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DiCoBruMa: le belle storie

Favole africane a Flora Cult

Un’antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e fuggirono spaventati. Mentre fuggiva veloce come un lampo, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione opposta. “Dove credi di andare?”, chiese il Re della foresta. “C’è un incendio, dobbiamo scappare!”. Il colibrì rispose: “vado al lago per raccogliere acqua nel becco da buttare sull’incendio”. Il leone sbottò: “sei impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio con quattro gocce d’acqua!?” Il colibrì rispose: “io faccio la mia parte”.

A ognuno, dunque, la sua parte, per quanto piccola, una parte che può contare e fare la differenza, goccia dopo goccia (per restare al colibrì e al mio motto gutta cavat lapidem).

Partendo da questa bellissima favola (d’altronde, adoriamo le favole), incontriamo, alla manifestazione romana Flora Cult (che si tiene a I Casali del Pino dal 24 al 28 aprile), chi, questa parte ha deciso di farla. Con determinazione.

È Simonetta Di Cori, fondatrice del progetto DiCoBruMa. Accoglie i visitatori da un discreto, piccolo ma coloratissimo banchetto che parla di Africa e di quelle tonalità intense che chi ha bazzicato per questo meraviglioso continente ha negli occhi e nell’anima.

Non sono solo i colori dei pittori congolesi di strada ma, oggi, sono quelli delle stoffe, di quei pagnes dai toni accesi che finiscono in opere di sartoria confezionate da mani femminili. Cosa non comune, in Africa, dove i sarti appartenenti al genere maschile sono la regola maggioritaria. In Mali, il mio preferito era Mamadou.

Le stoffe di oggi sono storie di rivalsa, di rinascita, di riscatto, di capacità di uscire dall’ombra in cui malattia, povertà e discriminazione lasciano molte donne svantaggiate.

Il progetto DiCoBruMa, che deve il suo nome ai genitori della fondatrice (Bruno e Mariella Di Cori), nasce nel dicembre 2020, in collaborazione con Bambini nel Deserto onlus, con l’obiettivo di sostenere la produzione dell’artigianato africano femminile attraverso la diffusione in Italia dei prodotti provenienti, inizialmente, da Kenya, Mozambico, Senegal, Sudan e Tanzania. A questi si sono aggiunti, nel tempo, Etiopia, Mali, Togo, Chad e Gambia. Altri ne arriveranno.

Ecco allora bellissime sgargianti tovaglie double face, realizzate in Kenya con molta cura dall’artigiana Evelyne, un’imprenditrice illuminata, una self made woman. E poi ci sono le creazioni di Epheta, dalla Tanzania, stessa determinazione. DiCoBruMa l’ha aiutata a rifare la sua casa. Con la stessa determinazione.

Altre confezioni sartoriali, come borse, zainetti, astucci e grembiuli da cucina provengono dalla collaborazione con Tuinuke na Tuendelee Mbele, “Alziamoci e Andiamo Avanti”, un’associazione di donne sieropositive che, dal 2005, si sono unite in un gruppo di mutuo aiuto, per loro stesse e altre giovani dello slum di Korogocho, a Nairobi, in Kenya.

Rosemary, foto Alberto Favero, AICS

Tuinuke nasce con Rosemary, cresciuta nella stessa Korogocho, dove, incinta, ha scoperto di essere HIV positiva, iniziando così un lungo percorso fatto di dolore fisico, a causa della malattia, ma soprattutto psicologico, perché la discriminazione, l’emarginazione e lo stigma legato al pregiudizio fanno male, quasi quanto la malattia.

Nel momento della diagnosi, la sola certezza pare la morte. Già madre di tre figli, viene esclusa da parenti e amici, isolata, al punto che pure l’accesso al bagno pubblico della baraccopoli le è precluso. Ma la forza di vivere è più forte. Ed ecco la svolta, Tuinuke.

Si uniscono a lei, Lucy ed Esther, quest’ultima oggi contabile dell’associazione, con la stessa volontà di prendere in mano il proprio destino e di non fermarsi davanti a quel muro di indifferenza e violenza sottile che la vita nello slum, se sei sieropositiva, ti mette davanti. Hanno iniziato, nelle proprie case, cucendo tessuti e realizzando collane di perline e piccolo artigianato, per stare insieme e condividere il tempo e la loro condizione. Ma hanno poi iniziato a vendere i loro prodotti e questo infonde fiducia, determinazione e voglia di fare, per cui decidono di insegnare l’arte del cucito anche ad altre ragazze e donne sieropositive, per offrire loro la stessa opportunità.

Prodotti DiCoBruMa

Oggi l’associazione è cresciuta e, oltre a produrre manufatti di cucito e oggettistica con carta riciclata, ha una sede e un laboratorio dove le donne possono incontrarsi, lavorare e progettare le attività future, una piccola realtà che, anche con il supporto della Cooperazione Italiana (AICS) e dell’ONG “No One out”, è diventata un esempio di inclusione socioeconomica e di storia di successo per l’imprenditoria femminile. L’artigianato di Tuinuke è uscito dai confini dello slum ed è arrivato a Nairobi e oltreoceano, con l’aiuto di partner e sostenitori. Perché nulla è impossibile.

Fra vocii di bambini accanto al laboratorio, passi sul marciapiedi e rumore del traffico, il suono delle operose macchine da cucire si apre al cielo e concilia calma e serenità.

Una piccola mostra degli oggetti prodotti è allestita all’entrata del laboratorio. Tutto sa di buono. Storie di donne protagoniste che osano, storie di coraggio e di rivalsa, da condividere e da raccontare. E, soprattutto, da sostenere. Facendo la nostra piccola parte.

Simonetta Di Cori, dal 1983, lavora all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). È responsabile dei progetti di cooperazione a favore dei Paesi in Via di Sviluppo nel settore statistico, ICT e modernizzazione della pubblica amministrazione. Lavora prevalentemente per i paesi africani. Ha partecipato, quale membro della delegazione ufficiale italiana a diverse Conferenze internazionali organizzate dalle Nazioni Unite. Dal 2004, è la responsabile dell’iniziativa CinemArena che porta il cinema in piazza allo scopo di informare ed educare la popolazione su temi di drammatica attualità: la prevenzione e diffusione delle principali malattie che colpiscono il continente africano, i diritti di donne e bambini. Una nuova modalità di cooperazione e una diversa funzione del film, che diventa strumento di informazione sociale e divulgazione. Dal 2020, porta il progetto DiCoBruMa in varie manifestazioni. Prima di Flora Cult è arrivato, fra gli altri, alla Biblioteca Interculturale Cittadini del Mondo, alla Casa Internazionale delle Donne e al Casale dei Cedrati di Roma. Il ricavato della vendita dei prodotti viene interamente inviato nei paesi africani ed è utilizzato per l’acquisto di nuove macchine da cucire, per la costruzione di nuove strutture (tettoie, bagni), per stampare materiale informativo e pagare costi di funzionamento. Solidarietà senza confini.

Per certi versi /
A Giacomo Matteotti

A Giacomo Matteotti

No Giacomo
Da Fratta Polesine
Non ti dimentichiamo
No Giacomo
Uomo della gente
Disfatta
Da migrazioni
Violenze squadriste
Alluvuoni
Non ti dimentichiamo
Deputato indefesso
Prima di tutti
Capisti
Chi fossero
Quei criminali
Che poi
ti fecero
A pezzi
Morto ammazzatoChe vergogna
da questo governo
Del made in Italy
Sovranista
Non sarai ricordato

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Oliva Denaro: femminile plurale
Lo spettacolo di Ambra Angiolini al Teatro dei Fluttuanti di Argenta

Oliva Denaro: femminile plurale. Lo spettacolo di Ambra Angiolini al Teatro dei Fluttuanti di Argenta

Prima di andare a teatro, non riuscivo ad immaginare come fosse possibile trasformare un libro bellissimo come Oliva Denaro di Viola Ardone in uno spettacolo teatrale, mantenendone la potenza espressiva.

Nel suo libro, Viola Ardone è riuscita nell’opera complicata di raccontare, in modo meraviglioso, una storia difficile utilizzando tutta la sua forza narrativa al “femminile singolare”.

«Donna: nome comune di persona femminile singolare… A me però non suonava bene questa cosa.
Maestra, ma l’esercizio è sbagliato – avevo detto prendendo coraggio […]
– Che cosa vuoi dire, Oliva? Non capisco.

La donna non è mai singolare […] La donna singolare non esiste. Se sta in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali e anche lì si trova assieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che l’accompagna. […] Io una donna femminile singolare non l’ho mai vista” avevo proseguito timidamente […]

– Forse hai ragione tu, Oliva. Però la grammatica serve a modificare la vita delle persone.
– E che significa, maestra?
Che dipende da noi, il femminile singolare, anche da te.”

Oliva Denaro (anagramma del nome e cognome della sua autrice) racconta liberamente la storia di Franca Viola che, negli anni sessanta dopo aver subìto violenza, rifiutò il matrimonio riparatore e divenne un simbolo dell’emancipazione femminile.

Grazie al suo coraggio, anche se a distanza di tempo, sarà abrogato l’articolo del codice penale che vedeva il matrimonio come mezzo per estinguere la violenza sessuale e lo stupro verrà riconosciuto come reato “contro la persona” e non più “contro la morale”.

Il libro inizia con una frase, pronunciata dalla madre della protagonista, che aiuta il lettore a contestualizzare il racconto in una famiglia contadina della Sicilia: “La Femmina è come una brocca, chi la rompe se la piglia”.

Con la stessa frase inizia lo spettacolo teatrale di Ambra Angiolini con la regia di Giorgio Gallione e la collaborazione alla sceneggiatura di Viola Ardone.
Poi però l’adattamento teatrale assume una propria fisionomia e, pur mantenendo l’attinenza al libro, si caratterizza per una sintesi coerente ed armoniosa.

Ambra Angiolini interpreta questo monologo intenso e coinvolgente, in modo limpido, incisivo e straordinario. Si muove sul palcoscenico, dentro ad una scenografia essenziale, riempiendo la scena con un ritmo narrativo originale che dimostra tutta la sua bravura.

Grazie alla carica empatica, Ambra diventa il soggetto che interpreta e, nello stesso tempo, diviene ogni donna.

Con la sua stupenda energia, riesce a far sorridere e a far indignare, a scuotere e a provocare, a far riflettere e a commuovere. Lo fa con una carica di emotività contagiosa e trascinante che cattura l’attenzione del pubblico dall’inizio alla fine.

Il suo “NO” finale, gridato a squarciagola in platea di fronte al pubblico, contiene tutta la forza dirompente del dolore, della rabbia e della tenacia di una donna che, andando contro tutti e contro tutto, ha voluto rompere le convenzioni del tempo.

Oliva denaro femminile plurale spettacolo di ambra angiolini al teatro dei fluttuanti di argenta

Il lunghissimo applauso finale ha accompagnato le lacrime che il pubblico e l’attrice hanno versato insieme; lei visibilmente commossa dopo un’interpretazione faticosa ed eccezionale, gli spettatori altrettanto emozionati per il forte coinvolgimento emotivo.

Durante le parole finali di ringraziamento, di saluto e di commento sulla tremenda realtà della violenza sulle donne sembrava che a parlare non fosse solo l’attrice, ma Ambra Angiolini, Viola Ardone, Oliva Denaro, Franca Viola, e con loro tutte le donne e tutti gli uomini che credono fermamente che l’Amore non possa prescindere dal Rispetto.

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

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Presto di mattina /
Ansia per l’uomo

Presto di mattina. Ansia per l’uomo

Ansia per l’uomo fuori rotta

Poesia è la vita
che attraversiamo in ansia
aspettando colui che porta
la nostra barca senza rotta.
(F. G. Lorca, Tutte le poesie e tutto il teatro, Newton, ebook Roma 2011,

Nel mare del dubbio in cui remo
non so neppure in cosa credo;
tuttavia queste ansie mi dicono
che io porto in me
alcunché di divino.
(Gustavo Adolfo Bécquer, da Rimas)

“Nel mare del dubbio in cui remo”, anche noi navighiamo senza rotta verso un dove, un orizzonte che non si vede ancora, confine lontano, invisibile. E tuttavia quel che saremo e dove andremo, un qualche approdo deve pur esserci, mi dico.

Ce lo dice anzi l’inquietudine che ci anima, il fatto che siamo viandanti sospinti dal vento dell’ansia che mai si quieta. Da dentro sento mancante sempre qualcosa, che come un’onda si abbassa nel fondo in un gemito e scompare per poi rialzarsi in un sospiro d’infinito.

Prima ancora del vangelo la poesia è remo che batte onde di speranza fatte di spasimi e aneliti, ma che attende inesausta il Passatore della vita, della barca senza quiete. Queste ansie mi dicono che porto in me qualcuno che non procede da me, presente nella forma di una parola udita, eco di risacca che fu alla partenza, promessa portata dal vento che gonfia le onde e che si rinnova ad ogni spruzzo del mare che si frange sulla chiglia.

Ansia dell’uomo per la pace

Ansia per l’uomo (Morcelliana, Brescia 1969) è il titolo di un libro di Romano Guardini in cui si fa corrispondere a quella dell’uomo «l’ansia dell’uomo per la pace». Questa diventa una questione vitale: non solo una questione di saggezza ma di audacia. Non fa ripiegare, ma si fa resistenza che nascostamente avanza.

L’ansia per l’uomo ci fa osare la pace per evitare «la consumazione dell’uomo per mezzo della sua propria opera», che avviene quando la tecnica, imponendosi come assoluto, si sostituisce a lui; quando la sua opera, con cui edifica la realtà grande del mondo e della vita, da strumento diventa il fine, capovolgendo o annullando il suo orizzonte di senso e di valori per imporre se stessa e il suo potere svincolato dall’uomo e dalla sua dignità.

La tecnica diviene così il valore assoluto, al di sopra dell’uomo stesso, un mondo altro in posizione di dominio, a cui l’uomo è sottomesso, assoggettato, uno strumento, un esperimento del suo stesso potere tecnico.

Tutto il potere dell’uomo diventerà suo nemico se non lo si collocherà di nuovo in dialogo e nella relazione con l’umano. Così l’ansia per l’uomo sta lì come scolta in cerca di tracce per uscire dalla rassegnazione e indicare sentieri di senso che riportino l’uomo a riconciliarsi con la sua opera.

Sottomettendo alla necessità l’uomo, la tecnica lo scalza dalla sua stessa dignità, limita e compromette la sua libertà di significare, orientare, valorizzare la vita. E, nel mondo della tecnica e nel cuore umano confinato ai margini, anche la guerra diventa necessaria per accrescere un potere risvegliato alle sue proprie esigenze di assolutezza.

