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La lotta contro i CPR, le mucche Rosse e le mucche Nere

La lotta contro i Cpr, le mucche Rosse e le mucche Nere

No A Tutti i CPR. No a Ferrara, No in Emilia Romagna, No in Italia, in Albania, ovunque. Perché sono dei lager, dei luoghi di detenzione, di violenza. Perché sono anticostituzionali. Perché sono la negazione dei diritti fondamentali delle persone.
A Ferrara, nella Ferrara leghista e neofascista che a giugno tornerà al voto, sfila la grande marcia per la legalità, il grande corteo, attraversa la città fino a piazza Castello. Alcune migliaia. impossibile contarli: arrivano da tutta la Regione ma tanti, tantissime e tantissimi i ferraresi.
“La battaglia non è finita” – avverte Anna Zonari, candidata sindaca della lista La Comune di Ferrara – “Fratelli d’Italia ora si dicono contrari, ma sono stati loro ad appoggiare la candidatura di Ferrara per costruirci il CPR regionale. Attenti: appena dopo le elezioni torneranno ad essere favorevoli”.

Sicuramente la battaglia sui Centri per il Rimpatrio, un cavallo di battaglia del Governo di Giorgia Meloni – che è riuscita ad esportarli (a pagamento) anche nella vicina Albania –  rimarrà al centro del dibattito politico fino alle prossime elezioni. Due pietre d’inciampo, non due sassolini, ma due enormi massi, ineliminabili: da una parte la questione dei CPR, dall’altra la violenza della polizia contro le manifestazioni sociali e studentesche (vedi i gravissimi fatti di Pisa e di Firenze).

Così, una campagna elettorale  – quella delle Europee come quella delle Amministrative – che era destinata a rimanere nell’iperuranio, nelle schermaglie politiciste, o peggio ancora, in trepida attesa di questo o quel Vannacci e questo o quel fascista in lista, una campagna dove (come sempre) l’elettore medio  avrebbe capito poco o nulla, tanto le mucche rosse sono indistinguibili dalle mucche nere; oggi questa campagna elettorale sembra aver cambiato volto. A Pisa, a Firenze, a Roma. a Ferrara… Oggi le Mucche Rosse le vedi sfilare per tutte le città d’Italia. E le Mucche Nere le riconosci benissimo: stanno chiuse in casa, rosicano e aspettano la rivincita.

La Battaglia contro tutti i CPR, come quella contro la violenza dei corpi di polizia, segnano una svolta. Mettono al centro i diritti, la civiltà, la Costituzione. La libertà, l’uguaglianza, la fraternità (già, guarda chi si rivede?).  Ci fanno capire che abbiamo di fronte due Italie diverse, che sta a noi scegliere: un carcere o una strada aperta, la paura di tutto o i diritti di tutti.

Per certi versi /
Tutto o niente

Tutto e niente

Tutto
E niente
Lo sappiamo
E lo ignoriamo
Il tutto
È l’abbraccio
Il niente
È lo strappo
L’addio
Il tutto
È il ritorno
Nel mezzo
Le parole
Che versano
Oro e sangue

Ogni domenica Periscopio
ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Mi chiamo Ahmad, che significa molto lodevole, uno dei tanti nomi del Profeta, ho otto anni e abito a Gaza.

Mi chiamo Ahmad, che significa molto lodevole, uno dei tanti nomi del Profeta, ho otto anni e abito a Gaza. Non conosco il significato della parola pace, non ho memoria di un tempo in cui non scoppiavano le case. L’odio, la cattiveria, la vendetta, galleggiano nelle pozzanghere ed emergono dalle macerie.

A dire il vero io non so il vero motivo per cui ci odiano e noi odiamo loro, per la terra, che prima era nostra e poi ci è stata tolta, ma loro dicono che duemila anni fa c’erano loro.
Ma io non mi ricordo, mica ero nato.

Tempo fa non era così brutto abitare a Gaza, sì, c’erano tanti funerali, molti erano bambini, scoppiava una casa ogni tanto, un po’ qua e un po’ là, ma riuscivamo anche a ridere. Oggi i funerali non si fanno nemmeno più, non ci sono i cimiteri, non c’è più posto per i morti, della mia classe sono già morti cinque bambini. Dicono che sono morti dei bambini anche dall’altra parte del muro, io credo che i bambini non c’entrino niente con questa guerra dei grandi.

Eppure Dio è con noi, ma noi continuiamo a morire, forse il loro Dio è più forte del nostro, oppure Dio non c’entra niente. Chissà perché ogni tanto si addormenta e non protegge i bambini? Forse è stanco di noi, di tutti noi. Una volta quando scoppiavano meno bombe noi giocavamo a calcio, io ero Messi e un mio amico Ronaldo, ma alle volte eravamo anche altri calciatori. Sognavamo di indossare la maglia numero dieci e il numero lo scrivevamo col pennarello, ma poi la mamma si arrabbiava.

C’è tanta polvere, ieri è morto mio nonno, due miei cugini sono rimasti sotto le macerie, il mio papà è morto tanto tempo fa, quasi non mi ricordo più di lui.
E io? Chissà se le bombe continueranno a mancarmi anche domani?

Cover: 2022, Bambini giocano a calcio per le strada nella striscia di Gaza (foto wow nature)

A chi conviene la violenza sulle donne?

A chi conviene la violenza sulle donne?

Ho apprezzato molto l’intervento di Massimo Lizzi, Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? prima di tutto perché riprende un concetto politico del femminismo anni ’70, non del tutto chiaro o perlomeno non dovutamente evidenziato nei numerosi interventi della stampa e mediatici degli ultimi tempi. La domanda che chiede risposta è se la violenza sulle donne conviene a qualcuno e , in caso affermativo a chi.
La risposta politica del femminismo, ancora influenzato dalle analisi di sistema di impronta marxista, era che la violenza sulle donne fosse funzionale ad un sistema di dominio maschile di matrice capitalista. Lizzi spiega molto bene le ragioni di convenienza dell’indebolimento sistematico delle donne, come competitrici formidabili nel mondo del lavoro: più creative, efficaci ed efficienti sono state contrastate con salari inferiori, con difficoltà a conciliare il tempo di lavoro con gli impegni famigliari, con ricatti sessuali, con mobbing di vario genere. Per queste ragioni le donne hanno spesso rinunciato a privilegiare la carriera e in molti settori pur a netta prevalenza femminile, come la scuola o la sanità, i dirigenti sono spesso uomini.

A questo oggettivo carico di ostacoli nel mondo del lavoro si aggiunge l’ulteriore compito, più che mai urgente, di controllare la propria relazione con il partner. Come scrive acutamente Lizzi: “Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico.”

I commenti che si sono letti sui 118 femminicidi del 2023 e sui 9 del 2024, sono stati quasi tutti di critica a una debole preveggenza femminile, che deve denunciare ai primi segnali, non si deve mettere con individui simili,  si deve proteggere prima. A parte il fatto che Filippo Turetta era un ragazzo modello, che molte avevano denunciato e sono state uccise lo stesso, o forse proprio per questo, tali giudizi indicano come la società stia caricando il mondo femminile di un’ulteriore responsabilità: controllare che la rabbia maschile non degeneri in aggressione, come ha scritto su Periscopio Catina Balotta, La rabbia degli uomini.

Non una parola di autoanalisi maschile, a parte Lizzi, sulla carica di violenza che sentimenti comuni come la gelosia , il desiderio di possesso, l’invidia portano gradualmente con sé, se non riconosciuti, compresi, trasformati. Il lavoro di autocoscienza è stato uno dei pilastri del femminismo anni ’70 nella convinzione tuttora riconfermata dell’importanza di partire da sé,  non da paradgmi esterni, ma da ciò che si sente e si vuole veramente. In altri termini non si diventa un mostro improvvisamente, ma giorno dopo giorno, accumulando false immagini di se stessi, nella mancanza di sincerità, nella pesantezza del silenzio fra i partner.

Tutte le 127 donne uccise fra il 2023 e il 2024 non si immaginavano che quello che un tempo era stato un amore le potesse ammazzare con decine di coltellate, non per stupida ingenuità, ma perché in una donna è molto raro che la rabbia si trasformi in aggressione.
Non riusciamo ad immaginarci quello che non ci appartiene e pretendere che siano le donne a difendersi dagli uomini delega ancora una volta le proprie responsabilità ad altri. Per gli uomini il riconoscimento delle proprie emozioni sarebbe un primo passo per non esserne schiavi, aiuterebbe ad arginare il cieco impulso nella sua corrente distruttiva.
Noi la nostra autocoscienza l’abbiamo fatta, ora, come ha fatto Massimo Lizzi, comincino gli uomini.

Anna Zonari alla manifestazione contro tutti i CPR

Anna Zonari alla manifestazione contro tutti i CPR

Sabato 2 marzo alle 15.00 sarò in Piazzale Poledrelli alla Manifestazione regionale per la chiusura di tutti i Centri di Permanenza per i Rimpatri aperti in Italia e contro l’apertura di nuovi centri.
Dallo scorso novembre, aderisco con convinzione al Comitato NO CPR nato a Ferrara e composto da circa 50 organizzazioni di varia natura, a cui si deve il merito, con le proprie iniziative, di avere interrotto (momentaneamente) la prosecuzione dello studio di fattibilità annunciato allora con esultanza e pubblicamente dal Sindaco Fabbri: “Questo (il CPR) ci consentirà anche di poter chiedere di avere immediato e diretto accesso al sistema di espulsione di soggetti pericolosi per il nostro territorio ferrarese”.
Insieme al senatore Alberto Balboni (“Chi si oppone è contro la sicurezza dei cittadini”), in un primo momento, hanno fatto credere che queste strutture avrebbero contribuito a portare maggiore sicurezza nel territorio, per poi fare dietrofront una volta compreso che un CPR a Ferrara avrebbe fatto perdere loro consenso elettorale.
Girando per Ferrara vediamo ora che la città è stata tappezzata da manifesti in cui Fratelli d’Italia si arroga il merito di averne impedito l’apertura, contrariamente alla linea del Governo Meloni che ne prevede uno in ogni regione italiana. Una sorta di corto circuito: ne volete l’apertura o no? A livello locale siete in dissenso con la linea nazionale della premier? Fateci capire.
Ci sorge un dubbio: alla fine della campagna elettorale, si tornerà alla propaganda CPR uguale sicurezza?
I CPR sono luoghi di detenzione in cui sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato penale. Irregolarità amministrative non equivalgono a criminalità. I CPR non sono carceri e non sono sottoposti ai controlli che l’autorità giudiziaria esercita normalmente. Non è pertanto possibile monitorare il rispetto dei diritti umani essenziali, come ampiamente documentato da testimonianze ed indagini.
In questi “non luoghi” avvengono soprusi e violenze che spesso portano ad atti di autolesionismo fino al suicidio, come quello di Sylla Ousmane, rinchiuso nel CPR di Ponte Galeria, avvenuto all’inzio di febbraio.
Inoltre, sono strumenti inefficaci ed inefficienti: i tempi di durata massima della detenzione sono diventati sempre più lunghi. Nel 1998 erano di 30 giorni, nel 2023 sono diventati di 18 mesi, con i relativi costi esorbitanti. A questo però non è corrisposto un tasso crescente di rimpatri, anzi: i rimpatri continuano a diminuire, dal 60% del 2014 si è passati al 49% del 2021.

Anna Zonari candidata a Sindaca di Ferrara

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Presto di mattina /
Quaresima nella città

Presto di mattina. Quaresima nella città

Beatitudine della Quaresima

Quella della Quaresima è una beatitudine in germe. Concepimento di grazia, protesa verso la gioia pasquale, è in cammino sulle orme di Cristo, in ascolto della voce dello Spirito. Non avere timore, non è il vento spettrale; né spegne la tua lampada il suo soffio. Egli è lo Spirito che comunica libertà, fa sorgere la tua luce, guarisce la tua ferita.

Come sui rami spogli sotto indurite scorze si snodano intime e tenere gemme così le beatitudini del Regno, lungo l’austero cammino quaresimale, conturbando l’inverno del disamore nel suo sonno.

Un duplice ascolto: quello della parola di Dio e l’ascolto della povera gente. Qui sta il cuore dell’esercizio spirituale della Quaresima; qui e non altrove sei in ascolto della voce dello Spirito, che mormora in te da quando sei stato portato al fonte battesimale:

«Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 11, 28).

«Beato chi ha cura del debole: nel giorno della sventura il Signore lo libera. Il Signore veglierà su di lui (Sal 41, 2-3).

Quaresima è il tempo per ricevere la forma Christi ed essere conformati all’immagine di colui che è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova; colui che farà risplendere su di noi la luce del suo volto (cf. Sal 146).

Il mio canto nuovo sei tu, tu la mia luce

Colui che si fa conoscere lungo i sentieri della Quaresima comunica libertà e liberazione, ci ha ricordato papa Francesco. Così, “stato interessante” è il tempo della Quaresima, gestazione di un canto nuovo, di un sentimento nuovo per un uomo nuovo, quello di colui che ama. «Sopra i retaggi della gente, Tu il mio canto libero che apre all’immensità sorretto da un anelito d’amore, di vero amore» (Lucio Battisti), camminando fianco a fianco Tu ed io.

Concedi ch’io possa rimanere
per un momento al tuo fianco.
Le opere cui sto attendendo
potrò finirle più tardi.
Lontano dalla vista del tuo volto
non conosco né tregua né riposo
e il mio lavoro
diventa una pena senza fine
in un mare sconfinato di dolori.
Ora è tempo di stare tranquilli
a faccia a faccia con te
e di cantare la consacrazione
della mia vita
in questa calma straripante e silenziosa.
Il mio canto ha deposto ogni clamore.
Non sfoggia splendide vesti
né ornamenti fastosi:
non farebbero che separarci
l’uno dall’altro, e il loro artificio
coprirebbe quello che sussurri.
La mia vanità di poeta
alla tua vista muore di vergogna.
O sommo poeta,
mi sono seduto ai tuoi piedi.
Voglio rendere semplice e schietta
la mia vita,
come un flauto di canna
che tu possa riempire di musica.

Quando mi comandi di cantare, il mio cuore
sembra scoppiare di gioia
e fisso il tuo volto
Con l’ala distesa del mio canto
sfioro i tuoi piedi, che mai
avrei pensato di poter sfiorare.
Felice del mio canto
dimentico me stesso
e chiamo amico te
che sei il mio signore.

Luce, mia luce!
Luce che inondi la terra
luce che baci gli occhi
luce che addolcisce il cuore!
(Rabindranath Tagore, Poesie, E-book, REA Multimedia, L’Aquila 2013, 10; 7;52).

E così profetizza Isaia le parole di Jhwh su di noi: anche «la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto».

 Sì, ma quando?

Quando scioglierai le catene inique,
toglierai i legami del giogo,
rimanderai liberi gli oppressi
e spezzerai ogni giogo.
Quando dividerai il pane con l’affamato,
introdurrai in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti.
Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,
il puntare il dito e il parlare empio,
se aprirai il tuo cuore all’affamato,
se sazierai l’afflitto di cuore,
allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio.
Sarai come un giardino irrigato
e come una sorgente
le cui acque non inaridiscono
(Is 58, 5-11).

Quaresima nella città

Quaresima è il tempo della primavera della comunità cristiana e anche della città. In inglese i termini lent e long – quaresima lunga – fanno riferimento ad un primo significato: quello dell’allungarsi delle giornate in primavera. Era l’itinerario di una conversione, quella dei catecumeni incamminati verso la Pasqua all’incontro con Cristo nei sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia. E i neofiti – “nuovi germogli” – i nuovi battezzati sono proprio il segno di questa primavera che fiorisce a Pasqua.

Ci ha ricordato Carlo Maria Martini che la comunità cristiana, al pari della città, è «il luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. Ambrogio le caratterizzava secondo la nota formula: “cercare sempre il nuovo e custodire ciò che si è conseguitoDe Paradiso, 4,25 (Paure e speranze di una città, Discorso del Card. C. M. Martini al consiglio comunale di Milano alla fine del suo episcopato 28 giugno 2002).

Si legge nel libro del Siracide (4, 1-5): «Figlio, non rifiutare il sostentamento al povero, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. Non rattristare un affamato, non esasperare un uomo già in difficoltà. Non distogliere lo sguardo dall’indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo».

… a misura di sguardo

La Quaresima ci chiede così di vivere «la città a misura di sguardo», perché proprio la città permette tutta una serie di relazioni di prossimità, tra le quali, però, va prediletto lo sguardo rivolto ai deboli. Ci chiede infatti di pensare «la città per i deboli».

Scrive ancora Martini: «Ed è soprattutto ai deboli che va il nostro pensiero. È inutile illudersi: la storia insegna che quasi mai è stato il pane ad andare verso i poveri, ma i poveri ad andare dove c’è il pane. “Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità” diceva Ambrogio (Exp. Luc., VI,66). Ma ciò non significa un’accettazione passiva, subìta e dissennata, né l’accoglimento solo di quell’ospite che sia simile a noi: il magnanimo ospitante non teme il diverso, perché è forte della propria identità.

