Una partita di baseball dura in media tre ore ed è scandita da un sacco di pause, durante le quali il pubblico statunitense è solito prendersi il centro della scena: infatti, oltre a consumare grandi quantità di cibo, sugli spalti ci si bacia di fronte alla kiss cam, si fanno bizzarre proposte di matrimonio e, soprattutto, si canta. Ebbene, il brano più conosciuto dal pubblico nordamericano è senza dubbio Take Me Out To The Ball Game, la cui storia merita un approfondimento.
Si tratta di una semplice canzonetta in 6/8, scritta nel 1908 dal paroliere Jack Norworth e dal pianista di origine polacche Albert von Tilzer, entrambi non particolarmente interessati al baseball. Senonché, un cartellone pubblicitario affisso nella metropolitana di New York dette l’ispirazione a Norworth, le cui liriche leggere e spensierate divennero ben presto una canzone vaudeville, ossia un brano adatto a essere interpretato in uno spettacolo teatrale perlopiù satirico. Il genere vaudeville, infatti, raccontava l’attualità dell’epoca attraverso melodie orecchiabili e un po’ d’ironia. Sta di fatto che Take Me Out To The Ball Game riscosse un gran successo nei teatri statunitensi, ma l’apertura dei primi cinema e la progressiva diffusione della radio contribuirono al declino del suddetto genere.
Così, nel giro di qualche anno la canzone di Norworth e von Tilzer passò dai teatri alle arene sportive: nel 1934 fu suonata per la prima volta in uno stadio di baseball a Los Angeles, e precisamente in una partita tra studenti delle scuole superiori; l’anno successivo, invece, venne addirittura proposta durante la fase finale del campionato MLB. Diventò infine popolarissima a partire dagli anni ’70, cioè quando lo speaker Harry Caray iniziò a far cantare al pubblico il ritornello del brano durante il cosiddetto seventh-inning stretch, la breve pausa del settimo inning.
Caray lo intonò dapprima di fronte al pubblico dei Chicago White Sox, poi, a partire dal 1982, fece lo stesso assieme ai tifosi dei Cubs, ossia l’altra squadra di Chicago. Fatto sta che al Wrigley Field, stadio dei Cubs, non c’è pausa del settimo inning senza Take Me Out To The Ball Game: tifosi celebri quali Eddie Vedder, Ozzy Ousbourne, Vince Vaughn e Bill Murray [Qui] l’hanno cantata, e continueranno a cantarla, assieme al pubblico di Chicago, proprio come faceva Caray. Basti pensare che al di fuori dello stadio dei Cubs è presente da più di vent’anni una statua che ritrae lo stesso Harry Caray nella sua posa più iconica, cioè quella in cui porge simbolicamente il microfono agli spettatori [Qui].
Insomma, l’intenzione originaria dei due autori del brano – adattarlo agli spettacoli vaudeville – è stata fagocitata dal trascorrere del tempo e dalla popolarità del baseball. Eppure, le due dimenticate strofe di Take Me Out To The Ball Game conservano un collegamento con il genere teatrale di cui sopra: in quei versi, infatti, si parla di una certa Katie Casey, pseudonimo inventato da Norworth per riferirsi all’attrice vaudeville Trixie Friganza, con cui lo stesso paroliere newyorchese ebbe una relazione durante la stesura del testo.
Norworth descrive tale Katie Casey come una donna intraprendente, progressista, disinibita e apparentemente appassionata di baseball: caratteristiche che secondo gli storici nordamericani corrispondono a quelle mostrate, sia sul palco che nella quotidianità, dalla suddetta Trixie Friganza, la quale contribuì all’ascesa del movimento femminista negli Stati Uniti.
D’altronde, Friganza partecipò attivamente a numerose campagne per i diritti delle donne, sovvenzionando le suffragette e parlando più volte in pubblico. Durante l’enorme manifestazione a favore del suffragio universale del 28 ottobre 1908, pare che la stessa attrice abbia arringato la folla di New York con le seguenti parole: “Non credo che ogni uomo – o perlomeno nessun uomo che io conosca – sia più idoneo a formare un’opinione politica di quanto lo sia io”
Tra un libro letto e un libro presentato: Nome in codice Renata di Alessandro Carlini
“Tra un fiore colto e l’altro/donato/l’inesprimibile nulla“: non riesco a distogliermi dalla poesia che Giuseppe Ungaretti ha intitolato Eterno, avverto prima di tutto lo spazio che si crea tra i due fiori e ciò che viene predicato della voragine che li divide. Eppure sono legati tra loro, sono entrambi un fiore.
Sento di dover procedere così, se voglio mettere a fuoco ciò che ho pensato dopo lo scorso venerdì sera, dopo avere presentato alla Biblioteca Popolare Giardino il prezioso libro di AlessandroCarlini, Nome in codice Renata, dedicato alla figura straordinaria di Paola Del Din, medaglia d’oro al valor militare per il suo operato di agente dei servizi segreti britannici fra il 1944 e il 1945.
Ne avevo fatto una prima lettura e avevo recepito il valore storico della biografia di Paola. Mi era arrivata la intensa curvatura emotiva delle storie di vita di tanti patrioti che, come lei, hanno dato vita alla Resistenza italiana.
Che bella anche la cornice narrativa: una serie di incontri tra lei e Alessandro, in cui la memoria si esercita potentemente sul nostro recente passato e si fa lucida lettura anche del presente. Intanto la solidarietà tra loro scava l’alveo di una profonda amicizia.
Ne ho fatto la seconda lettura in preparazione della serata di venerdì 3 novembre, per far sì che il libro “colto” potesse venire “donato” e diventare molto altro.
Dall’apertura dell’incontro non sono più stata solo la lettrice silente del testo, sono diventata la voce dotata di microfono che ha detto “Buonasera a tutti gli amici che sono qui per conoscere la biografia di una grande donna, ecc…”
Ho poi fatto domande ad Alessandro, seduto alla mia sinistra, cercando di sottoporgli i nodi della sua narrazione dentro il libro, ascoltando le risposte ampie e precise, le ragioni della sua scrittura tanto rigorosa.
Anche tanto carica di umanità, in una storia come questa che intreccia il suo al destino di Paola Del Din: qualcosa di esiziale che hanno provato entrambi a un certo punto della loro esistenza. A un passo dal perderla, hanno ritrovato larinascita, a cui Alessandro assegna la propria opera di giornalista e di scrittore, mentre Paola nell’incipit del libro dice con prontezza un nome e una precisa etimologia: da combattente prende il nome del fratello Renato morto nell’aprile del 1943 durante l’assalto alla caserma repubblichina di Tolmezzo.
Avevo preparato una serie di quesiti, ma ne ho modellato ogni volta o la struttura o la formulazione, dopo avere ascoltato la risposta già data dall’autore. Spesso ho immaginato che i presenti in sala fossero idealmente in fila indiana dietro di me e ho sperato che il mio sentire fosse il loro, che andasse bene coinvolgerli nel ricordo degli anni difficili della seconda guerra, recuperati attraverso i racconti dei genitori o dei nonni che ognuno aveva in casa. Che le parole fossero cariche di echi dal passato famigliare che ognuno di noi ha ricevuto in eredità.
In realtà avrei dovuto occupare un posto a metà tra gli ascoltatori e lo scrittore, seduta tra il tavolo e la prima fila di sedie, e passare da una parte all’altra le parole e i pensieri. Emozionatadalle voci, quella di Alessandro e la mia, che trasformavano le pagine scritte da lui e le mie piene di appunti inoccasione di dialogo. Che bello poter vedere uno dei taccuini su cui ha preso gli appunti preparatori del libro, nelle lunghe settimane in ospedale e durante gli incontri con Paola nella sua casa di Udine.
Incontri l’autore del testo che hai letto e fai nuove scoperte: come l’opera è nata, per quali fasi è passata. Impari di più sul periodo storico, perché l’autore sente l’atmosfera partecipata dell’incontro e libera le sue conoscenze sull’ultimo anno di guerra nella regione di Paola, il Friuli, e nel resto d’Italia.
Scrivi lestamente i titoli di altri libri che segnala mentre parla, libri di valore storico e letterario. Se ti sfugge qualche parola, pensi che gli chiederai le indicazioni bibliografiche dopo la fine dell’incontro. È andata così, e i titoli sono arrivati: Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane e Vita e destino di Vasilij Grossman.
Cerchi di allargare lo spazio attorno al testo, di aggregargli attorno altre reazioni di lettura. Citi la recensione di Eliana Di Caro uscita su Il sole 24 ore del 23 aprile 2023 e chiedi chiarimenti all’autore sul femminismo di Paola, avendo conferma che Di Caro ne ha accentuato la portata ideologica: in realtà alla domanda se ha sentito “una qualche forma di orgoglio femminile” nel suo agire Paola risponde di non essere mai stata una femminista e taglia corto: “Ho affrontato quello che ho affrontato perché andava fatto“.
Cedi la parola al pubblico e ascolti la domanda interessante che mette in relazione l’estrazione sociale di Paola, la buona borghesia friulana, con la scelta di diventare combattente della Resistenza. La risposta prende spessore andando ad attingere alla cultura e alla storia di quella regione e alla vocazione risorgimentale della famiglia Del Din, le considerazioni si allargano a includere le annose controversie legate ai confini d’Italia.
Ho chiuso l’incontro ringraziando i presenti, Alessandro e le amiche che animano la vasta attività culturale della Biblioteca Popolare Giardino. Frasi che si dicono sempre, ma questa volta sono sentite come accade di rado.
Nota bibliografica:
Alessandro Carlini, Nome in codice: Renata, UTET, 2023
Stephen Crane, Il segno rosso del coraggio, Sellerio, 2022
Vasilij Grossman, Vita e destino, Adelphi, 2008
In copertina: Paola Del Din “Renata” fra i compagni della missione Bighelow, Dumas Poli “Secondo” (a sinistra)Gianandrea Gropplero di Troppenburg “”Freccia”, poco prima di partire per il Friuli, 9 aprile 1945.
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
Il primo appuntamento Webinar “Teatro e guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”, Venerdì 10 novembre alle ore 17,00 avrà come relatore il prof. Fausto De Michele. Professore associato di Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Graz e di Letterature Comparate presso l’Università di Vienna.
Ha pubblicato numerosi saggi e libri su vari autori europei del Novecento, sulle teorie del comico, sulla Commedia dell’Arte e sulla ricezione di Pirandello.
Ciclo di incontri “Teatro e guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”
Venerdì 10 novembre
Venerdì 17 novembre
Venerdì 24 novembre
Venerdì 1 dicembre
Potete seguire la diretta dell’evento sulla pagina Facebook di Fabio Mangolini, sul canale YouTube di Cornucopia, Fabio Mangolini e quello dell’Università degli Studi di Ferrara – Dipartimento Studi Umanistici.
Cornucopia Performing Arts Lab – Ferrara
cornucopiaperformingarts@gmail.com
Programma completo e primo incontro con Fausto De Michele
Ciclo di incontri: “Teatro e guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”
Primo appuntamento: “Guerrieri ridicoli e guerre vere”;
In copertina: Personaggi della Commedia dell’Arte, attribuito a Francois Bunuel (1578-1590)
“Io chiedo quando sarà, che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare, e il vento si poserà.”
La tragedia Palestinese / Israeliana è un argomento su cui sono particolarmente sensibile, da tanto tempo. E’ dal giorno dell’orrore compiuto nei Kibbutz che vorrei scrivere qualcosa, anche se non aggiungerà molto ai fiumi di inchiostro e ai commenti dei bravi giornalisti e politici occidentali. Le parole, le frasi, i pensieri mi si bloccano sui polpastrelli al momento di digitarli su una tastiera. Vorrei sputarli più che scriverli, vorrei gridarli più che commentarli, vorrei partecipare, agire, fare qualcosa perché quella martoriata regione sia terra di pace, come forse non è mai stata.
Da quando la questione Palestinese mi sta così a cuore? Dalle scuole medie, dal tempo del massacro di Sabra e Shatila, perpetrato dalle falangi libanesi cristiano-maronite con la complicità e l’aiuto dell’esercito israeliano al cui capo, in qualità di Ministro della Difesa, c’era un certo Ariel Sharon. Le modalità furono molto simili a quelle utilizzate da Hamas nel Kibbutz a Kfar Aza: una carneficina tenda per tenda, in quanto si trattava di due campi profughi, lasciando disseminati sul terreno dai 700 ai 3.500 morti (a seconda delle fonti), tra cui molte donne e bambini. La barbarie viene da lontano, è insita in quell’essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio che sono gli uomini.
Mi immagino i commenti indignati ed esterrefatti di alcuni lettori: “cosa c’entra, qui si sta parlando di un macello recente, il passato è passato”. Il passato non è passato. Se anche lo fosse, non ha lasciato sedimentato nulla, la storia si ripete, all’infinito, nel sangue degli innocenti, da Erode a Dio stesso, sempre uguale, sempre diversa.
Ora vorrei aggiungere un pensiero, che credo in Italia sia ormai fuorilegge. Io, bambino di tredici anni appena compiuti, sono diventato filo palestinese dal 18 settembre 1982. E qui vedo le moltitudini che si nutrono della stampa e della tv italiana inveire e gridarmi in faccia di essere filo Hamas, additandomi come connivente morale di un branco di criminali, invasati dalla droga e dalla religione. Ecco, qui vorrei azzardare alcune similitudini, sconvenienti, e sicuramente minoritarie nel pensiero comune delle nostre solide democrazie occidentali: le falangi libanesi, gli squadroni cristiano-maroniti, Ariel Sharon, Hamas, Bibi Netanyahu, sono portatori di morte, tutti allo stesso modo. Ognuno di loro fonda la propria ideologia sulla persecuzione e sullo sterminio del nemico. Il nostro amico Bibi ritiene che non potrà mai esistere uno stato Palestinese, i capi di Hamas dalle loro suite in Qatar (!) pensano che la soluzione finale debba essere unicamente la distruzione di Israele. Qual è la grossa differenza fra i tagliagole e la consolidata democrazia di Israele? Le armi con cui si uccidono i bambini? Barbare le lame, chirurgiche le bombe?
Ricordo, per chi non lo sapesse, che sono ateo e comunista e quindi mai potrò stare dalla parte di un gruppo di criminali fascisti, invasati dalla religione come Hamas; ma non posso stare zitto quando si parla di una violenza cieca solo da una parte del muro del lager di Gaza. Non posso.
La storia dello Stato di Israele nasce alla fine della seconda guerra mondiale. Leggendo in rete, o meglio utilizzando testi storici, ognuno si può fare una opinione. Non è mia intenzione quella di parteggiare in maniera ottusa come stessimo parlando di un derby. Più ci si informa, più crescono i dubbi. C’è tanto, troppo di più.
Nei miei ricordi di bambino, e di adolescente poi, Arafat e l’OLP erano additati come terroristi fanatici nemici dell’occidente, mentre probabilmente erano il vero argine contro l’ottusità sanguinaria del nascente movimento di Hamas. Al liceo indossavo un bomber con la spilla dell’OLP, del PCP, la pezza del Che, e l’immancabile spillina della S.P.A.L. Ero un pericoloso estremista, ma le mie posizioni da allora non sono poi cambiate di tanto.
Gli oppressi e gli oppressori, gli invasi e gli invasori, la diaspora e la nakba, hanno davvero la stessa dignità nell’evoluto mondo occidentale? Oppure cambiano a seconda della geografia, della religione, dei punti cardinali e delle parti dei muri da cui si vedono?
Ricordo le foto di Berlinguer abbracciato ad Arafat, e ricordo pure come quelle due figure mi rappresentassero, mi ricordo la dignità e l’orgoglio delle mie, anzi delle nostre idee. Oggi, a parte poche piazze, poche figure (mi viene in mente la giornalista Francesca Fornario, per citarne una su tutte) i miei pensieri sono fuori moda, fuori dal tempo, fuori di testa.
In copertina: foto Libertinus su licenza Creative Commons
Piccole talpe crescono: “Il desiderio di una piccola talpa” del coreano Kim Sang-Keun, esce il 13 novembre con Kite edizioni. Storia di amicizia, di tenerezza, di quiete, di casa accogliente e di soffice neve, pensando già al Natale
Natale si avvicina e, come tradizione, iniziamo le nostre Strenne Natalizie (sempre, rigorosamente, senza renne), per avere e suggerire tante idee di bei libri sotto l’albero.
Iniziamo con un albo che esce il 13 novembre, “Il desiderio di una piccola talpa” del coreano Kim Sang-Keun, una vera gemma preziosa, la tenera storia di una piccola talpa che si è appena trasferita, che non conosce ancora nessuno in città e, pertanto, si sente molto molto sola.
