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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Aspettando “Ferrara Film Corto Festival”, altri corti per voi.
Intanto è finalmente online il programma completo della VI edizione

Aspettando la VI edizione del “Ferrara Film Corto Festival”, dal 25 al 28 ottobre 2023, continuiamo presentarvi gli ultimi cortometraggi vincitori dello scorso anno.

Qui vi abbiamo presentato la prima serie di cortometraggi vincitori della passata edizione.

A voi, ora, la seconda parte di questa carrellata, in attesa di incontrarci e incontrarvi tutti alle VI edizione che si terrà dal 25 al 28 ottobre presso la rinnovata sala dell’ex refettorio di San Paolo.

SVELATO IL PROGRAMMA DI QUESTA EDIZIONE, È ONLINE (CLICCA)  

PREMIO ASCOM AL “MIGLIORE ATTORE”: Giacomo Bottoni, LELLA
“Per la pulizia e la precisione con le quali riesce a tratteggiare la psicologia del personaggio”.

Roma, notte di Capodanno del 1978: Edoardo è tranquillo, quando riceve una visita inaspettata. È un suo giovane conoscente, scosso da un pensiero fisso di cui non riesce a liberarsi. Una volta entrato in casa, il ragazzo inizia a raccontare la sua indimenticabile storia d’amore clandestino… Lella, occhi azzurri bellissima, la moglie del ricco Proietti che non la guarda più e pensa solo ai soldi. Il mare, l’orizzonte, la tenerezza, quello che pare un dialogo ritrovato. Ma qualcosa di inaspettato, di inesplicabile, di terribilmente attuale succede. Sssst, dice Edoardo, non lo dite a nessuno…

PREMIO SPECIALE “#CLIMATECHANGE”: BOA
“Per l’efficacia descrittiva e per la radicalità del messaggio, che non lascia spazio alla sopravvivenza umana”.

Uomo e devastazione sono sempre stati sinonimi da tempi immemorabili nell’intero regno animale (Horacio Quiroga). E questo film di animazione, bellissimo e colorato, contrappone con forza le due dimensioni. Perché l’uomo ripete sempre gli stessi immancabili errori, la storia si ripete e la memoria vacilla. Con noncuranza avanza, imperterrito e deciso nell’ottenere i suoi scopi, fisso sui suoi obiettivi. Senza speranza. Costi quel che costi. Ma la natura è capace di sopravviverci, noi, senza di lei, no.

PREMIO PUNTO 3 “ALL’OPERA PRIMA CHE TOCCHI TEMATICHE AMBIENTALI”: I PANARA
“Per il modo in cui viene trascinato lo spettatore alla riscoperta di un’arte antica in sintonia con la natura”.

Canne al vento, alberi, rami, rametti. Un’abilissima mano umana li accarezza, li intreccia, ne fa forma. Con amore, precisione, attenzione, cura, dedizione, passione e delicatezza. Finché quelle canne leggere diventano cesto, un luogo caldo pronto ad accogliere i frutti della madre terra. Funghi. Un abbraccio fra frutti.

MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA: Roberta Pazi, A PIEDI NUDI
“Per l’intensità della sua interpretazione, che salva il protagonista e rilancia la narrazione”.

Il calzolaio, la moglie che non c’è più, la solitudine, il pianto e il lavoro perso. E poi, con la povertà, la strada, lo sbeffeggiare impietoso di alcuni ragazzi, Mentre il tempo passa, inesorabile. Ma eccolo, l’incontro tra solitudini che, alla fine, si fanno compagnia, uno scambio di fiori rubati e n pasto frugale condiviso. La bellezza delle rughe solidali, di sguardi e mani che si ritrovano, nel tepore di una vecchia roulotte.

MENZIONE SPECIALE DELLA DIREZIONE ARTISTICA: Rainer Bartesch, OUR WORLD IS ON FIRE
“Per l’eccezionalità del messaggio ambientalista, espresso mediante il potere trasversale della composizione musicale”.

Musica potente e il mondo che va in fiamme. Poche le parole. Ascoltare, per credere.


PREMIO SPECIALE “GIURIA GIOVANI” AL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO: LA PETITE FOLIE

Parigi occupata nel 1943. Un gruppo di eleganti disadattati, compagni nello stile di vita bohémien sotterraneo, si uniscono per sfidare l’oppressione del nuovo ordine nazista. Come gruppo, prendono un’ultima posizione per dimostrare la capacità di recupero dello spirito umano. Grigio nel grigio, grigio su grigio. Ma…?

 

Vite di carta /
Ricordi di scuola. Partendo dal volto e le parole di David Grossman

Vite di carta. Ricordi di scuola. Partendo dal volto e le parole di David Grossman

La scuola è ricominciata da poche settimane e mi si ripresentano molti ricordi. Sarà che facendo l’insegnante ho vissuto un tempo ciclico, dal settembre di ogni anno al giugno successivo, per quasi tutta la vita.

Li scorro velocemente e li possiedo tutti quanti in un solo istante. Capisco che non è del loro contenuto che vorrei parlare, ma della loro funzione di sostegno, della rete di idee che mi fa da guida e che continua a srotolarsi sotto i miei passi.

Finirò per riparlare di libri o comunque di letture, come stazioni di posta nel cammino che ho già percorso; tuttavia il punto di partenza è una considerazione sulla situazione internazionale e sulla condizione umana.

Parto dalle notizie di queste ore che arrivano da Gaza e Israele: è la prima volta che ricevo aggiornamenti di guerra da quella parte del mondo avendo davanti i volti di miei compaesani che proprio in questi giorni si trovano in pellegrinaggio a Betlemme.

Anni fa al Festivaletteratura a Mantova era il volto di David Grossman a occuparmi la mente, le sue parole cariche di pace ma allarmate per la situazione in atto nella sua città,  Gerusalemme. Era il 2003.  Parlò poco dopo dei suoi libri, della scrittura che gli permetteva di lasciare la bruttezza del mondo per indagare a fondo i sentimenti umani, di staccarsi dalla contingenza della storia e “cedere alla tentazione di diventare un altro, di accogliere dentro di te il nemico”.

Ho trovato queste parole nei miei appunti di vent’anni fa, credo che siano quelle esatte. L’altra su cui si trattenne a lungo è la parola amore, ne diede tra le altre la definizione che riporto: “l’amore è permettere all’altro di essere molte persone“. Mi colpì e mi colpisce ancora oggi, come per tutte le affermazioni potenti che acquisiscono ogni volta un nuovo senso, senza averne uno definito per sempre.

Un libro che dovrei rileggere è il suo Qualcuno con cui correre, che era uscito in Italia due anni prima, nel 2001, che comprai e lessi subito dopo.

Intanto in questi mesi ho ritrovato qualcuno con cui scrivere di scuola. Due lavori di gruppo, svolti nell’estate in preparazione di due diverse pubblicazioni, mi hanno permesso di lavorare insieme ad alcune ex colleghe del Liceo, oltre che all’amica storica Maria, e anche con ex studenti usciti da molti anni che hanno collaborato con noi nella veste autorevole di professionisti di formazione universitaria  scientifica.

Con l’occasione ci siamo chiariti che la ricostruzione degli ultimi cinquant’anni della nostra scuola, fatta attraverso i contributi  di chi l’ha vissuta dai banchi e dalla cattedra, non riveste un significato (solo) nostalgico, né si è spesa entro i limiti delle nostre individualità.

Abbiamo inteso ripercorrere il cammino di una comunità che si è dedicata alla formazione dei giovani, dentro il sogno della scuola innovativa che abbiamo cercato di realizzare, attenta alla crescita personale e al dialogo tra le generazioni, al contempo rigorosa nei metodi di studio, sensibile agli statuti delle discipline e a ogni intreccio interdisciplinare.

Abbiamo ricordato per guardare avanti, per porgere l’immaginario che abbiamo condiviso all’attenzione della scuola che verrà.

Elia e Pietro, 17 anni o giù di lì, mi hanno scritto un messaggio carinissimo pochi giorni fa. Avrebbero avuto il piacere di un saluto, se fossi passata in Castello al Bookshop dove stavano lavorando come reporter a Internazionale a Ferrara 2023. Che piacere profondo. Realizzo che è per questo che frequento i ricordi, per attrezzarmi a stare al passo con i ragazzi e cercare con loro di guardare avanti.

C’è chi cede ai ricordi personali col piacere di indugiare nella propria esperienza, anche in certe pieghe riposte. L’ho constatato in questa recente avventura di scrittura e di editing, e mi ha fatto piacere misurarmi con i percorsi altrui. Ho anche ripensato al bel libro di Diego Marani, Il compagno di scuola, in cui mi sono avidamente rispecchiata anni fa durante la prima lettura. Anche questo libro dovrei rileggere.

Quando l’autore venne all’Ariosto a parlarci di una altro suo romanzo di pregio, Nuova grammatica finlandese, ebbe la curiosità di rivedere l’aula in cui aveva trascorso molte ore nei suoi cinque anni al Liceo.

Parlò a lungo di ricordi suoi, del disagio provato nell’inserirsi nel gruppo classe come pendolare, della sua adolescenza assolata vissuta tra Tresigallo e la sede del Liceo in Via Arianuova.

Ora, il libro è anche molto altro al di là della contrapposizione tra studenti di città e studenti di campagna. Tuttavia mi dà man forte nella considerazione che ne ricavo sulla qualità della mia memoria, ora che ho superato la linea del pensionamento e condivido da fuori preziosi momenti di scuola con colleghe e studenti.

È la memoria di una comunità quella che mi appartiene e mi restituisce un irrinunciabile pezzo di identità. Qualcosa di condiviso che non ha perduto la sua spinta proprio in quanto mi scavalca come singola insegnante e si fa memoria tesaurizzata del progetto formativo a cui abbiamo dedicato la nostra carriera.

Mi accade di comportarmi nello stesso modo anche nella sfera privata: non mi riesce di esternare né il mosaico di pensieri che ho dentro, né le singole parti. Un po’ di ognuna, ma virando appena possibile verso l’implicito. Sarà che più invecchio e più mi pare che la vita di ognuno somigli alla vita di tutti. Mi pare, così, che dovremmo capirci. Vedere nell’altro sempre meno il diverso.

Nota bibliografica:

  • David Grossman, Qualcuno con cui correre, Mondadori, 2001
  • Diego Marani, Il compagno di scuola, Bompiani, 2005
  • Diego Marani, Nuova grammatica finlandese, Bompiani, 2002

Cover: Ferrara – Internazionale 2023 – Studenti del Liceo Ariosto di Ferrara e del Liceo Alfieri di Torino

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

LA CONVENZIONE DI ISTANBUL E LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

La Convenzione di Istanbul e la violenza contro le donne

L’Unione Eropea ha ratificato il 28 giugno 2023 la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (STCE n. 210), nota come Convenzione di Istanbul [Qui il testo completo]

La Convenzione ha l’obiettivo di:

  1. proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica;
  2. contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne;
  3. predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica;
  4. promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica;
  5. sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica. (Articolo 1).

La ratifica da parte dell’UE era prevista dalla Convenzione di Istanbul (art. 75) ed era tra le priorità della presidenza Von Der Leyen. Oltre a ciò, la Commissione e il Parlamento UE hanno promosso l’adozione di una direttiva sul contrasto alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, la cui proposta è stata presentata l’8 marzo 2022.

Tale proposta stabilisce:

  • norme minime sulla definizione dei reati “nei settori dello sfruttamento sessuale delle donne e dei bambini e dei crimini informatici” e sulle sanzioni;
  • diritti delle vittime di ogni forma di violenza contro le donne o di violenza domestica prima, durante e dopo il procedimento penale;
  • protezione e sostegno delle vittime.

La Convenzione di Istanbul si applica principalmente alle donne perché copre forme di violenza che solo le donne possono subire in quanto donne (aborto forzato, mutilazioni genitali femminili), o che le donne subiscono molto più spesso degli uomini (violenza sessuale e stupro, stalking, molestie sessuali, violenza domestica, matrimonio forzato, sterilizzazione forzata).

Tuttavia, anche gli uomini subiscono alcune forme di violenza trattate dalla convenzione, come violenza domestica e matrimonio forzato, anche se più di rado. La Convenzione ne prende atto e incoraggia gli Stati parti ad applicare le sue disposizioni a tutte le vittime di violenza domestica, compresi uomini, bambini e anziani.

A seguito della ratifica appena entrata in vigore, l’UE sarà soggetta a valutazione da parte del GREVIO, il comitato di esperte ed esperti istituito dalla Convenzione. Il GREVIO è l’organismo indipendente del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul in tutti i paesi che l’hanno ratificata ed è costituito da un Gruppo di esperte sulla violenza di genere.

Tale organismo ha avviato nel 2018 la procedura di monitoraggio e valutazione dell’applicazione della Convenzione di Istanbul. Il lavoro del GREVIO si basa sui rapporti forniti dai governi e dalla società civile (il cosiddetto “rapporto ombra”), per valutare le misure legislative e politiche adottate dagli Stati membri del Consiglio d’Europa e per dare piena applicazione delle misure previste dalla Convenzione di Istanbul.

Qualora si renda necessario intervenire per prevenire e porre fine a pratiche di violenza contro le donne previste nella Convenzione, il GREVIO può anche avviare speciali procedure d’inchiesta. Sia la revisione periodica dell’attuazione della Convenzione di Istanbul che tali speciali procedure di inchiesta, si concludono con la pubblicazione di Raccomandazioni, inviate ai governi affinché attuino le misure proposte per porre fine alle pratiche di violenza che persistono.

Mi sembra di poter dire che:

  • L’adozione di tale normativa è un momento importante della vita civile dell’Europa.
  • Il riconoscimento di un atto normativo sancisce sempre un passaggio che spinge verso una condivisione di tipo culturale e ideologico.
  • Penso anche che, a fronte di tutta una serie di atti normativi che procedono il loro difficoltoso cammino verso l’emersione della violenza e la denuncia di tutti gli stati di non-parità, esista una dimensione del vivere davvero triste. Mi riferisco in modo particolare al problema dei femminicidi. Nel 2022 in Italia sono state uccise 119 donne (fonte ISTAT), nel 2023 sono già tantissime (si veda: https://femminicidioitalia.info/lista/2022).

Si direbbe che a fronte di una situazione normativa in evoluzione il fenomeno sia in crescita e la situazione preoccupante. La psicologia insegna che ci sono alcune condizioni che solitamente si riscontrano tutte le volte che avviene un femminicidio.

Esistono dei fattori scatenanti, la cui costante è la mascolinità tossica. Tale tossicità è rappresentata da un insieme di credenze sedimentate culturalmente che portano a considerare la donna come un oggetto privo di identità e di autonomia, privo del diritto di essere considerato un essere umano, con tutto ciò che ne consegue.

Le costanti che sono presenti negli episodi di femminicidio sono: un grado di scolarizzazione basso, violenze che l’uomo ha subìto quando era bambino, violenze domestiche cui l’uomo ha avuto modo di assistere da bambino, l’abuso di droghe, una condizione di disparità di genere nella quale si è cresciuti. Su tutto ciò è necessario intervenire non solo con atti normativi ma con prassi, educazione, formazione, controllo.

Credo anche che la parità sia sempre un fattore ambivalente e non il dominio di un genere sull’altro. A questo proposito vanno citati anche i pochi casi che si registrano in cui una donna uccide un uomo. Il fenomeno non è comunque paragonabile quantitativamente al suo contrario e l’uso della parola ‘maschicidio’ non utilizzabile. Si conoscono infatti i meccanismi attraverso i quali si manifesta un femminicidio, non altrettanto vale per le motivazioni delle pochissime donne che decidono di uccidere un uomo.

La Convenzione di Istanbul non si occupa solo dell’apice dei fenomeni di violenza sulle donne, ma di tutte le forme di violenza riscontrabili. Nel documento si fa infatti riferimento a: violenza sessuale e stupro, stalking, molestie sessuali, violenza domestica, matrimonio forzato, sterilizzazione forzata, etc.

Per ciascuna di queste forme di violenza si potrebbe scrivere un libro, molto diffuso è il fenomeno dello stalking. Stalking è un termine utilizzato per indicare una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo, detto stalker, che affliggono un’altra persona, perseguitandola, generandole stati di paura e ansia, arrivando persino a compromettere lo svolgimento della normale vita quotidiana.

Grazie ai lavori svolti in ambito psicologico si è potuto individuare sei tipologie di stalkers.

  1. i cercatori di intimità: sono persone che desiderano realizzare una relazione stretta con uno sconosciuto o con un conoscente che ha attratto il loro affetto e dal quale pensano di poter essere amati;
  2. i rifiutati: reagiscono opponendosi alla fine non desiderata di una relazione, cercando ripetutamente un ultimo contatto;
  3. i rancorosi: rispondono ad una presunta offesa con azioni volte a provocare paura ed apprensione;
  4. gli incompetenti: vogliono intraprendere una relazione con la vittima con modalità inadeguate nei confronti di rituali di corteggiamento;
  5. i predatori: sono i ‘veri cacciatori’;
  6. i contro-stalker: coloro che, per ragioni di difesa emozionale, mettono in atto una ‘caccia all’uomo’ molto più vittimizzante di quella esercitata dallo stalker primitivo.

Lo stalking riguarda spesso ragazze giovani, non si può quindi far altro che augurarsi che si faccia, a tutti i livelli, il più possibile per contrastare questo fenomeno che ha un forte potere logorante.

Per concludere, mi auguro davvero che la Convenzione di Istanbul esprima non solo legiferalmente, ma anche con condizionalità culturale, un passo avanti decisivo. L’approccio culturale è determinante nel condizionare i comportamenti umani, così come lo è la visione del mondo e lo stereotipo che da questa può generare.