Il vero problema è che le nostre città, al di là delle accelerazioni indotte da fatti contingenti, non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore, e scambiano questa loro insicurezza di fondo con una insicurezza di importazione. E invece il tarlo è già in esse ed è qui che lo si deve combattere con lucidità, vedendo la città come opportunità e non solo come difficoltà. La città va scelta e costruita con intelligenza e con magnanimità…

Parrebbe a volte che la città – in particolare nei suoi membri più potenti – abbia paura dei più deboli e che la politica urbana tenda a ricercare la tranquillità mediante la tutela della potenza. Non è la lezione di Ambrogio, per il quale la politica è eminentemente a servizio dei più deboli. Questo non è un invito vagamente moralistico, ma ha efficacia politica.

La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione: dice Ambrogio: “comune è il dovere di intrattenere relazioni” (Exameron, V, ser. VIII, 21,66)».

Dio delle città

«Uomini soli» è una canzone dei Pooh del 1990. Narra storie di solitudine e di emarginazione in un contesto sociale sempre più individualista, dove è difficile comunicare e agire per un cambiamento, un’integrazione segnata dall’amore. Così Dio è invocato come Dio delle città e dell’immensità, non solo di lassù, ma di quaggiù; tessitore di umanità nell’umanità del Figlio venuto a riannodare i fili perduti. E tutto ciò per dire che l’uomo non è solo, abbandonato fino in fondo.

Dio delle città e dell’immensità
se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi
vediamo se si può imparare questa vita
e magari un po’ cambiarla
prima che ci cambi lei.
vediamo se si può
farci amare come siamo
senza violentarci più
con nevrosi e gelosie

Ma Dio delle città e dell’immensità
magari tu ci sei e problemi non ne hai
ma quaggiù non siamo in cielo
e se un uomo perde il filo
è soltanto un uomo solo.

Il povero nella città (G. Ungaretti)

Anche il poeta volge lo sguardo al povero per dire di sé, della precarietà del vivere e di quel patire che genera solidarietà. Il poeta è un povero della parola, che tuttavia sa cogliere con le parole i legami ermetici, impenetrabili, nascosti nelle cose e negli eventi.

Il povero nella città (con un saggio di Carlo Ossola, SE, Milano 1993) è un testo poco noto, nel quale Ungaretti ha voluto raccogliere le sue prose, considerate – da Angelo Romanò in un articolo su Vita e Pensiero (3/1950, 160) – «come preziosa preparazione, come premessa alla formulazione della sua poetica».

Il poeta francese, Saint-John Perse dirà di Ungaretti: un «poeta, di cui l’atto poetico fu innanzitutto testimonianza d’essere umano». Così egli è grido d’uomo che sillaba pure la sua prosa, narrando il suo patimento d’uomo e d’uomini. In un certo senso si potrebbe dire che il povero, il viandante ci mostrano la strada dell’umano nella città, come al poeta il suo lavoro: «… i miei studi non potrebbero avere altra mira se non il mio lavoro di poeta: non potrebbero averne altra, e in quella stessa guisa che a tale lavoro fatalmente convergono, ispirandolo, le varie esperienze della mia vita» (Romanò, 158).

Nel saggio, Ungaretti ricorda una particolare figura di povero, il faqir, mendicante asceta originario della civiltà dei deserti, itinerante tra città «che porta con sé non solo la storia di una povertà e di un’esclusione, ma soprattutto il privilegio di una grandezza non più sottoposta alla misura, all’ingombro delle cose» (Carlo Ossola).

Scrive Ungaretti: «Ciò che si sa meno è che esiste tra gli Arabi un tipo – un modo d’essere umano – al quale danno il nome di faqir. E costui, chi sarà mai? Non è colui che fachiro s’usa abitualmente chiamare. Non è il mangiatore di fuoco, l’ingoiatore di spade… Il mio fachiro è, come dice in arabo faqir, semplicemente un povero.

Il matto e il povero nella mente dell’Arabo sono un po’ la medesima idea: l’uomo che non fa conti e non ha vincoli, che è armato d’una forza occulta; l’uomo che governano una debolezza e una forza smisurate; l’uomo che è debole come è uno all’inizio e al termine dell’avventura terrena: quando si nasce e si è per forza nudi, e, dopo, quando si è sprecata, in pochi o molti anni, la ricchezza immensa che è la vita. Il faqir è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che solo vive chi vede l’Angelo… veggenza dell’invisibile».

Al suo popolo e alla città «il faqir ricorda l’origine, la sorte, le vicende della sua storia; ma soprattutto il faqir è il segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà» (ivi, 14-15; 18).

Dio nella città

Quand’era ancora cardinale, papa Francesco pronunciò il discorso Dios en la ciudad durante il I Congresso di pastorale urbana a Buenos Aires nel 2011. Il testo di questo discorso, insieme ai paragrafi sulla città del Documento conclusivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi nel 2007 tenuto ad Aparecida, sono raccolti in un libro: Dio nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2013.

In quell’occasione Francesco ricordava la felice espressione di Aparecida: “Dio vive nella città”. «La fede c’insegna che Dio vive nella città, all’interno delle sue gioie, dei suoi aneliti e delle sue speranze, come dei suoi dolori e delle sue sofferenze.

Le ombre che segnano il quotidiano delle città, come per esempio la violenza, la povertà, l’individualismo e l’esclusione, non possono impedirci di cercare e di contemplare il Dio della vita anche negli ambienti urbani.

Le città sono luoghi di libertà e di opportunità. In esse le persone hanno la possibilità di conoscere altre persone, di interagire e di convivere con esse. Nelle città è possibile fare l’esperienza di nuovi vincoli di fraternità, di solidarietà e di universalità. In esse, l’essere umano è chiamato sempre più costantemente ad andare incontro all’altro, a convivere con il diverso, ad accettarlo e a esserne accettato» (DA, 514).

Una città a misura dello sguardo della fede

«Si può dire che lo sguardo della fede ci porta a uscire ogni giorno e sempre più incontro al prossimo che abita nella città. Ci porta a uscire incontro all’altro, perché si alimenta con la prossimità. Non tollera la distanza, poiché percepisce che essa rende confuso ciò che vuol vedere; e la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare.

Uscendo per le strade, la fede limita l’avidità dello sguardo di dominio e aiuta il prossimo – quel prossimo concreto, che guarda con il desiderio di servirlo – a mettere meglio a fuoco il suo stesso “oggetto proprio e amato”, Gesù Cristo venuto nella carne. Chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso.

Il perfezionamento nella fede in questo Dio che vive nella città rinnova la speranza di nuovi incontri. La speranza ci libera da quella forza centripeta che porta l’attuale cittadino a vivere isolato nella grande città, in attesa di riscatto e connesso solo virtualmente.

Il credente che guarda con la luce della speranza combatte la tentazione di non guardare, restando trincerato dietro i bastioni della propria nostalgia o lasciandosi muovere dalla sete del gossip. Il suo non è lo sguardo avido del “vediamo che è successo oggi” dei notiziari.

Lo sguardo della speranza è simile a quello del Padre misericordioso, che esce tutti le mattine e tutte le sere sulla terrazza di casa per attendere il rientro del suo figlio prodigo, e appena lo scorge da lontano gli corre incontro e lo abbraccia.

In tal senso, lo sguardo della fede, come si alimenta di prossimità e non tollera la distanza, così anche non si sazia del momentaneo e del circostanziale, e perciò, per ben vedere, si coinvolge nei processi che sono propri di tutto ciò che vive. Lo sguardo di fede, nel coinvolgersi, agisce come fermento. E visto che i processi vitali richiedono tempo, li accompagna…

La misericordia crea la vicinanza più grande, che è quella dei volti, e visto che intende aiutare davvero, cerca la verità che fa più male – quella del peccato – ma per trovare il vero rimedio. Questo sguardo è personale e comunitario» (ivi, 35-37; 42-43).

Quali i segni della presenza di Dio nella città?

Per me sono l’esperienza, il vissuto, personale e comunitario del Padre nostro, delle Beatitudini e della scelta preferenziale dei poveri. Ben più articolata è la risposta nel Documento di Aparecida (383) che ricorda i segni della presenza del Regno di Dio nella città:

«I segni evidenti della presenza del Regno sono, tra gli altri: l’esperienza personale e comunitaria delle beatitudini, l’evangelizzazione dei poveri, la conoscenza e l’adempimento della volontà del Padre, il martirio per la fede, l’accesso a tutti i beni della creazione, il perdono reciproco, sincero e fraterno, l’accettazione e il rispetto della ricchezza presente nella pluralità, la lotta per non soccombere alla tentazione e per non essere schiavi del male».

Ed Egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete
(Lc 6,20-21).

La sua dimora è tra i poveri

Questo è il tuo sgabello:
riposaci i piedi, qui
dove vivono i più poveri,
gli umili, i perduti.
Quando cerco di inchinarmi a te,
i miei ginocchi non toccano
il profondo in cui i tuoi piedi
riposano tra i più poveri
umili e perduti al mondo.
Nessun orgoglio può mai arrivare
dove cammini tu, che hai indosso
le vesti dei più poveri,
umili e perduti.
Il mio cuore non sa imboccare
la giusta via per scendere laggiù
in fondo, per fare compagnia a quelli
che non hanno compagni, tra i più poveri
umili e perduti al mondo.
(Tagore, Gitanjali. Canti di offerta, San Paolo, Cinisello Balsamo MI, 1993, 36)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi?

Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? Gli ostacoli interiori ed esteriori della dissociazione maschile dalla violenza.

«Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono?».
Cosa potremmo fare? In verità, quando la virilità distruttiva è la guerra, ci dissociamo, tanto da aver dato vita a un movimento capace di grandi mobilitazioni, un movimento divenuto soggetto politico: il pacifismo.
Invece, quando la virilità distruttiva è la violenza maschile sulle donne, siamo capaci di fare poco e nulla, ad eccezione di alcune valorose piccole minoranze di volenterosi.
Gli stessi uomini che si reputano «rispettosi» evitano di assumersi una responsabilità, rimangono indifferenti o, peggio, difendono il proprio sesso di appartenenza («Non tutti gli uomini…»; «Anche le donne…»), se si sentono chiamati in causa.
Solo molto di recente, alcuni opinionisti della grande stampa hanno iniziato a inquadrare la violenza sulle donne come questione maschile, ottenendo perlopiù il consenso femminile. In particolare, è successo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a novembre dal suo ex, Filippo Turetta, il quale rifiutava la separazione. Perché la maggioranza degli uomini sembra rimanere indifferente?
Viene in mente come prima risposta che femminicidi, stupri, maltrattamenti, siano ancora percepiti dalla maggioranza degli uomini solo come questione penale, per cui vale la responsabilità individuale. Casi di cronaca nera mista a cronaca rosa. Riguardanti unicamente lui, un matto squilibrato, lei, una che ha sbagliato a sceglierlo o a non mollarlo per tempo.

I mostri, figli sani del patriarcato

Perciò, è una cosa buona l’irrompere del concetto di patriarcato nel dibattito pubblico sui femminicidi. Perché oppone alla lettura psicologica, individualistica, di cronaca, una lettura politica, che vede nella violenza l’espressione di un sistema di potere, sociale e culturale, a dominanza maschile.
Che questo sistema di potere sia in grave crisi non è in contraddizione con l’essere così tanto evocato. La crisi di un ordine sociale e simbolico fa sì che non sia più percepito come ordine naturale, permette che sia svelato e riconosciuto nella sua parzialità, quindi che sia nominato e denunciato, nei suoi retaggi e nelle sue rigenerazioni. Bujar Fandaj, l’assassino femminicida di Vanessa Ballan, prima del delitto ha scritto su TikTok: «Mia madre mi ha cresciuto come la persona più gentile e dolce che tu abbia mai incontrato, ma se mi manchi di rispetto scoprirai perché porto il cognome di mio padre». Non somiglia a una consapevole rivendicazione patriarcale?
Il concetto di patriarcato lo ha rilanciato Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera del 19 novembre, riprendendo un antico slogan femminista, proprio per affermare l’esistenza di una responsabilità collettiva: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro».
La lettera ha suscitato insistite resistenze. Per settimane, i talk-show di Mediaset si sono chiesti se il patriarcato c’entra con i femminicidi. Per rispondersi sempre di no, senza però mai riuscire a liberarsi da quella domanda.
Secondo la visione delle femministe americane degli anni ’70, la violenza maschile è una funzione della società maschilista.
Fa gioco a tutti gli uomini, violenti e non violenti, perché intimidisce e stressa tutte le donne a vantaggio di tutti gli uomini. Sia nelle relazioni private, sia nelle relazioni pubbliche.
Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. Nelle relazioni pubbliche, spesso relazioni competitive, lei, quando vittima di violenza, deve gestire lo stress del maltrattamento, sottraendo tempo ed energia alla gestione dello stress del lavoro e della carriera, con relativo beneficio dei competitori maschili.
Allora, può essere che la maggioranza maschile intuisca che, in fondo, la violenza sulle donne, più che una deviazione, sia una misura d’ordine favorevole agli uomini. Che, peraltro, se uomini buoni, permette loro di proporsi come protettori, tutori, controllori. O di ottenere un premio di fiducia per il solo fatto di non nuocere.

Siamo davvero sempre pacifici e rispettosi?

D’altra parte, noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi?
C’è chi ha proposto un #metoo alla rovescia. Se tante donne, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza, altrettanti uomini, almeno una volta nella vita, hanno inflitto violenza.
Per parte mia, credo di aver reagito in modo abbastanza corretto ai rifiuti, perché in genere corrispondenti alle mie aspettative. Non posso sempre dire altrettanto della gestione delle relazioni e, in particolare, degli abbandoni, perché questi contrastavano con le mie aspettative. Specie, in un paio di situazioni, tipo quelle descritte da Dora Casadio, nelle quali durante l’amicizia tra un uomo e una donna, è l’uomo a innamorarsi della donna, perché lui scambia per reciprocità la disposizione di lei allo scambio intimo; per lui è un fatto eccezionale, mentre per lei è naturale. Perciò, ad alcune mie amiche, compagne, ho inflitto scene di gelosia quando mi sembrava fossero troppo amiche di altri uomini, o conversazioni coercitive, con toni insultanti, sarcastici, sminuenti, quando mi pareva che le loro opinioni divergessero dalle mie e, peggio, convergessero con quelle dei miei avversari. Così come ho vincolato più del tollerabile donne che non volevano avere più a che fare con me. Nulla di estremo, ma comportamenti conformi con lo schema di pensiero del potenziale femminicida.
Mi era oscura la mia interiorità? Non sapevo gestire le mie emozioni? Ero incapace di elaborare i miei sentimenti? Può darsi. Così mi presentavo quando era il momento di scusarmi. Una persona confusa che genera confusione nell’altra persona. Il dottor Jekyll che non sa spiegarsi il mister Hyde. Una forma di inganno e autoinganno. Perché, quando (forse) non sai gestire le tue emozioni negative, gelosia, rabbia, delusione, senso di abbandono, una cosa la scopri subito e impari a gestirla presto. L’espressione delle emozioni negative ha un potere manipolatorio. Lei, finché non arriva al punto di rottura, si mette sulla difensiva, si scervella per capirti, e accetta limitazioni. Questo, in una relazione nella quale ti senti inadeguato rispetto al dovuto, ti dà una sensazione dopante di potere a cui preferisci non rinunciare, fino a sondare il limite cui puoi arrivare.
Per un uomo, dissociarsi dalla violenza maschile può avere un effetto proiettivo, che gli permette di chiamarsi fuori nel breve termine. Ma, se la dissociazione è seria, riflessiva, duratura, l’effetto ti trasforma anche se non persegui l’obiettivo della trasformazione. Perché è difficile sfuggire di continuo al riconoscere parti di sé negli uomini che dici di voler isolare.
Questo effetto specchio, con relativo senso di colpa, può essere l’ostacolo interiore alla dissociazione dalla violenza. Come il vantaggio sociale che deriva agli uomini dalla violenza è l’ostacolo esteriore.
(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 30 dicembre 2023)

Storie in pellicola /
“Who Wants To Live Forever”, un corto dedicato al pianeta

Studenti di tutto il mondo, coordinati da Matteo Valenti dello IED di Milano, hanno realizzato un bellissimo cortometraggio sul futuro della nostra Terra. 

Grandezza e progresso morale di una nazione si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali. Mahatma Gandhi

A colpire immediatamente sono le note di una delle più celebri canzoni dei Queen, “Who Wants To Live Forever”, famosa colonna sonora di “Highlander”, e subito dopo le immagini.

