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OGGI I CPR, 15 ANNI FA I CIE: LO STESSO INFERNO.
Ricordo di una visita con Daniele Lugli al Centro di Identificazione ed Espulsione di Bologna

OGGI I CPR, 15 ANNI FA I CIE: LO STESSO INFERNO

Ricordo l’impressione surreale di camminare in quel pomeriggio di sole in pieno centro. Ricordo quanto mi sembri astruso che tutto sia aperto e pronto al contatto, basta allungare il passo, stringere una mano, chiedere un’informazione, scegliere se cioccolato o crema. Tutto così assurdo e surreale mi sembra quel giorno, avendo trascorso appena qualche ora al CIE, il Centro di Identificazione ed Espulsione, che a Bologna c’era e adesso non c’è più.

Un italiano di nascita non ci entra facilmente, io vado al seguito di Daniele Lugli, Difensore civico della Regione Emilia-Romagna (ricopre questo incarico dal 2008 al 2013) e di Massimo Cipolla, avvocato dell’ufficio con una spiccata specializzazione sul contrasto alle discriminazioni e sul diritto delle persone migranti. Massimo collega, nel tempo amico e avvocato.

Torno a pensarci in questi giorni mentre a Ferrara, la mia città, si discute l’apertura di un CPR, Centro per la Permanenza e il Rimpatrio. Il passaggio generazionale, diciamo così, dai CIE di allora ai CPR odierni non sembra aver migliorato le cose. Le informazioni che se ne hanno sono pessime in ogni senso, per qualità della vita di chi è rinchiuso o ci lavora, per efficacia nei rimpatri, per i costi da sostenere.

Nel CIE, con Daniele e Massimo, arrivo con una certa soggezione. I nostri nomi sono stati comunicati preventivamente dall’ufficio come si fa prima di entrare in carcere: nome documento e motivo della visita. Daniele ha deciso di entrare per due ordini di ragioni.
Il primo è generalissimo: non essendo ancora stati istituiti in Emilia-Romagna i Garanti specializzati dell’infanzia e dei detenuti, come Difensore civico vuole occuparsi con particolare riguardo dei cittadini più fragili e si è dotato di un gruppo di lavoro competente.

Le persone “ristrette nella libertà personale” sono quelle che si trovano in carcere come nelle celle di sicurezza delle forze dell’ordine o della polizia municipale, in ospedale per un TSO o nei campi nomadi. A loro dedica progetti specifici cercando collaborazioni e alleanze.

Il secondo motivo è che in quei giorni un uomo rinchiuso nel CIE di Bologna si è cucito la bocca, letteralmente.
Il gesto ha una forza simbolica evidente: mi avete zittito, chiedo imploro urlo e nessuno mi ascolta, vi faccio vedere in concreto quello che mi avete fatto. Non va trascurato il dolore fisico oltre alla sofferenza interiore, né i rischi d’infezione, o l’impossibilità di nutrirsi. Se un giovane arriva a tanto, in quali condizioni sta vivendo e qual è la sua storia?

Anche oggi nei CPR gli atti di autolesionismo non sono rari, né i tentativi di suicidio o i gesti aggressivi. In cattività senza un motivo chiaro né una prospettiva, le persone private di ogni autonomia e relazione con l’esterno perdono le staffe facilmente. Se poi la condizione di ristretto si accompagna a precedenti traumi – e non è raro tra i migranti – sarebbe strano se non succedesse. Ma quella rivendicazione facilmente sgarbata, fuori controllo, esasperata, diventa la riprova della pericolosità sociale e repressa con la forza e con il ruolo.
Alda Merini racconta qualcosa di simile del suo primo ingresso in manicomio: le sue proteste vibranti erano interpretate come conferma della follia, sarebbe stato più devastante il prossimo elettroshock.

Il pomeriggio al CIE lo trascorriamo un po’ in ufficio e un po’ in visita alla struttura. Scambiamo due parole con alcuni reclusi, quelli che parlano sufficientemente la lingua italiana, essendo noi in quel momento sprovvisti di interprete. Mi colpisce un’anziana signora dell’Est europeo che racconta di avere fatto la badante fino a pochi mesi prima, poi il vecchio di cui si occupa è morto e lei chissà come si ritrova in gabbia.

Ricordo i letti di cemento, ultimo ritrovato dopo che in una rivolta sono stati bruciati i materassi, e la desolazione, il grigiore compatto, il controllo armato. Nulla fa pensare al prendersi cura delle persone, non c’è che contenere i corpi togliendo ossigeno all’immaginazione e alla compassione. Gli stessi medici della struttura sono giovani, soggetti a rapido turn-over, imbrigliati nella possibilità di svolgere il proprio lavoro e di documentare ciò che vedono. I farmaci più richiesti e più offerti sono quelli per sedare.

Dopo quell’incontro Daniele stipula una convenzione con la struttura che gestisce i CIE di Bologna e Modena e incarica Massimo di entrare nei Centri per ricevere le richieste che i migranti intendono rivolgere al Difensore civico, in quanto garante del buon andamento della Pubblica Amministrazione, uomo-ponte (Ombudsman) tra la gente e le istituzioni. La convenzione viene sottoscritta pure da Desi Bruno, Garante regionale delle persone limitate nella libertà personale, che nel novembre 2011 è stata nominata e con cui Daniele sviluppa un’ottima collaborazione.

La relazione del Difensore civico regionale per l’anno 2012 dà conto di diversi successi nel provare l’illegittimità di alcuni trattenimenti e arrivare alla liberazione degli interessati. Si cita ad esempio una cittadina nigeriana portatrice di una ferita non perfettamente sanata, dovuta a un colpo pesante di arma da taglio ricevuto a 13 anni a causa di un tentativo di sacrificio umano nella sua setta di appartenenza. O una giovane donna apolide nata in Italia, liberata con titolo di soggiorno e affidata a una comunità. E una donna con un tumore, un uomo con una patologia psichiatrica, che nel CIE (oggi sarebbe il CPR) non ricevono cure adeguate, e vengono liberati e presi in carico dal servizio sanitario. Decisivo è l’intervento del Difensore civico regionale il cui compito è proprio percorrere le strade più opportune per risolvere inghippi burocratici o lentezze nell’applicazione della legge.

L’impegno di Daniele Lugli in quelle sedi è dunque migliorare per quanto possibile le condizioni di vita dei reclusi, sottoscrivendo un accordo con l’ente privato che gestisce i Centri di Bologna e Modena, e parallelamente denunciare i guasti di quel sistema, così da concorrere – insieme ad altri – alla chiusura delle due strutture. Un paradosso, forse sì, praticato lealmente e un passo per volta, mantenendo aperta la comunicazione con tutti i soggetti coinvolti, come avviene nelle campagne nonviolente.

Questo articolo è già apparso nei giorni scorsi su Azione Nonviolenta online

Cover: Novembre 2022,  un ragazzo rinchiuso nel Cpr di Milano si è cucito le labbra col filo di ferro per protesta (La redazione di Periscopio si scusa per la crudezza dell’immagine).

Per leggere tutti gli articoli di Elena Buccoliero su Periscopio clicca sul nome dell’autrice. 

“Il professore 2”, le serie televisive che ci piacciono

Le serie tv vanno sempre più di moda, appassionano, piacciono. Se poi ci portano nel quotidiano, sono ancora più coinvolgenti, come “Il professore 2”, con Alessandro Gassman e tanti promettenti giovani attori.

A volte la televisione fa bene, e, quando vuole, sa passare messaggi importanti, anche con il sorriso e la leggerezza del racconto. Magari passeggiando fra le strade di Roma, insieme ai filosofi, lezioni di un tempo scolastico più o meno lontano di cui molti di noi hanno pure tenera nostalgia. Un tempo che, per qualche ora, si ferma e ci fa tornare sui banchi di scuola, ai ricordi di liceo, dei compagni di banco e dei primi amori.

Nella serie di 12 episodi “Il professore 2”, regia di Alessandro Casale, che sta facendo ottenere a Rai 1 un’ottima percentuale di share (quasi il 20%), Alessandro Gassman, con il suo professore di filosofia Dante Balestra, continua a raccontare storie che piacciono anche ai più giovani. Senza dimenticare che incarna il professore ideale, comprensivo, simpatico, ironico ed empatico. Questo meraviglioso insegnante non fa lezioni di moralità a nessuno ma cerca solo di spiegare come prendere i giovani, come provare a comprenderli e ad amarli. Anime delicate e meravigliose, in fuga verso la vita. I suoi studenti sono al quarto anno di liceo, quello clou prima dell’anno della maturità, il rush finale. Lo ascoltano (quasi sempre).

Ci sono tutti i temi di oggi, in queste puntate del giovedì sera, appuntamento tanto atteso: la tolleranza che vince sempre sulla violenza, i genitori che spesso necessitano di più formazione ed educazione dei loro figli, la diversità che non va etichettata e condannata, la disabilità che separa ma che anche unisce, la cultura che va coltivata e amata, la lettura che guida, la filosofia che aiuta a vivere, la redenzione dal carcere, il talento che non vede razzismo, il teatro che insegna, l’ambiente che va rispettato, la malattia che pone dubbi sulle cose che contano nella vita. Tematiche importanti affrontate spesso con leggerezza.

Dante è docente e genitore, ha i suoi difetti, tanti, ma ci scherza sopra, cerca di superarli, è imperfetto. Anche per questo è credibile e ci piace. E poi, alla fine, vede sempre la luce.

Belle anche le location: il Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci di Via Cavour, situato vicino al rione Monti, nelle vicinanze del Colosseo, la Galleria Borghese, Villa Borghese, alcuni scorci del litorale romano, tra Aranova e Fiumicino, varie zone della capitale, ma soprattutto il rione Monti, dove i ragazzi bazzicano. La romanitas domina tutti gli episodi.

Bravi gli attori: oltre a Dante (Alessandro Gassman), anche Anita (Claudia Pandolfi), Floriana (Christiane Filangieri), Manuel (Damiano Gavino), Simone (Nicolas Maupas), Luna (Luna Lansante), Mimmo (Domenico Cuomo), Nicola (Thomas Trabacchi), Virginia (Pia Engleberth), per citarne alcuni. Fondamentali altri personaggi, i filosofi, che guidano protagonisti e spettatori: Eraclito, Bergson, Heidegger, Hume, Montaigne, Thoreau.

Personaggi della serie, stagione 2, foto Rai Fiction

I messaggi positivi sono davvero tanti, ma uno su tutti: per essere migliori basta svolgere i ruoli con passione, sprigionando amore per ciò che si fa e per la gente che si affida a te. E questo vale sempre e in tutte le professioni. Ogni giorno, ogni momento, in ogni luogo.

Offrirsi e donarsi agli altri, sta qui il vero eroismo, mi suggerisce Sebastiano Ardita. E questo, oggi, è più importante che mai, in un mondo sempre più arido, solitario, isolato, classista, iniquo, infido e impietoso. Passi anche solo questo messaggio, chapeau, il gioco sarà fatto.

Foto Rai Fiction / Rai News

Mercoledì 6 dicembre, dalle 17 alle 19, Incontro Pubblico:
“Laudato si, Laudate Deum. Un dialogo sul futuro del pianeta”

Incontro pubblico “Laudato si, Laudate Deum. Un dialogo sul futuro del pianeta”

Un dialogo sul futuro del pianeta” organizzato dai Dipartimenti di Architettura e di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara e dal Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale
L’incontro apre una serie di riflessioni sul futuro del pianeta nello scenario dei cambiamenti climatici, affrontati in una prospettiva politico-strategica, sociologica e di pianificazione.
Ne parleranno Monsignor Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara e Comacchio e i Professori Alfredo Alietti del Dipartimento di Studi Umanistici e Romeo Farinella del Dipartimento di Architettura di Unife.
In particolare con Mons. Perego affronteremo il tema della interconnessione tra crisi ambientale della terra e crisi sociale dell’umanità, partendo dalla precisazione di Papa Francesco che non si tratta di encicliche verdi ma sociali, cercando di approfondire aspetti strutturali quali crisi e conseguenze dell’antropocentrismo moderno, la globalizzazione come paradigma tecnocratico, la tecnica come sistema di potere.

BILANCIO (PROVVISORIO) DI UN ANNO DI GOVERNO MELONI.
Continuità con le scelte neoliberiste di Draghi ma anche un inedito progetto autoritario

BILANCIO (PROVVISORIO) DI UN ANNO DI GOVERNO MELONI

E’ passato poco più di un anno da quando si è insediato il governo Meloni e, quindi, risulta più che possibile costruire un giudizio sulle politiche concrete messe in atto e non semplicemente su quello che si poteva presumere.

Ragionando in grande sintesi, possiamo partire dalla politica economica, per evidenziare come essa si colloca nel solco classico del neoliberismo e del primato del mercato.

Lo si può leggere chiaramente nella recente legge di bilancio che si muove secondo direttrici che provano a sostenere la competitività delle imprese (sia pure con risultati scarsi, visto che la stessa Confindustria da ultimo sottolinea che la crescita si sta fermando), comprimere la spesa sociale, a partire dalla sanità e dalle pensioni, privatizzare reti e aziende “pubbliche” importanti, ignorare la necessità della conversione ecologica, limitare la corsa del debito pubblico.

Conferma di ciò arriva dal pronunciamento delle agenzie di rating, nei giorni scorsi Moody’s, che, con grande sollievo del governo, non peggiora il giudizio precedente, anzi, migliora quello sulle previsioni future, passandolo da negativo a stabile. Interessante è la motivazione espressa, e cioè che il governo è impegnato a mantenere avanzi primari (appunto tagliando la spesa corrente) e che i costi della previdenza tracciano una linea discendente da qui al 2040.
Un’altra motivazione, anche se non esplicitata, è che i grandi santuari del capitalismo mondiale, di cui anche Moody’s fa parte, sembrano scommettere sulla tenuta dei governi di destra. E, naturalmente a sostenerla, proseguendo la linea espressa dalla grande banca statunitense JP Morgan già dieci anni fa, quando proclamava che gli Stati del Sud dell’Europa dovevano liberarsi da Costituzioni troppo influenzate da uno spirito antifascista.

Per quanto riguarda la politica estera, siamo pienamente all’interno di un’impostazione filoatlantica, la cui agenda continua ad essere decisa dagli USA e che, oggi, purtroppo, con le vicende dell’Ucraina e del Medio Oriente, ha assunto una curvatura decisamente bellicista, cui il governo Meloni contribuisce attivamente.

Politica economica e politica estera si configurano sostanzialmente in continuità con i governi precedenti, in particolare con quello Draghi, rispetto al quale, su questi terreni, si fa fatica a scorgere differenze. Del resto, anche grazie al predominio del mercato e della finanza, da una parte, e agli orientamenti supini alle logiche di austerità vigenti in Europa, una volta chiusa la parentesi delle scelte compiute nella fase pandemica, dall’altra, continua a funzionare il “pilota automatico” di draghiana memoria nelle politiche economiche e nella collocazione internazionale.

Assistiamo, invece, ad una rottura con il passato da parte del governo Meloni, su due terreni decisivi.

Il primo è quello delle politiche sociali e della sicurezza, su cui insistono diritti sociali e civili fondamentali.
Qui, per stare su alcuni punti essenziali, sono andati in onda l’abolizione del reddito di cittadinanza e l’affossamento del salario minimo; e poi la legislazione in materia di migranti e il recente “pacchetto sicurezza” che interviene su una serie di reati “ minori” ma diffusi nella vita quotidiana, dai borseggi all’accattonaggio, e su comportamenti che hanno a che fare con la mobilitazione sociale, dai blocchi stradali all’occupazione delle case.

Si potrebbe osservare che siamo in presenza del classico riflesso “law and order” che accomuna tutto il pensiero e le scelte delle destre nel mondo: ragionamento giusto, ma, che nella sua ovvietà, rischia di mettere in secondo piano quello che è il lato più oscuro e inquietante di quest’impostazione, e cioè l’idea di colpevolizzare e far percepire come socialmente inaccettabili le condizioni delle parti più deboli e fragili della popolazione.
Insomma, bisogna avere presente che ci sono nemici che minano alla base la convivenza ordinata nella società: le fasce marginali e la devianza sociale che commettono reati e hanno comportamenti minacciosi contro le persone e la proprietà, i migranti che “naturalmente” delinquono, i disoccupati che non si rassegnano ad accettare lavori poveri, ma pretendono assistenza. Il tutto assecondato e ammantato da una cultura che si nutre di idee antiegualitarie, che si alimentano di razzismo e ideologia patriarcale.

Il secondo terreno su cui si compie una svolta forte da parte del governo è quello degli assetti e degli equilibri di potere tra diversi soggetti costituzionalmente riconosciuti e negli stessi poteri statuali.
Qui andiamo dall’attacco al diritto di sciopero esercitato in occasione dell’ultima mobilitazione generale, che non si è voluto neanche riconoscere come tale, all’occupazione dei media, a partire dalla RAI e dai messaggi lanciati, in modo più o meno palese, in particolare alla stampa, che deve sapere che il diritto di critica non può essere esercitato così facilmente. Fino alla messa in discussione del ruolo della magistratura, perseguendo chi non si allinea con le leggi esistenti, e agitando, in prospettiva, la separazione delle carriere tra i Pm che svolgono le indagini e giudici che emettono sentenze, con l’idea che i primi possano sostanzialmente rispondere al potere esecutivo.
Ancora più grave, se possibile, è l’intenzione di rompere gli attuali assetti istituzionali e la forma di governo: qui basta richiamare il progetto dell’autonomia differenziata, che non può che produrre ulteriori disuguaglianze territoriali, in particolare tra Nord e Sud, e l’annunciata riforma costituzionale per l’elezione diretta del premier, che riesce a mettere insieme depotenziamento del ruolo del Parlamento, marginalizzazione della funzione del Presidente della repubblica e supremazia del Capo del Governo, per quanto debolmente legittimato da una legge elettorale che, vista in controluce, non si misura con una reale rappresentanza del corpo elettorale.