Si domanda così Guardini: «Questo uomo cresce? Non lo vediamo forse invece nel pericolo di diventare sempre meno libero, sempre più esposto direttamente o indirettamente all’inesorabilità del processo scientifico, tecnico, sociale? La falda vitale, da cui l’uomo vive, non si assottiglia forse sempre più? Il suo contatto con la grande realtà non diviene sempre più insicuro, egli perciò sempre meno capace di percepire avvertimenti, di afferrare indicazioni e di sentire che l’ora giusta per qualcosa è venuta?

Le forze della contemplazione non diminuiscono sempre più, e la tranquillità interiore, il raccoglimento, l’energia dell’intimo rinnovamento? Non cade sempre più la capacità di porsi in distanza, di liberarsi dalle costrizioni d’ogni specie, di percepire nel corso del divenire la mano di Dio?», (Guardini, 21- 22).

La mano di Dio

Va qui ricordata l’immagine di Teofilo di Antiochia, nel testo Ad Autolico, 1,5-7 che spiega la simbolica della mano di Dio: «Come la melagrana, avvolta dalla buccia, contiene dentro di sé molte cellette e alveoli separati da membrane e innumerevoli granelli, così l’intera creazione è circondata dallo spirito di Dio che, a sua volta, insieme con la creazione è circondato dalla mano di Dio.

E come il granello della melagrana, rinchiuso dentro, non può vedere ciò che si trova fuori della buccia, proprio perché sta dentro, così pure l’uomo, circondato con l’intera creazione dalla mano di Dio, non può vedere Dio.»

Penso pure alla “mano di Dio”, quella scolpita da August Rodin, che rappresenta la creazione di Adamo ed Eva. Il poeta Rainer Maria Rilke lo definì il “sognatore il cui sogno saliva lungo le mani”, a simboleggiare il processo creativo dell’artista, dell’uomo che comprende e si comprende in relazione al tutto; in Rodin un itinerario creativo espresso dalla forma dialogica dei personaggi o delle mani, compattezza di forme e quell’impossibilità di disgiungersi. Mai la materia è sembrata raggiungere il profondo di sé e manifestarlo, e il marmo narra visivamente, senza verbo, ciò che vi è ancora di nascosto.

Libertà e responsabilità sacrificate alla necessità

«Se nella guerra moderna va svelandosi sempre più chiaramente qualcosa di incondizionato, questione di vita e di morte per l’uomo, allora anche la pace deve acquisire un carattere che prima non aveva. Questa guerra assume via via una caratteristica sempre più acutamente rilevata.

Soprattutto confluisce in essa tutto ciò che va sotto il nome di tecnica: il dominio scientificamente fondato delle energie naturali e dell’uomo. Così essa acquista quel carattere che è proprio del pensiero ispirato alle scienze naturali e dell’attività tecnica: il rapporto con la necessità.

La libertà perde il proprio spazio. L’individuo cessa di essere combattente nel senso antico e diviene funzionario addetto alla macchina. Si impone la logica dei rapporti tecnici, economici e sociologici. La guerra stessa appare sempre più come un processo che emerge da tensioni date e che, una volta avviato, non può più essere fermato finché non si sia concluso. Ciò non vuol dire che tale processo sia anche realmente così.

Se gli eventi passati dovevano di necessità generare una conoscenza, di certo essa è questa: la formula “Doveva succedere così” è menzogna e viltà. In realtà è successo così, perché lo si è voluto o non lo si è impedito.

Tuttavia il processo ha a tal punto il carattere di un divenire autonomo che ne nasce una tentazione infinita di sottrarsi alla responsabilità con il pretesto della necessità. Nella guerra è vero che ci sono sempre uomini a prendere la risoluzione; ma la struttura degli avvenimenti è tale che sembra si debbano ricondurre non a persone ma a necessità. Tutto ciò si collega senza dubbio con il carattere della responsabilità» (Guardini, 11-12).

Lasciarsi raggiungere dalla mediazione dell’esperienza umana

Nel suo libro L’etica del viandante Umberto Galimberti mostra come questa si opponga all’etica antropologica del dominio della Terra, ammonendoci che l’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro.

Quella del viandante «è un’etica che non si appella al diritto, ma all’esperienza, perché, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava “nel cielo stellato e nella legge morale”, che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione».

Ricordando poi che l’uomo è “un’esistenza possibile”, viandante appunto, ciò che è possibile, in quanto possibilità, diventare reale. E questo “possibile realizzabile” è la fraternità.

«Per questo la fraternità, estesa a tutte le creature, sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche in grado di porre fine alle leggi del territorio che, dopo aver spartito in un clima di ostilità non solo la terra ma anche il cielo e il mare, hanno reso impossibile la nascita di quell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che può essere dischiuso solo da quello sguardo che vede la Terra non più come semplice materia prima da usare fino all’usura, ma come nostra dimora da salvaguardare, perché, lo ripetiamo, qui e non altrove ci è concesso di vivere» (ivi, 58).

È interessante notare come anche Galimberti porti la sua analisi sulla tecnica, chiamata a prendere il posto all’uomo, riducendo l’orizzonte della sua libertà ed esperienza ad una funzione che non ritrova il suo scopo, il suo senso.

«Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si prefiggono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica. A questo punto la tecnica non è più un mezzo, ma un mondo, e il concetto di “mezzo” è radicalmente diverso dal concetto di “mondo”. La tecnica si sostituisce all’uomo che, in una simile situazione, può scegliere solo all’interno delle possibilità che la tecnica rende disponibili» (ivi, 23).

«Il viandante non incontra il prossimo, si fa prossimo»

Perché rispondere a qualcuno è già rispondere di qualcuno e farsi carico della sua sorte (E. Lévinas): «L’etica del viandante suggerisce un’altra strada lungo la quale io riconosco la differenza tra la mia e la tua cultura, ma riconosco anche le vittime del mio e del tuo sistema di valori». Queste vittime sono chiamate da Lévinas il “Terzo” che scuote le certezze poste alla base del rapporto bilaterale tra me e te, e fa di tutti noi degli stranieri alla ricerca del vero e del giusto, di ciò che ci divide e di ciò che ci unisce.

Questa ricerca del prossimo, «questa ricerca non può avvenire tramite la guerra, ma tramite quell’incontro che trova la sua espressione istituzionale nella politica. Per “politica” non si deve intendere l’accordo tra me e te, che può avvenire su qualsiasi base, fatti salvi i nostri interessi, ma quell’accordo tra me e te che si fa carico di quel “Terzo” che sono le vittime del tuo e del mio sistema» (ivi, 367-368).

E Guardini riferendosi alla risposta di Gesù al dottore della legge afferma che «il tuo prossimo è colui che necessita del tuo aiuto. Ma, poiché allora il precetto diventerebbe illimitato, il concetto di prossimo deve essere determinato ancora più precisamente, cioè praticamente, dagli avvenimenti concreti e quindi significa: Il tuo prossimo è colui che ti è assegnato dalla situazione concreta» (Guardini, 79).

Continuiamo insieme ad affinare i sensi e ad acuire l’ascolto

La direzione dei miei passi ubriachi. Racconti e poesie (Nuovecarte, Ferrara 2019) è un testo di un caro amico, Daniele Borghini, edito postumo. Ogni volta che scriveva un racconto o una poesia mi mandava il testo via mail, e così la raccolta cresceva, e con essa l’amicizia. Ho ritrovato nel computer la lettera che gli scrissi in occasione della poesia che allego in chiusura e che fa eco d’onda a quelle dell’inizio: Passi ubriachi e tuttavia non privi di direzione, né senza una meta.

«Caro Daniele

ho ricevuto il tuo testo poetico: ed è sempre una sorpresa che stupisce sentire come le tue parole aderiscano alla realtà, rinchiusa dietro muri e silenzi, prigioniera, invisibile, afona, e tuttavia riportata libera allo sguardo e ai sensi di chi legge.

È con gratitudine vedere che tu centri una questione che è di tutti i credenti e che coglie ciò che è patrimonio dell’ansia di tutti; questa capacità di portare alla luce ciò che ci accomuna nell’umano e nel credere quando altri non riescono è proprio, io credo, di colui che fa poesia, di colui che non smette di affinare i sensi e di porsi in ascolto profondo per sé e per gli altri.

Viene alla luce così il dramma che è l’esperienza assenza/presenza di Qualcuno che ci viene incontro e si fa vicino, come aquila alla nube, come un sentiero appena tracciato nel cielo o scoprirlo intrecciato al proprio inquieto respiro.

Continuiamo insieme ad affinare i sensi e ad acuire l’ascolto, perché i simboli reali del pane del vino e della Parola, dei respiri soffocati, crocifissi, risalendo alla luce con le parole creino consapevolezza e spessore di vita. Non vi è ricercatezza estetica nei tuoi testi, ma quella che si scopre è una figura di bellezza la quarta virtù teologica la chiama Cristina Campo: “la segreta, quella che fluisce dall’una e dall’altra delle tre palesi”».

Muri e silenzi
mi accerchiano e mi sfiniscono
L’aquila compie traiettorie
limpide e cristalline
mentre io mi disperdo
come una nuvola
sfilacciata da un vento di tempesta
caotico a me stesso
Dove sei
Messia consolatore?
Mi attendi alla fine dei tempi
quando i giochi sono fatti
o sei presente
già e ancora
intrecciando il Tuo respiro col mio
crocifisso alla scaturigine delle mie ansie
per dar loro un senso?
Se solo potessi avere una risposta
nel Pane e nel Vino
o nella Parola
che sembrano venire da così lontano!
Affinerò i sensi
acuirò l’ascolto
o sarò albero rinsecchito e senza frutto.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Le storie di Costanza / Intervista alla zia Costanza

Ieri è venuto un giornalista di La casa indipendente a intervistare la zia Costanza. L’oggetto dell’intervista era l’ultimo libro di poesie della zia che s’intitola Alba sul fiume. Una raccolta di liriche che ha scritto stando seduta sugli argini del Lungone e che risente di dell’atmosfera rarefatta e meditativa che il fiume genera e porta con sé verso la foce. A differenza di molti racconti per cui ha usato lo pseudonimo di Alba Orvietani, in questo caso Costanza ha firmato la raccolta con il suo nome di battesimo. Le ho chiesto il perché di quella scelta e lei mi ha detto:

– Cara Valeria, non sempre si vivono le cose nello stesso modo. In questo caso ho pensato che ciò che sono riuscita a scrivere sia molto introspettivo e personale, così personale che non può essere attribuito a nessun altro, nemmeno ad un alias. Le possibilità erano quindi due, o non pubblicare nulla e mettere la raccolta in un cassetto per poi lasciarvela in eredità, oppure pubblicarla con meno filtri possibili, nome dell’autrice compreso

Mah, mi sembra un discorso che può valere anche per tutte le altre cose che ha scritto, sono tutti lavori suoi, non capisco questa necessità di usare a volte un alias e altre volte no, ma comunque non importa, se lei è contenta così, va bene così. Del resto, si sa che la zia Costanza è un po’ strana e ha un modo di vedere le cose molto originale. È straordinaria proprio per questo, nonostante affermi sempre che lei ama la normalità, in realtà lei la normalità non sa assolutamente cosa sia. Si illude da sola, come a volte facciamo tutti.

Il giornalista che è venuto a casa nostra è un signore sulla sessantina, di media statura, con i capelli grigi e gli occhi azzurri. Si chiama Luciano Cigog ed è uno dei capiredattori del giornale. Un signore gentile che si è trovato subito a suo agio nella casa di via Santoni Rosa 21.

Prima di mettersi a parlare della nuova pubblicazione, Costanza gli ha mostrato le sue ortensie ormai sbocciate e gli ha spiegato il perché delle varie sfumature di colore che i sepali stanno assumendo. Nel giardino ci sono ortensie bianche, azzurre, rosa chiaro e scuro, bordeaux. Quest’ultimo colore è il più nuovo della collezione e la zia continua ad ammirare l’arbusto con molto orgoglio.

Inoltre, ha un’ortensia azzurra davvero particolare. I petali dei sepali non sono tondeggianti ma acuminati e l’inflorescenza a palla assume una strana forma con più punti di luce ed ombra che dipendono dalla posizione dei sepali lanceolati. Una novità e una rarità. L’ha comprata la nonna Anna lo scorso anno da uno dei tre fioristi di Pontalba e l’ha regalata alla zia per il suo compleanno, il 20 aprile.

Dopo il giro in giardino, la zia e il giornalista sono entrati in casa e si sono seduti in soggiorno. Costanza sul divano giallo a fiori e il suo intervistatore sul divanetto d’Adelina, che si trova esattamente di fronte.

– Perché si è seduto lì? – gli ha chiesto la zia

Perché mi è sembrato un divano comodo e poi è di un bel rosa antico

– Mi dica cosa vuole sapere da me –

Come lei sa bene, il suo ultimo libro Alba sul fiume sta avendo molto successo. Sono venuto a parlare con lei proprio di questo. C’è una domanda che ho nella testa e che precede tutte le altre, la faccio sempre quando mi capita di incontrare qualcuno particolarmente bravo. Uno scrittore chi è? Cosa distingue uno scrittore da chi non lo è?

– Bella domanda – dice la zia – Uno scrittore è una persona che usa la parola scritta come mezzo privilegiato per comunicare. C’è chi parla, chi suona, chi danza … e così via. Uno scrittore scrive.

Ma ci sono molte persone che scrivono e che non saranno mai degli scrittori. Non foss’altro perché a nessuno interessa leggere le loro opere – dice il giornalista.

– Si è vero. Oltre a usare la scrittura come mezzo privilegiato per la comunicazione, serve una forte dimestichezza con il mezzo che si usa. Tale dimestichezza deriva in parte dallo studio e in parte da un esercizio costante. Io, ad esempio, scrivo tutti i giorni e quelle poche volte che mi capita di stare una settimana senza scrivere sento subito la differenza. È come se le parole non fluissero più, come se fossero più rigide e meno disposte ad adattarsi alla frase che si sta componendo. Una difficoltà di armonizzazione che con una sola settimana di stop si sente. Mi accorgo che quel che ho scritto funziona quando, leggendolo, avverto una sensazione di musicalità. Come se le parole a loro modo suonassero, quando succede questo so che il lavoro è buono.

Quindi uno scrittore è uno che ha forte dimestichezza con le parole scritte? – dice il giornalista.

– No, non è solo questo, uno scrittore deve avere qualcosa da dire. Deve avvertire quella forte necessità di comunicare con gli altri. Uno scrittore è sicuramente un comunicatore. Non si scrive mai per sé stessi, si scrive per gli altri. Per trasmettere pensieri e scoperte che possono far pensare le persone, che possono reindirizzare alcune tendenze, o comunque allargare gli orizzonti verso nuove verità e nuove strade.

Quindi lo scrivere ha anche un valore etico?