Stesso nome del toccante ed empatico cortometraggio dedicato alle difficoltà della nostra Madre Terra, un grande interrogativo sul suo futuro e su quello dei suoi abitanti.

L’opera corale è stata realizzata da un gruppo di studenti provenienti da scuole di animazione di tutti i continenti, coordinati da Matteo Valenti, docente dell’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano, e donato al Brian May’s Save Me Trust”.

Sei le Università e Accademia coinvolte. Per l’Europa, lo IED Milano, per il Nord America la University of the Arts di Philadephia, per l’Asia, la Tokyo Zokei University, per il Sud America, il Núcleo de Animação PUC, di Rio de Janeiro, per l’Oceania, la Griffith Film School di Brisbane, per l’Africa, il Creatures Animation Hub di Kampala. Ciascuna rappresenta un “capitolo” del racconto, ossia uno per ogni Continente ed ecosistema.

Il punto di vista è quello degli animali, sono loro a vedere cosa succede, loro a subire gli influssi nefasti dell’uomo che hanno spinto madre natura sull’orlo del baratro, con tante specie a rischio estinzione, loro a metterci in guardia. Contro l’inerzia dei giusti.

Si riconoscono i cacciatori di frodo, il collasso degli ecosistemi, gli incendi delle foreste, le fuoriuscite di petrolio, il possibile triste epilogo.

Una cruda poesia, impattante, avvolgente, sconvolgente, che ci fa capire come non si possa più attendere e stare semplicemente a guardare.

Il corto è stato anche proiettato alla COP26 di Glasgow, nel 2021. Il corto sarà proiettato allo European Projects Festival di Ferrara il 4 aprile alle 1830, nell’ambito della rassegna di cortometraggi europei, provenienti dalle ultime tre edizioni del festival internazionale Ferrara Film Corto “Ambiente è Musica”.

Qui, intanto, lo possiamo vedere integralmente.

Animal Equality: foie gras? No grazie! Stop all’alimentazione forzata

Animal Equality: foie gras? No grazie! Stop all’alimentazione forzata.

È grasso perché, risultato dell’alimentazione forzata, è grande dieci volte più di un fegato sano. Dunque è un fegato malato, ottenuto nel modo che Sean Thomas, Direttore Internazionale delle Investigazioni di Animal Equality, racconta così: «Ho visto centinaia di anatre stipate in piccoli recinti. Erano appena state nutrite a forza ed erano ricoperte del loro stesso vomito. Molte presentavano ferite causate dai grandi tubi di metallo spinti nelle loro gole per alimentarle forzatamente. Alcune avevano persino il becco rotto e infezioni che bloccavano la loro gola».

Due dettagli: i tubi utilizzati sono lunghi 20/30 cm, e l’ingozzamento o gavage viene praticato più volte al giorno.

Sono oltre dieci anni che Animal Equality, fondazione internazionale nata nel 2006 e che in Italia opera come associazione noprofit onlus (fondatore dell’AE Italia Matteo Cupi) svolge indagini all’interno degli allevamenti e cerca di ottenere il divieto di questa pratica, sensibilizzando l’opinione pubblica, lanciando petizioni, facendo pressioni sui diversi governi e sul Parlamento Europeo. Il 16 febbraio del 2022, una brutta sorpresa: proprio il Parlamento Europeo approva una relazione dell’eurodeputato francese Jérémy Decerle secondo la quale sia la triturazione dei pulcini maschi e degli anatroccoli sia il gavage di anatre e oche non ledono il benessere animale. Questo accade dopo che in ben 22 Paesi europei, tra cui l’Italia, il gavage è proibito da anni (da noi, dal 2007) e oggetto di sanzioni, e chi insistesse potrebbe andare incontro anche a una sospensione dell’attività.

Allevamento intensivo di oche

Ma vietare l’alimentazione forzata non basta. C’è una grande ipocrisia in merito. In Italia, e non solo in Italia, il foie gras si può infatti tranquillamente importare e commerciare, per la gioia dei palati “raffinati”. La battaglia, quindi, non si ferma. Oltre a cercare di estendere il divieto di produzione a tutti i Paesi europei nonché al resto del mondo, prima ancora di ottenere finalmente anche il divieto di commercializzazione è importante sollecitare le catene di supermercati affinché, di propria iniziativa, smettano di vendere “il cibo più crudele”. La prima catena ad aderire alla proposta è stata la Coop, nel 2012, e adesso altre catene si stanno accodando.

Non sarà facile fermare la produzione negli Stati Uniti, in Canada, in Spagna (solo in Spagna, si contano oltre un milione di anatre e oche chiuse nei capannoni per l’ingozzamento). In Inghilterra, il governo ancora non ha dato una risposta chiara, e allora si sono mobilitati l’attore e attivista Peter Egan e lo chef stellato Alexis Gauthier: sono andati a bussare al n. 10 di Downing Street per consegnare direttamente nelle mani del Primo Ministro le firme raccolte con la petizione lanciata da Animal Equality.
Ad oggi le firme sono circa 68.000, il traguardo da raggiungere è 100.000. Di fronte a un tale numero, si potrà far finta di niente?

Questo il link per firmare:
https://animalequality.it/foie-gras-stop-alimentazione-forzata/#:~:text=Stiamo%20chiedendo%20al%20Governo%20italiano,su%20tutto%20il%20suolo%20europeo.

Quella cosa chiamata città /
BENVENUTI AD AMMAN

BENVENUTI AD AMMAN

La prima parola che ti accoglie ad Amman e in Giordania, e ti accompagna per tutto il soggiorno, è Welcome. Ovunque vai, chiunque incontri il rapporto che stabilisci inizia con questa parola di benvenuto. Le grandi città mediorientali sono sempre difficili da interpretare. Sono ricche di storia, ma di questa rimangono spesso solo dei frammenti. Amman è una città millenaria, ma le stratificazioni delle tante storie che l’hanno formata le leggi con difficoltà.

Volo di notte

Non è Gerusalemme e nemmeno Damasco, il suo suk non è comparabile con quello perduto di Aleppo; questo però non significa che sia meno interessante. Per capirne il divenire devi entrare negli interstizi dove trovi i ritagli della sua storia. Da questo punto di vista, la città è più una stratificazione di sensazioni e impressioni che di forme urbane e edifici. Proviamo a metterne in ordine qualcuna. Partiamo dal viaggio. Si è svolto nel buio che dalle diciassette ricopre tutto il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente nel periodo invernale.

Il cielo è buio ma lancia tanti messaggi. Il nero dominante assume tante forme che si notano quando le luci fuoriescono dall’oscurità. Queste assumono tre conformazioni distinte (perlomeno in questo viaggio) che però a volte si intrecciano.
Innanzitutto, il punto luminoso che si fa largo nel buio indicando la presenza di un insediamento isolato. Quando si associa ad altri punti luminosi, prossimi ma non vicini, assume la forma di una costellazione vista all’incontrario, dall’alto in basso.
Poi abbiamo il filamento, ovvero l’allineamento di tanti punti lungo una linea (una strada) che diviene una direttrice luminosa che serpenta nel buio. Può capitare che questa direttrice si incroci con altre dando vita a trame irregolari che ci fanno immaginare un reticolo urbano. In questo caso il filamento diviene la componente di una nebulosa che muta a seconda della geografia dei siti che la supportano e che io posso solo immaginare.
Nella nebulosa la varietà delle luci è molteplice, se le direttrici che la compongono spiccano per l’intensità della luce emessa, sui bordi tende ad abbuiarsi perché si entra nel territorio dell’ignoto, perlomeno per chi guarda da diecimila metri di altezza.

Quando si sorvola una città la nebulosa diventa grande, le superfici luminose si possono alternare a zone buie. Si può presupporre che se la luce diventa intensa e assume una conformazione lineare sinuosa o ad arco, al buio corrisponda il mare, mentre se diverse nebulose si alternano l’un l’altra, i pezzi di nero ricompresi la cittsono probabilmente dei crinali collinari o montani, ma può capitare che le luci determinino delle geometrie visibili come nel caso delle città pianificate attraverso una griglia. Mentre la mia mente associa quello che sto vedendo a queste riflessioni sulle forme della luce nel buio, l’aereo tocca terra, siamo ad Amman, siamo entrati nel cuore della nebulosa.

La strada, metafora della quotidianità

Per descrivere la quotidianità di una metropoli come Parigi, un etnologo è entrato nel metrò; per descrivere la quotidianità di chi si muove nella area metropolitana di Amman è necessario ricorrere ai trasporti collettivi, anche per recarsi nelle città vicine, respingendo le sirene del taxi per turisti sempre squillanti. È necessario inoltrarsi lungo le strade che attraversano la città. La strada è una metafora della quotidianità. In essa la socialità da forma al movimento, questo intreccio costituisce la rappresentazione della vita di ogni giorno. La città è essenzialmente un insieme organizzato di strade. Ogni principio di organizzazione ha le sue regole che, se non comprendiamo, non necessariamente significa che si tratti di disordine, ma forse di un altro ordine rispetto a quello a noi consueto.

 

E la folla in movimento costituisce uno degli spettacoli più emozionanti delle città, descritto e rappresentato nel corso del tempo dai narratori delle metropoli. Ogni giorno migliaia di persone si muovono da un punto all’altro e basta osservarne alcuni, nodali, per rendersi conto della intensità, della fatica e anche drammaticità, dei movimenti dei corpi nello spazio.

ll “bus di linea” di mutuo soccorso

La mobilità urbana collettiva ad Amman e in tutto il Medio Oriente, nel nord Africa, nei paesi subsahariani e in tante altre parti del mondo, dove le città reali non sono e probabilmente non saranno mai smart [Vedi qui], si articola in diverse maniere con modalità che spesso si integrano.
Ruotano attorno al taxi e al taxi collettivo. In alcuni punti strategici, posti lungo le direttrici di accesso alla città, sono posizionate le grandi stazioni degli autobus che collegano la capitale alle più importanti località del paese, mentre i taxi collettivi di solito uniscono le città e i paesi che gravitano nell’area metropolitana.

In questi furgoni, la presenza di turisti occidentali è sporadica, totalmente assenti sembrano essere gli orientali. A Jerash siamo andati con il taxi collettivo. Il rito è sempre lo stesso, quando il furgone è carico si parte e almeno 20-30 minuti di attesa vanno messi nel conto, ma sono minuti preziosi per capire le regole di formazione del “carico”, in realtà più che capire, intuire, essendo tutti i dialoghi in arabo. A Madaba siamo andati invece con il “bus di linea”. Una linea che ha come unica certezza il punto di partenza e il tragitto. I tempi di percorrenza sono del tutto aleatori, perché il “bus di linea” svolge un vero servizio sociale, ovvero si ferma per ogni esigenza, per far salire persone che conoscendo il tragitto si fanno trovare in un punto e in vista del bus in arrivo iniziano ad agitarsi sul ciglio della strada. Strade, va detto, dove ci si può fermare ovunque, come ad esempio nel mezzo di una rotonda perché un taxi giallo (quelli economici) arriva strombazzando all’impazzata perché porta una signora che deve salire.

Ad un certo punto, qualcuno inizia ad urlare dal fondo del bus e l’autista sempre tranquillo, mai alterato, si ferma e lo fa scendere e gli restituisce anche qualche moneta. Evidentemente il signore ha deciso di scendere prima della località dichiarata quando era salito.
Per pagare il biglietto non c’è un momento preciso, quando sali, quando scendi, quando l’autista decide di fermare il bus e passare a riscuotere il denaro, e poi caso mai scendere perché ha finito le sigarette e il tè e va rifornirsi in une delle innumerevoli baracche lungo la strada che offrono questo servizio, direttamente ai viaggiatori. Basta fermarsi, abbassare il finestrino, ordinare la commande, pagare e via che si riparte.

Insomma, negli spostamenti di questi “bus di linea” infraurbani vige una sorta di spirito di “mutuo soccorso”, si cerca di accontentare tutti. Del resto, chi usa questi mezzi è consapevole che non potrà gestire il proprio tempo come vorrebbe, perché vige una sorta di adattamento alle dinamiche dei tempi delle varie persone che usufruiscono del servizio. Quindi si sa quando si parte, non sempre quando si arriva, dipende dalle condizioni locali.
Se la variabile tempo è un vincolo ci sono i taxi e i trasporti privati, che ovviamente la gran parte della popolazione non può permettersi. Questi tragitti sia verso Madaba che Jerash attraversano tre situazioni, l’agglomerazione metropolitana, un tratto di campagna puntellata da edifici e catapecchie un po’ ovunque, con paesaggio brullo ma ricco di ulivi e infine le periferie delle città, che non sono molto diverse dalle aree centrali.
Mentre si esce dalla stazione di Amman, può capitare di trovare, in terreno libero posto in un crocevia di autostrade urbane, una tenda beduina e due dromedari che ti guardano con distacco, mentre mangiano la loro erba.

IL taxi è imprescindibile

Per la mobilità in città il ruolo del taxi è imprescindibile, non si può pensare di muoversi da una parte all’altra della città senza ricorrere alla “macchina” gialla. Queste girano ininterrottamente, ti accompagnano passo dopo passo, specie se sei inquadrato come turista e occidentale, accompagnando il tuo percorso, per un certo tratto, con piccoli richiami di clacson. Sembra quasi che l’autista pensi e speri che prima o poi ti stancherai di camminare.
Analoga situazione la ricordo in numerosi paesi africani. Solitamente l’occidentale che va in questi paesi per lavoro o per turismo concorda con l’albergo o con conoscenti il trasporto in città. Per prendere un taxi spesso si viene sottoposti a quello che gli amici senegalesi chiamano le parcours du combattant. Ogni qualvolta un occidentale si appresta a percorrere, non accompagnato da un locale, un tratto di strada in città, in aeroporto o in un mercato, una folla di persone lo accerchia proponendogli di acquistare qualcosa, chiedendogli informazioni riguardanti il paese da cui viene salvo poi scoprire che il suo interlocutore ha un amico o un parente addirittura nella tua città di residenza.

L’area centrale di Amman (foto di Romeo Farinella)

Ricordo a Dakar (dove non è consueto camminare per strada, specie se sei bianco) che camminavo e nel mentre parlavo con il taxista che mi seguiva passo dopo passo e attraverso il finestrino aperto mi chiedeva da dove venivo, mi augurava il benvenuto, cercando di convincermi a salire sulla sua auto. Va detto che questi viaggi in taxi non sono mai silenziosi ma sono scanditi da dialoghi intensi e in Senegal, se parli francese, e ad Amman, se hai la fortuna di trovare un taxista che parla inglese (non frequente) scendi carico di informazioni e riflessioni sulla città, sulla loro quotidianità e anche a te vengono richieste informazioni sul tuo paese, sulla tua vita, e sei contento perché scopri che gli italiani sono tra tutti gli occidentali i più amati: sincera dichiarazione di amore o strategia di marketing? Forse entrambe le cose, anche se i senegalesi mi dicevano che amano l’Italia perché è l’Afrique d’Europe, dove vige l’art de la débrouille (l’arte dell’arrangiarsi) mentre i Giordani amano l’Italia (perlomeno alcuni dei taxisti che abbiamo incontrato) perché ritengono arabi e italiani “una faccia, una razza”.

Ad Amman i prezzi dei taxi gialli sono talmente bassi che costituiscono anche per i locali l’unica possibilità di muoversi in città e l’importanza di questo mezzo per la mobilità urbana, ma anche per l’economia familiare la verifichi innanzitutto nella quantità di auto in circolazione. La vivi anche nell’animosità con cui i taxisti discutono e litigano tra di loro per caricarti. Ci è capitato alla stazione dei bus di Amman, tornando dal Wadi Rum, ma ricordo una situazione analoga all’aeroporto di Tunisi dove ad un certo punto mi è capitato di avere una valigia, in un taxi e la seconda in un altro, finché l’arrivo provvidenziale del Raʾīs (dei taxisti) non ha sistemato le cose, le valige si sono ricongiunte e io sono partito verso la città.

Vi sono anche i taxi bianchi ma di norma li prendono i turisti non adusi a trattare il prezzo. Si potrebbe dire con una battuta che i taxi bianchi li prendono i turisti mentre quelli gialli i viaggiatori, in ogni caso un Hotel non ti chiamerà mai un taxi giallo, o bianco ma privato (di norma parente o amico del concierge che effettua la riservazione) e ovviamente i prezzi si possono trattare.

Dentro il sukdi Amman (foto di Romeo Farinella)

Il viaggio in taxi, in Giordania, in Senegal, ma anche in Brasile, non è mai un semplice spostamento da un punto all’altro, è quasi sempre una condivisione di un frammento di vita comune, alimentato da uno scambio di esperienze, importante per conoscersi reciprocamente. Se poi ti capita di muoverti con un taxi per un tratto abbastanza lungo, come è capitato a noi tra Petra e Wadi Rum, scendi con i recapiti di un amico su cui puoi sempre contare se torni da quelle parti.

