Sono trascorsi dieci anni dall’elezione di papa Francesco (13 marzo 2013).
Scrive Alberto Melloni che “non bastano per fare il bilancio di un papato” (QN, 12 marzo 2023), perché la conclusione dei pontificati spesso si caratterizza per alcuni finali colpi di reni. È accaduto, per esempio, con la Pacem in terris di Giovanni XXIII (aprile 1963) e la Declaratio di rinuncia di Benedetto XVI (febbraio 2013).
Due avvenimenti che, per importanza, portano a condividere la tesi secondo la quale per tentare un bilancio occorre attendere la fine di un pontificato.
Eppure, continua lo storico, un decennio è sufficiente per disegnare “nitide le parole-chiave di papa Bergoglio”.
Ma ancor prima, può essere utile comprendere il significato di quella scelta compiuta dal conclave nel marzo di dieci anni fa, e proprio alla luce della “operazione Bergoglio”, potrebbero risultare maggiormente contestualizzate le sue parole-chiave, ossia la sua direzione di marcia.
Per farlo occorre risalire all’uscita di scena del suo predecessore, Benedetto XVI.
Come è noto, il nome del cardinale gesuita argentino, arcivescovo di Buenos Aires, compare come candidato nel conclave del 2005, ma risulta ben presto chiaro che l’unica vera candidatura è quella del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, strettissimo collaboratore del suo predecessore, papa Wojtyla.
Come scrive ancora Melloni “il disordine che ha travolto Ratzinger è stato uno dei mandati del conclave”. Lo storico che insegna all’Università di Modena-Reggio Emilia, nel breve spazio di un articolo di giornale non ha modo di argomentare quel “disordine”, eppure paiono chiari i riferimenti, innanzitutto, all’ondata di scandali e fallimenti che hanno investito la chiesa durante il suo pontificato (abusi sessuali, le finanze, gli intrighi di curia compresa la fuga di carte dalle stanze vaticane, il tentativo di riavvicinare i lefebvriani …).
Numerosi osservatori vedono però molto altro e di molto più profondo in quelle clamorose dimissioni. Ci sarebbe, cioè, la fragilità e l’obsolescenza di una strategia ecclesiale e di un paradigma pastorale complessivi giunti inesorabilmente al loro capolinea, di cui Ratzinger è stato, forse, l’ultimo e più autorevole, oltreché integerrimo interprete.
Fra queste analisi, trovo particolarmente convincente quella che fa lo storico Daniele Menozzi(Il papato di Francesco in prospettiva storica, 2023).
Provo a farne sintesi.
Il punto di partenza cruciale da cui prende le mosse questa analisi risiede nel significato del termine “aggiornamento”, chiesto da papa Giovanni XXIII (“balzo in avanti”), con la convocazione del concilio Vaticano II e con il suo famoso discorso di apertura di quell’assise; Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1961).
Innanzitutto occorre chiedersi il perché di una richiesta tanto esigente, specie se si pensa che Roncalli venne eletto come un papa di transizione.
L’urgenza avvertita dal pontefice bergamasco era che la chiesa doveva ritrovare la capacità di rendere comprensibile all’uomo contemporaneo il messaggio cristiano.
C’era, in sostanza, la consapevolezza di una distanza, una progressiva incomprensione, nel rapporto tra la chiesa e il mondo.
Le ragioni di fondo di questo solco venivano individuate nella lunga egemonia della cultura intransigente sospinta per secoli, sorretta da una corposa sponda teologica e da una incontestata postura pastorale, che però stava rivelando i segni inequivocabili di un sostanziale fallimento.
Credo che per capire la portata di questo tema sia utile ripercorrere brevemente le parole della teologa Marinella Perroni in una relazione svolta nel settembre 2021 su invito del vescovo della diocesi calabrese di Cassano allo Jonio, mons. Francesco Savino (Una chiesa sinodale: “c’è un tempo per demolire e un tempo per costruire” (Qo 3,3). Un discernimento generativo).
«L’ultima grande riforma della chiesa, che ne ha definito la forma identitaria ad intra come ad extra, cioè il suo impianto istituzionale nonché il suo modo di rapportarsi al mondo, risale all’epoca medievale, più precisamente all’XI secolo. (…) Con la riforma gregoriana, voluta da papa Gregorio VII (1073-1085), la chiesa latina a partire da una concezione teocratica del potere e dalla conseguente convinzione della superiorità del papato su ogni autorità temporale, non soltanto si lancia in uno scontro permanente con re e imperatori, ma rafforza sé stessa grazie all’affermazione di un ferreo centralismo romano e di una rigida struttura clericale.
Da allora la chiesa latina non ha più saputo riformare sé stessa. (…) Quando diciamo che la chiesa deve liberarsi dal clericalismo, affermiamo di fatto che (…) deve trovare la forza di una riforma che la faccia finalmente uscire da mille anni di storia che l’hanno vincolata a modelli ideologici e istituzionali del tutto incompatibili con il mondo degli uomini e delle donne del nostro tempo, figli della cultura democratica e delle lotte per i diritti umani, attenti alle esigenze e alle spinte tecnologiche, aperti ai richiami della spiritualità, ma allergici a riconoscersi in enclaves militanti o devozionali (p. 3-4).»
Del tutto analoga alla lettura della biblista Perroni è quella dell’ecclesiologo Severino Dianich, che nella riflessione La Chiesa dopo la Chiesa (Il Regno 14/2013), scrive:
«Mentre si sviluppava l’assetto liberale della società e cresceva l’aspirazione dei popoli a essere governati democraticamente (aspirazione che diventerà drammatica sotto le dittature del Novecento) e mentre si diffondeva una cultura protesa all’esaltazione della dignità della persona umana e della sua libertà, nella Chiesa persisteva il rifiuto della laicità dello stato e il sogno di poter restaurare dovunque lo stato confessionale, che le avrebbe assicurato l’esercizio di un vero potere, anche se indiretto, sullo stato e i suoi organi legislativi.
(…) Le frequenti condanne da parte del magistero di tesi filosofiche, di progetti politici, di tante espressioni delle arti e del costume non sono riuscite, di fatto, a scalzare neanche di poco l’affermarsi di una cultura che, pur portatrice di molti valori evangelici(corsivo mio), veniva contrapponendosi alla predicazione e alla politica ecclesiastica della Chiesa cattolica. Questa posizione perennemente antagonista ha allargato, invece, sempre più il fossato fra i non credenti e la comunità cristiana (p. 466).»
Con il suo discorso di apertura del concilio Vaticano II papa Roncalli – per tornare all’analisi di Menozzi – “forniva una diagnosi della situazione e proponeva una soluzione”:
Erano i “profeti di sventura”, che nei tempi moderni vedevano solo disastri e rovine, ad aver allontanato i contemporanei dalla fede cattolica. In effetti, lanciando anatemi contro diverse conquiste di un uomo moderno che, sottraendosi alla guida ecclesiastica, rivendicava la capacità di costruire in piena autonomia una convivenza più prospera e felice, essi mitizzavano i tempi della cristianità rispetto a un presente connotato negativamente.
Stigmatizzando il rimpianto del passato – un monito in cui si può facilmente leggere un implicito riferimento al medievalismo della cultura intransigente -, Giovanni XXIII mirava a ovviare al pericolo di una Chiesa che, separandosi dalla società moderna, rischiava di ridursi alle dimensioni di una setta (p. 19-20).
Vale la pena, qui, aprire un inciso che aiuta a darci la cifra della posta in gioco che si apriva con l’invito di Roncalli a compiere quel balzo in avanti, rappresentato dalla formula dell’aggiornamento.
Era invitabile che, non essendo questa lettura patrimonio dell’intera ecclesia, si sarebbero ben presto espresse le resistenze a queste aperture e, soprattutto, alle conseguenze che esse implicavano. Resistenze che si manifestarono durante tutte le quattro sessioni del Vaticano II, che animarono successivamente il dibattito postconciliare e che tuttora danno voce a posizioni anche di aperto dissenso ecclesiale, fino a posizioni di aperta opposizione all’attuale pontefice come non si sono mai viste nella storia recente.
Esprime bene questo passaggio lo storico Andrea Riccardi (La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo, 2021):
«Quando ci si concentra sul presente, il confronto corre al passato prossimo, quando la situazione era migliore, più folto il numero dei fedeli e di ecclesiastici. Chi è fisso sul presente è spinto a confrontarsi con ieri e a restare immobile, quasi che la sfida del futuro sia troppo ardua per le proprie forze e ci si deve accontentare di tenere sull’oggi. Questo è scivolare nell’ ‘irrilevanza’ (p. 225).»
A proposito della persistenza di tali posizioni e segnatamente delle più recenti e vivaci contestazioni, si possono ricordare quelle provenienti dagli ambienti più tradizionalisti con l’applicazione dello stesso schema interpretativo riservato a tutti i papi del postconcilio: l’allontanamento dall’ortodossia cattolica.
La pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris Letitia (2016), ossia il documento di sintesi dei due sinodi sulla famiglia (2014 e 2015), fu l’occasione della famosa lettera che quattro cardinali (Raymond Burke, Carlo Caffarra, Walter Brandmüller e Joachim Meisner) indirizzarono al pontefice e alla Congregazione per la dottrina della fede, per metterne sotto accusa l’impianto dottrinale.
Un secondo esempio fu, nel 2017, una “correzione filiale” sottoscritta da esponenti della galassia anticonciliare, che individuava sette posizioni eretiche nell’insegnamento del papa.
Su questi episodi lo storico Menozzi è ancor più netto nell’analisi, classificandoli come:
«l’occasione per mettere in mostra l’inconsistenza culturale di simili posizioni. In effetti ben più che alla millenaria tradizione cattolica i circoli tradizionalisti si richiamano alla riformulazione dell’eredità della Controriforma che ha compiuto l’intransigentismo cattolico otto-novecentesco. L’identificazione di queste recenti elaborazioni teologiche con la millenaria tradizione della Chiesa ne rileva tutta la fragilità intellettuale (p. 6).»
Tale repertorio di rilievi critici sarebbe tuttavia parziale se non si comprendessero anche quelli provenienti dagli ambienti progressisti. Sulla scorta delle resistenze della Santa sede a riconoscere alcune istanze delle chiese locali (l’ordinazione di diaconi permanenti sposati, la revisione del celibato per il sacerdozio, l’apertura alle donne di ruoli ministeriali)
«qualche commentatore ha caratterizzato come immobilistica la linea di Francesco. (…) Altri hanno sostenuto che la curia romana ha architettato (…) la costruzione della fittizia immagine di un papa rivoluzionario, per ottenere, con la complicità di alcuni organi d’informazione e dello stesso Francesco, il vero obiettivo cui mirava il conclave che nel marzo 2013 lo ha eletto: impedire ogni reale riforma del cattolicesimo. (…) non meno pungente la polemica di quanti scorgono nel governo di Bergoglio un disinteresse per la modernità occidentale (p.7).»
Tornando nel solco della svolta impressa da papa Roncalli con l’apertura del concilio che si svolse tra il 1962 e il 1965, è risaputo che il Vaticano II nel corpo complessivo dei documenti (quattro Costituzioni, nove Decreti e tre Dichiarazioni), non è riuscito a tradurre quell’impulso che evocava una nuova pentecoste in un indirizzo unitario all’aggiornamento ecclesiale auspicato.
Paolo VI, subentrato a Giovanni XXIII (morto nel giugno 1963):
«preoccupato di assicurare la più larga adesione possibile alle decisioni conciliari, ha favorito soluzioni di compromesso che, se hanno consentito di rendere evidente l’unanimità morale della Chiesa attorno alle deliberazioni conciliari, non hanno però contribuito alla chiara indicazione delle strade su cui doveva incamminarsi il cambiamento (Menozzi, p. 20).»
Per rendersi conto del travaglio che hanno attraversato i documenti conciliari, dagli schemi iniziali fino alla loro approvazione conclusiva, passando par le fasi ugualmente sofferte degli emendamenti, basta percorrere i cinque volumi della Storia del concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo (1995).
Seguendo l’efficace sintesi di Menozzi
«si può dire che nei documenti del Vaticano II si sono delineati in ordine al cruciale tema del rapporto con il mondo moderno due diversi orientamenti. Da un lato si è prospettata una linea di apertura ai contemporanei caratterizzata dal criterio di una rilettura del Vangelo alla luce dei segni dei tempi. Secondo quest’ottica la Chiesa restituiva efficacia alla sua azione pastorale nella misura in cui imparava (corsivo mio) dalla storia quali erano gli elementi del messaggio evangelico capaci di intercettare le istanze del presente e i bisogni profondi dell’uomo moderno. Dall’altro (…) una prospettiva di aggiornamento della dottrina cattolica basata sull’inquadramento al suo interno di alcuni principi e valori della modernità (p. 21).»
Anche la seconda strada di questo bivio, si badi bene, non era esente da elementi di novità, dal momento che fu a lungo osteggiata dall’autorità ecclesiastica durante la stagione di Pio XII.
La base teologica e filosofica di questa opzione risale a Jacques Maritain, che la elaborò in chiave neo-tomista tra le due guerre mondiali.
«Il filosofo francese affidava ai cattolici il compito di costruire un retto ordine della vita collettiva: si basava sulla conformazione del consorzio civile a una legge naturale(corsivo mio) valida per tutti, sempre e ovunque, di cui la Chiesa era proclamata interprete e depositaria. Tale progetto restava dunque all’interno di una logica di cristianità. Ma nella legge naturale (ecco il passaggio cruciale) Maritain e i suoi seguaci facevano ora rientrare alcuni prodotti politico-culturali della storia moderna – ad esempio il diritto alla libertà religiosa e, più in generale, i diritti umani – che erano stati a lungo da essa esclusi (pp. 21-22).»
Il punto focale di questa analisi è che il papato post-conciliare avrebbe scelto proprio questa seconda via, per tradurre la spinta roncalliana dell’aggiornamento nella concreta azione di governo e come strategia pastorale complessiva.
Lo stesso Paolo VI nello spazio compromissorio dei documenti conciliari ha cercato un punto di equilibrio, il più avanzato possibile, “ma alla fine – scrive Menozzi – ha compiuto una chiara opzione”.
Esempio emblematico di questo passaggio decisivo, secondo il docente emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è dato dall’emanazione della famosa enciclicaHumanae vitae (25 luglio 1968), nella quale papa Montini scrisse: “Nessun fedele vorrà negare che al magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale” (n. 4).
Un principio autoritativo che veniva fatto risalire al mandato cristologico affidato a Pietro e agli apostoli che “li costituiva anche custodi ed interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale”.
Sarebbe stato questo, dunque, il timbro ultimamente identificativo successivamente sviluppato dall’intero pontificato post-conciliare, con il conseguente mandato ai cattolici di contraddistinguere e qualificare loro presenza nel mondo sulla base dell’affermazione nel consorzio civile e politico della dottrina della legge naturale custodita in via esclusiva dalla chiesa.
Una strategia ecclesiale che avrebbe conosciuto il suo “più ampio dispiegamento durante il governo di Benedetto XVI” (p. 23).
«Ratzinger ha prospettato non solo la tesi che gli ordinamenti pubblici, per essere moralmente leciti, anzi per essere autenticamente umani, devono prevedere soltanto la tutela di quei diritti umani che l’autorità ecclesiastica iscrive nella legge naturale. Ha anche richiesto che l’impegno politico e sociale dei fedeli venga indirizzato allo scopo di far sì che le legislazioni positive degli Stati siano conformi alla dottrina cattolica, che sola è in grado di garantire la reale dignità dell’uomo (p. 23).»
L’inadeguatezza di questa linea – “non a caso qualificata come progetto di neo-cristianità” – si manifesta nella difficoltà di consentire un dialogo con la modernità, dal momento che la stessa autorità ecclesiastica la individua nella “rivendicazione – scrive Menozzi – dell’emancipazione dalla tutela ecclesiastica nella definizione degli istituti fondamentali della vita collettiva”.
Difficoltà che cresce di evidenza nella cosiddetta post-modernità «caratterizzata dalla rivendicazione della facoltà per ogni individuo di autodeterminare le forme dell’esistenza non solo in relazione agli assetti politici, sociali e culturali della vita collettiva, ma anche in rapporto alle più profonde strutture antropologiche del soggetto (il corpo, la nascita e la morte, l’identità sessuale, ecc.) (p. 24).»
Avrebbe così origine in questa sfasatura la situazione paradossale secondo la quale la declinazione dell’aggiornamento conciliare, impostato e perseguito per ricondurre il mondo contemporaneo alla chiesa, avrebbe finito per apparire obsoleto e provocare un ulteriore allontanamento.
La stessa idea di una chiesa minoranza creativadi fronte alla complessità globale e all’estrema secolarizzazione da contrastare, che Joseph Ratzinger propose a Subiaco (2005) poco prima del conclave che lo elesse papa, era una proposta che implicava il portato consequenziale dei valori non negoziabili (Andrea Riccardi, La Chiesa tra centri e periferie in Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, 2018, p. 8).
Una linea che avrebbe avuto, come una sorta di coerente linea parallela, la cosiddetta Benedict option, ossia l’opzione del ritiro polemico del cristianesimo dalla sfera pubblica in seguito alle sconfitte patite nelle culture wars degli ultimi decenni, come avvenuto nel contesto laicale nordamericano (Massimo Faggioli, I laici nella Chiesa di Francesco in Il cristianesimo al tempo …, p. 233), per realizzare un cattolicesimo dei pochi ma buoni.
L’obsolescenza di una tale strategia ecclesiale sarebbe all’origine della “crisi del paradigma di aggiornamento adottato dal papato post-conciliare” (Menozzi, p. 24).
In questa luce andrebbero rilette le clamorose dimissioni di Benedetto XVI (2013), ben oltre, quindi, il problema degli scandali nella chiesa, ossia nella presa d’atto che quella strada dell’aggiornamento, scelta e percorsa fino all’estremo tentativo, non è stata in grado di stabilire un vero ponte tra fede e storia.
Una strada che, a posteriori, è definibile più un ammodernamento che un vero e proprio aggiornamento.
Il problema è stato, e rimane, come ha scritto Giovanni Miccoli (La Chiesa dell’anticoncilio, 2011), il rapporto con la storia:
«La questione centrale sta ancora una volta nel tipo di rapporto che la Chiesa di Roma intende stabilire con la storia; (…) riconosce di farne interamente parte (…) o se ne sottrae, perché portatrice, intangibile dalle contingenze umane, di un messaggio che ha saputo mantenere inviolato e inalterato nel corso di duemila anni? (p. 401).»
È in questo quadro teologico-pastorale complessivo che trova spiegazione più profonda l’operazione Bergoglio, vale a dire nella ripresa di quella linea del rinnovamento conciliare attenuata o abbandonata dai suoi predecessori e basata sulla convinzione “che la Chiesa non solo non è al di fuori e al di sopra della storia (…); ma soprattutto dalla storia impara le vie più idonee per annunciare il Vangelo” (Menozzi, p. 26).