I colori sono tenui, delicati, il bianco della neve, l’azzurro del cielo, l’oro delle stelle, a fondersi con il giallo pallido utilizzato per il calore. Le illustrazioni, realizzate con matita colorata, pastello e penna, sono silenziose e sobrie e mostrano distese innevate e selvagge con solo pochi alberi e qualche fermata dell’autobus. Paesaggio degno di una fiaba che pare aspettare solo il Natale, le sue luci, le sue musiche e il profumo di zucchero filato e di caramello. Magari anche di popcorn davanti alla tv.
Ecco allora che, di ritorno verso casa della nonna, dopo il primo giorno di scuola, la piccola talpa incontra una palla di neve, la saluta e, mentre la fa rotolare verso la fermata dell’autobus, comincia a raccontarle come si sente, lei lo ascolta in silenzio.
Fare amicizia con qualcuno fatto di neve comporta non pochi rischi. La talpa vorrebbe portare a casa con sé sull’autobus pubblico questo nuovo amico, ma si sa, gli autobus sono per gli animali, non certo per la neve, e nessun conducente, a partire dalla volpe, accetta di far salire a bordo quella strana coppia. Prima di trovare un autista disposto a farle salire entrambe sull’autobus a piccola talpa dovrà inventarsi diversi escamotages: e se modellasse la neve in un orso, regalandogli uno zainetto o il suo cappello?
Le cose non andranno proprio come aveva sperato, ma alla fine, fra le stelle cadenti, la tenerezza, gli abbracci e il calore della nonna che sempre c’è e ascolta, il suo desiderio verrà esaudito. In un campo innevato, ci sarà un ospite speciale, mentre orme rassicuranti vengono incontro. Tutto questo proviene dalla magia o dalla nonna? C’è differenza?
Kim Sang-Keun, Il desiderio di una piccola talpa, Kite edizioni, Padova, 2023, 52 p.
Kim Sang Keun, foto di Shinhye Min
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara
CHIAMATA ALLA SOCIETÀ CIVILE E AL VOLONTARIATO SOCIALE Domenica 19 novembre 2023, dalle 15,00 alle 18,30
presso il Centro Sociale il Quadrifoglio di Ponte
( Viale Girolamo Savonuzzi, 54 Pontelagoscuro )
Vuoi progettare insieme il programma per una Ferrara più Verde e Più Giusta?
Vuoi scegliere insieme il Candidato/a sindaco/A?
Allora questo invito è per te.
In vista delle elezioni di giugno 2024, crediamo nell’importanza che sia la società civile, il mondo del volontariato sociale e culturale e la parte attiva della cittadinanza che ha manifestato e lottato in questi anni, a confrontare le proprie idee, indicare i programmi per una Ferrara migliore, proporre persone competenti e motivate e scegliere attraverso il voto le figure del Candidato/a Sindaco/a insieme alla sua squadra.
Ti proponiamo di condividere questo importante compito e questa grande responsabilità, attraverso metodi e strumenti democratici e partecipativi.
Il 19 novembre utilizzeremo il World Cafè, un metodo efficace per dare vita a conversazioni informali, vivaci, concrete e costruttive che riguardano questioni cruciali per la nostra città: cultura, arte, giovani, trama verde, energia, economia, equità sociale, lavoro, salute, beni comuni, democrazia partecipata, inclusione, scuola, università, sicurezza, mobilità, rigenerazione urbana, donne…
Per questo invitiamo associazioni, gruppi informali, cittadini attivi, assieme ai partiti e alle formazioni politiche del Tavolo dell’Alternativa domenica 19 novembre dalle ore 15.00 alle 18.30 presso il Centro Sociale Il Quadrifoglio, Viale Savonuzzi 54 a Pontelagoscuro.
La nostra è una comunità vivace, ricca di idee, competenze, esperienze, talenti che possono essere messi a disposizione per costruire insieme un programma dal basso. Vuoi accettare questa sfida?
Porta qualcosa da condividere con gli altri e una tazza per ridurre i rifiuti.
E’ importante, per motivi logistici ed organizzativi, segnalare la propria partecipazione, tramite email.
Scrive l’inarrivabile Borges : “Ho sempre immaginato il Paradiso come una specie di biblioteca”. Ma il lettore, che si accinge a proseguire la lettura, non si spaventi. Il paradiso-biblioteca, è una delle idee, delle tante invenzioni del bibliotecario capo della Biblioteca Nazionale Argentina, come quell’altra, la biblioteca infinita che si ottiene cambiando ogni volta una sola sillaba, un solo carattere alla Divina Commedia e a tutti i milioni di libri pubblicati.
Qualcuno si è spinto oltre: “Nella prossima vita voglio essere un libro”. Questo, per non annoiare oltre, può bastare per dire dell’enorme potere emotivo, evocativo ed educativo che può derivare dall’incontro con un libro e con i libri riuniti assieme, una biblioteca, grande o piccola che sia. Per molti, oltre il 60% degli italiani , questo incontro non è ancora avvenuto. Colpa dello Stato, dei governi delle città e colpa nostra, di tutti gli amici del libro che non sono riusciti ad indicargli la strada.
I futuri della città
In tanti suoi romanzi degli anni ’50 e ’60 – tanti quanti, anche 4 in un anno, un oscuro autore di science fiction doveva sfornarne per sopravvivere – Philip K Dick ci insegna cose importanti, che solo dopo decenni scienza e letteratura comprenderanno del tutto. Un modo affatto diverso di vedere e vivere il futuro.
Una creazione di P. K. Dick sono i pregog (i pre-cognitivi, una super razza frutto di una delle mutazioni dell’Homo Sapiens nel Dopobomba. I pregog non sono degli indovini o dei veggenti, non “predicono il futuro”, ma gettano lo sguardo sui molti futuri che si aprono davanti a noi. Futuri possibili, più o meno probabili, ma soprattutto “futuri alternati”, in continuo mutamento. A distanza di un anno, o di un giorno, o solo di un’ora, un futuro molto probabile può diventare improbabile. E viceversa, un futuro improbabile, può ripresentarsi come il futuro principale e largamente favorito.
Parlare del “futuro della città”, quindi anche del futuro di Ferrara, credo debba rispondere a questa intuizione: dobbiamo abbandonare il singolare e adottare il plurale: non esiste un unico e generico futuro, ma una pluralità di futuri “alternati”, più o meno possibili e probabili.
Ferrara ha molti futuri davanti a sé, anche se temo che programmi e slogan elettorali confezionati in vista delle imminenti amministrative non ci diranno molto in proposito. Se non qualche aggettivo molto bello da pronunciare. Ferrara Verde. Ferrara Sicura. Ferrara Smart. Ferrara Accogliente. Ferrara Ciclabile … Tutti d’accordo, ci mancherebbe. Ma cosa significa concretamente? Da dove partire? E con quali materiali, con quali utensili e con quali obiettivi pensiamo di costruire quel futuro di Ferrara in cui ci piacerebbe vivere?
Io, per deformazione passionale, voglio partire dai libri, dalla lettura, dalle biblioteche. Provare a spiegare come un argomento che può sembrare antico(la prima biblioteca censita è vecchia all’incirca 2.600 anni), che può sembrare di nicchia [proprio i libri?!? scusi tanto, ma ci sono temi e problemi un tantino più importanti]
Da dove partire: l’invenzione della collaborazione
Sui libri – sui materiali documentari: su carta o su qualsiasi altro supporto – e sulle biblioteche, non partiamo da zero. Negli ultimi quarant’anni in Italia si è fatto un enorme lavoro in campo bibliotecario e biblioteconomico. Il 18 giugno del 1986 nasce il Servizio Bibliotecario Nazionale Nazionale (SBN).
Un progetto ciclopico, talmente ambizioso da sembrare fantascientifico: catalogare, mettere in rete, e quindi disponibili al pubblico, tutti documenti di tutte le biblioteche italiane. I risultati, sempre in aggiornamento, sono straordinari.
Oggi il Catalogo Unico l’OPAC SBNconta 6.900 biblioteche in rete, 20 milioni di record, 115 milioni di documenti catalogati, oltre 400 mila utenti al giorno. Ogni cittadino in ogni momento può consultare il catalogo unico in linea, fare una semplice ricerca e accedere al prestito interbibliotecario.
Tutto questo è stato reso possibile grazie ad una scelta precisa che è risultata vincente. Non si è partiti dal vertice, dalla Biblioteca Nazionale, raggiungendo a cascata tutte le altre biblioteche (è quello, ad esempio, che ha fatto la Francia con risultati inferiori all’Italia), ma lavorando in modo orizzontale, puntando cioè sulla collaborazione di migliaia di biblioteche – da quelle dei grandi istituti pubblici e universitari fino a alle piccole biblioteche decentrate e di paese – raggruppate in più di 100 poli bibliotecari e catalografici.
Il celebre motto di S.R. Ranganathan “Ad ogni lettore il suo libro. Ad ogni libro il suo lettore” , l’accesso universale e gratuito alle fonti della conoscenza e il diritto alla soddisfazione di ogni bisogno informativo si materializza con il Catalogo Unico e grazie alla collaborazione bibliotecaria.
Questo è solo il primo passo, per realizzare a pieno il diritto fondamentale (perché “La conoscenza” è a tutti gli effetti un “Bene Comune”, come l’acqua, la sanità, l’istruzione) non basta il Catalogo Unico. Come non è pensabile l‘Istruzione senza un luogo fisico che si chiama Scuola, così la Conoscenza, racchiusa (chiusa) in milioni di documenti (cartacei o elettronici) ha bisogno della Biblioteca per raggiungere tutto il suo pubblico.
Quale pubblico? Tutti e ognuno di noi: ognuno ha bisogno, in ogni momento della sua vita, di istruirsi e informarsi su qualche cosa. Ha bisogno della Scuola. E ha bisogno della Biblioteca, perché in biblioteca non sei solo davanti al mare magnum informativo della Rete, ma trovi assistenza, guida e consiglio per recuperare il documento e l’informazione che stai cercando.
Scuole e biblioteche. I dati si riferiscono al 2019, ma possono servire per un piccolo confronto.
Le scuole primarie in Italia sono 11.627 , suddivise tra 2.504 scuole dell’infanzia, 7.435 scuole primarie e 1.688 scuole secondarie di primo grado (è noto però che mancano, sempre promessi, almeno 2.000 asili nido).
Le biblioteche pubbliche e private, statali e non statali, aperte al pubblico in Italia sono invece 7.425 (escluse quelle scolastiche e universitarie).
Per rendere effettivo il Diritto alla Conoscenza, le biblioteche pubbliche (che non sono poche, almeno in Nord e Centro Italia) dovrebbero raddoppiare di numero, tenuto conto di una loro diffusione capillare sul territorio, dovendo servire un pubblico di bambini, e ragazzi, ma anche di adulti e di anziani. E dovrebbero raggiungerlo là dove le persone vivono: in centro e nelle periferie, nei paesi, nei borghi, nelle frazioni.
Facciamo il caso di Ferrara
Ferrara non è un’isola, quindi parte delle cose che seguono possono valere per tutta Italia. Qualcosa, però, va detto sull’ultima triste stagione delle biblioteche ferraresi e del Servizio di Pubblica Lettura.
Da un decennio assistiamo ad un preoccupante calo di interesse verso il valore sociale e culturale delle biblioteche: blocco dei concorsi e delle assunzioni, calo degli addetti comunali al servizio, riduzione dei fondi destinati all’acquisto librario, ricorso alla esternalizzazione della gestione delle biblioteche.
Negli ultimi 4 anni, con l’avvento della attuale Amministrazione di Destra, il disinteresse diventa abbandono. Sull’onda del periodo di chiusura e di semi-apertura dovuto alla pandemia, la riduzione dell’orario di apertura delle biblioteche diventa permanente (e indecente, almeno nel caso della Biblioteca Ragazzi Niccolini), continua il calo degli addetti comunali e il ricorso alle esternalizzazioni.
Chiusa sine die la videoteca comunale Vigor. Abbandonato il progetto di realizzare una nuova grande biblioteca nella Zona Sud (i locali vengono destinati a raddoppiare la sede del Comando dei vigili urbani). Pochi fondi per l’acquisto delle novità librarie: siamo ormai a meno di 1 euro per abitante (quando lo standard minimo sarebbe di 2 euro per abitante). Poco, anzi niente, per le iniziative e piccole attività culturali in biblioteca. Di conseguenza, prestiti e transazioni informative in biblioteche sono andati a picco.
In alto mare – anzi, la nave non è mai salpata – una importante proposta di Ranieri Varese, realizzare un’unica Grande Biblioteca di Storia dell’Arte, anche se fisicamente collocata in più sedi: statali, municipali, universitarie e private. Come? Con un po’ di soldi, neanche tanti, per catalogare alcuni preziosi fondi storici. Ma la condizione necessaria e sufficiente è la volontà politica e la concreta disponibilità di tutti gli enti proprietari. Ancora una volta, il nodo è la collaborazione, una pratica che a Ferrara fa una gran fatica a varcare Porta Paola.
Riuscirà il nuovo governo che si insedierà a Ferrara a posare finalmente gli occhi sulle sue tante biblioteche e far ripartire lo sviluppo e la qualificazione del sistema nel suo complesso e del servizio per i cittadini utenti? Possiamo solo augurarcelo. Anche se, cercherò di accennarne nell’ultima parte di questo articolo, per giungere alla Città Biblioteca occorre fare molti altri passi.
Per una Città Biblioteca
Come potrebbe essere una Città Biblioteca?Quelli che seguono sono appunti sull’avvenire. Per questo, torno a Borges e al suo paradiso. Alla biblioteca infinita e ubiqua. O a quello che, per scherzo ma con convinzione, ripeto sempre: “Vorrei che le biblioteche rimanessero aperte anche di notte, come le cattedrali nel medioevo”. La fantasia (Rodari docet) è generativa, ci aiuta a immaginare, e le cose non immaginate non diventeranno mai una realtà, nemmeno in una piccola parte. Ecco quindi un elenco “fantastico”.
La biblioteca (le biblioteche pubbliche) possono e devono diventare il primo riferimento informativo per il cittadino. In quel luogo (in quei luoghi) non troverà solo libri e documenti da consultare e da prendere a prestito, ma tutte le informazioni di base che gli possono servire: sugli orari degli uffici degli sportelli specializzati, sull’orario delle corriere e degli autobus, sulle cose che accadono nel quartiere e nella città.
Troverà un luogo accogliente, dove sedersi e dove prendere un caffè o una bibita alla macchinetta. Troverà una sala (grande o piccola) da prenotare per una riunione o assistere a una iniziativa culturale, una mostra di vecchie fotografie, una lettura a voce alta, un laboratorio creativo per bambini e per adulti. Troverà, almeno in alcuni orari, uno che ne sa più di lui, un bibliotecario mediatore, che lo aiuterà a trovare quello che sta cercando.
Le Biblioteche pubbliche, grandi e piccole, dovranno essere ubique, formare cioè una fitta trama urbana, in tutti i quartieri e tutte le frazioni. Quante allora? Se penso a Ferrara, un Comune di poco più di 130.000 abitanti, mi verrebbe da dire: non meno di 30. Come le scuole, come le le parrocchie, un po’ meno dei bar. [Sto sparando troppo in alto? Devo ricordarvi che la mia è solo una fantasia].
Ma se le biblioteche pubbliche non sono solo (come pensano i tanti che non ci sono mai entrati) “un posto pieno di libri”, ma spazi protetti dedicati e deputati alla socialità, all’incontro, allo scambio non economico tra le persone, non sarebbe giusto che ogni cittadino di qualsiasi età avesse una biblioteca pubblica a pochi passi da casa? Non sarebbe un suo diritto?
Le biblioteche pubbliche, come le scuole del resto, dovrebbero essere aperte molto più di adesso. E almeno alcune: anche al sabato, anche alla domenica, anche alla sera.
Le biblioteche pubbliche devono essere in carico alla Amministrazione Comunale ed avere, ognuna di loro, almeno un dipendente bibliotecario e documentalista adeguatamente formato. La responsabilità dell’apertura e delle attività della biblioteca verrebbe però condivisa con un’associazione di privati cittadini.
A Ferrara c’è una magnifica esperienza di biblioteca completamente autogestita, la Biblioteca Popolare Giardino, sotto il Grattacielo, che dimostra come tutto questo sia possibile e replicabile in tutti gli ambiti urbani.
In biblioteca vorrei che si potessero prenotare, comprare e ritirare libri, audio, video e altri documenti, attraverso una piattaforma apposita collegata alle librerie cittadine. Lo sconto del 10% praticato sul prezzo di copertina verrebbe “girato” alla biblioteca per finanziare piccole attività culturali.
Un furgoncino Interlibro girerà per la città per consentire il Prestito Interbibliotecario e il rientro dei documenti nella sede originaria. Se le biblioteche saranno tante, quel furgoncino pubblico dovrà girare da mane a sera, senza sosta, ma sarà una gioia vederlo passare tra i cento corrieri al servizio della multinazionale esentasse Amazon.