Insomma, non ci vuole molto a concludere che emerge un’idea di modello sociale e di poteri statuali assolutamente coerente e pericolosa.
Una società che non esiste ma è solo composta da singoli individui, secondo l’indimenticata lezione della Thatcher, nella quale ciascuno è sottoposto unicamente e in solitudine a confrontarsi con l’imperativo del mercato, che è profondamente divisa e slabbrata, incattivita in una lotta di tutti contro tutti e “unificata” solo nell’identificazione con il Capo. Qui sta il vero stravolgimento della Costituzione e anche un solido legame con le destre estremistiche che vediamo agire in Europa e nel resto del mondo, da Trump a Bolsonaro e, da ultimo in questi giorni, a Milei in Argentina, che porta alle conseguenze più radicali l’incrocio tra primato del mercato e volontà repressiva nei confronti della società.

Ci sono debolezze non di poco conto in questo progetto, dalla sua fattibilità sul piano economico al problema del consenso sociale, ma certamente queste non saranno sufficienti a metterlo in discussione. Serve un disvelamento di quest’approccio e l’acquisizione di una consapevolezza diffusa di questa prospettiva regressiva. Occorre dire con forza che siamo in presenza nel nostro Paese, e in molte parti nel mondo, di un modello di forte carattere autoritario, che mette in discussione le fondamenta della democrazia sostanziale.

Ancor più serve promuovere una forte mobilitazione sociale e politica per contrastare questa deriva. Per fortuna, le energie per andare in questa direzione ci sono, come dimostrano da ultimo le riuscite manifestazioni del 7 ottobre de  “La Via Maestra” – la coalizione composta dalla CGIL e da numerose associazioni e realtà sociali, per difendere e attuare la Costituzione e i diritti fondamentali –  lo stesso sciopero generale indetto da CGIL e UIL, così come le grandi manifestazioni messe in campo in questi giorni dal movimento delle donne per contrastare la cultura patriarcale.

E soprattutto che essa poggi su una visione alternativa di società e di modello produttivo che ne consegue. Senza rimettere al centro l’idea dell’uguaglianza e della solidarietà sociale, capace di disegnare anche un sistema produttivo che fuoriesca dal dominio del mercato, della finanza e dell’austerità, che metta al centro la cura anziché il profitto, risulterà ben difficile sconfiggere l’autoritarismo e la spinta antidemocratica che la nuova destra del Paese e nel mondo sta provando ad imporre.
Si illude chi pensa che basti qualche aggiustamento e qualche riforma del capitalismo
a farlo, proprio nel momento in cui quest’ultimo, venute meno le “magnifiche sorti e progressive” della finanza e della globalizzazione, si deve misurare con la perdita di consenso e tende a separarsi dalla democrazia. Solo un cambiamento radicale può reggere la sfida ed evitare i gravi rischi regressivi che stanno di fronte a noi.

Per leggere gli altri articoli ed interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Alla canna del gas:
l’inganno mortale del “mercato libero”

Alla canna del gas: l’inganno mortale del “mercato libero”.

Dal 10 gennaio 2024 finisce il mercato tutelato per il gas (da aprile quello della luce). Su 8,7 milioni di famiglie almeno 4,5 saranno obbligate a scegliere un fornitore nel mercato libero dove operano 700 imprese private (utility). Nel tutelato rimangono i disabili, over 75 e altre famiglie in difficoltà. Già è significativo che nel mercato tutelato rimangano le famiglie più fragili, anche perché Arera ha verificato che chi è passato nel “libero” negli ultimi 18 mesi e soprattutto negli ultimi 6 mesi ha pagato quasi sempre di più del tutelato.

Si tratta di un caso da manuale per capire quali sono i limiti del nostro modello di società occidentale, basato sempre più sui “mercati”, la “concorrenza” tra privati e che considera comunque la gestione pubblica (Stato o azienda pubblica) inefficiente, per cui anche la sanità si è avviata verso un processo di privatizzazione.

Mentre nei primi 30 anni del dopoguerra le cose sono andate molto bene (più salari per tutti, più occupazione, più uguaglianza, più welfare), dagli anni ’70 e ’80, proprio in coincidenza col fenomeno delle privatizzazioni e liberalizzazioni, le cose sono andate molto male, e andranno peggio.

L’ideologia di fondo è che la concorrenza tra privati favorisce i consumatori perchè porta all’offerta dei beni a prezzi più bassi. In realtà sappiamo che in molti settori strategici (telefoni, acquisti on line, internet, social, materie prime,…) non c’è affatto libera concorrenza, ma potenti oligopoli o monopoli che tengono i prezzi minimi artificiosamente alti. In Usa negli ultimi 40 anni la concorrenza è diminuita molto, le grandi multinazionali sono diventate oligopolisti che operano con enorme potere di mercato (spesso senza antitrust). Le multinazionali hanno necessità di penetrare i vari mercati rapidamente: quindi l’ideale è stato offrire anche in Europa un grande e unico mercato. Dietro la narrazione della “concorrenza” ci sono quindi molti oligopoli e monopoli.

Poi ci sono settori dove è dimostrato che un mercato concorrenziale tra privati non è affatto vantaggioso per i clienti, poiché inquinato da “asimmetrie informative”. Se per acquistare una casa, il telefono o l’auto tutti abbiamo un minimo di conoscenze che ci consentono di fare una scelta ponderata, così non è in alcuni settori come per esempio la sanità, la scuola, il gas o l’elettricità. Si tratta di settori ad alta complessità in cui non sappiamo dove sono i medici e gli insegnanti migliori oppure, come nel caso di gas e luce, in cui la materia prima è acquistata all’estero in grandi stock. Essendoci molte variabili, converrebbe avere un solo grande acquirente che svolga un servizio universale e che farà buoni prezzi se è controllato da una Autorità pubblica, evitando ai clienti di dover confrontare le offerte tra le 700 imprese italiane, spesso con una moltiplicazione di costi (personale, marketing,…) che si riflette sul prezzo finale. Avere due mercati (libero e tutelato) sarebbe meglio della tirannia del “libero mercato” comunque e per tutti.

Chi non ha ancora scelto il libero mercato ha fatto bene perché dal dicembre 2021 al settembre 2023 i rincari medi delle bollette nel mercato tutelato sono stati nettamente inferiori a quelli del mercato libero (gas -8,8% vs +73,7%; luce -11,4% vs +47,4%; fonte Unione Nazionale Consumatori su dati Istat).

E’ vero che il 10% dei clienti del mercato libero ha avuto rincari minori di quelli avvenuti nel mercato tutelato, ma si tratta di una famiglia su dieci che ha avuto tempo e conoscenze per poter fare confronti e scegliere il miglior operatore, spesso spostandosi da un anno all’altro con notevoli perdite di tempo. Un lavoro che non fa quasi nessuno: ciò spiega perché il restante 90% ha avuto rincari maggiori.

Tutti (o quasi) i partiti sono responsabili di questa deriva ideologica verso l’ipotetico “libero mercato”.  Il Governo Renzi nel 2014 fu il primo a proporre questa scelta, votata poi dal parlamento italiano nel contesto delle riforme necessarie per attuare il PNRR, confermata dal Governo Conte 2 ed infine da Draghi. La Commissione Europea del resto spinge affinché in tutti i paesi si affermi la logica della privatizzazione e della libera concorrenza. Fratelli d’Italia, che aveva votato contro, si trova al Governo “costretta” ad approvare questa norma, confermando che tutti coloro che arrivano al potere devono uniformarsi alle regole della concorrenza e alla logica mercantilista che vige in Occidente. Peccato che questa logica sia alla radice delle crescenti disuguaglianze, anche perché viene nel contempo ridotta la tassazione sia sui ricchi sia sulle imprese, complice anche l’evasione ed elusione fiscale. Di recente 125  paesi non allineati hanno fatto passare all’ONU (leggi qui) una storica risoluzione a favore di un regime universale di tassazione globale, contro la quale hanno votato, non a caso, 48 paesi ricchi (tra cui Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia, tutti i paesi dell’Unione Europea).

L’impoverimento delle famiglie è dovuto in gran parte alla crescita dei prezzi del gas e luce, che sono raddoppiati in Italia a causa della fine della fornitura del gas russo. I depositi sono pieni di gas liquefatto (dagli Usa) che è costato il doppio. Nella rilevazione ISTAT sui prezzi, chi cresce di più è: gas, acqua, elettricità e combustibili. Un tipo di inflazione che colpisce in modo particolare le classi popolari (+15% rispetto alla media di 8,7%), essendo beni necessari a cui non si può rinunciare, o dei quali è difficile moderare l’utilizzo.

Più che dalla guerra in Ucraina, l’aumento dei prezzi è stato dovuto alla speculazione di fondi finanziari e banche, che hanno acquistato già in primavera 2021 tutti i titoli energetici alla borsa Ttf di Amsterdam; tanto che il Governo approvò il 28 settembre 2021, 5 mesi prima dell’invasione dell’Ucraina, i provvedimenti per abbassare la tassazione sulle bollette del gas e dell’energia elettrica.

Oltre all’impoverimento collettivo dei ceti più deboli, c’è un danno diffuso e sottovalutato all’economia, in termini di aumento dei costi di produzione per imprese che infatti chiudono o sospendono la produzione (vedi Yara a Ferrara).
Alla base degli aumenti stanno le materie prime, che sono il gas (per elettricità e riscaldamento) e il petrolio (per i carburanti). Per entrambi la filiera che va dal produttore (cioè da chi li estrae) al consumatore di base vede molteplici passaggi, con differenti margini di profitto. Ma il tratto più impressionante, come ha insegnato la crisi del 2008, è che si tratta di commodities fortemente finanziarizzate.

Il prezzo del gas viene determinato sul mercato di Amsterdam (Ttf), in cui si registra una massiccia presenza di agenti speculativi, maggiori di quelli che hanno un interesse commerciale. A ciò va aggiunto che i decisori europei hanno insistito presso la russa Gazprom per sostituire contratti di lungo periodo (detti “take or pay oil link”) con altri di breve periodo (detti “gas to gas”), il che ha dato un margine maggiore alle manipolazioni finanziarie tendenti ad amplificare le oscillazioni di prezzo.

Per quanto riguarda il petrolio, il prezzo di riferimento (“Brent”) viene fissato presso l’Intercontinental Exchange di Atlanta – una borsa statunitense specializzata in derivati sviluppatasi grazie al trading elettronico sulle materie prime. Il prezzo del carburante alla pompa (a parte la tassazione) dipende tuttavia da un prezzo di riferimento stabilito da S&P Global Commodity Insights, una piattaforma/azienda situata a Londra, presso cui operano i maggiori fondi speculativi al mondo.

In questo contesto non si realizza affatto quel mitico “equilibrio concorrenziale” dei mercati di cui parlano i libri di macroeconomia, ma una serie di speculazioni finanziarie che alcuni Stati subiscono (se non si organizzano come l’Italia, non certo la Norvegia) e fanno pagare ai loro cittadini. I dirigenti UE hanno pensato di inserire ulteriori dosi di meccanismi mercatisti che non hanno prodotto nulla, così come le sanzioni alla Russia che era il principale fornitore di gas e di petrolio all’Europa. I Governi (da Draghi a Meloni) hanno assunto provvedimenti  – a debito – per alleviare il costo delle bollette, ma non possono sanare una dimensione strutturale di assuefazione alle logiche finanziarie, il cui obiettivo è il massimo profitto delle imprese che vi operano, a costo di impoverire la maggioranza dei cittadini e in particolare le classi più povere.

L’alternativa sarebbe stato mantenere anche un prezzo amministrato (mercato tutelato) da Arera (Autorità pubblica) e, in prospettiva, avere anche un grande acquirente pubblico come Eni o Snam controllato e regolato con tariffe trasparenti uguali per tutti e crescenti al crescere dei consumi, con una quota di base a basso prezzo per poveri e consumatori responsabili. Così invece se ne va un altro pezzo del nostro welfare.

Music Film Festival, la serata finale e i vincitori dei Music Festival Award

Sabato 2 dicembre la serata finale del Ferrara Film Music Festival ha decretato i vincitori dei Music Festival Award. Tanta musica e colori in coreografie da sogno. Sul palco anche Giò di Tonno e Caterina Guzzanti

È stata una bella serata, avvolta dalla magia delle musiche dei film più iconici, come “La febbre del sabato sera” o “Flashdance”. Cantanti e ballerini bravissimi: per il sesto anno consecutivo si esibiscono i talenti della L.A.G. School of dance di Louise Anne Gard.

Saturday Night Fever

Tutti qui per abbandonarsi a idee vaghe e fantasiose, per assistere, quasi inconsapevoli, alle immagini che la notte crea. Nella dimensione del sogno, dunque, ricordando le parole del Maestro Federico Fellini, l’onirico per eccellenza, che dei suoi sogni annotava i ricordi su un nutrito taccuino che teneva sempre accanto. Il cinema, questa meraviglia, la fabbrica dei sogni. Con pure un pizzico di nostalgia, quelle bella però, che culla e fa bene.

Siamo qui, nel mondo dei desideri, come ricorda il direttore artistico Edoardo Boselli, in uno dei suoi curati monologhi dai palchi della galleria. Siamo qui a cercare le stelle, a ‘desiderare’, dal latino ‘de sidera’, in assenza di stelle. Ad esse aneliamo, dunque. E qui alle stelle si punta, a quelle brillarelle del cinema, che, sfavillanti, illuminano le storie dei personaggi che ne calcano le scene, quelle di altre vite oppure, perché no, anche le nostre, quelle di ogni giorno. Perché sognare è davvero democratico.

Sul palco prendono vita le coreografie e le musiche di “Matilda”, “What a Feeling”, Stayin’ Alive”, “Disco Inferno”, “City of Stars”. La Ferrara Film Orchestra, pur con un suono che sovrasta un po’ troppo le voci, sorprende ancora. C’è energia, pathos.

Musical Matilda
Musical Matilda

A commuovere ci pensa Giò di Tonno, che canta “Nuovo Cinema Paradiso”, mentre sullo sfondo scorre la bellissima e toccante scena finale con i baci più famosi. Applausi.

Giò di Tonno in Nuovo Cinema Paradiso
Giò di Tonno in Nuovo Cinema Paradiso

Di Tonno accende ancora il pubblico con “Roxanne”. Anche qui molti sono i ricordi.

Il simpatico sketch con l’orchestra di Caterina Guzzanti è preludio alla sua intervista, cui seguirà quella con Giò di Tonno con i suoi aneddoti sul musical “Notre Dame de Paris” e sul sodalizio e l’amicizia con Riccardo Cocciante. Dai tempi di Marrakesh.

Edoardo Boselli e Caterina Guzzanti
Gò di Tonno in Roxanne

I due ospiti premieranno i vincitori del Music Festival Award, nelle categorie canto e doppiaggio. È quindi il turno delle quattro finaliste Alessandra Franchina e Valentina Minniti per il canto e Carla Lanzetta e Ottavia Merlin per il doppiaggio. Valentina Minniti, che ha cantato “Gocce di memoria” e Ottavia Merlin si aggiudicano i premi, borse di studio per masterclass prestigiose, l’accesso gratuito alla giuria +18 del Giffoni Film Festival 2024 e l’accredito cinema alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 2024.

Valentina Minniti, premio canto
Ottavia Merlin, premio doppiaggio

A decretare i vincitori, la giuria composta dalla cantante e attrice Barbara Cola, dal doppiatore Rodolfo Bianchi e dal direttore d’orchestra Roberto Manuzzi.

Giuria
Giuria

Un momento magico e particolare il pubblico lo ha vissuto con “Hair”. I ragazzi del workshop di 9 ore con Barbara Cola hanno attraversato palco, platea e galleria, cantando, danzando e regalando tulipani bianchi. Un inno alla libertà, alla fratellanza e alla pace, cui si credeva molto di più, tanto tempo fa. Degna conclusione di una bella serata.

Hair
Finale

Testo precedente con il programma del Festival

Foto di Valerio Pazzi

Negli occhi dei bambini

Negli occhi dei bambini

Ultimora, domenica 3 dicembre 2023 ore 04, 30: Interrotta stanotte la tregua: Israele accusa Hamas di non aver rispettato il patto di liberare tutte le donne e i bambini israeliani tenuti in ostaggio. Ripresa l’offensiva dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Si calcola che in poche ore siano già stati uccisi 400 civili palestinesi, molti di loro sono bambini.
(Redazione di Periscopio)

Ho un’amica pittrice, si chiama Miriam Cariani. È molto brava. Le piace dipingere volti di bambini. Mi ha prestato alcuni dei suoi lavori. Questi che aprono l’articolo, ad esempio, sono bimbi palestinesi, negli orrori della guerra che si è scatenata dopo il 7 ottobre. Vivono tra violenze terribili e terribili privazioni, senza acqua, corrente elettrica, cibo, medicine, possibilità di studiare e di giocare serenamente. In tanti senza più il papà o la mamma, i nonni o i fratelli e sorelle. Senza più gli amici. Senza più la vita.

Si calcola che ogni giorno nella striscia di Gaza vengano feriti o uccisi 420 bambini [Redattore Sociale, 31.10.23]. Come se una scuola di 20 classi venisse bombardata quotidianamente. Questi piccoli che vediamo sono sopravvissuti, o almeno fino a pochi giorni fa lo erano se sono stati fotografati e poi ritratti, ma oggi chissà. Che cosa proviamo guardando i loro occhi smarriti?

È impensabile vivere così. Anche per un adulto, tanto più per un bambino o una bambina. Chi di noi vorrebbe vedere i propri figli o nipoti coinvolti in un massacro del genere?
Anche se, ora che ci penso, questi sono bimbi israeliani. Che cosa proviamo adesso? Sono bimbi in ostaggio, vittime del lutto, testimoni di violenze indicibili.

Sì, mi sono sbagliata, sono israeliani. Si sentono feriti, si sentono traditi. Il papà, la mamma, erano impegnati per la pace, sostenevano i diritti della Palestina, avevano sempre detto che i due popoli sarebbero riusciti a vivere insieme, doveva essere così, e invece il papà non c’è più, invece la mamma è stata portata via e da tanti giorni non si sa più niente di lei.

