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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Lo straordinario concerto di Fatoumata Diawara

La fantastica Fatoumata Diawara

Fatou è magica.

Fatou è eclettica.

Fatou è magnetica.

Fatou è carismatica.

Fatou è Fatoumata Diawarala cantautrice del Mali, che giovedì 7 settembre ha aperto la seconda parte di “Ferrara sotto le stelle”, una rassegna musicale fra le più longeve in Italia dove, negli anni, si sono esibiti fior fiore di artisti.

Fatoumata ha incantato da subito il pubblico presente con la sua presenza scenica, il suo stile, la sua bellezza, il suo canto e la sua musica che mescola sapientemente i suoni delle radici africane con quelli del mondo, soprattutto blues, jazz, reggae, funky, rock, beat.

Insieme al gruppo che l’ha accompagnata ha creato un’atmosfera allo stesso tempo gioiosa ed intima, energetica e spirituale

Durante la serata ha presentato quasi tutti i brani dal suo ultimo bellissimo album “London Ko”: Tolon, Somaw, Mogokan, Sètè, Dambe, Yada, Netara, Nsera, Massa Den e la strepitosa Blues.

Oltre a questi ha eseguito Mousso Seguen, dall’album Fatou, una originalissima versione di Feeling Good di Nina Simone e Anisou.

Nel titolo del suo ultimo disco, oltre al nome della città inglese c’è un richiamo al nome della capitale del Mali: Bamako, quasi a voler sottolineare la sua scelta di creare una sorta di ponte che parte dalla musica tradizionale e arriva ad incontrare le sonorità delle avanguardie europee.

I brani di Fatoumata Diawara sono cantati soprattutto nella lingua “bambara” parlata dall’80% della popolazione del Mali e parlano di temi universali come il rispetto, l’emancipazione, la pace ma anche di problemi riguardanti l’Africa, come ad esempio: l’infibulazione, i bambini soldato, la schiavitù, i matrimoni combinati che costringono le bambine a sposare maschi adulti contro la propria volontà, i bambini dati in affidamento ad altre famiglie.

Spesso ha introdotto le sue canzoni parlando al pubblico ed insistendo sull’impegno per cambiare il presente in modo che il futuro sia migliore.

Ha sottolineato la sua fiducia nelle nuove generazioni perché le considera pronte per il cambiamento.

Diverse volte ha gridato che l’Africa è la culla del mondo quindi tutti noi siamo figli di quel continente perché è lì che si è sviluppata la civiltà umana.

Il pubblico ha ascoltato, ha ballato, ha cantato, ha applaudito; è come se avesse partecipato ad una specie di rito collettivo in cui Fatoumata, come una sciamana, ha trasportato magicamente ciascuno di noi in un’atmosfera immateriale che è stata davvero bellissima, corroborante e potente.

Un concerto che definirei addirittura terapeutico.

L’esibizione di Fatoumara Diawara è stata preceduta da un set della cantante Emma Nolde che, accompagnandosi con la chitarra elettrica, ha stupito i presenti con una voce davvero unica ed interpretazioni molto intense dal punto di vista espressivo che hanno dato uno spessore particolare ai suoi testi originali.

Emma Nolde

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

Presto di mattina /
Sul mondo, pane spezzato e vino versato

Presto di mattina. Sul mondo, pane spezzato e vino versato

Mongolia

In questi giorni, pensando al viaggio di papa Francesco in Mongolia, mi veniva spesso in mente il deserto dei Gobi e l’altopiano degli Ordos nella Mongoglia occidentale. Luoghi che ho conosciuto per il tramite delle lettere di viaggio di padre Pierre Teilhard de Chardin, esploratore, paleontologo e geologo in Cina dal 1923 al 1946, dove le sue ricerche contribuirono alla scoperta, nel sito di Chou Kou Tien, del sinantropo, l’uomo di Pechino della specie Homo erectus vissuto circa 400.000 anni fa.

Una lunga frequentazione dei suoi testi, continuamente intrecciati da visioni ardenti e da un sentire mistico e poetico, ha accompagnato e arricchito il mio itinerario umano, spirituale e pastorale, portandomi a comprendere e a vivere sempre più la liturgia cristiana come una liturgia cosmica, tanto da celebrare l’eucaristia, la messa come la celebrava lui “sul mondo”, in quelle sterminate e solitarie steppe dell’Asia: senza pane e senza vino.

Ma non mi sarei mai aspettato che domenica scorsa, terminata la messa a Santa Francesca, mi arrivasse un messaggio di WhatsApp che diceva brevemente: “Sarai contento per la messa sul mondo di padre Teilhard ricordata dal papa in Mongolia! Un abbraccio L.”. Come caduto dalle nuvole ho risposto senza sapere e senza pensarci, improvvisando la prima parola che mi venne: “Contentissimo”.

Non ho né pane, né vino, né altare

Poi con calma nel sito www.vatican.va ho cercato il ringraziamento di papa Francesco fatto dopo l’omelia alle “Steppe Arena” (Ulaanbaatar), domenica 3 settembre 2023:

«La Messa è azione di grazie, “Eucaristia”. Celebrarla in questa terra mi ha fatto ricordare la preghiera del padre gesuita Pierre Teilhard de Chardin, elevata a Dio esattamente 100 anni fa, nel deserto di Ordos, non molto lontano da qui. Dice così: “Mi prostro, o Signore, dinanzi alla tua Presenza nell’Universo diventato ardente e, sotto le sembianze di tutto ciò che incontrerò, e di tutto ciò che mi accadrà, e di tutto ciò che realizzerò in questo giorno, io Ti desidero, io Ti attendo”.

Padre Teilhard era impegnato in ricerche geologiche. Desiderava ardentemente celebrare la Santa Messa, ma non aveva con sé né pane né vino. Ecco, allora, che compose la sua “Messa sul mondo”, esprimendo così la sua offerta: “Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla tua attrazione, presenta a Te nell’alba nuova”. E una preghiera simile era già nata in lui mentre si trovava al fronte durante la Prima guerra mondiale, dove operava come barelliere.

Questo sacerdote, spesso incompreso, aveva intuito che “l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso – in un certo senso –, sull’altare del mondo “ed è “il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile” (Enc. Laudato si’, 236), anche in un tempo come il nostro di tensioni e di guerre.

Preghiamo, dunque, oggi con le parole di padre Teilhard: “Verbo sfavillante, Potenza ardente, o Tu che plasmi il molteplice per infondergli la tua Vita, abbassa su di noi, Te ne supplico, le tue Mani potenti, le tue Mani premurose, le tue Mani onnipresenti”. Fratelli e sorelle della Mongolia, grazie per la vostra testimonianza, bayarlalaa! [grazie!]. Dio vi benedica. Siete nel mio cuore e nel mio cuore rimarrete. Ricordatemi, per favore, nelle vostre preghiere e nei vostri pensieri. Grazie».

Sono testi quelli di Teilhard sempre presenti in me, parole dormienti che tuttavia si risvegliano, fioriscono di tanto in tanto soprattutto nei momenti faticosi come i fiori di un Calicantus profumato nel cuore dell’inverno − piccoli soli, profeti di luce futura − oppure quando silenziosamente mi sorprende il chiarore dell’alba o sopravviene vestito del suo splendore infuocato il tramonto al declinare del giorno.

La messa sul mondo

Poiché ancora una volta, o Signore,
sono senza pane, senza vino, senza altare,
mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale;
e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale,
il lavoro e la pena del Mondo.
Lì in fondo, il sole appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo
del primo Oriente.
Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme,
la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio.
Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica
e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti.
Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta
alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra,
si eleveranno e convergeranno nello Spirito.
Vengano pertanto a me
il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata.
(Inno dell’universo, Queriniana, Brescia 1992, 9).

Con questa preghiera Teilhard ha fatto rivivere il mistero della sua fede dentro il cuore impazzito, lacerato del mondo in guerra fin dentro le trincee, nella carneficina della battaglia di Verdun durata dieci mesi, dal 21 febbraio 1916 al 19 dicembre 1916.

Così egli celebrava la messa sul mondo anche senza il pane e il vino, ma mai senza tutto lo sforzo e il patire della creazione, nel confliggere dei popoli, delle genti. E soprattutto mai senza il sacrificio e la pienezza del Cristo, quello della sua umanità trafitta, offertasi nell’umanità di ogni uomo e ogni donna, in ogni vagito e in ogni grido, o rantolo di morente; in ogni fibra dell’universo, in ogni vivente che nasca o che gioisca, che soffra o che muoia.

La messa sulle cose

Giunto nel deserto degli Ordos nel 1923 egli scrive: «Un po’ troppo assorto nella scienza per dedicare molto tempo alla filosofia, ma quando discendo in me stesso, sono sempre più intimamente persuaso che in ogni cosa ha valore solo la scienza del Cristo, ossia la vera scienza mistica.

Una volta tornato alla geologia, mi lascio riprendere dal gioco. Ma ogni minima riflessione mi mostra limpidamente che questa attività (vitale per me quanto più fa corpo col “gesto intero” della mia vita) non ha in sé nessun interesse definitivo.

Continuo ad elaborare a poco a poco, e un po’ meglio, la mia “messa sulle cose” nella preghiera. In un certo senso mi pare che la vera sostanza da consacrare ogni giorno è l’accrescimento del mondo per quel giorno, – essendo il pane buon simbolo di ciò che la Creazione riesce a produrre, e il vino (sangue) di ciò ch’essa fa perdere in fatica e in sofferenza nel proprio sforzo» (Lettere di viaggio, [LV] Saokiaopan [Ordos sud-est], 26 agosto 1923, 26-27).

La sua “Messa sulle Cose” è allora da considerarsi come un nucleo testuale multiforme, in divenire e sempre in trasformazione, perché in permanente relazione temporale all’evento dell’altare, alimentato a quel focolaio ardente che per lui fu la celebrazione eucaristica quotidiana.

La sua messa, che egli “approfondisce e rielabora senza sosta”, è pure testo dai “molti nomi” conosciuti – Il Sacerdote (1918), La Messa sul Mondo (1923), Il Sacramento del Mondo (1934) – o anonimi, perché rifusi, amalgamati nell’intreccio con gli altri testi, come filo rosso ad essi trasversale e loro segreto ordito: «Se avrò il tempo, – scrive nel 1929 – ne scriverò, il prossimo autunno, l’ennesima stesura. Penso che adesso essa si avvicini alla perfezione massima che sono in grado di darle» (Lettere a Léontine Zanta, 23 agosto 1929, 135).

Teilhard ha aperto una nuova prospettiva per declinare il mistero eucaristico. Mediante la riscoperta delle estensioni fisiche e reali della presenza eucaristica, nello spazio e nel tempo della esperienza credente, ritrova “il posto fondamentale dell’Eucaristia nell’economia del mondo” (cfr.: Il mio Universo (1924), in Scienza e Cristo, 92-93).

Questa “messa” sentita come irradiazione della presenza eucaristica nel cosmo, attivatrice della sua cosmogenesi, è pure generativa nella storia di una itineranza per le vie del mondo: una cristogenesi. Non si sta chiusi in chiesa, ma si si esce come lui all’incontro con le genti. Una messa che continua così ad essere celebrata nella vita, intrecciando le storie delle persone, strada facendo con loro, spezzando il pane e offrendo il calice della benedizione, il gioire e il patire della propria vita.

Il deserto sorride, fiorisce, profuma

Suggestive sono pure le descrizioni dell’ambiente circostante:

«Attraverso interminabili alture rivestite di odorose artemisie, di liquirizie a foglie di acacia, di esedre che hanno steli di equiseti e frutti a forma di lampone, abbiamo raggiunto l’angolo sud–est dell’Ordos, mèta definitiva del viaggio. Ancora una volta la nostra tenda è piantata in mezzo al deserto in una cerchia di dirupi terrosi. Ma qui il deserto sorride, e i dirupi sono grigi, gialli e verdi anziché bianchi e rossi.

Siamo accampati in fondo al cañon tortuoso, ritagliato a 80 metri di profondità, in piena steppa, dallo Chara-usso-gol, le cui acque di limpido fango rumoreggiano accanto a noi sopra una barriera di pietre… Per tutto un mese prolungheremo il nostro soggiorno sulle rive dello Chara-usso-gol fiorite di ginestre color lilla e di una specie di lavanda a spighe di un azzurro profondo che i mongoli chiamano con termine scorretto ma grazioso l’artemisia degli “argali”.

Fra le dune, le fitte piantine di un piccolo aglio a fiori rosa stendono un tappeto marezzato simile a quello che, in questa stagione, rallegra, a quanto dicono, la tristezza del Gobi. Tutto ciò manda un buon profumo e splende gioiosamente nella calda luce. La steppa è una vera bellezza sotto il suo fugace travestimento negli ultimi giorni d’estate» (LV, Agosto 1923, 36-38).

La terra, carne ferita, umanità in cammino

Ed anche: «Noi altri geologi, venuti qui come nell’Ordos in cerca delle “Cattive Terre,” (detto di vastissime zone di terreni argilloso-sabbiosi che, in seguito alla forte erosione delle acque, prendono forme tormentate e instabili) non ci lasciamo sedurre dalla comoda pace dei campi mollemente ondulati. Ci immergiamo, invece, nelle crepe più profonde della montagna, quelle dove la terra rossa appare, come una carne ferita, sotto gli spessi strati grigi.

Là biancheggiano le ossa dei rinoceronti, delle giraffe, delle antilopi, che durante il Miocene (da 23 a 5 milioni di anni fa) erravano qui come oggi galoppano nelle praterie tropicali dell’Africa. Anche là, sotto le alte muraglie di loess, sono disseminate le vestigia dell’uomo i cui occhi han guardato la Cina prima che essa indossasse la sua veste di terra gialla.

Ma già nei campi anneriscono la spiga dolcemente curva del miglio e la pesante e rigida granata delle saggine. L’autunno e il freddo stanno per scendere sugli altipiani dell’Asia. Per i viandanti è il momento di tornare nelle più miti pianure della Cina orientale…

Pellegrino dell’avvenire, torno da un viaggio compiuto interamente nel passato. Ma, visto in un certo modo, può il passato trasformarsi in avvenire? Una coscienza più estesa di ciò che è e di ciò che fu, non è la base essenziale per ogni progresso spirituale? L’intera mia vita di paleontologo non è forse confortata dall’unica speranza di contribuire ad un cammino in avanti? …

Convinto che l’unica scienza consista nello scoprire, la crescita dell’universo, io mi inquietavo per aver visto soltanto, durante questo viaggio, le tracce di un mondo dissolto. Ma perché questa inquietudine? Il solco lasciato alle spalle dall’umanità in cammino non ci rivela forse il suo movimento allo stesso modo della schiuma che si solleva sul filo della prua dei popoli?» (LV, settembre, ottobre 1923, 39; 42-43).

In quel vuoto e in quel silenzio, in quelle terre rovistate, erose dal vento e scavate dall’acqua, terre ferite riempite di polvere e detriti, il “Dio ignoto” annunciato da Paolo all’Areopago di Atene dimora anche lì sotto le tende, le yurte dei nomadi della Mongolia.

Gli “obo muti” testimoni della sacralità in ogni cosa

Ma non è sempre stato così fin dai tempi di Abramo? Anche qui in laboriosa attesa, in questo deserto ancor prima, fin dall’inizio dei tempi. A questo fanno pensare pure le descrizioni di quei manufatti di culto, “obo muti” (ovoo/oboo in mongolo) li chiama Teilhard, mucchi di pietre sormontati da fascine e pertiche, «altari sempre deserti disseminati nella solitudine […] misteriosi, selvaggi, impressionanti», simboli che testimoniano della sacralità del luogo, accumulati dai viandanti come segno di devozione e preghiera, ma anche come punto di riferimento per orientarsi durante il viaggio.

«A intervalli qualche convento di lama e su ogni punta rocciosa notevoli mucchi di pietre chiamati obo (al tempo stesso altare e punto di riferimento stradale), dove, passando, il fedele mongolo aggiunge una pietra. A un chilometro dal campo uno di questi obo, completo e complicato, conta una decina di mucchi di pietre sormontati ciascuno da una fascina che il vento dell’ovest ha piegato, come la fiamma di una torcia.

Questi simboli muti, questi altari sempre deserti disseminati nella solitudine, son davvero misteriosi, selvaggi, impressionanti. […] È la settimana di Pentecoste, mi piace pensare che lo “Spirito di Cristo” ha riempito la terra … come la Chiesa ripete in questi giorni» (LV, 10.6.1924, 57; 30.6.1924, 59).

La messa sul mondo continua ad essere celebrata anche oggi, concretamente o anche solo mentalmente, nei luoghi più disparati: persino in quelle situazioni umanamente ai margini, o umilianti e disfacenti come gli abbandoni e le guerre.

