Bas Rompa e Kaatje Vermeire ci portano nel mondo dell’accumulo delle cose, fatto spesso di molta solitudine. Con fantasia e anche un pizzico di ironia. “Cosa su cosa”, di Kite edizioni, è appena uscito in libreria
Un uomo solitario, Filippo l’impila-cose, passa il suo tempo accatastando oggetti in pile ordinate nel suo immenso giardino, all’estremo sud del paese. Chi vive nel villaggio gli lascia volentieri diverse vecchie cose ormai in disuso. Tegole, ceste, cassette e scatole, persino valigie. Tutto viene lasciato in un terribile disordine intorno alla sua casa. Il suo cane sempre accanto, mentre lui impila oggetti e impila ancora.
Ama soprattutto quando i vicini gli regalano vecchie casette per gli uccellini: che meraviglia metterle una sull’altra e costruire una sorta di condominio, così tutti quei preziosi e trillanti animaletti possono vivere, serenamente, lì con lui, graditi ospiti del suo giardino. Arrivano dai boschi, dai prati, dalle montagne e dal cielo. Oltre le nuvole non trova risposte.
Il malinconico Filippo non ha mai avuto la curiosità di viaggiare e vive tra le sue cose e la sua routine, fino al giorno in cui una fotografia di una bambina trovata in una consumata valigia lasciata lì, fra le cose accatastate, non gli dà un’ispirazione che decide di seguire.
Cadendo sull’erba, quella valigia si è aperta, ne escono mazzetti di foto, lettere, cartoline e francobolli. Ricordo quando camminavo lungo le rive della Senna, a Parigi, e dai bouquinistes trovavo fotografie, lettere e cartoline. La fantasia volava subito lontano, a immaginare storie e vite, avventure lontane e romantiche, il desiderio di scappare.
Così Filippo mi assomiglia nella ricerca di una storia fra quelle pile di libri e giornali, assomiglia a tutti quei sognatori che in una fotografia ritrovano la loro libertà.
Gli parevano immagini insignificanti, gente comune e sconosciuta, un poco di noia, ma, tra esse, una foto di una bambina seduta su un’amaca tesa tra due ulivi, che pare volare verso il cielo, libera, tra i rami. Dietro la foto una nota: un paese lontano, ma davvero meraviglioso! Qui sono al settimo cielo. Che sogno…
Al settimo cielo. Come si fa ad esserlo? Come si fa ad arrivare al cielo? Si domanda Filippo in pigiama, sotto le coperte. Da dove iniziare? Forse mettendo tutte le cose una sull’altra, sedie su sedie, tavoli su armadi, libri su libri, in giardino, una pila altissima, dove la solida base è la parte più importante. L’inizio è ciò che conta.
Ma serve poi davvero accumulare tutti quegli oggetti? Per cosa, per chi? Per chi fa tutto questo? Dove andare e quando? A sud? Se arriva l’ispirazione, però, questa va seguita…
Bas Rompa, Cosa su cosa, illustrato da Kaatje Vermeire, Kite edizioni, Padova, novembre 2023, 32 p.
Bas Rompa, classe 1957, è uno scrittore e poeta olandese. Ha pubblicato le prime poesie all’inizio degli anni ’80 e, poi, quasi 30 libri di poesie, racconti per bambini e libri illustrati.
Kaatje Vermeire nasce nel 1981 a Gand dove si laurea all’Accademia reale di belle arti. Nel 2008 esce il suo primo albo illustrato, “La signora e il bambino”, con cui vince il premio Boekenpluim. Il suo secondo albo, “Le cose della vita” fa parte dei 50 migliori libri illustrati del 2013. Coniuga collage, incisione, pittura, disegno e digitale. Sito web
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara
In questi giorni il significato della parola “ patriarcato” è al centro del dibattito nei media, innescando risposte che vanno dallo slogan femminista “lo stupratore non è malato è un figlio sano del patriarcato”, alla foto della Meloni con famiglia al femminile sul Giornale con il titolo “Se è patriarcato questo!”.
Mi sento in dovere di fare alcune specificazioni che spero siano di chiarimento al dibattito “Italia paese patriarcale, si o no?” . Come ha notato Massimo Cacciari in un suo intervento. la famiglia patriarcale è un’istituzione storica che non esiste più. Con l’accesso delle donne al mondo del lavoro, la rivoluzione contracettiva, l’istruzione femminile, il nuovo diritto di famiglia del 1975 (frutto delle battaglie femministe) si sancisce la fine della famiglia patriarcale con il maschio padre padrone proprietario di moglie e figli.
Purtroppo la fine del patriarcato non ha coinciso con la fine delmaschilismo, che invece è atteggiamento in continuo aumento anche fra i giovani. Anzi, proprio la fine del patriarcato, rappresentando una perdita secca di privilegi storici per i maschi, ha messo in moto una risposta maschile violenta alla conquistata libertà femminile, continuando a perpetuare un ruolo di dominio ormai superato dalla storia.
È questo il motivo per cui i Paesi del Nord Europa, pur avendo strutture familiari e sociali non patriarcali, hanno un numero maggiore di femminicidi dei nostri.
La fine del patriarcato non ha coinciso cioè con un mutamento culturale e esistenziale degli uomini. La fine di una relazione per volontà’ della donna è percepita – qui come in Norvegia – come una ferita narcisistica, spesso intollerabile da parte maschile.
La donna libera, che lascia , che decide, che fa il suo percorso va in qualche modo punita. Nel migliore dei casi con la sanzione sociale, l’isolamento, nel peggiore con l’eliminazione fisica.
Le riposte politiche della destra al “ritardo mentale maschile” (lo psichiatra Crepet parla di “padri rincoglioniti” e come insegnante confermo) sono scandalose. Sfondare il tetto di cristallo alleandosi all’ideologia neoliberista maschile non è opzione condivisa del femminismo, che ha sempre combattuto il potere, personale e politico, e ha scelto la strada della liberazione, non dell’emancipazione.
In altre parole, in una società capitalista basata sullo sfruttamento:non sono femminista perché raggiungo posizioni di potere al fianco degli sfruttatori, così come non sono femminista scimmiottando tutti gli stereotipi erotici sulla donna.
Il femminismonasce come movimento politico a fianco di studenti e operai enon può ignorare la deriva sociale neoliberista che colpisce prima di tutto noi, espellendoci dal mondo del lavoro, sottopagandoci, e non dando alcun aiuto alle donne sole con figli, istigando al contrario alla coppia per affrontare il crescente costo della vita.
IlForum Ferrara Parecipata, Rete composta da numerose Associazioni e cittadini che, dopo l’impegno per contrastare il progetto Fe.ris., ha esteso la sua riflessione e iniziativa sui temi riguardanti la visione della città, organizza mercoledì 29 novembre alle ore 17,30 (presso la Sala Convitto della Factory Grisù di via Poledrelli) un incontro pubblico sul tema :“ Tra un’elezione e l’altra: in che modo i cittadini possono partecipare davvero a costruire il futuro di Ferrara e delle sue frazioni”.
L’incontro, introdotto da Lucia Ghiglione, del Forum Ferrara Partecipata e che vedrà i contributi di Rodolfo Lewanski, professore Alma Mater, Scienze Politiche, già Autorità per la Partecipazione della Regione Toscana, Alessandra Marin, professoressa di urbanistica Università di Ferrara Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Prevenzione e Massimo Rossi, ex Sindaco di Grottammare 0 Ascoli Piceno ), vuole essere un’occasione per approfondire i temi legati alla democrazia partecipativa, su come essa possa strutturarsi in un vero e proprio sistema che consenta ai cittadini di poter concorrere realmente alle decisioni che l’Amministrazione pubblica intende assumere.
L’incontro è rivolto a tutta la cittadinanza e anche alle forze politiche e sociali. In particolare, chiediamo alle forze politiche, in un momento vicino alla prossima scadenza elettorale amministrativa, di partecipare ed intervenire a questa discussione, misurandosi con le proposte che in proposito Forum Ferrara Partecipata ha elaborato in questi ultimi mesi.
Alleghiamo pertanto la parte del documento prodotto dal Forum sul tema della democrazia partecipativa, preannunciandovi che nei prossimi mesi promuoveremo analoghi incontri sui temi della conversione ecologica e sui beni comuni, sui quali abbiamo costruito altrettante elaborazioni e proposte.
Coordinamento Forum Ferrara Partecipata
p. contatti Corrado Oddi 3429218650 – Francesca Cigala 3473118833
ALLEGATO
LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA COME BASE PER COSTRUIRE LA CITTA’ DEL FUTURO
Partiamo da qui con le nostre riflessioni e proposte perché, da una parte, siamo convinti che i meccanismi classici della democrazia rappresntativa non riescono più a coinvolgere fette consistenti di cittadini e, dall’altra, abbiamo assistito con l’attuale Amministrazione – ma questo ha riguardato anche le precedenti Amministrazioni di centro-sinistra- al venir meno della volontà di coinvolgimento nelle scelte e nell’ascolto dei cittadini e anche ad una mancanza forte di trasparenza nelle politiche amministrative che venivano compiute. A noi sembra sia venuto il momento di produrre una svolta e che il dare voce e possibilità di influire nelle scelte ai cittadini può costituire il passaggio fondamentale per disegnare il futuro della città, la sua affermazione come luogo e spazio di una convivenza che sappia affermare i valori della libera espressione e realizzazione delle persone, della giustizia sociale, della sostenibilità ambientale, dell’inclusione e della solidarietà. In questo senso, parliamo del ruolo fondamentale della democrazia partecipativa anche per Ferrara.
E’ chiaro che parlare di democrazia partrecipativa non significa tanto parlare di come migliorare un sistema chiuso di gestione amministrativa, ma soprattutto di come dare impulso ad un processo aperto di sviluppo in cui le attività di tutti i soggetti coinvolti convergano al conseguimento di risultati concreti. Attività che possono avvalersi di diversi strumenti ed articolarsi in diverse azioni, mirate a rendere sempre più riconosciuti presenza e fabbisogni reali della cittadinanza nelle scelte e nelle decisioni amministrative ad integrazione e supporto del sistema di rappresentanza politica istituzionalmente costituito.
E’ necessario, ovviamente, iniziare da una ricognizione sulle forme partecipative attualmente esistenti nel Comune di Ferrara (Scheda 1.1 LE FORME PARTECIPATIVE ATTUALMENTE ESISTENTI NEL COMUNE DI FERRARA), per poi passare a come esse vadano modificate, rendendo più forte il ruolo dei promotori degli strumenti partecipativi e più fruibili gli stessi, a partire dal referendum (Scheda 1.2 LE POSSIBILI MODIFICHE RISPETTO AGLI ATTUALI STRUMENTI DI PARTECIPAZIONE).
Si tratta, soprattutto, di individuare un sistema sufficientemente strutturato per dar vita ad una reale partecipazione della cittadinanza, prevedendo forme di discussione, diritto di proposta e possibilità di decisione da parte dei cittadini abitanti delle varie articolazioni territoriali (democrazia partecipativa “orizzontale”), ponendo al centro il ruolo delle Assemblee dei delegati territoriali e l’inizio di un percorso che guarda al Bilancio Partecipativo (Scheda 1.3 SULLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA ORIZZONTALE).
Allo stesso modo, occorre valorizzare la partecipazione da parte di tutti gli abitanti su temi considerati fondamentali nel disegnare le scelte di fondo che riguardano la città ( democrazia partecipativa “verticale”), partendo dall’esperienza delle Assemblee tematiche dei cittadini (Scheda 1.4 SULLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVAVERTICALE). Infine, è importante anche utilizzare le potenzialità offerte dalle strumentazioni informatiche, costruendo una vera e peopria piattaforma digitale pubblica di reale partecipazione dal basso dei cittadini (Scheda 1.5 SULLA WEB-DEMOCRACY).
SCHEDA 1.1 : LE FORME PARTECIPATIVE ATTUALMENTE ESISTENTI NEL COMUNE DI FERRARA
Il regolamento e lo Statuto comunale prevedono come istituti di partecipazione popolare: istanze, petizioni, proposte di deliberazione consiliare, consultazioni popolari e referendum popolari. Le istanze, sottoscritte senza obbligo di autenticazione anche dal singolo cittadino, sono richieste che i cittadini possono rivolgere agli organi decisionali dell’Amministrazione comunale, per sollecitare l’intervento in una situazione concreta, specifica e particolare, di pubblico interesse, devono essere indirizzate al Sindaco. Le petizioni sono intese a sollecitare l’intervento dell’Amministrazione comunale per la migliore tutela di interessi collettivi o diffusi in materie determinate o per questioni specifiche e particolari . Devono essere sottoscritte da almeno 100 cittadini, indirizzate al Sindaco e depositate a cura dei promotori, e sono trattate dalla Giunta o dal Consiglio Comunale. Le proposte di deliberazione consiliare sono dirette a promuovere interventi dell’Amministrazione comunale in materia di interessi diffusi o collettivi di competenza comunale. Non sono ammesse proposte che che hanno per oggetto gli stessi oggetti esclusi dalla possibile richiesta di referendum, ed in particolare quelle incidano sugli strumenti urbanistici, sui relativi piani di attuazione e loro variazioni. Richiedono la raccolta di minimo 500 firme e devono essere formalizzate (in forma di proposta deliberativa) e depositate a cura dei promotori. Se la proposta ha per oggetto l’adozione di un provvedimento di natura regolamentare, deve essere redatta in articoli; se comporta nuove o maggiori spese a carico del bilancio comunale, devono essere indicati l’importo e i mezzi per farvi fronte. I referendum popolari possono essere richiesti da almeno il 3% degli iscritti nelle liste elettorali del Comune (108.509 nel 2019). Con il referendum consultivo tutti gli elettori del Comune sono chiamati a pronunciarsi in merito a piani, programmi, interventi, progetti ed ogni altra iniziativa riguardante materie di esclusiva competenza dell’ente locale, per consentire agli organi comunali di assumere le determinazioni di competenza dopo aver verificato gli orientamenti della comunità. Per il referendum consultivo non è previsto alcun quorum di partecipazione. Il referendum abrogativo è ammesso per l’abrogazione totale o parziale di delibere di Consiglio e di Giunta del Comune di interesse generale della popolazione. Non possono formare oggetto di referendum: a) la revisione dello Statuto comunale e degli statuti delle Aziende Speciali; b) il regolamento del Consiglio comunale e del decentramento; c) gli atti di mero adempimento di leggi e regolamenti nazionali e regionali e di norme statutarie; d) l’ordinamento del personale del Comune, delle istituzioni e delle aziende speciali; e) il bilancio preventivo ed il conto consuntivo; f) i tributi locali e le tariffe dei servizi comunali; g) i provvedimenti relativi alla tutela e salvaguardia di minoranze etniche, religiose e di soggetti socialmente deboli; h) le materie già sottoposte a referendum, prima che siano trascorsi quattro anni. Il referendum abrogativo è escluso, oltre che nei casi indicati precedentemente, anche qualora gli atti sottoposti a detto referendum: a) incidano su situazioni concrete, relative a soggetti determinati, aventi natura patrimoniale o che riguardino servizi alla persona; b) non siano di esclusiva competenza comunale e per la loro formazione sia prevista o sia intervenuta la convergente volontà di altri enti locali, della Regione e dello Stato; c) incidano sugli strumenti urbanistici, sui relativi piani di attuazione e loro variazioni: d) riguardino gli atti di costituzione di società per azioni e società a responsabilità limitata. L’esame ed il giudizio sulla legittimità ed ammissibilità dei quesiti referendari sono affidati al Segretario Generale, che decide entro 30 giorni dalla presentazione della relativa istanza, sentito il Collegio dei Garanti formato in conformità a quanto previsto dallo dello Statuto comunale. Il parere di ammissibilità da parte del Collegio dei Garanti verte in particolare: a) sull’esclusiva competenza locale; b) sull’interesse generale della popolazione; c) sull’univocità del quesito; d) sulle condizioni di ammissibilità delle materie sottoposte a referendum, avuto riguardo alle esclusioni previste dello Statuto comunale sopra richiamate. La proposta sottoposta a referendum abrogativo è approvata se ha partecipato alla votazione il 40% degli aventi diritto e se ha ottenuto la maggioranza dei voti validamente espressi.