– Secondo me sì, ma non sono sicura che tutti gli scrittori pensino questo e comunque ognuno di etica ha la sua. Per quel che mi riguarda non credo di aver mai scritto nulla per convincere le persone ad essere negative, pessimiste o cattive. Se l’ho fatto era inconsapevole e sicuramente non voluto. Io credo nella tolleranza, nell’equità e nella trasparenza. Ho messo tutto questo in ogni cosa che ho scritto. Ed è per questo che spero che tante persone mi leggano, è un modo per diffondere ideali che ritengo giusti.

Quindi, riassumendo, uno scrittore è una persona che usa la parola scritta come mezzo privilegiato per comunicare, che scrive in maniera accattivante in modo che tante persone lo leggano e che trasmette principi etici che lui ritiene fondamentali

– Si esatto. Uno scrittore è tutto questo –

Ma come si diventa scrittori?

– Credo che serva bravura, amore per il proprio lavoro, costanza (qui la zia sorride da sola), determinazione. Non bisogna lasciarsi scoraggiare se arriva qualche fallimento, non sempre quello che si scrive viene capito e apprezzato subito. Ma col tempo le cose si sistemano, è come se un po’ alla volta tutto andasse al suo posto, come se i vari tasselli di un mosaico si assemblassero in belle forme.

Che consigli darebbe a un giovane che vuole fare lo scrittore?

– Nessun consiglio, ognuno deve trovare la sua strada. È un lavoro impegnativo e pochi riescono a farlo. Ma è difficile capire prima chi ci riuscirà, quindi, nessun consiglio se non quello di non lasciarsi scoraggiare se arriva qualche fallimento –

Lei di fallimenti non ne ha avuti.

-No, per ora. Ma nessuno sa cosa riserva il futuro. –

Li guardavo mentre discorrevano, la zia vestita di viola con un foulard verde al collo, il giornalista con i jeans, una camicia bianca e il PC sulle ginocchia. Scriveva mentre la zia parlava e si sentiva il rumore delle sue dita che pigiavano sui tasti. Tec, tec, tec ….

Un bel quadretto in quel soggiorno antico che vede transitare le più svariate professionalità, tutti amici della zia. Pittori, musicisti, fotografi ma anche cuochi, fioristi, botanici e anche ingegneri e architetti. Un’umanità varia e curiosa che si diverte con i discorsi della zia e che lei accoglie con cordialità e ascolta con attenzione.

Costanza cerca sempre di capire quello che i suoi ospiti dicono, ritiene un dovere prestare la massima attenzione ai loro problemi. Spesso anch’io partecipo a quelle conversazioni, cercando di dire qualcosa, facendo qualche domanda quando non colgo il nocciolo della questione.

La zia mi permette sempre di stare là e si accerta che tutti mi rispondano cordialmente. Lei ospita volentieri amici nel suo soggiorno, ma loro devono ospitare me nei loro discorsi. Quelle conversazioni che avvengono sui divani gialli di via Santoni Rosa 21 sono il suo esperimento antropologico quotidiano. Buona parte delle sue riflessioni sulle stranezze umane ma anche sulle sue potenzialità, nascono proprio là.

È così che le vengono idee che le permettono di scrivere racconti e poesie adatte a scalare le classifiche dei libri più venduti. È la gente che frequenta la sua casa che viene trasformata in parola, pensiero, sentimento e diventa un personaggio che anima le sue opere. Poi lei sa usare, a parer mio, una grazia e una sensibilità degna di candidature a premi importanti. Adesso è stata candidata all’Elen di Stoccarda. Non che le importi molto di tutti quei riconoscimenti, ma se glieli danno, li va a ritirare. Le sembra giusto fare così.

Nel frattempo, la zia e il giornalista hanno parlato un po’ dell’Alba sul fiume, il libro in uscita. Stanno continuando a discorrere e il giornalista scrive. Tec, tec, tec …. La zia è protesa in avanti per fare il modo che il suo interlocutore senta bene le sue parole e lui sta bello dritto davanti al suo PC mentre scrive sempre più veloce e annuisce con la testa.

Se lei dovesse iniziare un nuovo romanzo in questo momento come lo inizierebbe? – chiede

– Mah .. non so. –

La zia guarda nel vuoto per qualche minuto, mentre con una mano si attorciglia una ciocca di capelli lunghi e dritti come un mazzetto di spaghetti.

Poi dice: – La protagonista sono io, entro in una stanza completamente vuota, con una finestra sul fondo. Dalla finestra si vede una pianta piena di foglie verdi e tra le foglie verdi si intravede il cielo azzurro. Attraverso la stanza vuota e mi avvicino alla finestra. La apro e guardo meglio la pianta. Mentre guardo l’albero vedo annidata tra i rami una volpe verde

Poi si ferma e scoppia a ride.

– Bell’inizio – dice

E poi cosa succede? – la incalza il giornalista

– In questo momento non lo so e non so se lo saprò mai –

Luciano Cigog si ferma, guarda la zia, guarda me, si guarda le scarpe. Smette di scrivere, chiude il pc, si alza in piedi e dice:

Grazie davvero per la disponibilità

– Prego – dice la zia

Se mai ci fossero sviluppi sulla volpe verde, la prego di farmelo sapere

– Certo – dice bugiardamente la zia e poi si mette a guardare il muro bianco del suo soggiorno con un atteggiamento assorto e i pensieri chissà dove. Io che la conosco bene so cosa sta facendo. Sta inseguendo una volpe verde.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Storie in pellicola / Ciò che resta può sempre servire

“Quel che resta”, un cortometraggio di Domenico Onorato che parla di responsabilità condivisa e lotta agli sprechi. Perché consapevoli, si può cambiare

Presentato, nel luglio 2022, al Giffoni Next Generation, l’evento sull’innovazione organizzato nell’ambito del Giffoni Film Festival, e alla Sesta edizione del Ferrara Film Corto Festival, il cortometraggio “Quel che resta”, voluto da CONAI, il Consorzio Nazionale Imballaggi, racconta come la sostenibilità parta dalle nostre azioni quotidiane.

Prodotto da Giffoni Innovation Hub con la regia di Domenico Onorato, la sceneggiatura di Manlio Castagna e la partecipazione di Andy Luotto, questo cortometraggio riprende tanto le riflessioni che facevamo qualche giorno fa sull’importanza delle nostre scelte, recensendo i due albi di Kite edizioni “La scelta” e “Cavalca la tigre”.

Mai come prima, il confronto e il dialogo con i giovani sui temi della sostenibilità sono così cruciali. Sono loro il futuro, loro che, spesso, sono ben più consapevoli di molti di noi di quanto scegliere bene sia fondamentale, per il pianeta ma non solo.

Tutelare il pianeta è compito nostro e possiamo farlo ogni giorno, con ogni gesto, attitudine e comportamento. Lo scarto può avere nuova vita, può dare luogo ad altri significati, ciò che qualcuno getta, qualcun altro ricicla. Da cosa nasce cosa, a volte migliore.

Valorizzare ciò che resta è dunque il potente messaggio del lavoro di Domenico Onorato, un corto che racconta un mondo in modo distopico, dove le differenze (e barriere) sociali sono enfatizzate da scelte azzeccate di costumi e scenografia e dove il riutilizzo del cibo rimasto alla tavola di qualche privilegiato genera ricchezza e convivialità. Annullando, alla fine, le differenze. Tutto porta alla metafora di come i rifiuti, gli avanzi, possano rinascere a nuova vita. Contro la cultura dello scarto.

Qui potete vedere il corto nella sua integralità. Buona visione!

Giffoni Innovation Hub è un polo creativo d’innovazione, fondato da Luca Tesauro, Orazio Maria Di Martino e Antonino Muro nel 2015. Il progetto nasce con l’obiettivo di guidare e favorire la trasformazione culturale e digitale in Italia e all’estero e, sulla scia del patrimonio del Festival di Giffoni, fa della creatività la sua bandiera. Collega, supporta e fa crescere talenti e startup nel settore delle industrie creative e culturali. Lo scopo è quello di implementare prodotti e servizi per le aziende, attraverso percorsi di formazione specializzata e framework audiovisivi, generando azioni ad alto impatto sociale e valoriale che coinvolgono le nuove generazioni.

Parole a Capo /
Shasa Pellicciari “Cosmo sommerso” e altre poesie

Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non é superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.
(ITALO CALVINO)

 

Cosmo sommerso
Mamma cosa brilla laggiù, nell’abisso buio e profondo del mare?
No piccino mio, non sporgerti a guardare!
Mamma cos’è questo lamento, questo pianto atavico e intenso?
Amore mio non ascoltare, è il suono d’un dolore immenso!
Mamma, ti prego non tacere, sono abbastanza grande per sapere.
Le acque salate custodiscono segreti d’infanzia negata,
in un abbraccio gelido, senza più carezze, senza più piacere,
si tormentano le anime perse, della mediterranea traversata.
Quelle non son stelle cadute nel buio dell’oblio,
mi dispiace amore; siamo tu ed io
e con noi un intero universo di possibilità negate
sulle onde infrante d’infinite storie spezzate.
La costa si tinge di lacrime e disperazione,
nel blu del Mediterraneo, dove il sole s’immerge.
Mentre il mondo assiste inerme e senza compassione,
tra le onde della speranza, un triste destino emerge.
Esuli d’un mondo che il dolore ha segnato,
navigavamo su legni fragili, sognando un domani negato.
Ma il mare ha raccolto le nostre voci, in un silenzio lontano,
un cosmo di potenzialità inespresse, nel palmo della sua mano
(Il testo “Cosmo sommerso” è stato premiato al concorso “L’alloro di Dante” sezione
studenti edizione 2023-2024.)

 

Elena

 

Una luce dolce, un’ombra delicata,
ci racconta ricordi di una vita passata.
Ancora vive nei nostri cuori il tuo calore,
un amore che sfida l’assenza e il dolore.

Tra mute risate e sogni, gridati in silenzio,
danzavi leggera, anima luminosa.
I tuoi occhi, riflessi di cieli rosa,
sguardi d’amore, ricordi d’immenso.

Il tempo avvolge il tuo sorriso gentile,
nella tela del passato, un ritratto sottile.
Il vento il tuo nome  sussurrerà
a chi attento lo ascolterà.

Non sei morta, m’ hai preso il volo ,
tra le stelle, nell’eterno, senza più un ruolo.
Che la tua anima trovi pace nell’infinito,
dove il tempo non è più un nemico.

 

Mancanza

Nella notte buia s’ode un gran pianto
gemito cupo eco d’abbandono
rimbomba nel cuor un suono di tuono
danza nell’anima un grande rimpianto

Tra le ombre si perde il senso del tempo
un sottile fruscio scende lieve
ma il gelido petto come la neve
si consola per l’abbraccio del vento.

Il cuore palpita, silenzio immenso
singhiozzi riempiono il vuoto totale
vorrei non farlo, però se ti penso

sento nell’anima un calore astrale,
allora, di nuovo, mi do il tormento
perché soltanto desidero amare.

 

Palla Ovale

Ruvida vita, adorata, bramata, dolce e amara
dal rimbalzo imprevedibile come il destino.
Eroica quando sgusci tra i piedi della mischia
per finire tra le mie mani.

Beffarda quando, carica d’aspettative,
manchi d’un soffio la grande H svettante.
Io ti desidero ardentemente
e quando ti conquisto non ho alcun timore.
Anche se sbaglio non c’è disonore
tu non mi giudichi e quando ti stringo
io mi sento a casa.

 

Shasa Pellicciari frequenta la classe 2T  dell’Istituto “L. Einaudi” di Ferrara.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Garofani rossi

Garofani rossi

Che onore che mi fai, amica mia,
mi inviti a casa di tua mamma e babbo,
via Saragozza alta, i portici, la casa
che stai vuotando con la tua famiglia,
il lutto che sfocia nell’aprile,
nel rifiorire sul balcone altissimo
oltre libri lenzuola piatti e pentole
che presto prenderanno le loro vie,
e quadri alle pareti che anche loro
aspettano.
E mi regali un mazzo di fiori freschi
come da secoli nessuno – margherite
ginestre alloro e garofani rossi –
e ci sediamo un po’ e guardiamo fuori:
aprile il verde i colli l’occidente
e abbiamo entrambe gli occhi verdi mentre
parliamo non di fiere mostre saloni
eventi o comparsate nel demi-monde
bensì della valigia di Dovlatov,
di madri e di Madreterra esasperata
da Homosapiens con tutte le sue pompe.
In corridoio pacchi, ancora chiusi
stante il precipitare degli eventi,
di pannoloni per anziani, che un po’ alla volta
tu porti a qualcuno nel tuo quartiere,
anche oggi, e pure quattro borse
di cose che hanno vissuto in questa casa
con la tua mamma, e mi dai uno strappo in auto.

Fuori dal portico il tramonto esonda
verso Casaglia come un abisso di luce
come un commento alle Porte regali.
Vedo te con le borse, vedo me stessa
nella vetrina di un negozio presso
il parcheggio, in una mano il mazzo di fiori
bellissimi e nell’altra, a righe blu e verdi,
un pacco di pannoloni Lines specialist:
Eccomi – ti dico – sai quelle allegorie
delle età della vita, sai quei vecchi
memento mori, eccomi, e ridiamo.

Una strada per Mimma, staffetta partigiana, martire della Resistenza.

Intervento di Anna Chiappini e Davide Nanni

Il 25 aprile 1945 è la data fondativa della nostra democrazia. Oggi che i testimoni diretti di quegli anni, per ovvie ragioni anagrafiche, sono sempre meno crediamo sia importante valorizzare appieno il significato di quel momento storico senza cadere in una stanca retorica celebrativa: non è festa “della libertà” ma della liberazione, ovvero di una libertà ritrovata e conquistata a caro prezzo dopo un ventennio di dittatura fascista che terminò in un conflitto disastroso, nell’occupazione nazista della penisola e in una feroce guerra civile tra italiani.

La nostra Costituzione, ricordava in un celebre discorso il giurista Piero Calamandrei, è nata “ovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità” conculcate dai nazifascisti. Furono tanti, spesso giovani, e tra loro non mancarono le donne, protagoniste di una resistenza a lungo taciuta nel dopoguerra quando una società ancora conservatrice volle “normalizzare” quell’esperienza di libertà ed emancipazione femminile che fu anche lotta partigiana.

Se durante il regime fascista le donne erano state per lo più confinate in casa, dipinte come “angeli del focolare” e sottomesse alla rigida autorità maschile, negli anni della Resistenza molte di loro combatterono, nascosero partigiani, ebrei e militari alleati, svolsero il prezioso ruolo logistico di “staffette” portando cibo, armi e materiali di propaganda clandestina ai nuclei combattenti.
Non rischiavano solo la vita: 4.653 di loro vennero arrestate e torturate; oltre 2.750 furono deportate nei campi nazisti; 3.882 furono giustiziate o caddero in combattimento.

