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CODIGORO. LA «FONDAMENTA» DEL DIAVOLO

CODIGORO. LA «FONDAMENTA» DEL DIAVOLO

Arrivando dal mare si può entrare a Codigoro percorrendo la strada del Diavolo, che costeggia l’argine sinistro del tratto terminale del Po di Volano.
Fin da ragazzino questo nome mi ha allo stesso tempo affascinato e impaurito. Chissà quali storie e vicende terrificanti hanno portato a identificare questo percorso con il diavolo, mi chiedevo. A volte percorrendola, di notte, mi tornava alla mente il racconto di uno dei miei autori giovanili preferiti, Robert L. Stevenson, nel quale narra di una palude del diavolo dove di notte si aggirava lo spettro di una donna.
Anche qui un tempo c’erano le paludi, ed io c’ero addirittura nato, ma le acque erano già state prosciugate. il Po di Volano fu nell’antichità uno dei corsi principali del nostro grande fiume, identificato da molti autori con il mitologico Eridano che conduceva direttamente agli inferi, attraverso una oscura geografia di selve e paludi, come forse avrebbe scritto Jorge L. Borges. La strada segue certamente un antico argine che conteneva il fiume, prima della sua deviazione verso nord, avvenuta a Ficarolo nel dodicesimo secolo.

Stiamo parlando di terre storicamente aduse alle bizzarie delle acque e profondamente trasformate dalle bonifiche meccaniche che hanno imposto nuove geometrie al suolo cancellando le precedenti o trasformandole in relitti e tracce. Un territorio il cui carattere più permanente è la mutevolezza.
Nel 1876, il geografo francese Elisée Reclus descrive nella sua nuova geografia universale, l’Italia settentrionale come un réseau admirable di canali artificiali e cita i polesini di Ferrara e Rovigo che formano un système d’artères et artérioles che diffondono la vita a tutti i campi irrigati. Descrizione confermata, con altre parole, da Carlo Emilio Gadda che, inviato a Codigoro dalla Consociazione Turistica Italiana (in seguito Touring Club Italiano), descrive nel 1939 sulle pagine della rivista Le vie d’Italia il dispositivo “esemplare” della Grande Bonificazione Ferrarese fondato su di nuovo reticolo di canali artificiali.

Arrivando dal «Diavolo” Codigoro si annuncia con un sobborgo. Si chiama «al Capitel», in origine era staccato dal centro e ha una forma relativamente compatta e allungata sulla strada. Le case povere e di piccole dimensioni evidenziano diverse storie e fasi: il piccolo borgo antico composto di poche case addensate, le corti rurali, le villette individuali costruite dagli anni del boom economico. Entrando in paese la strada del Diavolo a un certo punto si trasforma in una riviera fluviale e l’edilizia minore si raggruppa attorno ai palazzi costruiti, in affaccio sul fiume, dalla borghesia locale.

Codigoro e la Riviera Cavallotti (ph Romeo Cavallotti)

Codigoro è forse il centro più veneto del Ferrarese, nel senso che ha mantenuto la riviera su cui si affacciano le sue architetture domestiche più rappresentative. Aprendo al mattino le finestre della mia camera da letto, il fiume con le sue sponde alberate (ora non più) e le sue ripe verdi (artificializzate, in seguito) mi accoglieva con i suoi barconi alla fonda (pochi) mentre una sottile linea di case, sull’altro lato, incorniciava lo sguardo verso una campagna che si smaterializzava verso l’infinito, divenendo bruma, nebbia o linea a seconda delle condizioni atmosferiche, come in un paesaggio di Turner.

Sto parlando della Riviera Cavallotti che potremmo pensarla come la Strada Nuova di Genova o il secondo tratto del Corso Ercole I° d’Este a Ferrara, anzi, vista la presenza dell’acqua del Po di Volano, potrebbe rammentarci una «fondamenta» veneziana dove le famiglie importanti si rappresentavano alternando il loro palazzi all’edilizia minore.
La geografia sociale del paese si identificava con alcuni nomi associati alle sue diverse parti o rioni: «insù», «inzò», «la Galanara», «la Korea», «l’Aquilon», «D’là da Po», «la Palpogna», «la Pastrinara»: questi sono i nomi che ricordo, ma ce ne sono altri. Sono luoghi non progettati dove come ricorda Gianni Celati «il tempo è diventato forma dello spazio» e appaiono “come le rughe della nostra pelle».

Codigoro: il rione “D’là da Po” (ph. Romeo Farinella)

La strada del Diavolo costituiva l’entrata di servizio al paese. Era la porta secondaria, perché uscendo dal paese si entrava nelle terre dell’est, infernali e un tempo composte di lagune, boschi e demoni.
La via principale arrivava da Ferrara e l’ingresso in paese presenta ancora oggi dei caratteri architettonici a suo modo monumentali. È la strada che a ovest argina il Po di Volano, che arriva dalle terre alte e che percorreva il borghese Edgardo Limentani partito da Ferrara poco dopo l’alba. Codigoro era una sosta e Volano la destinazione, dove l’aspettava, in valle, la sua botte di caccia mentre un airone si aggirava ignaro della sorte che gli sarebbe toccata.

Cover: Codigoro, il Volano e la riviera (foto Romeo Farinella)

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore.

UN TRAGICO AGOSTO

Un tragico agosto

Forse perché quello di Agnese Pini (Un autunno d’agosto, Milano, Chiarelettere, 2023) è un libro che non si può leggere senza provare emozioni, mi pare fuori luogo cercare di inscriverlo a forza in un qualche genere. D’altronde i migliori risultati della nouvelle histoire ormai da decenni hanno dimostrato come sul piano narrativo si possa muoversi tra romanzo, saggio, autobiografia, biografia collettiva, ricerca storica, utilizzando i metodi di ognuna di queste modalità di racconto, pur mantenendosene consapevolmente ai margini.

Non è un caso che l’atteggiamento dominante del libro della Pini sia l’ascolto. Lo dichiara subito l’esergo tratto dai Vangeli, che precede il racconto di una tragica storia di luoghi, tempi e persone.

Come si ricorderà la protagonista positiva del testo evangelico (Luca 10, 38-42) non è Marta, che si affanna nel fare, ma Maria, il cui unico merito è quello di ‘porgere orecchio’.

È proprio quanto fa Agnese Pini che, passando da un ruolo all’altro (dall’impegno nello studio e il lavoro all’ascolto), comincia a prestare attenzione a se stessa e alla propria inquietudine (quella dei figli, dei nipoti, dei discendenti delle stragi, con il loro bagaglio di dolore e di colpa che richiede tempo per rimuovere desideri di occultamento), ascoltando un ultimo testimone indiretto, Roberto Oligeri, ascoltando il procuratore di La Spezia, ascoltando soprattutto i documenti e facendoli parlare.

Riesce così a dare voce, tanti anni dopo, a voci che nessuno ha potuto sentire dopo quel tragico agosto del 1944: voci di bimbi che giocano, di donne che parlano tra loro sbrigando faccende domestiche, voci soffocate e zittite ad un tratto dal silenzio della paura, dai colpi delle mitragliatrici…

Raccontare una storia, nella fattispecie un eccidio, è un modo per commemorarne tanti, per ricordare che il sadismo accompagnato alla violenza gratuita si colloca oltre ogni atto di guerra (e le poche regole che la totale assurdità dei conflitti comunque prevede) e che all’interno di ogni gruppo armato possono verificarsi piccoli/grandi gesti di umanità (il soldato tedesco che senza rischio per sé – diversamente dalle SS ubriache che torturano e seviziano – finge di non accorgersi di una fuga; o l’altro che risparmia in extremis la piccola Clara da cui parte il ‘romanzo’).

Parlare dell’uccisione di 160/159 persone compiuto dalle SS di Fosdinovo a San Terenzo Monti, a Bardine, nello spiazzo davanti alla fattoria di Valla, è un modo anche, per la Pini e per noi, per ricordare le 280 stragi avvenute in Toscana tra l’aprile e l’agosto del ’44 che, con la complicità dei fascisti, coinvolsero 83 comuni portando alla morte di 4500 civili.

È un modo per riflettere su quello che fu la resistenza e il suo ruolo, rispondendo alle accuse per tutte le possibili imperfezioni (e rappresaglie), ribadendo che, oltre ogni oggettiva fallibilità personale o di gruppo, anche la resistenza era fatta da imperfetti esseri umani il cui principale, indimenticabile merito è stato quello di essersi trovati, più o meno consapevolmente perfino, talvolta (basta ricordare il precoce, calviniano Sentiero dei nidi di ragno o un film di Louis Malle, Lacombe Lucien, su sceneggiatura di Patrick Modiano), da quella che era e continua ad essere, indiscutibilmente, la parte giusta della storia.

Ma più che ricollegare Un autunno d’agosto a quanto si è scritto/detto sulla resistenza da parte di testimoni, storici, scrittori (ricorrerebbero allora i nomi di Fenoglio, Calvino, Viganò…), artisti (penso ai fogli a china e inchiostro colorato su carta di Vespignani, dal 1943 al ’48, esposti nella mostra Fantastico Calvino organizzata alle Scuderie del Quirinale, che mostrano case sventrate, dimostranti uccisi, torturati…), vorrei soffermarmi piuttosto sul contrario del patto narrativo che questo volume, come altri del genere, stabilisce e richiede, quando dichiara che tutto quanto è narrato, a partire dai nomi, è assolutamente vero.

La sospensione dell’incredulità (tipica della narrativa) non solo non è invocata, ma è dichiaratamente evitata, a partire dalle date (specificate e seguite nei mesi, nei giorni, nelle ore, nei secondi), dai nomi, che più volte vengono fatti e ripetuti in modo ogni volta più completo. Parimenti è esplicito, il libro, nell’interpretare quanto era avvenuto.

Nel caso specifico di San Terenzo le testimonianze sono chiare: non si era trattato (come in altri casi) di un attentato ma di un atto di guerra condotto in pieno giorno, al quale si sarebbe dovuto rispondere con misura equipollente. Ma tutto aveva congiurato nel corso di quella storia, così come in tante altre: il caso, che fa che siano proprio gli abitanti a chiedere l’intervento dei partigiani; il caso, che colloca alcuni fuori delle zone dell’attacco; il caso, che porta ad ascoltare o rifiutare consigli di fuga. Ma su scelta e caso si basa la vita: “ecco la sostanza del nostro stare al mondo”, ricorda l’autrice.

Alcune figure si stagliano con particolare forza accanto a quelle che potrebbero o che sono ancora oggi davanti a noi: la coprotagonista/autrice del libro (discendente di una delle vittime e giornalista di successo) e Roberto Oligeri (il cui padre aveva perduto in quei giorni d’agosto la moglie e cinque figli, mentre nella sua trattoria dava da mangiare al comandante tedesco che aveva ordinato la strage).

A loro si aggiunge quanto si può trovare ormai facilmente su You Tube per impegno dell’associazione Linea gotica – officina della memoria: con immagini del paese, delle viti a cui erano legati i prigionieri agonizzanti, e le foto degli uccisi, il monumento con i loro nomi.

C’erano insomma già dati/persone rintracciabili, ma quello che fa Agnese Pini (oltre a spingerci a nostra volta a cercarli, e non è merito da poco) è dare a quei volti, a quelle fotografie, una storia, riempiendo di vita ciascuno di quei nomi.

Quelli delle vittime e anche quelli dei carnefici, quelli degli umili, incolti, che non giudica mai, e quelli dei consapevoli, in testa ai quali stanno Don Michele Rabino, che implora inutilmente la gente di andarsene e che sarà una delle prime vittime, e il comandante partigiano, che, incerto sul da farsi prima dell’intervento, aveva fatto presenti i rischi invitando le persone a fuggire (e che per il resto della vita pagherà un prezzo alto di rimorso e solitudine). Sullo sfondo la voce delle vittime è individuale e corale insieme, affidata ai si dice…, alle leggende, alle credenze, alle paure e speranze collettive.

La voce narrante non condanna mai le vittime o gli umili, anche quando sbagliano (nei giudizi/pregiudizi sulla resistenza), ma non assolve mai gli altri: mantiene netto il giudizio sui nazi-fascisti e su tutti quanti hanno compiuto il male. Consapevole delle possibili sfumature, non ha dubbi sulla colpa di quanti, dopo, non hanno voluto capire, hanno amnistiato, insabbiato, dimenticato, assolto, fino all’arrivo del procuratore onesto che dopo settanta anni ha avuto il coraggio di aprire l’“armadio della vergogna”. Già, coraggio, perché ogni scelta lo richiede.

L’autrice non mitizza i partigiani (come non li mitizzava il commissario Pin di calviniana memoria), ma distingue nettamente, come fa la sua fonte, tra azioni di guerra e attentati. Discute insomma anche la percentuale di 1 a 10 richiesta da tedeschi ubriachi in preda all’odio e alla vendetta. Non offre insomma nessun appiglio che spinga a invocare la banalità del male (pure usata in altri casi), perché qui il male è fin troppo visibile, visibile come avrebbe dovuto esserlo alla fine della guerra per processi che colpevolmente non ci sono mai stati.

Questo non significa che la Pini non usi artifici narrativi (a partire dall’ossimoro del titolo, che si riflette in quello delle storie di vita e morte che propone), con l’abile slittamento dalla prima persona narrante, che periodicamente riappare, a favore di un racconto in terza persona, che punta il riflettore su diversi personaggi con uno sguardo che, salvando i particolari, potremmo dire al grandangolo. Sì che è come se ci trovassimo anche noi sul cucuzzolo sopra la fattoria a osservare tanti piccoli esseri umani, mentre l’esercito nemico li circonda, li attacca…

Mi capita, quando leggo un libro, di accostarvi delle suggestioni di lettura: questa volta mi sono venuti in mente dei versi di quel Paul Éluard che ha scritto che “il perdono è forte come il male, ma che il male è forte come il perdono”, in particolare quelli dell’Éluard che esclude che si possa perdonare ai carnefici («Il n’y a pas de salut sur la terre / Tant qu’on peut pardonner aux bourreaux»), e delle pagine di Vladimir Jankélévitch, autore di un libro che, rispondendo in modo negativo a un fin troppo vulgato interrogativo sul perdono, ha sottolineato con forza che è troppo comodo perdonare a nome dei morti.

Ricordava Jankélevitch che siamo tenuti a testimoniare, visto che i morti dipendono interamente dalla nostra fedeltà e che il passato ha bisogno della nostra memoria.  È quanto fa in questo libro Roberto Oligeri, e con lui, guidata da lui, Agnese Pini (svolge, il più anziano testimone, il ruolo dell’aiutante, come lo avrebbe chiamato Propp nei racconti di fiabe); mentre la stessa protagonista inserisce di quando in quando la sua quête in un percorso quasi fiabesco fatto di strutture circolari del tempo, come se altrove almeno la storia si potesse riscrivere.

Con Un autunno d’agosto siamo costantemente dentro quella che potremmo chiamare una dimensione morale. L’obiettivo è ridurre la distanza tra il soggetto e l’oggetto; di qui l’incertezza, la paura, la commozione della protagonista che si trasmette anche a noi. D’altronde c’è anche un grande equilibrio tra due rischi possibili: quello della distanza intellettuale e quello opposto della coincidenza passiva.

Agnese Pini è capace di dissociare l’occhio e lo sguardo, come dire che oggetto e soggetto sono sotto lo stesso sguardo rigoroso, attento… mentre pratica una sistematizzazione retrospettiva, ci mostra un tempo raccontato in parallelo allo svolgersi della tragedia. Parla dell’irreversibile, dell’irrevocabile; di ciò che il tempo non potrà cambiare mai più.

Antonio Tabucchi ha sostenuto che una delle ragioni della letteratura sta nella sua capacità di regalarci vite che non potremmo avere. Dinanzi a un libro come questo viene fatto di pensare che non ci dà soltanto un presente o un futuro impossibili, ma anche un passato che non è stato il nostro, permettendoci di ripercorrere l’irrevocabile, di restituire al passato quello che non può più avere, ovvero lo spazio e il tempo.

Un irreversibile insomma che può attenuarsi solo grazie alla memoria; laddove il perdono corrisponde alla dimenticanza. Mentre sottolinea la responsabilità dell’individuo, è palese la sua scelta di far raccontare la storia non dai vincitori ma dai vinti, ad uso delle future generazioni.

Come aveva fatto Calvino, che per  il Cantacronache 1958 aveva scritto un testo, Oltre il ponte, messo in musica da Sergio Liberovici, dove aveva ‘cantato’ i sogni della resistenza:

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte che è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo, oltre il ponte […] Silenziosi sugli aghi di pino, / su spinosi ricci di castagna, / una squadra nel buio mattino / discendeva l’oscura montagna. / La speranza era nostra compagna / a assaltar caposaldi nemici […] Vedevamo a portata di mano / dietro il tronco, il cespuglio, il canneto, / l’avvenire di un mondo più umano / e più giusto, più libero e […] Io son solo e passeggio tra i tigli / con te, cara, che allora non c’eri. / E vorrei che quei nostri pensieri, / quelle nostre speranze d’allora / rivivessero in quel che tu speri, /o ragazza color dell’aurora”.

È in definitiva questo l’obiettivo che si propone Un autunno d’agosto, un libro dalla sapiente struttura che, con la climax ascendente nella parte conclusiva, nell’intrecciarsi delle voci, delle storie, auspica che si possa giungere un giorno alla conoscenza e grazie a quella a una memoria condivisa. Memoria condivisa – si badi bene – che è il contrario di quella proposta nel 1996 da Luciano Violante nel citare i cosiddetti ‘ragazzi di Salò’.

La memoria condivisa invocata Agnese Pini, nella quale ci riconosciamo, è una memoria che possa vederci infine tutti insieme convinti nel distinguere i torturatori dai torturati, le vittime dai colpevoli, che ci veda infine uniti nel pensare che “quanto fecero – con consapevolezza, lucidità, premeditazione, odio, ferocia – le Brigate nere nelle stragi del 1944 non fu guerra civile. Fu criminalità organizzata, fu barbarie, fu imperdonabile orrore”.

Agnese Pini ci ricorda che “negando o banalizzando la verità [si] distrugge la storia”. Al suo invito possiamo rispondere adesso con i suoi 160 nomi, e, ad deterrendum, con i nomi degli altri, occultati per decenni per compiacenza, che si dovrebbero citare a ludibrio.

Per leggere gli articoli di Anna Dolfi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Silvan, l’artista bohémien alla Galleria del Carbone.
Testimonianza dell’amico biografo in chiusura il 7 gennaio

Silvan, l’artista bohémien in mostra alla Galleria del Carbone di Ferrara.
Presentazione del catalogo venerdì 22 dicembre.

È un piccolo romanzo a tinte vivaci la storia di Silvan Gastone Ghigi, pittore ferrarese dal tocco depisisiano, disseminato nei salotti della borghesia non solo locale. A lui ora la Galleria del Carbone dedica una mostra personale nella centralissima piazzetta del Carbone, in pieno centro medievale di Ferrara.

Inaugurazione della mostra di Silvan

L’artista è conosciuto con il nome d’arte semplificato di Silvan. Nato a Venezia nel 1928, è morto a Ferrara nel 1973, a soli 44 anni, in seguito a un incidente al termine di una serata nei locali notturni. Personalità controversa, con un’esistenza avvolta in un’aura bohémien, caratterizzata da un’alternanza di attività, inquietudini e furore analoghi a quelli delle sue pennellate. La sua produzione è ricca, quasi forsennata, formata da una quantità considerevole di composizioni floreali, paesaggi urbani e campestri, ma soprattutto ritratti. Volti schizzati da colpi di colore, figure di signore in posa con un collo di pelliccia o il filo di perle, nudi maschili scompigliati, bambini con l’abito delle feste, personalità note, come l’icona dell’arte circense Moira Orfei, la diva del cinema Zeudi Araya o il pittore ferrarese con quell’atteggiamento alla Clark Gable che era Marcello Tassini. Per ogni figura i tratti – ancorché tracciati come d’un balzo – conferiscono sguardi e personalità ben precise, trasmettendone vivacità, pensieri, languori e malinconie.

“Moira Orfei” di Silvan

Scopro, durante l’inaugurazione della mostra che si è tenuta sabato 16 dicembre 2023, che le opere sono state raccolte da una moltitudine di famiglie che le conservano in casa, le hanno commissionate, ereditate o in certi casi le hanno scoperte in questi ultimi anni, alimentando piccoli collezionismi privati.
Tele, carte e cartoni dipinti con quei tratti stenografici, veloci e nervosi ai quali ci ha abituato l’arte di Filippo De Pisis, vengono da estimatori di Ferrara, ma anche di Bologna e di altre regioni, come il Veneto e la Lombardia. Il tam tam della mostra si è diffuso pian piano in fase di progettazione, consentendo ai gestori della piccola e attenta galleria cittadina di mettere insieme un bel repertorio, qui concentrato su ritratti e paesaggi.

Ritratti dell’artista Silvan al Carbone

“Lo vede quel ritratto?”, mi interpella un maturo visitatore indicandomi una figura di donna. “Quella – spiega – è la nonna di questa signora. Si era fatta fare il ritratto e poi aveva comprato quell’altro, di Moira Orfei”, spiega accostandosi al variopinto olio su tela. La nipotina della signora raffigurata, che ora è sulla quarantina, conferma con il capo, ed è venuta da Bologna per vedere le opere di famiglia in esposizione.

Un altro visitatore – mi racconta la gallerista Lucia Boni – quando ha visto lo schizzo del cliente sulla seggiola da barbiere, le ha rivelato di possedere l’opera dipinta ad olio su questo tema, che rappresentava un negozio dalle parti di via Terranuova. Lì, secondo il suo racconto, Silvan aveva l’abitudine di trascorrere del tempo, ed era anche l’occasione per ritrarre alcuni clienti.

Opere dell’artista Silvan

Tra il pubblico dell’inaugurazione c’è l’ottantenne Galeazzo Giuliani, seduto sotto al disegno su carta che lo rappresenta negli anni della gioventù. Giuliani spiega che il quadro con il bambino in camicia appeso nella parete dedicata alle persone era suo figlio Pippetto, che Silvan avrebbe preferito raffigurare senz’abiti, ma al quale era stato negato. Con il risultato che l’indumento è accennato come di malavoglia, lasciando ampio spazio al color carne sottostante.

Galeazzo Giuliani vicino al ritratto giovanile

In mezzo ai partecipanti all’inaugurazione ritrovo anche un amico ingegnere, che mi sorprende rivelando di essere grande appassionato d’arte ferrarese. “Ho trovato un quadro di Silvan in un mercatino – racconta Luca Gavioli – e da lì mi sono affezionato e ho raccolto diversi lavori. Il gallerista Paolo Volta mi ha chiesto di darne alcuni per la mostra, ed eccoli lì, un ritratto di signora e un paesaggio. Gli altri non li ho prestati, perché mi spiaceva spogliare troppo le pareti di casa”.

Inaugurazione della mostra dell’artista Silvan

Quando torno per rivedere le opere con più tranquillità, incappo in due colleghe giornaliste, le cui vite si sono a loro volta intrecciate con la produzione di Silvan.

Mostra di Silvan alla galleria del Carbone

Alessandra Mura, redattrice del quotidiano Nuova Ferrara, è venuta con la mamma, rimasta folgorata una decina d’anni fa da una composizione di fiori del nostro pittore. L’aveva vista esposta in una galleria antiquaria di via Garibaldi a Ferrara e da allora il quadro troneggia nel salotto di casa.