SCHEDA 1.2 : LE POSSIBILI MODIFICHE RISPETTO AGLI ATTUALI STRUMENTI DI PARTECIPAZIONE
Assieme alla necessità di modificare la legge regionale, da cui discendono anche gli strumenti di partecipazione del Comune di Ferrara, diventa importante pensare ad interventi sullo Statuto comunale e sul Regolamento delle forme di partecipazione in direzione del rafforzamento della possibilità per i cittadini di influire sulle scelte dell’Amministrazione. Si possono prevedere in modo preciso sui singoli articoli degli atti suddetti, ispirandosi in particolare alle seguenti linee di indirizzo:
validità delle firme raccolte online tramite un’apposita piattaforma messa a disposizione dall’Amministrazione comunale;
maggiore coinvolgimento dei promotori delle petizioni, proposte di deliberazione e referendum, prevedendo che essi siano sentiti preventivamente rispetto all’ipotesi di non ammissibilità degli stessi e sulla base di osservazioni formulate per iscritto da parte degli organi preposti;
previsione che le petizioni e le proposte di deliberazione siano sempre trattate dal ConsiglioComunale e che la loro illustrazione in quella sede venga svolta dai soggetti promotori; – previsione che le commissioni consiliari possano essere convocate su richiesta di gruppi di cittadini/associazioni ecc. per la trattazione di specifiche petizioni/proposte ove ora essi possono partecipare solo se invitati o come pubblico silente
per quanto riguarda il referendum abrogativo, vanno rivisitati e limitati gli oggetti su cui esso non si può svolgere. Inoltre va eliminata la norma che rende inammissibile il referendum sulla base di un presunto “ interesse generale della popolazione”; occorre disporre che il deposito delle firme avvenga entro 180 giorni ( e non 120 giorni) dall’annuncio mediante avviso all’albo pretorio e approfondita la questione relaritiva al numero di tornate referendarie che si possono svolgere nel corso dell’anno; va modificata la disposizione in base alla quale il referendum abrogativo è valido se alla votazione ha partecipato almeno il 40% degli aventi diritto al voto, sostituendola con il meccanismo del cosiddetto “ quorum mobile” ( 50% degli aventi diritto al voto calcolato sulla media dell’effettiva partecipazione al voto nelle ultime tre tornate elettorali amministrative del Comune); va previsto che il referendum sia possibile se riguarda materia urbanistica e sia obbligatorio nel caso in cui si preveda la modifica delle forme di gestione dei servizi pubblici locali di interesse generale e di interesse economico generale.
Inoltre, ad integrazione delle modifiche regolamentari su esposte, al fine di avviare un reale processo di partecipazione, è necessario, oltre alla preservazione degli spazi sociali esistenti, poter avere la disponibilità di luoghi diffusi sul territorio, adatti ad ospitare momenti di socialità, di condivisione di eventi e di reale partecipazione dei cittadini, quali lo stesso Municipio, sale a disposizione del Comune e spesso inutilizzate, vecchie sedi di delegazioni comunali,centri sociali, scuole attiv e e/o dismesse, Locali pubblici gestiti da privati che siano disponibili ad inserirsi in questa rete e altro ancora.
SCHEDA 1.3: SULLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA ORIZZONTALE
Punto di partenza per la costruzione della democrazia partecipativa orizzontale è l’esperienza del Bilancio partecipativo, ovvero quella che chiama gli abitanti suddivisi su base territoriale, e quindi portatori di un punto di vista specifico, a intervenire sulle scelte e sulla destinazione delle risorse, in particolare quelle di investimento, che l’Amministrazione Comunale è tenuta a compiere (ma uno schema analogo si potrebbe attuare anche per la costruzione del Piano Urbanistico Generale). I tratti salienti e costitutivi del Bilancio Partecipativo possono essere riassunti così: – diritto di proposta su una quota significativa degli investimenti comunali da parte delle Assemblee costruite nei territori in cui viene suddiviso il Comune;
messa a disposizione di risorse significative del bilancio comunale su cui le Assemblee possono intervenire;
suddivisione del Comune in aree territoriali diffuse, in modo tale da dar voce a bisogni specifici e differenziati;
costruzione di un meccanismo decisionale in cui, fermo restando al Consiglio comunale la decisione definitiva, si avvale di una rete importante di delegati scelti nelle Assemblee territoriali. Un’ipotesi di lavoro per il Comune di Ferrara potrebbe essere quella di incardinarsi sui seguenti punti di riferimento:
dare le possibilità di esprimersi agli abitanti in una fase iniziale almeno sul 10% delle risorse relative alle spese in conto capitale, per poi arrivare nel medio periodo almeno al 25%;
costruzione di Assemblee territoriali diffuse. In proposito ricordiamo che il Comune nel 1971, anche se da allora è cambiata in modo significativo la situazione demografica, era suddiviso in 14 delegazioni e in 9 Quartieri. L’ipotesi di minima potrebbe prendere come riferimento la suddivisione in Circoscrizioni realizzata successivamente e fino al 2008 ( Circoscrizione Centro
Cittadino; Circoscrizione Giardino Arianuova Doro (GAD); Circoscrizione via Bologna;
Circoscrizione Zona Nord; Circoscrizione Zona Nord Ovest; Circoscrizione Zona Sud;
Circoscrizione Zona Nord Est; Circoscrizione Zona Est);
costituzione di un’Assemblea territoriale dei delegati nei territori, la cui composizione dovrà essere ulteriormente approfondita, affiancata da una rappresentanza dei consiglieri comunali per l’esame e il pronunciamento sui progetti avanzati, prima del passaggio definitivo in Consiglio Comunale.
SCHEDA 1.4 : SULLA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA VERTICALE
Essa ha lo scopo di far intervenire i cittadini su temi strategici che riguardano la fisionomia della città. In questo senso, uno strumento importante è rappresentato dall’esperienza dell’Assemblea cittadina su un tema specifico rilevante, composta da un determinato numero di residenti, selezionati per estrazione a sorte mediante campionamento casuale stratificato, cioè assicurando che il campione rappresenti le caratteristiche socio-demografiche della città (il campionamento si svolge proporzionalmente ai gruppi di età, ai quartieri e al genere). Un esempio di questo genere è la recente costituzione dell’Assemblea cittadina per il clima di Bologna, sta facendo discutere la cittadinanza, su base campionaria, sull’obiettivo di costruire una città solare, rinnovabile e sostenibile, accelerando la transizione energetica giusta, verso un modello basato sulla riduzione dei consumi energetici, l’efficientamento energetico, la produzione e l’utilizzo di energia rinnovabile, l’autoconsumo individuale, collettivo, le comunità energetiche. Ovviamente, le Assemblee dei cittadini possono svilupparsi su altri temi considerati rilevanti in relazione alle scelte di fondo da compiere ( per esempio, sui servi pubblici, sul lavoro, sul Piano Urbanistico generale e altro ancora). Sempre lungo questa direzione, è possibile anche ipotizzare la costituzione di unOsservatorio cittadino sui beni comuni, con il compito di studiare la situazione esistente e proporre soluzione di gestione partecipativa dei principali beni comuni e dei servizi che li erogano. Tale organismo potrebbe essere promosso da associazioni, comitati, comunità di cittadini e componenti dell’Amministrazione locale in grado di svolgere attività di osservazione, acquisizione di dati ed informazioni, consultazioni ed individuazione di azioni concrete di gestione oltre che di monitoraggio dei Beni Comuni.
SCHEDA 1.5 : SULLA WEB-DEMOCRACY
Va sviluppata, anche in termini di supporto alla partecipazione attiva, un’iniziativa relativa alla web-democracy e alla e-participation, cioè l’utilizzo degli strumenti informatici e digitali per rendere effettiva e diffusa la partecipazione dei cittadini. Oltre all’idea di poter ricorrere alle firme online nell’attivazione degli strumenti di partecipazione ( petizioni, proposte di deliberazione, referendum), si può pensare di dar vita ad una vera e propria piattaforma digitale pubblica di reale partecipazione dal basso dei cittadini, attivi e non attivi, tenendo presente esperienze analoghe già in vigore in diverse città europee, a partire da quella di Barcellona.
PRIORITA’ E SCELTE OPERATIVE PER LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA
DefinFerraraire strumenti e regole che rendano obbligatoria e cogente la partecipazione dei cittadini. Modificare Statuto comunale e Regolamento sulle forme della partecipazione in questa direzione
Isituzione e riconoscimento Assemblee/Comitati di Quartiere
Istituzione e riconoscimento Assemblee dei cittadini su singole tematiche
Messa a dispposizione spazi e sale pubbliche gratuite per aggregazioni sociali
Le ragazze di Roma: la rabbia, la sorpresa, il magico raduno degli storni.
Non è. questo che leggete, un reportage o un bilancio politico sulla “grande marea fucsia”, quella cosa enorme, inaspettata, straordinaria andata in scena sabato scorso a Roma. Tra l’altro, non è compito che mi spetterebbe. Perché io a Roma non c’ero. Perché sono un giornalista. Un giornalista democratico? Bastasse questo a controbilanciare l’onda maschile di chiacchiere, sciocchezze, bugie che ha inondato i media e la politica nostrana dopo l’assassinio di Giulia. Perché sono un uomo – e farei meglio a starmene zitto, come dicono con molte ragioni le ragazze di NUDM – perché anche io faccio parte – porto dentro di me -un pezzo piccolo o grande di Patriarcato.
Il quale Patriarcato non è una roba ottocentesca, un arcaico sistema di potere pre Sessantotto; il Patriarcato è qui e ora: nello Stato, nei partiti, nelle professioni, nelle famiglie: nei maschi (in tutti i maschi). Cantava Giorgio Gaber di un uomo così moderno, così evoluto, così democratico, così di sinistra … che però “quand’era nudo, era un uomo dell’Ottocento”. Cari maschi (maschi come me), “fate la prova costume” e vedrete che le cose stanno esattamente così.
Proprio “Patriarcato”, quel termine così indigesto ai “benpensanti” (già, anche i benpensanti non sono affatto morti, godono invece di ottima salute) era al centro della manifestazione voluta da Non Una di Meno. Da qui la rabbia che ha percorso tutto intero l’enorme corteo delle ragazze di Roma.
Non c’era il tranquillo clima dei girotondi, le canzoni in coro, gli sfottò, i ritornelli, Non c’era il famoso “tremate le streghe son tornate”. Era proprio la rabbia. Il vaso che straripa. Il grido. E un ultimatum: allo Stato, alla politica, alla scuola, al lavoro, ai rapporti sociali come ai rapporti intimi e privati, a tutti gli ambiti, dal primo all’ultimo, contaminati dalla cultura e dall’ oppressione maschile.
A Roma, questo mi pare di aver capito, è successa una cosa mai vista. Non è stato uno di quegli eventi decisi con mesi di anticipo e meticolosamente organizzati dai partiti o dalle grandi organizzazioni sindacali, ma una manifestazione spontanea, nata dal basso, trasmessa di bocca in bocca, messa in piedi in una sola settimana, e solo grazie alla rete informale dei gruppi locali di Non Una di Meno.
Dunque un corteo “a prevalenza giovanile e femminile”? Molto di più: è stato un movimento tellurico improvviso che ha scosso il sottosuolo di tutto il Paese.
Dal Circo Massimo al Colosseo (rubo l’aggettivo dal titolo de il manifesto di oggi) ha sfilato un “indomabile” corteo femminista. Alla faccia del Pensiero Unico che giudica il femminismo come un fenomeno residuale, l’ultima ideologia del XX secolo. Invece eccole qui le ragazze d’Italia, quelle che sarebbero interessate solo all’imminente Black Friday.Eccolo qui il nuovo femminismo.
Potevo, forse dovevo tacere, far parlare solo loro, le ragazze fucsia del terzo millennio. Ma ho un’ultima cosa da raccontare, un piccolo fatto privato che ha messo in moto i miei pensieri e le parole di oggi.
L’altra sera, venerdì, sento al telefono mia figlia Meri, 23 anni, studentessa in medicina a Modena.
Vieni a Ferrara nel weekend?
No papà, vado a Roma. Casco dalle nuvole: A Roma?
50 Ragazze fucsia in viaggio da Modena a Roma.
Ieri mattina, le 7 e 20, Meri mi invia la foto del suo pullman: 50 ragazze giovanissime, tutte truccate in fucsia.
Sempre sabato, ma nel pomeriggio, faccio un’altra scoperta: a Roma c’è anche mia figlia Amelia, 29 anni, traduttrice interprete, E’ partita in treno da Milano per raggiungere il corteo di Non Una Di Meno.
Per farla breve, il padre disattento, il giornalista di mezza tacca, non ne sapeva niente di niente.
Ma non è finita. Nemmeno loro, le due sorelle, sapevano l’una dell’altra. Sono già dentro il corteo, si messaggiano, provano a darsi un appuntamento. Alla fine desistono: impossibile beccarsi dentro quell’alta marea che monta attorno al Colosseo.
Cerco tra i contatti, invio messaggi, faccio telefonate… e alla fine la trovo la pista giusta. La ragazza mi conosce, è la figlia di un’amica di un’amica, il nome non importa. Mi risponde. Anche lei a Roma, e mentre cammina prende appunti in diretta sullo smartphone. Scrive cosa vede, cosa sente, fuori e dentro di sé. Puoi inviarmi il tuo diario?
Posso pubblicarlo? Tornata a casa, si è ricordata della promessa e due ore fa mi ha girato questa cosa.
CORO DI RABBIA
1. Cantamos sin miedo, pedimos justicia Gritamos por cada desaparecida Que resuene fuerte “¡nos queremos vivas!” Que caiga con fuerza el feminicida
2. insieme siam partite, insieme torneremo, non una, non una, non una di meno
3. la nonna partigiana ce l’ha insegnato, il vero nemico è il patriarcato
4. no sentir rabia es privilegio
5. ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io
6. lo stupratore non è malato, è figlio sano del patriarcato
queste alcune delle note su cui avanza la marea raccolta al Circo Massimo il 25/11. Da Modena si parte all’alba, avvolti da in aria gelida che sembra risuonare della nostra rabbia. Il viaggio è lungo ma appena approdati a Roma si coglie la grandezza di quello che sta per accadere.
Mamme, nonne, coppie, cani e bambini tutti uniti e colorati.
“Quanti saremo? 100.000? 200.000? Mai visto qualcosa del genere?”
Dentro la marea non importa, fai solo in tempo a muoverti al momento giusto per non perderti. È una marea maestosa, certo, ma anche spaventosa nel suo avanzare fagocitando strada dopo strada, piazza dopo piazza.
È solo quando volti l’angolo che, finalmente, lo vedi: migliaia di persone dietro, altrettante davanti, che cantano, urlano e si stringono come fossero una cosa sola. Sono tristezza e commozione a spingerli a scendere in piazza al gelo? Forse, ma è soprattutto la rabbia: rabbia per Giulia, ma anche per tutte quelle prima e (purtroppo) dopo di lei di cui pochi ricorderanno il nome, perché la loro storia non è stata altrettanto romanticizzata.
“la mia tristezza è sepolta insieme alle sorelle uccise. non mi resta che rabbia”
Rabbia che, anziché dividere, unisce cause in maniera intersezionale, su uno sfondo di cartelloni, bandiere arcobaleno e bandiere palestinesi che si stagliano contro il vento
Fin troppo presto arriva il momento di ripartire. “È davvero successo? Stiamo davvero tornando da Roma? Eravamo mezzo milione?” Forse la stanchezza è troppo per realizzarlo, ma sicuramente abbiamo avuto la fortuna di vivere qualcosa di unico, qualcosa che – si spera – lascerà un segno in ben più di 500.000 cuori.
“Oggi è stato bellissimo. Indimenticabile”
Tutto questo per dire che, pur restandomene a Ferrara, le ragazze di Roma mi hanno insegnato qualche cosa. Il loro improvviso raduno dai quatto angoli d’Italia mi è parso una magia, come quando, proprio nel cielo della capitale, milioni di storni si danno un misterioso appuntamento, milioni di storni e tu rimani incantato col naso in su a vedere le loro evoluzioni. La Roma del corteo femminista, mi è sembrata finalmente libera, l’unica Seconda Repubblica desiderabile. E mio Dio, c’è dell’altro: non è vero che la nostra Italietta è solo e soltanto il deserto del disimpegno, del consumo, del dio-mercato-Amazon . I giovani, adolescenti, ragazzi e ragazze non corrispondono in nulla ai sermoni e alle indegne bugie di Paolo Crepet e compagnia.
Poi, ma questo lo penso tutti i giorni, mi sono detto (anche io con un po’ di rabbia) che non ci meritiamo in Italia questo governo. Come a Ferrara, non ci meritiamo una destra leghista e fascista. E neppure, a Roma e a Ferrara, al Nord come al Sud, ci meritiamo questi deprimenti partiti del Centrosinistra.
Il Nuovo potrà venire solo dal basso. E senza preavviso, come la rivoluzione fucsia.
In copertina: Roma, 25 novembre 2023, il Corteo Fucsia. Punto di raduno al Circo Massimo.
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Negli Stati Uniti ritornano i sindacati: quale futuro per il capitale?
Si è concluso con un buon accordo lo sciopero dei sindacati Usa contro le tre big dell’automobile. Le richieste erano di ridurre l’orario di lavoro da 40 a 32 ore e aumenti salariali del 40-46%. L’accordo prevede aumenti salariali del 25% con Ford e Stellantis, mentre per l’orario non ci sono riduzioni. Si prevede anche la difesa del lavoro locale (confermata per lo stabilimento di Trenton in Michigan ed altri siti e la produzione di nuove vetture in Illinois e altrove). Richieste pesanti che venivano dopo anni in cui a guadagnare erano state solo le aziende (250 miliardi di profitti negli ultimi 10 anni, +65%, stime del sindacato UAW) che hanno arricchito gli azionisti, i super dirigenti, manager e fasce alte dei lavoratori, mentre si riducevano le paghe orarie degli operai. Come ha detto il neo segretario eletto Shawn Fain è “una battaglia della classe operaia contro i ricchi” e la conferma che senza contro poteri il capitalismo diventa sempre più predatorio.
