi temporanei del traffico, la piantumazione di alberi, la pulizia delle strade, ecc., ma di misure “strutturali” per diminuire e regolare il traffico automobilistico in città neanche una parola.
Servono parcheggi scambiatori nei principali punti di accesso in città da collegare con un servizio di navette al centro; il potenziamento del trasporto pubblico, ad esempio realizzando una “metropolitana di superficie” tra la città e l’ospedale di Cona, la tratta tra Pontelagoscuro e Corso Giovecca, ma anche trovare l’accordo ed i finanziamenti in Regione per collegare, visto il rilevante pendolarismo e gli stretti rapporti tra i territori, con una “metropolitana di superficie” l’area vasta Bologna Ferrara Modena – come già indicato, genericamente parlando di mobilità, in un protocollo di intesa sottoscritto nel 2017 tra i presidenti delle 2 province ed il sindaco dell’area metropolitana di Bologna –, ed ancora il prolungamento della Ferrara Codigoro fino a Comacchio ed alla costa, senza dimenticare le frazioni che continuano ad essere poco e mal collegate. Il PNRR rappresentava e rappresenta una grande opportunità, ma nei progetti del Comune per questo ambito c’è poco o niente di tutto questo.
Il ruolo dei comuni in campo economico è secondario rispetto a quello delle Regioni e dei Ministeri, una delle funzioni principali – oltre alla gestione di imposte e tributi locali – è la valorizzazione del territorio, attraverso la programmazione economica e la pianificazione territoriale, per renderlo più attrattivo e favorire l’insediamento di nuove attività. Nello specifico il Comune di Ferrara interviene direttamente sull’economia locale con gli investimenti diretti per la viabilità, le scuole, le palestre, ecc., ed indirettamente tramite le società controllate tra cui FERRARA TUA e le partecipate tra cui SIPRO.
Servirebbe in questo ambito un ruolo più attivo del Comune e delle sue controllate e partecipate, più aderente alle nuove sensibilità ambientali economiche e sociali maturate in questi ultimi anni. La convinzione sulla necessità di uno sviluppo sostenibile e di scelte coerenti con queste idee. Troverebbe qui spazio ad esempio riportare in ambito pubblico il servizio idrico e dei rifiuti – l’acqua è un bene pubblico -, dopo un riscontro positivo sulla fattibilità tecnica e giuridica. E’ chiaro che dopo i tagli del Governo agli stanziamenti per gli Enti Locali (assistenza, casa, sanità, scuola…), le risorse, al netto del PNRR, sono diminuite e devono essere allocate in base ad un’attenta programmazione, e non come è avvenuto fino ad ora con una distribuzione di denaro – pubblico – “a pioggia”, come avviene per il settore turistico. Anche i progetti del Comune per il PNRR ne sono un esempio. Si prenda l’elenco dei progetti, alcuni di questi sono inutili ed altri sovradimensionati – e di riflesso eccessivamente costosi – ma a sorprendere ancora di più sono i progetti che dovevano esserci e non ci sono, indicativi della mancanza di visione a lungo termine di questa Amministrazione.
Ferrara, non da oggi, è tra i capoluoghi di provincia in Emilia Romagna con i peggiori indicatori economici, spesso in ulteriore peggioramento negli ultimi anni rispetto alle medie regionali. Finita la spinta delle varie agevolazioni edilizie (in primis bonus facciate e superbonus 110%) anche a livello locale l’economia si è fermata. Preoccupa il tasso di disoccupazione, la precarietà del lavoro ed il basso livello delle retribuzioni, ma anche il valore aggiunto ed altri indicatori nelle imprese che stentano a recuperare e migliorare i livelli pre covid, salvo situazioni specifiche e le nicchie di mercato. Sarebbe opportuno partire dalle “eccellenze” del territorio – nei settori agroalimentare, commercio e servizi, manifattura, polo chimico, turismo e cultura, Università – e ridefinire le priorità e gli assi di intervento. Un sistema integrato tra le imprese – logistica, infrastrutture, formazione del personale, politiche commerciali, marketing, ecc.- favorirebbe “una conoscenza diffusa”, le economie di scale, la specializzazione e l’innovazione tecnologica, ma altresì aiuterebbe l’internazionalizzazione specie delle piccole imprese, nel contempo facendo da traino per lo sviluppo dell’intero territorio. Per fare ciò è importante il confronto ed il contributo di tutti i soggetti interessati, dalle imprese alle associazioni di categoria, ai sindacati, ai portatori di interesse, ed ovviamente l’Ente pubblico nelle sue varie articolazioni. Nel rispetto di un principio che dovrebbe accumunare tutti, lo sviluppo deve essere sostenibile, ambientalmente economicamente e socialmente.
In questo contesto, la misurazione del benessere e della ricchezza di un territorio non può più essere esclusivamente “quantitativa”, sulla base di parametri puramente economici come fa il PIL, ma deve tener conto anche di altri indicatori, sociali e ambientali, che influenzano la vita delle persone. La misurazione con il PIL non tiene conto del livello di inquinamento e delle malattie provocate all’apparato respiratorio, dell’efficienza del sistema sanitario, della qualità delle abitazioni, del tasso di criminalità, ecc., ci sono poi diversi paradossi, ad esempio l’autoproduzione non rientra nel PIL, l’assistenza ai familiari anziani in casa non rientra nel PIL ma in casa di riposo si, fino all’aberrazione che le disgrazie tipo guerre o terremoti hanno un effetto positivo sul PIL per via degli investimenti necessari per la ricostruzione, e gli esempi potrebbero continuare.
Da anni ormai in diverse province, nell’attualità 23 tra cui Ferrara, e 8 città metropolitane, tra cui Bologna, viene redatto il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (BES), che attraverso l’analisi di 77 indicatori organizzati in 12 grandi dimensioni (domini) – salute, istruzione e formazione lavoro, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione, ricerca e creatività, qualità dei servizi – fornisce uno strumento informativo dettagliato del “benessere e della sostenibilità” di un territorio e di una comunità, utile per orientare correttamente e consapevolmente le scelte delle Amministrazioni pubbliche, dei politici ma anche di imprese, associazioni, cittadini, ecc.. Lo stesso Governo nella presentazione alle Camere del Documento di Economia e Finanza (DEF) allega il rapporto sugli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile (Allegato BES).