Ma no, che stupida. Sono ucraini. Quando Miriam mi ha dato i loro ritratti, li ha presi da una cartellina a parte. E comunque è chiara la differenza no? Basta guardarli con attenzione.

Non se ne parla quasi più, della guerra in Ucraina, ma non è mica finita la guerra.

Sul sito del Centro Regionale di Informazioni delle Nazioni Unite (5 ottobre 2023): “I civili continuano a pagare un prezzo altissimo nella guerra in Ucraina, con quasi 10.000 morti e decine di migliaia di feriti dall’inizio del conflitto… Nel frattempo, i civili nelle aree occupate dalla Russia subiscono torture, maltrattamenti, violenze sessuali e detenzioni arbitrarie. C’è preoccupazione per la sorte dei bambini ucraini, compresi alcuni affidati a istituti, che sono stati trasferiti in altre località all’interno delle aree occupate o deportati in Russia… Bambini che sono stati mandati in campi estivi in Russia, presumibilmente con il consenso dei genitori, ma che poi non sono stati riportati a casa”.

Si vorrebbe abbracciarli, accoglierli, condurli al sicuro insieme ai genitori (magari evitando i portare gli adulti in Albania, detto per inciso). Anche perché avere salva la vita è il primo obiettivo ma non l’unico.

Leo Venturelli della SIPPS (Società Italiana di Pediatria preventiva e sociale e Garante dell’Infanzia a Bergamo): “In tutti i quadri di guerra, i bambini soffrono come o peggio degli adulti. Infanzia negata significa generazione disturbata… (Vivono) traumi rappresentati sia dallo scoppio delle bombe sia, e mi riferisco ai bimbi israeliani nei kibbutz, dall’essere testimoni dell’uccisione e di torture dei propri cari, parenti, dei propri genitori. Il discorso, però, vale per tutti i bambini coinvolti nelle guerre… Indubbiamente in questo momento quello che fa più scalpore e che viene riportato dai media sono soprattutto i continui attacchi israeliani sulla striscia di Gaza…” [Redattore Sociale, 7.11.23].

Al trauma piscologico, alla paura, ai lutti si aggiungono ferite, malattie, infezioni, denutrizione, precarietà abitativa, interruzione della scuola, perdita di una dimensione di futuro possibile. A Gaza, in Ucraina, e in tanti altri paesi del mondo.

Save the Children riporta che oltre 449 milioni di bambini vivono in zona di guerra. Secondo una recentissima denuncia di Save the Children e Unicef, in Sudan quasi tre milioni di bambini sono in fuga dalla guerra e 6,5 milioni non possono più andare a scuola.
E poi ci sono i bambini coinvolti nelle guerre in Siria, in Yemen, in Repubblica Democratica del Congo… Se questo qui ritratto ci guarda con un occhio nero e uno blu, è perché è un bimbo palestinese, israeliano, ucraino, sudanese, yemenita, siriano, congolese. È un bimbo in guerra.

N.B. Questo articolo è uscito precedentemente su Azione Nonviolenta online

Le immagini che corredano il testo e quella di copertina sono di Miriam Cariani.

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Per certi versi /
Panchine

Panchine
(A Ferrara e non solo)

Ma se stasera
Dormi
Passeggero
Del vento
La panchina
È vuota
Non le coperte
Non il cane
Non le bottiglie
Se stasera
Dormi
Passeggero
Del mare
La panchina
È sbarrata
Dove sei andato
A portare
Le tue ossa
Le coperte
Ammucchiate
Lo strano
Disordine
Non scuote
Il silenzio
Eloquente

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Il Calendario 2024 dei Bambini del Cocomero

Il calendario 2024 dei Bambini del Cocomero 

È disponibile, da pochi giorni, il dodicesimo calendario dei “Bambini del Cocomero”, illustrato liberamente dalle alunne e dagli alunni della scuola primaria Bruno Ciari di Cocomaro di Cona.

È uno dei prodotti previsti dal progetto “IMPRONTE che è dedicato alla scoperta del nostro territorio con particolare riguardo agli aspetti geografici, storici, culturali, narrativi, culinari e ricreativi.
Ogni mese ha un tema specifico: l’incendio del castello estense, la nostra campagna, San Giorgio, il palio, i cappellacci con la zucca, il salto del fosso, il parco del cocomero, i peschi fioriti, la salamina col purè, la scuola, Pirinpinpin, il pampepato e alcune filastrocche ferraresi.

Il calendario ha il triplice scopo di festeggiare i 31 anni del giornale dei bambini La Gazzetta del Cocomero [1], di raccogliere fondi per l’associazione di promozione sociale “I Bambini del Cocomero” e di rallegrare le pareti di casa con disegni originali.

Quando ho chiesto ai bambini e alle bambine della mia classe perché gli adulti dovrebbero comprare il calendario dei “Bambini del Cocomero” mi hanno risposto così:

      • ci sono i disegni che in altri calendari non ci sono;
      • sono disegni fatti dai bambini che hanno colori vivaci e mettono allegria;
      • ti fa ricordare quando eri bambino; i disegni sono grandi e si vedono bene;
      • è un calendario creativo;
      • i disegni rendono felici perché sono belli, colorati e divertenti;
      • è facile segnare gli impegni perché c’è posto;
      • può aiutare a ricordare i momenti belli;
      • i bambini nei disegni ci mettono tutto il loro impegno;
      • è sempre diverso;
      • porta allegria e felicità;
      • ognuno ci ha messo tanto impegno;
      • si può mettere dappertutto;

 

  • può essere un bel regalo di Natale.

 

Le persone interessate possono trovare il calendario alla scuola “Bruno Ciari” in via Comacchio, 378 a Cocomaro di Cona oppure possono riceverlo a casa.
Il costo di un calendario, per chi lo ritirerà a scuola, è di 7 euro.

Chi lo vorrà ricevere direttamente a casa per posta, potrà prenotarlo versando la cifra di 8 euro (comprensiva delle spese di spedizione) tramite PayPal oppure tramite bonifico bancario (IBAN IT80G0538713000000002518276) indicando nella causale “Calendario 2024” e riportando il proprio indirizzo.

Ci aiuterebbe molto se chi lo comprerà online poi accompagnerà il versamento con una mail da inviare a: lagazzettadelcocomero@gmail.com
Grazie in anticipo a tutti coloro che sosterranno questa iniziativa e che collaboreranno alla sua diffusione.

[1] La “Gazzetta del Cocomero” è un giornale scritto e disegnato dai bambini e dalle bambine della scuola elementare “Bruno Ciari” di Cocomaro di Cona (FE).  È autoprodotto cioè esce regolarmente per il trentunesimo anno grazie al contributo di chi si abbona. L’idea di fare un giornalino si è sviluppata poco a poco ma si è concretizzata nel 1992, nella classe del maestro Mauro Presini, grazie alla creatività e all’impegno di Andrea Ghetti, Caterina Rossi, Elisa Frignani, Francesco Casini, Lorenzo Dalla Muta, Luca Rubbi e Nicola Forlani.

Il calendario 2024 dei Bambini del Cocomero

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Diario in pubblico /
La puzza che sale. Interpretazione olfattiva dello schifo sociale

Diario in pubblico. La puzza che sale. Interpretazione olfattiva dello schifo sociale

L’irrespirabilità dell’aria odorata come segnale della condizione etica, sociale e quindi politica della “nostra” Italia raggiunge un tasso talmente alto che rimane a chi la annusa la necessità di combattere o chiudersi nel proprio odore/puzza.

Di fronte alle catastrofi che scuotono il mondo o agli scandaletti che scuotono la nostra curiosità indotta da patte toccate ad arresti di treni, dall’uso di cognomi un tempo famosi alle idiozie televisive di un’attrice un tempo da me ammirata Virginia Raffaele.

Qui, purtroppo, la violenza, la puzza, l’imbecillità si esercita su un bambino che ha un’unica colpa, quella di essere intellettualmente più dotato dei suoi compagnucci di scuola, mentre genitori e insegnanti mostri gli fanno il vuoto attorno.

La vicenda si svolge a Rende ed è narrata dalla madre, avvocata cosentina del bambino intellettualmente bullizzato in una scuola dalla connivenza puzzolente tra genitori e insegnanti.

Il bambino di otto anni doveva essere spostato in un altro istituto da quello che frequentava a causa di incomprensioni tra la madre e alcune maestre che richiedevano l’inserimento nel “percorzo” del minore di un insegnante di sostegno, a causa della diagnosi di iperattività con funzionamento intellettivo superiore alla media.

Cioè sei più intelligente dei compagni? Bene! Allora sei un invalido che ha bisogno di un sostegno. Il ragazzino parla due lingue correntemente e perciò viene considerato un malato, più che un super/ritardato.  Viene deciso il cambio istituto e il ragazzino, felice, al primo incontro in aula con i compagni trova cosa? Il vuoto.

Alla delusione che ne segue il bambino reagisce, pensando che i compagnucci avessero tutti la febbre e perciò fa un disegno da regalare al suo compagno di banco assente. Tutto nel complotto ordito da insegnanti e parenti scoperto il pomeriggio prima dalla madre, la quale si era imbattuta in un’insegnante che definiva suo figlio “disabile e fastidioso”, istigando i parenti dei ragazzini ad eseguire il piano dell’assenza di tutti.

Ma che mostri siamo? Ma come puzziamo?

Al silenzio generale anche dagli uffici preposti risponde il ministro Valditara, che chiede un’ispezione per ristabilire responsabilità e connivenze.

Certo. Ben altre tragedie scuotono il mondo e la puzza che sovrasta è ancora più soffocante. Ma cosa va detto per questa immane idiozia e ignoranza?

Non pensiamo, al solito, che la parte della Nazione più sensibile a tali vicende debba essere il Sud Italia. La ‘bullimizzazione’ è ben prospera nelle ricche province e regioni e città del Nord. Mi astengo dal riferire quelle che accadono a “Ferara”

Nella mia città ferve, s’infiamma, lascia fumi, la necessità/volontà di esprimere il candidato di sinistra, dove curiosamente il candidato maschile viene sempre citato non con il suo nome di battesimo ma come “l’avvocato Anselmo”. Il mestiere meglio del nome. Andrò a votare scetticamente radical chic, ma mi meraviglio che la candidata a mio parere più preparata e allenata, cioè Ilaria Baraldi, accuratamente non venga mai nominata dai capoccioni di sinistra. Ach’ puzza……

Non so se prenderò il ‘trenolollo’, o se mi lascerò infiammare dalla polemica sul mancato contributo ministeriale al film di Paola Cortellesi. O di approvare o meno la brutta mostra di Tolkien (autore a me profondamente “ghignoso”), o di schierarmi con Dario Franceschini, amico di una vita, del quale mai ho rilevato atteggiamenti scorretti.

Vale allora un avvertimento. Alle puzze incombenti reagire con una bella doccia culturalmente servita, poi ritirarsi in casa a leggere, scrivere, ascoltare dischi e vedere film, senza però tapparsi, come gli ignavi, il naso.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

“Antonio Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo”:
martedì 5 dicembre alle ore 16,30 presso la CGIL di Ferrara

Antonio Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo.
Martedì 5 dicembre, ore 16,30
Sala Verde  CGIL

Ferrara, Piazza Verdi 5

introduce Fiorenzo Baratelli

 

Presto di mattina /
Voci d’avvento

Presto di mattina. Voci d’avvento

«Sì, voci non più udite si risvegliano, squittii, versi d’uccelli a stormi, strida … alterni dentro il bosco che si cela».

Sì questo è l’Avvento: «Voci rare feriscono il silenzio/ eterno, ancora accese/ qui dove indugio, anima sulla riva del fiume inquieto ferma ad ascoltare… Il passante ravviva/ le croci di papaveri votivi/ alle svolte della strada» (M. Luzi, Tutte le poesie, 196; 127).

Ravvivare le croci dei papaveri votivi significa ridestare la memoria della promessa di una singolare natività, risvegliare il sogno dal suo sonno notturno, cercando nella realtà l’apparire di una cosa nuova: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43 19); una strada per coloro che abitano nelle tenebre e nell’ombra della luce, attendendo il suo venire, il sole di giustizia, la voce del Dio vivente.

Segui il fiume, la sua voce:

Il fiume sceso giù dal giogo
non ha tutte le voci
che oggi mi feriscono festose
e cupe in vetta a questo ponte aguzzo.
Il fiume allora ha una voce sola
o vitale o mortale. Chi l’ascolta
ha un cuore solo o greve o tempestoso.

«Tu che tieni stretto il filo
di refe nel labirinto
dove sei che si scinde in tante voci
la voce che mi guida» esclamo io
non si sa bene a chi,
compagno fedele o ombra
(ivi, 359).

Sì questo è l’Avvento, la voce che mi guida verso l’ignoto, ma sarà amico od ombra, mortale o vitale? È come voce di fiume, filo di labirinto tra tante dispersive e divisive voci: «è una voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”» (Mc 1,3). Avvento, voce anche di quelle salutari acque, in cui Giovanni battezzò l’Unigenito e uscendo dalle acque una voce dall’alto lo attestò come il Figlio amato (Mc 1, 11).

Sì, così ancora è l’Avvento,

una voce come l’inconfondibile “trepestio di piedi” dopo i piovaschi, eco della voce del diletto che viene, dice la Sulamita, l’Amata nel Cantico dei cantici. Sì, una voce come un trepestio traduce poeticamente Agostino Venanzio Reali; un rumore di passi può risuonare così come una voce cara, sospirata che emoziona. Dice infatti il Manzoni nei Promessi sposi che Lucia «imparò a distinguere dal rumore dei passi comuni il rumore di un passo aspettato con un misterioso timore».

Amata – Un trepestio: ritorna
l’innamorato mio, per balze
capriolando e clivi, trafelato
antilope o cerbiatto.

Amato – levati,
mia Bella amata e vieni
(Ct 2, 8)

Qôl è il termine ebraico per dire voce, suono, rumore, tuono. Il salmo 29 (28), probabilmente il più antico dell’intero salterio, canta la voce del Signore sulle acque tempestose, ma nonostante la tempesta la sua voce rimbomba al di sopra di essa e resta così un punto fermo di sicurezza e stabilità per il suo popolo. Per sette volte ricorre questa parola nel salmo, un numero che esprime totalità e pienezza: “la voce del Signore tuona sulle acque”, Egli sovrasta l’uragano e in lui c’è solo la pace. Per questo il salmista dice alla fine: «Il Signore benedica il suo popolo nella pace».

È voce che risveglia l’attenzione d’amore di chi pur dormendo vigila con il cuore: «io dormivo, e il mio cuore vegliava. La voce del mio amato, che bussa, voce che brama anche solo sentire l’eco dolce di quella dell’amata:

Levati
dunque, o graziosa, e vientene,
amor mio, colomba,
dalle crepe di roccia,
dalle forre dei gioghi il tuo viso
controluce risfolgori e dentro
mi si rifranga dolce
l’eco della tua voce.
(Ct 2,14)

Sì, così ancora e sempre è l’Avvento

la voce amica del Pastore grande delle pecore che il Dio della pace ha ricondotto dai morti (Eb 13,29), e Giovanni riporta nel suo vangelo le parole stesse di Gesù: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10, 27); e Luca menziona il grido del suo ultimo avvento, quello del passaggio da questa vita al Padre: «Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo, donò lo Spirito» (Lc 23, 46).

Le voci dell’Avvento sono nascoste tutte nell’inno liturgico del salmo 95 (94), l’invitatorio che la tradizione ha posto in apertura alla preghiera cristiana del salterio: “Venite ed ascoltate”. Non c’è avvento senza ascolto della parola, senza un andargli incontro, come ricorda il salmo 95 (94). È “un andare cantando con suoni e danze insieme andiamo”. Anche in questo salmo l’invito è ripetuto per sette volte, per tutti: “Venite”, così che “possiate oggi ascoltar la sua voce. I vostri cuori non siano di pietra”.

Frère Charles (1858-1916): fratello universale

L’Hoggar o Ahaggar è un massiccio montuoso in Nord Africa, svetta con i suoi 2800 metri nel cuore del deserto del Sahara, nel sud dell’Algeria. Il nome deriva dalla popolazione tuareg Kel Ahaggar che vi abita, e Tamanrasset, situata a 1400 metri ai piedi dell’Hoggar, è il centro più importante della società dei Tuareg algerini.

Proprio a Tamanrasset visse e compì felicemente la sua avventura spirituale e umana padre Charles de Foucauld. Con il martirio egli sigillò la sua vocazione sacerdotale di “fratello universale”. Dopo una vita in cerca di Dio e tre anni vissuti in Palestina a Nazaret, egli si sentì chiamato a vivere come un eremita tra le tribù nomadi dell’Africa occidentale, imitando la vita nascosta di Gesù che per trent’anni abitò tra la sua gente a Nazaret.

Così Charles de Jesus, povero tra i poveri, si era fatto piccolo fratello tra i piccoli di quella terra per rivelare il volto di un Dio che è amicizia e presenza di amore, nascosto nel pane eucaristico, sacramento di una ospitalità e fraternità universali.

Fu, infatti, prima in Palestina e poi nel deserto del Nord Africa, sia presso gli ebrei che presso i mussulmani, che egli scoprì, cosa per lui veramente nuova, il comandamento nascosto dell’accoglienza, il vangelo dell’ospitalità. Charles era un ufficiale inviato in Algeria, ma lasciò dopo tre anni l’esercito per intraprendere un rischioso viaggio di esplorazione scientifica in un territorio interdetto agli europei. Così se fino a quel momento il musulmano era “il nemico”, da allora cominciò a sentirlo come un “amico”.

Diventare del paese

Abitare, adorare, fraternizzare sono i tre verbi che hanno caratterizzato il suo carisma profetico, perfettamente attuale anche nella chiesa di oggi. Tanto che queste stesse parole che continuano a caratterizzare la vita delle comunità dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle di Charles de Foucauld sorte dopo la sua morte.