Oggi c’è una nuova generazione più determinata di sindacalisti, come Sean O’Brien della Brotherhood of Teamsters(che ha appena ottenuto un aumento del 20% dei salari dei dipendenti di Ups) o Lynne Fox, neopresidente della Workers United, che promette battaglie durissime. Anche i 60mila attori (e altri 2 milioni di lavoratori del settore) hanno fatto un accordo triennale con gli Studios dopo 4 mesi di scioperi che non avvenivano dal 1960. Oltre ad un aumento del 7% del minimo salariale ci sono benefici sulle pensioni, sull’assistenza sanitaria e pagamenti per le audizioni autoprodotte (spesso richieste dagli Studios). Il capitolo sull’Intelligenza Artificiale prevede che non si possa usare per repliche digitali o modifiche senza l’autorizzazione e il pagamento ai singoli attori. Non è invece passato l’aspetto più “rivoluzionario” che era quello del pagamento dell’1% o 2% degli abbonamenti o per gli ascolti in streaming, che prevede solo “bonus” in base al successo degli show. I costi di produzione aumentano così di circa il 10%.
Non passa purtroppo il principio delle “compartecipazioni” che, a mio avviso, è il futuro su cui dovrebbero lottare i lavoratori (di tutti i settori), affermando il principio che i profitti sono anche il prodotto di chi ci lavora e non solo del capitale.
L’accordo è anche la dimostrazione che si può negoziare sull’Intelligenza Artificiale e fare in modo che i vantaggi vadano a tutti e non solo ai pochi che la progettano.
Thomas Piketty ha riportato in “Il capitale del XXI secolo” le stime della Federal Reserve Usa (Banca centrale) che ha calcolato come al decile superiore (10% dei più pagati) andava (nel 2010) il 72% di tutto il “monte” salari, mentre al decile inferiore solo il 2%. Non c’è quindi solo un problema di iniqua distribuzione tra capitale e lavoro ma anche all’interno di chi lavora, con stipendi sempre più alti a manager e dirigenti e più bassi per chi fa lavori di routine.
La minore disuguaglianza si è avuta in Occidente negli ultimi 70 anni in Svezia (negli anni ’70-’80) quando il decile più ricco (10%) prendeva solo il 20% dell’intero monte salariale. In Francia il rapporto era invece (stime Piketty) di 62% per il decile superiore contro 4% di quello inferiore, che è più o meno quanto avviene oggi in Europa e anche in Italia. Le disuguaglianze salariali sono diminuite nei primi 30 anni del 2° dopoguerra, ma poi cresciute dagli anni ’90 ovunque, in particolare in Usa. Ma ciò che fa impressione non è la disuguaglianza dei redditi da lavoro, ma quella patrimoniale. Qui le differenze sono enormi in tutti i paesi occidentali. In Usa il decile superiore (10%) possiede oggi il 70% di tutta la ricchezza (60% in Europa, 50% nei paesi Scandinavi), mentre il 50% dei cittadini più poveri detengono in Usa ed Europa solo il 5% (10% in Scandinavia). Ciò significa non solo la progressiva sparizione della classe media, ma che il 20-30% più povero non possiede nulla. Anche in Italia (fonte Banca d’Italia) il 30% più povero ha solo 8-10mila euro di proprietà tra mobili, auto e qualche spicciolo sul conto corrente. Una catastrofe sociale che è alla base dell’astensionismo elettorale e pronta a sostenere qualsiasi “vandea” anti sistema.
I sindacati Usa hanno trovato l’appoggio sia del presidente Biden che di Trump e, per la prima volta, sia di Democratici che Repubblicani. Fain (58 anni), il nuovo leader del sindacato dell’auto, va ora alla conquista degli Stati del Sud (che non sono sindacalizzati) e si richiama più alla Bibbia che a Marx,sapendo quanto è forte la presenza evangelica e cristiana negli Stati del Sud. E’ stato eletto con nuove procedure direttamente dalla base degli iscritti, dopo una serie di scandali che hanno travolto la vecchia dirigenza corrotta che aveva sempre funzionato da cinghia di trasmissione del partito democratico ed era stata molto tenera con le 3 big company (Ford, General Motors e Stellantis/ex Chrysler). Fain ha imposto un negoziato durissimocon le industrie automobilistiche e ha avvertito Biden che avrà l’appoggio dell’UAW solo se dimostrerà che il suo piano di sviluppo dell’auto elettrica non avrà conseguenze negative per i lavoratori dell’auto (tutta batteria, quasi senza motore richiede meno manodopera) che erano reduci da anni di tagli drastici dei salari e delle pensioni e furiosiper le briciole che a loro arrivavano dei profitti miliardari e degli stipendi da star dei loro dirigenti.
Con questo accordo si rifanno vivi nella società USA i sindacati, quasi muti da 30 anni, un “contro potere” che alla democrazia fa solo bene, perché senza contropoteri la democrazia – quella vera, fatta di eguaglianza e diritti e non solo di cabina elettorale – declina.
Il capitale in passato era quello commerciale dei mercanti che guadagnavano sulla differenza tra il prezzo di acquisto e di vendita. Capitale che si è evoluto in quello di prestito durante il medioevo, con gli ebrei e poi con le banche di Firenze, Genova e Venezia nel Rinascimento che hanno finanziato poi la globalizzazione con la scoperta di Cristoforo Colombo. Oggi abbiamo il capitale finanziario, che fa profitti solo usando il denaro, con una rendita media del 4% annuo.
Il futuro del Capitale quale potrebbe essere? Quello delle compartecipazioni,dove ai lavoratori vada una quota consistente (non 1-2%) dei profitti, chiudendo l’epoca iniqua in cui a guadagnare sono solo dirigenti e azionisti. Hanno fatto bene gli operai a far notare che è uno scandalo che il loro capo guadagni 30 milioni di dollari all’anno quando loro prendono 30 dollari all’ora.
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Se esistesse lo strumento jazz per antonomasia io credo sarebbe il contrabbasso.
È uno strumento imponente, bello, caldo, armonioso.
Ricordo che, tempo fa, il bravo contrabbassista Adriano Brunelli mi raccontò che il contrabbasso, in dialetto ferrarese, si chiama “liron” (lirone) probabilmente a causa delle due “effe” di risonanza sulla cassa armonica, ai fianchi del ponticello, che assomigliano al simbolo delle lire.
Se esistesse un vocabolario visuale, alla voce “contrabbassista di jazz” sicuramente ci troveremmo la fotografia di Ron Carter.
Ron_Carter al Bologna Jazz Festival
Lui, che oggi ha 86 anni, è il più bravo ed apprezzato da ormai 60 anni per diversi motivi: possiede uno stile inconfondibile, ha una potenza ritmica unica, ha risorse tecniche inesauribili, esegue la cavata in modo perfetto ed elegante, riesce a coniugare delicatezza e forza in modo personale ed è un ricercatore musicale instancabile.
Ha suonato in migliaia di dischi con centinaia di musicisti ma il suo periodo più famoso rimane quello con Miles Davis negli anni 60 insieme a Herbie Hancock, Wayne Shorter e Tony Williams.
Se esistesse un quartetto jazz ideale, io credo che, fra i migliori degli ultimi anni, ci sarebbero i Foursight Quartet, il gruppo con Ron Carter al contrabbasso, Jimmy Green al sax tenore, Renee Rosnes al pianoforte e Payton Crossley Jr alla batteria.
Renee Rosnes
Jimmy Green
Payton Crossley Jr
Il Bologna Jazz Festival li ha ospitati quest’anno al Teatro Auditorium Manzoni il 12 novembre scorso dove hanno dato vita ad un concerto musicalmente perfetto ed emozionalmente potente.
L’esibizione di questo quartetto è stata meravigliosa; andrebbe riascoltata e riascoltata per apprezzare a pieno la ricchezza di spunti tematici, la precisione delle trame ritmiche, la varietà di citazioni musicali, la finezza esecutiva, la cura dei dettagli e la bellezza dell’armonia fra musicisti. Il primo brano, della durata di 40 minuti circa, potrebbe essere usato come libro di testo nelle scuole per musicisti: una vera e propria antologia di cosa vuol dire suonare insieme.
Ron Carter & Foursight,
In un brano successivo, caratterizzato da un dialogo fra il piano e il contrabbasso, la delicatezza e la dolcezza sono state di una intensità unica.
Gli omaggi alle composizioni di Miles Davis sono stati chiari.
Il pezzo assolo di Carter ha impreziosito un concerto già stupendamente elegante.
Assolo di Ron Carter
Ron_Carter & Foursight saluta il pubblico al termine dell’esibizione.
Ascoltare quel concerto jazz ha fatto bene al mio io interiore perché lo ha fatto viaggiare alla scoperta di armonie inaspettate. Credo che, quando è suonato divinamente, il jazz può diventare davvero terapeutico.
Lo verifico anche a scuola, con i bambini e le bambine, perché spesso ascoltiamo il jazz in sottofondo ai momenti di concentrazione in classe o in primo piano quando proviamo ad intrepretare il significato di quelle note sincopate con i disegni, le parole o i movimenti.
Certamente nei prossimi giorni farò ascoltare in classe le note di quel fantastico Maestro unico che è Ron Carter perché possano trasmettere direttamente e far sentire il vero significato della parola “classe”, intesa sia come ottima qualità che come interscambio di relazioni che può arricchire ciascuno dei componenti, che siano di un quartetto jazz o di una classe.
Ron Carter – Foursight Quartet at Jazz San Javier 2019
Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Mauro Presini
Cover: Primo piano delle mani di Ron Carter sul suo contrabbasso – Ph Mauro Presini
In occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne
il Coro Femminile SonArte diretto da Sonia Mireya Pico
l’Associazione Culturale l’Ultimo Rosso
presentano
IL CAMMINO DELLE DONNE – canto e poesia SABATO 25 NOVEMBRE ALLE ORE 17
Salone delle “Carte geografiche” del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara in via XX settembre, 122 IL MUSEO OFFRIRÀ UNA VISITA GUIDATA ALLE ORE 15,30 SI PREGA DI FARE LA PRENOTAZIONE – 0532/66299
Costo del biglietto Intero solo museo €7,00 Ridotto €3,00 (da 18 ai 25 anni)
VI ASPETTIAMO NUMEROSI!
Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne
Ricorrenza istituita il 17 Novembre 1999.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 Novembre come la giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
Art.1 Ai fini della suddetta (presente) Dichiarazione l’espressione “Violenza contro le donne “significa ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato un Danno o una Sofferenza Fisica, Sessuale o Psicologica per le donne, incluse le Minacce di tali atti, la Coercizione o la Privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata.
Ogni storia inizia con un libro che si apre. Un albo illustrato, “I fantastici libri volanti di Mr Morris Lessmore”, di William Joyce, che è un cortometraggio e un cortometraggio – Oscar 2012 – che è un albo. Magia. Da vedere, qui.
Amo i libri, soprattutto gli albi illustrati, sorprendentemente ritrovati dopo gli ‘anta’, e amo il cinema. Due passioni che alimentano l’anima, che tengono vivo il fuoco.
L’albo illustrato è un sistema complesso di forme, una combinazione di parole e figure che si incontrano sulle pagine e si completano l’un l’altra. Si tratta di una potente alchimia, se ben disegnata, un incontro di una riga e di un disegno, una riga che lo completa, lo amplia, lo approfondisce, gli da sostanza. La stessa che si può dare ai sogni. Così come fa il cinema.
È un linguaggio nuovo, originale, di valore, affascinante per i bambini che stanno crescendo ma anche per gli adulti che vogliono, tenacemente, restare bambini. Il ritmo delle immagini viene scandito dal tempo di lettura, anche se a volte alcuni tratti possono essere talmente belli da far dimenticare le parole o da non averne addirittura bisogno (in questo caso saremo di fronte a un poetico Silent Book, quello che lascia al lettore immaginare la storia, la propria, o magari semplicemente il proprio finale).
A volte è l’oggetto stesso che parla, alcuni formati, come ileporelli, portano in un favoloso mondo. I libri sono tondi, rettangolari, quadrati, irregolari, lunghi e stretti, piccolissimi o enormi, hanno pagine di stoffa, di spugna, di lana, alette, pop up. Arte.
L’atto di girare pagina, poi, ha per l’albo illustrato più importanza che in ogni altro tipo di racconto su libro, a causa delle tante possibili soluzioni che, ad ogni apertura, si offrono agli occhi del lettore. Tutto può cambiare da un momento all’altro: il tipo di immagine, di composizione o di inquadratura. Il movimento del braccio e della mano diventano così anche la forma fisica del respiro della storia, del ritmo del racconto, ma anche delle emozioni che via via si provano nella lettura. Si gira pagina per andare avanti, scoprire il mistero, curiosare nelle casette dei personaggi, si vuole vedere come va a finire. Un po’ come girare uno spartito, attendendo la nota successiva. O come i movimenti armonici di un direttore d’orchestra che coordina tante anime. Uno scorrere del tempo che non si avverte.
Lafiaba è territorio privilegiato per l’albo, breve, tempestiva, visiva e con un suo perché e una sua morale. Luogo di sogni e bei risvegli. Magia pura. Stella nella notte.
Se poi uniamo albo illustrato, amore per i libri, delicate illustrazioni, bellissimi disegni animati e cinema pluripremiato, il gioco è fatto, il dado è tratto.
È il caso di William Joyce, un brillante autore americano, illustratore e regista che coinvolge da subito. Le sue illustrazioni sono apparse sul prestigioso New Yorkere le sue opere esposte in musei e gallerie d’arte. Dopo aver pubblicato oltre 50 libri per ragazzi, ha lavorato anche con Pixar, Dreamworks e, soprattutto, Disney. Il vero “se puoi sognarlo puoi farlo”.
Oggi a stupire ancora la (ri)scoperta de “I fantastici libri volanti di Mr Morris Lessmore”,una storia che, da iniziale app di successo, è diventata cortometraggio d’animazione, di 15 minuti, che, tra i tanti premi, ha vinto l’Oscar, nel 2012.
Opera dei registi di animazione statunitensi William Joyce e Brandon Oldenburg, il corto ha molti e ben assortiti ingredienti: il potere terapeutico delle storie, l’uragano Katrina, il Mago di Oz, i colori vivaci, l’amore per i libri e l’attore di cinema muto Buster Keaton. In una combinazione di tecniche di animazione tri e bidimensionale, di digitale e non.
La storia comincia nella misteriosa New Orleans: Mr. Morris Lessmore è uno scrittore, somigliante appunto a Buster Keaton, e sta tranquillamente lavorando a un romanzo sulla terrazza di un moderno hotel quando vede avvicinarsi un’enorme e minacciosa tempesta. L’uragano spazza via qualunque cosa e trasporta lo scrittore e il suo romanzo in una terra fantastica, dove storie e parole fluttuano nell’aria, i libri volano.
Qui tutto il corto:
Questa bella storia vive anche sulla carta (viveva già, per l’esattezza, perché il libro, dello stesso Joyce, ha ispirato il cortometraggio), in un poetico albo illustrato in Italia edito da Rizzoli. Un toccante libro sui libri, connubio imprescindibile per chi ama la lettura e l’illustrazione. Un racconto che, allo stesso tempo, rende omaggio ai lettori più curiosi.
Morris amava le parole, le storie e i libri. Anche la sua vita era un libro che lui stesso scriveva, con cura e dedizione, ogni giorno. Un libro però che non volava e che restava tristemente ancorato a terra. Un giorno, dopo quell’uragano iniziale, vide sopra di sé una bella ragazza che volteggiava nel cielo, appesa a un festoso gruppo di libri volanti. Un libro caduto da mani leggere, e afferrato con amore, lo avrebbe portato lontano. Verso il nido dei libri, una biblioteca animata dalle pagine di tanti volumi che, svolazzanti, invitavano alla lettura, sussurrando. Nelle biblioteche, dove i libri si annidano come uccellini canterini, in fondo, c’è sempre un libro per tutti.
I libri si mescolavano di continuo, allergici a ogni tipo di ordine, tragedie che andavano a far visita alle commedie, lingue che non si capivano. Ma, tutto sommato, era divertente, oltre che piacevole e curioso. Morris provava enorme soddisfazione a prendersi cura dei libri, perdendosi fra le loro pagine a volte per giorni interi. Ammetto che succede anche a me. A me che ho arredato casa partendo dai miei libri che arrivano da tante parti del mondo, che l’ho adattata alle loro esigenze-dimensioni. Lo spazio è per loro. Io a volte non trovo il mio.
“C’è una storia per ciascuno” diceva Morris, i libri andavano condivisi con gli altri. E quegli amici concordavano con lui, pienamente e senza riserve. Un gesto di generosità. Ogni storia ha il suo lettore e la vita di ognuno di noi può essere racchiusa in una storia.
E intanto Morris, la sera, dopo che tutti erano andati a dormire, riprendeva a scrivere il suo amato libro. I mesi e gli anni passavano, finché Morris si raggrinzì e si curvò. La vecchiaia. Ma gli amici libri erano sempre lì a prendersi cura di lui e la notte gli leggevano tante storie.