E’ interessante, e se possibile da replicare anche a Ferrara, l’esperienza di Bologna dove il Comune ha condiviso l’approccio partecipativo del BES e promosso incontri con i cittadini per stabilire cosa reputano importante per misurare la qualità della vita.
Le politiche sulla casa di questo Governo preoccupano tanti cittadini. Il blocco degli investimenti nell’edilizia residenziale pubblica unitamente al mancato rifinanziamento del fondo affitti, comportano ulteriori difficoltà per le persone e le famiglie economicamente più deboli. In Emilia Romagna si stima che su circa 56.000 alloggi popolari ce ne siano circa 51.000 occupati, e che gran parte dei 5.000 restanti siano vuoti perché necessitano di manutenzione straordinaria ma i fondi sono insufficienti. Il Governo dovrebbe rifinanziare l’edilizia residenziale pubblica, per riavviare, ove possibile, le manutenzioni e rendere abitabili questi alloggi per le famiglie. Servirebbero affitti a prezzi calmierati con rimodulazione degli incentivi fiscali per i proprietari che affittano.
Studentati. Ritirata dall’Amministrazione la speculazione di FERIS è sfumato il progetto di uno studentato nella ex caserma in Cisterna del Follo; un secondo progetto di UNIFE potrebbe partire nell’area dell’ippodromo. Il tema degli alloggi per gli studenti è centrale per una città come Ferrara di circa 135.000 abitanti e con una Università cresciuta in pochi anni fino a poco meno di 30.000 iscritti, provenienti per circa l’80% da fuori provincia e con oltre la metà di questi che hanno trovato un alloggio in città. Con la pressione abitativa che c’è a Ferrara, la realizzazione di un solo studentato di 150/180 posti è insufficiente – sempre sperando che il progetto in zona Ippodromo vada a buon fine -. L’Amministrazione, dopo il tempo inutilmente e colpevolmente perso con il “finto” studentato di FERIS, potrebbe favorire in collaborazione con altri soggetti privati e pubblici (vedi ACER e CDP) operazioni simili all’intervento di rigenerazione urbana delle Corti di Medoro.
Le politiche sanitarie. A livello locale sembra di assistere al teatro dell’assurdo. Mentre il governo taglia i fondi per la sanità al 6,5% del PIL (contro il 10% di Germania e Francia) e non restituisce alle regioni i fondi da queste anticipati per il covid e la crisi energetica dell’anno scorso – si stima che manchino circa 7 miliardi /4 per il Ministro della Salute e solo per la nostra regione si parla di una cifra di poco inferiore al miliardo -, a livello locale i partiti di maggioranza “gridano” contro il deficit della sanità ferrarese e regionale e non si approva nella conferenza dei servizi il bilancio preventivo. Non dovremmo sorprenderci se senza rifinanziamento, in futuro avremo per le persone economicamente più deboli un peggioramento delle prestazioni sanitarie ed un ulteriore allungamento dei tempi per visite ed esami, mentre chi avrà le disponibilità economiche andrà a pagamento nelle strutture private.
Una riflessione/disgressione. L’ideologia non è una parola vecchia, superata dalla così detta “politica del fare”. Le scelte politiche sulla sanità, ma anche sulla casa, sull’istruzione ed altre ancora, incidono concretamente sulla vita delle persone. Finanziare la sanità pubblica – evitando ovviamente le inefficienze e gli sprechi, e correggendo gli errori, tanti anche nella nostra Regione – vuole dire creare le condizioni per dare a tutti le cure possibili indipendentemente dal reddito. Con il taglio indiscriminato della spesa sanitaria pubblica si va nella direzione opposta, favorendo le strutture private accessibili però solo per quelli che se lo possono permettere economicamente. La Solidarietà contro la logica del profitto e del mercato.E’ la differenza tra essere progressisti o liberisti.
Le elezioni amministrative a Ferrara sono tra circa 7 mesi, mentre la destra si è già indirizzata verso la riconferma del sindaco Fabbri, i partiti dell’opposizione stanno ancora discutendo sul programma e sul candidato sindaco, che a detta di tutti (o quasi) dovrebbe essere espressione della società civile e non un politico. Il tempo rimasto prima delle elezioni ormai è poco, sarebbe importante se tutti quei gruppi di cittadini, associazioni e movimenti che in questi mesi si sono spesi per elaborare progetti e proposte, accumunati non “contro qualcuno” ma da valori simili e dall’interesse di lavorare per la Ferrara del futuro, più solidale ed attenta alle persone ed all’ambiente, pur con sensibilità e interessi diversi tra di loro, si incontrassero per discutere e verificare le possibili convergenze su un programma per le prossime elezioni.
Da questa discussione, a cui dovrebbero partecipare anche quelle persone che vengono citate più o meno esplicitamente come possibili candidati/e, si dovrebbe uscire con un programma definito nei suoi principi e nelle linee guida, da condividere con tutti i soggetti interessati, partiti compresi, con l’indicazione di un candidato/a sindaco civico. Sarebbe un peccato non farlo.
Torna il Festival della Poesia Itinerante, organizzato da Ultimo Rosso: per le strade di Ferrara sabato 21 e domenica 22 ottobre
Sabato 21 e domenica 22 ottobre torna Il Festival della Poesia Itinerante, quest’anno alla Terza Edizione. Tornano le poesie e i poeti per le strade di Ferrara. Un Festival senza orpelli, senza premi, secondo lo stile di Ultimo Rosso, l’Associazione di poeti e di amanti e sostenitori della poesia. Una poesia che chiede attenzione, ma vuole stare tra la gente, al piano terra, sui marciapiedi.
Oltre ai poeti e alle poetesse di Ultimo Rosso, ogni passante potrà intervenire e leggere le proprie poesie o quelle del poeta a lui caro.
Il tema di quest’anno è la gentilezza. In tutti i sensi. Pensate: se al potere ci fossero la poesia e la gentilezza, le guerre scomparirebbero all’istante.