NOTA:
Questo saggio di Francesco Lavezzi, insieme ad altre Cronache Ecclesiali del medesimo autore è stato recentemente pubblicato in “Quaderni Cedoc SFR 49” a cura di Andrea Zerbini
Per leggere gli articoli diFrancesco LavezzisuPeriscopioclicca sul nome dell’autore
ECCO PERCHE’ CHIEDIAMO LA SOSPENSIONE DEI LAVORI E LA CANCELLAZIONE DEL PROGETTO Il 19 dicembre il TAR Toscana si pronuncerà sul ricorso al progetto eolico industriale “Monte Giogo di Villore” che prevede l’installazione di 7 areogeneratori sui crinali appenninici mugellani fra i Comuni di Vicchio e Dicomano (Firenze).
In particolare : il TAR, riunito in plenaria, si dovrà pronunciare sulla richiesta di sospensiva dei lavori, già inoltrata dai ricorrenti, Italia Nostra e C.A.I. di Firenze, alla fine del mese di luglio 2023 e rimandata a giudizio una prima volta da parte del giudice monocratico, e una seconda volta dalla corte del TAR per approfondimenti. Tra le motivazioni della richiesta di sospensione spiccano per gravità la mancanza, al momento della comunicazione d’inizio lavori, di un vero e proprio progetto esecutivo completo dei rilievi geologici e geotecnici e della relazione sismica, documento imprescindibile per il rilascio dell’autorizzazione ai lavori e l’apertura dei cantieri.
Nonostante le carenze evidenti del progetto nelle sue varie edizioni, la pratica adottata da AGSM-AIM è stata quella di presentare il progetto suddiviso per lotti e carente di relazioni indispensabili come la Sismica, ma, in barba alla normativa, procedere comunque con i lavori. Anche le Amministrazioni pubbliche preposte a rilasciare pareri e autorizzazioni (leggi PAUR) hanno adottato la pratica utilizzata generalmente nell’approvazione delle Grandi Opere: non ostacolare con nessun mezzo i proponenti e non accorgersi di quanto carenti siano i progetti, ottenere via via a piccoli passi, a seguito di osservazioni, esposti ed eventuali contestazioni, tramite integrazioni e/o varianti tutta la documentazione necessaria e sufficiente per proseguire con l’avanzamento delle autorizzazioni e dei lavori.
Anche questa volta il proponente non sarebbe mai stato in grado di presentare tutta la documentazione in una unica volta senza venir meno a quanto prevede e richiedela normativa e lo stesso buon senso, ma utilizza, come spesso accade, il metodo del fatto compiuto davanti al quale le amministrazioni chiudono gli occhi, il naso e le orecchie finché non arriva una multa, una sanzione o…un tribunale.
Purtroppo, come si può ben immaginare, il fatto compiuto prevede il compimento di illeciti quali: inquinamenti, disastri ecologici, distruzione di boschi e fauna selvatica protetta. E pensare che siamo ancora solo ad un primissimo inizio di quello che il progetto impianto eolico “Monte Giogo di Villore” prevede per i crinali Mugellani.
Febbraio 2022
La Regione Toscana approva il progetto dell’impianto eolico industriale denominato “Monte Giogo di Villore” proposto dalla ditta AGSM-AIM, nonostante la lunga e discussa Conferenza dei Servizi,le numerosissime osservazioni poste da cittadini, da enti locali e associazioni ambientaliste, che hanno messo in evidenza i problemi ambientali che ne deriveranno e le falle tecniche del progetto:
mancanza della relazione anti-sismica
mancanza della relazione idrogeologica
non sono pervenute le indagine stratigrafiche dei suoli
rischio intercettazione della linea del metanodotto
difficoltà di interventi anti-incendio
intercettazione dei corridoi ecologici del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi
sovrapposizione e contrasto con gli elementi paesaggistici e culturali
danni ambientali non ripristinabili
Così da sollecitare il parere negativo dei seguenti enti:
Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi
Soprintendenza del Paesaggio e dei Beni Culturali di Firenze-Prato-Pistoia
Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo
Comune di San Godenzo
Per superare i pareri negativi e vincolanti della Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Prato e Pistoia e del Ministero della cultura interviene il Consiglio dei Ministri del Governo Draghi che approva il progetto con un colpo di mano e d’autorità.
Aprile 2022
Grazie al contributo finanziario di numerosi cittadini e associazioni mugellane, Italia Nostra e CAI Firenze, presentano un dei ricorsi al TAR Toscana, in cui vengono esposte le ragioni tecniche per i quali tale impianto risulta non idoneo, anzi fortemente dannoso alla natura idrogeologica, alla biodiversità, alla vegetazione forestale e al paesaggio del Mugello e quindi impraticabile.
Giugno 2023
Agsm-Aim comunica alle amministrazioni coinvolte nel progetto l’inizio dei lavori, nonostante il buon senso e la prassi vorrebbero che, quando su un progetto, benchè autorizzato, pende un ricorso al tribunale amministrativo, non si proceda ad aprire i cantieri finoa quando il contezioso non sia stato superato.
Vengono subito al pettine i primi problemi.
Sul crinale iniziano i carotaggi geologici e gli spianamenti necessari senza che siano stati richiesti i dovuti permessi, con le inevitabili conseguenze:
escavazione illecita del corso del torrente Solstretto, intubamento e spianamento per il passaggio di mezzi pesanti
prelievo illecito d’acqua già in uso all’acquedotto pubblico della popolazione di Vicchio, con metodologie invasive
spianamento delle aree di carotaggio
inquinamento del terreno per spargimento dei residui dei carotaggi, contenitori di plastica e di metallo.
Apertura di cantieri con segnaletica impropria e ostacolo alla viabilità in strade vicinali e sentieri:
chiusura al transito di strade e sentieri senza concessione
nessuna delimitazione dei cantieri con incremento del rischio incidenti per abitanti ed escursionisti
segnaletica carente e/o illecita – mancanza delle informazioni generali e dei riferimenti quali nomi e contatti dei ‘capocantieri’ e dei responsabili dei cantieri e del progetto.
In seguito alle segnalazioni dei cittadini, il prelievo dell’acqua del torrente Solstretto si interrompe, i carabinieri forestali comunicano verbali e multe alle ditte che eseguono i lavori senza permessi, la cartellonistica che chiude i sentieri al libero passaggio è rimossa.
Agosto 2023
Oltre alle numerose segnalazioni e denunce ai carabinieri forestali viene presentata al TAR una richiesta di sospensione dei lavori, che il giudice monocratico non prende in considerazione rimandando a settembre la decisione in occasione dell’udienza del TAR riunito. Nel frattempo i lavori proseguono con i relativi danni ambientali:
taglio dei boschi, tra cui castagni secolari in produzione per l’allargamento della strada d’accesso al crinale
sbancamenti dei fianchi rocciosi della strada
abbandono illecito dei materiale di escavazione lungo i lati della strada senza che sia stata prevista nel progetto alcuna modalità di smaltimento corretto delle terre e rocce di scavo.
A seguito di ripetute segnalazioni l’autorità ambientale sanziona l’impresa di escavazione e la obbligaa trasportare le terre e rocce escavate nella discarica di Cavriglia come rifiuto speciale, rallentando i devastanti lavori e aumentandone i costi.
Nel frattempo AGSM-AIM richiede ai Carabinieri Forestali l’accesso agli atti per conoscere i nomi di chi ha fatto le segnalazioni degli illeciti, col probabile intento di incutere timore.
Settembre 2023
Nell’udienza d’inizio settembre il TAR nuovamente rimanda la decisione sulla sospensione dei lavori, prendendosi il tempo di approfondire le carte e le motivazioni esposte, e si arriva così alla data del 19 dicembre prossimo.
Nel frattempo proseguono i tagli delle piante nei boschi che salgono verso il crinale per fare ulteriori saggi geologici e per far largo alla strada verso le aree di posizionamento delle 2 prime pale.
Le intimidazioni da parte di AGSM-AIM non hanno esito e così, grazie di nuovo alle segnalazioni scattano ulteriori controlli dei carabinieri forestali con le commutazioni in multe per aree di taglio esuberanti dal quelle autorizzate.
A seguito di tutto questo, per far conoscere a tutti cosa significa e cosa c’è veramente dietro l’autorizzazione del progetto di impianto eolico industriale sul crinale appenninico del Monte Giogo di Villore, Il Comitato per la Tutela dei Crinali Mugellani (CTCM) – Crinali Liberi propone per il giorno 18 Dicembre una veglia dalle ore 16.30 in Piazza Santissima Annunziata – Firenze sino al giorno 19, giorno del presidio davanti al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) in contemporanea al pronunciamento della sentenza relativa al ricorso.
Durante la veglia è prevista musica, interventi teatrali, banchini informativi e mostre fotografiche, cibo e vino, e interventi aperti delle realtà associative e dei comitati che aderiscono all’iniziativa.
Adesso è arrivato il momento di essere presenti tutti quanti! Adesso è arrivato il momento di mettersi insieme per difendere i crinali.
“Quando Ferrara sarà Gentile” Concorso creativo senza premi ma per una buona ragione
Prima di tutto quello che non è: non è una proposta buonista, un invito al “volemose bene”. Partiamo dall’esatto contrario, dall’orrore per un pianeta morente, per gli agnelli innocenti sgozzati in tutte le guerre, per le donne violentate e uccise, per i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Siamo pieni di rabbia verso Capi di Stato e di Governo corrotti, imbelli, irresponsabili.
La gentilezza, la convivenza civile, la nonviolenza, l’ascolto, il dialogo sembrano essere spariti dalla superfice della terra e dalle nostre giornate. Per sempre? Non possiamo fare qualcosa, anche di minuscolo, per cambiare le cose? E da dove cominciare? Abbiamo pensato che di cominciare da ognuno di noi, e di cominciare dalla nostra città.
Oggi Ferrara è tutt’altro che gentile. Sempre meno gentile. “Quando Ferrara sarà Gentile” è una proposta rivolta a chi conserva un grammo di speranza e crede nella fantasia e nella creatività. “Creare” infatti è il verbo più antico e più potente del mondo.
L’iniziativa è dedicata a Daniele Lugli, un carissimo amico che ci ha lasciato, “maestro gentile” di pace e nonviolenza.
Ai concorrenti (che, come avete letto, non vinceranno niente di niente) chiediamo di creare un’opera che illustri la propria “Ferrara Gentile”, vicina o lontana nel tempo. Ci rivolgiamo a Grandi e Piccoli, Liberi e Ristretti, professionisti e principianti, artisti di fama e pittori in erba, grafici, illustratori, disegnatori… compresi quelli che, condividendo la nostra “buona ragione”, sognano la propria “Ferrara Felice” e ci manderanno il primo disegno della loro vita.
Per partecipare al concorso creativo:
Le opere possono essere realizzate su qualsiasi supporto (carta, cartoncino, tela, vetro, plexi ecc. ) e con qualsiasi tecnica e materiali diversi (comprese la fotografia e la computer grafica). L’unico limite è quello del formato che dovrà essere orizzontale; il classico foglio A4 (ma anche più grande: A2 o A3, o più piccolo: A5).
E’ necessario inserire il proprio nome e cognome, indirizzo di residenza, numero di cellulare ed email personale per essere ricontattati.
Concentratevi e mettetevi al lavoro. Le opere dovranno essere inviate entro il 31.01.2024 a : redazione@periscopionline.it, specificando nell’oggetto: “Quando Ferrara sarà Gentile”.
Le opere verranno pubblicate su Periscopio in un’apposita sezione del quotidiano online. E dopo? Una grande mostra, un enorme striscione collettivo… lo decideremo insieme.
(Da un’idea di Elena Buccoliero, Miriam Cariani e Francesco Monini)
Cover: Miriam Cariani, “Quando nel 2030 ho incontrato il mio amico Leone” (acquerello)
Per leggere gli articoli diFrancesco MoninisuPeriscopioclicca sul nome dell’autore.
IL PIÙ DEBOLE, IL PIÙ POVERO HA I NOSTRI STESSI DIRITTI La grande assemblea di Ferrara per dire NO a TUTTI i CPR
“È il piacere della punizione del più debole, cui sono negati tutti i diritti”. Così Andrea Ronchi, avvocato difensore di migranti descrive lo stato e l’immagine degli stranieri contenuti nei Centri per il rimpatrio in attesa di espulsione. “Nelle prigioni – spiega il legale – lo stato dei detenuti è regolato da diritti: nei CPR invece non ci sono diritti da esigere perché si tratta solo di un transito verso il rimpatrio”. Devi stare lì ad aspettare e basta. Se protesti, se pretendi cura e assistenza, se insisti, ci sono gli psicofarmaci e i manganelli della polizia.
Sabato scorso, in serata, al cinema Apollola visione del documentario “Sulla loro pelle” (2022, di Marika Ikonomu) e le testimonianze di avvocati e attivisti ha rappresentato un doloroso e dettagliato bagno di realtà: in questo momento in Italia migliaia di persone, senza risorse e senza futuro, stanno rinchiusi fino ad un anno e mezzo in ambienti di tipo carcerario gestiti al massimo risparmio su tutto, come sta dimostrando la recentissima iniziativa della procura di Milano. A totale discrezione di un sistema amministrativo labirintico e inattaccabile cui non è possibile appellarsi: sono detenuti perché privi di un documento. “In Italia un automobilista senza patente viene multato, ma non perde i diritti civili”, chiosano con efficacia i legali dal palco.
La serata, che si è svolta di fronte a circa trecento persone, tra le quali il vescovo Giancarlo Perego, è stata introdotta da Adam Atik e Hajar Sahbaoui dell’associazione Cittadini del Mondo e organizzata con l’adesione di oltre quaranta associazione e gruppi cittadini.
Federica Borlizzi è attivista della Coalizione Italiana per Libertà e Diritti Civili, conosce da anni quello che succede nei Centri, conferma il delirio della gestione della detenzione per “reato amministrativo”: “È un affare per compagnie private che tengono alla larga le associazioni e gli avvocati che faticano a provare le continue violazioni elementari vitali dei migranti, tenendoli in situazioni di pericolo e abbandono ”.
“Le Prefetture sanno tutto, effettuano controlli inefficaci, conoscono le situazioni di sofferenze psichiatrica non curata, sanno delle donne vittime di tratta destinate a rimpatriare in Nigeria da dove sono partite già vittime della tratta stessa.”, conferma l’avvocato Massimo Cipolla. È un uso spregiudicato di burocrazia, assenza di regole, vaporizzazione delle responsabilità. Dalla legge Turco–Napolitano del 1998, si sono succeduti peggioramenti normativi, fino ai più recenti del governo Meloni, in una alternanza tra governi che non hanno mai smentito la necessità di generare una immagine nemica del migrante da offrire alla pancia del cittadino italiano impaurito, depauperato dei servizi, delle opportunità, della pratica democratica in nome dell’austerità.
Il numero delle strutture di contenzione dei migranti sono destinate ad aumentare: ecco che Ferrara diventa un “sito” vocato alla bisogna, che inizia a vagare per la provincia, dopo che il centrodestra cittadino, smentiti gli iniziali entusiasmi, ha capito che la costruzione di un CPR in città costerebbe un bel numero di voti alle prossime elezioni amministrative.
“Cosa si può fare in concreto perché questo CPR non venga costruito?”. Alla richiesta del pubblico rispondono le esperienze di protesta che hanno avuto successo in Italia: bisogna moltiplicare gli spazi di dissenso aperto. Ad esempio, la strategia di costruire i Centri di detenzione temporanea in zone isolate (come conferma la rassicurazione del senatore Balboni di un sito nel basso ferrarese), li toglie dall’attenzione visiva della popolazione, che li può ignorare.
La proposta diGiulia Sezzi, dell’Associazione Ya Basta di Bologna è di costituire una rete regionale di associazioni e movimenti per garantire il rispetto del diritto basilare di presentare la domanda d’asilo e la capacità di opporsi ad una militarizzazione senza controllo del sistema di respingimento dei migranti.
Uscendo dalla affollatissima iniziativa di ieri sera, non vedi nessuna faccia rassegnata. tutti i convenuti hanno presente la stessa cosa: contro l’orrore dei CPR – a Ferrara e ovunque – e per affermare i diritti civili e costituzionali la lotta continua.
Questa poesia di Sara Ferraglia è stata letta il 10 dicembre a Parma in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti Umani.
La manifestazione, che aveva per titolo: “Pensieri che spezzano le sbarre. Non si possono imprigionare le idee!“, è stata organizzata da Rete Kurdistan Parma, Ciac Onlus, Casa delle Donne, Coro dei Malfattori, Donne in Nero, ANPI Provinciale Parma, Unione Popolare.
Durante la manifestazione, sono stati letti alcuni brani del leader curdo Abdullah Öcalan [Qui un suo intervento del 2020] per la costruzione di un sistema sociale basato su tre pilastri: liberazione delle donne, ecologia, democrazia radicale. Il modello di riferimento è quanto viene praticato nel territorio autogovernato e nelle città libere del Rojava nell’Est della Siria. (Pier Luigi Guerrini)
Imrali, l’Isola Balena
Nel ventre di quest’isola balena
che un giorno m’inghiottì senza pietà
io sto, con un macigno sulla schiena,
scrivo del tempo nuovo che verrà.
Sul mare, fra due stretti prigioniero,
soffia da giorni con violenza il vento.
Tremano le interiora di cemento,
si fa più chiaro e forte il mio pensiero.
Laggiù Istanbul sfolgorante di vita,
qui nel silenzio il mondo mi è distante.
Afona voce sono, quasi muta
che si trasforma in urlo roboante
se il mio nome scandisce nella lotta
un popolo che chiede libertà.
Libere donne, liberi confini,
libero sguardo oltre queste sbarre.
Giustizia per un popolo smembrato
dall’isola balena sorgerà.
Sara Ferraglia
Îmralî, girava welê
Di zikê vê giravê de kelek heye
ku rojekê ez bê rehm daqurtandim
Ez radiwestim, bi kevirek li ser pişta min,
Ez li ser dema nû ya ku dê were dinivîsim.
Li ser deryayê, di navbera du tenganan de girtiyê,
Bayê bi rojan bi tundî tê.
Hundirê beton dilerize,
ramanên min zelal û bihêztir dibin.
Li wir Stenbol ji jiyanê dişewite,
li vir di bêdengiyê de dinya ji min dûr e.
Ez bê deng im, hema bê deng im
ku vediguhere qîrîneke birûskê
ger navê min di şer de bê bihîstin
gelê ku daxwaza azadiyê dike.
Jinên azad, sînorên azad,
belaş binêre li derveyî van bars.
Edalet ji bo gelê perçebûyî
ji girava welê wê rabe,
Traduzione in lingua curda di Hisam Allawi, poeta curdo
Regalare baci, questo il regalo più bello, a Natale e non solo. Cristiana Soriano con “La baceria di Felice”, della casa editrice vicentina Sassi Junior, ci conduce, con grande delicatezza, nel meraviglioso mondo dei baci.
Curiosando per gli stand della dell’edizione appena conclusa di “Più libri, più liberi”, alla Nuvola dell’Eur, mi sono imbattuta in una casa editrice vicentina di lunga tradizione ma a me non molto nota: Sassi, per la precisione Sassi Junior. Con la sorridente e cordiale Ester abbiamo iniziato a sfogliare volumi appena usciti ma anche alcuni di qualche anno fa, altrettanto attuali, accattivanti e originali.