La vita attorno e lungo le strade è uno dei caratteri dominati di Amman e di tante città che alternano lungo i tracciati attività e professioni, informalità e urbanizzazioni. Entrando in città lungo la strada trovi di tutto, dal piccolo artigiano che ti può risolvere un problema, al rivenditore specializzato, dall’emporio-bazar, alla stamberga dove ti puoi fermare a bere un tè alla menta, o al ristorante dove puoi organizzare un banchetto per un evento. Anche lungo l’unica “autostrada”, che congiunge Amman con Aqaba, la separazione non è mai fisica, puoi attraversare la strada a piedi, ti puoi fermare sul ciglio per acquistare una bibita da un ragazzino seduto su di un contenitore portatile refrigerato.

Lungo diverse strade di accesso alla capitale ho visto ragazzi (alcuni forse bambini) che indossavano un giubbotto giallo catarifrangente con in mano un vassoio rotondo in ottone che roteavano continuamente e il moto ondulatorio indirizzava verso il ristorante a lato della strada. Un invito ad entrare e pranzare.
Questa era la specializzazione del ragazzo che forse un giorno, crescendo, diventerà un cameriere, o studierà diventando qualcuno di importante, e lascerà quel posto ad un altro ragazzo. Da secoli quella strada è un ingresso ad Amman e forse da secoli un ragazzo rotea il braccio per invitare al pranzo i viandanti, come quello Yemenita spaventapasseri che arrampicato su di un palo, da secoli rotea la frusta per scacciare gli uccellini al centro di un campo coltivato, a cui Pier Paolo Pasolini nel 1971, ha dedicato il suo documentario “Le Mura di Sana’a”.

In copertina: In Entrata ad Amman (foto di Romeo Farinella) 

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

Quanto sangue, quante lacrime devono ancora essere versate?

Quanto sangue, quante lacrime devono ancora essere versate, quanti figli di Palestina devono ancora bruciare nel fosforo bianco, quanto dolore e disperazione devono subire gli innocenti di Gaza per colmare la sete di vendetta del governo e dell’esercito israeliano?

Non bastano 75 anni di oppressione, soprusi, ingiustizie, decine di migliaia di civili trucidati, incarcerati, case e dimore rasate al suolo? Non basta il dolore di 4 generazioni di persone disperse in campi profughi fatiscenti in balia di governi corrotti in giro nel Medioriente?
Non basta colpire sistematicamente la dignità e il credo palestinese, profanando i loro luoghi sacri nel tentativo di cancellare ogni evidenza che li lega ineludibilmente alla loro terra?
Non basta la meticolosa punizione perpetuata nell’assedio di un intero popolo negando loro libertà e speranza del futuro?

È deplorevole ogni azione violenta contro civili inermi, non importa quale sia il colore, la nazione e l’appartenenza della vittima. L’aggressione compiuta da Hamas viola palesemente la convenzione relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra e non può essere giustificata.

Tuttavia ciò non può giustificare la punizione collettiva applicata da Israele contro la popolazione di Gaza.
Chiudere oltre 2 milioni di persone nella morsa della fame e della sete mentre piovono tonnellate di esplosivi di qualsiasi genere dal cielo è un crimine contro l’umanità. Ciò che oggi lo Stato israeliano compie per giustificare la sua incapacità di giungere pacificamente ad una soluzione onorevole e accettabile per le due parti.

La complicità dei potenti paesi occidentali in nome dei loro interessi ha concesso ad Israele l’immunità davanti a qualsiasi legge e regola internazionale. La politica di 2 pesi e 2 misure applicata largamente dai paesi occidentali mina la legittimità della legalità internazionale che oggi viene vista dalle vittime del mondo come uno strumento di pressione in mano dei potenti.

Infatti sembra che sia del tutto superfluo appellarsi ai governi e alle istituzioni internazionali per fermare il massacro degli innocenti. La fredda politica di interessi è priva di moralità e giustifica qualsiasi barbarie in nome del suo beneficio.

Nessuno oggi può fermare la feroce azione militare israeliana se non il popolo israeliano a cui noi ci appelliamo e chiediamo di fermare l’attacco del loro esercito che alimenterà solo il male e l’odio che infesterà permanentemente intere generazioni future.

Siamo consci del dolore che provano per la ferita inferta ma la vendetta e il dolore degli innocenti palestinesi non può alleviare la loro sofferenza.
“Il potere basato sull’amore è mille volte più efficace e permanente di quello derivato dalla paura della punizione”. Mahatma Gandhi

Assopace
Associazione per laPace

Le voci da dentro /
Ho dodici anni e vorrei solo il mio papà

Le voci da dentro. Ho dodici anni e vorrei solo il mio papà
di M.

Ciao, mi chiamo Sofia, ho dodici anni e frequento la seconda media.
Vado abbastanza bene a scuola, anche se a volte faccio un po’ fatica a concentrarmi.
La mamma dice che sentire la mancanza del papà è normale, ma per me non lo è.
Gioco a pallavolo e mi alleno tre volte alla settimana.
Mi piace molto e, in alcune partite, l’allenatrice mi fa fare il capitano.
Non sono la più brava della squadra, però spesso faccio punto e la mia allenatrice mi batte il cinque e mi fa i complimenti.
Quasi tutte le domeniche giochiamo le partite di campionato.
La mamma viene a vedermi sempre, ma il papà non può.
A volte gioco proprio male. Vedo i papà delle mie compagne di squadra che fanno il tifo. Nel mio cuore sento un po’ di invidia. Lo so che non dovrei.
Mi fa deconcentrare e non faccio nemmeno un punto.
Ci sono dei giorni che mi chiedo se l’allenatrice mi faccia i complimenti perché sono davvero brava o perché il mio papà non è come gli altri.
Io non voglio la sua compassione. Anzi, non voglio la compassione di nessuno.
Ho molte amiche. Alcune sono simpatiche e con loro vado d’accordo.
Altre sono più antipatiche. Sono quelle che smettono di parlare quando arrivo io. Non sento quello che dicono, ma non ci vuole un genio per immaginarlo. Parleranno del mio papà “strano”.
All’inizio mi arrabbiavo e, senza farmi vedere da nessuno, piangevo.
Adesso ho imparato a far finta di niente, ma dentro di me piango ancora.
Vedo il mio papà tutti i sabati per una o due ore al massimo. Ho fatto i conti. Lo vedo sei ore al mese. Le prime volte mi sembrava pochissimo e, alla fine di ogni colloquio, lo abbracciavo forte forte e volevo che venisse con me.
Col tempo ci ho fatto l’abitudine e non lo stringo più, forte come prima.
Dico la verità, vorrei ancora che tornasse a casa con me.
Papà dice che ci vuole pazienza, la mamma dice che è questione di tempo, tutti dicono di essere forte.
lo ho solo dodici anni e vorrei solo il mio papà.
Purtroppo, adesso il mio papà è in un posto tutto chiuso, pieno di sbarre.
Ci sono anche altri papà come lui, lì dentro. Non mi piace sentire quella parola, per cui non la dico neanch’io.
Mi chiamo Sofia, ho dodici anni e da un po’ di tempo sono stata messa in punizione, non so da chi esattamente e non conosco nemmeno il motivo.
So solo che la punizione non mi fa stare con il mio papà.
Qualcuno ha deciso che dovevo crescere come se fossi quasi orfana, ma lo giuro, io non ho fatto niente per meritarlo.

Il testo di questo ragazzo tratta il tema dell’affettività in carcere con una creatività non comune, riuscendo nella difficile opera di emozionare chi legge. M. ha rovesciato il solito punto di vista, raccontando, dal punto di vista dei figli, il vissuto difficile dei rapporti in una famiglia quando qualcuno sta vivendo l’esperienza del carcere.
(Mauro Presini)

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“Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere”
Alla Idearte gallery di Ferrara 2-20 marzo 2024

“Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere” è il titolo della mostra d’arte che ho curato con le opere pittoriche del giornalista, scrittore e poeta, a poco più di un anno dalla scomparsa. Nato nel 1936 a Ferrara, dove è morto il 7 gennaio 2023, Testa è stato infatti anche pittore. La mostra si terrà alla Idearte Gallery (via Terranuova 41, Ferrara) da sabato 2 a mercoledì 20 marzo 2024. Inaugurazione sabato 2 marzo alle 18.

GPT alla scrivania (foto GioM)
Realizzare questa iniziativa è stato un viaggio appassionante e – come tutti i viaggi che valgono la pena di essere intrapresi – il cammino non è stato esente da ostacoli, salite aspre, curve insidiose e inaspettati traguardi in radure inondate di luce.
Locandina della mostra
Un percorso lungo mesi e mesi, compiuto cercando e mettendo insieme le opere realizzate da Testa in un periodo di  oltre sessant’anni, a partire dai suoi 15 anni fino agli 80 inoltrati. Poi è stato necessario raccogliere documenti e ricordi, aneddoti e momenti cruciali, collegare opere forti, volti cupi, nature morte e bellezze al vento con quadri di artisti da lui visti e amati, conosciuti o intercettati attraverso mostre e luoghi-chiave della sua vita.
“Ultima cena” (foto Luca Pasqualini)
Questo lavoro mi ha condotto in stanze e spazi ricchi di opere e testimonianze su un giornalista-letterato e artista che è stato per me e per tanti maestro di giornalismo, punto di riferimento di scrittura, amico caro e amato, persona di un’umanità grande, generosa ed esuberante.
Una personalità difficile da eguagliare, composta di cultura alta e di concretezza piena di spirito. Con una capacità di pensiero e di indagine profonda e originale, accompagnata sempre da leggerezza ossigenante e da inestinguibile ironia e anticonformismo.
Figura femminile
Paesaggio con luna e rosa
Figura (foto L.Pasqualini)
Ringrazio il figlio, ringrazio il nipote, ringrazio l’amico suo caro, ringrazio gli amici miei che mi hanno sostenuto e messo a disposizione le loro competenze: di critico, di gallerista, di fotografo, di grafico, di restauratore, di supporter, consigliere, finanziatore. E poi – nonostante talvolta l’impresa di portare a compimento mostra e catalogo sia apparsa ardua e abbia rischiato di fallire – ho avuto sorprese e sostegno da più parti, molte volte inaspettate.  Richieste fatte in modo lieve, hanno prodotto risposte immediate e così calzanti, tanto rapide e provvidenziali da risultare determinanti.
Sono state queste le radure che hanno rischiarato il cammino di ricerca: incontri e disponibilità che mi hanno mostrato l’affetto e la stima condivisa per Gpt. Una penna decisiva per la svolta di inchieste, come nel caso della strage di Peteano o quella di piazza Fontana. E che ha lasciato un segno che si ravviva ogni anno con la commemorazione della drammatica, poetica levità da lui dedicata ad esempio alle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
La mostra “Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere” raccoglie un nucleo di opere a tema prevalentemente femminile. Sarà accompagnata da un piccolo catalogo, che ha l’obiettivo di inquadrare l’attività pittorica di Gpt nel suo complesso.
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“GIAN PIETRO TESTA – Il giornalista che amava dipingere”
Idearte Gallery, via Terranuova 41, Ferrara | 2 marzo – 20 marzo 2024

A cura di Giorgia Mazzotti

Prefazione critica di Lucio Scardino |Organizzazione Associazione culturale Ferrara ProArt

Patrocinio di Comune di Ferrara, Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna, Associazione Stampa Ferrara con il sostegno di Amsef Ferrara a tutela della memoria

Mostra aperta tutti i giorni feriali ore 10:00-12:00 e 16:00-19:00
Sabato su appuntamento tel. 0532 1862076. Domenica chiuso.
Per info: curatrice Giorgia Mazzotti, email giom.larte@gmail.com

Parole a Capo /
Giuseppe Ferrara “Messaggi cifrati” e altre poesie

“Messaggi cifrati” e altre poesie

“Sommessa gioia di respirare, esistere: a chi ne debbo essere grato? Ditemi.
Io sono giardiniere, e sono fiore; nel mondo-carcere io non languo solo.”
(Osip Ėmil’evič Mandel’štam)

Ho avuto la fortuna e il piacere di frequentare per molti anni la poesia e l’amicizia di Angelo Andreotti e questi – i temi della parola e della “voce”poetica – erano i nostri argomenti preferiti.  Di seguito,  alcune mie “cronache poetiche” che ho contenuto in una possibile rubrica dal nome (equivoco) di EQUIVOCI (nel senso di E Qui Voci).
Qualche parola sulle poesie:
Una notte lunga sei anni è dedicata alla bambina palestinese di 6 anni morta durante un raid israeliano nella striscia di Gaza.
Versicoli subsidenti si conclude con il richiamo di un famoso verso di Caproni.
Le ultime due poesie sono legate alla morte di Navalny e richiamano atmosfere e stili di due grandi poeti russi che come Navalny sono passati per lo stesso tipo di esperienza “di regime” (Osip Madel’stam e Iosif Brodskij.

P.S. Messaggi cifrati si conclude con una parola scritta in verticale con l’alfabeto Morse : LOVE)

Giuseppe Ferrara

EQUIVOCI

Una notte lunga sei anni
Hind Rajab

Il mondo ha smesso di tremare
piccola Hind non hai più nulla da temere.
Non serve più sapere dove sta il nord
per scappare nel deserto o verso la spiaggia.

Le macerie non riparano dalla pioggia
e le preghiere sono soltanto rappresaglie.
Che la morte possa esserti dolce risveglio
da questa lunga notte d’incubi d’amore…

Ne sono sicuro mia piccola cara Hind:
stai già nuotando verso una nuova vita
nel sacro ripudio di quest’odio antico
noi resteremo qui a non finire di morire mai

 

Versicoli subsidenti

tra frammenti di spiaggia
spunta quanto è stato seminato
negli anni di guerra, nei giorni di tregua
nelle ore e nei secondi che non crescono mai
granelli in una clessidra spazzata da sfarzose tempeste
che scoprono piccole casse toraciche, carcasse svuotate di carri,
carrelli ricolmi d’alimenti scaduti e mine antiuomo ancora inesplose…
come potrebbe tornare bella, scomparsa l’umanità, quella striscia di terra!

 

Messaggi cifrati

sopra è la stessa coltre
d’un bianco più ingrigito
coltre che nel pensiero
equivoca purezza

arbusti bassi sollevano
la testa: è consentito
per decreto naturale
i capelli rasati a zero

per ragioni di stato      .-..
sono segnali di vita     —
sempre più radi, muti  …-
messaggi cifrati           .

 

Alle compagne di vita di Osip Iosif e Aleksej

…se no ti sentirai tirare giù
tentando di tornare a galla: resta
così: nuda! gli abiti son’ aghi
d’abete acuminati a raggelarti
addosso la lunga notte artica…

ricordati il quaderno nella dacia,
il pc acceso e i fiati avvolti
su dita aggrovigliate. ho ancora
quei mirtilli raccolti dietro casa
per aiutare i nostri occhi stanchi
a saziare la fame degli sguardi
continuare, continuare a vederci
vivere-morire per andare avanti…


Giuseppe Ferrara
Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”.

In copertina: Foto Segnaletica-di-Osip Mandel’štam-dopo-l’arresto-e-la-traduzione-nel-gulag. L’arresto-era avvenuto dopo-che-nel-novembre-del-1933-Mandel’štam-aveva composto e diffuso il suo Epigramma-a-Stalin (fonte Wikimedia Commons).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Le storie di Costanza /
Il cielo verde sopra Villa Cenaroli

Le storie di Costanza. Il cielo verde sopra Villa Cenaroli

In quel piccolo paese si racconta che quando la contessa Maria Augusta, madre della contessa Malù, morì, il cielo sopra villa Cenaroli divenne verde. Mai si era visto un verde così bello e splendente, anche se non era chiaro che tonalità di verde fosse. A seconda del testimone della vicenda, il cielo era diventato verde smeraldo, verde lago, verde edera, verdi ricci di castagna, chissà, comunque un bel verde.

Sembrava che l’aurora boreale fosse arrivata fino a Pontalba, anche se nessuno usò quel termine perché, quando Maria Augusta morì, nessuno in paese sapeva che quello straordinario fenomeno atmosferico si chiama proprio così.

La contessa fu trovata morta nel suo letto al mattino presto. La trovò la sua cameriera personale, tale Clementina madre di Serafina, la bambina che una volta cresciuta, divenne la cameriera di Malù. Del resto, una bambina allevata in casa da una brava cameriera aveva alte probabilità di diventare altrettanto.

Quello era l’assunto che aveva fatto sì che Maria Augusta permettesse a Clementina di tenere a villa Cenaroli la figlia, che così poté crescere con la raffinatezza del posto e l’accondiscendenza del ruolo. Ma la bizzarria della vita cambia sempre le traiettorie ipotizzate e la carriera professionale di Serafina subì, ad un certo punto, una strana sterzata.