Almeno 70 mila donne furono impegnate nella Resistenza e circa 35 mila vennero riconosciute “partigiane combattenti”, ma probabilmente il loro numero è maggiore.

Tra le diciannove donne decorate con Medaglia d’Oro al Valor Militare ricordiamo Irma Bandiera, fucilata a Bologna il 14 agosto 1944 dopo sette giorni di terribili torture e sevizie. “Mimma” aveva 29 anni, era una ragazza bella e benestante, poteva attendere in tranquillità la fine della guerra ma non lo fece: aderì alla Resistenza e divenne “staffetta” partigiana, rimanendo coerente al suo impegno per un’Italia più libera e giusta.
Fu catturata dai fascisti la sera del 7 agosto, poi sottoposta a un vero e proprio calvario con l’obiettivo di ottenere informazioni sui suoi compagni di lotta. Il suo bellissimo viso venne sfigurato dalle torture, i suoi occhi accecati, subì indicibili violenze: tuttavia,
Irma non parlò. Tacque anche davanti alla casa dei suoi genitori, dove l’improvvisato plotone di aguzzini la finì a colpi di mitra. Il coraggio e la tenacia di Irma Bandiera sono un simbolo potente di resistenza a qualsiasi forma di oppressione, ieri come oggi.

Per questo abbiamo impegnato il Consiglio comunale a dedicare una via, piazza o altro luogo pubblico di Ferrara alla sua memoria. Un ricordo vivo, perché “Mimma” aveva ragione: “i morti passano, i sogni restano”. A lei e a tutte le donne che stanno lottando per la libertà, la pace e la giustizia vogliamo dedicare questo 25 aprile.

Anna Chiappini e Davide Nanni

 

 

In copertina e nel testo due immagini di Irma Bandiera, “Mimma”, staffetta partigiana, martire della Resistenza.

Far sloggiare lo Stato dall’economia:
la “libera” concorrenza che affama le famiglie e ingrassa gli azionisti

Far sloggiare lo Stato dall’economia: la “libera” concorrenza che affama le famiglie e ingrassa gli azionisti

 

Prima le notizie, poi il commento, come vuole il buon giornalismo.

Le notizie:

  1. da gennaio 2024 è finito il servizio pubblico della maggior tutela per gas e luce per chi (5 milioni di famiglie) non si era ancora trasferito nel “libero mercato”. Rimangono ancora in questo mercato tutelato 4 milioni di famiglie fragili con disabili, anziani, poveri.
  2. Il prezzo del gas (che incide anche sull’elettricità) quotato alla borsa Ttf di Amsterdam oscilla da 6 mesi tra 0,40 e 0,28 cent al metro cubo, quasi un terzo di un anno fa quando i prezzi erano ancora alti (1-2 euro).
  3. Un’analisi Arera (l’Autority garante) dice che negli ultimi 10 anni in media il servizio a maggior tutela ha avuto prezzi più bassi del “libero mercato”.
  4. Il passaggio al “libero mercato” si è dimostrato disastroso per queste ultime famiglie “fragili”, in quanto le Utility ne hanno approfittato per aumentare i prezzi. Qui si riporta il caso dell’Enel, ma così è per quasi tutte le Utility.
  5. L’Antitrust ha avviato una istruttoria per accertare le pratiche commerciali scorrette dei rinnovi contrattuali ottobre 2023-gennaio 2024. E ha multato Enel Energia per 10 milioni.
  6. Enel Energia si difende dicendo che a maggio 2023 sono cambiati i vertici dell’azienda e che gli attuali vertici stanno cercando di porre rimedio ai forti aumenti registrati dai clienti.

Il mio commento.

Basta guardare la figura sotto per capire che il prezzo del gas (e dell’elettricità) negli ultimi 12 mesi si è più che dimezzato e quindi non si giustificano gli aumenti in bolletta (anche di 3-4 volte) rispetto a quelli dello scorso inverno. Infatti il prezzo al “grossista” si è ridotto da una media di 1,13 euro del trimestre ottobre-dicembre 2022 a 0,43 euro dello stesso trimestre del 2023. Ma le bollette viaggiano all’incontrario. Per questo le Associazioni dei consumatori hanno ricevuto migliaia di denunce, da cui è scattata l’istruttoria dell’Antitrust che finirà, se va bene, con una multa di 10 milioni per Enel Energia che, nel frattempo, ha incassato circa un miliardo in più del dovuto. La multa sarà quindi pari all’1% dell’extraprofitto.

Enel dice che dei 6,5 miliardi di profitto netto del 2023 solo la metà viene dai risultati in Italia. E’ vero ma rimane il fatto che Enel (come le altre utility) sfrutta la fine del servizio pubblico di maggior tutela aumentando le tariffe a scapito dei propri clienti. Nel momento infatti in cui si elimina un grande operatore pubblico che faceva buoni prezzi acquistando grandi volumi di gas all’estero, si formano accordi tra le aziende in modo da avere prezzi diversi ma sempre all’interno di una certa “forbice”. Nel comunicato di Enel Energia si giustificano gli incrementi delle bollette in quanto “dovuti al forte rialzo del costo delle materie prime che hanno risentito delle note tensioni geopolitiche”.

In primo luogo nel corso degli ultimi 12 mesi c’è stato un forte ribasso del costo della materia prima (e non un aumento).

 

In secondo luogo le “note tensioni geopolitiche” non c’entrano nulla, perché la Russia faceva e fa contratti a lungo termine e chi ha prodotto il forte aumento del prezzo del gas è stata la grande finanza occidentale che è entrata in massa con 54 banche e 154 fondi finanziari ad acquistare tutto il possibile alla borsa di Amsterdam 8 mesi prima dell’invasione della Russia in Ucraina, portando il prezzo del gas da 0,20 di febbraio 2021 (come era da 10 anni) a 1,20 a dicembre (6 volte tanto). Così si fanno i soldi, altro che pulire i treni tutti i giorni.

Il che vuol anche dire che erano bene informati sull’invasione della Russia che sarebbe avvenuta in febbraio 2022.

Sulla base di questo caso esemplare avvenuto in Italia, possiamo capire come stia ulteriormente cambiando il capitalismo europeo, il quale, rispetto a quello americano, aveva sempre avuto una forte presenza dello Stato o di aziende pubbliche sia nella manifattura che nella gestione dei servizi (si pensi alla sanità, scuola, pensioni, energia,…).

Con la globalizzazione finanziaria avviata nel 1999 il capitalismo vuole fare un ulteriore “salto” eliminando quei “residui” di gestione pubblica sia nella manifattura che nei servizi. Questa è la ragione per cui si sta privatizzando la sanità pubblica e si stanno smantellando le poche industrie manifatturiere statali. La logica è sempre quella del massimo profitto che deve andare ai soci azionisti (quasi tutti privati) e della possibilità dei “politici” di favorire certi privati potendo poi ricevere (a tempo debito) i dovuti ringraziamenti. Vendere poi parte del patrimonio pubblico consente di ridurre il debito pubblico e disporre di nuove risorse da distribuire (pro tempore) per accrescere i consensi elettorali.

Prendiamo l’esempio di ENEL, il più grande gruppo “pubblico” italiano con 95 miliardi di fatturato e 6,5 miliardi di profitti netti nel 2023, controllato ancora dal MEF (Ministero dell’Economia e Finanza) per il 23,6% del capitale. Il 56,7% sono investitori istituzionali (un modo per dire che si tratta di banche e fondi di investimento, peraltro quasi tutti esteri), mentre i singoli cittadini (italiani e stranieri) hanno solo il 19,7%. I vertici sono ancora nominati dal nostro Governo che ha il 23,6% del capitale e la maggioranza degli azionisti di controllo, anche se di fatto (vedi vicenda del gas e luce) si comporta come un privato alla ricerca del massimo profitto. Enel distribuirà nel 2024 il suo profitto per 2/3 ai soci istituzionali azionisti (4 miliardi), un miliardo andrà allo Stato italiano e poco meno ai singoli azionisti. Ai lavoratori dell’Enel, che sarebbero i veri co-produttori non andrà nulla e tantomeno ai clienti (3,4 milioni di utenze domestiche, cioè famiglie italiane che da sempre si fidano di ENEL), i quali hanno subìto aumenti fuori scala di gas e luce.

Il mercato tutelato è stato avviato nel 2007 con la riforma Bersani, la quale prevedeva che anche nei settori del gas ed elettricità ci fosse un mercato concorrenziale e la libertà per i cittadini-clienti di passare da un mercato all’altro (tutelato vs libero e viceversa), ma non l’obbligo come avviene ora. Inoltre, prevedeva che ci fosse un ruolo dello Stato – calmieratore dei prezzi – tramite la presenza di un grande operatore pubblico (Acquirente Unico) che comperava all’ingrosso gas e luce e garantiva così bassi prezzi a chi non vuole rompersi la testa e perdere un sacco di tempo nelle moltissime e opache clausole che hanno i contratti del libero mercato: contratti complicati, al punto che tutti i miei amici (anche laureati) non ci capiscono nulla.

Per difendere le fasce più deboli Bersani aveva introdotto, come prevede la buona teoria economica, di dare la possibilità a questi clienti (che non hanno tempo e conoscenze per potersi districare nelle mille offerte di un mercato opaco) di poter scegliere l’Acquirente Unico, una società pubblica che, acquistando gas e luce sul mercato internazionale e contando sul potere di mercato di milioni di consumatori, garantiva prezzi bassi e tutelati dallo Stato.

L’Acquirente Unico partecipa infatti al mercato come uno dei tanti soggetti ma rende i prezzi più vantaggiosi per tutti, anche per quei clienti che sono nel “libero mercato”, in quanto le aziende private devono tener conto dei bassi prezzi offerti dal mercato tutelato.

La fine del servizio pubblico del mercato tutelato è stata un’idea di Renzi del 2014, voluta fortemente da Draghi e portata avanti dalla Meloni come “riforma” italiana richiesta dall’Europa (della moneta e dei mercati, mi verrebbe da dire) per avere in cambio i soldi del PNRR.

Non ho nulla contro il libero mercato, che in alcuni casi funziona (vedi coi telefonini, anche perché sono solo 4 operatori), ma non sempre funziona e tantomeno con 700 utility, specie se viene meno il ruolo calmieratore di un grande operatore pubblico che agisce nell’interesse del bene pubblico e che non ha logiche di profitto.

Adam Smith, fondatore del libero mercato, aveva scritto che in alcuni casi è opportuno che sia lo Stato a gestire certi affari (come il commercio delle Indie) e scrisse che non bisogna trascurare che “appena si trovano 2-3 imprenditori privati la prima cosa che fanno è tramare per rubare allo Stato altri soldi”. Ma i nostri neo liberisti sono più liberisti dello stesso Smith e lo Stato lo vogliono proprio sloggiare dal mondo degli affari, specie se c’è una grande impresa (o servizio) che per ragioni di scala (e di scopo) produce più vantaggi di singoli privati o impedisce a loro di poter fare i prezzi che vogliono in quanto la sua presenza funziona da calmiere, com’è stato per decenni con il servizio di maggior tutela sia nel gas che nell’elettricità e anche nella sanità pubblica.

La lotta di classe c’è ancora e la stanno vincendo i ricchi: lo dice il miliardario Warren Buffet.

 

 

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Vite di carta /
Abitare al “Piano nobile” nel romanzo di Simonetta Agnello Hornby.

Vite di carta. Abitare al “Piano nobile” nel romanzo di Simonetta Agnello Hornby.

Ho sentito gli echi dal Gattopardo, meglio dirla subito questa bella sensazione. Piano nobile, pubblicato presso Feltrinelli nel 2020 da Simonetta Agnello Hornby, è un affresco sulla società palermitana del pieno Novecento, tra il 1942 e il 1955. È la fotografia di gruppo di una famiglia nobile tra le più in vista della città, quella del barone Sorci.

Come non pensare alla figura possente del Principe di Salina, il Gattopardo patriarca come Enrico Sorci di una numerosa famiglia, di un entourage di nobili e di dipendenti, e al pari di lui padrone di molti feudi e di palazzi. Non si può non riassaporarne la sicilianità sanguigna e disillusa, vissuta come un marchio fissato nelle carni e immutabile al passare della Storia.

La Storia in Piano nobile, però, ci trasporta più avanti di alcuni decenni. I Savoia che nel primo romanzo stavano annettendosi la Sicilia, in questo secondo sono i regnanti ormai consolidati dell’isola e sono poco amati. I Sorci nei loro interventi li considerano degli occupanti stranieri al pari degli altri popoli invasori che hanno segnato la storia siciliana.

Si parla dell’indipendentismo come della vera vocazione per i siciliani, come la realizzazione di una loro costante antropologica che Peppe Vallo, il più fortunato dei figli bastardi nati da Enrico Sorci, chiama “individualismo” e alla pari “autolesionismo“.

Gli interventi dei Sorci nel libro ne fanno un romanzo corale: in assenza di una voce narrante esterna si alternano le storie (con la minuscola) e i punti di vista dei protagonisti: del barone Enrico, che apre con una panoramica sulla famiglia dal suo letto di morte,  di Peppe Vallo che osserva dall’esterno il palazzo dove non è mai stato ammesso e la camera del padre che non lo ha riconosciuto.

Poi intervengono altri componenti dall’interno della famiglia: dei quattro figli maschi parlano il primogenito Cola e l’ultimo nato, Andrea, il più problematico, tormentato da un disturbo della personalità che nel libro resta senza una diagnosi e che oggi chiameremmo probabilmente autismo. Parla la nuora più giovane di Enrico, Laura, più vittima che moglie di Andrea e amante amata del cognato Cola.

Parlano alcuni dei nipoti: Rico, figlio di Cola, destinato a diventare anche lui, un giorno, il capofamiglia, e infine i due cugini inseparabili. Sono la sensibile Mariolina, figlia di Filippo, e Carlino, che è nato dall’amore fra Cola e Laura e rappresenta in seno alla famiglia ciò che più diverge dalle tradizioni ataviche, in quanto omosessuale e al contempo spirito libero.

Esiste in realtà un narratore che sa tutto e tutto concerta: quello che cede la parola di volta in volta al narratore o alla narratrice di turno e si rivela nei titoli dei capitoli che suonano così: “Dice Enrico Sorci”, “Dice Peppe Vallo”, e via dicendo.

Uno dei punti di forza della narrazione di Simonetta Agnello Hornby sta nel cedere al lettore il compito di aggregare ciò che raccontano le voci narranti e al tempo stesso nel facilitargli l’operazione con una scrittura limpida e che trascina.

Come in una sorta di delta narrativo, i rami del racconto finiscono per confluire nell’alveo grande di un solo ampio affresco sui nobili siciliani, sulla Sicilia e sull’Italia della metà del Novecento.