Vale per le donne e vale sicuramente anche per gli uomini, vale in tutti i casi in cui l’appartenenza di genere trasforma un individuo in un attrattore di abusi più o meno violenti, più o meno perseguibili, più o meno conosciuti.

Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Parole e figure /
Piccoli e grandi musicisti

Un grande musicista deve concentrarsi per scrivere la sua musica, non può certo perdere tempo ad ascoltare un piccolo musicista che suona per la strada. Ma se quel piccolo musicista, con la grazia del suo talento, ricorda al grande musicista perché lui ami la musica, allora qualcosa può ancora succedere.

Grandi e piccoli musicisti. Chi è famoso e chi lo è meno, chi ha il pubblico prestigioso delle grandi sale da concerto e chi ha quello della strada, che meno prestigioso non è.

Paiono tanto diversi ma ad accomunarli c’è lei, la musica. Il filo conduttore dell’albo, appena uscito in libreria, di Alexandra Mitsiali,Il Piccolo musicista”, illustrato da Svetlin Vassilev, Kite Edizioni. Un’ennesima bella sorpresa.

Gli strumenti musicali non dovrebbero vagare sui marciapiedi, confondersi tra la folla, esporsi al freddo e alla pioggia, quella non è la vera grande musica che scrivono musicisti come lui, pensa, dal suo elegante attico il grande musicista, all’udire le note che escono dalla fisarmonica del piccolo musicista che suona, allegramente, in strada.

Gli ambulanti, che piaga, che onta! Se poi disturbano la sua concertazione mentre cerca di creare, fra mille fogli sparsi e note, la sua importante composizione, il dramma è completo. Che fastidio, che insofferenza. Ma quel bambino narra la sua storia e le note volano come uccelli migratori che hanno attraversato il lontano orizzonte alla ricerca di climi più accoglienti. I passanti sono attirati e trasportati dal ritmo della musica, incantati. Volteggiano. Mentre la sua musica gli appare fredda e vuota e l’ansia sale.

Accanto al letto un grande baule, ci si avvicina ma non lo sfiora. Suspense…

All’auditorium deve provare la sua composizione, la sua orchestra sinfonica lo attende. Ma quella musica del piccolo musicista ritorna prepotentemente. Pare un suono familiare, insistente, insidioso: il piccolo guarda lontano, gli occhi seri, le dita volano sulle tastiere della fisarmonica. Forse viene da lontano, lungo è stato il percorso per arrivare in quella città, sullo sfondo un maestro di musica che è rimasto indietro e forse non esiste più.

Il grande musicista è seduto nella sala da concerto, un grande direttore d’orchestra dirige la sua ultima opera. Ma lui non sente la sua musica, vede solo gli occhi del ragazzo che seguono il volo degli uccelli all’orizzonte. Un insolito calore lo avvolge.

La notte, però, un sogno terribile lo sveglia. Si alza e prende la fisarmonica dal baule, l’abbraccia e suona la musica del piccolo musicista. Sì, proprio quella.

Grande e piccolo si riavvicinano, si ricompongono. Maestro e allievo saranno accanto, si vede di rado, nessuno ha mai visto un musicista così piccolo in una sala così grande.

Una storia che racconta, con disegni e riferimenti artistico-musicali Art déco, di come forse, ad un certo punto della vita, viene il momento di “fare i conti” con il passato e di accogliere nuovamente quella parte di sé sacrificata per costruire ciò che si è diventati.

Un albo bellissimo dedicato a chi ha perso l’ispirazione, magari chiudendola, a doppia mandata, in un impolverato e buio baule dimenticato, in un angolo della casa, insieme alla sua infanzia e ai ricordi e ai sogni che essa porta con sé. Originale e intenso.

Alexandra Mitsiali è nata e cresciuta a Corfù e attualmente vive a Salonicco. Si è laureata presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Aristotele di Salonicco ed è dottore di ricerca in Pedagogia. Lavora nell’istruzione secondaria e occasionalmente nell’istruzione superiore. Scrive libri per bambini, romanzi per giovani adulti e adulti, pubblica racconti brevi su riviste letterarie e contribuisce occasionalmente con articoli a media online e cartacei. Il suo romanzo “Ti salverò, non importa cosa succeda” è stato premiato con il Premio Letterario Nazionale per Giovani nel 2014, mentre il suo romanzo “Eroi scalzi” ha ricevuto il Premio Letterario Nazionale per Giovani nel 2017 e ha vinto il Premio Romanzo Giovani dalla sezione greca di IBBY nello stesso anno.

Alexandra Mitsiali, Il Piccolo musicista, illustrato da Svetlin Vassilev, Kite Edizioni, Padova, 2023, 32 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

La strage del Vajont e il suo seguito: una brutta storia italiana

Valle del Vajont, 9 ottobre 1963: 1.910 morti, di cui 487 bambini sotto i 15 anni. Non una disgrazia né un errore, ma una strage: prevedibile (come accertato anche nel conseguente processo penale) e determinata da avidità e sete di profitto. E il seguito fu quasi peggio: umiliazioni dei superstiti, sperperi e ancora profitti per i soliti noti. Per questo, anche se sono ormai trascorsi 60 anni, bisogna continuare a ricordare.

Qual è il senso di ricordare un evento, anche se tragico, quando ormai sono trascorsi 60 anni? Come dare senso alla Memoria, quella che si scrive con la M maiuscola e non si limita a commemorare il passato, ma ci impone di imparare da esso per impedire che la storia si ripeta, che si accetti passivamente che vengano commessi all’infinito gli stessi reati (non “errori”, come spesso si dice)?

Conoscere la vicenda della strage del Vajont (9 ottobre 1963: 1.910 morti, di cui 487 bambini sotto i 15 anni) ci permette in realtà di capire quelle di oggi perché alle spalle ci sono sempre gli stessi interessi economici e politici. Non si tratta mai di incidenti, di errori umani, di incuria, ma di veri e propri crimini commessi consapevolmente, violando leggi e accettando la priorità della salvaguardia dei bilanci rispetto alla sicurezza, alla salute, alla vita delle persone e delle comunità, alla tutela dell’ambiente. Per profitto le aziende, pubbliche o private che siano, accettano di giocare alla roulette russa con la nostra vita.

“Queste cose” – pensiamo – “capitano solo agli altri”, ma in realtà tutti noi e i nostri cari siamo le potenziali prossime vittime di questa società del rischio, di questo sistema di sviluppo neoliberista ritenuto oramai a livello globale come l’unico possibile, sia dalle democrazie (o cosiddette tali) che dai regimi: ovunque nel mondo sono i soldi e la finanza a decidere per noi. Dal Vajont a oggi l’elenco si arricchisce con allarmante frequenza e con un comune filo di sangue conduttore: Viareggio (29 giugno 2009, 32 morti), Ponte Morandi (14 agosto 2018, 43 morti), Torre Piloti di Genova (7 maggio 2013, 9 morti), albergo Rigopiano (18 gennaio 2017, 29 morti)… E poi i palazzi (anche scuole e ospedali) che si sbriciolano alle prime scosse di terremoto per non essere stati adeguarti alla norme antisismiche e le inondazioni sempre più frequenti a causa di eventi metereologici che non si possono più considerare eccezionali.
E ancora, i tre morti al giorno sui luoghi di lavoro a cui vanno aggiunti i 6.000 all’anno dell’amianto, le vittime dell’inquinamento prodotto dalle fabbriche o delle terre dei fuochi sparse in tutta Italia. La lista si allunga in continuazione, tanto che la nostra memoria sbiadisce e ogni nuova strage fa dimenticare quella successa appena ieri.

Il 9 ottobre – come scrivono in molti che hanno dimenticato il peso delle parole – si “celebra”, dunque, il 60° anniversario del Vajont. Alcuni, anche tra i politici e giornalisti, non ce la fanno proprio a capire che quella diga non è crollata e che non si è trattato di un’alluvione “come in Romagna”, ma che è stato un «omicidio colposo plurimo con l’aggravante della prevedibilità», come sentenziò la Cassazione (marzo 1971) condannando lo Stato italiano, l’Enel e la Montedison: quella diga così appassionatamente voluta dalla élite economica e politica, non andava costruita. Il Monte Toc su cui era appoggiata, quel gigante dai piedi d’argilla, non poteva reggere alla pressione dell’acqua del lago artificiale formato sbarrando il corso del torrente Vajont che, 250 metri più sotto, si sarebbe tuffato nel Piave. E i geologi, anche quelli che poi si adattarono agli ordini che arrivavano dall’alto, lo sapevano bene.

La potente ditta privata Sade, che aveva costruito la diga con imponenti finanziamenti pubblici, era stata fondata dal massone fascista Giuseppe Volpi (a cui il re Vittorio Emanuele II, su pressione di Mussolini in persona, aveva dato il titolo di Conte di Misurata per i suoi meriti come governatore della Tripolitania: al suo servizio vi era il generale Rodolfo Graziani, il “macellaio di Fezzan”, responsabile del massacro di 100 mila civili, per la maggior parte donne, vecchi e bambini, su una popolazione di 800 mila persone, che smentisce per sempre la propaganda degli italiani “brava gente”).
Dopo la morte di Volpi (1947) i suoi progetti non cessarono di prosperare grazie agli influenti contatti che il conte aveva saputo costruire con cinismo e con la capacità di adattarsi ai tempi. I governi continuarono a sostenere la Sade e a finanziare la costruzione della diga, la prima grande opera dell’Italia contemporanea. Avvenne così la prima grande strage dell’Italia democratica, proprio all’apice di quel boom economico che aveva fatto uscire il nostro Paese dalla miseria del dopoguerra.

La storia di una diga che non si doveva fare

Il 20 settembre 1959, dopo dodici anni dall’inizio dei lavori, nonostante vari intoppi superati con qualche complicità dei governi in carica, la diga, opera d’ingegno dell’ingegner Carlo Semenza, venne terminata e l’anno successivo un ultimo controllo dello Stato stabilì che era sicura e poteva cominciare a produrre energia elettrica.
Nel dicembre 1962 l’energia elettrica venne nazionalizzata e nel marzo 1963, pochi mesi prima della strage, lo Stato italiano comprò dalla Sade la diga, costruita con soldi pubblici, e la sua gestione venne affidata all’Enel, ente pubblico istituito per l’occasione. Insieme alla diga, l’Enel “comprò” dalla Sade anche Enrico Biadene, che rimase come direttore del servizio costruzioni idrauliche. Terremoti, frane dal Toc, smottamenti avevano cominciato da tempo a spaventare la gente che viveva nelle frazioni di Erto e Casso ai bordi del lago e anche la gente di Longarone che sentiva la terra tremare. Ma per le autorità non c’erano problemi.
Fino a meno di mezz’ora prima delle 22.39 del 9 ottobre, sebbene terra, alberi, animali avessero cominciato a scivolare sempre più velocemente verso il lago, esse, pur consapevoli che ormai non c’era niente da fare per tenere su la montagna, si rifiutarono di dare l’allarme e rinunciarono a salvare qualche vita. Il pericolo andava negato. Poi il grande tonfo. Un’enorme fetta del monte precipitò nel lago. E fu la fine. Una gigantesca onda alta 250 metri scavalcò la diga – che (opera del genio italico) rimase integra – e spazzò via, sbriciolandolo, tutto ciò che incontrava.

Fin qui la storia di come si arrivò alla strage. Ma il dopo è stato per i superstiti ancora peggio. Al dolore per i cari persi e i paesi distrutti (Longarone e le sue frazioni, parte di Castellavazzo, le case di Erto affacciate sul lago) si aggiunsero le umiliazioni continue subite (“sono ubriachi”, “pensano solo ai soldi”, “sono comunisti”, “sciacalli sulla pelle dei loro stessi morti”). Difficile, con la presa di consapevolezza, digerire le bugie continue sulle responsabilità della strage, scaricate dalla stampa sulla natura matrigna.

Il grande business della ricostruzione

A fronte dello strazio dei superstiti, si avviò il succulento business della ricostruzione.
A beneficiarne furono le stesse élite che avevano provocato la tragedia. Il “miracolo del Nord Est”, lo sviluppo economico che trasformò quella terra di migranti in una delle zone più prospere d’Italia, fu in realtà frutto delle leggi Vajont studiate ad hoc.
Vennero finanziate imprese, aziende e anche consorzi economici che niente avevano a che fare con le zone colpite. Si inventò la magia delle licenze: chi aveva nella zona colpita una qualsiasi attività registrata presso la camera di commercio poteva avere accesso a finanziamenti illimitati, anche di miliardi di lire (ora milioni di euro).
Fin qui, in fondo, niente di male. La gente aveva perso tutto e tutti, alcuni persino 60 familiari, ed era giusto risarcirli generosamente. Nella legge si insinuava, però, un cavillo: le licenze potevano essere vendute e davano diritto agli stessi vantaggi economici a chi ne entrava in possesso, che poteva utilizzarli per qualsiasi scopo praticamente in tutto il Triveneto.

Cosa successe? Pool di avvocati e di commercialisti, messi in piedi dalle aziende, si presentarono a casa dei superstiti, ancora traumatizzati, magari orfani, vedove o anziani, umiliati dalla stampa, per acquistare le licenze, ovviamente senza dire che erano una gallina dalle uova d’oro.
Molti firmarono la vendita e così, per poche migliaia di lire dell’epoca, grandi imprese come la Zanussi Mel ricevettero, solo in un primo finanziamento, anche 6-7 miliardi, il 20 per cento a fondo perduto e il rimanente gravato da un ridicolo interesse che non poteva superare l’1 per cento annuo in tempi in cui l’inflazione navigava ben sopra le due cifre. Semplice. Nei termini di legge. Ecco così spiegato quel miracolo. Altro che la moltiplicazione dei pani e dei pesci di Gesù Cristo.

Anche la vita delle vittime venne valutata ben poco, qualche migliaia di lire, mentre l’avvocato che riusciva a far firmare la transazione veniva premiato profumatamente. I superstiti perdevano anche il diritto a comparire come parte civile nei processi, nel frattempo trasferiti all’Aquila. Solo quelli ben consigliati o che non avevano immediato bisogni di soldi per sopravvivere non firmarono la transazione.

Il Processo non cancella “l’infame colpa”

Nell’iter processuale si arrivò alla condanna dei responsabili, grazie anche alla memorabile arringa di Sandro Canestrini, avvocato di parte civile. Le pene furono lievi, ma quella “infame colpa”, come la definì un superstite sulla lapide posta in memoria della moglie e dei figli, rimarrà per sempre una vergogna nella storia del nostro Paese.

Dopo ci furono vere e proprie truffe perpetrate da notai e commercialisti, ci furono soldi raccolti dalla solidarietà spariti nel nulla e altri dirottati su scopi completamente differenti. Quando poi, all’inizio degli anni Duemila, arrivarono i risarcimenti al Comune di Longarone da parte della Montedison (che con l’Enel gestiva la diga), buona parte dei 77 miliardi vennero sperperati, spesi male dalla giunta del sindaco Pierluigi De Cesero che, scatenando la rabbia di molti superstiti, fece passare le ruspe sulle tombe e sulle lapidi del cimitero di Fortogna, con una spesa di sei miliardi, per una “ristrutturazione” discutibile che meriterebbe un’indagine approfondita per determinare se la gara d’appalto (vinta con un ribasso del 50 per cento da una ditta di San Felice a Cancello, in provincia di Caserta) si svolse senza irregolarità e se i lavori vennero eseguiti con professionalità e nel rispetto del capitolato.

Quella prima strage, compiuta con la complicità della nostra Repubblica, è diventata purtroppo un modello riproposto in tutte quelle di oggi, un modello capace di trasformare le tragedie in un efficace sistema per far crescere il PIL e i profitti delle aziende.
Ma se le stragi sono una benedizione per l’economia perché mai si dovrebbe cercare di evitarle? Ecco qual è il senso di ricordare il Vajont anche se ormai sono trascorsi 60 anni.

Lucia Vastano
Giornalista, si occupa soprattutto di guerre (Libano, Angola, Salvador, Cambogia, nel Golfo e in Iraq, nei Balcani, in Albania, Afghanistan e Kashmir) ed è autrice di reportage da vari Paesi africani, dalla Cina, dall’India dagli stati islamici dell’Asia Centrale e dall’America. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il Premio Unesco 2003 “Comunicare i diritti umani”. Si è occupata da sempre della tragedia del Vajont su cui ha scritto “Vajont, l’onda lunga. Quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica” (Ponte alle Grazie, 2008). Nel 2016 ha esordito come regista del film documentario “I Vajont”, vincitore di numerosi premi internazionali.

In copertina: Un mese prima della strage. La diga del Vajont e l’invaso pieno a quota 710, circa. (settembre 1963)

Accordi /
Kill me Again: l’amore inevitabile dei The Weave

Kill me Again: l’amore inevitabile dei The Weave

Un sassofono stridente, un beat ipnotico e una strofa dall’andamento un po’ goffo. Sulla carta, l’incipit di Kill Me Again del duo The Weave è tutt’altro che ammaliante.

Eppure, il pezzo ti sorride e ti accoglie gentilmente, con le sue atmosfere a metà strada tra il post-punk e il rock psichedelico. Un’alchimia bizzarra e funzionale, così come quella tra i due autori del brano: il chitarrista dei Blur Graham Coxon e la cantautrice Rose Elinor Dougall, che da qualche anno sono compagni anche nella vita.

Il loro primo disco è il self-titled The Weave: 54 minuti in cui l’anima folk tipicamente britannica del duo si fa largo attraverso un’affascinante sperimentazione sonora fatta di synth, sassofoni, drum machine e addirittura la cetra. Uscito a metà febbraio, The Weave ha riscosso fin qui un discreto successo – al momento, un successo più di critica che di pubblico – dando una bella sterzata alla traiettoria artistica e personale dei due protagonisti.

