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Parole e figure / Lo scrittore, che meraviglia

“Lo scrittore”, di Davide Calì e Monica Barengo: una storia di amicizia e amore, raccontata dalla viva voce di un simpatico e buffo quadrupede

Edito da Kite, “Lo scrittore”, di Davide Calì e Monica Barengo ci porta nel mondo dell’amicizia, di quella pura e disinteressata. Magnifica esperienza, fatta di dedizione, attenzione, cura e fedeltà, come quella che solo i nostri amici cani sanno donare.

Perché, in effetti, essere il cane di uno scrittore implica grandi responsabilità: obbligarlo a rispettare gli orari, preoccuparsi della sua vita sociale, ricondurlo con i piedi per terra.

Lui scrive, scrive, vive nel mondo dei sogni e della fantasia, si dimentica di mangiare, di uscire, tralascia tutto. La scrittura lo avvolge e rivolge, le parole sono la sua vita.

Un po’ come Pongo de “La carica dei 101”, il simpatico bulldog francese de “Lo scrittore” aiuta il suo padrone a staccarsi un po’ dal suo “tic tic tic” continuo, per lui leggermente snervante, che pare scandire ogni minuto della giornata. Certi giorni il suo padrone se ne sta chiuso in casa in pigiama a bere caffè, non si veste nemmeno, null’altro che quel rumore della macchina da scrivere. Che barba, che noia. Se non fosse per lui, non si ricorderebbe nemmeno di mangiare. Meno male che c’è la sua ciotola …Dal basso della sua cuccia con tanto di pallina da tennis accanto, lui, attento, vigila…

Ma cosa scriverà mai il suo padrone? Che mondo sarà mai quello dove pare vivere, da solo? Perché appallottola tanti fogli? A cosa pensa? Per fortuna c’è lui ad aiutarlo a distrarsi, ogni tanto. Guinzaglio e via, fuori a fare una bella passeggiata. Le giornate possono essere tiepide e piacevoli, talora piene di belle sorprese. Gli servirebbe davvero un’altra compagnia, magari una piacevole e bella ragazza… Ma lui non si guarda intorno, non vede davvero nulla, di questo passo resterà sempre e per sempre da solo. Pare una causa persa… Ma, ma, vedi questa… finché un giorno…

Davide Calì, Monica Barengo, Lo scrittore, Kite, Padova, 2019, 36 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Electric Star

Electric star

kosmische musik. La musica cosmica ha avuto un enorme influenza sull’elettronica, la psichedelia, il prog, il noise e persino il metal, andando a costituire uno degli arcipelaghi sonori più preziosi e, tuttavia, meno conosciuti della musica contemporanea occidentale.

Non voci né parole, ma un’isola.

Il suono, tutti i suoni, correnti di suono sotterranee. Spiagge e scogli, un fiume e le sue piene e le sue anse, le sue secche. Onde, erbe selvatiche, sulla spiaggia conchiglie e rami. Il fiume, il mare. Onde sonore come le falesie.

Non il linguaggio, non la conoscenza, ma un’isola.

Nessun telefono, rete, device. Nulla se non stelle elettriche, grida di uccelli, sole e luna e giorno e notte, acqua e nubi, falesie di suoni e Betelgeuse, stelle e nessuna voce umana.

Isola in un tempo algoritmico.

Nessuna voce tranne la tua voce, la tua voce che è voce anche senza suono, il troppo pieno del pensiero, pensieri come onde come frattali, un pensiero via l’altro come bolle di fango e di vapore, bolle che affiorano scoppiano e scompaiono via una avanti un’altra, la mente una caldera una solfatara, né spazio né tempo nessuna voce la tua voce un’isola.

E gli attimi di vuoto tra i pensieri. Nella mente una fiamma si divincola – il bordo, il vuoto, il margine.

Cammini sulla sabbia a piedi nudi, disegni il tuo mandala mentre lo percorri. Isola. Tra sabbia e sassi gigli stella.

Chiamala come vuoi, un’isola. Ora d’aria, vuoto, pura contemplazione. Voce che non dice io, voce sciolta dall’io. Voce che è noi e tu, vita che è e non è persona, stella dell’immanenza, luce nera. Chiamala mare, marea risacca tregua dell’angoscia, gioia senza motivo, placarsi dei pensieri e delle bolle, lux sicca, gioia non spiegabile. Luce emergente dalle nubi, dalla nebbia, chiamala come vuoi, chiamala un varco nel reale, chiamala istante, battito o beatitudine, chiamala stella bipolare. Betelgeuse, astro, supernova, nessun nome è importante. Chiamala come vuoi, colonna d’aria, cisterna di suoni. Shantih, gioia anteriore, silenzio che contiene tutti i suoni. La chiamassi anche George, Albertine o Clelia, isola, quest’anguilla il linguaggio, queste squame cangianti – via, via!, come la pelle usata delle bisce. Anguilla che si addentra in mare aperto. Libera. Voce che non è un io, voce che non dice io. Voce che è una voce è una vita.

Così come in terraferma vivi, dissociando la luce dal rumore: che cosa triste fu l’angoscia, che cosa triste è stata la speranza, vita in tempi algoritmici a guadagnarti il pane, il tetto sulla testa, la macchina di pena del linguaggio e l’ordine del discorso, la terra arsa l’orrore antropocenico, andare avanti come puoi meglio che puoi e quante volte sei dentro la nebbia, d’improvviso davanti a un’acqua nera, niente è reale e niente immaginario e sembra pietrificarsi la realtà, senti il tuo sé fuori dal corpo e innanzi a te si frattura il reale, linea di faglia e vuoto interstellare, la realtà ha abbandonato il mondo e resta un astro deserto oppure nebbia, cadi fuori da te, cadi nel come se, che cose tristi furono le cose. Derealtà, nel pieno troppo pieno del reale. In terraferma il gergo senza fine, il ritorno del ritmo, a ogni giorno la sua pena e procurarsi il cibo, il tetto sulla testa, ti attende la caldera e il vasto gergo del mondo, ti attende e ti respinge, la trascendenza tarda come la speranza e come la tristezza triste, come bolle di fango i tuoi pensieri, caldera cratere solfatara.

Ma ora sei qui, isola. Isola deserta, fiume e mare, pura contemplazione, pura contraddizione – ecco, eccoti qui.

Stella dell’immanenza, sguardo mare, isola di respiro tra i pensieri. Libera in mare questa voce cantora, anguilla e Betelgeuse, voce tra spiagge e gigli stella, dive to deep dreams for spei et metus affectus sine tristitia non dantur, senti il battito il flusso, il ronzio il brusio dei pensieri, la radiazione cosmica di fondo. Stella elettrica sopra di te, notte stellata dentro di te, strida di uccelli e l’arnia dei pensieri, il silenzio che alberga tutti i suoni, tutto qui, luce emergente dall’abisso, gioia senza perché, tu al sicuro nel mondo e nell’istante, nel destino del mondo, atomo del piano in cui sta tutto tutti i pensieri le idee i concetti i suoni le bestie le persone i vivi e i morti, i nostri cari qui nel petto, piante colori e musiche e quale miracolo il mondo, non il mondo com’è ma il mondo in quanto è, nastri galassie e costellazioni, trecce armoniche e grappoli di suoni, corone di serpenti e tu spirale sonora, voce come una voce, significanti come rampicanti, tu isola che appare, istante vuoto tra un pensiero e l’altro, vide cor tuum nella notte stellata, gioia in tempi algoritmici. Canta nel tempo cantando a respiro, nel tessuto celeste strana stella.

Per leggere i racconti di Silvia Tebaldi pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Per certi versi /
Non era biondo

Non era biondo

Gesù
Non era biondo
Nemmeno
Gli angeli
Cherubini
Maria era una
Donna
Mise al mondo
Un Bimbo
Lo vide morire
Soffrì molto
Se ne parla poco
I barbari
Erano migranti
Le razze
Sono pesci
Da accarezzare
Gli indiani
Sono indiani
Nessuno è indio
Le foto più belle
Sono in bianconero
La pace
È una tromba
Capace di cantare
Per tutti
Gli umani
Non
La colomba
Animale
Terribile
E spietato
L’uovo
Di Pasqua
È
Nero cioccolato
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Avanti di cinquant’anni (don Milani)

di Eraldo Affinati

Prima di morire don Lorenzo Milani, ricoverato all’ospedale Careggi di Firenze, disse al cardinale Ermenegildo Florit che, dopo averlo tanto ostacolato, era andato a trovarlo: “Io sono più avanti di lei di cinquant’anni”. Era vero perché aveva intuito cose che noi ancora oggi stentiamo a comprendere sul ruolo centrale che la scuola dovrebbe avere in ogni consorzio umano, sul necessario rinnovamento del linguaggio della Chiesa, sul rapporto coi giovani, sulla giustizia sociale, sulla storia italiana, sul pacifismo e sull’obiezione di coscienza.

I lavori di questo convegno lo confermano appieno. Don Milani ci ha fatto comprendere che, al di là dei metodi, che possono essere molto diversi e magari ugualmente efficaci o dannosi, a fare la differenza a scuola è la qualità della relazione umana fra il docente e lo studente: se non si instaura fra di loro un rapporto di reciproca fiducia e rispetto, qualsiasi obiettivo didattico è destinato a fallire.

“Chi insegna pedagogia all’università”, scrisse don Milani in Lettera a una professoressa, “i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline”: con ciò voleva comunicare il suo scetticismo per ogni visione teorica e precostituita.

Al contrario, è necessario partire dalle esigenze del singolo studente, accompagnandolo verso la meta prefissata ed essendo pronti a scomparire quando lui o lei l’ha raggiunta. Bisogna sapere che ogni apprendimento ha una sua forma e un suo tempo. È fondamentale premiare il movimento che i ragazzi fanno registrare dalle loro posizioni di partenza, prima ancora dei traguardi che devono raggiungere, ai quali tuttavia non dovremmo mai rinunciare.

Credo che Lettera a una professoressa sia un testo ancora decisivo, al di là dei fraintendimenti che continua a suscitare. Pierino e Gianni, i due bambini protagonisti di quell’opera, uno avvantaggiato, l’altro svantaggiato, hanno cambiato nome, ma sono sempre gli stessi.

Da una parte abbiamo oggi Giulia e Marco, figli di coppie benestanti; dall’altra Mohamed o Ibrahim, analfabeti nella lingua madre: non possiamo di certo affrontarli nel medesimo modo! Tenendo presente che non stiamo parlando di medici e ingegneri, bensì di adolescenti in via di formazione.

Don Milani, insegnando le parole, costruiva le persone, conduceva alla maturità, formava la coscienza dei futuri cittadini, educava allo spirito critico. Del resto, i grandi linguisti ce l’hanno spiegato: se non avessimo un sistema verbale ben strutturato, ogni nostra emozione sarebbe soltanto un grumo emotivo, qualsiasi esperienza resterebbe inespressa e noi esseri umani non ci distingueremmo dagli animali.

Il priore di Barbiana, prima ancora di qualsiasi ricetta o istruzione per l’uso, ci ha lasciato una grande energia vitale e propositiva: in tale direzione molti insegnanti lo hanno messo a frutto e continuano a farlo, ma l’istituzione scolastica, nella sua struttura complessiva, l’ha ignorato, restando legata a una valutazione standardizzata che, di fronte alla rivoluzione digitale, rischia di penalizzare le nuove generazioni. Basti pensare agli alti tassi di dispersione scolastica presenti in Italia, specie nelle regioni meridionali, per renderci conto di quanto don Milani sia rimasto inascoltato.

I ragazzi di Barbiana di oggi si chiamano Omar e Faris, vengono da ogni parte del mondo, hanno lo stesso problema linguistico che avevano i bambini dell’Appennino ai quali si rivolgeva il priore. Sono loro i nuovi italiani, come hanno più volte affermato, in perfetta sintonia, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco il quale, nel giugno 2017, recandosi a pregare sulla tomba di don Milani, pose fine a una stagione di lunghi e dolorosi equivoci. L’ultima cosa che avrebbe voluto il prete fiorentino, questo ribelle ubbidientissimo, sarebbe stata quella di venire definito un eccentrico ai margini della Chiesa, come invece purtroppo ancora oggi molti lo considerano.

I numerosi convegni scaturiti dal centenario della nascita, importanti soprattutto per diffondere fra i più giovani la sua conoscenza, non ci dovrebbero comunque illudere sul superamento delle questioni sollevate dal priore. Basti pensare alle polemiche derivate dalla nuova denominazione istituzionale del Ministero della scuola e del “merito”.

Siamo di fronte a un tema ad alto tasso di fraintendimento e strumentalizzazione. Ogni insegnante vuole scoprire e premiare i ragazzi meritevoli. Ci mancherebbe altro che non lo facesse! Don Milani puntava proprio a questo. Ma non si sarebbe mai sognato di selezionare o isolare il vincitore dal resto del gruppo, ben sapendo che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario.

Un gruppo scolastico composto di tanti secchioni sarebbe tristissimo, oltre che improduttivo, come pure uno che riunisse i soli ripetenti. Le migliori classi, nell’esperienza di chi ha trascorso la vita in aula, sono quelle eterogenee, composte da bravi e negligenti, maschi e femmine, lenti e rapidi, bianchi e neri, ricchi e poveri.

Se non facciamo parlare fra loro i nostri allievi, non riusciremo mai a creare la coscienza del bene comune, nucleo imprescindibile di ogni cultura democratica, nel solco di quanto ci hanno insegnato i padri costituenti. Ecco perché il motto più bello della scuola di Barbiana resta quello che ci spinge all’azione collettiva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia

Come docenti abbiamo il dovere e la responsabilità di restare fiduciosi. In un mio libro dedicato alla figura di questo straordinario sacerdote (se non fosse entrato al Cestello, il seminario in riva all’Arno dove prese i voti, niente sarebbe accaduto), profeta (la foto in cui tiene in braccio un bambino africano resta plasticamente emblematica), maestro (colui che spezza il pane dell’istruzione) e scrittore (epistolare, nel solco più puro della letteratura italiana, pensando a Francesco Petrarca, Santa Caterina da Siena e Ugo Foscolo), intitolato proprio L’uomo del futuro, ho raccontato i molti don Milani da me incontrati in ogni parte del mondo.

Erano il maestro di villaggio africano impegnato a controllare decine di allievi, il volontario berlinese teso a recuperare l’adolescente naziskin, il padre giuseppino di Città del Messico che giocava a pallone coi bambini di strada, la suora di Madre Teresa di Calcutta che a Benares accoglieva le giovani cerebrolese, l’obiettore di coscienza russo…

Nessuno di questi educatori sapeva chi fosse stato il priore di Barbiana ma io, guardandoli in azione, lo vedevo rivivere grazie a loro.

 

Inizia il cammino della lista civica de La Comune di Ferrara (LCF)
Ecco i candidati

Inizia il cammino della lista civica de La Comune di Ferrara (LCF)

Si è tenuto nei giorni scorsi il primo incontro collegiale dei 32 candidati a Consigliere Comunale della lista civica La Comune di Ferrara, che ha espresso la candidatura a sindaca di Anna Zonari: 18 donne, 14 uomini. Il più giovane ha 21 anni, la più ‘giovane dentro’ ne ha 74. Sono (e sono stati/e) insegnanti, operatori e operatrici sanitari/e, universitari/e, dirigenti, impiegati/e nel pubblico e nel privato, tutte e tutti accomunate/i da esperienze di impegno nella società civile e di politica attiva nei movimenti, nell’associazionismo, nei partiti.

L’estate scorsa abbiamo iniziato come LCF ma non immaginavamo che saremmo arrivati fin qui. Nemmeno la mia candidatura era in programma: a guidarci sono stati il comune sentimento di urgenza, il bisogno di un nuovo modo di fare politica, dal basso, e una visione di città che sia all’altezza delle sfide del presente.” Così Anna Zonari, candidata sindaca, accoglie i suoi compagni di viaggio e li invita a un giro di presentazioni durato quasi due ore: molte persone non si conoscevano tra loro, e il momento di condivisione degli obiettivi è sempre molto importante.