L’ex bambina del ritratto mancante

Lucia Mattioli, già addetta stampa dell’Ufficio Stampa del Comune di Ferrara, racconta invece di un ritratto mancato. “Quando ero bambina – racconta – abitavo in via Ghisiglieri 14 [e non al civico 17 come erroneamente ricordato in precedenza, ndr] a Ferrara, nello stesso complesso condominiale dove, di sicuro tra il 1962 e il 1967, viveva Silvan con la madre. Le nostre madri erano amiche e noi bambini andavamo spesso a sbirciare l’artista al lavoro. Aveva allestito lo studio nel garage del cortile. Ricordo molti quadri di fiori e ritratti. Io avrò avuto tra i sette e gli otto anni e, in un accordo tra le madri, lui si era messo a disposizione per farmi un ritratto. Io però non ne volli sapere. Mia mamma ha provato a convincermi e ha insistito a più riprese, ma io (ahimè) non mi sono mai prestata. Un mio amichetto, Giuliano, che abitava in via Gramicia ed era amico di famiglia, aveva invece acconsentito”. E conclude ridendo: “In questo modo, ogni volta che andavamo a trovarlo c’era il quadro lì appeso, come un monito per la mia mancanza!”.

Catalogo a cura di Lucio Scardino

Il critico d’arte Lucio Scardino, che dell’artista ha seguito le tracce già in passato attraverso interventi su riviste e pubblicazioni dedicate all’arte ferrarese contemporanea, ha colto quest’occasione del cinquantenario della morte per ricostruirne in maniera organica le vicende biografiche e artistiche. Il piccolo catalogo “I quadri del veneziano Silvan nel civico museo De Pisis di Ferrara”, appena edito da Comune e Fondazione Ferrara Arte, è una lettura appassionante che fa anche la ricognizione sulle opere di Silvan donate a suo tempo al Comune di Ferrara. Il lascito è stato reso possibile grazie anche all’intercessione di Scardino tra l’ente e la madre Maria Accorsi. I quadri sono ora nel deposito del Museo d’arte moderna e in parte esposti come arredo di alcuni uffici.
La mostra ha il patrocinio del Comune di Ferrara.

Venerdì 22 dicembre 2023 alle 17 presentazione del catalogo a cura di Lucio Scardino.

Domenica 7 gennaio 2024 alle 18, in chiusura dell’evento espositivo, incontro con la testimonianza dell’amico e collezionista Galeazzo Giuliani.

“Silvan Gastone Ghigi cinquant’anni dopo”, mostra Galleria del carbone, via del Carbone 18/a, Ferrara, dal 16 dicembre 2023 al 7 gennaio 2024, dal mercoledì alla domenica ore 17-20, festivi aperto, lunedì e martedì chiuso. Ingresso libero

 

[articolo revisionato il 2 gennaio 2024]

Interno Verde Design, Botanica Fantastica, concorso per giovani illustratori

Il festival Interno Verde e l’associazione “Parma, io ci sto!” lanciano il concorso di illustrazione Botanica Fantastica, che arricchirà la mostra “Impronte – noi e le piante”, che si potrà visitare a Parma, al Palazzo del Governatore, da sabato 14 gennaio a lunedì 1 aprile 2024.

Il bando è rivolto a giovani artisti, grafici e disegnatori, studenti o professionisti di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Valuterà i lavori dei partecipanti una giuria d’eccezione. La selezione sarà curata da Emiliano Ponzi, illustratore di fama internazionale, che vanta innumerevoli premi e collaborazioni di prestigio, dal Salone del Mobile al New Yorker, da Vanity Fair a Moleskine, Elisa Seitzinger, visual artist particolarmente legata alla città emiliana, dove oltre a collaborare con il Festival Verdi ha avuto occasione di organizzare la mostra personale “Agiografie profane”, Silvia Molinari, artista specializzata in acquarello botanico, firma di note campagne e copertine, da Legambiente a Gardenia, Elena Canadelli, docente di museologia naturalistica all’Università degli Studi di Padova, divulgatrice impegnata nel coniugare scienza e cultura visuale contemporanea.

Le dieci opere migliori verranno presentate in una “mostra dentro la mostra”, che affiancherà le sale di “Impronte – Noi e le piante” e verrà inaugurata venerdì 1 marzo 2024. Nella stessa occasione verrà svelato il primo classificato, che riceverà il premio di 500 euro e un soggiorno di due notti per due persone a Parma, grazie alla collaborazione di INCHotels.

Botanica Fantastica rappresenta la seconda edizione di Interno Verde Design, contest avviato dal festival Interno Verde nel 2022, che quest’anno propone un tema quanto mai aperto e affascinante, che invita a mescolare realtà e immaginazione, epoche passate e future, traendo spunto tanto dai disegni dei primi erbari medievali quanto dalle più innovative e avveniristiche riproduzioni digitali.

Botanica Fantastica è il cuore di Impronte Off, il programma di eventi collaterali sostenuto da “Parma, io ci sto!” con la volontà di avvicinare le ragazze e ai ragazzi alla mostra “Impronte – Noi e le piante”, organizzata dall’Università e dal Comune di Parma.

«Impronte Off rientra nel più ampio progetto che la nostra associazione ha avviato nel 2018 a fianco dell’Ateneo per valorizzare e rigenerare l’Orto Botanico», spiega Alessandro Chiesi, Presidente di “Parma, io ci sto!”. «Si tratta di un asset strategico per la nostra città, che riteniamo fondamentale recuperare, potenziandone la funzione educativa, per rilanciarlo quale polo aggregativo per le nuove generazioni. Ed è proprio a loro che vogliamo rivolgerci con questa serie di iniziative legate alla mostra al Palazzo del Governatore: dal concorso per giovani illustratori, che consentirà alle opere vincitrici di diventare parte dell’esposizione, agli incontri tematici che avranno luogo a Parma, Bologna e Milano».

Il bando è online al sito www.internoverde.it, il termine per la consegna degli elaborati è domenica 28 gennaio 2024Per saperne di più: design@internoverde.it.

Parole a capo
Giorgia Deidda: poesie inedite

Giorgia Deidda: poesie inedite

V’è il poeta della scoperta, quello del rinnovamento, quello dell’innovamento… [io sono un poeta] della ricerca. E quando non c’è qualcosa di assolutamente nuovo da dire, il poeta della ricerca non scrive.
(Amelia Rosselli)

 

In te amo
il filo che cuce le nervature
amo in te
il bosco fitto che spezza
la lontananza e il luogo fangoso —
e a Capo Colonna ci sedemmo a rammendare
il cielo terso e le nuvole sfilacciate.
Se fossi accanto a te l’eterno durerebbe
un secondo, ché l’eternità è come
un battito di ciglia se a durarlo è la mano
che stringe.
C’è un posto enorme dove
le spalle si incontrano, ed è
nella tua tasca destra, vicino al mio cuore.
Ogni inizio è solo un partire,
e la nostra partenza rimandata è solo
un avvenire.

*

Mi servono
un paio di forbici per tagliare
i momenti di quando
il bianco asettico
mi screziava la vista deforme.
Sono tornata a vedere nitidamente –
la ferrugine che batte contro la lingua rovente.
Sei per me covo, rifugio di paglia,
negletta speme che rimbomba
ai rintocchi delle campane.
E quando metto le mani nelle tasche,
c’è sempre la tua mano così grande,
che mi ci perdo dentro.
Nessun granello può compatire
la vera bocca di miele.
E assaggio i tuoi colori,
sperando di smacchiare e strizzare
il mio bianco e nero.

*

Se ti chiedessi di incartare
in una busta qualche piccolo segno d’autunno,
la pioggia che scivola su aghi di pino,
la clessidra che disegna cilindri e il tempo

che tarda ad arrivare,
la notte che sbuca dal comignolo,
e le stelle pargoli in nascita,
ancorati al solstizio d’estate,
vi scaveresti un posticino buio dove
farli germogliare
e scopriresti, il giorno dopo
e il giorno dopo ancora
quanto io ti adori.

*

Quando gremito di gente
attraverso i binari,
sospesa tra vento e fiamma,
io non so dire se la strada
sarà rovente oppure di piuma.
Ma di certo è la magnolia
che incolla come carta
la mano affine di sbieco
e lenta, come un gabbiano che si posa,
fermo,
durante il viaggio.
Il profumo ricorda,
le giornate che colavano come proiettili,
la bomba che riuscì a spegnere
l’amore stretto al nodo.
Ed ecco di nuovo la melodia,
le strade di Philadelphia,
il cammino travisato come acqua pura.
E il volto che sorride
e il nuovo inizio,
e gli occhi che s’accendono
come fiammiferi spenti al soffio
e io che sorrido di tutto questo.

*

Ecco;
di nuovo l’azzurro.
Sempre il tronco che non cede,
la rosa e la peonia che colgo,
petalo per petalo,
mentre bacio la tua bocca
rossa.
Quando guardo di sbieco
come lampo di luce,
i tuoi occhi nero pece,
si instilla e stria la voglia voluttuosa,
il sapore acquoso,
la pelle che si appiccica come colla;
una conchiglia.
E se per caso volessi partire lontano
e venirti a scombinare,
se per caso volessi amarti
e non andare più via.
Se ci amassimo fortissimo,
tanto da sentire i battiti,
cosa sarebbe l’amore
se non un albero con radici
ancorate al divino?
Vicino, vicino.
Il mare gracchia e gonfia.
Le mani si avvicinano,
e tu sei con me,
nell’etere rimbombo di un amore
senza fine.

Giorgia Deidda, ha 29 anni e proviene da Orta Nova, un paesino in provincia di Foggia. Ha studiato Lingue all’università di Bari, e ha vissuto lì per circa 3 anni in un collegio. Ha vissuto anche a Bitonto, una bellissima città alle falde delle Murge con una cattedrale romanica spettacolare in provincia di Bari, dove ha prodotto due romanzi. Si definisce una scrittrice biografico- confessionale e ha come luci ispiratrici Sylvia Plath, Amelia Rosselli, Anne Sexton. Ha pubblicato tre sillogi poetiche. Del suo fare poesia dice “Descrivo con minuzia il dolore, la passione, la melanconia. Le poesie gotiche hanno anche in parte influenzato la mia scrittura“.
Pratica Slam Poetry da due anni; la Slam Poetry è una gara tra poeti che recitano i loro versi a memoria rivolgendosi al pubblico che decreterà il vincitore.
E’ apparsa su vari giornali quali “L’Attacco” e “Il Quotidiano di Bari”. Dipinge, canta e suona il pianoforte da diversi anni. L’espressionismo viennese è una sua fonte d’ispirazione, in particolare Munch e Schiele. Adora l’arte in generale, in tutte le sue forme.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
Qual è “L’età fragile” nell’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio

Vite di carta. Qual è L’età fragile nell’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio.

La signora seduta accanto a me dice di essere di Milano, mi sorride e precisa che ha preso la metropolitana per arrivare qui, alla libreria Ubik appena inaugurata in Via Monte Rosa 91. No, io vengo da Ferrara, sono stata a visitare la modernissima Piazza Tre Torri, cuore del quartiere City Life che non conoscevo.

Vedo per la prima volta anche questo complesso plurifunzionale Monterosa 91, progettato dallo studio di Renzo Piano e da poco inaugurato nei diversi settori che lo compongono: uffici, sale meeting, palestra, ristorante, asilo nido e, appunto, spazi dedicati alla cultura. Un affascinante aggregato di edifici di solo vetro, allo sguardo.

Cosa ha portato qui lei e me da luoghi così distanti? La scrittura di Donatella Di Pietrantonio. Il suo romanzo appena uscito presso Einaudi, L’età fragile, è disponibile in gran copia su un tavolino messo accanto alle sedie dove si accomoderanno tra poco l’autrice e Gaia Manzini, che condurrà la presentazione. Ne leggerà alcuni passi  la voce garbata di Elena, di cui non riesco a cogliere il cognome.

L’ho già letto e soppesato, ma aspetto di sentire da lei, dalle sue risposte, su quale sostanza umana abbia avvertito il bisogno di scrivere quest’ultimo libro. 

Ho letto per prima la pagina finale, quella dei ringraziamenti, intuendo quale sia stata la gestazione della scrittura e le fatiche che ha comportato. Ho provato la consueta invidia buona che mi suscitano coloro che sono vicini, oppure dentro, ai libri belli. In fondo sono qui oggi per seguire un percorso di vita, quello che ha le letture importanti tra le pietre miliari. Sono venuta a fare manutenzione della mia vita interiore, perché mi serve avere coraggio.

Vado all’inizio: la dedica dice “A tutte le sopravvissute” e in effetti nei capitoli iniziali una madre e una figlia, tornata a casa ferita dalla grande città, faticano a rapportarsi tra loro e col proprio personale passato. Alla domanda di Manzini sui temi portanti del libro l’autrice sta rispondendo che sì, nei suoi romanzi il rapporto tra genitori e figli, specie tra madre e figlia, è un tema costante.

In questo, tuttavia, il punto di vista dominante è quello di una madre, Lucia. Certo, è da Lucia che mi sono fatta guidare dentro la storia. Attraverso lei ho conosciuto Amanda, tornata alle radici nel paese vicino a Pescara dopo che Milano ha minato ogni sua sicurezza; ho messo a fuoco le figure maschili del padre di Lucia, Rocco, e di Dario, il marito da cui vive di fatto separata da tempo.

Di chi è la fragilità nella fase della vita che ci viene raccontata al presente? Siamo nel pieno della pandemia da Covid 19 e una patina di timore, un sentore di vita perennemente allarmata ha preso un po’ tutti. Tuttavia nel passato di Lucia è ancora vibrante un doloroso fatto di sangue che né lei né la comunità intera del suo paese sembrano avere rielaborato.

Per volontà di Rocco, che sente avvicinarsi la fine della vita, arriva per lei e ricade su famigliari, amici e compaesani il momento di fare i conti con il femminicidio avvenuto trent’anni prima, nell’estate del 1992, su al campeggio, nel terreno che ora Lucia deve ereditare come unica figlia da suo padre.

Lucia si sente scissa, da un lato non ha una bussola per andare verso il futuro che l’eredità può comportare, dall’altro sente di dover superare l’inerzia del presente e affondare finalmente lo sguardo nel passato. Come può non sentirsi fragile in uno snodo così delicato della propria vita.

Abbiamo tutti vissuto abbastanza per non intuire che, proprio recuperando con l’esercizio della memoria ciò che è accaduto, potrà dare una sagoma agli anni a venire. E in effetti due lunghe parti del romanzo, la seconda e la quarta, nonché penultima, ridanno forma al fatto delittuoso e al milieu della montagna, in cui è maturato.

Anche il processo che ha condannato il colpevole fa parte della ferita, perché nel processo tutti, le vittime sopravvissute e il carnefice, sono stati esposti una volta di più alla sofferenza.

Ogni età è esposta, dice Di Pietrantonio. Ogni età è l’età fragile. Per Lucia, che si trova nel ruolo difficilissimo di essere al contempo figlia e madre. Attorno ha la fragilità del padre, venuta alla luce dopo la perdita della moglie, e la fragilità di Amanda, dopo l’aggressione subita a Milano.

La manutenzione per cui sono venuta è a buon punto: le domande che vengono poste all’autrice sono una dopo l’altra impeccabili, ma aspetto di sentir parlare della scrittura, di come è scritto il romanzo al di là (o al di qua) dei temi che lo sostanziano. Certo, si allude allo stile essenziale e al nitore lessicale, quanto mai preciso. Avrei tuttavia una domanda da porre, e rimango un po’ delusa dal fatto che alla fine dell’incontro non venga lasciata la parola al pubblico.

La dico qui. Sarà che, per avere letto ogni sua cosa, ho dimestichezza con la sensibilità con cui Donatella Di Pietrantonio si espone raccontando. Sarà che sono stata catturata molto presto anche da quest’ultimo racconto condotto in prima persona, il fatto è che a pagina 42 mi sono fermata a scrivere una mia considerazione, più che una domanda: la forza narrativa risiede nella modalità con cui apprendiamo le informazioni. Lucia ce le consegna quando vengono pensate o dette da lei, nell’immanenza dei suoi atti quotidiani.

Raccogliamo qua e là che ha uno studio, che ha studiato fisioterapia, ci dice il suo nome a una cinquantina di pagine dall’inizio.

Si svela con pudore, perché al lettore non si mente e ogni dettaglio costruisce il quadro di cui siamo fatti. Non credo che dobbiamo attendere di saperne il passato per capire Lucia. Certamente serve a lei come a noi la ricomposizione, ma c’è di più.

Ho scritto: ogni giorno che viviamo ha in sé il patrimonio genetico della nostra vita e di questo ci mette a parte lei, in ogni titubanza, in ogni momento di angoscia e di amore.

Nota bibliografica:

  • Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Einaudi, 2023

Cover: Neve a Campo imperatore su licenza Wikimedia Commons

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Un altro naufragio Ma questa foto non serve a nulla

Un altro naufragio.
Ma questa foto non serve a nulla

Un altro naufragio. Ma questa foto non serve a nulla

E queste? Anche queste foto non raccontano niente…


Eccetera eccetera eccetera …

A volte una foto, una “bella foto”, può da sola raccontare tutta una storia. E’ stata l’intuizione di un geniale quotidiano del secolo scorso, si chiamava Lotta continua (il giornale, non il movimento politico) e aveva inventato la “foto notizia”: una fotografia da sola, senza alcun commento, nessuna didascalia… e quell’immagine parlava, raccontava da sola un’intera notizia. Anche a Periscopio abbiamo una grande considerazione per le foto. Perché le immagini possono parlare, come le parole, a volte di più delle parole. Abbiamo anche creato una rubrica intitolata Immaginario.

A volte però  il gioco della “foto notizia” non funziona. Cerchi l’immagine giusta, ne scegli una, poi un’altra, un’altra ancora, ma ti accorgi che quelle immagini non servono a niente, non parlano, rimangono mute. Come quando prendi in mano una fotografia e l’immagine sparisce sotto i tuoi occhi, alla fine è solo un foglio bianco.

Come adesso. Dove trovo la foto giusta? Ora che vorrei dire qualcosa dell’ultimo naufragio “al largo della Libia”, che uno potrebbe dire anche “al largo dell’Italia”, perché siamo sempre nello stesso mare, nel nostro Mediterraneo, ma tutti diciamo “al largo della Libia”, così siamo più tranquilli.

Riporto la nota di agenzia:  “11 i corpi recuperati, 62 i dispersi. solo 7 i salvati, a seguito di “un tragico naufragio” al largo della costa della Libia: lo ha riferito l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Secondo le informazioni disponibili, l’incidente si è verificato ieri. “L’imbarcazione”, riferisce Oim in un messaggio diffuso anche sui social network, “trasportava circa 80 persone e sarebbe partita da Qasr Alkayar diretta per l’Europa”.

La notizia con annessa foto di questo naufragio (“tragico”, concede la nota di agenzia), ha fatto capolino sui media, ma solo per un attimo per scomparire dopo meno di 24 ore. Una strage che nessuno ha più voglia e tempo di raccontare:  73 morti anonime, 73 sommersi, 73 inghiottiti dal mare e velocemente digeriti dai media. Cancellati. Proprio come una foto che svanisce.

I naufragi sono tutti uguali, almeno così dovrebbe essere, se diamo retta al vocabolario Treccani: ” naufràgio s. m. [dal lat. naufragium, comp. di navis «nave» e tema di frangĕre «rompere»]. –  Sommersione o perdita totale di una nave per grave avaria del suo scafo, dovuta all’azione degli elementi naturali, a urto contro un ostacolo o a collisione con altra nave, a incendio o altra causa di forza maggiore…” .

Insomma, per “fare naufragio” (lo dice anche l’etimo) è sufficiente un mare (verosimilmente in tempesta) e stare a bordo di una nave che si rompe: per qualche difetto di fabbrica, per l’errore del comandante, per uno scoglio, un iceberg, un’onda anomala, una bomba…

Purtroppo non è cosi. Un naufragio, per essere un vero Naufragio, per diventare un evento memorabile, per meritare una storia da raccontare e commentare, deve essere Unico, Eccellente, Straordinario. L’Odissea per esempio. Ma se non ricordiamo il naufrago Ulisse soccorso da Nausicaa, possiamo sempre rifarci con il Titanic, quel naufragio sì che è diventato leggenda, con il povero Leonardo di Caprio che ci rimette le penne e vince svariati Oscar.

Ma che ce ne facciamo dei  “naufragi in serie”? Quelli che ogni settimana ce n’è uno? Quelli che nemmeno sai da dove arrivano e il nome che li accompagna, se pure loro hanno avuto come noi un battesimo e un nome? Chi sono questi naufraghi seriali, questi morti di oggi che raggiungono in fondo al mare la schiera dei loro fratelli?  Mio dio, sono talmente tanti, sono così troppi,  che uno non ci fa più attenzione.

I naufragi in serie sono così “ripetitivi” che è difficile montarci sopra una nuova storia. Una foto a tinte drammatiche con gli annegati in primo piano?  Non ce ne accoriamo neppure. Se non fai più notizia, non esisti più. Così è il destino del migrante: non esistevi da vivo, a maggior ragione non esisti neppure da morto.
La nostra inconsapevolezza, quella di ognuno di noi, non può accampare scuse. La responsabilità è sempre individuale. Ma un’invettiva se la merita l’informazione, quella becera informazione che ci avvolge e che ha sempre bisogno di carne fresca, di sangue e di arena.

Ieri sera, prima di avviarmi verso il letto, ho inopinatamente acceso il televisore e sono capitato in mezzo a “Quarta Repubblica” di Nicola Porro. Stiamo parlando di un giornalista, di un programma, di un canale che metto al primo posto per faziosità, bugiardaggine, cattiveria. (Perché allora lo guardo? Perché non cerco qualcosa di meglio? Semplicemente perché preferisco ascoltare parole chiare anche se terribili, piuttosto che parole tiepide, ipocrite e sfumate).

Di che parlava Nicola Porro con i suoi ospiti nel talk di Rete 4?  Non dell’ultimo naufragio appena successo, ma del processo (per ora mediatico) al promotore di Mediterranea Saving Humans, quel brutto ceffo di Luca Casarini (in studio giganteggia un suo primo piano: con la barba incolta, segno evidente di delinquenza). L’obiettivo dichiarato era distruggere completamente la sua opera e la sua stessa vita. E tutto nel segno della menzogna e della cattiveria.  L’accusa più idiota è scritta in grande su una parete dello studio: “Casarini il Guru della sinistra”.

Di Luca ho un’idea affatto differente. Mi pare stia tentando di fare due cose importanti e difficili:  soccorrere i naufraghi ed evitare altri morti in fondo al mare, e chiamare a raccolta il senso di umanità che alberga in fondo a ogni uomo e ogni donna. Di conseguenza – e come potrebbe essere altrimenti? – Luca si è schierato dalla parte di Papa Francesco e contro l’egoismo, l’autoritarismo e il cinismo del governo Italiano e dell’Europa nel suo insieme.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
Natale è… – Strenne natalizie

Sfogliare fiabe in musica, con “Natale è”, di Giulia Pesavento e Irene Bommaci

Il Natale è un momento magico: l’atmosfera accogliente, le luci colorate e il senso di attesa lo rendono indimenticabile. Tempo di tetti fumanti, di stelle che punteggiano il cielo scuro, di risate, di affetto, di felicità, di allegria spensierata, di gioia, di case addobbate a festa, di luci sfavillanti, di pacchi colorati, di giochi all’aperto (anche se questo forse più di un tempo che fu), di tempo che scorre calmo e lento, di profumo di zenzero, vaniglia e cannella, di tepore, amicizia e amore. Di pazienza.

