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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Coblas di via Colomba
3. Tre stanze in via Colomba

Coblas di via Colomba. 3. Tre stanze in via Colomba

In questa casa, vedi, in queste stanze. Tre, due più una terza aggiunta poi, con una porta in un muro tramezzo. In queste stanze che vedi ora. Le imposte di legno, gli inquilini degli anni e delle decadi. Ora che è pieno di auto, di motori, che ogni piazza è un parcheggio e pure qui, in piazzetta Colomba, in piazzetta Muzzina; ora che non c’è più la piccola prostituzione nei vicoli, verso via della Concia, ora che i camion dei traslochi, ora che i bus, ora che cavalli azzurri e ippogrifi e stese di dehors, ora che techno fino a notte, ora che sembra tutto in svendita, ora guarda, al Capo delle Volte, la vastità del cosmo dentro porta.

Questa casa in cui visse Penelope, con un baule di taccuini e mappe; e poi la figlia di Giuseppe, Sara, il suo compagno Omar e Sirio, il loro figlio. In questa casa passò anche Leone, di passaggio tra Bologna e Venezia – non però quella volta in gennaio, quando alle Fondamente Nove guardò i cipressi, l’isola di San Michele, il futuro sottile come alghe.

In queste stanze diventate tre, la rastrelliera con le bici dove era l’orto, a metà aprile si fermò la Gabri: stette una settimana e con suo marito visitò Ferrara, Mesola e Pomposa. Guarita dal covid prima ondata, due mesi in ospedale – la vicina di letto nel frastuono, con la testa nel casco, nel marasma – Gabri che recitava il Rosario in latino, un’idea che le venne per la fede, per la voce, per la forza del cuore e le antenate, un’idea che forse anzi certo la curò e forse giovò anche alla vicina, ma certo che le giovò, la guardava senza sentirla, la testa dentro il casco e la guardava.

In questa casa stiamo un po’ al riparo, all’ombra. A pochi passi c’era, ci fu per anni, la rivendita di bassa macelleria. E poco più lontano l’ingrosso dei detersivi, un labirinto di cartoni con scritte grandi dove noi, molti di noi, imparammo a leggere. E lì nella piazzetta si fermò Elena, con addosso un tailleur bruciato e ghiaccio, e Ida molti anni dopo: ma assieme guardarono il cantone, la piazzetta di là. Quasi un campiello veneziano, qualcosa che il ricordo non contiene.

E al numero ventidue viveva Marta, che aveva nove anni quando i suoi le gettarono nel fuoco il sillabario – che lavorasse subito e da subito – ma poi diventò maestra e socialista.

Allí, león, allí furia del cielo,
te dejaré pacer en mis mejillas;
allí, caballo azul de mi locura,
pulso de nebulosa y minutero

Autunno del 1929: Federico García Lorca è a Manhattan, alla Columbia University. Furioso verso il capitalismo, grandi industrie e iniquità e sfruttamento, come in un grido di orrore si butta a scrivere, scrive come un pazzo, scrive Poeta en Nueva York. Penelope ha ancora un quadernetto, da allora, e anche una giacca appartenuta a Marta.

Da qui al Castello, ai Diamanti, alla Giovecca, da qui a ovunque pochi passi.
Al Borgo dei Leoni, al vecchio ghetto, da qui poca distanza.

Ed eccola, Penelope, sarta e tessitrice. Vicina a García Lorca a Nuova York, supplente a scuola al Delta del Po. Penelope in cartoleria, in via Contrari, e in treno nei feriali tra Ferrara e Bologna.
Eccola che cammina verso la stazione alle sei del mattino, zaino leggero, da porta san Giovanni mezz’ora di buon passo, il vuoto verde di piazza Ariostea poi i Diamanti, passi e ancora passi, poeta in porta Po – pochi minuti in più se vai per la Giovecca e quando avvisti le torri, il grattacielo, ecco sei già in stazione.

Penelope che sta a Porta san Giovanni, che lavora a Bologna a Porta Lame, e il treno i viali i portici le scivolano addosso. Il male lo conosce, e la fatica, e uno scatto di gioia indistruttibile. Ha un taccuino e una giacca nell’armadio, una giacca con fodera a quadretti, la cucì la zia Maggio tanti anni fa.

Siamo qui, siamo tante. Da secoli e millenni siamo qui.
E a dispetto dell’epica, della leggenda dello stratagemma, delle storie sulla paziente attesa, Penelope ha da fare e non aspetta.
Non Odisseo. Non Ulisse, nessuno. Non un uomo di nome Nessuno.

Tessere viene prima.
La tela è nata molto tempo prima.
La tela e la stoffa, andare e tornare, moto apparente moto pendolare, ordito e trama, Porta Lame stazione Porta Po, camminare e fermarsi, tessere e ritornare. Orto e cartoleria, chiacchierare leggere raccontare. Macerie, mercerie.

Nel dolore e nel caos la schiena dritta, sorelle conosciute e figli altrui, figlie nostre, e il chiacchierone dal multiforme ingegno che vada o torni dove pare a lui. Molto prima di Ulisse, la tela. Fare rizomi e tessere, filare, darsi del voi, cantare a tempo e cantare a respiro. Saturare, tendere il tempo, andare. Divenire tela, divenire rabbia. Divenire gioia.

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Per certi versi /
E bruciano bruciano ancora

E bruciano bruciano ancora

 

E bruciano

Bruciano ancora

I libri

Sono dei Neri

Stavolta

Non gli Ebrei

I neri lanciati

Nello spazio

Dalle bestie

Trionfanti

Bruciano

Nella città

Che non diresti mai

La città

Degli Scarabei

Bruciano

In tanti angoli

Di Albione

 

 

Chi brucia

I libri

Sta già bruciando

Le persone

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Ancora un morto: Cpr come buchi neri

Ancora un morto: Cpr come buchi neri

 

Le organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione esprimono il loro sgomento nell’apprendere la notizia della morte di Belmaan Oussama, un ragazzo algerino di 19 anni trattenuto nel Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, per il quale il procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, non esclude l’omicidio, doloso o colposo. Indetto un sit-in per sabato 10 agosto alle ore 11 davanti al Cpr .

 

La morte di Oussama, che sarebbe avvenuta lo scorso 5 agosto, “ha innescato una rivolta delle persone trattenute nella struttura e sollevato numerosi interrogativi – scrive in un comunicato il Tavolo Asilo –. Cosa è successo dopo le dimissioni dall’ospedale? Perché è rientrato nel centro? Chi ha fatto il certificato di idoneità per il suo reingresso? E chi ha vigilato sulla sua incolumità? Risulta che al momento del decesso fosse in servizio un solo infermiere, nessun medico, per 104 persone trattenute”.

 

Un sistema da abolire

“Non ci sono dati ufficiali e sistemi di rilevazione trasparenti ed efficienti per fare la conta dei morti – prosegue il comunicato –; una ricerca di ActionAid e dell’Università di Bari stima che siano 30 le persone che dal 1998 hanno perso la vita nei Cpr, fra cui, a febbraio di quest’anno, un altro diciannovenne, Ousmane Sylla, che si è suicidato a Ponte Galeria. Mentre notizie tragiche arrivano dalle carceri, anche nei Cpr le persone sono portate alla disperazione da un sistema di detenzione amministrativa che è un’aberrazione, uno spazio di negazione del diritto”.

 

Nel comunicato si ricorda che in Italia ci sono otto Cpr, “otto aberrazioni giuridiche e sociali, otto buchi neri in cui alle persone sono negati diritti e dignità. Un sistema irriformabile che va abolito. In questi centri è entrata una delegazione del Tavolo toccando con mano le condizioni di vita e trovando circa 550 persone che, dall’anno scorso, possono essere trattenute per 18 mesi”.

 

Servono politiche d’accoglienza

Diciamo da tempo che i Cpr sono un luogo di detenzione e di segregazione, dove non soltanto spesso vengono meno le condizioni di umanità minime delle persone, ma che proprio strutturalmente e concettualmente sono nati dall’idea sbagliata di avere un luogo dove persone a cui viene incollato il presunto reato di non avere un titolo di soggiorno, per il quale vengono confinate”, ci dice Maria Grazia Gabrielli, segretaria nazionale della Cgil, che partecipa al Tavolo Asilo.

 

“Questo strumento sbagliato delle politiche migratorie – prosegue – è all’interno di un quadro più complessivo che dimostra come l’approccio continui a essere su un’impronta che è tutta di ordine pubblico, sicurezza ed emergenza che sono i tre assi per assumere le scelte. È evidente che i Cpr andavano già chiusi molto tempo fa e invece stiamo tornando a un sistema di gestione della migrazione ancora una volta a svantaggio di una vera politica di accoglienza e integrazione. Basti pensare che aumentano le spese per la tutela dei confini con il protocollo Albania, dove in realtà portiamo i nostri operatori e le forze dell’ordine. Un buon sistema di accoglienza consentirebbe invece di costruire percorsi di reale cittadinanza nel nostro Paese”.

 

La Cgil e le altre associazioni del Tavolo hanno scritto una lettera al sottosegretario agli Interni, Nicola Molteni, con la quale è stato chiesto “di comprendere e di considerare i dati sull’immigrazione e dare risposta alle mancanze, ma le risposte concrete continuano a non arrivare – rimarca Gabrielli –. Una potrebbe essere il riconoscimento del titolo di soggiorno per sfruttamento a chi lavora nelle campagne, in agricoltura e non solamente. Persone che non hanno nemmeno gli strumenti per poter denunciare la loro condizione di sfruttamento e di schiavitù”.

Per la segretaria della Cgil serve cambiare l’approccio e nel contempo trovare anche soluzioni pratiche alle condizioni delle persone che lavorano in maniera regolare o irregolare nel nostro Paese, invece la politica continua a lavorare e a investire sulla sicurezza, sui confini, sul l’uso dei Cpr”.

“Rivendichiamo e chiediamo  anche in virtù della condizione umana e materiale di quelle persone una soluzione non mediana per rimuovere quella condizione”, sottolinea la sindacalista. Bisogna riaprire realmente una discussione – prosegue –, conoscendo l’importanza del quadro europeo, ma sapendo che ci sono scelte che intanto l’Italia può fare. Su questi punti continueremo il nostro lavoro, perché ci sono un fronte e un’attenzione ampia, c’è un’attività che abbiamo iniziato a fare e che continueremo perché per noi questi sono temi importanti e dirimenti”.

Per tutti i motivi esposti nel comunicato e da Gabrielli il Tavolo Asilo ha quindi indetto il sit-in per sabato 10 agosto alle ore 11 davanti al Cpr di Palazzo San Gervasio allo scopo di chiedere che tutti i centri vengano chiusi, che venga resa giustizia ad Oussama e a tutte le persone che hanno perso la vita nei luoghi di trattenimento.

 

Coblas di via Colomba
2. Agosto

Coblas di via Colomba. 2. Agosto

Il tempo e l’acqua. E l’arsura. Non piove da chissà quanto. La stazione dei treni, il rumore, caldo che è nebbia all’alba, poi sole e sole a picco e sole poi nebbia, nebbia e buio, finestre aperte sulla notte e basta.

In terrazza, a stendere il bucato, andiamo solo prima dell’aurora. In distanza le quattro torri, campanili, le pioppe sulle mura. Qui l’afa e il cantiere, il cantiere di un condominio di otto piani e poco più in là un grattacielo in costruzione. Rumore, rumore fino a sera. Non c’è mai stato un grattacielo, qui. Due torri di più di venti piani.

Di prima mattina poche lire di spesa, latte e pane, qualche uovo o susine, poi chiudersi in casa fino a sera. Barriera di Cavour, Porta Catena e Porta Po. Vetri chiusi, imposte chiuse. E nemmeno la radio, nel frastuono, in penombra.
L’odore dolce delle barbabietole. Odore giallo, odore appiccicoso.

In distanza canali, campi, argini. Qui esser vecchi, star chiusi, i muri che tremano e il caldo; e lamentarci no, che abbiamo visto tempi assai peggiori. Queste torri daranno casa a molti. Progresso, autostrade, vie ferrate.
In distanza il fumo del petrolchimico. Le torri il fumo le idrovore le ruspe le gru. Il progresso, dicono.

Presto sarà un cane nello spazio, un uomo una donna nello spazio, uomini sulla luna: intanto sono Astolfo e l’Ippogrifo, Giorgio e il Drago in città, quattro piani di scale ogni mattina. Il fumo che è il futuro, i ruderi postbellici e le ruspe. Ferrara nell’estate del 1957, cielo bianco sopra la pianura.

Come state, Lea?, ha detto la Lupe. Porto un pacchetto alla Clelia, la maestra. La Clelia del primo piano.
La Lupe, la cartolaia di via dei Contrari: la Lupe sotto casa, stamattina, mentre la Lea tornava dalla bottega.
Avete chi vi aiuta, Lea, con questo caldo? Se volete una cesta di pesche, ne ha fatte tante quest’anno. Vi suono il campanello e salgo io. Non state a scendere le scale.

Grazie, ha detto la Lea.
Da me c’è una stanza libera, dice allora Lupe. Al Capo delle Volte, in via Colomba, a pianterreno: casa vecchia, muri spessi. Anche io sto da sola, Lea. Venite a sfangare agosto là da me. Se vi trovate bene, bene. Se no, amiche come prima.

E Lea trascorse agosto in via Colomba, a casa dalla Lupe. L’agosto del ‘57, il più caldo che mai si ricordasse: fuori porta sorgeva un grattacielo – non c’è mai stato un grattacielo, qui – e al Capo delle Volte l’ombra, cantine e un orto, piccoli affari e biciclette, di rado un’auto sulla Ripagrande e il carro dei traslochi tirato da due cavalli grossi, quasi azzurri, gli zoccoli in cadenza sul selciato.

Poi fu il tempo dei fichi e dell’uva, poi oro e rame, poi tardo autunno e i cachi sui rami nudi, grandi sfere di luce nella nebbia. Per l’autunno e l’inverno, e poi per tutto il tempo che restò, Lea divise le spese e le giornate – si davano del voi, però ridevano – con la cartolaia di via Contrari. Per tutti Lupe, nata fuori d’Italia chissà dove, Penelope il suo nome vero.
In via Colomba, proprio in questa casa.

[Leggi domani pomeriggio su Periscopio il terzo racconto di Coblas di via Colomba]

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La libertà d’informazione in Italia è sempre più sotto attacco e Meloni ci sta isolando in Europa

La libertà d’informazione in Italia è sempre più sotto attacco e Meloni ci sta isolando in Europa

di Matteo Pascoletti
articolo originale su Valigia blu dei 31 luglio 2024

Nel giro di una settimana, la percezione in Europa dello Stato di diritto in Italia ha subito un duro danno di immagine, in particolare per quanto riguarda la libertà di informazione.

Il 24 luglio è uscita infatti la Relazione sullo Stato di diritto 2024, che analizza la situazione di ciascuno degli Stati membri dell’Unione europea. Secondo alcune indiscrezioni risalenti a giugno, la presidente uscente della Commissione europea Ursula von der Leyen avrebbe spinto per ritardarne la pubblicazione a dopo la sua nomina, per non complicarne le trattative che stavano coinvolgendo anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Nonostante lo slittamento, il risultato è poco incoraggiante, con i titoli internazionali che ci mettono in compagnia di Ungheria e Slovacchia. E questo soprattutto per la gestione del servizio pubblico.

Il 29 luglio è uscito il rapporto della Media Freedom Rapid Response dal titolo Silenziare il quarto potere. La deriva democratica dell’ItaliaNon è solo il contenuto dei due documenti a dover destare preoccupazione, lo è soprattutto la reazione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha ben pensato di prendere di petto la situazione, accompagnata dalla stampa di area.

Libertà e pluralismo dei media in Italia secondo la Commissione europea

Nella relazione della Commissione europea, varie criticità riguardano libertà e pluralismo dei media. Viene infatti evidenziata nelle raccomandazioni la necessità di garantire l’indipendenza del servizio pubblico e un adeguato finanziamento. Tre in particolare i punti critici sollevati dai “portatori di interesse” ascoltati. Il primo è la necessità di una riforma d’insieme della RAI, per garantire che l’azienda “sia maggiormente al riparo da rischi di ingerenze politiche”; il rapporto cita alcune dimissioni eccellenti avvenute in Rai a seguito del cambio di linea editoriale che si è avuta col nuovo governo. Il secondo è il nuovo regolamento sulla par condicio approvato prima delle elezioni europee: nonostante le rassicurazioni del governo permangono dubbi sul fatto che possa garantire un’informazione equa. Infine, c’è il problema del canone, per cui è prevista una riduzione nella legge di bilancio a fronte di un finanziamento diretto. Questo cambiamento potrebbe infatti incidere “sull’autonomia e sostenibilità finanziaria della Rai”, al punto da compromettere “il suo mandato di servizio pubblico”.

Per quanto riguarda invece la sicurezza dei giornalisti, sono in parte contestati i dati raccolti dal Centro di coordinamento del ministero dell’Interno che monitora minacce e intimidazioni sui giornalisti. Non sono infatte incluse le SLAPP (Strategic lawsuits against public partecipation) o querele intimidatorie, monitorate da altri organismi o da associazioni della società civile, come Ossigeno per l’Informazione. Questo, unito al fatto che molti giornalisti “non sempre denunciano alla polizia le intimidazioni o gli attacchi subiti”, potrebbe indicare problemi di sottosegnalazione, e quindi una difficoltà ad avere numeri coerenti con il quadro effettivo. Risultano poi completamente ignorate le raccomandazioni del 2023 per una riforma della legge sulla diffamazione e per la protezione delle fonti giornalistiche, problema che in Italia si trascina ormai da anni.

Altri punti critici per l’Italia riguardano il lobbying e il conflitto di interessi, due temi su cui il nostro paese è in pratica fermo e lontano dall’adeguarsi al resto dell’Europa, a partire dai parlamentari:

Anche se la Camera dei deputati dispone di norme sul lobbying e di un registro dei rappresentanti di interessi, mancano disposizioni complessive sul lobbying valide per entrambe le camere parlamentari. La mancanza di regolamentazione delle attività di lobbying è percepita come una delle principali carenze nel sistema di integrità nazionale. […] Come l’anno scorso, nessuno dei disegni di legge presentati è stato oggetto di discussioni parlamentari in nessuna delle due camere.

Infine, è utile menzionare il “ristretto” spazio civico, con casi di “aggressività verbale nei confronti di organizzazioni impegnate in attività umanitarie e contro chi partecipa a manifestazioni, e con episodi di volenza da parte delle forze dell’ordine.

La lettera di Giorgia Meloni a Ursula von der Leyen

Al rapporto è seguita una lettera di Giorgia Meloni alla neo-eletta Commissaria europea. Secondo Meloni, per la prima volta il contenuto della Relazione sullo Stato di diritto “è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il Governo italiano. Qualcuno si è spinto perfino a sostenere che in Italia sarebbe a rischio lo stato di diritto, in particolare con riferimento alla libertà di informazione e al servizio pubblico radiotelevisivo”.

Meloni fornisce poi tre spiegazioni di massima ai rilievi contenuti nel rapporto. Primo, scrive  Meloni, l’attuale maggioranza ha ereditato gli assetti legislativi della Rai, con Fratelli d’Italia che si schierò contro la riforma della governance Rai del 2015. L’attuale governance, inoltre, è stata “determinata dal governo precedente”, escludendo Fratelli d’Italia, “una anomalia senza precedenti in Italia e in violazione di ogni principio di pluralismo del servizio pubblico”. Non si fa tuttavia riferimento ad altre nomine, tra cui la più importante: Roberto Sergio, amministratore delegato nominato nel 2023. Un aspetto che invece è trattato nel documento della Commissione europea.