Comunque, quel mattino il cielo divenne verde sopra la villa. Clementina aprì la finestra e si mise a urlare per attirare i giardinieri, il maggiordomo non era ancora in servizio. “venite, venite, la contessa è nel suo letto fredda come gennaio, Venite subito qui!” urlava affacciata alla finestra con la sua cuffia bianca in testa.

Mentre urlava, sporgeva le braccia dall’infisso e le faceva oscillare in senso orizzontale per attirare più attenzione possibile. Le sue lunghe braccia erano già nere, segno che la cameriera aveva avuto il tempo di alzarsi, lavarsi e indossare la divisa scura che Maria Augusta pretendeva lei mettesse sempre.

Purtroppo, non si vedevano giardinieri all’orizzonte. Dormivano in una dependance ubicata sull’altro lato del parco e non sentivano le grida di Clementina che, spaventata, urlava con tutto il fiato che aveva in gola. Fu in quel momento che la cameriera alzò lo sguardo verso il cielo e lo vide verde sopra la sua testa.

Le nuvole erano dello stesso colore degli smeraldi che componevano una delle più belle collane della contessa. “I miei smeraldi, i miei piccoli, graziosi e splendenti gioielli! Come sarebbe insignificante il mio collo senza di loro!” soleva dire Maria Augusta. Li prendeva spesso in mano e li rimirava da vicino, un po’ perché in quell’azione trovava una profonda soddisfazione, che le permetteva di dimenticare che stava diventando vecchia, e un po’ per controllare l’integrità delle pietre e il risultato della meticolosa pulizia a cui erano regolarmente sottoposte.

Ecco, il cielo che Clementina vide sopra la sua testa in quel momento era esattamente di quel colore, come se gli smeraldi fossero stati sbriciolati da un abilissimo pittore e fossero stati usati come polvere per colorare le nuvole.

Quel verde in cielo significò per Clementina una sola cosa, a Maria Augusta era successo qualcosa di grave. Più che la presenza del corpo immobile e bianco, fu quella visione a convincerla che la situazione era drammatica. Ma non lo pensò solo lei, tutte le persone di Pontalba che videro il cielo quella mattina pensarono la stessa cosa. Qualcosa di grave era successo alla contessa di villa Cenaroli.

Così la voce si diffuse tra le vie del paese e i primi ad arrivare furono il lattaio e il panettiere, che risaputamente, iniziano a lavorare prestissimo. Intanto Clementina si sbracciava sempre di più “La contessa non si muove, è fredda nel suo letto!”

Sempre più agitata la cameriera corse al piano terra, uscì in cortile e da lì arrivò alla foresteria. Una volta arrivata vicino alla casa del custode, senza aspettare che lui si alzasse e si vestisse, aprì il pesante portone di legno che permetteva l’accesso principale alla villa.

Mentre il panettiere e il lattaio entravano, li seguì per un tratto e poi si sedette sul bordo di un grande vaso di coccio che conteneva un oleandro rosso. “Alzati Clementina, non è il momento di sedersi” dissero gli uomini. Clementina estrasse dalla tasca un fico secco, lo mangiò velocemente e poi si rialzò per far strada ai soccorritori.

Nel frattempo, il suo cuore e il suo cervello avevano avuto il tempo di capire e di adattarsi alla nuova situazione e questo stato di comprensione, appena maturato, le permise di dire: “la contessa Maria Augusta è morta!

A volte gli eventi della vita precedono le aspettative e questa inversione crea una strana situazione emotiva di sospensione. Come se la gravità di quanto già successo non trovasse il modo di albergare dentro di noi e di acquisire consapevolezza. Ci sono tanti modi attraverso i quali noi percepiamo gli accadimenti umani e non tutti godono di uno stato di lucidità tale da poter essere trasformati in parole, raccontati agli altri. Verbalizzare un evento permette sia di razionalizzarlo, sia di comunicarlo.

In quel momento Clementina capì che la contessa era morta e lo disse alle persone che stavano con lei. I due uomini si fermarono un attimo a guardarla e volsero gli occhi al cielo. Il cielo sopra la villa era verde. Dalle testimonianze raccolte si arguisce che furono tutti colpiti da quel che videro. Il lattaio vide il cielo color verde erba e il panettiere color verde lago. Due verdi diversi, uno più scuro dell’altro, ma sempre di verdi si trattava.

La cameriera, intanto, conscia dell’ineluttabilità di ciò che li aspettava di sopra, aveva ripreso a camminare con passo lento e deciso. Anche la postura del suo corpo era tornata eretta e non camminava più stranamente piegata in avanti con la testa piegata, come se il suo stesso corpo fosse proteso verso la ricerca di una spiegazione che non aveva ancora fatto capolino alla sua coscienza.

Grazie alla riconquistata lucidità era di nuovo dritta. Ora lo sapeva, la contessa era morta, non le restava che ricomporsi e fare una lista delle cose che bisognava fare: “il certificato di morte, il prete, il medico, la bara, i fiori, il funerale, il cimitero, la tomba, il necrologio, … avvisare subito i parenti più stretti.”

Mentre salivano le scale nessuno disse più niente. I gradini di marmo della scala che portava alla stanza da letto della contessa accolsero dei passi pesanti, nessuna parola, si stava andando verso la morte. Ciò che è ineluttabile porta con sé spesso due componenti emotive, lo stupore e lo sgomento. Nulla si può più fare, inutile cercare di rimediare a ciò che di rimedio ha solo una speranza, l’aldilà. Così si arrivò nella stanza della contessa con grande mestizia e con la consapevolezza della sacralità del momento.

Clementina aprì la porta, i due uomini entrarono e videro la contessa morta. Era spirata durante il sonno. La trovarono distesa su un fianco, le coperte scostate, segno che a causa del malore accusato, aveva fatto un tentativo di alzarsi e di chiamare aiuto, ma la morte era arrivata troppo in frette e il suo corpo esangue si era riaccasciato sul letto.

Così cominciò la ritualità che accompagna sempre l’evento, con l’invio di uno dei giardinieri a chiamare il parroco. I primi due uomini sopraggiunti aiutarono ad adagiare il corpo, già un po’ rigido, nella bara e poi se ne andarono facendo le più sentite condoglianze.

Nell’uscire riguardarono il cielo che nel frattempo era tornato di un bel azzurro sopra le loro teste. Lo ammirarono per un po’, fino a quando furono assaliti dal dubbio che il verde visto poco prima era frutto della loro immaginazione e della tensione che avevano provato in quel momento. Ma entrambi l’avevano visto e se lo dissero, il cielo era verde. Non si misero però d’accordo sulla tonalità di verde. Ma tant’è, era stato sicuramente verde.

Quella consapevolezza li stupì non poco e si chiesero come fosse stato possibile. Le spiegazioni potevano essere le più varie. Da quelle più ovvie, il colore del cielo era stato un caso, a quelle più scientifiche, il verde era un riflesso causato da nuvole basse in transito, a quelle più fantasiose, era la polvere degli smeraldi della contessa che, come per magia, aveva colorato le nuvole, che l’avrebbero accompagnata verso l’aldilà.

È proprio vero che la spiegazione degli accadimenti della vita scatena le teorie più varie e rispecchia le propensioni, le conoscenze e anche le stranezze dell’animo umano. Ci sono infatti persone che non sopportano spiegazioni tecniche e persone che, al contrario, non tollerano la presenza della fantasia quando si devono spiegare eventi molto tangibili.

Ma la morte è la morte, se c’è un evento che sa mettere d’accordo tutti sulla sua concretezza è proprio questo. La morte porta via una persona e non la si rivedrà più, non nella forma e nei modi in cui era sempre stata vista.

Ma ci fu un altro evento associato a quella morte che rese proprio quella dipartita una storia che si racconta tutt’ora e che fa parte delle vicende di questo paese bellissimo, pieno di vegetazione e di storia. Quando il cadavere fu adagiato nel loculo, da quello stesso loculo uscì una volpe verde.

La cameriera svenne e il lattaio e il panettiere si guardarono: “Io non ho visto nulla” disse uno all’altro, “Nemmeno io” rispose il secondo. A volte succedono nella vita cose inspiegabili, così tanto inspiegabili che ci si può affidare solo alla fantasia per renderle vere.

Ma i nostri soccorritori tanta fantasia non l’ebbero e preferirono decidere che non avevano visto nulla, che le volpi verdi non esistono e che nei loculi non possono vivere animali colorati. Il Barone Rampante avrebbe pensato diversamente e anche Alice nel paese delle meraviglie.

Io non so, così si racconta che andò. Mi chiedo per quale motivo al bar Della Torre mi è stato suggerito di chiedere a una certa Costanza Del Re cosa ne pensa di tutto ciò. Non so nemmeno chi sia questa signora così autorevole, ma la cercherò.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Viale Italo Balbo:
volo cancellato

Viale Italo Balbo: volo cancellato

Secondo l’opinione di Wu Ming 2, espressa in un articolo apparso su Internazionale del 15 febbraio 2021 (Una mappa per ricordare i crimini del colonialismo italiano), diversi segnali sembrano suggerire che i tempi sono maturi per sincronizzare gesti e pensieri su una rilettura radicale del colonialismo e del razzismo italiano.

Influenzato dalle proteste del movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti, una innovativa forma di denuncia e di protesta potrebbe segnare un cambio di passo e condurre la tematica direttamente in strada, nelle piazze e nei parchi, intervenendo in quella che potrebbe definirsi ‘topografia coloniale’, laddove cioè la storia si fa materia e le contraddizioni sono visibili sulla pelle dei territori urbani.

Nell’estate del 2020, non appena le restrizioni dovute alla pandemia Covid 19 hanno concesso una prima tregua, Wu Ming 2 ha elencato un proliferare di iniziative, su e giù per l’Italia, inerenti lo spinoso argomento del colonialismo italiano e le nuove strategie di approccio alla tematica del razzismo in quanto tale.

In giugno, a Roma, è nata la proposta di intitolare la futura stazione Amba Aradam/Ipponio, sulla linea C della metropolitana, al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, e la Rete Restiamo Umani è intervenuta modificando i cartelli stradali con i nomi di via dell’Amba Aradam e largo dell’Amba Aradam, intitolandoli a George Floyd e Bilal Ben Messaud e affiggendo lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata grandi manifesti con scritto: “Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”.

Pochi giorni dopo, a Padova, un gruppo di associazioni ha guidato una camminata per le vie del quartiere Palestro, svelando l’origine dei nomi coloniali e mettendoli in discussione con letture e cartelli molto simili a quelli dei trekking urbani che il collettivo Resistenze in Cirenaica organizza a Bologna dal 2015, o al Grande rituale ambulante Viva Menilicchi! celebrato a Palermo nell’ottobre 2018, o alla visita guidata nella Firenze imperiale che ha inaugurato, in quello stesso anno, il progetto Postcolonial Italy.

Sempre nell’estate 2020, a Milano, il centro sociale Cantiere ha lanciato una chiamata alle arti, con il motto Decolonize the city!: un progetto durante il quale, tra lezioni all’aperto e street art, è stata inaugurata una statua di Thomas Sankara all’interno dei giardini Indro Montanelli, quelli che ospitano il monumento al celebre giornalista, imbrattato l’anno prima con una cascata di vernice rosa per aver sempre giustificato con affettata nonchalance il suo matrimonio combinato con una ragazzina dodicenne, durante la guerra d’Etiopia.

A Bergamo, nel settembre 2020, alcuni cartelli sono stati appesi a diverse targhe stradali, per ricordare che il fascismo e il colonialismo furono anche violenza di genere, proponendo dediche alternative a donne che contribuirono, in diversi campi, al progresso dell’umanità. Alla riapertura delle scuole, gli Arbegnuoc Urbani di Reggio Emilia hanno contestato insieme agli studenti il nome del polo scolastico Makallé, che si trova nella strada omonima, per l’occasione ribattezzata via Sylvester Agyemang, alunno di quell’istituto travolto lì vicino da un autobus. Infine, a metà ottobre, si sono svolti a Torino i Romane Worq Days, in onore della principessa etiope, figlia dell’imperatore Hailé Selassié, deportata in Italia nel 1937, detenuta all’Asinara e morta tre anni dopo nel capoluogo piemontese a soli 27 anni di età.

Queste azioni di ‘guerriglia odonomastica’ molto vicine alle tecniche comunicative proprie della street art e dell’Hip Hop, hanno innescato un processo spontaneo di riqualificazione urbana e di riappropriazione storica, civica e sociale che nel 2024 sta istituendo, di fatto e dal basso, quella “Giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano” che la maggioranza del parlamento non ha ancora voluto approvare.

Azioni di guerriglia odonomastica, di contestualizzazione, di ri-significazione, aggiunta di didascalie, trekking urbani, performance, reading, installazioni e incontri si stanno succedendo a Bologna, Firenze, Milano, Modena, Napoli, Padova, Reggio Emilia, Ravenna, Siena, Bari, nell’ambito di un programma nazionale in continuo aumento di adesioni, proposto dalla Rete Yekatit 12-19  in collaborazione con la Federazione delle Resistenze e associazioni locali.

Molti dei nomi propri assegnati a una via, a una piazza, a un parco, o intitolati a un asilo, a una scuola, a un monumento, sono riferiti a persone o episodi storici criminali. Questa operazione di messa in luce  potrebbe convincere anche noi ferraresi che, se una questione morale ci sta a cuore e la riteniamo di fondamentale importanza per la crescita e l’affermazione della cultura della pace nella nostra società, non ci sia bisogno né di leggi, né di censure, per ricordare correttamente la storia.

Note:

https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-2/2021/02/15/mappa-colonialismo-italiano

https://www.radiondadurto.org/2020/06/19/roma-nessuna-stazione-abbia-il-nome-delloppressione-sanzionamenti-anti-coloniali-nella-capitale/

https://www.anpi.it/biografia/giorgio-marincola

https://resistenzeincirenaica.com/

Nuove incursioni a Reggio Emilia del collettivo Arbegnuoc

https://www.youtube.com/watch?v=GHENwqMaOn8&ab_channel=LaCivettadiTorino

https://www.civico20news.it/mobile/articolo.php?id=39244

er leggere tutti gli articoli e gli interventi di Franco Ferioli su Periscopio cliccare sul nome dell’autore o sulla rubrica Controcorrente.

vite di carta letture leggere un po' di follia in primavera di alessia Gazzola

Vite di carta /
Letture leggere: “Un po’ di follia in primavera” di Alessia Gazzola

Vite di carta. Letture leggere: Un po’ di follia in primavera di Alessia Gazzola

All’Istituto di Medicina Legale di Roma la specializzanda Alice Allevi sta per concludere il corso di studi e già prova nostalgia per gli ambienti che deve lasciare e per lui, CC, il medico suo superiore e al tempo stesso oggetto amoroso per eccellenza.

Dovrei cominciare da qui, forse, per riprodurre la trama di questo giallo (non del tutto giallo, in parte anche noir) che è il sesto scritto da Alessia Gazzola in cui la protagonista è la giovane dottoressa con la passione per l’investigazione.

Dico il titolo: Un po’ di follia in primavera.Nei Ringraziamenti alla fine del libro l’autrice rende omaggio tra l’altro ad alcuni suoi modelli letterari, in primis a Emily Dickinson per la poesia omonima che riporto nella traduzione di Giuseppe Ierolli:

Un po’ di Follia in Primavera/È salutare persino per un Re,/Ma Dio sia con il Clown -/Che considera questa formidabile scena -/Questo totale Esperimento di Verde -/Come se fosse suo!

Fra titolo e ringraziamenti si estende il romanzo, di cui dovrei riprodurre la trama.  Non prima di avere detto che CC ha le stesse iniziali di Claudio Cantelmo, il protagonista del romanzo dannunziano Le vergini delle rocce e che invece si chiama Claudio Conforti ed è “…così dannatamente bello, così invariabilmente sadico. Lui, il pavor nocturnus delle giovinette del sesto anno, il principe della sala settoria, l’incarnazione della voluttà”.

Bello, principe e modello di voluttà: dalla Dickinson la penna disinvolta di Gazzola è volata tra le pagine di D’Annunzio e come un’ape voluttuosa è passata a suggere da fiore a fiore fior di citazioni celebri che fungono da titoli di alcuni capitoli. Si va dal verso di Montale Meriggiare pallido e assorto a una frase del Talmud, “Non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo”, fino all’aforisma di Khalil Gibran: “Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”.

Non c’è dubbio che la cornice attorno al romanzo sia accattivante: pillole di saggezza sono distribuite ad arte, oltre che nei titoli, anche nelle riflessioni della protagonista Alice, che è anche la voce narrante di sé stessa e delle peripezie che come medico legale è tenuta ad affrontare tra la vita e la morte di un sacco di gente, che transita nella sala settoria e negli altri ambienti della Medicina Legale.

I vivi sono prima di tutto i colleghi, i famigliari e gli amici di Alice;  vivi sono anche i personaggi dell’entourage delle vittime che libro dopo libro hanno un ruolo nella macchina narrativa.