Charles de Jesus, un uomo che non ha mai smesso di nascere: al vangelo, ai poveri e all’eucaristia. E proprio quest’ultima teneva presso di sé come l’amico e confidente intimo, Gesù presente nascosto nel pane, lui l’ospite segreto per i suoi ospiti inattesi e nomadi di passaggio.

Egli non ha mai smesso di irradiare fraternità eucaristica attorno a sé e nel cuore del deserto, ed è apparso così ai miei occhi come icona, guida e voce dell’Avvento, di quel permanente avvento che è la fraternità universale. Accanto al suo corpo, ritrovato alcuni giorni dopo nel fosso in cui giaceva, c’era ancora il piccolo ostensorio con l’eucaristia rovesciati entrambi su quell’altare fatto di sabbia e di deserto: il sacramento del Cristo immolato faceva così una cosa sola con il piccolo fratello dei suoi fratelli più piccoli.

Nell’Algeria occidentale, a Béni Abbès, fondò un romitorio dove accolse i poveri e studiò la lingua Tuareg. Successivamente, nel 1911, costruì un eremo a 2.180 metri sull’altopiano dell’Assekrem (in lingua tamasheq “fine del mondo”) sito a 80 km da Tamanrasset. Proprio il primo dicembre è stato l’anniversario del suo martirio; canonizzato da papa Francesco, egli è ricordato nel martirologio della chiesa cattolica proprio all’inizio dell’Avvento.

«Voglio abituare tutti gli abitanti cristiani, musulmani, giudei ed idolatri a considerarmi come loro fratello, il fratello universale. (Essi) cominciano a chiamare la casa “la Fraternità” (khaua) e questo mi colma di dolcezza».

Dalle sue lettere del 1904-1905 si possono notare espressioni ricorrenti di come egli abbia intrapreso quest’opera di fraternizzazione in uno stile di vita gesuano: “fare conoscenza”, “creare legami”, “farsi vicino”, “farsi conoscere”. Egli scrive: «il mio tempo, che non è preso dal camminare o dal riposo, è occupato a preparare le vie cercando di stringere amicizia con i Tuareg e facendo i dizionari, le traduzioni indispensabili».

Egli ha desiderato entrare fino in fondo nella vita di questo popolo: «Abitare solo in questo paese è una cosa buona: posso vivere senza grandi cose e a poco a poco diventare del paese». Così, alla fine, imparerà a ricambiare anche il male ricevuto con il bene: «Sono in mezzo a queste genti che hanno ucciso il mio amico Morès, lo vendicherò rendendo bene per male». Troveranno scritto nel suo diario: «Vivi come se tu dovessi morire martire oggi». Molti custodiscono ancora e dicono la sua preghiera dell’abbandono: “Padre mi abbandono a Te”.

Voci dall’Hoggar

Il padre de Foucauld dedicò gli ultimi dodici anni della sua vita (1904-1916) allo studio della lingua e della cultura Tuareg. Suoi sono i quattro volumi del Dictionnaire Tuareg-François, una raccolta della loro letteratura poetica e la traduzione in Tuareg del vangelo: «È per me una grande consolazione che il loro primo libro siano i Vangeli».

Voci dall'HoggarCosì, con sorpresa, ho trovato nella biblioteca del Cedoc SFR un libro del 1963 appartenente alla biblioteca di Luciano Chiappini, fondatore, negli anni del concilio, del Centro studi Charles de Foucauld il cui archivio e parte dei libri sono confluiti poi presso il Cedoc SFR. Il testo a cura di Angèle Maraval-Berthoin, Voci dall’Hoggar, ed. Nigrizia, Bologna ha avuto nuova edizione nel 2012.

Vi sono riportate sentenze e detti, le voci appunto, di Charles de Foucauld, di Musa Ag Amastàn, il grande capo di una confederazione di tribù Tuareg, e della poetessa e musicista Dassine Oult Yemma, detta la sultana d’Ahal, un luogo di riunioni diurne o notturne in cui gli uomini declamavano o cantavano versi e le donne suonavano un rudimentale violino monocorde detto “imzad”.

Dassine fu detta anche regina del deserto, perché messaggera e mediatrice di pace tra i diversi gruppi di Tuareg in lotta tra loro, e fu in uno di questi scontri che perse la vita Charles de Foucauld, che Dassine chiamava “il pensiero bianco dell’Hoggar”.

Imzàd: la voce stessa della luce per amare ogni cosa

Dal libro: E io. Dassine, dico:
Preferisci a tutte le voci, preferisci con me la
voce dell’imzàd, il violino che sa cantare tutto.
E non meravigliarti che abbia una corda sola.
Hai forse più di un cuore, tu,
per amare ogni cosa?

Ammiro mia madre che – prima fra tutte le
madri – dopo aver generato dei figli dalla sua carne,
volle generare anche un figlio del suo pensiero,
e fu l’imzàd.
L’imzàd, che resta ad un tempo la voce
Del suo Cuore e la voce della sua mente, per ammaliare
tutti quelli che l’ascoltano.

Mussa-ag-Amastàn diceva:
L’inganno finisce sempre per essere conosciuto;
perché se può accadere che gli uomini tacciano,
il cielo, l’acqua, il fuoco, la sabbia stessa
sanno assumere una voce per dire la verità.

Bisogna saper tacere come tace il silenzio,
per ascoltare la voce dello spazio.

Frère Charles diceva:
Sulla terra, è il silenzio che ha la voce
più bella per parlarci

Non ascoltare l’amico che ti viene a dir male
di un altro amico.
Resta sordo: eviterai così che la confidenza,
passando da un orecchio all’altro, prenda la voce
turbinosa del torrente

L’imzàd di Tin-Hinane, suonato ora da Dassine oult Yemma, è per l’Hoggàr quello che era per il popolo ebreo l’arpa di Davide: la voce stessa della luce.

Nel leggere un testo della Sultana dell’Hoggar mi sembra di comprendere che la voce diventa scrittura quando viene ospitata nel cuore e nella mano, sia quella che parte mano destra dell’onore e va verso il cuore, sia quella che, come nomade del deserto con gambe di armenti o croci segnavia o punti, – come stelle o come il sole che guidano nelle notti e durante il giorno – va dal cuore verso altri cuori, come nel cerchio della vita, verso un orizzonte di confini che creano sconfinatezza.

Nell’introduzione a Voci dall’Hoggar, (22-23) Angèle Maraval-Berthoin (1875-1961) ricorda che «il Padre Charles de Foucauld aveva saputo comprendere la nobiltà di carattere dei Tuareg. Egli apprezzava la forza e la poesia delle loro brevi sentenze e si sforzava di tradurre nella forma immaginifica del loro linguaggio la sapienza del Vangelo, per farsi capire meglio da loro. Ne conserviamo la testimonianza nelle sue trascrizioni su tre righe, una in caratteri tifinar (scrittura Tuareg, discendente dalle più antiche forme di alfabeto libico-berbero), l’altra in annotazioni fonetiche, la terza in traduzione francese».

E circa queste differenti forme di scrittura la Maraval-Berthoin riporta le parole stesse di Dassine, incontrata diverse volte nei suoi viaggi: «Tu scrivi ciò che vedi e che senti con piccole lettere fitte, fitte come formiche, che vanno dal tuo cuore alla tua destra d’onore».

Gli arabi, invece, hanno lettere che si sdraiano, si mettono in ginocchio e stanno dritte, simili a lance: è una scrittura che si arrotola e si dipana come il miraggio, sapiente come il tempo e fiera come la lotta.

E la loro scrittura parte dalla destra d’onore e va verso sinistra, perché tutto finisce lì, nel cuore.

La nostra scrittura, nell’Ahaggar, è scrittura di nomadi poiché tutta di aste, che sono le gambe dei nostri armenti. Gambe di uomini, gambe di mehari, di zebù, di gazzelle, di tutto ciò che percorre il deserto.

E poi le croci dicono se vai a destra o a sinistra, e i punti – vedi, ce ne sono tanti: sono le stelle per accompagnarci di notte, perché noi sahariani conosciamo solo la strada, quella che ha per guida, di volta in volta, il sole e poi le stelle.

E partiamo dal cuore e gli giriamo intorno in cerchi sempre più ampi, per chiudere gli altri cuori in un cerchio di vita come l’orizzonte intorno al tuo gregge e a te stesso» (ivi, 22-23).

Fino a quando Signore?

Sì, voci non più udite si risveglino, anche in questo lungo durare d’Avvento, anche un’eco solo di voce: “una voce che segni una sosta a queste divoranti attese” in cui opera disumanità, che inizi almeno un poco quel “dolce colloquio” che ha il nome della pace.

Anch’io, anch’io
che oda, o Amato, la voce!
Una voce …
a dirmi è finito
il tempo della potatura!
Mio crudele Amore, io so
quale vignaiolo severo tu sei
e con quale cura tu poti
le tue piccole viti…
Una voce
che dica: O colomba!
Sì, una colomba
che si annida
in anfratti e dirupi…
Una voce che segni
una sosta a queste
divoranti attese,
e fine ponga
alle aspre
incertezze:
e abbia inizio
almeno il dolce
colloquio.
(David Maria Turoldo, O sensi miei. Poesie 1948-1988, Rizzoli, Milano 19976).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola /
Al via il “XV International Fest Roma Film Corto”, dal 4 al 9 dicembre

Appuntamento con il nuovo cinema italiano e internazionale di qualità, nel formato cortometraggio, documentario e docu-film durante la XV edizione del “Roma Film Corto”, dal 4 al 9 dicembre. Ingresso gratuito

Nato con l’obiettivo di scoprire talenti cinematografici, tramite una “ricognizione sul campo” rivolta alla sperimentazione e alla contaminazione linguistica, il “Roma Film Corto” è sempre stato ed è un’occasione d’incontro-confronto tra registi, attori-attrici, autori e scrittori, e pubblico cinefilo, giovani e studenti. Un importante palcoscenico.

La rassegna si svolgerà quest’anno dal 4 al 9 dicembre presso le Biblioteca Flaminia (per la prima volta) che vedrà l’apertura del Festival, la Biblioteca Europea e il cinema Caravaggio e si chiuderà presso la Casa del Cinema / Sala Cinecittà, il 9 dicembre dalle ore 16,00 alle 20,00, con l’assegnazione del Colosseo d’Oro al Miglior Cortometraggio, quelli d’Argento per la Migliore Interpretazione e Migliore Sceneggiatura a cui vanno aggiunti il Premio Ettore Scola – Sezione Award Winning – destinato alla Migliore Opera tra quella già pluripremiate, il Premio Cinema Solidale, riservato al Miglior Film incentrato su tematiche sociali e solidali e, infine, il Premio del Pubblico.

Novità, in occasione del quindicennale del Festival, la votazione e proclamazione dei vincitori da parte, esclusivamente, di una Giuria popolare, composta in prevalenza da studenti di scuole di cinema, accademie, istituti scolastici di ogni ordine e grado, università. Ricca la proposta con la selezione di 47 opere filmiche provenienti dall’intero territorio nazionale, ma anche da paesi europei ed extraeuropei, quali: Paesi Bassi, Portogallo, Spagna Svizzera; Stati Uniti, Brasile, Iran, Hong Kong.

Da segnalare, la sezione “Incontro con l’autore”, che vedrà, tra l’altro, la presentazione di novità editoriali, nella direzione di quella contaminazione artistico-culturale, centrale nel Progetto culturale del Festival. Previsto presso la Biblioteca Europea (6 dicembre dalle 16,00 alle 19,00) l’omaggio ad Anna Magnani a cento anni dalla nascita, sulla cui figura di donna ed attrice, si soffermerà il critico e storica del cinema, Chiara Ricci, autrice del libro “Anna Magnani – Ritratto d’attrice”.

Il programma completo e consultabile e scaricabile su www.romafilmcorto.it

L’ingresso alla manifestazione è gratuito fino ad esaurimento posti.

Info 06 35348882 – romafilmcorto.fest@libero.it

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Immagini dell’edizione dello scorso anno, per cortesia del Roma Film Corto

Israele-Palestina: un altro modo, la scelta della nonviolenza.
Intervista esclusiva a Sulaiman Khatib e Chen Alon, combattenti per la pace

Israele-Palestina: un altro modo, la scelta della nonviolenza

Intervista online a Sulaiman Khatib e Chen Alon, co-fondatori di “Combatants For Peace”, nominati per il Premio Nobel per la Pace nel 2017 e nel 2018. Entrambe le volte la candidatura era a nome di “Combattenti per la pace”.

di Ilaria Olimpico, Imaginaction
articolo originale pubblicato su pressenza il 30.11.2023

Questo articolo vuole riportare in italiano le parti salienti dell’intervista (in inglese)  visibile qui sul canale Youtube di Pressenza IPA  https://www.youtube.com/watch?v=Aq13zCoRqU4  e ascoltabile come podcast qui https://podcasters.spotify.com/pod/show/imaginaction

Grazie a Daniela Bezzi per l’aiuto nella trascrizione e traduzione e a Fulvio Faro per il montaggio del video.

Di seguito riporto gli elementi che hanno attirato maggiormente la mia attenzione e che evidentemente si sono ancorati al mio vissuto, alle mie premesse, alla mia professione, e non da meno alle mie speranze.

Il cammino doppio e intrecciato di Combatants for Peace. Chen Alon più di una volta, nell’intervista, ha sottolineato come accanto al processo di riumanizzazione, training all’empatia e promozione del dialogo, ci sia la lotta congiunta, nonviolenta e creativa contro l’occupazione militare israeliana e il sistema oppressivo di apartheid. Ho trovato significativo che questo aspetto fosse sottolineato da Chen, israeliano, che dice: “Non ignoriamo la realtà dell’occupazione”. Senza questa affermazione così forte, la promozione del dialogo tra i due popoli potrebbe essere inficiata e accusata di “normalizzazione” (tatbya in arabo), ossia di normalizzare i rapporti come se non esistesse un sistema oppressivo e ingiusto. In questo caso, direi che le relazioni tra “nemici” più che “normalizzare” lo status quo, lo sfidano facendosi portatori di una realtà altra, per molt3 quasi inimmaginabile, e lo fanno insieme.

Aprire la mente. La pluralità di narrazioni. Sulaiman Khatib spesso fa riferimento alle narrazioni diverse e al ruolo che giocano nel mantenere il ciclo di violenza e nel rimanere bloccati nella storia dei propri traumi, così come all’opportunità che si apre quando si fa spazio alla narrazione dell’altro. Sulaiman racconta come la curiosità verso la storia degli israeliani abbia fatto parte della sua storia di trasformazione personale; accenna al fatto che la guerra di queste settimane è raccontata in due modi completamente diversi dai media israeliani e palestinesi (“siamo soliti dire qui che viviamo in film diversi”).Aprire il cuore. Avere spazio per il dolore dell’altro, del “nemico”. Sulaiman racconta di quando ha fatto spazio alla sofferenza per l’olocausto, Chen racconta che ora, dopo 18 anni di allenamento del muscolo dell’empatia, il suo cuore si spezza allo stesso modo per i bambin3 isrealian3 e palestines3 quando sono uccis3, rapit3, torturat3. In effetti, siamo addestrat3 a provare empatia solo per i nostri cari, i nostri vicini, i nostri “più simili a noi”. “(voglio invitarvi a) dare una possibilità all’empatia e all’umanità…” (Sulaiman).

Aprire la volontà. L’immaginazione come capacità fondamentale nella trasformazione del conflitto. Dice Chen: “una delle prime manifestazioni dell’oppressione è che la gente non riesce a immaginare un’altra realtà”. Sulaiman dice che la The Joint Memorial Ceremony, in cui israeliani e palestinesi sono in lutto insieme, chiedendo la fine della violenza, è in qualche modo qualcosa di inimmaginabile. Avere la capacità di immaginare l’inimmaginabile apre le porte davvero alla risoluzione creativa dei conflitti.

Il ruolo della comunità internazionale. Andare oltre le polarizzazioni e l’odio.  In questo momento di forte polarizzazione, che alimenta da un lato l’islamofobia e dall’altro l’antisemitismo, Chen invita a essere spett-attori, ma non per tifare una o l’altra parte, ma chiedendosi “dov’è il palcoscenico in cui le persone stanno co-resistendo, co-esistendo, lottando insieme, riumanizzandosi a vicenda”. Sulaiman apprezza il risveglio della comunità internazionale, ma sente di distanziarsi dagli slogan che portano odio, invita a sintonizzarsi sulla vibrazione della vita.

E ora lascio la parola a Chen e Sulaiman, riportando stralci di gran parte dell’intervista.

La mia prima domanda è stata proprio su Combatants for Peace (Combattenti per la Pace), cos’e’ e cosa rappresenta nella loro vita oggi, in questa situazione così drammatica.

Sulaiman: 

Combatants for Peace è nato durante la Seconda Intifada, da una conversazione che si teneva segretamente a Betlemme, tra alcuni palestinesi che stavano combattendo o erano in prigione, come me, e israeliani che erano stati nell’esercito. E dunque in breve, entrambi i gruppi sono giunti alla conclusione che non esiste una soluzione militare per la nostra causa, e che per alcuni di noi non esiste più un “noi” o un “loro”. 

Come ho detto io stesso, sono stato in carcere per più di dieci anni dall’età di 14 anni, come tutti i miei amici adolescenti, mi sono trovato in varie situazioni per esplorare ciò che può funzionare. Ed è successo che alcuni di noi, se così posso dire, si sono avvicinati ai valori della nonviolenza e dell’umanizzazione dell’altra parte e abbiamo lavorato insieme per un futuro migliore, per i nostri popoli, sia palestinesi che israeliani.

(…) Credo che “Combatants For Peace” abbia contribuito molto ai movimenti di base a livello locale e globale che dimostrano che la trasformazione e il cambiamento sono possibili, e che trasformare quello che chiamiamo “l’altro” in un fratello è possibile e questo cambiamento non è eccezionale, solo per poche persone. Credo che ogni essere umano sia in grado di cambiare. Come dice Nelson Mandela, “le persone non odiano per natura, quando nascono, devono imparare a farlo…”. E quindi possono anche imparare l’amore e persino il perdono.