“Quando a fine anno abbiamo deciso di esprimere una candidatura al ruolo di sindaco della città, Anna ci ha chiesto, in quanto membri di LCF della prima ora, quale fosse la disponibilità di ognuno di noi. Personalmente, sono sicura che l’esperienza in Consiglio Comunale non faccia per me, ma ora sono qui: per un senso di responsabilità verso il gruppo di persone che ha preso questo impegno nei confronti della città e per la continuità di questo tortuoso e sorprendente percorso.” Marcella Ravaglia, mamma e impiegata nel settore dei servizi pubblici locali.

“Io e Anna ci conosciamo da anni, ci siamo incontrate alla manifestazione NO CPR. Mi ha parlato del percorso di LCF e mi ha chiesto di salire a bordo; ho pensato che ci fossero necessità e spazio per dare il mio contributo.” Francesca Rinaldi di Viale K.

“Seguo fin dallo scorso settembre il percorso partecipativo di LCF e ho deciso di offrire le mie competenze, accumulate in tanti anni di lavoro in qualità di dirigente tecnico al Petrolchimico.” Enrico Beccarini, nonno e ingegnere meccanico.

“Apprezzo il percorso di LCF e le qualità di Anna Zonari. In quanto cittadino che lavora in Università darò il mio convinto contributo alla campagna elettorale”. Romeo Farinella, urbanista e professore ordinario UniFe.

Si susseguono le presentazioni, arriviamo agli iscritti ai partiti.  Nel caso dei tesserati a Sinistra Italiana e Europa Verdi presenti, avversati dalle rispettive segreterie nazionali, non hanno ottenuto il permesso di utilizzarne il simbolo e sono stati accolti nella lista LCF.

“Abbiamo seguito i lavori del tavolo dell’alternativa, che poi ha preso una strada per noi impercorribile. Ci riconosciamo invece nei contenuti e nel metodo incarnati dalla candidatura di Anna Zonari, che con le sue qualità personali ci trasmette entusiasmo per questa campagna elettorale. Siamo grati di essere qui con tutti voi.” Giulio Mezzadri, co-portavoce di Possibile, assegnista di ricerca UniFe a Fisica.

“Non m’intendo di campagne elettorali ma sento che è necessario impegnarsi per Ferrara e per i suoi cittadini; qui con voi e con Anna mi sento a casa.” Maria Calabrese, ex insegnante e bibliotecaria volontaria alla Biblioteca Popolare Giardino.

Anna Zonari e i candidati di LCF vi aspettano numerosi alla cena di autofinanziamento del 12 aprile al Centro Sociale Barco. Prenotazioni entro l’8 aprile via e-mail all’indirizzo info@lacomunediferrara.it o con un messaggio al 348 598 5435.

La presentazione dei punti di programma avverrà nelle prossime settimane tramite conferenze stampa aperte che si terranno a Factory Grisù tutti i sabati mattina, dal 4 maggio al 1° giugno.

     LISTA LA COMUNE DI FERRARA

 

n. Nome Cognome ANNO DI NASCITA
1 MALEK FATOUM 1997
2 ANDREA FIRRINCIELI 1961
3 FRANCESCA RINALDI 1981
4 ROMEO FARINELLA 1958
5 MARTA LEONI 1986
6 FEDERICO BESIO 2002
7 FRANCESCA CHIARAMONTE 1996
8 SERGIO GOLINELLI 1953
9 GIULIA FIORE 1987
10 MARIA CALABRESE 1949
11 VALENTINA FAGGION 1988
12 RODOLFO BARALDINI 1955
13 MORENA GAVIOLI 1957
14 ENRICO BECCARINI 1958
15 LAURA ALBANO 1973
16 GIOACCHINO LEONARDI 1964
17 MARIA ANGELA MALACARNE 1960
18 PIER LUIGI GUERRINI 1954
19 CAROLA RUGGERI 1970
20 ALESSANDRO TAGLIATI 1953
21 GIULIANA ANDREATTI 1958
22 GIAN GAETANO PINNAVAIA 1949
23 SILVIA TROMBETTA 1970
24 ALBERTO SQUARCIA 1949
25 GIOVANNA TONIOLI 1959
26 VANNI RIZZIOLI 1991
27 CINZIA PUSINANTI 1956
28 GIULIO MEZZADRI 1989
29 EUGENIA SERRAVALLI 1967
30 ALESSIO PAPA 1980
31 MARCELLA RAVAGLIA 1976
32 CLAUDIA TITI 1957

 

 

                                                                                

Presto di mattina /
Pasqua di viandanti

Presto di mattina. Pasqua di viandanti

Pasqua di Cristo, Pasqua del viandante

Cristo è l’uomo che cammina, così lo scrittore Christian Bobin nel suo piccolo libro chiama il profeta di Nazareth. Non si allude solo al suo andare senza sosta, sempre verso qualcuno per ascoltare ed essere ascoltato. Anche la sua parola è come lui: divenuta vangelo buona notizia, gli cammina un passo avanti, e come le acque torrentizie in un wadi dopo le piogge di primavera fanno fiorire il deserto, esse oltrepassano la morte stessa portando vita.

Bobin paragona così la via del Cristo al cammino tortuoso di una falda d’acqua sotterranea che si fa strada; un procedere incerto faticoso ma inarrestabile, fino a sgorgare fuori alla luce con un getto travolgente che ribalta l’ultima pietra: «Non sembra seguire un percorso a lui noto. Potremmo addirittura parlare di esitazioni. Cerca semplicemente qualcuno che lo ascolti. È una ricerca quasi sempre delusa, il suo cammino è quello delle delusioni, da un villaggio all’altro, da una sordità alla seguente.»

Come la falda d’acqua in cerca di una via d’uscita: scava, gira, ritorna, riparte, fino al colpo di genio risolutore: il getto impetuoso che sgorga in un pieno respiro polverizzando l’ultima diga…

«Pochissimi riescono a tenere il suo passo. Una manciata di uomini e alcune donne. …Verso la fine, annuncia che “là dove va” nessuno potrà seguirlo e che non si tratta di un abbandono, perché “là dove va” avrà la stessa costante benevolenza per ciascuno… Non fa dell’indifferenza una virtù. Un giorno grida, un altro piange. Percorre l’intero registro dell’umano, l’ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici.

«Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là, se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine» (L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano [BI] 1998, 9; 11; 18).

Un volto che cammina

«Il suo volto era andante verso Gerusalemme»: questo ebraismo conservato nel vangelo di Luca 9,56 dice mirabilmente una delle caratteristiche fondamentali del Gesù storico insieme alla pratica della convivialità e a quella taumaturgica.

Il Gesù narrato nei vangeli è sempre in movimento: “in cammino”, un camminare verso Gerusalemme, ma lo stesso verbo descrive pure il suo andare verso la croce per entrare nella morte. Con la sua parola itinerante, egli dischiude alle persone il cammino stesso della fede.

Dopo ogni riconoscimento del credere, dopo ogni guarigione scaturita dalla fede, dopo ogni sua parola accolta egli comanda: “Alzati e va’ la tua fede ti ha salvato”; “Va’ in pace la tua fede ti ha salvata”; Va’ e anche tu fa lo stesso”; “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”. Va’, andate, caratterizza anche il cammino dei dodici apostoli prima e dopo la Pasqua.

In Giovanni poi, nei discorsi di commiato, Gesù parla spesso ai discepoli del suo andare al Padre. Venuto da lui egli ritorna al Padre, così il suo salire a Gerusalemme ha come prospettiva e meta quella di andare e salire al Padre per poi ripresentarsi di nuovo nello Spirito consolatore che accompagna i discepoli in cammino. «Non mi trattenere – dice a Maria di Magdala il mattino di Pasqua – ma va dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.” (Gv 20, 17)

La Pasqua stessa dunque è “passaggio”, luogo di transito per un oltre. Transiliens, scrive Agostino ricordando colui che “oltrepassa tutto per non desiderare altro che Dio con tutto se stesso”. Viandante tra i suoi fratelli, li precede anche ora nel cammino della storia come fu viandante in Palestina tra la gente: «Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme» (Lc 13, 22).

«Uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, ti seguirò dovunque tu vada”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”» (Mt 19, 20); «Egli disse loro: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città”. E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea» (Lc 4, 43-44); «“Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1, 36-38).

Pasqua di Cristo, Pasqua di un forestiero in transito

«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus… Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Egli domanda loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Uno di loro con la tristezza sul volto rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”» (Lc 24, 13-18).

La prossimità del forestiero e le sue domande procurano un effetto di straniamento nei discepoli. È questo l’effetto di sconvolgimento della percezione che si ha della realtà quando si incontra uno sconosciuto. Un mutamento di prospettiva operato con l’intento di farne emergere aspetti nuovi, inattesi. Una conversione dello sguardo, tale da indurlo a una prospettiva altra.

È questo che produce l’incontro del forestiero: un guardare non più con i propri occhi, ma con quelli dello straniero incrociato sulla via di Emmaus. E si passa, passo dopo passo, dall’estraneità al riconoscimento, dalla tristezza alla gioia. È anche oggi il Risorto nascosto, e forestiero, che si immedesima con noi, perché noi ci immedesimiamo con lui strada facendo, per incontrarlo ancora nel forestiero, come un fratello.

Il cammino educa a straniarsi, allontanarsi da sé; porta fuori di se stessi. È il dono di riguardare e ricomprendere se stessi e il proprio mondo dalla parte di chi ci cammina accanto. Scrive Claudio Magris ne L’infinito viaggiare:

«Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini» (Mondadori, Milano 2014, xx).

A tutti i cercatori del tuo volto
mostrati, Signore;
a tutti i pellegrini dell’assoluto,
vieni incontro, Signore;
con quanti si mettono in cammino
e non sanno dove andare
cammina, Signore;
affiancati e cammina con tutti i disperati
sulle strade di Emmaus;
e non offenderti se essi non sanno
che sei tu ad andare con loro,
tu che li rendi inquieti
e incendi i loro cuori;
non sanno che ti portano dentro:
con loro fermati poiché si fa sera
e la notte è buia e lunga, Signore.
(David Maria Turoldo)

Pasqua di discepoli, Pasqua di viandanti

Se ci si sofferma anche solo a considerare i diversi verbi delle narrazioni pasquali dei vangeli, ci si accorge che è tutto un continuo via vai. Verbi di moto a luogo e da luogo, andare, venire, giungere, ripartire, entrare uscire; perfino un correre avanti e indietro dal sepolcro di Maria di Magdala, di Pietro e Giovanni.

Spaesamento è il mattino di Pasqua. Sono venuti meno i criteri e l’orizzonte di senso del vivere dei discepoli della loro stessa fede. Per tutta la loro itineranza alla sequela di Gesù è detto che non avevano compreso le sue parole e «cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9, 10; Gv 20, 9).

Quel mattino presto ritornano viandanti che cercano, passando dalla paura alla gioia, dalla gioia all’incredulità: «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore» (Lc 24, 41). Hanno bisogno di una nuova narrazione, di una nuova luce e parola, di un senso altro che può venire solo da altrove:

«[Le donne] videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea” (Mc 16, 4-7).

Viandanti sorpresi da un’alba nuova di un’altra luce, cercando l’impossibile: un virgulto in terra arida, un sorriso spuntato dal dolore, qualcuno nato dalla morte:

Ancora un’alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
ancora qualcuno è nato:
con occhi e mani,
e sorride.
(Turoldo, Il grande male, Mondadori, Milano (1995, 11).

Discepoli della via (At 9,2; 19, 23; 24, 14 e 22): viandanti per farsi prossimi

Mentre il sole è già volge al declino
sei ancora il Viandante che spiega le scritture
e ci dona il ristoro con il pane spezzato in silenzio
cuore e mente illumina ancora
perché vedano sempre il tuo volto
e comprendano con il tuo amore
ci raggiunge e ci spinge più al largo.
(David Maria Turoldo)

Scrive Umberto Galimberti: «Il viandante, come l’homo viator di Gabriel Marcel, vuole restituire all’uomo il suo “peso ontologico”, quel di più di essere custodito nelle sue profondità più nascoste che lo spingono a un oltrepassamento dal reale al possibile, consentendogli di sperimentare così la trascendenza nell’immanenza, come Abramo che si incammina verso una terra che il Signore gli avrebbe indicato; come i pellegrini medioevali che, avendo in vista una meta, non esitano a dire addio a ogni tappa raggiunta; come i pastori che senza meta accompagnano i loro armenti; come i profughi di ogni guerra e i migranti dei nostri giorni che camminano ininterrottamente sospinti dal desiderio e dalla speranza che per loro si apra il futuro» (L’etica del viandante, Feltrinelli, Milano 2023, 56).

E citando un testo di Enzo Bianchi sulla parabola del Samaritano, Galimberti scrive: «Il viandante non incontra il prossimo, ma si fa prossimo. “La vera domanda non è “Chi è il mio prossimo?”, ma ‘Chi si è fatto prossimo?’. Perché prossimo non si nasce, ma si diventa, con una scelta, una decisione. Nessuno è prossimo ma ognuno può diventarlo. La prossimità non è già data ma va costruita mediante il movimento di farti vicino e le azioni che ne conseguono”. Apprendiamo così che il prossimo non è definito da una condizione o da un’appartenenza, ma dalla nostra decisione di “renderci prossimi” all’altro, perché noi e l’altro abbiamo in comune quell’elemento essenziale che è l’appartenenza alla stessa umanità» (ivi, 368-369).

Viandante e via

«Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili» (Sal 77),

«“Vado a prepararvi un posto. Ritornerò e vi prenderò con me. E del luogo dove io vado, conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?” Gli disse Gesù: “Io sono la via” (Gv 14, 3-5).

È proprio quando non si conosce la via che cresce l’attenzione e l’interesse, si è attratti oltre, perché è proprio verso ciò che è ignoto, camminando nel mistero, che questi si rivela e si fa conoscere. Così non sono solo i viandanti che vanno incontro alle strade, ma è la strada che va incontro ai viandanti.

Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.
(Antonio Machado).

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Autonomia differenziata:
un altro passo verso l’ampliamento delle disuguaglianze

Autonomia differenziata: un altro passo verso l’ampliamento delle disuguaglianze

Sembra che finalmente la discussione sull’Autonomia differenziata regionale sia uscita dal cono d’ombra nel quale era stata relegata solo fino a qualche mese fa. Forse perché il suo iter legislativo sta andando avanti: probabilmente, ancor più, perché si sta allargando la presa di coscienza di ciò che essa significa.

Ma cosa vuol dire, in concreto, Autonomia Differenziata delle Regioni? Rispetto alla situazione odierna, secondo quanto prevede il disegno di legge Calderoli (attualmente in discussione) significa spostare a livello regionale competenze e risorse su materie fondamentali, nel momento in cui le singole regioni ne facciano richiesta e a ciò segua un’intesa tra Governo e regione, mentre oggi esse sono oggetto di legislazione concorrente: cioè sia dallo Stato che dalle Regioni, con un’apposita distinzione dei ruoli.  Questo spostamento avverrebbe su 23 materie di grande rilievo, che vanno dall’istruzione alla sanità, dalla tutela e sicurezza sul lavoro alla previdenza complementare, dal governo del territorio alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali, dalla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, e altre ancora. Come si può facilmente vedere, si tratta di questioni di grande rilevanza, che hanno un’incidenza diretta sulle condizioni di vita delle persone e sui diritti di cui possono usufruire. Ora, non c’è dubbio alcuno che andare in questa direzione comporta il fatto di acuire le disuguaglianze territoriali, in particolare tra Nord e Sud del Paese. In una situazione in cui esse sono già molto profonde, con questo provvedimento sono destinate ad ampliarsi ulteriormente. Né vale la pena argomentare che, nell’ultima stesura votata al Senato, si è stabilito che il trasferimento di poteri e risorse alle Regioni avviene a valle della determinazione dei Livelli Essenziali di Prestazioni da garantire uniformemente sul territorio nazionale, perché si prevede espressamente che la legge Calderoli non può comportare maggiori oneri per la finanza pubblica; che è un modo, neanche troppo elegante, per dire che essi verranno fissati ad un livello minimo e non potranno che fotografare la situazione già diseguale oggi esistente. Non solo: il Ddl dispone che il finanziamento delle funzioni trasferite alle Regioni avverrà tramite la compartecipazione regionale ad uno o più tributi erariali maturati nel territorio della regione, e cioè le imposte dirette, l’imposta sul valore aggiunto e le altre imposte indirette, contribuendo così a scassare ancor di più l’attuale sistema fiscale, già oggi stravolto con la diminuzione della progressività insita nella riforma fiscale in itinere.