Magia di personaggi incantati, di desideri e sogni che si avverano, del fuoco che brucia nel camino, dello stupore meraviglioso dei bambini. Le melodie natalizie fanno da sfondo alle tante scene di vita quotidiana che si svolgono nelle famiglie.

Cosa c’è di meglio, allora, di regalare un libro sonoro dedicato al Natale con dieci famose melodie natalizie? È sufficiente sfogliare le pagine per ascoltarle! Leggere i testi ai bambini prima di dormire, cullandoli con dolci melodie. Regalo nel regalo, a loro ma anche a noi.

Le dieci melodie contenute nel libro sono: “Astro del ciel”., “Valzer delle candele”, “Gloria in excelsis Deo”, “Oh, Albero”, “God Rest You Marry”, “Gentlemen”, “Adeste Fideles”, “Tu scendi dalle stelle”, “Jingle Bells”, “Deck the Halls”, “We Wish You a Merry Christmas”.

Buona lettura, allora, e buon ascolto. E, ovviamente, Buon Natale.

Giulia Pesavento (Autore), Irene Bommaci (Illustratore), Natale è…., Sassi jr, 2023

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

TRACCIA CONDIVISA PER CAMBIARE FERRARA

TRACCIA CONDIVISA PER CAMBIARE FERRARA

Quasi un Programma

Questo che leggete non è Il “Programma Elettorale” della Lista Popolare, l’abbiamo chiamata più semplicemente “Traccia Condivisa per Cambiare Ferrara”, la traccia del sentiero da percorrere insieme: 5 temi che riteniamo fondamentali e prioritari, 5 obiettivi che vogliamo siano presi in carico e realizzati dal futuro governo della città.
Una traccia “condivisa” perché è il risultato delle idee, sollecitazioni, proposte espresse fino a qua da centinaia di cittadini e cittadine negli incontri de La Comune di Ferrara e da altri gruppi, comitati e movimenti che, in questi mesi ed anni, sono scesi in campo.
Una traccia che rimarrà aperta ad altri contributi e si arricchirà di nuovi contenuti nei prossimi mesi, durante la campagna elettorale.

1 ) DECARBONIZZAZIONE, MOBILITA’ E RIGENERAZIONE URBANA

E’ un Tema Vitale (per ognuno di noi e per tutta l’umanità), un argomento di cui si parla moltissimo nei summit, ma che segna un sostanziale fallimento della politica. In questo quadro, la situazione della nostra città è drammatica: siamo tra le città più inquinate d’Italia, la più inquinata in Emilia-Romagna.
Assumere a Ferrara questo tema centrale, significa compiere concrete scelte politiche in più di un campo:
A ) Chiudere la seconda linea dell’inceneritore;
B) Inaugurare la raccolta porta a porta dei rifiuti urbani;
C ) Estendere in modo significativo la Zona Pedonale del Centro Storico, arrivando nel medio periodo a comprendere l’intera area entro le Mura;
D) Limitare al massimo il passaggio e la fermata dei veicoli all’interno della Zona Pedonale;
E) Rigenerazione urbana fondata sul blocco del consumo di suolo, la predisposizione di trame verdi interne alle città e tra queste e i loro territori periurbani e agricoli intese come corridoi paesaggistici e servizi ecosistemici e una politica della casa incentrata sul suo valore pubblico;
F ) Approntare un piano organico di piste ciclabili;
G ) Potenziare il servizio di trasporto pubblico e renderlo progressivamente gratuito;
H ) Riportare il Parco Urbano Bassani alla sua vocazione originaria;
I) Realizzare il Parco Sud della città;
L) Promuovere le comunità energetiche;
M) Programmare sia l’efficientamento energetico sia l’intensificazione del ricorso alle energie rinnovabili, a partire dall’utilizzo degli edifici pubblici e delle aree dismesse;
N) Fermare gli impianti di biogas/ Biometano, a partire da quello di Villanova

 

2 ) BENI COMUNI DA RICONQUISTARE

Forse ce lo siamo dimenticati ma esistono beni che da che mondo e mondo appartengono a tutti e che solo negli ultimi decenni sono stati privatizzati. L’acqua, ad esempio, il bene primario per eccellenza. L’acqua deve essere pubblica, lo aveva sancito un referendum popolare nel 2011, ma il privato ha fatto finta di niente e la politica è stata a guardare. L’acqua privatizzata è in mano a delle multiutilities quotate in borsa, che sull’acqua fanno profitti e che poco o nulla spendono per sostituire impianti obsoleti e tubature colabrodo. Così, oltre alla beffa dell’acqua pubblica scippata, c’è lo scandalo della dispersione di un bene prezioso. Circa il 40% dell’acqua immessa nelle tubatura non arriva ai rubinetto ma viene dispersa nell’ambiente.
A ) Il 31 dicembre del 2027 scade la concessione dell’acqua a Hera Spa. Il nuovo governo cittadino ha davanti il tempo necessario per preparare un piano economico- finanziario per ripubblicizzare il servizio idrico. Con le nuove normative, a quella scadenza bisognerà costituire un unico soggetto gestore di tutta la provincia, per cui diventa attuale e possibile dar vita ad un’azienda pubblica che gestisce il servizio idrico per tutta la Provincia, considerando che già oggi il Basso ferrarese è servito da CADF, Spa a totale capitale pubblico.
B ) La concessione ad Hera del Servizio raccolta Rifiuti Urbani è invece già scaduta il 31.12.2017, siamo quindi in regime di proroga. In questo caso, il piano di ripubblicizzazione del servizio è molto meno oneroso. Il nuovo governo di Ferrara deve impegnarsi a portarlo a termine  in tempi brevi. La nuova azienda, con la collaborazione attiva dei cittadini utenti, non dovrà solo impegnarsi in una più efficiente raccolta differenziata, utilizzando il sistema porta a porta, ma nella progressiva riduzione e minimizzazione dei rifiuti, per arrivare sempre più vicino all’obiettivo ideale di “Rifiuti Zero”.
C ) Sono in atto processi di privatizzazione anche nella Sanità, in tutta Italia ma anche a Ferrara, una deriva da contrastare puntando sulla Sanità Pubblica Territoriale e accorciando le liste d’attesa.
D) Occorre ricostruire un’azienda pubblica dei trasporti del territorio ferrarese ( oggi siamo stati assorbiti da TPER) per realizzare gli obiettivi sopra delineati in termini di politica del trasporto pubblico
E) Lavoro locale dignitoso e di qualità, che le aziende ripubblicizzate dovrebbero garantire.

 

3 ) DEMOCRAZIA PARTECIPATA

La Democrazia Rappresentativa, così come è stata disegnata anche dalla nostra Carta Costituzionale, attraversa una crisi probabilmente irreversibile. E’ superata? No, ma non è più sufficiente. Sappiamo come il popolo dei non votanti (chiamato riduttivamente “astensionismo”) è in continua crescita. Nel 2019 a Ferrara il 40% degli aventi diritto non ha votato. I partiti (altra istituzione in profonda crisi) continuano a fare inutili appelli verso gli astensionisti, senza capire che molti di coloro che non votano (o votano di malavoglia), vorrebbero una democrazia diversa, vorrebbero decidere, “contare”, e non limitarsi a votare ogni tot anni.
Per questa ragione La Democrazia Partecipata diventa un terreno decisivo se vogliamo cambiare il volto della città.
A ) Introdurre nuovi strumenti normativi, da inserire nel regolamento del Consiglio Comunale;
B ) Mettere a disposizione, in ogni quartiere, ogni zona omogenea della città, ogni Frazione, una saletta pubblica per incontri, riunioni, piccoli spettacoli, al servizio delle cittadine e dei cittadini di ogni età. Deve essere uno spazio gratuito, sotto la gestione e la responsabilità di una associazione culturale o di volontariato sociale;
C )  Istituire Assemblee di quartiere, a cui destinare risorse apposite per costruire un vero Bilancio Partecipativo;
D ) Istituire Assemblee dei cittadini, sulla base di un sorteggio costruito sulla reale stratificazione sociale, abitativa e di genere, per arrivare a supportare le  decisioni sui temi strategici riguardanti la città, a partire da quello relativo al contrasto al cambiamento climatico
E ) Estendere e rendere stabili gli esperimenti estivi di piccoli lavori pubblici di quartiere svolti da giovani studenti guidati da pensionati competenti

 

4 ) UNA CULTURA GRANDE COME UNA CITTA’

Ci hanno abituato alla cultura che Ferrara importa e ospita nelle grandi esposizioni, una cultura legata solo al turismo, agli spettacoli effimeri, mentre la Cultura riguarda tutte/i e tutta la città. Come scriveva Fernand Braudel: “La cultura è il modo di crescere, di vivere, di amare, di sposarsi, di pensare, di credere, di ridere, di nutrirsi, di vestirsi, di costruire le case, di disegnare la città e i campi, di comportarsi: saper stare di fronte all’eternità, non scambiare la vita per una corsa inquieta contro il tempo.”.  Ferrara ha quindi bisogno di un vero e proprio Rinascimento Culturale, valorizzando la cultura che si produce ogni giorno, in centro come in periferia.  Ecco alcune proposte da realizzare nei prossimi 5 anni. Altri potranno essere aggiunti:
A ) Sviluppare il sistema bibliotecario cittadino esistente, aumentare l’orario di apertura, incrementare i fondi per gli acquisti e per le attività culturali;
B ) Realizzare una grande biblioteca in zona Sud (La Grande Rodari) ed aprire nuove piccole biblioteche di quartiere e di frazione, creando una rete diffusa per la democrazia informativa;
C ) Dedicare un fondo consistente al finanziamento di progetti di residenze artistiche, in collaborazione con gruppi e associazioni culturali cittadine (teatro, poesia, canto, musica, arti visive, ecc. ), per ospitare artisti e gruppi che possano contribuire alla crescita di un’offerta culturale di qualità in dialogo con il territorio;
D ) Avviare un percorso di co-progettazione (Comune- Università-Privato Sociale-Start up- Associazioni) sulla grande area della ex Caserma, intercettando finanziamenti nazionali ed europei. La ex caserma dovrà diventare un grande e moderno polo pubblico polifunzionale, dedicato allo studio, alla ricerca, alla cultura e all’arte;
E) Caratterizzare Ferrara come città universitaria: accogliente nei confronti dei giovani che la scelgono come propria città e capace di favorire processi di internazionalizzazione e processi economici e lavorativi di qualità;
F) Promuovere eventi culturali, con attenzione sempre al tema della sostenibilità;
G) Rivedere la politica tariffaria per i servizi educativi 0-6, differenziando le quote contributive per le famiglie e un controllo sui finanziamenti alle scuole parificate a gestione privata, con riduzione progressiva;
H) Potenziare i servizi per il diritto allo studio e i progetti formativi per tutte le età, compresa una razionalizzazione degli istituti comprensivi;
I) Rafforzare la collaborazione tra Istituzioni Scolastiche, Università e agenzie formative per promuovere ricerca educativa, buone prassi e percorsi di partecipazione dei ragazzi e delle ragazze alla vita della comunità.

5) WELFARE DI COMUNITA’, DIRITTI E CITTADINANZA

Desideriamo che Ferrara si caratterizzi sempre di più come una città a misura di fragilità umane, secondo i cicli della vita e nel rispetto del diritto a vivere in una città che promuove il benessere dei suoi cittadini; una città impegnata nella riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni, garante dei diritti di cittadinanza, in un contesto in cui tutte e tutti possano sentirsi sicuri.
Una città che sappia orientare e dare strumenti, indicando dove ricevere aiuto e consiglio gratuito per facilitare l’accesso ai servizi presenti nella comunità, risolvere i problemi ed inserirsi nella società; attenta all’inclusione e al benessere dei bambini, dei giovani, delle persone con disabilità, degli anziani, che tuteli e favorisca l’accesso ai diritti (mobilità, cultura, socialità, sport, scuola..).
In particolare:
A. Creare spazi permanenti di incontro in cui Servizi pubblici, terzo settore e società civile, ma anche mondo imprenditoriale e Università, possano integrare osservatori, competenze e visioni riconoscendo e valorizzando le risorse, senza mai perdere di vista la centralità della persona;
B. Ricercare sinergie con il mondo del credito, una infrastruttura fondamentale per sostenere in particolare giovani e fragili;
C. Potenziare i servizi sociali e del terzo settore, anche attraverso strumenti di amministrazione condivisa e con spazi garantiti all’associazionismo e al volontariato;
D. Creare un osservatorio partecipato bottom up sulla condizione giovanile;
E. Creare un  Forum permanente sulle diseguaglianze e sulle diversità;
F. Promuovere forme di co housing;
F.  Ripensare tutti i settori legati alla sicurezza, con nuove assunzioni, aggiornamento del personale ed una serie di innovazioni organizzative;
G. Promuovere la cittadinanza attiva nei quartieri, per migliorare la vigilanza, la coesione sociale e la cura della propria comunità;
H. Opporsi a qualsiasi progetto di creazione sul territorio di CPR Centri Permanenza Rimpatri, luoghi disumani, privi di vera tutela legale e di cure mediche adeguate.

La Comune di Ferrara
https://www.lacomunediferrara.it/

Mediterranea Saving Humans Ferrara. Aperitivo-Donazione, martedì 19 dicembre, ore 19, all’Hangar

Dicembre 2023. L’attesa e la felicità del Natale si mischiano a dolore, sofferenza, violazioni dei diritti umani in tutto il mondo e in maniera surreale in Palestina.
In questo periodo dell’anno, il rischio di voltarsi da un’altra parte, tutti presi da luci e polvere di stelle, è grande. La vera magia del Natale, per la grande comunità di Mediterranea Saving Humans, sta nel toccare le corde dell’umanità con gesti concreti che rompano l’indifferenza e la superficialità.
Siamo convinti che i veri regali non si nascondano solo sotto un albero addobbato con luci colorate, ma contribuendo a fare la differenza nelle vite degli altri, donne uomini e bambini, nel Mediterraneo centrale, nei campi profughi ucraini e dicendo NO ai CPR, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio, a Ferrara e ovunque.

 

Ti aspettiamo martedì 19 dicembre da Hangar Birrerie al Consorzio Factory Grisù – dalle 19 alle 21 – per conoscerci o scambiarci gli auguri di buone feste con un aperitivo a buffet!

Il menù prevede:
– Bis di primi (Gnocchetti sardi di cui uno veg) 🍝
– Pizze farcite 🍕
– Drink, bevande e acqua incluse 🥂

Il costo dell’aperitivo è di € 20,00 di cui € 5 già compresi di donazione a Mediterranea.
Non mancherà il nostro banchetto con tutti i gadget firmati Mediterranea, compresi i PAMPEPATI!! 😋
Inoltre ci sarà l’occasione per tesserarsi o per rinnovare la propria iscrizione a Mediterranea (10 euro quota annuale).

TI ASPETTIAMO!!

Mediterranea Saving Humans – Ferrara

Una Lista Popolare per battere la Destra e aprire a Ferrara un capitolo nuovo.
Anna Zonari al Tavolo dei partiti: “non è vero che l’unità costi quel che costi, è il solo modo per raggiungere l’obiettivo”.

Una Grande Lista Popolare per battere la Destra e aprire a Ferrara un capitolo nuovo. Anna Zonari al Tavolo dei partiti: “non è vero che l’unità costi quel che costi, è il solo modo per raggiungere l’obiettivo. Il metodo, il modo con cui si fanno le cose, è già politica.”.

Quasi 90 persone hanno partecipato ieri, 16 dicembre, alla Seconda Tappa de La Comune di Ferrara, al Centro Sociale Quadrifoglio di Pontelagoscuro. E’ stato reso pubblico il programma politico della Lista Popolare, anzi,  il “quasi programma”,  perché il documento verrà arricchito con nuovi temi ed obiettivi durante i mesi di campagna elettorale. Si sono  presentati pubblicamente alche i primi 13 canditati, ma anche in questo caso non si tratta di una lista chiusa, sono infatti attesi nei prossimi giorni altre manifestazioni di impegno. Presentiamo di seguito il testo integrale dell’intervento introduttivo di Anna Zonari, portavoce del La Comune di Ferrara alla II Tappa de “La Comune di Ferrara
(la redazione di Periscopio)

Intervento introduttivo di Anna Zonari all’incontro del 16 dicembre | By La Comune di Ferrara | Facebook

Benvenute e benvenuti alla Tappa 2 proposta da La Comune di Ferrara.

Abbiamo voluto accogliervi con una restituzione di quanto emerso dai lavori del world cafè dello scorso 19 novembre. Abbiamo voluto assumere questi contenuti insieme ad altre idee, sollecitazioni, proposte espresse fino a qua da altri gruppi, associazioni, comitati e movimenti che, in questi mesi ed anni, sono scesi in campo.

Lo abbiamo fatto, scrivendo un documento politico che abbiamo chiamato “Traccia Condivisa per Cambiare Ferrara”. Non è ancora il “Programma Elettorale” della Lista Popolare, ma una  traccia, un Quasi programma, che rimarrà aperto ad altri contributi e si arricchirà di nuovi contenuti nei prossimi mesi, durante la campagna elettorale, anche andando nei quartieri ad ascoltare i cittadini e le cittadine che abitano in questa città.

Fra poco ve lo leggeremo e vi consegneremo una copia.

Perché una Grande Lista Popolare? Fin dalla nascita de La Comune, finora gruppo spontaneo di cittadini/e che, nato in vista delle elezioni 2024 per l’elezione diretta del sindaco, abbiamo voluto creare uno spazio autonomo e indipendente e per avviare un progetto politico dal basso, basato su una visione di futuro diverso per Ferrara e alternativo all’attuale Giunta Fabbri.

La nostra è stata una scelta di sottrarci al sistema del Toto Candidato, convinti che si debba partire dai contenuti, ovvero dal programma, costruito dal basso, a partire dall’ ascolto delle persone che sul campo conoscono i problemi, le risorse presenti in città e, attraverso metodi e strumenti partecipativi reali.

Nel fare questo siamo sempre stati aperti non solo alla società civile, ma anche a tutto il tavolo dell’alternativa, i cui rappresentanti hanno potuto partecipare, dare il proprio contributo attivo, perché siamo convinti che il dialogo e la pluralità siano un valore.

In questi mesi abbiamo sentito parlare continuamente dell’importanza di conservare un’unità del centro sinistra, come se fosse l’unica maniera di potercela fare ad avere una chance alle elezioni.

Ma, parallelamente a questo proclama, dal giorno successivo alla chiusura di un proto programma congiunto, finora peraltro non reso pubblico, il Tavolo dell’alternativa si è di fatti diviso, litigando sul nome del candidato. Abbiamo assistito per settimane ad uno spettacolo che davvero la città non si merita. Senza che fossero mai chiariti i criteri per giungere ad una scelta tra i due candidati. O meglio, gli unici criteri di cui si è sentito parlare esplicitamente sono stati la popolarità o meno. Di contenuti e visione di città nemmeno una parola.

Due candidati eccellenti, di grande spessore e moralità, nella loro diversità, davvero civici, che dopo essere stati lusingati dai partiti, si sono visti buttare su un ring, con una tifoseria da spalti. Fino ad arrivare all’ultimo, gravissimo evento, due giorni fa, a cui abbiamo assistito con dispiacere e sgomento: l’uscita di scena di Laura Calafà.

Abbiamo avuto modo di conoscere Laura nelle settimane scorse, di apprezzare il suo entusiasmo, la sua curiosità, il suo desiderio di capire, di confrontarsi, di partecipare. Questo modo di fare è anche il nostro. Laura ha scritto una lettera durissima alle forze politiche, dichiarando la sua volontà di sottrarsi da “un campo di battaglia”. Oggi precisata da una intervista sul Carlino in cui denuncia un atteggiamento ambiguo e di fatto già schierato da tempo dei vertici del PD.

La domanda ci sorge spontanea: Di quale unità, esattamente, stiamo parlando? Di un’unità a tutti i costi? Costi quel che costi? A suon di colpi, talmente violenti che hanno portato una donna, l’unica donna che finora ci aveva messo la faccia, a togliersi da un modo di fare politica che non le appartiene, che è addirittura all’antitesi di quello in cui lei crede, che è dialogo, concretezza, sintesi, pluralismo.

Cara Laura noi non ci limitiamo a dirti “Ciao grazie, ci dispiace e buon lavoro”.

Ci sembra gravissimo quello che è accaduto. Denota un sistema non trasparente, in cui non sono chiare le reali motivazioni alla base delle azioni, in cui prevalgono delle logiche dei partiti e tra i partiti. Un sistema vecchio, che trasforma il dialogo in guerra, nei modi e nei toni.  Non è il tuo approccio e nemmeno il nostro. E non è l’approccio che migliaia di elettori ed elettrici voteranno.

Non è vero che l’unità a tutti i costi, costi quel che costi, è il solo modo di raggiungere l’obiettivo.

L’obiettivo è comune e questo è chiaro: battere l’attuale Giunta di destra, ma ci sono modi sostanzialmente diversi.

C’è una parte di persone che si riconosce in un altro modo di fare e di procedere.  Il metodo, il modo con cui si fanno le cose, è già politica.

 Cara Laura, anche noi non vogliamo nessuno e nessuna in posizione ancillare.

QUI ci sarebbe ancora bisogno di te e di persone come te.

La CHIAMATA ALL’AZIONE di oggi è proprio per individuare persone che come te amano la città e vogliono offrirle una alternativa, anche nei modi di esercitare la politica, non solo nei contenuti.

 Oggi ascolteremo i primi 13 che hanno voluto fare un passo avanti, proponendosi per un incarico piccolo o grande all’interno della campagna elettorale e nel futuro governo della città.  Altri/e si aggiungeranno nelle prossime settimane. Oggi è possibile anche segnalare la propria disponibilità per incarichi anche semplici come i volantinaggi, il parlare con altre cittadini e cittadini nei prossimi mesi.

La Lista Popolare che potrà poi avere anche un nome da trovare insieme, vuole ancora essere aperta e la CHIAMATA è per ognuno e ognuna di noi: cittadini, associazioni, gruppi informali, partiti che si riconoscono nel documento politico che andiamo a presentare ora. Nelle prossime settimane è prevista la Tappa 3, quella per l’individuazione del candidato/a sindaco/a.