A tratti aspra e criptica, a tratti schietta e trascinante, la suddetta Kill Me Again somiglia un po’ a quell’amore che Cox e Dougall cantano nel ritornello: un amore che, a dispetto del titolo, è sinonimo di sopravvivenza, e non ha bisogno di parole o fatti per essere dimostrato.

NUOVO ANNO SCOLASTICO: LA CAMPANELLA SUONA, MA NON PER TUTTI

E’ ripartito un nuovo anno scolastico e la campanella delle scuole ha ripreso a suonare da quasi un mese. E anche quest’anno il Ministero dell’istruzione e del Merito ha pubblicato il report statistico di inizio anno [Qui], con dati molto interessanti.

364.069 classi di scuola statale hanno accolto 7.194.400 studenti, di cui 311.201 con disabilità. Le scuole paritarie (ma i dati si riferiscono all’anno appena trascorso) sono 11.876 e gli studenti frequentanti 811.105. La scuola dell’infanzia si conferma, benché in decrescita, il settore educativo in cui si concentra il maggior numero di alunni (in valore assoluto) delle scuole paritarie: 449.819 bambini distribuiti in 8.303 scuole.

I posti istituiti per l’a.s. 2023/2024 sono complessivamente 684.592 posti comuni e 194.481 posti di sostegno. Degli oltre 684mila posti comuni, 14.142 sono “posti per l’adeguamento”, mentre, dei 194.481 posti di sostegno, 68.311 sono “posti di sostegno in deroga”.

Per chi non suona la campanella

Anche quest’anno però la campanella non suonerà per tutte e tutti. E non suonerà comunque per tutti allo stesso modo.
Non sono pochi i genitori immigrati che non riescono a trovare una scuola o che vedono rifiutata l’iscrizione del figlio. Scuolemigranti che riunisce associazioni molto varie per storia, orientamento politico, ispirazione laica o religiosa, tutte ugualmente impegnate nell’insegnamento gratuito dell’italiano, nell’estate 2021 ha istituito Discol (Dispersione scolastica) con l’obiettivo di monitorare quegli alunni che faticano a trovare posto a scuola, capire le cause che inducono le scuole a rifiutare l’iscrizione e individuare un percorso che porta a soluzione il problema.

Da luglio 2021 a aprile 2023 Discol ha gestito 264 richieste di aiuto per l’inserimento scolastico di alunni stranieri, in gran parte neoarrivati, registrando 220 casi di rifiuti dell’iscrizione nella scuola dell’obbligo, il che dimostra l’esistenza di un problema reale nell’accesso al diritto-dovere all’istruzione per i minori stranieri.
Le principali cause dei respingimenti scolastici registrare da Discol sono riconducibili essenzialmente: alla mancanza di aule e all’alto numero di alunni per classe; alla disinformazione delle famiglie e del personale scolastico; alle norme disattese ealle  prassi improprie. Qui il Report di Discol:

Ma la campana suona poco e male anche per altri alunni. La Scuola italiana continua a risultare drammaticamente impreparata ad affrontare -per esempio- la presenza di bambini con disturbo dello spettro autistico, come denuncia -tra gli altri–  l’Associazione Cimadori per la ricerca italiana sulla sindrome di Down, l’autismo e il danno cerebrale.

In una lettera inviata al ministro Valditara, l’associazione ha avanzato 4 proposte:
1.
inserire nei decreti in emissione che assegnano per il 2023 una dotazione di 200 milioni di € per i servizi di assistenza all’autonomia e alla comunicazione degli alunni con disabilità, i riferimenti alla normativa specifica in favore delle persone con disturbo dello spettro autistico e integrare in accordo la “scheda di monitoraggio” con la richiesta di conferma che i servizi erogati rispettino la normativa specifica. Queste implementazioni a ‘invarianza di spesa’ – specifica l’associazione – avranno ricaduta su tutti i bandi emessi dagli enti locali per selezionare gli operatori che forniscono il servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione e permetteranno di avere personale adeguatamente formato;
2.
sensibilizzare i dirigenti scolastici a “favorire l’ingresso di operatori esterni specializzati (di fiducia delle famiglie), in attesa che venga formato adeguato personale dipendente”;
3. “verificare che gli operatori degli sportelli autismo/scuole polo/CTS siano formati correttamente nelle strategie raccomandate dalla Linea Guida 21. Soddisfare il bisogno formativo – precisa l’associazione – avrebbe un impatto economico molto limitato, dato che un corso introduttivo viene già ora offerto dal privato a 200-300 € a persona e ci sarebbe la possibilità di ridurre la spesa pro capite utilizzando la formazione permanente oggi praticata e la formazione a distanza sul modello utilizzato da Eduiss per diffondere fra oltre 6.000 operatori scolastici la Comunicazione Aumentativa Alternativa senza alcun riferimento alla Linea Guida 21;
4. “pianificare l’inserimento di almeno un insegnante tutor qualificato in ognuna delle 5.338 istituzioni scolastiche del I ciclo, al fine di fornire supporto a tutto il team educativo. Tale soluzione permetterebbe di iniziare a gestire l’enorme aumento dei nuovi alunni certificati, che si verifica principalmente nelle scuole dell’infanzia e nelle primarie”. Qui il testo integrale della lettera i

Anche l‘ANFFAS Nazionale, attraverso la propria Consulta Inclusione Scolastica, ha attivato un’apposita indagine [Vedi qui]condotta a campione sull’intero territorio nazionale, evidenziando numerose criticità nelle scuole italiane di ogni ordine e grado.

Non va ovviamente eluso il grave problema della dispersione scolastica,
Nel 2021 l’Italia aveva un tasso di abbandono precoce dell’istruzione e della formazione al 12,7 %
, migliore solo di quello della Spagna (13,3) e della Romania (15,3), mentre 16 Stati membri hanno già raggiunto l’obiettivo di scendere sotto la soglia del 9 per cento, in largo anticipo rispetto al 2030.
Analizzando i dati italiani si nota una forte disparità tra regioni e uno svantaggio molto accentuato, e sempre più intollerabile, nel Mezzogiorno: in Sicilia l’abbandono scolastico si attesta al 21,1 per cento, in Puglia al 17,6 per cento, in Campania al 16,4 per cento e in Calabria al 14 cento.

Non solo, ma in Italia, secondo le rilevazioni ISTAT, i NEET (Not [engaged] in Education, Employment or Training) tra i 15 e i 34 anni sono oltre 5,7 milioni (marzo 2023),  4.252.000 quelli della fascia d’età 15-24 anni e 1.493.000 quelli tra i 25 e i 34 anni. Si tratta di un triste record, essendo il Paese in cui ci sono più NEET rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione Europea.

Dispersione scolastica che s’intreccia con la povertà educativa: secondo il rapporto Save the Children del 2022 sulla povertà educativa in Italia il 67,6% dei minori di 17 anni non è mai andato a teatro, il 62,8% non ha mai visitato un sito archeologico e il 49,9% non è mai entrato in un museo, il 22% non ha praticato sport e attività fisica e solo il 13,5% dei bambini e delle bambine sotto i tre anni ha frequentato un asilo nido. Povertà educativa che ovviamente è legata alla povertà economica: negli ultimi 10 anni, in Italia il tasso di minori in povertà assoluta è quasi triplicato, raggiungendo il picco del 14,2%, quasi 1,4 milioni di minori.

E non va neppure trascurato il problema del trasporto scolastico, le difficoltà che tante ragazze e tanti ragazzi hanno nel raggiungere ogni giorno la propria scuola.  Per non parlare di chi abita nelle aree cosiddette marginali del nostro Paese, come nel caso dei ragazzi stipati come sardine nei pullman per raggiungere le sedi delle scuole della provincia di Brindisi [Vedi qui]. Ma è solo un esempio fra i tanti

Così come non vanno sottaciuti i limiti dell’edilizia scolastica: Cittadinanzattiva nel suo XXI Rapporto ha evidenziato come sulle certificazioni nessun passo in avanti sia stato fatto, poiché ne resta priva circa la metà delle scuole, mentre nell’ultimo anno scolastico ci sono stati ben 61 episodi di crolli, un boom rispetto all’ultimo quinquennio. E docenti e dirigenti segnalano infiltrazioni di acqua e distacchi in un terzo delle scuole e addirittura crepe in un quarto dei casi [Vedi qui]

Quello della scuola all’inizio dell’anno scolastico 2023-2024 è ancora un quadro impietoso. C’è molto da fare per assicurare a tutte e a tutti un’istruzione gratuita e di qualità. E per far sì che la campanella suoni per tutti, senza alcuna esclusione.
Temo però che continui a mancare una diffusa consapevolezza che l’istruzione – oltre ad essere un inalienabile diritto e ad avere un ruolo cruciale come indicatore di qualità della vita di un individuo – rappresenti anche uno straordinario volano per il progresso complessivo del Paese.

Intervista a Raniero La Valle: un nuovo soggetto politico alle elezioni europee, per la Pace

di

Intervista a Raniero La Valle: un nuovo soggetto politico alle elezioni europee, per la Pace. 

 

Il 26 settembre a Empoli, ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Raniero La Valle, intitolato “LEVIATANI, DOV’E’ LA VITTORIA?” edito da EMI.
In seguito ho preso i contatti dell’autore per intervistarlo dopo l’assemblea di sabato 30 settembre a Roma, da lui promossa insieme a Michele Santoro, per lanciare un nuovo soggetto politico in vista delle elezioni europee. Qui l’intervista.

 

Alcuni mesi fa partì una raccolta firme per proporre un referendum, legittimo, contro l’invio delle armi in Ucraina, che purtroppo non verrà fatto a causa della mancanza di firme. In questi giorni invece è stata presentata la volontà di fare una lista per le elezioni europee, che abbia la Pace in Ucraina come obiettivo principale. Da dove nasce questa idea? Si tratta di un processo nato fin dalla raccolta firme per il referendum?

Si tratta di una cosa autonoma rispetto al referendum, i tempi coincidono ma sono due cose slegate e diverse. In merito alla prima domanda, ci tengo a specificare che non si tratta di una lista, bensì di un’iniziativa politica per creare un soggetto politico che assuma la pace come elemento cardine di qualsiasi politica per qualsiasi partito. La pace è un bene comune non soltanto auspicabile, ma realizzabile sia rispetto a specifiche guerre in corso come quella in Ucraina, sia rispetto a un ordine mondiale diverso, dove la pace diventi un’istituzione internazionale e un ordinamento/sistema politico mondiale all’interno del quale gli Stati abbandonino il concetto mitologico della sovranità per realizzare accordi tra loro. Gli sStati devono smettere di vivere in una condizione internazionale determinata e denominata come competizione strategica tra le maggiori potenze del mondo. Cosa che in questo momento stanno facendo gli Stati Uniti di Joe Biden, ma che hanno fatto anche altri presidenti. Infatti spesso nei documenti sulla sicurezza nazionale americana questa viene identificata con il dominio del mondo, quindi da realizzare anche attraverso la competizione militare con le altre potenze.

Questo vostro nuovo soggetto politico si aprirà sia ai partiti che ai movimenti come Ultima Generazione, ma sarà disponibile ad aprirsi verso tutti i partiti  favorevoli alla pace e contrari all’invio delle armi?

Lo scopo di questo nuovo soggetto politico è di contagiare tutto il sistema politico, e non solo quello italiano, ma anche quello europeo; per questo ci presentiamo alle elezioni europee. Noi nel Parlamento Europeo vogliamo criticare l’attuale linea politica dell’Europa, per portarla a ricongiungersi ai suoi ideali fondativi, che non erano quelli di partecipare o fomentare le guerre ma di unire i popoli per un altro ordine mondiale. Quindi vogliamo avere un rapporto e vogliamo dialogare con tutte le forze politiche, sia associative che di partiti, perché tutti assumano, almeno gradualmente, questo obbiettivo politico di una pace da costruire sia nel diritto che nella politica, che nell’ordine internazionale.

Questo nuovo soggetto politico potrà presentarsi in futuro alle elezioni amministrative, regionali e alle politiche nazionali?

Si tratta di una domanda prematura, perché l’obiettivo principale è la pace e per il momento la scadenza è quella delle elezioni europee. Dopo queste elezioni, si dovrà discutere la misura dell’impegno politico e vedremo cosa succederà.

All’assemblea, oltre lei e Michele Santoro che eravate i promotori, erano presenti molti personaggi noti, come Massimo Cacciari, Ginevra Bompiani e Luigi De Magistris. Questi si candideranno? E lei e Santoro, vi candiderete per trainare il nuovo soggetto politico, o farete solo i garanti come Beppe Grillo con il Movimento 5 Stelle?

Si tratta di una domanda prematura. Nel mio caso specifico, vista la mia età, la domanda è quasi astratta, mentre per quanto riguarda Michele Santoro naturalmente non posso parlare a suo nome. La questione non è di candidare delle persone al Parlamento Europeo, ma di attivare una forte iniziativa politica al fine di essere presenti nella campagna elettorale per cercare di contrastare le spinte guerrafondaie presenti in molte forze politiche sia italiane che europee.

Lei a Empoli, presentando il suo ultimo libro, ha parlato del bisogno di più paci citando tra gli altri i conflitti in Africa e nello Yemen ben poco raccontati dai mass media. Per ottenere queste paci tuttavia bisognerebbe disimparare l’arte della guerra come scrive nel sottotitolo del suo libro. Cosa dovrebbe fare quindi la società italiana ed europea per disimparare l’arte della guerra e diventare un argine contro tutti i conflitti che scoppiano nel mondo?

L’idea che il problema non sia solo la pace nel mondo, ma le paci nel mondo, è un idea molto feconda, perché fino ad oggi la pace è stata molte volte soltanto un ideale astratto o puramente invocato, ma non veramente servito. Il problema oggi è di cercare di uscire da tutte le crisi violente nel mondo, che non sono solo legate alla guerra e ai militari: basti pensare all’immigrazione o all’oppressione della personalità e dell’identità delle persone. Infatti nel nostro soggetto politico, il terzo grande bene comune, da difendere e realizzare, è la dignità umana e quella di tutte le creature.

Per quanto concerne invece il disimparare la guerra, il primo punto è quello di smontare l’idea della guerra come un fatto connaturale alla stessa identità umana, perché si tratta di una teoria che domina la cultura mondiale da millenni. La guerra non appartiene alla natura e all’antropologia dell’umano, ma è un artificio che si impara; infatti anche ai soldati ucraini tramite le esercitazioni è stato insegnato come fare la guerra e come utilizzare specifiche armi. Quindi se la guerra è un artificio che si impara si può anche disimparare e, visto che l’abbiamo imparata troppo bene, inventando anche le bombe nucleari, è importante che la disimpariamo imparando invece l’arte della pace.

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, si è sentito sempre più spesso parlare nei vari dibattiti della necessità di creare un grande esercito dell’Unione Europea, anche se questo sarebbe in contrapposizione a un ideale di pace. Lei cosa pensa di tale questione?

L’esercito europeo non solo non è una priorità, ma è un’aberrazione, perché vuol dire concepire una comunità politica come imperfetta se non ha un’armata e se non fa la guerra. Si tratta di un vecchio concetto del Leviatano degli Stati e della sovranità, che non è una vera sovranità se non arriva a disporre del diritto alla guerra. Gli Stati moderni si sono formati in questo modo, ma è un’aberrazione pensare che l’Europa politica unita debba assumere il modello degli Stati che si combattono l’uno contro l’altro. L’idea stessa dell’Unione Europea si basa su principi ispiratori completamente diversi e quindi non deve assumere il modello dello Stato armato come modello della propria unità e della propria funzione politica. L’opposizione alla costruzione di un esercito europeo sarebbe una delle priorità del nostro soggetto politico. L’obiettivo è costruire un’Europa in grado di promuovere un altro ordine del mondo basato sulla pace.

In copertina: Raniero La Valle con Andrea Vitello  (foto Vitiello per Pressenza)

Per certi versi /
A.

A.

Non tornerai
Più
In questa vita
Caso
Destino
Parche
Iddio
O altre parole
Grandi
Sciolsero
Il nodo
Alla tua corda
Sparita sei
Laggiù
sparita
La memoria
È la tua luce
Che mi trapassa
Gli occhi

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La Via Maestra da percorrere insieme.
Oggi a Roma la grande manifestazione a difesa della Costituzione

“La Via è Maestra” solo se la percorriamo insieme, A Roma, a Piazza San Giovanni, con la Cgil oltre e duecento associazioni per difendere la nostra Costituzione e dare un altro futuro al Paese.

Plurale, inclusiva, rumorosa, accogliente, spontanea, positiva, vigorosa, avvolgente. Aggiungete voi l’aggettivo che più vi piace, ma percorriamola insieme questa via maestra. Senza pregiudizi o preconcetti. Facciamoci trasportare dall’energia contagiosa di mondi e culture apparentemente distanti ma che solo stando insieme riescono a sprigionare quella vitalità necessaria per andare avanti. Affinché nessuno resti indietro.

Contaminiamoci. Assaporiamo le varie forme della democrazia. Spalanchiamo gli orizzonti. Facciamoci cullare tra le braccia della nostra Costituzione. Rincorriamo utopie, rendiamole possibili. Condividiamo passioni mai sopite. Esorcizziamo le fobie trasformandole in speranze. Vitalizziamo il presente invertendo la rotta di una quotidianità troppo asfittica.