Per Natale, nulla meglio di tanti baci, mi son detta, colpita dalla delicata copertina a colori tenui di “La baceria di Felice”, di Cristiana Soriano. Sulla stessa, ad attirare la mia attenzione una bicicletta azzurra sotto una vetrina e tante farfalle gialle e lilla, la farfalla è da sempre il mio animale preferito, la libertà cui da sempre anelo. Non poteva che essere lui, il libro delle feste prescelto. E poi, romanticismo oblige.
Una storia nata in un periodo in cui l’affetto era vietato e la distanza di sicurezza ci costringeva a conservare i nostri baci per un momento migliore, un momento che ha impiegato oltre due anni per arrivare. Il tempo di capire l’inestimabile e immenso valore dei baci (e degli abbracci). Quanto mi (ci) sono mancati! Sotto il segno del rosa.
L’idea del racconto è fantastica. Felice vende baci in barattolo, fanno parte della sua unica collezione da quando è bambino. La sua famiglia è sempre stata molto affettuosa, ma non per tutti è così, nella vita: molti bambini e adulti non hanno questa fortuna. Tanti individui sono parsimoniosi d’affetto (non sanno cosa si perdono…), molti ne sono addirittura incapaci. Felice aveva quindi deciso di mettere i baci a disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno nella sua Baceria: la Baceria di Felice, in via Cuor Leggero numero 5. Una via, un destino.
I più richiesti sono i ‘Baci delle Buonanotte’. Molti ne andavano perduti perché spesso le mamme si addormentavano prima di finire le ninne nanne e allora lui li raccoglieva. Felice, poi, ne aveva ricevuti dalla sua mamma ben 3626, uno ogni sera per 10 anni, tranne le 26 sere in cui era andato a dormire dal suo amico Baldo.
Molti papà chiedevano, invece, il ‘Bacio centogrado’, quello che solo le mamme hanno, perché solo loro sanno misurare la febbre con il semplice tocco delle labbra sulla fronte.
Ogni venerdì c’erano i saldi: il ‘Baciamano’, il ‘Bacio al vento’, ‘Bacini’ e ‘Bacioni’. Ma il ‘Bua-bacio’, accompagnato da una scatola di cerotti omaggio, quello no, era troppo prezioso per finire a metà prezzo. Quanti ‘bua-baci’ hanno fatto sparire dolori e sofferenze di bambini caduti dal monopattino, dallo scivolo o dal cavallino a dondolo!
Il meno venduto è il ‘Bacio al rossetto rosso di zia Guendalina’, è appiccicoso e lascia sulla guancia una traccia rossa quasi indelebile. Il ‘Rimbombacio’ è disponibile, invece, in edizione limitata e numerata, solo 1000 esemplari. Sono gli indimenticabili baci della nonna e sono ormai fuori produzione. Producono uno schiocco che può rimbombare nelle orecchie per dieci minuti.
Non mancano, nella collezione, il ‘Bacio del buongiorno’, lo ‘Sbaciucchio’, i ‘Baci rubati’. Alcuni Felice li conserva, gelosamente, tutti per sé, sotto il letto.
Spesso ha la fila davanti al suo negozio, soprattutto dopo le notti piovose che fanno sentire tutti un po’ più soli. Anche i ‘Baci d’asporto’ possono aiutare, come quelli che Felice consegna a domicilio alla signora Nerina che ha figli e nipoti lontano.
Ma un barattolo resta vuoto, sempre. Quello de ‘Il Primo Bacio’: nemmeno Felice lo ha ancora ricevuto e lo aspetta con trepidazione. L’unico pezzo che manca alla sua nutrita collezione. Finché un giorno, nella Baceria, entra Gioia, la sorella dell’amico Baldo. Quale bacio regalarle? Sarà lei a sorprendere, con un pezzo unico…
Cristiana Soriano, La baceria di Felice, Sassi Junior, 2022, 34 p.
La casa editrice SASSI, nata nel 2006 con pubblicazioni d’arte e di fotografia di livello internazionale, dal 2010 ha sviluppato un originale programma editoriale rivolto ai bambini. Ispirata da sempre alla sostenibilità dei materiali, ha iniziato già nel 2010 a stampare con inchiostri alla soia su carta riciclata e oggi pubblica tutti i volumi su carta certificata FSC, fa un uso minimo di plastica e punta all’uso quasi esclusivo di materiali eco-sostenibili.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara
IL MODELLO PANOPTICON ISPIRA I MODERNI CPR.
Territori Serviti e Territori Serventi, il CPR tra Ferrara e il Delta.
La storia ci insegna che ci sono stati, e ci sono ancora, dei territori serviti e dei territori serventi. Di norma i primi sono territori dove si decide la ricchezza mentre i secondi sono quelli dove si collocano le produzioni e le scorie generate dai processi che generano il benessere dei primi. Tutte le attività che le città non volevano, perché inquinanti, sporche, maleodoranti o che attiravano miserabili, si cercava sempre di spostarle fuori, studiando dei dispositivi segregativi, ai quali appartiene anche la logica dei CPR.
I territori serventi hanno di norma problemi di crescita, di benessere, di sviluppo, di identità, di spopolamento.
Sono considerati marginali, oggi spesso sono aree interne, a basso sviluppo; quindi, perché non utilizzarli per localizzare ciò che da fastidio alle città più grandi e più prestigiose? Dove la qualità del commercio e della vita quotidiana potrebbe essere messa in crisi dalla localizzazione di una attività sgradita ai più, quindi elettoralmente pericolosa, come è un CPR?
La proposta di alcuni politici di area governativa di collocare nel delta ferrarese il CPR rivela un’attitudine coloniale. Non è in fondo molto dissimile dalla volontà del nostro Primo Ministro di esportare i migranti e il modello CPR in Albania che, in una scala comparativa nazionale, assume lo stesso significato della vicenda locale che interessa Ferrara e il delta.
L’ Albania diventa il territorio servente dell’Italia che dovrà in qualche modo rendere il favore. Tutto questo ha un costo salato che sulla stampa è stato quantificato, ma è il prezzo da pagare per tenere il conflitto fuori dalla porta, di Ferrara, in un caso, dell’Italia, nell’altro, ma la logica è la stessa.
Il dispositivo CPR è ripugnante nella sua essenza e nell’idea che sta alla base della sua concezione. Lo è a Ferrara, nel Delta, a Milano. Una concezione che ci rammenta le storie di segregazione delle carceri costruite sul modello delpanopticon. Per chi ha studiato i sistemi segregativi moderni questa parola ci riporta immediatamente a Michel Foucault e, prima di lui, a Jeremy Bentham, l’inventore di questo dispositivo studiato per innovare le forme del carcere. Su questa tipologia, articolata secondo un modello radiale che prevede un edificio centrale nel quale convergono tutti gli altri, si è parlato molto ed in particolare della centralizzazione del modello di controllo.
Molti critici parlano di una prigione per poveri che presuppone una sorveglianza asimmetrica, come sostiene il filosofo francese: il controllore può vedere ma il controllato no. Tale concetto viene introdotto nel sistema penale ed ha un grande successo in quanto meccanismo di controllo delle componenti della società moderna e Foucault riprende tale metafora associandola alla propensione delle società autoritarie al controllo dei propri cittadini.
Il “panoptismo”, trasformato in figura architettonica da Bentham, è una componente di una utopia, o di una illusione: quella della società perfettamente governata. I prodromi di tale illusione li ritroviamo già alla fine del diciassettesimo secolo, nelle ordinanze che regolano la gestione delle pestilenze urbane attraverso l’esercizio di un potere disciplinare che ribadisce l’importanza di un ordine che colloca tutti nel posto loro assegnato. Se la lebbra nei secoli precedenti si controllava attraverso “rituali di esclusione” la peste richiede al contrario “schemi disciplinari”. Tale è il senso del panopticon, ripreso come modello distributivo dei CPR che l’Italia vorrebbe costruire. Quindi una pratica segregativa controllata: sia esso un carcere o una residenza per poveri e indigenti
Nella Londra vittoriana di metà Ottocento questo modello trova una sua formalizzazione anche nelle workhouse, che erano, per l’appunto, ospizi abitativi per poveri, criticati anche da Charles Dickens in Oliver Twist. Le famiglie nelle workhouse venivano separate: i genitori dai figli; i mariti dalle mogli mentre il cibo era volutamente economico e al limite della decenza.
Le medesime condizioni le ritroviamo nella maison des esclaves africana dove nei sottofondi i colonizzatori europei stivavano i futuri schiavi neri in attesa di essere imbarcati per le colonie e dove vigeva il principio della segregazione e della separazione di uomini, donne e bambini: una volta entrate le famiglie non si sarebbero mai più riunite. Il comune denominatore di questi dispositivi è comunque quello non di pensare a luoghi dove fornire assistenza in una prospettiva inclusiva, ma isolare il male, il diverso, ciò che turba la nostra quotidianità, per poi allontanarlo.
Al fondo vi è un modello che sottende un’idea di città e di governo autoritario che la vicenda del CPR, fin dalla sua emersione, evidenzia. A fronte di scelte che implicano connotazioni anche etiche, in contrasto con alcune scelte di politica pubblica emergono atteggiamenti di fastidio e di progressiva squalificazione delle osservazioni e critiche, al limite dell’ingiuria o della ridicolizzazione di chi le pone, come se si trattasse di lesa maestà verso le autorità di governo.
Da tempo per il delta ferrarese manca una riflessione politico-ecologica-strategica all’altezza delle sue potenzialità, in grado di andare oltre gli approcci settoriali. È un territorio sottovalutato quindi adatto ad ospitare un dispositivo che sarebbe degradante per l’immagine di una città di arte e cultura come Ferrara.
L’attenzione oggi alle dinamiche del delta ferrarese è esclusivamente concentrata o sulle eccellenze identificabili nel Parco, o sul litorale turistico inteso come bene esclusivamente economico e inevitabilmente sui problemi del rischio idraulico e costiero, ma affrontati esclusivamente in un’ottica settoriale e non di rigenerazione territoriale e paesaggistica.
Temi certamente importanti e strutturali ma una visione complessa ci chiede di allargare lo sguardo e lanciare un grande progetto di territorio per il delta e per tutto il ferrarese, dicendo chiaramente che non bisogna più consumare suolo con nuove urbanizzazioni costiere, che il modello turistico-balneare va ripensato e riqualificato, che i paesaggi rurali delle bonifiche vanno valorizzati intrecciando storia, paesaggi e forme di agricoltura sostenibile, lavorando anche sull’idea di servizi ecosistemici, che l’acqua nelle sue varie forme costituisce un principio di identificazione di questo paesaggio culturale.
Anche per questi motivi il CPR non trova posto in una visione di futuro ecologica, inclusiva e democratica, qui e altrove.
Cover: Panopticon di Bentham, ricostruzione. Fu descritto come “un dispositivo di tale mostruosa efficienza da non lasciare spazio all’umanità”. Il “dispositivo” di cui si parlava era un edificio istituzionale e un sistema di controllo progettato nel XVIII secolo dal filosofo e teorico sociale inglese Jeremy Bentham. Il cosiddetto Panopticon, dalla parola greca che significa “tutto vedere”.
Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore.
Il destino delle Alpi Apuane sembrerebbe segnato, condannato dalle politiche estrattiviste a diventare nient’altro che un distretto minerario. Per farsi un’idea, basti pensare che negli ultimi venti anni si è estratto più che nei duemila anni precedenti. Non si tratta certo solo di una faccenda locale, è una delle questioni cruciali del nostro tempo. Il 16 e il 17 dicembre 2023 si terranno due giornate di iniziative (un convegno, un corteo, una serie di workshop e tavoli tematici), promosse da diversi gruppi, comitati, associazioni, locali e nazionali. In questo articolo il collettivo Athamanta – tra i promotori dell’iniziativa – racconta come siamo arrivati sin qui e cosa sta succedendo nelle Alpi Apuane.
È il 23 aprile 2023: escursione di “A•traverso” – progetto di escursioni collettive nei territori devastati. Percorriamo il sentiero CAI 31 fino al Picco di Falcovaia, uno dei simboli della devastazione in Apuane. Una vetta capitozzata, tagliata, e venduta sul mercato del marmo alcuni decenni fa. Qualche giorno prima dell’escursione, riceviamo intimidazioni da parte di Henraux tramite comunicazioni ufficiali. L’azienda di estrazione e lavorazione del marmo, che opera sul monte Altissimo, ci diffida dal sostare in aree estrattive senza autorizzazione e dal violare la loro “proprietà privata”. Nonostante le intimidazioni, decidiamo comunque di intraprendere l’escursione.
Già dal punto di incontro al mattino veniamo seguiti dalle forze dell’ordine e dal personale dell’azienda in tutti i tratti percorribili con i fuoristrada. La camminata si trasforma ben presto in un’esperienza surreale, con la presenza delle forze dell’ordine nel paesaggio lunare che circonda il sentiero. Nonostante l’intimidazione, procediamo, appendendo uno striscione con la scritta «le industrie parlano di proprietà, le montagne sono della collettività» all’accesso illegittimamente sbarrato del sentiero. La situazione si complica ulteriormente quando ci rendiamo conto che il sentiero per il Picco di Falcovaia è bloccato da dei blocchi di marmo e da un fuoristrada della polizia.
Questa situazione paradossale è solo un esempio delle sfide quotidiane affrontate in Apuane e in molti territori montani, dove si combatte contro la privatizzazione delle montagne a favore delle proprietà collettive. Da questa esperienza nasce l’Assemblea di Accesso alla Montagna, con l’obiettivo di affrontare e contrastare l’escalation repressiva subita durante le escursioni e di difendere il diritto di accesso ai territori montani.
A metà settembre 2023 decidiamo di annunciare una nuova escursione di “A•traverso”, tracciando un percorso che assume un significato simbolico e strategico, poiché attraversa il martoriato sentiero 174, situato nelle cave del Monte Borla in concessione alla ditta Walton. Per anni l’espansione delle cave ha “mangiato” parte del sentiero, trasformandolo in una strada di cava, nonostante questo risultasse ufficialmente aperto e accessibile. Tuttavia, negli ultimi mesi, la Walton ha intensificato la pressione per la chiusura del sentiero 174 per ragioni di sicurezza. Contemporaneamente, l’annuncio di autorizzazioni per l’espansione dell’estrazione nella zona ha portato a un aumento dei mezzi pesanti e a un ulteriore peggioramento dell’impatto ambientale. La situazione risulta ancora più paradossale dal momento che il sentiero 174 e le cave Walton, si trovano all’interno del Parco Regionale delle Alpi Apuane, in una zona di protezione speciale B. Le cave, a dispetto di questa designazione, sono ammesse nel parco, un fatto che rivela la collusione tra l’industria estrattiva e la politica.
La comunità di escursioniste e appassionati di montagna si mobilitano quando emerge la minaccia di chiusura del sentiero 174. Nel CAI locale, si sviluppa un dibattito intenso sul da farsi. In risposta a questo contesto, programmiamo un escursione per il 1 ottobre 2023. Tuttavia, la sera del 29 settembre, sfruttando l’ultimo momento utile, il sindaco di Fivizzano emana un’ordinanza di chiusura immediata del sentiero 174 per motivi di sicurezza, ignorando persino la discussione pubblica sulla possibile variante al sentiero. La mattina del 1 ottobre, decine di persone rispondono all’appello e si radunano per partecipare all’escursione. Ci troviamo di nuovo di fronte a una sbarra chiusa e a due veicoli delle forze dell’ordine, pronti a presidiare la cava. Con determinazione, procediamo oltre la sbarra su ciò che, fino a 36 ore prima, era un sentiero, ora improvvisamente trasformato in una strada di cava accessibile solo agli addetti ai lavori. La pubblica indignazione si manifesta nuovamente, la stampa dà risalto alla notizia, le associazioni locali esprimono solidarietà e rabbia, mentre il sindaco, di fronte alle domande dei giornalisti, si rifugia dietro questioni di pubblica sicurezza. Nel frattempo, la ditta Walton rimane in silenzio.
Questi spaccati raccontano la realtà di un territorio prostrato all’estrattivismo*, in una forma che riteniamo emblematica di questo modello di saccheggio dei territori. Mentre nel resto d’Italia le miniere e le cave venivano gradualmente abbandonate per ragioni ambientali, sociali e di mercato, in Apuane il settore estrattivo ha continuato a prosperare, trainato dal prestigioso brand del marmo bianco di Carrara. Tre fattori fondamentali hanno contribuito in modo significativo al boom del settore: lo sviluppo tecnologico, la globalizzazione della domanda di marmo nel mercato del lusso e l’industria del carbonato di calcio.
Durante la prima rivoluzione industriale, l’estrazione di marmo ha avuto una prima impennata, ma è stato il successivo sviluppo tecnologico a permettere un’enorme espansione della capacità estrattiva. Le nuove tecnologie hanno ridotto drasticamente la necessità di manodopera umana, portando a un radicale miglioramento delle condizioni di lavoro. Negli ultimi vent’anni si è estratto di più che nei duemila anni precedenti, e negli ultimi quattro anni l’escavato è aumentato del 30% parallelamente alla perdita di duecento posti di lavoro in cava. Dai circa ventimila cavatori di inizio ’900 oggi se ne contano circa seicento.
La crescente domanda internazionale di marmo nel mercato del lusso ha creato una costante richiesta da parte dei grandi acquirenti, garantendo margini di profitto stellari al settore estrattivo apuano.
Contemporaneamente l’emergere dell’industria del carbonato di calcio ha rappresentato un punto di svolta nella gestione degli scarti estrattivi. Trasformando gli scarti in risorse commercializzabili, questa industria ha contribuito a trasformare le Apuane da un tradizionale distretto lapideo a un attivo distretto minerario.
Questa fase espansiva ha avuto profonde conseguenze sulla produzione di marmo, tradizionalmente caratterizzata dalla sua destinazione come prodotto di lusso. Le Alpi Apuane, composte principalmente da marmo bianco, sono diventate fonte di materia prima per il carbonato di calcio purissimo. Questo cambio di prospettiva è emerso negli anni Ottanta con l’avvento dell’“economia circolare” e l’inizio delle attività di Omya in Italia, che ha acquisito lo stabilimento di Avenza nel 1988. L’ampia diffusione del materiale estratto, utilizzato non solo per opere di lusso, ma anche in prodotti di uso quotidiano come dentifrici, prodotti per l’edilizia, sbiancanti creme e generi alimentari, ha comportato una significativa riduzione dei costi di estrazione. Questo processo di recupero dei detriti ha generato un nuovo e redditizio mercato, portando alla riapertura di cave inattive da decenni.
Nel 2020, il regolamento comunale di Carrara ha addirittura normato la quantità di detrito/scarto che ogni cava può produrre, riconoscendo come detrito medio concesso a tutti l’80%, con la possibilità, in alcuni casi, di poter estrarre anche solo il 10% in blocchi, e produrre fino al 90% di detrito. Parallelamente a queste trasformazioni, la provincia di Massa Carrara ha sperimentato un aumento del tasso di disoccupazione giovanile, e un declino nei servizi e nelle offerte culturali.