Una poesia sulla gentilezza
Sii dolce con me. Sii gentile
Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei
sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
Mariangela Gualtieri da ‘Bestia di gioia’
Sabato 21 ottobre, dalle 17,00 alle 18,30 Dove ascoltare la voce della poesia
1) piazza Savonarola;
2) angolo San Romano/Piazza Trento Trieste;
3) davanti al Parco Massari;
4) davanti alla Biblioteca Ariostea;
5) Piazza Cortevecchia;
6) Piazzetta del Carbone.
P.S. Chi vuole combattere senz’armi in nome della poesia può iscriversi alla Associazione Ultimo Rosso APS. La tessera costa solo 7 Euro.
Cover: Alba boreale con nuvole (Foto di Ambra Simeone)
Tra il 1966 e il 1972 andò in onda sulla BBC un programma intitolato Quiz Ball, nel quale piccole delegazioni delle principali squadre inglesi e scozzesi si sfidavano in un quiz di cultura generale [Qui]. Chi otteneva più punti accedeva al turno successivo, e per mettere a segno ciascun punto – o gol, date le circostanze – bisognava scegliere uno tra i quattro percorsi disponibili con cui attraversare simbolicamente il campo da calcio elettronico presente in studio. Su quel campo, infatti, c’erano quattro vie luminose: dalla più tortuosa alla più diretta, denominata route one, la quale prevedeva una sola e difficilissima domanda.
Fatto sta che, grazie all’enorme popolarità del suddetto programma televisivo, l’espressione route oneviene tutt’oggi utilizzata per descrivere la tattica più in voga nel calcio inglese degli anni ’70 e ’80, cioè quella che dalle nostre parti è stata sintetizzata nel concetto di “palla lunga e pedalare”. Insomma, è il modo più diretto – ma non per questo il più efficace – di risalire il campo, proprio come in Quiz Ball.
Sulla scia degli studi effettuati dall’analista Charles Reep nel secondo dopoguerra, il cosiddetto route one football si affermò definitivamente nella seconda metà degli anni ’70, e fu incentivato addirittura dalla Football Association, ossia la federazione calcistica inglese. In particolare, fu l’allora direttore tecnico della stessa federazione a stabilirne i princìpi: si trattava di Charles Hughes, il quale sosteneva che nella maggior parte dei casi non fossero necessari più di cinque passaggi per segnare un gol. Così, al fine di risalire il campo il più velocemente possibile, bisognava lanciare il pallone in delle zone che lo stesso Hughes chiamava POMO (Positions Of Maximum Opportunity), situate, com’è intuibile, nei pressi dell’area avversaria.
Queste e altre idee vennero raccolte in un libro, The Winning Formula, che fu pubblicato nel 1990, ossia all’inizio di una decade in cui la Premier League e il calcio inglese accolsero nuovi stili di gioco, grazie soprattutto all’apporto di giocatori e allenatori stranieri. Tuttavia, già a partire dagli anni ’80 il gettonatissimo route one football suscitò qualche critica, tra le quali spicca certamente quella dell’allenatore Brian Clough.
“If God had wanted us to play football in the clouds, he would have put grass up there.”
C’era una canzone
Che cantavano
Nelle spiagge
Ondulate
Dell’oceano francese
Una canzone d’amore
Di pace
Umanità spogliata
Dalle maschere
Una canzone
Che taceva
I gabbiani
Incessanti
La cantava
Diane Keaton
Con una voce
Anymore
Era Reds
Che film…
Ricordava
L’albero delle mele
a Greenwich Village
Ognuno mangiava
La sua
In quella canzone
Erano così dolci
Che scriveva
Scriveva una poesia
Gentile
Gentile come
Solo una donna
Può essere
Le nuvole
Coprivano il sole
L’oceano portava
Nelle onde
I canti
Delle balene
C’era una canzone
Diane Keaton
La cantava
Con una voce
Anymore
una canzone
Che
Tutte le prendeva
L’albero delle mele
Di Greenwich
Non parlava
Di Adamo e Eva
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca[Qui]
La strada asfaltata divenne più stretta e piena di curve. L’auto procedeva piano, nella nebbia di novembre. “Siamo quasi arrivati”, borbottò il fotografo. Lui scorse a malapena il cartello indicatore della frazione di R., un minuscolo centro con un bar ancora aperto, poche case e tanta campagna, a fianco del Po.
Era uno scialbo pomeriggio, imbruniva rapidamente e non si vedeva in giro nessuno. “Dobbiamo andare fuori dal paese, cinque – sei chilometri” mormorò il fotografo che aveva estratto dalla borsa due macchine per tenerle pronte. Proseguirono fino a quando notarono un assembramento davanti ad una casa, un’auto dei carabinieri e un’ambulanza. Quel che cercavano era lì.
Scesero e lui riconobbe il maresciallo dei carabinieri, comandante della stazione di R. e gli andò incontro. “Brutta cosa – disse costui – un ex insegnante in pensione ha ammazzato sua nipote con un revolver, un ferrovecchio di piccolo calibro che però ha funzionato. Era morbosamente geloso; la nipote, rimasta orfana di entrambi i genitori, era cresciuta in casa con lui e con la zia”.
Mentre parlava, il maresciallo era entrato in casa dirigendosi nel retro, in uno stanzino male illuminato, una specie di cantina, tipica di certe case coloniche. In terra, parzialmente coperte da un lenzuolo, dietro un divano, spuntavano le gambe del cadavere.
Presto si seppero i nomi e l’età dell’assassino e della vittima. Curiosando qua e là, mentre il fotografo scattava a raffica, sentì un vicino che parlava in dialetto con il maresciallo: la ragazza, appena diciottenne, voleva andarsene di casa, desiderava farsi una vita propria e lo zio l’aveva uccisa. Poi si era costituito, confessando tutto.
Come la ragazza avesse convissuto con gli zii sino ad allora nessuno lo disse. “Materia per un articolo adatto a far balenare una storiaccia davanti ai lettori. Forse il vecchio la insidiava …” pensò lui. In redazione lo aspettavano: lungo pezzo con tanti particolari, fotografia della casa, della morta e dell’assassino per farci sopra qualche titolone in cronaca l’indomani e vendere più copie del giornale.
Raccolte qua e là alcune testimonianze – poche frasi -, scattate le foto, recuperate quelle dei due protagonisti da un parente e salutato il maresciallo, uscì con il fotografo appresso.