In secondo luogo, Meloni sottolinea che la dipartita di nomi importanti dalla RAI è dipesa da “normali dinamiche di mercato”. Infine, per quanto riguarda il regolamento sulla par condicio, Meloni parla ancora di “mistificazione a uso politico”, poiché la delibera adottata dalla commissione di Vigilanza è stata “dichiarata peraltro dall’AgCom conforme alla disciplina vigente in materia”. Meloni omette tuttavia che l’AgCom aveva prima invitato la commissione a integrare le norme sulla par condicio, provvedendo poi ad approvare a sua volta un regolamento differente per quanto riguarda il settore privato.

Non è questo il problema principale della replica di Meloni, ma il suo essere pensato a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, a beneficio di chi non ha letto la Relazione originale. Il grosso dei punti sollevati, infatti, è menzionato nella stessa relazione che cita per l’appunto il parere del governo. Inoltre la relazione tocca varie aree, non soltanto la libertà di informazione o la Rai. Meloni sceglie di rispondere solo su quest’ultima, evidenziando prima di tutto che è stato toccato un nervo scoperto.

Come se ciò non bastasse, il tono finisce per risultare completamente fuori luogo rispetto al contesto di una comunicazione pubblica tra un capo di governo e la presidente della Commissione europea. Un predicozzo in cui, senza neanche troppi giri di parole, si bolla il Rapporto come succube di strumentalizzazioni e fake news, minando quindi prima di tutto il lavoro della Commissione europea e la capacità di chi ha lavorato alla relazione. Conclude infatti Meloni:

Si tratta quindi di attacchi maldestri e pretestuosi […] che possono avere presa solo nel desolante contesto di ricorrente utilizzo di fake news che sempre più inquina il dibattito in Europa. Dispiace che neppure la Relazione della Commissione sullo stato di diritto e in particolare sulla libertà di informazione sul servizio pubblico radiotelevisivo sia stata risparmiata dai professionisti della disinformazione e della mistificazione.

“Silenziare il Quarto Stato”

Sempre a proposito di reazioni, Meloni e la stampa di destra si sono scagliati in queste ore  contro la relazione della Media Freedom Rapid Response (MFRR), dal titolo emblematico: Silenziare il quarto Stato. La deriva democratica in Italia. La MFRR è un’iniziativa co-finanziata dalla Commissione europea e che unisce alcune tra le più importanti organizzazioni per la difesa della libertà di stampa, tra cui European Centre for Press and Media Freedom, ARTICLE 19 Europe ed European Federation of Journalists.

Essendo un rapporto specifico sulla libertà di informazione, il quadro che ne esce è ancora più allarmante, oltre a confermare vari punti già visti nel Rapporto sullo Stato di diritto (come la par condicio). Si legge nell’introduzione:

La libertà dei media in Italia ha subito una continua erosione negli ultimi anni. La mancanza di indipendenza dei media pubblici e l’uso sistematico di intimidazioni legali contro i lavoratori del settore da parte di funzionari pubblici hanno caratterizzato a lungo il rapporto tra i media e la politica italiana. Tuttavia, queste dinamiche hanno raggiunto livelli allarmanti negli ultimi due anni.

Dall’ottobre 2022 allo scorso di giugno, sono 193 le segnalazioni relative all’Italia per quanto riguarda minacce o incidenti che colpiscono la libertà di informazione. In 54 di questi casi la fonte di questi attacchi proviene dal governo o da funzionari pubblici. La forma più diffusa di attacco è di tipo legale (53,7%), seguita da quella verbale (31,5%) e dai tentativi di censura (20,4%).

Tra i casi citati, le querele contro lo scrittore Roberto Saviano e il quotidiano Domani (verso quest’ultimo la querela di Meloni è stata ritirata sempre la scorsa settimana), di cui avevamo parlato su Valigia Blu, e la trasmissione Report:

Domani ha subito una serie di attacchi, tra cui diffide legali, querele, aggressioni verbali e presunti tentativi di compromettere la riservatezza delle proprie fonti giornalistiche. Nella maggior parte dei casi, questi incidenti sono riconducibili a funzionari pubblici. Analogamente, Sigfrido Ranucci, insieme alla sua squadra della trasmissione investigativa di punta della Rai, Report, è stato più volte bersaglio di violazioni della libertà di informazioneda parte di funzionari pubblici. La MFRR ha documentato segnalazioni riguardanti varie forme di intimidazione legale rivolte a Report da parte di importanti membri del governo e del partito della Meloni, Fratelli d’Italia; pressioni politiche ingiustificate sull’indipendenza editoriale di Report e abusi verbali rivolti ai suoi giornalisti. Altrettanto inquietante è la scelta del Presidente del Consiglio di condannare pubblicamente il team investigativo di Fanpage che aveva denunciato i riferimenti fascisti, razzisti e antisemiti di alcuni membri di Gioventù Nazionale, l’ala giovanile del principale partito della coalizione Fratelli d’Italia.

Un capitolo specifico è dedicato alla cosiddetta “Media capture”, quel fenomeno per cui l’industria dei media e il servizio pubblico sono ridotti a megafoni del potere politico. Spazio quinidi a quei casi che dai corridoi di viale Mazzini hanno poi tenuto banco nell’opinione pubblica, come la censura dello scrittore Antonio Scurati, la cancellazione del programma di Roberto Saviano Insider (che solo di recente è stato di nuovo annunciato) e la condanna inflitta alla Rai per comportamento antisindacale in occasione dello sciopero del 6 maggio scorso.

Ma, al di fuori del servizio pubblico, destano preoccupazioni anche le voci di un possibile acquisto di AGI da parte del senatore Antonio Angelucci. La “vendita”, si legge, “potrebbe creare il pericoloso precedente di un altro conflitto di interessi di tipo berlusconiano, mettendo potenzialmente a rischio altre agenzie di stampa del paese”. Infine, anche la repressione del dissenso finisce nel mirino, in particolare per quanto riguarda gli attivisti climatici e le proteste di studenti. Il tutto in un quadro generale che, unendo i puntini uno appresso all’altro, mostra all’opera una volontà di cambiare culturalmente il paese, puntando a un’egemonia che serri il più possibile la morsa del potere, prolungandola nel tempo.

Anche in questo caso, come anticipato, le reazioni sono state in un certo senso autoriferite al contesto italiano, non certo pensate per rispondere a livello europeo e internazionale del proprio operato. Commentando sia la lettera a Von der Leyen che il rapporto della MFRR, Meloni ha infatti detto che la sua era “una riflessione comune sulla strumentalizzazione fatta di un documento tecnico”. La Presidente del Consiglio ha anche aggiunto che “gli accenti critici non sono della Commissione europea” ma dei portatori di interesse. Ovvero i giornali come “DomaniRepubblica Fatto Quotidiano”. Sulle querele per diffamazione citate in particolare dalla MFRR, Meloni ha invece detto “non mi pare che in Italia vi sia una regola che dice che se tu hai una tessera da giornalista – che ho anche io in tasca – puoi liberamente diffamare qualcuno”. Analogo il tenore della stampa di destra, che va giù ancora più dura, secondo il collaudato tormentone “colpa della sinistra”, con tanto di elenchi dei giornalisti che non si allineano.

C’è però da far notare ancora una volta come questo tipo di risposta sia pensata più per l’ecosistema italiano e non certo per un pubblico europeo di funzionari ed esperti. L’uscita sui “portatori di interessi” ha senso per chi ci vuole crede, e per chi ignora la metodologia usata, non certo per una Von der Leyen. Nel rapporto della MMFR, questo è evidente in un passaggio in cui si citano i tentativi a vuoto di contattare esponenti del governo o della maggioranza, per ascoltarli sullo stato dell’informazione in Italia. La prima cosa di cui dovrebbe rispondere Meloni è della mancata collaborazione da parte del governo e della maggioranza. Si legge infatti:

LA MFRR ha richiesto incontri con rappresentanti ufficiali del governo e delle istituzioni, tra cui il ministro della Giustizia, il viceministro della Giustizia, il sottosegretario di Stato per l’Informazione e l’Editoria, la presidente della Commissione Giustizia del Senato, i senatori e i deputati della coalizione di governo. Purtroppo, nessuna di queste richieste ha avuto successo.

Invece siamo in uno scenario in cui gli esponenti del governo e della maggioranza che lo sostiene evitano di collaborare a un’autorevole iniziativa volta a monitorare l’operato degli stessi. Dopodiché, una volta che viene pubblicato il rapporto frutto di questa iniziativa, ci si presenta di fronte all’opinione pubblica dicendo in sostanza che esso è frutto di attacchi degli avversari politici, o di quegli stessi soggetti che vengono più o meno quotidianamente attaccatti. O che, nel migliore dei casi, gli autori si sono in pratica fatti incantare da astuti e loschi figuri (ovviamente di sinistra); dei fessi, in pratica. Una sorta di recita a soggetto cui partecipano anche e soprattutto i giornali di un senatore (Angelucci) che viene indicato come potenziale protagonista di un colossale conflitto di interessi. E in cui gli allarmi lanciati dai bersagli, tra comunicati di redazione, dichiarazioni di portavoce di associazioni o di parlamentari di opposizione, si perdono nel rullo compressore dei titoli, delle polemiche, dell’estremismo di governo spacciato per “polarizzazione”, simulando un gioco a somma zero che tale non è.

Un conflitto tra governo e giornalismo, in cui il governo punta a limitare la possibilità che il secondo eserciti la funzione che gli è propria. Veniamo del resto da settimane in cui ci è toccato assistere alla vergognosa conferenza stampa della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, in cui si è persino permesso di dire che lui non giocherebbe a calcio con un giornalista sotto scorta, Paolo Berizzi, piccato perché questi in precedenza aveva detto “non si gioca a calcio coi fascisti” (e chissà mai perché La Russa si sarà piccato). E dove per commentare l’aggressione squadrista a un giornalista che faceva il proprio lavoro (“incursione”, sempre per La Russa) ha lasciato intendere che alla fine il problema sarebbe stato il fatto di non essersi identificato come giornalista. Perché si sa che storicamente i fascisti non attaccano i giornalisti che si identificano. Al massimo aspettano di incontrarli su un campo di calcio per falciarli da dietro.

Insomma, la ricezione dei due rapporti da parte dell’estrema destra, si tratti di partiti politici, esponenti del governo o stampa, non fa che confermare la validità del contenuto e degli allarmi lanciati. Una dinamica descritta dalla giornalista Francesca De Benedetti su X/Twitter, in un thread dove spiega la metodologia usata da entrambi i documenti (che non è ovviamente quella descritta da Meloni): “Come liberi pensatori, giornalisti e media indipendenti siamo sotto attacco due volte. La prima, perché il governo Meloni prende di mira la libertà di informazione. La seconda, perché per provare che ciò non sta avvenendo, le vittime degli attacchi sono descritte come nemici della nazione”.

In copertina: Giorgia Meloni all’altare della patria, immagine di vialibera.it

Coblas di via Colomba
1. Penelope a Porta Saragozza

Coblas di via Colomba. 1. Penelope a Porta Saragozza

La prima volta è stata il nove dicembre. Lei si è seduta accanto a lui e gli ha letto un racconto: Silva, detto l’Occhio. Letto o raccontato, Leone non lo sa: c’era così poca luce.
Da allora è così ogni notte.

Bologna che non dorme mai, Bologna sveglia già prima dell’alba.
Leone si alza presto di mattina: la sua casa, la sua vita da solo, i tetti tra Frassinago e Sant’Isaia. Ma ora la moka è festa e alba, l’alba dei vecchi a porta Saragozza – così vicino ai colli – alba fragrante come pane.

Da mesi non usciva quasi più, Leone, e ora cammina tutti i giorni. Nella matassa dei vicoli pensa a Beatriz Viterbo, a Silva detto l’Occhio, alla ragazza Ida in piazzetta Colomba – neanche li conosceva, fino a ieri. Sua moglie, suo figlio lontanissimi; amici e parenti ancor più lontani, persi nel tempo e nello spazio; la sua carriera finita molti anni fa, quando rifiutò un favore in un appalto importante.

Certe mattine i portici di Saragozza e la biblioteca di Villa Spada, fieno e gelo sul fianco della collina: ore di Resurrezione e Cechov, o anche solo guardare gli alberi. E un giorno via Saragozza verso il centro, giù a piedi sotto i portici poi il Collegio di Spagna, uno slargo nel cuore, la piazza.

Nella biblioteca grande la vede davanti al bar, nel viavai del mattino: ma prima riconosce la sua voce, voce brunita e un po’ straniera, giovane. Ha i capelli rossi ed è pallida, ha preso un caffè stretto, senza zucchero.

Ma sei davvero tu.
Sì, Leone.
Come ti chiami.
Penelope.
Verrai ancora.
Sì.

Torna ogni notte, siede accanto al letto o alla poltrona. Gli dice di Colly e dei trilobiti, di Austerlitz e Lizzy. Di Luca che morì a Lissa, della casa del nespolo in malora. Di Giuseppe sull’uscio della bottega, nel vuoto largo di piazza Santo Stefano. Di Nina che vende rose. Di zia Rose che si sposa all’improvviso, già anziana, e che festa ascoltarla.
Dicembre 2011. Le notti più lunghe dell’anno.

Natale è dopodomani. Suona il telefono, è suo figlio, dice che non può scendere a Natale: vieni tu in treno, dice. Vieni tu a Milano, papà.
Leone va all’agenzia di viaggi, chiede gli orari per Milano. Poi rinuncia. Quella notte non c’è quasi rumore, a Porta Saragozza, e Penelope gli legge Fiesta.

La notte del tre gennaio è nevicato: luna piena sul mare bianco dei tetti e di là, verso i colli, dove le luci delle case tremano. E lei gli dice di un poeta russo, che raccontava ai suoi compagni, ai lavori forzati, Petrarca e Dante letti in italiano.

Il libro delle sonore argille, la libresca terra,
Il libro putrefatto, la diletta argilla
Che ci tormenta come musica e parole.

Undici gennaio, da tre giorni sereno: i giorni dell’alcione, del martin pescatore. Leone si alza presto e va in stazione, compra un biglietto andata e ritorno per Ferrara. Viaggio breve, ma da quanto non prendeva un treno. Arriva che è giorno fatto: il Capo delle Volte, i fondachi dei mercanti, piazzetta Colomba, a piedi fino in piazza, adagio, fino a che suona mezzogiorno. Vie che furono il ghetto, i suoi passi, gli androni.

Abre tu puerta cerrada que en tu balcon luz no hay
yo demandí por la tu hermosura
como te la dio el Dios

Passano pochi giorni, Leone torna all’agenzia di viaggi e chiede un biglietto per Venezia, domani, partenza all’alba. Mentre stampa il biglietto, l’impiegata dice: – Diciotto gennaio. Mica è una cosa da turisti, Venezia in gennaio.
Infatti è una cosa da poeti, dice lui. Una cosa da poeti russi.

Scende a Santa Lucia, prende per Cannaregio e guarda attorno. Vento largo, il ghetto, tutto è lì e gli ricorda troppe cose, un misto di giovinezza e di putredine. Così, come per perdersi, entra nel labirinto delle calli.
Fondali d’acqua scura, calli senza botteghe, una storia che aveva letto e dimenticato; poi, quasi con stupore, vede sorgere in fondo la laguna.

Leone alle Fondamente Nove. Una barca arriva dall’isola di fronte – un’isola cinta di mura, un’isola crestata di cipressi – e rompe l’acqua in un mosaico di luce.
In distanza il profilo delle Alpi, bianco di neve oltre la laguna; non sa perché, ma guardare – non la bellezza o la sorpresa, proprio e solo guardare – guardare gli fa quasi paura.

Senti che aria, Leone.
Penelope è scesa dalla barca: guance rosse di freddo, un ciuffo rosso fuori dal berretto; senti che odore, Leone. Alghe marine sotto zero.
Stanno lì, dove attraccano le barche. In piedi, fermi a guardare il tempo e l’acqua.

[Continua a leggere i racconti della serie Coblas di via Colomba domani e domenica pomeriggio su Periscopio]

Per leggere i racconti di Silvia Tebaldi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Storie in pellicola / Codice rosa

Un cortometraggio breve e che non ha bisogno di parole. Solo un colore: il rosa

In mare aperto, un fenicottero atterra su una portaerei. Per mantenere la pista libera e far decollare gli aerei, i militari devono sbarazzarsene. Ma il fenicottero e i suoi congeneri tornano implacabili per mettere di rosa la grigia macchina da guerra. La invadono.

Un cortometraggio bellissimo, “Code rose” (2022), diretto da Taye Cimon, Pierre Coëz, Julie Groux, Sandra Leydier, Manuarii Morel e Romain Seisson, sei alunni della scuola francese Ecole des nouvelles images di Avignone.

Il cortometraggio basato sulla folla – la nuvola di fenicotteri è potentissima – presenta un conflitto esterno tra esseri umani e animali, una messa in scena che coinvolge grandi distanze, un messaggio pacifista ed elementi del genere dei film di guerra, abilmente combinati con surrealismo e grande magia.

Le inquadrature sono ampie, non ci si concentra sulle espressioni facciali umane per creare tensioni o conflitti, ma lo si fa attraverso le posture del corpo, le performance dei personaggi e il confronto continuo tra la portaerei e i fenicotteri decisi.

Molti i punti forti di questo lavoro: ritmo visivo elevato, gestito attraverso il montaggio, il movimento all’interno dell’inquadratura, i movimenti della telecamera (panoramiche, riprese aeree), sceneggiatura altamente creativa con un conflitto insolito, elementi giocosi e surreali che ravvivano il film con umorismo, eccezionale lavoro estetico e di animazione, punti della trama efficaci e molte sorprese che catturano gli spettatori.

L’immersione nel rosa conduce in un mondo magico dove la bellezza ostinata può mettersi di traverso e fare la differenza. Trionfando, in beffa a tutto e a tutti.

Emilia-Romagna: occorre una svolta radicale nelle politiche ambientali

PER UNA SVOLTA RADICALE NELLE POLITICHE AMBIENTALI IN REGIONE MODIFICARE PROFONDAMENTE IL MODELLO PRODUTTIVO E SOCIALE

In tutto il Paese e in Emilia Romagna veniamo da anni di politiche ambientali (e non solo) sbagliate e inefficaci per contrastare il cambiamento climatico, affermare nei fatti la vera e necessaria transizione ecologica, fermare il dissesto idrogeologico e il consumo di suolo, attuare politiche per tutelare e preservare i beni comuni. Nella nostra regione abbiamo visto mettere in campo scelte in contraddizione con la necessità di uscire dall’economia del fossile (come il rigassificatore di Ravenna, il gasdotto Sestino – Minerbio e tutte le altre opere di potenziamento del sistema estrattivo), continuare a puntare sulle grandi opere stradali e autostradali in tema di mobilità (dal Passante di Mezzo a Bologna alla bretella Campogalliano – Sassuolo, dalla Cispadana alla Tibre), proseguire nel consumo di suolo (vedi il caso esemplare della logistica), devastare il patrimonio arboreo e boschivo, ignorare l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, dare seguito alle politiche di privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua e dal ciclo dei rifiuti.

È sempre più evidente che, invece, occorre promuovere una svolta radicale nelle politiche ambientali della Regione. E non solo in esse, visto che le stesse sono strettamente intrecciate con un modello produttivo e sociale, incentrato sul primato del mercato, la svalorizzazione del lavoro, la progressiva privatizzazione del Welfare.

La legislatura regionale che sta alle nostre spalle, e, in specifico, la Giunta regionale che l’ha condotta, è stata la prima responsabile di questa deriva regressiva. La proposta che oggi viene avanzata dal partito di maggioranza relativa con la candidatura di De Pascale sembra muoversi in sostanziale continuità con quelle scelte, a partire dall’esaltazione del Patto per il lavoro e il clima che, dietro affermazioni altisonanti, in realtà, le ha legittimate ed ha portato ad atti concreti addirittura più arretrati rispetto alle enunciazioni.