In questo scenario complesso, precario, e frammentato, si è sviluppata una narrativa mainstream che associa strettamente Carrara al marmo. La paura e il ricatto affliggono una popolazione spesso confinata nel precariato e nel lavoro stagionale sottopagato. Analizzare le mitologie che permeano la regione diventa cruciale, evidenziando la natura predatoria ed estrattivista attuata dal comparto del lapideo apuo-versiliese negli ultimi 30-40 anni. La privatizzazione e concentrazione dei profitti da un lato e la socializzazione dei costi ambientali, sociali ed economici dall’altro, sono diventati tratti distintivi di un’economia locale che, dopo essere stata profondamente dipendente dall’estrazione e dalla lavorazione del marmo, ha subìto un cambiamento radicale con la globalizzazione della filiera.
Allo stesso tempo la socializzazione dei costi estrattivi si è espressa in svariate alluvioni causate anche dal dissesto idrogeologico derivante dalle cave, dall’indebitamento da record dei comuni che si sono fatti carico di opere a uso esclusivo dell’industria, dal conseguente venir meno della spesa pubblica nei servizi alla cittadinanza, e da un sempre più ingente danno ambientale che pesa soprattutto sul reticolo idrico apuano, tra i più importanti d’Italia.
L’estrattivismo non è però un problema che riguarda solo le Alpi Apuane, quanto piuttosto di una delle questioni cruciali del nostro tempo. La domanda delle cosiddette MPC (Materie Prime Critiche) e il loro valore finanziario sono in costante crescita: le previsioni di crescita si moltiplicano e gareggiano al rialzo, si stima però che da qui al 2030 la domanda di materie prime dovrebbe nel complesso aumentare di sei-sette volte.Stiamo parlando di una crescita epocale che cambierà inevitabilmente tanto i mercati quanto i territori.Questa crescita nella domanda viene generalmente associata alla transizione ecologica, le cui infrastrutture e tecnologie presentano un fabbisogno di MPC esponenzialmente maggiore rispetto alle corrispettive basate sul fossile. Il quadro intero però è ben più complesso e non riguarda solo pannelli fotovoltaici, auto elettriche o pale eoliche. Stiamo assistendo alla trasformazione della società secondo le linee dell’informatizzazione della vita: internet of things, smart cities, agricoltura e industria 4.0; l’elenco potrebbe andare avanti a lungo. Il principio alla base di questi concetti è comune: informatizzare i vari settori della produzione e della riproduzione attraverso l’uso di sensori, di interconnessione in rete e di intelligenze artificiali con l’obiettivo di automatizzare ed efficientare (massimizzazione del profitto) i vari comparti. La caratteristica comune a tutte queste tecnologie è proprio l’alto tasso di MPC che richiedono.
Se dunque da un lato nessuna persona dotata di senno negherebbe la necessità di abbandonare i combustibili fossili, dall’altro emerge l’impossibilità di una semplice transizione all’elettrico a parità di consumi e di modello di crescita infinita imposto dal capitalismo estrattivista. Al di là di ogni valutazione etica o politica sui pro e i contro di questo processo, ciò che vorremmo evidenziare qui è la sua dimensione materiale: l’enorme fabbisogno di materie prime. Nel complesso la stima di un aumento di 6-7 volte nel totale delle estrazioni da qui al 2030 è la più citata e condivisa, nello specifico delle singole materie prime troviamo però dati ben più allarmanti. Secondo il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, nel 2030 l’Unione Europea avrà un fabbisogno di cobalto 5 volte superiore all’attuale, di litio 18 volte superiore, e di neodimio, (già dal 2025) di 120 volte superiore. Questi sono solo alcuni esempi, le MPC sono molte e vivono tutte dinamiche simili. A complicare questo scenario si aggiunge il contesto internazionale in trasformazione, ed in particolare il ruolo della Cina che nel tempo ha solidificato le sue basi estrattive, in particolare con l’investimento in terra africana. Oggi la Cina ha una posizione egemonica per quanto riguarda il controllo di moltissime MPC, in particolare per le cosiddette Terre Rare delle quali controlla percentuali oltre il 70% che salgono tra 80% e 90% se si considerano i comparti della trasformazione e del recupero. Questo significa che l’Europa in particolare, ma il mondo intero in generale, risulta oggi soggetto alle scelte cinesi in un settore che è e sarà tra i più strategici per il prossimo futuro.
Tutti questi ragionamenti diversi e interconnessi, sono alla base del Regolamento europeo per le Risorse Critiche e Strategiche presentato a marzo scorso e attualmente in corso di approvazione a Bruxelles. In questo documento si indicano 36 materie prime critiche, di cui 16 considerate strategiche per il futuro europeo, per le quali si richiede: 1) di diversificare le fonti di approvvigionamento esterne all’Europa; 2) investire su riciclo e recupero; 3) investire per riattivare l’estrazione interna dei Paesi europei.
In Italia, a detta del ministro Urso, che ha recepito con gioia l’invito a tornare a estrarre all’interno dei confini europei, sono presenti 16 di queste materie prime critiche o strategiche. La maggior parte dei siti estrattivi sono però stati chiusi da più di trent’anni, per ragioni ambientali e di mercato, e progettarne la riapertura non è semplice. Entro fine anno il governo dovrebbe presentare una mappatura aggiornata dei siti e una roadmap pluriennale che comprenda riaperture, nuovi permessi di ricerca e individuazione di soggetti privati in grado di fornire competenze e strumentazioni necessarie. Quel che sappiamo finora, è che la mappatura attualmente disponibile ci indica con forza la centralità dei territori montani in questa nuova corsa alle MPC: la stragrande maggioranza dei siti indicati si trovano nell’arco Alpino e lungo gli Appennini, con alcune importanti eccezioni per la Sardegna e la Toscana.
Il fragile ecosistema montano appare dunque, almeno per il nostro paese, al centro di questa trasformazione/devastazione epocale. Le montagne non sono però soltanto le nuove frontiere estrattive, esse sono prima di ogni altra cosa la frontiera complessa e multiforme della vita.Lottare per la loro difesa è lottare per la vita. Per la nostra come esseri umani ma soprattutto per quella degli ecosistemi da cui dipendiamo e di cui siamo parte. Potremmo spendere molte parole su questo punto ma pensiamo sia sufficiente fare riferimento alla più importante tra tutte le risorse: l’acqua.
Come afferma Daniel Viviroli del Dipartimento di Geografia presso l’Università di Zurigo: «Il consumo mondiale di acqua è quasi quadruplicato negli ultimi 100 anni e molte aree possono soddisfare la domanda d’acqua solo grazie all’afflusso acqueo derivante dalle regioni montane».
Nel contesto italiano assumono grande importanza i ghiacciai alpini, dati per spacciati fino a qualche anno fa entro il 2100, previsione che ora pare spostarsi al 2050 visti gli scioglimenti record degli ultimi anni che hanno battuto ogni modello.
A questi si aggiungono le tante sorgenti montane che garantiscono acqua a milioni di persone nel nostro paese. L’estrattivismo è una minaccia concreta all’approvvigionamento idrico, sia per i consumi idrici che richiede il suo funzionamento, sia per l’inquinamento delle acque che produce nella maggioranza dei casi.
A questo dato cruciale si aggiunge l’impatto sugli habitat, la devastazione prodotta non solo dai siti estrattivi ma anche da tutto l’apparato logistico necessario al loro funzionamento. Come se non bastasse, le ricadute sociali ed economiche sono devastanti e andranno a incidere in territori già di per sé spopolati e vocati ormai al turismo di massa o al puro e semplice abbandono.
Dunque, che fare?
Per non incorrere nell’errore di condannare l’estrazione tout court, consce che da tale attività dipendiamo in un modo o nell’altro da sempre, dovremmo concentrarci nel contrastare la sua aberrazione: l’estrattivismo. Per farlo, la domanda che oggi ci pare ancor più cruciale è sempre la stessa: chi decide?
Chi decide cosa si estrae, a quale fine, in quali quantità, e per quali bisogni?
Sentiamo la necessità di conquistare spazi decisionali per la gestione delle risorse e delle materie prime: alla ricerca di un equilibrio estrattivo che garantisca la soddisfazione delle necessità essenziali per tuttə e che contrasti la speculazione estrattiva per consumi inutili e dannosi. Dobbiamo innanzi tutto disinnescare la retorica della necessità di materie prime per la “transizione green”: quante materie prime servono per la transizione energetica/ecologica e quante invece ne verrebbero usate per alimentare internet of things, smart cities, o banalmente armi?
E, soprattutto, la transizione non può essere transizione a parità di consumi crescenti. Su questo ormai gli studi sono chiari: non è possibile disaccoppiare (decoupling**) la crescita economica infinita dal disastro ecologico, climatico e sociale. Questo significa che non esiste soluzione meramente tecnologica alla crisi planetaria, che il modello della crescita infinita è incompatibile con la riproduzione della vita in un pianeta dalle risorse limitate.
Insomma, se vogliamo “salvarci”, qualsiasi cosa significhi, dobbiamo mettere in discussione una volta per tutte i sistemi di dominio planetario che ci sono stati presentati come unica possibilità: capitalismo, colonialismo, razzismo ed eteropatriarcato sono le facce di una sola crisi, quella planetaria, alla quale non esistono risposte interne.
Athamanta
* Estrattivismo: sistema di governo del territorio che comprende dispositivi culturali, politici, economici e militari. Nelle Apuane questo modello comincia a manifestarsi negli anni ‘80 (fonte: Athamanta – radiondadurto.org “L’industria estrattiva sulle Apuane”).
** Decoupling: termine connesso al concetto di “crescita sostenibile”; in ambito ambientale si intende la scissione del collegamento tra crescita economica e danni/pressioni sull’ecosistema. In riferimento alla crisi climatica, si intende solitamente una situazione in cui si ha una crescita del PIL e una crescita minore (decoupling relativo) o addirittura una diminuzione delle emissioni di gas serra. è un concetto intrinsecamente vago, in quanto applicabile a parametri specifici (i.e. emissioni CO2) o, più raramente, ad ambiti più ampi (biodiversità, consumo di risorse e suolo ecc.). Il termine fu adottato per la prima volta come obiettivo dal OECD nel 2001, ed è stato incluso nella roadmap dell’EU nel 2011 (EU Roadmap to a Resource-Efficient Europe) [ndr].
«Il consumo mondiale di acqua è quasi quadruplicato negli ultimi 100 anni e molte aree possono soddisfare la domanda d’acqua solo grazie all’afflusso acqueo derivante dalle regioni montane», afferma Daniel Viviroli del Dipartimento di Geografia presso l’Università di Zurigo.
Athamanta è un percorso nato nel 2020 a Massa-Carrara, uno spazio di discussione, autorganizzazione e sperimentazione politica intorno al tema delle Alpi Apuane.
Nato dalla collaborazione di Casa Rossa Occupata e Friday for Future Carrara, ad oggi vede partecipare diverse realtà, soggetti, individui che hanno interesse nell’elaborare un discorso comune sul tema dell’estrattivismo nelle Alpi Apuane.
Il nome Athamanta richiama una specie endemica della flora apuana. Il fiore Athamanta è a rischio di estinzione a causa delle attività estrattive nelle Alpi Apuane e del cambiamento climatico.
L’obiettivo di Athamanta diffondere è coscienza critica sui temi connessi al problema dello sfruttamento estrattivo del marmo bianco. Passaggio sull’estrattivismo come chiave di lettura dei fenomeni). Athamanta ha come pratiche l’autoformazione, l’inchiesta, l’informazione e l’azione.
Athamanta sta lavorando su 3 macrotemi strettamente connessi alle pratiche estrattive intese come meccanismo di messa a valore di un territorio in funzione delle sue risorse con particolare focus sui conflitti ambientali che ne derivano e le pratiche che è possibile mettere in campo in quanto attivisti per contrastarne le ricadute negative. Solo il totale smarrimento dello storico legame tra gli agri marmiferi e le comunità locali rende comprensibile come possa essersi così malamente sviluppata l’attività estrattiva.
È tornata
Sulla pianura
Accaldata
Trucioli
Di nuvole
Precipitano
In scie
Cadenti
Archetti
Di violini
Sbilenchi
Nel buio acceso
Le vecchie stufe
Raccontano
Strane storie
Del vento
fanciullo
Nel candore
Solleva strenne
Di luce
Esterrefatta
Tu non credi al nulla
Non puoi credere
Al cieco finire
Sì impasta
Dentro
questa magia
Del fioccare
Ti avvolge
Ti sorprende
Da ore
A sognare
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca[Qui]
“Per Amore del Mio Popolo”. Incontro su Don Minzoni: a Casa Cini, martedì 12 dicembre, alle ore 18
Poco più di 3 anni fa, il 23 agosto 2020, le tre Associazioni scout Agesci, Masci e Fse hanno inviato al Vescovo di Ravenna la richiesta di avviare il Processo Diocesano per la beatificazione di don Giovanni Minzoni, per risconoscerne la testimonianza esemplare di vita cristiana, di coraggio e coerenza, da presentare in particolare alle giovani generazioni. Nella richiesta veniva sottolineato che fin dal giorno del suo barbaro assassinio, per l’effetto del suo impegno di sacerdote, gli Scout italiani ne hanno custodito la memoria in modo ininterrotto. Una testimonianza che supera i confini della realtà scout e assume grande importanza per richiamare, specialmente i giovani, ai valori della fede cristiana, della libertà e della tolleranza tra i popoli.
E’ quindi iniziato a febbraio 2022 il percorso per la beatificazione di don Giovanni Minzoni in quanto la richiesta delle Associazioni scout e della Parrocchia di Argenta è stata condivisa dalla Diocesi di Ravenna-Cervia. Nei mesi scorsi il Comune di Argenta ha istituito il Comitato per il Centenario della morte di don Minzoni e molte iniziative sono state messe in campo in collaborazione con realtà culturali e associative: convegni storici, concerti, film e altro ancora. Sono stati molti i gruppi Agesci, FSE e Masci che in tutta Italia hanno realizzato iniziative anche in collaborazione con altre associazioni (ad esempio ANPI, CNGEI, cooperative …) per ricordare don Minzoni e per rendere attuale la sua testimonianza.
A Ferrara le Associazioni scout hanno fortemente collaborato con l’Ufficio diocesano per la pastorale sociale e del lavoro e con ConfCooperative per promuovere un incontro che si svolgerà il 12 dicembre alle 18 a Casa Cini. L’iniziativa, con il patrocinio della Provincia di Ferrara, del Comune di Argenta e del Comune di Ferrara, affronterà il tema dell’opera svolta da don Minzoni per promuovere la cultura cooperativa.
Sono previsti gli interventi di don Francesco Viali, che traccerà una breve biografia di don Giovanni Minzoni, del prof. Stefano Zamagni, che parlerà dell’attualità della cooperazione, di Giuseppe Tagliavia della segreteria provinciale CISL, che porterà un contributo a nome dei sindacati confederali, e la testimonianza di due cooperative ferraresi, “Il Germoglio” e “Azioni”. Le conclusioni saranno affidate al Vescovo di Ferrara mons. Giancarlo Perego.
Rendere vivo il ricordo di don Minzoni anche sotto questi aspetti potrà contribuire a far conoscere, apprezzare e attualizzare la sua testimonianza.
Chiara Sapigni
Masci (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani) – comunità di Ferrara a nome degli organizzatori
Vorrei approfondire alcune osservazioni emerse nel bellissimo articolo di Francesca Marcellan del 7 dicembre ”Se il femminicidio è un tabù linguistico”[Vedi qui].
Ovviamente non è solo un tabù a livello linguistico, come abbiamo potuto notare nelle omelie dei funerali in diretta televisiva, sostituito dalle più accettabili ed edulcorate espressioni “negazione della vita” e “immane tragedia”, ma lo è a livello di legittimazione esistenziale.
A buon ragione perché il termine é stato coniato negli anni ’90 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, per indicare la manifestazione estrema della violenza di genere, cioè la soppressione fisica violenta di una femmina da parte di un maschio. Termine dal connotato semantico orribile, difficilmente accettabile, in quanto prerogativa quasi esclusiva dell’homo sapiens contemporaneo, dato che le specie animali non ammazzano le femmine, se non in casi rarissimi.
Questo tipo di violenza , per rientrare nella categoria “femminicidio” deve proprio essere l’omicidio di una donna, in quanto donna, da parte di un maschio, mentre la morti femminili per altri motivi (rapina, mafia ecc.) rientrano nelle categorie più generiche della criminalità.
Il monitoraggio del fenomeno – a partire dalla Convenzione europea di Istanbul dell’11 maggio 2011, a cui l’Italia ha subito aderito – ha dato risultati estremamente preoccupanti, in quanto stabili nella ripetitività, spingendo le istituzioni a definirlo un elemento strutturale della nostra società e, dopo 179 femminicidi del 2013, a varare la legge n. 93 del 2013, che prevede alcune misure di prevenzione (centri antiviolenza , codice rosso, case protette, ecc,).
La parola femminicidio è quindi un relativo neologismo, mai del tutto accettato a livello semantico, o considerato un fenomeno marginale, calcolando in percentuale il numero di maschi che uccidono le femmine rispetto alla popolazione italiana globale. Il ragionamento contiene un evidente errore di valutazione della gravità della situazione, perché è come sostenere che le morti sul lavoro sono poche rispetto al numero dei lavoratori attivi.
Negazione della parola che corrisponde quindi alla negazione di un fenomeno esistente, stabile e aberrante.
Anche la parola femminismo subisce la stessa sorte di disconoscimento, occultamento, generalizzazione superficiale.
Anche il femminismo è un tabù quindi? In parte direi di sì. Si riferisce a qualcosa di inesistente al singolare, in quanto il pensiero teorico femminista si è autodefinito un movimento plurale, dinamico, contestualizzato storicamente. Esistono i femminismi, non il femminismo. Diacronicamente e sincronicamene possiamo citare il femminismo emancipazionista, il femminismo della differenza, il femminismo LGBT, il femminismo queer, solo per dirne alcuni.
Quindi se devo dare una definizione personale del femminismo sono costretta ad utilizzare quella che in campo teologico è definita la “teologia negativa”. Come di Dio si può dire solo quello che non è, rispetto agli stereotipi dell’immaginario maschile posso solo indicare quello che non siamo: le femministe non sono tutte brutte, non sono tutte lesbiche, non sono tutte arriviste, non sono tutte aggressive.
Ma specialmente. non siamo un TEMA, da inserire nei programmi di partito, nelle commissioni di partiti e movimenti, nella associazioni, nelle trasmissioni televisive. Magari vicino agli ambientalisti, agli animalisti, ai salutisti, ai negazionisti… Non siamo un tema , siamo uno sguardo sul mondo, un parola che taglia, un corpo che conta.
Per leggere gli articoli e gli interventi di Eleonora Graziani clicca sul nome dell’autrice.
Achille Funi, l’artista operaio che amava i classici
Achille Funi, affermato e originale artista del primo Novecento, nasce nel 1890 e muore nel 1972, con una carriera che culmina negli anni Trenta. Ma che non va associato al pensiero politico dominante dell’epoca. È questo che ha voluto prima di tutto sottolineare lo studioso e critico d’arte Lucio Scardino nell’appuntamento di giovedì 30 novembre 2023, inserito all’interno del ciclo di incontri che proseguirà fino al 25 gennaio per approfondire la grande retrospettiva “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito” visitabile sino al 25 febbraio a Palazzo dei Diamanti di Ferrara.