Aumentare le disuguaglianze territoriali ha come conseguenza quella di far crescere le disuguaglianze sociali e radere al suolo l’universalismo dei diritti: non ci vuol molto a realizzare cosa succederà del diritto alla salute o all’istruzione quando questi temi saranno normati e differenziati nelle singole regioni. Anche perché l’idea dell’autonomia differenziata è costruita sull’ideologia della competitività tra diversi sistemi territoriali e sociali, per cui quelli più “bravi” sono i più “meritevoli” e chi rimane indietro è solo per colpa sua. Un’idea generale di società, che alla fine sta alla base tutta l’ideologia della destra, in Italia e nel mondo. Solo per fare un altro esempio, è utile ragionare su un aspetto che spesso, nella discussione sull’autonomia differenziata, viene trascurato. Mi riferisco al tema delle aree interne: è evidente che, anche nelle regioni cosiddette “ricche”, le aree marginalizzate saranno quelle che, nella distribuzione interna delle risorse, avranno meno risorse, concentrandolo invece nelle aree forti, a partire da quelle metropolitane e urbane, considerate “vincenti”, maggiormente attrattive per gli investitori e i soggetti di mercato, appunto più competitive.

Inoltre: se, da una parte, affidare una serie di materie, a partire da sanità e istruzione, alle Regioni significa produrre maggiori disuguaglianze, dall’altra, per un’altra tipologia di materie, invece, comporta semplicemente mettere in campo politiche inefficaci e controproducenti. Cosa vuol dire spostare alle Regioni competenze sui temi ambientali, di governo del territorio, delle scelte di carattere energetico? Se pensiamo che tutte queste questioni intervengono in modo significativo su come si intende affrontare il contrasto al cambiamento climatico e la conversione ecologica ed energetica, non ci vuole molto a concludere che frammentare e diversificare le decisioni non potrà che allontanare la possibilità di costruire soluzioni utili e convincenti, mentre esse non possono che essere costruite, se non a livello sovranazionale, perlomeno in una dimensione europea  – che peraltro sta facendo anch’essa vistosi passi indietro.

Insomma, il disegno di legge sull’autonomia differenziata regionale va in una direzione del tutto sbagliata. Stupisce che esso sia potuto avanzare con il contributo non solo di Regioni come la Lombardia e il Veneto, che guardano alla “secessione dei ricchi”, ma anche con quello della Regione Emilia-Romagna che, sia pure in modo meno spinto, è comunque rimasta abbagliata dal voler dimostrare di essere regione competitiva e attrattiva, ma così rompendo quell’idea di solidarismo e universalismo dei diritti che avevano costituito la base del “modello emiliano-romagnolo” nel secolo scorso.

Questo progetto va dunque contrastato e fermato. Da questo punto di vista, è decisamente importante e positivo che La Via Maestra, la coalizione sociale che comprende la CGIL e tantissime associazioni e realtà sociali, in una delle sue ultime riunioni, abbia deciso di promuovere una grande manifestazione nazionale anche contro l’autonomia differenziata il prossimo 25 maggio a Napoli e, soprattutto, di fatto assunto l’impegno che, nel momento in cui il disegno di legge Calderoli, ora in discussione alla Camera dei Deputati, diventasse legge, di promuovere il referendum abrogativo per eliminarla. Così come utile è l’iniziativa del Comitato per il No ad ogni autonomia differenziata dell’Emilia-Romagna, che ha promosso ultimamente una legge di iniziativa popolare regionale, sottoscritta da più di 6000 cittadini della regione, per “dichiarare interrotto” il percorso prodotto dalla Regione per avviare l’autonomia differenziata” o comunque di “non procedere ad altro iter alternativo per l’acquisizione di ulteriori forme di autonomia”.

Questa battaglia è anche fondamentale e in qualche modo preliminare per fermare anche l’intenzione del governo di arrivare alla modifica costituzionale necessaria per introdurre il “premierato”. E’ chiaro il nesso che lega autonomia differenziata e premierato: una società che rompe la coesione sociale, si frammenta e diventa ancora più divisa, fino ad alimentare il rancore, ha bisogno di trovare un punto di unificazione nella figura del Capo. Siamo di fronte ad un progetto autoritario, che si rivela funzionale ad un’ idea di forte restringimento della democrazia. Per fortuna, ci sono le forze e le energie in questo Paese per impedire che si affermi.

Storie in pellicola / Farfalle fino alla fine del mondo

Altri due interessanti cortometraggi verranno proiettati allo European Projects Festival il 4 aprile: “Farfalle” di Marco Pattarozzi e “The end of the world” di Stefano Cinti

Marco Pattarozzi firma “Farfalle”, il cortometraggio di 20 minuti con Marco Celli, Caterina Nardini, Elisa Nardini e Pietro Romano, Premio giuria giovani della sesta edizione del Ferrara Film Corto Festival “per la sua eccezionale regia e produzione, una sceneggiatura scorrevole, una colonna sonora e fotografia di alta qualità e un messaggio profondo”.

I ragazzi della giuria hanno, sorprendentemente, votato un’opera che parla di uno dei temi più scottanti e difficile da affrontare come lo stupro fra giovani. Una storia ambientata nell’Appennino emiliano, con protagonista Caterina, appena maggiorenne, che trascorre l’ultima estate con l’amico d’infanzia Patrick, prima che lui parta per studiare in America. Coinvolti in uno sfrenato festino in cui gli alcolici vengono corretti con una sostanza psicotropa, la ragazza, per tutti Cate, si avvicina all’attraente Nico.

La mattina seguente si risveglia con i segni di uno stupro di cui non ricorda nulla. Mentre cerca di ripercorrere l’accaduto, arriva il giorno della partenza di Patrick. Cate sprofonda nel trauma fino a una disperata richiesta d’aiuto al fratello Antonio, il quale decide di farla pagare a Nico. Quando la ragazza ha un’importante intuizione, è forse troppo tardi per fermare Antonio.

Una storia in cui pregiudizi e repressione generano un senso di inadeguatezza cronica per cui nessuno si sente al posto giusto.

“The end of the world”, del romano Stefano Cinti (Belgio, 5 min.), invece, è un video tratto dall’omonima canzone ‘La fine del mondo’, scritta durante il periodo di confinamento dovuto alla pandemia di COVID-19. È un urlo liberatorio che sintetizza con ironia e sarcasmo gli elementi che caratterizzano il declino delle società moderne e, in generale, il tragico degrado del mondo in cui viviamo.

Il video descrive la giornata di una persona che vive l’isolamento in modo straniante, passando da una frustrazione all’altra per indicare il fallimento della società globalizzata e consumistica e la perdita della libertà. A nulla sembrano servire i goffi e vani tentativi del protagonista di mantenersi in equilibrio sulla palla ginnica, che simboleggia il fragile equilibrio tra uomo e natura. Nel mezzo del video appaiono le meduse, maestosamente indifferenti, per ricordarci che erano qui molto prima di noi.

Il verdetto finale è ancora da scrivere e nell’ultima scena il video suggerisce la riscoperta della bellezza del mondo come chiave di volta per rivedere il nostro atteggiamento verso noi stessi, gli altri e la natura.

Parole a Capo /
“Poeticamente parlando”

“Non usare il telefono. Le persone non sono mai pronte a rispondere. Usa la poesia.”
(Jack Kerouac)

LASCIARE
Lasciare, lasciar scorrere le cose
Scivolare sul tempo con lentezza
Seminare, dissodare dolcezza
Aspettare. Fioriranno le rose
Pianissimo. Avvicinarsi al fiore
come farebbe l’ape laboriosa,
o meglio, la farfalla silenziosa
Non toccare. Lasciarsi inebriare
Immergersi in questa primavera,
perdersi e perdere l’orientamento
Ascoltare i sussurri e il fermento
Come Gazania chiudersi di sera
Cedere al sonno che il sogno profuma,
Belle di notte danzano alla luna
(Sara Ferraglia)
*
FIABE GENER(OSE)
Riccidoro si è stufata
di mangiare la zuppa degli orsi,
si è fatta la testa rasata
e suona la chitarra a morsi
con tre donne metallare.
Bella ha smesso di ballare
il valzer con la Bestia e
accantonata la modestia,
è in corteo da stamattina
contro la guerra in Palestina.
Alice, quella bionda bambina
ha adottato lo Stregatto.
“E’ un po’ matto, ma non deve
star rinchiuso in quel paese.
Lo porterò tra la gente, sia fatto.”
La Sirenetta ha preso atto
che il principe tanto amato,
è violento e prepotente.
L’ha quindi denunciato
al magistrato competente.
Coraggio lettore, non ti crucciare,
la donna nelle fiabe voglio cambiare.
Moglie, madre, sorella, ancora le vedi,
perché le vuoi tener sotto ai tuoi piedi.
(Stefano Agnelli)
*
SPENGO
Spengo il rumore del mondo
Spengo le sue luci violette
Cancello i dialoghi urlati
E tonanti
Accosto le imposte
E giro la testa
Esco di casa e
Mi avvio verso un luogo di silenzio
Dove tu mi darai la mano
Senza richiedere
Arditi sillogismi o
Raffinate prestazioni culinarie.
(Elena Vallin)
*
ESISTERE
Il futuro ha un altro nome
che da questa distanza
non riesco a leggere,
troppa polvere, troppo fumo.
Il futuro ha cambiato suono,
non riesco a sentirlo,
le urla e i pianti lo sovrastano.
Il futuro ha un altro sapore,
riesco a sentire
solo il sale del mare.
Allora
volgerò gli occhi
al sacro
e all’umano
per ricostruire la speranza.
(Maria Angela Malacarne)
*
FUTURO
Ragazzo che guardi il mondo
dalla tua cameretta
davanti ad una tastiera
e uno schermo
ragazzo che guardi una ragazza
colpita da una coetanea
col coltello
e non fai niente per separarle
è molto meglio filmarle
è più bello.
Ragazzo che guardi il mondo
in mezzo al fango e alle macerie
della tua casa
distrutta da una bomba
intelligente.
Ragazzo che cerchi smarrito una ragione
per uscire da questa prigione.
Ogni tanto sentiamo
parlare di futuro
ma prima dovremmo
capire come buttare giù
le fabbriche del muro.
(Pier Luigi Guerrini)

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Accordi /
Un fuoco che brucia ma illumina tutto. Il concerto di Vasco Brondi alla Officina MECA

Un fuoco che brucia ma illumina tutto. Il concerto di Vasco Brondi alla Officina MECA

 Sabato 23 marzo scorso, ho avuto la fortuna di essere nel numero ristretto di appassionati che hanno potuto assistere allo showcase di Vasco Brondi alla Officina MECA di Ferrara.

Nelle intenzioni del cantautore quella era una specie di prova generale o una data zero del tour che partirà il 5 aprile da Livorno (qui le 14 date del tour), dove le canzoni del disco uscito il 15 marzo scorso si sarebbero mescolate insieme a quelle dei dischi precedenti.

Nelle emozioni del pubblico quello è stato un concerto magnifico dove Vasco Brondi, insieme ai cinque bravi musicisti che lo hanno accompagnato, è riuscito a coinvolgere, stupire, commuovere e far riflettere chi era presente… che fossero suoi coetanei, che fossero più giovani o, come nel caso di chi scrive, che fosse quasi sicuramente il più anziano del locale.

La recente uscita, il 15 marzo scorso, del suo disco Un segno di vita ha attirato a Ferrara appassionati “storici”, ma ha coinvolto anche nuovi fans, che hanno apprezzato moltissimo quest’ultimo suo lavoro, frutto di una ricerca e di una selezione azzeccatissime fra tutto il materiale recentemente prodotto dal cantautore ferrarese.

Le dieci canzoni di Un segno di vita sono vere e proprie poesie che, ricercando l’umanità delle persone, attirano in maniera magnetica, sorprendono in un modo diretto, avvicinano con naturalezza e avvolgono chi ascolta con gentilezza, rispetto e tatto.

Se dovessi scegliere una parola chiave per i testi di questo disco sarebbe ‘fuoco’ e non solo perché Vasco ne fa diversi riferimenti, ma perché ho percepito la presenza di questo elemento naturale, distruttivo e rigenerante allo stesso tempo, come forza appassionata, come necessità di ripartenza, come bisogno di luce, come occasione di rinascita, come percorso spirituale che esalta la grandezza e la potenza della vita senza nasconderne le ombre e le difficoltà.

Tutti i testi della dieci canzoni affascinano generando meraviglia e gli arrangiamenti musicali aiutano a creare una cornice preziosa a questi veri e propri quadri lirici.

Io però scrivo da appassionato musicale e non da critico musicale, quindi queste mie parole potrebbero apparire poco professionali a qualcuno. La cosa non mi preoccupa molto, anzi ne approfitto e aggiungo con azzardo che, mentre ascolto le canzoni di Vasco Brondi, mi viene in mente un cantautore che apprezzavo moltissimo nei primi anni settanta: Claudio Rocchi.

Attenzione! Non ho scritto “Brondi si rifà a Rocchi” o lo imita, ma che “lo fa venire in mente” a me perché ho la mia storia, i miei gusti e la mia sensibilità.

Claudio Rocchi, cantando dei suoi “voli magici”, faceva entrare luce, apriva la mente ed illuminava l’anima. Ricordo un concerto di circa quarant’anni fa in un piccolissimo locale di Vidiciatico, sull’Appenino bolognese, dove oltre alle sue canzoni ne improvvisò una per il pubblico presente, guardandoci negli occhi e leggendoci dentro.

Vasco Brondi, in un suo modo personalissimo, canta con sensibilità rara, riuscendo a rendere uniche le avventure intime dei suoi protagonisti. La potenza espressiva dei suoi “voli magici” è una sua caratteristica peculiare che lo rende un comunicatore davvero empatico, capace di leggerti dentro.

La scaletta eseguita sabato scorso da Vasco Brondi e dal suo gruppo merita una sottolineatura particolare, perché è stata composta con la sapiente capacità di alternare i brani del passato con quelli del presente, lasciando immaginare un futuro pieno di luce di cui tutti noi sentiamo il bisogno. Questi i brani riportati nell’ordine di esecuzione:

Illumina tutto (da: Un segno di vita), Le ragazze stanno bene (da: Costellazioni), Meccanismi (da: Un segno di vita), Qui (da: Terra), Fuoco dentro e Incendio (da: Un segno di vita), Coprifuoco (da: Terra), Fuori città (da: Un segno di vita), 40 km (da: Costellazioni), Cara catastrofe e Quando tornerai dall’estero (da: Per ora noi la chiameremo felicità), Macbeth nella nebbia e I Sonic Youth (da: Costellazioni), La stagione buona (da: Un segno di vita), Cosa sarà? (cover del brano scritto da Ron e Lucio Dalla e cantato dallo stesso Dalla insieme a Francesco De Gregori), Notti luminose (da: Un segno di vita), Chakra (da: Terra), Per combattere l’acne e Piromani (da: Canzoni da spiaggia deturpata), Mistica (Tra la via Emilia e la via Lattea), A forma di fulmine (da: Terra), Un segno di vita (da: Un segno di vita) e Nel profondo Veneto (da: Terra).