Una volta in auto pensò: adesso cosa racconto su questa storia squallida? Una storia che ne ripeteva altre simili, lette, viste e sentite tante volte…
No, non gli piaceva fare il cronista di nera. Non gli era mai piaciuto da quando aveva cominciato a lavorare al giornale. Trovava deprimente tutto, persino chiedere ai familiari le foto delle vittime di omicidio per pubblicarle. Lo infastidiva la morbosità che suscitavano certi delitti commessi negli ambienti di povera gente.
Il fotografo, solitamente ciarliero, taceva; forse aveva intuito il suo malessere. Dopo aver percorso qualche chilometro si fermarono in paese, davanti al piccolo bar. Entrarono, lui chiese un whisky e lo mandò giù tutto d’un fiato. Una bomba, per un quasi astemio.
La nebbia adesso era più fitta e uscendo sentì il freddo penetrargli nelle ossa. Queste sono vicende da buco del culo del mondo e noi le scriviamo, si disse salendo in macchina per ripartire.
Nel film “Il diavolo veste Prada” la protagonista Meryl Streep, nei panni della direttrice di una grande rivista di moda, riesce a dimostrare con grande efficacia quanto l’alta moda, che ai più appare come qualcosa di lontano dalla vita ordinaria, sia fonte di nutrimento delle tendenze di massa. Così l’arte e, in particolare l’arte concettuale che sembra appartenere a una sfera specialistica di intellettuali chiusi in una dimensione linguistica astrusa, è in realtà una sorta di apripista per costume e linguaggi che poi rimbalzano nell’universo espressivo di ogni giorno.
Allo stesso modo la Video Arte – al centro della seconda tranche espositiva della galleria ‘zanzara arte contemporanea’, in via del Podestà 11 e 14 nel centro storico di Ferrara – è più protagonista di quanto ci si immagini del panorama artistico contemporaneo, insinuandosi e arrivando a influenzare anche forme espressive più diffuse. Una visita attenta e guidata alla rassegna in corso intitolata “Video setting” offre un approfondimento importante di questa forma di espressione artistica che a Ferrara affonda radici delle origini storiche e sperimentali, sia locali sia internazionali.
L’opportunità di scoprirlo è offerta nei doppi spazi aperti nel cuore della città, dove è possibile visitare le due mostre di video-arte “Equilibrio-Energia” di Maurizio Camerani e “Senza permesso e per amore” di Liuba, affiancate da un cartellone di incontri di approfondimento sul tema, affidati a storici dell’arte, docenti ed esperti di questa forma espressiva con proiezioni video e un’esposizione fotografica.
Video setting: Liuba a zanzara arte di Ferrara
Locandina con Camerani
Ferrara è stata infatti centro nevralgico di un’esperienza di ricerca e di sperimentazione d’avanguardia in questo ambito, grazie alla presenza del Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti. Il centro è stato attivo dal 1978 al 1994, voluto dal direttore Franco Farina e con la direzione artistica di Lola Bonora e la collaborazione di Carlo Ansaloni. L’esperienza e i materiali prodotti in quegli anni sono documentati all’interno degli archivi della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Ferrara.
Ora grazie alle giovani galleriste e curatrici artistiche Giulia Giliberti e Sara Ricci questa eredità viene rivitalizzata e attualizzata, recuperando le origini e riallacciandole alle forme espressive più recenti.
Una bella carrellata tra la produzione video-artistica contemporanea quella offerta a fine settembre dall’incontro con la ricercatrice del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna Silvia Grandi, che ha analizzato l’evoluzione del linguaggio della video arte e della performance.
“Virus” di Liuba
Video 2004 ed esposizione 2023
In un aggiornamento sulle ultime produzioni, la docente ha mostrato il video “Zwei” del 2022 dell’artista Christian Niccoli, premiato agli ultimi festival d’arte, che mette in scena due uomini attaccati a una fune in un pericoloso e affannato equilibrio che li vede penzolanti da una parte e dall’altra di un muro.
Un concitato bilanciamento dualistico che era stato anticipato dall’opera realizzata oltre trent’anni prima da Camerani: “Progetto segreto” del 1988. Due monitor sospesi, dentro i quali compaiono i volti affaticati dei protagonisti che per apparire sul video sono costretti a vorticosi salti ritmati da una parte e dall’altra della video-scultura.
Rivelatori, e anche divertenti, i video di Liuba, che documentano le performance realizzate in spazi pubblici davanti a un pubblico ignaro, che diventa inconsapevolmente parte dell’opera. Un’applicazione dell’idea di contaminazione tra mondo artistico e mondo reale. Mi ha ricordato l’opera dell’artista giapponese Yayoi Kusama (classe 1929), che – come racconta lei stessa in un video esposto al Museo Louisiana di Copenhagen – personalizza interi ambienti fisici, dalle pareti agli arredi, passando per abiti e accessori, “mettendo i pois a tutto”.
Liuba nel video artistico “Virus”
L’artista giapponese Yayoi Kusama
Il famoso monologo che ne “Il diavolo veste Prada” la direttrice Meryl Streep-Miranda rivolge alla giovane assistente Anne Hathaway-Andrea ben illustra il ruolo mediatico sotterraneo che anche la ricerca artistica svolge sulle tendenze comunicative, arrivando a forgiare messaggi commerciali o prodotti di mero intrattenimento. Un po’ come il maglioncino ceruleo preso dal cesto di un grande magazzino è stato, più o meno consapevolmente, ispirato dalle collezioni dei grandi stilisti. Interessante, ad esempio, ritrovare il tema stilistico della sagoma della mano usato da Camerani nel 1977 e ripresentato in una mostra alla Mlb home gallery nel 2014, rimbalzato quest’anno in una locandina di una collana di libri gialli, esposta sulla vetrina di una libreria cittadina.
Maurizio Camerani davanti all’installazione di 5 stampe
Poster collana libri in vetrina a Ferrara
“Il ramo” di Camerani, frottage 2014
Le mostre “Equilibrio-Energia” di Maurizio Camerani e “Senza permesso e per amore” di Liuba sono visitabili nei fine settimana rispettivamente nelle Ex-Scuderie e nella Galleria di zanzara arte contemporanea. Le esposizioni sono dedicate a due artisti riconosciuti, il cui lavoro è strettamente legato alla creazione e riproduzione di immagini in movimento, sia nell’ambito della Videoarte tout court con le video-sculture di Camerani, sia nell’ambito performance Art con la documentazione e le opere video di Liuba.