Accodiamoci ai cortei. Mischiamoci tra la gente in piazza San Giovanni. Assaporiamo gli umori e i dissapori del Paese reale e più realista del re. Anzi della regina che abbarbicata nei palazzi del potere vede un mondo patinato e perfetto. Facciamo capire a lei e alla sua corte che c’è un’altra Italia che non si piega e non mangia la pesca avvelenata servita sul piatto della becera propaganda.

Presto di mattina /
I confini dell’umano

Presto di mattina. I confini dell’umano

Per uno sguardo più umano

Dopo Bari 2020 e Firenze 2022, Marsiglia è la terza città a ospitare gli Incontri del Mediterraneo svoltisi dal 17 al 24 settembre 2023. Un’iniziativa che trova un felice preludio nell’intuizione profetica di Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze, che nella sua città aveva organizzato negli anni ’50 i Colloqui Mediterranei quale anticipazione delle istanze confluite dell’enciclica di Paolo VI Populorum porgessio: sviluppo e dignità dei popoli, una priorità e un impegno del post-concilio, per promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti avessero qualcosa da dare e da ricevere nella reciprocità e nello scambio tra diversità (cfr. n. 44).

Marsiglia, porta dell’Oriente, è oggi anche porta dell’Ovest per le persone che provengono dall’Est o dal Sud del mondo. È abitata da una fortissima presenza ebraica, armena, nordafricana, levantina e sub-sahariana. Vi risiedono pure varie comunità cristiane provenienti dall’Oriente ed è la città dove si trova Felix Pyat, il quartiere più povero d’Europa. Nel 2013 è stato inaugurato sull’antico molo portuale il MuCEM – Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo dedicato alle civiltà del Mediterraneo.

Uno sguardo in ascolto dei testimoni

Riunire le chiese a fianco degli gli uomini e delle donne di buona volontà, con comunità, movimenti, università, associazioni, è stata questa la finalità dei Rencontres méditerranéennes per uno sguardo nuovo sul Mediterraneo diventato il luogo di grandi sfide: povertà dilagante, conflitti, pluralità religiosa, questioni ecologiche, situazione drammatica dei migranti.

Ma anche laboratorio per una nuova teologia, che ha sortito alla fine con un “manifesto” per una teologia compromessa con l’umano, attraverso la tessitura di reti tra le Chiese mediterranee. Un pensiero teologico non solo più dialogico e relazionale con i mondi d’oggi, ma che si lasci toccare dalle ferite e dalle inquietudini che le persone vivono nei contesti mediterranei, che si lasci trasformare, convertire dai testimoni di questo esodo più che biblico e che ha in serbo per noi una luce per illuminare le nostre oscurità, un varco per osare oltre le nostre chiusure.

Che cosa è uscito dall’evento di Marsiglia, si è domandato papa Francesco al suo ritorno? «È uscito uno sguardo sul Mediterraneo che definirei semplicemente umano, non ideologico, non strategico, non politicamente corretto, né strumentale, umano, cioè capace di riferire ogni cosa al valore primario della persona umana e della sua inviolabile dignità. Poi nello stesso tempo è uscito uno sguardo di speranza. Questo è oggi molto sorprendente: quando ascolti i testimoni che hanno attraversato situazioni disumane o che le hanno condivise, e proprio da loro ricevi una “professione di speranza”. E anche è uno sguardo di fraternità

Il Mediterraneo, lo sappiamo, è culla di civiltà, e una culla è per la vita! Non è tollerabile che diventi una tomba, e nemmeno un luogo di conflitto. Il Mare Mediterraneo è quanto di più opposto ci sia allo scontro tra civiltà, alla guerra, alla tratta di esseri umani. È l’esatto opposto, perché il Mediterraneo mette in comunicazione l’Africa, l’Asia e l’Europa; il nord e il sud, l’oriente e l’occidente; le persone e le culture, i popoli e le lingue, le filosofie e le religioni.

Certo, il mare è sempre in qualche modo un abisso da superare, e può anche diventare pericoloso. Dalla sua sponda orientale, duemila anni fa, è partito il Vangelo di Gesù Cristo. Il suo annuncio è il frutto di un cammino, in cui ogni generazione è chiamata a percorrere un tratto, leggendo i segni dei tempi in cui vive» (Oss. Rom. 27 settembre 2023).

Fin dove può arrivare l’umano? Ha confini sconfinati come l’amore.

«Il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio… il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio.

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: “ecco, questo modo d’essere è l’amore”. E poi: “l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”» (Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore,  Milano, Mondadori,  1994, 42; 45-46).

Un luogo

«L’istituto s’estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole.

I contorni ne erano irregolari, come un corpo ingrossato via via attraverso nuovi lasciti e costruzioni e iniziative: oltre le mura spuntavano tetti d’edifici e pinnacoli di chiese e chiome d’alberi e fumaioli; dove la pubblica via separava un corpo di costruzione dall’altro li collegavano gallerie sopraelevate, come in certi vecchi stabilimenti industriali, cresciuti seguendo intenti di praticità e non di bellezza, e anch’essi come questi, recinti da muri nudi e cancelli» (ivi, 6).

È il Cottolengo di Torino, una piccola città invisibile dal di fuori, direbbe anche Marco Polo a Kublai Kan ne Le città invisibili. Una città nascosta nella città è appunto quella che viene narrata da Calvino nel romanzo breve La giornata di uno scrutatore, in cui egli stesso veste i panni dello scrittore/scrutatore.

Un racconto lungo come un viaggio alla scoperta di un altro continente. Amerigo è il nome del protagonista e ci ricorda Vespucci; similmente il cognome Ormea è l’anagramma di amore, ma anche un cognome che allude all’impossibilità di muoversi, un restare ormeggiati: la libertà di fronte alla decisione di restare ancorati o partire attraversando i confini dell’umano.

Scrutatore prima che scrittore

Una storia che è una conversione dello sguardo dello scrittore in scrutatore: il quale passa dal verificare le schede elettorali, affinché tutto avvenga secondo le regole, senza imbrogli da parte di suore e preti, a quello sguardo che poco alla volta è disceso immergendosi negli abissi caotici, insensati, deformati di un’umanità che non sembra avere più niente di umano, minorata dalla natura, fisicamente e psichicamente.

Il testo uscito nel 1963, ma concepito nel 1953, ha avuto una gestazione decennale ed è ispirato da un episodio della vita di Calvino: «Posso dire che, per scrivere una cosa così breve, ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro. La prima idea di questo racconto mi venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. No, non ero scrutatore, ero candidato del Partito Comunista…

Pensai che avrei potuto scrivere un racconto solo se avessi vissuto veramente l’esperienza dello scrutatore che assiste a tutto lo svolgimento delle elezioni lì dentro. L’occasione di farmi nominare scrutatore al Cottolengo mi si presentò con le amministrative del ’61. Passai al Cottolengo quasi due giorni e fui anche tra gli scrutatori che vanno a raccogliere il voto nelle corsie.

Il risultato fu che restai completamente impedito dallo scrivere per molti mesi: le immagini che avevo negli occhi, di infelici senza capacità di intendere, né di parlare, né di muoversi, per i quali si allestiva la commedia di un voto delegato attraverso al prete o alla monaca, erano così infernali che avrebbero potuto ispirarmi solo un pamphlet violentissimo, un manifesto antidemocristiano…

Prima ero a corto di immagini, ora avevo immagini troppo forti. Ho dovuto aspettare che si allontanassero, che sbiadissero un poco dalla memoria; e ho dovuto far maturare sempre più le riflessioni, i significati che da esse si irradiano, come un seguito di onde o cerchi concentrici» e conclude nella presentazione Calvino: «Lo scrutatore arriva alla fine della sua giornata in qualche modo diverso da com’era al mattino; e anch’io, per riuscire a scrivere questo racconto, ho dovuto in qualche modo cambiare» (ivi, VII).

Oltre ciò che è giusto

Scrive Calvino che l’immagine di una città diversa è possibile là dove non è l’interesse che conta ma la vita (ivi, 16). E prosegue: «La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva tornarsene al seggio; la sigaretta era finita; cosa aspettava ancora? «Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere, – anche se il mondo è il ‘Cottolengo’, è nel giusto». E aggiunse in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco» (ivi, 46).

Nel mondo-Cottolengo lo scrutatore/scrittore, di fronte alla miseria della natura, sentiva aprirsi sotto di lui la vanità di tutto ma, al tempo stesso, scopriva un di più la resistenza persistente dell’amore. Riscopriva anche quello suo per Lia, malgrado le incomprensioni e il nonsenso, la vacuità e apparente incomprensione degli sguardi e delle parole.

La presenza di quel contadino e di suo figlio gli mostravano infatti un territorio per lui sconosciuto, quegli sguardi gli rappresentavano al vivo un nuovo «genere d’amore come una reciproca e continua sfida o corrida o safari, non gli pareva più in contrasto con la presenza di quelle ombre ospedaliere: erano lacci dello stesso nodo o garbuglio in cui sono legate tra loro – dolorosamente, spesso (o sempre) – le persone.

Anzi, per lo spazio d’un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d’aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al “Cottolengo” del contadino al figlio… e adesso si sentiva lucido, come se ormai tutto gli fosse chiaro, e comprendesse cosa si doveva esigere dalla società e cosa invece non era dalla società che si poteva esigere, ma bisognava arrivarci di persona, se no niente» (ivi, 75; 73).

C’è un fuoco segreto

Come c’è una città invisibile nella città visibile e una città felice in ogni città infelice, lo stesso si può dire del Mediterraneo, dell’Europa stessa e degli stati che la compongono. Ma è lì in quella invisibilità che arde un fuoco nascosto. Le città, come il Mediterraneo, sono luoghi di scambio non solamente commerciale: interessi indicibilmente illeciti, criminali, contro le persone, fanno della dignità umana, privata di ogni valore in sé, una nuova e redditizia merce di scambio.

Il fenomeno è colto in tutta la sua drammaticità nel recente report degli ispettori delle Nazioni Unite su traffici e rete degli orrori in Libia. In 289 pagine viene fotografato il sistema del comandante Bija che, in diverse sentenze in Italia è indicato come “il peggiore dei carcerieri”.

Aiutato dai due cugini continua a gestire una vasta rete di traffico e contrabbando. Il circuito chiuso che coinvolge trafficanti e guardia costiera libica nella cattura dei migranti, a terra e in mare, è molto di più che una spirale di abusi. Ci sono le prigioni segrete. C’è il controllo sul transito e il contrabbando di petrolio. E un tesoro da nascondere all’estero, aggirando le sanzioni grazie alla copertura del governo e della magistratura libica (fonte Avvenire, 1° ottobre 2023).

Segnalo poi un libro di una delle più importanti reporter sul campo che narra le sue cronache dall’inferno seguendo il cammino dei migranti. Mi riferisco alla giornalista Sally Hayden, capace di condurci sulla soglia dell’abisso, senza voltare lo sguardo, nel volume dal titolo: E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al mediterraneo, Bollati Boringhieri, Torino 2023.

Una città mai vista

Italo Calvino ci ha ricordato che sono altri gli scambi che permettono di scoprire dentro la città infelice una città felice, nell’imperfezione il suo momento di perfezione, e sono quelli incastonati da quegli sguardi tra il contadino e suo figlio. Relazioni di umanità, di resistenza silenziosa nei luoghi di disumanità, di conflitti, del non senso, ma capaci di educare lo sguardo, farlo alzare oltre i confini a scrutare in profondità andando oltre la superfice. Uno sguardo scrutatore che da sospettoso e respingente diventa ospitale della dignità dell’altro.

Così, concludendo il racconto, Calvino mette in guardia la città dell’homo faber – dell’homo oeconomicus, o prigioniero delle ideologie – e le sue istituzioni nazionali od europee, a non spegnere quel fuoco segreto di cui sono generative le città invisibili e dell’imperfezione.

Questo vale anche per la nostra città se essa vuole divenire, per la consapevolezza dei suoi cittadini, «una città mai vista», «la Città» senza confini a patto di rinunciare a metterglieli noi perché l’amore non ha confini se non quelli che gli diamo.

«La città dell’homo faber, pensò Amerigo, rischia sempre di scambiare le sue istituzioni per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano né le ruote delle macchine vengono messe in moto e nel difendere le istituzioni, senza accorgersene, può lasciar spegnere il fuoco.

S’avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore dietro il profilo dei tetti e degli spigoli, e apriva nei cortili le prospettive di una città mai vista.

Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un’altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa, grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per trasportare la minestra.

Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città» (ivi, 83).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Aspettando il “Ferrara Film Corto Festival 2023”:
ecco chi ha vinto l’edizione dello scorso anno…

Aspettando la VI edizione del “Ferrara Film Corto Festival” (FFCF), che si terrà dal 25 al 28 ottobre, vi presentiamo i cortometraggi vincitori dello scorso anno. Curiosi?

Ferrara Film Corto si è affermato negli anni come Festival nazionale e internazionale dei cortometraggi, la cui attenzione è dedicata agli autori di cinema, alle professionalità spesso sommerse, alle maestranze artistiche, ai filmmaker indie e a tutti gli appassionati che arricchiscono la cultura del cinema. Incontro con gli autori e novità sono due elementi fondanti di questa iniziativa, che arriva alla sua VI edizione. Quest’anno si terrà dal 25 al 28 ottobre presso la rinnovata sala dell’ex refettorio di San Paolo, che il festival inaugurerà.

In attesa di incontrarvi in quelle date, con molte opere interessanti, vi presentiamo alcuni cortometraggi vincitori dello scorso anno. La prossima settimana, il seguito.

Chi ha trionfato nel 2022 e in quale categoria?

PREMIO “AMBIENTE È MUSICA”: GAS STATION, di Olga Torrico, con Olga Torrico, Claudio Collovà, Gabriele Zapparata; tra i cinque titoli finalisti nella categoria “Miglior Cortometraggio” dei Premi David di Donatello 2021.

“Per la scelta ed il modo di mescolare diversi linguaggi narrativi che raccontano l’essenza musicale della realtà e per la chiarezza dei collegamenti concettuali”.

PREMIO ASCOM ALLA “MIGLIORE ATTRICE”: Olga Torrico, GAS STATION
Per una recitazione fluida ed essenziale con la quale viene raccontato il personaggio.

Alice sogna un sommozzatore che cerca qualcosa, ma cosa? Lei lo guarda, ha freddo, ad un certo punto ha pure sete, come se avesse perso qualcosa, ma che cosa? Un tempo suonava il flauto, ma oggi lo vuole vendere, in fondo ha un bel lavoro a un distributore di benzina. Il passato però non dimentica, è in attesa, in agguato silenzioso e un giorno ritorna con Claudio, il suo maestro di musica. Colui che sa e che può aiutare. Alice ha affossato dentro sé stessa il fuoco che le bruciava dentro per la musica e inizia a chiedersi se sia rimasta per troppo tempo senza la sua benzina. Bisogna sapersi ascoltare, un po’ di più e piano piano. Provare a ricominciare nonostante le paure e passioni travolgenti, che magari erano e sono il nostro stesso carburante, riprendere il filo laddove si era interrotto.

PREMIO “BUONA LA PRIMA” (categoria aperta ad autori italiani, o residenti in Italia, di dedicata unicamente a opere prime, a tema libero): ICHOR, di Giovanni Chiappini
“Per il cambio di prospettiva adottato che genera immedesimazione ed empatia verso una specie a rischio di estinzione”.

PREMIO SPECIALE “MUSICA INDIE”: Francesco Tanzi e Massimiliano Palumbo, ICHOR
“Per l’ottimo uso delle melodie e dei timbri sonori e per l’efficace correlazione tra musica, immagine e colore”.

Creature perfette svolgono la loro funzione naturale in una società strutturata: un mondo costruito per loro, un giardino dell’Eden. Non potranno mai decifrare completamente l’essere onnipotente che gestisce questo paradiso recluso. Sono le api, che vivono in un regno da favola, governato da un dio lontano, l’apicoltore, intrappolato in un terribile e continuo ciclo di sfruttamento. La regina, tutti hanno bisogno di lei, i ferormoni esprimono i suoi desideri. Ma tutti gli imperi hanno un Custode che osserva a distanza, colui che, in un possente guscio protettivo, sopravvive a ogni regno e regina, architetto di tutti i castelli, guaritore di ogni malattia, guardiano della terra, demiurgo dell’Eden. E poi, con lui, il grande furto, finito un raccolto ne inizia un altro, il Custode vuole tutto. Sempre, I castelli vengono riorganizzati, requisiti, il tesoro diventa tributo. È razzia.

PREMIO COMUNE DI FERRARA AL “MIGLIOR DOCUMENTARIO”: UNDER THE WATER, di Davide Lupinetti
“Per la delicatezza e la sensibilità con cui è stato affrontato e raccontato il tema della disabilità e della condizione del sud del mondo, con un messaggio che apre alla speranza. E per l’ottima contestualizzazione delle musiche e del suono”.

La pellicola, del giovane regista abruzzese Davide Lupinetti, ha vinto il primo premio nella sezione ‘Diversità come Valore’ nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia, nel 2020. Protagonisti Barak, nove anni, e i suoi compagni di scuola poco prima della pandemia. In otto splendidi, e a volte divertenti minuti, si racconta la giornata tipo di un ragazzo con disabilità motoria e dei suoi compagni, nella disperata cornice di Korogocho, in Kenya, in uno degli slum più poveri del terzo mondo. Ma la storia di Barak e della sua scuola, frequentata per lo più da ragazzini disabili e nella quale anche alcuni insegnanti presentano difficoltà, è anche un racconto di solidarietà: come dichiarato dal regista, i proventi del corto sono destinati alla riabilitazione motoria del piccolo.