Alla fine del concerto, qualcuno, che di concerti di Vasco Brondi ne ha visti tanti, mi ha confidato che quello a cui avevamo appena assistito, a suo parere è stato probabilmente uno dei concerti migliori.

Mi fido della sua competenza; io non saprei dirlo, ma so già da ora che seguirò altre tappe di questo tour che si preannuncia davvero di una bellezza “illuminante”.

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

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Vite di carta /
L’ultimo romanzo di Viola Ardone, “Grande Meraviglia”, grande vicinanza

Vite di carta. L’ultimo romanzo di Viola Ardone, Grande Meraviglia, grande vicinanza.

Non posso lasciarlo andare, restituirlo a chi me l’ha prestato senza tenermi ancora per un po’ alcune sue parole. Il libro di Viola Ardone, dico. Si parla di pazzia e di manicomi chiusi con la legge Basaglia del 1978, eppure quello che nel libro si dice della vita e della imperfezione di noi creature mi ha fatto bene.

Sapevo che la storia viene raccontata da una adolescente internata insieme alla madre nel manicomio di Napoli, ma poi appena sono entrata nel libro ne ho saputo il nome: Elba come il “grande fiume del nord che passa per la Germania”.

Glielo ha dato la sua Mutti, la madre, così come insieme hanno dato nomi di fantasia a persone e cose nelle loro giornate tutte uguali dentro al Fascione. Hanno creato filastrocche in rima e modi di dire per dare uno stigma giocoso alla disperazione.

Un esempio che rende bene la privazione del mondo in cui Elba vive: “A me piace fare le rime e per fortuna al mezzomondo tutte le parole finiscono in -ia, come pazzia”.

Un po’ come avviene nel film La vita è bella di Roberto Benigni, dove la vita del lager viene straniata da un padre prigioniero e presentata agli occhi del suo bambino come un grande luna park dove si fanno giochi di squadra in cui bisogna assolutamente vincere.

Dopo che ha presentato le altre, le pazze del suo reparto, non la cambieresti più col miglior narratore al mondo, questa ragazzina che nel suo Diario dei malanni di mente stila il catalogo di malattie e terapie, in lizza col primario del manicomio, Colavolpe, che non ne azzecca molte più di lei. Accoglie la Nuova, che resta muta e non mangia, e le sta accanto a lungo presentandole una ad una le altre malate e una per volta le regole della vita lì dentro.

“Sai, al mezzomondo ogni giornata è sempre la stessa: svegliarti quando arriva la luce, andare alle docce, infilare il camicione, mangiare pane raffermo nel latte annacquato, aspettare il giro delle visite, pranzare. Camminare una mezz’ora nel cortile se non piove, aiutare Gillette con le pulizie, guardare la televisione se non sei stata messa alla corda, cenare, prendere la Caramella-grigia del Buon Sonno, tenerla tra la guancia e la gengiva per poi sputarla senza farti scoprire, attendere che si spengano le luci, sentire gli zoccoli della sorvegliante che battono sulle mattonelle e scendere in un pozzo nero nero, se non hai fatto in tempo a gettare la pillola di nascosto”.

Quando nel libro il narratore è cambiato, non l’ho accettato subito. Come se non fosse ancora il momento di staccarmi da Elba e ascoltare il dottorino che da quando è entrato nel Fascione ne ha scardinato le regole cieche: ha portato fuori i pazzi, facendoli giocare a pallone o lasciandoli camminare in cortile sotto la neve. Trattando Elba non da pazza, perché pazza non è mai stata. Nemmeno sua madre, fatta rinchiudere dal marito quando era rimasta incinta di lei da un altro uomo.

Meraviglia è il suo cognome, e meraviglia sparge col suo metodo nel trattare i malati, che è anche il suo modo di valutare la vita. Come narratore interviene quasi quarant’anni dopo che Elba è uscita dal manicomio, dopo la morte della sua Mutti, e lui se l’è presa in casa, l’ha aiutata a studiare e l’ha accompagnata fino alle soglie della laurea in psicologia.

Ignaro, o distratto, rispetto al turbamento che la presenza di Elba poteva apportare ai suoi figli, a Vera in particolare, che soffriva della assenza di lui come padre e di quella sua dedizione pressoché totale al lavoro dentro al manicomio.

Ignaro e innamorato della vita e dei propri ideali.

Quando racconta ha settantacinque anni: i figli sono adulti e lontani dalla sua quotidianità, la ex moglie si è risposata ormai da molti anni. Elba se ne è andata da tantissimo tempo, ha scritto molte cartoline, poi è calato il silenzio.

Ecco: ci ho messo un po’ ma poi questo anziano che vive solo e si interroga sulle cose passate, pieno di disincanto e di sensi di colpa a metà, perché la sua indole cinica e sorniona glieli ha fatti perdonare, mi si è fatto vicino vicino. L’ho ascoltato e dalla parabola della sua vita ho preso lezione.

Dice alla ex moglie Elvira incontrata per strada nell’ultimo giorno dell’anno: “La vita mi è piaciuta, Elvì, e pure io a lei, ma era solo una cotta, poi è passata. Lo sai come ti accorgi di invecchiare? Quando incominci a perdere. Prima la vista, poi gli oggetti, poi la salute, il sonno, le amicizie, i capelli, gli amori. E infine il tempo. Ho trascorso la vita a fuggire dai legami e quando mi sono fermato ho scoperto che nessuno mi inseguiva più… Perfino Elba è scomparsa così, di punto in bianco, senza una spiegazione. Almeno a lei credevo di avere fatto solo del bene“.

La storia ha una conclusione che non svelerò, una conclusione in cui il caso ha messo il suo zampino, non bastassero gli errori che si commettono o quello che non si comprende delle situazioni a complicarci la vita. La morale, però, posso dirla per come l’ho intesa io. La morale è che a dispetto di tutte le forze che ce ne allontanano ci fa bene e ci dà senso rimanere aderenti a noi stessi.

Nota bibliografica:

  • Viola Ardone, Grande Meraviglia, Einaudi, 2023

Cover:  Marco Cavallo, Trieste 1973

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Diario in pubblico /
Antisemitismo nei college americani

Diario in pubblico. Antisemitismo nei college americani

Non avrei mai creduto che una situazione culturale che ho sperimentato decenni fa nelle università americane si ripresentasse in modo assai più grave ora, con le ripercussioni che anche in Italia hanno impedito al direttore di La Repubblica Molinari di tenere la sua relazione all’Università Federico II di Napoli, una struttura che ben conosco dove ho anche tenuto lezioni come nell’altra, la Suor Orsola Benincasa, fiore all’occhiello del sistema universitario napoletano, benché privato, nella sua specializzazione umanistica.

Ancora più grave la decisione di molti studenti di impedire la titolazione del loro Istituto a Peppino Impastato: tre studenti su quattro votano contro, giudicandolo un personaggio “divisivo”. La notizia viene giudicata dal fratello Giovanni “inquietante “Perché “divisivo”?

Sono segnali molto pericolosi, quando cioè l’Accademia o la scuola diventano oggetto e soggetto dello scontro politico.

Una mia decisione presa decenni fa e che ha provocato scelte assai difficili tanto da costarmi la qualifica di professore emerito è stata quella di scindere l’Accademia dalla politica, ma soprattutto di opporsi alle scelte degli allievi come naturali prosecutori del ruolo dei loro maestri.

L’indagine di Gianni Riotta su La Repubblica del 17 marzo dal titolo Nei college USA un vento di censura e odio anti-ebraico contagia gli studenti ha aperto una discussione accesa, in quanto è staticamente accertato che le grandi università americane private sono in gran parte sovvenzionate da capitali ebraici e quindi la protesta non riguarderebbe quelle sedi prestigiose ma, come scrive The Economist,  “in quelle popolari si pensa a studiare”.

Riotta corregge il tiro, poiché la protesta arriva da “Hunter College e City University a New York, da sempre sono atenei  working class di lavoratori, operai, immigrati, come Napoli, Federico”.  E d’altra parte è necessario leggere la importante dichiarazione di Anna Dolfi, esimia studiosa e docente universitaria e la sua fiducia sul sistema accademia.

Tra gli amici più cari conto Lino Pertile, studioso emerito e docente ad Harward, con il quale ho scambiato una lunga telefonata. Mi ha ribadito con molti seri argomenti che queste notizie se non sono proprio fake news rispondono a precisi momenti politici nella lotta che oppone Repubblicani e Democratici, ovvero il duo Trump-Biden.

Quindi, probabilmente, anche in Italia – e si veda la recente notizia di lasciare a casa gli studenti mussulmani in una scuola piemontese a Pioltello affinché possano celebrare il Ramadan, chiaramente esposta nel Corriere del 20 marzo in cui si legge la ‘fremente’ risposta di Ignazio La Russa.

Tuttavia, avere impedito a Molinari di parlare alla Federico II e, a mio avviso ancor più grave segnale, la contestazione a David Parenzo di entrare nella Sapienza romana viene con grande intelligenza commentato da Aldo Cazzullo sul Corriere del 19 marzo.

In questo momento questa notizia viene se non abbandonata, passata in seconda linea dalla terribile strage nel teatro di Mosca.

Resta da aggiungere una notizia che dovrebbe por fine alle più brutte illazioni e che riporto:

“Una lettera aperta al Presidente del Consiglio e al Ministro per l’Università e la Ricerca, promossa dall’Associazione Setteottobre e firmata a oggi da oltre 130 universitari, esprime un gravissimo allarme per gli episodi di antisemitismo che costellano, dal 7 ottobre in poi, la vita delle università italiane.

Dopo la parola negata a due giornalisti ebrei, alla Sapienza di Roma e alla Federico II di Napoli, la decisione dell’Università di Torino di non partecipare al bando di collaborazione scientifica con gli atenei israeliani, a seguito dell’irruzione squadrista di un manipolo di studenti durante la seduta del Senato accademico,

è l’ennesimo esempio di una deriva antisemita e antisraeliana, che mina la libertà della vita accademica, la sicurezza di studenti e docenti di origine ebraica, il libero e corretto svolgimento delle attività scientifiche e di ricerca”, dichiara il presidente di Setteottobre, Stefano Parisi.

Se si dovesse commentare questo fatto e porlo a confronto con altre notizie verrebbe spontanea la perplessità di chi scrive, poiché ciò che interessa di più sembra ancora rivolgersi ai fatti della famiglia reale inglese o al divorzio degli innominabili Fedez-Ferragni.

Purtroppo, così è ma “non mi pare”.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Parole e figure / Perdere la coda

Appena uscito in libreria, con Iperborea, “Una coda per Nisse” della svedese Eva Jacobson è un albo illustrato che, delicatamente, incanta, sorprende e diverte con le sue svolte inattese.

Nisse e Hasse devono andare a una festa, ma all’improvviso a Nisse manca la coda. Come ha fatto a perderla? Dov’è finita? Cerca, cerca, non si trova da nessuna parte. Ci si arrampica sugli alberi, si cerca in mezzo al prato, ma nulla.

Bisognerà andare dal dottore. Forse lui potrà risolvere. “A Nisse è caduta la coda, gliene serve una nuova”, dice Hasse al dottore. “Lei che code ha?”. Il dottore non ha proprio nessuna coda, ma forse può trovare qualcos’altro, un’idea brillante gli dovrà pur balenare nella sua intelligenza magnanima e sopraffina… Della corda, un calzino? Nisse sceglie allora una cravatta, quella che ci si mette per essere eleganti, e il dottore gliela attacca per bene al posto della coda perduta. È o non è un bravo chirurgo?

Ma ecco che dietro ad un folto albero spunta una maialina color rosa pastello, ha trovato lei la coda, ora è sua, non se ne vuole certo separare. Non molla. Le piace troppo quella coda, ma, alla fine, capisce che deve restituirla. In cambio di una bella cravatta!

Tutti alla festa allora!

Eva Jacobson ci porta nel suo mondo speciale in cui la fantasia incontra un sottile humour surreale, capace di conquistare i bambini come i lettori di ogni età. Con tinte delicate.

Eva Jacobson, laureata all’École Nationale Supérieure des Beaux­ Arts di Parigi, è pittrice e scultrice oltre che autrice di una serie di libri per bambini che hanno riscosso successo di pubblico e critica. Vive e lavora a Stoccolma.

Eva JACOBSON, Una coda per Nisse, traduzione di Giola Spairani, collana I Miniborei, Iperborea, Milano, 2024, 32 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

TABUCCHIANA 1.
Trent’anni dopo Pereira, i libri e il mutamento del canone

TABUCCHIANA 1. Trent’anni dopo Pereira, i libri e il mutamento del canone

Ogni cultura elabora o fa proprio un canone, un insieme di autori e opere di riferimento che ne rispecchiano credenze e valori. I regimi dittatoriali li usano come strumento di propaganda e ogni allontanamento viene interpretato come un atto eversivo.

Quel che stupisce è che spesso alcuni tra i più fedeli osservatori del canone non si accorgono del gioco di potere che quest’ultimo sottende e vi aderiscono con una convinzione che ritengono, almeno in gran parte, libera e non condizionata.

È quanto accade almeno all’inizio a Pereira (l’indimenticabile protagonista di un romanzo di grande successo pubblicato da Feltrinelli esattamente trenta anni fa, nel gennaio 1994), che pensa che il Lisboa, il giornale per la cui pagina culturale lavora, sia apolitico e indipendente, e dovendosi confrontare per i suoi articoli con libri e scrittori, pur usando norme di elementare prudenza, che lo inducono a qualche autocensura, ritiene complessivamente di agire liberamente e nel rispetto di valori oggettivi.

Per questo hanno tanta importanza i libri che legge e che cambia, gli autori di cui parla e la funzione perturbante che provocheranno, nella rubrica Ricorrenze (i ‘coccodrilli’ in ricordo di grandi personalità), le scelte diverse e/o le letture sostanzialmente variate del giovane e ribelle Monteiro Rossi che, insinuandosi nei punti deboli della sua riflessione esistenziale (i quesiti sull’immortalità, una certa inquietudine che lo tormenta dopo la morte della moglie…), lo porteranno a rendersi conto della possibilità di interpretazioni alternative che si troverà gradualmente ad accettare.

Il passaggio, lento, sarà accompagnato da piccoli segnali che predispongono e ridestano il dubbio (l’accorgersi del clima mutato nel paese, della presenza di militari e bandiere, del silenzio dei giornali su gravi fatti di sangue…) e alimentano uno scontento all’inizio imprecisato, assieme a una delusione che si fa sempre più forte.

Per altro la teoria della “confederazione delle anime”, la possibilità che nella nostra vita possano succedersi diversi io egemoni differenziati l’uno dall’altro, propostagli dal dott. Cardoso (che, da cardiologo e dietologo qual è, avvia una cura che non è solo del corpo), dà un suggestivo tocco filosofico alla metamorfosi che lentamente il personaggio sperimenta dentro di sé.

Pereira cambia con l’apparizione nella sua vita di Monteiro Rossi (che l’anziano giornalista finirà per sentire come una sorta di alter ego: i romanzi di Tabucchi sono sempre pieni di doppi…), ma anche per quanto muovono in lui i colloqui con Padre António, con Ingeborg Delgado, con il cameriere del caffè, con il medico… Cambia venendo a contatto con le letture e convinzioni dei suoi interlocutori e con i loro libri, compresi tra questi perfino quelli… del suo stesso autore.