Ho finito. Oppure no, non proprio, ma rimando le idee più pazze per una prossima puntata. Per ora, arrivederci. Ci vediamo in biblioteca.
Per leggere gli articoli diFrancesco MoninisuPeriscopioclicca sul nome dell’autore
La lettera di dimissioni di Craig Mokhiber, direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.
Caro Alto Commissario,
questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei in qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.
Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questo è profondamente personale per me.
Ho lavorato in queste sale anche durante i genocidi contro i Tutsi, i musulmani bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli imperativi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di responsabilità per i responsabili. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.
Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.
Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso oggetto di abusi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e i violenti pogrom dei coloni sono accompagnati da unità militari israeliane. In tutta la terra regna l’Apartheid.
Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista, dei coloni in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi derivanti dai trattati “per garantire il rispetto” della Convenzione di Ginevra, ma in realtà stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.
Di pari passo, i media aziendali occidentali, sempre più prigionieri e vicini allo Stato, violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio e trasmettendo propaganda di guerra e incitamento all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce un incitamento alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. Le società di social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane online e i GONGOS molestano e diffamano i difensori dei diritti umani e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire coloro che osano parlare contro le atrocità. Sulla scia di questo genocidio, è necessario rendere conto anche di questi attori, proprio come è avvenuto per radio Milles Collines in Ruanda.
In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione efficace e di principio è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere protettivo di applicazione del Consiglio di Sicurezza è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza è sotto attacco per le più blande proteste e i nostri meccanismi per i diritti umani sono oggetto di continui attacchi diffamatori da parte di una rete organizzata di impunità online.
Decenni di distrazione dalle promesse illusorie e in gran parte insincere di Oslo hanno distolto l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e la stessa Carta. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rendere conto dei diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. La deferenza (scritta dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stata un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.
Negli anni Ottanta mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata sui principi e sulle norme che si schierava apertamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, il Regno Unito e l’Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni di sussidiarietà e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricana, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.
Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della Lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia stata adottata nello stesso anno in cui la Nakba è stata perpetrata contro il popolo palestinese. Nel momento in cui commemoriamo il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata insieme a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina.
Ma la strada per l’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalla posizione di principio assunta nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli.
Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New Yorkè stata completamente occupata da migliaia di difensori dei diritti umani ebrei che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della propaganda hasbara israeliana (e vecchio tropo antisemita) secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come non sono islamofobiche le critiche alle violazioni saudite, antibuddiste le critiche alle violazioni del Myanmar o antiinduiste le critiche alle violazioni indiane. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che questo è il senso di dire la verità al potere.
Ma trovo anche speranza in quelle parti dell’ONU che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri relatori speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’OHCHR ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario Generale all’ultima recluta dell’ONU, e orizzontalmente in tutto il sistema delle Nazioni Unite, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.
Come sarebbe, allora, una posizione basata sulle norme dell’ONU?
Per cosa lavoreremmo se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla responsabilizzazione dei titolari dei diritti, il tutto nell’ambito dello Stato di diritto?
La risposta, a mio avviso, è semplice: se abbiamo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di prendere veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:
1. Azione legittima: In primo luogo, noi dell’ONU dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.
2 Chiarezza di visione: Dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.
3. Uno Stato unico basato sui diritti umani: Dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.
4. Combattere l’apartheid: Dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni Settanta, Ottanta e nei primi anni Novanta.
5. Ritorno e risarcimento: Dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.
6. Verità e giustizia: Dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e assicurare la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e la riparazione delle ingiustizie documentate.
7. Protezione: Dobbiamo fare pressioni per il dispiegamento di una forza di protezione delle Nazioni Unite dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare.
8. Disarmo: Dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.
9. Mediazione: Dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto, complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo impegnarli come tali.
10. Solidarietà: Dobbiamo spalancare le nostre porte (e le porte del SG) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.
Ci vorranno anni per raggiungere questo obiettivo e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere fermi. Nell’immediato, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e alla ricostruzione dei palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie, e lottare con tutte le nostre forze per un approccio di principio negli uffici politici delle Nazioni Unite.
Il fallimento delle Nazioni Unite in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come OHCHR, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.
La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se posso esservi utile in futuro.
Mi reco al concerto che si è tenuto al Teatro Comunale Abbado con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Robert Treviño. In programma la Quinta Sinfonia di Malher. Quando è iniziato il celeberrimo Adagietto lacrime liberatorie mi hanno bagnato il viso e la musica ha acuito il dolore per la perdita dell’amatissima Teresa.
Ma riprendendomi mi metto ad osservare con attenzione l’orchestra e i suoi componenti, stupendomi che l’orchestrale dei piatti è una donna quando quella mansione di solito è affidata agli uomini; inoltre sono attirato dal lucore che emana dalle scarpe degli uomini, tutti rigorosamente di vernice nera, che ne rafforzano l’identità e il ruolo. Per le donne, invece, c’è una libertà di scelta che acuisce le differenze di genere.
Proporrei, allora che, pur rispettando il modello, anche loro abbiano le calzature tutte di vernice nera. Uno scherzetto o un dolcetto?
Nel pomeriggio vedo da lontano Moni Ovadia, rigorosamente in tenuta proletaria da lavoro, e i giornali poi daranno la notizia del rifiuto delle dimissioni, per cui rimane direttore del teatro. Tanto rumore per nulla? Dolcetto o scherzetto?
Frattanto la Tenerina, dolce al cioccolato, viene dichiarata il dolce primo della città di Ferrara. Benissimo. Tra le ricette di mia nonna c’è quella che si usava in casa per fare questa torta. Davvero un dolce(tto) e non uno scherzetto!
Rullano i tamburi, ci si interroga affannosamente per “indovinare” chi sarà il candidato al ruolo di sindaco della città proposto dal centro-sinistra. Sarà uno scherzetto o un tentativo serio di compattare la vasta landa in cui corrono i candidati da opporre alla destra governante ora? Spero che non sia uno scherzetto ma un solido dolce, anche se sempre più si rivela la complessità della manovra.
Una straordinaria dichiarazione che commenterò a breve e in altra occasione risulta da ciò che scrive Italo Calvino che parla ‘ferrarese’ e dichiarava nel 1963 che il modello emiliano-romagnolo era quello da lui condiviso e che a quello andava la sua scelta politica, morale, ideologica.
Spero solo che quella sua scelta non risulti né un dolcetto né uno scherzetto.
Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturiclicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore
Dove va il tempo
In questo ammasso
Di letame
Dove va
La speranza
Di molti giovani
Senza trame
Torneranno
Tempi di parole
Amiche
Di fatti
Di lavori con dignità
Dove va
La direzione
del clima
Ritmo
Dei giorni
Delle ore
Dove va
Il tempo
Della vita
Delle vite
Di questi
Ragazzi
Condannati
A non crescere mai
Perché invecchiare
Guai
Guai mai
Ragazzi
Dispersi
Al fronte
dei nemiciI fantasmi
Del futuro
Loro consegnato
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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“Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo.” Plinio il Vecchio
Il mio primo viaggio in Africa risale ad esattamente venti anni fa. Sembra ieri. Sembra ieri soprattutto per quelle emozioni ancora vive che non potrò mai dimenticare.
La prima volta era stata la Nigeria, un paese non facile, allora come ora. Ho ancora negli occhi il verde intenso del Delta del Niger, sorvolato in elicottero, stretta come una sardina fra colleghi nigeriani di buona taglia. Ricordo le nenie sommesse udite intorno alla base, quelle cantilene ignote e un poco oscure che mi accompagnavano il sonno che piombava su di me dopo giornate di lavoro intense e molto impegnative. I cibi così diversi, quelle spezie a me ignote che irritavano le mucose. Odori, sapori, colori, era tutto così forte. Le strade erano affollate, non si passava da nessuna parte, i colori dei vestiti erano allegri, tutti sorridevano. Ti domandi come si possa sorridere in condizioni tanto complesse. Forse perché gli africani dicono che loro hanno il tempo, mentre noi occidentali solo l’orologio.
Questa riflessione sul tempo mi turba da sempre, il caso vuole che proprio qualche giorno fa, nel suo blog appena nato (o meglio, vlog, come lo chiama lui), il mio amico regista Mattia Bricallimi ci ha riportato, in una puntata speciale.
Il silenzio dell’Algeria, Tipaza, foto Simonetta Sandri
Il tempo pare sempre troppo poco. Donare tempo è quanto di più importante si possa fare, un regalo prezioso. Donarlo agli amici, ai familiari, agli sconosciuti, a chi ha tanto tempo libero e non sa come occuparlo. Penso agli anziani soli, soprattutto. Regalare loro qualche ora è il dono più importante, senza fretta, senza correre sempre. Correre dove, poi, e per quale motivo. E gli africani lo sanno fare, con il tempo ci giocano, si sbizzarriscono, e te lo regalano, a piene mani, calorosamente e generosamente.
L’Africa è terra generosa, di grandi spazi, di immense foreste, di potenti risorse, di sorrisi aperti, di mani tese, di giovani speranzosi, di anziani saggi, di donne coraggiose, di lunghe tradizioni. È un continente pieno di contraddizioni ma dà e ha la vita. Tanta.
Per elencarne pregi e difetti non basterebbero pagine e pagine, così come non basterebbero per parlare di scrittori, esploratori e viaggiatori che ne sono rimasti affascinati. Mi piace ricordarne uno per tutti, il mio preferito, Antoine de Saint-Exupéry, lui e il suo deserto. Perché l’Africa è anche terra di grandi deserti, il battesimo della solitudine.
Deserto libico, foto Simonetta Sandri
Avrei vissuto anche nel deserto algerino, ancora non lo sapevo, e da lì ne sarei uscita cambiata per sempre. Cielo stellato, dune immense, il mormorio notturno degli animaletti, luoghi apparentemente comuni che diventano autentica esperienza mistica se vissuti in prima persona. Emozioni indescrivibili che vi lascio solo immaginare e percepire.
Quel deserto ondulato era molto diverso da quello maliano, sassoso e pieno di insidie. Ma anche qui gli anziani tuareg che mi parlavano del tempo che fu sarebbero stati una mia ricchezza, per sempre. Tombouctou mi avrebbe portato ai confini del mondo, Djenné, “la città di fango”, mi avrebbe insegnato la potenza della comunità, quando tutti insieme, ogni anno, si devono ricostruire, con pazienza e precisione, le abitazioni fatte di sabbia e di una sorta di malta naturale. Ed è una festa. Tutti per tutti, uno per tutti. Pure qui il sorriso non manca. E ti chiedi ancora una volta come sia possibile. Quante lune, quanti soli…
Djenné, Mali, foto Simonetta Sandri
Djenné, Mali, foto Simonetta Sandri
“Non sono mamma, purtroppo”, rispondo alla sorridente signora congolese che mi accoglie con un “bonjour maman” all’aeroporto di Pointe Noire. Lei mi dice che le dispiace molto. Lì per lì non capisco. Scoprirò dopo che non essere mamma in quel paese è un immenso dolore – magari non si può esserlo per qualche problema di salute o per altra strana diavoleria -, perché quello è il dono più grande della vita. Senza levate di scudi femministi, posso solo dire che quel gesto di empatia di quella gentile signora mi aveva profondamente toccato. Era la sua cultura, giusta o sbagliata che sia (chi ero o sono io per dire che è sbagliata?), e con me aveva condiviso il suo delicato sentire. Empatia.
Anche da quel paese sarei partita, ancora una volta, molto cambiata, inclusa l’incapacità di effettuare un qualsiasi acquisto e spendere soldi inutilmente per mesi. Parsimonia, ad assoluto rispetto di chi aveva poco o nulla. Fare con meno. Accontentarsi.
La vita ad Algeri era invece scandita dalla litania del muezzin. Inizialmente fastidiosa, mi svegliava alle cinque del mattino, ma era poi diventata compagna fedele delle mie giornate. Mi faceva aprire gli occhi e scoprire l’alba, aveva un suo perché, il sole sorgeva e mi salutava dispettoso. L’aria era frizzante e invitava alla riflessione. Mi sarebbe mancato, incredibile a dirsi, così come avrei senti la mancanza di quell’odore di pane appena sfornato che arrivava alla mia finestra. Avevo un appartamento molto grande, vedevo cielo e buganvillee, il loro colore intenso sarebbe stato un altro ricordo di quell’Africa più “nordica”, così come il profumo del gelsomino. Per non dimenticare la sabbia fra i capelli spettinati dal vento caldo in arrivo dal deserto, i giardini ricamati con le loro fontane e la preghiera a Notre Dame d’Afrique. E poi il pollo arrosto imbottito di riso. Odori.
Tipaza, Algeria, foto Simonetta Sandri
Anche Tripoli mi avrebbe portato i suoi ricordi intensi, fatti del colore blu quasi accecante del Mar Mediterraneo e dei suoi cieli su Leptis Magna, là dove acqua e orizzonte si confondono e si perdono in un unico abbraccio. Quella città mi avrebbe fatto conoscere il mio futuro marito, romano di altri tempi e colonna portante della mia vita, come le imponenti colonne dei siti archeologici di quel paese travagliato. Colonne su colonne, colonne dopo colonne. Roma chiama Roma. Un fil rouge dove tutto aveva un senso.
Leptis Magna, Tripoli, Libia, foto Simonetta Sandri Africa, Madre terra, terra madre, terra di meraviglie e di grandi contraddizioni, terra che merita rispetto e venerazione, terra giovane e forte, di passato e di futuro, di speranze.
Africa dalle grandi foreste, come quelle del Congo, dello Zambia, del Ghana o del Kenya di Wangari Muta Maathai, la “donna che piantava alberi”, per parafrasare Jean Giono, prima donna africana a ricevere il Nobel per la Pace, nel 2004. Amore e passione.
Africa, terra di donne coraggiose, che portano acqua e giare sulla testa, terra di mancati diritti, di acqua ed energia elettrica che non ci sono per tutti. Terra di storia, di grandi conquiste, di nobili imprese, di lotta per i diritti, di rara e preziosa bellezza.
Lì nasceva e nasce tutto. Lì tutto potrebbe finire. A noi tutti evitare che questo accada.
Maestro dello sguardo, e non solo della parola, è stato e continua ad essere anche oggi il Priore di Barbiana. Perché è dallo sguardo che nasce la parola: dal toccare la realtà con gli occhi per far uscire balbettanti quelle primordiali parole: “Che cos’è? Chi è? Perché?”. La parola germoglia esce fuori dal vedere e lo sguardo va in cerca delle parole, cerca la relazione con la parola nel volto dell’altro, nel e con il suo sguardo fatto parola.
La parola comincia molto prima del vocabolario, della grammatica, della sintassi essa ha origine nello sguardo. Come la vita, lo sguardo sovverte lo sguardo stesso di com’era un momento prima, è la porta da cui entra il nuovo, l’inatteso, l’ospite segreto.
Per don Milani vi è un legame profondo tra la visione e la parola, tra il linguaggio e il guardare. Essi «fanno eguali». Ridare la vista è restituire la parola, è aprire un dialogo che fa rifiorire la vita nelle parole ancora germinali.
Così ridare la vista è restituire la parola. Ce lo ricorda anche il vangelo nel racconto del cieco nato. Dopo la guarigione egli incontra di nuovo il Maestro che gli dice: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. (Gv 9,1-41).
C’è una sequenza nel film di Andrea e Antonio Frazzi con Sergio Castellitto su don Milani nella quale il priore fa vedere per la prima volta il mare a dei montanari. Per lui imparare un nuovo vocabolo sulla pagina era solo un imparare a metà; occorreva, per comprenderlo fino in fondo, non solo intuirlo mentalmente ma vedere, immergersi nella parola come nelle acque del “mare”.
Così portò i suoi ragazzi a vedere non solo il mare, ma la fabbrica, il teatro, l’opera; li mandò a vedere il mondo all’estero a imparare le lingue guardandole in volto.
Dire “mare”
Un conto è dire “mare” a Barbiana, un altro vederlo apparire d’improvviso dietro una duna. È lì che la parola si compie, ricongiungendosi oltre il “muro di carta”, oltre “il muro d’incenso” con la vita e lo stupore degli occhi; lì la voce si dischiude in un grido di meraviglia vedendo sorgere l’alba dal mare per la prima volta.
Per quei montanari fu come l’aprirsi di un mondo senza confini, l’uscir fuori da un mondo esistenziale e linguisticamente conchiuso verso l’infinito delle parole in un mare senza sponde.
Una parola letta solo sul vocabolario e mai vista prima necessita di una levatrice, di uno sguardo immerso nel reale, che tagli il cordone ombelicale che la trattiene al puro ambito culturale, al mondo delle lettere, insufficiente per don Milani ad educare. Come dell’aria che si respira essa ha bisogno del contatto vivo con le realtà sociali, politiche e spirituali.