PREMIO ADCOM ALLA “MIGLIOR FOTOGRAFIA”: Santiago Calogero, A MOMENT OF MAGIC, di Andrea Casadio
“Per la cura con cui è stato realizzato ogni singolo shot e che accompagna perfettamente la storia, grazie anche all’efficacia dei contrasti, dei neri profondi e della palette dei colori scelta, che conferiscono al film un look accattivante e simile alla pellicola”.

Vincitore di numerosi premi, come quello al Miglior Cortometraggio italiano e internazionale allo Spello Film Festival del 2021, la pellicola attraversa quelle notti irrequiete che non passano e non accadono mai. Ci sono sogni che non si avverano mai. E siamo a Los Angeles, la città dei sogni, è notte: Claire e Jazmine, sono due trentenni single in cerca della loro dimensione. Il film segue le protagoniste in una serata e il risultato è uno spaccato, asciutto e universale, della vita dei trentenni stanchi e disamorati. Le giovani donne intervallano la quotidiana routine con l’evasione notturna, cercando prospettive per ridare linfa a una vita percepita come arida e senza scopi chiari, senza direzione. Si incontrano per dimenticare una società dove nessuno ormai si sente più sé stesso, dove il disagio domina, dove non ci si sente mai accettati. Una parabola generazionale, sull’amicizia, sul futuro e sul disorientamento, in una città che brilla, si anima e vive di una bellezza imperturbabile e stridente rispetto agli eventi. Dove il tramonto non segna necessariamente una fine, né l’alba un inizio.

Volontariato in FEsta! Ferrara 7 e 8 ottobre… cosa c’è di originale?

Volontariato in FEsta ! Ferrara 7 e 8 ottobre… cosa c’è di originale?

Di feste siamo abituati a vederne spesso, ma Volontariato in FEsta è una festa inusuale, non consueta.
Difficile quantificare il numero di volontarie e volontari nella nostra città. Certamente parliamo di migliaia di persone, inserite in diverse centinaia di organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale, per non parlare delle decine e decine di volontari attivi in gruppi informali, comitati, parrocchie o in progetti specifici.
Un mosaico eterogeneo, vivace, che lavora instancabilmente, il più delle volte lontano da luci e riflettori e che garantisce, giorno dopo giorno, servizi, attività e supporto a migliaia e migliaia di persone della nostra comunità.

Mi si chiederà: Cosa c’è di originale in una festa del volontariato?
Solitamente, il volontariato è talmente concentrato nelle gestione delle attività (sanitarie, sociali, culturali, sportive, di tutela dei diritti, ambientali, di protezione civile, ecc) che ha “poco tempo” per organizzare feste, per lo meno feste a cui partecipare con tante altre associazioni. A volte questa prevalenza di attività, rischia di renderlo poco visibile. O meglio, un cittadino probabilmente conosce un certo numero di associazioni, ma fa fatica ad immaginare l’articolazione e la complessità di questo mondo, la sua capillarità e l’importanza della sua funzione.

In qualità di operatrice del CSV, mi capita con una certa frequenza, in riunioni con diverse associazioni, di ascoltare questa frase: ” Tu di che associazione sei? … Ah, non sapevo dell’esistenza di questa Associazione! Ma di che cosa vi occupate? Interessante!“.
Insomma, parliamo di una realtà talmente estesa, che si fa fatica a conoscerla tutta, anche in una città delle dimensioni di Ferrara!

Volontariato in FEsta: spazi aperti di solidarietà, gioco e partecipazione” è una festa del volontariato, per la città.
Un modo per mettere per qualche ora luce su questa ricchezza inestimabile. Sono circa 70 le realtà del terzo settore che hanno risposto alla chiamata di CSV Terre Estensi, coordinatore della iniziativa.
Durante la due giorni che si terrà sabato 7 e domenica 8 ottobre, in Piazza Ariostea, a Ferrara, proporremo giochi e convivialità, in una piazza dove ognuno potrà conoscere da vicino il volontariato che anima la città e, magari, anche mettersi in gioco.

Dicono gli organizzatori: “Facciamo festa perché vogliamo comunicare che partecipare, coinvolgersi, dedicarsi ai bisogni particolari e diversi della città e dei suoi abitanti è importante, ma soprattutto è bello e fa bene a chi dà e a chi riceve. Ciascuno di noi dona un po’ di sé, del proprio sapere e della propria esperienza di vita, e tutti insieme costruiamo un mondo migliore, più colorato e più giusto”

Si parte sabato 7 ottobre, dalle 8.30 alle 13.30, con l’apertura degli stand associativi e i laboratori interattivi “Dire-fare-conoscere” per giovani e studenti di scuole superiori e università.

Domenica 8 ottobre, dalle 15, la festa continua con gli stand delle associazioni ed entra nel vivo con “Pronti, partenza…via! Volontariato senza frontiere”, gioco a squadre per conoscere il terzo settore della nostra città in modo gioioso, attraverso una serie di divertenti sfide da superare, aperto a tutti i cittadini di ogni età. Iscrizioni dalle 15 alle 16.
In palio ci sono ricchi premi proposti da Associazione Fiumana, Canoa Club, Cooperativa sociale Integrazione Lavoro, Cooperativa sociale Il Germoglio, UISP, e inoltre gadget originali per tutti donati dalle tante realtà di volontariato locali.
Ore 18 premiazioni.
Durante i giochi sarà attiva la Biblioteca Vivente grazie alla collaborazione con il Centro per le Famiglie.
A seguire dall
e 19 alle 23.30 musica e iniziative con: Coro delle Mondine di Porporana, Spazio D’Azione esito del corso di danza del Centro Sociale  La Resistenza, Chiara Scaglianti concerto voce e pianoforte, Corpi di Donne restituzione del laboratorio tenutosi al Centro la Resistenza, Petrobras concerto musica afro brasiliana, World Music Balera con Dj Walter Magi.
Grazie al contributo di: Uisp,  Fermac, Telestense, Radio Dolce Vita.
Vi aspettiamo!

Ferrara Città del Cinema? Forse, domani, ma prima riaprite il Boldini!

“Se un luogo può definirsi identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi tale definirà un nonluogo“, scriveva Marc Augé. Mi è tornato in mente cercando di definire la chiusura del Complesso Boldini, i lavori cominciati e subito interrotti, la riapertura oggi neppure ipotizzabile,  le promesse non mantenute e l’ignavia di questa amministrazione comunale. Cos’è oggi lo storico e amato Boldini? Ha ragione Marc Augé: un nonluogo.  

Tra i tanti cantieri incompiuti in giro per Ferrara, dove troppo spesso non solo non si conoscono i tempi di conclusione lavori ma nemmeno gli artefici  delle opere in corso, spicca il caso del “complesso Boldini“, in Via Previati 18, composto dalla sala cinematografica (con sistema dolby stereo surround, 375 posti,  proiezioni in  digitale (4k), 35 mm, Blue ray e dvd); la video-biblioteca Vigor (dotata di un patrimonio di oltre 4000 dvd, 1200 VHS, centinaia di filmati digitalizzati, oltre 5000 volumi sul cinema e i suoi protagonisti, centinaia di riviste italiane e straniere in gran parte catalogate su OPAC).

Tutto questo materiale, secondo il geometra-assessore alla cultura Gulinelli, rispondeva così nel 2021 ad una interpellanza (P.G. n. 61250/21) della consigliera PD Baraldi, “è al sicuro e ben custodito in un capannone in Via Marconi e costantemente monitorato per evitarne l’usura“.
In questi anni non sono mai stati forniti dei report sullo stato, le condizioni di salute di questo prezioso materiale. Nel complesso ci sono inoltre – tutti ovviamente chiusi e inagibili – lo storico Ufficio Cinema e Le Grotte del Boldini , un grande spazio che negli anni hanno ospitato decine di mercatini di associazioni di volontariato, incontri sul cinema, seminari e attività dedicati agli insegnanti delle scuole d’infanzia, laboratori per i bambini, mostre, eccetera.

Dopo essere stato chiuso nel marzo 2021, al Complesso Boldini sono iniziati i lavori.
I numerosi sopralluoghi fatti facevano ben sperare. Progetti di allargamento dei locali sia al piano terra che al primo piano ci facevano intravedere la possibilità di una futura emeroteca cinematografica che ospitasse delle tante rarità di proprietà comunale.
Il cortile di Via Previati ha incominciato a riempirsi di montagne di calcinacci, pietre, un paio di bobcat, furgoni che portavano via le poltroncine del cinema,,,.

Ad un certo punto, lo vedo con i miei occhi, capisco che la cosa non procede. Da un po’ di tempo nessuno lavora più nel cantiere e, addirittura, i cancelli vengono “oscurati” con cartoni per evitare che dalla strada si potesse…ammirare il non-avanzamento dei lavori!

Con un po’ di fatica, riesco a sapere che l’impresa aggiudicataria dell’appalto (con un ribasso del 28%!!!), non era più in grado di proseguire i lavori per l’aumento dei costi dei materiali, e giudicando insufficiente l’intervento con il decreto “Aiuti”.
E’ evidente, la Giunta di Alan Fabbri aveva ben altro di cui occuparsi. Vogliamo mettere cosa può contare un cinema d’essai con biglietti a prezzi calmierati e una videoteca che forniva materiale cinematografico e cartaceo spesso introvabile altrove, a fronte della mega-programmazione musicale in Piazza Trento Trieste,  della cultura  mordi e fuggi, dell’effimero di una sera e poi… avanti coi carri!

Trovo imbarazzante (direi scandalosa) la chiusura fino a data da destinarsi del Complesso Boldini. In una città come Ferrara che si vanta di essere la patria di Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Folco Quilici, che organizza (poche settimane fa) un Festival del Cinema di caratura nazionale, che da anni è sede di un Festival del Corto di grande interesse, che ospita una quotata Scuola d’Arte Cinematografica intitolata a Florestano Vancini, che ha già sfornato alcuni giovani talenti… 
In una Ferrara che il Sindaco e il citato Assessore-geometra celebrano come
Città del Cinema”, il Boldini (familiarmente, “Il Boldo” com’è chiamato in particolare tra i giovani e gli studenti.), il tempio del cinema per tutti i ferraresi, è chiuso da tre anni, in stato di completo abbandono, e non si vede nessun concreto impegno da parte dei sopra citati amministratori. Nonostante non si perda occasione per dire che Ferrara è una città dedicata al cinema … solo chiacchiere e distintivo!

Anche l’assessore liberal/liberista Andrea Maggi, come lui stesso si ama auto-definirsi,  ha assicurato più volte che i lavori saranno ripresi e ultimati presto… Il tempo di assegnare alla seconda impresa i lavori e voilà il gioco è fatto!  Alcune domande: a) se la prima impresa, nonostante il cospicuo ribasso iniziale e la incapacità di ultimazione dei lavori per il lievitamento dei costi dei materiali e per altre difficoltà incontrate in itinere e a noi sconosciute, con quale budget economico e di risorse la nuova impresa appaltatrice potrà concludere i lavori? b) stante la decisione presa a suo tempo dall’Amministrazione Fabbri di assegnare la gestione alla Coop. Le Pagine (ora inglobata da Cidas), quali saranno i tempi del ritorno di tutto il patrimonio accatastato in Via Marconi e quale organizzazione verrà proposta alla città?

La Sala Boldini e la Vigor sono stati per decenni luoghi – indispensabili e non sostituibili – della cultura e dell’incontro per tantissimi ferraresi, La loro assenza. il vuoto che hanno lasciato,  impoveriscono la nostra città. Qualsiasi passante, a vedere quel pietoso spettacolo, transenne, lucchetti, rottami permanenti [vedi le foto) , prova un senso di desolazione. Si sente offeso, personalmente.
Lo stesso sconcerto, la stessa indignazione, la proverebbero i nostri Uomini Illustri. Carlo Savonuzzi, il noto ingegnere che progettò e diresse i lavori dal 1935 al 1939 del Complesso Boldini,  Michelangelo Antonioni, titolare di una piazza invasa dai rottami. e il povero Giovanni Boldini , chiuso al pubblico sine die.

Diario in pubblico /
I pericoli dell’angolo

Diario in pubblico. I pericoli dell’angolo

Nella mattinata di sole di sabato 30 settembre, un rombante veicolo – dicono chi l’ha visto – a tutta velocità svolta da via Ghisiglieri in via XX Settembre qui a Ferrara e distrugge l’angolo del palazzo in cui abito, dichiarato dalla Sovrintendenza di interesse nazionale storico artistico.

Gli astanti, che hanno visto l’incidente, chiamano la polizia che invano cerca traccia del responsabile e tocca perciò agli abitanti del palazzo salvare le pietre antiche, che vengono accuratamente riparate nell’atrio in attesa del muratore che le ripristini.

La maledizione sembra perseguitare quel quartiere e quella zona. Malignamente penso subito ai veicoli che escono dal cantiere del posteggio macchine in costruzione, ma quella mattina il cantiere era chiuso. Tra i sussurri e non le grida dei residenti, mentre mestamente s’adempie al salvataggio delle pietre, ecco che mi torna, vivida nella memoria, una zirudela (componimento umoristico dialettale emiliano-romagnolo) cantata da noi bambini immediatamente dopo la Liberazione. A memoria così suonava:

La mujer d’al Negus l’andava in bicicletta. L’ha fatt ‘na curva stretta la s’è rusgà ‘na tetta. Bim bum bam il rombo del cannon” (La moglie del Negus andava in bicicletta. Ha fatto una curva stretta e si è rosicchiata una tetta. Bim bum bam il rombo del cannone)

La zirudela faceva il paio con un’altra, sicuramente databile intorno agli anni ’20 del Novecento, di cui ricordo solo l’inizio: “Menelik e Barattieri i s’è dà un much ad peri. Barattieri e Menelik i’ s’è dè un much ad kic” (Menelik e Barattieri si sono dati un sacco di botte. Barattieri e Menelik si sono dati un sacco di pugni)

Tempi ormai mitici nella memoria che il ricordo preserva e forse falsa, ma che risalgono alla mente di fronte alla cretineria umana. Nel frattempo, l’ex sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani indice una petizione da far firmare agli abitanti del quartiere, in cui si auspicano i ‘dissuasori’ nella via ormai divenuta una specie di autostrada cittadina.

Così ora si presenta via XX Settembre, un tempo ricca di negozi e attività varie. Ora una sequenza muta di palazzi e case la cui unica risorsa è quella di affittare camere o letti agli studenti. Perfino i negozi che ancora rimangono, tra cui il celebre forno di Mauro, sembrano tristi nel loro vuoto che li affligge per molte ore al giorno.

L’unica straordinaria attività è quella gestita dalla Parrocchia di Santa Francesca Romana con la sua bella biblioteca e i locali legati alle attività sportive. Ma a pochi è dato in sorte di avere uno straordinario parroco come Andrea Zerbini.

Ma questa è un’altra storia che ho spesso raccontato.

Questo episodio, specchio dei tempi, testimonia dunque anche la politica e le scelte del governo cittadino in carica.

Vivere a ‘Ferara’ sta diventando dunque una scommessa di cui non si vede chi uscirà vincitore, mentre ancora sconsolatamente attendo un verdetto che tarda sempre di più a venire, cioè se verrà accettata la mia offerta di donare alla Biblioteca Ariostea le carte e i libri rarissimi attinenti ad un personaggio storico importantissimo nella storia della città quale fu Leopoldo Cicognara.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore

Parole a capo
Laura Valentina Da Re: alcune poesie inedite

Quando guardo un paesaggio, non posso fare a meno di notarne tutte le pecche; ma per noi, comunque, è una fortuna che la natura sia così imperfetta, perché altrimenti non esisterebbe l’arte. L’arte è la nostra vivace protesta, il nostro valoroso tentativo di additare alla natura il posto che le spetta.
(Oscar Wilde)

Ti raccomandi al sintomo
dell’azzurro gravido, la deriva
a primavera che non sappia solo
di storia infinita o di vino quieto
nella tana che vacilla,
alle spore bandite
come i sussulti sono
da un furore estraneo,
parti cucciolo
dando sepoltura al colostro
il tempo di iniziare il fiume.

*

Un boccone di ghiaccio2755
e l’oceano si ferma
dalla mia parte,
io che porto il perimetro
boreale
i nei della steppa
la scienza del vasto
in attesa
sono vigilia, ogni volta,
rincorro la terra notturna
levigo il sale,
sono lago che migra.

*

Gigante che brilli
ti chiamo animale di acqua
crepuscolare,
abitato da sirene
e dismisure
sei come il tempio afflitto
da una luce incurabile,
non bere il mio nudo
mentre ti abbraccio.

*

Il suo seno è concime
la torba di luce che rimugina
i semi, li fa esplodere
gloriosamente
e mi devi credere,
lapislazzuli teneri
se li riesci a menare,
come uomini sciolti in mari
di ambrosia
non muoiono lenti,
non ancora.

Laura Valentina Da Re risiede a Belluno con il marito, i due figli e il suo inseparabile husky, insegna da quasi trent’anni nella scuola dell’Infanzia. E’ da sempre una grande amante della letteratura, della poesia in modo particolare, ma anche della musica e dell’arte. Nel 2022 ha pubblicato per la Place Book “La magrezza dell’Uno”

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Gian Pietro Testa pittore:
appello ai collezionisti per una mostra d’arte dedicata al grande giornalista

Gian Pietro Testa dipingeva. Noto come grande giornalista che insieme a Giorgio Bocca ha raccontato sulle pagine de Il Giorno gli scandali e gli anni di Piombo, firma di spicco poi per i reportage di cronaca nera e terrorismo sui quotidiani  l’Unità e Paese Sera, si è occupato dei casi di Piazza Fontana (fu il primo giornalista a entrare nella sede della Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre del 1969) e della strage di Bologna all’indomani del 2 agosto 1980.
Tanto l’impegno di GPT anche a Ferrara e per Ferrara. E fra le tante, una cosa piccola ma per noi importante: il suo consiglio, la sua vicinanza, la sua assidua collaborazione [Vedi qui], sono stati un apporto fondamentale e prezioso nella creazione e nello sviluppo del quotidiano online che state leggendo.
Gian Pietro, insomma, è stato reporter in prima linea, scrittore di libri-inchiesta, autore di narrativa e poeta. Ma anche artista.