Se infatti l’“ipotesi” di médecins-philosophes come Binet e Ribot, sostenitori della possibilità psicologica del cambiamento, è messa sulle labbra del dottor Cardoso, anche i “sentieri che si biforcano” di Borges, le immagini che mutano e si perdono nella vita e sulle fotografie (come l’amica Susan Sontag gli aveva insegnato), l’autopsicografia di Pessoa e dei suoi eteronimi, qui appena accennati, e che tanto hanno contato per Tabucchi, alimentano in modo sotterraneo il percorso di crescita, di tardiva educazione morale, politica, esistenziale di Pereira, che comincerà a confrontarsi davvero con la cultura europea – così lontana dall’asfittico e nazionalista Portogallo di Salazar – fino a inserire nella sua finale testimonianza autori eterodossi e libri (sia pur di altri tempi) che inneggiano alla libertà.

Antonio Tabucchi nel 2010 a Stoccolma (©anna dolfi)

Sostiene Pereira (uno dei romanzi più apparentemente facili e godibili di fine Novecento) è ricco di nomi di filosofi che appartengono a culture e progettualità politiche diverse (Vico, Hegel, Feuerbach, Marx…), di scrittori soprattutto francesi che propongono alternative interpretazioni della realtà (Claudel, Mauriac, Bernanos…), di vittime/poeti interdetti (García Lorca), di portoghesi teorici della molteplicità (Pessoa), di italiani di cui si può parlare diversamente (D’Annunzio, Marinetti…), di ‘oggetti’ di necrologi da lui scelti (T. E. Lawrence, Rilke) o affidati al giovane Monteiro (Majakovskij…) rifiutati e poi accettati, se non nella forma certo nella sostanza (Marinetti…).

Soprattutto sono significativi gli autori a cui Pereira dedica le sue ultime traduzioni: Maupassant, Balzac (con Honorine, uno splendido racconto secondario sul pentimento), Daudet (con il primo, vibrante, dei sui Contes du lundi)…

Conteranno questi libri insieme alle letture di un’ebrea tedesca costretta a fuggire, alle opinioni degli scrittori, alla loro figura morale (lo scontento di Mann emigrato negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, le denunce di Bernanos contro il clero spagnolo in Les Grands Cimetières sous la lune).

L’autorità del nome combinata all’eticità, in contrapposizione alla prevedibile acquiescenza al canone stabilito, condizionerà, alla pari di quel che comincia a vedere anche grazie alle confidenze del barman del Caffè Orquídea, necessariamente esterofile, ai frammenti di conversazione carpiti nei locali pubblici…, la presa di coscienza di Pereira.

È progressivo il suo fastidio per un modo di vivere privo di varietà, di fantasia, si tratti di politica, di idee, di alimentazione. Scoprire il mondo equivarrà a educarsi alla libertà, a imparare a leggere in chiave autobiografica la grande letteratura, sì da fare di un romanzo breve sul pentimento l’occasione per un’esperienza ‘saudosa’ che può avviare il lavoro del lutto.

Pereira intuisce che si può cominciare a parlare per interposta persona (ad esempio traducendo La dernière classe di Daudet, che con una subitanea partenza per sfuggire all’oppressione e un finale grido d’amore per il proprio paese occupato anticipa la conclusione di Sostiene Pereira), e che, a dispetto di ogni nostalgia, l’invito ad andarsene, a non essere complici, può diventare realtà.

La crescita di Pereira, la liquidazione del suo primo, acquiescente super-io stanno compiendosi ancora prima della morte del suo giovane ospite, quando comincia a trovare noiose le novelle di Camilo Castelo Branco, preferendo il Journal d’un curé de campagne, “serio, etico, che tratta di problemi fondamentali, un libro che avrebbe fatto bene alla coscienza dei lettori”; quando trova inaccettabile scrivere su Camões nella giornata della celebrazione della razza, quando comincia a eliminare il cibo zuccherato e ripetitivo che era diventato una sorta di compensazione alla frustrazione.

Quando si accorge che la vita nella quale si era sempre visto non gli basta più e affida a una testimonianza, a pagine scritte (in definitiva ad un libro: quello che stiamo leggendo), un messaggio destinato a raggiungere, tra noi, tutti quelli a cui una vita non basta.

Nella cover: Tabucchi a Stoccolma nel 2010 (© Anna Dolfi)

Per leggere gli articoli di Anna Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Storie in pellicola / Il mondo dell’uomo in crisi, cambi di prospettiva

Mondi diversi, cambi di prospettive. I due cortometraggi di oggi, “Affendomino” e “Space Woman”, vi portano in altri spazi.

Il mondo costruito dall’uomo, fatto di grattacieli, cemento e investimenti gonfiati, è sempre più fragile. Cosa succederebbe se anche una sola scimmia in uno zoo si ribellasse e tutto ciò che l’uomo ha costruito improvvisamente crollasse, come un domino?

Ulf Grenzer prova a raccontarvelo con il cortometraggio animato, di quattro minuti, “Affendomino”, le vicende di una scimmia che si abbandona al ricordo della sua vita nella giungla. Che bello era saltare fra gli alberi e mangiare banane…

Allo zoo questa simpatica scimmia incontra un uomo con sua figlia: lui lavora, sempre, l’orecchio incollato al cellulare, i grafici dei profitti che sul suo computer salgono e scendono. Una telefonata lontana, un ordine impartito, una motosega in azione a un uomo con le cuffie, un albero che cade, e il grafico sale. Il disastro nella natura e il suo portafoglio cresce, il margine di guadagno sale. Un’affannosa continua corsa e il dollaro avanza. Poco tempo per dare attenzione alla figlioletta. Le ricchezze non possono aspettare, il tempo, in fondo, è danaro.

Mentre quell’uomo d’affari bieco e senza scrupoli continua la sua corsa all’oro e all’abisso, l’Orangutan e la bambina si divertono insieme. Una serie di casuali eventi cambierà per sempre la sua vita in gabbia. Sarà lui a prendere in mano il cellulare e a dare altro ordine confuso. Palazzo che crollano. Effetto domino. La prospettiva cambia. Fantastico.

La prospettiva può cambiare anche per una simpatica signora che sta per andare in pensione: 64 anni e congedo dalla professione di insegnante.

È la storia di Maha (interpretata da Maha Abas, la madre del regista) in “Space Woman”, del libanese Hadi Moussally, la storia di una donna come tante, divorziata, rimasta sola. I figli sono partiti da tempo, sono all’estero e li vede poco, e lei si ritrova di fronte alla solitudine, la realtà cui la pensione la mette davanti. Sulle note di “Hypercube” di Loopstache, Maha sogna e si diverte. E ci coinvolge nella sua simpatica e allegra follia. Non ha forse sempre sognato di essere un’astronauta? E se si lasciasse a dare a questa meravigliosa promessa di evasione? Un racconto delicato e ironico, tenero e divertente. Perché, a volte, basta davvero poco per cambiare prospettiva.

I corti saranno presentati allo European Projects Festival di Ferrara nell’ambito della rassegna selezionati dal Ferrara Film Corto Festival (FFCF), dal 4 al 6 aprile.

Lo stesso giorno/25 marzo: Giornata mondiale in memoria delle vittime della schiavitù

Tra i vari fatti accaduti in un 25 marzo della nostra storia, va per primo ricordato subito che oggi si celebra il “Dantedì”, una intera giornata dedicata al sommo poeta.

Che Dante sia importante per la nostra cultura è indubbio. Che lo si debba celebrare in un apposito giorno, il 25 marzo, data di inizio del suo cammino onirico, francamente potevamo anche risparmiarcelo. Ogni giorno del calendario si sta riempiendo di “date-day” o “date-dì” per celebrare, ricordare, memorizzare un evento, un nome, insomma “qualcosa o qualcuno”.

Dante a me piace finché sta all’inferno. Dopo è noia e pesantezza che ogni studente deve seguire, pena la bocciatura. Istituita nel 2020, questa speciale giornata ha piazzato un enorme macigno a schiacciare ogni altro evento. Preferisco soffermarmi su un altro avvenimento, meno ricordato ma molto più attuale e per questo forse meno interessante per il nostro Ministero della Cultura.

Oggi 25 marzo è la Giornata internazionale in memoria delle vittime della schiavitù e del commercio degli schiavi transatlantici, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Oltre a non essere tristemente ricordato da nessuno, questo giorno della memoria è da attualizzare più che mai. Per oltre 400 anni, più di 15 milioni di uomini, donne e bambini sono stati vittime del tragico commercio transatlantico di schiavi. Ed essendo “transatlantico”, per qualcuno forse a noi non dovrebbe interessare: “che c’entriamo noi con gli schiavi africani e gli americani?”.

C’entriamo eccome. Quattrocento anni fa gli schiavi li andavano a prendere proprio in Africa, continente che ancora oggi “esporta” schiavitù verso altri continenti. Gli schiavi “per fame” che attraversano deserti, soffrono rinchiusi in prigioni a due passi dal mare, da quel mare che potrebbe portarli in salvo, chi sono?
Se per ogni evento storico decidiamo di tirare una riga, uno spazio dove da lì in poi è tutto nuovo, fresco, bianco, pulito, non serve a nulla. La storia non ha limiti così netti e la schiavitù, la tratta di esseri umani, ne è un chiaro esempio. Oggi come allora, il continente africano continua ad essere una sorta di “supermercato” a basso costo, per materie prime, controllo di risorse, mercato delle armi e schiavi.

Ecco che allora, se volete, possiamo chiudere il cerchio tra Dante e la tratta di schiavi: un “lasciate ogni speranza o voi che entrate” sembra tragicamente attuale.

 

Photo cover: Encyclopedia Virginia: The landing of the first Negroes

Paura dell’intelligenza artificiale o paura del progresso tecnologico?
Vince chi accetta la sfida.

Paura dell’intelligenza artificiale o paura del progresso tecnologico?

 

Nicola Gemignani è il titolare di NeXus, azienda che sviluppa siti internet, grafica e organizzazione di eventi. E’ anche un collaboratore di Periscopio, ma il cotè esplorato con questa chiacchierata è quello del musicista-non musicista. Attraverso app di intelligenza artificiale, Nicola ha creato una rock band integralmente virtuale, i Nocturune. No, non sono come i Gorillaz: lì almeno uno (Damon Albarn) è un essere umano e suona. I Nocturune sono completamente virtuali. Potete ascoltarli qui.

 

 

P: Nicola, puoi spiegare in parole semplici come fai a generare musica così “strutturata” (parliamo di brani completi di cantato, suonato, arrangiamenti e produzione) utilizzando esclusivamente l’AI?

NG: le applicazioni di Intelligenza Artificiale sono dei programmi che si possono usare con un computer o un cellulare, o tablet.
Per generare musica “strutturata” esistono molte strade, ma è essenziale avere delle conoscenze di informatica, di musica e di produzione musicale. Bisogna saper scegliere quali comandi dare (in gergo “prompt”, ndr). Si passa da semplici applicazioni che richiedono “solo” indicazioni sullo stile musicale (esempio: “rock” o “pop con strumenti che richiamano al metal”), fino a quelle che richiedono l’inserimento del testo, delle basi musicali, delle note o di veri comandi di programmazione, di informatica.
A seconda delle competenze che uno ha, può essere più utile passare prima da un AI che genera le liriche e lascia alla “macchina” la creazione della musica o viceversa. Personalmente i testi delle canzoni sono la parte più impegnativa. Nel generare una canzone con l’AI non si può non passare attraverso il proprio gusto, la propria esperienza culturale. Chi ascolta solo canzoni impegnate, per esempio alla Guccini, cercherà di generare canzoni simili.
ChatGPT è forse la più famosa applicazione AI in grado di scrivere qualsiasi cosa: da testi di canzoni a monologhi teatrali. Tutto è però tendenzialmente freddo, banale. Del resto il risultato deve “convincere” più persone possibili. E’ per questo che, accanto ad applicazioni “generaliste” come ChatGPT, se ne sono sviluppate altre sempre più specifiche per ogni progetto, tra cui alcune per generare testi di canzoni. In sostanza allo stato attuale si passa attraverso diverse soluzioni per ottenere un risultato abbastanza buono. L’ultimo step è poi quello della produzione musicale. AI può fare anche questo lavoro: migliorare la voce, il suono, la qualità, aggiungere effetti e strumenti. Si carica la canzone generata all’interno di un’altra applicazione specifica, si clicca su “ottimizza” e lei fa il resto. Non pensate che sia una passeggiata: bisogna comunque investire ore di lavoro per ottenere un buon risultato.
Le persone devono iniziare a comprendere la differenza tra un prodotto interamente “generato” dall’AI ed uno dietro il quale esiste un lavoro “umano”, fatto di ore al computer e in sala prove.

P:Almeno in campo musicale, l’avvento della AI può essere paragonato alla stagione dei sintetizzatori, con possibilità forse ancora maggiori?

NG: direi di si. I sintetizzatori hanno rivoluzionato la musica e ancora oggi sono degli strumenti incredibili. Ed esistono già applicazioni AI che ne simulano il lavoro. E’ una evoluzione che deve essere, più che “domata”, come vorrebbe qualcuno, capita, gestita e sviluppata nel modo corretto.

P: cosa rispondi a chi evoca il pericolo della sostituzione della creatività umana con qualcosa di completamente artificiale che soppianta l’essere umano?

NG: questo timore è giustificato dalle poche informazioni che si hanno e, mi permetto, dal non saper nulla della storia dell’informatica e dello sviluppo tecnologico. Usiamo il correttore automatico su Word, anche questa è da un certo punto di vista una AI: ci dice che la nostra grammatica è sbagliata e ci permette di correggerla. Oppure il traduttore automatico o anche le macchine fotografiche automatiche digitali. Insomma: l’AI ci circonda da sempre, fin dal primo calcolatore. Sta a noi, ripeto, sapere usare queste tecnologie e comprendere che possono essere un aiuto più che valido. I giovani hanno tempo e modo di adattarsi e comprendere cosa fare dell’AI e, ovviamente, anche decidere la direzione verso cui portarla. Come NeXus, non siamo per esempio dell’idea che sia giusto imporre per legge un “cartellino” alle produzioni musicali o artistiche in genere, specificando se fatte con AI o senza. In mezzo ci sta un vero e proprio oceano di variazioni sul tema, che non può essere etichettato per legge.

P: ci racconti qualcosa della tua impresa?

NG: Nexus multimedia è una piccola realtà con sede a Carrara (MS) e che nel tempo si è spostata a Venezia e poi a Ferrara. E’ nata principalmente per lo sviluppo di siti internet, grafica e organizzazione di eventi. In sostanza abbiamo messo dentro ad un’unica realtà tutte le nostre passioni.
Il nome nasce da un programma radiofonico che andava in onda su Radio Base Popolare Network di Mestre, ormai 20 anni fa. Si occupava di notizie di informatica generale alternata a musica, quella “vera”, direbbe qualcuno. La passione per la tecnologia e le novità ci ha spinto ad approfondire gli applicativi AI, ora più alla portata di chiunque voglia anche solo testarli.

 

Photo cover: i Nocturune

Per certi versi /
Futuro

FUTURO

Hanno fatto
Le barricate
Pure gli angeli
Per i bambini
Dentro le miniere
A bagno
Nei veleni
Per le nostre
Batterie green
Le mie mani
Rigide
Guardano
L’aggeggio
Vedono di là
Dalle barricate
Le stragi
Del futuro

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.

Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Il successo di NBA JAM, il videogioco che penalizza i Chicago Bulls

A più di trent’anni dalla sua pubblicazione, NBA JAM è tutt’oggi uno dei videogiochi sportivi più apprezzati dal pubblico statunitense: in tre decadi è passato dalla popolarissima versione arcade di inizio anni ’90 all’attuale gioco per smartphone, attraversando con successo almeno tre generazioni di console.