Conferenza su Funi a Palazzo dei Diamanti
Lucio Scardino con Pietro Di Natale
“Funi – ha rimarcato Scardino – aveva un ideale classico e ha tentato di far diventare classico il quotidiano. Citava a memoria Dante e Omero e tutti lo ricordano per la sua cultura. Perciò è rimasto sempre al di sopra delle parti, se ne è infischiato della politica. Per lui la fruttivendola di Brera poteva diventare Saffo”.
E ha spiegato come il padre, attivista del partito socialista, aveva a cuore la cultura e quando Achille aveva 10 anni lo portava a studiare gli affreschi di Schifanoia. “Lo indirizza subito a una visione classica, ma votata al popolo e ai valori democratici anche in termini culturali”, ha detto il critico ferrarese.
Tant’è che, per consentire lo sviluppo del talento artistico che il ragazzo mostra, il padre decide di lasciare il suo lavoro di fornaio. Per Achille trasferisce tutta la famiglia a Milano, dove lavorerà come operaio e la moglie come portinaia. “Questo – dice il critico – affinché il giovane si potesse aprire a una visione dell’arte svincolata dalle pastoie della borghesia di provincia”. Un influsso percepito come limite dell’ambiente ferrarese, dove Achille rivela le sue doti già negli anni di studio al liceo Dosso Dossi.
“Funi – ha ricordato Scardino – non abbandonerà mai questo amore per i classici che il padre gli aveva trasmesso e nemmeno per i valori dei lavoratori”. Un amore che “l’enfant prodige del socialismo ferrarese” esprime con i suoi dipinti e i suoi affreschi. Gli stilemi della scuola del Rinascimento, li inserisce come sfondi dei ritratti che traspongono in versione moderna gli squarci di paesaggio delle Madonne delle gran dame del ’500.
Con la differenza che i paesaggi che occhieggiano dai dipinti funiani alternano scenari collinari di stampo leonardesco a una prevalenza di scorci di periferia urbana industrializzata. Il mondo contemporaneo entra così nell’opera moderna, ripreso con forme classiche.
Analogamente i soggetti che dominano la tela non sono figure religiose o aristocratiche. Nei ritratti – come pure negli affreschi – come modelli ci sono uomini e donne comuni, spesso parenti o conoscenti e committenti, in una visione comunitaria e democratica della rappresentazione.
I volti, nei dipinti di Funi, riprendono infatti quasi sempre personaggi familiari (la sorella Margherita super ritratta, i genitori, i fratelli) e poi gli amici, gli artisti, gli intellettuali e le persone che frequenta negli anni. Ma i corpi dei suoi soggetti sono quelli di muratori e operai.
È Folco Quilici a ricordarlo in un intervento raccolto nel volume “Il Mito di Ferrara. Omaggio ad Achille Funi e alle sue fonti” curato da Lucio Scardino e Filippo Manvuller per l’edizione del marzo 2023 del Comune di Ferrara. Nella sala dell’Arengo del palazzo municipale ferrarese Folco – alla pagina 102 del volume – rivela che “gli erculei corpi degli eroi e degli Dei dell’Olimpo erano in realtà ispirati a membra e muscoli (a proporzionati atletici arti, insomma) di contadini e operai”.
All’epoca bambino, Folco è il medio dei tre figli del direttore del Corriere Padano, Nello Quilici, che ospitò l’artista tornato a Ferrara per realizzare i cartoni dell’affresco per la sala comunale di Ferrara. Perciò gli mise a disposizione come laboratorio gli spazi del granaio della casa dove viveva insieme alla moglie Mimì Buzzacchi Quilici e ai figli Vanni, Folco e Vieri, in corso Cavour 40 a Ferrara.
Achille Funi – Autoritratto con brocca blu, 1920
Marlon Brando, “Un tram chiamato desiderio”, Usa 1951
Il rispetto dell’attività manuale spicca nella maggior parte degli autoritratti che Funi ci ha lasciato e che questa mostra raccoglie. Achille pittore si mostra sempre in abiti da lavoro: in canottiera o maglietta bianca sopra a pantaloni di tela, con gli addominali scolpiti dell’affrescatore di pareti che era.
“Autoritratto” di Funi, olio su tavola 1921
Videocassetta con l’immagine di Marlon Brando
Un’immagine di sé che anticipa quell’estetica che Marlon Brando renderà globale con il suo ruolo di protagonista di “Un tram chiamato desiderio” oltre trent’anni dopo, in analoga T-shirt bianca, e che ritroveremo in Paul Newman e James Dean.
Mostra “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito”, visitabile sino al 25 febbraio 2024, tutti i giorni orari 9-19.30, Palazzo dei Diamanti di Ferrara, corso Ercole I d’Este 21, Ferrara.
Info sul sito webwww.palazzodiamanti.it.
Per leggere tutti gli articoli di Giorgia Mazzotti su Periscopio clicca sul nome dell’autrice.
Le storie di Costanza. Dicembre 2062 – Il Natale di Dylan
Il 2062 sta finendo. Questo dicembre si addormenta nel freddo e si risveglia con la nebbia. Le goccioline appiccicate ai vetri dalle finestre camminano lentamente verso il davanzale e le luci si accendono in fretta, tanto quanto tramonta il sole.
Nel buio vivono tante sorprese e anche tanti incubi. Una delle mie paure è proprio legata alla notte. Ho paura che il nero non finisca, che i miei occhi a un certo punto non ritrovino più la luce e non possano rivedere con piacere il mattino bianco e azzurro.
Si potrebbe pensare che io abbia qualche malattia visiva, ma non è così, ho semplicemente paura della cecità. Non so se riuscirei a riadattarmi a questa vita senza vederci, io amo i colori e quando vedo qualche pittore dipingere, mi incanto a guardare la tela che da bianca diventa variopinta e viva. È uno spettacolo incredibile, una materia anonima che prende forma e diventa arte.
Anche io a volte dipingo un po’. Mi piace usare i colori a olio su tavole trattate con la sabbia. La preparazione a sabbia rende irregolare la superficie da dipingere aumentando il senso di profondità e di movimento già tipici dei quadri dipinti ad olio.
Io sono Dylan, sono un amico di Axy e forse anche qualcosa in più. Quando mi sarò laureato in medicina forse mi fidanzerò con lei, ma non so … manca ancora molto tempo. Avevo iniziato Giurisprudenza, ma poi ho smesso e mi sono iscritto alla facoltà attuale e i tempi, tra il presente e la laurea, si sono ulteriormente allungati.
Mia madre voleva che io facessi medicina ma io, per dimostrarle autonomia di pensiero e conoscenza del mondo, mi sono iscritto a giurisprudenza, per poi accorgermi che aveva ragione lei. Voglio curare la gente dalle malattie, non mandarla fuori o dentro dalla prigione.
Così ho cambiato facoltà e mi sono messo a studiare a più non posso, con mia madre che ogni tanto mi borbotta nelle orecchie ‘Io te l’avevo detto! sei un testone, una zucca come quelle che coltiva Annarita.’ Annarita è la zia di mia madre, la sorella della nonna. Vive in campagna e, davanti a casa, ha un campo dove coltiva di tutto. Le zucche americane sono una delle sue passioni.
Non lavorando non ho soldi e senza soldi non c’è molto futuro da progettare. Ma prima o poi riuscirò a laurearmi, a fare il medico e ad essere autonomo economicamente. Allora vorrei trovare una casa per me in Via Santoni Rosa e poi chiedere ad Axy se le piacerebbe venirci a stare.
In quella via abitano i suoi parenti e tutti i loro animali (veri e meccatronici), quel gruppo simpatico che costituisce la grande famiglia dei ‘Santoniani’. Là c’è la vecchia casa di Costanza e Cecilia, la prozia e la nonna di Axy. Ascoltare Cecilia e Costanza che raccontano le storie di famiglie è uno dei miei passatempi invernali preferiti. Nel grande soggiorno dai divani gialli dove viene acceso il camino, Zeus-t abbrustolisce le castagne e le offre agli ospiti con molta eleganza.
Io e Axy ci sediamo a volte sul divanetto d’Adelina, non so esattamente perché tutti lo chiamino così, e a volte in terra sul tappeto che copre la sezione di pavimento circondato da due divani, due poltrone e un tavolino su cui ci sono riviste e ‘occorippi’.
Là seduti ascoltiamo i racconti di nonna e zia e il tempo vola sulle ali dei ricordi. Sono ali che possono essere leggere o pesanti, corte o lunghe, ma mai banali. Quei pomeriggi passati seduto sul tappeto mi aiutano a prendere le distanze dalla vita frenetica che mi caratterizza spesso. Tra corsi universitari, libroni da leggere più volte, cliniche in corsia e volontariato alla Croce Rossa, passo da un accidente all’altro, oscillando come le palline del moto perpetuo.
Penso che mi specializzerò in pronto soccorso, niente di semplice e tranquillo, ma che porta appresso la consapevolezza di molta utilità. Anche un po’ di spirito caritatevole e anche un po’ di masochismo, la mia quotidianità è tutta lì.
Poi c’è Axy con i suoi occhi scuri, i capelli ricci e quella sua passione per l’informatica e per la Formula 1. Una ragazza bella e brava, anche cocciuta e taciturna. Molto brillante e sorprendente. Ama vestirsi di bianco, nero e grigio. Ha uno zaino nero e una felpa verde militare con scritto: ‘Non buttate la plastica, gli aironi la potrebbero mangiare’.
Lungo il Lungone vivono tanti aironi cenerini e Valeria, la mamma di Axy, va spesso a osservarli, portandosi appresso Cosmo-111. Il robot ogni tanto li fotografa, ci sono a casa loro delle immagini magnifiche di quegli uccelli fluviali dalle grandi ali.
Io vivo con mia madre Alessia, mio padre è morto in un incidente quando avevo tre anni. Di lui mi ricordo molto poco, la mamma dice che era uno psicologo molto bravo. Un suo paziente l’ha accoltellato mentre usciva dallo studio. È morto il giorno seguente in ospedale a Trescia, dopo che invano i chirurghi avevano tentato un intervento per salvarlo.
Ho raccolto tutti i ritagli di giornale che ho trovato su quell’avvenimento e ogni tanto li rileggo per non dimenticare nemmeno una parola di quello che c’è scritto su quei pezzi di carta. La mamma non sa che io li ho, è il mio segreto. Un segreto buono, non gliene ho mai parlato per non farla soffrire e per non tornare a specchiarmi in quegli occhi lucidi e senza fondo con cui mi guardava quando mi accompagnava a scuola e vedeva i miei coetanei con i loro padri.
Sono cresciuto con mia madre, con il cane Bambù-senior prima, con Bambù-junior poi e con il fantasma di mio padre. Tutto sommato un fantasma discreto, che ci ha lasciato molto vuoto, ma nessun brutto ricordo. Credo che anche quello sia molto importante. Non lasciare dietro di noi amarezze di alcun tipo.
Questo è ciò che mi resta di mio padre, una assenza senza rancore, un vuoto che non si riempie mai, ma che non si colma di brutti ricordi, sta semplicemente lì, sedimentato come una stalagmite senza punte.
Mia madre mi ha raccontato che il paziente che ha ucciso mio padre è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico, non sa attualmente dove sia, non sa nemmeno se sia ancora vivo. Forse anche per tutto questo voglio fare il medico,voglio che gli psicologi si salvino e i loro figli crescano senza pericolosi cristalli di roccia sul loro cammino.
Ad Axy ho raccontato questa triste vicenda e le ho anche fatto vedere i ritagli di giornale. Lei li ha letti tutti e poi ha promesso di mantenere il segreto sulla loro presenza a casa mia. Condividere un segreto accumuna molto due persone. Le rende complici nei confronti di tutti coloro a cui il segreto non è stato svelato.
So che Axy non ha raccontato niente a nessuno, nemmeno alla prozia Costanza, con cui parla sempre. Una volta mi ha chiesto se potesse rendere partecipe Costanza del nostro segreto e io le ho detto di no. Dopo quella volta non ha più fatto menzione agli articoli e io le sono grato per questo. Un po’ perché non voglio che mia madre sappia dei ritagli e si senta tradita dalla mia mancanza di confidenza e un po’ perché il segreto che c’è tra di noi mi fa sentire Axy più vicina, una complice buona e muta sulla quale posso contare.
Da quando ho raccontano tutto a Axy la mia vita è migliorata, mi sento meno solo, con un fardello meno pesante sulle spalle. Il dolore condiviso è meno cattivo, si addomestica più facilmente. Credo che se ogni persona sofferente potesse trovare un complice che capisce e condivide il suo dolore, soffrirebbe di meno, troverebbe con più facilità una strada per riappacificarsi con il mondo e con le sue malvagità.
Ad Axy non è ancora morto nessun parente particolarmente caro, però si ricorda Albertino Canali, il bizzarro vicino di casa di Costanza che è morto qualche anno fa. Quel signore era pettegolo e un po’ rude, aveva passato la vita a fare il trebbiatore, ma era anche intelligente e buono.
Tutti i Santoniani erano molto affezionati ad Albertino e la sua dipartita ha suscitato in loro grande tristezza. Sono contento che Axy non si sia ancora confrontata con qualche vero dramma che può succedere nella vita, è meglio così, le resta maggiore energia per guardare al futuro con positività, per pensare che domani sarà migliore di oggi e non viceversa, per credere che potrà realizzare tutti suoi sogni e per non farsi attanagliare dalla preoccupazione.
Lei non pensa che uno dei suoi cari potrebbe morire da un momento all’altro nelle accidentalità più dolorose che si possono immaginare, lo penso io. Axy è molto forte e libera, per questo ha potuto condividere il mio segreto e farsene in parte carico, aveva sufficienti risorse emotive per sopportarlo. Sono molto contento di questo e mi chiedo se anch’io riesco, con la mia presenza, a renderle migliori le giornate. Spero proprio di sì.
Fra un po’ è Natale, tempo di buoni sentimenti, di pensieri sull’anno che sta chiudendo, di programmi per quello nuovo. È anche tempo per fermarsi e godere la presenza dei parenti che, nel nostro caso, non sono né serpenti né invadenti.
Vorrei farle un regalo e vorrei essere sicuro che sia unico. Ho così pensato che le regalerò un quadro fatto da me. Sto aspettando un’alba colorata. Sono due settimane che metto la sveglia alle cinque, apro la finestra e guardo il cielo per vedere com’è. Non ho ancora trovato un’alba abbastanza bella per essere dipinta sulla tela sabbiata già pronta. La voglio rosa, azzurra e bianca, con anche la luna. Un’alba così bella che solo il giorno di Natale la può meritare.
Così potrei fare ad Axy un regalo fatto con le mie mani, che rappresenta un fenomeno naturale ammirevole. Un quadro che raffigura l’alba a Pontalba per lei, per i Santoniani e per tutta la gente che vive a Pontalba. Vorrei che potesse servire ad augurare un buon Natale anche a chi da Pontalba passa solo qualche volta e si ferma per un po’ a guardare gli abitanti di questo paese di pianura, dove il fiume scorre insieme al tempo e si ferma quando vuole per augurare a tutti la felicità.
N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.
Le bugie sul salario minimo (Vespa in tv) hanno le gambe corte
La querelle sul salario minimo è comica. Quasi tutti i paesi al mondo (e in Europa) ce l’hanno. I pochi che non l’hanno (come i paesi nordici e Austria) hanno sistemi contrattuali e un welfare che aiuta moltissimo i lavoratori più poveri dei propri paesi.
Non sto qui a ribadire le ragioni di un salario minimo (vedi il mio articolo“Salario Minimo Legale: perché conviene” su Periscopio del 28 luglio) se non per aggiungere che c’è ampio consenso, anche tra gli economisti liberali, su come il salario minimo sia uno strumento efficace in quei paesi dove i lavori malpagati sono un problema persistente (come appunto in Italia). Un tempo molti erano contrari pensando che salari minimi avrebbero scoraggiato le imprese ad assumere, ma l’opinione prevalente è cambiata perché i dati di molti mercati del lavoro hanno dimostrato che l’introduzione di un salario minimo moderato non riduce affatto l’occupazione. Riducono invece le disuguaglianze perché migliorano le entrate di quel 25% di lavoratori poveri.
La cosa comica è che quando era al Governo il M5S e il PD non l’hanno introdotto (mentre la Meloni e la Lega lo volevano), ora che la destra è al Governo non vuole introdurlo ma lo vogliono le opposizioni.
In un talk show Bruno Vespa ha concluso dicendo che in Europa è vero che solo pochissimi paesi non hanno il salario minimo, ma è anche vero che solo 6 paesi hanno un salario minimo superiore ai 9 euro all’ora, come propone oggi l’opposizione. Caro Vespa i conti non si fanno così! Il salario minimo esistente in un paese va riferito al salario medio di quello specifico paese, per cui è evidente che in Germania dove il salario medio lordo è di 2.890 euro, 12 euro all’ora lordi significa avere un salario minimo pari a circa il 66%, mentre in Polonia dove il salario medio è 900 euro avere un salario minimo di 4,9 euro all’ora significa che è il 77% del salario medio, molto più alto di quello che sarebbe in Italia (69%) se venisse introdotto a 9 euro all’ora(come nell’ipotesi della figura allegata).
Per leggere tutti gli articoli di Andrea Gandini pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autore.
Nella Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria “Più libri più liberi” che si tiene alla Nuvola di Roma dal 6 al 10 dicembre, è tornato, il 7 dicembre, “Bookciak legge”: novità per il 2024 e visione dei corti vincitori presentati alla 80° Mostra del Cinema di Venezia ispirati a racconti, poesie e graphic novel
Il 7 dicembre, un pomeriggio cine-letterario ospite del Centro del libro e la lettura (stand Cepell – piano Forum-P20) per annunciare le novità della III edizione di “Bookciak Legge”, ideato e diretto dalla giornalista Gabriella Gallozzi, e presentare i corti vincitori di “Bookciak, Azione!” 2023.
La pace quotidiana, non soltanto l’assenza di guerre, ma quella necessaria come il pane per poter vivere tutti i giorni: è questo il tema, della III edizione di “Bookciak Legge”, il concorso letterario che, attraverso il premio “Bookciak, Azione!”, trasforma in corti i libri, premiandoli alle Giornate degli Autori, in collaborazione con SNGCI, nell’ambito della Mostra del cinema di Venezia.
Novità di “Bookciak Legge” 2024 è “La casa editrice dell’anno”, ovvero la nascita di una nuova iniziativa che, a partire da quest’anno, vedrà per ogni nuova edizione del premio, una casa editrice ospite con cui mettere in piedi una sinergia per declinare in modo nuovo il rapporto tra letteratura e cinema.