Il progetto “Video Setting”, Galleria Zanzara arte contemporanea, via del Podestà 11, 11/a e 14/a, a Ferrara, dal 22 settembre al 30 dicembre 2023
Equilibrio-Energia” di Maurizio Camerani in mostra fino a giovedì 30 novembre 2023 “Senza permesso e per amore” di Liuba in mostra fino a sabato 30 dicembre 2023
Visite con ingresso libero giovedì, venerdì e sabato ore 11-13 e 15-18
Cover: Maurizio Camerani alla galleria Zanzara Arte di Ferrara con l’opera Progetto segreto 1988
L’atmosfera di un luogo può nascere anche dall’intreccio di situazioni dissonanti, e solo Erik Satie può consentirci di interiorizzare un luogo spazialmente contradditorio come Sébastopol a Parigi. Però il tempo deve essere umido, all’imbrunire, con un via vai intenso di pedoni e mezzi. Se il viadotto della metropolitana separa nettamente il grigio superiore dei palazzi dalle luci mutevoli dei negozi, dei semafori e delle auto sulla strada, la linea luminosa della metro, che regolarmente passa sul viadotto, rende dinamico questo paesaggio futurista.
Parigi prima di essere una città fisica è un’atmosfera. All’angolo tra la rue Pierre Lescout e Rue de la Grande Truanderie due vecchi bistrot sono abbastanza vuoti, nel tavolino al mio fianco due giovani intellettuali parlano di politica americana e terrorismo mentre dei grossi passeri saltellano da un tavolino all’altro in cerca di cibo. Parigi non ha mai smesso di essere al centro delle attenzioni di filosofi, artisti, architetti, scrittori che ne hanno descritto forme, costumi, mali e disfunzioni proponendo spesso delle soluzioni per la sua riforma e la sua riorganizzazione. Ma, ci rammenta Giovanni Macchia, l’inizio della poesia di Parigi si deve a coloro che la città non la amano, anzi che la detestano per ragioni morali, sociali ed estetiche.
Questa metropoli è un grande mosaico di culture legate ai processi di immigrazione e decolonizzazione che ne hanno arricchito le modalità di comportamento e di vita quotidiana in contrasto con la forte identitàarchitettonica «haussmaniana» che la città ha assunto con le trasformazioni ottocentesche. Le trasformazioni contemporanee della metropoli le possiamo collocare dentro un palinsesto che, come ricordava Italo Calvino, rende Parigi una sorta di enciclopedia storico-urbanistica-sociale che possiamo sfogliare, attraversare, leggere, vivere.
Parigi, Haussmann e il Maghreb
Tale diversità la riscontriamo aggirandoci nei quartieri a forte connotazione etnica, osservando le modalità di uso degli spazi pubblici, la varietà del commercio di prossimità, con gli orari degli esercizi commerciali, spesso legati alle differenti tradizioni religiose o culturali o ancora osservando l’utilizzo delle strade in quanto luoghi di coesione, di preghiera e di interscambio commerciale e culturale.
Il mercato di Barbès si svolge il mercoledì e il sabato sotto il cavalcavia del metrò. In realtà i mercati sono due: quello legale e quello irregolare. Nel secondo ognuno vende quello che ha, alle uscite del recinto della stazione mentre lungo il muro dell’ospedale parecchie donne e qualche uomo, vendono prodotti poveri da supermercato alternati a dolci zuccherosi e al pane algerino unto, saporito e speziato. Ci si muove a Barbès come ci si muoverebbe a Tunisi, Casablanca o Algeri. Stessi riti, identici rumori, merce informale lungo le strade che diventano uno spazio conteso da uomini e automobili. Risalendo il Boulevard de Barbès si giunge al marché de Chateau Rouge con i suoi prodotti alimentari e tessili tipicamente africani, i grandi pesci sui banchi mi portano immediatamente sui mercati atlantici senegalesi confermandomi che Parigi è la città più africana d’Europa.
Paris e il verde dei beaux quartiers_
Un geografo di Paris-Saint Denis, ad una cena, mi racconta che un mercante di origine algerina, che aveva sempre vissuto nel quartiere «africano» di Barbès, grazie al suo intenso lavoro e alla buona condizione economica raggiunta, decide di acquistare una casa in un quartiere borghese dell’ovest parigino (i beaux quartiers narrati da Louis Aragon).
La sua scelta ricade su di un bel palazzo déco con ampio giardino attorno.
A Parigi quando si cambia abitazione è buona norma presentarsi ai vicini e quello più prossimo al nostro mercante è uno dei più noti medici della città, un vero luminare della scienza medica. Come spesso capita tra vicini, una volta stabilito il contatto, ci si confronta sui problemi del quartiere, sulla manutenzione della casa e i due vicini iniziano ad informarsi reciprocamente sui lavori fatti, tutti di grande qualità e molto costosi.
A un certo punto il mercante chiude la comparazione affermando che comunque la sua casa avrà un valore immobiliare più alto rispetto a quella del medico.
Per quale motivo? Gli chiede quest’ultimo, piuttosto alterato vista la quantità di denaro speso.
La ragione è semplice, quando io venderò casa, dice il mercante, dirò che il mio vicino è un importante medico parigino, se la vende lei dirà che il suo vicino è un arabo.
La foto della cover e quelle nel testo sono dell’autore.
In Copertina: Paris Sebastopol sotto la pioggia, all’imbrunire.
Morti, migliaia di morti, vittime innocenti: israeliani e palestinesi ! Condanniamo la violenza di entrambe le parti, ma non dobbiamo nascondere le cause.
Cittadini del Mondo condanna gli atroci atti di violenza commessi in questi giorni contro i civili israeliani – bambini, donne e uomini – e contro i civili palestinesi, – bambini, donne e uomini – uccisi indiscriminatamente dai bombardamenti aerei.
Morti e ancora morti!
Il mondo “civile”, USA e UE in testa, quasi sorpreso, condanna giustamente l’attacco di Hamas; in questi anni, però, ha fatto finta di non vedere quello che succede in Palestina.