Il gioco è piuttosto semplice: si sceglie una delle 30 squadre NBA e si sfida il computer o l’avversario in un classico “due contro due”. Ogni squadra, infatti, ha a disposizione soltanto i due giocatori più rappresentativi. Ciò che caratterizza NBA JAM è da sempre l’esagerata e irrealistica spettacolarità delle giocate, che, sulla scia di picchiaduro quali Street Fighter o Mortal Kombat, dà la possibilità ai personaggi di effettuare le cosiddette combo o di aumentare la propria potenza attraverso una serie di mosse.

Tra l’altro, nel descrivere l’assurdità di quelle giocate, la voce narrante del telecronista Tim Kitzrow ha introdotto nel gergo sportivo statunitense delle espressioni che col tempo sono diventate di uso comune: da “he’s on fire!” a “razzle dazzle!”. Tutto ciò contribuì all’enorme successo che il videogioco ebbe negli anni ’90, inducendo la casa editrice Midway a replicare tale formula.

L’ideatore di NBA JAM si chiama Mark Turmell, ed è stato uno dei programmatori di punta della suddetta Midway per vent’anni (1989-2009), contribuendo poi al revival del suo videogioco presso EA Sports. Attualmente lavora per Zynga, società californiana che negli ultimi anni si è fatta notare per aver rilanciato il gioco FarmVille. Ebbene, di recente lo stesso Turmell ha confessato che la versione arcade di NBA JAM conteneva una specie di trucco [Qui].

Tifosissimo degli irriducibili Detroit Pistons di fine anni ‘80, Turmell non vedeva di buon occhio la squadra che all’epoca stava per spodestare i Pistons, ossia i Chicago Bulls di Michael Jordan. Infatti, a partire dal 1991 il dominio della squadra del Michigan – finalista nell’88, campione nell’89 e nel ’90 – lasciò spazio all’ascesa dei Bulls. Così, in NBA JAM Turmell inserì un codice in grado di alterare l’esito delle gare tra Bulls e Pistons: un eventuale buzzer beater dei Bulls, cioè il canestro che decide l’incontro allo scadere, aveva lo 0% di successo.

Insomma, seppur minima e virtuale, la ripicca del tifoso Mark Turmell dette comunque i suoi frutti: i giocatori più assidui di NBA JAM fiutarono l’inghippo e iniziarono a scegliere i Pistons al posto degli amatissimi Bulls di Jordan e Pippen.

Anna Zonari all’Acquedotto
“Bisogna far vivere questo spazio meraviglioso”

Anna Zonari all’Acquedotto: “Bisogna prendersi cura e far vivere questo
spazio meraviglioso”

Ieri mattina Anna Zonari, candidata sindaca per La Comune di Ferrara,
ha fatto un sopralluogo presso il parco dell’Acquedotto accompagnata da
alcune residenti e commercianti, raccogliendo osservazioni sulle
problematiche del quartiere.

“L’Acquedotto è uno spazio dall’enorme potenziale, non sfruttato negli
ultimi anni”, dichiara Zonari “anzi, è stato svuotato dalle numerose
iniziative – che qui erano nate e si svolgevano come loro spazio
naturale – e letteralmente ‘dimenticato’ da questa Giunta.
L’Acquedotto, che oggi rischia di diventare una nuova piazza di spaccio
e di ritrovo per i tossicodipendenti, è frequentato da famiglie con
bambine/i e ragazze/i residenti nel territorio e frequentanti le
numerose scuole circostanti.
È della scorsa settimana la notizia di un bambino che si è punto con una
siringa mentre giocava nel parco, e numerosi sono tutt’ora i
ritrovamenti di ‘rifiuti pericolosi’.
I parchi sicuri non li fanno i recinti.
Servono iniziative, sostegno ai commercianti e maggiore controllo, anche
utilizzando vigili di quartiere.
È urgente che tornino all’Acquedotto le grandi iniziative  – come Estate
Bambini, che qui era nata anche per la vicinanza dell’ottimo servizio
del Centro per le Famiglie “Isola del Tesoro” che proprio all’Acquedotto
ha sede – e che se ne programmino di nuove.
Il Quartiere Giardino, anche per la presenza dello stadio e per il fatto
che si trova fra la stazione e il centro, è il biglietto da visita della
nostra città. E come tale va curato.”

Presto di mattina /
Don Peppe Diana: «A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta»

Presto di mattina.  Don Peppe Diana: «A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta»

«A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta»
(don Peppe Diana).

Era il suo onomastico quel 19 marzo di trent’anni fa quando la camorra pretese di far tacere don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe, che insieme agli altri parroci della periferia aversana aveva scritto una lettera in risposta agli omicidi e alle stragi dei clan che stavano insanguinando il territorio.

Così, non un passo indietro, come il suo Cristo, ma un passo avanti, passò dalla parte di Dio, tra gli umiliati della vita fino alla fine, incarnando le parole del profeta Isaia: “Per amore del mio popolo non tacerò”.

Aveva 36 anni; erano le 7,30 di un sabato mattina mentre stava andando a celebrare messa. Fu ucciso da un killer della camorra con quattro colpi di pistola in volto, come il vescovo di El Savador Oscar Arnulfo Romero e don Pino Puglisi, anche lui parroco di periferia al Brancaccio, assassinato dalla mafia sei mesi prima di don Diana.

Quanto alle stelle, ci sono sempre. Quando
ne spunta una, un’altra ne verrà
(Iosif Brodskij, Poesie, 53).

…la notte
è ingombrante, questo, è vero,
ma non così smisurata da pensare che ricopra
entrambi gli emisferi
(ivi, 93).

Con don Beppe gli uomini della camorra non si accontentarono di assassinarlo, ma provarono anche a calunniarlo cercando di depistare le indagini.

Don Maurizio Patriciello, attuale parroco nel degradato Parco Verde di Caivano, impegnato anche lui contro la camorra e nella lotta per tutelare il territorio della Terra dei Fuochi inquinata dalle discariche industriali radioattive, ha scritto su Avvenire del 18 marzo 2024: «Immediatamente iniziano i depistaggi. “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà” disse qualcuno. Non aveva tutti i torti. La macchina del fango entra in azione alla velocità del lampo. Schizzi puzzolentissimi di sterco velenoso arrivano a sfiorare perfino coloro che della camorra hanno da sempre avuto orrore. I credenti si aggrappano al Vangelo: “Beati voi quando vi insulteranno… e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi, per causa mia…”. La verità, lentamente, inizia a farsi strada».

Strade: a ciascuno la sua

Il tentativo fallì perché Giuseppe Quadrano, autore materiale dell’omicidio, consegnatosi alla polizia, iniziò a collaborare con la giustizia. E il mandante Nunzio De Falco, ’o Lupo, morto nel 2022 appartenente al clan dei Casalesi, fu condannato all’ergastolo nel 2003.

«Certo, don Peppino non appartiene a quella schiera di santi comunemente intesi − continua don Patriciello − i suoi modi sono spicci, il linguaggio tagliente. Niente di affettato, in lui. Spigoloso, autentico. … Sa di vivere in terra di camorra. Tanti criminali li conosce di persona, abitano a quattro passi da casa sua. Sono suoi amici d’infanzia, di studi, di giovinezza. Strade. Ognuno deve percorrere la sua. Itinerari. Non si capisce tutto e subito. Il Signore ti porta per vie sconosciute. Gradualmente ti fa avanzare, facendoti innamorare del bene, in tutte le sue forme. La prepotenza sui deboli ti diventa insopportabile. Capisci che il tuo posto è stare accanto a loro, agli umiliati dalla vita…».

Preti e basta

«Non era facile, nei passati decenni, nel nostro amato Meridione, districarsi tra i meandri di una società agricola, povera, arretrata, trascurata dagli anni dell’Unità d’Italia, in balia dei ricchi proprietari terrieri. I mafiosi, i camorristi, gli ‘ndranghetisti, sono camaleonti. Si mimetizzano. Sono ipocriti e vigliacchi. Non attaccano gli uomini di Chiesa frontalmente, li circuiscono, li confondono, li ingannano. Scaltri come serpenti, vivono tra la gente cui succhiano il sangue. Prendono parte alle feste patronali, fanno benedire i loro morti e battezzare i figli.

S’inchinano davanti al vecchio parroco poco prima di correre a strangolare un uomo e scioglierlo nell’acido. La stessa società civile negli anni passati brancolava nel buio. … Prete antimafia, don Puglisi? Prete anticamorra, don Peppino? Macché. Preti. Preti e basta. Preti senza aggettivi. Martiri perché liberi. Si chiamano ambedue Giuseppe, i miei confratelli, come il silenzioso custode del piccolo Gesù. Ed essi, come il santo di cui portano il nome, si sono fatti sentinelle attente del popolo loro affidato».

«Per amore del mio popolo non tacerò»

Il testo della lettera del Natale 1991 è diventato il testamento spirituale di don Beppe, e pure il manifesto del suo impegno per la legalità. Invito a prendere coscienza, ad aprire gli occhi sulla realtà in cui si vive; un appello a ribellarsi alle ambiguità e ai compromessi, a ricercare la verità, la giustizia sociale attraverso un processo di liberazione facendo leva sull’amore per la propria terra. Un richiamo ad essere profeti e a denunciare con coraggio le situazioni di illegalità.

«Siamo preoccupati

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà».

«La Camorra

La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato».

«Precise responsabilità politiche

È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale.

L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili».

«Impegno dei cristiani

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti.

Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);
Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)

Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.

«Non una conclusione: ma un annunzio

Appello

Le nostre Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe.

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”».

(Forania di Casal di Principe [Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito Santo – Casal di Principe; Santa Croce e M.S.S. Annunziata – San Cipriano d’Aversa; Santa Croce – Casapesenna; M. S.S. Assunta – Villa Literno; M.S.S. Assunta – Villa di Briano; Santuario di Maria S.ma di Briano])

Indifeso sotto la notte, solo una voce

Tutto quello che ho è una voce
che smuova la menzogna nascosta,
la menzogna romantica annidata nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la menzogna dell’Autorità
i cui palazzi palpano il cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste mai da solo;
la fame non consente scelta
al cittadino o alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.
Indifeso sotto la notte
il nostro mondo giace inebetito;
eppure, sparsi dappertutto,
ironici punti di luce
lampeggiano là dove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
oh, che io possa, composto come loro
d’Eros e di polvere,
assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma che afferma.
(W. H. Auden, Un altro tempo, Adelphi, 2013, 191).

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Il lavoro etico di Claudia Fiaschi

Il lavoro etico di Claudia Fiaschi

Il 4 marzo 2024 è morta all’età di 59 anni Claudia Fiaschi. Una vita spesa per la Cooperazione e per il mondo del terzo settore.

Nata a Firenze il 25 gennaio 1965, la Fiaschi è stata da sempre attiva nel settore della cooperazione sociale, con particolare attenzione al mondo dell’educazione e dell’infanzia.  Nel 1987 aveva fondato a Firenze la Cooperativa Sociale l’Abbaino, che tutt’ora offre servizi per l’infanzia e l’adolescenza.

È stata inoltre vicepresidente del Consorzio Pan, presidente di Confcooperative Toscana, vicepresidente di Confcooperative Nazionale, amministratore delegato e poi presidente del Consorzio nazionale CGM, la più grande rete di cooperative sociali italiana.

È stata membro del Cda di Etica sgr del Gruppo Banca Popolare Etica. Ha ricoperto il ruolo di portavoce del Forum del Terzo settore dal febbraio 2017 all’ottobre 2021, anni cruciali sia per motivi legislativi (il Codice del Terzo Settore è del 3 luglio 2017, decreto legislativo n. 117) che emergenziali (arrivò all’improvviso il Covid-19). Dal 2022 era alla guida del Consorzio Co&So. Era inoltre membro di molti osservatori e comitati scientifici.

Nel periodo in cui mi è capitato di lavorare per una Centrale cooperativa italiana, ebbi il piacere di incontrarla. Forse anche per questo, mi sembra importante ricordarla. L’esperienza diretta crea sempre un solco profondo tra ciò che è importante e ciò che lo potrebbe essere. Inoltre, anch’io presiedo un ente del terzo settore che si occupa d’infanzia.

Qui finisce la similarità dell’esperienza, lei conosceva perfettamente il mondo del terzo settore e lo amava, al punto da considerarlo la via privilegiata ed etica per occuparsi di politiche sociali. La questione continua ad essere centrale, anche perché coinvolge l’approccio valoriale alla gestione del bene pubblico e la conseguente idea di politica che si può provare ad implementare.

Il 13 settembre 2022 è stato pubblicato, come allegato del Corriere della Sera, il pamphlet Terzo – Le energie delle rivoluzioni civili, firmato da Claudia Fiaschi. L’opuscolo è stato distribuito gratuitamente, abbinato al Corriere della Sera, senza costi aggiuntivi a quelli del giornale.

Nel volume l’autrice indaga la realtà attuale del Terzo Settore italiano, creando un parallelismo storico con il Terzo Stato del Settecento. Entrambi protagonisti delle nostre comunità con un ruolo chiave nel tessuto sociale ed economico, entrambi non considerati a sufficienza. Un’analisi tra Storia e contemporaneità, che mette in chiaro le esigenze del mondo del terzo settore italiano, ponendo l’accento sul valore del comparto come pilastro su cui poggiare la nostra società.

Inoltre, l’autrice sottolinea il bisogno di un dialogo diverso con le istituzioni e di una rappresentanza forte, capace di essere portatrice dell’ampio numero di voci che il terzo settore rappresenta. In questo pamphlet vengono analizzati i problemi e le risorse del Terzo settore da diverse angolature: la storia, la situazione attuale, gli elementi costitutivi, il valore sociale, la reputazione, il rapporto con l’ordinamento politico ed economico, le esigenze, gli ‘amici’.

Ciò che più mi è piaciuto leggendolo, è la capacità di queste poche pagine di alzare molto il tiro, volando alto sugli scogli e sulle avversità quotidiane per arrivare al nocciolo della questione etica, a un senso profondo dell’agire sociale che pervade le scelte e orienta il mondo. In molti passaggi, infatti, si fa riferimento al motivo per il quale ogni essere umano può decidere di mettere le sue risorse a servizio di una arena sociale impegnativa.

Così scrive Claudia Fiaschi: “Qualità ed etica degli enti del terzo settore non sono infatti solo l’effetto di consapevolezze e intenzionalità organizzative e di processi più o meno sofisticati di autocontrollo. Sono anche, e soprattutto, il risultato della qualità e dell’etica delle persone che guidano queste organizzazioni”

e ancora: “nel tempo della caduta degli angeli e dei conseguenti venti ostili, non resta quindi che aggiustare le vele. Per il Terzo (settore) ciò significa soprattutto promuovere e abilitare leadership etiche, connettive, capaci di guidare il cambiamento, di potenziare il civic engagement di persone, operatori, comunità, di costruire e manutenere reti complesse di collaborazione, di dotarsi di una rotta etica e di tutti gli strumenti di navigazione utili per mantenerla”.

Si evince chiaramente da queste poche righe il senso etico che ha pervaso l’azione di chi le ha scritte, la sua necessità di riportare a una dimensione etica ogni scelta che riguardi il sociale. Parlare di leadership è sempre spinoso. Una leadership assume la qualifica di ‘etica’, quando i leader sviluppano e attestano delle virtù etiche. Detto così può significare tutto e niente.

Cosa sono queste virtù etiche? Sinteticamente, sono atteggiamenti volti al ‘giusto’ come principio di riferimento e all’ ‘adatto’ e all’ ‘equo come status ambientale ed esistenziale. Il cercare di essere equi riguarda sempre le circostanze in cui ci si viene a trovare e le condizioni attraverso le quali si può operare.

Al centro dell’agire etico ci sono sempre le persone, alle quali viene riconosciuto sempre il valore e la dignità di esseri umani. È di fronte alla problematicità di alcune situazioni che l’elaborazione di alcune ipotesi e la scelta delle migliori soluzioni, può assumere un valore etico e un significato cogente.