Così anch’io continuo a celebrare la messa sul mondo anche fuori delle mura di una chiesa come padre Teilhard. Una Messa celebrata segretamente nei luoghi più dimenticati e desolati, andando per strada, per le piazze, negli ospedali, ma pure sempre segnati dall’umano passaggio e dalla religiosa ricerca di un Dio ignoto, che abita il cuore di ogni uomo e che si accompagna straniero a ogni viandante pellegrino dell’assoluto.

Il Cristo sempre più grande

Invocato «tra eterni venti polverosi, sui fiori bianchi, sotto un Cielo blu» (LV 15 aprile 1929, fonte Claude Cuenot, L’evoluzione di Teilhard de Chardin, Milano 1962), il Cristo con la sua incarnazione è così associato a tutte le potenze ed alle forze che fanno crescere o diminuire la terra, nascosto tra le pieghe dei suoi sviluppi e delle sue diminuzioni. È misteriosamente presente, “latens Deitas”, in ogni passività e attività che intreccia la vita.

«A destra, press’a poco alla stessa distanza, un rosario di cinque o sei nor anche più grandi. Alle mie spalle la linea di montagne verdi che attraverseremo domani. E, finalmente, tutt’intorno, una collina erbosa, coperta di vecchi olmi contorti disseminati come i meli di un prato per una decina di chilometri quadrati. E poi, neppure un’anima viva, niente rumori.

Tre grandi obo muti col loro cumulo di fascine e di pertiche, erano testimoni del carattere sacro del luogo. Qui io ho offerto al Cristo il mondo della Mongolia: nessuno, senza dubbio, l’aveva mai invocato in questa regione interamente estranea all’influenza dei missionari.

Meno maestosi, ma di una più penetrante poesia, sono i laghetti o nor, addormentati in una cerchia di colline, dove gru, cigni, oche, trampolieri e belle anitre con splendidi colori nidificano e nuotano con quasi la stessa disinvoltura degli uccelli dei giardini pubblici. Ancora ieri la nostra tenda era piantata sulle rive di uno di questi nor.

La sera è stata deliziosa (evento piuttosto raro in questo paese dal clima tempestoso, dove 48 ore non passano senza burrasche o senza temporali). Io guardavo tramontare il sole su immense groppe basse e lisce che chiudevano l’orizzonte. Nel cielo dorato, una grossa nuvola nera, isolata, lasciava bizzarramente cadere una pioggia violetta» (LV, 59-60).

Al cuore della Materia una preghiera

Signore della mia infanzia e Signore della mia fine,
– Dio compiuto in Sé, eppure, per noi, mai finito di nascere,
– Dio che presentandoTi alla nostra adorazione quale ‘evolutore ed evolutivo’,
sei ormai l’unico che possa soddisfarci,
– disperdi finalmente tutte le nuvole che Ti nascondono ancora,
– sia quelle dei pregiudizi ostili che quelle delle false credenze.
E, per Diafania ed Incendio ad un tempo, erompa la tua universale Presenza.
O Cristo sempre più grande!»
(Il Cuore della Materia [1950], 47).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Chi sono le Sentinelle Ambientali?

Mugello: chi sono le Sentinelle Ambientali?

Essere cittadini consapevoli e responsabili non è cosa facile nel nostro Belpaese! E’ risaputo che quand’anche le leggi ambientali e la legge fondamentale dello Stato Italiano, la Costituzione della Repubblica, sono dalla  parte dell’ambiente e del cittadino, esercitare il proprio diritto/dovere non è così scontato; le Sentinelle Ambientali dell’Appennino mugellano ne sono testimoni.

Non tutti sanno che il decreto legislativo 152/2006, testo unico ambientale, ha come obiettivo primario la promozione dei livelli di qualità (Vedi qui)

La qualità della vita non è legata principalmente all’avere a disposizione grandi quantità di beni da consumare e forme di divertimento e intrattenimento sempre diversi e molto dispendiosi in tutti i sensi, anche dal punto di vista ambientale. A questo sistema di cose ci ha condotto e abituato l’interesse di pochi capitalisti (profitto), detta semplicemente, promuovendo forme di consumismo sfrenato. Per motivi d’interesse privato e finanziario e diversamente da qualsiasi interesse pubblico, la gran parte dei politici italiani da tempo è impegnata in un sempre più intenso “uso consumistico” del suolo e del territorio, non solo riempiendo le città e le periferie di cemento superfluo con supermercati, ipermercati, outlet  ecc.  del tutto inutili,  ma anche promuovendo e, purtroppo, spesso anche  realizzando opere imponenti, inutili e dannose per i cittadini come  inceneritori (termovalorizzatori), impianti termici alimentati a biomasse, impianti industriali eolici e impianti fotovoltaici a terra ecc.. con la scusa di produrre “energia pulita”, impegnando grandi quantità di denaro e di risorse che, di conseguenza,  smuovono interessi molto molto forti.

Ciò accade perché si pensa all’energia con lo stesso criterio con cui si pensa a un bene di consumo, senza alcuna programmazione intelligente che guardi al futuro: si prevede di consumarne sempre di più, senza un limite ragionevole, pertanto se ne vuole produrre sempre di più, senza minimamente andare a diminuire le forme di produzione più inquinanti, cioè quelle da fonti fossili, così nell’Unione Europea, così in Italia (qui)  Nonostante la propaganda dei vari governi succedutisi negli ultimi anni abbia sempre sostenuto il contrario.

Questa pseudo-transizione energetica va avanti anche a costo di sacrificare i paesaggi più belli, i fiumi e torrenti più ricchi di acqua e di vita, gli ecosistemi naturali  la cui  biodiversità rappresenta, quella sì, un bene comune di cui tutti devono poter  godere e beneficiare, in particolare le comunità locali cresciute accanto, ora e nel futuro.

Proprio di recente la tutela di questi ambienti e della biodiversità è diventata principio fondamentale della Costituzione italiana con la modifica dell’art. 9 a cura del Parlamento (qui). Ancora, il comma 3 di questo  articolo prevede che tutti gli enti  (della Repubblica) abbiano a cuore “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”: cioè  per la prima volta detta un criterio generale di azione dei pubblici poteri improntato alla protezione dell’ambiente anche nell’interesse dei pronipoti. L’art. 41 al secondo comma  definisce inoltre un limite al ruolo dei privati e in particolare all’iniziativa economica privata (leggi: produttiva industriale, agricola, commerciale, ecc.): “l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno, oltre che alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, altresì alla salute  e all’ambiente”. (qui)

Ecco il perché delle Sentinelle Ambientali. C’è bisogno che i cittadini prendano in mano il loro destino e quello del territorio in cui vivono vigilando a loro volta che il paesaggio, il suolo, la biodiversità, insomma l’ambiente in cui vivono sia difeso e tutelato come la legge ambientale e la Costituzione prevedono.

E di questo diritto/dovere tutti i cittadini sono investiti secondo l’art. 3-ter del D. Lgs.152/2006 “principio dell’azione ambientale”  che recita:

La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, non che’ al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale.”

Mugello, il cantiere dei saggi geologici da cui hanno preso origine i rifiuti abbandonati dalla ditta Albanese Perforazioni che ha svolto le indagini geologiche sul crinale del Monte Giogo di Villore per conto di AGSM-AIM, proponente e realizzatrice responsabile dell’impianto Eolico Industriale. (Foto delle Sentinelle Ambientali)

Oltre a prevedere l’applicazione di due principi importantissimi e spesso negletti dalle imprese: il principio di precauzione e quello della prevenzione dei danni causati all’ambiente, questo articolo prevede che la garanzia della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali si attui anche da parte di singoli cittadini (persone fisiche private).
Da qui  discende il diritto/dovere delle cittadine e dei cittadini a farsi “sentinelle ambientali” preposte all’azione di segnalazione di abusi e/o inquinamenti presso le pubbliche autorità competenti che provvederanno eventualmente all’accertamento effettivo delle violazioni, ma che non possono essere sempre ed ovunque a vigilare su tutto il territorio di competenza, in tutti i cantieri aperti, in particolar modo in quelli situati in zone di montagna, più difficilmente accessibili, anche perché sono state ridotte in numero e in mezzi necessari e indispensabili all’espletamento delle loro attività. Per maggiore chiarezza ricordiamo che le eventuali segnalazioni fatte dalle cosiddette “Sentinelle Ambientali” non sono altro che un diritto/dovere che viene esercitato da cittadini informati che vogliono proteggere il loro territorio da abusi  e inquinamenti come la legge ambientale prevede, cioè con una finalità di pubblica utilità.

Chiarito questo ci chiediamo: perché in Mugello ci sono imprese che si ostinano a voler sapere i nomi delle persone fisiche che fanno tali segnalazioni? Quale sarebbe la loro finalità? Certamente non è una finalità di pubblica utilità! E allora quale sarà la loro finalità?

Lasciamo aperta la risposta alla fervida inventiva e immaginazione dei lettori!

Con rispetto per l’ambiente e con tanto affetto per il territorio

Crinali Liberi

In copertina: Mugello, Cantiere per impianto Eolico Industriale, il macchinario per i carotaggi con residui di argilla bentonite e olio minerali inquinanti sparsi tutto intorno. (Foto delle Sentinelle Ambientali)

Storie in pellicola /
“Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo”, omaggio all’amicizia

Un cortometraggio animato che è un tenero racconto di un’amicizia tra un bambino e i suoi compagni di viaggio animali

“Cosa vuoi fare da grande? Essere gentile”.

Ispirato al celebre libro dell’illustratore britannico Charlie Mackesy, “Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo”, in Italia edito da Salani, l’omonimo pluripremiato cortometraggio, vincitore del Premio Oscar 2023 nella sua categoria, è da qualche mese visibile sul piccolo schermo. Per la precisione dallo scorso giorno di Natale e su Apple TV+. Una favola senza tempo.

Coprodotto dalla BBC e diretto da Peter Baynton e lo stesso Charlie Mackesy, il corto (un comfort movie che, in realtà, dura 35 minuti) vede come suoi protagonisti gli stessi delle bellissime tavole originali: un bambino curioso, una vitale talpa golosa di torte (la sua ossessione), una volpe guardinga e un cavallo saggio e gentile.

Il bimbo smarrito cerca una casa, non ricorda come era fatta.

Ecco che allora, insieme, i quattro esplorano il mondo nel corso di un viaggio che li porterà ad attraversare luoghi impervi, tempeste e ostacoli che ne rafforzeranno l’amicizia.

Con, sullo sfondo, paesaggi degni di una fiaba incantata, disegni fatti a mano, dove il bianco candido della neve si colora a seconda del momento della giornata: si accende di rosa e di arancio all’alba e al tramonto e diventa blu scuro quando cala la notte.

Coraggio, amore, empatia, gentilezza, generosità compassione e coraggio che tutti avvolgono sono accompagnati dalla colonna sonora firmata dalla compositrice Isobel Waller-Bridge, eseguita dalla BBC Concert Orchestra e diretta da Geoff Alexander.

I doppiatori hanno voci profonde che sussurrano verità: Idris Elba/Alberto Angrisano (la Volpe), Gabriel Byrne/Luca Biagini (il Cavallo), Tom Hollander/Francesco Bulckaen (la Talpa) e Jude Coward Nicol/ Davide Tatoli (il bambino).

Pura poesia per immagini. Perché, anche se piccoli, possiamo fare la differenza.

Una profonda, commovente e potente riflessione su ciò che conta, realmente, nella vita, imparando, nel frattempo, ad amare ed essere amati. Per tutti, ovunque.

“Chiedere aiuto non è mai un segno di resa, anzi vuol dire proprio che non ci si vuole arrendere”

Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo (The Boy, the Mole, the Fox and the Horse), di Peter Baynton e Charlie Mackesy, 2022, 35 mn.

Quando arrivo a Mantova è subito Festivaletteratura

Quando arrivo a Mantova è subito Festivaletteratura.
Maria ed io attendiamo di fare il check in in albergo e chi è davanti a noi chiede la cartina della città per raggiungere la Tenda Sordello. Noi lo sappiamo e ci intrufoliamo nella conversazione. Poi, in Piazza Leon Battista Alberti c’è Costanza a darci la borsina di stoffa del Festival e il badge della stampa. Che delizia avere il salvacondotto per gli eventi a cui assistere. Si galoppa a sentire Alice Bigli che parla di educazione alla lettura, si rivolge ai ragazzi e dice meravigliosamente le cose che anche Maria ed io abbiamo imparato insegnando la lettura e la letteratura nel nostro amato Liceo. È la nostra frontiera, Alice Bigli, e quando spiega come ha dato inizio a “Un mare di libri” diventa una maestra.
Il Festival è Viola, che poco fa ci ha accompagnate in Piazza Broletto a vedere la postazione di Area 6, lo spazio gestito dagli under 20. Viola ci spiega che i dibattiti per la edizione 2023 ruotano attorno a tre parole chiave: cittadinanza, scuola, genere. Niente male questi ragazzi, e già pensano al prossimo anno. Il Festival ora è la trattoria da Giannino, dove assaggiare i cappellacci alla mantovana. Un vero viatico in attesa di galoppare nel pomeriggio e stasera verso gli eventi che ci aspettano.

Nota:
Roberta Barbieri e Maria Calabrese sono a Mantova, inviate di Periscopio al Festivaletteratura 2023. Tutta la redazione le invidia.

In copertina: Alice Bigli al dibattito al Festivaletteratura 2023 (foto di Roberta Barbieri)

Ferrara ha bisogno di un candidato sindaco, ma non così e non adesso!

Fra nove mesi esatti Ferrara andrà a votare per scegliere il suo governo e il suo sindaco.
Nove mesi (per l’esattezza 270 giorni) sono tanti ma sono anche pochi.
Appare già chiaro che alle elezioni di giugno si confronteranno e scontreranno, speriamo civilmente, due schieramenti contrapposti. Con quali idee e programmi? Se sappiamo bene la Ferrara che ha in testa la maggioranza attuale, non conosciamo ancora nulla della “idea di Ferrara” che l’opposizione proporrà agli elettori.

Il compito della maggioranza

La maggioranza attuale ha il compito più semplice. Chiederà ai ferraresi di ripetere nel prossimo quinquennio l’esperienza fatta. Di prolungare un governo all’insegna della smemoratezza, dove il disagio e le difficoltà dei giovani, degli anziani soli, delle famiglie povere non trovano posto nell’agenda politica.  Di proseguire la “scintillante” politica di consumo culturale: invadendo le piazze storiche, moltiplicando le luci, gli spettacoli, le feste dove si beve e si mangia, e promuovendo quel turismo mordi e fuggi che non lascia nulla alla città e alla sua economia (infatti non piace nemmeno ai commercianti, anche se lo dicono solo sottovoce).

Che altro ancora può offrire la Destra? Ora che il folle maxiprogetto cementizio, il famigerato Fe.ris., è stato prima travolto, quindi seppellito, da una rivolta popolare, difficilmente potrà risorgere sotto mutate spoglie, checché ne dica il Sindaco Fabbri.

Alla fine rimane sempre la sicurezza, il cavallo di battaglia di Naomo & company, perché è proprio con lo slogan “la città sicura” che la Destra era riuscita a prevalere su uno stanco e afasico Centrosinistra. Ebbene, di questa città sicura oggi non si vede traccia. Si sono moltiplicati i lucchetti e i cancelli, è arrivato pure l’esercito, ma il fallimento della politica repressiva di Lega e Fratelli d’Italia è sotto gli occhi di tutti. Oggi i cittadini di Ferrara sono meno sicuri di quattro anni fa:  basterebbero per confermarlo i recenti fatti di cronaca nera che hanno insanguinato Ferrara.

Il cammino dell’opposizione

Per l’opposizione – meglio dire, per le varie opposizioni e formazioni del cosiddetto Centrosinistra –  il cammino sarà molto più difficile. Un percorso che prevede 3 tappe ineludibili, tre gradini da scalare, uno dopo l’altro, pena un’altra sonora sconfitta. Quali siano questi tre scalini è presto detto.
Primo. Elaborare una nuova idea di città e di governo, un programma capace di interpretare i bisogni e i desideri dei cittadini, che non punti al ritorno al passato (sarebbe un vero suicidio) ma indichi una reale alternativa: nuovi obiettivi e nuove forme di democrazia.

Secondo. Trovare una sintesi tra le varie formazioni politiche che affollano il panorama locale , e varare un programma comune, o perlomeno un elenco chiaro di priorità e di obiettivi che si propone di raggiungere nei prossimi cinque anni.. Perchè senza unità – o tutti con un’unica lista o con più liste alleate – sarà impossibile vincere. Anche perché la Destra ha dimostrato (a livello nazionale come a livello locale) di saper stare insieme e di presentarsi unita davanti agli elettori.