Basti ricordare l‘occupazione militare della Cisgiordania e di Gerusalemme est, gli insediamenti illegali dei coloni, la violazione sistematica dei diritti umani, il mancato rispetto di tutte le risoluzioni ONU, la prigione a cielo aperto di Gaza, l’impossibilità di muoversi e di coltivare le proprie terre. Infine, una gestione della Palestina occupata che ricorda le forme di apartheid tristemente note.
I decenni di repressione e di violenza indiscriminata inflitti al popolo palestinese dallo Stato israeliano, con centinaia di vittime innocenti, hanno sicuramente alimentato sentimenti di rivalsa e dato forza all’estremismo violento.
Riaffermare la realtà dei fatti non significa in alcun modo giustificare la violenza, che è nemica della democrazia e della pace, serve però ad evitare che, per l’ennesima volta, si nascondano le cause.
La nostra Associazione denuncia, inoltre, il razzismo contro gli arabi (definiti come “animali con sembianze umane” da Yoav Gallant, ministro israeliano della difesa), la mistificazione religiosa usata da entrambe le parti e il gravissimo comportamento di Hamas nei confronti delle donne, ancora una volta bottino di guerra.
Chiediamo che la comunità internazionale, in un momento così tragico, intervenga immediatamente per porre fine alla spirale dimortivittime i violenza e compia i passi necessari per trovare una soluzione equa e pacifica al conflitto.
Associazione Cittadini Del Mondo www.cittadinidelmondo.org
“Scrivere di poesia oggi è difficile quasi quanto scrivere poesie. E scrivere poesie è difficile quasi quanto leggerle. Ecco un circolo vizioso del nostro tempo.”
(Jurij Nikolaevic Tynjanov)
Sono più gradevoli le sere,
il profumo di magnolia,
la tua rivelazione, spontanea.
Un giallo limone e una pietra
color turchino tra il buio
che si confonde con la mitezza
corteggiata nell’immenso
che si dilata.
*
Il tempo ad oggi si mescola con te
che svuoti nel mio cranio le polveri
dell’universo: amore, metti la tua mano
con precisione sul mio petto, piano
e piano i così timidi fuscelli piegarsi
al sole del mattino; il flauto dolce,
le cornamuse nell’incontro fra due fiumi.
Tengo in pugno una manciata di riso,
le nostre fortune trasportate nel vento
come semi per l’alloro.
*
L’acqua è in cima alle mie preferenze –
luogo sacro, di lago e di odor dei pini,
d’intimo così perfettibile.
Umile creatura che corteggi la farfalla,
che volteggi sotto un batuffolo di luce calda –
come si colora il sentimento tra le pieghe
di un verde che tutto avvolge
quando di pioggia ci si bagna il volto
e pian piano s’espande il trastullarsi
di un esile momento.
*
Mi capita spesso di contemplare il cielo,
di organizzare partiture che si risolvono
con un battito di ciglia; di convertire nuvole
in fumosi arrangiamenti; mi capita spesso
di pensare alla fiamma avvolgere il tuo corpo
di donna indifferente alla meteorologia.
Porgo in un riquadro il mio tempo per te,
diluito in un lingotto d’oro,
capsule d’argento, con semplicità
ripongo il mio sguardo su di te
che sprigioni feromoni.
*
Nessuna morte sosta nel mio cuore
da quando tu governi in giubilo
il mio ritmo circadiano.
Verrà quella stagione chiamata primavera:
i vestitini di raso, le ciliegie in fiore
come coralli appesi al tuo collo
che sopravvive al tempo;
vado avanti, nel mio ansimare a strati,
mi muovo come un bradipo
pensando al ripiegar, così di mano –
la tua pelle (bambola di porcellana).
(INEDITI, da “Cerimoniale d’estasi”)
Fabio Strinati (San Severino Marche, 1983) è un poeta, scrittore, insegnante, pianista e compositore.Ha pubblicato anche poemetti, libri di preghiere ed aforismi. Debutta come poeta nel 2014 con il libro «Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo». È presente in diverse riviste e antologie letterarie: da ricordare «Il Segnale», rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini; la rivista «Sìlarus», fondata da Italo Rocco; il bimestrale di immagini, politica e cultura «Il Grandevetro»; la «Gazeta Dielli»; «451 Via della letteratura della scienza e dell’arte». Sue poesie sono state tradotte in romeno, in austriaco, bosniaco, in spagnolo, in albanese, in francese e in inglese, mentre in lingua catalana è stato tradotto da Carles Duarte i Montserrat, e in lingua croata, dalla poetessa Ljerka Car Matutinovic. È inoltre il direttore della collana poesia per le «Edizioni Il Foglio» e cura una rubrica poetica dal nome «Retroscena» sulla rivista trimestrale del «Foglio Letterario».
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
“DISARMATI. PAESI SENZA ESERCITO E ALTRE STRATEGIE DI PACE”
Giovedì 12 ottobre dalle ore 18,00 al Black Star di via Ravenna
PROGRAMMA
Ore 18:00
Presentazione del libro DISARMATI. PAESI SENZA ESERCITO E ALTRE STRATEGIE DI PACE
con l’autore Riccardo Bottazzo, presenta Alessandro Tagliati.
Quali sono i paesi che hanno deciso di abolire l’esercito dai loro territori e quali hanno sempre vissuto senza? Quali invece quelli che hanno dovuto lottare contro gli invasori che volevano imporgli una forza armata? Ci sono tanti paesi inoltre, che vivono con la speranza di pace, una pace duratura e lontana dal profitto della guerra. Sono tanti i racconti racchiusi nel libro di Riccardo Bottazzo, che dialogherà con Alessandro Tagliati del Gruppo letterario del Tasso per trasmetterci la speranza e il coraggio di chi dà seguito ad un pensiero concreto e costruito sul valore della pace. Seguirà un laboratorio di scrittura creativa organizzato dal Gruppo del Tasso. Il laboratorio utilizzerà i testi del libro Disarmati. Paesi senza esercito e altre strategie di pace, per la produzione di testi propri dei partecipanti.
A seguire laboratorio di scrittura a cura del GRUPPO DEL TASSO.
Ore 22:00 FRANCO BENAZZI (from benny en ze tipi sospetti) Musica live rock demenziale e DJ set anni ’70 e‘80
Durante la serata MERCATINO VINTAGE BENEFIT
Ingresso UP TO YOU benefit Centro Sociale La Resistenza
Vi aspettiamo al Black Star!