Ed è per questo che la leadership etica si basa su tutto ciò che si è appreso sia come singoli che come comunità, per risolvere problemi, migliorare il clima ambientale, stimolare la partecipazione attiva, facilitare l’apporto di tutti, producendo in tal modo un miglioramento continuo dei servizi forniti e dei beni, materiali e immateriali, prodotti.

In questo senso mi sembra che la riflessione suggerita da Claudia Fiaschi porti lontano, verso il senso profondo dell’agire, verso una rappresentazione collettiva che usa come unico perimetro definitorio un obiettivo continuamente negoziato e riallineato che si riassume nell’ “agire verso il bene”.

Mi vien da dire che le riflessioni possibili che riguardano le azioni verso il bene, non coinvolgono solo gli enti del terzo settore, ma tutte le istituzioni pubbliche e private nonché tutti gli organismi che, a vario titolo e con responsabilità diverse, si occupano di persone. Dove c’è una persona, c’è un mondo. Dove c’è un bambino, nasce un mondo. Dove c’è qualcuno che soffre, si ammala il mondo.

Vorrei infine ricordare che Claudia Fiaschi è stata membro del Cda di Etica sgr del Gruppo Banca Popolare Etica. Etica Sgr è un’azienda del settore risparmio specializzata in fondi sostenibili e responsabili, che amministra un patrimonio complessivo di circa 7,380 miliardi di euro.

La società si propone di rappresentare i valori della finanza etica nei mercati finanziari e di sensibilizzare il pubblico nei confronti degli investimenti socialmente responsabili e della responsabilità sociale d’impresa. La società aderisce ai Principles for Responsible Investment (PRI) delle Nazioni Unite ed ha assunto a partire dal 2015 un impegno sul tema del cambiamento climatico, aderendo al Montréal Carbon Pledge, attualmente conclusosi perché si sono raggiunti gli obietti stabiliti.

In particolare, la finanza etica sostiene progetti che riguardano: welfare; efficienza energetica e produzione di energia da fonti rinnovabili; gestione dei rifiuti, riciclo delle materie prime, produzioni eco-compatibili; produzione e commercializzazione di prodotti biologici; cooperazione internazionale allo sviluppo, microfinanza internazionale; animazione socio-culturale, educazione, cultura, sport; commercio equo e solidale; organizzazioni che gestiscono beni confiscati alla mafia; imprese sociali.

La finanza etica non finanzia, invece: produzione e commercializzazione di armi; progetti con evidente impatto negativo sull’ambiente; attività che violano i diritti umani, sfruttano il lavoro minorile o non rispettano i diritti dei lavoratori; allevamenti animali intensivi che non rispettano gli standard della certificazione biologica; attività che provocano esclusione/emarginazione; attività di ricerca scientifica che conducono su animali e soggetti deboli o non tutelati; mercificazione del sesso; gioco d’azzardo.

Anche di tutto questo si è occupata Claudia Fiaschi attraverso un impegno professionale pervasivo che ha investito tutta la sua vita. In ogni contesto in cui ha lavorato ha cercato di portare correttezza, trasparenza e attenzione agli altri, con la consapevolezza che non sempre si riesce a fare ciò che si vorrebbe e che, a volte, anche le più radicate convinzioni si rivelano, alla luce dei fatti, fallaci.

Ma questo non deve distogliere dall’obiettivo primario di mantenere alta la tensione verso il “giusto”, non privando mai il prossimo di attenzione e riconoscimento di valore. In questo senso credo che ciò che lei ha fatto sia un segnale importante di determinazione e resilienza e che da questo modo di fare si possa imparare ad affrontate la professione e, più in generale, il rapporto con le persone.

Per questo il suo insegnamento va ben aldilà del ruolo e del valore della Cooperazione e dell’identità del Terzo Settore. Quest’ultimo, a parer mio, è tanto efficace quando lavora in maniera trasparente e altrettanto dannoso quando rimesta nel torbido.

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Storie in pellicola / La matematica di Margherita

Premiato ai César Awards 2024 come Miglior rivelazione femminile alla protagonista Ella Rumpf, abbiamo visto, in anteprima, “Il teorema di Margherita”, di Anna Novion, in uscita al cinema il 28 marzo. La meraviglia della matematica.

Ambasciata di Francia, Piazza Farnese a Roma. La proiezione per la stampa avviene in una sala dedicata, ad essa si accede passando per il bellissimo e curato giardino. Già il luogo è un’emozione. Il film sarà altrettanto, l’emozione che può dare una passione come quella di Margherita per la matematica. Una sorpresa.  E’ “Il teorema di Margherita”, di Anna Novion, in uscita al cinema il 28 marzo.

Non è la storia di Margherita Hack, come si può pensare inizialmente, ma quella di una donna altrettanto decisa, ostinata, curiosa, intelligente e tenace, con la stessa passione travolgente, per la scienza e i numeri. E il mondo.

Il futuro di Margherita (Ella Rumpf), una brillante studentessa di matematica presso la Scuola Normale Superiore di Parigi, sembra essere già pianificato. Tutto procede.

È l’unica donna del suo corso, gira per i corridoi in pantofole e sta per terminare la tesi che dovrà esporre davanti ad una schiera di ricercatori.

Arrivato il grande giorno, un piccolo errore fa crollare tutte le sue certezze. Margherita decide quindi di mollare tutto e ricominciare da capo. Ad insaputa della madre (una brava Clotilde Courau).

Il professor Werner (Jean-Pierre Daroussin), che fino ad allora aveva seguito la sua giovane allieva con benevolenza, le impone di collaborare con un altro studente, il brillante e socievole Lucas (Julien Frison), mentre lei stringe la prima amicizia della sua vita con Noa, che vive per la danza, una bizzarra e festosa inquilina incontrata per caso.

Werner, poi, pare proprio quel padre che non c’è e non c’è mai stato e la ricerca continua di approvazione e di riconoscimento dei meriti. Il tutto in una sorta di vero e proprio viaggio iniziatico, con tanto di esilarante incontro con il tenebroso Yanis (Idir Azougli).

Delusa, Margherita, dopo aver mollato tutto, sopravvive nella giungla di sentimenti e situazioni mai vissute, vive alla giornata e si guadagna da vivere grazie alla sua abilità con il gioco del mah-jong, in una Parigi colorata, spensierata ma fatta anche di difficoltà a quotidiane. Pare che i più grandi giocatori di mah-jong siano dei matematici: servono capacità intellettuali straordinarie per vincere a questo gioco, il perfetto scenario per Margherita. E alla regista, piaceva, ancora una volta, l’idea di calarla in un altro ambiente dominato dagli uomini, all’interno del quale sarebbe sembrata un’estranea incapace di battere gli uomini. Nulla di più errato.

Dopo anni dedicati solo allo studio matto e disperatissimo, Margherita dovrà imparare a destreggiarsi anche nella vita di relazione, nella quale è davvero carente e impreparata, per cercare di riscattarsi e arrivare ad affrontare l’irrisolto teorema di Goldbach, considerato irrisolvibile, e forse a scoprire l’amore. Cervello imploso permettendo.

Il film è una meravigliosa corsa verso l’ignoto, un’immersione totale nel mondo della matematica e di quello di un’eroina matematica raccontato con meraviglia di dettagli e precisione grazie all’incontro della regista con Ariane Mézard, una delle poche e più grandi matematiche francesi. Donne meravigliose che si incrociano.

A permeare le scene, la convinzione che uno scienziato inventa e crea allo stesso modo di un artista. Come la regista stessa ha detto, “i matematici potrebbero passare una vita intera a cercare di risolvere un problema con alcuna certezza di riuscirci. Anche i registi rischiano di veder crollare i loro progetti da un momento all’altro. Non è diverso da un atto di fede. Essere un matematico è come unirsi ad un ordine religioso. Anche la Normale sembra una sorta di monastero quando hanno dei seminari… Nel film Margherita ha un rapporto davvero puro con la matematica, una forma di devozione”.

“Oltre che una donna forte, dalle elevate doti intellettuali”, conclude, “Margherita è anche un esempio: una combattente feroce e resiliente in un mondo dominato dagli uomini. È davvero difficile ritagliarsi la propria nicchia quando ti viene costantemente ricordato il tuo genere di appartenenza; questa pressione dei suoi colleghi la spinge sempre ad essere migliore”. Meravigliosa ispirazione.

Il teorema di Margherita, di Anna Novion, con Ella Rumpf, Clotilde Courau, Jean-Pierre Darroussin, Julien Frison, Sonia Bonny, Francia, Svizzera, 2023, 112 minuti

Foto cortesia Storyfinders / Echogroup

“Assassinio nella cattedrale” al teatro Abbado di Ferrara riflette sul difficile rapporto fra potere temporale e spirituale

“Assassinio nella cattedrale” al teatro Abbado di Ferrara riflette sul difficile rapporto fra potere temporale e spirituale

Ambientato originariamente in una cattedrale, il dramma del poeta e drammaturgo Thomas Stearns Eliot è approdato a Ferrara sul palco del Teatro comunale Claudio Abbado, sede di cattedra non religiosa ma laica. L’opera teatrale di  Eliot “Assassinio nella cattedrale” è stata infatti rappresentata per la prima volta nel 1935, quasi 90 anni fa. Per il debutto del dramma in versi che lo scrittore statunitense, naturalizzato britannico, aveva composto in età matura, venne scelto il luogo più prestigioso, solenne e, in fondo, appropriato al contenuto dell’opera: la stessa cattedrale di Canterbury in cui erano ambientati i fatti della storia.

Con un grande salto di tempo e di spazio, da venerdì 8 a domenica 10 marzo 2024, abbiamo avuto la possibilità di assistere allo spettacolo nella nostra città, portato in scena al Teatro Comunale di Ferrara da Marianella Bargilli (direttrice artistica della rassegna Autogestito del Teatro Quirino di Roma) e Moni Ovadia (direttore generale del “Claudio Abbado”), insieme a tutta la compagnia diretta dal regista Guglielmo Ferro.

Una scena di “Assassinio nella cattedrale di T.S.Eliot in scena al teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara

Il testo, ambientato nel 1170, racconta degli ultimi giorni dell’arcivescovo Thomas Becket, di ritorno a Canterbury dal suo esilio in Francia durato sette anni. Ne ritrae infine l’uccisione, perpetrata da emissari reali per punire la sua resistenza alla politica di Enrico II.

Nel 1935, anno di debutto di “Murder in the cathedral”, sembrava alludere all’ascesa e al pericolo del nazismo. La versione contemporanea dell’allestimento è apparsa, invece, come una testimonianza sul difficile rapporto fra potere temporale e potere spirituale, ragione e fede, costrizione e libertà. Con l’orrore delle guerre che si staglia all’orizzonte, sempre in agguato sulla comunità umana.

Non è del resto una caratteristica di alcune, preziose, opere letterarie quella di continuare a far riflettere nonostante il tempo trascorso?

Scena di “Assassinio nella cattedrale” di T.S.Eliot con Moni Ovadia in scena al Teatro comunale di Ferrara

Nella cornice del Ridotto del Teatro, l’incontro pubblico con la compagnia ha offerto l’occasione per esplorare una delle figure più interessanti dell’opera: il quarto tentatore dell’arcivescovo Becket.

Dopo il suo ritorno a Canterbury, durante il primo atto, Thomas riceve la visita di quattro personaggi che lo mettono alla prova.

I primi tre, in cambio della sua sottomissione, lo lusingano con offerte materiali: sicurezza fisica, ricchezza e coalizioni politiche.

Ma è il quarto a essere il più subdolo, perché lo seduce con la prospettiva della gloria del martirio. “Chi siete voi, che mi tentate con i miei stessi desideri?”, gli risponde Becket.

 

Se nella versione originale quest’ultimo tentatore non si differenziava nell’aspetto fisico dagli altri tre che lo avevano preceduto, in questa nuova interpretazione – ha spiegato Marianella Bargilli – si è deciso di farlo raccontare da una donna e di coprirne il volto con un ampio cappuccio, rendendo la recitazione più complessa.

“Da un punto di vista attoriale è un lavoro molto particolare. È come lavorare con una maschera, perché non mi si vede e so che non mi si vede. È come se recitassi con te stessa”, ha detto Bargilli.

“C’è talmente tanta materia di parole e di forza del pensiero in questo spettacolo”, ha concluso l’attrice, “che l’idea di lavorarci ogni sera è fondamentale per l’attore”.

La tournée di “Assassinio nella cattedrale”, che negli ultimi due mesi ha visitato i teatri di quattordici città, continuerà ad Agrigento sabato 23 marzo (21:00) e domenica 24 marzo (17:30).

Anche la programmazione del Comunale “Claudio Abbado” non si ferma: dal 12 al 14 aprile in scena “La buona novella” con Neri Marcorè.

Tra la ricca offerta del teatro cittadino, segnaliamo ancora “Le città invisibili” (19 aprile) a cura del Collettivo Istantanea e “Le memorie di Ivan Karamazov” (dal 10 al 12 maggio) con Umberto Orsini.

Per il calendario completo della programmazione teatrale, si può consultare il sito: https://www.teatrocomunaleferrara.it/

Parole a Capo /
Speciale Giornata Mondiale della Poesia/2

Non c’è Vascello che eguagli un Libro | per portarci in Terre lontane | né Corsieri che eguaglino una Pagina | di scalpitante Poesia – | è un Viaggio che anche il più povero può fare | senza paura di Pedaggio – | tanto frugale è il Carro | che porta l’Anima dell’Uomo.
(Emily Dickinson)

 

IL VIALE DEI TIGLI

Prende vita dalle foglie
dal profumo del viale di tigli
e dall’ombra sulle ortensie viola
la mia infanzia

Di quel tempo mi sfuggono
i limiti e i contorni
vedo mia madre
e dietro di lei i fiori
e dietro i fiori niente
tra polvere e odore di refettorio
sento l’eco dei miei passi

Dell’amore
ricordo l’infinito passato
e se i fiori del mio giardino
ignorano l’inverno
ai miei sogni chiedo
di indovinare il tempo

Nell’oscurità
scruto un orizzonte nuovo
un niente mai aperto

(Rita Bonetti)

*

L’aria fendeva
Come la lama dei pattini.
Il ghiaccio.
(Fabio Vallieri)
*
LA RAGAZZA CHE SORRIDEVA SEMPRE
Mentire per me è come fare un viaggio.
Non mi importa di farlo,
devo solo mischiare le realtà, gli uomini e le storie.
Mi faccio abusare emotivamente
per appartenere anche solo per un attimo
a qualcosa o qualcuno.
Mento continuamente solo per dimenticarmi di me.
Mi dispiace. Dove sei. Dove siete. Dove sono.
Vuoto.
Per la prima volta dopo un’eternità
mi sono svegliata pensando che devo trovare uno scopo.
Ma di nuovo sto già dormendo.
Mi ridesto e stanno parlando
ma non di me perché non mi riconosco.
Non ricordo.
Scrivo.
Mi piace scrivere.
Arte!?!! Non saprei.
Vuoto.
Desideravo tanto avere dei bambini.
Ho provato ma il mio ventre li ha espulsi.
Il nulla.
Bevo per non esistere.
Non sono capace di amare, non amo, non mi amo.
Odio quello che sono diventata e ho paura di me stessa.
Continuano a parlare e mi vogliono,
al buio, in silenzio, di nascosto.
Non sono neanche un oggetto da esibire.
Sono il meno di niente.
Un oltraggio alla mia intelligenza
tutto quel parlare del nulla.
Corpi senza cervello, bocche che vomitano suoni stonati.
Dio come sono patetica.
Ma io non credo in dio.
Sono sola ma non ho paura di questo.
Ho paura degli incontri
che mi fanno pesare questa parola in mezzo all’affollamento.
Questo treno vuoto che è la mia vita
va troppo veloce per fermarsi alle troppe fermate.
Non sarò legata a nessuno per sempre
perché non ho una storia da condividere.
E allora sorrido. Sorrido e rido.
Sempre.
(Monica Gori)
*

IL GRANDE LECCIO

Il grande leccio cadendo non ha emesso alcun gemito
solo il tonfo sordo del tronco tra le felci
e qualche lacrima di linfa a profumare la scure
eppure è ancora così verde di giovani foglie
e le radici, profonde, sono ben salde al suolo
resta a memoria il moncone del fusto reciso:
è un grido disperato che non emette suono,
ma a sera nel camino i rami parlottano tra loro
e una canzone triste si leva dalla fiamma
ha la forma di una silfide che danza
avvolta da scintille e geme con quella voce antica
a cui più nessuno crede a parte poeti e boscaioli.