In una lettera al magistrato Gian Paolo Meucci nel 1955 don Milani scrive: «Voi vi valete di vocaboli e citazioni e nomi propri che nelle persone colte che vi leggono richiamano milioni di conoscenze già acquisite. Io invece uso ogni parola come se fosse usata per la prima volta nella storia come usano fare gli analfabeti e quelli che a loro si vogliono efficacemente rivolgere… Io con tuo permesso seguiterò a pensare che un’ora di scuola mia a Barbiana vale più che “Le 12” in mano a tutti gli intellettuali d’Italia. Non perché io valga più di voi, ma perché vale di più il pubblico che mi son scelto» (Lettere, Mondadori, Milano 1970, 33; 35).
Sguardo, parola, gesto: una scrittura in lotta per la vita
Perché la differenza del “suo pubblico” non la fa solo lo sguardo, né solamente la parola imparata, detta o scritta, ma il gesto sovversivo e innovatore che rimuove lo status quo e il “si è sempre fatto così”. La scuola di Barbiana diventa allora il luogo di una lotta e una scrittura rivoluzionaria per la dignità propria e degli altri.
Una lotta non già di 365 giorni l’anno, ma per tutta la vita: una lotta per portare alla luce e far nascere l’umano, liberandolo da quella ingiustizia che “fa parti uguali tra diversi”, e che potrà far valere ancora la dignità smisurata nascosta nel vangelo.
La scuola di Barbiana è stato il luogo di una mistagogia didattica e spirituale che fu un imparare a conoscere “facendo” e “agendo”, “demolendo” e “ricostruendo” dentro e fuori se stessi, con quelli di casa, senza trascurare i lontani.
Così, al pari di un mistagogo, il Priore di Barbiana ha introdotto e guidato i suoi alunni nella pratica della cittadinanza e della mondialità, conducendoli fin dentro il mistero della gratuità e del dono, per poi aprirli infine all’esercizio della responsabilità verso la comunità civile, religiosa e umana.
Con la pratica del leggere, pensare e dello scrivere insieme, si sprigiona la novità di un dono che viene scoperto di volta in volta con sorpresa di tutti al termine di ogni incontro con quelli che salivano a Barbiana. Lo ricorda lo stesso priore con riferimento alla La lettera ai giudici: «un dono che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto. Prima di scriverla né io né i ragazzi sapevamo quelle cose» (Tutte le opere Meridiani, v. 2, Mondadori, Milano 2017, 1262).
Scrive Alberto Melloni nell’introduzione a Tutte le opere che la scrittura di don Milani «rivendica sempre il suo essere gesto».
La scrittura di don Milani «è quella di un uomo che con la penna e con la carta lotta per tutta la vita. Dall’età dolce e lussuosa della casa paterna, all’agonia del malato terminale nel letto di casa della madre. Da giovane pittore, aveva imparato a bottega che quel che tocca l’artista non è la forma o il colore nella sua inerzia chimica: ma lo luce che lo ravviva, ed è con lo luce che l’artista lotta. Allo stesso modo egli vede la scrittura non come forma o “letteratura”, ma come lotta con la parola che ha bisogno di una mistagogia» (ivi, v. 1, XIV).
Persone non parole
Le parole a Barbiana si imparano per leggere la realtà e per cambiare la vita; per aprila non per chiuderla nei circoli culturali. Così guardare il mondo diventa un atto civile, politico e religioso. Come a dire che la cultura staccata dall’umano, senza l’amore e attenzione per l’altro, innalza barriere, genera divisioni, differenziazione sociale e religiosa. E allora non i concetti, ma le persone vanno per prime: non è la persona fatta per la cultura, ma la cultura fatta per le persone.
Don Milani, maestro dello sguardo, della parola e del gesto, così operando “ha fatto strada ai poveri senza farsi strada”, e amando – si badi − più i poveri della povertà. Non ha cercato solo legami tra le parole, ma tra la sua vita e le persone che aveva incontrato a San Donato e a Barbiana.
L’arte dello scrivere, si legge in Lettera ai cappellani militari, è legame non solo di parole, ma degli affetti; è una “religo/religare”, un essere legati e un legare gli uni agli altri: «l’arte dello scrivere è la religione, il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore». Ripenso con gratitudine a don Piero Tollini, che su un muro della parrocchia aveva fatto scrivere una frase di don Milani: “Il problema degli altri è uguale al mio, risolverlo insieme è la politica, da soli è l’egoismo”.
Persone non parole. Nella lettera aperta a un predicatore domenicano così don Milani scrive: «Vede, Padre, la mia scienza è poca, la mia esperienza poi non si estende al di là di queste 275 case. Lei invece ha studiato, viaggiato e confessato tanto. Ma anch’io ho un dono che lei non ha: quando siedo in confessionale posso anche chiuder gli occhi. Le voci che mi sfilano accanto, per me, non son mai voci e basta. Sono persone…
Così dunque avviene che quella voce impersonale, sulla quale lei applica i testi e i decreti, per me è carne della mia carne. Ciò che quell’anima chiede io chiedo, ciò che la tenta me tenta più di lei. Ecco, Padre perché noi parroci confessiamo quasi tutti in una maniera che lei riprova. Se tagliassimo netto come fa lei, taglieremmo su di noi stessi… Il cuore di un uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola» (Esperienze pastorali, LEF, Firenze 1967, 267).
Una vocazione nata dallo sguardo
Proprio così. A ricordarcelo è Neerea Fallaci nel suo libro Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Rizzoli, Milano 1993, annotando l’intervista al pittore Hans Joachim Staude.
Fu lui «a indirizzare Lorenzo Milani, con i suoi insegnamenti sull’arte, alla ricerca di un “assoluto spirituale”… Fui io a fargli fare il primo, vero disegno della sua vita. Mi resi subito conto che era un giovane dotato di grande intelligenza.
Così, invece di limitarmi a correggere i suoi disegni, gli spiegai da che cosa doveva partire: gli parlai della scelta di tutto ciò che è essenziale; gli parlai della semplificazione; gli parlai della unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno o pittura che sia. E lui capì al volo queste cose…».
«È tutta colpa tua!»
E quale pensava fosse la strada di Lorenzo Milani?
«A me sembrava un ragazzo più portato per la letteratura. Quell’estate sul Lago Maggiore, ricordo con quale entusiasmo leggesse D’Annunzio. Ma non aveva gusti estetizzanti, come altri giovani intellettuali della sua generazione. Approfondiva sempre tutto. Non parlava per esprimere un pensiero con eleganza. Parlava per capire meglio le cose. Voleva capire sempre più a fondo, chiarirsi bene le idee…
Le racconto volentieri questo. Lorenzo era già in seminario a Cestello, qui a Firenze. Venne a trovarmi in via delle Campora. Stava molto bene col nero ma, personalmente, non lo vedevo volentieri con quel vestito nero. E colsi l’occasione per chiedergli: “Ma, Lorenzo, dimmi un po’: come mai questo cambiamento?” Perché, ripeto, prima era stato molto lontano da preti e chiesa, diciamo così.
Dette una risposta, per me, indimenticabile: “È tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada”» (ivi, 47-48; 50; 51-52).
Ricorda ancora il pittore Staude: «Per me, una cosa memorabile è proprio lo slancio con cui si mise all’opera per realizzare quanto gli avevo comunicato. Mai avevo trovato tanta veemenza in uno scolaro. Mentre fuori era il più bel maggio del mondo, si chiuse in questo studio polveroso che prendeva luce da nord» (Fallaci, 48).
Se l’arte è l’altro fuoco, lo sguardo di don Milani cercava “un fuoco oltre” che lo muovesse altrove. Egli cercava di vedere con “veemenza” − che è un muoversi agendo, come accesi dentro − il volto nascosto nel Roveto ardente la cui parola diventa comprensibile solo a chi si mette in cammino, guardando nei volti le persone incontrate, accogliendole e prendendole con sé, percorrendo la strada insieme.
La scuola di Barbiana fu il suo roveto ardente. Fu proprio questa esperienza del roveto che gli fece dettare sul letto di morte ai suoi ragazzi il suo testamento: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo» (Lettere, 324).
Uno stile di chiesa in riforma sinodale: il capovolgimento dello sguardo
Il 4 ottobre, memoria di Francesco d’Assisi, si è aperto a Roma il Sinodo dei vescovi per una riforma ecclesiale, degli stili di vita delle persone e delle strutture nelle nostre comunità. Sinodo per un cambiamento frutto di un processo di consultazione nato dal basso, da un guardare, discernere e agire insieme a tutti i cristiani, per un rinnovato annuncio e presenza del vangelo tra la gente.
Così, ricordare Esperienze pastoralisignifica richiamare alla memoria e alla pratica l’attualità di un metodo pastorale che all’inizio fu rigettato, sanzionato e dopo sei mesi il testo fu fatto ritirare dal commercio dal Sant’Uffizio perché la sua lettura era considerata inopportuna.
“Un capovolgimento dello sguardo” fu invece agli occhi di don Milani e di molti quell’esperienza riportata poi sulla carta, come ricorda in una lettera ad Arturo Carlo Jemolo che sul quotidiano la Stampa aveva recensito con il suo il libro anche quello di don Primo Mazzolari, La parrocchia.
Egli farà notare all’autore dell’articolo la sua superficialità nella lettura perché non aveva colto la grande differenza tra i due testi, notando come il suo andasse ritenuto come un vero e proprio capovolgimento dello sguardo, del linguaggio, dell’azione pastorale attraverso un vedere, ascoltare, discernere ed agire.
IL tutto senza dimenticare quanto don Milani aveva imparato nello studio del pittore Hans Joachim Staude: 1) cercare l’essenziale, separandolo dal superfluo; 2) semplificare: non fermarsi ai dettagli ritrovando, per la via di una spogliazione di sé, la semplicità delle origini e l’umiltà del vangelo; 3) per cogliere l’unità delle cose, nella convergenza degli intenti al fine di arrivare a decisioni comuni capaci di cambiamento.
Ma qui non ritroviamo al vivo lo stile e la forma del camminare insieme proposto da papa Francesco alle comunità piccole e grandi, uno stile sinodale? Un paradigma della sinodalità?
Così leggiamo nella lettera: «E perciò mi aspettavo che lei volesse, dall’alto della sua scienza e della sua fama, stendere una mano a questo pretuccio senza scienza e senza fama e, commosso dai rischi che per la veste che porta e per la crudezza del testo egli si assumeva, fare in modo che il chiasso che il libro non poteva non suscitare, fosse indirizzato da un suo potente intervento su un alto livello di pensiero e non cadesse in discussioncelle laterali malevole o benevole, ma sempre piccine. Per esempio non era giusto che ella mi accostasse al libro di don Mazzolari perché il mio è ben altrimenti impegnativo. Non faccio questioni di valore, ma almeno di quantità!
Quello di Mazzolari si legge e si intende in un’ora, il mio no. Mazzolari l’ha scritto in un mese, io in dieci anni. Mazzolari non ci ha rischiato quasi nulla, lei stesso ha inteso che io ci avevo rischiato tutto (non parlo di trasferimenti perché sono già quattro anni che mi hanno trasferito dalle 1200 anime di San Donato a queste 85 anime qui in vetta a Monte Giovi e siccome sto buono e non do noia a nessuno, nessuno, per grazia di Dio, mi potrà più levare di qui), ma parlo del rischio di trovarmi di fronte a una condanna del libro e questa sarebbe una tragedia, non tanto per me, che sono pronto a cedere in tutto, quanto per i miei infelici giovani di San Donato» (Lettere, 83).
Dissonanze armoniose
Dissonanze impetuose, veementi, dirompenti che hanno messo sottosopra le coscienze e gli stili di vita di molti, non solo nella scuola, ma nella società italiana e nella chiesa, eppure quelle di don Milani sono state dissonanze armoniose.
Nella postfazione di Mario Gennari al libro della Fallaci si legge: « Dove vi è un universo etico completo – fa osservare Jean Guitton in un saggio del 1963 – l’amore, nel suo mistero sacro (mystère sacré), può tradursi anche in “dissonanze armoniose” (dissonances harmonieuses)…
Obbedienza e sincerità si accostano alla fermezza e alla bontà, fondendosi nei tratti di una coscienza la cui umanità viene istituendosi su di un sistema di valori religiosi, educativi e sociali privo di dogmatismo ideologico e di moralismo retorico.
La coscienza di don Lorenzo Milani è, in ogni occasione, cristallina; capace di riflettere appunto una santità fatta di armoniose dissonanze. L’apostolato condotto con un profondo senso della missione pastorale del sacerdote rivela, poi, il sostanziarsi di una tensione alla promozione umana.
Un’etica dell’incontro con l’altro sorregge, infine, il rapporto che don Milani costruisce con il mondo. E non importa se a volte renderà la superficie delle relazioni interpersonali ruvida e schietta come la sua scrittura, al fondo l’umanità di don Lorenzo brillerà sempre. Anzi, queste “dissonanze”, colte nel contesto della statura e della personalità del prete fiorentino, potranno essere lette da uno sguardo non ostile o prevenuto solamente come “armoniose”» (ivi, 598-599).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Arrivo un passo dietro all’articolo di oggi scritto da Catina Balotta [Vedi qui] e commentato dal Direttore Francesco Monini [Vedi qui] Condivido il desiderio di pace attraverso gli strumenti che conosco: l’arte e le allegorie. Mi faccio suggestionare dal capolavoro di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, in particolare da due particolari del suo impareggiabile affresco.Il ciclo pittorico è incentrato sul tema della “salvezza“ e personalmente penso a questo termine non necessariamente nella sua connotazione teologicaSalvezza traduce diversi termini che indicano liberazione dai mali e dai pericolo più diversi, materiali e spirituali. Il liberare, significa: mettere al sicuro, spezzare una catena, far uscire dal confino, salvare dall’oppressione tanto che il liberato può governare la propria esistenza.
Per me, non so se è un Dio, un Dio qualsiasi, che dobbiamo ringraziare o pregare per la nostra liberazione.
L’affresco di Giotto nel suo insieme è molto complesso e segue un filologico preciso e rigoroso dettato dalla teologia agostiniana. Rimando alla storia e alla critica dell’arte per una lettura più tecnica e simbolica -non c’è alcun particolare casuale – e invito alla contemplazione del capolavoro per capire la bellezza, il commovente realismo e gli intrecci delle varie storie poste in vari ordini di registri: dalla lunetta in alto sull’Arco Trionfale, quando Dio decide la riconciliazione con l’umanità, si prosegue con le Storie di Gioacchino ed Anna, le Storie di Maria, l‘Annunciazione e della Visitazione, e le Storie di Cristo. Subito sotto l”ultimo riquadro della Storia Sacra, si trova la Pentecoste e si apre il quarto registro con i monocromi dei vizi(parete nord) e i monocromi delle virtù(parete sud). La conclusione non poteva che recare al Giudizio Universalegrandioso e impattante.
La strage degli Innocenti
La storia narrata nel Vangelo è nota a tutti.Nella tradizione occidentale il racconto è divenuto un topos culturale: i bambini innocenti che muoiono violentemente, uccisi dalla sete di potere, vittime inconsapevoli di un odio spietato contro chi può ostacolare i piani di potenza e di dominio. La storia vera ci dice che non è stato l’unico avvenimento così tragico, al di là del luogo comune con il quale viene usato, i bambini, nel corso di tutta la storia umana, sono stati e continuano ad essere le prime vittime sacrificate. Nei secoli hanno avuto luogo moltissime rappresentazioni artistiche di questa strage così famosa, tra queste l’affresco di Giotto.
La Strage degli innocenti (200×185 cm) è compreso nella cappella delle Storie di Gesù nel registro centrale superiore, nella parete destra guardando verso l’altare.
Uno sfondo architettonico definisce i gruppi di figure rappresentati e guida la lettura della scena. In alto a sinistra, da un balcone coperto, Erode impartisce il comando di uccidere tutti i fanciulli nati negli ultimi mesi, stendendo eloquentemente il braccio. Le prime destinatarie del provvedimento sono le madri raggruppate e disperate nel vedersi strappare i figli dai carnefici. Tra questi, in particolare ci sono due soldati al centro, armati e in pose dinamicamente drammatiche amplificate dall’uso di colori cupi. In basso stanno già i corpi ammassati di numerosi fanciulli, che sembrano quasi travalicare la cornice dell’affresco per franare oltre. A sinistra infine alcuni spettatori mostrano tutto il loro turbamento abbassando la testa e facendo espressioni di rassegnata contrarietà.
I bambini sono più grandi del normale, probabilmente per farne i protagonisti della scena. Le madri hanno espressioni profondamente angosciate, con la bocca dischiusa in un lamento comune, le guance rigate dalle lacrime.