“Combatants For Peace” esiste da 18 anni. E l’identità principale, come ho detto dai fondatori, è quella di ex combattenti di entrambe le parti che lavorano insieme. E questo, per quanto ne so, è uno dei pochi modelli storicamente riconosciuti e che continuano a lavorare sul conflitto, con l’obiettivo di unire le forze per lavorare insieme a questa possibilità di riconciliazione storica, per la liberazione e la libertà dei nostri popoli da entrambe le parti.

Chen:
(…)
Io sono stato per più di 10 anni nell’esercito, sono diventato maggiore nell’esercito israeliano e ho avuto la stessa urgenza di Suli di proteggere il suo popolo. Anch’io ritenevo di proteggere il mio popolo. Credevo che la violenza, la resistenza, la lotta armata, la difesa, comunque la vogliamo chiamare, fosse la soluzione e poi ho capito che la violenza è sempre il problema e non la soluzione e ho deciso di rifiutarmi di svolgere il servizio militare per l’occupazione e per questo sono stato condannato e andato in prigione.
(…)
Anch’io, come ex combattente, come ex ufficiale, ho trovato i partner in un gruppo di persone, persone coraggiose nel fronte palestinese, che hanno abbandonato la violenza come mezzo di liberazione o mezzo di resistenza, di lotta.

Abbiamo quindi unito le forze per porre fine all’occupazione e all’apartheid insieme, e per sviluppare una comunità nonviolenta bi-nazionale. Dopo 18 anni stiamo definendo una cultura nonviolenta bi-nazionale. Stiamo sviluppando un’alternativa alla realtà come comunità, in modo che le persone possano unirsi a noi e far parte di questo giusto e paritario sistema di governo, anche utopico, nella nostra comunità che non ignora il contesto dell’occupazione e dell’apartheid, ma fornisce una realtà alternativa per le persone che resistono alla violenza, al ciclo di violenza e alla struttura di potere oppressiva.

E vorrei aggiungere, per rispondere alla seconda parte della tua domanda, che cos’è “Combatants For Peace” oggi? Per me, e so che è lo stesso per Sulai, perché ho imparato questo termine da Sulai, noi siamo risoluti, fermi. Siamo una roccia ferma (…) nell’occhio di una tempesta di folle, orribile violenza, brutalità, barbarici attacchi che vanno da entrambe le parti, uccidendo persone innocenti e bambini. E noi stiamo incarnando la visione di stare insieme nella realtà, all’interno dell’occhio del ciclone. Per segnalare alla gente che saremo presenti anche dopo la fine della guerra e che saremo il seme attorno al quale si costruirà la prossima realtà, come comunità bi-nazionale, nonviolenta, pacifica, sensibile alla giustizia e ai diritti umani.

Invito Chen e Sulaiman, che hanno già un po’ anticipato le loro storie personali, a raccontare episodi della loro vita che hanno portato a un cambiamento di prospettiva e alla scelta della nonviolenza.

Chen:
(…) Intuitivamente, abbiamo iniziato il viaggio dei “Combattenti per la pace” sulla base dei principi dei Comitati per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica. Ciò significa che quando si racconta la propria storia personale attraverso la violenza, ci si assume la responsabilità della verità e della riconciliazione. Non significa che qualcuno deve perdonarti (…). Si tratta di un’azione di racconto della propria storia personale, di condivisione della propria verità e del proprio ruolo. A volte di testimone, a volte ruolo attivo nella realtà come persona violenta, come essere umano violento che ha disumanizzato l’altro fino al punto di essere disposto a uccidere, e in alcuni casi a uccidere davvero, altri esseri umani. Quindi, per essere onesti, non c’è un momento del genere, un unico momento di rivelazione o epifania che posso descrivere come IL momento della mia trasformazione.

Io sono un regista teatrale. Un creatore di teatro nel teatro. Un attivista e un artista. Quindi leggo la mia storia e leggo questi episodi che ho vissuto, attraverso un punto di vista teatrale, e cercherò di spiegare questo punto con alcuni esempi, uno dei quali è che ero già un attore di teatro e stavo interpretando un ruolo in uno spettacolo teatrale chiamato “Awake and sing” di Clifford Odets. È una commedia americana sulla Depressione del 1929 e io interpretavo il tipico giovanotto di famiglia. E tutta la famiglia è devastata dalla depressione economica. E come in una catarsi io alla fine dell’opera dico loro: “Non dipende da noi affrontare il nostro singolo problema, dobbiamo cambiare il sistema, il sistema di capitale dell’economia statunitense è il problema e dobbiamo cambiarlo, e questo creerà il cambiamento.” E a quel punto il pubblico applaudiva e beh, io indossavo un abito a tre pezzi con la cravatta nel Bronx degli anni ’30 o alla fine degli anni ’20 negli Stati Uniti a New York. E il pubblico era fuori di testa dinnanzi a questo giovane uomo rivoluzionario che indica una soluzione al problema sociale, economico e politico.

Mi sono tolto il costume di scena, sono salito in macchina e ho guidato per 45 minuti fino alla Striscia di Gaza. Era credo l’anno 1997, o 1996. Ho indossato la mia uniforme con il grado di maggiore ed eccomi comandante di un posto di blocco. Fermavo e bloccavo le famiglie palestinesi che volevano attraversare questo posto di blocco e dicevo: “Avete bisogno di un permesso per andare all’ospedale, avete bisogno di un permesso per questo e quello…”. E ricordo in particolare una giovane coppia con un bambino che cercava di attraversare questo checkpoint e così, eccomi lì la sera stessa, sul palco come giovane rivoluzionario che crede nel cambiamento sistematico del sistema e invoca una rivoluzione del sistema per portare giustizia e uguaglianza. E un’ora dopo sto recitando un altro ruolo, con la mia uniforme di oppressore, come comandante di un posto di blocco che non permette alle persone di passare. E dunque questo scontro tra questi due personaggi dentro di me, il modo in cui non riuscivo a integrare questi due ruoli, questi due personaggi (…) Mi sono detto: devi scegliere uno dei due. O sei un cittadino, un artista che invoca il cambiamento, ed è disposto a pagarne il prezzo. Oppure sei un ufficiale di una dittatura militare che controlla e domina milioni di persone. Non puoi essere entrambe le cose. E il prezzo da pagare è quello di essere un traditore del tuo popolo, essere considerato un traditore, sbattuto in prigione, ed essere boicottato e bandito dalla tua stessa gente. 

E avrei altri esempi, se vuoi più avanti, mi limiterò solo a un altro, quello di aver impedito ai bambini di andare in ospedale, cinque anni più tardi, nella vicina Betlemme, mentre avevo cura di mia figlia, della mia bambina che andava all’asilo, nello stesso momento. Da una parte eccomi a dire: “Non potete andare all’ospedale, voi bambini in macchina (…); e allo stesso tempo chiamare mia madre per chiederle di andare a prendere mia figlia all’asilo perché la mia compagna quel giorno non poteva.

Quindi, di nuovo, questo concetto teatrale, di un personaggio, di ruoli nella vita, nella vita reale, e non essere in grado di integrare l’essere umano che sei, con altri ruoli sociali che ti trovi ad avere, stava arrivando a un punto tale che era troppo per me e mi sono rifiutato. Ero disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di impegnarmi nel ruolo di essere umano che non opprime altri esseri umani.

Sulaiman:

(…) come ho detto prima, sono stato in prigione quando avevo 14 anni. In realtà sono stato attratto dall’idea della rivoluzione, l’intreccio di Che Guevara, la kefia… e poi, durante il periodo di detenzione, quando ero in carcere, a 15 anni, mi sono unito in alcune occasioni ad altri prigionieri per uno sciopero della fame. E con questi due scioperi della fame, che sono durati circa 17 giorni, a volte 10 giorni, al fine di migliorare la vita quotidiana del carcere, abbiamo sempre avuto successo, in effetti. Questa è stata la mia esperienza pratica.
(…)
Sapete tutti che Mandela quando era in prigione ha letto della lotta nonviolenta e di altre parti del mondo, per esempio in India, e la storia di Martin Luther King e altri. Ma anche nella nostra cultura, direi anche nel contesto religioso spirituale, dalle nostre parti, c’è parecchio sul principio della nonviolenza, sulla cultura della tolleranza, “tasamuh”. (…)

Per me, quindi, quando parliamo di cambiamento verso la nonviolenza, non si tratta solo di una teoria del cambiamento o di un’ideologia o di una conversazione intellettuale, ma di andare molto più in profondità al cuore, all’anima e credo che sia importante, ed è così che io sono, essere veramente e pienamente in verità con noi stessi, non solo come intellettuale.

(…) io vengo da una famiglia che pratica la “riconciliazione” e questo si collega a tutta la cultura mediterranea del Medio Oriente con il processo di riconciliazione tribale, in cui ci sono sempre due lati della storia, o più di due lati (…). Ed è importante, io provengo dalla tipica famiglia palestinese, molto legata alla narrazione della causa palestinese, alla sofferenza palestinese, alla lotta palestinese, al desiderio di libertà. (…) Quando mi guardo indietro, penso che in parte, come ho detto, questo proviene anche dall’appartenere a una famiglia che riunisce insieme parti (gruppi) differenti nel sistema tribale e penso che una parte importante della mia missione di vita sia superare le differenze.

E dunque ero molto curioso e anche aperto a leggere anche la narrazione degli israeliani, se non altro per saperne di più, perché se mi predispongo ad aprirmi un po’ di più, significa che posso rinunciare un po’ alla mia (narrazione). Per esempio se provo empatia per la sofferenza del popolo ebraico, rispetto all’Olocausto, o prima, o dopo, si modifica anche il mio punto di vista di giustizia, o circa la mia causa come palestinese, e nel corso del tempo arrivo a un luogo in cui sento che questi termini o sentimenti non sono in conflitto, in cui possa permettere al mio cuore di percepire la legittimità di entrambe i popoli, di essere qui con tutto il dolore e il trauma… E capire che sono in grado, che noi siamo in grado… (…) di avere un cuore bi-nazionale e credo che questa sia la strada, con le nostre relazioni personali, con la nostra apertura.

Non perché siamo ingenui e non stiamo facendo nulla, ma perché è proprio così. (…) Ovunque, non riguarda solo la nostra causa. Credo purtroppo che la voce della violenza sia molto più forte, ma credo davvero che la maggioranza delle persone vorrebbe abbandonare questa cosa, per il loro bisogno di sopravvivenza e per le loro anime, smetterla di odiarsi e uccidersi a vicenda.

Chiedo a Chen e Sulaiman in che modo Combatants for Peace costruisce la fiducia e coltiva la riconciliazione, quali sono gli strumenti e le metodologie. 

Chen:

Mi stavo unendo a “Combatants For Peace”, stavo co-fondando “Combatants For Peace” come un ebreo israeliano molto protettivo, nel senso che stavo proteggendo la mia identità(…). Stavo mettendo a fuoco, ed ero molto possessivo, riguardo la mia storia, il mio dolore, all’Olocausto, alla sofferenza, l’esilio, il bisogno di rifugio da parte della gente. E non so se si tratta di un training  emotivo, empatico o spirituale che stiamo facendo in “Combatants for Peace”. Ma dopo 18 anni, posso dire che i bambini del Sud (Israele) e i bambini di Gaza mi spezzano il cuore allo stesso modo, quando vengono uccisi o rapiti o torturati. Quindi ora ho lo stesso posto nel mio cuore per i bambini quando sono uccisi, rapiti o torturati. Ho lo stesso posto nel mio cuore ed è facile perché ho dei figli, quindi è facile per me. Sento che è facile ora, ma non era così anni fa. E penso che quando parlo di training, non si tratta solo di esercitarsi all’empatia (…) Penso che sia il modo in cui ci stiamo allenando all’azione, che siamo impegnati in entrambe le pratiche e in entrambe le strade, entrambi i percorsi di “Combattenti per la Pace”.

Uno è il dialogo costante per la riconciliazione e la riumanizzazione. (…) per esempio, una delle pratiche è The Joint Memorial Ceremony, che abbiamo iniziato 18 anni fa con decine di persone in un teatro francese a Tel Aviv. Alle ultime quattro o cinque cerimonie che abbiamo fatto, la cerimonia annuale israelo-palestinese, hanno partecipato 15.000 persone in un parco a Tel Aviv con altre 200.000 persone online, che sentono l’esigenza di questo dolore comune, di questa agonia, di questo dolore da sentire insieme. E non è solo, come hai detto, un’esigenza israelo-palestinese, è un’esigenza internazionale. È un’esigenza umana di cui siamo testimoni in tutto il mondo. Questo è uno degli impegni che ci permette di sviluppare questi muscoli dell’empatia che stiamo allenando.

Ma ce n’è un altro (perché) il dialogo, la riconciliazione, la coesistenza e così via non sono sufficienti quando c’è un sistema sistematico così brutale e dominante di relazioni di potere che è oppressivo, cioè l’occupazione e l’apartheid. Quindi l’altro impegno, l’altro viaggio, l’altro percorso, l’altra strada che stiamo sviluppando oltre alla riconciliazione e alla riumanizzazione, è la lotta nonviolenta, la resistenza, il confronto concreto con il sistema oppressivo.

In questo modo, in vari modi, come azioni dirette, dimostrazioni, teatro d’immagine, teatro forum, manifestazioni, marce e vari modi di essere fermi di fronte all’oppressione insieme, israeliani e palestinesi sono schierati nello stesso movimento, la stessa azione, la stessa attività di fronte all’occupazione.

E penso che l’intreccio di questi due percorsi sia qualcosa di straordinario e unico per questo movimento bi-nazionale, che permette agli esseri umani impegnati nel movimento di avere, dopo anni e anni, un cuore bi-nazionale, e persino una mente bi-nazionale. 

Sulaiman:

In “Combattenti per la Pace” e nella cerchia più ampia dei gruppi di attivisti ci sono molti strumenti. Hai menzionato lo strumento del storytelling; noi usiamo molte altre strategie e strumenti per aprirci a (..) una nuova narrazione che emerga, che nasca e non rimanga bloccata nella vecchia storia. E questo non è facile perché la gente è traumatizzata e più facilmente bloccata nella narrazione del vittimismo, perché c’è molto dolore e sofferenza in questo momento e in generale.

The Joint Memorial Ceremony (…) per umanizzare l’altra parte, è davvero al di là di ogni immaginazione. Il fatto di essere  insieme nel dolore e nella solidarietà. Anche la cerimonia della Nakba è iniziata da quasi cinque anni. Camminare in collaborazione tra i nostri partner palestinesi e israeliani, per toccare un evento traumatico per i palestinesi e riconoscere quegli eventi che sono stati catastrofici nel ’48 per i palestinesi, è molto educativo, crea delle aperture e permette di non sottrarci di fronte agli argomenti più scabrosi, per entrare davvero in una conversazione difficile. E anche per costruire la fiducia e tutti i tipi di azioni nonviolente sul terreno. (…)

Per permettere alla gente di immaginare che questo posto può essere diverso, che non dobbiamo essere nemici per sempre, né combattere per sempre. (…)

Ho proposto a Chen e Sulaiman di immaginare, per Chen, di parlare con un bambino palestinese a Gaza, e per Sulaiman, di parlare con un bambino israeliano proveniente da uno dei kibbutz attaccati il 7 ottobre. Abbiamo fatto un momento di silenzio, per immaginare che, in qualche modo, ci siano le premesse che permettano a questi bambini di ascoltare con cuore e mente aperti. Hanno risposto con autenticità e delicatezza.

Chen

Devo dire, prima di iniziare, ho bisogno di un disclaimer e so che è una manifestazione dell’oppressione di cui sto soffrendo, perché questo è davvero impegnativo. (…) Una delle prime manifestazioni dell’oppressione è che la gente non riesce a immaginare un’altra realtà. La gente non riesce a immaginare un incontro utopico come quello che ci stai offrendo, e mi rendo conto che fa parte dell’oppressione il fatto che io non posso immaginare. È difficile per me. Perché non riesco a immaginare me stesso di fronte a un bambino palestinese a Gaza, mentre ascolta un uomo adulto ex soldato, ex ufficiale dell’esercito israeliano.

Quindi la mia prima immaginazione è andata in due direzioni ed è interessante perché prima di tutto vorrei chiederti di permettermi di portare Sulai, con me, per incontrare questo bambino palestinese… ho bisogno di Sulai per quell’incontro.

E l’altro pensiero che ho avuto è che non dirò nulla a questo bambino. Gli dirò che la mia prima responsabilità e obbligo è ascoltarlo. Per chiedergli cosa ha lui da dirmi.

(…)

Sulaiman

(…) Quando hai fatto la domanda, sono andato dentro il mio cuore per poter vedere (…) dei bambini israeliani. (…) Sì, sento che il mio cuore è molto pesante e anche in colpa perché una parte del nostro popolo ha rapito… Moralmente mi sento “triggerato”.(…) e provo anche una profonda e calda empatia per questi bambini che sono appena nati lì, che non hanno alcuna responsabilità indipendentemente da quale famiglia o in quale parte del mondo sono nati. E sono consapevole che questi bambini portano con sé anche i traumi delle loro famiglie. E quando sento questo, sento la mia parte di cuore salvatrice. Una parte di me si muove, vorrebbe salvare, vorrebbe proteggere. Vorrei dire a tutti questi bambini che sono protetti, che sono al sicuro e che sono amati. E mi dispiace anche per loro, perché noi adulti non siamo riusciti a impedire ciò che è successo il 7 ottobre, dopo il 7 ottobre, prima del 7 ottobre. Per tutti i bambini. Israeliani e palestinesi.

(…) E sento anche una grande responsabilità di continuare a fare quello che facciamo e anche di più per cambiare il corso di questa storia. E in questa missione, ci credo in pieno (…)

E sento che questi bambini sono stati usati per qualcosa che non hanno creato loro. E questo mi porta a (…) condannare, davvero, l’azione di rapire dei bambini, arrestare dei bambini, attaccare dei bambini, uccidere dei bambini.