Fino al giorno inevitabile in cui il libro di Morris restò lì ad attendere una bambina aggraziata che avrebbe ricominciato a leggere. E la storia avrebbe riavuto inizio, così come era iniziata, con un libro che si apre. Perché le persone, come i bibliotecari, passano, i libri restano.
Stefano Boeri Architetti e Fondazione AlberItalia hanno annunciato l’implementazione del progetto che vuole piantare 70mila alberi entro il 2024 con il supporto del colosso della logistica. L’annuncio fa colpo ma si guarda bene dal citare il consumo di suolo. Il prof. Pileri ha fatto alcuni conti per verificare se l’iniziativa è davvero efficace.
Non ci sono davvero più limiti e pare che il partito dell’incoerenza o del “meglio questo che niente” si sia affermato e non tema rivali. Mi riferisco all’iniziativa Parco Italia, presentata in pompa magna a Roma il 14 novembre con intenso battage da parte dello studio Stefano Boeri Architetti (gli stessi progettisti dietro al “bosco verticale” di Milano) e della Fondazione AlberItalia.
Con un comunicato stampa è stato annunciato che “70mila alberi verranno piantati entro la fine del 2024 con il supporto di Amazon”, aggiungendo che “la visione di Parco Italia sul lungo periodo è arrivare a piantare un albero per ogni cittadino delle 15 città metropolitane italiane: 22 milioni di alberi entro il 2040, così da creare una rete nazionale composta da corridoi ecologici in grado di aumentare e proteggere la biodiversità, ampliando la presenza di aree protette lungo la Penisola”.
Premesso che piantare alberi è una cosa giusta, quello che lascia a desiderare di questa iniziativa è la sua dissociazione con la materia prima di cui ogni albero ha bisogno e di cui vive e che è il maggior protagonista nella regolazione climatica e dell’assorbimento di carbonio(a dispetto degli slogan): il suolo. Quel suolo che lo sponsor di Parco Italia, Amazon, consuma senza freni, come tutto il comparto logistico (506 ettari solo nel 2022). Il comunicato stampa nemmeno lo cita e questo fa molto pensare al perché, se da un lato si invoca la forestazione come atto virtuoso, dall’altro si tiene accesa la cementificazione. Che è disastroso in sé e svuota di senso la proposta o la riduce a greenwashing, a mera occasione di esposizione mediatica a beneficio dei protagonisti.
Certamente il dato di 70mila fa colpo e chi lo vede ne resta impressionato. Ma facciamo ordine.
Iniziamo con il dire che le 14 città metropolitane italiane hanno cementificato la bellezza di 1.502 ettari solo nel 2022 (Secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, Ispra, 2023) e i loro capoluoghi ben 321 ettari, il 21,3%.
Nel suo primo metro un suolo stocca un valore medio di 140 tonnellate di carbonio per ettaro (ton/ha) di cui circa 60 ton/ha nei primi 30 centimetri (Lal, 2004). Immaginiamoci che quei consumi abbiamo eliminato i primi 50 centimetri, quindi circa 80 ton/ha. Di conseguenza il consumo di suolo delle città metropolitane di un solo anno equivale a una perdita secca di carbonio nel terreno stimabile intorno alle 120mila tonnellate, pari a un equivalente in CO₂ intorno alle 440mila tonnellate.
Il consumo di suolo di un solo anno ha buttato all’aria un enorme deposito di carbonio perennemente sequestrato sottoterra (ricordiamo che le piante lo assorbono solo in parte e solamente nel loro “breve” ciclo di vita, dopodiché buona parte del carbonio ritorna in atmosfera) che equivale ad aver emesso una valanga di CO₂.
Solo per compensare questa perdita dovremmo piantare 63mila platani o 880mila aceri campestri e attendere tutto il loro tempo di vita (200 anni per il platano, 80-90 per l’acero) per sequestrare la CO₂che era già nei suoli ora consumati da quelle città (un platano maturo stocca circa sette tonnellate di CO₂ nella sua vita, un acero 0,5,www.vivaistiitaliani.it/qualiviva).
Che cosa ci dice questo semplice conto? Che non stiamo parlando di niente con l’iniziativa “Parco Italia” se prima, e sottolineo prima, non mettiamo la parola “fine” al consumo di suolo.
Verifichiamo un altro calcolo di quelli proposti da Parco Italia. Da oggi al 2040 mancano 17 anni. Se le città metropolitane continuano a consumare suolo ai ritmi attuali, al 2040 avranno cementificato 25.534 ettari che potrebbero ospitare, a essere generosi nei miei calcoli, 25,5 milioni di piante, 3,5 milioni in più di quelle promesse da Parco Italia. Quindi se non fermano il consumo di suolo non solo l’iniziativa non produrrà tutti i benefici che promette, ma neppur andrà a pareggio delle sole piante che ipoteticamente potrebbero essere impiantate a zero consumi. Quindi, ripeto, queste iniziative sono benvenute se e solo se si ferma il consumo di suolo, altrimenti sono specchietti che usano il verde per riprodurre il modello consumista di sempre.
Detto questo, che già sarebbe sufficiente per avere ragionevoli dubbi, non possiamo non notare l’imbarazzate sponsorship del progetto: Amazon, ovvero un colosso della logistica.
Quel settore cioè che costruisce capannoni enormi consumando altrettanta quantità di suolo e che non produce statistiche riguardo il suo consumo.
Idem Regioni e ministeri, che mai hanno fatto alcuna ricerca a riguardo. Solo Amazon ha una cinquantina di capannoni per il Paese. Ipotizziamo che coprano una decina di ettari l’uno: fanno 500 ettari (quindi una perdita secca di 150mila tonnellate di CO₂ che era stoccata nel suolo). Questi 500 ettari avrebbero potuto ospitare 500mila alberi (sette volte i 70mila promessi dall’iniziativa sponsorizzata) che avrebbero potuto sottrarre 3,5 milioni di tonnellate di CO₂ piantando platani (ma bisogna spettare 200 anni) o 250mila piantando aceri campestri.
Ma la CO₂ emessa dalla logistica è ben di più di quella del solo capannone perché dovremmo conteggiare anche quella emessa dalle migliaia di viaggi dei tir e dal consumo di suolo delle nuove strade e così via.
Quindi 70mila alberi offerti dal colosso degli acquisti online sono un solletico. Verrebbe quasi da dire “Grazie dell’offerta, rifiuto e vado avanti”, perché il danno di immagine che produciamo alle politiche verdi pubbliche che dovremmo avere e non abbiamo è superiore al beneficio di quei fatidici 70mila alberi. I quali peraltro non verranno piantati su superfici che ora sono asfaltate e saranno depavimentate, guadagnando effettivamente 70 ettari di suolo libero, ma andranno presumibilmente a occupare suoli già liberi e che già assorbono CO₂, visto che su quegli ettari ci saranno arbusti ed erbe. A essere precisi, togliere vegetazione erbacea/arbustiva già esistente per far posto agli alberi implica un ricalcolo della capacità di stoccaggio dei nuovi alberi a cui va sottratto quel che già la vegetazione sottraeva prima.
Dopodiché non si capisce chi pagherà le aree o se queste saranno offerte dai Comuni o altri enti pubblici. Se così fosse, non sarebbe corretto perché le aree hanno un costo ben più alto degli alberi. In ogni caso non pensiate che quegli alberi generosamente offerti da Amazon siano sufficienti a compensare l’impronta della logistica. Secondo il Rapporto Ispra 2023, tra il 2006 e il 2022 in Italia sono stati cementificati per la logistica la bellezza di 5.104 ettari, di cui 506 (9,9%) solo nel 2022. Una cifra enorme che richiederebbe ben altri sforzi compensativi.
Di cosa stiamo parlando? Qualcuno potrebbe diregreenwashing, e non gli darei torto. Qualcuno potrebbe dire che “così è meglio che niente”, ma in questo caso gli direi che non è la risposta giusta, perché noi dobbiamo fare le cose per bene e per bene significa non mettere in secondo piano l’urgenza di fermare il consumo di suolo. Prima viene questo stop.
Personalmente dico che non possiamo più permetterci quel modello andato già fuori da ogni limite. Anche se piantano degli alberelli qua e là, il loro consumo è abnorme. Quindi per ora non mi convince, anzi lo trovo perfino imbarazzante. Il soggetto pubblico deve affrettarsi ad approvare una legge contro il consumo di suolo, e fermare il dilagare della logistica. Ne abbiamo già abbastanza.
Paolo Pileri Ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
Fra i caffè più buoni che ho bevuto c’è sicuramente quello che mi ha offerto in carcere una persona detenuta; era davvero corposo, profumatissimo e sorprendente. Come non ricordare, a questo punto, la strofa di “Don Raffaè” la canzone di Fabrizio De Andrè che dice: “Ah che bell’ ò ccafè, pure ‘n carcere ‘o sanno fa”. In carcere si fanno molti caffè, con la moka sul fornellino a gas, per vari momenti della giornata e per varie occasioni. Il testo che segue è una descrizione di questi tipi di caffè.
(Mauro Presini)
Le voci da dentro. Il caffè del carcerato
di D.M.
Salve, cari lettori, si parliamo di caffè, piccola e piacevole pausa delle nostre giornate.
Da quello che ci dice la storia, le prime tracce, i primi aromi, si incontrano tra le popolazioni di pastori del nord dell’Etiopia, dove si narra che essi trovarono il modo di preparare questa bevanda per ristorarsi durante la sosta fra un villaggio e l’altro.
Tutt’oggi l’Etiopia conserva la miglior qualità e il metodo di preparazione più antico.
A seguire, per produzione e quantità, ci sono il Brasile e poi la Colombia, nota anche per la qualità, ed infine, ma non ultima, l’Arabia.
Ma ai giorni nostri, il primato per la sua diffusione e metodo, spetta al nostro paese: l’Italia, vera perla al centro di questi paesi per l’ingegno e la commercializzazione.
Il trucco è la torrefazione, ovvero il modo di lavorare il caffè e soprattutto il nostro singolare modo di prepararlo: l’ESPRESSO!
Difficile trovare gente che durante la giornata non si beva il suo caffè, anche perché ormai ce n’è per tutti i gusti: decaffeinato, ristretto, corretto, macchiato, marocchino, alla nocciola, con panna, eccetera.
Ma, al di fuori di questo mondo che sorseggia e degusta il caffè, c’è un mondo a parte, un paese nella nazione, che usa il suo caffè come un vero e proprio codice che solo i suoi membri possono decodificare, una vera e propria arma per sfidare, offendere, mettere alla prova, umiliare o semplicemente come gesto di buona accoglienza.
Sì, stiamo parlando del caffè del carcerato!!!
Andiamo con ordine:
IL CAFFÈ DEL PRIMO INGRESSO
Appena ti arrestano, dopo matricola e accertamenti, ti buttano in una cella con altri occupanti, che chiaramente non hai mai visto.
Stai sicuro, che dopo il classico buongiorno e le presentazioni, la prima parola sarà: “Siediti, ti preparo un caffè!”
IL CAFFÈ DELL’AMICO
Beh sì, quando sei in sezione, in quei frammenti di tempo che hai per scioglierti un po’ le gambe, spesso si va da un amico che sta in una altra cella, è la prima cosa che si chiede è: “Hai fatto il caffè?”
IL CAFFÈ DEL LAVORANTE
Bene o male, in carcere si lavora un po’ tutti, e quando sei lavorante, chiaramente hai la possibilità di andare in visita in altre sezioni e, se è il tuo turno di lavorare, stai sicuro che quando passerai davanti alla cella di un amico, ti chiederà: “Hai preso il caffè?”
IL CAFFÈ DEL PERDENTE Il gioco a carte più popolare in carcere è la scopa, a seguire la briscola e la scala 40, ma ancora più popolare è scommetterci sopra un caffè. Ma la perdita del caffè non sarebbe abbastanza, perché abbinato al caffè c’è il comando, ovvero ad uno schiocco di dita e uno sguardo capisci che devi andare a preparare tu il caffè perso.
IL CAFFÈ PROIBITO
Questa è la versione più osé del caffè del carcerato, ovvero il caffè alla “Cicciolina” con le sue molteplici versioni, vera e propria umiliazione per chi lo subisce. Auguri!!!
IL CAFFÈ DEL TRADITORE
Sin dai tempi che furono, la malavita in carcere usa questo metodo per mettere alla prova i presunti traditori. Si invita la persona sospettata in cella per un caffè, mentre lo si prepara si inizia il discorso su cui si presume il tradimento, una volta pronto il caffè si mette a tavola e si chiede alla persona di mettere lo zucchero, se gli trema la mano… beh, si è tradito!!!
IL CAFFÈ SACRO
Ovvero, quello del mattino, quello che ti prepari con le tue mani, che dopo la prima sigaretta ti fa correre subito in bagno!
IL CAFFÈ DEL LIBERANTE
Questo è quello più importante. Quando arriverà il tuo giorno, la tua ora, e la voce dell’assistente romperà il silenzio della sezione gridando il tuo cognome seguito dalle parole: “Liberante!”
Prima di tutto, complimenti, ma poi i tuoi compagni faranno per te l’ultimo caffè, per buon auspicio.
Ora cari lettori godetevi il vostro caffè ma, per quieto vivere, prima di accettare il prossimo caffè guardate bene il contesto.
Siete avvisati!!!
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Dario Stanca: “Riposa anche l’aria” e altre poesie
“La memoria assomiglia essenzialmente a una biblioteca dove regna il disordine alfabetico e dove non esiste l’opera completa di nessuno.”
(Iosif Brodskij)
Salvami madre
con le tue parole antiche.
Le ore
come spine
trafiggono
il labbro
nell’umido vespero.
Morire non è dimenticare.
Qui la tramontana
morde sul collo,
e i giorni scendono
come mannaie
nell’inverno
che avanza.
Ma il capelvenere
che hai lasciato
dura ancora
sai
nella tua stanza.
*
Riposa anche l’aria
nell’arsura d’agosto.
Deposto è il giorno.
Fermo/sospeso è il tempo.
Il salice tace
sulle basole
addormentate
e il corbezzolo
incanta d’ombra
le vie che scendono
ostinate
fino al mare.
Sulle porte deformate
hanno in bocca tabacco
i vecchi del paese,
e bestemmiano di fatiche,
delle loro tante rese
*
Dove riposerà
questo tempo domani?
Quest’ora che ci attraversa
impaziente?
Smarrimenti
di memorie minaccia,
di braccia, volti, parole,
di lantane allineate
nel fuoco dell’estate,
del lauro
che sparava al cielo
il suo profumo
(e noi a guardare
seduti sopra il muro).
Dove riposerà
il nostro tempo domani?
Ci rivedrà ancora
come serpi al sole
mani nelle mani?
*
Acqua di pioggia
bagna l’estate,
e sui vuoti tavolini
rimpianta resta.
Dove sarà la salamandra
che attendeva
nel sole?
Fanno nido
nei miei occhi
voci di bambini,
felicità rincorrono
nell’aria di tempesta.
*
Sono grumi di sudore
le parole dei poeti.
Visioni e inganni
che scaldano memorie
o lontani inverni muti.
Hanno nomi di uccelli,
musica di foglie secche,
colore di biondi capelli.
A stento, sul foglio, trattenuti.
Dario Stanca (1973), si laurea presso l’Università del Salento, in Filosofia, con una tesi su Carlo Michelstaedter.
Ha curato il volume Anacleto Verrecchia, Meglio un demonio che un cretino (El doctor sax). Per la poesia, ha scritto una prefazione al volume di Giorgio Gramolini, “Vita breve“.
Appassionato lettore di aforismi, ha firmato la postfazione di “Per un piccolo ordine di grandezza”, dell’aforista Amedeo Ansaldi. Ha inoltre curato per Il foglio clandestino, aperiodico ad apparizione aleatoria, n.88/89 una raccolta di aforismi con nota critica sullo scrittore e saggista Antonio Castronuovo.
Di origini salentine, vive e lavora in provincia di Torino.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Esco dal negozio di Camilla con ventiquattro litri d’acqua in bottiglia e li deposito su Marghera. Saluto il portalettere che sta passando. – Ciao Toni, cóme ala? (Ciao Toni, come va?) – Be be Albertino, e a te cóme ala? (bene bene Albertino e a te come va?) – Mia mal, som che (non male, siamo qui), gli rispondo e alzo il braccio in segno di saluto.
Davanti al numero civico 21 di Via Santoni Rosa, la casa di fronte alla mia, c’è Costanza Del Re che sta spalando la neve. Ha il piumino rosso e i pantaloni, il berretto e i guanti blu. Scarpe da trekking nere e rosse. Sta spostando la neve con una grande pala arrugginita che ha un manico gigantesco.
Doveva essere di suo nonno e ora lei si ostina ad usarla tutti gli inverni per spalare la neve davanti al suo cancello. Il nonno Fiorenzo me lo ricordo anch’io, è morto che avevo quattordici anni. Era un gigante, una persona simpatica, molto intelligente.