Terzo gradino. Occorre individuare un candidato (uomo o donna) comune, che questa volta – tutti i partiti lo dicono e lo ripetono da mesi – non dovrà provenire dall’apparato di partito, ma essere “espressione della società civile ferrarese”.  Ma cosa significa esattamente? L’espressione è sicuramente condivisibile, ma è terribilmente vaga. Vuol dire, per caso, pescare dal mazzo un candidato qualsiasi basta che vada bene a tutti i partiti, o il candidato più simpatico, o il più famoso? O invece – e solo questo mi pare possa intendersi come “espressione della società civile” – un candidato o una candidata che esca autonomamente dalle fila del grande laboratorio di idee che anima da oltre un anno la società ferrarese, una persona che ha partecipato a questo lavoro di popolo, dando il suo contributo di competenza, di idee innovative, di passione civica?

Un errore imperdonabile ma rimediabile. Si spera

Dunque i tre gradini. Uno alla volta. E prima di tutto: l’ascolto, il confronto, le idee, il programma di governo per il prossimo quinquennio.
E non sto esprimendo una mia pia speranza, è quello che il Partito Democratico, i 5 Stelle, Sinistra italiana e tutte le altre isole o isolette dell’arcipelago del Centrosinistra ci ripetono dalla primavera scorsa in avanti.

“Faremo il tavolo delle Opposizioni”.  L’idea non era neanche male, ma dopo una riunione di assaggio prima dell’estate, il tavolone è sparito dai radar.
“Apriremo un grande confronto con i cittadini”. 
Ascolteremo le loro idee, li faremo partecipare alla elaborazione del programma. Ma dove, in che modo? Con qualche botta e risposta alla Festa dell’Unità? O quando il programma sarà già bell’è fatto e controfirmato dai 7 o 8  segretari di partito? 
La grande preoccupazione dei partiti di opposizione sembra tutt’altra. La solita di sempre: il totonomi – imbroccare il cavallo vincente da mettere in corsa contro Alan Fabbri.  Nell’aria è tutto un brusio di nomi, che dai corridoi della politica arriva sulle pagine della stampa locale.

Ma in questi ultimi giorni è successo qualcosa di peggio. Arriva a Ferrara Ilaria Cucchi, senatrice eletta dai Verdi e Sinistra Italiana, va al Festival dell’Unità e lancia la candidatura di suo marito Fabio Anselmo, il noto legale dei casi Cucchi e Aldrovandi, un nome notoriamente in cima al listino del Partito Democratico di Ferrara. Il giorno dopo, il coordinatore provinciale dei 5 Stelle Paride Guidetti rompe gli indugi e indica ufficialmente il candidato del suo partito: “Fabio Anselmo – che definisce come il candidato del PD –  è la persona giusta per guidare la coalizione di opposizione”.

E i famosi 3 gradini? Dove sono finite le tre fasi da tutti diligentemente enunciate?  Si torna al metodo antico: prima il candidato, poi i contenuti, le idee, i programmi (vedremo quali) che verranno affidati in dote al candidato. Un metodo talmente antico che in questo caso ha un sapore quasi medievale. Un candidato indicato… dalla consorte… che appartiene a un partito (Verdi e Sinistra Italiana) diverso dal partito (5 Stelle) che candida ufficialmente il personaggio candidato ufficiosamente da un altro partito (il PD).

Poco può valere, l’imbarazzato distinguo che arriva un giorno più tardi dal Partito Democratico. La frittata è fatta e il campo del Centrosinistra si trova ora a un bivio. Vuole davvero cambiare metodo, oppure assisteremo ad un’investitura dall’alto di un candidato deciso nei retrobottega e imposto al popolo dei votanti, agli stessi militanti dei partiti (quelli rimasti) e alla beneamata e inascoltata società civile? Il copione lo conosciamo. E’ lo schema di quattro anni fa, e sappiamo tutti com’è andata a finire.
Ferrara e il popolo della sinistra ha bisogno d’altro, ai partiti, grandi e piccoli, basterà uscire dal recinto e guardarsi attorno: troveranno intelligenze, competenze, idee, programmi elaborati dall’impegno e dalle lotte di tanti cittadini ferraresi.
Da più di un professionista della politica ho sentito una bella frase: “Questa volta i partiti devono fare un passo indietro”. Fatelo.

In copertina: Fabio Anselmo e Ilaria Cucchi – foto da “Terlizzi viva”.

Parole a Capo /
Michele Carniel: “Alleata luna” e altre poesie

Nonostante la versatilità di questo strumento, nonostante la sua preziosa capacità di esplorare e approfondire le percezioni – per cui a volte esso rivela più di quanto fosse nelle intenzioni originarie e così arriva, nei casi più felici, a fondersi con le percezioni – ogni poeta più o meno esperto sa quante cose restino fuori o si siano dolorosamente modificate passando attraverso questo strumento”
( Iosif Brodskij)

Il fiume e le sue rughe,
un diluvio di canto
fanno del presente una sazietà,
si completano i vuoti.
Sanno di te le fragranze
d’un autunno anticipato,
ché a pensarci rischio la vita,
lo straripare dei sensi.
Si prende gioco di me il salice,
la chioma che precipita assetata
pone la vista ad un bivio,
come se d’un tratto vivessi altrove.

(Tratta da “La strategia del respiro“, Terra d’ulivi edizioni, 2023)

 

Osservo la matematica fallire
seguendo il volo delle ghiandaie,
parlo meno del silenzio
e ogni legge mi dà tregua.
Dal trono che il catasto mi concede
reggo faticosamente la tua lontananza
in quel preciso laggiù, ti vedo
prendi il posto delle betulle.
Se la voce non mi boicottasse, urlerei
ti trascinerei come fa il maestrale,
foglia dopo foglia
a denudare l’orizzonte.

(Tratta da “La strategia del respiro“, Terra d’ulivi edizioni, 2023)

 

Collezionare istanti
aiutare le mani a ricongiungersi
dall’ultima volta che piansero rosari
le preghiere inutili degli spaventati
la solita storia del comprimere i lutti
come si fa con le arterie in esubero
non ascoltando i rumori
non ascoltando le stanze.
Riuscire
sbattendo la porta
ad aiutare la crescita dell’io che ero
del tu che sei
del figlio mai nato che barcolla nei sogni
e divide le scelte in piccoli giorni
somiglianti agli occhi neri dell’eutanasia.
Scrivere ‘perdono’ col sangue dell’intonaco
soffermandosi sull’accento che determina il passo
l’uso che si fa della pioggia avanzata.

(Tratta da “La strategia del respiro“, Terra d’ulivi edizioni, 2023)

 

ALLEATA LUNA

Assumerò sogni disoccupati,
voragini di presenze,
per averti al mio fianco,
sempre.
Nelle stanze dove l’eco muore di vecchiaia
racchiuderò prospettive sorridenti
e nello spazio dove l’asfissia è in agguato
cospargerò l’azzurro avanzato dai cieli di ieri.
Non m’arrenderò nemmeno al maldestro tentativo
che la sera rispolvera quando viene messa spalle al muro,
giocando la carta di un buio ingordo,
poiché la luna (ampiezza d’amore) è con me.

(Tratta da “Tra il Piave e la luna”, Sillabe di sale editore, 2019)

 

Aggrappati ad un’idea di pioggia,
alla pietà trasmessa con la bocca
sulla pelle. Hai capito cosa sono?
(Non respirare se non te la senti).

Io sono l’aria frantumata sul vetro
una cicatrice annodata su piuma
la molecola del nulla che sanguina
su una rivolta composta di schiene.

(Respira. Non respirare. Respira)
Emerso tra il sudore delle gambe
ti aspetto con gli occhi, ti indico
un modo sano di morire. Intatta.

(Inedita)


Michele Carniel
, nato il 15 gennaio 1978 a San Donà di Piave, dove attualmente vive. Lavora come progettista navale a Marghera (Ve). Ad ottobre 2019 ha pubblicato per Sillabe di Sale editore la sua prima silloge “Tra il Piave e la luna”.
Nel 2020, tre sue poesie sono state selezionate per l’antologia di poeti contemporanei “Kairos” (CTL editore). In luglio 2023 ha pubblicato “La strategia del respiro” per Terra d’ulivi edizioni.
Entro al fine del 2023 uscirà un’antologia intitolata “Heroides” (Readaction edizioni) che lo vedrà tra gli autori.

LO SCAFFALE POETICO
Alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia. Buona ricerca poetica.

  • Vito Antonio Conte, Perse tra le carte, Luca Pensa Editore, 2020
  • Marcello ButtazzoNelle pieghe del rossoQuaderni del Bardo Edizioni, 2023
  • Rita GrecoLa gioia delle incompiute, Giuliano Ladolfi Editore, 2021

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LA DELIBERA REGIONALE SULLA VALUTAZIONE AMBIENTALE E TERRITORIALE NON VA BENE E VA RITIRATA

La Delibera Regionale  n.1407 del 7 agosto 2023 sulla Valutazione Ambientale e Territoriale segna un notevole arretramento sulle politiche e i controlli ambientali e deve essere ritirata.

da: Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna

Abbiamo visto la delibera di Giunta Regionale 1407 del 7 agosto 2023, dal titolo “Precisazioni in ordine ai compiti e ai contenuti della relazione istruttoria di ARPAE nell’ambito delle istruttorie di ValSAT di piani urbanistici”.
Se è vero che con essa non viene cancellata la VAS-ValSAT prevista dalla LR 24/2017, sicuramente però viene rivisto pesantemente il ruolo di ARPAE nel suo supporto alla attività istruttoria delle Province e della Città metropolitana di Bologna sui procedimenti dei piani urbanistici e territoriali e in particolare sui procedimenti di valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale (ValSAT). Quello che viene infatti modificato è il fatto che il parere di ARPAE non è più “dovuto” e soprattutto diventa oneroso e, se richiesto, dovrà essere oggetto di una specifica convenzione. In più, le stesse Province e la Città metropolitana, non devono più tener conto della valutazione, positiva o negativa, del parere istruttorio di ARPAE.

Il rischio reale e concreto è che da domani non ci sarà mai più nessuno che farà valutazioni perché abbiamo le Province che, se va bene, hanno un funzionario che si occupa di queste cose, non hanno più persone competenti per la parte ambientale (che sono finite tutte in ARPAE con “l’abolizione” delle Province), ma non hanno neanche le risorse economiche e non ce la fanno di conseguenza a smaltire le pratiche e le istruttorie ambientali e urbanistiche.

Comunque sia, c’è una questione preliminare, e cioè che si interviene su una legge semplicemente con una delibera di Giunta, fatto che si presta ad un serio dubbio di legittimità costituzionale, ma ancor più apre un problema politico, nel momento in cui si è deciso di non passare attraverso l’Assemblea legislativa regionale.

Nel merito, poi, non siamo in presenza della cancellazione della VAS-ValSAT, ma certamente di un suo serio depotenziamnento.

Con questo colpo di mano, la Giunta regionale compie un notevole arretramento sulle politiche e i controlli ambientali.
Dopo la vicenda dell’alluvione e a fronte di orientamenti del governo nazionale che quotidianamente non perde l’occasione per additare i vincoli e le politiche ambientali come un impedimento per lo sviluppo del Paese, ci saremmo attesi che la Regione Emilia-Romagna rafforzasse le proprie scelte per la tutela ambientale (e per ridurre il consumo di suolo), non certo un loro allentamento. Già oggi ARPAE non svolge adeguatamente il suo ruolo e le stesse Province sono state svuotate di competenze, risorse e personale e certamente assecondare questa tendenza, coma fa la delibera agostana della Giunta regionale, è decisamente sbagliato e controproducente.

Occorre, invece, battere un’altra strada e invertire questa tendenza: per questo chiediamo che la Giunta regionale revochi la delibera, che si apra una larga discussione e si giunga all’approvazione della legge di iniziativa popolare che RECA ha avanzato da un anno per fermare il consumo di suolo, mettere in campo provvedimenti che rafforzino ruolo, competenze e risorse delle Province e della Città metropolitana, dare più autonomia e risorse ad ARPAE. In particolare, in tema di competenze, che una volta erano in capo alle Province – siccome le Province non sono mai state cancellate di fatto- meglio allora restituirle alle Province insieme alle risorse economiche e umane.

In ogni caso, come RECA continueremo la nostra iniziativa perché questi obiettivi si possano realizzare.

 

RETE EMERGENZA CLIMATICA E AMBIENTALE EMILIA- ROMAGNA

In copertina: Alluvione-a-Faenza (foto da meteo.it)

La vera emergenza in Emilia-Romagna:
una classe dirigente innamorata di asfalto e cemento

La vera emergenza in Emilia-Romagna: una classe dirigente innamorata di asfalto e cemento

Sta facendo cerchi nell’acqua – l’acqua sporchissima del post-alluvione – la notizia dell’ultimo blitz pro-cemento della giunta regionale emiliano-romagnola, quella capeggiata da Stefano Bonaccini.

Blitz fatto ad agosto, come da cliché, quando l’attenzione generale, tra canicola e vacanze, perde colpi. Infatti il caso è esploso un mese più tardi: prima una lettera di Italia Nostra poi un articolo di Paolo Pileri su Altreconomia hanno attirato l’attenzione su questa mossa esecranda.

Cos’hanno fatto?

Il 7 agosto scorso, con una delibera peraltro illegittima, la giunta ha emendato in senso peggiorativo una legge regionale già molto discutibile se non famigerata, la 24/2017 sull’urbanistica.

Legge che doveva essere «contro il consumo di suolo», ma che fin da subito si è rivelata un intrico di deroghe, espedienti e scappatoie per le lobby del mattone, del cemento e dell’asfalto, e per le amministrazioni locali che a quelle lobby consentono di spadroneggiare.

Fino a un mese fa, la legge prevedeva che un comune sottoponesse il proprio piano urbanistico alla valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale (Valsat), passaggio che spettava a province e città metropolitane sulla base di una relazione istruttoria dell’Arpae, l’agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia. Nel caso di “bocciatura” da parte dell’Arpae, il comune doveva assumersi in tutto e per tutto la responsabilità – anche politica – del proprio piano urbanistico, presentando una controrelazione scritta.

Nella maggior parte dei casi, poco più di una formalità. Per motivi che qui sarebbe lungo elencare, l’Arpae difetta di reale indipendenza. Da sempre costretta al contorsionismo tra molteplici esigenze istituzionali e di realpolitik economica (immaginiamo le reazioni se dopo le alluvioni del maggio scorso avesse dichiarato l’Adriatico non balneabile), ha dimostrato più volte di non poter fermare gli scempi ambientali. Tant’è che questi proseguono imperterriti.

Eppure, anche quel blando “ostacolo” posto sulla strada dei cementificatori era di troppo per la sensibilità del PD, o meglio, per l’economia che il PD rappresenta e acriticamente tutela. Un’economia sbagliata da cima a fondo, ecocida in ogni sua articolazione, che devasta il territorio, esponendolo ed esponendoci a sempre più disastri. Un’economia le cui presunte “eccellenze” saranno sempre più riconosciute come orrori.

La delibera 1407 esautora l’Arpae in più modi: la sua istruttoria sui piani urbanistici non è più un atto dovuto; nel caso poco probabile in cui venga comunque consultata, la sua relazione non può includere alcuna «valutazione circa la positività o negatività» del piano; in ogni caso, un comune potrà consultare l’Arpae soltanto «sulla base di specifiche convenzioni a titolo oneroso da stipularsi, caso per caso, sulla base di specifico accordo tra le parti». Cioè dovrà pagare.

In questo modo, la valutazione di piani e varianti urbanistiche resta in mano unicamente a province e città metropolitane. Soggetti che certamente hanno meno competenze sui temi ambientali di quante ne abbia l’Arpae, ma il vero problema non è nemmeno quello.

Con la legge n. 56/2014 del governo Renzi  – la cosiddetta «Legge Delrio» – le deleghe di governo sono passate dalle vecchie giunte provinciali ai consigli provinciali e metropolitani, che oggi sono organismi eletti a suffragio ristretto – e quasi sempre composti direttamente – da sindaci e consiglieri dei comuni. Cioè gli stessi che propongono i piani e le varianti urbanistiche. In pratica, si valuteranno da soli, senza l’intralcio di soggetti terzi.

Tutto questo, si diceva, è illegittimo: la giunta non può modificare una legge approvata dall’assemblea regionale. Solo l’assemblea stessa può farlo. Ma, a quanto pare la vicepresidente di regione Irene Priolo – che è anche assessora alla «transizione ecologica e difesa del suolo», chi ha presente il suo curriculum riconosce subito la neolingua – e gli assessori Paolo CalvanoVincenzo CollaAndrea CorsiniPaola Salomoni e Igor Taruffi non hanno avuto scrupoli.