I morti sono le vittime di omicidi più o meno difficili da svelare, che Alice aiuta a ricostruire, per l’appunto, nella doppia veste di medico legale e di collaboratrice estemporanea dell’ispettore Calligaris.

Nel giallo, di cui ancora non ho riprodotto la trama, a morire è uno psichiatra molto in vista, dalla personalità affascinante e magnetica. Alice Allevi se lo ricorda bene, perché Ruggero D’Armento è stato suo professore alla facoltà di Medicina e in tempi recenti ha fatto da consulente alla polizia in un caso di suicidio di cui si è occupata.

Ora le occorre addentrarsi nei sentieri della psichiatria, se vuole essere di aiuto a Calligaris in una inchiesta più delicata delle altre, dove si intrecciano le vicende familiari della vittima e le storie di disagio di alcuni suoi pazienti coinvolti a vario titolo nelle indagini.

Alice stessa, trovandosi a un punto di svolta della propria vita sentimentale (con un uomo che non è CC), chiede sostegno alla collaboratrice del professore, mentre attraversa quella zona destabilizzata della vita interiore da cui è più facile sentire empatia per chi è borderline. Insomma, tutto concorre a rafforzare il suo acume investigativo.

Il colpevole dell’omicidio di D’Armento sarà individuato. Alice Allevi avrà compreso che per lei è tempo di solitudine e che “bisogna prendersi il tempo di soffrire da soli” per guardarsi dentro.

Forse non è più il caso che riproduca la trama. Per il libro parlano a sufficienza la personalità della sua protagonista-narratrice, un po’ pasticciona ma talentuosa, e la scorrevolezza della penna dell’autrice. Da lì è uscito un giallo dal meccanismo ben congegnato e fluente, adatto a una lettura leggera.

Note al testo:

  • Alessia Gazzola, Un po’ di follia in primavera, Longanesi, 2016
  • Dai romanzi di Alessia Gazzola incentrati sulle vicende del medico legale Alice Allevi è stata tratta la serie televisiva L’allieva, andata in onda per tre successive stagione dal 2016 al 2020.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

E’ nata a Ferrara Officine Europa: con essa la prima edizione del Festival della Progettazione Europea.

C’è una nuova realtà a Ferrara, Officine Europa, l’associazione il cui obiettivo è promuovere le iniziative culturali, didattiche e formative di promozione e sostegno della cittadinanza europea e dei suoi valori, singolarmente o in collaborazione con individui, organizzazioni, reti internazionali. L’associazione lancia la prima edizione del Festival della Progettazione Europea, che si terrà a Ferrara dal 4 al 6 aprile.

Officine Europa, che già dal nome denuncia la volontà di essere una fucina di progettualità e costruzione, forma e sostanza a un’idea di Alexandra Storari. Anche nel logo, la cui elaborazione è stata curata da ESMA Creative Studio, è chiaro il richiamo agli elementi creativi: il design si ispira ai dettagli geometrici dei piccoli oggetti industriali, come i bulloni nella “O” di Officine, e alle forme di legno utilizzate dai bambini nei loro giochi, nella lettera “E” di Europa, celebrando la cultura e la progettazione europea in un contesto giocoso e ispiratore.

L’european project manager ferrarese ha fondato questa Aps a convinta trazione femminile insieme a un solido gruppo di amiche e colleghe: Susanna Tartari, Eleonora Storari, Annalisa Ventura, Simona Perinati, Amber Brewster ed Elisabetta Storari.

“Officine Europa rappresenta per me il lungo percorso, professionale e personale di tutti questi anni – spiega Alexandra Storari -. Racchiude la mia idea di Europa, di essere cittadina italiana ed europea, racchiude il sentimento che provo quando viaggio per questo meraviglioso continente, ricco e sfaccettato, che è ovunque casa mia. Perché qui trovo sempre le tracce della storia, della nostra storia, i fili di luoghi e paesaggi, la rete di connessioni e scontri, che sono in primo luogo le tracce di cosa siamo stati e di cosa siamo, e in secondo luogo i valori che ereditiamo e che dobbiamo rinvigorire, rinsaldare, proiettare nel futuro”.

L’Associazione, costituita a inizio gennaio, è già operativa. Ha ideato la prima edizione del Festival della Progettazione Europea, che si terrà a Ferrara dal 4 al 6 aprile.

Il grande evento diffuso vuole riunire le persone di ogni Paese d’Europa interessate a conoscere, discutere, approfondire le scelte e le sfide del futuro dell’Unione. La tre giorni di incontri, dibattiti, laboratori ed eventi porterà dunque l’Unione Europea al centro della città, fornendo l’opportunità unica di informarsi e formarsi, fare rete, scambiare idee e progetti, condividere esperienze.

Fondatrici di Officine Europa, a destra, seduta, Alexandra Storari

 

Alcune domande al signor Luca Caprini sui fatti di Pisa

Art.17 della Costituzione:

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

Alcune domande al signor Luca Caprini sui fatti di Pisa

Non facciamo in tempo a metabolizzare lo sgomento e la rabbia di fronte alle immagini e alle testimonianze provenienti da Pisa e da Firenze, che a Ferrara – non esattamente una piazza immacolata nella storia degli abusi delle forze dell’ordine –  il consigliere comunale, e segretario regionale del Sindacato Autonomo Polizia, Luca Caprini sente il bisogno di fare alcune dichiarazioni pubbliche:
“Se si vuole sostenere che nelle manifestazioni di piazza sia possibile fare tutto ciò che si vuole sull’altare della libertà di espressione allora non serve il servizio d’ordine, la polizia sta bene anche a casa, ci vadano questi ‘soloni’ a tutelare l’ordine pubblico”. Aggiunge Caprini che nella manifestazione di Pisa “sono state violate le prescrizioni e il personale di servizio è dovuto intervenire”. Inoltre, che “diversi esponenti politici e istituzionali stanno aggredendo verbalmente e delegittimando l’operato delle forze dell’ordine”. Questi sarebbero comportamenti “assolutamente irresponsabili” e che “rischiano solo di provocare il caos”.
Le forze dell’ordine, sostiene infine Caprini, “non hanno colore politico” e questa polemica andrebbe fatta “in altri luoghi e in altri contesti“.
Alcune di queste affermazioni suonano contemporaneamente impegnative e generiche. Vorremmo capirle meglio e quindi rivolgiamo al signor Caprini queste domande:
– Potrebbe indicare con precisione chi ha sostenuto che nelle manifestazioni di piazza è possibile fare tutto ciò che si vuole?
-Visto che appare bene informato, può specificare quali prescrizioni sono state violate nel caso specifico?
– Dopo aver specificato quali prescrizioni sono state violate, può dirci se, a suo giudizio, in base agli elementi video ed alle testimonianze pubbliche disponibili, la reazione dei poliziotti sia stata proporzionale alla violazione?
– Potrebbe indicare con precisione quali sono gli esponenti politici e istituzionali che stanno delegittimando l’operato delle forze dell’ordine?
– Visto che le forze dell’ordine “non hanno colore politico”, è d’accordo o in disaccordo con il fatto che la polizia italiana è un corpo di pubblica sicurezza che agisce nel rispetto delle regole costituzionali edificate sulla pregiudiziale antifascista?
Dal momento che il signor Caprini ha deciso di intervenire nel dibattito pubblico su fatti di una gravità estrema, siamo fiduciosi che altrettanto pubblicamente vorrà precisare le sue affermazioni rispondendo a queste domande.

Photo cover: blitz alla Scuola Diaz di Genova, 2001, tratta dal sito infodifesa.it

Parole e figure /
La vita è una cosa meravigliosa

Definire la nostra vita è difficilissimo. Lo spagnolo Raúl Guridi Nieto, in “Che cos’è la vita”, edito da Kite, ci accompagna in una storia poetica che in poche parole cerca di raccontarla. Sublime.

Arduo, davvero arduo definire la vita, breve, lunga o intensa che sia. Difficile soprattutto perché è fatta di momenti, di contraddizioni, di certezze che diventano dubbi, di conquiste e di tante malinconie. Di incontri che ci cambiano per sempre. Vita che chiama vita.

In questo percorso a volte tortuoso ma affascinante e sinuoso che è la vita ci accompagna oggi un albo di qualche anno fa ma sempre bellissimo, un evergreen di poche righe: “Che cos’è la vita”, di Raúl Guridi Nieto, già incontrato con “Parole”.

Le strade della vita sono tante, in questo albo si contorcono come un serpente, tutto vi gira intorno: paesaggi, luoghi, persone, parole, poesie. I sentieri divergono, a volte sono semplicemente paralleli, magari ad un certo punto convergono. Chissà.

Nella vita ci sono la curiosità, i pericoli, le decisioni che ne cambiano corso e direzione, i dubbi ragionevoli e irragionevoli. A volte questa vita scorre veloce, a volte è lenta, troppo. È costellata da momenti oscuri, da casualità che fanno incontrare o fare qualcosa di inaspettato, da difficoltà più o meno insormontabili, da impedimenti, disparità, differenze, e, soprattutto, da inversioni obbligatorie, spesso a U. la vita è fatta di silenzi, alcuni necessari, altri intollerabili. Ma spesso succede qualcosa, che comporta un’altra cosa. Ci si segue e ci si accompagna, bello se e quando arriva l’amore. L’amor che tutto muove.

Ci sono gesti teneri, fantasia, sogno e realtà, fragilità, tratti dipinti che sono carezze, in queste pagine. Attimi. Incontri. Linee invisibili e dolci che legano le vite, l’una all’altra.

Tutto qui è pura poesia, tutto è amore. Ognuno alla ricerca della sua strada. Perché la vita è un dono, è meravigliosa. Semplicemente meravigliosa.

Raúl Guridi Nieto, Che cos’è la vita, Kite, Padova, 2018, 36 p.

Raúl Guridi Nieto si è formato alla Facoltà di Belle Arti di Siviglia. Dal 1995 ha lavorato e sperimentato professionalmente quasi tutti i campi di immagine, design e pubblicità. Il suo lavoro è molto apprezzato in Spagna, ma è anche riconosciuto internazionalmente.
Ha pubblicato più di 60 libri, alcuni dei quali sono stati pubblicati negli Stati Uniti, in Francia, Germania, Italia, Libano. Dal 2010 si dedica ai libri per bambini per i quali ha ottenuto vari premi e riconoscimenti internazionali.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandriin collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Ma la cultura a Ferrara non è solo Ferrara Arte

Ma la cultura a Ferrara non è solo Ferrara Arte

Un momento significativo della campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative è stata la presentazione, a consuntivo di una legislatura, della attività promossa e condotta dall’Assessorato alla Cultura del Comune. ‘Arte a Ferrara 2019 – 2024’ è stata una accurata iniziativa che ha enfatizzato linee e modi di intervento. Una, finta, occasione di partecipazione perché non è stato previsto alcun confronto, perché su molti temi si è taciuto, perché le cifre sono state presentate in modo ambiguo.
Ad esempio i magnificati 1milione e duecentomila visitatori nei cinque anni si riducono a duecentomila presenze annue – cifra non comparabile, ad esempio, con gli oltre seicentomila della vicina Ravenna per il solo 2023.

Una conferenza stampa nella quale non era possibile porre domande. La sala ‘Estense’ dove si è tenuto l’incontro era piena in tutti gli ordini di posti: una prova che l’argomento è molto sentito dalla cittadinanza, che la ricerca di informazioni non è solo degli addetti ai lavori. Un pubblico attento, pronto alla verifica: per l’amministrazione resta il rischio che la autocelebrazione si riveli controproducente.

Sono naturalmente da apprezzare gli interventi di restauro, di digitalizzazione dei materiali, la riapertura dei musei: impegni amministrativamente obbligati.

La scelta prioritaria è stata quella delle esposizioni affidate a Ferrara Arte, ogni altra presenza è passata in secondo piano. Non sono stati indicati i progetti triennali, obbligati da statuto. Continueranno le mostre conseguenti a quella dedicata a Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Una occasione importante per criticamente rivedere una stagione che tocca due secoli, dal XV al XVI: il limite, pesante, già riscontrato è che si ripropone in maniera piatta una metodologia obsoleta che non tiene conto delle committenze, delle iconografie, del collezionismo, delle tecniche, delle collocazioni, dei punti di visione.

La dichiarata preferenza per le esposizioni, dai ferraresi all’arte contemporanea, alla fotografia, ha escluso momenti di studio e di analisi, ha impedito attenzione per la città, per la sua storia, per i modi e le forme di una presenza che non può essere limitata ai soli duecento anni del vicariato estense.

L’affidarsi all’ ‘insostituibile Vittorio Sgarbi’ spiega carenze metodologiche e di informazione; gli esecutori sono il direttore di Ferrara Arte direttore della ‘Fondazione Cavallini Sgarbi’.

Molte sono le cose delle quali si è taciuto.  Non si è parlato di biblioteche, di teatro, di cultura musicale che pure fanno parte del settore; è stata l’esaltazione di Ferrara Arte, apparsa come unico strumento di azione culturale. Forse una obbligata difesa nei confronti di coloro che ne contestavano chiarezza di comportamenti e opacità di fini.

Faccio alcuni esempi di cose non dette che riguardano la conoscenza di Ferrara.
L’assenza da anni del ‘Bollettino dei Musei’, dei cataloghi delle raccolte, la mancanza di progetti di ricerca, la notizia del patrimonio diffuso in città, ad esempio le chiese di proprietà civica S. Antonio in Polesine, Corpus Domini, Madonnina, S. Francesco:
Il rapporto con l’Università di Ferrara, l’inesistenza di acquisti –
 valga per tutti l’episodio dei taccuini Ghedini già all’Ariostea, perduti, segnalati all’assessore il quale ha preferito all’interesse del patrimonio quello di un collezionista privato: il dottore Sgarbi.
Alcune informazioni errate come la dichiarazione che a Schifanoia non esisteva un’ aula didattica: presente invece al piano terreno almeno fino al 1985, eredità dell’ Università e ampiamente utilizzata. Si è parlato come se esistesse un ‘sistema musei’: mai costituito, nonostante la legge regionale.

Nulla si è detto della sorte di Palazzina Marfisa, definitivamente indicata come luogo espositivo distruggendo l’allestimento Barbantini, una testimonianza unica a Ferrara di museologia storica cancellata dalla incultura di chi gestisce il patrimonio.

Nulla della proposta di istituire il ‘Museo della Città’; nulla sulla istituzione di una biblioteca di storia dell’arte. Strumenti necessari se si vuole fornire occasioni di studio e di conoscenza.

Molto altro si potrebbe aggiungere. Un consuntivo deludente che testimonia una visione culturale angusta ed incapace di corrispondere agli interessi della città

Cover: Interno Palazzina Marfisa d’Este. I lavori di recupero dell’immobile iniziarono nel 1906 e, dopo varie interruzioni, si conclusero con gli efficaci interventi di Nino Barbantini che si occupò del restauro interno e dell’allestimento; il recupero dell’edificio fu completato grazie all’acquisizione, finanziata dalla Cassa di Risparmio di Ferrara, di mobili e dipinti che ricrearono le suggestive atmosfere di una dimora signorile del Rinascimento, offrendo un percorso espositivo idoneo ad una casa-museo. Fu inaugurata nel 1938.

Per leggere gli altri articoli e interventi su Periscopio di Ranieri Varese clicca sul nome dell’autore.

RIEDUCARE UNA BABY GANG
Ritrovare la consistenza di un luogo  

RIEDUCARE UNA BABY GANG. Ritrovare la consistenza di un luogo

Con il termine baby gang (letteralmente ‘banda di bambini’) si fa riferimento ad un fenomeno di microcriminalità che vede per protagonisti minori.  Di solito il fenomeno si sviluppa in contesti urbani e ha come epicentro le periferie delle città.

I minori si riuniscono in gruppi più o meno organizzati, con il preciso scopo di commettere reati: atti di vandalismo, bullismo, soprusi, aggressioni, furti, rapine e spaccio di stupefacenti. Una baby gang è quindi una banda di ragazzini/e responsabile di azioni di microcriminalità.

Tra le motivazioni che possono indurre un minore a entrare in una banda di questo tipo possiamo includere il bisogno di crearsi un’identità, di colmare il senso di solitudine e di appagare un desiderio di appartenenza, rendendo possibile la condivisione di interessi comuni ed esperienze di vita.

Inoltre, all’interno di una gang, si può riscoprire la protezione e la sicurezza che non si trova da altre parti e partecipare a quell’aspetto ‘ludico’ che induce a provare esperienze sanzionate dalla legge.  Si assiste così alla manifestazione di una voglia di partecipazione al gruppo che, realizzata con quelle modalità, attesta la sua problematicità e la sua incapacità ad assurgere ad un sano mondo adulto.