La destra, anche nella nostra regione, si presenta con un profilo che appare ancora peggiore sia rispetto alle scelte ambientali che al modello di società che propone. Coerentemente con la propria ispirazione negazionista, essa mostra l’intenzione, al di là delle affermazioni elettoralistiche, di rendere ancora più marginali, se non addirittura da annullare, tutte le politiche che guardano alla transizione ecologica, al contrasto al cambiamento climatico, al ridimensionamento dei poteri forti che continuano a voler perpetuare l’attuale insostenibile modello di sviluppo.

A fronte di questa situazione, la scelta prioritaria, per noi, è naturalmente quella di costruire e rafforzare la mobilitazione sociale per affermare la prospettiva di un modello produttivo, sociale e ambientale alternativo a quello oggi dominante. Per questo, rivendichiamo a chi guiderà la prossima legislatura regionale i seguenti obiettivi prioritari:

  • avviare l’uscita dall’economia del fossile, a partire dalla messa in discussione del rigassificatore di Ravenna e del gasdotto, per realizzare più rapidamente possibile il passaggio al 100% di energia prodotta da fonti rinnovabili;
  • difesa e ripubblicizzazione dei beni comuni, iniziando dall’acqua e dal ciclo dei rifiuti, per i quali vanno previsti la minimizzazione della loro produzione e di quelli non riciclati, uscendo al più presto dal ricorso all’incenerimento;
  • moratoria su tutte le opere che prevedono ulteriore consumo di suolo, con particolare riferimento ai poli logistici, e, invece, avvio di un programma serio di rinaturalizzazione dei corsi d’acqua e di riassetto idrogeologico. In questo quadro va inserito un intervento forte di tutela del verde, di rimboschimento e di blocco della distruzione di ogni area boschiva;
  • moratoria e ridiscussione delle grandi opere stradali (Passanti di Bologna, bretella Sassuolo-Campogalliano, Cispadana, Tirreno-Brennero e altre ancora), in connessione con il forte rilancio del trasporto collettivo e della mobilità ciclabile e pedonale;
  • stop definitivo all’espansione degli allevamenti intensivi e l’avvio di un programma per la loro riduzione, in un quadro di promozione di un sistema agroindustriale basato sulla prossimità e la valorizzazione della naturalità;
  • approvazione delle proposte di legge regionale di iniziativa popolare promosse da RECA e Legambiente regionale e dei loro contenuti in tema di energia, acqua, rifiuti e consumo di suolo, anche per dare valore agli strumenti di democrazia partecipativa.

Su queste basi, invitiamo tutte le realtà ambientaliste e sociali della regione a incontrarsi e confrontarsi, valorizzando tutti i possibili processi di convergenza, con l’intenzione di promuovere una grande manifestazione regionale per la metà di ottobre a Bologna, nella quale far vivere le nostre richieste e dare voce alla necessità di una svolta nelle politiche ambientali e sociali nella nostra regione.

COORDINAMENTO  REGIONALE  RETE  EMERGENZA CLIMATICA  E  AMBIENTALE  ER

Parole a Capo
Federica Graziadei (poesie inedite 2017-2020)

Cerca di conservare sempre un lembo di cielo sopra la tua vita.
(Marcel Proust)

 

Non so che cosa tu sei

Non so che cosa tu sei,
se stella,
se il profumo della rosa,
se il sole che entra dalla finestra
nel mio mattino di festa.
Non so che cosa tu sei,
se il mare,
se l’azzurro del cielo
di Primavera,
se la fragola fremente
che dona dolcezza alle mie labbra.
Non so che cosa tu sei.
Ciò che sento sei,
forse, il mistero del mio Tutto.

(Traduzione a cura dell’autrice)

Ich weiß nicht, was du bist,
Ob ein Stern,
Ob Rosenduft
Ob die Sonne, die durch das Fenster
in meinen feierlichen Morgen reinkommt.
Ich weiß nicht, was du bist,
ob das Meer,
das Hellblau des Frühlinghimmels
die erregte Erdbeere, die meinen Lippen Süßes verleiht.
Ich weiß nicht, was du bist,
Ich ahne,
dass du vielleicht das Geheimnis
meines Allen bist.

 

Le persone sensibili

Le persone sensibili
vedono quell’oltre
di inafferrabile dalla realtà.

Le persone sensibili
urlano dentro senza gridare.

Le persone sensibili
sentono lo stomaco stringersi
nel vuoto di una malinconia.
Le persone sensibili
Tengono cocci di parole
Per non scoprire troppo l’anima.

Le persone sensibili
hanno vene capaci di trasportare
emozioni travolgenti e silenziose.

Le persone sensibili
piangono per il peso
dell’innocenza di uno sguardo.

Le persone sensibili, tutto sentono,
eppure, riescono a stare in equilibrio
sul filo del loro cuore gonfio e fortunato.

 

Notte stellata

Dolce è questo silenzio,
l’anima mia ascolta
La stella più alta,
più lontana è il sogno
che inseguirò per tutta la mia vita.
Il suo nome è Verità.
Poi ci sono stelle più piccole, e guardo
vicine una all’altra
che hanno certi occhi scuri, vivi e curiosi.
Queste mi amano e mi proteggono.
Vega feconda e superba, brilla e tenta invano
di misurare il mio amare.
Le indicherò la strada di ciò che è essenziale.
I versi di Catullo appesi nella mia mente
-Vivamus , mea Lesbia, atque amemus –
Ama e non ti curar del giudizio.
Poi ci sono stelle luminosissime,
mostrano luci accecanti
dentro corpi lividi, neri, graffiati, strappati.
Queste mi chiedono carezze.
Il Sole infine, Stella che splende sui miei giorni
forte, coraggioso mi ricorda il suo muoversi fedele.
Addolcisce le mie inquietudini

Nel dolce silenzio
che l’anima mia ascolta.

 

La sera

 

Meravigliosa la sera
dei volti ripara gli anfratti
disegni del faticoso giorno
Silenzio e fascino …
nelle luci
tiepide e sospese
nei colori tenui
delle sagome
Suono ovattato di voci
tutto appare pace
sogno dentro al sogno
Oggi è il meglio di ieri
Se non è ancora felicità
la poesia di Saba
appesa nella mia mente
come una preghiera
Il mio cuore dolcemente
qui abbandono

 

Federica Graziadei è nata a Ferrara nel 1971. Vive nella sua amata città assieme al marito Giulio, i figli Anna e Giorgio. Lavora dal 2001 in un’azienda multinazionale di ingegneria progettazione impianti industriali. La passione per le lingue e la letteratura con predilezione per la poesia si rivela negli anni degli studi superiori. Nel 2002 ha pubblicato la sua prima silloge “Luna, da lassù” (Ed. Libroitaliano 2002). Nel 2003 ha ricevuto la segnalazione di merito per la poesia edita “Ombra” alla II Edizione del Premio “Gianfranco Rossi per la giovane Letteratura”. Suoi testi sono apparsi nell’antologia poetica “Sedici poeti ferraresi emergenti” (2009) e nella rivista culturale “l’Ippogrifo”, periodico ufficiale del Gruppo Scrittori Ferraresi. Nel 2016 la pubblicazione della seconda silloge “La luna nel bicchiere” (Ed. Aletti 2016). Promotrice di eventi culturali e dal 2019 Presidente dell’Associazione culturale” Gruppo Scrittori Ferraresi Aps”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 241° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Autonomia differenziata: alcuni dati e prime considerazioni

Autonomia differenziata. Alcuni dati e prime considerazioni

La legge 86/2024 sull’Autonomia differenziata è entrata in vigore il 13 luglio vistata dal Presidente della Repubblica. L’opposizione di centrosinistra ha indetto un referendum abrogativo che ha già raccolto in pochi giorni le 500mila firme necessarie (si farà nel 2025). Le preoccupazioni riguardano la possibilità che una parte maggiore di risorse (rispetto alle attuali) passi dalle regioni del Sud al Nord, visto che la legge impone “assenza di aggravio per le finanze pubbliche”. Tuttavia, come hanno scritto due esperti della materia su lavoce.info (che ha fatto un E-book di 250 pagine), Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo (vicini al centrosinistra), la legge Calderoli esclude questa possibilità. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che devono essere fatti entro 2 anni) e che con molta probabilità saranno “Livelli Essenziali ma Minimi”.

Per i due esperti i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri. Il primo riguarda le commissioni paritetiche “che ogni anno in una contrattazione tra Stato e singola Regione definiscono la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa. Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme”. Se si conviene che il Veneto abbia un aumento del fabbisogno in una materia, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria posto dalla legge, ci sarà un effetto su tutte le altre Regioni e ovviamente un aggravio per il Bilancio dello Stato (cosa che la legge esclude). Come possa funzionare un sistema simile con potenziali 15 diverse commissioni paritetiche in 21 diverse Regioni è un enigma. Se poi una Regione scopre che in una materia spende di più (del previsto) cercherà di restituirla allo Stato. E’ probabile quindi che anche di questa legge (come quella “mitologica” n.42/2009 sull’allora federalismo fiscale, così pomposamente definita, non se ne faccia nulla.

Il referendum potrebbe così diventare solo uno scontro politico in cui entrambi gli schieramenti rischiano: il centrosinistra perché ottenere 24 milioni di votanti come quorum, cioè il doppio degli elettori avuti come coalizione alle ultime elezioni, è molto difficile; il centro-destra perché se si raggiunge il quorum la maggioranza sarà certamente contraria. Lo è anche Marcello Veneziani, intellettuale di destra che di conti non ne se ne intende, ma vede questa legge come divisiva della patria Italia.

Il secondo tema critico, dicono Bordignon e Rizzo riguarda quante delle 23 materie sia opportuno decentrare (16 erano per l’Emilia-R.) nell’interesse pubblico. La teoria economica suggerisce che una materia dovrebbe essere decentrata quando: 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi; 2) le preferenze dei cittadini residenti differiscono molto da un territorio all’altro; 3) se non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale.

Per i due esperti ci sono alcune materie che non vale la pena decentrate in quanto potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale come Ambiente, Beni culturali, Porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, Energia (trasporto e sua distribuzione). Ma anche tra le 9 materie su cui si è deciso che non sono necessari i LEP e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità. Per esempio: Energia, Commercio con l’estero, Tutela e sicurezza del lavoro, Previdenza complementare e integrativa, Banche di interesse regionale, porti e aeroporti. Il rischio, concludono i due esperti, è che si “decentri troppo emale e anche nelle funzioni in cui un maggior ruolo delle regioni può avere un senso, non c’è alcun criterio che leghi la loro devoluzione a criteri che indichino una maggiore capacità gestionale delle regioni, effettiva o potenziale”. L’unico criterio è infatti la trattativa politica tra singola regione e lo Stato. E questo è molto bizzarro per uno Stato serio. Probabilmente si conta sul fatto che solo le regioni di grandi dimensioni chiederanno l’autonomia, perché per come è fatta la legge anche il Molise (269mila abitanti) potrebbe chiedere tutte le 23 materie e sarebbe (per il Molise) una catastrofe. Lo spirito della riforma dovrebbe essere quello di innescare una competizione virtuosa tra le regioni in grado di fare di più e meglio di quanto ha fatto fino ad oggi lo Stato centrale. In assenza però di Authority che misurano e monitorano almeno le materie più delicate (istruzione, ambiente, energia) il pericolo è quello di moltiplicare le burocrazie e i centri decisionali, di ingolfare le istituzioni (e il paese) con regole troppo diverse da regione a regione, nonché di alimentare un’ulteriore sovrapposizione delle competenze tra Stato e Regioni.

E’ tuttavia vero che la legge stessa prevede una durata di 10 anni e un monitoraggio annuale e che dunque, potremo avere informazioni (non sappiamo quanto accurate) anno dopo anno su come funziona questa sperimentazione (ammesso che decolli) e, nel caso di gravi inadempienze, lo Stato si riserva di togliere l’autonomia ad una singola regione in ogni momento. Non si potrà non riconoscere che fino ad oggi (in 75 anni) le ampie risorse gestite dallo Stato centrale a favore dei cittadini del Sud non hanno dato gli esiti che ci si aspettava e che non si vede perché Regioni che hanno dimostrato di avere buone pratiche (migliori di quelle dello Stato centrale) non possano gestire materie, a meno che non ci siano, come dicono appunto Bordignon e Rizzo, motivi seri (diseconomie di scala ed esternalità negative su altre regioni). Stiamo parlando di regioni di grandi dimensioni che hanno popolazioni come altri Stati: Lombardia come Svezia e Portogallo, Veneto Piemonte ed Emilia-R. come Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca e tutte sono dentro la cornice europea che pone normative comuni sempre più stringenti.

Nella tabella successiva riporto i costi regionalizzati al 2019 (più recenti non ci sono) relativi alle varie materie per la regione Emilia-Romagna. Ho evidenziato in giallo le materie che secondo Bordignon e Rizzo non sarebbe opportuno decentrare e in verde quelle richieste a suo tempo (2017) dalla Regione Emilia-R. Per un approfondimento delle diverse materie richieste dalle tre regioni [si veda qui]

Come si potrà notare l’Istruzione (che non comprende l’Università e gli ITS che rimangono una prerogativa nazionale) fa la parte del leone con 2.400 milioni, assorbendo da sola il 92% di tutte le risorse delle 23 materie potenziali da decentrare. Le restanti materie hanno costi irrisori tranne Ambiente (48 milioni) e Beni culturali (37 milioni) che comunque insieme fanno solo il 3,2% del budget trasferibile alla Regione, materie, peraltro, tra le 16 richieste anche dall’Emilia-Romagna.

La discussione dovrebbe quindi concentrarsi soprattutto sull’Istruzione (che è quella che ha di gran lunga un impatto maggiore sui cittadini) e su cui Bordignon e Rizzo non sollevano particolari criticità in quanto è indubbio che ogni regione abbia una sua specificità produttiva (che influisce sulla formazione professionale) e per il resto, anche sulla base dell’esperienza delle 5 Regioni a Statuto Speciale Autonomo, non si notano varianze significative nei programmi e nel complesso delle procedure organizzative. Nella scuola il finanziamento pubblico per alunno al Sud è solo del 9% più basso di quelle delle regioni del Nord, un valore che non compromette l’uguaglianza in quanto vanno considerati i minori costi per alcuni servizi e attrezzature in aree dove il costo della vita (certificato dall’Istat) è inferiore del 15-20-30% rispetto alle aree del Nord. Eppure in quasi tutte le scuole del Sud mancano le mense e il tempo pieno. Un rischio/opportunità è che i docenti diventerebbero dipendenti regionali anziché statali e ciò potrebbe portare ad un aumento degli stipendi nelle regioni più ricche, come avvenuto in Trentino e Alto Adige, ma ciò risponderebbe anche ad un bisogno reale di aree dove il costo della vita è maggiore che al Sud. Sul tema “Ambiente-eco-sistemi” e “Beni culturali” le tre regioni hanno buone pratiche e spesso hanno colmato ritardi e stalli delle amministrazioni centrali. I fautori della legge sostengono quindi che non si vede perché una maggiore autonomia potrebbe essere negativa.

Credo sia importante conoscere la situazione delle entrate proprie e della spesa primaria (e di conseguenza della differenza, detto residuo fiscale) nelle singole Regioni, in base all’unico studio qualificato disponibile (Banca d’Italia, 2020: Entrate e Spese delle Regioni nel 2019). Può essere che ci siano dati più recenti ma nessuno li tira fuori. In ogni caso la sostanza non cambia.

In base a questo studio si vede bene lo squilibrio tra Entrate e Spese nelle singole regioni. Per le Entrate si va dal massimo di 20.902 euro pro-capite del Trentino o dei quasi 19mila euro della Lombardia a 8.867 della Sicilia (ma anche Campania e Calabria sono su quel livello).
La spesa primaria è invece quasi uguale: è solo di poco più alta in Lombardia (13mila euro pro-capite) e quasi 12mila nelle più deboli regioni del Sud. Come si vede c’è un fortissimo riequilibrio garantito (giustamente) dallo Stato centrale con un fondo di riequilibrio che garantisce quasi pari risorse a tutte le Regioni. I problemi sono però due:
a) in alcune regioni (specie al Sud) queste risorse non si traducono in servizi;
b) al Nord questo fondo non è pagato da tutti ma solo da 3 regioni (Lombardia, Emilia-R., Veneto), oltre che dal Lazio. Queste 4 regioni versano circa 100 miliardi all’anno allo Stato di entrate proprie (essendo più ricche), il quale Stato ne trattiene 30 miliardi per sé e altri 70 miliardi li versa alle regioni del Sud ma anche a 2 regioni autonome del Nord (Val d’Aosta e Trentino Alto Adige) che spendono più di quanto incassano, approfittandosi di una convenzione storica firmata nell’immediato dopoguerra da De Gasperi con l’Austria ratificata dall’ONU, in cui al Trentino Alto Adige lo Stato versa risorse aggiuntive a tutela delle minoranze (italiana e ladina) in Südtirol. Una riforma che tutto il mondo ci invidia e che ha consentito (con soldi aggiuntivi) a minoranze (italiane e ladine) di essere ampiamente tutelate da una maggioranza (tedesca) che, di fatto, governa. “Soldi in cambio di pace” e che potrebbe essere anche una via dove ci sono tanti conflitti etnici e religiosi nel mondo (è stata proposta anche nel Donbass). Il problema è che questi soldi sono versati solo dai cittadini lombardi, emiliano-romagnoli e veneti.

Entrate pro-capite, spesa primaria, differenza (residuo fiscale). % spesa su entrate e simulazione nel caso di trasferimenti da 9 regioni del Sud a 3 regioni del Nord pari a +/-7% della spesa (18 miliardi annui), dati 2019 su fonte Banca d’Italia. (Fonte: Andrea Gandini su dati Banca d’Italia)

A mio modesto parere, dopo 75 anni, i trasferimenti dello Stato a Val d’Aosta e Trentino A.A. potrebbero diminuire, in quanto si tratta di regioni che un tempo erano povere (e il Trentino A.A. con enormi conflitti etnici) ma ora sono ricchissime e non hanno necessità di risorse aggiuntive da parte di uno Stato italiano (largamente indebitato) per tutelare le loro minoranze che, diventate tutte più ricche, vivono in pace. Un tema a cui nessuno Governo vuol porre mano perché ridurrebbe i consensi elettorali anche se va a scapito delle regioni che lo finanziano (Lombardia, Emilia-R., Veneto e Lazio). Il Lazio ha però un vantaggio enorme rispetto alle altre regioni: a Roma lavora gran parte della Pubblica Amministrazione statale e dei Ministeri ed è per questo che risulta un residuo fiscale attivo tra Entrate e Spese. In realtà se la P.A. fosse redistribuita in vari capoluoghi di regione, come pure si era pensato in passato, questo attivo non ci sarebbe. E anche questa redistribuzione sarebbe un fattore di uguaglianza e minore congestione di una città d’arte senza paragoni al mondo.

Rimangono così nella sostanza le “ragioni” delle tre regioni del Nord che finanziano le altre (specie il Sud e le due autonome del Nord). Non stupisce quindi che siano state queste che abbiano chiesto l’Autonomia differenziata, anche se ora Bonaccini (E.-R.) ha cambiato idea (penso per ragioni elettorali) e dice che “la vuole in modo diverso”. Una delle regioni più arrabbiate è il Veneto in quanto confina con il Trentino A.A. che, pur essendo più ricco, riceve risorse aggiuntive dallo Stato in quanto Regione autonoma (più l’Alto Adige che il Trentino) ed è per questo che periodicamente alcuni comuni veneti cercano di passare al Trentino A.A. solo per questione di soldi. L’Austria dal canto suo ha detto più volte che mai accoglierebbe le richieste (sempre minori) dei nostalgici che vorrebbero passare all’antica madrepatria Austria, la quale non vuole accollarsi le ingenti risorse che l’Italia spende per questo milione di cittadini (alquanto abbienti) ormai del tutto integrati in Europa.