Ritratto di Elettra (foto LP)

Nei quadri e in alcune opere scultoree, Testa dava forma e colore a tutta la sua carica di vitalità battagliera, di anticonformismo, passione e libertà di pensiero. Il suo mestiere, certo, era la scrittura. Eppure la pittura l’ha sempre accompagnato: a partire dall’epoca dell’adolescenza – negli anni Cinquanta – fino agli anni Duemila. La fama di giornalista e scrittore ha lasciato un poco in ombra questa sua attività creativa, che però condivideva con le persone più intime, con quei familiari e amici con cui si creava una maggiore confidenza, e che in alcuni momenti ha trovato riconoscimento e occasioni significative di esposizione pubblica.

Libro GPT con sua opera in copertina

Nato a Ferrara il 24 settembre 1936, quando è morto 7 gennaio 2023, Gian Pietro Testa oltre ai suoi libri e ai suoi scritti, ha lasciato un piccolo patrimonio di opere pittoriche visionarie e imponenti che sarebbe molto interessante potere raccogliere e rendere visibili.

“Metamorfosi”  (raccolta Comune di Ferrara)

A 15 anni – ricorda il critico d’arte Lucio Scardino – Testa è stato allievo quale pittore del piemontese Edgardo Rossaro, mentre come giornalista esordì ventenne pubblicando sulla “Gazzetta Padana” diverse recensioni cinematografiche. In età matura tenne mostre personali d’arte allo Studio Melotti di Ferrara e al Centro Civico di Pontelagoscuro. Per lo sviluppo della sua pittura fu fondamentale il sodalizio con l’amico artista Paolo Baratella.

Natura morta con rosa di GPT (foto LP)

Suo figlio Enrico Testa, giornalista che ormai da anni vive e lavora a Roma, ha ereditato un’ampia collezione di opere e si è messo a disposizione con entusiasmo per rendere visibile quanto rimasto nella casa paterna. I nipoti Paolo Sandali, che vive a Ferrara insieme alla moglie Monica, e Massimo Marchesi con la moglie Stefania hanno acconsentito a fare da tramite e ad aprire le porte dell’abitazione e della soffitta-atelier, nell’abitazione di via Carlo Mayr. Il fotografo ed amico Luca Pasqualini ha partecipato a questa prima ricognizione e, con la sua professionalità e sensibilità, ha pazientemente documentato sia il sopralluogo sia le opere che via via scovavamo impilate una dietro l’altra nel granaio o più solennemente appese in bella mostra nel salotto e nelle stanze della casa. Il critico d’arte Lucio Scardino è andato a rispolverare, con la consueta dotta e dettagliata attitudine, la storia della vocazione artistica di Gian Pietro e le esposizioni che sono state realizzate, per alcune delle quali è stato lui stesso il curatore.

Figura femminile (foto LP)

Il titolare della galleria Idearte di via Terranuova Paolo Orsatti, così come il gallerista della Galleria del Carbone Paolo Volta si sono dichiarati interessati ad aprire gli spazi per ospitare una rassegna espositiva nel cuore della città di Ferrara. Sollecitato da Lucio Scardino, l’assessore comunale alla Cultura Marco Gulinelli ha appoggiato con entusiasmo il progetto, prospettando già la possibilità di utilizzare spazi civici per mettere in mostra le opere.
Ora può essere utile se tutti coloro che hanno informazioni, opere e ricordi potessero condividerle, per contribuire a rendere più completa e ampia la ricognizione.

Lanciamo quindi un appello ad amici, collezionisti e persone che hanno conosciuto Gian Pietro Testa e che hanno sue opere pittoriche per segnalarcele, magari allegando file di immagine e breve testo descrittivo dell’epoca a cui risale l’opera e del contesto in cui l’opera è stata ricevuta.

Questo l’indirizzo dove mandare le segnalazioni, indicando come oggetto della mail “GPT pittore e artista”: giom.larte@gmail.com


In copertina: “Ultima cena” di Gian Pietro Testa (foto Luca Pasqualini)

Le storie di Costanza /
Ottobre 2062 – Il Pothos

Le storie di Costanza. Ottobre 2062 – Il Pothos

Cosmo-111 guarda sempre mia figlia Axilla che esce di casa per andare in università a Trescia, dove studia informatica. Ogni volta che la vede uscire si ferma un attimo pensieroso. Mi chiedo se non sia preoccupato di quando la rivedrà o se provi a calcolare quante probabilità ha di riabbracciarla la sera.

Visti i suoi potenti mezzi neuronali, è capace di fare calcoli probabilistici che si approssimano alla realtà con gradi di correttezza importanti. A volte mi chiedo anch’io quante probabilità ho di rivedere mia figlia alla sera. Axy che è giovane e in salute, per questo la possibilità di condividere con lei la cena è alta, anche se non raggiunge la certezza.

C’è sempre quello spazio nero in cui si possono annidare i drammi più assoluti, i cambi di vita tanto repentini quanto tristi. Questa è la precarietà del vivere, la nostra incertezza sui tempi dell’esserci e del non esserci più. Non sono gli esseri umani che controllano la durata della vita, le variabili che interferiscono sono ennesime, alcune di queste davvero imprevedibili.

Con questa consapevolezza un po’ quantificata e un po’ arricchita dal legame affettivo che garantisce l’attaccamento, quando alla sera vediamo Axilla che rientra, io e Cosmo-111 ci sentiamo sollevati, leggeri. O almeno io mi sento così e, nel caso i sentimenti di Cosmo-111 siano autoriflessi e rappresentino i miei, l’atteggiamento di Cosmo-111 è una diretta conseguenza del mio.

Nel caso invece si adotti un pensare eterodosso che attribuisce autonomia emozionale ai Robot, l’atteggiamento di Cosmo-111 non riflette il mio, ma rappresenta sé stesso con tutti i suoi timori e le sue gioie. La teoria originale mi sembra realista e aggiungo a questa anche la fede in ciò che la scienza ufficiale dice, come agente importante di verità.

È già abbastanza complicato avere sempre la consapevolezza che si sta vivendo con un robot (una macchina) che, per imitazione, fa come te, è come te. Non aggiungerei la possibilità che il mondo dei robot sia parallelo al nostro e che anche loro si interroghino sul senso della vita e sull’aldilà, sarebbe scandaloso e rivoluzionario, preoccupante. Di sicuro sia io che Cosmo-111 siamo sollevati nel vedere Axy rientrare a casa.

Guardo l’orologio di metallo laccato di bianco che è su una delle pareti della mia cucina, sono le ventuno e un’altra giornata è passata senza problemi. Io amo la normalità, penso che le bizzarrie e le stranezze non facciano bene al mondo, lo intasano di artifici e casualità fittizie. Amo la normalità del lavoro, del luogo dove vivo, della mia casa accogliente, dei gatti, delle mie piante penzolanti e verdissime.

A volte mi fermo e guardo il mio Photos che cresce a vista d’occhio. Ho fatto girare le sue foglie intorno a un cilindro di cartone e adesso anche il cilindro è pieno di foglie. Sono verdissime, un verde chiaro e luccicante che difficilmente si trova nelle piante d’appartamento.  Di solito hanno un colore più scuro e opaco, direi più invernale.

Una volta Cosmo-111 mi ha chiesto: “Valeria ti piace il Photos?” “Si” gli ho risposto. “Ora ti spiego tutto dei Pothos” e, con tono un po’ saccente, ha cominciato a ripetere:

I Photos hanno foglie delicate, temono i raggi diretti del sole anche se amano la luce. Quelle belle foglie sono cuoriformi, lucide, leggermente cerose, spesse e rigide, e si sviluppano su lunghi rami, da cui spuntano radici aeree che permettono alle piante di abbarbicarsi d’dappertutto. Si coltivano spesso come rampicanti, mettendo nel loro vaso un tutore alto fino a un metro, su cui la pianta si sviluppa.”

Purtroppo, dopo aver pronunciato correttamente le prime frasi, Cosmo-111 si è dimenticato alcune vocali (e, i, o, u) ed è regredito verso il linguaggio mono-vocale che usa sempre più spesso man mano che i suoi circuiti invecchiano.

“La varaatà a faglaa paccala spassa sa caltavana an panaara appasa, cama paanta racadanta. Il pathas è ana paanta malta apprazzata a daffasa: trava malta astamatara an vartà dalla saa astrama varsatalatà an davarsa candazana da laca a da clama.”

Non gli dico che non ho capito, tanto fa lo stesso, qualche dettaglio in più sui pothos non cambia la mia vita di molto, e nemmeno la sua. Non sempre si capisce quel che dicono i robot e non sempre si capisce quel che dicono gli umani.

Basta pensare alle varie lingue del mondo e ai vari dialetti, alle mutazioni continue che sia gli uni che gli altri subiscono nel corso del tempo. Tutto è in perenne mutamento, tutto evolve, l’evoluzione non è linearmente migliorativa, lo è con modalità circolari.

I robot di nuova generazione sono dei traduttori efficienti, sanno tradurre praticamente in tutte le lingue del mondo e, con modalità rovesciata, capire il linguaggio di tutti. Ma proprio i circuiti che garantiscono loro tanta versatilità, sono delicati e, ogni tanto, succedono delle vere bizzarrie.

Robot che mescolano parole in italiano, in portoghese e in cinese, Robot che parlano un po’ in italiano corretto e un po’ sgrammaticato, Robot che, superati i primi anni di immatricolazione, cominciano ad assemblare lettere e suoni in maniera incomprensibile senza minimamente rendersene conto.

L’uso del linguaggio e la sua possibilità intrinseca di creare informazioni attraverso i significati attribuiti ai suoni e alle parole, è spettacolare nel mondo umano così come negli altri mondi che conosciamo, compreso quello dei mezzani.

Un avvenimento non raccontato esiste al massimo per chi l’ha vissuto, un avvenimento raccontato esiste per chi lo ha sentito raccontare e ha riconosciuto veridicità nelle parole sentite. Un avvenimento raccontato e scritto aumenta ancora il suo grado di autorevolezza, di diffusione, di verità e di conoscenza. Ma che rapporto c’è tra verità e conoscenza? Me lo chiedo sempre e, in momenti diversi della mia vita, mi sono data risposte diverse.

Credo che la definizione di verità sia indissolubilmente legata a quella di conoscenza. Questa indissolubilità crea un perimetro all’interno del quale è interessante provare a fare alcune riflessioni. È vero ciò che consociamo? Direi di sì. Se non utilizziamo questa premessa, limitiamo molto la nostra possibilità di pensare.

Ora resta un secondo tema. Ciò che non conosciamo è vero o falso? Direi che ciò che non conosciamo può essere sia vero che falso, non vedo altra possibilità di chiudere il cerchio.  Se è così, la verità si approssima a noi solo attraverso un processo condiviso e delle regole che descrivono la conoscenza.

Quindi, la conoscenza è una strada univoca? credo di no, a meno che noi assumiamo, come all’origine di qualunque pensiero, il fatto che la conoscenza sia una dimensione necessaria che può essere “vera” se ne definiamo le regole che la supportano. Così si fa un importante passo avanti.

L’appropriazione di gradi superiori di conoscenza attraverso l’utilizzo di regole che ci permettono di circoscriverla e quindi di definirla, aumenta i gradi di consapevolezza, riduce la complessità del mondo, isola dei fenomeni che, in quanto isolati, sono più facilmente definibili e studiabili.

Comunque ne pensino quei teorici poco “pensatori” che con molto qualunquismo gettano alle ortiche l’importanza dell’atto definitorio come premessa per una idea di verità condivisa, non mi sembra auspicabile e nemmeno troppo teorizzabile l’idea che tutto sia sempre indissolubilmente vero e falso. Se così fosse, disconosceremmo la ricerca della verità come processo, la scoperta umana come strada, se non come approdo.

Anche considerando la relatività e le limitazioni che il pensiero umano porta con sé, credo si possa parlate sia di conoscenza che di verità ed attribuire alla ricerca di entrambe un rigore procedurale che nel definirsi ne affina e legittima l’esistenza. Tutto ciò per dire che esiste una verità ed esiste una conoscenza.

Cercando di distrarre Cosmo-111 dalle dissertazioni sui Photos e seguendo il corso dei miei pensieri che nel frattempo si sono discostati dai vegetali, ho chiesto a Cosmo-111: “Cosmo, che cos’è la verità?” “Cerco nel vocabolario, quale vocabolario preferisci?” mi ha risposto.

“No, non cercare nel vocabolario”. “Allora dove devo cercare?” “Cerca nel tuo cuore” gli dico “Io non ho il cuore”. “Allora cerca nel mio cuore”. Lui mi ha guardato pensieroso e poi mi ha risposto “La verità è amore

Non so da dove gli sia venuta questa illuminazione, non so se sia una risposta casuale, non so se abbia decifrato quello che stavo pensando io e non so se anche Cosmo-111 lo pensi. Ma forse è così, c’è una relazione tra la ricerca della verità e la ricerca dell’amore. Alla fine, ciò che la verità vuole spiegare è la presenza e l’assenza di amore. Il suo esserci e il suo non esserci, il suo pervadere la vita, il suo pervadere la morte. Ciò che è vero, esiste.

Smetto di elucubrare su queste esiziali questioni e guardo Cosmo-111 che sembra già dimentico di questa storia delle verità, o almeno così sembra, e poi mi dice: “Per me è vera Axilla quando è a casa, quando non è a casa è sia vera che non vera, quindi essendo anche non vera, potrei decidere che non è vera. Io voglio che torni a casa, perché quando la vedo so che è di nuovo vera. A me piace Axilla vera !!!, Axilla è mia”

“Axilla non è solo tua!” gli dico. “E invece è solo mia … per me è così!!!”. Ciò che è per me, ciò che è per lui, ciò che è per noi, ciò che è per gli altri …. Altro bel tema che s’incastra all’interno di una possibile definizione di verità e del suo processo definitorio.

Cosmo-111 ha finito di parlare con me, va nella stanza da letto, si siede sulle sue corte gambe, si copre con una coperta di mollan e mette la mascherina con le stelle gialle sopra le sue telecamere. Ora ci lascia fino a domattina, si addormenta e sogna di pulire i pavimenti.

Guardandolo dormire mi chiedo se questa strana situazione di standbay che noi chiamiamo impropriamente “dormire” porti anch’essa con sé una nuova definizione di verità che si legittima attraverso un processo di rigenerazione neuronale tipica del mondo mezzano, che prima non esisteva e non esistendo non poteva avere alcun grado di legittimità. Buonanotte.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Alan Fabbri: quello che un Sindaco non può fare

Naturalmente il sindaco Fabbri, iscritto alla Lega e amico personale di Matteo Salvini, può pensare ogni male del Partito Democratico. Ci mancherebbe…

Quindi può scrivere peste e corna delle Opposizioni ai suoi migliaia di followers sul suo canale Facebook.

Ovvio, può dire la sua alla stampa locale, magari occupando (l’ha fatto proprio oggi, 3 ottobre 2023) 2 spaginate del quotidiano amico Il Carlino Ferrara, magnificando il suo governo e tacciando di inconcludenza e di povertà di idee il Pd e le altre formazioni del Centrosinistra che gli si oppongono in Consiglio Comunale.

Dice cose inesatte, cattiverie, balle spaziali? Sarà un problema della sua coscienza e, forse, una lezione per i futuri elettori.
Si lascia andare ad espressioni tendenziose, ad attacchi inconsulti, ad insulti veri e propri? Qui non interessa. Se ne occuperà, forse, qualche giudice.

Ma insomma, Alan Fabbri, piaccia o no, è un uomo libero, e se non è “uno di noi” (io ad esempio non sono “uno dei loro” e non l’ho mai nascosto)  è comunque “un cittadino come noi”, libero di esercitare il suo diritto di espressione e di opinione, che la nostra Costituzione della Repubblica gli garantisce.

C’è solo una cosa che Fabbri non può e non deve fare. Non può dimenticarsi di ricoprire la carica di Sindaco della città di Ferrara. Quando parla in via ufficiale deve “cambiarsi il cappello” e mettersi quello da Primo Cittadino. A maggior ragione se fra 10 mesi i suoi concittadini (di destra, di centro e di sinistra) saranno chiamati a scegliersi un nuovo governo e un nuovo sindaco.