(…) a quale livello di disumanizzazione siamo per arrivare a questo…

(…) Quando ho sentito il telegiornale e quando hanno parlato di bambini che sono stati rapiti tutti insieme, non sono riuscito ad avere alcuna immaginazione. Onestamente non riesco a immaginare perché non sono in grado di dare una spiegazione a me stesso, alla mia coscienza. Perciò chiamo davvero le nostre madri e le loro preghiere e (…) tutte le persone che hanno gli strumenti culturali per connettersi con la loro coscienza superiore e costruire questa nuova consapevolezza che possano davvero vedere e sentire di dare protezione a tutti questi bambini (…)

E ancor più sento che voglio lavorare, perché questo non accada mai più, si spera. (…)

(Voglio) mantenere il mio cuore aperto alla realtà collettiva, a tutta la realtà e cerco di mantenere un equilibrio con il sogno che questo posto possa diventare… (…) questo luogo possa diventare un modello di libertà globale. (…)

Chen

E dunque ora puoi capire, Ilaria, perché ho detto che porterò Sulai con me… (…) direi che io ho fallito, voglio dire, riconoscerò che abbiamo fallito nella nostra responsabilità, nella mia. Ho fallito nella responsabilità per questi bambini di Gaza, per te, bambino di Gaza, per quello che hai dovuto affrontare. L’unica cosa che gli chiederei, a questo bambino, è di non rinunciare alla speranza. (…) Ma l’unica cosa che gli chiederei, che gli offrirei, sarà invitarlo ad assumersi la sua responsabilità nel non perdere la speranza. E che un giorno potrà unirsi a Sulai e a me in questo viaggio della speranza. E gli consiglierò che questo viaggio, questa strada, questo percorso non sia con l’M16, non con le armi. Non puoi fare questo viaggio di speranza con le armi. E gli chiederò di perdonarmi.

Sulaiman

(…) Voglio invitare tutti coloro che ci hanno ascoltato fino ad ora, a osservare un momento di silenzio e respirare con il cuore aperto e per esprimere empatia. Ogni persona nel mondo ha empatia, ma a volte abbiamo limitato questa empatia ai nostri cari. Per non sfidare le nostre narrazioni e la nostra mente (…).

Voglio davvero sfruttare questa opportunità per (…) invitare tutti, indipendentemente dalla parte politica di appartenenza, comprese le persone che ora sostengono la guerra e sostengono la violenza, a dare qualche secondo al loro cuore, alla loro anima, (…) dare una possibilità all’empatia e all’umanità, anche in tempo di guerra. Questa è la generosità della moralità che sono certo, esiste davvero in tutte le nostre culture. E questo può davvero essere un punto di svolta per una trasformazione personale e collettiva (…)

(…) C’è davvero abbondanza, di risorse, d’amore, e di risorse materiali. E tutto ciò che ci permette di avere una vita diversa e un mondo diverso è pienamente visibile. Lo sto vedendo. Lo vedo nel mezzo delle tragedie che stanno accadendo in questo momento a Gaza e nel sud di Israele e in molti luoghi, anche in Cisgiordania. In Israele nessuno si sente al sicuro ed è un momento molto pesante, ma posso sentire e vedere in questo l’opportunità di trasformare davvero il palcoscenico per un momento storico, di lasciar perdere un po’ la vecchia storia per consentire l’esistenza di una nuova storia in cui i nostri popoli possano davvero essere pienamente se stessi, e autentici, e sentendosi in pace e al sicuro. Grazie.

Le parole di Chen e Sulaiman mi hanno riportato alla citazione di Joanna Macy: “Camminate coraggiosamente nella vita, con cuore spezzato, aperto”. Ho chiesto di condividere qualsiasi cosa sentissero come importante in questo momento.

Chen 

(…) Credo che voi e la maggior parte (…) delle persone che ci stanno seguendo, la cosiddetta comunità internazionale, insomma le persone che stanno ascoltando me e Sulai, dentro di loro stanno pensando a queste barbarie in Medio Oriente, o al conflitto israelo-palestinese o a qualsiasi altra cosa, e si sentono distaccate o lontane, o qualcosa del genere; oppure (…) pensano: cosa posso fare? Qual è il mio ruolo? e così via.

E voglio ancora una volta tornare al medium teatrale (…) che mi sta insegnando molto sul mio ruolo, rispetto al palcoscenico del conflitto, e sul ruolo di Sulai, come protagonista o antagonista in questo conflitto. E quanto a voi, la gente che ci sta guardando e ascoltando e pensa che il ruolo dello spettatore sia solo quello di osservare e di rimanere passivi. Credo che il teatro (…) ci stia insegnando che non c’è ruolo senza responsabilità, che tutti noi dovremmo trasformarci nel mondo, (dal ruolo di) spettatori, osservatori, nel ruolo di spett-attori, che tutti noi abbiamo il compito di adempiere alla nostra responsabilità e di diventare attori, nel drammatico momento che ci suggerisce, o che esige anzi e di diventare attivi. E l’unica cosa che voglio dirvi è: sì, attivatevi, unitevi a noi, diventate attori sul palcoscenico del conflitto israelo-palestinese, ma non pensate che il vostro ruolo sia quello di essere pro-Israele o pro-Palestina; non è questa la storia, il copione. Il copione è che dovete essere a favore della giustizia, per l’uguaglianza, per la solidarietà. E se volete correre gli stessi rischi come Che Guevara diceva per la solidarietà, significa che devi chiederti dov’è l’arena, dov’è il palcoscenico in cui le persone stanno co-resistendo, co-esistendo, lottando insieme, ri-umanizzandosi a vicenda, e così via. (…)

Sulaiman 

Aggiungo la mia voce a quella del mio fratello e amico Chen. E voglio dire un’altra cosa che riguarda la nostra gente di qui, in questa terra sacra. Mi sento pienamente, davvero nel mio cuore e non vivo in La La Land (ndt “nella fantasia”), sento che vivo pienamente nella terra di qui, dove sentiamo e vediamo e siamo testimoni, sperimentiamo in prima persona la fame, la violenza, l’occupazione. Se vengo qui a Betlemme per stare con un mio amico, devo passare un check point, non so se ci arriverò, se potrò tornare indietro (…). Anche sulla polarizzazione (…) Siamo soliti dire qui, divisi fra palestinesi e israeliani, che viviamo in film diversi. (…) Poiché ho imparato la lingua ebraica, posso ascoltare le notizie da entrambe le parti ed è una storia completamente diversa! (…) C’è davvero la battaglia è in termini di superiorità della morale. Nessuno vuole sentirsi dire o ammettere che la propria moralità è inferiore a quella degli altri, e così si perpetua la disumanizzazione.(…)

E sono felice per il movimento di risveglio che mi sembra di vedere a livello globale. È bellissimo. Davvero. Non sono d’accordo con tutti gli slogan, (…) specialmente quello che porta molto odio nel mio nome, e non voglio che questo sia nel mio nome. La mia vibrazione e quella del nostro popolo (…) non include danneggiare altre persone, soprattutto civili e bambini, (…) non include l’odio per nessun gruppo di persone. Vediamo che alcune persone in tutto il mondo, soprattutto i politici, industrie, industrie della guerra e così via, vogliono che continuiamo a combattiamo per sempre, fino all’ultimo bambino, (…) palestinese e israeliano.

E io mi auguro che venga un momento di risveglio per i nostri popoli per essere consapevoli che come vicini dobbiamo vivere l’uno accanto all’altro, qualunque sarà l’accordo.

Quindi, in questo senso, (…) direi che personalmente sono, siamo favorevoli a qualsiasi accordo, compreso quello attuale, per lo scambio degli ostaggi, per il cessate il fuoco, ma so che questo non è sufficiente. (…) Invitiamo queste persone a sentire la vita, dove è la vita (…). Vogliamo lottare per la vita e la giustizia. Sappiamo che abbiamo bisogno di una soluzione politica e storica, più che degli accordi di cessate il fuoco, ma anche questo potrebbe essere un buon inizio (…) per (le parti) per cominciare ad aprirsi, per altre opzioni diverse da quella delle armi.

Quindi, sì, personalmente continuo a rimanere in contatto con la realtà e sono anche ottimista su una realtà diversa (…)

Siti dei Combatants for Peace:
https://cfpeace.org/
https://afcfp.org/
https://www.disturbingthepeacefilm.com/

In copertina: un momento dell’intervista di Ilaria Olimpico a Sulaiman Khatib e Chen Alon< (Foto di elaborazione Pressenza)

Elogio dell’edicola

Elogio dell’edicola

Certamente
si può vivere
senza una edicola in città
Più necessario per la pancia
sono pane, vino, verdure
ogni tanto un bel filetto
sulla tavola
mentre per i vegetariani un insalata mista
e chi vuole una Festa d’Ottobre.
Evviva la pancia,
chi se ne frega la testa!

Ma
andare al mattino presto
ad una edicola vicino
scambiare le prime parole del giorno
con il giornalaio
lui o lei non importa
qualche battuta spiritosa
con un altro cliente
chi compra un giornale
che non mi piace
Evviva la libertà di stampa!
Il primo sfogo sul governo a Roma
e sul sindaco a Ferrara.
Pagare e poi andare sereno
verso il mondo sempre più grigio.

Difendiamo le edicole
finché esistono
temo non a lungo.
Sono farmacie
contro la stupidità della routine quotidiana
e contro la depressione continua sul mondo in degrado.

Certamente si può sopravvivere senza le edicole
Ma l’uomo non vive di solo pane.

In copertina: Edicola di via Maragno, a Ferrara gestita dalla coop. sociale Il Germoglio

Per leggere gli articoli di Carl Wilhelm Macke su Periscopio clicca sul nome dell’autore

ROMA, L’EXPO MANCATO E I MILIONI DI RYADH SEASON

ROMA, L’EXPO MANCATO E I MILIONI DI RYADH SEASON.

Sulle pagine del quotidiano La Repubblica Massimiliano Fuksas, controversa archistar romana, commenta la sconfitta di Roma nella vicenda dell’attribuzione dell’Expo affermando una cosa sacrosanta: Roma non può far pagare il suo cronico ritardo infrastrutturale ad altri.
La grande differenza tra le candidature italiane e quelle di altri paesi, anche europei, in queste “competizioni” è che questi ultimi nei loro dossier indicano anche le opere pubbliche o di uso pubblico realizzate o in corso di realizzazione, che supporteranno quindi l’arrivo di tanti visitatori mentre le città italiane aspettano l’evento, se arriva, per farle perché sono state incapaci di realizzare prima con i canali di finanziamento ordinari.

Parigi, quando perse la competizione con Londra per le olimpiadi, il giorno dopo avviò la rigenerazione urbana del quartiere di Batignolles che doveva ospitare il villaggio olimpico e che oggi è vivo e ben funzionante, con un bellissimo parco usatissimo dai parigini.
A Roma con l’Expo si volevano sanare delle ferite come le vele incompiute di Calatrava, un progetto già nato vecchio, il cui cantiere è fermo dal 2009.

Riad si è dunque aggiudicata l’Expo e Fuksas è tra i progettisti di Neom Line, simbolo del rinascimento saudita (di renziana memoria). Infatti l’architetto in questa intervista cita la città lineare come esempio di visione di futuro.

Probabilmente la ricca parcella pagata dalle società controllate dallo Sceicco Mohammad bin Salman fa dimenticare all’architetto romano che Neom è una città sanguinaria, perché diversi membri delle comunità locali che si erano opposte al progetto che li espropriava delle proprie terre, sono stati condannati a morte per terrorismo ed quindi uccisi.

Fuksas dimentica anche che il sogno green di una città di acqua, vegetazione e piste da sci (dove forse un giorno, chissà, si faranno le olimpiadi invernali) costruita nel deserto saudita. dentro due edifici paralleli lunghi 170 km, è un sogno per ricchi costruito da poveri migranti (come è successo a Dubai o nel Qatar) che arricchirà molte società e professionisti occidentali, come Webuild, e che ponendosi come enclave ecosostenibile diventerà una città abitata da ricchi, accentuando quindi le disuguaglianze con chi non lo è.

NEOM LINE – The Line, la città utopica verticale nel golfo di Aquaba, lunga 170 chilometri, larga 200 metri e alta 500.

Le diseguaglianze. Sappiamo (anche se molti il problema non se lo pongono) che queste costituiscono la faccia sociale della crisi climatica ambientale e che se questa crisi non l’affrontiamo associando questi due aspetti – diseguaglianze e crisi climatica –  il futuro potrebbe diventare ancora più distopico di quello che già.
Associando tale riflessione alle vicende dell’Expo, una riflessione che in prima battuta irrita e subito dopo induce alcune riflessioni è quella del presidente del presidente del comitato promotore Roma Expo 2030 l’ambasciatore Giampiero Massolo: “Si è votato per il mercantilismo, la diplomazia transazionale anziche’ transnazionale”, mentre l’ex Sindaco Virginia Raggi, presidente della commissione per l’Expo del Campidoglio, aveva parlato dell’Arabia Saudita come un regime che calpesta i diritti umani.

Queste affermazioni sono indicative dell’ipocrisia dei nostri apparati di governo locali e globali.

Che i Paesi del Golfo siano delle dittature sanguinarie lo sappiano da sempre, quotidiani seri come The Guardian o Le Monde gli hanno dedicato dossier molto approfonditi, così come numerosi ricercatori ne hanno studiato le politiche e gli apparati repressivi.

Il problema è più drammatico ed è nostro. Le nostre democrazie occidentali hanno delegato il futuro del mondo a questi paesi autocratici e sanguinari che controllano il mercato dell’energia fossile, dell’innovazione tecnologica e smart e ci propongono sogni green, certamente non per tutti, attraverso le immagini di un futuro tecno-ecologico che nasconde o elimina i conflitti e le disuguaglianze, alimentando con la nostra complicità delle gigantesche operazioni di greenwashing urbanistico.

Questi paesi dittatoriali stanno modificando gli equilibri e i baricentri del potere mondiale, politico e finanziario, è il loro approccio è certamente “mercantile”, come afferma Giampiero Massolo, ma forse doveva accorgersene e dichiararlo prima, visto che la squadra di calcio della Roma, di proprietà americana, che indentifica nel mondo del calcio la nostra capitale, concorrente di Riad nella gara dell’Expo, ha scelto come sponsor Ryadh Season per un valore di 8 milioni di euro a stagione.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore.

LORO CONTINUERANNO A ODIARE, NOI AD AMARE:
la risposta di Mediterranea al fango di Panorama e La Verità

Loro continueranno a odiare, noi ad amare
Mediterranea Saving Humans risponde alle illazioni di “Panorama” e “La Verità”

Un’operazione volgare e vergognosa, con uso diffamatorio e offensivo di menzogne, viene messa in atto oggi contro Mediterranea e alcuni nostri compagni, da Panorama“, da La Verità e dal loro direttore Maurizio Belpietro. Abbiamo già dato mandato allə nostrə legali di procedere legalmente per denunciare i responsabili innanzi alle competenti autorità giudiziarie.

Ma è importante capire come funziona questo dispositivo, ben oliato, di attacco a chi sostiene il soccorso civile, in questo caso alla Chiesa di Papa Francesco. Vi sono apparati nel nostro paese che hanno accesso a intercettazioni di conversazioni e mail personali i cui contenuti sono tutelati dal segreto d’indagine, se parte di inchieste della magistratura. Quante volte abbiamo sentito strillare, dalle stesse pagine da cui oggi parte l’operazione di menzogna mediatica contro di noi, allo “scandalo dei processi a mezzo stampa”?

Oggi quello che vedete su “Panorama” e “La Verità” è un processo a mezzo stampa. Senza giudicə, senza tribunali, senza avvocatə, senza contraddittorio, in pieno modello inquisizione: i signori che firmano questa porcheria, si ergono al di sopra di ogni legge e strisciano molto al di sotto di ogni decenza. L’articolo, la copertina, ogni parola scritta, ha un unico obiettivo: screditare le persone e i movimenti che sostengono le loro lotte, intimidire, lanciare un messaggio in stile mafioso: vi colpiremo, voi e tutti coloro che osano sostenervi.

La tecnica è sempre la stessa: sono state prese frasi estrapolate da intercettazioni e sono state rimontate ad arte, in modo da costruire il “mostro” e poterlo sbattere in prima pagina. Sono state scritte menzogne e falsità, come ovviamente dimostreremo davanti a unə giudice. Sono state tirate in ballo persone a noi molto care, come Papa Francesco, che non ci ha mai abbandonato in questi anni in cui abbiamo osato disobbedire all’odio e all’indifferenza verso i nostri fratelli e sorelle che muoiono a migliaia nei lager libici finanziati dall’Italia, o in mare a causa della voluta omissione di soccorso, in questa nuova e atroce guerra contro l’umanità.

Nessunə di noi si è mai arricchito, anzi, ma questo è facile da riscontrare. Come è facilmente dimostrabile, – i bilanci della nostra associazione sono pubblici e consultabili il 90 per cento di ogni singolo centesimo raccolto va alle missioni e non a persone. Il rimanente dieci per cento serve a fare funzionare un’associazione che ha migliaia di sociə, oltre 40 gruppi locali, che si sta espandendo in Europa. Questo dà estremo fastidio a chi ha costruito la sua fortuna spargendo veleni e istigando da sempre all’odio razziale.

Soccorrere l’altro, praticare la solidarietà verso chi è respintə, violentatə, discriminatə, annientatə e distruttə nell’umanità con le violenze, le sevizie e le torture è diventato pericoloso. Non abbiamo mai avuto paura dei tribunali, dei processi, delle inchieste, alle quali noi non ci sottraiamo usando una immunità parlamentare che non abbiamo e non vogliamo. La lunga sequenza di assoluzioni che abbiamo collezionato, in merito ad accuse che ci sono sempre state rivolte con l’intento di fermarci, parla da sola. Ma non è questo il problema.

Un apparato del genere, formato da funzionariə pubblicə che utilizzano soldi pubblici per intercettare e pedinare per anni, per poi fornire a pennivendoli compiaciuti materia per organizzare un processo a mezzo stampa, è un problema serio, che mina le basi della democrazia e delle nostre libertà costituzionali.