La legge Calderoli prevede che le singole regioni possano chiedere allo Stato di gestire in autonomia tutte le 23 materie e che le regioni che non lo chiedono abbiano però le risorse per erogare i servizi e i beni pubblici “adeguati ad un livello di prestazione essenziale” (i famosi LEP), e siano finanziate attraverso l’attuale fondo perequativo che compensa la differenza tra bisogni e capacità fiscale delle singole Regioni. E si dice anche che “la spesa pubblica nazionale non risulti in aumento”. A tutta prima e anche secondo Bordignon-Rizzo “un’attenta analisi della legge, esclude la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge e proceda a trasferimenti di soldi dal Sud al Nord e se lo facesse, sarebbe ben grave”. Nulla però esclude che nel corso di 10 anni (tanto dura la fase di sperimentazione), il Governo trovi il modo di trasferire risorse dal Sud al Nord. Ecco perché ho fatto la simulazione con una ipotesi di circa 18 miliardi. Esiste anche uno studio dell’Osservatorio della Cattolica (OCPI) fatto con 33 miliardi.

Personalmente non credo che il Governo farà una cosa del genere che viola la sua stessa legge, anche perché ci sarebbe una enorme reazione delle regioni del Sud. Credo invece che cercherà la via, senza togliere risorse al Sud, per dare qualcosa in più alle tre regioni del Nord. L’ideale sarebbe che, a parità delle attuali risorse, ci fosse una sperimentazione per chi sa gestire meglio tali risorse con tanto di monitoraggio.

Calcolare i LEP entro i prossimi 2 anni sarà poi molto complicato in quanto occorre definire: 1) i costi standard di ogni bene pubblico erogato in modo efficiente, 2) il livello di prestazione minima, 3) i fabbisogni di ogni amministrazione locale. Cosa che non si è riusciti a fare in 25 anni nella sanità coi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).

In sanità I LEA sono stati introdotti nel 1999 (qualcosa di simile ai LEP), furono approvati 20 anni più tardi e dopo infinite schermaglie tra regioni e stato. Sono stati aggiornati nel 2017, ma ancora oggi non sono erogati in quantità e qualità uniformi in tutte le regioni del paese. L’elaborazione dei costi standard degli asili nido ha richiesto dieci anni, come si potrà farlo per 23 materie in 2 anni è un mistero. Quando la capacità amministrativa è poi di bassa qualità (come al Sud) chi ne fa le spese sono i cittadini, i quali però, come nel caso della sanità al Sud, non hanno alcuna penalità se non quella di venirsi a curare al Nord (chi paga sono le singole ASL introducendo qualche ticket in più per i consumatori).

La discussione dovrebbe quindi concentrarsi su quali materie la gestione regionale potrebbe essere più efficiente di quella statale. Importante è che la legge 86/2024 preveda un monitoraggio annuale (oltre a quello della Corte dei Conti) e una durata massima di 10 anni e la possibilità per lo “Stato, qualora ricorrano motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza, direttamente imputabile alla Regione sulla base del monitoraggio di cui alla presente legge, dell’obbligo di garantire i LEP, dispone la cessazione integrale o parziale dell’intesa, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere”.

L’auspicio è che in 10 anni si realizzino buone pratiche (sulla base di una comparazione) che consenta la loro diffusione tra Regioni o il ritorno di alcune materie allo Stato. Una Autority pubblica (che non è prevista) avrebbe agevolato questo processo in modo da coordinare il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitorare la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia e nel caso dell’Istruzione (dato l’enorme peso che ha sulle altre) istituire una specifica Autorithy dell’Apprendimento, come aveva proposto nel 2000, Luigi Berlinguer, che analizzasse scuola per scuola (i dati aggregati non servono a nulla, essendoci enormi differenze tra le scuole nello stesso Comune) in base ad una ventina di parametri, in modo da aiutare tutti a migliorarsi. Viceversa, mancando questo approccio e un consenso con l’opposizione, il rischio è una riforma pasticciata alla Calderoli che rischia di provocare più caos che efficienza, con monitoraggi limitati e così indebolendo quel clima di unità del paese che un intellettuale di destra come Marcello Veneziani, ha condannato.

Io, che invece sono di sinistra, non sono contrario che si individui una via per rendere più responsabili gli amministratori (del Sud e del Nord) nei confronti dei loro cittadini, anche per un principio democratico e di sussidiarietà e perché non siano premiate le consorterie di potere in cui si aggregano interessi particolari (sia al centro, a Roma , poco controllabili) sia in alcune regioni, anche per stroncare ogni forma di opacità nelle regole di Governo, di criminalità e abusivismo (quello edilizio al Sud è al 50%). Ovviamente se dietro la legge c’è l’idea di sottrarre risorse in modo indiscriminato al Sud (vedi simulazione), essa diventerà un boomerang per le destre. La sinistra non si può però cullare in slogan “anti”, quando le ingiustizie in termini di entrate e spese sono evidenti a vantaggio sia di regioni ricche (autonome del Nord) che di povere (al Sud), perché, prima o poi chi paga (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) chiederà conto. Sono passati 75 anni dalla Costituzione e non possiamo non vedere che la gestione statalista al Sud è fallita, nonostante le ingenti risorse fino ad oggi erogate. Si dovrebbe quindi discutere nel merito perché ciò non prosegua. Certamente se ci fosse stato uno spirito di cooperazione tra le parti la legge (che non è cattiva) poteva essere migliore ed essere avviata come sperimentazione. Ma il Paese è da sempre diviso anche su cose essenziali e in particolare sull’assetto istituzionale che vede Regioni con 10 milioni di abitanti (Lombardia) e alcune come Val d’Aosta e Molise con meno abitanti di una provincia media (123mila e 289mila). Ci si dovrebbe muovere come disse 75 anni fa il compianto industriale politico visionario Adriano Olivetti con macroregioni e comuni da 100mila abitanti, senza togliere però il presidio nei piccolissimi Comuni (8mila) che potrebbero essere amministrati anche solo da pochi eletti.

Si ammetterà che in Italia si sono fatti vari pasticci (dalla DC al PCI, e con la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001 dallo stesso centrosinistra), ultimo la soppressione delle province. Per quanto riguarda le Regioni l’approccio non è stato proprio limpido neppure da parte dei nostri (pur ottimi) Costituenti. Essi introdussero l’Istituto delle Regioni infatti con non troppa convinzione. La DC era favorevole in modo più strumentale che sostanziale, in quanto convinta di perdere le elezioni del 1948, mentre il PCI era tiepidissimo in quanto convinto di vincerle e così poter governare l’intero paese senza di mezzo le Regioni. Quando nel ’48 vinse la DC le posizioni si capovolsero e il PCI diventò un fiero alfiere delle Regioni, mentre la DC ci mise 22 anni prima di introdurle nel 1970. Come si vede anche i nostri Costituenti (politici di alto rango) non furono immuni da opportunismi nella costruzione delle Istituzioni. Un vizio antico che oggi si ripropone in modo accentuato. Al di là di come andrà il referendum, bisognerebbe avviare una discussione e poi sperimentazioni (prima di introdurre leggi nazionali).

Una nota per la mia simulazione (che è a invarianza di spesa pubblica nazionale, come dice la legge). Nel caso ci fosse tale trasferimento (“il diavolo è nei dettagli”, anche in quelli futuri che potrebbero venire) ma, per onestà intellettuale, questa la legge non prevede alcun trasferimento di risorse dal Sud al Nord, ho calcolato un trasferimento pari a circa 18 miliardi (+7% di spesa) nelle 3 regioni del Nord a scapito di 9 del Sud. Il Veneto ha sempre detto che si “accontenterebbe” di avere il 90% della spesa sulle sue entrate e quindi ho calcolato questa come suo massimo. L’Osservatorio dell’Università Cattolica ha invece fatto una simulazione su 33 miliardi.

Esso comporterebbe un vantaggio di circa 900 euro all’anno per i 19,1 milioni di residenti nelle 3 regioni del Nord e uno svantaggio analogo per i 22,1 milioni di cittadini delle 9 regioni del Sud (nell’ipotesi che quelle che hanno una spesa prossima alle entrate non abbiano modifiche: Marche, Liguria, Toscana, Friuli, Piemonte). Però più che un tale trasferimento dal Sud al Nord, temo che nel corso degli anni possa avvenire nelle “pieghe delle procedure” (il diavolo, ripeto, è nei dettagli) una manovra statale a vantaggio delle tre regioni del Nord senza colpire il Sud. Quando ci saranno i soldi…perché oggi non ci sono.

Il Governo infatti deve trovare: 30 miliardi per confermare gli sgravi fiscali e contributivi varati nel 2023, 12 miliardi per rispettare le nuove regole Ue di finanza pubblica, 20 per confermare il taglio del cuneo fiscale e il primo modulo della riforma Irpef a 3 aliquote: in totale fanno 62 miliardi, quando dal condono/concordato potrebbero arrivarne (se va bene) 7-8, dal taglio agli incentivi alle imprese ne arrivano 4 e fanno 12…e gli altri 50? E’ vero che nei primi 6 mesi del 2024 le entrate vanno bene…ma 50 miliardi sono una cifra imponente da trovare senza mettere mano ad una tassazione sui ricchi che non è nelle corde certo dell’attuale Governo.

Rimane così del tutto inevaso il vero problema e cioè come responsabilizzare i politici “amministratori” a gestire bene le risorse di cui dispongono, specie quelli del Sud che beneficiano di trasferimenti dalle tre regioni del Nord. La riforma potrebbe fallire se peggiorasse la capacità di saper amministrare autonomamente tali risorse, ma dubito che ciò avvenga in Lombardia, Veneto ed Emilia-R.

Il rischio potrebbe essere un indebolimento del ruolo (residuale) dello Stato al Sud, lasciando ancor più spazio alla criminalità e consorterie varie. Il vantaggio monetario del Nord sarebbe pagato da una catastrofe civile al Sud e non sarebbe di vantaggio di certo all’Italia nel suo insieme. Rimane sempre l’ipotesi che le Regioni del Sud chiedano anch’esse l’autonomia (in un’ottica di macroregioni) e non ci sia uno scatto di orgoglio dei suoi cittadini, i quali con le stesse risorse ma più poteri, ribaltino il corso delle cose esistenti, si mobilitino e chiedano ai propri amministratori quella trasparenza e correttezza di amministrazione che fino ad oggi è stata molto carente.

Come si vede il tema è complesso e non sarà certo risolto a colpi di slogan o referendum. Anche questa legge, che non è una cattiva legge, rischia il nulla di fatto. Essendo stata approvata a colpi di maggioranza è diventata materia di scontro ideologico e di referendum. Solo una sperimentazione condivisa con tanto di dati e monitoraggio da parte di una Autorithy pubblica indipendente può ri-avviare il Paese su come avere buone Istituzioni locali, che rafforzano la democrazia dal basso, sapendo che sono il principale fattore di sviluppo di un Paese. In teoria la sussidiarietà (amministrare nei luoghi più vicini ai cittadini se c’è la scala di operatività), il federalismo (più autonomi sotto uno Stato centrale, come è il caso di Germania e Stati Uniti), trasparenza e partecipazione si sono mostrati i principali fattori di sviluppo dei Paesi. Lo sono tanto più per noi che siamo un paese povero di materie prime.

 

Nota Bene
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Le voci da dentro /
Dino Tebaldi: “Eccoli!” (1995)

Dino Tebaldi (1935-2004)

 

In questo terzo capitolo del libro “Dietro le sbarre” di Dino Tebaldi, l’autore incontra per la prima volta la sua classe di scolasti “ristretti”.
Il suo modo di scrivere, preciso ed efficace, esprime bene le ansie e le preoccupazioni di chi, per la prima volta, sta per affrontare una sfida educativa importantissima.

(Mauro Presini)

 

Tutti naufraghi

di Dino Tebaldi 

Nell’aula, tutto solo, mi guardo d’attorno: pareti alte e disadorne, ma pulitissime; in un angolo, un armadio di formica color “terra di Siena”; davanti, tre file di banchi monoposto, alti, col piano d’appoggio d’uguale colore, e strutture in metallo nero.
La cattedra è della medesima serie: sembra una piazza, o – meglio – la plancia d’un barcone da costa.
Guardo… fuori, con imbarazzo: due file di finestre sovrapposte – quattro e quattro – con robuste inferriate. Al di là, non c’è niente; anzi, c’è un muro con altrettante finestre inferriate. Non è un paesaggio o una scena teatrale, ma un pozzo di luce. Non si vede il cielo, se non “a scacchi”; non. si vede il sole, ma se ne riceve ugualmente la luce indiretta. Qui, perfino gli elementi più tristi dell’autunno padano – alberi spogli in mezzo alla nebbia – uno se li deve immaginare, se li ha nella memoria; se no, con matita leggera, se li può far disegnare da chi ci sa fare. E poi, fantasticarci sopra, fin che vuole, con la mente e col cuore.
Eppure, questa è una scuola; se non lo è, io debbo farla diventar tale; convincermi, e convincere.
Sulla prima fila di banchi – otto o nove – dispongo tanti cartoncini che avevo in garage – fra i ritagli tipografici – da chissà quanto tempo: bianco opaco da una parte, rosso lucido dall’altra. Per ogni cartoncino, metto una penna a sfera.
Sulla cattedra, invece, dispongo l’elenco degli iscritti fornito dalla direzione, stamane (quattro nomi già depennati); e poi l’agenda personale, su cui appuntare qualche memoria; carta quadrettata, pennarelli, dodici pastelli ed un tempera-matite.
È l’armamentario di tutte le scuole, ammesso ad entrare anche qui dall’ispezione al primo posto di biocco.
G1i alunni tardano ad arrivare.
Sbofonchio: “E adesso?“.
Guardo in su, e prego spontaneamente: “Signore, adesso fammi strumento della tua volontà…
Penso a mio padre, e lo sento vicino. Gli bisbiglio che, con lui, al mio fianco, mi sento di lavorare dovunque-il destino mi vuole.
Mi sento contento.
Lo sguardo vaga per qualche tempo, si perde, si ferma a mezz’aria.
A destra – a circa quattro metri dal pavimento – c’è una telecamera muta, ma attenta; a sinistra – un metro e mezzo sopra la porta – una saracinesca metallica: potrebbe essere un’uscita od un’entrata di emergenza.
La mente comincia a fantasticare, come al cinema. Il cuore si mette a pregare più in fretta. poi si quieta. Mi guardo dietro le spalle: una lavagna di plastica bianca, sulla quale scrivere soltanto con penne alcoliche. Ed anche due carte geografiche: un emisfero, ed un insieme d’Europa. Sono aggiornatissime, con legenda in lingua francese. Nessun’altra scuola della città può vantare altrettanto.
Mi viene in mente che sto aspettando.
Comincio a pensare che…
Ecco, laggiù, una voce autoritaria: “Collega!
E subito dopo: “Cancelli! “‘
Un breve nervoso sferragliare di chiavi; qualche voce mozzata; un passo multiplo e misto: di scarpe cadenzate militarmente e di scarpette-borghesi e bianche.
La porta dell’aula viene aperta. ”
Irrompono strane, imponenti, ma attese figure: un negrone con i capelli a cordone; un… semi-bianco con i capelli corti e crespi; ed un agente in divisa, con i capelli neri, lisci ed impomatata, ben divisi dalla riga in mezzo.
Maestro, ecco i primi dueVado a prendere gli altri…”.
Mi muovo incontro. ai due giovani, allungo la mano destra ed esclamo: “Benvenuti!“.
La stretta è robusta, prolungata, festosa. Poi a ciascuno indico il banco dove possono accomodarsi. Non so che cos’altro dire al momento.
Per forza – sussurro a me stesso – certe cose bisogna dirle solamente se ci son tutti…”.
Da fuori, ancora le voci di prima; l’aprirsi e chiudere dei cancelli lontani; ed il calpestìo asincrono d’un… gregge umano:
Eccone altri tre…”.
Li guardo in faccia e sul capo: un negro gigante, con labbra tumide e capelli a… spazzola alta; due giovani un po’ spauriti ed un po’ spavaldi. Nei tratti del volto è dichiarata la provenienza: Magreb.
Ripeto i gesti e le parole di prima.
Anche loro – come gli altri – si mettono a posto: però a chi è venuto prima di loro, rivolgono festosi saluti.
Non è finita. L’agente – che sta lontano dall’aula – ancora apre e chiude il cancello, borbotta qualcosa a qualcuno, e riprende a scalpitare nel corridoio.
Altri tre… Maestro, tutti per lei…”.
Li fa entrare e si ferma accanto alla porta: attende che io incominci a far la mia parte.
Sono tutti qui?” chiedo, già sicuro della risposta. “Credo proprio
di sì… Però se arrivano altri, glieli porto
…”.
Comincio a parlare: “Io sono il maestro…”.
L’agente mi toglie la parola: “È qui per farvi scuola, insegnarvi tante cose. Siete fortunati….
Stavo per dire le medesime cose, tranne l’ultima frase.
Sorrido all’agente, ed anche agli alunni composti nei banchi davanti a me. Più d’uno di questi risponde con il sorriso.
Avete davanti a voi penna e carta: scrivete nome, cognome, data
e luogo di nascita… Ed anche aggiungete quale tipo e grado di scuola avete frequentato nei vostri Paesi…
.
Li guardo alle prese col primo compito: certe mani si muovono sicure; altre vivono momenti di vero impaccio. È chiaro che i primi, la scuola, l’han frequentata; e che i secondi, forse, ci hanno bazzicato per brevissimo tempo, o per niente.
Una voce chiama dall’altra parte del corridoio: “Collega!
L’agente corre, sferraglia come al solito, parla; qualcun’altro borbotta e lui riprende il passo verso l’aula.
Fa entrare prima un giovanotto, con la testa fasciata da un fazzoletto alla maniera dei pirati dei mari caraibici; e poi un ragazzo con un berrettino dall’ampia visiera voltata verso la nuca, sopra una coda annodata di lunghi e crespi capelli neri. È palese la diversa provenienza dell’uno e dell’altro.
Buenas dies…!” saluta il primo. L’altro scuote il capo senza entusiasmi; tenta un sorriso, che dura poco; e ripiomba in una gran serietà. È magrebino: gli manca forse la parola italiana; oppure, la voglia di vivere.
Io per voi sarò soltanto il maestro, perché non sono un giudice, né sono un agente e nemmeno un sacerdote. A voi debbo insegnare la lingua italiana, attraverso argomenti che voi stessi potrete indicarmi, o che io riscontrerò per voi di qualche interesse umano e scolastico”.
Freno la valanga di parole, di idee, di propositi. Chiedo a chi mi sta più vicino: “Capite le mie parole?
Qualcuno annuisce convinto e contento, d’avere capito qualcosa; qualcun altro, invece, non ha capito nemmeno la domanda e guarda con occhi sorpresi.
Riprendo il ragionamento e ribadisco – gesticolando con la mano in aggiunta a parole semplici semplici – il concetto cui tengo in particolar modo: “Io – per voi – sarò soltanto maestro. Voi, per me, sarete soltanto scolari. Avevo paura a venire qui, ed in famiglia e tra conoscenti tutti mi sconsigliavano. Ho pensato che voi aveste bisogno di me, e sono convinto che voi con me sarete migliori di quel che si crede…
Quasi tutti, stavolta, hanno capito: non le parole una ad una, ma le mie intenzioni nel loro insieme.
Distribuisco i fogli quadrettati, e raccolgo i cartellini coi nomi.
Scrivo sulla lavagna la data, e mostro come si fa la cornicetta per l’alfabeto attorno al foglio.
C’è chi parte spedito, contento di mostrar quel che vale; e c’è chi guarda il vicino, per copiare od avere conferme o smentite.
Io intanto confronto i cartellini autografi con l’elenco degli iscritti; ci sono nomi e dati che concordano in pieno; però molti differiscono parecchio. Le date ed i luoghi di nascita hanno riscontro positivo; non altrettanto i nomi e cognomi
Faccio l’appello, e chiedo che si risponda alzando la mano.
Individuo gli assenti, restituisco i cartellini e chiedo perché certi
nomi non vanno bene.
Arriva l’agente, e mi dà la sua competente risposta. “Vale il nostro
elenco, perché quella gente ha una, due, tre identità. Qui dentro
ciascuno è tenuto a rispondere al nome che ha dichiarato quando è entrato, o prima della sentenza…”.
M’accorgo di muovermi tra persone d’incerto profilo anagrafico, culturale, giuridico: un tunisino nato in Marocco; un negro nigeriano con nome statunitense; un negro nato a Las Vegas, ma residente a Parigi; un turco, composto, laconico, sorpreso lui pure di trovarsi in mezzo a tante bandiere.
Faccio domande, ma non sempre ricevo risposte appropriate.
Intendersi oggi, qui, non è facile.
I magrebini si consultano tra loro, forse per spiegarsi che cosa io ho richiesto; o forse per mettersi d’accordo su: che cosa e come conviene rispondere.
La guardia entra di nuovo, osserva, ascolta, e capisce alla sua maniera. Anzi, lui pure fornisce il suo parere: “Prenda appunti, se vuole…ma non creda a quella che dicono. sono bugiardi e ruffiani con tutti, soprattutto con chi non è detenuto, sperando di averne un qualche aiuto“.
Per avere da qualcuno un briciolo di confidenza, concedo la mia confidenza a tutti. Racconto che l’anno scorso facevo scuola ai bambini; che li ho lasciati per venire qui dentro. Aggiungo che ho appena compiuto sessant’anni; che sono sposato ed ho due figli; che sono anche nonno di una bimba che ha tre anni.
Anch’io… – dice il turco – Anch’io… due figli.”
Gli occhi gli diventano lucidi.
Gli chiedo, per distrarlo o per consolarlo: “Da quanto tempo non li vedi?”.
Prima distende le dita della mano sinistra, poi pronuncia due sole parole: “Cinque anni…” Dagli occhi scende una lacrima, e la voglia di parlare svanisce.
Al suo posto io non sarei diverso.
In silenzio ricomincio a pregare.
Sono venuto qui dentro perché il Signore mi ha dato una forza speciale.
Questi giovani, per stare qui dentro, hanno bisogno di tutta la forza che il Signore può dare. Chiederò per loro al Signore tutte le grazie di cui essi hanno bisogno.
Con la scuola – preciso un po’ a tutti – vi aiuterò ad imparare la lingua italiana, a pensare, a tenere la mente impegnata molte ore del giorno. È ¡l solo aiuto che io posso darvi. Mi hanno detto che fare soltanto il maestro. Cercherò di essere il maestro adatto a voi, condividendo – per quattro ore del giorno – la condizione del detenuto“.