Cosa li spinge a farlo?

Al di là dei precisi risvolti tecnici e amministrativi, a noi tutto questo interessa come  ennesimo sintomo. Ogni manifestazione sintomatica conferma l’eziologia del male, la diagnosi dell’ecodisastro in Emilia-Romagna che, non certo da soli, abbiamo cercato di formulare.

Per chi vive da queste parti, il cursus honorum dei succitati personaggi parla da sé. Ci è toccato nominarli altre volte. Sono tutti inveterati amanti di cemento e asfalto. Ogni colata d’asfalto è loro oggetto del desiderio, ogni loro discorso sullo “sviluppo” è un’eccitata apologia dell’impermeabilizzazione del suolo.

L’intelligenza del suoloSuolo di cui, come ricorda Pileri in un suo libro divenuto imprescindibileignorano praticamente tutto. Non sanno che il suolo è un ecosistema la cui sopravvivenza è indispensabile alla nostra. Non sanno che una sola cucchiaiata di terra contiene miliardi di forme di vita. Non sanno che il suolo è raro e la sua esistenza andrebbe preservata con ogni mezzo necessario. No, per loro c’è solo superficie da ricoprire, “vuoto” da riempire di edifici, spazio sul quale far passare una strada.

Basta vedere quante nuove autostrade, raccordi, “bretelle”, svincoli e sottovie vogliono realizzare nei nostri territori, dal Passante di Bologna – cioè il raddoppio fino a diciotto corsie di tangenziale e A14 nei tredici chilometri in cui procedono affiancate in piena città – alla Nuova Romea Commerciale, la cosiddetta «Orte-Mestre».

Quest’ultima, solamente tra Emilia-Romagna e Veneto, impatterebbe su oltre venticinquemila ettari di zone protette, tra siti di interesse comunitario (Sic), zone a protezione speciale (Zps), parchi regionali e altre zone di grande pregio paesaggistico e naturalistico.

Su questo progetto l’assessore Corsini – quello che dopo le alluvioni voleva bere un bicchiere di acqua dell’Adriatico – ha una sola riserva: il tratto che passa in Emilia-Romagna non deve essere a pedaggio. Son priorità.

Corsini è romagnolo, della provincia di Ravenna, una delle più cementificate d’Italia. Proprio dalle sue parti l’indifferenza della classe dirigente ha appena consentito un altro oltraggio, “la svendita a privati di cinquecento ettari di area protetta” [pubblicato su Periscopio il 15 agosto scorso, NdR] nel parco del Delta del Po, incluse le zone umide dell’Ortazzo e dell’Ortazzino. C’è un risvolto inquietante, che riferiamo con le parole di Linda Maggiori:

«La cosa più grave è che la Giunta de Pascale affermava nel 2017 di star lavorando per un’acquisizione dall’immobiliare, tanto che nel giugno 2021, erano stati stanziati fondi per l’acquisto dell’area.
Nel Documento Unico di Programmazione 2021/2023 (pagina 258) c’e’ infatti un riferimento all’ “Acquisto area naturalistica denominata: “Ortazzo/Ortazzino” a nord di Lido di Classe” con 514.400,00 EUR per il solo 2021. Il 2022 e 2023 non sono valorizzati […] Nel Documento Unico di Programmazione 2023/2025 però non ci sono accenni all’Ortazzo. Come mai questo improvviso cambio di rotta?
Come mai il Comune, nonostante i soldi fossero stati stanziati, decise di non comprare l’area protetta e successivamente non concesse neppure un misero prestito al Parco? Chi e perché ha impedito che Ortazzo e Ortazzino tornassero al Comune?»

A costoro, le alluvioni del maggio scorso non hanno insegnato né potevano insegnare nulla, perché gente così nulla è disposta a imparare. È abituata a pensarsi impunita, a non pagare mai un prezzo politico reale, a esercitare un continuo ricatto morale perché «altrimenti vince la destra». Intendono dire la destra dichiarata, mentre loro devono usare il termine «sinistra».

Ma non è solo calcolo, c’è anche del sentimento. Questa gente, ne siamo convinti, è sinceramente innamorata di cemento e asfalto. Di conseguenza, ha in autentico odio, o quantomeno in autentico spregio, gli alberi, il suolo libero, gli ecosistemi. Questo spregio lo esprime in parole e azioni, da noi documentate più volte. Nei limiti del possibile, certo. Anche se lo facessimo a tempo pieno, stargli dietro sarebbe comunque un’impresa sfiancante: non c’è praticamente giorno in cui non abbattano alberi, non aprano cantieri, non decidano nuove urbanizzazioni, non tutelino gli interessi di chi manomette il territorio.

Cosa dobbiamo fare di loro?

Di questa gente è indispensabile liberarsi.

Per liberarcene, dobbiamo rifiutare il ricatto morale.

Per rifiutare il ricatto morale, dobbiamo far crescere dal basso alternative a entrambe le destre, quella dichiarata e la «sinistra», e dunque al capitalismo, perché è quello il nome del male.

Suona difficile, e lo è, ma le altre opzioni si riducono tutte al piccolo cabotaggio in un esistente orripilante.

Per far crescere alternative, dobbiamo rifuggire le formule astratte, l’elettoralismo, i ragionamenti su come incollare pezzi di ceti politici residuali.

È necessario partire dalle lotte reali che hanno luogo sul territorio e che, con tutti i loro limiti, cercano di aggredire le contraddizioni primarie del nostro tempo, schivando diversivi, bagatelle identitarie e polemiche in bicchieri d’acqua.

Le storie di Costanza /
Settembre 2062 – Tata Spara

Le storie di Costanza. Settembre 2062 – Tata Spara

Zeus-t vola sopra di me e si ferma davanti ad una delle finestre del soggiorno. Schiaccia il pulsante e la tapparella si abbassa, in modo che il sole entri solo un po’. La parte più bassa della stanza brilla, grazie ai riflessi di luce che attraversano i vetri, mentre la parte più alta è in penombra. Con il nuovo posizionamento della tapparella, il soggiorno resta più fresco e l’ambiente è piacevole e accogliente. I divani gialli sono sempre lì fermi e angolari, il divanetto d’Adelina ha sempre la sua fodera di velluto rosa.

Ho novant’anni e questa è sempre stata la mia casa. Ho sempre abitato qui e, anche se per alcuni periodi ho lavorato in città, qui sono tornata quasi tutti i fine-settimana della mia vita. Zeus-t atterra su un tavolo di legno, abbassa le sue ali meccatroniche e si ferma. È in standby e così resterà fino a quando lo azionerò la prossima volta. Un robot-drone-t bellissimo, a forma di libellula, che ammoderna la stanza da solo.

È lui la prova che siamo nel 2062 e non nel 2030 o nel 2010. Il mio piede è appena guarito e non posso ancora camminare molto. Però la situazione è migliorata; certe volte non resta che sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno.

Ho passato un’estate tra gesso e stampelle, non il massimo per una a cui piace camminare. I miei nipoti, amici, vicini e parenti hanno però contributo ad alleviare questa mia reclusione forzata, venendomi a trovare e mandandomi messaggi di incoraggiamento. Li dovrei ringraziare tutti, ma non sono molto brava con queste formalità. Li ringrazierò un po’ alla volta, quando e come potrò.

Le mie cugine Ines e Bella sono venute a trovarmi da Cremantello, il paese dove sono sempre vissute e dove hanno gestito il Bar Ghepardi per molti anni. Mi sono sempre chiesta perché il Bar avesse il loro stesso cognome, forse avrebbero potuto cambiare il felino di riferimento e chiamarlo Bar Leoni. Bar Leoni mi suona bene, trasmette un’idea di forza e determinazione e poi i leoni ricordano alcuni dei nostri monumenti più importanti, ad esempio San Marco a Venezia.

Le ha portate a Pontalba Marta, la figlia di Bella. Abbiamo chiacchierato, riso e mangiato la pizza ricordando avvenimenti del nostro passato, poi se ne sono tornate a casa loro. I ricordi condivisi sono un vettore d’affetto e complicità.

Ricordare avvenimenti lontani che hanno caratterizzato la vita di tutte noi cugine, rende la possibilità di conversazione ed emozione pressoché inesauribile. Sarà perché sono vecchia, ma penso sempre che ciò che rende una persona speciale, è il tempo in cui c’era e ti ha dedicato attenzione, a scapito di tutto il tempo in cui altri avrebbero potuto esserci ma non ci sono stati, a volte generando stupore e anche un po’ di tristezza.

La presenza, l’affetto, la condivisione di gioia e sofferenza creano parentele vere, che non necessariamente hanno a che fare con quelle sanguinee. Così inanellando un pensiero dopo l’altro, seguendo vie tortuose che sono quelle dei miei ricordi, delle mie emozioni e delle immagini di persone che sono passate dalla mia vecchia casa, mi sorprendo a pensare al Circolo ricreativo Tito Speri.

Questo simpatico ‘circolo’ è costituito da un gruppo di persone che alla sera si siede fuori casa e chiacchiera. Mi piace proprio perché è così, semplicemente così.  È la gente che incontra gente, che ritrova sé stessa in una comunità spontanea, nata dalla prossimità abitativa, dalla narrazione di avvenimenti reali e quotidiani.

Un circolo dove puoi sempre fare qualche chiacchiera leggera. Non si paga nulla, non si è obbligati a fare nulla, chi passa e vuole fermarsi è ben accetto, chi si alza e se ne va è libero di farlo senza dare troppe spiegazioni. “Ci vediamo la prossima volta che passo”, ed è finita lì. Al Tito Speri si porta la propria sedia e ci si siede in cerchio, vicino a una panchina di cemento che fa da perno strutturale del consesso, lì si ascoltano storie di paese.

Al massimo qualcuno fa le frittelle e le porta per tutti, per chi c’è, per chi arriva, per chi passando ne prende una al volo e se ne va. Il circolo funziona solo d’estate perché la sua sede principale è semplicemente una panchina di una delle vie di Pontalba. Via Adriano Olivetti. È un luogo di socialità spontanea che nessuno finanzia, che nessuno controlla, che nessuno ha progettato. È nato dalla prossimità degli abitanti di via Olivetti, dalla loro convinzione che stare un po’ insieme è meglio che stare sempre da soli. È bello così.

A volte ci vado anch’io, mi siedo là e ascolto un po’ di parole. Commenti sulle macchine che passano, sul tempo, sulle persone che sono in vacanza, su quelle che andranno in pensione a breve. È divertente e, tutto sommato, giusto. Giusto perché è democratico e volontario, giusto perché è equo e libero. Contribuisce a rasserenare le giornate che volgono al termine. La leggerezza, quella buona che non fa male a nessuno, è una benedizione, allunga la vita. Le persone della zona hanno cominciato a chiamare quel ritrovo serale Tito Speri per scherzo e poi hanno finito per adottare quel titolo definitivamente.

Il nome di un patriota, uno dei martiri di Belfiore, non sembrerebbe un nome adatto ad un circolo di natura spontanea, però questo si chiama proprio così.  Molto spesso i nomi nascono quasi per caso e, altrettanto spesso, nessuno riesce più a ricostruirne la genesi.

In via Olivetti si narra che una sera un ragazzo abbia aperto per caso il libro di una bambina che stava facendo i compiti delle vacanze e la prima parola che ha letto sia stata proprio “Tito Speri”. “Tito Speri, Tito Speri”, tutta la sera si è continuato a ripetere il nome di quel povero martire come un ritornello per far sì che la bambina lo memorizzasse.

Il nome del circolo è nato così. Chi è Tito Speri, cosa ha fatto, in che periodo ha vissuto, chi erano i martiri di Belfiore … alla fine tutti i partecipanti al circolo lo sapevano. Quale miglior nome di quello di un personaggio che conoscono tutti? Così il circolo ha acciuffato un nome dai compiti delle vacanze di una bambina e se lo è tenuto. Chi c’è stasera al Tito Speri, chi va stasera al Tito Speri, quelli del Tito Speri stasera mangiano le frittelle, e così via.

Mi piace questo modo di scegliere i nomi anche la casualità ha il suo valore, porta creatività e curiosità insieme. Anche a Cosmo-111, il robot di Valeria, piace venire con me al Tito Speri. Si posiziona in mezzo al circolo cercando di attirare attenzione. Alza le sue corte gambe, fa roteare gli occhi-telecamera e, ogni tanto, fa anche qualche saltello cantando la sua canzone preferita: “Saputo, saputo, aku, aku. Saputo, saputo, akù, totù.”.
I partecipanti al circolo, che sono abituati a cogliere più le buone intenzioni che l’abilità in sè, applaudono sempre alle sue destrezze e lui si inchina compiaciuto davanti a tanto apprezzamento.

Qualche sera fa c’è stato un incidente. Un bambino che di solito è al centro dell’attenzione perché transita abilmente con suo monopattino davanti alle persone sedute catturandone l’attenzione e i commenti entusiasti, ha dato una sberla a Cosmo-111. Le bizzarrie del mezzano che hanno divertito tutti, gli hanno rubato il palcoscenico e lui si è molto arrabbiato.

Ad ognuno di noi piace essere al centro dell’attenzione, anche per poco, anche per un nonnulla. Proprio quel nonnulla può fare la differenza tra un giorno qualunque e un giorno che finisce nel sacco dei ricordi con una scintilla in più. Anche al Tito Speri è così, capitano dei minuscoli momenti di gloria individuale che nessuno vuole perdere o donare. Momenti così piccoli e così estemporanei che sono equamente divisi, quasi casuali. Starnutire forte, mangiare una mosca mentre si parla, rompere una ciabatta mentre si sta camminando, indossare una maglietta al contrario, macchiarsi con una pallina di gelato al cioccolato.

Altre volte anche al Tito Speri capitano delle “vere glorie”. Il canto di un ritornello di una canzone popolare, la recita di un pezzo di una preghiera in dialetto lombardo, la descrizione con dovizia di particolari di come si potano le viti, di come si trovano i funghi sotto i rovi. Questi sono i momenti di attenzione generale e conseguente soddisfazione individuale che al Tito Speri brillano e durano, sono appariscenti, quasi stellari.

Negli ambienti dove non si è apprezzati non si va, nei luoghi dove ci sono persone e contesti depressivi si fugge appena si può.  Qualche sera fa il bambino del Tito Speri ha perso una piccola stella perché quel ‘matto’ di Cosmo-111 si è messo a cantare in ‘mezzanese’ e tutti hanno guardato lui.

Ma Cosmo è intelligente, razionale e sa valutare bene i pro e i contro delle situazioni.  Quando ha capito che il bambino si era offeso, ha cercato di distrarlo e di rimettere le cose al loro posto. Ha così detto: “Io non sono bravo ad andare col monopattino, a far quello è bravissimo Jacopo, però sono bravo a scrivere poesie e ne ho scritta una anche per voi.”

Ha poi dato il foglio con la poesia a Jacopo, chiedendogli di leggerla. Il bambino ha preso il foglio ed è scoppiato a ridere, perché la poesia di Cosmo-111 era scritta con una sola vocale. “Sentite cosa ha scritto Cosmo!”  e tutto il circolo si è preparato ad ascoltare l’ennesimo esploit del robot.

Tata Spara
Tata Spara a sampra là
A cantanaa a davartara cha passa da là
Tata Spara a balla, là paaa travara an fratalla.
Tata Spara sta sampra là
A cantanaa a stapara cha passa da là
Tata Spara à ana balla parala, cama an aqaalana cha vala.
Tata Spara à sampra casà
A cantanaa a stapara cha passa da là
Tata Spara à an gaardano abatabala, cama an faara amabala.
Tata Spara sta nal maa caara
A la passa chaamara amara
Tata spara à an carcala da parsana cha patrabbara assara ra, ragana a rabat da sacanda ganarazaana
Prapraa a lara varraa ragalara an galatanaa.

“Bravo, Bravo Cosmo-111 !!!!” urla il circolo Tito Speri facendo un bel coro, poi scoppia l’applauso e il sipario cala fiammante su via Olivetti e sulla notte che verrà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Una mattina al museo

Il Museo Guggenheim di Bilbao: la grande nave

Arriviamo attraversando un parco e costeggiando il fiume e, come spesso ci accade, seguiamo l’istinto più della cartina.

Ci appare così la forma argentata di una grande nave, anche le vele riflettono la luce: il museo Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank Gehry ed inaugurato nel 1997, è davanti a noi. Siamo in anticipo rispetto alla nostra prenotazione, così ne approfittiamo per osservare la struttura esterna, le statue del grosso ragno “maman“, delle colonne di sfere e di Puppy, l’ enorme forma di cane ricoperto di piante fiorite.