Costanza ammucchia la neve a lato in modo da poter uscire di casa senza rischiare di ammazzarsi e, soprattutto, senza mettere in pericolo l’incolumità delle ossa della signora Anna che ha ottant’anni.
Parcheggio Marghera davanti al mio portone e poi mi rivolgo a Costanza:
– Ciao Costanza, stai spalando la neve?
– Perché non si vede? – mi risponde lei.
– Sì, si vede. Vuoi che ti aiuti?
– No.
– Perché no?
– Perché lo so fare da sola. Se lo volevi fare tu, lo dovevi fare e basta, senza bisogno di chiedermelo. Se me l’hai chiesto vuol dire che non eri sicuro di volerlo fare e hai sperato che ti dicessi di no.
– Ma cosa dici?, dammi la pala, lo faccio io! – attraverso la strada e provo a toglierle la pala dalle mani.
– Giù la mani dalla mia pala!”.
Ecco, sono appena stato trattato come un ladro di pale, solo che a casa mia ce ne saranno almeno dieci che non vengono mai usate contemporaneamente e la sua è anche brutta e arrugginita.
– Se vuoi puoi spargere il sale dove ho già spalato, così non ghiaccia – mi dice senza nemmeno alzare la testa per guardarmi. Vedo solo il pon-pon del suo berretto che ondeggia all’altezza delle mie spalle. È di pelo vero colorato di blu. Sembra soffice e carezzevole, chissà dove l’ha trovato.
Probabilmente al mercato di Trescia, le piace andarci, compera le olive col peperoncino e il formaggio di malga, il miele di acacia e il sapone artigianale all’aloe. Qualche volta acquista anche un paio di jeans o qualche berretto che poi mette spesso perché a Pontalba c’è nebbia di frequente e lei detesta l’umidità sulla testa.
– Costanza detesta l’umidità sulla testa. Detesta l’umidità sulla testa. – dico a voce alta.
Lei scoppia a ridere. – Albertino Canali sei matto! Cosa dici? Chi è che detesta l’umidità sulla testa? – ma sta continuando a ridere. Le piacciono i giochi di parole, allentano la pressione sul suo cervello che deve essere, in condizioni normali, molto forte.
Vedo il sacchetto del sale appoggiato ad uno dei pilastri che sostengono il cancello. È sale grezzo mescolato a sabbia di mare, l’ha comprato in ferramenta apposta per il maltempo. Previdente la ragazza.
Spargo un po’ di sale sul terreno appena ripulito.
– Ne stai mettendo troppo! Io non sono una nababba che può permettersi di acquistare quintali di sale!
– Non sarai una nababba ma una quantità di sale sufficiente per non scivolare te la puoi permettere.
– Si, questo è vero – dice pensierosa.
Si ferma con la pala a mezz’aria. Alza la testa verso l’alto e guarda il cielo, annusa l’aria.
– Fra un po’ nevica di nuovo – dice.
– Si credo anch’io – le rispondo.
Il cielo è tutto bianco, l’aria molto tersa e pungente per il freddo. Ha ragione lei. Fra un po’ nevica di nuovo. Bianco in cielo e bianco in terra. E’ una vera bellezza. Tutto quel bianco purifica dentro e fuori. Ti fa sentire più giovane, con meno fardelli da portare, con meno ricordi da archiviare, con meno sbagli da perdonarsi e da perdonare agli altri.
Per un momento mi sono sentito romantico. Per riprendermi subito, tiro un calcio a un po’ di neve e poi fisso la punta dei miei stivali che sta cambiando colore perché si è bagnata. – Vattene brutta nevaccia dei miei stivali! – dico. Costanza non commenta, sta sicuramente pensando ad altro.
– Questo stare dentro la neve e dentro il cielo bianco aumenta la nostra consapevolezza fisica, ci fa sentire dentro il corpo in maniera diversa, più solida. Un’esperienza sensoriale che si nutre del soffice della neve che piace alle mani, della pulizia dell’aria che solletica il naso, del bianco candido che sorprende la vista. La luce sulla neve abbaglia, luccica, chissà com’è al polo Nord, credo che sia bellissimo – dice.
Adesso la sorprendo. Mi concentro un attimo e poi spicco un balzo verso il centro della strada e, mentre sto balzando, faccio anche una mezza piroetta in volo. Mentre atterro, mi esibisco in un ruglio da Orso delle nevi: – Ougrrrr Ougrrr!
Lei si spaventa, lascia andare la pala e per un momento sembra impietrita. Ma, come suo solito, si riprende subito.
– Albertino Canali sei pazzo! – e poi scoppia a ridere.
Proprio in quel momento passa Toni con in mano la posta di Via Santoni.
– Ma cosa state facendo? – ci chiede.
– Io nulla! – dice lei – È Albertino Canali che si è messo a fare l’orso delle nevi – e poi ride di nuovo.
Toni mi guarda e scuote la testa: – Ma set dre a deentà mat? (ma stai diventando matto)?
– Ma no Toni!, non lo sta diventando, lo è sempre stato! – dice Costanza.
Io e Toni ci guardiamo e poi le diciamo insieme:
– Ma ti dispiace?
– Cosa?, di avere un vicino di casa pazzo? – dice lei.
Ci guarda per un attimo e poi fa un salto sulla neve fresca: “Ougrrrr Ougrrr”. Ruglia.
Quella cosa chiamata città.
Saint Louis du Sènégal e gli accordi dell’umanità.
Qualcuno scrisse che a Saint Louis du Sénégal si confrontano tre mondi: l’Africa, l’Europa, l’immaginario, ma non riesco a ricordare la fonte. I portoghesi che fin dal 1415 finanziano le esplorazioni atlantiche africane, non si erano mai spinti di là del Marocco. Iniziano a farlo spingendosi a Madeira, Porto Santo e nel Sahara spagnolo dove doppiano il Capo Bojador.
Solo in questo modo riescono ad intercettare i venti alisei che, soffiando regolarmente verso sud, lungo la costa africana occidentale, gli consentono di spingersi oltre le terre conosciute.
I Portoghesi più che fondatori di città sono stati dei creatori di scali commerciali lungo la costa africana e sull’altro lato dell’Atlantico. Il paese, seppur potente, era piccolo e dovette quindi far ricorso ad esperti di navigazione come il veneziano Alvise Cà da Mosto che sarà tra i primi a descrivere la costa senegalese.
Il veneziano ci racconta di una bocca di fiume larga un miglio, con un’isola nel mezzo e con maree che si susseguono regolarmente, ogni sei ore. Gli unici insediamenti che egli descrive sono villaggi con case di paglia abitate da uomini grandi e grossi e ben formati di corpo, ospitali e gentili. Viene tracciata dunque una geografia fantastica del fiume che sconfina nel mito. Il fiume Senegal sarebbe un affluente del fiume Gion (Nilo) che insieme al Tigri, all’Eufrate e al Gange parte direttamente dal paradiso terrestre: “è questa l’opinione di quelli che hanno cercato il mondo”. Inizia da qui il mito di questa città che si alimenterà, nei secoli successivi alla colonizzazione francese, grazie alle descrizioni di Pierre Loti, Théodore Monod, e alle vicende di Jean Mermoz, che con l’Aéreopostale inaugurerà nel 1930 la rotta aerea tra l’Africa e il Brasile partendo da Saint-Louis.
Il sito nel quale Saint Louis è cresciuta è difficile ed ostile, come lo è, del resto, tutta la fascia continentale nella quale è situata, e questo le conferisce quel fascino di città cresciuta al limite di mondi diversi, a volte dialoganti ma spesso conflittuali.
Il vecchio quartiere coloniale de l’île. (ph. Romeo Farinella)
La città storica, costruita dai francesi su un’isola fluviale, è separata dall’oceano da una lingua di sabbia costantemente erosa dall’innalzamento dell’Atlantico e dagli interventi dell’uomo: un fenomeno che potrebbe portare alla scomparsa della città. L’estuario del Senegal è caratterizzato da un substrato argilloso e da depressioni che lo rendono frequentemente inondabile. Nella parte terminale del fiume questo allineamento dunoso, denominato Langue de Barbarie, forma un cordone litoraneo lungo circa quindici chilometri e largo tra i centosessanta e i duecentosettanta metri, sul quale sono cresciuti gli insediamenti urbani di pescatori di Guet Ndar e N’dar Toute.
Il fiume Senegal è ovunque, se l’oceano lo percepisci, il fiume lo vivi quotidianamente.
Saint Louis è quotidianamente oscurata dai tagli di elettricità, sommersa dai rifiuti, sacchi e contenitori di plastica dove, nonostante una strumentazione urbanistica di buon livello con tante informazioni raccolte ed elaborate, il patrimonio architettonico cade a pezzi nonostante sia «patrimonio Unesco»; con un traffico totalmente dipendente dal trasporto privato e con mezzi altamente inquinanti, con quartieri sempre a rischio di immersione grazie al fiume e le piogge.
Come può diventare «sostenibile» una città con tali problemi? Di questo parlo regolarmente con i miei colleghi geografi africani che lavorano sul campo e nei loro laboratori perché lo diventi.
La globalizzazione lungo la strada verso Saint Louis du Sénégal (ph. Romeo Farinella)
In ogni caso la regina delle acque è una città unica nel contesto dell’Africa occidentale e sub-sahariana. Quando mi capita di andarci, ogni mattina, svegliandomi, mi appresto ad ascoltare i suoi rumori e i suoi suoni e penso a Karl Kraus e quella sua frase: “ascoltare i rumori del giorno come se fossero gli accordi dell’umanità”. Voci umane, belati di capre, tamburi che suonano, canti ritmati, la voce e il canto del Muezzin, clacson che gracchiano: sono questi gli “accordi dell’umanità” che fanno di Saint Louis un’esperienza sensoriale e spaziale spaesante e positivamente intensa.
In Copertina: Saint Louis du Sènégal. La Langue de Barbarie, la città dei pescatori. (foto Romeo Farinella)
Per leggere gli articoli diRomeo Farinellasu Periscopioclicca sul nome dell’autore
Lettera aperta al Sindaco di Ferrara: “Mantenga la sua promessa di avviare un confronto con i cittadini sul progetto di recupero della ex caserma Pozzuolo del Friuli di via Cisterna del Follo”
Ferrara, 21 novembre 2023
Signor Sindaco,
Lo scorso venerdì 17 novembre abbiamo contato pubblicamente 263 giorni da quando lei, in consiglio comunale, ha riconosciuto che sul progetto di recupero della ex caserma di via Cisterna del Follo sarebbe stato utile ascoltare i cittadini, e ha promesso di iniziare al proposito un percorso partecipativo per arrivare ad una condivisione cittadina sul futuro di quell’area.
E tutti i venerdì da inizio estate, ci siamo schierati in Piazza Municipale per ricordarle la promessa che, con nostra sorpresa, non stava mantenendo.
Pensavamo che, pur tra tanti impegni, per un Sindaco sia un impegno morale quello di mantenere la parola data. Il motivo dell’impegno morale è la democrazia.
Le ricordiamo, signor Sindaco, che non è la prima volta che politici e amministratori ferraresi ignorano i movimenti e i comitati cittadini: sarebbe bene interrompere questa prassi negativa.
Chiediamo quindi un incontro per sottoporle le motivazioni per cui la stiamo sollecitando ad avviare il percorso di coinvolgimento dei cittadini.
Confidando che il dialogo diretto possa aprire spazi di comprensione reciproca, speriamo di poter ascoltare da lei tempi e modi per l’inizio del processo partecipativo promesso.
In attesa di un suo riscontro, inviamo cordiali saluti
Quando eravamo orfani di Kazuo Ishiguro, ovvero della incertezza.
Ancora non so a quale tra i criteri di giudizio appellarmi e per quale parere definitivo propenderedopo avere letto il romanzo di Ishiguro uscito in Inghilterra nel 2000 e nello stesso anno in Italia presso Einaudi, con la traduzione di Susanna Basso. Il titolo, Quando eravamo orfani.
Faccio il processo alle intenzioni: volevo conoscere un autore che ha vinto il Nobel nel 2017, che è quasi mio coetaneo ed è nato in Oriente, anche se si è trasferito in Inghilterra quando era bambino. Mi piaceva approfittare del fatto che fosse il libro del mese per il gruppo di lettura della Biblioteca al mio paese e che ne potessi parlare con gli altri lettori, di solito appassionati nel confronto a lettura avvenuta.
Ho letto con buona volontà, spingendomi a continuare anche se il ritmo della prima parte, tutta giocata sull’esercizio meticoloso della memoria del narratore-protagonista, mi pareva molto lento, appesantito da frequenti digressioni e dal recupero di ricordi personali ricostruiti fino nel più riposto dettaglio.
La narrazione parte dagli anni Trenta: da Londra Christopher Banks ricostruisce gli anni in cui ha frequentato prestigiose scuole inglesi grazie alla adozione di una zia e la brillante carriera di detective che gli sta dando onore e fama. Andando ancora più indietro nel tempo racconta la sua infanzia a Shangai e il successivo trasferimento in Inghilterra dopo essere rimasto solo in seguito al misterioso rapimento dei genitori.
Come ho continuato la lettura: a piccole dosi, con un intenso coinvolgimento nella parte centrale, dove il protagonista torna a Shangai alla ricerca della propria infanzia. Siamo nell’autunno del 1937, nel pieno della guerra sino-giapponese: Christopher è qui, anche dopo tanti anni resta tenacemente attaccato all’idea di ritrovare il nascondiglio in cui sono tenuti prigionieri i genitori. Il padre che lavorava nel commercio dell’oppio e la madre che si batteva per i diritti civili.
Il racconto si snoda tra i ricevimenti e le cene nella parte della città occupata dagli inglesi, la Concessione Internazionale, e le macerie della zona di guerra che si trova esposta all’attacco delle truppe giapponesi. Tra le case distrutte e i corpi dilaniati si avventura il protagonista, armato soltanto della sua curiosità di figlio e di detective.
L’atmosfera risulta tuttavia surreale e incongrua e stride con l’esercizio della razionalità che ci si aspetta da un investigatore. Si aggiunge all’insieme anche l’altro grande tema che caratterizza l’epica classica, l’amore. A Shangai infatti Christopher ha ritrovato Sarah, la donna che ama da tempo anche se non lo ha rivelato con chiarezza al lettore (e a se stesso). Ritrova Akira, il grande amico dell’infanzia. Non si tratta, però, di incontri veri. Tanto attesi e ora non consumati, non portano alcuna modifica sensibile al progetto di ritrovare i genitori.
Nella terza e ultima parte lo ritroviamo nel 1958 a Londra mentre ricorda di avere ritrovato solo la madre a Hong Kong, grazie a un successivo viaggio in Oriente avvenuto tempo prima. Ha accanto la figlia adottiva Jennifer che gli offre il suo affetto. Sa di avere portato a termine la propria missione, quando si sentiva orfano. Missione individuale, che di epico ha poco.
Per motivare il mio giudizio, che sul libro resta sospeso, devo fare ricorso a un paio di categorie narratologiche. La prima riguarda l’organizzazione dei materiali narrativi nell’intreccio: mi sembra troppo espansa la prima parte dedicata all’infanzia e giovinezza vissute in Inghilterra.
Non solo, il cursore del tempo fatica a muoversi in avanti e viene continuamente interrotto e riportato all’indietro dal narratore per rovistare nella sua memoria. Al lettore spetta il lavoro paziente di ricucitura della parti, che solo una volta messe in ordine cronologico dànno chiarezza sul vissuto di Christopher, ma non mi hanno provocano empatia.
Quando nella seconda parte lo si ritrova a Shangai è un sollievo capire che la storia è andata avanti, che ha trovato uno sbocco. Dove, però, si guadagna in ritmo e pregnanza narrativa si perde in plausibilità, in verosimiglianza. L’investigatore inglese che attraversa le macerie della città, trascinandosi appresso l’amico Akira pressoché moribondo e lo incalza come se fosse un arzillo Sancho Panza, fa pensare alla cecità furiosa di Orlando che trascina il suo cavallo morto per le contrade d’Europa.
Tra guerra e amore, lì a Shangai, Chistopher vede sbiadirsi la propria personalità: declina la scelta amorosa lasciando sola Sarah e, in alternativa, non ha i mezzi per muoversi nel labirinto delle macerie alla ricerca dei genitori perduti.
Fin dall’inizio del libro il narratore ha assunto il punto di vista del personaggio protagonista e si è messo alla pari con lui quanto a conoscenza degli eventi che succedono: per tutta la durata del racconto anche il lettore apprende le cose, a mano a mano che accadono, insieme al protagonista che le vive.
La lettrice che sono stata, tuttavia, non si è sentita di condividerle, non ne è stata complice. Le emozioni e i sentimenti di Christopher non vengono infatti esplicitati. Scopre la verità su chi ha manipolato la storia dei suoi genitori e la sua? Ama una donna e adotta una figlia? Si cimenta dunque con i grandi amori della vita, dopo quello smarrito dei genitori? Non li tratteggia e invece si rifugia dietro la fenomenologia della sua vita interiore per quello che si può vedere dall’esterno, disperde nei gesti esteriori la carica emotiva che li origina.