(Ferrara, 4 novembre 1995)

Cover: Carcere di Ferrara, effetti personali dei detenuti.

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Terapia (un racconto)

Terapia

Dice: scrivere è meglio che andare dallo psicoterapeuta. Costa meno e alle volte serve.
E quando non si ha nulla da scrivere? Boh, si scrive e basta (parafrasando Vasco).
-Buongiorno dottore
-Buongiorno paziente. Che poi le non è neanche paziente è uno che camuffa e si nutre di gastrite.
-Vabbé lo so.
-Sa, pure che questo incontro non è mai esistito, che io non sono reale e che sue pugnette mentali se le sta scrivendo da solo alla tastiera del computer? Almeno dobbiamo essere certi che lei ne sia consapevole, altrimenti siamo messi veramente male.
-Si lo so. E’ solo una prova. Oramai sono anni che mi trastullo con la battutina sopra citata. L’ho detta una prima volta ad una presentazione di un libro. E’ piaciuta, E ora come un mantra o un mantello la indosso tutte le volte che mi viene chiesto perché scrivo.
-Esatto. Perché scrive?
-Ma allora dottore lei è un po’ tardivo. Cerco di fare uscire le parole in modo che non si trasformino in acidi gastrici, che non mi si tramutino nel fiato del drago e poi mi refluiscano nella trachea.
-Ok, quindi cosa mi vuole dire? Non le dico neppure di accomodarsi sul lettino perché tutto il contesto è frutto della sua immaginazione. Poi, spero che la categoria dei professionisti della mente non se la prenda con me, anzi con lei.
-Ecco dottore quello che le volevo dire è questo, io ho ancora sogni infantili, ho passato il mezzo secolo da poco, ma non sono un adulto fatto e finito. Mi mancano dei pezzi. Sono ancora in attesa di un imprenditore illuminato che capisca le mie potenzialità (che poi nemmeno sono sicuro di avere), un editore che rimanga folgorato dalle mie parole fino al punto da mettermi sotto contratto per scrivere il romanzo dei romanzi, il mio sindacato che veda in me il nuovo Di Vittorio oppure un qualsiasi partito estremamente di sinistra del 1.5% che punti su me per riprendersi il quarto stato.
-Si, decisamente, lei è grave. Mai pensato di farsi vedere da qualcuno?
-E daje, sto scrivendo appunto per risparmiare alcune centinaia d’euro.
-Vada avanti, ma si ricordi che non ho tutta la giornata.
-Dicevo appunto che ho aspirazioni acerbe, verdi come i rusticani, credo di avere abbandonato i sogni di giocare nella Spal e quello di lavorarci alla Spal da pochi anni. Magari per segnare le righe del campo col macchinino elettrico. Non lo so come posso guarire, credo di avere bisogno di un cocktail di autostima (una dose da cavallo), sport, aria pulita, passione, rivalsa, urla da stadio, scaglie di comunitarismo, due lanci in un torrente, un birra fredda, un buon libro letto e uno pubblicato. Ecco se mi prepara la ricetta, poi vado in farmacia e mi compro tutto il necessario.
-Guardi che sono un professionista, mica un firma ricette. Al limite devo essere io ad avvallarle la cura. Credo comunque che gli elementi per dichiararla infermo di mente ci siano tutti. Sta scrivendo a doppia voce tra lei e me che siamo la stessa persona, pigia i tasti in maniera isterica cercando di far uscire uno scritto che abbia senso. Il problema è che lei non vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, lei il bicchiere lo vede addirittura rotto. Tocca a lei aggiustarlo.
-Si lo so, ho continuamente bisogno di stimoli esterni, la polvere depositata sul piazzale antistante il mio box di cantiere non mi aiuta, i soffi, gli sprizzi, gli sguazzi del petrolchimico, mi spengono. Mi sento inadeguato alla vita nel recinto delle mura della fabbrica. Alle volte vorrei fuggire, ma non posso, non ci riesco. Vorrei fare altro, ma cosa? Sti cazzo di sogni infantili cominciano a pesarmi. Non sono operaio, non sono impiegato, né tecnico, né amministrativo. Sono un involuto.
-Credo comunque che lei debba continuare
-A fare che?
-A scrivere, non che la ritenga un genio, ma le serve. Gettare le parole sullo schermo la fa sentire meglio, poi, che scriva male o bene, quello lo deciderà chi legge. Ma continui, è come pasturare, prima o poi una bellissima tinca come quella che suo padre, quando lei era bambino sbagliò a guadinare e la fece fuggire prima di averle fatto prendere una boccata d’aria, abboccherà. Lo so che l’avrebbe rilasciata lo stesso, ma già da lì si percepiva che a lei mancava sempre una figura per fare un punto.
-Posso dirle una cosa dottore?
-Ma certo paziente, mi dica.
-Lo sa che lei è gran poco professionale, mi sembra un terapeuta da bancone del bar.
-Certo che lo sono. Sono lei stesso.
-Va bene, dottore non è che mi abbia aiutato molto, comunque essendo gratis ha fatto quello che ha potuto.
-La saluto paziente, mi stia bene.
-Mi stia bene pure lei dottore alla prossima seduta. Mo vediamo se ci pubblicano, ma a ‘sto giro sarà difficile.
-A presto, ma non troppo.

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Ma le sanzioni economiche della UE contro la Russia funzionano?

Ma le sanzioni economiche della UE contro la Russia funzionano?

Da qualche giorno la Banca Mondiale ha pubblicato il suo rapporto annuale con la classificazione dei Paesi del mondo sulla base dei livelli di reddito, misurati secondo il criterio del reddito nazionale lordo pro capite. Il Rapporto evidenzia innanzitutto come la classificazione dei paesi in categorie di reddito si sia evoluta in modo significativo nel periodo dalla fine degli anni ’80: nel 1987, il 30% dei paesi segnalanti era classificato come a basso reddito e il 25% come ad alto reddito, mentre nel 2023 questi rapporti complessivi sono scesi al 12% nella categoria a basso reddito e fino al 40% nella categoria ad alto reddito.
Nel 1987, per esempio, il 100% dei paesi dell’Asia meridionale era classificato come paese a basso reddito, mentre nel 2023 questa quota è scesa ad appena il 13%. In Medio Oriente e Nord Africa, invece, nel 2023 la quota di paesi a basso reddito è più elevata (10%) rispetto al 1987, quando nessun paese era classificato in questa categoria. In America Latina e nei Caraibi, la quota dei paesi ad alto reddito è salita dal 9% nel 1987 al 44% nel 2023. E nel 2023, secondo il Rapporto, l’Europa e l’Asia centrale avranno una quota di paesi ad alto reddito leggermente inferiore (69%) rispetto al 1987 (71%).

Quest’anno, Algeria, Iran, Mongolia e Ucraina sono tutti passati dalla categoria dei redditi medio-bassi a quella dei redditi medio-alti. L’economia algerina, in particolare, è cresciuta del 4,1% nel 2023, quella  iraniana è cresciuta, invece, del 5,0% nel 2023, trainata principalmente dalle esportazioni di petrolio e sostenuta dai guadagni nei servizi e nella produzione manifatturiera, mentre la Mongolia ha continuato la sua ripresa dopo la pandemia, con un PIL reale in aumento del 7,0% nel 2023.

Per quanto riguarda l’Ucraina vi è stata una ripresa della crescita economica nel 2023 (il PIL reale è cresciuto del 5,3%, dopo un calo del 28,8% nel 2022) insieme a un continuo calo della popolazione, che è scesa di oltre il 15% dall’inizio dell’invasione russa. Questi fattori sono stati ulteriormente amplificati dagli aumenti dei prezzi dei beni e dei servizi prodotti internamente, determinando un forte aumento del RNL pro capite nominale dell’Atlante del 18,5%. Mentre l’economia ucraina è stata significativamente compromessa dall’invasione russa, la crescita reale nel 2023 è stata guidata dall’attività edilizia (24,6%), riflettendo un notevole aumento della spesa per investimenti (52,9%) a sostegno dello sforzo di ricostruzione dell’Ucraina sulla scia della distruzione in corso.

Cisgiordania e Gaza sono stati gli unici paesi la cui classificazione, evidenzia il Rapporto, quest’anno è scesa. Il conflitto in Medio Oriente è iniziato nell’ottobre 2023 e, sebbene l’impatto su Cisgiordania e Gaza sia stato limitato al quarto trimestre, la sua portata è stata comunque sufficiente a portare a un calo del 9,2% del PIL nominale (-5,5% in termini reali). Poiché l’economia di Cisgiordania e Gaza era vicina alla soglia (è entrata nella categoria del reddito medio-alto solo l’anno scorso), questi cali hanno riportato l’RNL pro capite di Atlas nella categoria del reddito medio-basso.

Tre Paesi sono passati dalla categoria dei redditi medio-alti a quella dei redditi alti: Bulgaria, Palau e Russia. La Bulgaria si è avvicinata gradualmente alla soglia di reddito elevato con una crescita modesta durante tutto il periodo di ripresa post-pandemia, proseguita nel 2023 con una crescita del PIL reale dell’1,8%, sostenuta dalla domanda di consumi. Palau ha anche continuato la sua ripresa post-pandemia, con il PIL tornato ai livelli precedenti, crescendo dello 0,4% in termini reali. Con un’inflazione (misurata dal deflatore del PIL) all’8,1%, il RNL nominale è aumentato del 10,0%.

L’attività economica in Russia, infine,  è stata influenzata da un forte aumento dell’attività militare nel 2023, mentre la crescita è stata anche stimolata da una ripresa del commercio (+6,8%), del settore finanziario (+8,7%) e delle costruzioni (+6,6%). Questi fattori hanno portato ad aumenti sia del PIL reale (3,6%) che nominale (10,9%) e l’Atlas GNI pro capite della Russia è cresciuto dell’11,2%.

E ciò nonostante i tanti pacchetti di restrizioni messi in campo dall’UE  contro la Russia in questi oltre due anni dall’inizio del conflitto in Ucraina.

Qui il Rapporto della Banca Mondiale.

Regione Toscana. La falsa novità sull’assistenza sanitaria ai “turisti” non UE

Regione Toscana. La falsa novità sull’assistenza sanitaria ai “turisti” extraeuropei.

di Sergio Bontempelli
articolo originale su Cronache di ordinario razzismo del 

«La stangata della Regione Toscana ai turisti: sanità a pagamento per i non europei»; «I turisti extra Ue pagheranno le spese sanitarie»; «Giani batte cassa ai turisti extra Ue». I titoli dei giornali di questi giorni annunciano un vero e proprio «giro di vite» imposto dalla Regione Toscana: i turisti stranieri – «finalmente», chiosano molti commentatori – pagheranno le spese sanitarie in caso di un eventuale ricovero, o in caso di un loro accesso al Pronto Soccorso.

A spiegare il senso di questa iniziativa interviene il Presidente della Regione Eugenio Giani: «Così come oggi, se [noi italiani] andiamo negli Stati Uniti, sappiamo che dobbiamo farci un’assicurazione sanitaria», si legge in una nota, «così è giusto che gli stranieri che vengono in Italia da un paese extraeuropeo facciano altrettanto, per un principio di reciprocità».

Prima di dividersi tra favorevoli e contrari, prima di gettarsi nelle consuete polemiche al vetriolo che invadono le bacheche di Facebook, i cittadini toscani devono sapere una cosa importante: questa iniziativa della Regione, almeno per come è stata presentata alla stampa, non è altro che fuffa. Vediamo perché.

Che i turisti extra-Ue debbano pagare le spese per le cure mediche è un principio già sancito da una legge dello Stato, emanata più di un decennio fa: il Decreto Interministeriale n. 850 dell’11 Maggio 2011 prevede che, per ottenere un visto turistico, lo straniero debba munirsi di un’assicurazione sanitaria. Peraltro questa norma del 2011 si limitava a modificare un precedente decreto del 2000 (Decreto del Ministro degli Affari Esteri 12 Luglio 2000) che diceva la stessa cosa, e ad applicare un provvedimento Ue del 2003 (Decisione del Consiglio del 22 Dicembre 2003) che già imponeva l’assicurazione sanitaria. Per farla breve: viene presentata come novità «rivoluzionaria» una norma che esiste da ben ventiquattro anni!

Gli uffici stampa della Regione devono essersene resi conto: e difatti nel loro comunicato lasciano intendere che, certo, la legge esiste già, ma non è molto applicata. Ma anche questa è un’informazione falsa: per poter entrare nel nostro Paese bisogna avere un visto di ingresso rilasciato dall’Ambasciata italiana, e l’Ambasciata non rilascia mai il visto se lo straniero non esibisce un’assicurazione sanitaria. Così dice la legge, così fanno le Ambasciate. Chiunque si occupi di queste cose potrà confermarlo.

C’è però un’eccezione, su cui vale la pena spendere quache parola perché è forse quella a cui alludono i (vaghi) comunicati della Regione: alcuni Paesi hanno stipulato speciali accordi con l’Italia, e questi accordi prevedono l’esenzione dal visto per soggiorni brevi. Significa, detto in parole povere, che il turista proveniente da uno di questi luoghi «fortunati» non deve chiedere il visto all’Ambasciata: può entrare direttamente in Italia, esibendo tutti i suoi documenti alla polizia di frontiera. Ed è vero che – per prassi, non per legge – in molti casi questi turisti «fortunati» vengono fatti entrare anche se non hanno un’assicurazione sanitaria. Di solito i Paesi «fortunati» sono quelli più ricchi, o quelli con cui il nostro Governo ha una relazione diplomatica privilegiata: tanto per fare qualche esempio, nell’elenco dei Paesi «esenti da visto» rientrano il Canada, gli Emirati Arabi Uniti, Israele, il Principato di Monaco, il Regno Unito o gli Stati Uniti.

Ora, che succede se uno di questi turisti «fortunati» non fa l’assicurazione sanitaria, ma riesce lo stesso a entrare in Italia e poi viene ricoverato in Ospedale? Succede, molto semplicemente, che il malcapitato è costretto a pagare di tasca propria tutte le spese per le cure ricevute. Quindi non si capisce bene dove stia la novità annunciata dalla Regione Toscana.

A meno che (e a pensar male, diceva un importante politico della Prima Repubblica, si fa peccato, ma di solito ci si indovina…) l’iniziativa di Giani non sia rivolta a un target particolare, mai nominato esplicitamente: il target dei cosiddetti «overstayers». Vediamo di spiegarci.

Nell’elenco dei Paesi «esenti da visto» non figurano soltanto le nazioni più ricche del pianeta (come gli Stati Uniti, per intenderci), ma anche qualche luogo di origine di importanti flussi migratori diretti verso l’Italia. Per fare degli esempi, sono esentati dal visto i cittadini della ex-Jugoslavia (cioè di Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Kosovo), di molti Paesi sudamericani e centro-americani (tra cui il Perù: e i peruviani sono una collettività importante in provincia di Firenze). Ugualmente esenti dal visto sono gli albanesi, il gruppo nazionale più numeroso (dopo i rumeni) tra gli immigrati residenti in Italia.

I cittadini di questi Paesi «di emigrazione» (chiamamoli così, per capirci) entrano in Italia formalmente come turisti, ma nei fatti sono emigranti: molti di loro, alla scadenza dei tre mesi (il limite temporale massimo per un soggiorno di natura «turistica») rimangono sul territorio nazionale, nella speranza di trovare un lavoro e una qualche forma di regolarizzazione. Purtroppo, la legge Bossi-Fini vieta di rilasciare un permesso di soggiorno a chi sia entrato come turista: quindi, questi stranieri hanno poche speranze di emersione. Si chiamano tecnicamente «overstayers»: cioè, migranti divenuti irregolari non perché hanno varcato la frontiera in modo «clandestino», ma perché si sono trattenuti sul territorio nazionale oltre i limiti consentiti.

Una norma del 2007 (Legge 28 maggio 2007, n. 68) obbliga tutti gli stranieri entrati per motivi di turismo a presentare, entro otto giorni dall’ingresso in Italia, una «dichiarazione di presenza», che di fatto possiamo considerare l’equivalente di un permesso di soggiorno. Gli «overstayers», per l’appunto, non fanno la dichiarazione di presenza, e diventano irregolari.

E qui arriviamo al punto: un immigrato «overstayer», proprio in quanto irregolare, avrebbe diritto alle cure mediche gratuite, come prevede l’articolo 35 del Testo Unico sull’Immigrazione. Già oggi, in Toscana e forse non solo in Toscana, ci sono molte difficoltà a rivendicare questo diritto: a molti cittadini stranieri – in particolare agli albanesi – viene richiesta l’assicurazione sanitaria, come se si trattasse di «turisti» e non di immigrati senza permesso di soggiorno. Secondo un’interpretazione della legge condivisa da molti uffici, infatti, lo straniero diventa irregolare alla scadenza dei tre mesi di soggiorno, e non dopo gli otto giorni della mancata dichiarazione di presenza. Sulla base di questo «cavillo», molti immigrati irregolari non hanno accesso alle cure mediche, o vengono obbligati a rimborsare integralmente i costi delle prestazioni ricevute.

Ecco allora il problema: non vorremmo che questa iniziativa della Regione Toscana finisse per «prendere di mira» non i turisti veri e propri, ma quella manciata di migranti (di solito poveri e privi di mezzi) che entrano formalmente come turisti, ma che tali non sono. Sarebbe un brutto scivolone. E ci piacerebbe che la Regione chiarisse almeno questo punto, per levarci ogni dubbio.