Insieme a Il Gattopardo, Piano nobile non ha tuttavia la vocazione del romanzo storico. Per tutto il tempo e lo spazio che ho dedicato alla lettura ho avvertito come prevalente il diario intimo di ciascun narratore, la sua psicologia che è consapevolezza prima di tutto degli stereotipi famigliari.

Quello che resta dai condizionamenti della casta e della casa è lo spazio lasciato alla costruzione autentica di sé, spazio esiguo per qualcuno, specie se donna. Lo dimostra Laura, sposata al violento Andrea per volontà del barone Enrico e caduta in disgrazia presso gli altri Sorci quando si scopre che aspetta un figlio del fratello maggiore del marito. Il disdoro generale non abbatte, tuttavia, in lei la spinta a mantenersi salda e a gioire insieme a Cola della personalità libera del loro figlio Carlino.

Dal tiro incrociato dei racconti prendono forma anche le personalità degli altri parenti, caratteri complessi di cui come lettori apprendiamo i tratti più forti e determinanti. In quanto confermati da più di una voce narrante, assumono per noi carattere di oggettività e ci rendono vive e riconoscibili queste altre figure, anche se non dicono.

Rileggo la quarta di copertina per confrontarla con ciò che ho inteso del libro e, per finire, trovo una eco gattopardesca che era rimasta impigliata nel fondo delle mie reazioni di lettura. Cito il passo:” È come se il piano nobile di palazzo Sorci fosse il centro del mondo, del mondo che tramonta – fra i bombardamenti alleati e la fine del fascismo – e del mondo che sta arrivando, segnato da speranze, ma anche da una diversa e più aggressiva criminalità”.

Nihil sub sole novi, mi sfugge di pensare.

Nota bibliografica:

  • Simonetta Agnello Hornby, Piano nobile, Feltrinelli, 2020
  • Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, 1963

Cover: Villa Palagonia a Bagheria (PA)

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / La libertà di scelta

Escono oggi in libreria, con Kite Edizioni, due albi importanti, “La scelta” di Valentina Mai e Lera Elunina e “Cavalca la tigre”, di Davide Calì e Raúl Guridi Nieto. Li abbiamo letti per voi in anteprima

Ebbene sì, noi di Periscopionline abbiamo un grande privilegio, quello di avere tra le mani alcuni albi illustrati prima dell’ora zero, lo sbarco in libreria. Ci siamo guadagnati sul campo questo regalo, grazie a tenacia, dedizione e attenzione ma anche, e soprattutto, grazie all’immensa disponibilità di illuminati editori che, con la fiducia che ci hanno accordato, stanno diventando una piacevole consuetudine. Una collaborazione che si sta rilevando fruttuosa e meravigliosa avventura intellettuale. Kite edizioni è fra questi editori e con Giulia Belloni, alla Bologna Children’s Fair Book, abbiamo selezionato i due albi di oggi. O meglio, la selezione è stata molteplice, ma poi ho deciso di presentarveli insieme per il filo conduttore che vi ho subito visto, prontamente condiviso con Giulia. Curioso, poi, che la parola ‘scelta’ sia una sorta di mantra della mia umile esistenza. Lo capirete presto.

I due albi “La scelta” e “Cavalca la tigre” sono intrinsecamente e strettamente legati dalla vera ricchezza donata all’essere umano, ciò che lo distingue da ogni altro essere vivente: la libertà di scegliere, nel bene e nel male. Sempre e comunque.

Ciascuno di noi può fare la differenza, se vuole. Quella minima ma anche quella abissale, quella che può salvare una vita, tante vite, il pianeta, la natura. Libero arbitro, si direbbe. Ognuno sia artefice del proprio destino, ma, se vuole, anche di quello del mondo intero. Se vuoi, puoi, o “se puoi sognarlo puoi farlo”, avrebbe detto il buon Walt Disney, poco importa, il concetto non cambia.

Di un punto siamo fermamente convinti e tenaci sostenitori. Non è vero che non c’è scelta, non è vero che non si può ancora salvare la terra, che le nostre azioni non abbiano un impatto, che quel che è fatto è fatto, che la frittata non si possa rivoltare.

Non è vero che non si possano vedere le cose con altri occhi e cuore. Basta scegliere la direzione giusta. A volte basta un non davanti a una frase e la prospettiva cambia, radicalmente. Il destino si adegui. Mi spiace per lui.

E la libertà di scelta resta, quindi, il vero potere dell’essere umano. Ciò che lo contraddistingue, che lo differenzia dall’istinto puro.

Quanto contano allora i nostri pensieri? C’è chi dice moltissimo, chi sostiene che solo quelli possono cambiare le cose. Se fosse così, allora, il modo in cui noi pensiamo al mondo, potrebbe lasciare le cose come stanno, o cambiarle. Le visioni del mondo possono essere opposte, siamo noi a dover scegliere quale sia la nostra.

Qualche giorno fa rimanevo profondamente colpita da un post sui social che ricordava come l’animale più pericoloso sulla terra sia stato individuato e presentato ad una mostra realizzata dallo zoo del Bronx nel 1963. Avvicinandosi ad una gabbia riservata agli oranghi e ai gorilla di montagna, si leggeva “stai guardando l’animale più pericoloso del mondo.

È l’unico, di tutti gli animali mai vissuti, che può sterminare (e l’ha già fatto) intere specie animali. Ora ha il potere di distruggere ogni forma di vita sulla terra”. Dietro le sbarre, un semplice specchio. Nulla di più terribilmente attuale. Mala tempora currunt.

Scegliere di non essere quella cruda rappresentazione si può. C’è ancora tempo.

Dopo “La scelta” anche “Chi cavalca la tigre” ci porta (nuovamente) allo stesso punto.

C’è, infatti, chi opta per andare a piedi e chi a cavallo, mentre un tizio cavalca la tigre.

C’è poi chi sceglie giallo o nero, chi di essere ricco o povero, chi di uccidere o di essere ucciso, scelte, spesso, sbagliate. Ma chi lo sa, chi può saperlo. È sempre il tizio che cavalca la tigre, a tratti la doma. Si uccide. Qualcuno si dispiace un poco.

Fino quando ci si ferma a riflettere e si resta attoniti. Si poteva scegliere in diverso modo, optare semplicemente per l’essere liberi? Si poteva, certo che si poteva, si può.

Pensiamoci su allora. Quanto basta. Perché possiamo sempre fare la differenza e perché … ci sia sempre colui che, imperterrito e impavido, cavalchi la tigre!

Valentina Mai, Lera Elunina, La scelta, Kite edizioni, Padova, 2024, 32 p.

Davide Calì e Raúl Guridi Nieto, Cavalca la tigre, Kite edizioni, Padova, 2024, 32 p.

 

Valentina Mai, lasciata la professione forense per assecondare il suo temperamento artistico, capisce che il mondo dell’illustrazione la interessa più di altri. Da allora collabora come illustratrice con riviste e case editrici italiane ed estere, cura mostre e tiene corsi di illustrazione e di diritto d’autore. Nel 2011 assume la direzione artistica del marchio Kite, alla quale nel 2018 aggiunge anche quella editoriale.

Lera Elunina è nata a Kaluga, in Russia, ha studiato pittura e arti grafiche presso l’Università statale di arti tipografiche Ivan Fedorov di Mosca. Nel 2021, i suoi lavori sono selezionati alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna e vince il Premio Ars in Fabula Grant. I suoi lavori sono stati esposti in molte mostre d’arte.

 

Davide Calì è uno scrittore di letteratura per ragazzi e fumettista italiano, conosciuto anche con gli pseudonimi di Taro Miyazawa e Daikon. Originario della Svizzera, è cresciuto in Italia, dove ha intrapreso la carriera di fumettista. Dal 1982 al 2008 ha collaborato con la rivista mensile “Linus” come disegnatore e dal 1998 ha cominciato a pubblicare libri per ragazzi, ottenendo un buon successo in Francia. I suoi lavori sono stati tradotti in più di 30 lingue. Nel 2016 è stato nominato art director di “Book on a Tree”, un’agenzia letteraria londinese.

Raul Nieto Guridi ha studiato alla Facoltà di Belle Arti di Siviglia e dal 1995 ha lavorato in molti campi artistici, dal design alla pubblicità. I suoi lavori, tra cui anche libri per bambini, sono stati pubblicati in diversi paesi, come Stati Uniti, Germania, Francia e Italia.

 

 

 

La Liberazione, oggi e tutti giorni. Ecco la nostra festa

La Liberazione, oggi e tutti giorni. Ecco la nostra festa

Il 25 aprile 1945 è il giorno della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, oggi più che mai è fondamentale ricordare per mantenere vivo un percorso di memoria storica.

Continuare a dar vita a una speranza attiva ad una resistenza quotidiana capace di riconoscere e combattere i processi di fascistizzazione socio-culturale che in questo periodo di guerra e crisi economica, trovano terreno fertile.
Razzismo e politiche di emarginazione, criminalizzazione del dissenso, l’isolamento dell’individuo e la continua costruzione mediatica di capri espiatori verso cui convogliare l’insoddisfazione sono pratiche che vengono messe in atto ogni giorno dalla nostra amministrazione cittadina e dal governo.
La storia si ripete e queste strategie hanno lo stesso scopo: conservare quei privilegi politici ed economici di un potere autoritario, sempre più organico a banche e finanza mondiali.
Quasi 6 milioni di italiani sono in povertà assoluta, l’ 8,5% del totale delle famiglie residenti, ma lo stato, succube degli USA e della NATO, i soldi da investire in armamenti militari li trova sempre e comunque, e anche quelli per le grandi opere insostenibili, che distruggono l’ambiente e foraggiano le mafie.
Condanniamo il genocidio in atto nella Striscia di Gaza occupata e siamo solidali con la rabbia che si è espressa nelle università e nelle piazze a fianco del popolo palestinese.
Occorre opporsi a logiche e culture patriarcali, che ancor oggi impongono un sistema iniquo per le donne e la comunità LGBTQIA+.
È necessario quindi riappropriarsi di momenti e spazi dove potersi confrontare e discutere sulle priorità e necessità trasversali affinché il conflitto spontaneo che sta nascendo dia vita a pratiche e soluzioni dal basso.
Oggi, continuare a lottare per una vita degna di essere vissuta, come ci insegnò chi ha combattuto il regime fascista, significa lottare contro la devastazione ambientale, contro il militarismo e la società capitalista.

Il 25 Aprile non è una ricorrenza,
invitiamo tutte e tutti
a praticare la Liberazione ogni giorno!

INFORMAZIONI SULLA GIORNATA

Corteo:
ritrovo alle 9:30 al parco Coletta, partenza ore 10:30, arrivo in Piazza Castello.

Pranzo sociale
dalle 12:30: prenotazioni al link https://forms.gle/jZxjci81ysriBMWM8  oppure contattare numero 351 920 2691

Concerti
dalle 15:00 alle 23:00: Coro mondine di Porporana, The Stando, Lemore, Plastic Rubbers, Catarsi, L’Istrice, Good Night Irene, Le Iene.

Luogo: Circolo Blackstar, via Ravenna 104

INGRESSO LIBERO

25 APRILE: 4° ANNO DI CHIUSURA DEL MUSEO DEL RISORGIMENTO E DELLA RESISTENZA

25 APRILE: 4° ANNO DI CHIUSURA DEL MUSEO DEL RISORGIMENTO E DELLA RESISTENZA

Digitando “Museo della Resistenza Ferrara”, esce questa comunicazione dal sito del Comune: “Il Museo è chiuso al pubblico fino a data da destinarsi per trasferimento sede”.
Dall’estate 2020 tutto ciò che conteneva è stato rimosso, gli uffici trasferiti a Porta Paola fino a data da destinarsi, in attesa della nuova sede, individuata nel Palazzo Pico Cavalieri, la cui ristrutturazione è in corso e lo è dall’estate 2023.

Negli ex spazi del Museo c’è da tempo il bar del Palazzo dei Diamanti. Si poteva scegliere di spostare il Museo in altra sede idonea o di lasciarlo in un limbo. E’ stato scelto il limbo.

25 aprile 2024: chiediamo che la riapertura del Museo diventi una priorità, con l’individuazione di in una sede adeguata, ripensando il tutto, per dare finalmente alla città un museo sulla sua storia in una sede ampia, con spazi per la didattica.
Chiediamo che chi oggi si occupa di ricerca e documentazione storica sia messo nelle condizioni di poter usare gli strumenti di cui la città già dispone, per sopperire alla perdita del patrimonio umano e morale costituito dai partigiani in carne e ossa. Senza sede fisica il Museo non può esprimere le sue potenzialità, come le attività di divulgazione e formazione.

Le memorie della storia, dell’antifascismo, della Resistenza, devono essere uno strumento per interpretare l’oggi! Antifascismo è una parola importante, che va pronunciata, promossa e praticata con tutti gli strumenti possibili.
Si tratta di chiedersi, oggi, cosa significa riconoscere e prevenire le radici del fascismo e farlo, interpellando la realtà che viviamo nel presente: tutelando la libertà di espressione e il pluralismo, difendendo le minoranze e riducendo le ingiustizie, denunciando le discriminazioni e la repressione del dissenso.

Il Museo è stato inaugurato nel 1903, in onore dei patrioti ferraresi Giacomo Succi, Domenico Malagutti e Luigi Parmeggiani: raccoglie armi, uniformi, cimeli, fotografie, manifesti e documenti di Ferrara e nazionali dei secoli XIX e XX. Nel 1954 venne aggiunta la sezione dedicata alla Resistenza italiana; nell’occasione l’originario “Museo del Risorgimento” cambiò nome in “Museo del Risorgimento e della Resistenza”.

Il Museo, anche in questi ultimi faticosissimi quattro anni, ha continuato a collaborare con le Scuole superiori della città: la coraggiosa mostra “Tutti colpevoli, tutti assolti” sulle atrocità compiute dal regime fascista nel periodo coloniale, realizzata in collaborazione con il Liceo “L.Ariosto” e il recente progetto di PCTO con una classe di Informatica dell’Iti “Copernico – Carpeggiani”, che ha consentito di impostare un programma informatico di catalogazione e visione dei materiali del Museo, ora nei depositi. Importanti anche le collaborazioni mantenute con l’ANPI e con l’Istituto di Storia Contemporanea.

Senza una sede, però, le potenzialità di un Museo che potrebbe e dovrebbe ampliare la propria attività di ricerca e di divulgazione sono, di fatto, quasi azzerate, nonostante l’impegno di chi lì lavora.

Ferrara quest’anno festeggerà per la quarta volta la Liberazione con il Museo del Risorgimento e della Resistenza senza sede.
Giovedì 25 aprile alle ore 12.00 ci troveremo davanti alla sede del Museo in Corso Ercole I d’Este, 17, per chiedere la riapertura del museo in una sede idonea. W l’Italia antifascista!