Entriamo. Superati i controlli, alziamo gli occhi, siamo al centro di un ampio spazio, definito da scale, passaggi aerei, vetrate, balconate… Il pavimento di marmo giallo suggerisce allegria, armonia, invita a stare al gioco, a lasciarsi condurre.

Orientarsi non è semplice, le istallazioni permanenti e le tre mostre temporanee sono interconnesse. Il settore 104 contiene “The matter of time” (la materia del tempo) un’istallazione di Richard Serra che, con i suoi enormi pannelli curvilinei, in acciaio, invita i visitatori ad entrare e vivere una personale percezione del tempo: percorrendo stretti corridoi che terminano in spazi ovali, triangolari, a cuspide con lati curvi.

Ci si sente piccoli, deboli, al cospetto di queste ampie lastre metalliche, color ruggine, ruvide al tatto; dall’alto altri visitatori osservano l ‘andirivieni labirintico di chi è al piano terra. Il tempo e lo spazio sono i temi, il filo conduttore che lega idealmente il Guggenheim e le opere che contiene. Il flusso creativo degli artisti percorre il tempo, consacra la loro arte all’infinito, intuizione creativa che diviene materia, collocata in uno spazio, quello espositivo intercettando per qualche istante l’emozione degli spettatori, che divengono essi stessi parte dell’evento creativo.

Attraverso scale e passerelle giungiamo nell’anfiteatro dove è appesa la grande struttura (8 metri x 14) ” Rising sea” (mare che sale) realizzata su progetto di El Anatsui , artista ganese, con migliaia di tappi metallici di bottiglie di alcolivi da un collettivo di artigiani della sua terra.

Sembra un’enorme onda oceanica, ma al contempo fa memoria dell’invasione coloniale degli europei a danno dei popoli africani. Anche qui il tempo e lo spazio si fondono, la potenza artistica irrompe nella nostra mente insinuando l’intuizione, che in seguito diviene analisi e comprensione.

Proseguiamo la visita inoltrandoci su altre passerelle affacciate sull’atrio centrale dell’edificio, fino a giungere in uno spazio triangolare i cui muri sono decorati con enormi forme geometriche di diversi colori : è il Murale n.831 progettato nel 1997 da Sol Le Witt, maestro dell’arte concettuale. Egli sosteneva che l’opera d’arte è eterna perché vive nel concetto, cioè nell’idea che l’artista ha avuto e che rimarrà per sempre nel mondo delle idee.

 

In questo spazio, che accoglie e propone attimi di eternità, sono allestite anche mostre temporanee che ci stupiscono e, in un certo senso , ci provocano: Yayoi Kusama, poliedrica artista giapponese, tra le tante opere esposte, ci hanno colpito i puntini i “polka dots“che lei utilizza su qualsiasi superficie per suggerire l’esistenza di reti d’infinito.

Oskar Kokoschka, il maestro viennese di origine ceca, esponente dell’espressionismo, che nelle sue opere ha catturato la dimensione psicologica dei suoi modelli e l’ha resa immortale.

Lynette Yiadom Boakye pittrice di origine ghanese formatasi a Londra, che esegue ritratti in cui l’interesse non è rivolto al soggetto raffigurato, quanto piuttosto all’osservazione della luce e dei colori: l’esperienza che ci propone è rivolta alla materia artistica in sé, anziché ad un contenuto concettuale.

Sono trascorse diverse ore da quando abbiamo incominciato la visita, gli occhi, il cuore, la mente hanno necessità di una pausa e così, a malincuore, ci avviamo all’uscita.

Ritroviamo la luce del sole, il caldo estivo, tante persone che scattano foto, il rumore del traffico, eppure, lo sfavillio metallico delle pareti esterne del Guggenheim ci ricorda che lì, fuori e dentro lo spazio definito dalle sue vele, abbiamo vissuto un’esperienza d’infinito.

Foto dell’autrice

Lettera aperta ai maschi “perbene”

Lettera aperta ai maschi “perbene”

Riprendendo il bel contributo di Arianna Ciccone, Lo stupro e la violenza sulle donne non è un’emergenza, è un enorme problema endemico e sistemico [Qui su Periscopio], vorrei approfondire in cosa consiste il caratterizzarsi come ‘endemico e sistemico’.

Per esperienza personale, purtroppo, posso infatti testimoniare che il secondo stupro alla vittima viene fatto dal sistema istituzionale. Non mi riferisco solo ai social, ai media, all’informazione, che non rispettano il legittimo bisogno di dimenticare della vittima per andare faticosamente avanti.

Mi riferisco al sistema giudiziario, composto da giudici e avvocati, assistenti sociali, forze dell’ordine, tutti apparentemente perbene che, specie quando sono nella veste di avvocato difensore, accettando di difendere l’indifendibile, rivelano tutta  la violenza del fenomeno della “vittimizzazione secondaria”, per cui la vittima è sempre complice diretta o indiretta dello stupratore.

In questa fase, che dura anni, si svela la struttura profondamente maschilista della nostra società, per cui una donna che fa esattamente quello che fanno gli uomini, cioè esce sola, beve, accetta di relazionarsi a persone sconosciute, si veste succintamente quando fa caldo, “SI CERCA lo stupro”.

Il messaggio piuttosto esplicito, espresso, anche se non richiesto, dal compagno della Meloni, è che le donne farebbero bene a limitare le loro estrinsecazioni di libertà eccessiva e  stare “attente al Lupo”. Non rendendosi conto che ci sono anche i lupi in doppiopetto, gli insospettabili uomini perbene, che tutto fanno tranne indagare quell’enorme buco nero della loro psiche che li porta a interpretare alcuni atteggiamenti femminili come un invito a divorare la preda senza chiedersi cosa sia il consenso.

L’impari patrimonio di libertà personale fra i sessi non solo non viene contestato, viene rafforzato dall’implicita accettazione che i maschi sono pericolosi, meglio rifugiarsi nella nicchia familiare o nella coppia, sempre più necessaria per la libertà di movimento della donna.

Ma da dove deriva il maschilismo endemico, poi organizzato come sistemico? Qui ci sono delle responsabilità politiche e culturali degli intellettuali, anche loro “maschi perbene”.

Nel deserto di filosofi femministi, si distingue Engels, nel suo L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato aveva dato qualche giusta indicazione, mai seguita dagli intellettuali che hanno delegato pilatescamente un problema politico alle femministe, perchè rimanesse fondamentalmente tutto uguale. Engels ha indicato nella famiglia la prima cellula della proprietà capitalistica, basata sull’ineguale ripartizione del lavoro, sia per qualità, sia per quantità e dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo.

Nell’attuale versione riveduta e corretta in cui i genitori sono spesso acritici schiavi dei figli e difensori della malsana ideologia maschilista a loro trasmessa, permane tuttavia alla base dei femminicidi la punizione di “lesa proprietà” dell’ex partner che elimina fisicamente chi “osa” scegliere di porre fine alla relazione.

Lo stupro collettivo, al contrario, essendo non parentale, ma anonimo, sembra rivendicare un diritto di proprietà sulla donna come proprietà collettiva, come “bene comune” di cui godere sconsideratamente e impunemente.

Il famoso sociologo Pierre Bourdieu nel suo Il dominio maschile denuncia l’arbitrarietà del sistema simbolico patriarcale, senza alcuna corrispondenza nell’ordine naturale, ma basato sul dominio e il potere. La violenza sistemica ha bisogno dei suoi riti trionfali per rimarcare la differenza fra chi ha il potere (eludendo  vigliaccamente ogni forma di simmetria numerica nello scontro) e chi lo deve subire.

Gli uomini “perbene” delle istituzioni cercano ogni mezzo per minimizzare i fatti che si accumulano ripetitivi: femminicidi, stupri e violenze domestiche, rendendoli casi, elementi singolari e non collettivi, elementi del sistema impazziti, mentre il sistema “democratico” promette di rieducarli, dicono che il carcere non serve, anzi peggiora.

Ma chi si preoccupa della vittima che, dopo che ha denunciato, deve stare barricata in casa per paura della vendetta, in attesa che si muova la pachidermica macchina della giustizia? A cui propongono, se fa troppe storie, una casa protetta in totale anonimato, dove non ti possono venire a trovare parenti e amici? Chi si preoccupa degli psicofarmaci presi per anni per placare l’ansia di una fiducia nella vita distrutta?

La preoccupazione maggiore dell’ordine simbolico maschile sembra invece di dimostrare di essere buono, a parte alcuni rari casi, senza mettere in discussione il comandamento lacaniano che il significante principale della nostra società sia il fallo.

Come dice Chiara Saraceno, siamo di fronte a un enorme problema culturale, che non si può relegare alle donne, perchè riguarda la convivenza civile fra persone, le relazioni umane, il senso del mondo.

Tu, uomo per bene, da che parte stai?

Parole e figure /
“Ardore”, la fatica di vivere

“Ardore”, della coreana Kim Hyewon è in uscita con Kite edizioni. Un potente “silent book” che illustra tutto ciò che non si può dire

Il fuoco che brucia, la fatica di ogni giorno, quella di una madre che deve districarsi fra cura della famiglia e impegni lavorativi. La fatica delle donne, che ogni giorno si confrontano con un mondo spesso ostile, che le mette alla prova, dove nulla è mai abbastanza, nulla è scontato. Giocattoli, panni stesi, la cucina, la strada. La vita.

“Ardore”, dell’illustratrice coreana Kim Hyewon, in uscita con Kite edizioni, mostra quanto brucianti, ustionanti, ingestibili, inesprimibili possano essere i sentimenti, anche verso un proprio figlio ancora bambino. Ma tante sono le interpretazioni possibili, in stile tipico del “silent book”, che lascia immaginare a ciascuno la sua storia, la sua via.

Dominato dal rosso della scia di fuoco e dal nero, l’albo è una scoperta.

La protagonista, donna e madre, riposa quando può, lotta, nella sua ordinata cucina, con un fuoco a forma di diavolo (quasi ci gioca, togliendosi le scarpe, in un inizio di girotondo), trascina un fascio di fiamme sottobraccio, a forma di lupo che sbrana lupo, porta le fiamme sulle spalle, moderno Ercole, segno della fatica, di quella che pesa tanto, che fa male e che ci dobbiamo portare dietro, comunque, che ci piaccia o no. Giorno dopo giorno.

Per strada però, quelle lingue di fuoco, fra le ombre di essere umani che, indifferenti, circondano quella madre sola, assumono la forma di farfalle, forse il desiderio che dolore e stanchezza se ne volino via leggere, forse il lasciarli andare. Vedere dove vanno. Farfalle che diventano colombe bianche, l’ardore della fatica che si trasforma in pace. Le forme cambiano, le cose possono prendere altra forma, tutto si trasforma, prima o poi.

Il fuoco avanza, ma viene accolto, plasmato, fino a prendere la forma di un bambino. In un abbraccio pieno di amore scompare, si dissolve come neve fresca al suolo.

Non tutto si può raccontare, non tutto si può capire. C’è qualcosa che non si può dire.

Ma la forza travolgente dell’amore sarà più grande di ogni fatica.

Storia di una madre, ma anche di una donna qualsiasi che lotta, ogni giorno, per il suo spazio e la sua libertà, nei meandri di una società spesso scura e oscurante.

Un libro non per tutti, può lasciare segni.

Kim Hyewon, Ardore, Kite edizioni, Padova, 2023

Kim Hyewon è un’illustratrice di libri per bambini che lavora a Seoul, in Corea del Sud, presente al Bologna Children’s Book Fair 2015 nella sezione degli illustratori emergenti del suo paese.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Se la stampa di Ferrara diventa straniera:
report in 3 puntate del gruppo Occhio ai Media

( 1 ) LETTERA DALLA FAMIGLIA WEN AL SINDACO DI FERRARA
27 Agosto 2023
Rimandiamo volentieri alla lettera che segnala “una non veritiera e potenzialmente diffamatoria rappresentazione sulle cronache locali” ferraresi, un argomento a noi molto familiare.
Ecco il link alla lettera, pubblicata su Periscopio:
https://www.periscopionline.it/lettera-al-sindaco-e-alla-stampa-locale-noi-non-siamo-il-bar-delle-risse-281034.html

 

( 2 ) MA LA CAMPAGNA CONTRO GLI STRANIERI CONTINUA COME SE NON FOSSE SUCCESSO NULLA
27 Agosto 2023
Nello stesso numero de Il Resto del Carlino di Ferrara (27-08-23) in cui è apparso l’articolo sulla chiusura del bar Condor (omettendo però la parte della lettera della famiglia Wen che critica la stampa locale), l’ennesimo articolo sulla chiusura di un bar gestito da stranieri. Senza vergogna.

 

( 3 ) PUNITI PERCHÉ STRANIERI
03 Settembre 2023
L’ordinanza di chiusura serale al bar Condor di via San Romano nel centro di Ferrara è diventata di un anno.
E’ questa la risposta del Comune di Ferrara alla lettera della famiglia Wen, i gestori del bar, che dichiaravano la loro completa estraneità alle risse e chiedevano un’incontro col Sindaco.
E nessuna risposta alle gravi inesattezze della stampa locale nel riportare gli eventi.
Ferrara, già città della cultura, sta diventando città della prepotenza.
Grazie, famiglia Wen, per la vostra resistenza dignitosa.

A cura di Occhio Ai Media – Ferrara
https://www.occhioaimedia.org/

CHI SONO E COSA FANNO I RAGAZZI DI OCCHIO AI MEDIA

LA NOSTRA STORIA

Occhio Ai Media è un progetto nato nel 2010 dall’Associazione Cittadini del Mondo di Ferrara, un’organizzazione multietnica formata nel 1993 da cittadini di varie nazionalità con lo scopo di favorire l’inclusione e la tutela degli immigrati.
La creazione del gruppo è stata la naturale risposta alla mancanza di una rappresentanza che rispondesse ai toni incresciosi della stampa nei confronti degli immigrati ed extracomunitari. Infatti il suo ruolo è analizzare gli articoli e segnalare quelli che mirano a denigrare e discriminare le minoranze etniche, senza rispettare il codice deontologico instaurato dall’ODG (Ordine Dei Giornalisti) e dalla Associazione Carta di Roma.

LA NOSTRA MISSION
La stampa italiana è piena di titoli e articoli che in altri paesi sarebbero considerati incitamento all’odio razziale, e il loro potenziale effetto è quello di colpire e osteggiare la crescita di una civile e pacifica società multiculturale.
Una delle peculiarità del gruppo di Occhio Ai Media è la presenza di giovani ragazzi e ragazze per larga maggioranza appartenenti alla prima grande generazione multiculturale. Grazie alla dedizione e alla costanza del lavoro svolto dall’Associazione Cittadini del Mondo di Ferrara, la redazione ha avuto modo di evolversi e affermarsi sia sul territorio nazionale che internazionale, svolgendo numerose attività relative ad una vasta gamma di tematiche.

ALCUNE NOSTRE ATTIVITÀ

Questi sono solo alcuni dei progetti a cui Occhio Ai Media ha lavorato, ma è ancora grande il lavoro da svolgere nella lotta per i diritti sociali. Per questo invitiamo tutti voi a scriverci per collaborare e confrontarsi, e a segnalarci qualsiasi articolo di giornale, riviste italiane, locali o nazionali, che a vostro parere siano o abbiano connotazioni razziste, xenofobe o offensive contro le minoranze etniche.
La scrittura del libro nel 2013 “Nella mia tendopoli nessuno è straniero”, a seguito del terremoto avvenuto il 20 maggio 2012 in Emilia, il quale ha costretto molti abitanti delle zone alla convivenza nelle tendopoli. Lo scopo del libro è stato indagare quel contrasto che emergeva tra l’effettiva realtà vissuta dagli abitanti nelle tendopoli e gli articoli pubblicati dalla stampa nazionale, che hanno strumentalizzato la vicenda con la sola conseguenza di creare maggiore disagio sociale.

FERRARA e RESISTENZA:
aggiornamento continuo della sottoscrizione

Ma chi sono poi, questi della Resistenza? Un gruppo, anzi, un gruppetto, un rimasuglio, dei  giovani un po’ esaltati e in più qualche scarto di vecchi militanti… Alla Destra che governa Ferrara spazzarli via – sbatterli fuori per poi sostituirli con sudditi acquiescenti – doveva sembrare una passeggiata: bastava far piovere un’ ordinanza in pieno agosto e anche questa “piccola anomalia” sarebbe stata cancellata.
Invece no. La sottoscrizione per raccogliere i soldi per eseguire i lavori e mettere a norma la struttura è partita a razzo. In dieci giorni il primo obiettivo di 15.000 Euro è stato raggiunto e superato. Senza nessun protettore occulto, senza uno zio d’America o di Russia: l’intera cifra è stata raccolta grazie a piccoli e piccolissimi contributi di centinaia di ferraresi.
Ferraresi di sinistra? Può darsi, anche qualora per i grandi media quella parola, “sinistra”, non significhi più niente. In realtà, attorno alla “piccola questione” del Centro Sociale La Resistenza si è coagulato un  fronte ampio e  spontaneo di cittadini democratici. Alcuni di loro, lo so per certo, non hanno mai  varcato la soglia della Resistenza in via Resistenza. Già, pensandoci bene, è la stessa strada che  deve avere un nome indigeribile per Sindaco e Vicesindaco.   