Giotto, Le Madri piangenti, Cappella degli Scrovegni, particolare
Eppure anche noi, oggi, rimaniamo, seppur turbati, con la testa abbassata per non guardare, per non tradire la paura di essere testimoni impotenti. Ugualmente osserviamo le lacrime delle madri e non offriamo protezione. Nessuno pare volere il compito dell’angelo che avvisò la sacra famiglia, nessuno di noi sta riuscendo a mettere in salvo almeno un bambino e la sua famiglia, sacri entrambi per diritto e umanità.
Le allegorie dei Vizi e delle Virtù: la terapia dei contrari
Il quarto registro delle due pareti laterali, quello più in basso, riporta il percorso con quattordici Allegorie a monocromo che simboleggiano i Vizi sulla sinistra (Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio) e le Virtù sulla destra (quattro cardinali, Prudencia, Fortitudo, Temperantia, Iusticia, e tre teologali, Fides, Karitas, Spes). Il nome del vizio o della virtù è scritto in alto in latino.
Vizi e virtù corrispondenti si fronteggiano a coppia, in modo da simboleggiare il percorso verso la beatitudine, da effettuarsi superando con la cura delle virtù gli ostacoli posti dai vizi corrispondenti I vizi non sono i tradizionali vizi capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria). Le sette virtù contrapposte non rispecchiano l’ordine tradizionale.
Si tratta di un percorso terapeutico di salvezza: che porta alla guarigione dai vizi tramite le virtù cardinali opposte, conducendo l’umanità alla Giustizia, elemento fondante che realizza le condizioni della pace e dunque del Paradiso Terrestre e della felicità terrena.
In particolare: la Stultitia rappresenta l’incapacità di distinguere il bene dal male e può essere curata dalla medicina della Prudentia, l’intelligenza etica, che consente di discernere le cose da desiderare e quelle da evitare. (siamo nella sfera della conoscenza). La Fortitudo, fortezza o saldezza d’animo, trionfa grazie alla forza di volontà sulle viscide oscillazioni dell’Inconstantia, la “mancanza di una sede stabile”, vale a dire un insieme di leggerezza, volubilità e incoerenza (siamo nella sfera della volontà). La Temperantia, l’equilibrio interiore che assicura il dominio stabile della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà, è la terapia atta a vincere le passioni, simboleggiate dall‘Ira.
Giotto, Temperanza e Ira, Cappella degli Scrovegni, particolare,
Prudenza, fortezza, temperanza sono virtù della sfera etica individuale, La virtù etica si esplica nella sua messa in pratica, con atti e comportamenti che riguardano sia la sfera personale, sia quella sociale, perché coinvolgono i rapporti con il prossimo e quelli degli uomini tra loro.
Da qui discendono i concetti etici di Giustizia e Ingiustizia, la coppia centrale del ciclo giottesco: Iniustitia – Iustitia. La perfetta “centralità” della Giustizia nella terapia dei contrari è sottolineata anche visivamente da Giotto. Infatti, lungo l’intera parete corre una treccia architettonica, in cui un solo elemento, quello posto sulla verticale esatta della testa della Giustizia (e dall’altro lato dell’Ingiustizia) appare perfettamente in asse, mentre tutti gli altri, le virtù su un lato e i vizi sull’altro, poste al di sopra piegano o verso sinistra o verso destra, in direzione rispettivamente dell’abside e della controfacciata. Chi è giunto alla giustizia ha di fatto praticato una “terapia umana” dell’anima, che lo ha portato alla felicità terrena, usando la medicina animi delle virtù cardinali, che sono virtù morali e intellettuali, con cui ha curato i vizi contrari.
Esiste però anche La “terapia divina”. Per aspirare al Paradiso celeste occorrono cioè gli insegnamenti divini, la rivelazione della verità che supera e trascende la ragione umana, ma qui, ,laicamente, mi fermo sottolineando solo che con l’amore (Karitas) si supera l’egoismo e l’avidità, che portano a guardare con occhi malevoli (Invidia) il prossimo e che la speranza,(Spes), deve essere alimentata come attesa attiva (azione) verso l’umanità intera. Nell’affresco tutto trova perfetta rispondenza: il tema della “terapia dei contrari”, l’ordine sequenziale delle virtù cardinali e delle virtù teologali, la centralità della giustizia.
Giotto, La Giustizia,, Cappella degli Scrovegni, particolare.
Nel nostro mondo reale le virtù (uguaglianza, giustizia sociale, pace) non sono solo metafore universali ma condizioni indispensabili e i loro contrari, i vizi, sono realtà che vediamo sempre più imporsi. La via è tracciata. Siamo in grado di percorrerla ?
In copertina:Giotto, Strage degli innocenti, Cappella degli Scrovegni, particolare.
Ancora successi per “L’allaccio” di Daniele Morelli, menzione speciale della giuria professionale al Ferrara Film Corto Festival
Sceso il sipario sul Ferrara Film Corto Festival, vogliamo continuare a parlarvene e, in particolare, a presentarvi alcuni cortometraggi di giovani registi che hanno colpito giuria, pubblico o parte della critica. Oggi è il turno de L’allaccio, di Daniele Morelli.
Vincitore del premio come Miglior Colonna Sonora al San Benedetto Film Festival, prima di arrivare all’Ischia Global Festival, è stato protagonista della Mostra Internazionale del Cinema Sociale dal 2 al 9 luglioa Vico Equense. Qui, Daniele Morelli, classe 1994, ha presentato il suo cortometraggio L’allaccio, già in concorso ai David di Donatello 2023, e premiato come miglior cortometraggio (Colosseo d’Oro) oltre che miglior sceneggiatura (Colosseo d’Argento) al Roma Film Corto 2022. Altra menzione speciale della giuria professionale è arrivata dal Ferrara Film Corto Festival, lo scorso 28 ottobre.
Morelli è un vero talento, una promessa del cinema: è laureato in Beni Culturali, Musicali e dello Spettacolo all’Università di Tor Vergata, nel 2017 ha frequentato il corso propedeutico di regia al Centro Sperimentale, ha lavorato come assistente alla regia sul set di Loro di Paolo Sorrentino e, nel 2019, ha frequentato il Master Rai Master di scrittura seriale di fiction per affiancare alla regia uno studio sempre più accurato della sceneggiatura e il programma Biennale College di Venezia. Oggi lavora a Roma con varie case di produzione, come Lotus Production, Publispei e Minerva Pictures, e ha diretto vari cortometraggi caratterizzati da una regia evocativa e discreta che emoziona.
Appassionato di scrittura e cinema – grande ispirazione, ha detto, gli è arrivata da film come Batman,Il Padrino o Joker, così come dalla serie Romanzo Criminale -, questo giovane regista/sceneggiatore si concentra sulla realtà, dalla quale trae profonda ispirazione, mettendo l’Uomo sempre al centro, con le sue contraddizioni, le sue emozioni, i suoi sentimenti, i suoi dubbi e le sue debolezze. Nei suoi lavori, ricorrono spesso i temi della morte e del lutto, argomenti che vuole approfondire, quasi con una lente d’ingrandimento. Avesse un caleidoscopio, creerebbe molteplici versioni della realtà
“Credo che la chiave del mio lavoro”, ha detto, infatti, in un’intervista, “sia restituire onestamente la complessità dell’essere umano, di come ogni persona reagisce di fronte a tutto ciò che, nel bene e nel male, offre la vita”. “L’indagine su un caso”, continua, “ti permette una profonda analisi della complessità dell’animo umano”.
E così avviene anche per L’allaccio, una storia di lutto e paternità, la vicenda reale del dolore immenso del grande regista Roberto Gastone Zeffiro Rossellini per la perdita di suo figlio Romano, di soli nove anni, il 14 agosto 1946, avuto dalla moglie Marcella de Marchis. Era l’anno del film a episodi Paisà e Rossellini doveva girare Germania Anno Zero e, per questo, recarsi a Berlino, ma non riusciva a staccarsi dalla tomba del figlio. Una colla invisibile fatta di tristezza e rimorsi pareva inchiodarlo lì. Così chiese, alla compagnia TETI, di farsi allacciare, un telefono al Cimitero del Verano accanto alla tomba di Romano, per poter comunicare con il produttore, gli sceneggiatori e la troupe del nuovo film che girava in una Berlino rasa al suolo, sotto l’amministrazione francese.
“Le opere di mio padre le divido in quelle prima della morte di Romano e in quelle successive, dove c’è una spiritualità non presente in quelle precedenti – ha detto Renzo, il figlio di Rossellini -, Germania anno zero mio padre l’ha organizzato da qui. Dopo i bombardamenti di San Lorenzo qui molte tombe erano aperte e io passavo ore e ore a giocare con le ossa, creavo trombette, sono stato allevato nel lutto e nel dolore dei miei genitori. Negli anni passati ho fotografato la colonnina e la tomba e le ho mandate a tutti i sindaci di Roma, ma solo grazie alla sensibilità di Marino questo oggetto ora entra nella storia”. Oggi questa storia si trova anche nella Guida storico-culturale del Cimitero Monumentale del Verano, edita nel 2015, un grande libro dei ricordi di un’intera comunità.
Il protagonista di Germania anno zero, uscito nel 1948, è interpretato da Edmund Moeschke, un ragazzino di 11 anni che nella vita si esibiva al circo come acrobata con la famiglia: pare che Rossellini lo avesse scelto anche perché gli ricordava Romano, alla cui memoria il film fu dedicato nei titoli di testa. Il circolo si chiudeva. I cipressi intorno, quasi a stringersi in un infinito abbraccio disperato ed empatico.
Un uomo solo, dunque, prigioniero nel limbo del Cimitero, dopo un abbraccio in lontananza con Anna Magnani, e una colonnina in ghisa che c’è ancora (non il telefono), restaurata. Una strana richiesta che colpisce ancora e che intenerisce. Un filo.
Così Morelli racconta la storia dell’operaio, interpretato da Francesco Acquaroli, che realizza l’allaccio al grande regista, un operaio che non parlava con il padre da tempo, e la cui voce incredula, vinta la propria ritrosia interiore, sentirà proprio da quel telefono, dopo aver composto il suo numero per testare la linea. Un figlio che chiama il padre, per ritrovarlo (con tanto di sorpresa finale), un padre che vorrebbe chiamare un figlio, ma che non può, perché che non c’è più. Destini che si incrociano, un po’ chi ha il pane non ha denti e chi ha i denti non ha il pane, reciterebbe il detto popolare. “Un chiasmo emotivo”, dice Morelli, “dove il regista e il telefonista, grazie alla conoscenza dell’altro, si donano qualcosa, riuscendo entrambi ad affrontare i propri demoni personali”.
Si tratta di fare i (temibili e terribili) conti con il proprio passato, un intreccio di destini da cui nasce una vera e delicata poesia. Una storia, misteriosa ma sensibilissima, in un’ambientazione dai colori un poco noir, che tocca temi profondi come la perdita, la colpa, il desiderio di vendetta e la necessità di confrontarsi con il proprio passato.
L’allaccio, di Daniele Morelli, scritto da Edoardo Carboni e Daniele Morelli, Italia, 2022, prodotto da Necos Film, durata 20 mn.
Diceva il Grande Timoniere, ed era un complimento: “Grande è il disordine sotto il cielo”. Magari fosse cosi a Ferrara per la nutrita schiera dei partiti e delle formazioni politiche che vogliono opporsi alla Destra della Giunta Fabbri.
Oppure sì, come negarlo, la discussione e il confronto fra le varie anime della Sinistra e del Centrosinistra c’è stato: tante settimane, tante riunioni, tante parole attorno al famoso Tavolo. Ma quel disordine polifonico sembra oggi un buco vuoto, o peggio, un buco nero, come il fondo di un tunnel di cui non si vede l’uscita.
Posso essere più gentile. Chiamiamolo più garbatamente “un ripensamento critico”, “un momento di riflessione”, “un utile e necessario chiarimento”, sta di fatto che quel Tavolo dell’Opposizione, ribattezzato in corsa Tavolo dell’Alternativa, una volta chiamato a sciogliere il nodo del Candidato Sindaco, si è fermato, anzi, ha cominciato a traballare. Al contrario delle aspettative, l’Opposizione, invece di essere unita, appare divisa e l‘Alternativa di là da venire. Una divisione che si specchia e si amplifica grazie agli interventi, articoli, commenti che appaiono sulla stampa locale. Un brutto spettacolo e una lieta notizia per una Destra che ha dichiarato di voler governare Ferrara per altri vent’anni.
Forse, è quello che spero, non è successo nulla di irreparabile, ma occorre guardare in faccia la realtà. Chi credeva, in perfetta buona fede ma con pochissima lungimiranza, che bastasse mettere a concistoro tutti i leader e leaderini di tutti i partiti e le formazioni politiche che si opponevano alla Giunta Fabbri, per scegliere un programma e indicare un candidato/a Sindaco/a, deve oggi ricredersi.
Ancora mi chiedo (anche se occorreva chiederselo prima) come fosse possibile pensare di tenere insieme tutti, da Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana fino a Italia Viva ed Azione, quando a livello nazionale questi partiti, come altri e più consistenti, Pd e 5 Stelle, perseguono strategie e obiettivi differenti o addirittura contrastanti?
Forse si pensava che Ferrara fosse una tranquilla città di provincia, che potesse decidere da sé apparentamenti, nomi, alleanze? Un altro incredibile errore. Perché Ferrara è nell’occhio del ciclone. Lo è oggi e lo sarà ancor di più in campagna elettorale. Ferrara rappresenta un glorioso avamposto, la prima città dell’Emilia-Romagna conquistata dalla Destra. Per questo il Governo Fabbri è già preso a modello a livello nazionale e Lega e Fratelli d’Italia non lesineranno energie e soldi per pubblicizzarlo, difenderlo ed esportarlo.
Un altro errore del tavolo è stato sottovalutare completamente il valore e il carattere dell’astensionismo. La volta scorsa, nel 2019, a Ferrara non ha votato quasi il 40% degli aventi diritto. E nel 2024 potrebbe andare peggio, visto che appena l’altro ieri, a Monza, l’astensionismo ha superato l’80%.
Ora, anche se il tavolo multipartitico riuscisse, con qualche alchimia, a trovare l’accordo su un unico Candidato Sindaco, un pezzo importante dell’elettorato progressista e di sinistra non lo voterebbe punto. Per il solo fatto che quel candidato è l’emanazione diretta dei partiti. Capisco, è un discorso che ai partiti fa venire l’orticaria, ma qualcuno può forse confutarlo? Se quindi a Ferrara l’opposizione ha bisogno di ogni singolo voto per battere una Destra forte, unita ed agguerrita, allora perdere la porzione di voti della “sinistra sociale” e della “sinistra scontenta”, vorrebbe dire una sconfitta sicura, probabilmente al primo turno.
La cosa curiosa è che ai partiti ferraresi, da più di un mese, è stata offerta un’alternativa. Un metodo partecipato e innovativo. Una salutare immersione nella società civile cittadina. E, si badi bene, questa proposta, tutta nel segno della democrazia, appare forse oggi l’unico modo nobile e trasparente per trarsi d’impaccio, per uscire dall’impasse, per azzerare di colpo il penoso e incomprensibile braccio di ferro che vede impegnate due fazioni variamente assortite: quelli che vogliono la professoressa Laura Calafà e quelli che vogliono l’avvocato Fabio Anselmo (ho definito “incomprensibile” lo scontro tra i due titani, perché noi, futuri elettori, nulla sappiamo di loro e della loro idea di Ferrara).
L’invito al Tavolo dell’Alternativa è arrivato da un foltissimo gruppo di cittadine e cittadini. Si sono voluti chiamare, un po’ per gioco e un po’ sul serio, La Comune di Ferrara, sottotitolo Femminile, Plurale, Partecipata. Basta dare un’occhio al sito per capire il taglio innovativo e la proposta radicale per la Ferrara futura di cui La Comune si fa portatrice[il sito La Comune di Ferrara]. Un lavoro collettivo portato avanti da alcuni mesi, con una premessa semplicissima: “Crediamo nell’importanza che sia la società civile parte attiva nella stesura dei programmi che interessano la comunità, attraverso metodi e strumenti partecipativi reali.” Sembra la scoperta dell’acqua calda, se non fosse che qualcuno ai piani alti non l’ha ancora scoperta.
La Comune ha invitato pubblicamente i partiti e il Tavolo dell’Alternativaad uscire allo scoperto, a rompere le righe, a confrontarsi con la società civile, il mondo del volontariato sociale, le esperienze di lotta cresciute in questi anni in città. Solo così, scegliendo insieme le linee del programma come il nome del Candidato/a Sindaco/a e della squadra che lo affiancherà, l’opposizione potrà presentare una proposta condivisa e vincente. E’ già segnato un primo grande appuntamento assembleare, domenica 19 novembre. Per lavorare in gruppo, fare emergere le priorità che devono caratterizzare il programma ed individuare competenze, disponibilità, candidature. In quella sede si capirà che i candidati da scegliere insieme non saranno solo Anselmo e Calafà.