Ci sono molte teorie che provano a spiegare il fenomeno delle baby gang e, come quasi sempre, credo che la verità stia nel mezzo e cioè che ciascuna teoria spieghi una parte di questo fenomeno complesso, mettendo in luce facce diverse dello stesso prisma dai colori tetri.

Secondo alcune teorie, le azioni criminose delle baby gang si ricollegano al contesto familiare e affettivo in cui sono cresciuti i minori. Genitori che non sono stati dei buoni esempi e che avendo comunque scatenato processi identificatori con i propri figli, sono diventati modelli distorti di ciò che è bene e di ciò che non lo è.

Un secondo filone è quello delle teorie che potremmo definire ‘razionaliste’, che sostengono che l’adesione ad una baby gang è volontaria e spontanea e che non è strettamente collegata all’universo familiare di riferimento. Esiste comunque un condizionamento valoriale in grado di orientare l’azione del singolo che sceglie la gang per ottenerne un guadagno tangibile. Tale guadagno può essere sia materiale (soldi) sia immateriale (aumento dell’autostima).

Infine, vi sono le teorie più di stampo ‘analitico’, che fanno leva sul concetto di aggressione-frustrazione. In questo senso, il fenomeno delle baby gang avrebbe origine nella psiche di soggetti frustrati. E quando la fonte di una frustrazione non può essere controllata, l’aggressività si rivolge verso un obiettivo debole.

Non so se l’insieme di queste teorie esaurisce le possibili motivazioni di tale adesione, ma scuramente ne attesta la complessità e le diverse angolature attraverso le quali il fenomeno va analizzato e ricomposto in un universo di significati plurimi.

La baby gang sono al centro del Rapporto realizzato da Transcrime, il polo di ricerca sulla criminalità delle università di Milano, Bologna e Perugia, in collaborazione con il Servizio Analisi Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del ministero della Giustizia.

Dal rapporto emerge che le gang giovanili sono attive nella maggior parte delle regioni italiane, ma è un fenomeno più presente al Centro-Nord rispetto al Sud. Secondo le forze dell’ordine, negli ultimi anni sono aumentate. Il rapporto individua fondamentalmente quattro tipi principali di gang presenti in Italia con caratteristiche differenti e una diversa distribuzione sul territorio.

Gruppi privi di una struttura definita. La loro è una violenza occasionale (risse, percosse e lesioni). Sono sparse per tutte le macroaree del Paese, sono il tipo maggiormente rilevato e più consistente numericamente. Questi gruppi sono caratterizzati da legami deboli, una natura fluida, l’assenza di una organizzazione definita e spesso non presentano fini criminali specifici.

Gruppi che si ispirano ad organizzazioni criminali italiane. Sono presenti specialmente nel Sud e in contesti urbani in cui vi è una presenza mafiosa. Sono composti quasi totalmente da italiani. Spesso i membri del gruppo sono legati dalla volontà di accrescere il proprio status criminale con l’auspicio di entrare a fare parte dell’organizzazione criminale vera e propria (le potremmo definire, con molta tristezza, bande pre-mafiose).

Gruppi che si ispirano a organizzazioni criminali o gang estere. Sono presenti in aree urbane del Nord e Centro e composti in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione. Fra le attività criminali più spesso associate a questo tipo di gang emergono le risse con percosse e lesioni, atti vandalici e disturbo della quiete pubblica.

Gruppi con una struttura definita, ma senza riferimenti ad altre organizzazioni specifiche. Sono presenti in tutte le macroaree del Paese e composti in prevalenza da italiani. Compiono spesso reati appropriativi, come furti o rapine, ma anche reati violenti. Queste gang non sono solitamente dotate di simbologie particolari né hanno interesse a pubblicizzare le proprie azioni.

Il fenomeno è davvero complesso e in continuo mutamento in termini di numero, componenti, età, collocazione geografica, modalità di azione delle gang, ma lo è anche perché, in quanto fenomeno sociale, accende la luce sulle modalità con cui lavorano le nostre istituzioni. La presenza di una o più baby gang attesta la crisi di agenzie importanti come famiglia, scuola, chiesa, Stato. Dove i minori delinquono abbiamo sicuramente sbagliato qualcosa, se non tutto.

Un problema, che sicuramente sta attraversando la nostra penisola e che credo vada messo in relazione al fenomeno delle baby gang con maggiore convinzione e con un livello di studio e di approfondimento più rilevante di quanto sia stato fatto fin ora, è quello della dematerializzazione delle nostre aree urbane.

Lo spazio dell’abitare sembra dipendere sempre meno dal fattore ‘luogo’ e si sta riorganizzando secondo nuove logiche che uccidono la memoria e la tradizione. Si tratta di logiche che portano all’apertura incondizionata e senza confini. La mobilità di capitali, merci e informazioni e la logica dei luoghi, fatta di permanenza e cultura, si scontrano rischiando di creare problemi al tessuto sociale.

Questa tensione genera nuove strategie dell’abitare che portano con sé nuovi assetti sociali. L’assenza di forti canali di mediazione tra ‘flussi’ e ‘luoghi’ fa sì che le zone abitate siano sottoposte a importanti tendenze stressogene.

La città protesa verso l’esterno per attirare l’attenzione dei circuiti globali, si lacera al suo interno, rischiando di diventare un sistema di opportunità che rinuncia alla convivenza sociale. Basti pensare alla costruzione di quei quartieri d’élite connessi col mondo intero tramite le reti internet, ma accessibili ‘fisicamente’ solo da persone che possono godere di un reddito molto alto.

Ad esempio, ci sono zone d’Italia dove il prezzo medio di vendita di un immobile si attesta sugli 8.000 euro a metro quadro, sicuramente non accessibile a persone con reddito medio basso, che vengono quindi escluse da quel mondo, da quel modo di vivere e dalle opportunità che là si trovano.

In una situazione di questo tipo la deriva di alcuni gruppi sociale diventa facile e la proliferazione delle baby gang è possibile sia dentro il circuito d’élite che fuori, perché in entrambi i casi è stato eretto un muro, che distrugge un tessuto sociale di prossimità per creare un mondo di connessioni possibili, dematerializzate e fragili.

È altresì vero che di fronte a consapevolezze di questo tipo, si possono individuare strade rigenerative che dovrebbero attenuare molte derive sociali. Provo ad enumerarne alcune senza pretesa di esaustività e con la consapevolezza che la loro realizzazione prevede una mobilitazione collettiva, che coinvolge le istituzioni, ma anche le singole persone adulte, attraverso il recupero di un senso di comunità, che non necessariamente è stato una consapevolezza della nostra giovinezza.

Tra le strategie migliorative attuabili annovererei:

  • Riportare le città dentro i ‘luoghi’ del vivere collettivo (le piazze, le strade, le sale civiche, gli oratori) e non solo dentro i ‘flussi’;
  • Ridare consistenza ai luoghi fisici, in modo particolare quelli che hanno una storia;
  • Creare ancoraggi valoriali, che permettono una appartenenza ad un contesto sociale che ha una storia, delle tradizioni e delle regole di convivenza;
  • Pensare che il senso di comunità sia una dimensione da istruire e mantenere;
  • Costruire relazioni non opportuniste;
  • Essere testimonial di fiducia e solidarietà;
  • Non rinunciare mai alla possibilità che la devianza ‘rientri’ e diventi supporto a delle buone relazioni;
  • Ricordarci che storia, memoria, tradizione e arte sono un veicolo di protezione;
  • Aiutare i giovani garantendo loro la possibilità sia di ‘fare’ che di ‘imparare’.  A questo proposito gli oratori, i centri sportivi, le scuole e la capacità di queste istituzioni di trasmettere valori collettivi, possono essere fronte di vita sana per tutti.

Infine, da persona che abita in un piccolo borgo e ad essa è molto affezionata, mi verrebbe da pensare che sarebbe importante ridare linfa vitale ai paesi e provare a ricordarci che delle relazioni sociali protettive sono più facili nei piccoli contesti che nelle metropoli inconsistenti dei flussi informativi dematerializzati.

Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Lo stesso giorno /
Bologna, 26 febbraio 1872, piovono rane

Bologna, 26 febbraio 1872, piovono rane

Nella ricca e affascinante cultura popolare dell’Emilia Romagna, un evento singolare e a dir poco curioso si è verificato lunedì 26 febbraio 1872: una pioggia di rane si è abbattuta sulla città di Bologna.

Immaginate la sorpresa degli abitanti: il cielo, plumbeo e carico di pioggia, improvvisamente ha scatenato una cascata di piccoli anfibi, che guizzavano e saltellavano per le strade, creando un pandemonio di grida e risate.

Le cronache dell’epoca raccontano che la pioggia di rane durò circa mezz’ora, interessando principalmente il centro storico della città. Le rane, di dimensioni variabili, caddero dai tetti, dai cortili e persino dai camini, destando stupore e confusione.

L’evento ha dato vita a un proverbio dialettale bolognese: “A piov rane” (piovono rane), usato per indicare situazioni caotiche e confuse. (Com’è la situazione mondiale? A piov rane, N.d.R.Inoltre, la pioggia di rane bolognese è stata immortalata in una poesia di Giovanni Pascoli, intitolata “La rana” (scritta nel 1891 fa parte della raccolta “Myricae”)

La spiegazione più plausibile, tuttavia, è che la pioggia di rane sia stata causata da una tromba d’aria. Il vortice d’aria, infatti, avrebbe potuto sollevare le rane da un vicino specchio d’acqua e trasportarle per alcuni chilometri, prima di scaricarle sulla città.

Ancora oggi, a distanza di oltre 150 anni, la pioggia di rane del 1872 rimane un evento memorabile nella storia di Bologna, un enigma affascinante che alimenta la tradizione e la cultura popolare della regione.

La memoria di questo evento singolare è custodita anche nel Museo di Palazzo Poggi di Bologna (consiglio una visita), dove è conservato un barattolo di vetro che contiene alcune delle rane cadute dal cielo quel lontano 26 febbraio 1872.

Il 1872, rane a parte, è incredibilmente ricco di importanti eventi. Giusto per citarne alcuni, ricordiamo l’eruzione del Vesuvio che causa una tempesta di pesci (difficile collegarla all’evento di Bologna vista la distanza), l’inaugurazione del Metropolitan Museum of Art a New York e quella del Parco nazionale di Yellowstone, il primo parco nazionale del mondo, nasce inoltre la prima Latteria Socio Cooperativa in Italia a Canale d’Agordo.

In copertina e nel testo: due sale del Museo di Palazzo Poggi di Bologna, ricchissimo di reperti, rane comprese. 

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La strage di Addis Abeba
Nel ricordo di Yekatit 12, l’olocausto nero

La strage di Addis Abeba. Nel ricordo di Yekatit 12, l’olocausto nero

Il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia pubblica in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia tenutasi ad Addis Abeba nel giorno Yekatit 12 -Festa della Purificazione della Vergine, secondo il calendario copto e da allora Giornata di Lutto Nazionale Etiope in memoria delle vittime dei massacri- un commando composto da due guerriglieri eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciò contro il palco otto bombe a mano uccidendo quattro carabinieri italiani, tre zaptiè (carabinieri reclutati tra le popolazioni indigene) e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Viceré d’Etiopia Maresciallo Rodolfo Graziani, colpito da 350 schegge.

Il fallito attentato diventò l’occasione per scatenare una feroce rappresaglia, ordinata da Mussolini, passata alla storia come olocausto nero.

Harold J. Marcus, professore di Storia e di Studi Africani alla New York State University, parla del clima post-attentato in questi termini: ”Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte. Esercito e camicie nere si riversarono in strada, non tanto per stanare e arrestare i responsabili, quanto per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata i nuovi sudditi dell’Italia imperiale, colpevoli di essersi ribellati agli invasori. Oltre ai militi e ai fascisti organizzati, si lanciarono entusiasti nella caccia al nero anche operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri e semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vennero uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati vivi nelle loro case. Centinaia di persone furono sequestrate, deportate e rinchiuse nei campi di detenzione di Danane, in Somalia, e Nocra, in Eritrea, dove Graziani ordinò che avessero minime quantità d’acqua e di cibo”.

Il medico ungherese Ladislav Shaska così ricorda le azioni condotte dal Federale Guido Cortese: “Il maggior massacro si è verificato dopo le sei di sera… In quella notte terribile, gli etiopi vennero ammucchiati nei camion, strettamente sorvegliati dalle camicie nere armate. Pistole, manganelli, fucili e pugnali furono usati per massacrare gli etiopi disarmati, di tutti i sessi, di tutte le età. Ogni nero incontrato era arrestato e fatto salire a bordo di un camion e ucciso o sul camion o presso il piccolo Ghebi. Le case o le capanne degli etiopi erano saccheggiate e quindi bruciate con i loro abitanti. Per accelerare gli incendi vennero usate in grandi quantità benzina e petrolio. I massacri non si fermarono durante la notte e la maggior parte degli omicidi furono commessi con armi bianche e colpendo le vittime con manganelli. Intere strade erano bruciate e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano in strada erano pugnalati o mitragliati al grido “Duce! Duce Duce!”. Dai camion, in cui gruppi di prigionieri erano stati portati per essere massacrati vicino al Ghebi, il sangue colava letteralmente per le strade, e da questi camion si sentiva gridare “Duce! Duce! Duce!. …Non dimenticherò mai quello che ho visto fare quella notte dagli ufficiali italiani che passavano con le loro auto lussuose per le strade piene di cadaveri e sangue, fermandosi nei luoghi dove avrebbero avuto una migliore visione delle stragi e degli incendi, accompagnati dalle loro mogli, che mi rifiuto di definire donne!”

Dopo che venne data alle fiamme, davanti agli occhi di Cortese, la chiesa di San Giorgio, il 28 febbraio Graziani arrivò addirittura a proporre di “radere al suolo” la parte vecchia della città di Addis Abeba “e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento”, ma Mussolini si oppose per paura delle reazioni internazionali, pur riconfermando l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti e la rappresaglia divenne anche di matrice religiosa.

Percorrendo il sentiero del ‘repulisti’ tracciato da Mussolini in persona, il Vicerè ordinò una spedizione punitiva verso Debrà Libanòs -centro del potere spirituale e cuore secolare della chiesa cristiana ortodossa copta fondato nel XIII secolo a 150 km da Addis Abeba, nella regione dello Shoa- città santa i cui residenti erano ritenuti colpevoli di fomentare le ribellioni e di proteggere gli insorti.

Nel tragitto, le truppe italiane e somale comandate da Pietro Maletti, vennero incendiati 115.422 tucul e tre chiese e furono ben 2.523 i partigiani etiopi giustiziati.

Non sazia del sangue versato, la colonna imperiale proseguì il suo viaggio e dopo aver incendiato il convento di Gulteniè Ghedem Micael ed averne fucilato tutti i monaci, il 19 maggio i soldati occuparono Debrà Libanòs.

Il grande monastero fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot era formato da due grandi chiese e da tremila modeste abitazioni dove vivevano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore. I residenti furono trucidati in circa una settimana; l’ultimo giorno del massacro vennero fucilati anche centoventisei giovani diaconi che erano stati inizialmente risparmiati.

Graziani, forte dell’approvazione di Mussolini, rivendicò “la completa responsabilità” di quella che definì trionfante la “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia” come ”romano esempio di pronto, inflessibile rigore sicuramente opportuno e salutare”, compiacendosi di “aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti”.

Nel 1946 Hailè Selassiè, per conto del Governo etiopico, presentò alla Conferenza di Pace di Parigi un memorandum che segnalava queste spaventose perdite umane, ma nessun italiano venne mai punito per i massacri, favorendo la rimozione collettiva e la mancanza di presa di coscienza, tuttora persistente, dei crimini compiuti durante le guerre coloniali fasciste in Etiopia.

Massacri di civili e religiosi del Yakitit 12-19 febbraio 1937: 30.000

Persone morte a causa della distruzione dei loro villaggi: 300.000

Donne, bambini e infermi uccisi dalle bombe: 17.800

Patrioti morti nei campi di lavoro a causa di privazioni e maltrattamenti: 35.000

Patrioti uccisi dalle corti marziali: 24.000

Patrioti uccisi in battaglia: 76.000

Totale esseri umani assassinati: 760.300.

Addis Abeba, obelisco al centro di piazza Yekatit

Il doloroso significato che assume la data del Yekatit 12, giornata di Lutto Nazionale celebrata nella Repubblica Federale Democratica di Etiopia in memoria delle vittime dei massacri compiuti dal colonialismo italiano, deve essere considerato come la faccia oscura o l’altra metà del 25 Aprile italiano.

La nascita, l’affermazione, la sconfitta e le conseguenze politico-sociali imposte dal regime dittatoriale fascista continuano ad essere ricordate solo a metà e solo a livello nazionale, con il risultato che le dominazioni in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia non sono mai entrate nel dibattito pubblico e che il popolo italiano è rimasto l’unico a non fare i conti con il proprio passato coloniale, razzista e militarista.