Quando il lavoro di funzionariə di Polizia, servizi e Guardia di Finanza viene messo al servizio non della Costituzione, ma degli interessi dei Governi, è un problema per la democrazia. Quando si usano i contributi pubblici per l’editoria, pagati con le tasse dellə cittadinə, per scrivere falsità e colpire la dignità delle persone, è un problema. Per la democrazia. Le menzogne verranno certamente monetizzate, la diffamazione anche.

Chi è attaccato da quanto scritto, come Papa Francesco, ha la solidarietà e la fraternità nostra e di moltitudini di persone in ogni parte del pianeta, e di certo non ha paura.

Noi persevereremo, continueremo a fare quello che non vogliono che facciamo, soccorrere ed essere salvatə dall’orrore che ci circonda.

Loro continueranno ad odiare, noi ad amare.

Bologna, 29 novembre

CONSIGLIO DIRETTIVO DI MEDITERRANEA

INCONTRO PUBBLICO SUGLI IMPIANTI BIOGAS-BIOMETANO
Sabato 2 dicembre, 9,30 -13.00, nella Saletta del Campo Sportivo di Villanova (FE)

INCONTRO PUBBLICO SUGLI IMPIANTI BIOGAS-BIOMETANO NEL NOSTRO TERRITORIO
Sabato 2 dicembre, dalle 9,30 alle 13.00 nella Saletta del Campo Sportivo di Villanova (FE)

Il prossimo 2 dicembre i Gruppi di cittadini NobiometaNo di Villanova, i Comitati di Tresignana, Bondeno e Masi Torello, assieme alla Rete Giustizia Climatica di Ferrara, organizzano un incontro pubblico sul tema degli impianti di biogas e biometano, presenti in maniera massiccia nella nostra provincia e soggetti a possibili modificazioni produttive conseguenti a cambiamenti normativi.

Vogliamo discutere delle scelte che vengono presentate come positive per la transizione ecologica, ma che, in realtà, vengono fatte solo grazie ai forti incentivi pubblici e unicamente per produrre profitti, mettendo da parte i gravi problemi di impatto ambientale e sanitario che gli impianti di biogas e biometano comportano.

 

La Funzione Pubblica? Non c’è più.

La Funzione Pubblica? Non c’è più

 In un recente documento la campagna Ero Straniero ha denunciato che al 21 settembre scorso dalla prefettura di Roma erano state esaminate solo la metà del totale (il 54,97%) delle 17.371 domande presentate con la sanatoria 2020 e che le pratiche definite da gennaio ad aprile 2023 sono state solo 88, sottolineando che nel 2023 la prefettura ha perso 14 unità di personale, pari al 44% della forza lavoro che nel 2022 si occupava delle pratiche.

Stessa situazione a  Milano dove delle 26.225 domande di emersione ricevute dalla prefettura, al 21 luglio 2023 erano definite solo il 59,21% del totale. E anche per la prefettura di Milano, la causa principale dei tempi lunghissimi e dei ritardi nella definizione della procedura è la carenza di personale.

Sono i servizi per l’immigrazione in generale, e quindi questure, prefetture, ma anche commissioni territoriali per l’asilo e ispettorati territoriali per il lavoro, che fanno capo al Ministero per il lavoro e le politiche sociali, ad essere fortemente in affanno, con gravi ripercussioni sulla vite delle persone: basti pensare alla difficoltà di affittare un’abitazione avendo in mano, non il permesso di soggiorno, ma un semplice ricevuta che attesta di averlo richiesto.

Anche le procedure di ricongiungimento familiare scontano questa esasperante lentezza, per non parlare delle richieste di asilo e delle file interminabili dalle prime luci dell’alba agli sportelli delle questure di tutt’Italia.

Ma la fine della “Funzione Pubblica” investe ormai ogni settore della Pubblica Amministrazione. I cittadini che hanno la necessità di rinnovare il passaporto da tempo stanno sperimentando interminabili attese, fino a otto nei casi più critici.

Per non parlare di ciò che accade in sanità con le liste d’attesa o con i servizi del  pronto soccorso. E ovviamente ad una “Funzione Pubblica”, che va scomparendo, corrisponde un massiccio rafforzamento del privato.

La Fondazione GIMBE ha sottolineato che il testo della Manovra Meloni indica un incremento rispetto alla spesa consuntivata nel 2011 dell’1% per il 2024, del 3% per il 2025 e del 4% a decorrere dal 2026 per l’acquisto dal privato di prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e di assistenza ospedaliera dal privato accreditato.

La Relazione Tecnica riporta che, sulla base dei dati di Conto Economico delle Regioni, l’onere per il 2024 è pari a circa € 123 milioni di euro, per il 2025 è pari a € 368 milioni e quello a regime a partire dal 2026 è pari a € 490 milioni.

“Se formalmente inserita tra le misure per l’abbattimento delle liste di attesa – precisa Cartabellotta – questa disposizione appare finalizzata a sostenere le strutture private accreditate già esistenti per due ragioni. Innanzitutto, perché a differenza dell’incremento della tariffa oraria delle prestazioni aggiuntive (art. 42) che cessano nel 2026, rimane in vigore anche per gli anni successivi, ovvero diventa strutturale. In secondo luogo, perché avendo come riferimento il consuntivo 2011 delle Regioni, gli incrementi del tetto di spesa sono proporzionali a quanto ciascuna Regione ha speso 12 anni fa».

A partire dal 2026, la Lombardia potrà spendere per il privato accreditato oltre € 3,3 miliardi; a seguire Lazio (€ 1,7 miliardi), Campania (€ 1,4 miliardi) e Sicilia (€ 1,2 miliardi).  [vedi qui]

Per non parlare degli affanni dei nostro Comuni, spesso costretti ad esternalizzare addirittura i servizi anagrafici, dopo aver dato nelle mani dei privati rifiuti, acqua, servizi sociali, manutenzione del verde, tributi e quant’altro. Comuni penalizzati anche dall’attuale manovra delle destre.

Scrive la campagna Ero Straniero: “La pubblica amministrazione, in ogni suo comparto, versa da anni in una situazione allarmante: la maggior parte dei servizi pubblici soffre di una cronica e crescente carenza di personale. Che si tratti di medici o infermieri, di personale scolastico, di agenti di pubblica sicurezza o funzionari delle prefetture e degli uffici comunali, il concetto di fondo non cambia: semplicemente non ci sono abbastanza persone addette allo svolgimento dei compiti connessi con l’esercizio del potere statale.

Questo non determina solo inaccettabili disservizi a spese di tutta la cittadinanza, persone italiane e straniere insieme. La questione si fa più profonda nella misura in cui tali disservizi si tramutano in un’erosione costante dei diritti dei cittadini e delle cittadine, e arrivano a mettere in discussione lo stesso contratto sociale su cui si fonda lo stato moderno: come giustificare il pagamento delle imposte, se i servizi in teoria sostenuti dal gettito fiscale – pubblici, appunto – non sono più in grado di rispondere ai bisogni della collettività?

D’altronde, il “buon andamento” dell’amministrazione, così come la sua imparzialità, sono obiettivi sanciti dall’art. 97 della nostra Costituzione, e ripresi da numerose leggi dello stato, tra cui la legge 241/90 14 e il decreto legislativo 150/2009”:

E la situazione è destinata a peggiorare: secondo l’Osservatorio sul pubblico impiego di INPS nella PA da qui al 2030 oltre 700.000 persone andranno in pensione nelle amministrazioni pubbliche (esclusa istruzione e ricerca), 120.000 nelle funzioni centrali, 220.000 negli enti locali, 240.000 nella sanità, 140.000 tra il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso e nel comparto autonomo. Per mettere in sicurezza la Funzione Pubblica occorre un piano straordinario pluriennale di assunzioni per 1.200.000.

Ma per le destre a guida Meloni la priorità, o meglio la madre di tutte le riforme, non è intervenire per evitare il collasso definitivo della nostra Pubblica Amministrazione, ma la verticalizzazione del processo decisionale e il premierato. Anche se poi la “Capa” o “il “Capo” non avrà più nessuno per dare attuazione ai suoi comandi.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Caprio su Periscopio clicca sul nome dell’autore

1 dicembre: Ferrara Film Festival a Roma per “Il Vitti”

Il 1° dicembre a Roma verrà consegnato “Il Vitti”, premio in memoria di Monica Vitti. Il Ferrara Film Festival tra i protagonisti dell’evento, scelto per patrocinare il Premio. 

“Il Vitti” è l’unico premio ufficiale che dispone dell’avvallo di Roberto Russo, marito della signora Vitti. Si tratta di un riconoscimento al talento, all’arte cinematografica, teatrale e televisiva, dedicato alla musa di Michelangelo Antonioni, compagna di avventure di Alberto Sordi, Autrice e Regista.

Il Premio, promosso da Emy Show Group, nelle persone di Guido Faro ed Eleonora Canuti, ha anche una forte matrice culturale e sociale, accompagnato da un messaggio a sostegno della figura della donna in ambito lavorativo.

La cerimonia di consegna si terrà venerdì 1° dicembre presso gli ex Studios Ponti-De Laurentis a Roma, ora in parte sede dell’Istituto Tecnico Cine-TV Roberto Rossellini, tempio del Cinema ancora pienamente conservato che ha ospitato grandi del Cinema come Totò e Vittorio De Sica.

l collegamento con Ferrara e il Ferrara Film Festival

Monica Vitti deve buona parte della sua carriera a Michelangelo Antonioni, il Maestro l’ha scoperta e lanciata come stella sin dal primo film che girarono insieme (“L’Avventura”, 1960, suo primo ruolo da protagonista) oltre ad aver vissuto un’intensa storia d’amore, i due hanno girato 4 film di enorme successo tra il 1960 e il 1964, e un film-TV per la RAI nel 1980.

Maximilian Law e Il Vitti

Anche il Ferrara Film Festival sarà tra i protagonisti dell’evento. Ci sarà infatti spazio per un’introduzione dedicata al Maestro Antonioni, curata dal Direttore del Festival Maximilian Law, che presenzierà alla cerimonia di consegna de “Il Vitti”, assieme ad altri e ospiti d’eccezione, fra i premiati: Gabriele Muccino, Laura Chiatti, Leo Gullotta, Massimo Lopez, Lina Sastri, Stefano Fresi, Vera Gemma, Francesco Pannofino, Massimiliano Bruno e molti altri.

Parole a capo
“Il cammino delle donne”: poesie dell’Associazione Ultimo Rosso

Sabato 25 novembre, al Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, in occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, il coro SonArte e l’Associazione Culturale Ultimo Rosso hanno presentato “Il Cammino delle Donne – Canto e Poesia”. Pubblichiamo di seguito le poesie lette all’evento da un gruppo di poetesse di Ultimo Rosso.

L’amore vero non umilia, non delude, non calpesta, non tradisce e non ferisce il cuore. L’amore vero non urla, non picchia, non uccide.
(Gino Cecchettin)

Continuo a morire (di Rita Bonetti)

Mi ritrovo a gridare sotto il cielo
nell’ombra che mortifica ogni cosa
non sono abbracci
le raffiche che mi sferzano la schiena

un grido nel grembo
in bocca
l’amaro di astio e sconfitte

non so quando
se ieri o più di un anno fa
ho schiacciato i ricordi
sotto le costole

e senza aspettare risposta
continuo a morire.

 

Eppure c’è (di Anna Rita Boccafogli)

una forza irriducibile
che si vuole soffocare
dove la paura rende
la libertà
privilegio di pochi
esercizio di potere

nutrito di sopraffazione
controllo sulla vita
sulla gioia e sull’essere
sulla dignità e l’autodeterminazione.

Eppure esiste
una forza irriducibile
pur strozzata
da argini e dighe
costretta in flussi carsici
disconosciuta o negata
nella rassegnazione o nel cinismo
nell’abdicazione nichilista
della rinuncia e della resa.

Ma pulsa
questa forza irriducibile
sussurra nel silenzio
incrina certezze
pone domande scomode
raggiunge punti di non ritorno
prorompe come onde
impetuose
grida il diritto alla vita
ai colori, alla musica, ai capelli al vento.
Se tutto è collegato nella rete della vita,
non esiste libertà se non è per tutti.

 

Una vita (di Chiara Scaglianti)

Disegnare sull’asfalto
una vita che ha perso quota cadendo dall’alto
su un prato disseminato di ordigni
celati da fiori di lacrime pregni.
Blocchi di marmo tra i pensieri
le paure di oggi sono i ricordi di ieri
di un silenzio isolato
tra bisogni ignari in un corpo celato.

A piedi nudi nel selciato
l’ignara sapienza travestita da opulenza
si dilegua senza sosta
dove i sogni sono fuori rotta.

E’ salvezza senza lutto
è ebbrezza senza ardore
è una luce senza timore
che nell’aria muove al sole.
E’ avorio senza valore
ma che vale più dell’immenso amore
di una madre che culla un figlio
e muove i passi nel suo regno.

Libera è questa voce che ha trovato le parole
rompendo gli argini di storie morte
ha raccolto le gioie
di un tempo nuovo che è il perdono.

Brilla, brilla
l’atteso ritorno di una vita che sembrava vuota
si muove veloce come ruota
di un carro che trasporta la speranza.
E avanza
coltivando le sue radici
fiore all’occhiello di un giardino
che ha accolto il sorriso di un bambino.

 

Le madri benedicono (di Cecilia Bolzani)

Questi volti seri
avvolti da teli termici
sono figli e figlie

Le loro madri
li hanno visti partire
soffrendo e sperando

col cuore spezzato
con una preghiera
con un talismano

una lunga via verso nord
poi il deserto
poi il mare

poi… le onde
alte, su questo guscio
aiuto, madre aiuto

giovani vecchie donne
a lavorare
a cucinare
con la mente a nord

il cuore lo dice
il cuore lo sa
se il pericolo è superato

aspettando
una chiamata
mamma sono a nord

figlia hai mangiato
dove dormi
ti rispettano
figlia….

Ringrazia chi ti accoglie
pregherò per loro
ringrazia per me
tua madre li benedice.

 

Un passo alla volta (di Maria Mancino “Maggie”)

Ho un profumo di infanzia sulla pelle
e gocce di ricordi dentro occhi
ho terra tra le mani
e margherite tra i capelli
ho un vestito sul fondo rammendato
e scarpe di tela consumate
ma i miei piedi sono scalzi
e sui sassi san ballare
i miei piedi fanno passi uno alla volta
nell’incerto mio cammino
sulle spine e in mezzo ai rovi
tra le primule e le viole
Principessa senza anni senza anni
dalla sua fragilità nasce la donna
come il grano tra le zolle
come un fiore tra la crepa
come il sole quando è giorno
Ho un profumo di donna sulla pelle
e coraggio conquistato non so quando
ho storie scritte con il sangue
e ricordi conservati dentro al petto
Ho strade attraversate nella notte
e sentieri percorsi ad occhi aperti
ho un mazzo di rose di rimpetto
e spine senza punta tra le mani
Ho un abito di seta nell’armadio
e scarpe nuove da indossare
ma i miei piedi sono scalzi
i miei piedi come suole
fanno passi uno alla volta

 

Donne della mia storia (di Marta Casadei)

Mi domando
se ho fatto la mia parte
se la mia anima un poco vi somiglia
adesso che mi guardo nello specchio
e mi vedo una di voi
donne della mia storia antiche rocce
brunite
come la terra
madre
che avete custodito
con lavoro paziente
e a voi ha affidato
i segreti della vita.
Donne
dalla dura pelle
solcata dagli anni
dai sorrisi rari
preziosi come perle
voi che siete passate
silenziose
come le vostre madri
e le loro madri
e tutte le generazioni
di donne
che hanno salvato il mondo.

Cover: ROBERTA BARBIERI, CECILIA BOLZANI, CHIARA SCAGLIANTI, tre poetesse di Ultimo Rosso tra le protagoniste dell’ evento del 25 novembre.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

“GUIDO HARARI, SGUARDI RANDAGI”, il nuovo documentario di Daniele Cini.
Domani alla Fabbrica del Vapore di Milano e Venerdì 1 dicembre alla 16,20 in onda su RAI 3

“GUIDO HARARI, SGUARDI RANDAGI”, il nuovo documentario di Daniele Cini, viene proiettato domani, 30 novembre alle ore 19,00, alla Fabbrica del Vapore di Milano. Venerdì 1 dicembre alle 16,20 in onda su RAI 3.

GIOVEDI’ 30 NOVEMBRE  alle 19,00 alla Fabbrica del Vapore di Milano
VENERDI 1 DICEMBRE alle 16.20 in onda su RAI TRE
PROIEZIONE DEL DOCUMENTARIO “GUIDO HARARI, SGUARDI RANDAGI”
da un’idea di Claudia Pampinella e Daniele Cini

Regia Daniele Cini
Fotografia Fabio Catalano
Montaggio Domenico De Orsi
Musiche Rocco De Rosa
Produzione Gianluca De AngelisTEKLA film per RAI DOCUMENTARI

A chiunque venga in mente un’immagine iconica di Lou Reed o David Bowie, di Frank Zappa o Kate Bush, o degli italiani Giorgio Gaber, Fabrizio de André, Vasco Rossi e Gianna Nannini, con ogni probabilità sta pensando a una fotografia di Guido Harari.

Raccontare attraverso i suoi ritratti, la straordinaria rivoluzione musicale di fine novecento, dalla musica leggera degli anni ’60 alla beat generation, dalla stagione dei cantautori al rock internazionale, dal punk al pop degli anni ’80, passando per le varie esperienze di avanguardia, espandendosi in tutte le espressioni della cultura anche oltre la musica, è la materia viva del nostro documentario.