Un altro gruppo spontaneo di giovani, Ferrara2044, anche su queste pagine ha proposto ai partiti un percorso analogo: le primarie. Questo significa mettere il programma e la candidatura a sindaco in mano ad una larga base popolare, in grado di far emergere competenze, disponibilità e candidature.
Proprio come il mio amato Gaber: io se fossi un partito, ma per fortuna non lo sono, avrei un bel po’ di paura a “bagnarmi nel grande fiume”. È una scelta inedita, dove le certezze, gli equilibri, i calcoli preventivi, possono cambiare e perfino cambiarti. Ma è proprio questo che succede se incontri e ascolti il tuo popolo, uno ad uno. È un modo per superare l’impasse, per schiodare il Tavolo da terra, per gettare lo sguardo oltre il buio del tunnel, ma è anche un modo per imparare da capo a “far politica”. Rischi a parte, potrebbe perfino essere un viaggio affascinante.
Per leggere gli articoli diFrancesco MoninisuPeriscopioclicca sul nome dell’autore
“La poesia è una sofisticata cosa d’aria / Che vive inertamente e non a lungo / Ma radiosa oltre ben più vistosi barbagli.” (Wallace Stevens)
RESPIRO
Per me sei respiro
Sei l’essenza che nutre quotidianamente la mia anima.
Giungo da te senza indossare maschere, senza dover recitare!
Tu come una buona madre
mi accogli tra le tue amorevoli braccia ed io mi sento protetto
mentre imparo ad amare.
Per me sei il respiro della vita che si confonde in questo silenzio assordante e vibra
mentre emana un’incantevole melodia.
SILENZIO
Un tuffo nel silenzio
tra ricordi passati.
Cerco nella memoria
voci e pensieri, rumorosi.
Fermo il pensiero, nuoto nel silenzio: giungono verità.
Ancora mi rifugio in te
giudice non sindacabile
di questo mondo
percosso dal tempo.
Fragile si scopre l’uomo.
TRAMONTO
Una pennellata ricolma di colore d’un pittore
e il tramonto viene ricamato d’oro.
Con le nuvole si sciolgono i colori
ed io mi incanto sempre di più mentre aspetto te.
L’ultimo raggio di sole, quello più rosso
ti accoglie tra le sue braccia e tu felice corri verso me.
Il sole si rispecchia dentro il mare,
nei tuoi capelli ti è rimasto l’oro e
il vento ci gioca e non me li fa baciare
perché è geloso di questa felicità.
Fabio Petrilli (Foggia, 2000). Vive a San Bartolomeo in Galdo, una cittadina in provincia di Benevento. Attualmente frequenta l’Università degli Studi del Molise dove si è iscritto alla facoltà di Lettere e Beni culturali.
Le sue poesie sono state tradotte in portoghese dalla poetessa Cristina Pizarro, in francese dalla poetessa Irène Duboeuf, in spagnolo, catalano e inglese dal poeta Joan Josep Barceló i Bauçà, in greco moderno dalla poetessa Irene Doura – Kavadia. I suoi testi sono presenti in numerose riviste letterarie nazionali e internazionali (Stati Uniti d’America, India , Francia). Nel 2023 con l’inedito “ I miei versi “ ha vinto il Panorama Internazionale delle Arti nella categoria “ Youth Awards “ organizzato dalla Writers International Capital Foundation. Collabora con il quotidiano letterario “Alessandria Today“ della città di Alessandria in Piemonte.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia.
(Cesare Pavese)
Catina Balotta (qui)mi esorta su Periscopio, seppure all’interno di un appello collettivo, a non distruggere l’infanzia se voglio salvare l’umanità. L’occasione di cronaca è fornita dai fatti di Gaza e di Israele. “Non distruggere l’infanzia è l’unica strada per salvare l’umanità. Mi chiedo quanta consapevolezza ci sia su questo e quante azioni mancate ci riguardino, in questi giorni tetri come la notte. Per poter salvaguardare l’infanzia su questa terra infestata da armi mortali, sofisticate e diffuse ovunque, serve la mobilitazione di tutti.”
Quante azioni mancate ci riguardano? Ribalterei la questione. In una situazione come questa, quali sono le uniche azioni ammesse, e che (quasi) nessuno compie né compirà mai?
Le uniche azioni ammesse sono: organizzarsi, andare là e mettersi a disposizione per aiutare i feriti, abbracciare le madri e seppellire i morti, a rischio della propria stessa vita. Come? Difficile già dal punto di vista puramente logistico, difficilissimo dal punto di vista esistenziale. Eppure sarebbe l’unico agire che legittima un parlare. Tutto quanto possa essere fatto di alternativo è inane, e non autorizza l’impiego di parole, persino le più accorate e in buona fede, per commentare questa situazione. Per quanto accorate, per quanto in buona fede, suoneranno sempre gratuite, comode, prive di rischi, come le varie solidarietà che siamo abituati a manifestare con l’esposizione di una bandiera al balcone, o su una foto del profilo social. Il profilo social. Già il pronunciare una simile locuzione suona oscenamente vacuo di fronte al male del mondo.
Francesco Monini in un messaggio, non saprei anche qui se personale o collettivo – credo entrambi – mi scrive invece: “riuscite a dormire durante la strage dei bambini?”. La mia risposta è: riesco a dormire se non guardo il mondo. Se non guardo il male del mondo. Infatti non lo guardo più. Non accendo la televisione. Salto i notiziari radio, elimino i filmati dei bambini di Gaza che girano sul web. Prolungo il mio lockdown privato.
Cosa potrebbe fare un mio conoscente, persino un amico, di fronte a un mio grave lutto personale, o addirittura collettivo come è un lutto causato da una guerra o una catastrofe? Ben poco, ma almeno sarebbe un amico o un conoscente, e se non oggi, un giorno potrò apprezzare la sua vicinanza del momento, ricordandola. Cosa posso fare io per queste persone che non conosco e non mi conoscono, non vincendo la viltà di non andare là? Nulla. Cosa posso fare per evitarmi la frustrazione, l’inutile dolore senza uno sfogo, senza uno scopo? Coltivare l’anestesia. Per riuscire ancora a prendere sonno.
Cover: “Numb” by Dandy-Jon, copyright dell’autore, pubblicato con licenza Creative Commons
La notizie che si susseguono in queste ore sono drammatiche. Dai campi profughi della Striscia di Gaza, dall’ ospedale di Gaza City al collasso, arrivano testimonianze agghiaccianti. A Gaza manca tutto: acqua, elettricità, internet, i minimi presidi sanitari. Le persone muoiono per le strade, e i primi a morire sono i più deboli, un milione di bambini palestinesi. Non distruggete l’infanzia se volete salvare l”umanità , scrive Catina Balotta e riporta i numeri impressionanti della strage infinita dei bambini. Ma già oggi quei numeri sono superati, il pallottoliere della morte non si ferma un attimo. L’Assemblea Generale dell’ONU e Papa Francesco hanno chiesto ad Israele di fermare l’invasione militare e i bombardamenti su Gaza. Solo un cessate il fuoco può salvare dalla morte migliaia di bambini e dall’annientamento un popolo inerme, un popolo che non può e non deve essere identificato con Hamas. Fino ad ora, questo appello non è stato raccolto, complice anche il cinico voto contrario degli Stati Uniti. Intanto la stampa e le televisioni, in Italia e nel mondo, continuano a raccontarci gli ultimi sviluppi delle operazioni militari, l’ultima conta dei morti e feriti. Anche il mondo di quella che dovrebbe essere “la libera informazione” è complice della strage dei bambini. Invece di chiedere a gran voce il cessate il fuoco, preferisce alimentare il fuoco, intervistare politici, generali ed esperti militari. Intanto la strage continua. (Francesco Monini, direttore di Periscopio)
A GAZA L’ULTIMA STRAGE DEI BAMBINI.
NON DISTRUGGETE L’INFANZIA SE VOLETE SALVARE L’UMANITA.’
Non distruggere l’infanzia è l’unica strada per salvare l’umanità. Mi chiedo quanta consapevolezza ci sia su questo e quante azioni mancate ci riguardino, in questi giorni tetri come la notte. Per poter salvaguardare l’infanzia su questa terra infestata da armi mortali, sofisticate e diffuse ovunque, serve la mobilitazione di tutti.
Secondo il report 2022 “Levels & Trends in Child Mortality” realizzato da UNICEF/OMS/Banca Mondiale/UN DESA del Gruppo inter-agenzie delle Nazioni Unite per la stima della mortalità dei bambini/e (UN IGME), nel 2021 cinque milioni di bambini/e sono morti nel mondo prima di compiere i cinque anni di vita.
In un secondo rapporto “Never Forgotten The situation of stillbirth around the globe” UN IGME ha rilevato che, nello stesso periodo, ulteriori 1,9 milioni di bambini/e sono nati morti. Tragicamente, molte di queste morti avrebbero potuto essere evitate con un accesso equo e un’assistenza sanitaria di alta qualità per le madri, i neonati, gli adolescenti e i bambini. Si veda qui il RapportoUNICEF/OMS/Banca Mondiale/UN DESA.
L’ONU ha verificato che nel 2022nei Paesi in guerra, come Etiopia, Mozambico, Ucraina, Haiti, Niger, Sudan, 18.890 bambini/e hanno subito gravi violazioni. Circa 8.630 sono stati uccisi o mutilati; 7.622 reclutati e utilizzati in combattimento e 3.985 risultano rapiti. Inoltre, 1.165 minori, per lo più ragazze, sono stati violentati, stuprati in gruppo, costretti al matrimonio o alla schiavitù sessuale o aggrediti sessualmente. In alcuni casi le violenze sono state così gravi che le vittime sono morte [Vedi qui].
Secondo Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini/e, il numero di bambini/e uccisi a Gaza, in sole tre settimane, ha superato il numero di quelli che ogni anno hanno perso la vita nelle zone di conflitto del mondo dopo il 2019.
Secondo i dati diffusi rispettivamente dal Ministero della Sanità di Gaza e di Israele, dal 7 ottobre, sono stati segnalati più di 3.257 bambini uccisi, di cui almeno 3.195 a Gaza, 33 in Cisgiordania e 29 in Israele. Il numero di bambini uccisi in sole tre settimane a Gaza è superiore al numero di bambini uccisi in conflitti armati a livello globale – in più di 20 Paesi – nel corso di un intero anno, negli ultimi tre anni[Leggi qui].
Sono dati impressionanti che non fanno ben sperare per il futuro, almeno che non si trovi il modo di invertire la rotta. Non c’è nessuna giustificazione a una situazione di questo tipo. Una strage continua che addolora tutto il mondo degli esseri umani a cui è rimasto un cuore. I diritti dell’infanzia sono negati in nome di decisioni prese dagli adulti, mi chiedo se l’autogestione dei bambini non sarebbe più equa e meno crudele.
Ma i diritti dei bambini/e vanno ben aldilà di quelli degli adulti che li accudiscono, ben aldilà di quelli che situazioni climatiche, di povertà e di guerra, consentono. Sembra che la presenza di documenti ufficiali e di trattati internazionali che dovrebbero salvaguardare l’infanzia, sia assolutamente inutile se poi non esistono le persone che li conoscono e li applicano. Non sono i fogli di carta con timbri altisonanti che tutelano le persone, non lo sono nemmeno se sono firmati dai massimi rappresentanti delle istituzioni politiche e sociali internazionali.
Stiamo davanti auna arena geopolitica in cui sembrano non esistere persone autorevoli e con autorità (le due cose non si equivalgono, ma in questo caso sono necessarie entrambe) che li sostengono, condividono, promuovono e ribadiscono con la massima convinzione sia personale che delle organizzazioni rappresentate.
Come si dice un po’ banalmente “un conto è dirlo e un conto è farlo”. Si susseguono dichiarazioni di necessaria tutela dell’infanzia che vengono regolarmente smentite dai fatti. Allora, pur apprezzando chi almeno le dichiara, diventa rilevante avere anche chi le attua.
Forse ognuno di noi dovrebbe lavorare più in questo senso. Noi società civile che ci indigniamo, ma che facciamo poco, pensando che spetti a qualcun altro agire, a quel qualcuno che può uscire dagli schermi televisivi per diventare un novello redentore.
La discrasia tra strumenti istituzionali e opportunismo comportamentale, è una abitudine che va sradicata. Proprio in questo momento, in cui la povertà e i venti di guerra incombono sulla nostra testa e su quella di moltissimi bambini/e come mai dopo la seconda guerra mondiale è successo, tocca a noi ritrovare la forza per rileggere i documenti istituzionali che sanciscono principi di tutela, con l’accortezza di farne tesoro, con l’umiltà di chi può ancora imparare, con la consapevolezza che il passaggio da una dichiarazione d’intenti ad una operatività quotidiana interessa tutti, qualunque lavoro si faccia e a qualsiasi livello istituzionale si appartenga.
La tutela dei bambini/e passa da ogni strada, da ogni casa, da ogni balcone e anche da ogni gruppo di persone che pensa e, pensando, si rende conto che la responsabilità di un’infanzia negata non avrà alcuna possibilità di trasformarsi in catarsi.
Sono cresciuta con il terrore che la “Strage degli Innocenti di Re Erode”(Vangelo secondo Matteo 2,1-16) potesse ripetersi, per poi accorgermi che di stragi di questo tipo ne sono esistite tantissime e che quello che è successo ai bambini/e ebrei nei campi di concertamento della Seconda guerra mondiale è solo l’apice di tantissime storie di soprusi e violenza perpetrate ai danni dell’infanzia.
Eppure, tutti hanno figli, nipoti e parenti piccoli a cui non augurerebbero alcun male, nemmeno a scapito della loro stessa esistenza. Forse è proprio l’incapacità di allargare lo sguardo oltre la propria casa, il problema. L’incapacità di pensare che la tutela deve andare aldilà dei nostri bambini/e, per abbracciarli tutti. Una distinzione meno drastica tra i miei bambini/e, i tuoi bambini/e, i nostri bambini/e, i loro bambini/e, potrebbe migliorare la situazione.
I bambini/e umani sono bambini di tutti nella loro dimensione universale di soggetti che meritano tutto il rispetto e la tutela possibile. Nel riconoscimento del bambino/a come archetipo universale catalizzatore d’amore potremmo trovare il modo di accordarci tutti e di inaugurare una nuova era, dove alla base della politica non c’è il rispetto di un anonimo trattato, ma un sentire comune, che ci permette di riconoscerci tutti come individui che amano i bambini/e.
Potremmo diventare persone che pensano che tutti i bambini/e del mondo abbiano uguali diritti ed uguale dignità. Non esiste altra strada per sentirci nuovi e meno tarlati da tutte le nefandezze già perpetrate ai danni dell’infanzia, da tutte le brutture che stanno succedendo anche in questo periodo, anche in questo momento in cui io sto scrivendo e anche nel momento in cui vi troverete a leggere queste poche parole dettate dall’indignazione e dalla impotenza di fronte all’ennesimo massacro di bambini/e.
Come se i miei peggiori demoni si fossero destati, come se le mie più grandi paure di bambina si fossero materializzate davanti ai miei occhi, me ne sto qui a guardare ciò che sta succedendo a Gaza senza saper cosa fare, se non mettermi a pregare, nella convinzione che il Dio buono di tutti i popoli possa migliorare la situazione, senza condannarci tutti al rogo eterno.
Per buona memoria di tutti ricordo che il più importante documento sulla tutela dei bambini e delle bambine“La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” che è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. In tale documento vengono riconosciuti ai bambini:
• diritti di personalità come il diritto al nome e all’identità personale, il diritto ad appartenere a un gruppo familiare, e alla cittadinanza; • diritti di libertà come la libertà di manifestare la propria opinione e il proprio pensiero, la libertà morale e il diritto alla riservatezza, la libertà di coscienza e di religione; • diritti sociali come il diritto all’informazione corretta e comprensibile, il diritto alla sicurezza sociale, e ancora il diritto a vivere in un ambiente vivibile e usufruito, il diritto all’istruzione, al tempo libero, al lavoro.
Oltre ai diritti riconosciuti ai bambini, nella Convenzione sono state stabilite anche le forme di controllo sulla loro attuazione, istituendo il Comitato sui Diritti del Bambino, che ha lo scopo di esaminare i progressi compiuti dagli Stati nell’esecuzione degli obblighi derivanti dal trattato.
Il comitato ha sede a Ginevra e si riunisce ogni anno.
La creazione della Convenzione è ricordata ogni anno, il 20 novembre, con la commemorazione della Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
È quasi il 20 novembre anche quest’anno.