Sergio Bontempelli
Presidente di Africa Insieme

Olimpiadi 2024, Imane Khelif e Angela Carini:
l’incolumità va tutelata, ma nella competizione sportiva la parità non esiste.

Olimpiadi 2024, Imane Khelif e Angela Carini: l’incolumità va tutelata, ma nella competizione sportiva la parità non esiste.

 

Imane Khelif è una pugile algerina iperandrogina: il suo corpo produce troppo testosterone. Si vocifera anche che abbia un’anomalia cromosomica (genotipo). Quel che pare certo è che il suo fenotipo è femminile: una femmina con tratti somatici mascolini, ma una femmina. Nel suo sport ha vinto molti incontri e ne ha persi alcuni. Quando ha perso, di solito ha perso contro donne non testosteroniche ma molto talentuose, tra le più forti della categoria. La prima domanda che mi sono fatto a proposito di questa atleta è: contro chi dovrebbe combattere? Maschi? O forse bisognerebbe creare una categoria di atlete con le stesse caratteristiche, che possono gareggiare solo tra di loro? (parliamo di un due per cento della popolazione mondiale)

Angela Carini è una pugile italiana. Ha partecipato a due Olimpiadi, quella di Tokyo e questa di Parigi, quindi è forte, si è allenata duramente, e solo per questo merita rispetto, non parole a vanvera. E’ salita sul ring olimpico contro Imane Khelif, ha preso due pugni molto forti sul naso, e ha deciso che era meglio salvaguardare la propria integrità fisica che combattere fino alla fine. Dopo circa 45 secondi ha gettato la spugna. La prima domanda che mi sono fatto a proposito di questa atleta è: quanto deve esserle costato abbandonare il ring olimpico dopo i sacrifici che avrà fatto negli anni per salirci?

Entrambe sono domande sbagliate, perché non contengono un giudizio. Il dibattito pubblico deve contenere invece due cose: l’indignazione morale manifestata dall’alto di qualche pulpito e la pulsione di sputare sentenze. Intanto sono ricomparsi tutti gli specialisti che hanno preso la pergamena su Google. Poi si sono subito create le tifoserie: a destra i difensori della donna italiana, a sinistra i paladini dell’inclusione. Questi dibattiti prima esplodevano al bar, adesso sui social, dove invece di partecipare in cinque partecipano da cinque a cinque milioni di individui: tutti genetisti, endocrinologi, fisioterapisti, ex pugilisti, dietrologi. La moltiplicazione dei pareri – spesso puri rimbalzi di stentoree filippiche altrui – e delle reazioni non produce una maggiore profondità di pensiero: è semplicemente come un sasso nello stagno che fa tanti cerchi invece che pochi, perché lo stagno è un mare, ma il sasso è sempre quello. Non una pietra preziosa, non una gemma. A Ferrara si direbbe un parduz. 

Per leggere un pezzo davvero interessante sul tema dell’intersessualità nello sport, consiglio di andarsi a leggere Ruth Padawer qui.

Per leggere parole in libertà invece spaziate pure da X a Facebook. Le affermazioni maggiormente prive di senso sono quelle che sostengono di prendere le mosse da un “principio”: bisogna che la competizione si svolga su un piano di parità. Quindi a Fausto Coppi, il cui cuore batteva trenta volte al minuto, dovevano proibire di salire su una bici da corsa. Quindi Michael Phelps, apertura di braccia due metri, mani come piatti da cucina, piede 48,5, non avrebbe mai dovuto mettere piede in una piscina. Idem Roland Matthes, che aveva una struttura ossea più leggera che gli consentiva di galleggiare come un sughero, e divenne il più forte dorsista della storia. Un ciclista che, senza doparsi, ha valori di ematocrito superiori agli altri e quindi organi più ossigenati e maggiore resistenza alla fatica, dovrebbe essere bandito dalle corse?

Quando mai una competizione sportiva si svolge su “un piano di parità”? Lo sport è crudele. La natura è spietata, brutale. Il doping non esiste solo per massimizzare il rendimento del singolo atleta: assolve (anche) all’esigenza di colmare un divario che la natura ha creato tra un atleta fisiologicamente più dotato e uno meno dotato. Chiunque fa sport anche a livelli dilettantistici sa che esistono i propri limiti individuali. Poi esiste l’ avversario rispetto al quale puoi essere nelle condizioni di allenamento ottimali, e nonostante questo sai che non riuscirai mai a raggiungerlo, a batterlo, a toccare il suo limite. Ci indigniamo quando scopriamo che un atleta si dopa per migliorare la propria prestazione, perché usa un trucco per avere un vantaggio rispetto agli altri. A parte che la storia della lotta al doping dimostra spesso che ciò che è considerato doping adesso, non era considerato doping prima. Quel che è indiscutibile, è che la “parità” di partenza non esiste: è la natura stessa che crea la disparità. C’è chi cerca di colmare o ridurre il proprio gap attraverso l’allenamento, c’è chi misura le prestazioni e aiuta a trovare il proprio limite un gradino più in alto di quanto l’atleta pensasse (suggerisco al proposito di leggere una bella intervista a Francesco Conconi, che è stato due volte Rettore dell’Università di Ferrara, qui)

Nel caso Khelif – Carini, questa disparità ha rischiato di fare danni all’incolumità della Carini, che ha ritenuto di abbandonare l’incontro. Evidentemente ha sentito che non avrebbe mai potuto vincere, e ha deciso di non farsi anche fisicamente danneggiare. Rispetto per lei (che non hanno quelli che la accusano di essere una commediante e quelli che la eleggono a paladina dei diritti delle donne) e per le sue parole del dopo gara, in cui ha augurato di vincere le Olimpiadi alla sua rivale sportiva e ha detto che non è suo compito giudicare. La tutela dell’incolumità delle atlete è un valore centrale: quindi, in sport di contatto come la boxe, stabilire un tetto al testosterone “naturale” prodotto da una atleta ha senso in funzione di questa finalità. Se la si mette sul piano delle “pari opportunità”, il palco cade: è la natura che consegna opportunità dispari, ad ognuno di noi.

La storia delle persone non si esaurisce nella competizione sportiva cui prendono parte, per quanto importante (per loro, in primis). La stessa caratteristica che conferisce a Imane Khelif un vantaggio competitivo nel suo sport, le ha causato e le causerà un bel po’ di problemi in altri campi della vita. Dovrà essere più forte come persona che come pugile.

 

 

Photo cover tratta dal profilo Instagram di Imane Khelif.

Noa, un’artista per la pace

Noa, un’artista per la pace 

Non tutti i cantanti hanno il coraggio di iniziare un proprio concerto con 3 parole.
Il 30 luglio scorso, iniziando la sua esibizione a Comacchio, la bravissima Noa lo ha fatto elencando una lunga serie di situazioni a cui ha detto i suoi “no, sì e grazie”.

No alla guerra, no alla violenza, no ai soprusi, no alle ingiustizie, no alle oppressioni, no alla prepotenza, no alla tirannia, no a ….
Sì alla pace, sì al dialogo, sì al rispetto, sì alle diversità, sì all’inclusione, sì alla candidatura della “sorella” Kamala Harris alla presidenza degli Stati Uniti, sì a….

Grazie a chi si adopera per una soluzione pacifica dei conflitti e grazie al pubblico presente.

Noa, musicista ebrea di origini yemenite nata in Israele ma cresciuta a New York, “né nera né bianca”, ha una voce straordinaria e magica che, da anni, mette a disposizione del suo grande impegno civile. Infatti ci ha tenuto a precisare che «Non c’è niente di più importante, per me, che usare la mia voce, le mie parole e il mio carisma per promuovere la comprensione, la compassione e la pace». Del resto, Noa ha spesso usato le sue canzoni come veicolo di un dialogo musicale per la pace, adoperandosi sempre a favore del riavvicinamento fra popoli in conflitto, con particolare riguardo alla questione mediorientale.

La sua musica intrisa di influenze mediorientali, spaziando dal jazz al rock, riesce a travalicare le barriere culturali e religiose.

Nel concerto, organizzato da Emilia Romagna Festival a Comacchio, Noa ha presentato brani del suo repertorio (There must be another way, Wildflower, I don’t know, Today, Now forget, Ma-ma improvisation, Child of man, Keren Or) e, in prima nazionale, quattro brani del suo nuovo album che uscirà ai primi del 2025 (Water, To all the broken hearts, I’m yours e Fear and the river. Quest’ultima canzone, ispirata alla poesia di Khalil Gibran [1], è un vero e proprio invito a non aver paura del cambiamento; mentre I’m yours esprime tutto l’altruismo della cantante consapevole di mettere la propria arte a disposizione della pace e dell’amicizia fra i popoli).

Richiamata dai tanti applausi del pubblico presente in piazza della Cattedrale, Noa ha terminato il suo concerto di pace e speranza con Shalom salam e Beautiful that way, dalla colonna sonora del film di Roberto Benigni “La vita è bella”.

Insieme a Noa (voce e percussioni) hanno suonato il suo amico e collaboratore di lunga data Gil Dor (chitarra e direzione musicale), Ruslan Sirota (pianoforte) che ha suonato un suo brano intenso per piano solo, Omri Abramov (sax e EWI) e Daniel Dor (batteria).

Di tutti i messaggi espressi da Noa, durante il concerto bellissimo, ne riporto uno perché è un insegnamento di una verità allo stesso tempo semplice e profonda, in cui credo fortemente: “Non lasciare che la vita ti accada. Crea la realtà in cui vuoi vivere. Nessuno lo farà per te. Gandhi lo ha detto meglio di chiunque altro: Se vuoi vedere un cambiamento, sii il cambiamento”.

Abbiamo bisogno come l’aria di artisti dalla profonda umanità come Noa che riescono a toccarci l’anima regalandoci, in maniera diretta e sincera, il loro messaggio universale di pace e speranza.

[1] Dicono che prima di entrare in mare
il fiume trema di paura.
A guardare indietro
tutto il cammino che ha percorso,
i vertici, le montagne,
il lungo e tortuoso cammino
che ha aperto attraverso giungle e villaggi.
E vede di fronte a sé un oceano così grande
che a entrare in lui può solo
sparire per sempre.
Ma non c’è altro modo.
Il fiume non può tornare indietro.
Nessuno può tornare indietro.
Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.
Il fiume deve accettare la sua natura
e entrare nell’oceano.
Solo entrando nell’oceano
la paura diminuirà,
perché solo allora il fiume saprà
che non si tratta di scomparire nell’oceano
ma di diventare oceano.

Cover e foto di corredo all’articolo di Mauro Presini.

Per certi versi /
Poesia per Pavese

Poesia per Pavese

nessuno
Come lui
Ha tenuto stretto
L’amore
Con la morte
Infelice il primo
Il più infelice
Degli amori infelici
Resta la seconda

Coi Suoi occhi
Fuori
Da ogni dove
Si è staccato
Vagando nell’universo
disperato

Avesse avuto
La fame certa
Del leone
Il veleno caro
Del serpente
La ironica follia
Di un buffone
Era e rimase
Un uomo
Un uomo
Solo
Che la campana
Fece suonare
Per sé

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Marco Revelli e la ricerca della Sinistra perduta

Marco Revelli e la ricerca della Sinistra perduta

intervista di Emiliano Sbaraglia
articolo originale da Collettiva del 3 agosto 2024

 

 

Nel suo ultimo libro (Einaudi 2024) l’autore dialoga con una figlia immaginaria, nel tentativo di riannodare i fili generazionali di un passato complesso, e sempre più remoto.

Che fine ha fatto la Sinistra? In Italia se lo chiedono in molti, non soltanto dalla caduta del Muro di Berlino ma da quando, in questo secolo che ha ormai raggiunto il primo quarto, l’avanzare di un capitalismo nevrotico e sempre più spietato sembra aver preso il sopravvento incontrastato, e in maniera irreversibile. Le ultime elezioni politiche nazionali hanno poi riportato all’ordine del giorno i rigurgiti di una matrice ideologica, quella fascista, nel nostro Paese mai del tutto condannata e sconfitta, a cui si aggiunge uno scenario geopolitico internazionale a dir poco preoccupante, malgrado in Europa la recente tornata elettorale in Gran Bretagna e Francia sembra poter offrire qualche spiraglio di speranza.

Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Marco Revelli, autore di numerosi libri che analizzano in uno stile del tutto personale la politica e la società italiana moderna e contemporanea, il cui ultimo Questa sinistra inspiegabile a mia figlia (Einaudi, pp. 163, euro 16,50) racconta del dialogo con una figlia immaginaria nel tentativo di spiegare una sinistra divenuta, in particolare negli ultimi venti-trent’anni, inspiegabile anche a sé stesso.

 

 

Professor Revelli, quando nasce l’idea di questo dialogo generazionale?

L’occasione esteriore mi è stata data dall’editore, quando Einaudi mi ha chiesto un classico libro della serie “xy spiegato a mio figlio”, in questo caso con la sinistra come soggetto, considerandomi evidentemente un uomo rappresentante della sinistra italiana.

Non si sente così?

Sì, certo. Però questo ha innescato una cascata di pensieri e riflessioni, a cominciare dal fatto che non mi sentivo di spiegare un concetto simile a chiunque, men che meno a un figlio o un adolescente di ultima generazione, perché nel momento in cui mi sono concentrato sul tema mi sono accorto che era inspiegabile anche a me stesso come fosse diventata quella identità entro cui ero nato e cresciuto…

E come ha risolto il problema?

In verità non mi ero mai posto il problema dell’essere di sinistra, dato il contesto famigliare, l’educazione, il tipo di memoria che ho ereditato, in una collocazione che in una prima fase aveva dei costi in termini di solitudine, nel senso che la mia infanzia e prima adolescenza, vissuta nella bianca Cuneo, bianca ma antifascista, mi portava a questa condizione. Poi le cose sono cambiate.

Cosa è accaduto?

Sono arrivati quei momenti che nel libro chiamo di “felicità pubblica”, dalla seconda metà degli anni Sessanta e nel decennio Settanta. Ma a un certo punto mi sono reso conto che il sentiero si era perduto, e quell’identità di sinistra era diventata impalpabile, introvabile, quasi all’improvviso apparteneva soltanto alla memoria e non al presente; e che tutte queste cose, a un giovane nato all’inizio di questo secolo, dicevano poco, non appartenevano più al suo orizzonte. Da qui la domanda che è alla base di questo libro: quando la sinistra ha cominciato a scomparire, quando ha iniziato a perdersi?

Ha trovato una risposta?

Credo tutto sia iniziato nel momento in cui gli esponenti della sinistra, italiana ed europea, hanno smesso di essere riconosciuti come tali per le loro scelte politiche e sociali.

Nel libro infatti si parla anche di Massimo D’Alema, di Tony Blair…

Sì, e del lucido cinismo dell’Avvocato Agnelli, quando affermò che “solo un governo di sinistra può fare una politica di destra”… Credo lo disse proprio al tempo del Governo D’Alema; d’altronde, lo smantellamento delle conquiste del mondo del lavoro ottenute negli anni Sessanta e i primi Settanta è opera più degli eredi del Partito comunista, e degli ultimi socialisti, che non della destra. Nel nostro Paese siamo arrivati al paradosso che uno come Silvio Berlusconi si è potuto permettere di proporsi come populista.

In alcune pagine viene evidenziata una sorta di ineluttabilità nel destino dell’uomo di sinistra, condannato a un diverso rapporto con il senso del tempo, a una “coscienza infelice” in virtù di un “disagio della realtà” che lo affligge.

Si tratta di un mio pensiero recente, maturato nello scrivere questo libro. Il fatto che essere di sinistra, non da oggi, implichi mettere in conto una certa quota di dolore e sofferenza, è un tema che ho voluto approfondire. Perché chi è antropologicamente di sinistra, al di là delle rispettive culture politiche, vive empaticamente lo scandalo delle ingiustizie di cui è pieno il mondo, il nostro presente. E l’uomo di sinistra è tendenzialmente infelice nel presente, ben lontano dal filosofico “grande meriggio” nietzschiano del qui e ora, perché il presente genera dolore anche se non è un dolore legato alla propria specifica persona, partecipando della sofferenza altrui. In altre parole è il disagio dell’essere in nome di un dover essere, per cambiare il presente, che in un tempo di edonismo narcisistico diventa un sentimento improponibile, quasi impensabile.

Nel libro la sua figlia immaginaria la rimprovera per questa infelicità sempre in sottofondo…

“Mi hai reso infelice trasmettendomi i tuoi valori”, dice a un tratto, un tratto esistenziale del presente, che però da un quarto di secolo a questa parte appartiene all’orizzonte di vita delle nuove generazioni, il cui imperativo è essere felici dell’esistente, perché questo viene richiesto loro.

Eppure qualcosa sembra muoversi, almeno in Europa, in attesa del voto statunitense. Penso al recente voto in Gran Bretagna, al Front Populaire in Francia. Non ci sono spiragli per la costruzione di un’altra sinistra?

Sinceramente dal risultato inglese non mi attendo nulla, anche perché è un successo determinato soprattutto dal crollo dei Tories, e non dall’avanzata dei Labour che, per intenderci, in termini di voti hanno preso meno di Jeremy Corbyn. Personalmente sulla Gran Bretagna ho messo una croce sopra, credo che il mondo anglosassone in buona misura sia una terra perduta per la sinistra. Per il Front Populaire in Francia il discorso è diverso, una miracolosa reazione che in un mese e una settimana ha ribaltato un destino che appariva ormai ineludibile. Ma questa reazione è il prodotto di uno spirito profondo, pre-politico, di un sentire partitico insoumise, non sottomesso, che appartiene non solo all’area-Mélenchon, e non si rassegna a consegnarsi al post-fascismo del Rassemblement National. Un sentimento che ha portato a votare milioni di elettori che si erano ritirati dalla politica, 10 milioni in più rispetto alle precedenti Europee, e che non è un merito di Macron, ma di una Francia antropologicamente irriducibile.

Non possiamo pensare a un risveglio simile, seppur diverso, anche in Italia?

Come dice la mia figlia immaginaria, dovrà pur esserci una reazione a queste “faccine di circostanza”, o al negazionista di turno, al di là del pessimismo cosmico trasmesso in questi anni… Io penso che arriverà un soprassalto fisiologico alle forme sfacciate di ingiustizia, allo scandalo delle diseguaglianze che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Essere di sinistra, malgrado tutto, continua a significare provare empatia per chi soffre, e questo sentire non può esser svanito per sempre.

 

Presto di mattina /
L’amicizia apostolato primordiale

Presto di mattina. L’amicizia apostolato primordiale

Gli amici di sempre

In questi giorni la liturgia ci ha ricordato gli amici di sempre di Gesù, quelli più nascosti, silenziosi, riposanti, vivandieri. Quelli posti – verrebbe da dire – dietro le quinte del Regno dei cieli, anche se sommamente presenti perché sempre pronti a ospitarlo nei momenti decisivi, difficili della vita di Gesù.

Sono quelli che assumono lo stesso stile di Maria di Nazareth, la Madre, silenziosa e pur presente, a differenza degli altri amici che riempiono di continuo la scena quotidiana della vita di Gesù, sempre in primo piano ad ogni pagina del vangelo, tanto da risultare invadenti: i dodici apostoli.

Il riferimento è, come s’intuisce, agli amici di Betania, i cui nomi sono noti: Marta, Maria e Lazzaro. Gli stessi che nel racconto della morte di Lazzaro l’evangelista Giovanni indica come «amati» da Gesù (Gv 11,5). E usando il verbo “agapào” anziché − come ci si aspetterebbe − “philèo” (i.e.: amore di amicizia), Giovanni vuole sottolineare l’amore della più grande intensità, quello che induce persino a dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13).