Visita il sito de La Comune di Ferrara [Qui]

Don Gian Carlo Pirini: prete umile e ‘simpatico’

Don Gian Carlo Pirini: prete umile e ‘simpatico’,
Omelia di  Mons. Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

Cari confratelli, cari fratelli e sorelle, in questo tempo di attesa per l’incontro con il Dio che viene celebriamo le esequie di don Giancarlo, che ha già incontrato il Signore, si è “addormentato nell’amore”. Siamo vicini ai familiari e amici di don Giancarlo, condividendo il dolore per la perdita di un familiare e amico. La vita presbiterale di don Giancarlo è stata ricca di esperienze pastorali. Ordinato presbitero dal Mons. Natale Mosconi nel 1961, negli oltre sessant’anni della sua vita sacerdotale ha attraversato l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, sempre con una disponibilità al servizio e al cambiamento esemplare. Dopo tre anni di vicario a Bondeno (1961-1964), l’Arcivescovo Mosconi lo nominò prima parroco di Gallumara (1964-1966), poi parroco di Ruina (1966-1974). Nel 1974 Mons. Mosconi lo chiama in città a Ferrara, per iniziare un’esperienza non facile: costruire una nuova comunità e parrocchia nel quartiere Krasnodar, la parrocchia di S. Agostino. Dopo quattordici anni, l’Arcivescovo Maverna gli chiede di diventare parroco della parrocchia di S. Cassiano di Comacchio.  Il territorio dell’antica Diocesi di Comacchio da due anni faceva parte della nuova Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e le comunità vivevano ancora profondamente questo trauma che don Giancarlo ha saputo capire e accompagnare, nell’obbedienza al Papa e ai Vescovi. A Comacchio il suo ministero sarà intenso, unendo la responsabilità di Presidente del Capitolo, di parroco del Rosario e di rettore della chiesa del Carmine, del Suffragio e di S. Pietro, oltre che amministratore della parrocchia di Volania. Nel 2010, dopo ventidue anni, concluse il suo ministero di parroco, rimanendo a Comacchio prima come Penitenziere e collaboratore della parrocchia di S. Cassiano e poi dell’unità pastorale di Comacchio. Ci mettiamo in ascolto della Parola di Dio, in questo tempo di Avvento, che giorno dopo giorno ci prepara al Natale, all’incontro con il Signore, ma anche ci prepara – attraverso le parole del profeta Isaia – al banchetto finale con il Signore. Don Gian Carlo è morto in questo tempo di attesa, che chiede di guardare avanti, di prepararsi all’incontro con il Signore. E don Gian Carlo, con la sua vita di umiltà, di dedizione agli altri, di sacrificio si è preparato al banchetto finale. L’umiltà di don Gian Carlo, in questo tempo di Avvento e di preparazione al Natale, ci ricorda che solo gli umili, i poveri in spirito sono amati dal Signore e vanno incontro a Lui. Sono i pastori del Presepe, che insieme ai Magi, anche se stanchi a Natale ci ricordano che sono i poveri e non i ricchi e i prepotenti – come Erode – a incontrare il Signore. La pagina del Siracide, poi, c’invita a prepararci al Natale vivendo il comandamento dell’amore, l’amore a Dio e al prossimo. L’amore di Dio viene a noi nel Natale, a cui ci prepariamo. L’Incarnazione è il mistero dell’amore di Dio che viene a noi nel Figlio e che ci rende capaci di amare a nostra volta. “Il passaggio che Egli (Gesù)fa fare dalla Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo – ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – , la derivazione di tutta l’esistenza di fede dalla centralità di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento: fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un’unica realtà che si configura nell’incontro con l’agape di Dio. La consueta contrapposizione di culto ed etica qui semplicemente cade. Nel « culto » stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’ Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata” (D.C.E.14). Don Giancarlo ha fatto dell’Eucaristia che ogni giorno ha celebrato per sessantadue anni la fonte del suo amore a Dio, ricco di misericordia, e al prossimo. Dall’Eucaristia ricavava il suo desiderio di incontrare le persone, soprattutto le più povere, i malati, le famiglie in difficoltà con quella ‘simpatia per l’uomo’ che San Paolo VI considerava una delle consegne più importanti del Concilio Vaticano II. Per i più poveri don Giancarlo ha speso molto del suo tempo, in prima persona, francescanamente chiedendo un aiuto a tutti i fedeli, agli amici, con quella sua intelligenza arguta unita a una semplicità di cuore che colpiva le persone che incontrava. La pagina evangelica di Matteo ci parla dei profeti e di Giovanni Battista, come coloro che annunciano il Regno di Dio e preparano la sua venuta, in parole e gesti. Don Giancarlo è stato un grande predicatore e catechista, appassionato del Vangelo e della storia di Gesù appassionava coloro che lo ascoltavano, unendo alle parole una coerenza della vita di fede. Il suo linguaggio era ricco, diversificato, a seconda degli ascoltatori: semplice e amorevole per i bambini e più elaborato per le persone adulte, mai banale, ricco di esempi. Anche alla poesia don Giancarlo ha affidato la sua fede, i suoi affetti, i suoi ricordi, le sue passioni. Il suo primo libro di poesie che aveva pubblicato e che mi aveva donato è la testimonianza anche di un linguaggio originale, che nasce dal cuore e raggiunge il cuore di chi legge. La catechesi, i poveri sono stati i due grandi amori di don Giancarlo – come disse in una predica per i suoi sessant’anni di Messa – insieme a un altro amore, la montagna. Amava con gli amici salire sui monti, alle bocche del Brenta o sulle cime delle Dolomiti, da dove il suo sguardo d’amore poteva raggiungere tutti ed essere più vicino al Signore. Cari fratelli e sorelle, cari confratelli, il nostro confratello don Giancarlo ha finito di correre, di preoccuparsi e vive nella gioia dei servi buoni e fedeli. Caro don Giancarlo ricordo il giorno del mio ingresso a Comacchio e le tue parole di saluto a nome dei sacerdoti e dei parrocchiani. Nel saluto avevi detto, con la solita simpatia, che avresti pronunciato più volentieri il nome del Vescovo nel canone, perché si chiamava come te, Gian Carlo. Continua, caro don Giancarlo, a ricordarmi e continua a ricordare la nostra Chiesa, nella comunione dei santi, che ci rende sempre vicini, tutti fratelli. Così sia.

Officina Meca: l’enigma Pufuleti sbarca nella Ferrara della Destra. E l’accende.

Tra le prime file dell’Arci Officina Meca c’è tensione. Pufuleti, l’artista che si stava esibendo, è appena tornato nel backstage. “Me ne torno a casa, mi faccio una maschera e mi masturbo che godo di più”. È rimasto solo Wun Two (il produttore della musica di Pufuleti) sul palco. Pufuleti, prima di sparire dietro alle quinte, gli ha detto qualcosa in tedesco. Al che Wun Two ha interrotto il pezzo che stava suonando e ha messo un beat generico, di quelli che si mettono alla fine.

“O Ferrara futurista, avvicinatevi”, con questa invocazione Pufuleti aveva cominciato il suo concerto dieci minuti prima. Le persone, con una certa discrezione, avevano fatto un passo in avanti, poco convinti, lasciando delle vie di fuga fra loro e lui.

“Siete fatti di cocaina?”, aveva continuato il musicista, riferendosi all’impaccio che non svaniva. “Siete dritti… rigidi come dei pali. Molto di destra Ferrara”, e così dicendo aveva imitato la postura, mettendosi in posa come un soldatino.

Allora, Pufuleti sparisce oltre il sipario, lasciando gli spettatori da soli con Wun Two.

La sensazione, dicono dei ragazzi, è che conoscendo l’artista potrebbe davvero essersi arrabbiato e aver deciso di mandare all’aria l’evento. È a questo punto che il pubblico risponde all’ultimatum… Pu-fu pu-fu pu-fu! Battiamo le mani e gli chiediamo di tornare, di andare avanti.

Pufuleti allora salta fuori, ha lasciato il giubbotto nel backstage questa volta e adesso indossa solamente una felpa Usual stile anni ’90 con il cappuccio.

“Ancora un po’…”

Wun Two tocca la console, cambia musica e Pufuleti ricomincia a rappare.

Ma da dove viene questo artista che mescola più di quattro lingue nei suoi testi? Mentre elaboriamo una risposta, un uomo alto e grosso, più grande di età degli altri presenti, si fa largo, mi mette una mano sulla spalla, passa oltre, arriva sotto al palco e scambia un cenno con Pufuleti. Gli offre una canna appena accesa, ma l’artista fa segno di aspettare. “Un minuto”, sembra dire con l’indice alzato, “vediamo come si comportano adesso”.

Ci ammassiamo sotto al palco, e alla fine dei pezzi facciamo rumore. In pochi, pochissimi, però conoscono i suoi testi. C’è un fan che canta le canzoni assieme a Pufuleti. È a pochi centimetri da lui e come il suo idolo è in grado di passare, in maniera sorprendente, dall’italiano al francese, ancora; dal tedesco all’inglese, ancora… e dallo spagnolo all’arabo.

Per il resto, negli occhi della gente c’è una sincera curiosità, ma le bocche di rado si aprono per cantare dei versi.

Lasciamo Pufuleti rappare. Si esibirà per altri quaranta minuti, fin quando annuncerà che “la prossima è l’ultima, ho finito di farvi del male”, canta la traccia e prima di andarsene sentenzia: “Adesso basta, voglio il mio cachet”.

Lasciamo che porti avanti la sua esibizione, fumando una sigaretta dietro l’altra.

“Vacci piano con quelle cigarette”, gli dice qualcuno. Pufuleti non aspettava altro: “Chi sei, il mio medico? Vieni con me in Germania a farmi da medico…”

Separiamoci, dunque, dalla performance che è andata in scena sabato 9 novembre all’Arci Officina Meca di Ferrara (nel loro spazio alla base dei grattacieli di via Cavour), in occasione dell’uscita del suo ultimo album, Perle ai porci.

Aveva pubblicato altri tre album nello stesso stile: Tumbulata (etichetta: Legno), Catarsi Aiwa Maxibon (Legno/La Tempesta) e Rammbock (C.o.t.a./Legno).

Nelle prossime righe cercheremo di ricostruire quello che sappiamo di lui.

 

Notizie biografiche e altri fatti

Pufuleti non è molto conosciuto, ma i suoi appassionati hanno sviluppato una sorta di culto nei suoi confronti. La sua riservatezza, la difficoltà di reperire informazioni per rispondere alle domande che vengono da farsi dopo averlo scoperto, ne alimentano il mito. “Pufuleti è unico, ha uno stile tutto suo” sento commentare alla fine del concerto.

Nato in provincia di Agrigento nel 1989, vive in Germania dal 1993. Precisamente nello stato della Saar, melting-pot culturale, al confine con Francia e Lussemburgo e non distante dal Belgio.

In casa parlava siciliano, l’italiano lo imparava dalla televisione commerciale e il tedesco dallo slang dei suoi coetanei.

Il suo immaginario rispecchia una cultura-pop italiana assorbita via cavo. Due personalità che cita nei suoi testi sono, per esempio, Alberto Castagna e Fabrizio Frizzi. In ambito internazionale, le sue reference sono altrettanto spiazzanti. Kevin Tighe (attore americano), Albert Schmiege (pittore non vedente), Georg Trakl (poeta espressionista di inizio ‘900)…

D’altro canto, sembra non conoscere quello che diamo per scontato. Una interessante intervista radiofonica, per la sua rarità, che Radio Raheem ha registrato con lui, ha come argomento di conversazione iniziale il seguente tema: Pufuleti non conosce Guè Pequeño. “No, mi dispiace, non conosco questo Guè Pequeño”, diceva l’artista originario di Agrigento, scatenando lo stupore e insieme l’ammirazione del conduttore.

Al di là del fatto che sia vero, oppure che si trattasse di uno statement di diversità, nel corso della puntata era stato un buono spunto per finire a parlare di un altro artista hip hop, in questo caso statunitense, che con Pufuleti condivideva l’attitudine di essere molto selettivo nello scegliere chi e che cosa ascoltare.

Aveva raccontato lo speaker di Raheem che MF DOOM per trovare la propria identità artistica aveva smesso di ascoltare rap per cinque anni. Per ripulirsi da tutto quello che aveva assorbito.

È importantissimo”, era intervenuto Pufuleti. “Non ci si può nutrire di troppa roba”.

Un possibile punto di partenza per ricercare le influenze musicali di Pufuleti è andare a sbirciare nelle sue playlist di Spotify (“umi ghosts”, “february masamune” e “no goals no more cry babies”). Gli artisti che compaiono più spesso sono The Alchemist, MIKE, Pink Siifu, YUNGMORPHEUS ed Earl Sweatshirt.

Per ricostruire una mappa degli ascolti, dobbiamo ritornare al Wun Two che a inizio articolo avevamo lasciato sul palco di Officina Meca, mentre Pufuleti decideva se c’era calore a sufficienza per continuare l’esibizione.

Se trovare dettagli su Pufuleti era stato difficile, reperirne sul suo beatmaker supera le mie forze. Sappiamo che Wun Two è tedesco e che, come Pufuleti, vive in una zona della Germania circondata dalla natura e dai boschi. Durante l’intervista a Raheem, Pufuleti lo aveva descritto come uno dei suoi più cari amici. A livello artistico diceva di considerarlo di fama internazionale e che specialmente in Germania aveva influenzato profondamente la scena hip hop.

È un punto di riferimento nel settore dei beat lo-fi e, di recente, ha scritto e prodotto una canzone (“Brick by brick”) per Conway the Machine. Conway, oltre a essere uno dei favoriti di Pufuleti, è tra i fondatori della Griselda Records, uno dei fenomeni più importanti nel mondo hip-hop underground.

Pufuleti e Wun Two, sabato sera, hanno occupato il palco di Meca in modi diversi: il primo a suon di colpi e ultimatum, il secondo sorridendo ai fan dal primo momento e ringraziandoli, verso la fine, per l’accoglienza che gli avevano riservato.

Anche artisticamente i due si completano bene. “Lui è stato una svolta per me”, aveva detto Pufuleti a Vice. “Mi ha scritto per mandarmi i beat in un periodo in cui non sapevo da che cazzo di parte cominciare con me stesso, e mi sono ritrovato”.

Nel concludere questo articolo, mi accorgo che, per cercare di risolvere l’enigma Pufuleti, mi sto addentrando nel rompicapo ancora più laconico di Wun Two.

Se qualcuno volesse venirne a capo, avrebbe bisogno di doti da detective. Più facilmente, entrambi i misteri rimarranno insoluti.

In copertina e nel testo: Pufuleti in concerto a Officina Meca, Ferrara – Fotografie di Alessandro Spoto.

Per certi versi /
Il coraggio di vivere

Il coraggio di vivere

Il coraggio
Quello vero
Viene dalla
Paura
Dalla paura
Grande
Che impongono
I bivi
Eppure
La grande
Paura
Che suscita
L’interminata
Pianura
Diventa
Una montagna
Delicata
Guardando
I camosci
Sui ghiaioni
Volare
Come monsoni

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
L’asciugacapelli di Sir Alex Ferguson

Se date un’occhiata alle interviste rilasciate dagli ex giocatori del Manchester United, vi accorgerete che ciascuno di essi cita almeno una volta le temutissime sfuriate di Alex Ferguson negli spogliatoi: da Paul Ince a Rio Ferdinand, passando per Cristiano Ronaldo, ascolterete differenti versioni della stessa storia, il cui protagonista non può che essere l’ex allenatore scozzese.

Uno dei primi giocatori ad assistere a quelle sfuriate fu l’attaccante gallese Mark Hughes, il quale le descrisse con l’espressione hairdryer treatment, cioè il “trattamento dell’asciugacapelli”, all’inizio degli anni ’90. Stando alle parole dello stesso Hughes, pare che Ferguson urlasse il suo disappunto in faccia ai giocatori dopo una sconfitta o una prestazione poco convincente, nonché in seguito a dei comportamenti poco professionali. L’effetto stordente dell’hairdryer è rimasto particolarmente impresso nella memoria di Wayne Rooney, la cui autobiografia del 2012 contiene almeno un paio di riferimenti alle strigliate di Ferguson.

“When it happens, the manager stands in the middle of the room and loses it at me. He gets right up in my face and shouts. It feels like I’ve put my head in front of a BaByliss Turbo Power 2200.”

Nel caso ve lo steste chiedendo, sì, il BaBlyss Turbo Power 2200 è davvero un asciugacapelli, ed è anche uno dei più venduti nel Regno Unito. Insomma, è evidente che l’espressione coniata da Mark Hughes è entrata a far parte del gergo calcistico inglese, sostituendo tra l’altro l’originario throwing teacups, modo di dire con cui i commentatori britannici descrivevano lo sfogo di un allenatore negli spogliatoi.

Sta di fatto che l’hairdryer treatment di Alex Ferguson ha ispirato degli spot televisivi – li trovate qui e qui – e, assieme ad altre espressioni riconducibili all’ex tecnico scozzese, si è guadagnato un posto nel dizionario della HarperCollins. Se invece volete saperne di più sulle strigliate del buon vecchio Fergie, qui c’è una lista delle più conosciute.

LA GUERRA AD HAMAS
BAMBINI E TERRORISMO

La guerra ad Hamas. Bambini e terrorismo.

Un mese di bombardamenti incessanti su aree civili densamente popolate ha esacerbato la già critica salute mentale dei bambini di Gaza con terribili conseguenze. Lo afferma Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre cento anni lotta per salvare i bambini e le bambine a rischio di sofferenza e morte e garantire loro un futuro.

Nell’ultimo mese, più di 4.000 bambini sono stati uccisi a Gaza e più di 1.000 risultano dispersi, presumibilmente sepolti sotto le macerie. Altri 43 bambini sono stati uccisi nella Cisgiordania occupata e 31 in Israele, mentre secondo notizie di stampa circa 30 bambini sarebbero tenuti in ostaggio. Una situazione inaccettabile e disperata a cui nessuno sembra porre rimedio.

Di fronte a notizie drammatiche che si susseguono a raffica non si fa altro che appellarsi ai trattati internazionali e ai documenti sui diritti dei bambini che nessuno stato in guerra rispetta. Eppure, il 20 novembre 1989, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, la quale sancisce che tutti i bambini hanno diritto alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla protezione e alla partecipazione.

L’accordo formula principi validi in tutto il mondo nell’approccio all’infanzia, indipendentemente dall’estrazione sociale, culturale, etnica o religiosa. Da allora, i bambini sono considerati individui a pieno titolo, con opinioni proprie che possono essere espresse.

La comunità internazionale ha precisato punti importanti della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia con protocolli aggiuntivi, come il Protocollo facoltativo relativo alla partecipazione di fanciulli a conflitti armati, il quale stabilisce che i minori di diciotto anni non possono essere costretti a prestare servizio militare, concretizzando così quanto esplicitato riguardo al limite di età all’articolo 38 della Convenzione. A partire dai sedici anni possono arruolarsi volontariamente, ma prima dei diciotto non è consentito loro partecipare direttamente alle ostilità. Questo Protocollo aggiuntivo è entrato in vigore nel febbraio 2002.

Il secondo Protocollo facoltativo alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia concerne la vendita di fanciulli, la prostituzione infantile e la pedopornografia e vieta espressamente queste forme di sfruttamento esortando gli Stati a punirle. Questo Protocollo aggiuntivo è entrato in vigore nel gennaio 2002.

Eppure, tutti questi documenti ratificati da più di cento stati, non sembrano servire nei momenti di massima criticità. Si continua a rilevare una discrasia esagerata tra ciò che viene affermato e ciò che, di fatto, succede nelle zone di guerra. Bambini uccisi dalle bombe e sepolti sotto le macerie, famiglie distrutte, lacrime ovunque.

Proprio a questo proposito diventa rilevante il tema delle ‘Regole’ che ci diamo, che un gruppo di persone si dà. Ma cosa sono le regole e a cosa servono?  Una regola è il modo ordinato e costante in cui una serie di cose si svolge; si può osservare in alcune situazioni in natura o anche nel comportamento umano.  Di conseguenza, si chiama regola anche l’esposizione chiara e precisa di questo modo di svolgersi, che diventa una norma da seguire, cioè indica ciò che deve essere fatto in determinate situazioni. [Treccani]

Le regole sono gli elementi costitutivi delle istituzioni e queste ultime sono gli strumenti che utilizziamo per organizzare e coordinare i comportamenti sociali, in modo che questi possano concorrere nel modo più efficace al benessere collettivo.

Secondo i teorici dei giochi (si veda ad esempio Jean Tirole) le regole sono situazioni nelle quali, dopo che ognuno ha fatto la sua scelta e dopo aver osservato le scelte di tutti gli altri, decide che la sua scelta è la migliore possibile. Si chiamano ‘equilibri‘ proprio perché in questi casi nessuno ha interesse a cambiare idea, a mettere in discussione il proprio comportamento, dato quello di tutti gli altri.

Un’istituzione efficace non è altro, dunque, che un insieme di regole che le persone sono motivate a seguire. Non ci sono, nelle arene sociali solo questi giochi “puri”, dove gli equilibri sono equivalenti; ci sono anche altri casi che prevedono la possibilità di assetti istituzionali differenti, alcuni migliori e altri peggiori. Questi sono i cosiddetti giochi “impuri”.

Secondo i teorici dei giochi:

sottolineare l’onestà dei tanti piuttosto che la disonestà dei pochi rende le regole ancora più normative, ne aumenta l’efficacia prescrittiva e, infine, la capacità di persuasione.

– Un ulteriore passo è quello di rendere le sanzioni certe, perché automatiche. Per esempio, facendole auto-imporre direttamente dal trasgressore. Fare in modo che si passi da un senso di auto-giustificazione al senso di colpa, dopo aver trasgredito la norma, è un modo perché la sanzione diventi automatica e certa.

– Altro passaggio è l’eliminazione del confine mio-nostro. Nel momento in cui la sfera pubblica viene percepita come costitutivamente separata da quella individuale – ciò che è comune non è di nessuno – allora la molla dell’interesse individuale non si applica e con essa si perde una sorgente motivazionale potente.

Tutto questo è fallito, nelle zone di guerra, dove si ammazzano bambini senza pietà non esiste nessuna norma che garantisca l’equilibrio. L’idea di un equilibrio “puro” o “impuro” ma comunque equilibrio, è miseramente naufragata e nessuno, aldilà delle dichiarazioni ufficiali, persegue più alcun bene. Non esiste sul campo alcun tentativo etico di trovare una via d’uscita, non esiste più per molti motivi:

  • Chi ammazza ha ricevuto l’ordine di ammazzare. Se non lo fa, viene ammazzato lui.
  • I centri decisionali sono gerarchici e l’inizio della gerarchia ha una forte componente politica. Se il vertice politico ha delle ambizioni espansionistiche la situazione diventa drammatica.
  • Una componente che acuisce la follia di chi è disposto ad uccidere è quella religiosa. Se si crede che morire combattendo in guerra apra le porte del paradiso e della gioia eterna, si muore diversamente.
  • Una ulteriore componente che aumenta l’aggressività e la tendenza a uccidere è la vendetta personale. “Non vi uccido perché mi è stato ordinato, ma perché voi (identificati come nemici) avete sterminato la mia famiglia”.
  • Il passaggio dall’uccisione come rispetto di un ordine, all’uccisione come vendetta personale sancisce un ingaggio che diventa la molla per trasgredire a qualsiasi trattato sulla guerra e convenzione internazionale. L’uccisione è all’apice di tutti gli scopi che restano a una persona.
  • Quando la vendetta personale riguarda molti uomini non si può più parlare di guerra ma di terrorismo.

Terrorismo è uno di quei termini che tutti sembrano pronti ad utilizzare, senza riuscire a trovarne una definizione esatta. Esistono molte definizioni di terrorismo, nessuna accettata ufficialmente. La mancanza di accordo sul significato del termine ha conseguenze importanti.

Le Nazioni Unite non sono state in grado di adottare una convenzione contro il terrorismo, nonostante aver cercato per sessant’anni di farlo, questo perché gli Stati membri non riescono a trovare un accordo su come definire il termine. Detto ciò, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tende ad utilizzare La seguente definizione:

Il terrorismo è un insieme di atti criminali che hanno l’intenzione o sono progettati per provocare uno stato di terrore nel pubblico generale, in un gruppo di persone o in alcuni individui in particolare, per scopi politici che sono ingiustificabili in qualsiasi circostanza, a prescindere da qualsiasi considerazione possa essere invocata per giustificarli, sia di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa o di qualunque altra natura” (si veda: https://www.coe.int/it/web/compass/war-and-terrorism)

Ad Hamas le regole della guerra non c’entrano più, i trattati internazionali sono carta per il macero, vige un odio imperante, dove si uccide per vendetta e per salvare sé stessi e la propria famiglia. In una situazione così i bambini, le donne e gli anziani sono le prime vittime di questo orrore senza fine, che si fermerà quando nessuno avrà più nessuno da difendere.