Ma tanto è: la “grana Resistenza” è diventato un “fronte di Resistenza”. Ferrara sembra essersi svegliata da un lungo sonno. E fra 10 mesi si vota.

Continuano le iniziative per di solidarietà e la raccolta fondi 

Martedì 5 settembre dalle 19.30 al @circoloblackstar !
il Centro sociale la Resistenza sarà presente con un ‘Mercatino del Vintage’, in cui sarà possibile acquistare vestiti ed accessori a cui dare una seconda vita.
Il ricavato di questo sarà interamente devoluto alla raccolta fondi che è stata avviata per finanziare i lavori necessari alla riapertura del CPS La Resistenza.
Il CPS Resistenza è della collettività. Uniamo le forze, diamoci da fare.
LINK AL CROWDFUNDING: [clicca qui] 

Aggiornamento al 7 settembre, ore 12,00: raccolti 15,775 Euro da parte di 445 donatori.

Seguiranno aggiornamenti via via che i lavori verranno organizzati in dettaglio.

Lo stupro e la violenza contro le donne non è un’emergenza.
E’ un enorme problema endemico e sistemico.

di Arianna Ciccone
http://www.twitter.com/_arianna
tratto da Valigia blu del 31 agosto 2023

La voce che sentite all’inizio di questo podcast è la voce di Valentina Mira [intervista a Mangialibri]. Giornalista, scrittrice. Nel 2021 ha pubblicato per Fandango X, un romanzo e una lettera a suo fratello. Valentina racconta la storia del suo stupro. Aveva 18 anni, si era appena diplomata quando un suo amico, che aveva in comune con suo fratello, la stupra durante una festa. X, è un libro che ci racconta cosa è uno stupro, cosa significano la vergogna, il senso di colpa, il dolore e la fatica di dare un nome a quella violenza subita. Prima di tutto a riconoscerla come tale.

Valentina ci racconta con una forza e una onestà dirompente la scelta di non dirlo ai genitori, gli atti di autolesionismo, il tradimento feroce del fratello a cui invece decide di dire tutto, ma che si rifiuta di crederle… X ci fa vedere in tutta la sua esplosiva violenza le falle del sistema, le istituzioni che dovrebbero proteggerci e assicurarci giustizia che diventano “complici” di quello stupro, una società che ti costringe per “fame” di lavoro a compromessi che non potrai mai sostenere veramente…

Valentina nel raccontare la sua storia non si risparmia e non ci risparmia: la sua storia è la storia di un sistema, della nostra società che piega, sottomette, umilia e usa il sesso e la violenza come forma di controllo e potere. Nessuno ne è immune, nemmeno noi donne. Valentina ci obbliga con il suo racconto a vedere quelle falle di sistema e a farcene carico tutti insieme. “La violenza maschile è un problema” – scrive Valentina a suo fratello che non le parla più da anni e che lei non ha più rivisto. “Devi, dovete farci i conti. A noi non resta che denunciarla, combatterla fuori e dentro di noi, organizzare forme di solidarietà e resistenza che siano inclusive, che operino con ogni mezzo necessario. Magari fosse una guerra: almeno combatteremmo ad armi pari. Invece bastano la storia e i numeri a parlare di una oppressione millenaria a senso unico. Bastano la storia e i numeri a costringerti a prendere una posizione. Da che parte stai?”.

X di Valentina Mira è il racconto di una sopravvissuta ed è un libro politico potentissimo, crudo, crudele e carico di speranza. Leggetelo, fatelo leggere, regalatelo, parlatene. Parliamone.

Perché il modo in cui stiamo discutendo in questi giorni della violenza di genere non è quello di cui abbiamo bisogno e non è di certo quello che porterà a fare passi in avanti decisivi rispetto al problema sistemico della violenza contro le donne.

“L’accavallarsi di femminicidi, stupri o tentati stupri, molestie sessuali più o meno pesanti, ma anche ritardi negli interventi giudiziari, sottovalutazione delle denunce e richieste di aiuto, sentenze di assoluzione con argomentazioni sorprendenti, mostra – ha scritto la sociologa Chiara Saraceno – che siamo di fronte ad un enorme problema culturale”.

La violenza sessuale e di genere e noi. “Noi” sì. Noi… Perché è cruciale interrogarci su questo aspetto drammatico delle nostre società a partire dal modo in cui ne discutiamo pubblicamente come cittadini/e, come esperti/e, come giornalisti/e…

La copertura mediatica della violenza sessuale resta avvitata sui miti e dimentica le donne

Dopo la pubblicazione delle chat degli stupratori di Palermo, ho scritto una mia riflessione sul perché a mio avviso quella pubblicazione sia stata un errore. E perché è necessario uno sforzo collettivo profondo e diffuso. Nella prima parte di questo podcast ne parlo con Tiziana Metitieri, psicologa, neuropsicologa, lavora all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, storica collaboratrice di Valigia Blu, con i contributi di Valentina Mira e di Maria Giuseppina Pacilli, professoressa associata di psicologia sociale all’Università di Perugia, autrice di Uomini duri, il lato oscuro della mascolinità. Nella seconda parte ne discutiamo con la scrittrice Giulia Blasi (autrice di Manuale per ragazze rivoluzionarieRivoluzione ZBrutta e Scintilla nel buio; cura la newsletter “Servizio a domicilio”, anche lei collaboratrice storica di Valigia Blu), a partire dalle parole scriteriate di Andrea Giambruno. Una ricca e intensa conversazione su alcuni temi cruciali: da dove nasce la violenza maschile? Chi ne è responsabile? Cosa fare?

In questi giorni è tutto un proliferare di dichiarazioni di politici e proposte di legge. Ancora una volta assistiamo a un approccio emergenziale, laddove siamo di fronte a un problema endemico e sistemico. Meloni resta stranamente zitta, eppure la ricordiamo ai tempi in cui condivise il video di uno stupro avvenuto a Piacenza, quando scrisse: “Non si può rimanere in silenzio davanti a questo atroce episodio di violenza sessuale ai danni di una donna ucraina compiuto di giorno nella città di Piacenza da un richiedente asilo…”. Sono però intervenuti Matteo Salvini, che chiede la “castrazione chimica”, Eugenia Roccella, ministra per le Pari opportunità e la famiglia che vorrebbe proibire il porno ai minori, Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, che ha proposto di mandare le vittime di violenza a parlare nelle scuole e in seconda battuta di investire sull’educazione peer to peer, cioè fra pari. “Tutto, ma proprio tutto, – scrive Blasi – per evitare di parlare di educazione affettiva e relazionale”.

La mappatura dei Centri Anti Violenza aggiornata ad aprile 2023 è fornita dal Dipartimento per le Pari Opportunità ed è disponibile qui.

Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.

Brano musicale parte prima: Morgan St. Jean – Not All Men

FERRARA: I 5 STELLE VERSO LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE

Il primo settembre si è tenuta un’assemblea degli iscritti al Movimento 5 Stelle della provincia di Ferrara. Dopo un’ampia discussione è emerso un chiaro orientamento ad approfondire il tentativo di individuare soluzioni condivise, per problemi fondamentali della nostra città, al fine di cercare unire il maggior numero di forze politiche che si oppongono all’attuale amministrazione.

Così come molte forze politiche hanno trovato una convergenza sulla proposta di salario minimo, crediamo si possa e si debba cercare una convergenza anche su temi locali quali:

il futuro assetto urbanistico della città;

un progetto razionale e sostenibile di mobilità urbana;

i rapporti con Hera e la gestione dei rifiuti e della rete di distribuzione e smaltimento delle acque;

il potenziamento del ruolo pubblico nella gestione dei servizi sociali e scolastici;

un progetto serio di integrazione e gestione del fenomeno migratorio.

Ciò che proponiamo alle forze politiche locali di opposizione è una serie di incontri, con cadenza regolare, cui partecipare con propri rappresentanti e ai quali siano invitate le associazioni, i movimenti, i centri e le cooperative sociali che sono attivi sul territorio e impegnate su questi temi.

L’invito che rivolgiamo alle forze politiche di opposizione è di superare le pregresse divergenze e valorizzare l’enorme lavoro di proposta, di studio e di critica svolto in questi anni dalla società civile e dalle sue articolazioni, fino alla nostra università.

5 Stelle di Ferrara 

In direzione ovest

In direzione ovest

Il piccolo Mario è un bambino vivace, intelligente, e, a detta di molti un po’ impertinente, ma non perché sia maleducato, anzi, è molto educato, solamente perché è molto curioso e guarda il mondo come se volesse scrutarne i segreti e scoprire la sua evoluzione.

Al contrario di molti suoi coetanei, ama leggere ed approfondire ciò che legge, al punto che  Paolo ed Emilia, che sono i suoi genitori, temono che il figlio possa avere una sorta di malattia mentale.
Mario, vive, con mamma, papà ed i nonni materni, in una piccola casa nella periferia di una grande città, di quelle metropoli in cui si è completamente persa ogni dimensione umana, in cui tutto sembra funzionare come dentro una macchina, ma in cui, anche solo un saluto, un sorriso, sembra appartenere a mondi antichi, mondi in cui la convivenza e la condivisione erano attività quotidiane.

Paolo è dipendente di una società informatica che sforna, quotidianamente, nuovi algoritmi di intelligenza artificiale, figlia di quel progresso che ha disumanizzato la convivenza civile, dando a tutti l’illusione di una vita migliore, proprio come se, ormai, gli esseri umani dovessero trasfigurarsi in automi, capaci solo di produrre ricchezza ai pochi che sono al potere.
Emilia, invece, decise, all’indomani della nascita di Mario, di occuparsi della casa, in sostanza di fare un mestiere antico, ma quasi dimenticato, ovverosia la casalinga, cura il benessere dei famigliari e si occupa di un piccolo orticello, posto dietro casa, dove produce ortaggi naturali e non quelle schifezze sintetiche che si trovano nei supermercati del metaverso.

Mario ama ascoltare le storie dei nonni materni che, ormai ultra novantenni, ricordano i tempi in cui vivevano in  una ridente cittadina di medie dimensioni.

Giuseppe, il nonno di Mario, stimolato dalla curiosità del bambino, si perde a raccontare di come, nelle città ci fossero enormi parchi, con alberi antichi e sotto i quali le persone amavano rinfrescarsi dalle calure afose dell’estate, racconta di come i bambini si divertissero a correre tra l’erba fresca di quei parchi, ricorda, con un lieve tremore di emozione, di quando i lavori erano si, faticosi, ma stimolanti e di quando, finalmente, durante quelle che si chiamavano ferie, le persone correvano al mare o in montagna, per rigenerarsi prima del ritorno al lavoro.

Questi racconti piacevano moltissimo a Mario, anche se non comprendeva del tutto le parole dell’anziano nonno, non capiva cosa fosse l’erba, non riusciva ad immaginare gli alberi, e non poteva comprendere i colori cangianti del mare, perché, se solo avesse alzato lo sguardo verso la realtà, chiudendo l’immaginazione dei racconti, avrebbe visto un panorama polveroso, dove le tonalità dominanti non erano i colori di un tempo, ma qualcosa che variava dal grigio al colore della sabbia.
Era affascinato dal racconto del rosseggiare dei tramonti e dall’ irideo arcobaleno che accompagnava la fine dei temporali, riusciva, persino, con l’innata fantasia che lo accompagnava, ad immaginare come fossero stati quei rinfrescanti temporali estivi.

Fu, però, un giorno, verso sera, quando si spengono le luci della ricca e moderna metropoli, che il nonno, accompagnato da un velo di tristezza e da una voce che tremava di malinconia, gli raccontò di quando quella sorta di Eden  fu martoriata dalla stessa sete di denaro di noi umani, di quando, non ascoltando gli scienziati, che lanciavano allarmi sul clima impazzito, quasi d’improvviso, quei temporali così graditi e rinfrescanti, si fecero sempre più potenti e distruttivi, di come, lentamente, ma inesorabilmente, distruggevano cose e seminavano terrore e morte, sino a quando, scienziati e tecnici non trovarono il modo per sfuggire a questo inevitabile destino.

Fu in quel momento che Giuseppe corse in cantina a  prendere un’oggetto misterioso, un vecchio ed impolverato cannocchiale, e indicò a Mario di guardare il cielo in direzione ovest:  “Vedi Mario” disse il nonno, “ quel puntino lassù in alto…, quello è il luogo da dove veniamo noi, quella è la Terra”.

Per certi versi /
Bozzetto un po’ surreale

Bozzetto un po’ surreale

Gli ippocastani
Perdono già
le chiome
I carpini
Rilasciano
Ciuffi
Di foglie
Che
chiacchierano
Nel vento
Caldo insistente
Bolle l’estate
Pastella
In uno squarcio
Secco
D’autunno

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Diario in pubblico /
Il ritorno

Diario in pubblico. Il ritorno

E così si torna a ‘Ferara’. Chiedo ansiosamente se i lavori alla costruzione del parcheggio contiguo al mio giardino siano finiti. Aria imbarazzata; poi seppure in “fa minore” il solito rimbombo continua stancamente quasi a farsi perdonare di non avere concluso la costosa camera da letto delle vetture….

Si parte sotto il diluvio poi, implacabile, il sole s’affaccia all’altezza della rotonda di San Giorgio. Stretta tra le mani la borsa con i ricordi da cui non posso staccarmi: il programma di sala del concerto di Riccardo Muti con la commovente dedica e il fiero piccolo galletto di bronzo, che sorvegliava nello studio di Villamarzana i miei faticosi lavori. E i libri che non posso lasciare ancora nel rifugio laidense.

aneddoti infantili elsa moranteSalta fuori un libretto pubblicato nel 2013. È di Elsa Morante, Aneddoti infantili. Sono racconti giovanili che la scrittrice pubblica tra il 1939 e il 1941 e hanno per oggetto sé stessa e il suo giocoso rapporto con il mondo.

Piccole storie in cui la grandezza della scrittrice affiora a tratti con quella vena di humour non sempre rilevata nei suoi scritti.

nel mare di elsa gea finelliGli amici poi mi scrivono che un nuovo libro, Nel mare di Elsa si è affacciato a districare il non facile problema dei rapporti tra lei e l’isola di Procida.

Deludente. Soprattutto per chi, come chi scrive, è stato diversi anni in villeggiatura nell’isola a caccia di quel rapporto e di quella connessione tra luoghi, persone, tempo. E il tesoro custodito nel ricordo.

Con stupore, avventurandomi nel consueto ‘percorzo’ che mi porta in libreria, mi accade di non sapere quale via seguire. Effetti dell’età e anche dell’inconscio rifiuto al ritorno.

la cartolina anne berestL’affettuosa accoglienza delle librerie che frequento mi riportano alla realtà. Mi si consiglia, a giusta ragione, l’opera di Anne Berest, La cartolina edizioni e/o. L’autrice è tra le voci più importanti della nuova letteratura francese-ebraica.

ritratto di un matrimonio maggie o'farrellPura curiosità l’acquisto del libro che sta spopolando presso turisti e visitatori che vengono a Ferrara solo per ritrovare i luoghi descritti nel romanzo: Maggie O’FarrelRitratto di un matrimonio. La duchessa di Ferrara, Guanda 2022.

Di Lucrezia Borgia tanto, anche troppo, si è scritto (ed io stesso sono responsabile di alcuni lavori), ma è importante sottolineare come sia cambiata la funzione del libro. Non solo, come è da sempre, per riconoscere e riconoscerci quanto per seguire come una specie di vademecum, ciò che si ‘deve’ sapere sui luoghi e nei racconti.

Ma il ritorno significa anche degustare le novità della cucina di Ele, rivedere le care ragazze della frutta, rientrare nel luogo topico: la farmacia. E lottare, lottare, lottare per districarsi nei misteri delle banche, sempre più incomprensibili e difficili da gestire.

Penso con rimorso alla pazienza della mia bella nipote Gaia per indirizzarmi a ben gestire gruzzoletto e impegni mentre Franz una volta tanto viaggia in Francia assieme alle Sbarabegole e a Sapientino.