Concludo che a rendermi incerta è la mancanza di complicità nel patto che il narratore ha impostato nel momento in cui si è posto come fonte del racconto.
Qualcuno del gruppo lettura, una minoranza, ha apprezzato la storia per la sua drammaticità e ha avvertito la profonda sensibilità del protagonista. La materia narrativa ha fatto scattare un senso di adesione alle parole del libro e alla sua storia.
Quanto a me, prendo atto che sono i modi della narrazione ad avermi tenuta lontana.
Cover: Shanghai negli anni 30 su licenza di Wikimedia Commons
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
“Poesie della casetta”, della collana ‘Parola magica’ della casa editrice milanese Topipittori ci porta nel magico mondo dell’infanzia e della solitudine della natura
Le poesie-racconti di Rita Gamberini, illustrate da Irene Penazzi – “Poesie della casetta”, edito da Topipittori – ci portano in un ondo magico, di quelli che sogniamo non solo a Natale ma durante tutto l’anno, se non durante tutta la vita stessa.
Ci sono, in queste pagine, le cose umili, piccole e semplici, i tenerissimi ricordi d’infanzia: animali, piante, oggetti, normali eventi quotidiani come una passeggiata, un incontro sul sentiero, un silenzio, un breve scambio di parole, un nido in costruzione, la stufa accesa… Ognuna di queste cose è e diventa parte fondamentale ed essenziale di un mondo privato, una casa di campagna che è rifugio, ma anche osservatorio a cui affacciarsi per incontrare il ‘fuori’ e i suoi straordinari abitanti. Solitudine, bellezza e libertà.
Tutto diventa occasione per un’esperienza di incanto e di meraviglia in cui si mescolano pensieri e sentimenti, memorie e fantasie, dove la natura ha un posto fondamentale. C’è magia in ogni riga, in ogni pagina, in ogni disegno. Appunti presi su quaderni, note. “Ho scritto tanto, pagine e pagine su quaderni, piccoli taccuini, foglietti” dice Rita Gamberini in una sua nota. “Un’esperienza di libertà e solitudine. Raccontini stretti in un paio di fogli e scritti poetici come le nuvole che incombono scure o passano chiare e leggere. Poi è arrivata ‘la casetta’, quella dove vivo, ai limiti di un bosco”, continua. “Ed è arrivato anche Billy, il mio segugio a scuotere il silenzio. Alla casetta ci si arriva andando piano, se non si vuole finire cappottati in mezzo a un campo, tutta discesa e tutta salita, e un via vai di tutto quello che ha a che fare con il vivere in campagna (prati, boschi, animali, trattori, allevatori, viandanti, rumori, suoni, quiete)”.
Tante allora le sorprese e quello che ci si para davanti. Il piccolo alberello che è un albicocco, detto affettuosamente ‘bicuchin’, lascia il posto a un frassino con su un merlo dal becco giallo. Un affettuoso saluto al cane compare ogni mattina al risveglio, c’è pure Alfonso che gioca a briscola sulla soglia di casa e che si perde, anche se si ostina a dire che sa benissimo dove si trova. Alfonso che non c’è più, come non c’è più la sua Novella che scacciava le mucche dalla soglia di casa.
E poi gli uccellini che fanno compagnia, il cane marrone scuro che esce la sera per l’ultimo giretto quando la notte invita le lucciole a ballare, che si accendono e spengono come le luci di Natale. Il piccolo ghiro caduto dal tetto, il sassetto che brilla riposto e attentamente conservato come un cuore da cui scocca una scintilla. L’albero del bosco che non è mai solo e che si specchia nel cielo, il vagare nel bosco calmo senza pensieri, chiamando a raccolta solamente le cose che si possono portare con sé, come qualche fiore o un po’ di stecchi. Mentre lo scoiattolo fa omaggio di un rapido e cortese saluto. Passeggiare …
Continuare così a passeggiare
in mezzo alla campagna
stupidamente assorta nell’erba intirizzita
avere le visioni di quelli che, camminando
si allontanano e anch’io andare più lontano
girando intorno ai muri delle case
le più disabitate dov’è il silenzio
più vocale il suono dei pensieri
fino al freddo scendere di grigie rudezze
che si desidera tanto di rientrare
ridiventare noi che tanto
ci siamo abbandonati all’aria intorno.
Tornare a casa e, il giorno di Natale, bere un caffè morbido, dopo aver arieggiato il cortile, spazzato la casa e preparato la stufa, dopo aver fatto legna. Calore.
Se il mio amore per te fosse un animale
sarebbe creatura primitiva che corre
sopra piste accidentate e nulla lo trattiene
lo ammaestra, solo stanchezza
e sete lo riportano a casa
a cercare riparo sulla soglia
cedere a un pisolino, poi ritornare
attento, sollevare la testa
guardarmi e dire: Noi siamo tempesta.
E ancora lucciole che si (ri)posano la notte, il codirosso spazzacamino che mette su casa. Cicale da zittire, ora parliamo noi, i racconti di piccoli uccellini che lasciano il nido. Silenzio e tanta nostalgia.
Il cappellino imbottito e alla moda è importante, ripara dalla pioggia, come gli amici, il collare ha la medaglietta con il numero di telefono, anch’essa è importante. E poi il legnetto, fa giocare il cane, serve per accendere la stufa e sorregge lo stelo di un fiore. Le scarpette ti portano in giro, ti permettono di ballare e fare bella figura, di correre, di battere un record. Le lacrime ti fanno passare il nervoso.
Ogni cosa, anche piccola, ha la sua importanza. Tempo di osservare e pazienza.
Spazio alla libera immaginazione. Il lettore ci si ritrovi e sogni.
E, infine, ci sono le nuvole basse che accarezzano la terra, le mele renette rosse che stuzzicano l’appetito, il vestito del camminatore, lo straniero che bussa alla porta, l’orto d’inverno con ile sue verze spettinate, il cavallo che scappa, il cacciatore senza fucile, la casetta fuori dal mondo e la neve candida che arriva…
Una casetta fuori dal mondo
al margine del bosco
sentieri e sassi
le mucche al pascolo
i cani ad abbaiare
i trattori ad arare
le querce agitate dal vento
le mele antiche
i fiori rari
farfalle formichine
lucciole rane cicale grilli
istrice tasso topino di campagna
rapaci del giorno e della notte
cinghiali caprioli, persino il lupo
è passato di qua a creare scompiglio.
Parola d’ordine: fare attenzione
avere cura di questo mondo, senza eccezione.
Ma non finisce qui.
Alla casetta arriva anche il mondo lontano:
disordine nel cielo, battaglie sulla terra
non c’è la pace, ma come fare per battere la guerra?
Possiamo ragionare, darci da fare
metterci in testa una cosa sola:
che è sempre meglio usare la parola
Il bello della neve
è che non fa rumore.
Vai a dormire che non c’è
ti svegli e tutto è bianco.
Oh, ma quanta ne è caduta?
Si è attaccata ai rami, ancora ne cadrà.
È neve farinosa, presto si scioglierà
ne è venuta una scarpa o si sprofonderà
fino al ginocchio? Facciamo un bel pupazzo
abbiamo la carota per il naso.
Prendiamo lo slittino
mettiamoci i moon boot
montiamo le catene?
Restiamo un poco a letto, ci conviene.
Rita Gamberini è nata il 18 luglio 1954, a Pavullo nel Frignano, dove vive in una casetta tra le colline dell’Appennino modenese. Laureata in Pedagogia all’Università di Bologna, si è dedicata a teatro, giornalismo e impegnata in attività politica. Ha svolto per anni il ruolo di operatore culturale e di responsabile dei servizi alla persona nella pubblica amministrazione. Da alcuni anni collabora al blog dei Topipittori che l’ha portata a tornare alla scrittura rivolgendo lo sguardo alla forma poetica, con la raccolta Poesie della casetta.
Irene Penazzi nasce a Lugo di Romagna nel 1989 e si forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Autrice e illustratrice, il suo albo di esordio, Nel mio giardino il mondo (Terre di mezzo Editore), è selezionato nella International Ibby Honour List 2020. Collabora con case editrici italiane e straniere ottenendo riconoscimenti internazionali.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara
Una Ricerca fatta a Ferrara e industrializzazione, con occupazione, in Germania… E a Ferrara si dorme.
Via libera per MoReTec in Germania
LyondellBasell ha approvato il progetto del nuovo impianto per il riciclo chimico di rifiuti plastici a Wesseling.
20 novembre 2023 12:45
LyondellBasell ha deciso di investire nel riciclo chimico su scala dimostrativa, realizzando un impianto con tecnologia proprietaria MoReTec presso il polo petrolchimico di Wesseling, in Germania.
Un impianto pilota è in funzione dal 2020 a Ferrara (leggi articolo con video).
L’impianto tedesco per il riciclo chimico di rifiuti a prevalenza poliolefinica (frazioni miste, packaging multistrato), mediante pirolisi coaudiuvata da catalizzatori, avrà una capacità di trattamento pari a 50mila tonnellate annue e sarà completato entro la fine del 2025.Source One Plastics, joint venture costituita l’anno scorso da LyondellBasell e 23 Oaks Investments (leggi articolo), fornirà la maggior parte dei rifiuti selezionati da avviare a riciclo chimico. L’olio di pirolisi ottenuto nell’unità MoReTec sarà riutilizzato per la produrre a Wesseling polimeri della serie CirculenRevive, con attribuzione mediante bilancio di massa certificato, da impiegare anche in applicazioni sensibili a contatto come l’alimentare o il medicale.La tecnologia MoReTec si avvale di sistemi di catalisi proprietaria che riducono la temperatura del processo, con benefici sul consumo energetico e sulla resa. Inoltre, con un consumo energetico inferiore, il processo può essere alimentato da elettricità, compresa quella proveniente da fonti rinnovabili con emissioni nette di gas serra pari a zero.
A differenza di altri processi di pirolisi, quello sviluppato da LyondellBasell recupera anche il gas di pirolisi trasformandolo in feedstock petrolchimici, riducendo ulteriormente le emissioni dirette di CO2.
La sera era tiepida, c’era nell’aria un’acuta fragranza di tigli in fiore e lui vagava distratto per le vie di una città francese. Ad un tratto udì un rumore di cose cadute sull’asfalto e vide il contenuto della borsa di una ragazza sparso in terra.
La proprietaria – bionda, bella, giovane – si dava da fare per raccogliere tutto l’armamentario che le donne portano di solito con sé. Terminata la raccolta, sollevò il viso piantandogli due occhi azzurrissimi in faccia. Le loro teste quasi si scontrarono.
“Français?” chiese la ragazza
“Non, mademoiselle” rispose lui.
La successiva domanda fu rivolta in italiano. Evidentemente lei aveva capito dall’accento che lui veniva dall’Italia.
“Turista?”
“Sì e no. Sono uno scrittore, cerco ispirazione. In Francia solitamente la trovo…”.
“Ispirazione? E dove ritiene che si possa trovare?”
“Beh, anche in questa strada. Non sente il profumo dei tigli? È talmente forte che stordisce. Ma lei parla italiano molto bene…”.
“Sono stata in Italia due anni, con una borsa di studio dopo essermi laureata… Mi perdoni, ho finito di raccogliere le mie cose. Arrivederci”.
“Un momento, non se ne vada – disse lui – Non gradirebbe un caffè, o meglio un aperitivo, visto che è quasi ora di cena? C’è un bel bistrot, qui vicino”.
“Ci sta provando?” domandò lei, ironica e diretta.
“Ma no, cosa va a pensare? Faccia come vuole, il mio è un invito di cortesia… altrimenti buonasera e tanto piacere”.
La ragazza lo fissò con quei suoi occhi color cielo terso, poi con una buffa espressione di scusa sospirò:
“Va bene, andiamo”.
Si incamminarono lungo la strada che s’inoltrava nel centro storico e arrivarono al bistrot, non molto affollato. Un anziano fisarmonicista all’entrata suonava vecchi valzer musette, malinconici e struggenti.
Si sedettero in un tavolo d’angolo, appartato. Alla cameriera lei ordinò un aperitivo, lui un gin tonic.
“Che cosa scrive?” chiese la ragazza, curiosa.
“Romanzi polizieschi. Racconti dello stesso genere. Inoltre collaboro con un giornale e alcune riviste per dei reportage”.
“E come va?”
“Non male. Si campa. E lei?”
***
A questo punto la storia termina. Ognuno però può farla proseguire come vuole, trovando lo sviluppo e la fine che più preferisce.
Suggerisco sei percorsi tra i tanti:
i due si piacciono a prima vista e s’innamorano, si sposano, hanno figli e vivono felici e contenti (percorso ovvio);
l’uomo e la ragazza, dopo una breve, intensa e tormentata storia d’amore, si lasciano e non si vedranno mai più (percorso semi-scontato);
entrambi scoprono di nutrire una grande passione per gli scavi archeologici; se ne vanno per il mondo partecipando da volontari a campagne importanti e ottenendo riconoscimenti internazionali (percorso scientifico);
tutti e due vanno pazzi per le ostriche e si recano sulla costa bretone, per disputare il campionato nazionale francese dei mangiatori di molluschi bivalvi (percorso gastronomico);
lui è in realtà un serial killer e le sue vittime preferite sono le fanciulle bionde con gli occhi azzurri, ma stavolta finirà ucciso, perché lei è un’assassina a caccia di scrittori svagati (percorso thriller);
dopo aver parlato e bevuto molto, i due, ubriachi fradici, sono cacciati dal locale, poi si accasciano sull’erba di un giardino pubblico; vengono prelevati dalla polizia e rispediti a casa con foglio di via (percorso inglorioso).
Eccetera, eccetera. La vita è, come si sa, un insieme di combinazioni.
(Da Tre sguardi in uno, Pendragon, 2015)
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La Comune di Ferrara, 19 novembre 2023.
Prima tappa: la società civile davanti alla fragilità.
La chiamata de La Comune di Ferrara alla società civile e ai partiti del tavolo dell’alternativa ha portato a riunirsi al Centro Sociale Il Quadrifoglio di Pontelagoscuropiù di 30 organizzazioni del territorio tra associazioni, comitati civici e partiti del tavolo dell’alternativa.
I partecipanti sono stati invitati ad immedesimarsi in una situazione personale di fragilità umana che conoscono direttamente o che sta loro a cuore: a titolo esemplificativo, una donna di 50 anni disoccupata, una ragazza migrante con problemi di salute mentale, un ragazzo di 25 anni in cerca di lavoro e di casa, un bambino di 11 anni che non ha motivazione allo studio e passa le giornate attaccato allo smartphone, una mamma preoccupata di mandare i figli a scuola in biciletta per via del traffico, un commerciante che non riesce ad arrivare a fine mese con la sua attività, ecc…
Ciascuno di noi, durante un ciclo di vita, dall’infanzia alla terza età, è attraversato da fragilità umane. Cosa significa progettare una città, a partire dai più fragili? Questa la domanda centrale dell’incontro che ha portato alla formazione di 18 tavoli di lavoro, con la tecnica del world cafè.
world cafè 5, I Tappa,19 novembre, organizzato da La Comune di Ferrara
A giorni verranno presentati i risultati: proposte concrete per un programma elettorale. All’incontro erano presenti anche la professoressa Calafà e l’avvocato Anselmo (che per motivi di lavoro non ha potuto fermarsi), al momento le due candidature proposte dal tavolo dell’alternativa.
Prossima tappa de La Comune di Ferrara? “Desideriamo sperimentare nuovi metodi per fare politica, più vicini alle esigenze delle cittadine e dei cittadini di Ferrara. Nelle prossime settimane, estenderemo ulteriormente la chiamata, oltre la società civile, con lo scopo di ricercare, come in una caccia al tesoro, i migliori “talenti” presenti in città, persone capaci di prendere in mano i problemi di Ferrara, in un’ottica di squadra”.
In copertina: World cafè 1, world cafè 5, I Tappa,19 novembre, organizzato da La Comune di Ferrara
rugiada
Del cielo
In mille
Mille
Coccinelle
Di luce
Sfoggia i suoi
Petali
Prende
I suoi attimi
Di eternità
Un roseto
Nel giardino
Botanico
Dei miei
Occhi
Tu fiorisci
E sfiorisciTrabocca
La malinconia
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Presto di mattina. In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 2. parte
Una storia della spiritualità uscita dalle persone
Dopo il primo volume del 1989, seguito da quello del 1997 si aggiunse anche il Profilo di storia della spiritualità, che, al di là delle differenze e delle vicende storiche non immediatamente collegabili, rappresenta il filone unificante, quello della spiritualità, ad un livello più alto delle vicende storiche e istituzionali: (A. Samaritani, Profilo di storia della spiritualità, pietà e devozione nella Chiesa di Ferrara-Comacchio. Vicende, scritti e figure, Reggio Emilia 2004).
È questo uno studio ricapitolativo di tutto il percorso euristico e storiografico di Samaritani sulla chiesa locale. Un testo, va tuttavia sottolineato, per nulla riassuntivo. Semmai, come si direbbe oggi, un “ipertesto”. Un ambiente testuale con molteplici accessi; un’agorà in cui convergono e ripartono innumerevoli percorsi narrativi. Un volume in cui vengono ricreate situazioni narrative, esistenziali e storiche, come porte di una città che conducono ai suoi primitivi testi e alle loro successive elaborazioni in una forma nuova: una universitas testuale.