(Valentina Meloni)
*
FIORI NEL DESERTO
Ed ora cosa accade
tra le rocce…un fiore,
un ciuffo d’erba,
nonostante il caldo,
annunciano la vita:
la notte li ha nutriti.
Deserto verticale
appare intorno, ci
sembra scomposto, ma
nasconde la speranza.
Il divino si manifesta qui con
la parola che salva, con ordine…
Da quell’anfratto ogni
azione diviene per noi preghiera.
(Cecilia Bolzani)
*
TU, COMPUTER
dall’ala, il vento
dal piede, la terra
dalla ruota, l’abbraccio
ma tu computer, che ne sai
del vento, della terra
dimmi
che sai tu
del ricordo che arde
della perla nel sogno schiusa
del manto nero di stasera
di un giorno buffo
che afferra la gamba nuda
che ne sai
(Claudia Fofi)
*
Si tolse il cappello,
tenendolo in mano
si avvicinò lentamente
alla finestra.
Con lo stupore intatto
di un bambino vide
i piccoli fiocchi di neve
coprire i tetti
le strade
cancellando ogni rumore.
Amava
quel silenzio
tregua clemente
per le umane sorti.
Un ricordo sfiorò
il suo cuore.
Non conosce dolcezza
chi almeno una volta
non abbia puntato il naso
verso l’alto
e assaporato
a bocca aperta
un fiocco di neve.
(Emilio Napolitano)
*
AMORE E POESIA

Dove si cela la crudeltà dell’uomo?
Nella sua mente, nel cuore o nelle mani?
Nel passato oscuro d’incomprensione
o nell’incertezza di un domani?

 

Dove si nasconde parere e la parola?
Perché preme ad uscire allo scoperto,
perché la sua lama vuol ferire gola
di chi di morte ha già sofferto?

 

E mentre malevolenza oscura cammino
una luce rischiara la nostra via:

 

cos’è che ci può cambiare destino
se non Amore e Poesia ?

(Natasa Butinar)
*
RELIQUIA
Tra le mani un fiore secco
inumidito dal pianto
reliquia di un rischio
che assomigliava all’amore
il tempo sfugge alla gioia
ma è immobile al dolore
sui margini del tramonto
il pescatore a reti vuote
che sia illusione quell’attimo
ora gonfio di nostalgia
che sia vertigine l’amore
nell’illusione nella follia
(Maria Mancino)
*
SE TU, RINCASANDO ALLA SERA

 

Se tu, rincasando alla sera, quando le cicale
sono al culmine dello squarciare l’aria – con
l’acuto cantare, che è delle chimere d’estate –

 

e tu ne trovassi, della stagionale muta, le spoglie
di una di loro, sull’uscio di casa:

 

raccoglile!

 

Poi, se puoi, posale sul bel ripiano di legno
grezzo, coi panni bianchi che sanno di pulito:
per quando – giunta per intero alla sua fine –

 

sarà stanca di indossare la sua veste ingannevole;
quella che fu, irrimediabilmente connaturata,
al suo incurante mutare.

(Daniela Stasi)
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Parole a Capo /
Speciale Giornata Mondiale della Poesia/1

In occasione del 21 marzo, Giornata Mondiale della Poesia, “Parole a Capo” si fa in due. Oggi e domani pubblichiamo tante poesie che le amiche e gli amici ci hanno mandato e che ringrazio di cuore. Un caleidoscopio di parole, sensazioni, emozioni che mettono in risalto le diversità espressive dell’universo poetico. Buona lettura.
*
Lentamente tutto si smaglia — il viso
e il collo e il dorso delle mani prima
del resto. I capelli cambiano tono,
la voce cambia — spesso si dimentica.
Ho trentotto rivoluzioni intorno
al dito, quattro rughe sulla fronte
limpide come mai, qualche pietruzza
da levarmi dalla scarpa — comunque
niente di grave. Viste dal futuro
queste noie prenderanno un’altra luce
insospettabile. La mia risata
sarà un tempo circolare, più soffice.
(Lara Pagani)
*
PRIMAVERA
Ritorna
la dolcezza calante,
quando non si inasprisce
nel sale sui muri.
Ritorna
l’alba
promessa del giorno.
Nel suono di una notte scontrosa
resiste
l’inverno.
(Maria Angela Malacarne)
*
Di te
adoro il guado tra le mie parole e il farlo in silenzio
amo il tuo essere faro nella tempesta dell’animo o nella bonaccia dello sguardo .
Adoro l’ammirare una betulla o un vecchio faggio assieme a te
sarò strambo lo so
ma quando vediamo le volpi uscire dalle macchie
a guardare l’alba assieme a noi
la tua meraviglia è una lampada sul mondo .
(Luca Ispani)
*

I giorni paiono settimane
le settimane giorni
gli anni, minuti scanditi
da passi veloci.
Vorrei rallentare
il tempo
guardare fuori dal finestrino
respirare.
L’odore del sale
il profumo del sole
un bimbo che gioca
con un pallone.
Urla sguaiate
schiamazzi felici
riecheggiano gravi
da un passo carraio.
Rallentiamo il passo
freniamo la corsa
apriamo le persiane
al rosso dell’alba.

Fior di mimosa
per la mia sposa
un mondo pulito
per le mie figlie.
Strapperei la luna
da un cielo di stelle
per far della terra
un prato senza guerra.
Il padre padrone
lo sterco presente
il retaggio antico
dello schifo passato.
A voi donne di ieri
di oggi e domani
luce del tempo
speranze e futuro.
Vorrei poter dire
di un mondo più puro
di sogni reali
in un mondo di uguali.
Son poche parole
di rime contrite
ma il vento di un saggio
vorrei solo avere, il vostro coraggio.

(Cristiano Mazzoni)

*

ALLA VITA
A te, che mi sei giunta,
e non sapevo,
inconscia dell’amore
che mi aveva generato
e ho ricevuto in dono.
A te, per le albe e i tramonti
per i giorni di sole e per la pioggia
per le erbe dei campi, per i fiori
per il mare quand’è calmo
o in tempesta, per le barche
arenate sulla spiaggia,
per la casa ed il fuoco
per le parole magia dell’esistenza.
Per i momenti bui, per i giorni d’amore,
per la passione senso di ogni cosa
per il lavoro e la calma assoluta
per l’amicizia che ha nutrito i giorni.
Per la gioia, il dolore, la sconfitta,
la tenacia, l’eterna voglia di ricominciare.
A te, Vita che fuggi, che sbiadisci
a cui mi afferro ancora, ancora chiedo
l’ultima forza per lasciarti andare.
(Anna Fresu)
*
a patti con quel se, mi insegni.
A distrarsi non c’è modo
Se quel solido mancarsi
non si strugge di difetti
nella grazia e nella fuga
Alimentarsi, essere nodo
Razionare sopra specchi
Quella ruga sulla faccia
Inseguire il poco miele
Nei recessi più cortesi,
e mai perdere la traccia
dei tuoi passi, nei miei sogni.
(Daniela Favretti)
*

FERRARA GIUDEA

Di chi è il nome
seguire il gioco
del silenzio
tra rimbrotti e
serpentine
ora di chi è il
nome
sul rosso vinoso
sangue
bianca la pietra.

(Giorgio Bolla)

 

*

LA POESIA

Sguardo sul mondo
e carne sensibile
appena rivestita
di parole come ponti
gettati fuori
disvelando memorie
come perle nascoste
e note da cantare
forte, o sommesse
lame delicate
a sbucciare l’anima.

(Anna Rita Boccafogli)

*

IL NIDO

L’eredità degli alberi
come resti di memoria
nel cavo caldo o abbandonato
risuona.
Architetture distopiche
tra becchi saliva e canti.
Un nido
io bramo
in bilico
fra desideri di cura
e l’inquietudine che
alle ali appartiene.
Il vuoto di paglia e rami
rimbomba nell’eco silvestre.
Ormai schiuse le uova
non più di pulcino
le mie forme.
Ora
paladina forse
nel mondo
spogliata nel candore
dalle mie piume ovattate.
Artefice arredo
stanze nel tempo
e ne riconosco il valore
e la contraddizione:
regali sono
di libertà e prigionia.
Il nido resiste
all’impeto del vento e di piogge improvvise
E io mi chiedo
come faccia
a non scivolare sulla solitudine della terra.
L’immensita’ fragile di steli e fili d’erba secchi
questa la meraviglia che mi circonda.

(Lidia Calzolari)

 

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Parole e figure / Albi per papà

Oggi è la festa dei papà, due sillabe cariche di tanti significati. Oggi dedichiamo tre bellissimi albi a tutti i papà, vicini e lontani. A quelli che ci sono e a quelli che non ci sono più. Perché questi ultimi sono semplicemente altrove.

Il primo albo di oggi è il delicatissimo “Papà”, di Hélène Delforge e Quentin Gréban, edito da Terre di Mezzo. Un libro di grande formato, con tavole spettacolari e testi poetici.

Dopo “Mamma” e “Innamorati”, nel nuovo albo della coppia autoriale troviamo un vivido ritratto dei “nuovi padri”, figure in grande evoluzione, sempre più coinvolte nel ruolo di partner e nella crescita affettiva dei loro figli. L’orgoglio, la paura di sbagliare, la dolcezza che si osa rivelare e che non si sapeva di poter avere, l’amore che si mostra in ogni istante. Ci sono tanti papà, tutti diversi, ma con lo stesso desiderio di felicità per il proprio figlio; perché si può essere padri in tanti modi. Papà non si nasce, ma lo si diventa?

“Ho avuto un papà molto timido, emotivo, sensibile, pieno di delicatezza e nostalgia”, dice Helène in una toccante intervista, “un uomo ‘ordinario’ ma straordinario, un uomo fragile che è stato molto ferito dalla vita… Mio papà era capace di piangere di nascosto alla laurea ma non di dirti apertamente ‘Ti voglio bene’. Era sempre lì quando avevo bisogno di lui, ma non si è mai imposto. Ho molti rimpianti per le cose che non abbiamo fatto insieme, per le cose che non gli ho detto. Mi ha lasciato…. il suo naso, il suo amore per i libri, il suo umorismo, il suo amore per il cibo, il timore di esser di disturbo, e tanti dubbi”.

Padri, coloro che spesso non sanno dire, non sanno esprimere. Uomini a cui avremmo voluto dire tante cose, cui dobbiamo dire cose adesso prima di non averne il tempo.

Padri severi, dolci, comprensivi, ispidi, coraggiosi, duri, teneri. I nostri eroi senza cappa né spada. Amici che sanno giocare sulla spiaggia, fare castelli in aria, suonare il pianoforte, leggere libri a voce alta, correre incontro ed abbracciare. Baciare.

Un libro perfetto per un dono nelle occasioni speciali.

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Hélène Delforge, Quentin Gréban, Papà, Terre di mezzo, Milano, 2023, 72 p.

Altro albo affascinante e delicato, che illustra il tema del rapporto padre-figlia, è “Mio papà supertuttofare”, del francese Barroux, edizioni Clichy.

“Nella sua tana da agente segreto, papà nasconde un sacco di gadget con nomi impronunciabili e divertenti. Con i suoi ‘strumenti’ papà fa miracoli. Può aggiustare tutto: incolla, salda e rattoppa… e tutto questo grazie alla sua simpatica assistente: sua figlia! Sono la sola a conoscere il segreto di mio padre… Ogni fine settimana, infatti, papà fila in un posticino segreto giù in cantina e si trasforma in un tuttofare. Si toglie la cravatta e indossa la sua divisa da agente segreto: una vecchia maglietta bucata e un paio di pantaloni con le toppe. È super forte. Ma quando ha bisogno di aiuto, mi chiama in soccorso. Sono l’unica che può aiutarlo. Insieme aggiustiamo, rattoppiamo, frughiamo e inventiamo nuove cose super belle, mi piace un sacco! E mio padre, lo adoro!”.

Nel capanno segreto in fondo al giardino, che ricorda una tana di pirati, si cela un mondo colorato di scatole di viti e chiodi e di oggetti strani che tagliano e pizzicano. È il regno di un papà che nel week end si trasforma, da impiegato a tuttofare. Con l’aiuto della sua assistente il papà ripara cose rotte ma ne costruisce anche tante altre. Difficile capire cosa però, fino all’ultima pagina. Surprise, humour, suspense e mistero. Che divertimento!

Barroux, Mio papà supertuttofare, Edizioni Clichy, Firenze, 2020, 40 p.

“Ancora, papà”, di Mariapaola Pesce e Irene Penazzi, edito da Terre di Mezzo è, invece, una bella storia in rima per raccontare il proprio papà nel corso del tempo, un papà che è sempre lì quando giochi e quando cresci, che ti accompagna nelle vittorie e nelle sconfitte e che non smette di esserci quando cresci davvero e vai a vivere da sola e cominci a fare le scelte importanti della vita.

Un papà che è sempre al tuo fianco, attraverso tutti i momenti della vita: quelli quotidiani, più normali (giocare, lavarsi i denti, farsi le coccole nel lettone) e quelli più significativi (il primo amore, la prima delusione, il primo trasloco, la nascita di un bambino…).

Finché, con l’età, i ruoli si scambiano, ed è lui ad avere bisogno di te. Perché i ruoli cambiano, ahimè si invertono. Il circolo ricomincia. E allora tocca a noi figli esserci. Così come ci sono stati loro. Allora. Ora. Sempre. Un libro-dedica, capace di arrivare dritto al cuore di ogni figlio e di ogni papà.

Mariapaola Pesce e Irene Penazzi, Ancora, papà, Milano, Terre di Mezzo, 2020, 40 p.

Foto in evidenza tratta da Hélène Delforge, Quentin Gréban, Papà

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Alla Rotonda Foschini Reading di poesia (Corso Martiri, Ferrara)
Domenica 24 marzo dalle 10 alle 12,30

Il 24 marzo di questo 2024, coincide con la Domenica delle Palme ed è celebrata dai cattolici, dagli ortodossi e dai protestanti. Pochi giorni prima (il 21 è la giornata mondiale dedicata alla poesia). Come Associazione Culturale “Ultimo Rosso” abbiamo scelto questa vicinanza che unisca poesia e ulivo come possibili segni di pace e di speranza nel futuro. Una speranza contro la violenza, contro tutte le guerre vicine a noi ma anche dentro le comunità e le persone. Per un futuro che diventi di nuovo per tutti parte dei nostri progetti di vita.

 

Per noi, la poesia è la capacità, la voglia di rompere le barriere dell’indifferenza, oltre e attraverso un’instancabile speranza. “In direzione ostinata e contraria” come cantava Fabrizio De André. Vi aspettiamo in tanti. Noi ci saremo. In occasione della Giornata mondiale della poesia, la rubrica “Parole a Capo” di  Periscopio si farà in due: mercoledì 20 e giovedì 21 marzo usciranno due speciali con numerose liriche di poete e poeti che hanno dato corpo ad una mia piccola idea. Li ringrazio di cuore!