Leggete questa Comunicazione del Sindaco, pubblicata ieri 2 ottobre sul  sito ufficiale del Comune di Ferrara: sezione Notizie, sottosezione Agenda del Sindaco 

“Più si procede nel percorso verso le elezioni più emerge chiaramente che il Pd, nelle sue svariate correnti, è unito solo da un programma elettorale anti-Fabbri. Pensavamo di confrontarci su idee, proposte, progetti, visioni strategiche della città del futuro e invece, ancora una volta, ciò che emerge è solo un ‘programma – contro’ l’Amministrazione. Addirittura pare si siano inventati i tavoli anti-Fabbri in vista dell’imminente congresso, mentre tentano di fare capolino alcuni candidati, veri o presunti non è dato sapere.  
Dispiace perché, a causa del vuoto che sta esprimendo il partito democratico, la campagna elettorale non potrà essere, stante le premesse, un’occasione per confrontarsi sui contenuti, ma rischia di essere la solita nota stonata di un partito, il Pd appunto, che in assenza di capacità costruttiva, sa solo dire ‘no’ a tutto. Come accaduto in questi anni, peraltro. Cambiano i segretari, cambiano le correnti, ma rimane il solito e vecchio Pd di sempre, oscurantista e carico di risentimento e odio, non solo politico, per aver perso le elezioni, candidandosi così a una seconda sconfitta. Il Pd di Ferrara si pone oggi solo come un partito-contro. Per il resto è nebbia fitta in val padana”. Così il sindaco Alan Fabbri commentando le ultime dichiarazioni di portavoce ed esponenti delle componenti territoriali legate a Elly Schlein e Stefano Bonaccini.
(Comunicazione Sindaco)

Non entro nel merito, ho anch’io qualche opinione su cosa fa e cosa non fa l’Opposizione ferrarese, e pure su questa anomala campagna elettorale che sembra già partita, 250 giorni prima del giorno del voto amministrativo.
Lo farò, ma qui il problema è un altro. Qui parlo del rispetto di una regola minima di correttezza politica. Una regola a cui attenersi sempre, ancor di più in periodo di elezioni.

Se parli da sindaco, se ti metti la fascia tricolore, se intervieni sui canali ufficiali del Comune, non puoi fare campagna elettorale, non puoi indossare la maglietta verde di ultras della Lega. Devi parlare da Sindaco. Da sindaco di tutti i ferraresi. E basta.

Non so che nome salterà fuori dall’urna il prossimo 7 giugno 2024. Ognuno farà la sua scelta.
Quello che vorrei – lo dico alla Maggioranza e all’Opposizione, alla squadra di Alan Fabbri come alla squadra che gli si opporrà – anzi, quello che oserei pretendere, è un/a Sindaco/a che sappia stare al suo posto, che conosca le sue responsabilità, il suo ruolo, i limiti politici ed etici a cui un Primo Cittadino deve attenersi.

Non chiedo tanto. Potrebbe anche bastare una persona con un po’ di buon gusto, ma di quello, almeno a Ferrara, non tutti sono forniti.

Quel che è certo che di sindaci  padre padrone – oggi, ma anche ieri – ne abbiamo avuti abbastanza.

Cover: Alan Fabbri, Sindaco di Ferrara – immagine tratta dal sito ufficiale del Comune di Ferrara

LA VOCE DELLA RIVOLUZIONE
Incontro-Racconto con Babilonia Teatri al Fienile di Baura: venerdì 6 ottobre ore 18.30

LA VOCE DELLA RIVOLUZIONE
Incontro con Babilonia Teatri sullo spettacolo “Ramy. The voice of revolution”
Venerdì 6 ottobre alle ore 18.30 al Fienile di Baura
INGRESSO LIBERO

Venerdì 6 ottobre alle ore 18.30 al Fienile di Baura ospitiamo la compagnia veronese Babilonia Teatri, per dialogare su queste sostanziali domande, vive e concrete come corpi pulsanti:

Cosa significa Stato?

Cosa significa giustizia?

Cosa significa potere?

Cosa significa polizia?

Cosa significa processo?

Cosa significa legalità?

Cosa significa carcere?

Cosa significa tortura? 

Cosa significa opinione pubblica?

Cosa significa giornalismo e libertà di informazione?

Cosa significa responsabilità, umanità, forza?

Il cantante egiziano Ramy Essam “La voce della rivoluzione”

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani di Babilonia Teatri racconteranno come hanno costruito ‘Ramy. The voice of revolution’, spettacolo che, partendo dagli eventi legati alle primavere arabe, pone le domande fondanti di ogni comunità umana e arriva a vicende legate ai rapporti di potere tra Stato e cittadini. Uno spettacolo che sollecita, in particolare, presa di coscienza sulla la violenza che talvolta attraversa quei vitali (o mortali) rapporti, e che può manifestarsi in forme coercitive o di tortura, come accaduto anche a nostri concittadini in note vicende di questi anni e non solo.

Nel titolo di questo loro lavoro il riferimento è all’artista egiziano Ramy Essam, oggi conosciuto in Egitto come “la voce della rivoluzione”, perché cantava per le strade in onore di principi sacri e per noi scontati come libertà e giustizia.
Dal 2014 Ramy vive in esilio, non può tornare in Egitto e sulla sua sorte pende un mandato di cattura per terrorismo.

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani di Babilonia Teatri

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno incontrato e conosciuto questo artista che vive ogni giorno sulla sua pelle, realmente, il prezzo imposto alle sue scelte dalla dittatura (parola di cui, forse, da questa parte quasi comoda del mondo non comprendiamo fino in fondo le conseguenze sulle vite che la incontrano e ci si oppongono, anche quando lo fanno con le civili armi dell’arte). Lo spettacolo “Ramy. The voice of revolution” prevede la presenza di Ramy Essam in scena, portatore in prima persona di un vissuto da cui sgorga la sete di risposte alle affilatissime domande in apertura dell’articolo.

Nella convinzione che l’arte parli sempre del mondo, che al mondo possa parlare e che abbia sempre un abito politico, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani creano teatro in questa prospettiva, tessendo le proprie scritture drammaturgiche con i fili del reale: il loro sguardo si concentra su immaginari contemporanei, sui luoghi comuni e le debolezze dell’attualità, spesso manifeste in uno Stato carnefice o connivente, incapace di proteggete e tutelare ma capace, invece, di calpestare diritti fondamentali sanciti da convenzioni internazionali che, di fatto, sembrano carta morta.

Con questa proposta d’incontro si sottolinea uno dei fondamenti del teatro: il rapporto tra rappresentazione e vissuto comunitario secondo una dialettica in cui l’esistenza trova una delle forme più autentiche per emergere e mostrarsi in tutte le sue contraddizioni.

Di seguito alcune brevissime note sui nostri ospiti, non esaustive della ricchezza del loro percorso artistico ed umano.

—–

Babilonia Teatri.
La compagnia nasce da Enrico Castellani e Valeria Raimondi nel 2005.
Si è sempre distinta per un linguaggio definito pop, rock, punk. Traccia costante dei loro lavori è il coraggio e l’innovazione. Ha manifestato  fin dai primi lavori uno sguardo irriverente sulla contemporaneità da ‘Made in Italy’ (2007) a ‘Pornobboy’ (2009) a ‘Mulino bianco’ (2012) a ‘Calcinculo’ (2018) a ‘OK boomer’ (2022). A Ferrara sono stati presenti nella rassegna LST con il loro ‘Pinocchio’. La critica ha ampiamente riconosciuto la loro ricerca con due Premi UBU (vinti nel 2009 e 2011, e nomination nel 2018), Premio Scenario 2007, Premio Hystrio 2012, Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013 e infine con il Leone d’argento alla Biennale di Venezia 2016.

Per comunicare la propria partecipazione: https://docs.google.com/forms/d/1iitfowBOsNoSoB_Wsvf4cvOJDh5IMYZTzPBikKVSU8Y/viewform?edit_requested=true  oppure scrivere a info.lstferrara@gmail.com

Agnese Di Martino
Marino Pedroni

Cover: Associazione Culturale Babilonia Teatri –  Sito ufficiale: http://www.babiloniateatri.it/

Parole e figure /
“Il maialibro”, contro gli stereotipi

L’editore Kalandraka presenta una riedizione de “Il maialibro”, di Anthony Browne, un insegnamento ai bambini su come non incappare negli stereotipi, soprattutto di genere. La mamma è sempre la mamma, ma deve avere un suo spazio.

Anthony Browne è uno degli autori inglesi più stimati per il suo universo di riferimenti culturali e artistici, tracce visuali e chiavi che vogliono stuzzicare, a qualunque età, l’intelligenza del lettore, ulteriore responsabile dell’interpretazione del testo.

Poco conosciuto in Italia, oggi l’editore Kalandraka ci propone una nuova edizione del suo “Il Maialibro”, dalla copertina rosa, un albo illustrato del 1986, ancora attuale e importante. E lo presenta nella serie i “classici contemporanei” della collana Libri per Sognare.

Si affrontano gli stereotipi, con forza e decisione, che qui è rappresentato dal rapporto tra i maschi, figli e marito, e la donna, moglie e madre, della famiglia Maialozzi.

Quando la cura, l’attenzione e il rispetto vengono a meno nel delicato contesto familiare, i protagonisti di questa favola contemporanea diventano maiali. E gli equilibri si rompono.

Il signor Maialozzi viveva con i due figli, Simone e Luca, in una bella casa, con un bel giardino e una bella macchina in un bel garage. In casa c’era la moglie. “Allora, è pronta la colazione, cara?”, chiedeva lui ogni mattina prima di uscire per andare al suo importantissimo lavoro. “Allora, è pronta la colazione, mamma?”, chiedevano Simone e Luca prima di uscire per andare alla loro importantissima scuola…

Tutto è più importante di mamma, tutti hanno lavori più importanti del suo. Arrivano a casa stanchi, poverini, lei rientra dal suo ma non può esserlo, deve continuare a occuparsi delle faccende di casa. Lavare, fare il bucato, stirare, pulire, rifare i letti, passare l’aspirapolvere, cucinare. Prendersi cura di. Mentre nessuno si prende cura di lei e del suo sentire. Mentre gli altri si riposano dalle grandi fatiche quotidiane, stravaccati sul divano fiorito. Loro ne hanno diritto, lei no. Troppe volte lo abbiamo sentito raccontare…

Così quando la mamma, un bel giorno come tanti, Maialozzi scrive a figli e marito “Siete dei maiali” – pare forte ma tutto, in fondo, lo è – trae una semplice constatazione grazie alla quale la realtà si rivela trasformandosi e facendoci entrare con umorismo nel surreale. E se ne va, scompare. Non si trova da nessuna parte. Tutti la cercano, manca.

“I maiali sono segno di maschilismo, di disordine e sporcizia – una casa in disordine è spesso descritta come un porcile -, e pure di pigrizia”, ha detto l’autore in un’intervista. “E poi c’è anche un detto, ‘quando i maiali volano’ a indicare qualcosa che non accadrà mai” continua. “Siete dei maiali”, tuona la mamma dal suo biglietto lasciato sulla mensola del camino: l’espressione è forte, urticante, ma serve a (ri)svegliare animi e coscienze. Fino al cambio di passo, necessario, inevitabile. E ai cambi di ruoli, che possono anche divertire.

Ognuno legga e interpreti come crede, spazio all’immaginario in un’opera dal valore e messaggio universali; i libri sono per i bambini ma se fanno pensare anche gli adulti…

 

ANTHONY BROWNE

Autore e illustratore inglese, nasce a Sheffield nel 1946 ed è tra i più grandi nomi della letteratura per l’infanzia. Dopo essersi laureato al Leeds College of Art, si specializza in disegno grafico. Il suo stile rivela l’interesse per l’arte, l’inconscio e l’antropologia. Nel 2000 ha vinto il Premio Hans Christian Andersen, il maggior riconoscimento mondiale per un autore per bambini. Dal 2009 al 2011 è stato Children’s Laureate, la massima onorificenza inglese per gli autori di libri per ragazzi. Ha vinto per due volte la Kate Greenaway Medal, oltre a molti altri premi. Ha pubblicato oltre cinquanta titoli tradotti in venti lingue, molti dei quali divenuti autentici classici del genere.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Quella cosa chiamata città /
Quito, camminando tra vulcani e culuncos

Inizia oggi Quella cosa chiamata città, una nuova rubrica di Periscopio affidata a Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Un giro del mondo attraverso metropoli, città, paesi. sistemi urbani, un viaggio alla scoperta della fitta trama che lega la “Città di Pietra” alla “Città Vivente”. Buona lettura.
(La redazione di Periscopio)

Può una città come Quito nascere circondata da numerosi vulcani attivi e crescere a 3000 metri di altezza, circondata da boschi e campi fertili? Si, se consideri i vulcani una fonte di vita e non di morte.

Quito, Plaza San Francisco (ph. R. Farinella)

Si potrebbe ripensare l’area metropolitana di Quito, partendo dai culuncos che sono degli antichi “cammini” storici e corridoi naturali.
Per questo motivo la città storica era lineare e la metropoli oggi è lunga circa 90 km mentre la larghezza è compresa tra i 3 e i 5 km. Secoli fa lungo i culuncos della zona nord-occidentale di Quito, molti commercianti e agricoltori scendevano dal País Yumbos portando i prodotti dagli altipiani alla costa e viceversa.

Il popolo Yumbo era coetaneo degli Inca, era specializzato nella pratica dello scambio, il paese si estendeva dalle bocche delle montagne fino ai piedi delle Ande e all’inizio della pianura costiera. Viveva nella foresta pluviale, la topografia era difficile e accidentata, mancavano buone strade ma ciò non impediva gli spostamenti. Vivevano in villaggi sparsi, in capanne fatte di canna e foglie di guadua e intrattenevano un commercio molto importante con le signorie degli altipiani della sierra Circumquiteña.

Quito, i mercati (ph. R. Farinella)

Per muoversi lungo i culuncos era necessaria la conoscenza precisa dello spazio fisico che si attraversava e la capacità di orientamento attraverso l’astronomia. Riprogettare i culuncos significa associare archeologia, storia e natura con la pratica dell’attraversamento.

Quito è una città lunga, o allungata, la griglia spagnola se vista dall’alto sembra quasi definire uno spazio isotropo, ma percorsa, ci si rende conto di quanto la geometria possa adattarsi a un sito ma possa anche nasconderlo. Il “sali scendi” di una linea retta a Quito viene esaltato dalla compattezza uniforme degli edifici che delimitano la linea, sembra quasi un cretto di Burri abitato.

L’attraversamento e il camminare raccontano la storia di tante città e del radicamento dell’uomo in certi luoghi.
Se Carlo Emilio Gadda  rammenta come gli uomini in Europa camminavano lungo strade non sempre dritte ma che arrivavano sempre al termine, George Steiner ci ricorda che l’intera nostra geografia continentale è tracciata dai solchi necessari per recarsi da città a città, da villaggio a villaggio. Affermazione confermata da Michel de Certau quando sostiene che la storia comincia sul suolo, raso terra, con dei passi.
Anche i culuncos ci raccontano questa stessa storia fatta con i piedi.

© Romeo Farinella

In copertina: Quito, il saliscendi della calle (foto dell’autore)

Internazionale a Ferrara.
“Semafor”: all’incrocio dell’informazione

“Semafor”: all’incrocio dell’informazione, ecco il semaforo che pretende di regolare il traffico.

Sabato scorso sono andato al Teatro Comunale di Ferrara, ma per partecipare a un evento che non era nel programma della stagione di prosa. Si trattava invece di uno degli incontri organizzati all’interno del Festival di Internazionale, la rivista che quest’anno festeggia i suoi trent’anni di vita. Un’era geologica nel mondo dell’informazione, considerata la velocità attuale dei mutamenti che investono e a volte travolgono la galassia dei media e dei news magazine.

E proprio di media e di notizie si è parlato in questa chiacchierata pubblica a due voci, intitolata “Informazione”, tra Giovanni De Mauro, direttore responsabile di Internazionale e Ben Smith, nato come blogger politico statunitense, poi columnist del New York Times, ora “padre” di un nuovo sito molto ambizioso  (https://www.semafor.com) Ho assistito all’incontro in un Teatro Comunale gremito di giovani, di giornalisti e di giovani giornalisti. Ne ho ricavato alcune impressioni, tipo istantanee.

La prima impressione è di aver sopravvalutato la mia capacità di seguire, senza traduzione, il dialogo tra una persona che fa le domande in italiano e una che risponde in inglese (la sua madre lingua, peraltro). Quando una parte del teatro ridacchiava ascoltando le battute di Ben Smith ho ridacchiato anch’io, ma non posso giurare di aver capito del tutto cosa ci fosse da ridere. E’ anche vero che molti ridevano perché ascoltavano la traduzione in cuffia: ciononostante la sensazione di essere un troglodita non mi ha abbandonato.

La sensazione è aumentata quando Ben Smith ha affermato che Semafor ha l’ambizione di agganciare un’utenza di 200 milioni di persone nel mondo, mediamente acculturate, interessate alla finanza, alla tecnologia e ai grandi temi economico-politici, che parlano inglese e che vivono ovunque nel mondo. Non mi sono sentito parte di quella nutrita minoranza illuminata (Curiosità, per un incontro svoltosi rigorosamente in inglese che parla di una news magazine in lingua inglese: “Semafor” non è una parola inglese – sarebbe stoplight – ma è stata scelta perché evoca lo stesso tipo di significato in tante lingue diverse).

Ben Smith ha parlato anche dei suoi fallimenti, o perlomeno degli errori che hanno segnato il suo periodo da chief editor di Buzzfeed News, che nel giro di pochi anni è passato da articoli che totalizzavano anche 40 milioni di visualizzazioni, a tagli al personale per mancanza dei contributi necessari da parte degli inserzionisti pubblicitari. La parabola, o il tracollo, è stata almeno in parte dovuto alla pubblicazione di alcuni dossier controversi, il più famoso dei quali (lo Steele dossier) è stato bollato anche da giornali della concorrenza come “non verificato” e “diffamatorio” nei confronti della reputazione di Donald Trump – strano caso di presunta fake accusation nei confronti del riconosciuto e notorio re delle fake news.

Ben Smith è un tipetto che può essere piacevole intervistare, ma potrebbe non essere altrettanto piacevole essere un suo collega, o addirittura il suo principale. Quando lavorava per il New York Times, dal gennaio 2020, aveva preso l’abitudine di scrivere pezzi sul suo direttore che se ne stava a casa sua in campagna durante l’epidemia di Covid, mentre il resto della redazione doveva rimanere in ufficio. La sua permanenza al NYT è durata lo stesso tempo dell’epidemia di Covid.