Ad inaugurare il nuovo percorso è La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi con l’ultimo libro di Tahar Ben Jelloun, L’urlo. Israele e Palestina. La necessità del dialogo al tempo della guerra, in libreria dal 21 novembre. Una lezione di pace in tempi di guerra. Un pamphlet lucido su cosa sta accadendo in Medio Oriente e le possibili soluzioni per mettere fine al conflitto. A partire dal dialogo urgente tra i due popoli. Un libro che ben si presta al tema scelto da Bookciak Legge per quest’anno e che vuole essere una proposta e uno spunto per una riflessione sulla pace e sulla necessità del dialogo come antidoto alla guerra in un momento cruciale come il nostro.
Sarannogli studenti dell’Istituto cinematografico Michelangelo Antonioni di Busto Arsizio a realizzare un bookciak, un corto sperimentale di massimo tre minuti, a partire da questo titolo che sarà presentato alla prossima edizione delle Giornate degli Autori a Venezia nell’ambito del premio “Bookciak, Azione!” 2024 e accompagnato in tour insieme agli altri corti vincitori del Premio nel corso del 2024.
Annunciata, inoltre, la giuria di Bookciak Legge 2024, capitanata da Marino Sinibaldi, è composta da Laura Luchetti regista e sceneggiatrice (“Fiore gemello”, “La bella estate” da Cesare Pavese, “Il gattopardo” Netflix) e Roberto Scarpetti, drammaturgo e sceneggiatore.
Gli editori indipendenti presenti a Più libri più liberi sono invitati a partecipare alla III edizione di “Bookciak Legge” inviando le loro proposte per le seguenti categorie: romanzi brevi (entro 100 pagine); graphic novel, racconti e poesie inerenti al tema La pace quotidiana. I libri dovranno essere inviati in formato elettronico a info@bookciak.itentro il 27 dicembre. I tre titoli vincitori, uno per categoria, saranno annunciati ai primi di febbraio dalla giuria di “Bookciak Legge”, mentre la premiazione si svolgerà a Roma ad aprile 2024.
Per l’occasione, sempre nel pomeriggio del 7 dicembre, sono stati presentati i video vincitori dell’ultima edizione del premio e in tour tutto l’anno,ispirati ai tre libri vincitori di Bookciak Legge 2022, e premiati a Venezia. Si tratta di:
“Fino alla fine dell’estate”, diGreta Amadeo, liberamente ispirato a “La mia amica scavezzacollo” di Micol Beltramini (Hacca edizioni) vincitrice per la sezione romanzi;
Fino alla fine dell’estate
Fino alla fine dell’estate
“Pozzanghere”diVeronica Pellegrinet, liberamente ispirato a “Sacro e urbano”,di Isabella Capurso (Gattomerlino), sul podio per la categoria poesie;
Pozzanghere
Pozzanghere
“Reso Numero 0051di Matteo Papetti, liberamente ispirato a “Isometria della memoria”, di Davide Passoni (Miraggi,per la sezione graphic novel), realizzato dai 24 studenti del corso di Drammaturgia Multimediale 2022/2023 coordinato da Alessandra Pescetta per l’Accademia di belle arti (LABA) di Brescia;
Presentato anche “El Chuño Los Andes a Rebibbia”,realizzato dalle studentesse-detenute della Sezione R del Liceo Artistico Statale Enzo Rossi, coordinate da Claudio Fioramanti e Lucia Lo Buono.
Rebibbia
Rebibbia
Il tema della passata edizione di Bookciak Legge era dedicato alle “storie per restare umani”; la premiazione si è svolta in Campidoglio lo scorso aprile, in compagnia dei giurati Silvia Scola, Carola Susani e Mimmo Calopresti.
Più libri più liberi, 6 – 10 dicembre, La Nuvola – Roma, Nomi Cose Città Animali
La fiera Nazionale interamente dedicata alla Piccola e Media Editoria è promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori (AIE), come ogni anno si terrà nello scenografico edificio de La Nuvola dell’Eur. Quest’anno 594 espositori, provenienti da tutto il Paese, presenteranno al pubblico le novità e il proprio catalogo. Cinque giorni e più di 600 appuntamenti in cui ascoltare autori, assistere a letture, confronti, dibattiti e incontrare gli operatori professionali. Piu libri più liberi è promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori, con il sostegno del Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura, Regione Lazio, Roma Capitale, Camera di Commercio di Roma e ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con il contributo di SIAE. È realizzata in collaborazione con Istituzione Biblioteche di Roma, ATAC azienda per i trasporti capitolina, EUR Spa, Dior e si avvale della Main Media Partnership di Rai con il Giornale della Libreria. La manifestazione partecipa ad Aldus Up, la rete europea delle fiere del libro cofinanziata dall’Unione Europea nell’ambito del programma Europa Creativa, è presieduta da Annamaria Malato e diretta da Fabio Del Giudice. Il programma è a cura di Chiara Valerio.
48MILA TITOLI L’ANNO
La piccola e media editoria in Italia nel 2022 ha pubblicato 47.850 novità, in lieve calo rispetto all’anno precedente (-0,6%) e pari al 59,3% dell’offerta editoriale complessiva. Le case editrici attive, micro, piccole e medie, sono 5.022, -0,9% rispetto al 2021. La quota di mercato nelle librerie fisiche e online e nei supermercati nel 2022 è stata pari al 49,2%.
IL TEMA: NOMI COSE CITTÀ ANIMALI
Il tema della 22° edizione è il titolo di un gioco per bambini. E, come nel gioco, ogni autore potrà comporre la propria categoria lessicale, perché giocando si comprenda che per essere liberi in una comunità è necessario stabilire, e cambiare quando serve, alcune regole. Giorgio Manganelli diceva “Ma non è la meta di tutte le nostre disperazioni sciogliersi nel gioco?”. Da bambini giochiamo e impariamo a leggere e scrivere. Da adulti dimentichiamo quanto sia importante vivere con il gioco – ma mai per gioco.
Foto in evidenza Ufficio stampa Più libri più liberi
AAA CERCASI CON URGENZA LA TUA COMPETENZA, LA TUA PASSIONE E IL TUO IMPEGNO PER BATTERE LA DESTRA
Caro amico, cara amica, Fra meno di 6 mesi a Ferrara si vota e la coalizione di destra appare sempre più favorita.
I Partiti e le forze di opposizione sono ancora divise sul nome del candidato/a e incapaci di presentare agli elettori un programma serio e concreto per il futuro di Ferrara. Tutti sembrano aspettare non si sa bene cosa: un’idea “geniale”, una mediazione al ribasso, uno strano ticket, un altro garbuglio… Purtroppo, questo atteggiamento poco comprensibile dal punto di vista dei cittadini, avrà come probabile risultato quello di facilitare la rielezione della Giunta Fabbri ed aumentare il popolo dei non votanti.
Scriviamo a te personalmente, perché crediamo che non abbia senso aspettare le trattative tra i partiti, o un salvatore/salvatrice della patria, magari telecomandato/a da Roma. Se vogliamo innescare un processo virtuoso che scuota l’apatia politica occorre scendere in campo già ora con una Grande Lista Popolare. E occorre che ognuno e ognuna di noi faccia un passo avanti e si assuma un impegno personale, offrendo la propria competenza, le propria passione, il proprio senso civico e anche un po’ del proprio tempo. Nessuno lo farà al posto nostro!
In questi mesi, lavorando insieme e partendo dal basso, sono emersi tanti problemi e tante idee. Abbiamo individuato alcuni punti fondamentali (i cardini del futuro programma elettorale) per realizzare una vera e propria svolta nei contenuti e nei metodidel governo cittadino: la decarbonizzazione e il contrasto alla emergenza climatica, lo sviluppo del welfare di comunità e l’attenzione verso le nuove povertà e le fasce sociali fragili; lo stop alla privatizzazione e l.’ipegno concreto per la pubblicizzazione del servizio rifiuti e il servizio idrico, la costruzione di un sistema di democrazia partecipata e la messa a disposizione di strutture gratuite in tutti i quartieri e le frazioni.
La Ferrara che vogliamo è una città governata direttamente dagli stessi cittadini.
Il prossimo 16 dicembre ci ritroveremo insieme per la 2 tappa promossa da “La Comune di Ferrara”. Come sempre sarà un percorso dal basso, aperto a tutte e a tutti: singoli cittadini, gruppi spontanei, comitati, associazioni, partiti di opposizione. Ma questa volta vorremmo incominciare a presentare persone disposte a dare il proprio contributo, in campagna elettorale e quindi nel futuro governo della città.
Non cerchiamo candidati a sindaco o a questo o quell’assessorato. Cerchiamo invece 10, 20, 30… ferraresi disposti a lavorare e ad occuparsi di un particolare campo, settore, problema: grande o piccolo che sia. Perché i problemi della città sono veramente tanti, ma in città ci sono altrettante competenze (spesso inespresse) capaci di affrontarli..
Sappiamo che ti stiamo chiedendo tanto: il tempo è prezioso ed è sempre scarso, per tutti. Ma prova a rispondere: ti rassegni a questa Ferrara sofferente e in declino? Vuoi continuare a delegare? Oppure vuoi dare un contributo per liberare Ferrara dalla mediocrità e dalla volgarità degli ultimi anni?
Se non ora quando?
Il cammino di una GRANDE LISTA POPOLARE comincia oggi. I futuri passi, a partire dall’incontro del 16 dicembre, li decideremo assieme.
Se confermi la tua disponibilità, se vuoi dare una mano, ti chiediamo di contattarci subito per un colloquio: info@lacomunediferrara.it
Grattacieli londinesi: iconici, potenti e introversi
Sono a Londra per l’ennesima volta. Ogni volta che torno ho sempre l’impressione di trovare una città diversa. La sensazione è reale perché l’anno scorso ho pensato la stessa cosa, vedendo, come oggi, tanti cantieri aperti. Ci sono alcuni momenti che segnano i cambiamenti delle città, in particolare delle grandi città. Londra ne ha avuti diversi.
Nel 1666, il Great Fire distrugge la gran parte di una città che stava cercando di risollevarsi dalla pestilenza che aveva ucciso circa centomila persone. Una pestilenza arrivata dall’Olanda ma partita dal Levante come ci descrive minuziosamente nel suo romanzo Daniel Defoe.
Allora Londra non andava oltre il Tower Bridge e l’architetto Christopher Wren progetta una Londra barocca che non si realizza.
Un secondo momento, certamente il più importante, anche per l’immaginario della città, riguarda la rivoluzione industriale e la Regina Vittoria. Prende forma la Londra ricca e miserabile, fumosa e sporca, attiva e oziosa che letteratura ci ha raccontato e che arriva fino agli anni ’50 del Novecento.
Le distruzioni della II guerra mondiale costituiscono il terzo dei grandi momenti di trasformazione della città.
Sono gli anni del modernismo e del brutalismo dei complessi residenzialiRobin Hood Gardens o del Barbican Center. La città diviene una piattaforma trasformabile e anche decentrabile attraverso le new town, la cui costruzione inizia in realtà agli inizi del Novecento.
Fino a questo momento Londra è una città piatta, con la riqualificazione dei bacini portuali (i docks) arriva a Londra la verticalità del grattacielo.L’Est London povero e misero raccontato dalla levatrice Jennifer Worth si trasforma in una città finanziaria, il potere capitalista deve rendere evidente il suo dominio sul mondo e il grattacielo ne rappresenta l’icona. Lavisione neoliberista del futuro e dei rapporti umani, incarnato dalla Signora Margaret Thatcher, primo ministro, fa da sfondo a una delle prime grandi operazione di riqualificazione urbana dove il ruolo del potere pubblico è di asservimento agli appetiti privati, molto rilevanti in questo caso.
Oggi Londra brulica di grattacieli talmente vicini da rasentare il disordine.
Londra e i grattacieli visti da Whitechapel (ph. Romeo Farinella)
Ma il grattacielo è un edificio introverso, pensa solo e sé stesso. All’esterno, con la sua altezza, segnala il potere di chi l’ha voluto costruire ma la sua attenzione è tutta rivolta all’interno e alle dinamiche che si indentificano nella folla che lo attraversa, in tutte le direzioni, per dare concretezza ai fatti. Il grattacielo non crea fronte urbano, la strada gli serve solo per l’accesso. L’idea o l’utopia urbana del Rockfeller Center di New York che cerca di creare un luogo urbano attraverso la composizione ordinata di una serie di grattacieli, con i giardini sul tetto e le piazze alla base, è rimasta tale, non è diventata una regola.
Quindi potremmo dire che il grattacielo come icona trasmette potenza e introversione. Non crea spazio pubblico, mette caso mai a disposizione spazi collettivi mercificati: nella hall se diventa un centro commerciale o nei giardini e ristoranti del rooftop. Whitechapel e Southwark pullulano oggi di iconici grattacieli dalle forme falliche, strambe, frammentate come The Shard di Renzo Piano, il più alto di Londra e d’Europa. (vedi immagine di copertina)
Tutti questi grattacieli londinesi non si sforzano nemmeno di inventare un nuovo spazio pubblico, presi come sono dalla necessità di spremere il più possibile il valore del suolo. Quanto meno Mies van der Rohe, costruendo il Seagram Building a New York, il tema della soglia tra lo spazio delle grattacelo e della strada se lo era posto.
Non capisco perché si continui a interrogare, sulla stampa che conta, Renzo Piano sulle grandi questioni urbane del futuro. Dopo decenni di ricerca su come riprogettare le periferie cresciute male abbiamo scoperto, grazie a lui (Sic!), che dobbiamo ricucirle (che intuizione!). In epoca di Covid abbiamo scoperto, sempre grazie a lui, che l’opposizione alla città non è la campagna ma il deserto, dimenticando che nel deserto sono prosperate straordinarie civiltà urbane che avrebbero molto da insegnarci in termini di resilienza e adattamento climatico. Renzo Piano è un grande costruttore di oggetti architettonici, grattacieli compresi, spesso per gente ricca, si limiti a quello e lasci stare il futuro delle città, perché quello che molte sue architetture prefigurano è distopico.
In copertina: Londra, the Shard di Renzo Piano (ph. Romeo Farinella).
Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore.
Quest’anno abbiamo forse assistito alla nascita di un nuovo genere letterario, quello delle omelie dei funerali in diretta televisiva. La loro analisi linguistica potrebbe diventare un nuovo genere di critica letterario-sociologica, visto che ci racconta cose molto interessanti riguardo alla cultura che le produce e poi addirittura le diffonde in forma integrale a mezzo stampa. Ad esempio, qualche mese fa, ai funerali di Stato di Silvio Berlusconi abbiamo assistito al trionfo dell’anfibologia, figura retorica dell’ambiguità, utilizzata in modo così sapiente che c’è chi ha potuto interpretare l’omelia come una celebrazione del defunto e chi, al contrario, come una severa reprimenda.
Invece nei giorni scorsi, ai funerali di Giulia violenzav, ha prevalso nettamente l’eufemismo, «che consiste nel sostituire, per scrupolo morale, per riguardi sociali o altro, l’espressione propria e usuale con altra di significato attenuato» (Enciclopedia Treccani).
Infatti, non solo la parola “femminicidio” non è mai stata pronunciata, ma neppure la più generica “omicidio” e i suoi sinonimi.
Al loro posto una serie di giri di parole, talvolta almeno connotati negativamente («l’immane tragedia», «negazione della vita»), anche se a volte smorzati dall’uso della metafora («il tronco ferito e spezzato della nostra umanità», che tra l’altro si allontana dal caso singolo, generalizzando attraverso quel “nostra”). Invece nella frase «il volto di Giulia è stato sottratto alla nostra vista», l’eufemismo non è solo nella scelta del verbo “sottrarre”, ma anche nella forma passiva, che permette di eludere l’esplicitazione del soggetto che ha compiuto quest’azione.
Quasi altrettanto spesso, inoltre, viene addirittura scelto un termine neutro, che potrebbe essere riferito tanto a un evento negativo quanto a uno positivo: «quello che abbiamo appreso»; «la conclusione di questa storia»; «quanto abbiamo visto».
Infine, solo una volta compare l’espressione più semplice e diretta, «la morte di Giulia», che però, priva di un aggettivo che ne connoti la natura violenta, è anch’essa un’espressione eufemistica, che viene ulteriormente annacquata dal suo inserimento in un insieme più ampio e indifferenziato (comprendendo anche gli uomini come vittime, fra l’altro): «di fronte alla morte di Giulia ma anche a quella di tante donne, bambini e uomini sopraffatti dalla violenza e dalle guerre».
Anche l’espressione “violenza sulle donne” è un tabù, ma quello che stupisce è che lo è anche la parola “donna”, che, oltre all’esempio appena citato, appare solo due volte e, per l’appunto, mai da sola, ma sempre in coppia con la parola “uomo”: «una società e un mondo migliori, che abbiano al centro il rispetto della persona (donna o uomo che sia)»; «insegnaci, Signore, la pace tra generi, tra maschio e femmina, tra uomo e donna».
Quest’ultima frase mette bene in luce come questo abbinamento uomo-donna sia finalizzato a leggere in modo eufemistico la violenza come semplice contrasto, la cui responsabilità, quindi, implicitamente ricade su entrambi gli attori in gioco.
Al posto della parola “donna”, poi, altrove viene usata l’espressione “i più deboli”, che da una parte riprende lo stereotipo del sesso debole, e dall’altra, ancora una volta, annacqua il concetto, utilizzando una categoria più ampia: «le piazze, le aule universitarie, i palazzi, le nostre case possono certo diventare quei luoghi dove poter difendere i diritti dei più deboli».
Sulla stessa linea, l’uso del neutro “persona”, già visto anche in un precedente esempio: «acquisire strumenti che nobilitano la vita delle persone, soprattutto delle più deboli e fragili»; «quei contesti sociali e quelle reti in cui le persone siano valorizzate in quanto soggetti».
Senza addentrarsi nei contenuti dell’omelia, anche solo le scelte lessicali rivelano quindi una ostinata e capillare volontà minimizzante, di fronte alla quale mi viene in mente una sola osservazione. È una citazione tratta dalla Passione di santa Giustina, la santa titolare della basilica padovana dove questo funerale si è svolto.
Nel racconto agiografico Giustina è una ragazza giovanissima, pugnalata al petto per aver osato affermare la sua volontà contro quella di un uomo, l’imperatore romano Massimiano. Nella sua Passione sta scritto, riprendendo un passo evangelico: «Se voi tacerete, le pietre grideranno». In questa occasione, di fronte all’eufemismo che è, di fatto, una forma di silenzio, per chi ha saputo ascoltare ha invece parlato non una pietra ma un tela: l’enorme pala di Paolo Veronese che si trova presso l’altare della basilica, e che raffigura proprio, in tutta la sua scandalosa ingiustizia, la morte violenta della giovane e innocente Giustina.
Francesca Marcellan
Vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema “per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film”. E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.
Cover: Paolo Caliari detto Veronese, Martirio di Santa Giustina.
Un altro miracolo italiano: San Giuliano ha salvato Venezia.
San Giuliano chi? Vuoi dire Sangiuliano? Il ministro della cultura? Il cacciaballe? Quello che Dante sarebbe il campione della cultura della Destra?