Questi tre, chiamati per nome da Gesù più volte, sono chiamati fuori dai loro ritiri e chiusure: la casa, l’affanno del fare, il lutto, il sepolcro. Ciascuno a suo modo, ci testimoniano i tratti essenziali dell’Amico e confidente: Marta, attraverso le pratiche dell’ospitalità, vive l’amicizia come servizio, dedizione all’altro.

Maria esprime la propria amicizia attraverso l’ospitalità dell’ascolto e della custodia della parola di Gesù, mentre Lazzaro fa della sua amicizia un affidamento (il suo nome significa colui di cui Dio si prende cura; Dio ha aiutato il povero) e perciò vive in confidente attesa dell’arrivo dell’Amico, anche quando è in ritardo sulla morte e sembra non esserci più niente da fare, ormai stretto e avvinto dalle fasciature funerarie.

L’amicizia fa abitare gli uni negli altri in un movimento di amore. È un andare e venire, un perdersi per ritrovarsi. Non è un caso che il verbo dimorare e rimanere torna spesso nel vocabolario di Giovanni proprio per esprimere lo stare dinamico di Gesù nel Padre suo e quello dei discepoli con Lui al modo della vite e dei tralci. E Marco annota: «Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli – perché stessero con lui e per mandarli a predicare», (3,14).

Non sorprende allora che Aelredo di Rievaulx (1110-1167), un monaco cistercense che scrisse un testo sull’amicizia spirituale, abbia intrepretato le parole di Giovanni “Dio è amore” (1Gv 4,16) con “Dio è amicizia e colui che rimane nell’amicizia rimane in Dio e Dio in lui”.

Inviati dall’Amico: l’apostolato silenzioso dell’amicizia

Apostolato è una parola non più molto usata, rispetto alla quale si preferiscono oggigiorno termini come evangelizzazione e azione pastorale. Connotato storicamente con diversi significati, l’apostolato divenne una forma di ministero strutturato gerarchicamente nella diversificazione dei compiti tra clero e laicato per la diffusione della fede cristiana nel mondo. Apostolo significava infatti originariamente colui che è inviato da un altro, e apostoli erano per l’appunto gli inviati a vivere il vangelo tra la gente.

Mutando la coscienza ecclesiale circa la missione della chiesa in rapporto al mondo contemporaneo, il Concilio cominciò a ripensare l’apostolato in termini diaspora. La presenza dei cristiani nel mondo oggi è paragonabile a una goccia nel mare direbbe Michel de Certeau, una voce tra tante.

E Karl Rahner sottolineava il cambio di paradigma missionario, in forza del quale ogni cristiano è inviato, in ragione del vangelo, alla gente. Per questo la sua presenza nel mondo è posta sotto il segno di una dispersione, «diaspora» appunto.

In questo tempo che segue la modernità, l’oggetto della fede è stato come sottratto, svuotato dal suo rivestimento, disperso con il conseguente frammentarsi ed entrare in crisi del corpo ecclesiale e delle sue “autorità”, istituzionali, sacramentali, liturgiche. I cristiani così sono tenuti «a vivere in mezzo ad una cultura, ad uno Stato, ad una politica, ad un’economia, ad una scienza, ad un’arte per nulla affatto ispirata al solo cristianesimo, questo costituisce certamente una sfida all’apostolato» (K. Rahner, Missione e Grazia, Roma 1964, 42).

Da dove ripartire?

Un assist ci può venire dai tre amici di sempre, inviati da Gesù a testimoniare nelle pratiche quotidiane l’apostolato silenzioso dell’amicizia. Sta nella pratica dell’amicizia come legame di amore con l’altro, che è ascolto, cura, fiducia che sa attendere tempi e momenti dell’altro, la condizione stessa della credibilità del vangelo, direi l’anima irrinunciabile ad ogni incontro del vangelo con la gente.

È, d’altronde, lo stile stesso dell’amicizia di Gesù che libera e fa passare dalla condizione di servi a quella di amici, da estranei a confidenti dell’intimità del Padre suo: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv. 15,15).

L’idea amica, vivere sotto lo sguardo dell’Amico

L’anima di ogni apostolato: è questo il titolo di un famoso libro, un classico della spiritualità, dell’abate trappista Jean-Baptiste Chautard (1958- 1935) scritto nel 1930 mai così attuale, che circolava quando ero in seminario. Un invito ad andare alle radici interiori dell’apostolato, visto come un fenomeno di esuberanza spirituale e personale, come un atto di amore traboccante, amicizia spirituale che si effonde in testimonianza e azione tra la gente.

Come l’amico, così l’apostolo vive sotto lo sguardo dell’Amico: «che è diventato il principio e lo scopo di tutta la loro attività; la fede ne fa scoprire la presenza e l’amore in tutti i luoghi e in tutti i tempi. La persona viva e presente di Cristo è diventata l’idea-forza, l’idea-amica, l’elemento dinamico della loro vita.

L’idea-amica è ben diversa dall’idea-fissa, che è un’ossessione da cui non si riesce a liberarsi. L’idea-amica è stabile, perché ci si ritorna continuamente per un bisogno del cuore. È un’idea-forza, perché è il frutto d’una volontà libera e cosciente e perché spinge a grandi realizzazioni.

Il cuore dà all’intelligenza una capacità d’intuizione irraggiungibile dalla sola ragione. L’idea-amica è un’attenzione semplice, perseverante, gioiosamente voluta e continua, verso la persona di Cristo, le sue parole, la sua azione. Invece di affaticare, dà coraggio e moltiplica le energie. È uno sguardo del cuore amorosamente fisso su Gesù», (Dom Chautard, L’anima di ogni apostolato, Cinisello Balsamo [Mi] 1987, 55-56).

Cisterne non canali

Senza contemplazione non vi è amicizia vera e duratura, così come senza cisterne dalle acque profonde e chiare i canali – anche quelli delle comunicazioni in chat – restano all’asciugato, inariditi, screpolati. Scrive Dom Chauthard ricordando san Bernardo: “Purtroppo, oggi abbiamo tanti canali nella Chiesa, ma poche cisterne. Coloro che contengono per noi l’acqua del cielo sono sospinti dalla smania di darla prima di riceverla. Sono molto più disposti a parlare che ad ascoltare; sono ansiosi di insegnare ciò che non hanno imparato, e bruciano dalla voglia di guidare gli altri, quando non sono capaci di dirigere se stessi” (Serm. in Cant., 18,3 ).

Lo stesso san Bernardo dava questo consiglio al papa Eugenio III: “Non è saggio chi non lo è innanzi tutto per sé stesso. Chi è saggio per sé è veramente saggio, e berrà per primo l’acqua del suo pozzo. La tua meditazione cominci da te e, meglio, essa finisca in te; e dovunque spazia, richiamala perché porti frutti di salvezza…

L’apostolato attivo non deve essere altro che lo straripamento d’una vita d’unione con Dio. La predicazione, l’insegnamento della dottrina, l’organizzazione delle attività educative, caritative e sociali deve sgorgare dalla fonte della contemplazione. Prendi esempio dal Padre supremo di tutti, che invia il suo Verbo e lo conserva in sé stesso. Il tuo verbo è la tua meditazione, che non si deve assentare quando esce. Fai in modo che proceda senza uscire; che parta senza andarsene», (ivi. 65-66).

Così l’immobilità e la sterilità di esperienze e comportamenti ecclesiali anche attuali dànno da pensare perché tendono ad inaridire ed irrigidire persino le formule dogmatiche e dottrinali sorte invece per annunciare e animare la Vita della vita.

Pensava così anche don Milani

«Quelli che si danno pensiero di mettere nei loro discorsi ogni pie’ sospinto le verità della fede sono anime che reggono la fede disperatamente attaccata alla mente, e lo reggono con le unghie e coi denti, per paura di perderla, perché sono interiormente rosi dal terrore che non sia proprio poi tutto vero ciò che insegnano. Ogni nuova idea, ogni nuovo governo, ogni nuovo libro, ogni nuovo partito li mette in allarme, fanno pensare alla psicosi del crollo che si è diffusa dopo il crollo di Barletta. Gente sempre col puntello in mano accanto al palazzo, che sono incaricati di custodire e della cui solidità dubitano.

Non potrei vivere nella chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato, io ci vivo e ci parlo in assoluta libertà di parola, di pensiero, di metodo, di ogni cosa. Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco, perché gli voglio bene, e capirai che voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza!!! E così di tutto il resto della dottrina». (Lettera del 10 novembre 1959, a Giorgio Pecorini).

L’amicizia: apostolato primordiale

In questo tempo di transizione epocale non bisognerà forse ripartire con un altro stile di comunicazione del vangelo, quello scaturente dall’amicizia? Non è questa la forma dell’apostolato primordiale, di segno gesuano: “vi ho chiamati amici”? Il vangelo non viene forse dall’Amico?

Figura di valore di questo apostolato primordiale, quello di un’amicizia generativa di fraternità – l’amore fraterno non è forse il cuore stesso del vangelo? – figura di valore è stato Fratel Charles de Foucauld (1858-1916). Scrive Pierangelo Sequeri di lui: «De Foucauld mi appare infatti come uno dei profeti dell’esilio meno chiassosi e più incisivi che siano stati destinati da Dio alla nostra contemporaneità ecclesiale La sua fu – letteralmente – voce nel deserto, che preparava con prodigioso anticipo la condizione che è nell’accadere delle cose, qui e ora» (P. Sequeri, Charles de Foucauld. Il vangelo viene da Nazaret, Vita e pensiero, Milano 2022, 11).

Così la prima forma evangelizzatrice la troviamo nella stessa prossimità di Gesù alla nostra umanità è fatto di noi, il legame di amicizia con lui è già figura primordiale dell’“apostolica vivendi forma”.

Mandato dal vangelo a diventare amico di un popolo abbandonato, perché è così che si «diventa del paese», che si diventa «così avvicinabile» da tutti, e «così piccolo» in mezzo a tutti, frère Charles scriverà il 13 agosto 1905: E tu, tu sei a Tamanrasset come il povero». (Opere spirituali. Antologia, Fabbri editori, Milano 1998, 29-30).

Alla cugina Maria scrive: «Non tormentatevi nel vedermi solo, senz’amici, senz’aiuti spirituali; non soffro affatto di questa solitudine, la trovo dolcissima; ho il Santo Sacramento, il migliore degli amici, a cui parlare giorno e notte, ho la Santa Vergine e san Giuseppe, ho tutti i santi; sono felice e non mi manca niente» (ivi 286).

L’espressione apostolato primordiale è di René Voillaume (1905-2003) un prete francese attratto in un primo tempo dai missionari Padri Bianchi operanti in Algeria. Dopo la lettura della biografia di padre de Foucauld, scritta da Hervé Bazin, si sentì chiamato a seguine le sue tracce e lo stesso stile apostolico, tanto che nel 1933 fonda insieme con alcuni discepoli la prima comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, ispirata agli scritti e alla vita di frère Charles.

Amicizia: “admirabile commercium”

Così egli riassume la spiritualità dell’eremita del Sahara: «“Presenza a Dio, presenza agli uomini”. Vi è in lui un senso profondo della preghiera, una ricerca appassionata del Cristo: tutta la sua vita si riduce ad uno sguardo fisso sul suo “Bene amato Fratello e Signore Gesù”, ad un commercio di amicizia con Lui

Questa presenza non ha nulla che s’imponga, ma è una amicizia che si offre; non esclude nessuno, poiché egli è il “Piccolo Fratello universale”; essa è particolarmente tenera per i più piccoli, per i più poveri, i più abbandonati. In questo contatto con gli uomini, Padre di Foucauld trova un alimento per la sua vita di unione a Dio; non ha egli forse il dovere di credere, di sperare, di amare per tutti coloro ch’egli porta nella sua preghiera, e la cui grande miseria è di essere privi di fede, di speranza e di carità? Una tale spiritualità quanto è adatta all’apostolo» (R. Voillaume, Come loro, Paoline, Roma 1953, 7-8).

Per far comprendere che quella di fratel Charles era una forma di apostolato, anche se così diversa da quelle conosciute in quel momento storico della chiesa, René Voillaume scrisse un piccolo libretto, L’apostolato dell’amicizia e la vita di preghiera in padre de Foucauld (Edizioni Corsia dei Servi, Milano 1958), in cui chiariva come la via dell’amicizia fraterna dei Piccoli fratelli e sorelle di Gesù tra la gente, il carisma stesso del loro ispiratore, esprimesse l’apostolato primordiale, la fonte di ogni apostolato.

Charles de Foucauld «va a vivere in mezzo agli uomini e tuttavia non vuole usare i mezzi ordinari di evangelizzazione e di apostolato. Se è vero che il primo comandamento di Gesù è quello dell’amore fraterno, non si avrà il diritto di dire che ogni azione, ogni parola, ogni modo di essere o di vivere che contribuisca a diffondere nel mondo l’amore fraterno, che contribuisca a insegnarlo e a farlo praticare è un vero apostolato, soprattutto se una tale predicazione dell’amore fraterno è fatta attorno all’eucarestia in nome di Gesù e per lui solo?», (ivi, 13).

Aprire gli occhi su ciò che sta in principio: “Verbum caro factum est” (Gv 1, 1; 14)

Allora come oggi nel nostro tempo constatiamo ancora di più fenomeni laceranti dell’umanità. Le divisioni e le ostilità tra i popoli sono in aumento e sono dovute – come già sottolineava Voillaume – non solo alla lotta tra le classi, ma anche ai nazionalismi: «che raramente sono stati così vivi, vi sono i pregiudizi razziali che sembrano esacerbarsi e vi è la rivolta che serpeggia nella maggior parte dei paesi coloniali. Bisogna aprire gli occhi e consentire a guardare le cose in faccia».

Così «non ci si può contentare di assegnare come primo scopo all’apostolato l’amministrazione dei sacramenti dimenticando che bisogna prima dare la vita dello spirito, la fede. La, vita secondo il Vangelo è l’atto di un uomo libero, ed è difficile insegnare agli uomini ad amarsi, a rinunciare a se stessi, è difficile insegnare agli uomini a pensare cristianamente. Non conviene dunque affermare che impiantare la carità in nome del Cristo nel cuore degli uomini è un apostolato primordiale? Importa forse vedere fino a che punto deve arrivare questo amore di cui Gesù ha fatto l’essenza del suo messaggio» (ivi, 14; 15).

Che cosa mi attendo dalla chiesa?

Che metta in atto ancora una volta un rinnovamento dell’amicizia nella forma dell’amore più grande; che ripresenti al vivo Colui che da ricco si fece povero per noi perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (Cf. 2Cor 8,9).

Scopo della carità – ricorda ancora Voillaume – non è quello di dare delle cose, ma manifestare e infondere amicizia: «Forse abbiamo dato il nostro tempo e la nostra vita, ma senza pensare abbastanza a dare noi stessi in una vera e umile amicizia» (ivi, 17-18).

«Oggi sembra soprattutto che si attenda dalla Chiesa un rinnovamento dell’amicizia che deve esistere tra tutti gli uomini. Ora il bisogno più importante a cui dobbiamo rispondere attualmente non è forse di contribuire, a sopprimere le divisioni tra gli uomini e di lottare contro tutti gli odi? Su questo punto siamo capaci di rispondere all’attesa del secolo? Se l’umanità che non crede più in Dio, se l’uomo razionale e ateo è più avanti su altri punti, non lo è forse, temo, anche in questo campo?

…Bisogna essere scesi nel cuore del povero, nel cuore delle razze dette inferiori per capire tutto il doloroso complesso di cui soffrono. Vi è più facile intravvedere ora perché Padre de Foucauld ha voluto mettere i suoi Piccoli Fratelli in condizioni di vita che facilitassero la realizzazione di una tale amicizia.

…Io penso che sia apostolato lo spogliarsi e il restare volontariamente in una tale condizione di povertà da poter dimostrare con i fatti che è possibile un’amicizia vera, profonda, in parità con i più poveri» (ivi, 22- 23).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Ricchi & Lusso, la nuova nazione nomade mondiale

Ricchi & Lusso, la nuova nazione nomade mondiale

Uno dei tratti caratteristici della nostra epoca è il mercato del lusso (moda, hotel, cibo, design, auto, nautica, gioielli, occhiali, vini, alcolici,…), in continua crescita nonostante l’impoverimento che ha colpito il mondo da 3 anni (prima pandemia, ora le guerre, esplosione dell’inflazione e dei prezzi energetici e delle materie prime) e che ha colpito la grande maggioranza dei cittadini occidentali e le stesse classi medie.

Nella sua ultima newsletter Federico Fubini, giornalista del Corriere della Sera, racconta di un imprenditore abbastanza agiato che ha rinunciato ad andare in vacanza a Paraggi (S.Margherita Ligure) dopo 40 anni che ci andava, in quanto l’ombrellone in prima fila costa 350 euro al giorno (250 in 2^ fila, 200 in 3^), 48 euro il posteggio, quasi mille euro un giorno di hotel oppure 80 euro al pasto, mentre la concessione per la spiaggia che il privato paga allo Stato è di “5.840 euro all’anno, più o meno i ricavi di un paio di file di ombrelloni in un giorno per mettersi a posto un anno”. A parte l’assurdità di beni pubblici svenduti dallo Stato ai privati, colpisce che nonostante questi prezzi stratosferici la spiaggia sia piena di turisti (80% stranieri), per i quali evidentemente quei prezzi non sono poi così alti.

Per capire questo fenomeno bisogna leggere il Report 2024 Global Wealth della banca svizzera UBS (fallita ma assorbita dalla concorrente Credit Suisse) che analizza la quantità di ricchi nel mondo, salita a 60 milioni. Gli svizzeri se ne intendono di ricchi, in quanto ne hanno più di tutti. Si tratta di chi ha almeno un milione di dollari di patrimonio, il che significa che tra mogli, mariti e figli stiamo parlando di circa 200 milioni di persone, il 2,5% della popolazione mondiale ma capaci di incidere anche per il 50-70% su molti settori economici (dalla moda agli hotel 5 stelle che, non a caso, si vogliono ora costruire in tutte le città “attraenti”).

Milionari e % sulla popolazione

                     Ultraricchi

Ultraricchi (patrimonio di almeno 100 milioni di dollari)

Miliardari e quanto non pagano di tasse

In Italia gli ultraricchi sono 8.930 (2022) per un patrimonio totale di 978 miliardi, pari al 10% nazionale, in media hanno 110 milioni a testa (fonte Ubs). Nella terza Tab. sono indicati i miliardari, quanto pagano di tasse e quanto pagherebbero se solo pagassero il 2% sul patrimonio. Si potrà notare che l’Europa fa pagare pochissimo, come America Latina e Africa, mentre Cina, Giappone e Usa tassano molto di più.

Ci sono poi altri 200 milioni di benestanti con uno standard di vita nettamente più elevato della media, che vivono nel loro paradiso terrestre lontano da quello purgatoriale o proprio infernale del resto del mondo. I ricchi ci sono sempre stati, ma i “nuovi” si distinguono dal passato per alcune peculiarità: vivono in un mondo globale e hanno reti di relazione globali, lavorano spesso nella finanza, moda, spettacolo, media, sport, nelle grandi Istituzioni internazionali e sono come “nomadi” in continuo movimento. Fanno le vacanze in posti glamour, vivono 6 mesi qui e 6 mesi là, in modo da evadere le imposte e benchè siano ancora in maggioranza occidentali (84%), hanno sempre più rapporti con gli altri ricchi arabi, cinesi, indiani, messicani, brasiliani, russi. Sono favorevoli alla logica del mercato e del profitto, all’innovazione tecnologica, alla sostenibilità (almeno a parole), alla cultura woke e alla stessa immigrazione, un problema per gli Stati, ma non per loro, che anzi selezionano i “migliori” nelle loro aziende multinazionali, in quanto fattore di sviluppo e identità multiculturale, perché producono beni e servizi globali e il loro interesse non è mai quello nazionale – ancor meno locale – ma globale.

Alcuni hanno facoltose fondazioni, ma sono (quasi sempre) del tutto disinteressati allo sviluppo e alle relazioni con le proprie comunità, che era invece una caratteristica dei vecchi ricchi, i quali spesso portavano qualche vantaggio ai loro compaesani.