Sono orgoglioso della passione che mettono a farmi parte attiva del loro viaggio. Ben 200 fotografie scandiscono il loro viaggio artistico. E dalla Torre Eiffel o dal Louvre o da Mont-Saint-Michel arrivano videochiamate che registrano i saluti alla zia Doda e allo zio Gianni.

Straordinario potere della bellezza!

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

R.ACCOGLIERE, IN TUTTI I SENSI
Mirko Artuso al Fienile di Baura: venerdì 15 settembre

R.ACCOGLIERE, IN TUTTI I SENSI
incontriamo Mirko Artuso al Fienile di Baura: venerdì 15 settembre alle 18.30

Un fienile dedicato agli incontri

Al Fienile di Baura si incontrano differenti forme di umanità. Immerso nella campagna ferrarese a pochi chilometri dalla città, è un centro socio-occupazionale per persone con disabilità e in situazione di svantaggio sociale. Insieme agli sguardi animali e vegetali che lo abitano, l’umanità che vive o frequenta questo luogo gestito dalla Cooperativa sociale Integrazione Lavoro (www.integrazionelavoro.org), indica un ritmo di vita, di ascolto e di pensiero differente. Si tessono relazioni umane, si accudiscono animali, si accolgono iniziative e si trasformano cibi e cose, attività che richiedono tempo, un tempo diverso e ritrovato, un nuovo modo di stare fra le cose del mondo. Al Fienile di Baura ci sono persone, gli orti, la fattoria didattica, la casa-famiglia, il centro residenziale, il centro eventi, i prati attorno, i fiori, i frutti, le erbe mediche e aromatiche, e tutto richiede cura per conservare la sua funzione e la sua bellezza. E tutto, richiama i sensi con armonia.

Al Fienile si vuole che il visitatore osservi il contesto con una visione d’insieme, che non consideri le persone senza il luogo attorno, e che non consideri quel luogo senza le persone che lo vivono. Seppur con effetto raccolto e misurato, chi arriva al Fienile ha la possibilità di uscire dai soli orli umani per fare esperienza del mito, quel tempo in cui animali, umani, piante e paesaggi si riguardavano reciprocamente in un legame naturale e indissolubile. Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che di quel legame – che gli stili di vita contemporanei più diffusi tendono ad assottigliare – abbiamo ancora bisogno, perché risveglia in noi l’eco di un’appartenenza a quella dimensione comunitaria in cui tutte le differenze hanno posto e pari dignità, e dove ci si occupa di umani, di animali, e di terra.

Fra le cose che nascono in un luogo di relazioni con queste caratteristiche e queste energie, è nata anche la volontà di organizzare incontri fra artisti e pubblico. Perché le arti, soprattutto quelle performative, mettono in relazione le persone attorno ad esperienze che coinvolgono le emozioni, i sensi, il pensiero. Da questa volontà nel 2021 è nato R.ACCOLTO, un piccolo programma di sguardi e testimonianze d’artisti sul mondo che viviamo e che, spesso, abitiamo senza adeguata coscienza. Proposte culturali che si aggiungono e si mescolano ai connotati del Fienile e alla sua piccola comunità, passando per la parola scritta, la parola detta, il gesto teatrale, il lampo coreografico ed ogni altra traccia artistica che porti un seme di coscienza nuovo e senso, nel tempo condiviso con il pubblico.

Nel cercare la traiettoria di questa nuova intenzione ci siamo accorti che, forse accompagnati per mano dalle caratteristiche del luogo, abbiamo scelto esperienze in cui la dimensione sensoriale è stata spesso protagonista. Lo è stato con Antonio Viganò, che con il teatro-danza della sua compagnia di attori con disabilità ci ha messo negli occhi un nuovo senso di bellezza e nuovi modi di entrare in contatto con corpi differenti. Lo è stato con Giuseppe Comuniello e la sua danza cieca, che ci ha portato dentro alle possibilità del buio e dell’esperienza tattile nella danza senza la vista, per costruire lo spazio del proprio movimento. Lo è stato con il Teatro delle Ariette, che ha messo tutto il pubblico a tavola e, cucinando in scena, lo ha coinvolto nel trascinante racconto della loro vita artistica e contadina, tra fumi di cottura e profumi di pasta sfoglia e tagliatelle. Lo è stato con Silvano Antonelli e il suo sapiente uso di musica e parole, che all’udito dei più piccoli porta canzoni e narrazioni per trasformare in poesia la realtà, anche la più complessa, dando ai loro occhi bambini strumenti per guardare il mondo in modo aperto e più lieve.

Lo sarà anche con il prossimo ospite, Mirko Artuso, regista e attore fra cinema e teatro, dedito anche a scultura, scrittura e illustrazione. Le sue creazioni scaturiscono sempre dall’impulso di raccontare e di restituire allo spettatore un sentimento di stupore, sempre più raro perché sacrificato da quel ritmo frenetico delle nostre vite che ci fa spesso guardare il mondo con occhi distratti, anche involontariamente. Artuso sarà al Fienile di Baura nel R.ACCOLTO di fine estate venerdì 15 Settembre alle 18.30, con la sua lettura scenica di Sotto il sole giaguaro (Italo Calvino).

A seguire, ci saluteremo con un aperitivo alle 19.45. Questo sesto appuntamento di R.ACCOLTO fra parole, musica e cibo, invita il pubblico a considerare il valore dei sensi che abbiamo in dote. Quei sensi che, come osservò lo stesso Calvino, l’uomo contemporaneo ha disimparato ad usare. Nella sua stimolante cornice di colori, profumi e sapori, il Fienile incontrerà tre racconti che parlano proprio di sensi, dalla voce di questo eclettico artista trevigiano con l’accompagnamento musicale di Isaac De Martin alla chitarra ed elementi elettronici. Con questo incontro, in un tempo in cui la tecnologia è entrata nel nostro uso e abuso quotidiano, vogliamo ricordarci del nostro naturale rapporto sensoriale con il mondo che abitiamo.

Dopo Silvano Antonelli (21 Aprile) e Mirko Artuso (15 Settembre), il RACCOLTO di quest’anno proseguirà con Babilonia Teatri (Ottobre). Ci racconteranno la necessità, lo sviluppo e la tonalità drammaturgica di un’interrogazione sul caso Carlo Regeni, sul quale nel 2022 hanno realizzato una delle loro ultime produzioni. In questo caso – e per questo caso – il senso è civico, e richiede pratica e allenamento in tutte le forme possibili, anche artistiche.

Agnese Di Martino – scritto insieme a Nicola Folletti e Marino Pedroni

Programma:

ore 18.30 lettura scenica

ore 19.45 aperitivo

Ingresso:

biglietto unico 20 euro (comprensivo di spettacolo e aperitivo). Pagamento in loco.

Partecipazione:

prenotazione obbligatoria compilando il modulo di partecipazione:

https://docs.google.com/forms/d/12-ji1Zv4n9UTvCBuftpgXU7zDHEi33EFk3wBqzI0ao8/viewform?edit_requested=true

Info: 337 10 96 448 / info.lstferrara@gmail.com

Note biografiche 

Autore, regista e attore teatrale e cinematografico, Mirko Artuso debutta nella compagnia Laboratorio Teatro Settimo di Torino con gli spettacoli Nel tempo tra le guerreLibera Nos e La storia di Romeo e Giulietta (Premio UBU), formandosi insieme a molti artisti fra cui Laura Curino, Eugenio Allegri e Marco Paolini. Lavora anche per il cinema, partecipando ai film I piccoli maestri di Daniele Lucchetti, Non è mai colpa di nessuno di Andrea Prendstaller, Piccola patria di Alessandro Rossetto, La giusta distanza e La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati, fino ai più recenti La pelle dell’orso di Marco Segato, Resina di Renzo Carbonera, Menocchio di Alberto Fasulo, Effetto domino e The italian Banker di Rossetto.
Nel 1995 inizia Teatro & Diversità, un progetto di seminari, laboratori e spettacoli che porta in diverse città italiane per promuovere, con le arti performative, il benessere e la partecipazione sociale delle persone disabili. Con questo progetto arriva anche a Ferrara, dove conduce laboratori e realizza spettacoli dal 2003 al 2015 con l’allora gruppo Le altre parole.
Dal 2013 è direttore artistico del Teatro del Pane, un piccolo teatro in provincia di Treviso dove cucina e spettacolo si fondono e per il quale cura anche il festival estivo La giusta distanza. Oltre a teatro e cinema, Artuso si dedica anche alla scrittura ed alla realizzazione di illustrazioni e sculture.

In copertina: Mirko Artuso (foto di Alfonso Lorenzetto)

ACCORDI
Il pop retrò di Cut Worms, cantastorie dell’America che fu

When the leaves all start to change and the air is cool
And I’m riding on the bus goin’ back to school
And the summer’s almost gone
Never seems to last too long
And the nights that were so inviting, now seem so cruel

Sì, l’ineluttabile mood autunnale è già qui, e arriva dall’Ohio. La voce gentile e un po’ nasale del cantautore Max Clarke, in arte Cut Worms, ci sussurra una dolcissima love song anni ’60 che sembra uscita dalla penna di Roy Orbison.

Il pezzo si intitola Living Inside, ed è la settima traccia dell’ultimo album dello stesso Cut Worms, pubblicato a metà luglio. L’album è un affascinante concentrato di musica popolare americana del secolo scorso: in appena 34 minuti Max Clarke veste i panni del cowboy solitario, del crooner in cerca di attenzioni e della pop-star underground. Lo fa con la leggerezza e la spontaneità di chi ama incondizionatamente il proprio lavoro e ne conosce a menadito ogni sfumatura.

Tuttavia, per far breccia sull’ascoltatore è sufficiente una melodia fresca, un arrangiamento lineare e un’innata capacità descrittiva, poiché il pezzo, così come il disco, cammina sulle sue gambe senza alcuno sforzo o guizzo in fase di produzione. Del resto, lo dice lo stesso Max Clarke: il suo è un pop essentialism. Essenziale, sì, ma non per questo povero o scontato.

Living Inside è tutt’altro che un semplice omaggio al passato; è un inaspettato tuffo al cuore, e fa venir voglia di chiudere gli occhi e tirare un po’ le somme di quest’estate, immaginandoci nuove e affascinanti opportunità all’orizzonte. Un modo piuttosto efficace per non farsi assalire dalla malinconia settembrina.

Appello di una cittadina a Ferrara malata di indifferenza

Appello di una cittadina a Ferrara malata di indifferenza

di Claudia Zamorani

Questo è un appello di una cittadina per tornare a partecipare con passione ed entusiasmo alla vita pubblica, per tenerci informati, per uscire dal torpore anestetico delle giostre perché i balocchi sono belli, è vero, ma poi le luci si spengono e il trucco si scioglie e lo sguardo si posa inesorabile su ciò che rimane.

Quando il popolo si fa gregge, vuole l’animale capo, come insegna Nietzsche. In una società complessa, dove la gente fatica a orientarsi, chi offre risposte semplici funziona. Del resto il successo degli imbonitori è la cifra dalla diffusione dilagante dell’ignoranza, soprattutto dell’indifferenza, un anestetico prodigioso che spinge a rinchiudersi nella corazza stretta della propria solitudine, ad astenersi dalla partecipazione alla vita pubblica e alla vita tout court e a sopravvivere in qualche modo, in una tensione che unisce al tempo stesso cinismo e disperazione, a interessarsi esclusivamente al proprio particolare, all’orticello di casa.

Indifferenza sostenuta, dall’altra parte, da iniezioni massicce di anestetico, tutto purché non si pensi, purché si abdichi al pensiero critico, purché non si veda ciò che accade nelle segrete stanze del potere. Nella Napoli borbonica si diceva “feste, farina e legalità”: grandi spettacoli e impiccagioni pubbliche, per distrarre l’attenzione del popolo, mantenere il consenso e per dimostrare che il potere è in grado di garantire ordine e legalità.

E così via al dolce profluvio di eventi, musica, spettacoli, alle giostre, ruote panoramiche e ai cuoricini che nulla hanno da invidiare al paese dei balocchi, se non fosse che neppure la fantasia di Collodi è arrivata a immaginare di riempire di bagni chimici e di tanta bruttezza le piazze storiche e splendide della città, tra l’incredulità dei turisti che scappano via a frotte e nell’indifferenza delle Belle Arti, che non ti dà scampo se sbagli il pantone del muro di casa ma che non sente e non vede tanto scempio di alto bordo.

E poco importa se nel frattempo, tra una hit e l’altra, gli indicatori di ricchezza e di felicità della città vanno a picco, se il turismo annaspa, l’occupazione arretra, il commercio fatica, il lavoro scarseggia, il degrado si sposta ma non arretra, se i giovani scappano.

Poco importa se il sindaco a Ferragosto lancia diktat contro i centri di aggregazione giovanili, serrati a doppia mandata con ordinanza comunale che intima lavori urgenti e indifferibili entro 30 giorni, pena la chiusura ad libitum e pagamento delle spese.

Poco importa se cricche di amici dello sceriffo, nelle loro scorribande social, epitetano la senatrice Liliana Segre “vecchiaccia tatuata” o se paragonano gli immigrati ai granchi blu che infestano i nostri mari e che pertanto vanno sterminati e buttati in pentola.  

Siamo diventati indifferenti. Non c’è indignazione se non tra uno sparuto numero di sognatori. Tutto scivola tutto via come acqua fresca sul greto del fiume, mentre già fervono i cantieri del prossimo evento, e poco importa se per costruire i palchi si sbudellano polmoni di bellezza verde e di cultura. Il fine giustifica i mezzi nella città, Ferrara, che non persegue più il bene comune.

Questo è un appello di una cittadina per tornare a partecipare con passione ed entusiasmo alla vita pubblica, per tenerci informati, per uscire dal torpore anestetico delle giostre perché i balocchi sono belli, è vero, ma poi le luci si spengono e il trucco si scioglie e lo sguardo si posa inesorabile su ciò che rimane.

Nota:
Questa lettera-appello è già uscita, con altro titolo, su virgilio.it del 31 agosto e su estense.com del 1 settembre 2023

Progetto teatrale Passi Sospesi: Matteo Garrone alla Casa circondariale femminile di Giudecca

Teatro in Carcere: un connubio possibile, due eventi a Venezia il 5 e 6 settembre in occasione della 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Grazie a Balamòs Teatro di Ferrara.

Prosegue la proficua collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, con le attività coordinate da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi”, attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari veneziani.

Avviate nel 2008, le iniziative si svolgono dentro e fuori gli Istituti Penitenziari durante il periodo della Biennale Cinema (Casa di Reclusione Femminile – Giudecca, Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore – Venezia).

In questi anni, sono stati organizzati incontri, conferenze, proiezioni di documentari sul progetto teatrale “Passi Sospesi” nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, ma anche all’interno degli Istituti Penitenziari. Nelle ultime edizioni Michalis Traitsis invita registi e attori ospiti della Mostra per un incontro con la popolazione detenuta, preceduto dalla presentazione dei film più rappresentativi degli artisti ospitati. Negli anni passati hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica, Concita De Gregorio, David Cronenberg, Paolo Virzì, Daniele Luchetti, Leonardo Di Costanzo, Silvio Orlando, Susanna Nicchiarelli.

Grazie alla Biennale di Venezia e alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, nell’ambito della 80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di VeneziaMartedì 5 Settembre 2023, alle ore 16.00, presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, si svolgerà un incontro tra le donne detenute e il regista cinematografico Matteo Garrone, che con il film Io capitano” parteciperà alla Mostra del Cinema di Venezia 2023.

L’incontro è riservato agli autorizzati e si svolgerà presso la sala teatro della Casa circondariale femminile di GiudeccaE’ prevista inoltre la presenza di un detenuto presso la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia in permesso, alla presentazione del film di Matteo Garrone “Io capitano” alla 80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di VeneziaMercoledì 6 Settembre 2023, alle ore 16.45.

La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che comprende come partner il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione del Veneto.