Proprio lui, che guarda a caso è nato a Napoli e di nome fa Gennaro. Ma San Giuliano non si limita a sciogliere un’ampolla di sangue secco, lui lavora in grande. Il suo ultimo miracolo ci ha lasciati “commossi e attoniti”. Un uomo, un uomo solo, è riuscito a salvare Venezia; quella Venezia che credevamo moribonda, afflitta da un male incurabile, assediata dalle maree che un Mose costato miliardi non riesce a domare.
Ora, grazie a lui, Venezia non è più in pericolo. Ecco le parole di San Giuliano: “Il Comitato del Patrimonio Mondiale riunito a Riad in Arabia Saudita, per la sua 45esima sessione, ha deciso di non iscrivere il sito ‘Venezia e la sua laguna’ nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO in pericolo”.
Merito di chi?
Continua il Ministro e Santo: “Il lavoro di squadra svolto in questi mesi dal Ministero della Cultura insieme al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, alla Regione Veneto, al Comune di Venezia e alle istituzioni che compongono localmente il Comitato di Pilotaggio del sito, ha fermato un’indebita manovra puramente politica e priva di un ancoraggio su dati oggettivi”, E aggiunge: “Venezia, quindi, non è in pericolo. Negli ultimi mesi il Comune ha adottato provvedimenti coraggiosi per gestire il turismo e garantire la tutela dello straordinario patrimonio culturale della città. Il Ministero della Cultura è al suo fianco e proseguiremo insieme il complesso percorso di salvaguardia e valorizzazione di un simbolo dell’Italia che è patrimonio dell’umanità. “.
San Giuliano quindi, in un solo anno al governo, ha salvato Venezia dall’acqua alta. Prendete nota. Peccato che nei mesi scorsi non avesse ancora coscienza dei suoi poteri taumaturgici. Ci saremmo risparmiati morti e disastri dell’alluvione in Romagna e in Toscana, ma sono sicuro che se il santo ministro si fosse impegnato un po’ di più, ci salvava anche noi, in fondo gli bastava dire due parole: “Ma quale alluvione, era solo un acquazzone”.
“Venezia, quindi, non è in pericolo.” Gennaro Sangiuliano, Ministro della Cultura
Per leggere gli articoli diFrancesco MoninisuPeriscopioclicca sul nome dell’autore
“Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.” (Ennio Flaiano)
SCRIVENDO
Guarda più da vicino la parola.
Lei non ti riconcilia con il mondo,
è un ponte raso al suolo,
una bestiola ferma sulla riva,
tigre di carta che non serve
a traghettare l’anima sull’altra.
Scrivendo a capo chino,
ti credi inoffensivo ma sta lì,
nelle tue mani, la furia
che devasta e sparge sale
sulle pagine a rischio di estinzione
che brucerai per fedeltà al segreto.
Parola in nerofumo d’olocausto,
azione a specchio col grido e il singhiozzo.
Solo il suo corpo dilaniato vive
come altra linfa vive nella cenere.
INCOSCIENZA
Fuoco incrociato a letto sul cuscino,
esclamazioni opposte nella mente.
Tutto si fa più piccolo a quest’ora,
gli uccelli muti ai trespoli,
il cielo illune che si rannicchia
nell’orma del boato.
Pieghi la schiena e chiudi le tue ali
sotto una pioggia di pietrisco
ma gli occhi indugiano nelle pozzanghere
al macero di brevi arcobaleni.
Sorride all’inaudito
il tuo respiro corto.
Non sente le sirene né gli aerei,
non vede la cortina
che ci cancella il volto.
ETERNI RITORNI
Mi legge dentro il bosco ammutolito,
strappa dagli occhi pagine di nebbia.
Cado in ginocchio e bevo
il languore di un cervo
che si allontana verso la torbiera.
Quello era il luogo dove ti sfidavo
all’amore del rischio; lì lasciammo
che avvizzissero al sole
ranocchie e salamandre. Lì, nel punto
in cui disobbedienza e furia
non ci insegnarono a spogliarci,
disperdo oggi con la tua leggerezza
le ceneri assetate del mio corpo.
CHIARALUCE
A nostra volta muti dalla nascita
delle domande ultime, scambiamo
l’impronta che precede
per l’unico sentiero ed orizzonte.
La verità che claudica e s’ingolfa
nessuno l’accompagna al suo destino,
lei che evapora dal giorno alla notte,
lei che resta confitta nella carne.
Dove un mattino fu raccolta
tra le costellazioni di rugiada
che imperlano le spighe,
come diserta ora
la parola
quella vertigine di chiaraluce,
come deraglia
lontano dal suo cuore.
MIGRANTI
Scheggia dai denti a sciabola,
una falesia in bilico
su un mare di mercurio e argento vivo:
questa la loro terra
che trovano incagliata fra le ossa.
La medicina è un viaggio
dove ingannare il tempo
contandosi le costole incrinate.
Resti di polveriera riporta la risacca,
figli della diaspora
che ovunque voli inseguono
lo sfarfallio radiato
dal luogo dell’addio.
(Testi tratti dalla raccolta inedita “La linfa della cenere“)
Francesco Papallo (1987, Napoli). Alcuni componimenti poetici sono stati pubblicati nella rivista di Elio Pecora “Poeti e Poesia”, nella rivista “La clessidra” all’interno di una rassegna dedicata ai poeti campani, e in altre riviste tra cui “Atelier”, “Inverso”, “Kairos”, “Mosse di Seppia”, sul blog “ItaliaMagazine” curato da Antonietta Gnerre, su “Transiti poetici” di Giuseppe Vetromile, su “Poetrydream” e nell’antologia “L’assedio della poesia 2020” curati da Antonio Spagnuolo. Selezionato tra i finalisti della IV edizione del Premio Poesia a Napoli. Alcuni suoi articoli e racconti brevi sono apparsi sul “Manifesto” e sul “Mattino”.
LO SCAFFALE POETICO
Segnalazioni editoriali interne (o contigue) al mondo della poesia.
Rossana Jemma, La strada verso il canto, RP Libri, 2023
Daniela Stasi, Il respiro del lombrico, Il Convivio Editore, 2023
Monica Buffagni, Piume di ghiaccio. Dell’amore e di altri accidenti, Kanaga Editore, 2019
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Il mondo della scuola per la Pace e la Giustizia. Io prendo posizione per la pace e il rispetto dei diritti umani: cessate il fuoco! Fermiamo i massacri in corso contro la popolazione civile!
Alle AUTORITÀ
All’OPINIONE PUBBLICA
Quanto sta avvenendo in Medioriente tra Israele e Palestina, ma anche in Ucraina e in numerose altre parti del mondo, ci addolora e ci preoccupa.
Ci sono inoltre guerre troppo spesso dimenticate, (perché ritenute “lontane” da noi) soprattutto in Africa dove, da sempre, le potenze economiche mondiali attuano un politica neocolonialista e anziché favorirne lo sviluppo, tendono ad accaparrarsi terre, aziende, materie prime di cui è ricca la terra africana, e fomentano l’odio (di cui non c’è proprio bisogno dopo che ne abbiamo distribuito tanto noi nazioni “occidentali” ) tra le diverse fazioni e tribù.
Le conseguenze del terrorismo e delle guerre sono spaventose: le morti innumerevoli (tra cui quelle di moltissimi bambini e bambine), la distruzione di case e infrastrutture, anche ospedaliere e scolastiche, la separazione di famiglie e le popolazioni terrorizzate, senza cibo-acqua-elettricità.
Ci sentiamo smarriti e impotenti nel nostro ruolo di educatori ed operatori della scuola.
Nell’esperienza formativa dobbiamo educare ai valori costituzionali di democratica e pacifica convivenza dei popoli, di giustizia e libertà, di gestione attiva e non violenta del conflitto, ma i nostri allievi vedono ogni giorno immagini di violenze efferate, coetanei uccisi, mutilati, traumatizzati dalla guerra e sono immersi in una cultura di guerra, che impedisce il tentativo di comprensione delle ragioni dell’altro e riduce la complessità dei contesti allo scontro tra tifoserie: soprattutto i media semplificano le questioni, impoveriscono concetti e diffondono lessico improprio, inducendo polarizzazioni e dando risonanza alla propaganda di guerra delle parti in conflitto.
Come lavoratori e lavoratrici nel campo del sapere sappiamo bene che nessun conflitto armato risolve i problemi, anzi prepara ad altre guerre ancora più sanguinose, semina odio ed accresce desiderio di vendetta, ma rischiamo di essere inefficaci nell’affermarlo, perché i nostri allievi si rendono conto che una cosa è quello che imparano a scuola e un’altra è quello che avviene nella realtà.
Le guerre alimentano il mercato delle armi e delle lobby internazionali delle aziende produttrici di armi, che, avendo la “forza economica” per condizionare i parlamenti e soprattutto i governi, “fomentano” le guerre e tendono a farle protrarre.
Non vogliamo assistere rassegnati allo svuotamento della nostra funzione educativa e culturale; in particolare in questo momento storico di recrudescenza della violenza e di indebolimento degli organismi internazionali per la pace, riteniamo che formare le nuove generazioni significhi anche assumere in prima persona l’impegno civico per la pace: israeliani, palestinesi, ucraini, e tutti i bambini e i ragazzi delle nazioni coinvolte in guerre, devono poter trovare sostegno e protezione da parte del mondo adulto, dei loro educatori, devono poterci vedere oggi come testimoni di rifiuto radicale della guerra e poter dire domani “so che tu allora hai preso posizione per la pace”! Non possiamo più tacere di fronte alle gravissime violazioni dei diritti dei bambini a cui assistiamo impotenti: è la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, sottoscritta da 193 Paesi nel mondo, che ci impegna a mettere al primo posto l’interesse superiore del bambino (art 3) e in particolare a rispettare il Diritto alla vita (art 6).
Per tutto questo, in coscienza e in coerenza con il nostro ruolo di lavoratrice/lavoratore della scuola, rendiamo pubblico questo
APPELLO PER LA PACE
indirizzato:
Ø all’Onu, dove sono rappresentate tutte le Nazioni del mondo e che ha il compito di prevenire futuri conflitti, mantenere la pace e rispettare il Diritto Internazionale.
Ø al Governo Italiano che deve far rispettare la nostra Costituzione che, come recita l’art. 11 della Costituzione, ripudia il ricorso alla guerra per risolvere le controversie internazionali.
Ø al Parlamento Europeo che rappresenta i cittadini di tutta Europa
Chiediamo alle suddette Istituzioni che facciano tutto quanto è in loro potere per far rispettare la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Ci appelliamo ad esse perché si impegnino per far tacere le armi, affidando alle trattative diplomatiche la risoluzione dei conflitti in corso, la restituzione contestuale degli ostaggi e per l’accesso degli aiuti umanitari.
Chiediamo che si arrivi al cessate il fuoco immediato e allo stop al massacro a Gaza del popolo palestinese, per il rispetto del diritto umanitario internazionale.
Chiediamo che anche per il conflitto in Ucraina si organizzi una Conferenza di Pace dove venga rispettato il Diritto internazionale.
Da parte nostra continueremo quotidianamente ad impegnarci a scuola e nella società affinché progrediscano idee e pratiche di Pace e Nonviolenza.
Ci dichiariamo disponibili per una mobilitazione della società civile che dia voce al rifiuto della guerra e del terrorismo che ponga al primo posto il valore supremo della pace, quale unico scenario in grado di perseguire umanità e giustizia.
4 incontri al Musijam condotti da Rita Marchesini: sabato pomeriggio, dalle 14,45 alle 16,45: 9 dicembre 2023, 13 gennaio, 10 febbraio e 9 marzo 2024.
Evidentemente 18 è un buon numero per il Flamenco a Musijam, l’Associazione musicale e culturale che ha sede a Ferrara in Viale Alfonso I d’Este n° 13: lo scorso 18 giugno si è svolto un evento dal titolo Carmen Flamenca che ha previsto due momenti significativi, distinti ma strettamente collegati. Al mattino Rita Marchesini della Compagnia El Puerto Flamenco ha tenuto un laboratorio, aperto anche a chi non ha mai avuto nessuna esperienza di danza.
Alla sera la Compagnia si è esibita nello spettacolo omonimo, nel quale sono intervenuti anche, come quadro dei danzatori, i partecipanti al laboratorio. Da questa stimolante esperienza è nata una collaborazione tra l’Associazione e la docente Rita Marchesini, che si è concretizzata nel progetto, illustrato il 18 novembre scorso, di una Masterclass di Flamenco da tenere a partire da questo dicembre fino ad arrivare a Giugno del 2024.
Alla presentazione sono intervenute alcune delle partecipanti al laboratorio di giugno, desiderose di riprendere e ampliare quella esperienza, e altre persone interessate. L’idea, ha così illustrato Marco Ferrazzi coordinatore delle attività della Scuola di musica, è di formare una classe con incontri distanziati ma continuativi, in modo che si possa dar vita ad un percorso di base che abbia una sua completezza.
Si è già stabilito un primo pacchetto di quattro incontri programmati nelle seguenti date, tutte di sabato pomeriggio, dalle 14,45 alle 16,45: 9 dicembre 2023, 13 gennaio, 10 febbraio e 9 marzo 2024. La docente Rita Marchesini ha quindi delineato gli aspetti salienti del percorso che offrirà alle/agli allieve/i. Si partirà dalle tecniche di base del flamenco, il cui complesso linguaggio vede entrare in scena coordinazione corporea, ritmica e presenza scenica. La ritmica, prodotta con il corpo attraverso i piedi, le mani, le braccia e i fianchi, si sposa alla gestualità e contribuisce all’attitudine alla fierezza che rappresenta la cifra caratteristica di questa danza che è anche una visione di sé stessi e la manifestazione della propria espressività.
Si fa musica col corpo e col volto. Il laboratorio prevede la realizzazione di semplici ma particolarmente attraenti e coinvolgenti coreografie dette Sevillanas che potranno anche essere proposte al pubblico.
Almarina, un nome di ragazza nel titolo del romanzo di Valeria Parrella.
A pagina otto del romanzo Almarina aspetta nel corridoio del tribunale; scopro così che il titolo del libro è un nome di adolescente. Non ne sapevo nulla, pensavo al nome di una località o ad altro elemento vaporoso, senza associare la parola così lieve a un corpo.
L’ingenuità che a volte mi concedo è finita: ora vorrò sapere tutto di questa storia, di chi l’ha scritta. Entrerò curiosa nelle pieghe del racconto.
Scopro già nel prologo che chi legge è portato a procedere lungo un sentiero ben tracciato: le parole della narratrice sono luci che fanno avanzare solo di pochi passi per volta. Dove siamo? Nell’edificio grigio del Tribunale dei minori di Napoli.
Elisabetta Maiorano, la protagonista che parla in prima persona, ha addosso il suo vestito migliore: la causa che si discute riguarda lei e la sua adozione di una ragazza rumena, fuggita in Italia insieme al fratellino dopo un’esperienza famigliare di violenza e finita nel carcere minorile di Nisida per un reato minore.
È lei quella che attende fuori dall’aula, Almarina. In carcere Elisabetta è stata la sua insegnante di matematica, si sono conosciute nella scuola, “l’unico spazio senza sbarre alle finestre”.
Durante la lezione capita che Almarina si addormenti sul banco, sapremo qualche pagina dopo che ha vegliato e pregato per tutta la notte. Almarina non ha mai freddo, ma per darle calore non bisogna toccarle il braccio, sennò si sente “un pezzo duro…come legno scanalato”, lo stigma delle botte che ha preso dal padre, qualcosa di non umano.
Elisabetta prende a proteggerla, a provare una predilezione da cui non sa e non vuole difendersi.
Elisabetta. Il libro è suo: la storia è raccontata da lei, in soggettiva. Almarina è la luce che la inonda nel prologo tra il grigiore del Tribunale, a lei brilla “la luce del futuro negli occhi“.
Dal momento in cui aspetta di sapere la sentenza dei giudici, tutte donne, relativa alla sua richiesta di adozione, la narratrice va all’indietro a raccontare la sua vita di prima, il suo lavoro di insegnante a Nisida e l’umanità speciale con la quale è in contatto ormai da anni.
Recupera il suo vissuto di moglie e in seguito di vedova, la soffocante famiglia del marito rappresentata dalle cognate, la vana aspirazione a diventare madre.
Si assicura di averci alle spalle, noi lettori, e ci fa strada nelle sue giornate piene di solitudine. La luce delle parole sempre accesa che ora proietta il cono di luce sui dettagli, ora si apre a ventaglio sull’orizzonte, quello della città, mentre guida al mattino presto verso Nisida, o che vede insieme agli alunni dalle finestre del carcere.
All’età di cinquant’anni, il suo sguardo è pieno di disincanto. Stando dietro di lei vediamo la bellezza di Napoli, una bellezza che si impone a oltranza in mezzo al dolore e alle fatiche di chi ci vive. Nisida è un’isola calata dentro quella stessa bellezza, eppure contiene un mondo così diverso, “che quando entro mi devo continuamente ricollocare, riposizionare, guardarmi le spalle e dentro”.
Succede ogni giorno da anni. Quanto tempo si può resistere in un posto così? A cinquant’anni la risposta si trova: “Dipende da quanto sai resistere alla frustrazione di essere inutile”. I ragazzi che sono a Nisida vengono e vanno, senza preannuncio né riti di commiato. Spesso se li riprende lo svantaggio sociale da cui sono venuti, spesso passano al carcere degli adulti.
Elisabetta ha incamerato tutto in questi anni, ha subito gli sguardi bassi dei suoi alunni, l’indifferenza con cui tollerano le spiegazioni di matematica, perfino il disprezzo non detto. Ma è come se dicessero: “Tu sei un insegnante e gli insegnanti sono senza sorte, gente che non arrischia nulla della propria pelle” e solo aspetta tredici volte all’anno lo stipendio dallo Stato.
Ad Almarina si lega, mentre guardano il mare. La protegge, mentre è in carcere, le fa vedere la vita di fuori, portandosela a casa in permesso nel giorno di Natale; la va a cercare nella parrocchia che l’ha accolta dopo il carcere. Ora in Tribunale aspetta che diventi sua figlia, e lei ne sia la madre. Anche Almarina oggi indossa il vestito più bello, è fucsia e viene dall’armadio di Elisabetta, che subito glielo ha donato, e come le segna bene i fianchi.
Vorrei citare molte più frasi dal libro. Nicola Lagioia, che l’ha presentato allo Strega nel 2020, riconosce questa “forza linguistica rara” che ha preso anche me, mentre procedevo tra le pagine alle spalle della narratrice.
Eppure quando il libro è finito ho provato la sensazione di essere bruscamente stoppata. Ho sentito esatto esatto quel senso di non finito, di poco sviluppato, che mi aveva anticipato l’amica Sabina, un’altra vorace lettrice, che legge con desiderio e nel mentre vigila sulla efficacia dei racconti e sulla bellezza delle storie.
Sono tornata a rileggere il prologo, più volte, e ho riletto anche le righe finali col loro sapore di geometria applicata alla vita. Niente, mi sento abbandonata da Elisabetta. Che poteva avanzare di più nel suo futuro, dargli più luce. Fino a superare l’ostacolo, superare la paura di tornare nella solitudine di non-madre.