Via Ravenna 104, Ferrara
Finalmente il Consiglio Comunale vota l’avvio di un percorso partecipato per la riqualificazione dell’ex Caserma Pozzuolo del Friuli. Ora però il Forum Ferrara Partecipata chiede di cominciare subito.
Il Consiglio Comunale ha votato ieri, martedì 10 ottobre, unaRisoluzione per chiedere al sindaco e alla giunta il finanziamento di “un percorso partecipato per la riqualificazione dell’ex Caserma Pozzuolo del Friuli”, che va nella stessa direzione di quello che da mesi chiede la rappresentanza del Forum Ferrara partecipata ogni venerdì, esponendo il suo striscione in piazza municipale, e cioè la partenza di un reale percorso partecipativo che coinvolga i cittadini nella costruzione delle proposte relative alla ex Caserma.
Peraltro la risoluzione non specifica in modo preciso i tempi e le modalità con cui questo percorso si dovrebbe svolgere. In origine il documento era stato presentato dalle opposizioni, ma la maggioranza, per manifestare il proprio assenso, ne ha prodotto uno simile che alla fine è stato approvato.
Per la verità, il Consiglio Comunale quella stessa richiesta l’aveva già espressa il 27 febbraio scorso, votando la messa in disparte del progetto urbanistico denominato Fe.Ris., di cui l’area della ex Caserma era il cuore. Da allora nelle sedi istituzionali cittadine era calato il silenzio sull’argomento, e perciò il Forum aveva scritto al Sindaco il 5 giugno, ricordando gli impegni presi pubblicamente e allegando alla lettera una serie di proposte raccolte nel frattempo tra cittadini e associazioni, a prova dell’interesse ad esprimere il proprio interesse attivo.
All’ennesimo silenzio, si è passati al sit-in settimanale, con tanto di striscione dotato di contagiorni dal 27 febbraio.
Ora, in attesa di una sollecita azione della Giunta perché effettivamente si dia corso al percorso partecipativo, il Forum Ferrara Partecipata ha deciso di proseguire con il sit-in del venerdì fino alla partenza concreta del processo partecipativo.
Aspettando la VI edizione del “Ferrara Film Corto Festival”, dal 25 al 28 ottobre 2023, continuiamo presentarvi gli ultimi cortometraggi vincitori dello scorso anno.
A voi, ora, la seconda parte di questa carrellata, in attesa di incontrarci e incontrarvi tutti alle VI edizione che si terrà dal 25 al 28 ottobre presso la rinnovata sala dell’ex refettorio di San Paolo.
PREMIO ASCOM AL “MIGLIORE ATTORE”: Giacomo Bottoni, LELLA “Per la pulizia e la precisione con le quali riesce a tratteggiare la psicologia del personaggio”.
Roma, notte di Capodanno del 1978: Edoardo è tranquillo, quando riceve una visita inaspettata. È un suo giovane conoscente, scosso da un pensiero fisso di cui non riesce a liberarsi. Una volta entrato in casa, il ragazzo inizia a raccontare la sua indimenticabile storia d’amore clandestino… Lella, occhi azzurri bellissima, la moglie del ricco Proietti che non la guarda più e pensa solo ai soldi. Il mare, l’orizzonte, la tenerezza, quello che pare un dialogo ritrovato. Ma qualcosa di inaspettato, di inesplicabile, di terribilmente attuale succede. Sssst, dice Edoardo, non lo dite a nessuno…
PREMIO SPECIALE “#CLIMATECHANGE”: BOA “Per l’efficacia descrittiva e per la radicalità del messaggio, che non lascia spazio alla sopravvivenza umana”.
Uomo e devastazione sono sempre stati sinonimi da tempi immemorabili nell’intero regno animale (Horacio Quiroga). E questo film di animazione, bellissimo e colorato, contrappone con forza le due dimensioni. Perché l’uomo ripete sempre gli stessi immancabili errori, la storia si ripete e la memoria vacilla. Con noncuranza avanza, imperterrito e deciso nell’ottenere i suoi scopi, fisso sui suoi obiettivi. Senza speranza. Costi quel che costi. Ma la natura è capace di sopravviverci, noi, senza di lei, no.
PREMIO PUNTO 3 “ALL’OPERA PRIMA CHE TOCCHI TEMATICHE AMBIENTALI”: I PANARA “Per il modo in cui viene trascinato lo spettatore alla riscoperta di un’arte antica in sintonia con la natura”.
Canne al vento, alberi, rami, rametti. Un’abilissima mano umana li accarezza, li intreccia, ne fa forma. Con amore, precisione, attenzione, cura, dedizione, passione e delicatezza. Finché quelle canne leggere diventano cesto, un luogo caldo pronto ad accogliere i frutti della madre terra. Funghi. Un abbraccio fra frutti.
MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA: Roberta Pazi, A PIEDI NUDI “Per l’intensità della sua interpretazione, che salva il protagonista e rilancia la narrazione”.
Il calzolaio, la moglie che non c’è più, la solitudine, il pianto e il lavoro perso. E poi, con la povertà, la strada, lo sbeffeggiare impietoso di alcuni ragazzi, Mentre il tempo passa, inesorabile. Ma eccolo, l’incontro tra solitudini che, alla fine, si fanno compagnia, uno scambio di fiori rubati e n pasto frugale condiviso. La bellezza delle rughe solidali, di sguardi e mani che si ritrovano, nel tepore di una vecchia roulotte.
MENZIONE SPECIALE DELLA DIREZIONE ARTISTICA: Rainer Bartesch, OUR WORLD IS ON FIRE “Per l’eccezionalità del messaggio ambientalista, espresso mediante il potere trasversale della composizione musicale”.
Musica potente e il mondo che va in fiamme. Poche le parole. Ascoltare, per credere.
PREMIO SPECIALE “GIURIA GIOVANI” AL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO: LA PETITE FOLIE
Parigi occupata nel 1943. Un gruppo di eleganti disadattati, compagni nello stile di vita bohémien sotterraneo, si uniscono per sfidare l’oppressione del nuovo ordine nazista. Come gruppo, prendono un’ultima posizione per dimostrare la capacità di recupero dello spirito umano. Grigio nel grigio, grigio su grigio. Ma…?