 

Anna Zonari
Candidata Sindaca di Ferrara

San Giorgio, il Drago, la Principessa

San Giorgio, il Drago, la Principessa

La storia che segue, ambientata nella città Estense, è poco più di una favola. I tre protagonisti nascono e vivono nel fumo della fantasia, ma per qualsiasi ferrarese sarà facile scoprirne il vero volto e dargli un nome.

San Giorgio

Il 23 aprile è San Giorgio, a Ferrara è festa. Probabilmente questo Giorgio (George il Cavaliere) non è mai esistito, dubbia comunque  la sua efficacia come santo protettore, visto l’inarrestabile declino della città. Non fa niente, Giorgio continua a uccidere il drago e a liberare la principessa in un’infinita iconologia: ovviamente il mio preferito è il San Giorgio di Cosmé Tura al museo del Duomo .

Cosmé Tura, San Giorgio e il drago, particolare

Stringi stringi, la cosa che più conta – almeno finché qualche governo non deciderà di abolirla – è LA FESTA. Il 23 aprile è la festa di tutta la comunità cittadina: la Fiera del Montagnone, il riposo da scuola e dal lavoro, e il passeggio, le bancarelle, le giostre, lo zucchero filato… spero proprio non abbiano smesso di filarlo: sento ancora la voce di mio padre: “Attento Checco, che plicca!”.
La Fiera di San Giorgio, per me e credo per tutti i ferraresi, è quindi sinonimo di infanzia, di un’ora serena. Oggi, nel delirio del consumo, la Fiera non è più la grande attrazione. Siamo diventati grandi, irrimediabilmente. Ma c’è di peggio: da tempo è proprio la serenità che ci ha abbandonato. Ha imboccato via Piopponi, raggiunto la Casa del Boia e valicato le Mura. Addio. Scappata. Sparita.
Oggi a Ferrara nemmeno un’oncia di serenità. Ferrara va alle elezioni sempre più povera, più divisa, più disillusa, più indifferente.

Il Drago, il prode Anselmo e la principessa Anna

Quando è successo questo disastro umano ed urbano? Non saprei mettere una data precisa, ma sono anni, almeno vent’anni che la città scende la china. Come abbiamo vissuto? Maluccio, senza lode e senza infamia, ma Ferrara in qualche modo tirava avanti, la testa appena fuori dall’acqua. Poi un giorno è arrivato il Drago. Un giorno di giugno di 5 anni fa, lo ricordo come ieri, quando ho visto per la prima volta il nuovo signore e padrone di Ferrara. Non sembrava neppure feroce, era un Drago vestito di modernità, che non sputava fuoco, ma raccontava balle e distribuiva favori. Gli piacevano i brindisi e le feste. Ma intanto diventavamo sempre più poveri. Per Ferrara non era più decadenza, era la notte della democrazia.

Sarà possibile cacciare da questa landa il Drago con il codino? Assisteremo a un coraggioso duello, a uno scontro frontale, al miracolo di un lieto fine per un popolo stanco di feste e di menzogne. Speriamo. Sarebbe anche già pronto il posto giusto dove alloggiare il Drago sconfitto. Non la solita caverna ma un nuovissimo vulcano, simbolo dell’ultimo orrendo insulto edilizio.  Dentro quel comodo buco potrebbe dormire un paio di secoli: dicono che i draghi abbiano il sonno pesante.

L’intervento in piazza Cortevecchia, in pieno centro storico

Improvvisamente ho visto stagliarsi all’orizzonte e scendere in campo due prodi volontari. Ecco il prode Anselmo, ed ecco la principessa Anna. Il primo ha voce tonante, dichiara un battaglione al seguito, anche se la ruggine non fa risplendere la sua armatura e appare un po’ ingobbito da un pesante bagaglio. La principessa Anna invece sta già correndo incontro all’avversario, ha deciso di liberarsi  dalla schiavitù che opprime lei e tutto il suo popolo. Senza armatura. E senza l’aiuto di San Giorgio.

Per conoscere l’esito di un duello ancora incerto e il nome della vincitrice o del vincitore, basta attendere poche settimane. Sarà allora il momento di scegliere il proprio eroe e la propria insegna per amore di Ferrara.

In copertina: Cosmé Tura, San Giorgio e il drago, La principessa, particolare

Per gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Diario in pubblico /
Canfora-Scurati. 2 alla volta

Diario in pubblico. Canfora-Scurati. 2 alla volta

 Ancora una volta la “guerra ideologica” si svolge coinvolgendo i cosiddetti intellettuali che, come è stato e sarà, rimangono la cartina di tornasole necessaria a confrontarsi con la politica come e comunque spiri il vento. Stupisce però che l’alzo zero della destra al governo si rivolga a due popolarissimi e da tutti stimati pensatori che non rappresentano solo la posizione di una fantomatica sinistra che fino a questo momento sembra se non disorientata certamente cauta, troppo a mio parere, nel denunciare l’accaduto.
E ciò che mi stupisce che in una città coinvolta nelle imminenti elezioni non si sia presa una decisa e chiara presa di posizione in vista proprio delle imminenti elezioni. Un importante rappresentante della sinistra mi bofonchia che è molto meglio non usare troppo il termine “Pd” e scivolare sul pericoloso versante usando semmai solo il termine sinistra. Non so se in questa domenica (il natale di Roma….) in cui si svolgono importanti manifestazioni la “ sinistra” avrà il coraggio ( almeno così lo ritengo) di sollevare la questione, Oppure sarà più utile tacere? Ai posteri l’ardua sentenza.

Ancora una volta devo citare l’esortazione dell’amico Fiorenzo Baratelli che scrive oggi:

“Abbiamo letto il testo di Scurati, e comprendiamo l’ira di ‘questa’ destra sciagurata che non ne vuole sapere di riconoscere l’antifascismo come fondamento della nostra democrazia repubblicana, nata dalla Resistenza e dal sacrificio di tanti partigiani e dei loro dirigenti martiri: Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli, Antonio Gramsci, Leone Ginzburg, Eugenio Curiel.” Dunque, una destra “sciagurata” ma perché l’uso di questo aggettivo? Dove sta la sciagura? E qui non si tratta di un film dove un personaggio porta quel nome ma di un giudizio democraticamente espresso su un’azione politica. E allora?

Ma vediamo da vicino dove sta il “peccato” commesso dai due pensatori.

Di Luciano Canfora basta leggere il suo curriculum per capire l’importanza scientifica del suo pensiero. E anche l’aspetto fisico conferma questa sua qualità. L’ho conosciuto proprio qui a Ferrara nonostante che nessuno lo abbia per ora ricordato. E dove? al Meis quando il 21 settembre 2021 presentò la Festa del libro ebraico e tenne una fondamentale Lectio magistralis. Un dato curioso che serve almeno ad alleggerire la questione è nei nomi (Nomina sunt numina!) con cui Canfora si è confrontato e si confronta: Carlo Sisi, Carlo Greppi, Carlo Ginzburg, Carlo Maria Cipolla! La squadra dei Carli….

Antonio Scurati venne al Libraccio a presentare il suo libro che ottenne molto successo anche di vendite.

Ora resta da concludere come e perché la destra abbia così pesantemente agito in una ristrutturazione delle reti pubbliche che sembra abbiano rafforzato invece il sistema di un terzo polo. E i “nomi” che hanno affrettato il trapasso hanno reso più probabile la profonda trasformazione della informazione televisiva che presso i giovani diventa sempre più obsoleta.

Purtroppo, il traino è dato da altri sistemi che le giovani generazioni inseguono e frequentano. Però che si trascuri la conoscenza per la moda helas! fa soffrire chi scrive queste note.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Appendice

Il testo di Scurati censurato

Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.

In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.

Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?

Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.

Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.

Cover: Antonio Scurati – foto da radiopopolare.it

Elezioni a Ferrara: Fabbri non è sostenibile!

Lunedì 22 aprile, in occasione della Giornata della Terra, a Milano si sta tenendo una iniziativa molto importante sul diritto di tutte e tutti a respirare un’aria pulita. A lanciarla sono stati congiuntamente i sindaci di Milano, Bologna, Torino, Venezia e Treviso, con una lettera invito a partecipare, indirizzata ai Primi Cittadini e alle Prime Cittadine dei comuni della Pianura Padana.

I Sindaci ricordano che quello dell’inquinamento è un tema urgentissimo perché ne va della salute delle cittadine e dei cittadini. Va affrontato con rigore e a partire dai nostri territori, consapevoli che “quando parliamo di aria non possiamo limitarci ad indossare le lenti del perimetro comunale, ma dobbiamo necessariamente considerare l’intera Pianura Padana”.

Il Sindaco Fabbri? Non ci risulta a Milano e questo ci sembra davvero grave!


C’è urgenza di accelerare la transizione
attraverso il protagonismo dei Comuni e delle Comunità locali e con azioni di sistema.
Per questo motivo, nel mio programma, è già tracciato il percorso per “mettere a terra” i grandi obiettivi dell’agenda 2030 (www.lacomunediferrara.it )in particolare punto 4) e per questo ho ricevuto il logo di Candidata Sostenibile da parte della Rete dei Comuni Sostenibili, l’associazione nazionale più grande in Europa di Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni che si dedicano al raggiungimento degli obiettivi di neutralità climatica.
Mi sono impegnata alla realizzazione del Rapporto di Sostenibilità e dell’Agenda 2030 attraverso il monitoraggio volontario delle politiche locali, la pianificazione della strategia, la definizione degli obiettivi di miglioramento, azioni e progetti concreti, il coinvolgimento delle comunità locali.

Anna Zonari
Candidata a Sindaca di Ferrara

I fanatici della vita, purché non sia la vita delle donne

I fanatici della vita, purché non sia la vita delle donne

La stampa del 17 aprile riporta lo scontro fra la ministra delle pari opportunità spagnola Ana Redondo e Giorgia Meloni sull’emendamento al dl sul Pnrr che prevede il coinvolgimento nei consultori di “soggetti del terzo settore  che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”, intendendo, ovviamente, le associazioni pro-life contrarie all’aborto. Alla logica accusa di pianificare “pressioni organizzate contro le donne che vogliono interrompere una gravidanza”, la Meloni risponde sprezzante: gli “ignoranti non diano lezioni”. A dimostrazione di aver perso una buona occasione per tacere e per praticare la virtù di cui è più carente, l’umiltà, la premier italiana si è beccata immediatamente una lezione di gestione politica dall’Unione Europea, che le ha ricordato di non inserire nel Pnrr “norme che le sono estranee, come ad esempio la legge sull’aborto”. L’emendamento, cioè, pur non prevedendo un finanziamento diretto con i fondi del Next Generation Eu, non è in linea con quanto concordato per il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato dall’Unione Europea.

La Meloni non è sola nelle figuracce politiche che riempiono di commenti i quotidiani, ma le condivide con Bruno Vespa, che ha avuto il pessimo gusto di dedicare la puntata del 18 aprile di Porta a Porta ai temi dell’aborto e della legge 194, invitando sette uomini e nessuna donna. La “distrazione” gli è costata la lettera di richiamo della presidente della Rai Marinella Soldi che gli ha ricordato il rispetto delle norme di equilibrio di genere nel dibattere qualsiasi tema, “in particolare su un tema così sensibile e che chiama direttamente in causa direttamente il corpo delle donne”.  La mancanza di stile di Vespa merita la risposta ironica della giornalista Assia Neumann Dayan che scrive scherzosamente sulla Stampa di essere stata invitata dal servizio pubblico a parlare di andropausa, insieme a sei sue amiche, mettendo in rilievo quanto la trasmissione si sia rivelata più ridicola che minacciosa per le donne.

Entrando nel merito della pericolosità dell’emendamento di FdI al Pnrr, si può concordare sul fatto che la legge 194 necessiti di una piena attuazione, ma per motivi diametralmente opposti a quelli presentati dal governo. Innanzitutto i luoghi deputati all’applicazione della legge, i consultori, sono il 60% in meno di quelli necessari, secondo l’indagine più recente dell’Istituto superiore di Sanità del 2018-1019. A fronte del numero stabilito dalla legge 34 del 1996, che ne prevede uno ogni 20.000 abitanti, sono attualmente uno ogni 32.325 residenti, per un totale di 1.800 sul territorio nazionale. A fronte del progressivo accorpamento, smantellamento, impoverimento di personale dei consultori pubblici, si moltiplicano quelli privati, sulla base della rete di mobilitazione ispirata dal Vaticano in “Agenda Europa” .

All’interno dei consultori pubblici rimanenti il numero di obiettori di coscienza, fra medici, assistenti sociali e psicologi, spesso raggiunge quasi la totalità del personale. Da notare, in tema di prevenzione dell’ interruzione volontaria di gravidanza, prevista dalla legge, che gli antiabortisti sono contrari anche alla somministrazione alla pillola del giorno dopo (o dei cinque giorni dopo). La somministrazione immediata eviterebbe molte interruzioni di gravidanze indesiderate, sventando il pericolo dell’introduzione dell’orribile legge di iniziativa popolare (per fortuna ferma) che introduce nell’art.14 della legge 194 del 22 maggio 1978 il comma 1-bis: “Il medico che effettua la visita che precede l’interruzione volontaria di gravidanza ai sensi della presente legge, è obbligato a far vedere, tramite esami strumentali, alla donna intenzionata ad abortire, il nascituro che porta nel grembo e a farle ascoltare il battito cardiaco dello stesso”. Chi riesce comunque a pervenire alla pillola del giorno dopo la trova in commercio al prezzo di 26,85 euro, una cifra molto alta perché considerato farmaco non essenziale, con un prezzo difficilmente accessibile, specialmente per giovani ragazze. Da sottolineare, come afferma Graziella Bastelli, attivista di Non una di meno, che nei consultori non sarebbe prevista l’obiezione, come stabilisce una sentenza del Tar del Lazio del 2016, opzione possibile solo per il personale che opera negli ospedali pubblici. Questo sta a dimostrare che, al momento attuale, l’iter che intraprende una donna per interrompere volontariamente una gravidanza è già abbondantemente costellato di figure che tentano di dissuaderla. Se l’intento del governo fosse coerente con quanto afferma, cioè di voler dare piena applicazione a una legge già esistente da decenni, come la 194, avrebbe cominciato con il contrastare la china del sottodimensionamento dei consultori pubblici e a dare piena attuazione al dovere dei medici che lavorano nei consultori di fornire i certificati necessari per l’interruzione di gravidanza e/o i contraccettivi di emergenza (pillola del giorno dopo) che permettono di evitarla.