Il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge -non approvata- per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”, in riferimento alle oltre 700mila vittime della dominazione.

La Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 marzo 2019, ha poi indicato che è indispensabile ”riconoscere ufficialmente e a celebrare le vicende delle persone di origine africana in Europa, tra cui figurano anche le ingiustizie e i crimini contro l’umanità del passato e del presente, quali la schiavitù e la tratta transatlantica degli schiavi, o quelli commessi nell’ambito del colonialismo europeo”.

La Mozione 156, approvata il 6 ottobre 2022 dall’Assemblea Capitolina, che istituisce il 19 febbraio, giorno di inizio della Strage di Addis Abeba nel 1937, quale “Giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano” ha avviato un processo di ri-significazione -attraverso interventi di contestualizzazione e didascalie, azioni di guerriglia odonomastica, performance, reading, trekking urbani, installazioni e incontri- degli odonimi della città di Roma, riferendoli agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui la loro intitolazione fa riferimento.

Roma, con oltre 150 odonimi, è sicuramente il luogo d’Italia maggiormente connotato dall’esperienza storica coloniale, ma il nutrito programma di iniziative, in corso da febbraio a maggio 2024, proposte dalla neonata Rete Yekatit 12 – 19  in collaborazione con la Federazione delle Resistenze, include Bologna, Firenze, Milano, Modena, Napoli,  Padova, Reggio Emilia, Ravenna, Siena, Bari.

Un’accettazione più ampia nella nostra coscienza di un passato scomodo da digerire come invasori, colonizzatori e imperialisti, oltre che di fascisti, forse ci darebbe la volontà di guardare al presente e al futuro del nostro paese con occhi diversi e ci consentirebbe di comprendere che l’oppressione è un meccanismo perverso, biunivoco e onnivoro che non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice.

https://www.cnca.it/la-rete-yekatit-12-19-febbraio-chiede-di-istituire-una-giornata-sui-crimini-del-colonialismo-italiano/

https://www.cnca.it/wp-content/uploads/2023/02/Appello-19-febbraio-Colonialismo.pdf

https://www.cnca.it/wp-content/uploads/2024/02/rete-Yekatit12-19Febbraio_PROGRAMMA-FEBBRAIO-MAGGIO-2024.pdf

In copertina: Etiopia – Giorno dei martiri

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Franco Ferioli su Periscopio cliccare sul nome dell’autore o sulla rubrica Controcorrente.

Per certi versi /
Il silenzio inaudito

Il silenzio inaudito

Il silenzio
Lo scriverò
Non sempre
È bello
Non sempre
Trattiene
La polvere
Delle parole
A volte
È il loro rifugio
Inaudito
la tomba
Il fiume carsico
Il granaio
Degli inverni
Ghiacciati
Stupore
Meraviglia
Dolore
Togliti le vesti
Silenzio
Dona i resti
Delle parole
Amiche
Ai sordi
Che mai
Vogliono sentire

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.

Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Cancel… plasticulture

Cancel… plasticulture

Quarantacinque anni fa, precisamente il 2 maggio del 1979, moriva Giulio Natta, il genio chimico che ha “inventato” il Moplen, dando inizio all’era della plastica. Quell’era che oggi “sembra” volgere al termine e che si è intrecciata – e continua a farlo – alla vita di questa città.

Come ricordato dallo storico del cinema Paolo Micalizzi, nel 1979 a Ferrara, il regista Marco Ferreri girò alcune scene del film Chiedo asilo proprio nei luoghi dove il Moplen era stato prodotto: nel film il protagonista, Roberto Benigni che interpreta il ruolo di un maestro d’asilo, si introduce, clandestinamente, dentro il petrolchimico ferrarese, con i suoi piccoli allievi per spiare i loro i genitori al lavoro.

Dopo Ferreri anche Federico Fellini realizzò presso “la città magica e marziana” come lui stesso definì il petrolchimico, un servizio televisivo di 3 minuti e successivamente tanti altri registi e giornalisti hanno contribuito a documentare questa stretta relazione, antropologica e culturale, esistente tra la città di Ferrara e “il mondo alieno”…sbarcato dopo l’invenzione di Giulio Natta.

Come si sa Natta è stato l’unico italiano a ricevere il premio Nobel per la Chimica. Ricordiamo che in ambito scientifico il nostro Paese si è visto assegnare 12 Nobel (dei 20 totali): 6 per la medicina/fisiologia, 5 per la fisica e 1, appunto, per la chimica.

Giulio Natta fu genio precoce – a 16 anni aveva già un diploma; a 21 una laurea –  e nella sua carriera ha firmato oltre 4000 brevetti. Uno di questi – l’invenzione per cui poi andò a ritirare la medaglia a Stoccolma e che ha rivoluzionato l’industria petrolchimica mondiale del dopoguerra – è proprio quello relativo alla plastica di cui è fatta la maggior parte degli oggetti d’uso quotidiano e anche di tanti altri meno noti: si spazia in ambiti di applicazione che vanno dal biomedicale all’autotrasporto, dall’edilizia al comparto casalingo e a oggetti di design.

Natta fu uno sperimentatore di frontiera, molto sensibile alle ricadute pratiche che potevano avere le ricerche in campo chimico. Si deve a lui appena ventiseienne, nel 1929, un nuovo sistema di sintesi del metanolo (che mise fine, tra l’altro, al monopolio tedesco su quel tipo di reazione). Poi fu la volta della sintesi della formaldeide per l’azienda Montecatini, quella del butadiene per la Pirelli e di varie altre molecole per la Bombrini Parodi Delfino.

Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, poi, c’era una parola che andava molto di moda nel mondo internazionale della chimica: polimero. Natta era venuto in contatto con questi ambienti e visto che era uno dei pochi che si intendeva di raggi X, aveva cominciato a interessarsi alla struttura delle macromolecole sintetiche.

La sua carriera accademica fu veloce: a 24 anni, nel ’29, era libero docente, nel ’33 era all’Università di Pisa, nel ’35 alla Sapienza di Roma, nel ’37 al Politecnico di Torino. Infine, nel ’38 lo troviamo là dove aveva cominciato come studente, al Politecnico di Milano. Era già così noto che il CNR gli aveva affidato, per il solo biennio 1937-38, il 70% del finanziamento pubblico per la chimica (200 mila lire) da utilizzare per condurre specifiche ricerche sull’ idrogeno.

Persa la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia contava proprio sugli ingegneri chimici come Natta per risollevarsi: le materie plastiche erano sempre più ricercate, l’industria chimica italiana cominciò a svettare nel panorama mondiale e, grazie ai rapporti con l’azienda Montecatini, il ricercatore mise in piedi una scuola di menti brillanti presso il Politecnico sfruttando e potenziando le aree industriali presenti nel Paese tra le quali quella di Ferrara.

Giulio Natta, 1960

Nel 1952, ci fu l’incontro che aprì la strada al Nobel (e allo “scolapasta” in plastica, ai mattoncini Lego e tanto altro ancora): quello con il chimico Karl Ziegler. Il tedesco aveva trovato dei catalizzatori al titanio per ottenere la solidificazione del gas etilene, ovvero il polietilene (PE). Solo Natta ne intuì l’importanza. Invitò Ziegler a Milano e convinse la Montecatini a investire la modica cifra di un milione di dollari per collaborare e contribuire a quelle ricerche. Natta così cominciò a sperimentare la tecnica su altri gas, tra cui il propilene, con in mente l’obiettivo di riuscire a sintetizzare la gomma sintetica (l’altro marchio di eccellenza del…made in Italy chimico: il Dutral).

Il polipropilene isotattico (PP) ottenuto da Natta e collaboratori si rivelò essere un polimero con una straordinaria versatilità e possibilità di lavorazione: il PP infatti può essere termoformato per riempire e riprodurre stampi di qualunque forma; può essere soffiato per generare bottiglie e flaconi; può essere filmato per riprodurre fogli e può essere filato in fili e tessuti (come ad esempio le mascherine chirurgiche che ci hanno protetto dalla trasmissione del Covid).

Il polipropilene diventò così “il materiale ideale per la… modernità” tanto che nel 1985, proprio la dirigenza Montecatini di allora, chiese a Italo Calvino un contributo per esaltare l’essenza del “materiale moderno” per eccellenza che, incidentalmente, riprendeva e riproduceva concretamente i temi delle sei lezioni americane che il grande scrittore stava terminando in quello stesso periodo, poco prima della sua morte.

La Scuola di Natta lavorò freneticamente proprio per sfruttare al massimo tutte le potenzialità del nuovo materiale. Ne seguì la richiesta di numerosi brevetti e la pubblicazione di articoli e frequenti comunicazioni sulla prestigiosa rivista Journal of the American Chemical Society. Era il 1954 e tre anni più tardi, nel maggio del 1957, la Montecatini avviò a Ferrara la produzione commerciale del PP di Natta e del PE di Ziegler.

Il premio Nobel arrivò a entrambi nel 1963, l’anno in cui fu pubblicato Il giardino dei Finzi Contini di G. Bassani (sì, nel romanzo è presente anche il polo chimico di Ferrara). Solo un anno prima la produzione della Montecatini aveva raggiunto le 250mila tonnellate l’anno e la Rai trasmetteva il Carosello con il tormentone di Gino Bramieri che incitava le signore casalinghe con il famoso «e mo’ e mo’… Moplen!».

Non è da oggi comunque che questo “mondo” da molti sia ritenuto, “politicamente scorretto” e suscettibile dunque di quell’atteggiamento di colpevolizzazione, espresso oggi più che mai tramite i social media attraverso pochi e inesatti frammenti di “informazioni”, per la maggior parte funzionali solo alla cosiddetta cancellazione culturale: una sorta di cancel plasticulture che va tanto di moda  e che colpisce nel segno…sbagliato.

E tanto più lo fa quanto più si dimentica della storia e…della scienza del Paese e, soprattutto – strano a dirsi – dimentica il futuro della nostra città.

Questo articolo è già uscito il 13 febbraio 2024 sul sito del CDS Cultura

In copertina: Gino Bramieri nel celebre Carosello per la pubblicità dei prodotti Moplen, premiati dal Nobel.

Inoki: La pace è la risposta

La pace è la risposta

Il testo di “La pace è la risposta” di Inoki

Vogliono la guerra, vogliono tutti la guerra, la guerra è il loro habitat, vogliono la violenza, vogliono il dissing

Serio, vuoi un diss? Vuoi il bis?
Vuoi il maestro delle barre su di te
Dopo che ti ho devastato
Distrutto, cucinato da ogni lato
Vuoi ancora una palata di mazzate sopra i beats?
Le tue canzoncine, le tue hits: cioccolato
Le sciolgo, prenditi i confetti di metriche col piombo
Fatte andare nel ragù col tuo sangue
Rime da mafioso, mezze trap fuori moda
Ancora fare guerre immaginarie dalla villa, dalla disco
Ancora coca, ancora tu?
Mollami, io cerco baci

Amo, amo, ancora che dissi ‘sto sfigato?
Quattro mesi fa gli hai fatto dieci minuti di diss, basta. Parla di qualcosa di più serio, no?
Va bene, provo a parlare di qualcosa di leggermente più serio…

RIT.
C’è chi la cerca e c’è chi ci capita
La guerra è di Satana, non è il mio habitat
La pace è il mio habitat
C’è chi la vuole, poi c’è chi l’ha imposta
La guerra è la vostra, la pace è la sola risposta

Chiedilo a Motaz Azaiza, fotografo sopra la Striscia
Chiedigli come ha perso le ventidue anime care della sua famiglia
Dopo che l’esercito di Tel Aviv gli ha chiesto di chiudere il suo profilo
Soltanto un reporter, gli ha chiesto di smettere
Lui ha continuato da Instagram a raccontare quei giorni di Gaza
Per questo che lui ha perso tutto, gli hanno bombardato la casa
Chiedilo ad Haya Abu Nasser, venticinque anni e due lauree
Una grande fortuna, un visto per uscire dalla Palestina
Il 17 di ottobre, ma il 7 è iniziato il massacro
La valigia è rimasta sul letto
Insieme al suo sogno mai realizzato
Chiedilo a Yasser, non conosciamo il cognome
Uno skater dei nostri, un sedicenne, un futuro campione
Telefono spento, nessuna notizia, abitava giù al porto
Lui come tanti dispersi, sotto una bomba al secondo
Chiedilo a Randa Harara, le donne di Gaza a cui era cara
Col suo sportello antiviolenza che ora non ha più una casa
Niente più lezioni di arte, niente più laboratori
Solo macerie, lacrime e fango per chi ora è lì fuori
Chiedi a Mohamed Alamarin, uno chef che ha imparato da noi
L’arte della cucina per aprire la sua pizzeria in Palestina
Ristorante Milano, così si chiamava quel posto
Adesso è distrutto e noi lo sentiamo anche nostro
Chiedi a Jumana Shahin, un futuro d’attrice davanti
Pluripremiata in un film, ora in aiuto di tanti
Sopra un carretto trainato da un asino aiuta le madri
Le conforta nei pianti, le stringe in abbracci
Chiedi a Sami Abu Omar, è raro una persona anziana
Perché vent’anni la prospettiva di vita a casa
Come deve essere stato per lui avere in faccia i soldati
Perché distribuiva il cibo ai sopravvissuti sfollati

RIT.
C’è chi la cerca e c’è chi ci capita
La guerra è di Satana, non è il mio habitat
La pace è il mio habitat
C’è chi la vuole, poi c’è chi l’ha imposta
La guerra è la vostra, la pace è la sola risposta

Basta con ’sti dissing, ragazzi, basta con ‘ste guerre inventate. C’è la gente che vive la guerra veramente. La guerra è il loro habitat, non è il nostro habitat. Noi siamo persone fortunate
Ringraziamo per ogni giorno che siamo qua, blessing

Inoki bio

Fabiano Ballarin, in arte Inoki o Inoki Ness, è un rapper e produttore italiano, nato il 2 ottobre 1979 a Roma.
Il suo nome deriva dall’unione di un personaggio dell’Antico Testamento e antenato di Noé, Enoch, e Ki, nome orientale che simboleggia l’energia interna, mentre il suffisso Ness simboleggia l’espansione nella lingua inglese.
In seguito al trasferimento a Bologna entra in contatto con la cultura hip hop e si avvicina a writing e rapping: fondamentali sono l’influenza degli Assalti Frontali e l’intesa con il breaker Gianni KG e il writer Paniko, entrambi co-fondatori del primo collettivo di Inoki, la Porzione Massiccia Crew.
In seguito forma anche la Flick Flack Mobb con Joe Cassano e nel 1998 partecipa a Giorno e Notte, brano presente in Novecinquanta di Fritz da Cat e nell’album postumo di Joe Cassano. Nello stesso anno viene pubblicato il primo mixtape della Porzione Massiccia Crew, Demolizione 1, e solo nel 2001 vede la luce il suo primo disco solista autoprodotto, 5° Dan.
Nel 2004 La Porzione Massiccia Crew collabora con i Club Dogo per il mixtape PMC VS Club Dogo – The official mixtape, e nello stesso anno Fabiano è il conduttore del programma RAI Hip Hop Generation.
Nel 2005 esce il suo secondo disco, quello della maturità artistica: Fabiano detto Inoki, con produzioni di Shablo, Dj Shocca e Don Joe, e ospiti come i Club Dogo. Poco dopo collabora con Shablo per The NewKingzTape Vol. 2, un mixtape composto da 29 tracce e ricco di ospiti di rilievo come Gué Pequeno, Co’Sang, Bassi Maestro e One Mic.
Nel 2007 esce Nobiltà di strada, primo disco per la Warner Music Italy, che complice una buona campagna marketing -la circolazione della versione non definitiva di un singolo- e l’aiuto dell’emittente televisiva MTV, riesce a raggiungere un buon successo a livello nazionale.
Negli anni successivi, scaduto il contratto con la Warner, torna all’autoproduzione: tra le varie attività spiccano il mixtape Pugni in faccia, con Mad Dopa, la partecipazione in Profondo Rosso degli Assalti Frontali e la creazione dell’etichetta indipendente Rap Pirata.
Nello stesso periodo conduce una critica contro l’industria musicale italiana e inizia dei dissing con alcuni rapper rei, a suo avviso, di essersi venduti alle major. Tra questi spiccano Gué Pequeno, SalmoMarracash e Fedez.
Nel febbraio 2014 esce L’antidoto, un disco sperimentale con forti critiche verso il consumismo e la superficialità della società contemporanea, mentre nel 2016 esce il mixtape Basso profilo – The Mixtape.
Nel 2018 compare in Don, album di Vacca, e nel disco d’esordio di L’Elfo, Gipsy Prince. Nel 2019 collabora con En?gma nel suo disco Booriana per la traccia Apatia.
Il 13 marzo 2020 esce Trema, singolo prodotto da Stabber che preannuncia un nuovo disco in uscita per Asian Fake.