Cover: nella foto il regista Matteo Garrone

La sinistra e il tabù della sicurezza

Il Toro per le corna
Ignoro se tra i temi, proposte e programmi che immagino siano in discussione al cosiddetto “Tavolo delle opposizioni” abbia fatto capolino anche  il tema della sicurezza. Me lo auguro. Quel che è certo è che, all’occhio e alle orecchie di Periscopio, arrivano molte voci  e molti commenti che chiedono più sicurezza, più tranquillità, più serenità. Non sto parlando del manipolo della noiosissima claque di Naomo Lodi,  impegnata da anni  a montare una campagna giustizialista e forcaiola, parlo di  “cittadini ed elettori comuni” , molti dei quali hanno votato le formazioni di Centrosinistra.
Su questo giornale, qualche giorno fa Nicola Cavallini e qui sotto Franco Stefani, prendono il toro per le corna: “la sicurezza è di sinistra”. Per dire che l’esigenza di abitare e vivere in sicurezza nel proprio quartiere e nella propria città non è solo un sentimento legittimo e universalmente sentito, ma deve diventare un preciso obiettivo politico di una Sinistra che vuole tornare al governo di Ferrara.
Dovremmo ormai averlo capito. Non servono gli slogan muscolari e razzisti della Destra, o le marce mediatiche e i fili spinati di Naomo, né servirà l’imminente arrivo del Settimo Cavalleggeri: non ci crede nessuno, tranne il Resto del Carlino, che 15 militari e 3 camionette raddrizzeranno la schiena di Ferrara. Del resto, il fallimento  del programma e delle azioni messe in atto dalla giunta di destra è un fatto conclamato: Ferrara è oggi meno sicura di quattro anni fa.  Detto questo, il Centrosinistra non può ripetere l’errore madornale di quattro anni fa, far finta cioè che a Ferrara non esista un problema insicurezza, non ci siano sacche di degrado sociale, non siano aumentati gli episodi di violenza e microcriminalità, non abbia ripeso fiato lo spaccio e il consumo di droghe pesanti.  E non ci si può affidare alla parola-panacea “prevenzione”, senza spiegare cosa vuol dire esattamente quella bella parola, senza dire come attuare una politica di prevenzione e protezione sociale, con quali mezzi, con quali strumenti, coinvolgendo quali soggetti: dai vigli di quartieri alle associazioni presenti nei quartieri.
La mia impressione è che, lo vogliamo o meno, il tema della sicurezza sarà ancora al centro dello scontro elettorale del prossimo giugno. Sarà bene, per tutti, con qualche idea concreta in testa.
Francesco Monini

La sinistra e il tabù della sicurezza

Premessa: non sono un fan del generale Vannacci, per molti motivi. Ma condivido l’affermazione di Nicola Cavallini nel suo articolo del 30 agosto, sul futuro di Ferrara, che trascrivo: “… Purtroppo, a volte non basta la socialità per garantire l’ordine pubblico, ma serve anche una polizia che controlla e presidia il territorio. E per farlo occorrono risorse. La sinistra che mette risorse nel presidio dell’ordine pubblico, esatto. È un tabù da sconfiggere: l’idea di una polizia che fa il suo lavoro al servizio dei cittadini non può continuare a far evocare il fantasma della morte di Federico Aldrovandi, perché sono cose diverse”.

Per la Sinistra non c’è solo il tabù ricordato da Cavallini, ce ne sono molti altri in materia di ordine pubblico. Quasi sempre ignorati, sottovalutati, rimossi. E allora facciamoci qualche domanda.

In Italia abbiamo (dati 2021, Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano coordinato da Carlo Cottarelli) 306 mila agenti appartenenti alle forze dell’ordine (Carabinieri, compreso il Corpo forestale dello Stato; Polizia di Stato; Guardia di Finanza; Polizia Penitenziaria).
Ci sono 453 agenti ogni 100 mila abitanti. La media europea è 335 agenti. Se poi aggiungiamo i numerosi corpi di carattere locale (Polizia Municipale e Polizia Provinciale), le Guardie giurate e le Capitanerie di porto, possiamo stimare che si sfiorino o superino le 500 mila unità.

Basta con i numeri. Prima domanda: esiste (anche per la realtà ferrarese) un coordinamento interforze (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza) che con responsabilità del Prefetto, massimo organo dello Stato, agisce in permanenza (e in accordo con i comandi di Polizia locale) per la tutela del territorio, dell’ordine pubblico, la prevenzione della criminalità più o meno organizzata? E questo coordinamento, se c’è, funziona?

Seconda domanda: sono sufficienti gli organici (uomini e donne) delle forze dell’ordine per far fronte ai bisogni di ordine pubblico, al controllo del territorio e ai vari problemi che i cittadini presentano ogni giorno?

Terza domanda: qual è oggi il grado di addestramento, di dotazione strumentale, di formazione professionale (soprattutto per alcuni reati particolarmente gravi, come quelli legati alle mafie, il traffico di stupefacenti, il femminicidio) per gli agenti impegnati in attività di prevenzione e repressione del crimine?

Quarta e ultima domanda, di ordine generale: non è il caso di rivedere con urgenza il sistema punitivo (giudiziario, carcerario) per garantire la rieducazione del soggetto condannato, ma anche, e in tempi brevi, la certezza e l’efficacia della pena per chi delinque?

Si interroghi più spesso su questi problemi la Sinistra, nelle sue varie espressioni, svestendosi degli abiti mentali e abbandonando i preconcetti che sin qui ha avuto, e dia delle risposte convincenti. Alla popolazione, s’intende.
Altrimenti avranno sempre più ragione il generale Vannacci e quelli come lui.

Per leggere tutti gli articoli, i racconti, le poesie di Franco Stefani  pubblicati da Periscopio, clicca sul nome dell’autore. 

Storie in pellicola /
“The Tender Bar”, quando le assenze hanno un peso

“The Tender Bar”, infanzia e adolescenza del giornalista-scrittore J.R. Moehringer, storia di un’assenza, ma anche di un’immensa presenza

Stato di New York, Long Island, anni Settanta. Un giovane che ha voglia di imparare e crescere, un padre assente e una madre che si destreggia fra lavori precari e difficoltà. Non potendosi più permettere una casa, Dorothy (Lily Rabe) decide di tornare con suo figlio J.R. (prima Daniel Ranieri, poi Tye Sheridan) a vivere a casa dell’anziano padre (il Doc di “Ritorno al futuro”, un burbero Christopher Lloyd), dove dimora anche il fratello Charlie (un favoloso Ben Affleck, recentemente visto in “Air, La storia del grande salto”). Suo marito (Max Martini) li ha abbandonati prima della nascita di J.R. e l’unico modo che il bambino ha di entrare a contatto con lui è ascoltarlo in radio, dove lavora. Un uomo lontano che è e sarà sempre e solo “La Voce”. L’assenza del padre è il punto cardine di “The Tender Bar”, di George Clooney: il padre è un fantasma, una figura inaffidabile e arretrata, carente di empatia, a tratti pure crudele.

Il ruolo paterno viene assunto dal rude ma affettuoso zio Charlie, nel suo bar molto frequentato “The Dickens”, dove, fra libri polverosi e rovinati, si legge tanto, si fanno parole crociate e si chiacchiera, e J.R. apprenderà la vita, in tutte le sue sfaccettature.

Charlie è generoso, non si risparmia per il nipote, soprattutto in sentimenti e amore. Lo stimola a studiare, a perdersi nei libri, a credere in sé, a non mollare mai, a osare. Lui è il suo coraggio, la mano sempre tesa alla ricerca e rivendicazione della propria identità.

Daniel Ranieri e Ben Affleck, Photo Claire Folger © Amazon Content Services

La rivincita di J.R. sarà la laurea in lettere a Yale, e dal lavoro come fattorino al The New York Times, la scalata sarà fino al Los Angeles Times e al Premio Pulitzer, nel 2000, per il giornalismo di approfondimento e costume (feature writing).

È la vita di J. R. Moehringer, pseudonimo di John Joseph Moehringer (New York, 7 dicembre 1964), il famoso giornalista e scrittore statunitense, la cui carriera di scrittore inizia, nel 2005, con l’uscita del suo primo romanzo, “The Tender Bar” tradotto con il titolo “Il bar delle grandi speranze” (editore Piemme).

George Clooney lo ha adattato con lo sceneggiatore William Monahan. Di Moehringer si è parlato molto per il suo sostanziale contributo alla stesura di Open, l’autobiografia del tennista statunitense Andre Agassi (2009), così come a Spare (2023), l’autobiografia di Henry, duca di Sussex.

Quel ragazzo aveva sempre sognato di fare lo scrittore, facendo i conti con il suo doloroso passato, da cui troverà riscatto. In un’atmosfera pienamente anni ’70 (auto dell’epoca, vestiti a zampa di elefante, musica rock alla radio), una storia ordinaria di persona straordinaria, bella, di quelle a lieto fine, che pare uscita da un album di foto di famiglia, un racconto pieno di bei sentimenti e di atmosfere dolci, 104 minuti che fanno bene all’anima.

The Tender Bar, di George Clooney, con Tye Sheridan, Ben Affleck, Lily Rabe, Christopher Lloyd, Max Casella, Daniel Ranieri, USA, 2021, 104 minuti.

 

 

 

Divagazioni di fine estate: le cicale

“Ah, il suono delle cicale… Mi riporta a quel bel viaggio in Camargue, a Saintes Maries de la mer”, dice sognante la mia amica Monica Forti. E, in effetti, nel sud della Francia c’è una specie di culto di questo animale, come un porta-fortuna che viene considerato emblematico del loro territorio. Una bella ceramica colorata di questa curiosa forma, che mi pareva quella di uno strano bamboccio in fasce, l’avevo trovata nel salotto di una casa in Provenza e, un’altra simile, si presentava come vaschetta per l’acqua del termosifone di un appartamento di Marsiglia.

In realtà non avevo ben capito cosa rappresentassero questi fagottini pietrosi. In giro per le strade le ho viste un po’ ovunque nelle vetrine, piccole piccole da attaccare al frigorifero o più ingigantite negli espositori di souvenir: coloratissime di giallo, viola, lilla, o con un bel bianco e nero squillante che ne faceva un simbolo tutto loro. A illuminare il buio della mia ignoranza, qualche artigiano ha pensato bene di decorare l’oggettino con la sua scritta distintiva in un bel corsivo colorato che la nominava “cigale”.

Ceramica dal sito turistico della Provenza

Una conoscenza che restava, per me, un sognante ricordo esotico e che ha preso forma reale solo l’altra mattina, al risveglio: vedo un insetto grosso  e mostruoso aggrappato alla rete della zanzariera sulla mia finestra. Aiuto! Speriamo che sia fuori – penso avvicinandomi circospetta, elucubrando su quale specie aliena si possa essere depositata sulla soglia della mia stanza. La guardo, è immobile e davvero bestiale. Un essere tozzo e minaccioso, con ali trasparenti su un corpo che mi pare enorme e nero. Sembra una mosca gigante, con ali di una libellula gonfiata a dismisura. Mi armo di due giornali per tentare eroicamente di scacciare il mostro e, in caso di retromarcia, di frenarne il rimbalzo tra le pareti domestiche. Appena lo sfioro emette un suono così noto e inconfondibile: è quello della cicala! Ce ne sono a pacchi, a giudicare dal rumore, di questi animaletti che ritenevo minuscoli dal gran che sono normalmente così poco visibili.

Tanto si sente il loro incessante gracchiare, infatti, quanto poco le si scorge, queste bestiole avvolte da un’aura leggendaria (e da un guscio piuttosto spettrale che abbandonano tra gli alberi). L’idea della cicala rimanda sempre al vecchio racconto di Esopo – poi adattato dalla fiaba rilanciata dallo scrittore, guarda caso francese,  Jean de La Fontaine – che ne mette in contrapposizione l’allegro e spensierato canticchiare con la laboriosa e silente abnegazione della formica. Fatto sta che la cicala è comunque avvolta da quest’idea di sapersi godere la vita, di assaporare con noncurante allegria il presente, qui ed ora, senza farsi prendere da assilli né pensieri di cautelativa preservazione. Per questo, credo, uno dei più famosi locali di intrattenimento vicino a place Pigalle a Parigi si chiama “La Cigale”, che è appunto la traduzione francese del nome della bestiola.

Anche Heather Parisi cantava, letteralmente, la gioia di vivere, di questo animaletto nel suo memorabile “Cica, cica, ci-cale!”, con una delle coreografie più popolari e scatenanti che hanno fatto saltellare a pieno ritmo le immagini sugli specchi delle camerette di noi ragazzine.

Con il poeta Umberto Saba concorderebbe, però, un’altra mia amica, Paola, che vive nella campagna ferrarese e forse proprio per questo non manca occasione di comunicare la sua disillusa visione della natura, scacciandone ogni lettura idilliaca e magari un po’ irrealisticamente sognante. Perché Saba – come la Paola – nota: “Quand’ecco da tutti/ gli alberi un suono s’accorda,/ un sibilo lungo che assorda,/ che solo è così: le cicale”. Anche per lei sono bestie assordanti. E, se mi azzardo ad accennarle la possibilità di un’uscita all’aperto in questa nostra estate padana, mi risponde brutalmente che non ne vuole mezza di fare quella che per lei non sarebbe che un’ingiustificabile “immersione tra zanzare e cicale”, già provvista com’è – assicura – di punture di altri aggressivi insetti, per i quali ha previdentemente in serbo speciale (e specifica) crema antibiotica.

A riabilitare l’aura letteraria è intervenuto lo scrittore ferrarese Roberto Pazzi sulle pagine de Il Resto del Carlino (3 agosto 2023) , dove eruditamente la definisce “compagna di viaggio di scrittori e poeti, da Omero a D’Annunzio”.

Paladino della bellezza del cicalare si era addirittura schierato un maestro della fantasia come Gianni Rodari, che poetando la elogia: “Chiedo scusa  alla favola antica/ se non amo l’avara formica./ Io sto dalla parte della cicala/ che il più bel canto non vende/ regala”. Ce lo regalano infatti, il loro coro tambureggiante, tant’è che se di questi tempi ci si trova sotto i tigli dei viali conviene dismettere ogni velleità di conversazione e men che meno di contatto telefonico.

Un monito imperativo, in effetti, a vivere il qui ed ora in esclusiva compagnia di quanto abbiamo intorno.

Parole a Capo
Marco Chinarelli: poesie inedite

Marco Chinarelli: poesie inedite

Marco Chinarelli (1954 – 1987)si è dedicato per anni – senza nulla far conoscere agli altri – all’elaborazione poetica, rinvenendo materia viva nella propria vicenda personale. Se n’è andato troppo presto, scegliendo da solo la parola fine. Ci ha lasciato molti ricordi e un fascio di parole. Nel 1988, nella collana Testi della rivista ferrarese Poeticamente, uscì una piccola raccolta di poesie di Marco Chinarelli, curata da Laura Fogagnolo e con una breve nota di Leonardo Punginelli.  Testi quasi sempre contrappuntati da una data e con qualche titolo qua e là.
Su Periscopio  abbiamo scritto alcune volte di Marco Chinarelli (ad esempio il 30 luglio 2020: “Il tempo è testimone. Un ricordo di Marco Chinarelli”).
In questo numero di Parole a Capo pubblichiamo alcune poesie inedite che, a nostro avviso, evidenziano una forte capacità di osservazione e introspettiva dell’autore.
Pier Luigi Guerrini

 

Ovunque sia
il sole mi prosciuga
catafratto di orgoglio
di ferro e di basalto
Non ho vita
entro di me
né profondità alcuna
Fronteggio immobile
la paziente mareggiata
che, lenta, mi sgretola, mi rovina
I nostri morti
fradici
nella terra li tormenta
la pioggia
Me
tormenta
umida e indecifrabile
la Luna.

 

Per un’amica

Ai capolinea è un grigiore anonimo
di sigarette e deodorante spray
Calano i soli
ad uno, ad uno,
come siparietti
su teatrini portatili

E tu ti pettini, dolce e lenta.

 

Insonnia virile

Muto e ardente
come un carbone bruciato
mi fisso nel cielo
senza opporgli un gesto
né un suono
Raccolgo, inutilmente,
le gambe indolenzite
e aspetto.

Fra poco il cielo
sarà bianco
e verrà l’alba.
Ma non il pianto.


Umida la sera

Umida la sera
come le tue labbra
che hanno riflessi lucidi
di fresche parole
Anna
Così attonita
nella tua dolcezza
io, quasi,
assorto nel guardarti
temo
la violenza del vento
che già ti scompiglia i capelli
e, afferrandoti i polsi
sussurro: Rimani.

 

Nuvole/Elisa

Nel silenzio della stanza, Elisa
conta le nuvole
tra i vetri appannati
il caffè bolle
una sigaretta accesa
si scioglie in pensieri
La mattina si prevede serena
Inutile accendere la radio
per ricevere echi di ritorno
La mattina è troppo bella,
la si può prendere in mano
finché l’incanto non svanisca
Oltre i vetri, c’è il vuoto
Gocciole di sole rigano il fiato
dei desideri

LO SCAFFALE POETICO
Alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia. Buona ricerca poetica.

  • Annalisa Mercurio,  Muovimi il fiato, ChiPiùNeArt Edizioni, 2023
  • Emilio NapolitanoLa ballata del verso sbagliato, Eretica, 2022
  • Agnes MK, Dal circo, ChiPiùNeArt Edizioni, 2022

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]