Risulta invece evidente un subdolo e continuo attacco al diritto di autodeterminazione delle donne, colpevolizzate in modo esclusivo nel momento estremamente difficile della scelta. Dal punto di vista culturale, in tema di prevenzione, l’educazione affettiva o sessuale prevista nelle scuole, in cui siamo in notevole ritardo rispetto agli altri Paesi europei, dovrebbe responsabilizzare all’uso degli anticoncezionali anche i maschi, alleggerendo le donne dalla responsabilità integrale della tutela da malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate. L’arretratezza culturale che contraddistingue la politica familista del governo italiano risulta, fra l’altro, in netta controtendenza rispetto all’Unione Europea, dove la Francia mette il diritto di aborto nella propria Costituzione e l’Europarlamento ha votato una risoluzione per inserire il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

 

Photo cover repertorio LaPresse

 

Per certi versi / IL MESE DELLA LIBERAZIONE

IL MESE DELLA LIBERAZIONE

al cimitero
Solo
Con gli uccellini
L’ombra
E la luce
Colorata di aprile
Il nostro mese
Babbo
Il mese della Liberazione
Parlo con te
Ricordo
I tuoi ricordi
Il tuo nonno
Trafitto dai neri
Una pozza
Rossa
Diventò
Un garofano
È anche questo
il segreto
Della nostra
Vita
Tutti i
Fabbri del pensiero
Di fronte
Al mistero
Della sorte
Sono un pugno
Di sabbia
Nel deserto
Senza fine

 Cover: immagine storica tratta da www.studenti.it

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

LA CASA, GLI ANZIANI, IL COHOUSING: I NOSTRI ULTIMI TRENT’ANNI

LA CASA, GLI ANZIANI, IL COHOUSING: I NOSTRI ULTIMI TRENT’ANNI

Sono sollevata di invecchiare, mi godo ogni momento di questi anni; ho avuto storie, figli; ora ho dei nipoti, e davanti a me forse ancora un paio di decenni da trascorrere in autonomia e libertà. Ho scelto di vivere in un Cohousing qui a Ferrara, ossia in un condominio con spazi comuni, dove persone giovani e anziane condividono la vita di tutti i giorni in un giusto mix di autonomia e socialità. Ogni settimana riceviamo da tutta Italia almeno due o tre telefonate di persone anziane che cercano una soluzione abitativa simile, disposte anche a cambiare abitudini, amici, città pur di vivere in modalità comunitaria. Sono quasi tutte persone comprese nella fascia di età che va dai 60-65 anni (l’età della pensione) agli 85-90 (cioè il momento in cui si perde l’autosufficienza): sono circa trent’anni di vita. Trent’anni in cui, pur dedicandosi ad attività di volontariato e di svago, si teme la solitudine e si vorrebbe condividere il tempo rimasto, sostenendosi a vicenda in amicizia e serenità.

Ferrara è una delle città italiane con il maggior numero di anziani. L’Italia, insieme al Giappone, detiene il primato di nazione più vecchia del mondo: ciò significa che tra dieci anni gli asili e le scuole ferraresi caleranno a vista d’occhio, e che la popolazione sarà costituita in maggioranza da anziani, molti dei quali soli, per vedovanza o per scelta.

In molti paesi europei il governo ha stanziato dei fondi per costruire piccole strutture in centro città, strutture che permettono alle persone anziane di mantenere la loro indipendenza vivendo una vita dignitosa e a costo calmierato. L’idea alla base di questa iniziativa è quella di recuperare l’investimento fatto riducendo i costi della salute, perché più si è soli più ci si ammala; la solitudine infatti non costituisce soltanto uno status sociale problematico, ma incrementa il rischio di morte prematura.

Ferrara ha una grande domanda abitativa inevasa. Tra le case popolari ci sono centinaia di alloggi di vecchia costruzione vuoti, che necessitano di una profonda ristrutturazione. Per restaurarli e renderli disponibili, serve l’impegno di Comune e Regione.

Il Comune di Ferrara potrebbe creare dei Bandi per case popolari in cui unire l’Housing sociale al Cohousing, come ha fatto il Comune di Bologna con Porto15”, esperienza fantastica e interamente pubblica che ha portato all’assegnazione di 18 alloggi a chi, oltre a soddisfare altri requisiti, ha dimostrato di essere disposto a condividere il proprio tempo con i vicini per migliorare i rapporti interpersonali. L’esperimento, molto ben strutturato, ha avuto grande successo ed è stato copiato da altre Amministrazioni, come ad esempio quella di Albiano in Trentino.

I destinatari del Bando potrebbero essere gli anziani ma anche soggetti più giovani, come le famiglie monoparentali o gli studenti: un condominio intergenerazionale è sempre una ricca fonte di scambi reciproci. Sono indispensabili spazi comuni di aggregazione, interni ed esterni, e un percorso di formazione prima dell’ingresso e durante la permanenza negli alloggi, perché l’arte del vivere insieme non si può mai dare per scontata. Un percorso impegnativo, che però funziona – lo dimostrano i tanti esperimenti, anche privati, in atto in tutta Italia – e che porterebbe a un rinnovamento positivo delle politiche abitative del Comune di Ferrara, per regalare a noi anziani trenta ultimi, splendidi anni di vita.

Alida Nepa
Cohousing ‘Solidaria’ – Ferrara

In lista per la candidata sindaca Anna Zonari

Laboratorio di poesia in carcere:
le parole per dire il “dentro” e il “fuori”

Laboratorio di poesia in carcere: le parole per dire il “dentro” e il “fuori”.

di Roberta Barbieri, Lucia Boni, Angela Soriani

Parafrasando Patrizia Cavalli possiamo affermare che sì, le poesie non salveranno il mondo, ma ci offrono spiragli di senso sulla sua complessità. Attraverso le sue molteplici e innumerevoli forme si dispiegano strade aperte o sentieri segreti,  possibilità di racconto o di gioco, deflagrante musicalità, sfogo, ribellione, ironia. Libertà insomma.

È su queste basi che come volontari di Ultimo Rosso, tra Febbraio e Aprile 2024, abbiamo proposto un percorso sulla poesia nella Casa Circondariale di Ferrara: sei incontri aperti a detenuti interessati all’argomento. Con la collaborazione di Annamaria Romano e delle altre educatrici della struttura, e con la consulenza di Mauro Presini,  le attività sono state condotte da Roberta Barbieri, Lucia Boni,  Cristiano Mazzoni, Francesco Monini, Angela Soriani.

A rimarcare che la poesia “è inseparabile compagna”, come ricorda Andrea Zerbini (“Le ceneri della poesia” in Periscopio, Febbraio 2024), le sue tematiche generali sono state affrontate in cerchio per irradiare la relazione, mescolando i “dentro” e i “fuori” e  inframmezzando le conversazioni con letture di autori più o meno noti. I testi che proponiamo sono stati realizzati dai partecipanti nelle attività  delineate di volta in volta, tenendo anche conto con particolare considerazione delle richieste formulate dagli stessi.

Riportiamo di seguito, in forma anonima, alcuni testi particolarmente significativi realizzati in ognuna delle attività affrontate. Vorremmo che trasparissero la qualità e l’originalità dei testi come frutto della coesione del gruppo, del rispetto e della disponibilità reciproca.

Testi dopo la cancellazione (esercizi di poesia visiva: da una pagina stampata si scelgono poche parole cancellando tutte le altre, si combinano liberamente quelle prescelte per  comporre la nuova immagine che contiene il testo poetico) 

La scultura:
il tempestivo utilizzo della scultura fornisce
una intensità di espressione
nella scuola d’arte ‘dei Pagliai’.
Dall’esercizio della scultura
derivano momenti con gesti e spazio
e variazione che equilibrano l’armonia
nella realizzazione di una chiocciola, con sequenza di un flusso vibrante.

La fortuna è insolenza
deliberata.
Audacia è un’arte fuori del tempo.
Ambizioso, ingenuo, affascinante,
intelligente l’esposizione dell’ironia.

Umana aura.
Sentimentali etiche teologiche geometriche.
Tra la chioma degli alberi resta buia.
È una rivoluzione.
Fiori divengono fiumi in movimento
A guidare il pensiero di un popolo.

L’Arte
queste parole
scienza, positivismo …
Mio scopo
Pensano regolare.

Labile eternità
ritmo alieno
frenetica illusione
indistinto, trionfale, febbrile
privilegio.

Pseudo HAIKU (dal componimento classico giapponese si trae ispirazione per nuove composizioni)

fotografare
rivedere la foto
sconvolgimento

sole a quadri
bisturi che mutilano
un mondo negato

abbraccio scuro della notte
con silenzio, sugli alberi
il sonno presto ci cullerà

il suono del vento
nei campi di neve
delle erbe nuove

farfalle di polvere
danzano in una luce
che entra, o forse esce?

c’era una volta tapine tapù
sotto il ponte di legno tapine tapù
due ragazze tapine tapù.
La polizia espose un cartello tapine tapù
che era scritto così:
Tapine tapù.

Parole esplose (si compone il campo semantico di una parola-chiave trascritta su un supporto di carta colorata a forma di raggera)

ONDE – profumo dune segni che svaniscono capelli lingua del vento colline marea cerchi nell’acqua sonore non si trasmettono nell’aria

Con le parole “d’affetto” salvate nel cestino (si pescano a caso alcune parole scelte e trascritte dai partecipanti in ogni incontro, poi collocate in forma anonima in un contenitore; la tessitura delle parole estratte porta a comporre testi poetici, alcuni con la struttura in strofe della canzone)

Rinascere da un comune caos
Caos comuni dai quali rinascere
Essere caos e rinforzarsi
Rinforzarsi ed essere: Matriarca

Ad un mondo mi incita
il torpore dell’anima.
Preferisco una scultura
ancora viva.
Alla conoscenza del nulla
preferisco la visione ardita
della
Nike di Samotracia

A CASO
Paci e baci
Baci e abbracci
Sangiovese
Son già prese
Son già spese
Apparendo
Solo aprendo
Ali di farfalle
Stracci di canaglie
Si sta bene
Meglio insieme
Ugo Foscolo
Al crepuscolo
Col ciauscolo
E il coniglio
Del carrello sono sveglio
Notte fonda
Scrivo meglio
Sopra l’onda
Sulla scia
Di amore e di follia

BLACK FRIDAY
Ci sono paci e paci
Quelle belle e quelle che ti dispiaci
Quelle che si stappa il Sangiovese
E quelle tese che apparendo paci sono spese
Sono prese
Sono intrise
Son finite
Sono sconfitte

Ci sono insieme e insieme
Quelli belli che stai tanto bene
Quelli stupendi come stormi di farfalle
E poi quelli stretti, che pesano alle vene e sulle spalle
Come ammucchiate
Come cataste
Con i conigli nelle gabbie
O il consumismo di etichette
Il crepuscolo della gente.

Roberta Barbieri, Lucia Boni, Angela Soriani

Quella cosa chiamata città /
La città corpo

La città corpo

Immaginiamo la città come un corpo che nella fase iniziale della sua vita si comporta come un organismo sano, plasmato dai fisiologici processi vitali associati all’accrescimento. Ad un certo punto, tale processo di crescita viene depistato da qualcosa che altera le relazioni tra le componenti che hanno dato forma e struttura all’organismo.

Collochiamo, per comodità, l’avvio di questo processo alterante al tempo della rivoluzione industriale e prendiamo atto che la causa sia dovuta all’accrescimento di parti spesso discontinue che, pur dichiarando l’appartenenza al corpo primigenio, non evidenziano chiare relazioni con esso. Ad uno sguardo analitico ci rendiamo conto che tale corpo non si può più definire “città” nel senso originario del termine, poiché assume sempre più la conformazione di una agglomerazione, o di una urbanizzazione, in ogni caso di un fenomeno non sinonimico rispetto all’organismo che l’ha generato (una città, un insediamento compatto).

Questo passaggio da città a urbanizzazione attraverserà diverse fasi e momenti della storia degli insediamenti urbani dando vita a diverse configurazioni o fenomenologie, sia morfologiche che sociali (metropolizzazione, periferizzazione, diffusione urbana, informalità, marginalità, ecc.).

In ogni caso, pensando alla mutazione climatica che stiamo vivendo e al fatto che questa si avvia con la rivoluzione industriale e accelera nel XX° secolo con l’emissione massiccia di CO2 in atmosfera, la città da organismo compatto e sano si trasforma in organismo informe che inizia ad evidenziare delle metastasi composte di cellule malate eppure vive, che ne attivano altre, in altre parti dell’organismo, mentre in alcuni casi si atrofizzano e muoiono, restando ferme al loro posto, abbandonate e dismesse.
I circuiti che creano le connessioni tra queste parti iniziano a perdere di fluidità a causa di emboli probabilmente generati, nel corso degli anni, da un difetto di manutenzione dell’organismo e da un sovraccarico di flussi, in particolare in alcuni nodi.
Per usare un’espressione comune stiamo parlando di un fenomeno (urbano) che continua a crescere, in dimensioni e percentuali variabili a seconda delle città e dei paesi e che potremmo, con termine tecnico, definire “consumo di suolo”.  Un processo fondato su alcuni ossimori non dichiarati ma evidenti, quali “progresso-miseria” o “ordine-disordine”. Del resto, secondo Pier Paolo Pasolini, non vi è nulla di più intrecciato che “ordine” e “disordine”.

Questa breve e incompleta riflessione per ribadire che il progresso che abbiamo ereditato dalla rivoluzione industriale si fonda ancora oggi su due assunti: agire come se le risorse naturali del pianeta fossero illimitate negare il tema delle diseguaglianze e della redistribuzione della ricchezza come aspetto strutturale del modello neoliberista globale.

Il minimo comune denominatore dell’evoluzione delle nostre città, dall’età Vittoriana ad oggi, è pertanto individuabile nel rapporto “miseria/opulenza” che riscontriamo nelle metropoli europee e occidentali nel corso dell’Ottocento e a inizio Novecento, e che oggi segnala una stabile condizione dei processi di metropolizzazione in corso nel mondo. Il tema della città sana e/o malata costituisce una delle manifestazioni più evidenti di tale rapporto e conflitto. Perché dentro una città malata e disordinata si può vivere in bolle sane e ordinate, basta non guardare ciò che ci sta attorno.

Cover: La prima rivoluzione industriale

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

Aperte le iscrizioni per partecipare alla 7ª edizione del Ferrara Film Corto Festival

La 7ª edizione del Ferrara Film Corto Festival (FFCF) si terrà dal 23 al 26 ottobre 2024 nel centro storico di Ferrara: al via il bando per l’invio dei cortometraggi

Tutti, autori di cinema, filmmaker indie e semplici appassionati che arricchiscono la cultura del cinema possono partecipare a un festival nazionale e internazionale diventato un importante appuntamento e occasione di incontro. Quest’anno saranno molte le novità.

La 7a edizione del Festival si svolgerà dal 23 al 26 Ottobre 2024 presso la Sala dell’ex refettorio di San Paolo, in via Boccaleone 19, sala che, dopo i restauri, il FFCF ha avuto l’onore di inaugurare ad ottobre 2023 per la 6a edizione, e presso la rinnovata Sala Estense, entrambe nel centro storico di Ferrara, città patrimonio dell’umanità UNESCO.