Per leggere gli altri articoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Presto di mattina /
Luci d’avvento

Presto di mattina. Luci d’avvento

Luci d’Avvento

Le luci d’Avvento, come voci silenti, ci chiamano a riscoprire e riappropriarci del carattere di luce proprio della fede. In lumine fidei è il cammino di coloro che, sentendo una luce che li chiama dentro alla notte, rischiano la partenza, decidendo nel cuore di dirigersi verso di essa. Sono coloro che, passando per la valle del pianto, accendono lumi nell’oscurità.

«È notte. Sul lago Kivu vedo le luci delle lanterne delle piroghe mentre ascolto le nenie ritmate dei pescatori alternate a momenti di silenzio – così scriveva p. Silvio Turazzi nel 2018, ricordando le tante luci del martoriato popolo congolese -. Penso alle tante luci che ho visto risplendere sul volto di uomini e donne, riflessi di quella luce, Dio, che illumina la vita, oggi e sempre.

“Luci”, legate a varie persone incontrate al Centro per Handicappati, alla prigione, nelle comunità parrocchiali della Diocesi di Goma, al popolo di Dio, che è in Congo. “Ti rendo lode o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25-26).

È giorno. Guardo il lago. Vedo il riflesso della luce del sole, come un mare di gocce di rugiada. Sembrano stelle sulle acque del lago. Così l’uomo, come un punto di vita aperto all’universo. Ogni uomo e donna è chiamato a scoprire il valore dell’“io”. Nessuno è “nulla” ma un punto di vita aperto all’universo. La luce di Dio penetra ciascuno di noi e ogni cosa» (Luci, Fraternità missionaria. Missionari Saveriani, Vicomero di Torrile [Pr] 1918, 5; 9).

«È qui dove vivendo si produce ombra, mistero
per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta
ne getta il seme alle sue spalle, è qui
non altrove che deve farsi luce»
(Mario Luzi, Tutte le poesie, 222).

E sarà la luce, portatrice di colori, che ci disegnerà i passi e mostrerà sentieri, verso l’orizzonte, vado dopo vado.

“Arrischiate luci d’Avvento! Fateci luce!”, al modo delle stelle a rincuorare le notti; o come il lume della fede a rincuorare il cuore, fate luce al modo della preghiera, che fa scintillare anche le lacrime più nascoste.

Luce intermittente

Come parola e silenzio, oscurità e chiarore. Sappiamo bene infatti che Cristo non è venuto al mondo semplicemente come luce, ma come luce nell’oscurità fin nel suo sprofondo (Gv 1,5). È la luce di Cristo che ci disegna i passi, ci apre la via: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”.

E scrive María Zambrano: «Non c’è niente come la luce, per trasformare il modo in cui appare un luogo, e persino il volto delle persone. La luce, una volta entrata attraverso gli occhi, penetra fin nei centri più intimi dell’organismo, fino a quelle che nel linguaggio comune si chiamano viscere. Nella luce, inoltre, si bagna la pelle e il pensiero. La luce, prima che vista, è sentita; è secondo la luce che il cosiddetto cuore vibra, si addormenta, si placa, si accende o si scoraggia» (M. Zambrano, Dire luce, Rizzoli, Milano 2013, 197).

E poi illumina l’Avvento il suo triplice “Sí”.

Sai chi mi disegna i passi?
Chi mi detta di partire di tornare di sostare?
Chi mi dice «lascia»?
Chi mi dice «prendi»?
Una luce pulsante
la sua vita è la sua intermittenza
la mia è manovrata dalle sue oscillazioni
la tenuità di un segno a matita
sempre provvisorio perché non mi sopravviva.
Seguo l’evidenza della luce che non vedo
ma sulla pelle avverto: sí, sí, sí.
(Chandra Candiani, Pane del bosco 2020-2023, Einaudi, Torino 2023, 16).

Viene la luce

La luce che accende le luci d’Avvento somiglia a quella del solstizio d’inverno, invisibile agli occhi che scrutano invano l’oscurità. Essa assomiglia anche alla luce di Gesù nel seno materno, o in fasce nella grotta della sua natività, o nella vita nascosta per trent’anni a Nazaret.

Simile pure a quella luce ancora più segreta e imprigionata nel legno della sua e di ogni croce; sentinella in ogni notte e in gemito d’uomini, di popoli, di creature, levatrice nelle doglie dell’intera creazione. E tuttavia è luce visibile che avanza attraverso la sua ombra, è l’invisibile luce riflessa, rifrangente, cangiante in ogni cosa illuminata. Un passo, un altro passo, un giorno dopo l’altro, perché è luce che non teme l’oscurità immobile del sepolcro.

«Nessuna tenebra, per quanto fitta, fa disperare che una qualche luce, o qualcosa della luce, possa penetrare in essa. Qualcosa della luce. Ma c’è forse qualcosa nella luce che non sia essa stessa luce, qualcosa che non si risolva in luce? Non è forse la luce una attualizzazione già completa del proprio essere? Per questo simbolizza la riuscita, il compimento, e verso il compimento, come una calamita, attrae ogni essere che si dibatte tra l’imperativo di essere e la dissoluzione costante, tra l’oblio in cui giace e il mutismo che risponde al suo appello» (M. Zambrano, Dell’Aurora, Marietti, Genova 2000, 58).

Sí, sí, sí, luce nel buio, ma non spenta; luce in lotta, ma mai sopraffatta; impoverita ma non derubata, da nessuno espropriata della forza della speranza. Scintilla nell’opacità, luminoso spirito nella carne di ogni corpo, santa materia immateriale di ogni essere creato: «Allora la luce è l’unica calamita. Sì, quando Dio non risponde, quando nessuno appare, la luce sola è la presenza, essere che quietamente e senza negarsi, senza disperdersi, si diffonde, o almeno illumina. Dono celeste. Comunque celeste, da ovunque provenga» (ivi).

È una luce che ha questo di bello: «di giungere sull’essere umano come se scendesse a fargli visita, o gli venisse inviata. Ed è impossibile vedere una luce, o vedere in una certa luce, senza mettersi a cercare la sua fonte, e dire fonte è dire centro, unità. Così com’è impossibile non attendersi dalla luce una speciale vibrazione, una specie di canto» (Dire luce, 197).

L’inno giovanneo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,4;9). Avvento è ricerca della luce che viene ancora, che viene sempre: “Avvento fammi luce”.

La luce che muove le altre luci

La luce che muove il giorno rischiarando la notte e fa brillare le altre luci ha un nome: Amore: «E la passione centrale della vita è l’amore, il grande fiume che tutte le raccoglie per condurle fino alla morte a cui aspirano. Solo l’amore è capace di addentrarsi nella morte, le altre passioni o sono cieche, o vedono di traverso; o si trattengono, calamitate, o si precipitano. Solo l’amore arriva a possedere una visione; solo l’amore è capace di prendere le distanze da tutto; solo lui può combattere, vincendole, con la speranza e la disperazione. L’amore anticipa la morte e fa morire di mille morti la vita di chi lo vive, facendole così conquistare, con la sua obbedienza, la libertà» (Dire luce, 197).

È allora solo nell’attenzione di amore che si scopre, celata sotto la pelle, la presenza della luce nostra e degli altri e il suo irradiarsi attraverso di essa. Un midrash che commenta l’episodio in cui Dio riveste i progenitori di un vestito di pelle all’uscita da Eden, rilevando la stretta corrispondenza delle parole “pelle” e “luce“, che in ebraico hanno un suono e grafia simili: “’Or”; “Ohr”, ricorda che l’uomo è stato creato con un vestito di luce, luminoso a immagine e somiglianza della luce inaccessibile e che nemmeno l’iniziale rifiuto di una relazione di amicizia con Dio ha potuto privarlo di quella luce, ma essa è stata solo nascosta, rivestita di pelle nell’attesa che possa di nuovo uscir fuori. La pelle rappresenta l’opacità del nostro corpo, ma anche l’oscurità del male che viene compiuto, che imprigiona la luce e le impedisce di uscir fuori.

Luce come attenzione di amore

Ma l’attenzione di amore – direbbe ancora la Zambrano – genera “un campo di chiarezza e di illuminazione” che porta alla luce del giorno e libera dalla cecità nostra e altrui. Significativo l’episodio narrato da Giovanni al capitolo 9 della guarigione del cieco nato, in cui egli guarirà anche la cecità dei discepoli, convinti che esista una stretta relazione tra le malattie e le colpe commesse:

«Camminando, Gesù passò accanto a un uomo che era cieco fin dalla nascita. I discepoli chiesero a Gesù: – Maestro, se quest’uomo è nato cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori? Gesù rispose: – Non ne hanno colpa né lui né i suoi genitori, ma è così perché in lui si possano manifestare le opere di Dio. Finché è giorno, io devo fare le opere del Padre che mi ha mandato. Poi verrà la notte, e allora nessuno può agire più. Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo. Così disse Gesù, poi sputò in terra, fece un po’ di fango e lo mise sugli occhi del cieco. Poi gli disse: – Va’ a lavarti alla piscina di Siloe. Quello andò, si lavò e tornò indietro che ci vedeva» (9, 1-7).

L’attenzione d’amore traluce ad ogni suo sguardo: «è una tensione, uno sforzo e, com’è naturale, una fonte, forse la più grande, di stanchezza. Come campo di chiarezza, è prodotta dall’interesse che la persona prova per questo o quell’aspetto dell’inesauribile, immenso, illimitato campo della realtà. L’attenzione è come la luce che promana da un’intima combustione. La vita è, soprattutto, e dall’inizio alla fine, un’ininterrotta combustione. E, almeno nell’essere umano, questa combustione si trasforma in chiarezza e luminosità…

L’attenzione deve fare una specie di pulizia della mente e dell’animo. Deve vedersela con l’immaginazione; con l’immaginazione e con il sapere. Deve condurre il soggetto al limite dell’ignoranza, per non dire dell’innocenza. Non basta, dunque, concentrarsi, come si è soliti credere, perché l’attenzione, con la sua invisibile chiarezza, si produca.

L’attenzione ha da essere come un vetro perfettamente pulito che cessa di essere visibile per lasciar passare, nella sua diafanità, ciò che sta dall’altra parte. Se, quando ci occupiamo intensamente di qualcosa, lo facciamo proiettandovi sopra i nostri saperi e i nostri giudizi, le nostre immagini, si formerà una specie di spessa cappa che non permetterà a quella realtà di manifestarsi» (ivi, 186-187).

In lumine fidei

L’Avvento è il tempo per imparare a credere alla luce, non solo a dispetto delle tenebre, ma proprio in mezzo ad esse. L’attenzione d’amore è luce che guarisce dalla cecità, spogliando il cuore di sé e illuminando la lontananza che separa dalla brina luccicate sui tetti, il volto ancora nascosto del mondo avvenire.

L’attenzione di amore è pure quella scrittura che tocca la luce, risvegliando dentro la pagina bianca l’avvento di parole nuove; essa è come l’acqua prigioniera del gelo che diventa un giardino di fiori, il giardino segreto, dimora ospitale che trattiene le parole: esse stesse le luci d’Avvento. Il pensiero dell’Avvento, così la sua scrittura, è come il ghiaccio che vigila la luce lasciandosi attraversare come un corpo incorporeo e diafano dall’attesa di Colui che viene portando luce.

Guarisco spogliando il cuore
e seguendo in nudità le acque rotte,
sotto la luce il cielo è ripido.
La brina luccicante sul tetto
mi segnala quanto lontana io sia,
a filare un nuovo mondo.

Le dita che scrivono
sulla pagina toccano la luce.
Risvegliami.

Il ruscello ha fabbricato fiori di ghiaccio
piume lame di gelo figure
che ospitano il chiarore lunatico del cielo
pagina bianca dell’inverno.
È acceso il ghiaccio è ardente
l’acqua sogna dentro la sua fermezza
che conserva luce. Ti penso
penso al coraggio di restare in vita
nonostante. Penso ai giorni scortecciati
nell’improvvisazione di un fiato alla volta.
Ti penso come il ghiaccio vigila luce.
(Candiani, Pane del bosco; 50; 53; 75).

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DI MALE IN PEGGIO:
al Sud in abbandono mancavano solo le “gabbie salariali”

DI MALE IN PEGGIO: al Sud in abbandono mancavano solo le “gabbie salariali”

 Sfogliando le pagine dell’ultimo Rapporto SVIMEZ si legge di un Mezzogiorno in via di disfacimento. Il Sud continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati: dal 2002 al 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti. Le migrazioni verso il Centro-Nord hanno interessato soprattutto i più giovani: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati. Al 2080 si stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (–13 milioni). Nel 2080 il Mezzogiorno diventerà quindi l’area più vecchia del Paese, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro.

Ma il Sud è a corto anche di occupazione, soprattutto femminile: le regioni meridionali presentano il tasso più basso di occupazione femminile in confronto all’Europa (media UE 72,5): Campania (31%), Puglia (32%) e Sicilia (31%). Una situazione che sconta soprattutto la carenza di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, specialmente nella prima infanzia: una donna single nel Mezzogiorno ha un tasso di occupazione del 52,3%, nel caso di donna con figli di età compresa tra i 6 e i 17 anni scende al 41,5% per poi crollare al 37,8% per le madri con figli fino a 5 anni (65,1% al Centro-Nord), la metà rispetto ai padri (82,1%). Il Sud affronta gravi ritardi nell’offerta di servizi per la prima infanzia, evidenziati dai dati sui posti nido autorizzati per 100 bambini tra 0-2 anni nel 2020: Campania (6,5), Sicilia (8,2), Calabria (9) e Molise (9,3). Queste sono le regioni meridionali più distanti dall’obiettivo del LEP dei posti autorizzati da raggiungere entro il 2027 (33%).

La SVIMEZ evidenzia anche le criticità infrastrutturali italiane, con sottodotazione al Sud e saturazione al Nord. La rete ferroviaria del Sud presenta un notevole ritardo, con solo 181 km di alta velocità (12,3% del totale) concentrati in Campania. Il divario nell’elettrificazione ferroviaria è significativo, con il 58,2% al Sud e l’80% al Centro-Nord. La rete stradale meridionale è inferiore, con 1,87 km di autostrada per 100 km2 rispetto ai 3,29 al Nord e 2,23 al Centro.

E a peggiorare una situazione che al Sud è già alquanto compromessa ci pensa anche il cambiamento climatico che colpisce diversamente le regioni, con la Sicilia a maggior rischio desertificazione (70% del territorio minacciato da insufficienza idrica), seguita da Molise (58%), Puglia (57%) e Basilicata (55%). Le temperature più elevate hanno effetti economici differenziati tra Nord e Sud, con le regioni settentrionali che potrebbero vedere un aumento del PIL (+0/2%) e il Sud una significativa riduzione (-1/3%), con picchi superiori al -4% in Campania e Sicilia.

Per quanto riguarda lo sfascio del Servizio Sanitario Nazionale, fortemente malato su tutto il territorio nazionale ma quasi in fin di vita nel sud d’Italia, ci pensa l’AGENAS, con il suo recente report di analisi sulle principali dinamiche della mobilità sanitaria interregionale nel nostro Paese, a certificare il “deserto sanitario nel Mezzogiorno”. L’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali ha certificato che le principali regioni attrattive sono in ordine Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, mentre quelle di fuga sono Campania, Calabria e Sicilia. Il flusso migratorio è quindi tendenzialmente diretto da Sud a Nord, con la Campania che perde per la mobilità della specialistica ambulatoriale 42.104.975 di € e la Lombardia che guadagna invece 102.817.509 di €.

A proposito poi del profondo gap di istruzione e occupazione tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord, L’ISTAT ha certificato che la popolazione (25-64 anni) residente nel Mezzogiorno è meno istruita rispetto a quella del Centro-nord: il 38,1% ha il diploma di scuola secondaria superiore e solo il 16,8% ha raggiunto un titolo terziario; nel Nord e nel Centro circa il 45% è diplomato e più di uno su cinque è laureato (21,2% e 24,3% rispettivamente). Il divario territoriale nei livelli di istruzione riguarda uomini e donne, sebbene sia più marcato per la componente femminile. Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è molto più basso che nel resto del Paese e quello di disoccupazione molto più alto anche tra chi ha un titolo di studio elevato: il tasso di occupazione dei laureati è pari al 75,1% (12,6 punti inferiore a quello del Nord) e quello di disoccupazione al 6,7% (superiore di quattro punti). E anche il divario rispetto all’abbandono scolastico è rimarchevole: nel 2022, l’abbandono degli studi prima del completamento del percorso di istruzione e formazione secondario superiore, riguarda il 15,1% dei 18-24enni nel Mezzogiorno, il 9,9% al Nord e il 8,2% nel Centro. Così come la quota di NEET (chi non lavora e non studia): nel Mezzogiorno la quota di NEET è più alta (27,9% contro 13,5% nel Nord e 15,3% e nel Centro).

Infine, la Caritas nel suo Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia  2023, nel sottolineare che i poveri assoluti nel 2022 salgono da 5 milioni 317 mila a 5 milioni 674 mila (+ 357mila unità), ovvero 2 milioni 187mila famiglie in povertà assoluta, a fronte dei 2 milioni 22mila famiglie del 2021 (+165mila nuclei), evidenzia ancora una volta lo svantaggio crescente del Mezzogiorno.

Al capezzale di questo Mezzogiorno, che tutti i dati mostrano in stato comatoso, le destre al governo guidate dalla Meloni, anziché recuperare la dimensione nazionale delle politiche, come ammonisce  la SVIMEZ, con interventi commisurati ai fabbisogni delle regioni caratterizzate da più ampi gap infrastrutturali economici e sociali da colmare, con l’obiettivo del riequilibrio territoriale che, al di là delle politiche aggiuntive, dovrebbe coinvolgere l’intervento pubblico ordinario per imprese e famiglie, propongono la terapia dell’autonomia differenziata del ministro Calderoli, che dividerà definitivamente il Paese (a vantaggio delle regioni ricche) e le “gabbie salariali” per dividere anche i lavoratori. Con l’ordine del giorno, sempre della Lega, firmato da Andrea Giaccone, si propone infatti di introdurre una quota variabile di stipendio pubblico, in particolare per quello degli insegnanti, da calcolare in base al “luogo di attività”. Si punta insomma a differenziare le retribuzioni in base al costo della vita e al potere d’acquisto della regione in cui si lavora, creando così un divario tra stipendi al Nord e al Sud.

E così ad un Sud già discriminato per i livelli disoccupazione, per i servizi di welfare, per le infrastrutture e le reti, per la deindustrializzazione, per l’informatizzazione, per la formazione e ora anche per le “gabbie salariali”, non resta che rassegnarsi al destino che le destre gli hanno assegnato: il totale e definitivo disfacimento.

Lettera a Laura e ai politici maschi chiusi dentro a un vecchio guardaroba

Lettera a Laura e ai politici maschi chiusi dentro a un vecchio guardaroba

Scrivo queste righe di getto e a titolo personale (e non in qualità di portavoce de La Comune di Ferrara) dopo aver letto una, due, tre volte la lettera di Laura Calafà [Lettera 14 dicembre 2023 Laura Calafà] per annunciare al Tavolo dell’Alternativa la sua scelta esplicita: “…di sottrarmi ad ogni discussione – reale o fittizia – sulle candidature a sindaco o sindaca”.

Un passaggio in particolare mi prende allo stomaco. Lo riconosco in tutta la sua profondità, la rabbia mescolata al senso di indignazione mi crea una sensazione fisica di malessere, di nausea. Scrive Laura: “Vi scrivo per confermare – direttamente e personalmente – che non sono disponibile a far parte di nessun ticket per l’elezione a sindaco. Evito la declinazione al femminile che oggi appare solo un formalismo ipocrita nella discussione in corso. Un ticket pensato con la donna come ancella…“.

Anche io eviterò la declinazione al femminile. Mi pare che qui ci sia il cuore della questione, quella che permea l’attuale sistema politico, con le sue regole novecentesche, i suoi teatrini, i suoi giochi che assomigliano di più ad un toto scommesse che ad un serio metodo politico, basato sui contenuti e su un reale desiderio di unità e di cambiamento della città. Di quale unità stiamo parlando, se dal giorno dopo la chiusura di un proto programma congiunto, il Tavolo in questione ha iniziato a litigare sul nome del candidato? Candidati eccellenti, di grande spessore, nella loro diversità, davvero civici, che dopo essere stati lusingati dai partiti, si sono visti buttare su un ring.

A loro non è stato richiesto nessun contributo alla stesura del programma (quello era già chiuso nelle sue declinazioni di massima), nessuna discussione in merito alle competenze legate al governo della città, alla capacità di creare e coordinare una squadra all’altezza delle grandi sfide della nostra epoca, al di là di destra e sinistra. Ed evidentemente non è stato accolto nemmeno il tentativo lanciato proprio da Laura pochi giorni fa, di parlarne insieme, candidati e tavolo, per trovare una soluzione.

Il basso livello dello scambio politico a cui abbiamo assistito, sgomenti, leggendo i giornali e dialogando con alcuni rappresentanti dei partiti, è stato tipicamente maschile, patriarcale si potrebbe affermare se di questi tempi il termine non fosse troppo abusato. “Chi ha più probabilità di battere il favorito Alan Fabbri?” Chi ha più palle, chi riesce a tenergli testa, chi alza la voce, chi ha più visibilità e forza. Purtroppo anche tanti amici e amiche mi hanno fatto lo stesso discorso, sottovoce: “Per battere la destra ci vogliono gli attributi”.

Ed è questo, di fatto, il metodo che ha portato due parti della coalizione di centro sinistra a battagliare per settimane sui giornali.
I criteri in campo per decidere il candidato? Un passaggio dal nazionale per verificare le linee dei partiti, la richiesta di sondaggi e primarie… Non una parola sui contenuti, e alla faccia dell’apertura alla società civile e ai cittadini e alle cittadine di questa città nella scrittura del programma.

Fin dalla sua costituzione, La Comune di Ferrara, ha lanciato una chiamata aperta a tutte le forze di opposizione: “Partiamo dal basso, andiamo tra la gente, chiamiamo la società civile, capiamo quali sono le persone migliori che abbiamo sul campo per proporre un credibile e concreto programma. E, alla fine, decidiamo, con un metodo partecipativo veramente, quale è la persona più adatta ad esercitare questa delicata e onerosa responsabilità di primo cittadino, al servizio della città.”
Tanti complimenti sul metodo de La Comune: franco, semplice, quasi ingenuo nella sua linearità. “Ma la politica è altro”, ci viene detto.
Nei fatti, nessuno (nemmeno i candidati a onor del vero) ha abbracciato con coraggio il metodo nuovo. I giochi hanno continuato a farsi nei corridoi e sugli spalti.

Apprezzo Laura che si è sottratta da questo meccanismo che odora di vecchio, come quando apri gli armadi nelle vecchie case disabitate e senti l’odore di naftalina mischiato alla polvere.
Un programma, per quanto interessante nei contenuti, se non viene accompagnato da un autentico desiderio di innovare i metodi di questa politica, non risulterà mai convincente.
Noi, ingenui come Heidi, continueremo a richiamare alla serietà e all’urgenza di innovare la politica. Ma questo esige un po’ di coraggio e di ingenuità, e il desiderio di volare alto e di assumere anche qualche rischio.
Se non ora quando?