E il percorso che intreccia la sua vita in un rapporto intimo con i personaggi che ha fotografato, è la traccia intorno a cui si sviluppano aneddoti, immagini inedite, spunti drammaturgici inattesi, legati dall’appassionante avventura umana di un ragazzo che, cominciando a inseguire da semplice fan le tournée dei suoi miti musicali, è diventato poi l’interprete, come ha detto l’amico Lou Reed, del “suono dell’anima di chi viene ritratto”

Tutte i ritrattiche illustrano il testo sono del grande fotografo Guido Harari a cui va il nostro grazie. In copertina Guido Harari con il suo amico Lou Reed.

Sotto il segno del Sogno:
parte la VII edizione del Ferrara Music Film Festival

Fra scuole, Sala Estense e Teatro Nuovo inizia oggi la VII edizione del Ferrara Music Film Festival, il festival delle colonne sonore. Tema: il sogno.

“Se puoi sognarlo, puoi farlo”, diceva il grande Walt Disney. Ed è proprio il #sogno il tema della VII edizione del Festival delle colonne sonore in programma a Ferrara dal 29 novembre al 2 dicembre. La relazione tra “sogno” e “Cinema” esiste da quando gli uomini sognano, assistendo quasi sempre inconsapevoli alle immagini che la notte crea per loro. Una chiave di lettura di desideri, rivalse, opportunità, che valorizzino creatività giovanile e nuovi talenti che si mettono in gioco in prima persona.

Il programma dell’evento, supervisionato dal direttore artistico Edoardo Boselli, è molto ricco, in un’edizione che migliora ogni anno. I giovani, le scuole e la formazione sono le parole d’ordine. La base di una società sana. Le scuole ferraresi coinvolte sono il Liceo Ariosto, la scuola Einaudi, il Liceo Carducci, il progetto è il “Musicfilm@School”.

Si inizia oggi, 29 novembre, con un incontro riservato alle scuole animato da Marco Leonetti, Responsabile Cineteca di Rimini e Museo Fellini, dal titolo “Fellini Museum, I sogni che prendono forma”. Sogni e ricordi sono la fonte primaria dell’ispirazione e anche la materia stessa del cinema di Federico Fellini. Tra le tante riflessioni raccolte da Fellini nel suo libro “Sul cinema”, una riguarda il valore che hanno per lui i sogni e i ricordi, una presenza costante nel suo cinema che risente dell’influenza avuta sul regista.

Fellini Museum

Per Fellini il cinema non deve registrare una realtà preesistente ma deve crearne una nuova in modo da far concorrenza al padreterno e questo è possibile soltanto con la fantasia e l’immaginazione da lui considerate il più alto livello di intelligenza. Così nasce, nel 2020, il Fellini Museum a Rimini, uno spazio di creatività nel segno della visionarietà felliniana nel cinema. Perché quella tra Fellini e Rimini è una storia d’amore bellissima ed eterna, e merita di essere celebrata.

Leonetti farà conoscere agli studenti del territorio, attraverso immagini, video e racconti, un’esperienza che si snoda nei luoghi del cuore cittadino attraverso un dialogo continuo tra spazi interni ed esterni ed esperienze immersive nelle quali le persone sono invitate a catapultarsi per accedere al mondo magico e visionario del regista.

Seguirà poi  la masterclass di regia e musica, con il regista Massimiliano Bruno, volta ad approfondire il rapporto “emozionale” tra musica e immagini che verrà svelato, raccontato, approfondito attraverso gli occhi del regista. Verranno presentati i possibili intrecci che legano narrazione filmica e narrazione sonora senza lasciar fuori strumenti e temi che appartengono potentemente al mondo della musica e della traccia sonora. Un’occasione speciale anche per parlare di regia con uno dei registi italiani contemporanei della commedia.

Massimiliano Bruno, foto Ansa

Altro appuntamento interessante, sempre dedicato alle scuole, quello di giovedì 30 novembre, con Stefano Muroni: “Il sogno di Ferrara la città del cinema”.

Stefano Muroni, foto Scuola Vancini

Immaginare una città del cinema e della bellezza, dove i sogni prendono forma, nella terra che ha visto il talento di Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Folco Quilici, Carlo Rambaldi e tanti altri protagonisti del grande schermo è la ‘visione’ di Muroni, attore, produttore, scrittore e soprattutto giovane imprenditore della creatività che negli ultimi anni si è fatto conoscere e apprezzare per i suoi progetti luminosi e la capacità di ‘costruire le fondamenta’ ai suoi sogni.

Questo incontro vuole prendere per mano le nuove generazioni, informarle e formarle verso il mondo di un lavoro fantastico, di una crescita di un’impresa creativa, com’è il mondo dell’arte del cinema, con rinnovati stimoli di curiosità, entusiasmo e opportunità valorizzando la cultura ferrarese fortemente presente nella nostra regione. Dalla Scuola d’Arte Cinematografica Florestano Vancini alla Fondazione Carlo Rambaldi, dalla Tenda Summer School fino al Ferrara Film Corto Festival.

Altra masterclass sarà tenuta il 2 dicembre, da Roberto Giacomo Pischiutta, in arte Pivio, che ha composto oltre 200 colonne sonore per il mondo cinematografico e televisivo. Durante l’appuntamento gli studenti approfondiranno il rapporto fra musica e immagine, oltre alle figure di compositore e regista.

Roberto Giacomo Pischiutta, foto Corriere Roma

Il 1° dicembre alle 21, al teatro Sala Estense, 20 semifinalisti si contenderanno, con le loro esibizioni di canto e doppiaggio, il posto nella finalissima del 2 dicembre al Teatro Nuovo di Ferrara.

All’interno della manifestazione è presente, infatti, il MusicFilm Awards, un premio curato dall’Associazione Musicfilm in collaborazione con il Teatro Nuovo di Ferrara, l’Accademia Nazionale del Cinema, e sotto il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara e del Giffoni Film Festival.

Partecipanti al Music Festival

La nascita di questo concorso intende premiare i giovani aspiranti attori, cantanti o doppiatori, talenti emergenti, e avvicinare il pubblico al mondo delle voci oltre il buio, ponendo l’attenzione sulla complessità e il fascino del mestiere del doppiaggio e del canto. Due sono quindi le categorie, quelle del doppiaggio e del canto.

La categoria “doppiaggio” è aperta ad attori/attrici solisti maggiorenni, che dovranno esibirsi in performance esclusivamente doppiate, attingendo dal repertorio cinematografico. Gli artisti di questa categoria dovranno dare importanza alla voce, all’interpretazione e alla capacità di avvicinarsi quanto più possibile al personaggio.

La categoria “canto” è, invece, aperta a cantanti solisti maggiorenni che dovranno esibirsi in performance esclusivamente cantate. I cantanti dovranno attingere dal repertorio delle colonne sonore del cinema. Gli artisti di questa categoria dovranno dare molta importanza alla voce e all’interpretazione.

In ogni categoria sarà premiato il primo classificato con i premi dell’evento, rappresentanti da borse di studio e da formazione di alto livello, come lezioni di doppiaggio e canto, oltre che l’accesso nella giuria +18 del Giffoni Film Festival 2024 che comprende la partecipazione alle masterclass e incontri cinematografici.

Appuntamento, infine, a sabato 2 dicembre alle ore 21 presso il Teatro Nuovo di Ferrara, per lo spettacolo di chiusura della VII edizione del Festival, con La La Land, La Febbre del sabato sera, Moulin Rouge e Pretty Woman, insomma con le più belle colonne sonore dei musical capaci di portare il sogno del grande schermo sul palco del Teatro Nuovo. La Ferrara Film Orchestra e un grande corpo di ballo celebreranno le più belle musiche da film. Lo spettacolo non sarò solo un concerto, ma uno show a 360° dove anche i finalisti del Musicfilm Awards si esibiranno per ricevere l’ambito premio. Ospiti d’onore Giò Di Tonno e Caterina Guzzanti, per la regia di Roberta Pazi. Parte del ricavato sarà devoluto in beneficenza alla Fondazione Telethon per sostenere la ricerca contro le malattie genetiche. Ci saremo.

Per un’intervista su Radio Sound al direttore artistico del Festival Edoardo Boselli e alla regista Roberta Pazi

Immaginario / Deregulation

Deregulation

L’immagine merita di essere vista tutta intera. E meditata.

Nelle chat ferraresi sta girando uno splendida foto realizzata domenica scorsa davanti alla Cattedrale di Ferrara. Per chi ha la fortuna di non abitare nella città emiliana caduta 4 anni fa sotto il governo cialtrone della destra leghista, occorre specificare che quel luogo è  “il centro del centro storico” di Ferrara, l’ombelico simbolico, sociale e politico dell’urbe.

Insomma, non stiamo parlando di una location qualsiasi, ” un buco” dove parcheggiare l’auto per andare a prendersi un caffè. E infatti, in quasi tutte le 100 città d’Italia, il centro storico è stato pedonalizzato, severamente vietato ai motori e ai tubi di scappamento: Ferrara è stata tra le prime a istituire l’area pedonale, alcuni decenni fa.

Bisognerebbe, sarebbe bello … si dice da anni, ma nessun governo cittadino si è mai impegnato seriamente a realizzarlo: estendere l’area pedonale a tutta la Ferrara dentro le Mura. Cavolo, sarebbe un sogno! (Una figata, direbbe mia figlia)
Purtroppo, grazie all’attuale governo cialtrone di cui sopra, è successo il contrario. Ormai l’area pedonale esiste solo sulla carta. Per le vie e le piazze del centro, a tutte le ore, è un continuo passaggio di auto, furgoni e camioncini. Ovunque macchine parcheggiate per ore e ore.

Si è formato da tempo un sacrosanto Comitato per liberare il Centro Storico dalle auto. I bravi cittadini cercano di farsi sentire. Nessuno li ascolta.

Il Sindaco Fabbri ha visto certamente quell’enorme mastodonte parcheggiato – il Municipio sta proprio di fronte alla Cattedrale – ma l’area pedonale, l’inquinamento, i pedoni e le biciclette non sono un suo problema. Deve autorizzare in deroga la costruzione di un ennesimo supermercato. O, ci scommetto, sta pensando di regalare al volgo un altro concerto devastante come quello di Bruce Springsteen.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

CHI E’ PIU’ FORTE DE LOLLO ER ROMANO?

CHI E’ PIU’ FORTE DE LOLLO ER ROMANO?
(Con il tacito assenso di Gianni Rodari)

Chi è più forte de Lollo er romano?
Ferma er treno con una mano.
Con un dito, calmo e sereno,
tiene indietro un autotreno:
cento motori scalpitanti
li mette a cuccia alzando i guanti.
Sempre in tv in mezzo ai cronisti
le spara peggio de tronisti.
Fa magnà er povero
pe’ davero
come ‘n sultano,
‘sto Lollo romano.
Chi è più fortunato
de Lollo er cognato?
“A morè, nun scherzà che me pijano i brividi
e poi nun so romano, ma de Tivoli…”

Se i ricchi inquinano, non pagano le tasse e non contribuiscono alla comunità

Uno dei tratti della nostra epoca è che ricchi e super ricchi non pagano più (o pagano pochissimo) le imposte e se ne fregano delle comunità dove vivono (grazie alla globalizzazione e alle comunità nomadi a cui appartengono). Anche i top tennisti (come Sinner) prendono tutti residenza a Montecarlo per non pagare le tasse. Oxfam ha presentato uno studio in cui calcola che l’1% dei più ricchi (80mila persone) inquina (CO2) come 5 miliardi di abitanti.

Lo stesso 1% dei più ricchi è passato in quasi tutti i paesi occidentali a possedere dal 10% al 20% della ricchezza negli ultimi 30 anni.
Lo scrive anche il professor Guido Alfani (Bocconi, As Gods Among Men: A History of the Rich in the West, il suo prossimo libro) sul New York Times, mostrando come in passato invece i ricchi avevano sempre contribuito alle loro comunità. Venezia dopo la peste del 1630 impose un prestito forzoso ai più ricchi, gli Stati Uniti imposero i “liberty bond” nel 1917-18 per finanziare la guerra e ancora negli anni ’50 le aliquote marginali della tassazione progressiva erano al 90%, secondo il principio che chi guadagna di più deve aiutare la comunità. Un principio che sta scomparendo e ciò porta (dice Alfani) ad una crescente instabilità, alla crisi della democrazia le cui conseguenze sono ignote e pericolose.

Anche i salari dei lavoratori hanno cominciato dagli anni ’80 a divergere. Se infatti nei primi 30 anni del dopoguerra crescevano in modo simile per tutti (dai laureati ai non qualificati) ad un tasso medio del 2/2,5% reale annuo nella più potente economia mondiale (Usa, ma anche in Italia), a partire dagli anni ’80 è iniziata la divergenza. I salari più alti (laureati) hanno continuato a crescere, mente tutti gli altri a calare.

L’aumento salariale (che riguardava tutti) aveva creato il sogno americano che richiamava ogni anno anche 400mila messicani immigrati. Questa enorme crescita salariale per tutti fu dovuta a 3 fattori:

a) la distribuzione dei profitti anche ai lavoratori;

b) una forte tassazione sui ricchi e progressività delle imposte (chi guadagnava più di 400mila dollari all’anno pagava il 90% sui redditi maggiori);

c) un uso delle innovazioni tecnologiche a vantaggio di tutti.

Questo periodo di boom economico fu contrassegnato da una forte diffusione del benessere a tutti, di crescente uguaglianza (forse l’unico periodo della storia) e di nuovi servizi come istruzione di massa, pensioni e sussidi di disoccupazione e, in Europa, salute pubblica. Sono anche gli anni in cui un gruppo di geniali giovani californiani inventa nuovi software, con l’idea che lo sviluppo digitale avrebbe prodotto il “potere al popolo”, come sognava il sociologo Ted Nelson. Un periodo in cui le innovazioni tecnologiche miglioravano effettivamente la condizione umana dei lavoratori con nuove automazioni (sostituendo le fasi di lavoro più faticose), ma che assegnavano anche nuove mansioni e quindi una formazione professionale e più alti salari (l’esatto contrario di quello che avviene oggi).

Questo “sogno” comincia a sgretolarsi a partire dagli anni ’70 e ‘80 a causa dell’affermarsi dell’idea neo-liberista di Milton Friedman (che sarà assunta da Pinochet, Thatcher, Reagan) di massimizzare i profitti, che distribuirli anche ai lavoratori è un errore e che semmai vanno dati agli azionisti che prestano il capitale. La priorità diventa automatizzare per tagliare i costi (e il personale), spostare le produzioni in Stati non sindacalizzati o all’estero e introdurre retribuzioni a incentivo per i manager e i quadri alti, a spese di chi lavora in “basso”, anche perché molti di questi lavori (pulizie, manutenzione,…) vengono esternalizzati a lavoratori che prendono ancora meno. Crescono poi part-time e contratti a termine che riducono il salario annuo.

La nuova tecnologia che viene introdotta non opera più per creare nuove mansioni e rendere più umano e qualificato il lavoro, ma per automatizzare, controllare e tagliare i costi. Ciò determina un forte aumento delle disuguaglianze salariali tra chi dirige, i quadri alti (laureati e manager) e il resto della “truppa” che comincia a vedersi ridotto il salario reale (post inflazione negli ultimi decenni).

La globalizzazione e la finanziarizzazione daranno una spinta enorme a questo fenomeno a partire dal 2000, per cui la quota nazionale di valore aggiunto che va ai lavoratori/salari scende dal 67-70% degli anni ’70 al 60%, mentre l’1% più ricco passa dal 10% della ricchezza nazionale al 20% di oggi.

La situazione è simile anche in Italia ed è mostrata da questa figura tratta da dati di Banca d’Italia (indagine 2020 sui redditi delle famiglie, vedi Daniele Checchi e Tullio Jappelli su lavoce.info) su come è variato il reddito in Italia per percentili dal 1989 al 2020. Come si vede il 40% di chi guadagna meno ha visto ridursi il suo reddito. Chi sta tra il 40% e l’80% ha visto un lievissimo incremento che diventa significativo solo oltre l’80% (il 20% dei più abbienti). Ciò spiega perché l’indice di Gini sia passato in Italia dal 25% del 1989 al 33,6% nel 2020.

Questi numeri spiegano il successo degli scioperi degli ultimi mesi in Usa, il malessere sociale profondo dagli Stati Uniti all’Argentina (che ha una inflazione del 140%), ma anche perché Trump o Milei (nuovo presidente anarco-liberista in Argentina) abbiano un seguito enorme. La gente non sa più “a che santo votarsi” e vota chi è più – all’apparenza – contro il sistema.

Gran parte dei bianchi americani, specie quelli colpiti dalle ristrutturazioni nelle periferie industriali, non ne vuole più sapere di una economia che governa il mondo ma non distribuisce la ricchezza che produce ai suoi lavoratori, come pure fece nei primi 30 anni del dopoguerra. E la gente sa che è possibile e spera di ritornare a quei tempi. Nei paesi del sud Europa le cose sono simili, anche se i paesi col salario minimo (come Francia, Spagna e Portogallo) hanno ammortizzato i colpi, ma, ovunque, chi prende meno perde salario reale (post inflazione) anno dopo anno. Ciò spiega il diffuso malessere, l’astensionismo elettorale (ormai di massa) e perché i cittadini cerchino svolte radicali (M5S, Renzi, oggi Meloni), destinate a rimanere però pie illusioni se non si ritorna, come nei primi 30 anni, a redistribuire l’enorme ricchezza che viene prodotta e ad usare la tecnologia (domani l’Intelligenza Artificiale) a vantaggio di tutti e non di una élite. Senza contropoteri (sindacati, associazioni,…) non ci sarà mai un cambiamento a favore di tutti e della parte più povera.

I nostri più autorevoli commentatori quando parlano degli Stati Uniti non parlano di questo gigantesco malessere sociale, che ha risvolti di alcolismo, droga, malattie mentali e ha portato ad una riduzione della stessa speranza di vita. E’ comprensibile: in tal modo dovrebbero parlare anche dei salari, ma forse pensando al loro ricco emolumento glissano.
Il compianto sindacalista Alberto Tridente quando fece il parlamentare decise di versare la quota eccedente il suo salario di operaio al partito, perché aveva notato che guadagnare molto gli faceva cambiare le idee.

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