Egli ricordava ancora che storia istituzionale e storia della spiritualità non hanno ragione di correre parallele, «c’è una compenetrazione profonda, per cui l’istituzionale non si capisce senza lo spirituale, mentre lo spirituale ha la sua evidente esplicazione istituzionale» (Radici della spiritualità ferrarese, in Boll. Eccl., 2 /1993, 345).
Così per Samaritani la storia della spiritualità non fu a compartimenti stagni, mero esercizio storiografico, ma si intrecciò con la storia religiosa, con quella economica e sociale. La fatica della ricerca minuziosa altro non fu, alla fine, che il mezzo per offrire più spessore di autenticità e di qualità storica. Per il tipo della spiritualità ferrarese sembra emergere un profilo tendenzialmente statico, che comprende però una grande capacità di mediazione nella pastorale tra il nuovo e il vecchio.
Fare lo storico è stato così per lui una vocazione nella vocazione; una chiamata ad educare, condurre fuori e oltre, che impegnava a ritrovare sé stessi, rischiandosi con la propria realtà sociale, culturale e religiosa in relazione. Al tempo stesso, egli ambiva a vivere relazioni veramente comunicative di senso e di esperienza con gli altri, al fine di rendere più disponibili e motivati come presenza riflessiva e fattiva qui e ora nel nostro tempo di umanità e spiritualità.
Samaritani al vivo, dentro la sua opera
Viene così da fare un raffronto tra Samaritani, medievista e storico pomposiano, con la figura bella ed efficace che Bernard Guenée dà dello storico medievale alla voce “Storia”, nel Dizionario dell’Occidente medievale: «Nel Medioevo lo storico si nasconde spesso dietro la sua opera. Per comprendere quanto ha voluto fare non vi è altra risorsa che analizzare l’opera stessa. Tuttavia, più spesso di quanto non si creda, l’autore compare nel suo racconto e, soprattutto, si preoccupa di dire, nel prologo, quali siano stati i suoi fini e i suoi metodi».
Così è stato anche per Samaritani; bisogna infatti cercare soprattutto nelle presentazioni, prefazioni o introduzioni il suo sentire più vivo e le glosse che disvelano i significati del suo cercare come storico e umanista. In questi brevi testi egli ha nascosto il suo metodo storiografico, ma molto di più la sua passione per la vita e per la gente, il suo amore a Cristo e alla chiesa per vivere la fraternità.
Anche per lui come per uno storico medievale «la storia è un racconto semplice e vero destinato a trasmettere alla posterità la memoria di quanto è accaduto. Anche la liturgia aveva il compito di riprendere ogni anno la vita di Cristo e dei santi. Come la liturgia, la storia è strumento di memoria» (ivi, Einaudi, Torino 2004, 1123).
La sua bibliografia del 2015 si compone di 419 titoli tra libri articoli e presentazioni. L’apparato critico e la bibliografia nelle note che corredano le sue ricerche danno le vertigini. Osservava Luciano Chiappini, presentando la bibliografia del 1996:
«C’è in monsignor Samaritani un’estrema attenzione alla ricerca dei dati e delle notizie. I suoi lavori ne traboccano in misura straordinaria. Ma non si tratta di una forma, sia pur rara e sorprendente, di erudizione. Il dato e la notizia sono sempre considerati in funzione del quadro complessivo, del giudizio di assieme» (Cfr. “Acti laboris comes est laetitia; del comune, compiuto lavoro è compagna la gioia”, Quaderno Cedoc SFR 30/2015).
Ma se si vuole guardarlo negli occhi a capolino sopra gli occhiali mentre vi racconta la sua storia, occorre immergersi nella la sua autobiografia: Vicende e pensieri di un prete della Bassa Ferrarese della seconda metà del secolo XX, Cartografica, Ferrara 2014.
Credo di poter dire della sua autobiografia quello che Michel de Certeau scrisse a proposito del Memoriale di Pierre Favre, uno dei primi compagni di S. Ignazio: «volle prendersi il tempo per avviare una conversazione con sé stesso, modo per intraprenderne una con Dio… Un modo per rintracciare l’azione di Dio che costruisce dal di dentro non soltanto ciascuna persona, ma l’umanità intera, l’autentica storia».
Così Samaritani scrive nella premessa delle sue memorie: «Ho scritto queste mie personali note, quasi sospinto da un bisogno incoercibile di chiarire a me stesso (e per poi lungamente meditarle) sulla piccola vicenda della mia esistenza e anche perché i miei fratelli, sorelle, nipoti, congiunti e amici meglio mi potessero conoscere e capire. Potranno, queste note, eventualmente e senza alcuna presunzione, costituire un minimo contributo alla storia della vita religiosa, ecclesiale, locale e risultare infine una marginalissima testimonianza, fra le tante, delle vicende della Chiesa in Italia, nelle sue fasce più periferiche e meno significative, prima e dopo il Concilio»(ivi, 23).
Microstorie
Vi è, credo, una parola chiave che può servirci come guida per attraversare i sentieri testuali delle sue innumerevoli pubblicazioni e che connota significativamente la ricerca storica di mons. Samaritani: essa è “microstoria”, in grado di declinare lo spirito di Samaritani come storico con il suo desiderio di voler intravedere qualcosa “più giù” ancora, di quanto già avesse scovato nei sotterranei della storia, per scendere di livello e rendersi conto degli strati più bassi, di ciò che in essi è segno flebile o appena affiorante.
Egli era infatti convinto che panoramiche storiche omnicomprensive sono irrimediabilmente affette dall’astrattezza. La storia si costruisce con i frammenti della vita; anzi la storia dei piccoli è l’unica vera storia.
L’ambito della “microstoria” si rivela così per Samaritani campo pionieristico che individua piste di ricerca innovative. Una microstoria che diventa punto di convergenza della vicenda spirituale e di quella umanistica, cono di luce veritativo, rivelativo e critico insieme, per comprendere con più autenticità la “macrostoria”.
Al convegno del 22 novembre 2014 a Cento nella sede della Partecipanza Agraria, organizzato per ricordare mons. Samaritani, presentando la sua autobiografia, ho cercato di mostrare la relazione tra questo testo e la sua bibliografia: di questa ne costituisce la chiave e l’orizzonte interpretativo, pur nella pluralità e differenza degli argomenti, che spaziano dal medioevo all’attualità, da studi corposi a recensioni o presentazioni di poche pagine. Il memoriale fa percepire i singoli titoli bibliografici in un insieme organico; sfaccettature di un prisma che narrano di un’unica esperienza umana e spirituale nel suo divenire complesso, evolutivo e storico: la sua imago hominis.
Dal nostro passato una vocazione alla sinodalità da vivere oggi
Per Samaritani i dati, le notizie che trovava spigolando negli archivi, come le stesse persone, erano sempre valutati nel loro quadro complessivo, nelle loro situazioni esistenziali. Non sorprende dunque la sua spiccata tendenza a porre la storia passata in relazione all’attualità, quasi ci fosse in essa un orientamento, una bussola per la vita civile ed ecclesiale dell’oggi. Lo studio del passato è in vista del vivere nel presente per intravederne spiragli di futuro.
Così, dalle sue ricerche nel passato della nostra storia e territorio, emerge una vocazione plurale, come ordito che tiene unite diversità non locali. Lo rivela un aggettivo preso dai suoi testi: “sinecistico”, che richiama l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti, estranee, “allogene”, direbbero gli storici, per riferirsi a popoli e culture non originarie del sito, nate altrove.
È l’abitare insieme nella casa con altri diversi da noi, realizzata proprio dalla e nella convivialità delle differenze; vocazione dunque unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, tendenti a far confluire stili di vita culturali, religiosi e sociali, in modi “distinti ma non dissociati”, in uno scambio reciproco e convergente.
«A modesto parere, – scrive Samaritani – a salvare, rivalutare e perpetuare il patrono civico, il suo duomo e l’unità civica anche in età postridentina, sta la vocazione sinecistica originaria di Comacchio, rilevabile pure in campo ecclesiale» (in La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo medioevo, Bologna 1986, 14).
Anche Cento costituisce una filigrana multipla di esperienze di storia, di spiritualità e di umanità con i suoi quattro borghi “gemmati”, borgo di mezzo fu chiamato il primo, con i suoi Allodieri, piccoli proprietari coltivatori di libere terre, con i Fumanti, gente benestante non originari del luogo e con gli immancabili poveri: «Quei poveri che non conobbero Francesco né nel terz’ordine, né nelle confraternite a base, purtroppo, categoriale», (Il laicato francescano…, Palestra del Clero, 58/1979, 17).
Una vocazione comunitaria alla mediazione e all’integrazione
Ma questo vale anche per Ferrara e la sua storia spirituale. Nel carattere ferrarese e nella spiritualità della chiesa diocesana, è riscontrabile «un timbro di sintesi, non di avanguardia». Ritroviamo anche qui una vocazione ricapitolativa che struttura il profilo identitario locale, interagendo o integrando diversità originarie e provenienti da altrove.
Prova ne sia che il patrono San Giorgio non è un proto-vescovo, né un martire della chiesa locale, ricorda sempre Samaritani, ma viene da fuori: è un santo neo-comunitario, anche se immigrato, un guerriero. Ma proprio grazie al suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione.
Le sue rappresentazioni, quella nella lunetta del protiro come quella nella scultura bronzea presso la tomba del vescovo Ruggero Bovelli in Cattedrale, rappresentano in sintesi il processo di integrazione delle diversità da guerriero con la lancia in resta a pacificatore con la lancia in riposo: come a dire il passaggio di Ferrara da presidio militare a città umanistica.
San Giorgio è scelto così come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto, civis optimo iure, in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno scelto come mediatore.
Antonio Samaritani ha condotto i suoi studi per circoscrizioni territoriali, le Chiese locali. Queste ricerche sono risultate ben definite nella loro dimensione geografica e tuttavia mai anguste, in quanto connesse ad un orizzonte più ampio, sia di letteratura storica sia di ambientazione geografica. Fu la sua cifra stilistica, la capacità di declinare insieme universale e particolare, centro e periferia attraverso un’interazione policentrica.
Parlare di chiese locali ha significato per Samaritani anche riconoscere loro una soggettualità in relazione. Tanto che la loro vocazione sinecistica equivale, nel vocabolario ecclesiale, a vocazione alla sinodalità. La sinodalità è la forma della chiesa, non solo un metodo di convivenza tra diversi, ma una postura interiore ed esteriore del suo abitare nel mondo, tra la gente, con il vangelo.
Attraverso l’esercizio della sinodalità la chiesa è chiamata a esprimere il suo mistero, la comunione che unisce pluralità differenti; e la sua totalità, la sua forma catholica /unita, non è data da una somma di chiese ma dalla loro comunione che unisce differenziando come l’amore.
Il sogno della terra
«Terra, non è questo quel che tu vuoi: risorgere invisibilmente entro di noi?».
Il desiderio della terra è come quello delle storie della povera gente: risorgere in noi. Così ha fatto don Tonino per sé e per noi. Questa potente espressione poetica di Rilke dice bene il servizio ecclesiale e civile di Samaritani, come storico della chiesa.
Far riemergere dentro di noi le coordinate storiche e interpretative del genio cristiano della nostra chiesa diocesana, e non in parallelo ma compenetrandosi con la storia della città, del suo territorio delle sue genti. Di più: essa esprime l’indole e le ragioni dell’amore di don Tonino per la storia minuta, il suo essere incline alle storie della povera gente perché è lì che la terra, l’umano che si trova in essa, hanno bisogno di risorgere, di essere portati alla luce, da noi e in noi.
La storia è come la terra, una soglia che lo storico e pure gli amanti attraversano perché è di coloro che amano e si amano, come ci rammenta Rilke: «logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto consunta, anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo… leggermente».
E questo per fare entrare in noi la viandante umanità – noi pure viatores e velatores dell’umano direbbe Samaritani, narrando altre storie, incrociando altre vite e accompagnarle entro il mistero di un’altra storia invisibile, di una terra e nuova umanità: «Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro vengon meno… Innumerabile esistere mi scaturisce in cuore».
Non è facile e non è tutta qui la IX elegia di Rilke. È solo il respiro, un battito appena di un mistero di speranza sepolta che sogna la luce, a cui anche le storie più crudeli anelano, sospirando il riscatto, il capovolgimento del destino celato nell’attesa di risurrezione.
Ma perché, se è possibile trascorrere questo po’
d’esistenza
come alloro, il verde un po’ più cupo
di tutto l’altro verde, le piccole onde ad ogni
margine di foglia (sorriso di brezza) – perché
costringersi all’umano e, evitando il Destino,
struggersi per il Destino?…
Non per curiosità o per esercizio del cuore,
questo, anche nel lauro sarebbe…
Ma perché essere qui è molto, e perché sembra
che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste
effimere
che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri.
Ogni cosa
una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.
E anche noi
una volta. Mai più. Ma quest’essere
stati una volta, anche una volta sola,
quest’essere stati terreni pare irrevocabile.
E così ci affanniamo, e lo vogliamo compiere,
vogliamo contenerlo nelle nostre semplici mani,
nello sguardo che ne trabocca e nel cuore che non ha
parola…
Anche il viandante dal pendio della cresta del monte,
non porta a valle una manciata di terra,
terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,
pura, la genziana
gialla e blu. Forse noi siamo qui per dire: casa
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre. Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,
nell’intimo,
mai intendevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta
di questa terra che sa tacere, quand’essa sollecita gli
amanti così
che ogni cosa, ogni cosa s’esalta nel loro sentire?
Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto
consunta,
anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo…
leggermente.
…
Terra, non è questo quel che tu vuoi, invisibile risorgere in noi? – Non è questo il tuo sogno, d’essere una volta invisibile? – Terra! invisibile!
Che è mai, se non trasmutamento quello che sì
pressante ci commetti?
Terra, tu cara, accetto. Oh, credi, non ci sarebbe più
Bisogno
delle tue primavere per guadagnarmi a te, una,
ah, una sola è fin troppo per il sangue.
Da lungi e senza nome io mi dichiaro a te.
Tu eri sempre nel giusto, e la tua santa pensata
è la confidenza con la morte.
Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro
vengon meno… Innumerabile esistere
mi scaturisce in cuore.
(Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Torino, Einaudi, 1978, 55)
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Presto di mattina. In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 1. parte
Una prossimità di storia e di vita: sulle tracce della povera gente
«Incline per indole alla storia minuta quotidiana della gente qualsiasi, ho preferito guardare in faccia a quello che mi sembrava il reale, senza orpelli ma senza precomprensioni di favore o di sfavore, in libertà di spirito» (Vita religiosa e autoriforma (cattolica) nella Cento pretridentina (aa 1423-1539), Cento 2008, 3).
In queste poche righe Antonio Samaritani ci ha lasciato intravedere un tratto significativo della sua personalità, del suo sentire e declinare la storia in umanesimo e spiritualità, “amando cordialmente povertade”, direbbe Beltramo de Rupta di Ferrara, eremita con sensibilità pastorale vissuto nel sec. XV. «Lo studio della storia della Chiesa – mi disse in un incontro a Cento – necessita di persone nascoste, di condizione umile, che si interessino degli umili».
In un’intervista su Innovazione (aprile 1993, 5) Samaritani alla domanda: “Cosa ha significato per lei questo impegno di studio e di ricerca?” rispose: “È stato, e lo è tuttora, un realizzo interiore e personale. Una continua ricerca, approfondimento e riscoperta della fede. La storia la vivo come un approccio concreto verso la Verità, una strada angusta ma sicura verso il mistero di Dio».
Molto prima, in un’altra intervista a Il Resto del Carlino del 26 giugno 1979, in occasione del Convegno sulla Cattedrale cittadina, in merito alla sua predilezione per la storia medievale del territorio ferrarese, rispose senza indugiare: «È la storia della povera gente dei secoli X e XI. L’attività caritativa del mondo monastico, dei conversi (i monaci più poveri), dei servi della masnada (i feudatari più umili), è tipica della nostra terra e del Friuli».
Aggiungendo che la storia medievale è un “fermento pluralistico” «con il Medioevo abbiamo rivisto le nostre convinzioni: I poveri di Cristo – Istituto di carità durato dalla fine del ‘300 alla metà del ‘500 – emblematizza il medioevo spirituale per molte diocesi d’Italia e la stessa ‘devotio moderna’ si ispira ai francescani. Chiamiamo in causa, con il Medioevo, anche il Comune di Ferrara perché la nostra storia non si ferma intorno all’area degli estensi».
È solo grazie all’investigazione di minuti e poveri reperti, quali sono le disposizioni testamentarie, che mons. Samaritani ci ha testimoniato che: «L’anima più profonda della mentalità religiosa ferrarese dal 1095 al 1399 è da trarsi dalle due grandi direzioni in cui è andata ad articolarsi la religiosità cittadina: il versante della pietà e quello della carità» (La Chiesa di Ferrara tra pieno e basso medioevo, in La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio, I, 413, infra).