Storie in pellicola /
Si chiude alla Casa del Cinema il Roma Film Corto, i vincitori

Il 9 dicembre, si è conclusa a Roma, alla Casa del Cinema, la maratona di cinque giorni dedicata ai cortometraggi. Ecco i vincitori del Roma Film Corto, quest’anno gemellato con il Festival de Cine di Alicante

Molti i cortometraggi in gara, grande qualità e presenza di molti registi, in questo XV International Fest Roma Film Corto, diretto da Roberto Petrocchi e tenutosi presso la Biblioteca Flaminia, la Biblioteca Europea, il Cinema Caravaggio e la Casa del Cinema, sala Cinecittà. Vi presentiamo i prestigiosi vincitori.

“Colorcarne”, di Alberto Marchiori vince il ‘Colosseo d’Oro per il Miglior Cortometraggio’ e il ‘Colosseo d’Argento per la Miglior Interpretazione’ a Coco Rebecca Edogamhe.

Orlanda vuole regalare alla sua nipotina un paio di scarpette per il saggio di danza. Ma trovarle del colore giusto non è davvero un’impresa facile. Nulla è “fuori dall’ordinario”, in questa storia. Sono momenti di normale vita quotidiana, a partire dalla prima inquadratura dove la protagonista Elodie si trova nella cameretta della nipote, Orlanda, accanto a lei una valigia aperta e ricolma. Da qui inizia il gioco di riflessi che il regista usa per raccontare di Orlanda: infatti, quando nella stanza entra la piccola Elodie, l’inquadratura non permette di scorgere il suo riflesso allo specchio, ma solo l’ampio sorriso che Orlanda le rivolge. Orlanda ed Elodie sono, sostanzialmente, una il riflesso dell’altra, anche fisicamente sono simili: voluminosi capelli afro, corporatura esile e slanciata. A legarle anche il suono: quando si abbracciano, sentiamo il battito di un unico cuore.

‘Colosseo d’Argento per la Miglior Interpretazione’ a Coco Rebecca Edogamhe.

Poiché la protagonista vede nella nipote il suo riflesso, la missione di trovare le scarpette del colorcarne si avvale di una motivazione ancor più potente: prima di non voler deludere Elodie, Orlanda non vuole scendere a compromessi con sé stessa. Sulla porta del negozio di danza da cui è appena uscita, sconfitta, vede su un poster il viso di una modella bianca e poi la sua immagine sul vetro della porta. Quanta importanza al colorcarne, la loro carne, delle scarpette! Nella lotta contro un sistema in cui Orlanda non si sente riconosciuta, sta combattendo davvero per la nipotina o per sé stessa?

‘Premio Ettore Scola, per la sezione Award Winning’ a “Omayma”, di Fabio Schifilliti

La storia di Omayma Benghaloum, la mediatrice culturale tunisina, mamma di quattro figlie, brutalmente uccisa dal marito Faouzi Dridi nel settembre 2015 a Messina, una pellicola girata nella Città dello Stretto, tra il lago di Ganzirri e la zona del porto, e nella suggestiva medina di Mazara del Vallo. Il corto riaccende i riflettori su un femminicidio che sconvolse Messina e racconta la vita della trentaquattrenne Omayma che vive con l’autoritario marito un’esistenza diversa da quella sognata dopo il trasferimento in Sicilia. Grazie al ricordo del suo passato felice in Tunisia, cerca insieme alla figlia la forza per andare avanti e il coraggio di non perdere la sua libertà.

Il regista presenta così il suo ultimo lavoro: “Sono sempre stato attratto da storie che riguardano il turbinio dell’animo umano e quella di Omayma merita assolutamente di essere raccontata per la forza di una grande donna che ha fatto enormi sacrifici per migliorare la vita sua e delle sue figlie, nonostante le continue vessazioni psicologiche e fisiche da parte del marito che l’hanno poi portata alla morte. La sua vicenda non è solo un fatto gravissimo, ma la descrizione di un problema endemico della nostra società”.

‘Colosseo d’Argento per la Miglior Sceneggiatura’ a “Ughetto Forno”, di Fabio Vasco

Un gruppo di bambini del quartiere Africano si ritrova per festeggiare la promozione a fine anno scolastico. Il richiamo è il nuovo pallone della Champions League, regalo fatto a Lorenzo, il più carismatico tra i ragazzini. Ed è fra un tiro e l’altro che il pallone finisce oltre una cancellata, vicino a un murales. Per recuperarlo, Lorenzo e i suoi amici chiedono l’aiuto di Marcello, vecchietto che conoscono tutti nel quartiere. Sarà lui a far emergere la storia che c’è dietro quel murales.

Il bambino raffigurato è Ugo (Ughetto) Forno, eroe partigiano, morto per la patria il 5 giugno 1944. Tentando di scavalcare la cancellata Lorenzo cade e sbatte la testa e si ritrova in quel 5 giugno di tanti anni prima, fra fumo e spari come se fosse proprio lui Ughetto. Un piccolo partigiano che fu, a soli 12 anni, l’ultima vittima della Resistenza romana (insieme al compagno Francesco Guidi) – l’eroe che è riuscito a proteggere il ponte dell’Aniene dall’attacco dei tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, sacrificando la sua stessa vita per la libertà del nostro Paese – e per questo fu decorato con la medaglia d’oro postuma al merito civile.

Ora tocca a Lorenzo essere coraggioso e spronare i compagni, anche loro catapultati in quella realtà, a salvare il ponte e mettere in fuga i tedeschi. La partita di pallone si è trasformata in una partita molto più importante. Un filo che lega questa storia del passato con quella dei suoi coetanei di oggi, come un passaggio di consegne da una generazione a un’altra. Menzione speciale nella sezione Corti d’Argento, ai Nastri d’Argento 2023, “per il valore della memoria”.

‘Premio Cinema Solidale’ a “Nel cognome che ho scelto”, di Lorenzo Sepalone

È la storia del venticinquenne foggiano Alfredo Traiano, figlio di Giovanna Traiano, vittima di femminicidio nel 2003, e nipote di Francesco, morto nel 2020, dopo 23 giorni di agonia, per le gravi ferite riportate durante una rapina avvenuta all’interno del suo bar.

In 15 minuti la pellicola mostra una storia di dolore e di riscatto evidenziando la straordinaria forza di un ragazzo che non ha mai smesso di lottare e che giorno dopo giorno continua la sua battaglia contro ogni forma di violenza.

Alfredo aveva quattro anni quando, il 21 febbraio 2003, la mamma, appena venticinquenne, fu uccisa dal marito, dal quale voleva separarsi, con un colpo di pistola sparato alle spalle nella Chiesa della Beata Vergine di Foggia. Cresciuto con i nonni materni (“i miei supereroi” li ha sempre chiamati), ha deciso di cambiare il cognome con quello materno. Oggi studia Giurisprudenza.

Non dovevi farlo, ora ti ammazzo come ti vedo”. Non scherzo, ti scarico il caricatore in bocca”. Questi i messaggi scritti con la penna rossa ritrovati tra i fogli dell’agendina che Giovanna portava con sé gli ultimi giorni della sua vita. L’assassino fu condannato a 18 anni di carcere. Alfredo trovò nello zio Francesco, fratello della madre, un amico con cui crescere. Il minorenne accusato di aver ferito il barista durante la rapina avvenuta all’interno del bar-tabaccheria ‘Gocce di Caffé’ di via Guido Dorso, è stato poi condannato a 16 anni di carcere.

‘Premio Cinema Solidale’ a Lorenzo Sepalone

Il documentario è stato prodotto da Sguardi Liberi per il progetto ‘Motore Ciak Azione’, organizzato dalla scuola media Giovanni Bovio di Foggia, in rete con la sede di Manfredonia dell’istituto Michele Lecce, vincitore del bando ‘Cinema e Immagini per la Scuola’ promosso dal Ministero della Cultura e da quello dell’Istruzione e del Merito. Il progetto coordinato artisticamente da Sepalone, promuove l’alfabetizzazione al linguaggio cinematografico consentendo agli studenti di acquisire competenze nel cinema attraverso lezioni teoriche ed esperienze pratiche.

‘Premio del pubblico’ a “La verità”, di Miranda Angeli

Rachele è una donna indipendente e femminista che si trova ad affrontare un lutto tremendo: suo figlio Filippo è stato ucciso da Giulia, una compagna di università. In tribunale però la ragazza sta avendo la meglio. Quando il giorno prima di tornare in aula Rachele incontra Giulia fuori da un supermercato, la donna coglie la palla al balzo e convince la ragazza a parlare con lei, nel tentativo di strapparle una confessione che ribalti la sentenza. Rachele scoprirà che la verità è molto più complessa di quello che credeva.

In alcune note di regia, Miranda Angeli, classe 1997, ricorda come, per lei, la parte peggiore del lutto non sia il dolore ma la stasi. “Quando perdiamo qualcuno finiamo dentro una sorta di bolla d’aria che rallenta il tempo e lo spazio fino a che tutto si muove così lentamente da sembrare fermo”, racconta. “Ma il mondo degli altri continua a muoversi alla stessa velocità e questa differenza ci divide e ci isola. Ne “La verità” ho cercato di rendere visibile la bolla che rinchiude Rachele: lo spazio intorno a lei la schiaccia sempre di lato, o nel centro, come se il mondo in cui ha sempre vissuto comodamente – un mondo simmetrico, borghese, armonico – le si stesse chiudendo addosso. Lo stesso ho cercato di fare con il suono, creando un ambiente silenzioso, quasi ovattato, che si apre al rumore soltanto nei momenti in cui Giulia entra nella storia. Sia Giulia che Rachele, infatti, vivono un doppio lutto: per Rachele la morte del figlio, per Giulia la morte che lo stupro subito le ha lasciato sulla pelle e per entrambe il tradimento di una persona che amavano e che non era come loro credevano. Questa doppia bolla è più spessa, più immobile; ma quando le loro due bolle si scontrano, riescono a creare una crepa l’una nella corazza nell’altra, riportando il tempo e lo spazio alla loro reale intensità”.

Immagine in evidenza Alessandro De Luca Rapone

Alessandro Haber al Comunale di Ferrara con ‘La coscienza di Zeno’, a 100 anni dalla pubblicazione del romanzo di Svevo

Lo spettacolo, con regia di Paolo Valerio, si terrà il 15, 16 e 17 dicembre al Teatro Comunale di Ferrara. Alessandro Haber e il resto della compagnia incontrano il pubblico sabato 16 dicembre alle 18 al Ridotto

Il celebre romanzo ‘La coscienza di Zeno’ di Italo Svevo vede diverse interpretazioni nell’ultimo secolo. Venerdì 15, sabato 16 e domenica 17 dicembre al Teatro Comunale di Ferrara, Zeno Cosini verrà interpretato dall’attore Alessandro Haber, che in scena riesce a incarnare la profondità e l’ironia surreale del protagonista del romanzo più introspettivo, psicanalitico e affascinante del ‘900 italiano. 

Nel 2023, ‘La coscienza di Zeno’ festeggia il suo centenario dalla pubblicazione e la sua innovativa, coinvolgente scrittura lo rende adatto anche per essere trascritto nel linguaggio teatrale. La storia segue il percorso del protagonista, che cerca di risolvere il suo ‘mal di vivere’ e cerca di cambiare e guarire. ‘La coscienza di Zeno’ rivela i molteplici lati della condizione umana, in cui la positività e la voglia di arrendersi si alternano quotidianamente.

Alessandro Haber nel 2007 ha ricevuto il premio come miglior attore non protagonista al Nastro d’Argento per il film ‘Le rose del deserto’ e ha ottenuto numerosi riconoscimenti di carriera, tra cui il David di Donatello (1994), un Globo d’Oro e cinque Nastri d’Argento (nel 1990, 1994, 1995 e 2007). Oltre ad Haber, Alberto Onofrietti, Francesco Migliaccio, Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin e Giovanni Schiavo completano la compagnia.

 

INCONTRO CON LA COMPAGNIA 

Alessandro Haber, Alberto Onofrietti, Francesco Migliaccio, Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin e Giovanni Schiavo incontrano il pubblico al Ridotto del Teatro sabato 16 dicembre ore 18, per presentare ‘La coscienza di Zeno’. Modera Marcello Corvino, direttore artistico del Teatro Comunale. Anche gli spettatori potranno fare domande e conoscere da vicino l’artista e la compagnia. Ingresso libero fino a esaurimento posti. L’incontro sarà trasmesso anche sul canale Youtube del Teatro.

Immagini di Simone di Luca, cortesia Teatro Comunale

Verso una Grande Lista Popolare: Se non ora quando?
2° Tappa: sabato 16 dicembre, ore 15-18, Centro Sociale Quadrifoglio di Ponte

Verso una Grande Lista Popolare: Se non ora quando?
Sabato 16 dicembre, ore 15-18, Centro Sociale Quadrifoglio di Pontelagoscuro

Ecco il menù della 2° Tappa:

  • Lettura della Traccia Condivisa per cambiare Ferrara (non un programma, ma “quasi un programma” della Grande Lista Popolare)
  • Si presentano i primi 13 che ci mettono la faccia (non sono ancora candidature ma l’impegno a lavorare su un tema specifico prima e dopo le elezioni) 
  • Poi naturalmente, nei tavoli, ci si conosce, si parla, si domanda, si propone, 

Passano i mesi, le settimane, i giorni e i partiti e i vari gruppi politici del cosiddetto Tavolo dell’Alternativa continuano a perdere tempo. E nonostante che da parte de “La Comune di Ferrara”  i partiti abbiano ricevuto più volte l’invito ad assumersi le proprie responsabilità.  Il Tavolo non ha reso pubblico nessuna idea di programma elettorale, mentre continua il balletto sui possibili candidati sindaco/a.  I vari leader politici locali, nelle uscite pubbliche e nei colloqui confidenziali, continuano a dividersi su una improbabile soluzione del rebus.
Questo infinito avvento (che probabilmente non finirà né a Natale né per la Befana), ci pare non tenga conto delle aspirazioni di tutti quei ferraresi che vorrebbero mandare a casa la giunta di Alan Fabbri.  Lo stesso atteggiamento non responsabile, ci duole dirlo, lo notiamo nel comportamento dei “candidati in pectore”, che dovrebbero essere dei civici puri, ma che, invece che decidere autonomamente, aspettano anch’essi le indicazioni di questo o quel partito o di tutti i partiti assieme. I quali, come tutti abbiamo visto, non si mettono d’accordo.

La Comune di Ferrara ha sciolto le riserve e scende in campo promuovendo una Grande Lista Popolare.  Ci pare l’unica scelta responsabile, l’unica risposta seria verso coloro che sperano in una Ferrara diversa. Abbiamo chiesto a tante amiche ed amiche di mettersi a disposizione, di offrire la propria competenza, la propria passione e un po’ del proprio tempo.  Tanti/e preferiscono limitarsi a scrivere e sottoscrivere appelli, altri/e aspettano cosa decide il partito, altri/e ancora temono le reazioni dei poteri forti cittadini: il Comune, Ferrara Tua, l’azienda per cui lavorano… Ma qualcosa si muove: già in 13 hanno fatto un passo avanti, altri/e si aggiungeranno nelle prossime settimane.

Sabato 16 dicembre presenteremo una “traccia condivisa”, il risultato delle idee, sollecitazioni, proposte espresse fino ad oggi da centinaia di cittadini e cittadine negli incontri pubblici organizzati da La Comune di Ferrara e da altri gruppi, comitati e movimenti che, in questi mesi ed anni, sono scesi in campo. L’abbiamo chiamata un “quasi programma” perché rimarrà aperto ad altri contributi e si arricchirà di nuovi contenuti nei prossimi mesi, durante la campagna elettorale. I 5 punti fondamentali, gli obiettivi prioritari, sono però già chiari.
1 . DECARBONIZZAZIONE, MOBILITA’ E RIGENERAZIONE URBANA
2 . BENI COMUNI DA RICONQUISTARE
3 . DEMOCRAZIA PARTECIPATA
4 . UNA CULTURA GRANDE COME UNA CITTÀ
5 . WELFARE DI COMUNITA’, DIRITTI E CITTADINANZA

A tutte e a tutte, ai politici, agli intellettuali, ai candidati, agli operatori sociali e culturali, ai cittadini comuni, rinnoviamo il nostro appello: Se non ora quando? Vi aspettiamo sabato 16 dicembre e per le strade di Ferrara

Il testo integrale del “quasi programma”, che sarà letto e distribuito sabato 16 dicembre, sarà disponibile sul nostro sito: https://www.lacomunediferrara.it/ a partire da lunedì 18.

UN PAPA DI NOME FRANCESCO: DAL PALAZZO ALLA TENDA – II parte

Leggi  la I Parte su Periscopio

L’OPERAZIONE BERGOGLIO: DAL PALAZZO ALLA TENDA – II parte

Il senso del conclave del 2013 può essere leggibile nella doppia consapevolezza che un’intera strategia ecclesiale durata (almeno) mezzo secolo era arrivata al capolinea, da un lato, e che valeva la pena tentare di riprendere i fili dell’aggiornamento conciliare nella piena accezione roncalliana, dall’altro.

In questa chiave interpretativa si possono ricordare fra le ultime parole del card. Carlo Maria Martini (morto il 31 agosto 2012) che, come una sorta di testamento, consegnò in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera (Chiesa indietro di 200 anni, 1° settembre 2012): “Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza”.

Quelle parole, rilette a distanza di anni, mantengono tutta la forza di un vero e proprio programma per iniziare a colmare il ritardo di una “Chiesa rimasta indietro di 200 anni”.

In particolare, risultano tuttora attualissimi i tre strumenti che Martini indicava: la conversione (“la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento”), la Parola di Dio (“Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici”) e i sacramenti (“Per chi sono i sacramenti? (…) non sono uno strumento per la disciplina ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita”).

Proprio in questo terzo strumento, le parole del cardinale gesuita proponevano la fuoriuscita dal loro reiterato utilizzo come dogana della grazia di una chiesa in stallo da minoranza creativa, per indicare una nuova postura sulla linea dell’aggiornamento: “Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti (sic!) i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. (…) Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura”.

Che l’argentino Jorge Mario Bergoglio potesse essere l’uomo giusto per questa operazione di rinnovamento ce lo possono dire almeno tre suoi riferimenti biografici, in grado di raccontare, in breve, da quale percorso proviene.

Nell’intervista rilasciata al direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, nel settembre 2013, papa Francesco ricorda la figura di Pietro Favre, fra quelle che più lo hanno colpito nella sua formazione.

Pietro Favre, nato a Villaret in Savoia nel 1506, condivise, al Collège Saint Barbe di Parigi la stanza con Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, diventando membro del nucleo originario della Compagnia di Gesù.

Dopo la sua morte (1546) il suo nome cadde nell’oblio fino a quando Michel de Certeau, nell’ambito delle riviste gesuite francesi Christus ed Études, cura nel 1960 una traduzione francese del Memorial di Favre. Traduzione che Bergoglio ha più volte affermato di amare particolarmente, tanto da promuoverne una edizione in spagnolo nel 1983, quando era superiore provinciale a Buenos Aires. L’edizione argentina fa proprio riferimento alla traduzione di de Certeau, cui Bergoglio fa ripetutamente riferimento per le sue numerose citazioni.

Favre è un punto di riferimento per Bergoglio, che lo presenta come un evangelizzatore capace di sviluppare con i suoi interlocutori del tempo – i protestanti incontrati nei suoi viaggi in Germania, inviato dal papa – “una capacità di dialogo – scrive Menozzi – basata sulla dolcezza, l’ascolto, la prossimità” (p. 66).

Nel 2013 papa Francesco decide di procedere a una rapida canonizzazione del gesuita savoiardo.

In secondo luogo, l’intero itinerario biografico del papa argentino marca una distanza cronologica con quello dei suoi predecessori, che hanno caratterizzato l’andatura ecclesiale del post-concilio. Questi ultimi, infatti, provengono da una formazione costruita negli anni «dell’egemonia della cultura cattolica intransigente (…) e hanno poi portato nelle discussioni del post-concilio gli schemi ereditati dal passato.» (p. 59)

Starebbero qui alcune delle radici di quell’equilibrio ambiguo che sarebbe scaturito, a differenza di Bergoglio il cui intero percorso formativo è ascrivibile, almeno in gran parte, ai documenti del Vaticano II, con una conseguente impostazione culturale di segno diverso.

Un terzo elemento biografico, infine, risalirebbe al documento di Aparecida (Brasile), al termine della quinta conferenza generale dell’episcopato latino-americano (Celam), nel maggio 2007.

Dopo le precedenti quattro assise di Rio de Janeiro (Brasile, 1955), Medellín (Colombia, 1968), Puebla (Messico, 1978) e Santo Domingo (Repubblica Dominicana, 1992), quella di Aparecida vide l’allora arcivescovo di Buenos Aires nella veste di coordinatore per la redazione del documento finale.

Vale la pena ricordare un retroscena di quella quinta assemblea episcopale, a partire dai contrasti che accompagnarono la stessa scelta della sede nella quale si celebrò.

Ricostruisce bene quel dibattito Andrea Riccardi (La Chiesa tra centri e periferie in Il cristianesimo al tempo …):

«I cardinali latino-americani avevano convinto Benedetto XVI a tenere la conferenza ad Aparecida, mentre l’allora segretario di Stato, cardinal Sodano, era contrario e avrebbe preferito la riunione a Roma. La Chiesa latino-americana si era dimostrata un soggetto forte.» (p. 11)

In particolare, nel santuario brasiliano, nel 2007, il card. López Trujillo (che – scrive Riccardi – aveva combattuto la teologia della liberazione con l’appoggio di Wojtyla e Ratzinger) aveva perso la sua battaglia, mentre era emersa una classe episcopale che aveva ricucito lo scontro sulla teologia della liberazione. Vescovi di cui fra i massimi esponenti erano Bergoglio e il brasiliano Clàudio Hummes.

Per comprendere, sia pure molto brevemente, l’importanza di Aparecida, specie per il tracciato biografico di Jorge Mario Bergoglio, occorre partire dalle vicende ed evoluzioni del Celam, nell’arco temporale fino al 1992 che, scrive Silvia Scatena, “negli anni Settanta e Ottanta si intrecciano (…) con quelle del dibattito sulla teologia della liberazione” (Da Medellín ad Aparecida: la “lezione” di un’esperienza regionale per una ricerca di forme e stili di collegialità effettiva in La riforma e le riforme nella Chiesa, 2016).

Le posizioni della chiesa di Roma, dopo le aperture e le speranze iniziali di Paolo VI; le decisioni assunte da Giovanni Paolo II nelle nomine episcopali, a partire da quella nel 1979 del cardinale colombiano Alfonso López Trujillo (irriducibile nemico della teologia della liberazione) a presidente del Celam; le due istruzioni della Congregazione per la dottrina della fede guidata da Ratzinger del 1984 e 1986, sono solo alcuni esempi di una parabola che porta a incrinare i “rapporti tra Roma e l’America Latina”, come scrive Gianni La Bella (L’America Latina e il laboratorio argentino in Il cristianesimo al tempo …, 40).

Lo storico Giovanni Miccoli ha scritto degli anni di fuoco dei dibattiti intorno alla teologia della liberazione. Roma aveva fatto chiaramente intendere il suo rifiuto di una teologia che, senza partire dalle verità proclamate e custodite dal magistero, si costruisse dal basso, che facesse nascere «un linguaggio su Dio» come scrisse Gutiérrez, «dalla condizione di sofferenza generata dalla povertà ingiusta nella quale vive la maggior parte della gente» in America Latina (In difesa della fede, 2007, p. 70).

È in questo clima di un cattolicesimo latinoamericano “stanco e spaesato – scrive ancora La Bella – lacerato dalle controversie e dall’incapacità di andare oltre le polemiche e le contrapposizioni” (p. 42), che si celebra Aparecida.