Ben Smith, quindi, potrebbe sembrare un outsider. Se lo è, è un outsider del tipo statunitense, visto che per fondare Semafor è riuscito a raccogliere 25 milioni di dollari , di cui 3/4 da inserzionisti e 1/4 da eventi sponsorizzati da Mastercard, Verizon, Hyundai.
Se ti stai chiedendo come fa ad essere indipendente da Mastercard uno che si fa finanziare il sito (per quelle cifre) da Mastercard, beh, me lo chiedo anch’io.

Il libro che sta pubblicizzando si chiama Traffic e verrà tradotto a breve (per mia fortuna) per l’edizione italiana. Credo parli anche del fatto che è finita, a suo parere, l’epoca dello sfruttamento dei social media per far rimbalzare le notizie, e che occorre veicolare direttamente le stesse attraverso l’autorevolezza degli autori, ancor più che dei marchi giornalistici (brand).

Siccome i social media tendono a polarizzare le opinioni, la sua “ricetta” è quella di spacchettare le notizie e di separarle dalle opinioni. Il suo suggerimento ai giovani giornalisti è quello di cercare le notizie fresche e di non confonderle con la propria visione dei fatti, che poi è quello che intende fare con il suo “Semaform”: separare anche graficamente il fatto dall’opinione.

Per  leggere tutti gli articoli ed interventi su Periscopio di Nicola Cavallini, clicca sul nome dell’autore.  

La Regione Emilia-Romagna rinvia ancora l’entrata in vigore della Legge Urbanistica

NUOVAMENTE RINVIATA L’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE URBANISTICA

La regione colpisce ancora! Nuovamente rinviata per parte della Regione l’entrata in vigore della legge urbanistica.

Il lupo perde il pelo… Verrebbe proprio da dire così, infatti, mentre in consiglio regionale, l’assessore Calvano rassicurava l’assemblea dichiarando che il periodo di applicazione transitoria della L.R 24/2017 sarebbe cessato alla fine del corrente anno, la mano tecnica della Regione emanava un “Chiarimento circa gli effetti del DL 61/2023 (decreto Alluvione) sulle tempistiche indicate dalla LR 24/2017 relative a PUA e AO del periodo transitorio”.

In sostanza l’intervento “tecnico” rinnova la proroga della piena entrata in vigore della legge, con tanto di stop alla realizzazione di interventi dei vecchi piani, assimilandola, come motivazioni, a quelle che giustificarono un provvedimento similare durante la pandemia: cause di forza maggiore. Ma, prendendo a riferimento il “decreto alluvione”, allarga l’applicazione dello stesso agli interi territori comunali degli 80 Comuni elencati dal decreto, non solo alle frazioni e località colpite, cui fa riferimento il dispositivo governativo.
E, in aggiunta, come purtroppo era prevedibile, allarga preventivamente l’applicazione della nota di chiarimenti regionale anche a tutti quei comuni che dovessero essere inseriti successivamente negli elenchi ministeriali.

Così, per tutti gli 80 comuni di due province (Ravenna e Forlì-Cesena) e mezza (Rimini) e la parte est della Città Metropolitana di Bologna, dell’Allegato 1 del Decreto Alluvione, l’entrata in vigore della legge, viene nuovamente rimandata dal gennaio al maggio del 2024. Altri 4 mesi per avviare iter di realizzazione di interventi urbanistici previsti da vecchie pianificazioni.

E lo stop al consumo di suolo di cui si sono tutti riempiti la bocca dopo le alluvioni di maggio? Conta forse più il business che la sicurezza delle popolazioni? Parrebbe proprio di sì.

E’ ora di finirla con questo transitorio infinito di una legge urbanistica che, secondo le dichiarazioni di Bonaccini e della sua giunta non aveva nulla di  transitorio e i cui termini temporali dovevano essere tutti perentori, mentre sono passati sei anni – e così ne passerà un altro – prima che per i Comuni scatti veramente l’obbligo di dotarsi di nuovi piani urbanistici che assumano come riferimento la transizione energetica delle città e la conversione ecologica dei territori, azzerando le previsioni urbanistiche dei piani degli ultimi 50 anni.
Qualsiasi scusa e occasione, persino le più tragiche, diventano ottime per giustificare la prosecuzione dello stupro dei territori e la cementificazione tra le più aggressive d’Italia.

Sconcerta dover constatare che, nonostante i fiumi di parole e di lacrime di coccodrillo versati dopo la tragedia della scorsa primavera, in realtà dall’alluvione la Regione non ha tratto le necessarie conseguenze, accelerando – come ci si sarebbe aspettato – l’applicazione di norme pianificatorie più stringenti sull’uso del suolo, ma invece persegua la massimizzazione dei profitti per pochi, anche in quelle aree così duramente colpite.

Purtroppo, l’emergenza climatica chiama, ma pare che non ci sia nessuno all’ascolto. Sicuramente non in viale Aldo Moro.

RETE EMERGENZA CLIMATICA AMBIENTALE EMILIA ROMAGNA

LA DEMOCRAZIA ABITA ANCHE A POZZALLO:
Il Tribunale di Catania affossa il decreto sicurezza Meloni-Piantedosi.

La democrazia abita anche a Pozzallo: Il Tribunale di Catania affossa il decreto sicurezza Meloni-Piantedosi. 

La giudice Iolanda Apostolico della Sezione Specializzata del Tribunale di Catania, nell’ambito delle prime udienze di convalida di richiedenti asilo trattenuti nel nuovo “Centro per il Trattenimento dei Richiedenti Asilo” di Pozzallo alla luce delle disposizioni del Decreto Ministeriale 14 settembre 2023 (G.U. 21 settembre 2023, n. 221) che prevedono il trattenimento dei cittadini stranieri provenienti da Paesi cd sicuri che chiedono protezione internazionale se non presentano personalmente una garanzia finanziaria di € 4938,00, ha stabilito che “trattenere chi chiede protezione senza effettuare una valutazione su base individuale e chiedendo una garanzia economica come alternativa alla detenzione è illegittimo alla luce della giurisprudenza e della normativa europea e dell’art. 10 della Costituzione italiana.”,

Una decisione che colpisce ed affossa i tre punti cardine su cui ha puntato maggiormente il governo delle destre della presidente Meloni:
 – detenere i richiedenti dei “paesi sicuri” durante l’iter per l’asilo,
– fideiussione di circa 5.000 euro da versare personalmente,
– procedure accelerate in frontiera.

Come già denunciato dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e da diverse associazioni ed esponenti della società civile e del volontariato, anche il Tribunale di Catania ha sottolineato come la garanzia finanziaria per evitare il trattenimento sia incompatibile con quella dell’Unione Europea e va disapplicata dal giudice nazionale, perché non prevede una valutazione su base individuale della situazione di chi chiede protezione internazionale in Italia e proviene da un Paese cosiddetto “sicuro”, come chiarito dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea– Grande Sezione- nella sentenza 8 novembre 2022 (cause riunite C-704/20 e C-39/21).

La garanzia finanziaria imposta dal D.M. 14 settembre 2023 al richiedente asilo proveniente da un Paese “cd sicuro”, ha stabilito la Giudice, non può essere considerata misura alternativa al trattenimento, ma un requisito amministrativo imposto per il solo fatto che chiede protezione internazionale, violando le norme sull’accoglienza previste all’art. 6 – bis del D. Lgs 142/2015 prima di riconoscere i diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE.

Non solo, ma  secondo il Tribunale di Catania, le norme sulla detenzione dei richiedenti asilo provenienti da Paesi “cd sicuri” sono in contrasto con l’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana che garantisce comunque il diritto d’ingresso del richiedente asilo (come chiarito anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 26 maggio 1997, n. 4674.
Nell’ordinanza del Tribunale di Catania si afferma a chiare lettere che “alla luce del principio costituzionale fissato da tale articolo, deve infatti escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale” .

Si tratta di una decisione che, in maniera chiara e giuridicamente ineccepibile, conferma la prevalenza della Costituzione e della normativa europea sui tentativi di strumentalizzare l’arrivo di persone in cerca di protezione in Italia.” è il commento dell’ASGI. “L’attuale Governo, in un solo anno, è intervenuto con nove atti normativi sul diritto dell’immigrazione e dell’asilo, trasponendo all’interno dell’Ordinamento giuridico la confusione politica, l’incapacità amministrativa di affrontare il fenomeno migratorio e pulsioni autoritarie degne delle più buie epoche storiche.
 “E’ un pessimo modo di legiferare che deriva da uno sbagliato approccio politico e da una irrazionale risposta ad un fenomeno ordinario della nostra società. Il Governo fa finta di ignorare che ciò che manca in Italia è una nuova politica sugli ingressi regolari, non certamente la necessità di comprimere ancora i diritti delle persone”. conclude l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione.

L’ordinanza ha inevitabilmente scatenato l’ira delle destre (Salvini in testa) che l’hanno immediatamente bollata come ideologica e politica.

Per fortuna siamo in un Paese democratico, nel quale, come si è affrettato a dichiarare il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati: “E’ la democrazia. Noi non partecipiamo all’indirizzo politico e governativo, facciamo giurisdizione. E’ fisiologico che ci possano essere provvedimenti dei giudici che vanno contro alcuni progetti e programmi di governo. E questo non deve essere vissuto come un’interferenza”.

Il provvedimento del Tribunale di Catania e una sintesi delle motivazioni giuridiche [Qui].

Cover: CPR Centri per il Rimpatrio –  immagine del sito Sinistra Classe Rivoluzione

Per certi versi /
Scompare il Nagorno Karabakh

Scompare il Nagorno Karabakh

Nel silenzio generale
Scompare
Il Nagorno Karabakh
Scompare
Evaporato
Dalla storia
Regalato
Dalla maialpolitik
Di Stalin
Agli Azeri
Anni Trenta
Per sgrossare
Gli irriducibili
Armeni…
Adesso gli armeni
Se ne vanno
Dopo trenta anni
Di guerriglia
E due giorni
Di “pace”
Se ne vanno
In Armenia
Senza casa
Senza nulla
Chirurgia etnica
Forse centomila
Nell’esodo
La Russia
Celebra
La pace fasulla
l’America boh
Ha i suoi disegni
l’Europa
Ha bisogno
Troppo bisogno
Del gas azero
Erdogan festeggia
Festeggia ma
In bianco e nero

In copertina: Armenia Azerbaijan, Nagorno karabakh, On Geographic Map
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

UN ANNO DI  VOLONTARIATO AMBIENTALE  DA DETENUTI

UN ANNO DI  VOLONTARIATO AMBIENTALE  DA DETENUTI

E’ stato festeggiato giovedì 28 settembre, nella pausa pranzo dopo la consueta attività di manutenzione del verde pubblico, il primo anno di esperienza di volontariato ambientale vissuto da tre detenuti in regime di semi-libertà del carcere di Ferrara. Grazie a Progea, una delle associazioni firmatarie della convenzione – stipulata tra la direzione del Carcere e il Comune di Ferrara – i volontari detenuti  si sono visti offrire, insieme agli altri, un pranzo  presso il ristorante  “Al Volo”, in luogo del consueto pranzo presso la mensa di Viale K, come prevede la convenzione.

Un momento conviviale cui hanno partecipato gli artefici del progetto, ovvero le associazioni ambientaliste che tre volte la settimana  gestiscono la manutenzione  di alcune aree verdi in accordo con l’Ufficio verde di Ferrara, presente al pranzo nelle figure dell’assessore Maggi e della funzionaria  Rita Berto.

L’idea di coinvolgere i detenuti è nata all’interno del gruppo di volontari che autogestiscono con piantumazioni, pulizia e manutenzione alcune aree verdi pubbliche tra le quali il bosco di via Marconi, il parchetto della Cappella Revedin, il parco Giordano Bruno vicino all’ex mutua, il giardino Ilaria Alpi.

I gruppi di volontari appartenenti a  La voce degli alberi, Green TeamFare Verde, Difesa ambientale estense, Plastic Free, Ferrara Progea,  supportati da Rete Lilliput per l’acquisto delle tute da Lavoro, da Zerbini Garden per i guanti e gli attrezzi, dalla Cooperativa Sociale Il Germoglio per la messa a disposizione delle biciclette e appunto da Viale K per l’accoglienza in mensa, hanno firmato una convenzione  di due anni che ha portato i detenuti alla prima uscita nel 31 luglio 2022, con inizialmente una sola giornata di intervento. Data la positività dell’esperienza  e la siccità dell’estate 2023, le uscite sono diventate tre alla settimana.

Il pranzo offerto da una socia di Progea ha voluto essere il ringraziamento non solo alle istituzioni, che hanno permesso l’esperienza, ma soprattutto ai detenuti che hanno sviluppato passione e competenza in tutte le giornate di intervento e che hanno permesso a tutti i volontari ambientali di abbattere il pregiudizio sulla condizione di detenuto.

L’esperienza continua ogni martedì, giovedì e sabato e sono benvenute tutte le persone che si vorranno unire a noi.

Le associazioni firmatarie della convenzione

BIODIVERSITÀ ADDIO
Il governo Meloni cancella il vincolo paesaggistico a tutela dei boschi

BIODIVERSITÀ ADDIO. Il governo cancella il vincolo paesaggistico a tutela dei boschi

29 settembre 2023 – È stato approvato, in sede di conversione del Decreto legge “Asset” che trattava di tutt’altra materia, un emendamento presentato da FdI che cancella totalmente la tutela paesaggistica dei boschi nei confronti dei tagli boschivi, manomettendo il Codice Urbani e il senso originario della legge Galasso: la tutela dei boschi nelle aree vincolate con decreto ed il concetto di taglio colturale.

La difesa dei boschi ha subito, negli anni, vari attacchi del mondo forestale, sia da parte delle ditte, che dei politici degli enti locali, che di alcune rappresentanze dei dottori agronomi e forestali, che di una frazione del settore accademico, contro il parere prevalente di biologi, botanici e studiosi dell’ecologia e del paesaggio.

Le regioni, in modo incontrollato, hanno esteso il concetto di taglio colturale ad ogni possibile ed immaginabile trattamento selvicolturale, anche il taglio a raso, che si applica ai nostri boschi ceduo. Il motivo questa volta è chiaro, come dice letteralmente l’art. 5–bis del decreto, senza tanti giri di parole: incentivare la filiera del legno, aumentare la concorrenza sui mercati esteri (specialmente quelli balcanici e nord europei, che tagliano boschi a raso su grandi superfici) e accrescere l’approvvigionamento interno di legno, rallentando l’evoluzione degli ecosistemi forestali. Si annulla quindi la tutela paesaggistica, di rango costituzionale primario, al fine di incrementare l’economia. Del resto, non è la prima volta che principi costituzionali vengono violati pur di aumentare i tagli boschivi: pensiamo per esempio al Testo Unico per le Filiere Forestali, che consente alle Regioni di obbligare i proprietari a tagliare i loro boschi.

Questo la dice lunga non solo sull’attuale politica di tutela ambientale e dei beni culturali, ma sulla stessa cultura costituzionale, tra l’altro recentemente arricchita dalla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e della biodiversità, gravemente fraintesa da chi ha proposto e votato questo articolo. Una scelta del tutto anticostituzionale.

Questa non vuole essere una critica politica all’attuale maggioranza, visto che tale volontà politica, che covava dal 2018, anno di approvazione del controverso Testo Unico Forestale, è trasversale ai maggiori partiti, con asse privilegiato PD-Lega, con il contrappunto di Legambiente, cui si è aggiunta anche FdI.

Dietro questa decisione ci sono molte lacune culturali, scientifiche e concettuali da parte dei proponenti, nonché palesi ragionamenti illogici e aberranti tra i sostenitori, la cui applicazione apre allo smantellamento di ogni tutela ambientale e paesaggistica.

Innanzi tutto da parte di coloro che sostengono che l’opera dell’uomo ha formato il paesaggio, e quindi anche i tagli, in quanto opera dell’uomo, fanno parte del paesaggio. Con questo ragionamento, potremmo sostenere che anche le case e i palazzi fanno parte delle opere umane, e quindi costruire qualsiasi casa o palazzo non danneggi mai il paesaggio.

Chi sostiene poi che l’autorizzazione paesaggistica danneggi l’economia forestale in quanto inutile orpello burocratico, ammette di conseguenza, con tale ragionamento, che anche l’autorizzazione paesaggistica per costruzioni, apertura di cave, e ogni altra opera, essendo oggettivamente un orpello alle attività produttive, potrà essere superata a richiesta degli operatori e dei professionisti del settore (imprese edili, ingegneri, architetti, che invece non si sognano nemmeno lontanamente di farlo).

Il prossimo passo sarà quindi, conseguentemente e coerentemente, l’abrogazione dell’art. 9 della Costituzione?

Adesso finalmente parte del settore dei tagliatori e dei dottori forestali avrà mani libere sui boschi che, coi loro 11 milioni di ettari, rappresentano il più vasto patrimonio culturale della nazione.

Con il presente comunicato lanciamo pertanto l’appello a tutte le associazioni di protezione ambientale, ai comitati, ai gruppi di azione civica e ai cittadini, affinché la protesta della società civile si elevi sopra questa barbarie.

Gufi
www.gufitalia.it
L’obiettivo primario del GUFI è quello di assicurare la conservazione del patrimonio forestale nazionale affinché possa essere lasciata in eredità alle generazioni che verranno. Perché la tutela della biodiversità e del paesaggio naturale dei boschi italiani e dei benefici ecosistemici che questi assicurano all’uomo sia assicurata è necessario che almeno il 50% della copertura forestale del Paese sia lasciata alla libera evoluzione. Ciò è possibile senza entrare in conflitto con le esigenze economiche di tipo produttivo.