Nota bibliografica:
Valeria Parrella, Almarina, Einaudi, 2019
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
CATARSI AIWA MAXIBON è il secondo album di Giuseppe Licata qui PUFULETI, uomo dei pilastri dalla Dallas di Agrigento. Siciliano di origine emigra in Germania all’età di 4 anni. Impara l’italiano dalla mamma e dalla televisione. Giuseppe canta in tedesco per più di una decade per poi impadronirsi con Tumbulata, album d’esordio acclamato dalla critica, della lingua madre. A questa dona un fascino sgangherato e spigoloso rendendola un’arma affilata con cui tagliare basi e beat da un lato ecumenici per quanto rimandano alla vecchia scuola, dall’altro fortemente rappresentativi della New Weird Italia.
Supportato dalla direzione artistica di Lapo Sorride (Misto Mame), e dai beatmaker della crew C.O.T.A. (tra cui l’immancabile Wun Two), l’album si presenta con 10 brani lo-fi/hip hop in cui Pufuleti percorre nuove vie semantiche attraverso il dispiegamento di una matassa che diventa una vera e propria Catarsi in una continua ricerca di un assurdo capace di dar senso alle piccole cose. Mai leccare un Maxibon dalla parte sbagliata.
Chi lo ha visto dal vivo difficilmente lo dimenticherà. Chi non lo ha fatto dovrebbe proprio farlo.
Associazione Difesa Ambientale Estense: Chi siamo e cosa facciamo.
Siamo una associazione di volontari, abbiamo l’obiettivo di pulire il nostro fiume, i canali cittadini e il nostro mare dai rifiuti, che vengono sversati purtroppo quotidianamente. Tra noi abbiamo giovani e anziani, studenti e lavoratori. Da più di un anno, operiamo anche nell’ambito di una convenzione stipulata tra la nostra amministrazione comunale e la casa circondariale: escono dal carcere alcuni detenuti e raccogliamo rifiuti insieme, tutti insieme.
Tutto ciò è molto formativo, a dire il vero lo è forse per noi ancor prima che per i carcerati: si lavora per l’ambiente, ci si parla e ci si confronta su molti temi.
Sono davvero valide le persone che il giudice ha ritenuto di poterci affiancare: l’iniziativa è per noi occasione di crescita e, perché no, una iniezione di nuova linfa.
Più volte, noi come gruppo e pure in collaborazione con i detenuti, siamo andati a pulire la zona di via della canapa, nelle immediate vicinanze della motorizzazione civile.
Abbiamo sempre tenuto traccia di queste bonifiche: è troppo bello il boschetto che si trova tra via della canapa e il quartiere barco, ci piace in modo particolare e vogliamo mantenerlo sempre in bella forma.
Se consultiamo gli archivi fotografici e la banca dati di difesa ambientale estense, vediamo come, negli anni, la quantità e la mole dei rifiuti si sia progressivamente ridotta.
Sicuramente noi volontari ce l’abbiamo messa tutta, e, nelle ultime due occasioni, erano in prima linea al nostro fianco le persone del carcere, che sono molto volenterose, ma vogliamo evidenziare una sempre maggiore consapevolezza e sensibilità dei nostri concittadini: ogni volta che i passanti ci vedono, si complimentano con noi: questo non può che far piacere, e non è tuttavia l’unica freccia al nostro arco.
Alla fine di ogni raccolta di rifiuti, noi lasciamo sempre un cartello, che ricorda che è vietato sversare e sensibilizziamo continuamente tutti: i bambini dalla scuola materna alla primaria, i ragazzi, gli adolescenti e gli universitari, gli autoctoni così come gli immigrati.
Teniamo traccia di ogni nostro passaggio, per poter capire come stiamo andando, e quali quartieri sono più virtuosi.
Alcuni di noi lavorano nel settore del disinquinamento, altri operano in qualità di volontari, ma, attenzione, trattasi di volontari esperti e competenti, che intendono dare a Ferrara un’aria e un’acqua più pulite.
In una parola: Difesa Ambientale Estense è un’associazione che si fa rispettare, provare per credere. Vi aspettiamo nelle prossime raccolte: il 9 dicembre il ritrovo è al Darsena city
Associazione Difesa Ambientale Estense
Per informazioni e adesioni, visitate le ns pagine facebook e instagram
Lunedì 11 dicembre 2023 – Ore 18,00
Apollo Multisala (piazzetta Carbone 35 – Ferrara)
INGRESSO LIBERO
PERCHÉ DICIAMO NO AD UN NUOVO CPR A FERRARA,
E CHIEDIAMO LA CHIUSURA DI QUELLI ESISTENTI
Proiezione del documentario SULLA LORO PELLE
(2022, DI Marika Ikonomu, Alessandro Leone, Simone Manda) Inchiesta vincitrice del Premio Morrione 2022 Inchiesta vinctrice del Premio Libera Giovani 2022
Presentazione del rapporto BUCHI NERI
La detenzione senza reato nei CPR
A cura di Federica Borlizzi e Gennaro Santoro
COALIZIONE ITALIANA PER LE LIBERTÀ E I DIRITTI CIVILI – CILD
INTERVENTI, DOMANDE, DIBATTITO
Perché diciamo NO ad un nuovo CPR a Ferrara, e chiediamo la chiusura di quelli esistenti
I CPR Centri di Permanenza per i Rimpatri sono “luoghi di trattenimento del cittadino straniero”. Nei CPR vivono persone senza documenti, NON persone pericolose. Ci sono uomini e donne che sono stati badanti, muratori, cuochi in Italia con un regolare permesso di lavoro, poi hanno perso il posto e quel permesso non possono rinnovarlo. Ci sono uomini e donne che hanno chiesto asilo e non lo hanno avuto. Altri ancora hanno scontato una pena e aspettano il rimpatrio nel CPR, che è un’altra condanna. Non si entra in un CPR per aver commesso reati. Chi ha commesso reati va in carcere. Non si entra in un CPR perché pericolosi. Chi è pericoloso viene curato e trattenuto, italiano o straniero che sia.
Chi entra in un CPR può diventare pericoloso.
Parliamo di uomini e donne che, dopo avere lasciato la propria famiglia, la casa, la lingua, le abitudini di vita per sfuggire a guerre, siccità e persecuzioni, dopo avere affrontato viaggi pericolosi e degradanti e avere cercato inutilmente un futuro migliore per sé e per i propri figli, si ritrovano prigionieri senza una ragione.
Come (non) si vive nei CPR?
Coloro che li hanno visitati ne hanno denunciato i gravi problemi: abbandono, disordine, abuso di psicofarmaci, autolesionismi, suicidi. Manca una vera tutela legale e non ci sono cure mediche adeguate, come ha confermato la Corte di Cassazione (sentenza 26801/23). In più, le persone vengono spesso rinchiuse in una struttura lontana, quindi sono isolate da amici e familiari. E in queste condizioni, a impazzire senza fare niente, possono rimanere mesi e mesi.
Quanto tempo dura la reclusione nel CPR?
Dipende dalla legge: nel 1998 un mese, oggi, nel 2023, un anno e mezzo. È uno svantaggio per tutti: i CPR costano cari ed è lo Stato – cioè tutti noi – a pagare, per far vivere le persone in condizioni disumane.
Per questo chiediamo la chiusura di tutti i CPR.
I CPR non servono a rimpatriare gli stranieri irregolari
Per riportare a casa queste persone occorrono soldi, mezzi, personale e soprattutto accordi con gli stati di provenienza. Attualmente l’Italia ha accordi soltanto con cinque paesi, mentre i paesi interessati sono più di 80.
Com’è la situazione attuale.
In Italia ci sono 10 CPR che possono ospitare 1300 persone. In Emilia-Romagna ce n’erano due (Bologna e Modena) ma sono stati chiusi per le loro pessime condizioni.
Perché un CPR a Ferrara.
Il Governo ha scelto di realizzare un nuovo CPR a Ventimiglia. Lì è stato respinto da tutte le forze politiche locali, e ora lo si vuol fare a Ferrara in una zona già destinata ad essere un parco, il “parco sud”.
Non vogliamo vivere in una città dove persone innocenti sono costrette a vivere rinchiuse in condizioni disumane. Vogliamo una città aperta che rispetti la dignità umana di ciascuno e di tutti perché “la nostra libertà comincia dove comincia quella degli altri”. Invitiamo tutta la cittadinanza ad un’iniziativa che si terrà l’11 dicembre alle 18 presso il Cinema Apollo.
Aderiscono: Adoc Ferrara, Agesci Ferrara, ANPI Ferrara, ARCI Ferrara, Arcigay “Gli occhiali d’oro”, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII Zona Emilia, Associazione La Villetta, Associazione Nadiya Odv, Associazione Piazza Verdi, Associazione Viale K, Auto-mutuo aiuto in rete ODV, Azione Cattolica Ferrara-Comacchio, Biblioteca popolare Giardino, Centro Donna Giustizia, Centro sociale La Resistenza, CGIL Ferrara, Circolo Laudato Sì Ferrara-Comacchio, Cittadini del mondo, Comitato Alba nuova ODV, Comunità Emmaus, Dammi la mano APS, Emergency Ferrara, Federconsumatori Ferrara, Fondazione Migrantes Ferrara, Forum Ferrara Partecipata, Gruppo del Tasso aps, Il Mantello, Istituto Gramsci Ferrara, Koesione 22, La Comune di Ferrara, La società della ragione, Masci Ferrara, Mediterranea Saving Humans Ferrara, Movimento Nonviolento Ferrara, Movimento Rinascita Cristiana Ferrara, Pax Christi Ferrara, Periscopio quotidiano online, Rete giustizia climatica, Stop border violence, Sunia Ferrara, Tutori nel tempo, UDU Ferrara, Unione Donne in Italia Ferrara, UIL Ferrara, Ultimo Rosso Aps, Uniat Ferrara.
Oggi, 5 dicembre, medici, dirigenti sanitari, infermieri, ostetriche e altre professionisti sanitari hanno scioperato in tutta Italia contro la manovra economica del governo Meloni e in difesa del Servizio Sanitario Nazionale. Ma per difendere il diritto costituzionale alla salute, salvare la Sanità Pubblica e scongiurare la fine del SSN e dell’unità della Repubblica, servirebbe uno sciopero nazionale di tutte le cittadine e i cittadini.
Da anni non facciamo che snocciolare i mali della nostra sanità: continuo sottofinanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, intollerabili differenze territoriali tra nord e sud e tra regione e regione, pronti soccorso allo stremo, medici di medicina generale e infermieri sempre più rari.
Secondo la Fondazione GIMBE nel nostro Paese mancano quasi 2.900 medici di famiglia ed entro il 2025 ne perderemo oltre 3.400. Inoltre il 42,1% dei medici supera il tetto massimo di 1.500 pazienti.
Medici sempre più stressati, scarsamente considerati (e mal pagati, soprattutto gli infermieri) e spesso fatti oggetto di violenza, un tasso di turnover(il rapporto tra assunti e cessati in un anno) pari a 90 per i medici e a 95 per gli infermieri (data la elevata età media, si stima che tra il 2022 e il 2027 andranno in pensione 29.000 medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale e 21.000 infermieri), nessuna politica sulla prevenzione, sull’educazione sanitaria, sugli screening e i vaccini di cui il nostro Paese continua a registrare coperture molto basse (per i primi soprattutto al Sud e per i secondi soprattutto al Nord), lunghissime liste d’attesa, che non si accorciano, nonostante i piani e i fondi stanziati e che impongono (per chi se lo può permettere) il ricorso alla spesa privata, che invece aumenta sempre più, con buona pace del sistema universalistico.
Numeri che confermano una fragilità che potrebbe determinare in futuro costi sociali elevatissimi. Un quadro a tinte scure, un “deserto sanitario” sfasciato ed iniquo, che spinge sempre di più le cittadine e i cittadini a girovagare per lo Stivale in cerca di cure (ovviamente da sud a nord) e che non di rado li porta allo sfinimento e alla rinuncia alle cure.
E’ l’ultimo Rapporto CENSIS a evidenziare ancora una volta i limiti del sistema sanitario e le preoccupazioni dei cittadini:
per il 75,8% è diventato più difficile accedere alle prestazioni sanitarie nella propria regione a causa di liste di attesa sempre più lunghe;
il 71,0% dichiara che in caso di visite specialistiche necessarie o accertamenti sanitari urgenti è pronto a rivolgersi a strutture private pagando di tasca propria (al Sud la percentuale sale al 77,3%);
il 79,1% degli italiani, a causa delle promesse mancate, si dichiara molto preoccupato per il funzionamento del Servizio sanitario nel prossimo futuro, esprimendo il timore di non accedere a cure tempestive e appropriate in caso di malattia;
l’89,7% si dice convinto che le persone benestanti hanno la possibilità di curarsi prima e meglio di quelle meno abbienti (l’esperienza delle difficoltà di accesso alla sanità radica nella coscienza collettiva l’idea che l’universalismo formale in realtà nasconda disparità reali, che ampliano le disuguaglianze sociali).
E’una Sanità in assoluta emergenza, che avrebbe bisogno della massima attenzione generale, ma che non sta a cuore alle destre temporaneamente al governo del Paese: gli interventi proposti per questa “Sanità gravemente malata” dal Governo Meloninell’ultima monovra finanziaria sono privi di una visione complessiva, di una strategia di rafforzamento graduale del sistema, dimostrano un sostanziale disimpegno rispetto alle difficoltà del SSN e – come denunciato da Sbilanciamoci: “l’unica attenzione è ad alcuni portatori di interesse (industria farmaceutica, farmacie e privato accreditato)… un Servizio sanitario nazionale che ha a cuore più i farmaci che il proprio personale”.
D’altra parte già secondo la Nadef, nei prossimi anni la spesa sanitaria pubblica italiana in rapporto al Pil diminuirà fino al 6,1% nel 2026. Insomma, risorse pubbliche per il Servizio Sanitario Nazionale declinanti nel tempo e strutturalmente inferiori a quelle di Paesi simili al nostro.
Un Servizio Sanitario Nazionale che, come sottolineato proprio da Sbilanciamoci nella sua Contromanovra 2024, avrebbe invece l’impellente necessità almeno di un’integrazione di ulteriori 6 miliardi di euro (per arrivare nel 2024 allo stanziamento di 140 miliardi), al fine di provvedere urgentemente ad un piano assunzionale adeguato alle esigenze del servizio e a garantire l’ampliamento dei servizi attualmente insufficienti.
E mentre la nostra (una volta) tanto decantata Sanità Pubblica va a picco, incombe minacciosa la cosiddetta “Autonomia differenziata” del ministro Calderoli, che una volta approvata spaccherà definitivamente il Paese (grazie alla “secessione dei ricchi”) e metterà la parola “fine” innanzitutto alServizio Sanitario Nazionale, un pilastro essenziale del nostro sistema democratico, che non ha certamente bisogno di ulteriori interventi di differenziazioni, quanto piuttosto di “riforme e innovazioni di rottura” in grado di rafforzare il diritto costituzionale alla tutela della salute a tutte le persone in tutti i territori, al nord come al sud.
L’incontro di due bambini con il piccolo genio di un oliatore di latta, una bellissima storia di amicizia, con “Amy, Aron e il genio della latta”, di Iperborea edizioni.
Natale, tempo di storie belle, di buoni sentimenti, di dolcezza e di amicizia.
Oggi vogliamo presentarvi un bel volumetto dello svedese Ulf Stark, “Amy, Aron e il genio della latta”, illustrato da Per Gustavsson, edito da Iperborea nella collana I Miniborei, uscito lo scorso mese di ottobre. È il simpatico e originale incontro di due bambini con un piccolo genio di un oliatore di latta.
Amy e Aron, amici inseparabili, trascorrono le vacanze estive a desiderare lei un gatto nero e la pace nel mondo (o almeno la pace per lei, bullizzata dai compagni di scuola, a causa della sua gamba zoppicante) e lui che suo papà, via da tempo per lavoro, su un treno che porta lontano, finalmente torni a casa.
In attesa che i desideri si avverino, quale posto migliore di un deposito di rottami (una discarica che appartiene al papà di Amy, che ama il jazz), vicino alla massicciata della ferrovia dalle rotaie che cantano impazienti, per giocare ‘a caccia di non si sa cosa’?
Puro divertimento, fra pezzi ammaccati di automobili, stufe e frigoriferi arrugginiti, orologi rotti, rubinetti svitati, aspirapolvere fuori uso, caschi da parrucchiere e altri oggetti ignoti da buttare. Un rifugio dove i due amici si ritirano quando scoppia un temporale o quando, semplicemente, vogliono starsene in santa pace. Un luogo solo per loro, dove nessuno li disturba.
E quando un giorno sentono arrivare un lamento da un vecchio oliatore di latta arrugginita, scoprono che dentro c’è un genio bambino di nome Mujo. È scontroso e timido, quasi pigola, a volte singhiozza e ha poca voglia di mostrarsi, ma non si può pretendere che uno spirito rimasto per secoli chiuso da solo in una latta sia simpatico. Però è carino, anche se quell’aggettivo davvero non gli piace. E invidia Aron perché ha una così cara e vera amica. Per questo è un po’ triste, lui non ha amici, di lui non importa a nessuno.
Amy e Aron si mettono d’impegno per guadagnarsi la sua fiducia e, di avventura in avventura, grazie ai due piccoli esperti in materia, Mujo imparerà il gioco che rende interessante tutti gli altri giochi, quello dell’amicizia. Il gioco più bello. Fatto anche di compleanni festosi e pieni di caramelle rosse, di torte e candeline.
Una storia che, con il sottile umorismo di Ulf Stark e i teneri disegni di Per Gustavsson, regala sorrisi a ogni pagina parlando di affetto tra coetanei, accettazione di sé e dell’altro e solidarietà. Quelle che servono sempre, e non solo a Natale.
Ulf Stark, “Amy, Aron e il genio della latta”, illustrato da Per Gustavsson, Iperborea, Milano, 2023, 128 p.
Ulf Stark (1944-2017) è stato un grande autore contemporaneo per ragazzi, uno dei più importanti scrittori svedesi per l’infanzia e tra i più amati dai giovani lettori. Nel 1993, ha vinto il premio Astrid Lindgren e nel 1994 il prestigioso Deutsche Jugendliteraturpreis. “Sai fischiare, Johanna?”(Iperborea, 2018) ha vinto il premio Andersen italiano come miglior libro nella categoria 8-10 anni nel 2018. Riscoperto da pubblico e critica dopo la sua scomparsa, è stato celebrato al Festivaletteratura di Mantova nel 2018. Tra i libri pubblicati in Italia: “Il bambino dei baci” (2018), “Il bambino mannaro” (2019), “Tuono” (2019), “Il bambino detective” (2019), “La grande fuga” (2020), “Piccolo libro sull’amore” (2020), “Animali che nessuno ha visto tranne noi” (2021), “Ulf, il bambino grintoso” (2021), “Piccolina tutta mia” (2022).
Per Gustavsson (1962) è un autore e illustratore molto amato in Svezia e noto in Italia soprattutto per aver illustrato la serie della famiglia Sgraffignoni. Membro dell’Accademia Svedese per i Libri per Bambini, ha collaborato con molti scrittori, tra cui Ulf Stark e Åsa Lind, ottenendo importanti riconoscimenti.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara
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