Nonostante Bergoglio, che ne sarà presidente della Commissione incaricata di redigere il documento finale, sia esponente di una chiesa accusata di essersi macchiata di connivenza con il regime dei generali (critica che non risparmia lo stesso arcivescovo di Buenos Aires), vi porta il retroterra di quella che è stata chiamata la “teologia del popolo”, una sorta di declinazione argentina della teologia della liberazione.

Fra i nomi di spicco di questo filone di pensiero figura Rafael Tello, “il teologo – scrive La Bella – che forse lo ha più influenzato”, oltre a Lucio Gera e Juan Carlo Scannone.

Aparecida si apre, dunque, in un clima di “molto scetticismo”, eppure in quella riunione “qualcosa si muove”, come ha detto Victor Manuel Fernández, rettore dell’Università cattolica e ghost writer dell’arcivescovo di Buenos Aires.

Qui “si rivela – prosegue Fernández – la sua convinzione che, più che ottenere risultati immediati, bisognava mettere in moto dinamiche e relazioni”.

Nonostante sia abbandonato il metodo “vedere-giudicare-agire”, caro alla teologia della liberazione e perciò motivo delle iniziali freddezze, Aparecida, da ultimo, rimette al centro del continente latinoamericano l’insoluta questione sociale, riletta attraverso il binomio inclusione-esclusione, la cultura dello scarto e la struttura portante della «perifericità». Molti esponenti storici della teologia della liberazione (…) hanno visto in Aparecida «il momento più alto del magistero della Chiesa latinoamericana, il miglior documento prodotto … che ha sanato un trauma pastorale immenso» (G. La Bella, p. 53).

C’è chi ha letto una continuità tra Aparecida e quello che la storiografia definisce il “codice Francesco”.

Se, dunque, questi sono solo alcuni aspetti, peraltro appena abbozzati, dell’itinerario biografico di Jorge Mario Bergoglio, sono però in grado di aggiungere qualche elemento in più per comprendere il significato dell’elezione che lo ha portato nel 2013 alla guida della barca di Pietro.

 

Avviandomi al termine di questa riflessione, è possibile qui esaminare solo alcuni aspetti che stanno caratterizzando questo decennio del suo pontificato, pur consapevole dei limiti di questa selezione del tutto personale.

Aspetti che, tuttavia, ritengo sufficienti per evidenziare come l’azione pastorale di papa Francesco si presenti in evidente coerenza con l’intento di un’operazione che ha inteso provare a riprendere e percorrere la strada del rinnovamento conciliare, rispetto a quella dell’ammodernamento.

In primo luogo, è interessante soffermarsi su un aspetto che ha a che fare con gli scenari geopolitici in movimento a livello globale.

Secondo il teologo Pierangelo Sequeri il tempo contemporaneo è segnato da un’oscillazione profonda “fra l’incantamento e l’orrore del vuoto che si va producendo proprio nel luogo in cui abbiamo coltivato la fede fondamentale che ha retto l’impresa della modernità”, ossia “l’etica di un umanesimo condiviso” oggi sconvolta da un processo di “decostruzione che si sviluppa in modo autonomo anche rispetto alla discussione sulla verità religiosa” (Le sfide dell’etica. Diritti umani e coscienza credente in Il cristianesimo al tempo …, pp. 263-272).

Un concetto che così è letto da Agostino Giovagnoli, nelle conclusioni del volume (pp. 335-364):

«Sta tramontando insomma quell’umanesimo europeo, condiviso al di là delle fratture confessionali e religiose, che ha costituito il fondamento della modernità. Tende perciò gradualmente a svuotarsi anche il processo di secolarizzazione inteso come confluenza o, nelle sue espressioni più radicali, annullamento delle fedi religiose in un’etica pubblica comunemente accettata.» (p. 335)

La stessa globalizzazione, invece di costituire il varco definitivo delle colonne d’Ercole verso un tempo di definitivi benessere e prosperità diffusi e generalizzati, sta invece presentando il conto, specie negli ultimi decenni, di disuguagliane economiche e sociali cresciute in modo drammatico, oltre agli effetti di squilibri ambientali, che chiamano inesorabilmente in causa un intero modello di sviluppo.

Inoltre, il mondo globale accanto all’inaugurazione del tempo dell’interdipendenza e dell’apertura, sta conoscendo i contraccolpi – sociali, culturali, politici e religiosi – che si consumano sui terreni del terrorismo, del sovranismo, dei richiami nazionalisti anche di stampo imperialista, del fondamentalismo e del populismo.

In questo scenario, se da un lato tramontano le visioni da fine della storia (per citare il celebre libro del politologo Francis Fukuyama del 1992, che dopo la caduta del muro di Berlino prospettava l’avvento del tempo delle libertà), dall’altro si sviluppa in ambito ecclesiale l’interrogativo se la postura della chiesa cattolica possa continuare il proprio itinerario di marcia, oppure se non sia il caso di prendere un’altra direzione.

In altri termini, di fronte agli sviluppi di tali scenari c’è chi si domanda se il modello di una chiesa della minoranza creativa e dell’opzione Benedetto, arroccata sulla difesa dei valori non negoziabili in campo morale, possa ancora reggere gli urti di queste nuove sfide.

Una riflessione che prende atto anche del fatto che su questa linea si registrano gli allineamenti, più o meno convinti o strumentali, delle posizioni più tradizionaliste della chiesa e non solo di quella romana.

Posizioni che si sono progressivamente irrigidite durante il pontificato di Benedetto XVI, anche se pare riduttivo ricondurre tali allineamenti ad un preciso disegno papale completamente cercato e voluto.

Qui si troverebbe un ulteriore elemento interpretativo delle clamorose dimissioni di papa Ratzinger.

Di certo è parso, almeno ad alcuni, che il modello di cattolicesimo di minoranza, coeso e minoritario, nonostante le apparenze tradisse in fondo un atteggiamento di ripiegamento e di debolezza.

Quella di Jorge Mario Bergoglio è parsa, dunque, la scelta di un papa ai confini del mondo, in una logica centro-periferia ribaltata. Di fronte alle sfide di un mondo globalizzato e liquido è parsa, cioè, più convincente “l’estroversione missionaria della Chiesa proposta da Jorge Bergoglio – scrive Giovagnoli – con l’espressione «Chiesa in uscita»” (p. 338).

A questo proposito due sono le riflessioni che in ambito storico sono ricorrenti sull’esito del conclave del 2013.

Secondo Andrea Riccardi l’elezione di papa Francesco segnerebbe la fine del papato europeo (Il cristianesimo al tempo …, p. 7), dopo che nel 1978 si esaurì quello italiano, con la morte di Paolo VI.

Se si aggiunge che Francesco è il primo papa europeo da oltre un millennio, appaiono ancor più chiari i contorni della svolta.

Qui entra in gioco la lettura di una logica centro-periferia ribaltata, che ha più di un’implicazione.

In primo luogo “Francesco – scrive Giovagnoli – si è fatto interprete di un mondo che non ha più un centro” (p. 343), immagine alla quale lo stesso pontefice dà corpo con almeno due espressioni ricorrenti: la figura del poliedro preferita alla sfera (Evanelii gaudium del 2013, n. 236) e la definizione della chiesa ospedale da campo (La Civiltà Cattolica, 2013).

Dopo secoli in cui la chiesa si è concepita come societas perfecta, ora le immagini di una chiesa in uscita e ospedale da campo la configurano “sempre meno simile a uno splendido palazzo – continua Giovagnoli – (…) e sempre più protesa ad assomigliare a una tenda” (P. 354).

Viene in mente il libro di Bartolomeo Sorge Uscire dal tempio, pubblicato nel 1989 nella forma di intervista autobiografica a cura di Paolo Giuntella: “Dopo l’età del Tempio, la nostra sarà la nuova età della Tenda” (p. 174).

In secondo luogo, Bergoglio è l’espressione di una chiesa che cerca nuove vie di inculturazione della fede e del Vangelo nelle megalopoli, espressioni di una dinamica demografica a livello planetario, con tutto il portato di contraddizioni, squilibri e tensioni.

A Buenos Aires, in particolare, ha conosciuto la realtà di un grande periferia urbana.

Periferie, poveri, popoli: questi temi sono stati al centro della sua riflessione prima di diventare papa e hanno poi assunto un rilievo cruciale nel suo pontificato (Giovagnoli, p. 357).

Naturalmente questa nuova postura implica anche una conseguente spinta di riforma della chiesa, a partire dai suoi assetti anche istituzionali, in senso decentrato, collegiale e sinodale.

Su questo punto – governo e riforma – si attestano le critiche maggiori, non solo fra gli episcopati ma anche degli osservatori.

Se da un lato è chiaro il segno impresso da Francesco, ad esempio con le nomine di cardinali in luoghi periferici in Italia (in diocesi non cardinalizie) e nel mondo, dall’altro tarda a cambiare il centro della chiesa di Roma, “quella curia – scrive Riccardi – che non piaceva ai cardinali nel 2013” (Il cristianesimo al tempo …, 18).

Più in generale, scrive ancora Riccardi:

«Da un lato, il papa è favorevole al governo collegiale o sinodale, ma questo non ha trovato ancora le sue forme istituzionali (…). Dall’altro, c’è l’uomo che governa con capacità di decisione, servendosi a volte di una prassi di consultazione non sempre nei canali istituzionali, attraverso una rete personale (…). Una verticalizzazione provvisoria in attesa di un rinnovamento profondo, cui il papa spinge la Chiesa.» (p. 20)

Per quanto Bergoglio abbia scritto che il tempo è superiore allo spazio (Evangelii gaudium, n.222), collegialità e sinodalità che stentano a configurare un chiaro assetto di governo e aspetti di verticalizzazione decisoria, per quanto “provvisoria”, inducono a una sospensione di giudizio sull’aspetto delicato delle forme degli assetti ecclesiali, in una transizione oggettivamente difficile, che nel frattempo non è esente da dubbi, critiche e perplessità, fino ad aperti contrasti che non si vedevano da tempo.

Lo stesso Alberto Melloni (QN cit.) riconosce che la sinodalità «è la sfida più seria e urgente della Chiesa del terzo millennio. Non è la variante cristiana della democrazia, né un “discernimento” spiritualista collettivo, alla fine del quale l’autorità suprema decide sola. È la comunione che diventa decisione autorevole.

L’esperienza dice quanto sia difficile: il cammino sinodale tedesco ha seminato paura, quello italiano sonnolenza, il sinodo d’Amazzonia delusione. La comunione avrebbe bisogno non di un geometra (gesuita) delle istituzioni, ma di un architetto (cristiano) del concilio. Francesco lo può essere se cercherà il vento non nel consenso di dieci anni fa, ma nel mare aperto di oggi.

Ciò non toglie, tuttavia, che la strada – per quanto ancora incerta e precaria – sia stata aperta e la sfida della sinodalità, nella profonda accezione che dà Melloni (la comunione che diventa decisione autorevole), non nasconde di essere anche una proposta, al limite della provocazione, lanciata al tempo presente, così contraddistinto dal rigurgito di sogni imperialisti, per un verso, e dalla stanchezza delle democrazie, dall’altro.

Ma per tornare al paradigma centro-periferia, non se ne comprenderebbe il pieno significato se non si articolasse nella sua ultima, ma fondamentale, declinazione: il passaggio decisivo dall’opzione preferenziale dei poveri alla chiesa povera per i poveri.

Spostare l’asse ecclesiale dal centro alla periferia, alle periferie, significa che i poveri devono passare dalla periferia al centro della chiesa.

Ecco, molto probabilmente, il senso compiuto di una chiesa-tenda o ospedale da campo, rispetto all’immagine del tempio-palazzo.

Scrive significativamente Giovagnoli a questo riguardo:

«i poveri devono passare dai margini al centro, poiché le periferie sono il futuro della Chiesa. Si tratta di un elemento cruciale (…) per uscire dalla Chiesa-palazzo (…) ed edificare una Chiesa-tenda che si muova nelle periferie delle grandi megalopoli contemporanee. Questo modo di intendere l’opzione per i poveri costituisce un aspetto qualificante del rapporto tra Francesco e il suo tempo. (…È) convinto che sarà la sensibilità verso i poveri a determinare il futuro dell’umanità, come emerge ad esempio nella Laudato sì.

Nella sua visione, le periferie devono diventare una priorità non solo per la Chiesa ma per tutti: abbandonare una visione dei problemi a partire dal centro è una necessità anche per la politica, l’economia, la cultura. Affermando l’importanza delle periferie, Francesco ha proposto una interpretazione pastorale, evangelica, cristiana di un vasto processo storico in atto nel mondo contemporaneo. Quello del XXI secolo è un mondo di periferie e i suoi abitanti, in qualche modo, anticipano un futuro che è sempre più diffuso. La ricezione del pontificato di Francesco dipenderà dunque molto dalla ricezione della dottrina evangelica sui poveri.» (pp. 358-359)

Un ulteriore e conclusivo aspetto, secondo questa mia personale e consapevolmente limitata ricostruzione, può aiutare a capire meglio in che cosa consista quella che ho chiamato l’operazione Bergoglio e cioè la ripresa della strada conciliare dell’aggiornamento rispetto a quella dell’ammodernamento perseguita dal pontificato post-conciliare.

Per farlo è utile risalire alla cultura intransigente che ha lungamente contraddistinto la chiesa.

Secondo Menozzi (Il papato di Francesco …) «(n)ella prospettiva intransigente la Chiesa si presenta come una cittadella assediata da una società moderna alla quale attribuisce il disegno di disgregare la sua autorità nello stabilire le regole destinate non solo a conseguire la vita eterna, ma anche a raggiungere il miglior assetto politico e sociale della collettività.

Diventa così inevitabile che la condanna del mondo moderno rappresenti la chiave di volta per definire il rapporto della Chiesa nei confronti dello svolgersi di una storia da essa interpretata come una concatenazione di errori sempre più gravi.

Gli sforzi degli uomini di costruire forme più accettabili di convivenza civile vengono letti come un’impresa che, in quanto sprovvista del supremo sigillo ecclesiastico, è destinata a un inevitabile fallimento. Anzi, secondo i più rigidi interpreti dell’intransigentismo, la catastrofe finale dell’umanità sarà l’esito ineluttabile di una modernità che nel suo rifiuto di assoggettarsi alle prescrizioni della gerarchia trova la ragione ultima della sua stessa condanna.» (p. 144)

La presa d’atto che tali previsioni catastrofiche tardavano ad avverarsi ha indotto a un successivo ripensamento dell’atteggiamento radicalmente oppositivo del cattolicesimo verso il mondo, ma nonostante le aperture nei confronti di alcune acquisizioni della modernità e gli aggiustamenti, il nucleo della cultura intransigente ha continuato a essere sospinta fin dentro la contemporaneità.

Si potevano accettare i mezzi, gli strumenti, le tecniche e persino qualche principio del mondo moderno a condizione che non si abbandonasse il punto giudicato cruciale: solo la sottomissione alla verità politica e sociale detenuta dall’autorità ecclesiastica poteva restituire al consorzio civile quel felice assetto di cui la società aveva fruito quando il papa regolava in via dirimente, come ai bei tempi della ierocrazia medievale, i rapporti tra i singoli e i popoli.» (p 145)

E questo accade perché la chiesa si autocomprende come interprete ultima e incontestabile anche della legge naturale, per cui si sente intimamente legittimata ad essere l’autorità depositaria dei principi fondamentali non solo per la vita eterna, ma anche per regolare quella terrena.

Questo sfondo storico e teologico ci aiuta per capire meglio il cambio di passo adottato da papa Francesco durante questi dieci anni di pontificato.

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013) è un primo esempio in cui trovare riferimenti espliciti per una chiesa invitata a lasciarsi alle spalle l’eredità della cultura intransigente.

Nella formulazione del tempo superiore allo spazio (n. 222) e in quella successiva di iniziare processi più che occupare spazi (n. 223), c’è la chiara indicazione del papa argentino di abbandonare la «concezione che affidava ai cattolici il compito di lanciarsi alla conquista degli spazi pubblici (…), per iscrivere nella norma positiva la legge naturale interpretata dalla Chiesa.» (Menozzi, p. 29)

In queste parole c’è il congedo dalla teologia del mandato ai cattolici e l’abbandono del progetto di costruire una società cristianamente ordinata.

Nell’esortazione permane il riferimento a una chiesa attenta i progressi della scienza per illuminarli alla luce della fede e della legge naturale (n. 242), ma – come scrive Menozzi – va contestualizzato con il n. 117: “a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore”.

Ne deriva il passaggio cruciale della “gerarchia delle verità” (n. 36 e 37), nella cui scala il primo posto è riservato al Vangelo.

Non viene, dunque, cancellato il riferimento alla legge naturale, ma viene ricordato che “compito primario della Chiesa non è oggi ricordare agli uomini i principi non negoziabili enunciati dall’autorità ecclesiastica depositaria della retta dottrina” (Menozzi, p. 32), diretta conseguenza della dottrina sulla legge naturale.

Un secondo esempio è dato dai richiami che papa Francesco fa al concilio Vaticano II.

L’ermeneutica conciliare sospinta dai pontificati di Wojtyla e Ratzinger, che sosteneva di prendere le distanze dal criterio della discontinuità per favorire quello della continuità, è stata sostanzialmente funzionale al paradigma dell’ammodernamento praticato durante il post-concilio.

Sullo sfondo di questa lettura ci sono gli aspetti spinosi della riforma liturgica, della collegialità, del ruolo del vescovo, per citarne alcuni, che sulla scorta delle aperture del Vaticano II, hanno infuocato il dibattito post-conciliare.

Rispetto a questa impostazione non può sfuggire che più volte papa Francesco ha parlato dell’irreversibilità dell’aggiornamento conciliare.

Lo ha fatto con la lettera apostolica Desiderio desideravi (giugno 2022), nella quale al n. 31 afferma: “Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium”.

Dobbiamo ricordare, a questo proposito, il motu proprio Traditionis custodes (luglio 2021), con cui papa Francesco non cancella le concessioni fatte da Benedetto XVI di ammettere la possibilità di celebrare la messa in latino, secondo il messale preconciliare (motu proprio Summorum pontificum, luglio 2007), ma restituisce ai vescovi la responsabilità di concederne l’autorizzazione, competenza che Benedetto XVI aveva loro tolto.

Una seconda volta Bergoglio parla dell’irreversibilità del concilio nell’intervista concessa al direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro (2013): “(…) la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”.

Un ultimo riferimento, in questa personale rassegna, è al discorso che Francesco ha rivolto nel febbraio 2017 al collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica.

In quella circostanza il papa ha richiamato tre termini: inquietudine, incompletezza, immaginazione, che, detti a una rivista che è stata lungamente “uno dei canali con cui l’anima intransigente del cattolicesimo degli ultimi due secoli si è sforzata di accettare il moderno senza abbandonare la prospettiva per cui la Chiesa, e solo la Chiesa, detiene la verità politica e sociale cui gli uomini devono aderire” (Menozzi, p.147), è parso un altro segno inequivocabile del cambio di passo sulla strada dell’aggiornamento conciliare di cui si è detto.

Quei tre termini, così distanti dal clima intransigente, sono letti da Menozzi come la conferma di una linea che «ha come ovvio presupposto che, nella definizione delle regole del consorzio umano, nessuno può pretendere di essere l’unico depositario della verità e suo esclusivo interprete. È, invece, il contributo di tutti che può aiutare ad individuarla.» (p. 149)

Come detto in apertura, occorrerà attendere la fine del pontificato di Francesco per fare un vero e proprio bilancio del suo pontificato.

Per ora rimane – come scrive Andrea Riccardi – “aperta la domanda su quanto il tempo di papa Francesco inciderà nella storia di lungo periodo del cattolicesimo. L’aspettativa dei settori critici è che il suo pontificato rappresenti una parentesi. Tuttavia (…) non sarà facile ritornare al passato” (Il cristianesimo …, p. 22).

A questo proposito mi piace concludere con le parole di Severino Dianich, in riferimento al tempo presente delle religioni e del cristianesimo (Il Regno 14/2013, p. 475):

«prima esse erano strettamente dipendenti dal loro ruolo nel meccanismo collettivo, ora si stanno liberando da questo vincolo. È l’occasione per una vera e propria reinvenzione che probabilmente ha ancora da riservare delle sorprese. Non siamo che all’inizio, ai primi passi di questo movimento.»

In questo senso, si può dire che papa Francesco assume, interpreta e testimonia le tendenze profonde del nostro tempo, non come un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca.

NOTA:
Questo saggio di Francesco Lavezzi, insieme ad altre Cronache Ecclesiali del medesimo autore  è stato recentemente pubblicato in “Quaderni Cedoc SFR 49” a cura di Andrea Zerbini.

Per leggere gli articoli di Francesco Lavezzi su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Santo Spirito: il cinema è vivo e lotta insieme a noi!
Il 18 dicembre “The Old Oak” l’ultimo film di Ken il Rosso, il grande regista britannico

Santo Spirito: il cinema è vivo e lotta insieme a noi!
Il 18 dicembre “The Old Oak” l’ultimo film di Ken il Rosso, il grande regista britannico.

Potete credere o meno al soffio dello Spirito Santo, ma se amate il Cinema, se pensate che una città non possa vivere senza quella che un secolo fa si guadagnò il titolo di “Settima arte”, allora dovete credere (e ringraziare tutte le sere) il Santo Spirito, l’unico cinema d’essai di Ferrara. Gestito con passione, intelligenza e competenza dal gruppo parrocchiale della chiesa omonima. Ho letto che il “Piccolo Cinema di Santo Spirito”, allora si chiamava così, ha da poco festeggiato i suoi primi 70 anni.  Giusto augurargliene almeno altri 70.

Nel 2006, la chiusura dello storico Cinema Manzoni, (per tutti il Manzo”) è stato un colpo durissimo. Un lutto. I remember come fosse ieri. Molti, all’uscita da quella che non era solo un film, ma una funzione laica, avevano la sgradita sorpresa di  non trovare più la bicicletta nel mucchio delle altre. Ma insomma, era una tassa che eri disposto a pagare: il Manzo valeva bene una bici.
Ma le disgrazie non vengono da sole. 5 anni fa ha chiuso anche lo storico Cinema Boldini (“il Boldo”), il tempio del cinema d’autore. Oggi, da parte del Comune proprietario, non arriva alcuna notizia e speranza di una prossima riapertura: i lavori di ristrutturazione non sono ancora iniziati.

Che rimane, quindi, in quella che vorrebbe essere “La città del Cinema”? Pellicole commerciali e non molto di più.  Di prima visione: il cinema Apollo (dai, non è male) e il Darsena City (deprimente come un grande albergo fuori stagione, ma con  una ottima dotazione di pop corn). Fine? No, un attimo, nelle sere del week end ci sarebbe anche il Cinema San Benedetto (” il Sambe”) ma a patto di non finire in una poltroncina dietro un pilastro di cemento armato.

Tutto questo per dire che il Cinemino Santo Spirito fa parte del patrimonio culturale di Ferrara.  Nel Sito (in fondo) trovate l’elenco dettagliato delle rassegne e degli eventi speciali organizzati dal 2007 fino ad oggi. Alcuni andrebbero riproposti. Penso ad esempio  al “Cinema di Gianni Celati”, una breve rassegna del 2017 dedicata a lui e all’amico fotografo Luigi Ghirri.  A gennaio saranno passati due anni dalla morte del grande scrittore delle pianure e delle apparenze, vent’anni prima, nel 1992, moriva l’altrettanto grande Luigi Ghirri. Cari amici ed amiche del Cinema Teatro Santo Spirito, io nel 2017 me la sono persa, non potreste concedere un bis a me e a tutti i ferraresi?