Un Convegno per ricordarlo
Oggi nel X anniversario della morte, il 18 novembre 2013, l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio unitamente all’Archivio Storico Diocesano ha organizzato un convegno per ricordarne la figura e la ricerca storiografia in ambito pomposiano, ferrarese e centese. Il convegno si articola in due sessioni, la prima nella mattinata a Cento, l’altra nel pomeriggio in Ferrara a Casa Cini.
Antonio Samaritani, nato a Comacchio il 25 maggio 1926 è ordinato sacerdote a Cento l’11 giugno 1949. Ottenne la laurea in teologia, indirizzo storico, presso la Pontificia Università del Laterano nel 1955. Dal 1969 fu docente presso il Seminario di Ferrara nonché presidente dell’Istituto di cultura “Antica Diocesi di Comacchio” a partire dal 1986 (anno di fondazione) sino al 2004.
Fu socio effettivo della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria dal 1960 e consigliere dal 1985. Iniziò la vita pastorale come vicario parrocchiale a Lagosanto dal 1949 al 1952, fu direttore spirituale del Seminario di Comacchio dal 1950 al 1952, poi parroco di Medelana dal 1956 al 1976. Dopo il gravissimo incidente del 1974, dal 1977 si stabilì a Cento, vicino ai familiari; in quell’eremo di pazienza poté quindi dedicarsi a tempo pieno alla ricerca storica e agli studi, alla preghiera di intercessione e al ministero dell’ascolto delle persone.
Storico pomposiano
Samaritani fu editore e curatore degli statuti civili duecenteschi dell’abbazia di Pomposa e poi nel 1963, dei regesti delle prime 860 pergamene (dall’a. 874 all’a. 1199). Questa ricerca documentaria e gli studi sull’Abbazia pomposiana proseguiti in seguito lo designarono “storico pomposiano”.
Decisive in questa sua opera furono le vicende che portarono Samaritani all’acquisizione delle carte di Pomposa presenti a Montecassino; un “recupero tormentato”, un lavoro fatto in collaborazione con l’Istituto dei Beni culturali di Bologna e che sortì l’acquisizione in microfilm del Codice diplomatico del monastero cassinese.
Al suo nome, o meglio, al suo decisivo impulso iniziale è indissolubilmente legata la collana degli Analecta Pomposiana, iniziata nel 1965 con il volume celebrativo del IX centenario del campanile di Pomposa.
Una circostanza che dette avvio al Centro italiano di studi pomposiani, cui si affiancò l‘Istituto per la storia religiosa delle diocesi di Ferrara e Comacchio. (Le origini del monastero di Pomposa fra VI e X secolo, in Analecta Pomposiana, 15 (1990), 15-36.
Alla salvezza si giunge piangenti
Al Convegno Delta chiama Delta del 1996 al Lido degli Estensi in vista del Giubileo del 2000, che affrontava il tema dello stretto rapporto tra religiosità e territorio circostante, Samaritani ricordava che la realtà deltizia del Po è «la realtà antica di una civiltà navigatrice che ha saputo estendere i propri rapporti commerciali fino al Reno, al Rodano, al Danubio ed oltre.
La storia del Delta del Po affonda le proprie origini nel ritrovamento della Stele funeraria di Aufidia Venusta, – una donna ancora pagana del nostro territorio vicoaventino, nel primo secolo dell’era cristiana – rinvenuta tra Argenta e Portomaggiore, riportante lo strazio di una madre privata dell’unico figlio.
La sofferenza della donna, indirizzata ai viandanti “per terra e per fiume” è da considerarsi come l’espressione più autentica dell’indole del popolo deltizio. È con le lacrime agli occhi che si giunge alla salvezza. Emblema significativo dell’emarginazione e della solitudine che caratterizzavano, insieme ad una profonda solidarietà, il carattere degli abitanti del Delta del Po.
La connessione tra la natura tipica della zona e l’insediamento in loco di comunità religiose dedite alla meditazione pressoché eremitica fu amplificata dall’edificazione dell’Abbazia di Pomposa. Centro da cui fu diffuso il messaggio solidale; essa forse in epoca carolingia fu di grande rilievo in quanto anello di congiunzione tra la civiltà ecclesiastica e quella laica; dall’Abbazia, infatti, partì la nuova concezione del pensiero benedettino che, per la prima volta, affiancava al pellegrinaggio la solidarietà, il martiro e l’evangelizzazione come una pacifica crociata» (Fonte, La Nuova Ferrara, 14.9.1996).
«Mediazione e lacrime»
Mediazione e lacrime costituiscono per Samaritani i tratti spirituali dei luoghi a connotazione valliva e fluviale, come i nostri, impregnati da un vangelo latente nella sua gente. Ma proprio in questo contesto di marginale espressione spirituale, proprio in questo retaggio di condizione minoritaria, rispetto ai grandi flussi e figure della spiritualità cristiana, – viene da dirsi infatti: quale buon saluto, quale evangelium possono mai annunciarci il silenzio degli eremiti e le lacrime di una madre e per giunta pagana, in lutto per il figlio morto?
Proprio nella umilissima semplicità di una annunciazione, di un saluto inciso sulla pietra: “Salvete et bene valete”, con cui questa donna, pur schiacciata dal male, augura il bene ai viatores e ai velatores di passaggio, praticando così la regola d’oro gesuana fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi (Mt 7, 12-14), si rivela così la buona notizia del Regno di Dio, la sua più struggente priorità, quella di consolare e di farsi carico delle lacrime e del dolore degli uomini.
Così è nata la ricerca di una storia “altra”
Samaritani fu sempre alla ricerca per sé e per gli altri di una “storia altra”, come ricorda lo storico francese Fernand Braudel. Tanto da scrivere nell’introduzione al libro su mons. Ruggero Bovelli di A. Baruffaldi circa l’esigenza di una «biografia diversa, “altra appunto”, che potesse evidenziare «quel “particulare” esistenziale tutto bovelliano di accattivante umanità»; come a dire: la storia minuta, le microstorie della povera gente.
Il percorso storiografico di mons. Samaritani fu proprio quello di istruire piste di ricerca e studi coinvolgendo altri studiosi in un tracciato interdisciplinare che facesse emergere profili di religiosità e di civiltà locali, marginali e dunque a valenza e significato sociale e mai disgiunte tuttavia dal contesto storico globale, tenendo insieme e avendo presente sia gli avvenimenti che le strutture: una ricerca che si muovesse dentro e fuori porta, “tra Istituzioni e Società”.
Due secoli dopo il Compendio della storia sacra e politica di Ferrara, Bologna, Forni, 1972 del Manini Ferranti, ecco uscire i due volumi: A. Benati – A. Samaritani, La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio, I, secoli IV-XIV, Corbo, Ferrara 1989 e II, secoli XV-XX, L. Chiappini, W. Angelini, A. Baruffaldi, coord. A. Samaritani, Corbo, Ferrara, 1997.
Quest’opera è rivelativa e programmatica di uno stile, del declinare insieme chiesa e società, presenza religiosa nella città e nel territorio così da evidenziare il carattere “soggettuale”, relazionale della chiesa diocesana, come chiesa situata in loco, protesa verso l’altro.
Una storia innovativa
Così Samaritani commentava l’esito di quella ricerca: «Innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a fissare il rapporto tra comunità religiosa e comunità civile della Chiesa ferrarese. E questo a livello, ad un tempo, scientifico nella sostanza e alto divulgativo nella forma.
Era tale sintesi – nel progetto – destinata alla Chiesa diocesana, nell’atto che si andava e sempre più prossimamente si va preparando al sinodo, convocata dal suo pastore. Uno sguardo panoramico quindi, alle origini e all’esperienza dodici volte secolare che si ponesse come strumento alla individualizzazione e al recupero obiettivi della identità specifica di questa nostra tipica Chiesa locale» (ivi, v. I, 341).
Compreso come un servizio culturale, ecclesiale e cittadino che prevedeva un solo volume, divenne in seguito un progetto complesso nella forma di una trilogia, completato da un volume di sintesi sulla spiritualità per «recepire istanze sempre più introspettive e stimolanti, come del resto è invalso dalla paradigmatica Storia d’Italia di Einaudi in poi (…) va timidamente profilandosi all’orizzonte un altro volume dedicato alla storia del sentimento religioso, della spiritualità e della pietà (Bremond, più De Luca, più Braudel, per intenderci) ferraresi e comacchiesi ad un tempo, muovendo dal versante liturgico per approdare a quello laicale e popolare» (ivi, 342).
(Continua domani su Periscopio)
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Tania Innamorati firma un “mockumentary” su un bambino che non vuole nascere. Premio ‘climate change’ al Ferrara Film Corto Festival 2023 (FFCF), l’abbiamo incontrata per soddisfare alcune curiosità.
Guarda “Il Mai Nato” nella versione integrale in fondo all’intervista.
Dopo “One day all of this will be yours”, oggi vogliamo parlare de “Il Mai Nato”, Premio ‘climate change’ del FFCF 2023 dedicato all’interpretazione della tematica relativa al cambiamento climatico a Tania Innamorati e Gregory J. Rossi per l’originalità e l’ironia con le quali vengono trattati tutti i paradossi di una società contemporanea nella loro complessità. Entrambi i corti parlano di un mondo che non dà più molte speranze, un mondo ormai irrespirabile, invivibile e sanguinante consegnato alle nuove generazioni, che tanto ignare del dramma e del pericolo poi non sono.
Tania Innamorati riceve il Premio ‘climate change’ al FFCF 2023
Tania Innamorati riceve il Premio ‘climate change’ al FFCF 2023
Profondamenti colpiti da “Il Mai Nato”, la storia del primo e unico bambino al mondo che si è rifiutato di nascere, barricandosi nell’utero materno per 18 anni come forma di protesta sociale e diventando un simbolo per le persone di tutto il Mondo, abbiamo voluto incontrare la regista Tania Innamorati.
Ma prima alcune precisazioni. “Il Mai nato” è un ‘mockumentary’ (un falso documentario) di 20 minuti che racconta, attraverso la voce dei media nazionali e internazionali e di alcuni testimoni, l’epopea di questo bambino che sta bene dove si trova, Sarò Messina.
Un’invenzione geniale che vuole affrontare, in modo ironico, avvalendosi dell’assurdo, le storture della società contemporanea, ponendo un dubbio socio-esistenziale che tutti noi abbiamo avuto almeno una volta: “ha davvero senso nascere in un mondo come questo?”.
Il corto, selezionato in molti festival importanti (fra i quali il “Los Angeles, Italia Film Festival” e il “Bellaria Film Festival”) e vincitore dell’’Audience Award’ al “Festival Afrodite Shorts”, è prodotto dal gruppo tutto al femminile Le Bestevem, in collaborazione con Nero Film, e da Roberto Benuzzi e distribuito da Premiere Film.
Le Bestevem
Molte le curiosità per Tania, che abbiamo raggiunto telefonicamente, soprattutto sulla genesi del corto, su come è stato progettato e poi costruito e sui progetti futuri.
Le Bestevem, ci anticipa, è l’acronimo che racchiude le dieci iniziali delle fondatrici dell’associazione, creata nel 2013, trasformatasi poi in società di produzione. Anche se oggi sono rimaste in tre (Eva Basteiro-Bertolí, cantautrice e produttrice, Ester Stigliano, architetta e scenografa e Tania Innamorati, produttrice e autrice) hanno voluto mantenere il nome a cui restano molto legate. Un logo simile a quello di Barbie, nella sua travolgente femminilità, un sogno, un progetto culturale, una factory di giovani talenti, un modo di vedere e raccontare la realtà. La volontà di realizzare film che raccontino il mondo nei suoi chiaroscuri, accendere un faro su chi non ha luce, su chi non ha voce.
Alcune domande per Tania, allora, tanta la disponibilità, la cortesia e la gentilezza.
Siamo curiosi di sapere come è nata l’idea de “Il Mai Nato”, quale ne è stata la fortunata genesi? Pensiamo che l’intuizione sia geniale…
Al quinto mese di gravidanza ho avuto un’illuminazione: mi sono chiesta, che mondo lascerò ai miei figli? Quello della gravidanza è un momento davvero molto creativo.
Al tempo frequentavo un corso di sceneggiatura e dovevo pensare a un corto, un progetto da inventare e da descrivere. Ecco arrivare l’idea, mi pareva una follia, ma una cara amica, una brava sceneggiatrice, mi ha detto che l’idea era ottima e funzionava. Poi l’ho scritto in un giorno e mi pareva poco professionale averlo fatto in così poco tempo. Ho però provato a metterci le mani in seguito, ma non sono riuscita a cambiare nulla.
Come lo hai costruito, ci sono molte scene di manifestazioni, di proteste o di folle acclamanti. Sembrano tratte dalla vita reale, è così?
In effetti è così. Mi piace molto mescolare immagini esistenti, giocarci, usarle per raccontare quello che voglio. All’epoca ero rimasta molto colpita dal finto trailer di “Shining” montato come una commedia romantica. Mi affascina come musica e montaggio possano cambiare il senso dell’idea del film, stravolgerlo, come ci si possa servire di alcune immagini per raccontare la propria storia. Il 60 percento delle immagini del corto – tratte dal web, da YouTube, da Vimeo o da archivi a pagamento, sempre non troppo costosi – sono di repertorio, le ho usate e montate per raccontare la mia storia. Nel mio ordine e per la mia finalità.
E poi, aggiungiamo noi, qui ci sono le storture di questo mondo, il potere dei social media, le strumentalizzazioni dei politici, la loro incoerenza e il non rispettare le promesse fatte…
Una scena del corto
Perché Sarò Messina?
Mi piaceva il connubio fra il nome tipicamente siciliano Saro e quel verbo futuro da usarsi per un bambino che non voleva nascere, da qui Sarò. Se il nome era siciliano bisognava, di conseguenza, ambientare la storia in Sicilia, ed ecco quindi anche il cognome, Messina; mi pareva una scelta drammaturgia interessante e originale. Il tutto in un contesto non ricco e in certi luoghi anche un po’ degradati. Era un set ideale.
Una scena del corto
Quando avete effettuato le riprese e come avete scelto gli attori?
Le riprese sono state fatte in una settimana, il corto è stato girato interamente e molto prima del montaggio, in epoca pre-Covid. Le mascherine utilizzate parlavano di un mondo divenuto irrespirabile, al momento delle riprese nulla lasciava presagire quello che il Covid avrebbe comportato. Incredibile quindi che quelle mascherine usate per il film siano servite dopo… Alle presentazioni ai festival tutti pensavano, inizialmente, che si trattasse di un film sul Covid. Invece era stato solo un incredibile presagio.
Quanto agli attori, non ho usato attori professionisti, tranne il padre di Sarò. Ci sono poi anche alcuni giornalisti della carta stampata, tra i quali Giorgio Meletti e Guido Torlai. Abbiamo fatto molti provini, tutti siciliani, a parte i ruoli che non lo prevedevano. La nonna di Sarò, Catena, è davvero bravissima. Far recitare in un ‘mockumentary’ un attore non è semplice, l’attore recita sempre e qui servivano persone della società civile che ‘vivono’ la storia. Aurora Peres è la sola attrice adatta a far finta di non recitare che ho voluto. Per questo ho scelto persone di altri mondi.
La nonna di Sarò
Progetti per il futuro?
Oggi il corto va in pensione, ha fatto la sua strada, ha dato le sue soddisfazioni. Anche se, in realtà, stiamo ragionando sulla fattibilità di farne un lungometraggio o una serie.
Sto lavorando su un documentario su due Centri di Recupero per bambine e bambini-soldato, in Uganda e in Congo Kinshasa, per la regia di Christian Carmosino e dal titolo provvisorio “Adieu Maman”.
Ad impegnarmi molto anche il “48 Hour Film Project Roma”e il progetto, per cui abbiamo appena vinto un bando, finanziato dall’ambasciata americana, rivolto ai licei artistici multimediali in Italia, che mira a sensibilizzare i ragazzi sull’ambiente attraverso video da loro stessi girati.
In attesa di tanti (bellissimi) progetti futuri, ci salutiamo. Ad maiora, Tania. E grazie.
Giuliese di nascita, romana d’adozione, è laureata in Dams, diplomata presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, ha conseguito un Master in comunicazione presso l’Università per Stranieri di Perugia e un Master in Scrittura Creativa alla Scuola Holden di Torino. Dopo aver seguito la produzione di diversi programmi televisivi per La7 e per TV2000, ha creato la piattaforma Cineama.it: community online per appassionati di cinema finalizzata alla produzione e distribuzione di film indipendenti grazie alle pratiche partecipative della rete, premiata come Miglior Progetto Pilota in Europa da Media nel 2013. Da oltre 10 anni organizza il 48 Hour Film Project Roma, con Le Bestevem di cui è Presidente. Parallelamente scrive, dirige e produce progetti propri. Ha all’attivo il cortometraggio “Eve Al Desnudo”, selezionato al Festival di Cannes 2015, sezione ‘Short Film Corner’, le cui musiche sono state concesse da Ian Anderson, leader dei Jethro Tull.
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