Queste le categorie per la partecipazione, con premi in targhe e danaro.

AMBIENTE È MUSICA

Categoria aperta ad autori nazionali e internazionali di qualsiasi età, che dovranno interpretare il tema “Ambiente è Musica”. La categoria è aperta a ogni genere di cortometraggio (max 25 minuti)

BUONA LA PRIMA

Categoria aperta ad autori italiani, o residenti in Italia, di qualsiasi età e dedicata unicamente a opere prime, a tema libero. La categoria è aperta a ogni genere di cortometraggio (max 25 minuti).

INDIEVERSO

 Categoria aperta ad ogni genere di cortometraggio, a tema libero, purché di produzione indipendente. La categoria è aperta ad autori nazionali e internazionali di ogni età (max 25 minuti).

FFCF è gestito da una squadra giovane e attenta alle tematiche ambientali, tema principale dei cortometraggi in gara e degli eventi collaterali. In questi anni ha instaurato collaborazioni con importanti festival italiani e stranieri e ha partecipato ad altri appuntamenti di prestigio, tra cui la Biennale di Venezia, il Sondrio Festival, il Caorle Film Festival, il Roma Film Corto, il Filmzeit Kaufbeuren, il Festival della Terra e lo European projects festival, primo festival della progettazione europea che si è svolto a Ferrara dal 4 al 6 aprile. Con questa realtà emergente si è avviata un’importante e fattiva collaborazione, volendo ora dare maggior risalto alla prospettiva europea del cinema.

Per dettagli e modalità di partecipazione: https://www.ferrarafilmcorto.it/

Parole a Capo /
Vincenzo Russo: “L’eterno sognatore” e altre poesie

“Beati coloro che si baceranno sempre al di là delle labbra, varcando il confine del piacere, per cibarsi dei sogni.”
(Alda Merini)

L’eterno sognatore

Odo il lamento del vento
che cavalca stanco
abbraccio la sua innocenza
ne accolgo i sussurri muti
come un vecchio albero,
orfano di freschi fiori,
sono un Re
in questo deserto infuocato
e sotto un cielo terso
è Principe il silenzio.
Errante e malandato
seguo la mia barca di carta
che questo cuore di eterno sognatore
ha inventato

 

Grazie Mamma

 

La vita, le origini, le nostre radici
non esisterebbero senza di te!
Sempre pronta ad aspettarci sull’uscio di casa,
con le tue ansie, paure, preoccupazioni.
In qualsiasi momento ti abbiamo cercata,
ci sei sempre stata,
puntuale come un battito di cuore.
Difficile il tuo mestiere, vero Mamma?
Dimmi, qual è il tuo segreto?
Come hai fatto a rimanere sempre
così bella, giovane e forte?
Il tempo non ti ha sfiorato!
Le tempeste che ci hanno colpito,
si sono infrante sul tuo scudo d’amore.
Dimmi Mamma,
ancora oggi saresti gelosa dei tuoi bambini?
Quante storie abbiamo vissuto,
quante amarezze ti abbiamo dato.
Nei nostri occhi riposerà il tuo ricordo,
brillerà, come il sole al mattino, la tua luce.
Sei la rosa dorata della nostra esistenza.
Grazie Mamma!

 

Come uragani

 

Come uragani tornano i pensieri,
tramortiscono
non chiedono il permesso,
Mi sento indifeso
Senza armatura
Vorrei entrare nel tuo intelletto
Carpirti le emozioni.
Il cuore è ferito, ricucito
Ma le tue gemme gli danno ancora luce
Occhi che piangono tristezza
Vita che ha sete di speranza
Non correggermi se il respiro diventa affannoso
Non chiedermi il perché
Ho solo voglia di abbracciare l’aria,
sentirla sulla pelle,
ho solo voglia di sapere
che so ancora amare

 

Auschwitz

 

In questa gelida notte
sono qui
A pugni chiusi
martello i sofferenti legni
da stazione a stazione
da dolore a dolore
mescolo sangue e sudore
avanza funesto il carrozzone
calpesta gli affetti
cancella i ricordi
ferreo e tedioso
il rumore delle rotaie
domina la mente,
di freddo inchiostro mi marchieranno
un granello di cenere nel vento sarò
non riesco a sorridere
il fumo sale lento
il viaggio è quasi finito
prossima fermata Auschwitz

 

Vincenzo Russo nasce ad Aversa l’8 marzo 1966. Nel luglio del 1990 si trasferisce, per motivi di lavoro, a Ferrara. dove tutt’ora risiede. La sua passione per la letteratura e la poesia si manifesta fin da ragazzo, quando inizia ad esprimere su carta i propri pensieri di poeta.
Si laurea in scienze dell’amministrazione presso la facoltà di giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma. È agli inizi degli anni 2000, quando partecipa a diversi concorsi letterari nazionali che le sue poesie prendono vita, ricevendo alcuni importanti riconoscimenti. Nel giugno 2022 realizza il suo primo libro, dal titolo “Quando il cuore sfugge”, dedicandosi ad un progetto destinato ad alcune associazioni locali senza fini di lucro. Nel 2023 esce l’opera letteraria/fotografica “Poeti al trivio – Dissonanze”, realizzata in collaborazione con gli scrittori Rita Consiglio e Nicola Corrado; organizza e coordina, altresì, l’iniziativa “Fantasie tricolori”.
Per il successo acquisito da quest’ultima, ottiene dall’editore Pasquale Gnasso la pubblicazione dell’opera omonima, contenente, tra l’altro, sei suoi componimenti all’uopo realizzati.
Nel 2024 organizza e coordina l’iniziativa poetica/letteraria “Il Giardino dei versi”. Sulla rubrica “Parole a Capo” sono uscite altre poesie di Vincenzo Russo il 31 marzo 2022 e l’8 giugno 2023.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Crisi climatica: le nonne della svizzera vincono una battaglia

Crisi climatica: le nonne della svizzera vincono una battaglia

Martedì 9 aprile la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha stabilito che il Governo della Svizzera ha violato i diritti umani di un gruppo di anziane cittadine riunite nell’associazione delle Klimatseniorinnen, letteralmente “anziane per il clima”.
Da molte parti la sentenza viene definita storica, perché è la prima volta che la Corte annovera il diritto a un clima stabile tra i diritti umani, anche se nello stesso giorno ha respinto, per questioni procedurali, analoghi ricorsi promossi da sei giovani portoghesi e dall’ex sindaco di una cittadina francese. Le questioni affrontate nelle 260 pagine della sentenza della CEDU sono molte e complesse, ma vale la pena di soffermarsi su alcuni punti chiave, per le loro possibili ripercussioni che vanno ben oltre al caso specifico.

Il primo punto è il riconoscimento della crisi climatica come questione che mette in pericolo i diritti umani dei cittadini e delle cittadine dei 46 Paesi che aderiscono alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sul rispetto della quale vigila la CEDU. Si tratta del primo pronunciamento in tal senso, che ha un grande potenziale di essere replicato in casi analoghi. Per questo la Corte ha voluto delimitare il perimetro di coloro che possono ricorrere su questa questione, accettando il ricorso dell’associazione ma non quello di quattro singole cittadine. La sentenza riassume in modo molto efficace i passaggi chiave della scienza sul clima, discute le cause e le conseguenze del riscaldamento globale e descrive il complesso sistema di accordi e convenzioni internazionali costruito per affrontarle. Da questa analisi trae una serie di conseguenze sul dovere degli Stati aderenti di agire per ridurre le emissioni di gas climalteranti nella misura e con i tempi concordati dagli accordi via via sottoscritti, dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992 all’Accordo di Parigi del 2015. La sentenza è molto chiara nell’individuare l’obiettivo generale di questi accordi (mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C rispetto all’epoca preindustriale) e nel definire il riferimento temporale entro il quale le emissioni di gas climalteranti devono essere del tutto eliminate. Coerentemente essa stabilisce che gli Stati devono definire un vero e proprio “budget di carbonio” (cioè un tetto alle proprie emissioni coerente con quanto stabilito dai rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) e che i governi devono adoperarsi affinché le emissioni restino all’interno di questo budget.

Uno secondo punto saliente della sentenza è il riconoscimento del margine di discrezionalità dei governi nella loro azione di contrasto al cambiamento climatico, margine che viene però precisato in due modi diversi. La CEDU, infatti, da un lato riconosce l’ampio margine di discrezionalità dei governi nella definizione delle modalità con cui affrontare il problema, ma dall’altro stabilisce che tale margine è molto stretto per quanto riguarda il raggiungimento degli obiettivi derivanti dagli accordi internazionali sottoscritti. Detto in altri termini, la Corte definisce in capo agli Stati un “obbligo di risultato” e stabilisce che il dovere dei governi non si esaurisce nella firma di accordi internazionali ma si materializza nella predisposizione di atti legislativi coerenti e nella messa in pratica di misure concrete ed efficaci. È importante soffermarsi su questo punto anche in relazione alle posizioni espresse nel nostro Paese in merito alle sempre più numerose iniziative legali sul clima e sull’ambiente da alcuni commentatori i quali paventano il pericolo che alcune “toghe verdi” possano sindacare la discrezionalità politica dei governi nazionali e regionali e delle amministrazioni locali. La sentenza della CEDU fa sul punto una chiarezza indispensabile: la discrezionalità di chi governa è massima sulle modalità con le quali si persegue un risultato ma è minima rispetto all’obbligo di ottenere il risultato, soprattutto quando sono in gioco diritti fondamentali come quello alla salute: la nostra e quella delle generazioni future. Vale la pena notare che a sostegno del Governo svizzero si sono pronunciati i governi di diversi altri Paesi, dall’Irlanda all’Austria, dal Portogallo alla Norvegia e, naturalmente, anche quello italiano. Ciò testimonia la preoccupazione diffusa di chi detiene il potere politico che l’azione giudiziaria dei cittadini possa arrivare laddove non arrivano le proteste e la normale dialettica tra i partiti.

Merita una riflessione, infine, il fatto che l’iniziativa legale sia stata condotta da un’associazione di 2500 anziane signore, che rivendicano il diritto alla propria salute appartenendo a una categoria particolarmente esposta ai rischi dovuti alle ondate di calore, sempre più frequenti e intense. Dopo anni nei quali giovani e giovanissimi hanno riempito le piazze di tutto il mondo e sono diventati protagonisti della lotta al cambiamento climatico, sono ora le loro nonne ad aver registrato uno dei risultati più importanti, almeno sul piano del diritto internazionale. È un messaggio straordinario, che dimostra l’importanza di far uscire la lotta per il clima dalla dimensione generazionale nella quale è stata confinata dalla retorica del “mondo salvato dai ragazzini” (retorica che, peraltro, non li salva dalle denunce e dalle manganellate quando il potere di turno li ritiene troppo fastidiosi). Non potremo mai ringraziare abbastanza i giovani che si sono spesi e si spendono ogni giorno per tenere viva e alimentare questa lotta e senza di loro la Commissione europea non avrebbe trovato la spinta necessaria per far partire il Green deal. Tuttavia, senza una chiara presa di responsabilità degli adulti che occupano oggi tutte le posizioni di potere, non esiste alcuna possibilità di fermare il riscaldamento globale.
Abbiamo un disperato bisogno di un patto tra generazioni: nonne e nipoti ci sono, ora tocca ai padri e alle madri.

Roberto Mezzalama
Roberto Mezzalama è laureato in Scienze Naturali e ha un Master in Ingegneria Ambientale. Da oltre 30 anni si occupa di gestione ambientale e ha lavorato per progetti in oltre 20 Paesi del mondo. Per oltre dieci anni ha collaborato con l’Università di Harvard, attualmente è consigliere di amministrazione del Politecnico di Torino e docente a contratto dell’Università di Torino. Nel 2017 ha fondato il Comitato Torino Respira che si occupa di inquinamento dell’aria. Per Einaudi ha pubblicato “Il clima che cambia l’Italia”.

Parole e figure / Essere pesci fuor d’acqua

“Un pesce fuor d’acqua”, di Mamiko Shiotani, è una delle novità presentata da Kira Kira edizioni alla Bologna Children’s Book Fair appena conclusa con grande affluenza di pubblico. Un albo che parla di diversità e amicizia.

La giapponese Mamiko Shiotani firma un delicato albo illustrato, “Un pesce fuor d’acqua”, con la casa editrice bolognese Kira Kira, cui abbiamo già presentato “Il Kappa della pioggia e L’atelier sul mare”.

Oggi è il turno di Pesciolino che va alla scuola elementare. Tutto nella norma se non fosse che lui è un pesce, quindi, ogni giorno, deve indossare pantaloni e scarpe di gomma e un pesante casco pieno d’acqua, facendo passare le pinne attraverso i fori. Che fatica!

Per andare a scuola, a piedi (le sue pinne sottili non sono certo fatte per camminare), deve, infatti, uscire dall’acqua, è fuori dal suo ambiente naturale.

Quanti di noi lo sono stati o continuano ad esserlo, ma per amore di qualcosa o di qualcuno si fanno cose speciali che gli altri non sono costretti a fare? Il mondo di Pesciolino è così diverso ma, allo stesso tempo, così simile al nostro.

Pesciolino ama le sue scarpe di gomma che fanno gnic gnic, adora tutto della scuola, perché qui s’imparano tante cose nuove, si gioca con gli amici e si pranza tutti insieme. Ma odia l’ora di educazione fisica, soprattutto la staffetta (come non capirlo…). Lui ci prova comunque, non molla! Cade, inciampa e ricade. Nessuno si accorge che piange, con l’acqua nel casco, chi potrebbe vederlo. Tutti però corrono in suo soccorso, gli si raccolgono intorno, la pinna si è gonfiata, che dolore!

Solo nella sua stanza, arriva anche il malumore, quello che prende i pesci fuor d’acqua, gliene capitano davvero di tutti i colori. Per lui è molto difficile camminare, figuriamoci correre! Per fortuna i suoi amici Lucertola e Bambino hanno un’idea brillante…

Una bella storia di diversità, inclusione, amicizia, complicità, accettazione, comprensione, rispetto, caparbietà, forza di volontà e fiducia in sé stessi.

Mamiko Shiotani è nata a Chiba nel 1987, a sud-est di Tokyo; laureatasi alla Joshibi University of Art and Design, dopo aver lavorato presso una società di produzione artistica, ha iniziato a scrivere e disegnare per bambini. Ha vinto vari premi, tra cui la medaglia d’oro alla Biennale di illustrazione di Bratislava nel 2021. Si è classificata due volte al premio assegnato dai librai specializzati giapponesi, prima come artista emergente e poi con “Un pesce fuor d’acqua”.