Ora però, è il momento di “Ken il Rosso”, il grande regista inglese, uno che ha ancora il coraggio di definirsi (in una recentissima intervista) “un comunista”. Ken Loach (vuoi vedere che per lui essere comunista c’entra proprio con questo?) mette in scena il “mondo dei vinti”: i poveri, i marginali, i disoccupati, gli scartati, gli stranieri. E lo fa con una profondità, un rigore, una tenerezza che hanno fatto di Ken Loach un maestro, un cineasta geniale e controcorrente. Un pezzo di Storia del cinema, e uno spaccato sul nostro presente, che, grazie al Cinemino Santo Spirito, possiamo vedere e riflettere.

LUNEDÌ 18 DICEMBRE
ORE 19,00  IN ORATORIO
APERITIVO MULTIETNICO
con Mediterranea Saving Humans

ORE 20,30 CINEMA SANTO SPIRITO
PRESENTAZIONE E PROIEZIONE

THE OLD OAK
Un film di Ken Loach

Con Dave Turner, Ebla Mari, Claire Rodgerson, Trevor Fox, Chris McGlade

Che cosa succede quando in una piccola comunità già segnata da difficoltà per la mancanza di lavoro arriva un gruppo di rifugiati siriani in fuga dalla guerra?

Guarda il Trailer

La recensione da Cineforum

 

 

 

Per ogni informazione sul Cinema di Santo Spirito [Qui]

 

In copertina: una sequenza da “The Old Oak” di Ken Loach, 2023

 

 

Parole a capo /
Pier Luigi Guerrini: “Terra tradita” e poesie vecchie e nuove

Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.
(Ennio Flaiano)


Terra tradita

giugno s’è disunito
per cercare di raccogliere i desideri
della campagna abbandonata.

Zolle zuccherose si parlano addosso
all’ombra di una croce di fosso.

Aratro coperto, erpice infogliato
il dolce e duro impasto della natura s’è fermato

i calci spessi delle scarpe piene di grilli
hanno il cuore duro di chi guarda cascinali
ormai muti, e non vi può entrare.

Dietro,
la pancia dell’orizzonte
è riempita di tante immagini industriali.
Hanno licenziato i giusti desideri.
(giugno ’80)

 

Cambio della guardia

Il programma democratico prevede
severità compiuta
all’ombra stimmatica d’un balcone.

la libertà che si può descrivere:
tante penombre affratellate
in difficile compenetranza;
immagine neoclassica
d’un futuro dal corpo rammaricato.

La superbia dei piccoli atti
la prevaricazione sui vinti
la gloria smodata
di chi diserta l’alba
per il tramonto.

Ma se questo è toccare
se questo è bagnare
chissà cos’è, dov’è il parlare
(giugno 1980)


Tredici maschere/1

volto nascosto
volto mostrato
volto recitato
volto rivoltato
volto da sera
volto comunicativo
volto studiato
volto di testa
volto in attesa
volto festivo
volto feriale
volto innamorato

spicchio d’infinite guance
specchio d’antiche bilance.

volto pagina.

Tredici maschere/2

volto ascosto
volto strato
volto re citato
volto (della) rivolta
volto d’aseità
volto d’iato
volto inatteso

volto in lista della spesa
volto e rivolto
volto e sorrido
volto fra non molto
volto colto
volto tra cespugli d’orto.
(gennaio 1981)


Un’idea, un pensiero.
Ormai, è tardi verbo remoto!

levigare, concordare, migrare, esaudire,
forgiare, progredire, tramontare, immergere,
scorgere, celare, sopraggiungere, appartenere,
sfrecciare, ap -pallottola – re, influenzare,
intravvedere, acquistare, estrarre, cospargere,
iniettare, decorare, deridere, schiudere.

cancellare. io tu egli essa esso noi voi essi
esse costui costoro costei quello quella quelli
quelle.
cancellare.
(maggio 1981)

 

Amaretto sociale

Il permesso di buongiorno
è andato perduto
nella cattiveria quotidiana

il reddito di buona creanza
ha cambiato stanza
si è fatto un parlamento a sé

il premierato alla crema
è la novità dei dolci a tema
a bignè
pieno di tanta pressapochezza
e un goccio d’anice d’Aci Trezza.
(2023)

 

Anche adesso

Anche adesso
in questa disperazione
resta il compito di capire,
capire perché è successo
qual è la soluzione
che cancelli la parola morire
dalla bocca del cannone.

Una chirurgia d’accatto
che distrugge ospedali
una fattoria politica
dove comandano maiali
invece di grappoli d’uva
bombe a grappolo
che fanno vino
dal sapor di sangue.

La geografia, la storia
hanno confuso la memoria
hanno spine conficcate
hanno vite martoriate.

La pace, la pace langue
la vita impone nuovo sangue.
(2023)

 

Tra dialogo e silenzio

Il suono del silenzio
il saluto del silenzio
il riflesso
il riflusso.

Uomo, piccolo spazio di rumore.
(2023)

Pier Luigi Guerrini (1954, Ferrara). Ha fondato, con Roberto Guerra e Lamberto. Donegà, la rivista Poeticamente (1980). Ha pubblicato Il fenomeno scomposto, Ed. Ottantagiorni, Reggio Emilia, 1984 e l’e-book In prosa per la foto, ISNC Edizioni, 2014. Ha pubblicato in numerose antologie, riviste in cartaceo e online. Dal 2020 cura su Periscopio la rubrica di poesia “Parole a capo”. In questa rubrica sono uscite alcune sue poesie il 25 giugno 2020 e il 4 marzo 2021.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque:
Carrara, 16 e 17 dicembre 2023

Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque: appuntamento a Carrara, 16 e 17 dicembre 2023

Alpi Apuane: il 16 dicembre 2023 Manifestazione nazionale per la tutela della montagna, contro la devastazione causata dalle attività estrattive

Tra i promotori della manifestazione “Le montagne non ricrescono – Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque” ci sono CAI Toscana, Arci Toscana, Athamanta, Coordinamento Ambientalista Apuoversiliese, Comitato Civico della Cappella.

Le Alpi Apuane al centro di una manifestazione nazionale per sensibilizzare le istituzioni e tutta la comunità al problema dell’escavazione del marmo che sta facendo scomparire intere montagne.

Il 16 dicembre 2023 Carrara ospiterà la manifestazione “Le montagne non ricrescono – Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque” che vedrà l’unione di molte realtà nazionali e locali di tutela del territorio per denunciare e aprire i riflettori su quanto sta accadendo sul territorio apuano.

Le sezioni CAI e le associazioni ambientaliste riunite nell’Assemblea per l’Accesso alla Montagna hanno indetto un’iniziativa pubblica di sensibilizzazione poiché “Nei mesi passati le Alpi Apuane sono state scenario di diversi atti ostili da parte degli industriali del marmo e delle istituzioni che hanno tentato più volte di impedire l’accesso ad alcuni sentieri montani. A tutto ciò si accompagna l’insoddisfacente tutela ambientale e la dubbia legalità nella gestione complessiva dell’escavazione sulle Apuane, che il Gruppo Regionale toscano del CAI ha esposto nel “Dossier Apuane”.

Le realtà promotrici dichiarano inoltre che “In quattro anni è aumentato del 30% il materiale estratto, negli ultimi 30 anni è stato estratto più marmo dalle Apuane che negli ultimi 2000 anni a un ritmo non più sostenibile. L’80% del materiale estratto dalle Alpi Apuane è detrito, in gran parte polverizzato per produrre carbonato di calcio e meno dell’1% è usato per fini artistici. A fronte di questi dati riteniamo che sia naturale partecipare per sensibilizzare istituzioni e cittadinanza sul destino del nostro futuro e di quello delle future generazioni”.

E concludono: “ll caso delle Alpi Apuane è dunque emblematico nel mostrare le aberrazioni dell’estrattivismo, ovvero un sistema di sfruttamento del territorio in cui le aspettative del mondo imprenditoriale piegano le esigenze sociali, ambientali ed economiche delle comunità che vivono il territorio stesso. Un principio che, una volta affermato e reso sistemcaico, produce la privatizzazione dei profitti in pochissime mani e la socializzazione dei costi sulla popolazione e sugli ecosistemi. Non a caso Carrara è uno dei comuni più indebitati d’Italia, la cui provincia vanta tristemente un tasso di disoccupazione altissimo rispetto alla media dell’Italia centrale, ma che ospita al contempo società dagli utili favolosi”.

Contatti ufficio stampa
16dicembrecarrara@gmail.com

IL MOSTRUOSO CORTOCIRCUITO ISRAELIANO

IL MOSTRUOSO CORTOCIRCUITO ISRAELIANO
“Gli orrori degli uomini producono altri orrori”

Quello israeliano è un dramma frutto di un mostruoso cortocircuito: genti in fuga dai campi di concentramento nazisti, motivate da principi socialisti e spinte da una propaganda che prometteva pace, lavoro e giustizia in “una terra senza popolo per un popolo senza terra”… si macchiano degli stessi crimini da loro subiti durante l’Olocausto; genti appartenenti a un popolo umiliato, perseguitato e oppresso… ora perseguitano e opprimono un altro popolo, colpevole solo di esserlo.

Foto Franco Ferioli

Quello palestinese è un dramma frutto di una spaventosa forma di violenza che rimorde la coscienza dell’umanità: un simbolo della negazione dei diritti universali alla permanenza, all’esistenza e alla sopravvivenza di un popolo sulla propria terra; la quintessenza della negazione del diritto dell’umanità di esistere in quanto tale;
il plateale esempio di un genocidio – anche se pervicacemente negato – contro un popolo “fantasma”.

A proposito, in una celebre intervista del 1969 dove l’allora  Primo Ministro Israeliano Golda Meir si esprime in questi termini: “I palestinesi, molto semplicemente, non esistono”,  e non avrebbero mai dovuto esistere.
Come scrisse il saggista statunitense di origine palestinese, docente alla Columbia University,  Edward Said: “la Questione Palestinese costituisce da oltre settanta anni un tragico errore della storia, sorto nell’ambito del “Conflitto Israelo-Palestinese”. Un errore  proseguito nel contesto mediorientale delle “Guerre Arabo-Israeliane” e aggravatosi sino alle estreme conseguenze attuali della cosiddetta “guerra contro il terrorismo di Hamas” nella Striscia di Gaza.

Ciò che sta per onda in questi giorni, “La Soluzione Finale di Israele per i Palestinesi”, affonda le proprie radici nella storia di ieri, ed è una storia che non è mai cambiata.

La “Guerra del 1948”, chiamata in Israele “Guerra di Indipendenza”, ha comportato la nascita dello Stato di Israele e ha significato lo sgretolamento territoriale, economico e sociale del popolo palestinese, che ricorda il 1948 come l’anno di inizio della propria “Nakba”, la Catastrofe.

La Dichiarazione di Indipendenza Israeliana ha comportato la distruzione della Palestina.

Quando gli Ebrei sono diventati cittadini, i Palestinesi sono diventati profughi.

524 città e interi villaggi rasi al suolo; su una popolazione complessiva di 1.300.000 individui, 780.000 palestinesi vennero costretti ad un esodo di massa forzato da una ondata di violenza e di terrore scatenata contro civili inermi.

Mappa dei villaggi palestinesi distrutti da Israele nel 1948.

Chi ha comandato, diretto e attuato stragi  – come quella più tristemente nota del villaggio palestinese di Deir Yassin, dove sono stati massacrati a sangue freddo centinaia di donne e bambini innocenti – è poi stato eletto Primo Ministro di Israele e Premio Nobel per la Pace, e nel suo libro intitolato “The Revolt -Story of the Irgun”, Monachem Begin descrive le azioni terroristiche condotte sotto il suo comando con una minuziosa profusione di particolari agghiaccianti, ammettendo di essere il responsabile di questo eccidio, avvenuto il 9 aprile del 1948 e sostenendo che “Se non avessimo vinto a Deir Yassin lo Stato di Israele non esisterebbe”.

Subito dopo, per rappresaglia, i palestinesi uccisero settantasette medici ebrei sulla strada per Gerusalemme. Haganah, trasformato da gruppo paramilitare in nucleo originario dell’esercito nazionale, rispose minacciando altri massacri se gli arabi non se ne fossero andati.

L’ex capo di stato maggiore Moshe Dayan , rivolgendosi al Technion di Haifa (Israel Institute of Technology, citato in Ha’Aretz, 4 aprile 1969), ammise:
«Arrivammo in questo paese che era già popolato dagli arabi e vi stiamo consolidando uno stato ebraico, uno stato per gli ebrei. In alcune zone comprammo la terra agli arabi. Villaggi ebraici furono costruiti al posto di quelli arabi. Oggi voi ignorate persino il nome di quegli antichi insediamenti e non è colpa vostra, poiché non esistono più libri di geografia che ne parlino. E anzi, non solo non esistono più quei libri, ma neppure quei villaggi. Nahlal sorse al posto di Mahlul; Kibbutz Gvat al posto di Jibta; Kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tel al-Shuman. Non c’è un solo posto in questo paese che non fosse stato prima abitato da popolazioni arabe».

Un docente Israeliano, il professor Israel Sahahak, ha calcolato che circa quattrocento centri abitati arabi ”Furono completamente distrutti ed in maniera così accurata che delle case, giardini, cimiteri e perfino delle tombe, non resta neanche una pietra ed ai visitatori che passano viene detto che lì “prima c’era il deserto”. (Israel Shahak, The Zionist Plan for the Middle East (“A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties or the Yinon Plan), Association of Arab-American University Graduates,1982.

Nel breve volgere di una generazione, gli ebrei israeliani erano riusciti a trasformarsi da perseguitati in aguzzini, da Davide in Golia.

Israele è nato da un trauma e le genti ebraiche traumatizzate, in fuga, giunte clandestinamente a grandi ondate emigratorie in Terra d’Israele, che contribuirono al suo rapido sviluppo, hanno a lungo mantenuto la convinzione di avere costruito Israele dal nulla, senza porsi la domanda se e chi fossero coloro che prima ci vivevano.

Chi ha fatto affidamento sulla narrazione israeliana imposta dall’ideologia sionista è stato ingannato non solo riguardo ai crimini di guerra commessi dall’Esercito Israeliano, ma anche sulla natura, sull’origine e sui metodi di applicazione del concetto stesso di terrorismo.

Nei villaggi occupati, gli abitanti venivano radunati nella piazza e lasciati a soffrire sotto il sole per ore, poi i ragazzi più sani e belli venivano uccisi a sangue freddo davanti a tutti, per convincere gli altri ad andarsene e per fare in modo che la notizia del massacro terrorizzasse e svuotasse i restanti villaggi palestinesi.

La mentalità terrorista attraverso la quale Israele è stato concepito, costruito e sostenuto, è stata un fallimento fin dall’inizio, eppure Israele ancora si rifiuta di accettare ciò che risulta ovvio: fintanto che la sua esistenza sarà imposta con l’uso delle armi, non vi sarà pace e si continueranno a subire le conseguenze indotte dalla violenza.

Nel 1937 David Ben Gurion, leader del movimento sionista in Palestina e futuro primo Primo Ministro Israeliano scrisse: “Gli arabi se ne devono andare. Ma c’è bisogno del momento opportuno affinchè ciò accada. Qualcosa come una guerra”.

Dieci anni dopo, la leadership sionista elaborò il Piano Dalet, o Piano D, per rendere sicuri i confini di Israele attraverso la distruzione di città, quartieri urbani e villaggi palestinesi. Appena il piano venne messo in atto, la stragrande maggioranza dei palestinesi fu costretta a fuggire dalle proprie case, dopo aver subito ondate di violenza terroristica analoghe a quella provocata dal massacro esemplare di Deir Yassin.

Per rappresaglia, i palestinesi, attaccarono un convoglio ebreo di medici e infermieri che faceva la spola tra Gerusalemme e il monte Scopus e vennero uccise 77 persone.

L’Haganah, fu trasformata da forza clandestina paramilitare in nucleo originario dell’esercito regolare nazionale, e rispose minacciando altri massacri se gli arabi palestinesi non se ne fossero andati.

Yitzhak Shamir, prima di divenire anch’egli un grande statista, era al comando di un gruppo definito terrorista dagli stessi israeliani, la Stern Gang, un’organizzazione paramilitare che commise orrori su popolazioni civili.

Tra il 30 marzo 1947 e il 15 maggio 1948, 200 villaggi palestinesi furono occupati e i loro abitanti espulsi. Nei villaggi di Ein al Zeitun, Tantura, Hula, Saliah e Bassa, furono perpetrati atroci massacri. Dalle città di Lidda e Ramla vennero espulsi 50.000 abitanti in un solo giorno, 426 uomini, donne e bambini furono uccisi. Il generale al comando dell’occupazione e delle espulsioni da Lidda e Ramla, Yitzhak Rabin, diventerà  primo ministro di Israele per due mandati.

Nel 1948 il Chicago Sunday Times scriveva a proposito delle tattiche israeliane: “Praticamente qualsiasi cosa sulla loro strada è morta. Corpi crivellati giacevano ai lati delle strade”. Scrisse il New York Herald Tribune: “I corpi di uomini, donne e anche bambini erano sparsi in giro nella scia di una spietata e brutale offensiva”. Il London Economist riportò:” I profughi arabi furono sistematicamente ripuliti di tutti i loro averi…e poi spediti sul loro cammino verso la frontiera”.

Dal dicembre 1947 al gennaio 1949 il numero dei rifugiati palestinesi salì a circa un milione e la dispersione divenne vera e propria diaspora in Libano, Giordania, Egitto, Siria, Iraq. Da allora anche la storia moderna della Palestina e del suo popolo è stata totalmente cancellata.

Il raggiungimento dell’obiettivo del movimento sionista, quello di convertire la Palestina in uno stato ebraico, rendendo impossibile che venissero ascoltate o legittimate le proteste dei suoi abitanti originari, ha fornito fondamento e giustificazione per un’ulteriore criminale impresa colonialista, costringendoci ad ascoltare una narrazione della storia che, molto semplicemente, non è vera.
L’insensata propaganda della versione sionista della storia, tesa a convincere che non ci sarebbe stato nessun genocidio dei palestinesi, è già crollata sotto il peso degli studi condotti dal movimento della Nuova Storiografia Israeliana, un gruppo di storici, ricercatori e docenti israeliani che ha sfidato le versioni tradizionali sul reale ruolo assunto dal proprio Paese nell’esodo palestinese del 1948, e oggi, quella propagandistica visione sionista, rischia di disintegrarsi sotto il peso della guerra di Gaza contro i terroristi di Hamas.

Ciò che sta accadendo in queste settimane e in questi giorni, non rappresenta sicuramente la nascita del “Nuovo Medio Oriente” profetizzato a New York da Benjamin Netanyahu nel suo discorso di metà settembre alla 78esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite e questo non è certamente il modo con cui “Israele può diventare un ponte di pace e prosperità tra Africa, Asia ed Europa”.
Dalla metà di ottobre, l’UNRWA, l’Agenzia dell’Onu per l’Assistenza ai Profughi Palestinesi, ha iniziato a denunciare che a Gaza in media ogni dieci minuti i bombardamenti israeliani uccidono un bambino palestinese e due restano feriti.

I capi di 18  agenzie delle Nazioni Unite hanno lanciato disperati allarmi sull’imminenza di una catastrofe umanitaria senza precedenti, chiedendo a Israele un cessate il fuoco umanitario immediato:“Un’intera popolazione è assediata e sotto attacco, negata l’accesso ai beni essenziali per la sopravvivenza, bombardata nelle proprie case, rifugi, ospedali e luoghi di culto. Ciò è inaccettabile”, hanno affermato, invitando entrambe le parti a “rispettare tutti gli obblighi derivanti da diritto internazionale umanitario”.

Tra i firmatari figurano i capi dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), Save the Children, UN Women e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Craig Mokhiber, un avvocato che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, nel presentare le proprie dimissioni di fronte all’amara sconfitta del proprio compito e al fallimento della missione delle Nazioni Unite in Palestina, le ha così motivate: “Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina”. [Leggi su Periscopio il testo integrale della lettera di dimissioni di Crsig Mokhiber]

L’unico valore di chi vive sotto occupazione militare è il grado di resistenza all’occupante.
Nella città di Gaza e nel resto della Striscia, l’ultima morte rimasta da celebrare è la morte dell’ideologia sionista.

Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini e le denunce delle violazioni dei diritti umani non sono antisemite  Anzi, occorrerebbe chiedersi: in qual misura e in qual modo Israele rappresenta oggi il popolo ebraico? E in quale forma il popolo ebraico dovrebbe vedersi rappresentato dall’Israele di oggi?

Le  risposte sono giunte dalle strade e dalle piazze delle città di tutto il mondo dove una marea di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di fermi, denunce, arresti e percosse.
I difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “not in my name”, si sono espresse in coro.

Nella società israeliana e nel resto del mondo chiunque ponga l’attenzione sulle durissime condizioni di vita imposte da Israele ai suoi propri cittadini e cittadine, soldati e soldatesse, e chiunque analizzi la catastrofe che il sionismo ha provocato ai palestinesi, viene ostracizzato, ridotto al silenzio, definito antisemita o, se ebreo, un ebreo che odia sè stesso e gli altri ebrei.

E’ per questo che amare Israele consiste oggi nel denunciarlo.

Ed è per questo -da quando il 13 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha sottoposto i palestinesi di Gaza al più intenso e indiscriminato bombardamento israeliano di sempre, distruggendo case, ospedali, asili, scuole, università, moschee, mercati, centrali elettriche, pozzi, panetterie, edifici pubblici e infrastrutture civili e provocando oltre 18mila morti, 7mila dispersi, 35mila feriti,1,7 milioni di sfollati– che amare la Palestina consiste nel lanciare allarmi su una catastrofe umanitaria senza precedenti, e nel denunciare il pieno sostegno, finanziamento e armamento degli Stati Uniti e dei governi dei principali paesi europei, Repubblica Italiana inclusa, poiché risulta ormai chiaro, evidente e dichiarato che il Governo dello Stato Israeliano, applicando fino in fondo la sua ideologia di matrice sionista, non si fermerà finché l’ultimo individuo palestinese che vive in Palestina non sarà o epurato, o espulso, o ucciso.

I governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi derivanti dai trattati per garantire il rispetto della Convenzione di Ginevra, ma in realtà stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Di pari passo, i media mainstream occidentali violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando i palestinesi e trasmettendo propaganda di guerra e incitamento all’odio nazionale, razziale, religioso, alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza.

Facendo eco al sit-in della settimana precedente al Capitol Hill di Washington, durante l’ora di punta serale di venerdì 24 novembre, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di difensori dei diritti umani ebrei di Jewish Voice for Peace e IfNotNowche si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana cantando slogan e sventolando striscioni che chiedevano il cessate il fuoco mentre Israele intensificava il bombardamento della Striscia di Gaza.

Così facendo, rischiando e accettando pacificamente gli oltre 200 arresti operati dagli agenti del Dipartimento di Polizia di New York con le mani legate dietro la schiena, hanno azzerato il massimo punto di forza raggiunto dalla propaganda israeliana, secondo la quale Israele esprime la tradizione, la religione e la cultura del popolo ebraico.
Non è così. Non è più così. E aumenta la certezza che così non sia mai stato.

Naji al Ali. “Chi ha vinto”. .

Cover: Bambini palestinesi orfani i cui genitori furono uccisi nel massacro del villaggio di Deir Yassin, 9 aprile 1948 (IDF archive).

Per leggere tutti gli articoli, i saggi e gli interventi di Franco Ferioli su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.