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Quella cosa chiamata città. Rio de Janeiro e il raptus divino
Tudo e graça que se dele pode decir (tutto è grazia, che altro si può dire), così viene descritta Rio de Janeiro dai suoi scopritori nel Cinquecento, ma il suo nome potrebbe essere un equivoco. La flotta portoghese di Pedro Álvares Cabral, nel 1502 scopre la baia che gli Indios avevano denominata Guanabara (il senso da dove viene il mare, un gran entrante del mar) e la associano alla loro capitale.
Lisbona si affaccia su un fiume che sembra un mare, Rio sorge su di un golfo, di fronte all’ilha das Cobras, dunque, è mare e il “Fiume di Gennaio” diviene un detournement geografico. Il Pão da Açúcar e la punta di Santa Cruz ne costituiscono la porta larga 1700 metri, mentre il golfo, ricco di isole e isolette ha una circonferenza di circa 140 km.
Secondo Massimo Bontempelli, Rio e la sua baia furono fondate da Dio in preda ad un raptus di frenesia creativa. Liquido e solido, increspamenti, riflessi e trasparenze, azzurro, verde e violaceo, forme di suolo, pezzi di cielo e mare, delirio di curve senza geometria. Le montagne appaiono disposte a caso, e quelle più indietro hanno spinto in avanti quelle più piccole, posizionandole sul mare. Mescolando tutto questo è nata una baia che rende sobrio il golfo di Napoli.
Le Corbusier andrà otto volte a Rio. La prima volta nel 1929 a bordo di uno Zeppelin e ci regalerà con i suoi schizzi dall’alto delle straordinarie suggestioni della baia, definita dai suoi caratteri geografici e topografici che condizioneranno il disegno delle infrastrutture e dei quartieri.
Stefan Zweig riprende, con altre parole, la meraviglia di Bontempelli e mette in forma di racconto gli schizzi di Le Corbusier, quando afferma che siamo di fronte a una città multipla, che nessun gioco di parole, scatti fotografici possono rendere, perché è troppo varia. Qui, in questo piccolo spazio, ci ricorda lo scrittore apolide, la natura in uno slancio di generosità ha riunito tuti gli elementi che normalmente distribuisce in un paese intero.
Eccoci di nuovo a Rio. Arriviamo alle 7:30 e al nostro appartamento, a Ipanema, dopo un’ora di taxi. Ciò che vediamo in questo transito rende ridicole le retoriche dei nostri boschi verticali o delle foreste urbane che la nostra stampa nazionale ed eco-impegnata ci propina quasi ogni giorno.
A Rio la foresta atlantica (la Mata atlantica) è oggi ridotta in ritagli di vegetazione densissima, alternati ai quartieri abitativi della devastante urbanizzazione del litorale della città. Qui anche un semplice viale alberato è molto più di un doppio filare. Gli innesti di orchidee, che si trovano sui tronchi dei ficus che ombreggiano le strade carioca, danno vita ad associazioni di mutuo soccorso, o convivenze che troviamo nelle foreste.
Nonostante l’urbanizzazione formale e informale sia stata pervasiva e si sia insinuata in ogni spiaggia, baia, morro o vallata l’impressione è che Rio non sia una metropoli con del verde urbano, ma un’ enorme foresta,dentro la quale è sorta una città, anzi molte città. Dunque, Rio de Janeiro si alimenta di contrasti. Se nasce come una città dentro la foresta in seguito, incuneandosi nelle baie e arrampicandosi anche sui morros ne prende il sopravvento.
Le parti di città costruite lungo le spiagge di Copacabana, Ipanema e Leblon riproducono il medesimo schema. La città è organizzata ortogonalmente e le strade principali si allungano parallele alla costa. Si tratta di strade residenziali, anche quelle affacciate sul mare; di norma solo una è commerciale ed è interna.
La strada vicina alle montagne è in collegamento con le favelas retrostanti, arrampicate sopra, e ogni mattina molte persone scendono per far funzionare la città. La favela è ovunque, la vedi circondare la città quando scendi dall’aereo, la ritrovi arrampicata sui morros che bordano i ricchi quartieri affacciati sul mare.
Vi è un rapporto di mutua assistenza tra la città dei ricchi e quella dei poveri. La favela di Vidigal a Rio de Janeiro mi è apparsa come la «Irene» di Italo Calvino: “lacittà che si vede a sporgersi dal ciglio dell’altopiano nell’ora che le luci s’accendono e per l’aria limpida si distingue laggiù in fondo la rosa dell’abitato…e se la sera è brumosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna lattiginosa al piede dei calanchi.”
La foto della cover e quelle nel testo sono dell’autore
In Copertina: Rio de Janeiro, La spiaggia pubblica, la città, la mata atlantica
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Le parole vanno dosate. Bisogna impiegarle bene. Altrimenti possono fare male, anche più di ogni altra azione. A spiegarcelo il silent book “Discordia”
Esce il 13 novembre, con Kite edizioni, il silent book “Discordia”, opera prima dell’autrice-illustratrice brasiliana Nani Brunini, attualmente residente in Portogallo.
Si tratta di un volume, dai colori dominanti viola, rosso e nero, che con la sola forza delle potentissime immagini racconta quanto male faccia la discordia e quanto abbiamo bisogno di coloro che sanno portarci fuori di lì attraverso l’uso delle sole (e magari belle) parole.
Siamo ammirati e avvolti da una narrazione visiva che ci porta nel mondo della terribilmente attuale polarizzazione delle opinioni: barricati sulle nostre posizioni ci urliamo contro, non ci vediamo più, non ci capiamo, non ci sfioriamo, non ci sentiamo, non ci ascoltiamo, non facciamo alcuno sforzo per venirci incontro.
Da un piccolo iniziale scambio di diverse vedute si arriva spesso, quasi subito, a un rancore e a un’intolleranza senza limiti e senza controllo. Parole, parole, parole, e per cosa poi? Certe parole sono inutili feriscono gratuitamente, portano rancore e rabbia.
In questo interessante albo, tutto inizia con un piccolo disaccordo, si parte con una divergenza che aumenta man mano di volume in una scalata assordante, raccogliendo sostenitori intransigenti da entrambe le parti, fino a diventare una disputa insolubile e senza argomenti che resistono. Vince chi grida più forte oppure sono tutti perdenti?
Il colore e la loro assenza, la linea sottile che definisce i personaggi, mettono in relazione la concretezza dei loro corpi con l’astratto delle emozioni. C’è anche suspense.
E’, quindi, sempre più necessario creare ponti che ci possano aiutare a (ri)vivere in comunità. Basta sordità, incomunicabilità e incomprensione. Urge una riflessione.
In un mondo dove tutto pare esasperato, soprattutto sui social, dove l’escalation da un tono inizialmente un poco dissonante a un’esplosione di insulti è spesso esponenziale, “Discordia” è un libro davvero per tutti, e, in particolare, per chi è stanco di urlare.
Nani Brunini è illustratrice freelance, originaria di San Paolo, in Brasile che oggi vive a Lisbona, in Portogallo. Ha vissuto a San Francisco, Londra, Helsinki, Mannheim, Rio de Janeiro e Recife. Le sue illustrazioni sono realizzate con un mix di tecniche a mano (inchiostro sumi, matite colorate, tempera, timbri in gomma, stencil, ritagli di carta, ecc.) e processi digitali (principalmente Procreate e Photoshop).
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
Palazzo Ducale e Casa Luzzati
Genova, dal 15 ottobre 2023 al 7 aprile 2024
Palazzo Ducale presenta un omaggio a Italo Calvino, nell’ambito delle iniziative culturali di Genova Capitale Italiana del Libro 2023 e delle Celebrazioni per il centenario della nascita, coordinate dal Comitato istituito per l’occasione dal Ministero per la Cultura e presieduto da Giovanna Calvino.
Si comincia dalle creazioni del sanremese Antonio Rubino, conosciute nell’infanzia e poi ripubblicate in Einaudi Ragazzi, per poi passare alla collaborazione di lunga durata con Emanuele Luzzati, indagata attraverso le illustrazioni del maestro genovese per le opere calviniane ma anche nelle produzioni RAI a cui Luzzati ha collaborato insieme con la costumista Santuzza Calì. Dal magico mondo dei Tarocchi, nati a Finale Ligure, si passa – seguendo fedelmente gli scritti dell’autore dedicati alla rappresentazione iconografica – alle visioni della sua terra, così come presentate dai pittori suoi conterranei e da artisti come Francesco Menzio ed Enrico Paulucci, ai quali era legato da un rapporto di amicizia.
Alla mappa dei molti artisti di cui Calvino ha scritto, tutti legati al fantastico – da Enrico Baj a Lucio Del Pezzo, da Domenico Gnoli a Luigi Serafini –, la mostra affianca un percorso sulla fiaba declinata nei rapporti con la musica, la televisione e il teatro. Quest’ultimo versante viene analizzato attraverso le produzioni firmate insieme a Toti Scialoja e Donatella Ziliotto (poi rivisitate in chiave contemporanea dal compositore John Dove e da Sue Blane, scenografa del Rocky Horror Picture Show) e al conterraneo Luciano Berio, ma anche nei lavori per teatro e televisione di un artista particolarmente caro a Calvino, Giulio Paolini.
Il percorso scenografico, che fa dell’albero l’elemento centrale, è ideato da Emanuele Conte e Paolo Bonfiglio, e realizzato da Fondazione Luzzati Teatro della Tosse. Introdotto da un insieme di alberi dipinti e oggetti della memoria, si sviluppa come un tragitto ideale che dai boschi delle alture scende verso il mare, passando per i borghi di pietra dell’entroterra, in un omaggio alla Liguria. Direttore dell’allestimento scenico è Andrea Morini.
Insieme alla mostra è previsto un ricco calendario di iniziative di approfondimento che vanno da incontri e convegni per esplorare le molteplici dimensioni dell’esposizione a lezioni-spettacolo con interventi di attori e studiosi dell’opera dello scrittore.
Parallelamente alla mostra nella Loggia degli Abati, Casa Luzzati offre un approfondimento del lavoro del Maestro per Calvino con oltre 100 opere originali. Divisa in due sezioni, il visitatore potrà ammirare, tra l’altro, l’intera collezione dei materiali del Quartetto Cetra, le copertine dei dischi delle fiabe di Calvino, le illustrazioni originali, le interviste, le scenografie per il teatro, l’opera delle filastrocche, per il Barone rampante di Rai 1 a Torino. Il denominatore comune che emerge è lo spirito della levità e l’amore dei due protagonisti della cultura del ‘900 per la terra di Liguria, terra di saperi e sapori, oltre che di paesaggi maestosi e duri. La mostra fa parte del progetto “Luzzati per Calvino” che Lele Luzzati Foundation ha pensato per questo prestigioso appuntamento. Grazie a questo progetto – curato da Sergio Noberini e Lele Luzzati Foundation – importanti opere di Luzzati sono esposte nelle mostre delle Scuderie del Quirinale e della Loggia degli Abati, che vedono dunque la partecipazione attiva della Fondazione dedicata al Maestro. Casa Luzzati progetta e propone inoltre un ciclo di laboratori dai disegni di Luzzati ispirati alle sue fiabe.
Una scenografia della mostra di Genoca
La mostra genovese si inserisce nel progetto delle celebrazioni del centenario insieme a Favoloso Calvino, esposizione curata da Mario Barenghi alle Scuderie del Quirinale a Roma. La mostra romana è organizzata da Scuderie del Quirinale con la casa editrice Electa, in collaborazione con Regione Liguria e Comune di Genova con Fondazione Palazzo Ducale, e sarà aperta al pubblico dal 13 ottobre 2023 al 4 febbraio 2024.
Orari
da martedì a domenica, ore 10-19
lunedì chiuso la biglietteria si trova nell’atrio del Palazzo e chiude un’ora prima della mostra
Pre-allerta per disinnesco bomba inesplosa presso Chiesa di San Benedetto a Ferrara. Domenica 26 novembre, dalle ore 8 fino a fine lavori, evacuazione di buona parte del centro storico.
Informiamo i nostri lettori sulla pre-allerta – seguirà nei prossimi giorni ordinanza del sindaco – di domenica 26 novembre, dalle 8 a fine delle operazioni (indicativamente 5-6 ore che però possono variare sensibilmente), quando sarà evacuata buona parte del centro storico per il disinnesco della bomba inesplosa trovata con i lavori di sistemazione della Chiesa di San Benedetto.
Consumo di suolo record nel 2022: 21 ettari al giorno
Alla faccia dello sviluppo sostenibile. Nel 2022 abbiamo consumato suolo per 21 ettari al giorno (pari a più di 210.000 mq. pro die), il 10% in più del 2021: per edifici, strade e altre coperture artificiali su aree agricole o naturali (una superficie equivalente al Comune di Napoli). Ora “copriamo” il 7,14% del territorio nazionale contro il 6,73% del 2006.
Roma è la città che ha edificato di più in termini assoluti, per un consumo mai così alto dal 2006, ma a ben vedere il fenomeno riguarda tutte le province e se si considera il rapporto in termini di mq. per abitante, le cose stanno diversamente da quanto scrive Il Sole 24 ore. Roma, per esempio, ha costruito di più nel 2022 (124ettari) perché ha più abitanti ma in termini pro-capite figura tra chi ha costruito meno, forse anche perché le grandi città sono già saturate. Bologna, inteso come Comune, è quello che ha consumato meno (132 mq. per abitante nel 2022), seguono Bolzano e come province Napoli, Milano, Roma.
Ferrara provincia ha oltre 549 mq. per abitante (il Comune 389), equivalenti a 27 nuovi ettari edificati in tutta la provincia di cui 11 ettari nel Comune capoluogo. Minore di Ferrara il consumo di suolo 2022 di Forlì (325 mq.), maggiore quello di Ravenna (457).
Erano circa da 10 anni che non si vedeva un consumo di suolo così aggressivo.
I dati del 2022 dell’ultimo Rapporto Ispra sono allarmanti: “in un anno consumato 10% in più del 2021”. Ora “copriamo” il 7,14% del territorio nazionale contro il 6,73% del 2006.
Le aree edificate coprono 5.414 kmq, come la Liguria, e continuano a crescere, nonostante il declino demografico.Monza e Brianza sono le più artificiali, così come la Lombardia come regione, seguite da Veneto e Campania. Nel 2022 la Lombardia ha consumato altri 908 ettari, seguita da Veneto (739), Puglia (718), Emilia-Romagna (635), Piemonte (617).
Osservata speciale l’Emilia-Romana, prima in classifica per le aree a pericolosità idraulica media, avendo costruito 433 ettari in zone a rischio, quasi metà del consumo in queste aree.
Ci sono anche piccoli Comuni (pochi) che non hanno consumato nulla o addirittura risparmiato suolo, cioè diminuito la superficie edificata: il suolo : come Ercolano (Napoli), Montale (Pistoia) e San Martino (Pavia).
I costi complessivi per consumare suolo ed edificare stimati da Ispra sono un miliardo e mezzoall’anno negli ultimi 16 anni, ma da ora in avanti i costi sono destinati a crescere in modo esponenziale a causa dei cambiamenti climatici. Costi dovuti alla perdita di servizi ecosistemici, cioè che provengono gratis dalla Natura, come la regolazione del microclima, il regime delle acque, la produzione agricola e lo stoccaggio di CO2.
Ciò ha portato il governo a inserire per le imprese un’ assicurazione per disastri naturali (terremoti, alluvioni, frane,…) e per terreni, fabbricati e attrezzature che va ovviamente ad aumentare i costi di impresa, obbligatoria entro dicembre 2024. Poi, se non c’è l’assicurazione, scattano multe da 200.000 a un milione di euro e se sei inadempiente perdi le agevolazioni fiscali e contributive. Se poi capita il disastro e non sei assicurato, rispondi tu.
Cover: Consumo di suolo a Roma (foto da GSA Igiene Urbana)
L’appello dei giovani di Ferrara2044: “rinnovare gli interlocutori e il metodo, invochiamo un confronto aperto alle cittadine e ai cittadini per far scegliere il candidato”
Anche i giovani di Ferrara2044 entrano nel dibattito sulla scelta del candidato o della candidata a sindaco di Ferrara e, senza indugio, invocano le primarie
Il presupposto è semplice ma, alla luce dei più recenti rumors, pare che debba essere ribadito: l’unico modo per battere le destre unite è che tutte le componenti della centrosinistra siano altrettanto unite.
In questo senso il riferimento chiaro è al tavolo dell’alternativa e alle altre realtà che recentemente si sono espresse sul tema.
Secondo i firmatari della lettera appello Ferrara2044 il “Tavolo per l’alternativa” ha portato “un ottimo metodo di lavoro per l’elaborazione dei contenuti del programma di Centrosinistra” e seil problema attuale è quello di trovare un candidato che convinca tutti lo strumento delle primarie non possono che essere lo strumento migliore.
Un confronto ampio e inclusivo che permetterebbe di avanzare proposte e fornirebbe alla futura o al futuro candidato sindaco di Centrosinistra l’appoggio di una coalizione larga, partecipata e, soprattutto, legittimata dal basso.