Vite di carta. Ricordi di scuola. Partendo dal volto e le parole di David Grossman
La scuola è ricominciata da poche settimane e mi si ripresentano molti ricordi. Sarà che facendo l’insegnante ho vissuto un tempo ciclico, dal settembre di ogni anno al giugno successivo, per quasi tutta la vita.
Li scorro velocemente e li possiedo tutti quanti in un solo istante. Capisco che non è del loro contenuto che vorrei parlare, ma della loro funzione di sostegno, della rete di idee che mi fa da guida e che continua a srotolarsi sotto i miei passi.
Finirò per riparlare di libri o comunque di letture, come stazioni di posta nel cammino che ho già percorso; tuttavia il punto di partenza è una considerazione sulla situazione internazionale e sulla condizione umana.
Parto dalle notizie di queste ore che arrivano da Gaza e Israele: è la prima volta che ricevo aggiornamenti di guerra da quella parte del mondo avendo davanti i volti di miei compaesani che proprio in questi giorni si trovano in pellegrinaggio a Betlemme.
Anni fa al Festivaletteratura a Mantova era il volto di David Grossman a occuparmi la mente, le sue parole cariche di pace ma allarmate per la situazione in atto nella sua città, Gerusalemme. Era il 2003. Parlò poco dopo dei suoi libri, della scrittura che gli permetteva di lasciare la bruttezza del mondo per indagare a fondo i sentimenti umani, di staccarsi dalla contingenza della storia e “cedere alla tentazione di diventare un altro, di accogliere dentro di te il nemico”.
Ho trovato queste parole nei miei appunti di vent’anni fa, credo che siano quelle esatte. L’altra su cui si trattenne a lungo è la parola amore, ne diede tra le altre la definizione che riporto: “l’amore è permettere all’altro di essere molte persone“. Mi colpì e mi colpisce ancora oggi, come per tutte le affermazioni potenti che acquisiscono ogni volta un nuovo senso, senza averne uno definito per sempre.
Un libro che dovrei rileggere è il suo Qualcuno con cui correre, che era uscito in Italia due anni prima, nel 2001, che comprai e lessi subito dopo.
Intanto in questi mesi ho ritrovato qualcuno con cui scrivere di scuola. Due lavori di gruppo, svolti nell’estate in preparazione di due diverse pubblicazioni, mi hanno permesso di lavorare insieme ad alcune ex colleghe del Liceo, oltre che all’amica storica Maria, e anche con ex studenti usciti da molti anni che hanno collaborato con noi nella veste autorevole di professionisti di formazione universitaria scientifica.
Con l’occasione ci siamo chiariti che la ricostruzione degli ultimi cinquant’anni della nostra scuola, fatta attraverso i contributi di chi l’ha vissuta dai banchi e dalla cattedra, non riveste un significato (solo) nostalgico, né si è spesa entro i limiti delle nostre individualità.
Abbiamo inteso ripercorrere il cammino di una comunità che si è dedicata alla formazione dei giovani, dentro il sogno della scuola innovativa che abbiamo cercato di realizzare, attenta alla crescita personale e al dialogo tra le generazioni, al contempo rigorosa nei metodi di studio, sensibile agli statuti delle discipline e a ogni intreccio interdisciplinare.
Abbiamo ricordato per guardare avanti, per porgere l’immaginario che abbiamo condiviso all’attenzione della scuola che verrà.
Elia e Pietro, 17 anni o giù di lì, mi hanno scritto un messaggio carinissimo pochi giorni fa. Avrebbero avuto il piacere di un saluto, se fossi passata in Castello al Bookshop dove stavano lavorando come reporter a Internazionale a Ferrara 2023. Che piacere profondo. Realizzo che è per questo che frequento i ricordi, per attrezzarmi a stare al passo con i ragazzi e cercare con loro di guardare avanti.
C’è chi cede ai ricordi personali col piacere di indugiare nella propria esperienza, anche in certe pieghe riposte. L’ho constatato in questa recente avventura di scrittura e di editing, e mi ha fatto piacere misurarmi con i percorsi altrui. Ho anche ripensato al bel libro di Diego Marani, Il compagno di scuola, in cui mi sono avidamente rispecchiata anni fa durante la prima lettura. Anche questo libro dovrei rileggere.
Quando l’autore venne all’Ariosto a parlarci di una altro suo romanzo di pregio, Nuova grammatica finlandese, ebbe la curiosità di rivedere l’aula in cui aveva trascorso molte ore nei suoi cinque anni al Liceo.
Parlò a lungo di ricordi suoi, del disagio provato nell’inserirsi nel gruppo classe come pendolare, della sua adolescenza assolata vissuta tra Tresigallo e la sede del Liceo in Via Arianuova.
Ora, il libro è anche molto altro al di là della contrapposizione tra studenti di città e studenti di campagna. Tuttavia mi dà man forte nella considerazione che ne ricavo sulla qualità della mia memoria, ora che ho superato la linea del pensionamento e condivido da fuori preziosi momenti di scuola con colleghe e studenti.
È la memoria di una comunità quella che mi appartiene e mi restituisce un irrinunciabile pezzo di identità. Qualcosa di condiviso che non ha perduto la sua spinta proprio in quanto mi scavalca come singola insegnante e si fa memoria tesaurizzata del progetto formativo a cui abbiamo dedicato la nostra carriera.
Mi accade di comportarmi nello stesso modo anche nella sfera privata: non mi riesce di esternare né il mosaico di pensieri che ho dentro, né le singole parti. Un po’ di ognuna, ma virando appena possibile verso l’implicito. Sarà che più invecchio e più mi pare che la vita di ognuno somigli alla vita di tutti. Mi pare, così, che dovremmo capirci. Vedere nell’altro sempre meno il diverso.
Nota bibliografica:
David Grossman, Qualcuno con cui correre, Mondadori, 2001
Diego Marani, Il compagno di scuola, Bompiani, 2005
Diego Marani, Nuova grammatica finlandese, Bompiani, 2002
Cover: Ferrara – Internazionale 2023 – Studenti del Liceo Ariosto di Ferrara e del Liceo Alfieri di Torino
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
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