Ci potranno essere due, tre, dieci, venti candidate e candidati, ma quello che serve è un confronto aperto alle cittadine e ai cittadini che altrimenti sarebbero esclusi e/o disinteressati rispetto a questo passaggio fondamentale per il futuro della città.
A Ferrara c’è bisogno di guardare avanti, programmare il futuro, innovare e rinnovarsi, e per innovare davvero servono soluzioni in discontinuità con quanto fatto nel passato. Per questo riteniamo vi sia necessita di rinnovare gli interlocutori e il metodo. Siamo convinti della necessità che siano i cittadini ad essere messi al centro e dicano chiaramente quello che pensano scegliendo una candidata o un candidato.
Ferrara2044 guarda avanti e non indietro, e per questo invochiamo la modalità più ampia possibile per far scegliere il candidato e che dia il via alla campagna elettorale.
Per vincere a Giugno 2024 non abbiamo bisogno di bandierine e paletti ma delle migliori e più performanti energie.
Noi ci crediamo ancora e non smetteremo di crederci. Speriamo anche tutte e tutti gli altri.
Periscopioè un quotidiano laico, non confessionale. Tra i nostri lettori ci sono cristiani, ebrei e musulmani. Credenti e non credenti, atei, agnostici. Se Abbiamo scelto di pubblicare una preghiera, la preghiera cristiana di Papa Francesco (in prima pagina de L’Osservatore Romano di sabato scorso) non è quindi per una improvvisa conversione, o per affidarci a Dio. L’appello accorato di Francesco a Maria, madre di cristo, ci pare rappresentare, riassumere l’appello di ogni uomo o donna di pace contro ogni guerra.
Questa ultima terribile guerra, la minaccia di Netanyahu di invadere la Striscia di Gaza per cancellare dalla faccia della terra un popolo inerme, è stata condannata dalla Assemblea dell’ONU che ha votato con una schiacciante maggioranza un immediato cessate il fuoco, Lo Stato di Israele e Stati Uniti e pochi altri hanno votato contro. La minaccia permane, l’invasione può scattare in ogni momento.
Sappiamo che non saranno Dio o la Madonna, Jahvè o Allah, a fermare questa e tutte le altre guerre, ma i cristiani gli ebrei i musulmani, gli uomini e le donne di buona volontà a chiedere e a pretendere la pace. Solo allora forse finirà l’ora buia.
“L’eterno ritorno al mito della caverna”
Mercoledì 8 novembre alle ore 17,30
presso il Cinema San Benedetto– Ferrara
“Aepocalisse. La crisi ecologica come sfida” è l’iniziativa organizzata dal Dipartimento di Studi Umanistici di Unife per affrontare la questione ecologica da diversi punti di vista, dalla rassegna cinematografica al dibattito aperto.
Un ciclo di appuntamenti per raccontare lo sforzo di conoscere, comprendere e ripensare il proprio tempo e il proprio territorio. Per costruire un dialogo genuino, condiviso e duraturo tra sapere scientifico, sviluppo economico e società civile. Lo si farà chiamando in causa le multiformi prospettive che animano la ricerca del Dipartimento di Studi Umanistici, e cercando di coinvolgere la comunità attraverso il linguaggio stimolante e universale del cinema.
Ogni appuntamento è articolato in due momenti. Il primo vede la proiezione di un documentario preceduta da una presentazione legata al macrotema “questione ecologica”.
A partire dai temi sollevati dalla proiezione, il secondo momento è un approfondimento scientifico-interdisciplinare coinvolgendo le diverse competenze del Dipartimento di Studi Umanistici e alcune autorevoli voci esterne, prime fra tutte le associazioni che operano sul territorio.
Le giornate di studi abbinate alle proiezioni avranno carattere itinerante, ospitate in luoghi simbolici della città e del territorio.
L’evento fa parte della rassegna gratuita “Unife per il Public Engagement”.
PROGRAMMA DEI PROSSIMI INCONTRI
8 novembre h. 17.30 Cinema San Benedetto (via Don Tazzoli 11) L’eterno ritorno al mito della caverna
22 novembre h. 18.00 Palazzo Turchi di Bagno (Corso Ercole I d’Este 32) L’epoca globalizzata del Wasteocene
7 dicembre h. 18.00 Teatro Ferrara Off (viale Alfonso I d’Este 13) Formazione e futuro nelle terre fragili
Data e orario in via di definizione Palazzo Bellini (Comacchio, via Agatopisto 5) Nascita di un’epoca: l’antropocene come tappa storica o costruzione ideologica?
COME PARTECIPARE
Tutti gli incontri e le proiezioni sono gratuiti. Registrazione all’ingresso.
PER SAPERNE DI PIU’
Riproduciamo un intervento di Guido Barbujani scritto nel 2012 per il Sole 24 ore
L’apocalisse? C’è già stata
di Guido Barbujani
Ammettiamolo: anche i più scettici di noi qualche pensierino sull’imminente fine del mondo l’hanno fatta. Abbiamo naturalmente respinto l’idea come radicalmente infondata, pregustando la soddisfazione, il 22 del mese, di dire (a chi poi? Pochi ammettono di aver creduto alla profezia dei Maya): «Visto?».
Ma c’è poco da fare: la fine del mondo affascina, se non come esperienza diretta almeno al cinema e nelle chiacchiere quotidiane. Naturalmente fare di ogni erba un fascio non aiuta: ci sono molte sfumature, accompagnate da livelli variabili di senso di colpa. Si sentiva perciò il bisogno di un catalogo ragionato delle fini del mondo possibili, e ci ha pensato Telmo Pievani,(La fine del mondo.Guida per apocalittici perplessi) che già in passato aveva provato a spiegare come mai tendiamo così cocciutamente a credere all’incredibile (Girotto, Pievani, Vallortigara, Nati per credere, Codice). Nella preistoria, chi non sapeva rapidamente prevedere le mosse degli altri aveva la sorte segnata; è probabile che, sotto questa pressione, il nostro cervello si sia specializzato a riconoscere intenzioni: sia dove ci sono (nel comportamento degli uomini e degli animali) sia dove non ci sono, per esempio nei fenomeni naturali, attribuiti di volta in volta a volontà benefiche o malefiche.
La fine del mondo si presenta secondo cinque modalità principali. C’è la catastrofe, che scioglie definitivamente il dramma; il disastro, frutto della cattiva stella; la nemesi, cioè il meritato castigo; l’estinzione, di un’intera specie o di un suo gruppo; e infine l’apocalisse, una fine che è anche una rivelazione. Come si vede, cinque finali diversi più per il modo in cui li interpretiamo che per quello in cui si manifestano. O magari non si manifestano: nonostante i molti annunci, finora si è trattato solo di falsi allarmi. Ma di questa tassonomia Pievani si serve per andare più a fondo. Ci racconta quanto l’idea di catastrofe sia stata presa sul serio, anche troppo, da naturalisti che spiegavano le grandi estinzioni del passato con ripetuti diluvi universali, poi sia caduta in discredito, e infine rivalutata, con l’emergere di dati scientifici che dimostrano come grandi disastri naturali siano effettivamente avvenuti, anche se di rado; ma quando sono avvenuti hanno causato profondi cambiamenti nel mondo biologico.
Intorno al 99% delle specie comparse sulla terra, animali e vegetali, si è estinto. Sono stime per forza di cose approssimative, ma servono a darci un’idea di quanto siamo piccoli: la nostra specie arriva all’ultimo momento, dopo quasi quattro miliardi di anni di vita sulla terra. Centomila anni fa l’espansione dall’Africa dell’uomo anatomicamente moderno,è stata anch’essa un evento catastrofico per molti nostri parenti, cioè per quelle forme umane arcaiche dell’Europa e dell’Asia scomparse in sospetta coincidenza col nostro arrivo (dall’uomo di Neanderthal all’ultimo della serie, l’uomo di Denisova, del cui Dna sappiamo molto, ma di cui ignoriamo l’aspetto perché ne conserviamo solo un dente e una falangetta). Ma anche, molto prima, l’estinzione dei grandi rettili è stata frutto di una catastrofe, quella da cui il viaggio di Pievani prende le mosse. Sessantacinque milioni di anni fa un asteroide ha colpito la terra nel golfo del Messico, mettendo in moto una catena di cambiamenti climatici che hanno consegnato il pianeta a piccole creature dal grande futuro, gli antenati degli attuali mammiferi.
Due messaggi dunque: niente paura, la fine del mondo c’è già stata, più di una volta, e qualcuno se l’è sempre cavata. E poi la fine del mondo è necessaria, se no il nuovo mondo non ce la farebbe ad affermarsi. Il secondo messaggio può irritarci, perché ci fa sentire con chiarezza i nostri limiti, ma può anche ispirarci pensieri diversi. Una terra senza di noi era stata già immaginata da Giacomo Leopardi, concorde in questo con Charles Darwin: siamo creature speciali, ma l’universo non è stato edificato intorno a noi, e riuscirà a cavarsela anche quando l’umanità non ci sarà più. Piuttosto che sentirci smarriti di fronte a questa eventualità, si può provare una forma di orgoglio, constatando quanto preziosa sia la nostra presenza sulla terra, visto che non era affatto scontata. E questo messaggio Pievani lo affida, nell’ultima pagina, ai versi della grande poetessa Elena Szymborska: «Sono quella che sono | un caso inconcepibile | come ogni caso».
Quattro giorni di proiezioni, di eventi, spettacoli e incontri. Con un grande successo di pubblico si conclude la sesta edizione del Ferrara Film Corto Festival; ecco tutti i vincitori dei premi con le relative motivazioni.
Il festival è finito, le luci si spengono, la platea si svuota, tempo quindi di un mini-bilancio. La qualità dei cortometraggi visionati dalla giuria professionale e giovani si è rivelata veramente di alto livello. Ora mi posso esprimere più liberamente, prima non sarebbe stato corretto, a rischio di influenzare i lettori, in quanto parte della giuria professionale.
Difficile scegliere, in giuria abbiamo molto discusso, tanti i pregi, tanti i messaggi importanti veicolati, se non altro per il tema stesso del festival, votato all’ambiente.
Dai lavori emerge, con grande evidenza, un filo conduttore comune: la forte preoccupazione, soprattutto da parte delle giovani generazioni, per il futuro del pianeta.
Citerei per tutti due corti, peraltro premiati, “Il mai nato” di Tania Innamorati e Gregory J. Rossi e “One day all of this will be yours” di Losing Truth. Da una parte un bambino che non vuole nascere, perché mai venire al mondo in questa terribile realtà senza futuro (la regista mi ha confessato di aver maturato l’idea del film al suo quinto mese di gravidanza), dall’altra un bambino che eredita un pianeta senza acqua e senza musica, un’eredità lasciatagli senza preoccupazione alcuna.
Ci sono poi il disagio giovanile di “Millennial”, di e con una bravissima Eleonora Corica, o di “Momenti”, diretto e interpretato dal giovane e promettente Stefano Maurelli, che portano lo spettatore a riflettere su temi quali l’apatia fatta di social e di ritrovi festosi che perdono di senso, il sentirsi spesso fuori posto o il bullismo. Anche l’abuso minorile preoccupa (“Avevi promesso” di Marco Renda o “Dalia”, di Joe Juanne Piras). Tanto disagio.
Stefano Maurelli, “Momenti”
Sorprendente, poi, come la giuria Giovani abbia dedicato la sua attenzione a “Farfalle”, di Marco Pattarozzi, il racconto di uno stupro dopo una festa fatta di cocktail e di sostanze strane, segnale evidente di come questo problema inquieti molto i più giovani.
Molti i segni lasciati dal Covid, basti pensare a “Respira”, di Mira Maria Simi; ma non mancano la delicatezza e la sensibilità di “Briciole”, di Rebecca Marie Margot o la malinconia romantica di “Rutunn’” di Fabio Patrassi, con un poetico Giorgio Colangeli.
Toccanti, coinvolgenti e sorprendenti due cortometraggi tratti da due storie vere, “L’allaccio”, di Daniele Morelli e “Une bouffée d’air”, di Federico Caria, rispettivamente il racconto di un Roberto Rossellini che fa installare un telefono al Verano di fianco alla tomba del figlio Romano, da cui dirigere “Germania anno zero” e del misterioso furto della Gioconda, nel 1911, ad opera di Vincenzo Peruggia.
Ci sono poi la ribellione e l’innamoramento giovanili che cedono alla storia de “La guerra di Valeria” di Francesco Alino Guerra o gli alberi che alimentano la vita di “Sound of wood di Samuele Giacometti o di “Tree talker” di Antonio Brunori. Ossigeno per tutto e tutti.
Tanti i paradossi, tante le visioni del mondo, ma tutti, registi, sceneggiatori e attori, paiono orientati a scuotere le coscienze, a non smettere di pensare, a riflettere insieme, a suggerire un cambio radicale di stili di vita ormai insostenibili (“Quel che resta”, di Domenico Onorato, invita ad esempio, a evitare ogni spreco, soprattutto di cibo).
Detto questo, chiedendo venia ai film non citati, non per questo meno degni di nota, vi presentiamo i vincitori della movimentata e divertente serata di ieri sera.
Dimenticavo. Il pomeriggio ha visto la proiezione fuori concorso del pluripremiato “Miss Agata”, di Anna Elena Pepe e Sebastian Maulucci, seguito da un incontro con i registi e gli attori Chiara Sani e Yahia Cheesay. Il corto ha anche ricevuto il premio “miglior corto a denuncia sociale girato nel territorio di Ferrara”.
Premio a “Miss Agata”
A seguire lo spettacolo di “Los guapos del tango”, un ballo coinvolgente che ha portato gli spettatori nella bellezza, nel colore e nella passione.
Los guapos del tango
Los guapos del tango
La serata finale si è aperta con il ‘cinematic concert’ di Ivan Montesel, “Novich”, artista poliedrico che spazia dal liscio all’hardcore, dal pop allo ska.
Novich in concerto
Ma torniamo ai premi. Tanti e belli.
Premio al miglior corto nella categoria “Ambiente è Musica” a Losing Truth con l’opera “One day all of this will be yours”
Per l’impatto emotivo suscitato dalla giusta alchimia ottenuta tra musica e immagini che sensibilizza l’osservatore sulle questioni ambientali arrivando a toccare le coscienze.
Losing Truth con l’opera “One day all of this will be yours”
Premio al miglior corto nella categoria “Buona la Prima” a Rebecca Marie Margot con l’opera “Briciole”
Per la delicatezza e sensibilità nel coinvolgere lo spettatore attraverso la rappresentazione di una sceneggiatura che porta un cambio di prospettiva.
Premio a “Briciole”
Premio al miglior corto nella categoria “Indieverso” a Mattia Napoli con l’opera “The Delay”
Originale, surreale, coinvolgente ed essenziale. Caratteristiche di un cortometraggio ideale.
Premio a “The delay”, ritirato dai Direttori Artistici del Festival
Premio al miglior documentario a Samuele Giacometti con l’opera “Sound of wood”
Per la rappresentazione del legame tra suono e natura in un viaggio attraverso la storia, le tradizioni e la cultura legati all’uso del legno.
Premio a “Sound of wood”
Premio alla miglior fotografia a Gianluca Palma con l’opera “Nostos”
Per la cura dell’immagine, la scelta delle inquadrature e l’utilizzo suggestivo della luce.
Premio a “Nostos”
Premio alla miglior attrice a Fotinì Peluso con l’opera “La guerra di Valeria”
Per l’intensità e la capacità con cui riesce a rendere l’evoluzione del personaggio interpretato.
Premio a Fotinì Peluso, “La guerra di Valeria”, ritirato dal regista
Premio al miglior attore a Vincenzo Nemolato con l’opera “The Delay”
Per l’interpretazione originale in equilibrio tra dramma e commedia e la poliedricità.
Premio climate change dedicato all’interpretazione della tematica relativa al cambiamento climatico a Tania Innamorati e Gregory J. Rossi con l’opera “Il Mai Nato”
Per l’originalità e l’ironia con le quali vengono trattati tutti i paradossi di una società contemporanea nella loro complessità.
Premio a “Il mai nato”
Premio indie music dedicato alla migliore colonna sonora indipendente a Flavio Gargano con l’opera “Quel che resta”
Per l’uso accurato degli strumenti e per l’ottimo connubio tra immagine e suono che enfatizza il messaggio legato al rispetto dell’ambiente.
Premio a “Quel che resta”
Menzione speciale della Giuria Professionale assegnata a
Eleonora Corica con l’opera “Millennial”
Daniele Morelli con l’opera “L’Allaccio”
Elodie Serra con l’opera “Fumo”
Premio giuria giovani a “Farfalle”.
Premio a “Farfalle”
Foto in evidenza, team di Miss Agata, foto di Valerio Pazzi
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