Ovviamente sono anche il più potente gruppo di pressione sui governi (sia democratici che autoritari) e i loro consumi alimentano alcuni settori come quello della moda, della finanza speculativa, delle criptovalute, dell’immobiliare di lusso, del turismo di lusso e i mercati. Purtroppo anche i politici guardano sempre più spesso a questi magnati per lo sviluppo delle citta che amministrano: i 70 hotel a 5 stelle di Bolzano e Trento, la speculazione immobiliare di Brugnaro a Venezia, quella di Tosi a Genova, per non dire di ciò che succede nel Sud d’Italia.

Altospendenti e filantropi

I principali clienti sono i ricchi americani, europei e i cinesi, che alimentano il mercato del lusso da 353 miliardi (stime di Bain & co.) e che potrebbe crescere a 540-580 nel 2030. Altospendenti li chiamano gli esperti: l’Italia è uno dei paesi dove è maggiore la presenza di marchi del lusso (anche stranieri, da Chanel a Louis Vuitton, Hermes), in quanto usano fornitori italiani che tradizionalmente  sanno lavorare con qualità. I ricavi della sola moda hanno raggiunto in Italia i 107 miliardi (+16% sul 2021 e +9% sul 2019). Il tessile italiano è cresciuto del 32% e del 30% gli occhiali, che esportano il 90% dei 5 miliardi di produzione (erano 4 nel 2019) – da qui l’interesse di Zuckerberg per Luxottica.

Del resto durante i due anni di pandemia (e di impoverimento generale) c’è stata un’accelerazione nell’arricchimento dei pochi ricchi che non ha precedenti: essi hanno guadagnato in due anni di pandemia più dei 23 anni precedenti. Oggi i miliardari possiedono il 13,9% del Pil globale, mentre nel 2000 ne possedevano solo il 4,4% (fonte Oxfam).

La disuguaglianza ha raggiunto vette incredibili ed è spinta dalla finanza da cui provengono i maggiori profitti. Gli statunitensi detengono la cifra monstre di 33.530 miliardi tra azioni e funds. Vuol dire che ogni americano detiene circa 100mila dollari tra azioni e fondi, ma (come nella media del pollo di Trilussa) la realtà è che il 90% è posseduto dal 10%. In sostanza 22 milioni di americani possiedono (in media) a testa un milione di dollari di prodotti finanziari, mentre il restante 94% degli abitanti solo 11mila dollari. I veri ricchi detengono disponibilità per decine di milioni e ciò spiega la crescita incredibile del consumo di lusso.

In sostanza, non sanno dove mettere i soldi, al punto che 200 miliardari hanno chiesto agli Stati di essere più tassati e tutti i maggiori miliardari hanno realizzato fondazioni benefiche che stanno gradualmente sostituendo il ruolo dello Stato nel welfare: per cui sono spesso i ricchi più lungimiranti che decidono come redistribuire una parte della ricchezza. Si consideri che negli anni ’50 del secondo dopoguerra l’aliquota dell’imposta sul reddito era in Usa del 90% oltre 400mila dollari all’anno, mentre oggi è del 37% oltre 540mila dollari (per chi ovviamente non li nasconde nei paradisi fiscali).

I settori dove si fanno più affari sono: cibo, materie prime, energia, tech, armi, farmaci/vaccini (finanziati dagli Stati in anticipo e senza chiedere la partecipazione nei brevetti). Pfizer nel 2022 ha raggiunto la cifra monstre di 100 miliardi di ricavi e 14 miliardi di dollari di profitti (intanto, solo in Italia, ci sono in magazzino 122 milioni di vaccini in scadenza o scaduti). Ferrari ha venduto 13.255 auto nel 2022 (+18,5%) e aumentato i profitti del 13% (un miliardo) e così agli operai è stato dato un bonus di 13.500 euro (hanno super ordini fino al 2024-25). Vendute 599 Daytona SP3 che costano 2 milioni di dollari l’una. Record anche per Lamborghini (da quando è nata nel 1963) con 9.233 auto vendute (+10%), merito della Huracan Sterrao e altri modelli di alta gamma già tutte vendute anche nel 2023-24. Nella nautica (7 miliardi di fatturato) mai come nel 2022 si sono venduti yacht di lusso (593 oltre i 24 metri) e noi italiani con Azimur Benetti, Sanlorenzo, Ferretti, The italian Sea group, Overmarine, Palimbo, Baglietto, Cantiere delle Marche siamo leader nel mondo. Tutta venduta anche la produzione di lusso del 2023 e 2024.

Ai primi di gennaio 2023 è stato rinnovato a New York l’Hotel Waldorf-Astoria, nato nel 1931. E’ diventato un residence per milionari con oltre cento appartamenti e quattromila metri quadri di servizi comuni (piano bar, piscine, saune, spa di ogni tipo, campi da gioco, locali per feste e pranzi collettivi, giardini e molto altro). Lo studios più economico costa 1,8 milioni di dollari, un monolocale 2,7 milioni, un appartamento con 4 camere da letto 18,5 milioni. Prezzi incredibili anche per New York dove pure il costo medio di una casa non scherza (14mila dollari al metro quadro).

E’ la conferma delle crescenti disuguaglianze sia in Italia che nel mondo, per cui anziché avere investimenti in beni collettivi (sanità, scuola) o consumi di base (alimenti, case a buon prezzo,…) crescono i beni di lusso personali che riguardano una piccola quota di cittadini del mondo occidentale (6-7%) e, seppure meno (0,1-0,5%) anche di quello orientale, che continuano ad arricchirsi nonostante tutto il resto vada a rotoli (scuola, sanità, welfare, poveri, cultura).

Se fossero solo ricchi …il problema è che non pagano le tasse e distruggono il pianeta di tutti. Questo modo rapace di far soldi fondato su crescenti disuguaglianze, distruzione di ecosistemi e delle comunità, produzione di schifezze, si alimenta con le guerre. A volte però nella storia arrivano svolte inaspettate, che mai avremmo pensato.

Storie in pellicola /
‘Dive’, il tuffo

‘Dive’, il tuffo

Dopo Venezia 80, al Popcorn Film Festival arriva ‘Dive’, di Aldo Iuliano. Inno alla vita

Va in scena la semplicità dei valori di sempre, al Popcorn Film Festival di Porto Santo Stefano.

‘Dive’, di Aldo Iuliano, è la storia pulita di due adolescenti che arrivano su una spiaggia isolata e ‘complicata’ per dimenticare il mondo che li circonda e passare del tempo insieme. Una storia di amicizia, forse di amore che nasce, certamente di sfida, di coraggio. Un tuffo in un futuro incerto.

La semplicità dei gesti

La storia è di per sé semplice.

Una storia che potrebbe essere come tante ma che tale non è.

Forte del suo esordio a Venezia 80, sezione Orizzonti, questo sorprendente corto ha in sé bellezza, delicatezza, tenerezza, romanticismo e spensieratezza.

Un angolo di mondo isolato in una realtà che va a fuoco. Un piccolo paradiso per due, circondato da pericoli, mentre fuori i tuoni rimbombano.

Ci sono due ragazzi giovani che vogliono solamente divertirsi, bersi una birra insieme, chiacchierando e scherzando, guardarsi negli occhi e ammirare l’orizzonte senza pensieri.

Con il mare mosso, ad un certo punto il ragazzo (Roman, interpretato da Danyil Kamensky) mette una canzone dal suo cellulare: è un pezzo dei Ricchi e Poveri ‘Mamma Maria’. Lei è Julia (Veronika Lukianenko). Entrambi si mettono a ballare e pensano di farsi un bagno, anche se dal cielo plumbeo pare faccia piuttosto freddo. Tuffo.

La danza sott’acqua è un coinvolgente scambio di gesti teneri, di meravigliosa complicità e di giovanile amorevolezza. La richiesta gentile di un bacio. Lo spettatore si trova immerso nei sentimenti più innocenti.

Tutto sembra raccontare una bella giornata vissuta tra sguardi di complicità sentimentale. Intorno a loro presto però la situazione cambia, trasformandosi in un inferno.

Una stretta al cuore per ricordarci chi siamo, nel bene e nel male.

La genesi del corto nelle parole del regista

Aldo Iuliano, nato a Crotone nel 1980, gira un cortometraggio di forte impatto emotivo e visivo, nel tentativo, ben riuscito, di riaccendere il desiderio di cercare il contatto umano ormai perduto.

Una “foto dei sentimenti che stiamo dimenticando di avere in un momento storico con tanto odio intorno”,

dichiara in un’intervista. Speranza e amore che non cedono al terrore.

La storia è stata scritta dal fratello Severino, con cui lavora sempre. In un momento di grandi sommovimenti geopolitici, fra cui il conflitto Russia-Ucraina, il regista sentiva la necessità di raccontare una storia di bellezza e di sentimenti semplici per restare concentrati su sé stessi.

I ragazzi scoprono che la spiaggia è complicata da vivere (il cartello in lingua ucraina spiegherà perché), come lo è la vita, se non di più, la tavolozza perfetta per creare un mondo a sé, togliendo il tempo che distrae dai sentimenti. Un ritratto delicato ma doloroso.

Gli attori, Veronika Lukianenko, Danyil Kamensky, sono due amici veri, e sono stati suggeriti a Iuliano da Nico Alvo, un giovane produttore di New York, conosciuto a Cannes.

Giovane anche il produttore del corto, Davide Mogna, conosciuto al Figari film festival (tutti i festival sono in connessione). Davide, ventitreenne, è noto per la regia del film Bulli a metà, uscito nel 2017, girato quando non aveva ancora diciassette anni, e frequentava il liceo Classico Bodoni di Saluzzo.

Sui due giovani attori di ‘Dive’ ha dichiarato:

“I protagonisti sono due giovani attori ucraini: Veronika Lukianenko e Danyil Kamensky. Sono molto amati in Ucraina. Li abbiamo conosciuti perché erano in Italia per studiare in un corso speciale di cinematografia che è stato istituito per accogliere gli attori ucraini durante la guerra”.

Amore a prima vista da una chiacchierata in un pub, empatici, giovani e belli, si sfioravano come serviva. Erano loro quelli giusti.

La fotografia di Daniele Ciprì

‘Dive’, ambientato a Sabaudia in provincia di Latina, vanta la fotografia del grande Daniele Ciprì, già collaboratore in lavori precedenti del regista nel corto ‘Penalty’ (2016, vincitore del Globo d’Oro nel 2017) e nel suo lungometraggio, ‘Space Monkeys’ (2022).

Le scene sott’acqua riescono a creare un’atmosfera di sospensione dal mondo circostante, di isolamento dalla bruttezza che sta intorno. Quasi una nuvola magica nella nebbia.

Intensi e convincenti gli aspetti cromatici delle immagini e nelle inquadrature sempre esteticamente pregevoli.

Il titolo stesso invita ad ammirare l’armonia di due corpi giovani nell’acqua che, come un sacco amniotico, li protegge da un mondo privo di pietà. Che resta in agguato, facendoci riflettere sulla fragilità ma anche sulla forza della bellezza dei sentimenti più profondi e veri.

Meravigliosa la musica di Rashod Krasniqi, ‘Mallëngjimi’, interpretata da Elsa Lila.

Il montatore è Marco Spoletini, premiato con il David di Donatello, e che ha lavorato nei film del regista Matteo Garrone.

‘Dive’, di Aldo Iuliano – backstage con Daniele Ciprì

Pubblicato su Taxidrivers

Fate riposare la Terra

Fate riposare la Terra

Nelle Facoltà di Ingegneria (ma non solo) la parola ‘terra’ è stata sempre sinonimo di ‘suolo’: suolo da edificare, suolo dove lavorare, suolo da dove estrarre risorse illimitatamente (fossili, in primis), comunque suolo da sfruttare.

Questa visione ideologica (che nasce con la rivoluzione scientifica: la separazione tra mente e natura) e produttivistica (capitalismo sempre più feroce ed estrattivo) ha prodotto, e continua a produrre, enormi danni al pianeta, desertificandolo, riducendo la sua biodiversità, immiserendolo.

La mitologia sottesa dagli studi di ingegneria si basa sull’abbattimento di ogni limite o barriera (il ponte più lungo, la macchina più veloce, la produzione più accelerata) e costituisce l’alleata più efficiente della crescita illimitata (alla base del mito di Odisseo che travalica le colonne d’Ercole, i limiti del divino).

È stato detto che su tutto questo domina la cultura del silenzio, una cultura che tace su tutto ciò che dovrebbe essere invece ascoltato, dibattuto, confrontato: il silenzio dei poveri, dei dannati della terra, degli sfruttati e, ora, dei tanti morti per guerre combattute per fame di terra, acqua, di risorse che questa sapientemente dispone per la nostra sopravvivenza, di una dignità ferita per sempre.

«Chi grida nella notte delle macerie?/ Non credevamo sarebbe tornata/ La razionalità ci avrebbe difeso/ Giocare a Dio non è stato un buon affare/ La hybris ci ha devastato/ Branchi di semidei vagano rabbiosi/ Noi che venimmo da un passato animale/ Dal cuore di tenebra/ Sognammo un incubo/ Il ritorno all’animale».

È tempo di cambiare paradigma e parole ormai usurate: terra significa “madre-terra” o ancora Gaia, Biosfera, ecosistema planetario, luogo che ci ospita, che produce la vita e quanto abbiamo bisogno. Definita con un neologismo la terra è ‘Matria’, luogo fisico e metaforico di accoglienza contrapposta a ‘Patria’ parola inservibile, irrecuperabile.

«Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dai maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista». Pensarsi in termini di Matria, dice Michela Murgia, consente di sradicare la prospettiva di Nazione, poiché significa madre di tutti che nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata, quella sempre desiderata.

Gli uomini sono al 100% cultura e al 100% natura, sostiene Edgar Morin. Impossibile separare; la mente non è più nobile del corpo come pensava Descartes, entrambi prodotti di un’evoluzione biologica che ci lega alla terra, non siamo abitanti occasionali, apparteniamo ad essa come gli animali e le piante. Siamo parte di un ecosistema planetario mosso e alimentato dall’energia solare. Il vento, le maree, la pioggia e tutti gli eventi atmosferici nascono da questa energia che poco riusciamo ad usare, diversamente dalla natura che ne è animata e da cui ricava la sua bellezza e abbondanza.

Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravità che determinano il movimento dei corpi celesti. Ma, afferma Hannah Arendt, per un fenomeno piuttosto curioso la gioia non fu il sentimento dominante, quanto piuttosto di sollievo per «il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre».

Nel commentare questa manifestazione Arendt sostenne che la terra è la quintessenza della condizione umana e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio. Dunque, tale sentimento “di liberazione” esprime lo sforzo di rendere artificiale anche la vita, di recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura.

Il nuovo paradigma mette al centro una nuova cultura all’altezza dei tempi, una cultura che richiede un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla terra, una cultura che permetta l’uscita dall’antropocene, una cultura che richiede una radicalità ancor più forte di quella all’origine delle pratiche e delle lotte che hanno caratterizzato il secolo passato cui molti sono ancora ancorati.

La crisi climatica e con essa, le disuguaglianze, le migrazioni, tenderanno ad aggravarsi: ce lo confermano le comunità di scienziati che al tempo stesso ci avvertono che siamo in prossimità di un punto di non ritorno. Combattere la crisi climatica richiede non solo opere di mitigazione, ma anche un atteggiamento di adattamento che coinvolge le relazioni tra persone, soprattutto quelle più fragili, quelle povere, quelle sfruttate, più oppresse.

La transizione ecologica, meglio sarebbe chiamarla conversione ecologica, come sostiene Vialedovrà essere una transizione che muove soprattutto dal basso, dove le esperienze più virtuose oggi già in atto potranno essere replicate da altre comunità.

La nuova prospettiva è quella che vede il superamento tra cultura e natura, tra spirito e materia, tra mente e corpo e che mette in discussione la crescita illimitata e lo sviluppo. La crescita altro non è che accumulazione di capitale e richiede lo sfruttamento della terra e degli esseri umani. Lo sviluppo è il suo volto presentabile sotto forma di “sostenibile”, “umano”, “ecologico”.

Questo slittamento semantico conduce verso pratiche devastanti, quali il nucleare (considerato dalla comunità europea “sostenibile”), la produzione di CO2 e il suo seppellimento (per continuare a produrre senza cambiare nulla), lo sfruttamento di interi paesi e dei fondali marini, alla ricerca dei minerali rari per la costruzione di batterie per le auto elettriche.

Ma i governi mondiali pubblicizzano tali rimedi come necessari per la transizione, nessuno di essi dice che bisognerebbe consumare di meno, spostarsi di meno. Mangiare una torta e poi ri-averla tale e quale come sostiene la definizione di sostenibilità è un obiettivo fisicamente irraggiungibile come già ci spiegava Georgescu-Roegen sulla base del secondo principio della termodinamica.

Già Giorgio Nebbia nel 1999 proponeva di abolire la parola ‘sostenibilità’ e tutti i suoi aggettivi. La sostenibilità è il trucco che i governi usano per far credere che sia possibile continuare nella stessa direzione con qualche rattoppo. Gregory Bateson, con riferimento alla sua conoscenza della Bibbia, ci ha insegnato che il dio ecologico non può essere beffato e che in ecologia non esistono scorciatoie. La conversione ecologica indica invece una conversione a U nella direzione dello sviluppo e significa in primo luogo avere cura della terra e del suo vivente.

La nuova prospettiva richiede la rinuncia alla centralità dell’uomo nell’universo, la rinuncia al patriarcato, all’imperialismo e a tutti i gretti nazionalismi, alle guerre, tutte. Ed è quella basata su comunità accoglienti e sulla valorizzazione del lavoro di cura, attività legate alla produzione e riproduzione della vita, comprese quelle sociali che tengono unite le comunità e ne rafforzano i legami.

Il vero sviluppo sostenibile, quello ostacolato dai poteri forti, è quello legato al miglioramento delle condizioni di vita di una generazione, dell’abolizione di ogni tipo di sfruttamento degli esseri umani e degli ecosistemi di supporto alla vita, quello legato all’accoglienza di chi fugge da guerre o desertificazioni, dall’abolizione degli armamenti in ogni paese e, dunque, da una ritrovata armonia con la terra.

Nella storia non c’è mai continuità; quando poteri pur forti che siano si affermano è altrettanto probabile che essi cadano velocemente a seguito di rivolte. Comunità virtuose, stili di vita diversi, pur restando silenti per anni, possono irrompere sulla scena dando luogo a capovolgimenti inediti e imprevisti, come fiumi carsici che riaffiorano prepotentemente dopo lunghi tratti attraversati nel sottosuolo, silenti.

È già accaduto. Non avverrà spontaneamente; ogni cambiamento determina lutti e gioie; è probabile che avvenga al seguito di rivolte non pacifiche, di certo non con la rassegnazione al consumismo e al pensiero unico, almeno fino a quando non ci sarà più nulla da consumare su questa terra.

C’è chi tra di noi crede che l’unico conflitto sia quello tra gli uomini per il possesso del potere o per il mantenimento del predominio. Credo che l’epoca attuale abbia fatto emergere che questo stesso conflitto vede ora quegli stessi uomini contro la madre-terra dispensatrice di beni.

Non ci sono due conflitti separati: il predominio degli uomini sui propri simili comprende quello più vasto del predominio sulla natura. L’armonia con la natura ha bisogno di pace, è pace. Come Università, come studiosi, cultori e depositari del pensiero critico disinteressato, abbiamo il dovere di contribuire a erigere queste casematte di resistenza negli atenei e nei territori; sentinelle silenti che torneranno utili nel momento in cui l’umanità, si spera, ritroverà la sua Ragione.

Nota. Il titolo riprende quello di un libro di Giovanni Franzoni del 1999

Enzo Scandurra è urbanista, saggista e scrittore. Ha insegnato per oltre quarant’anni “Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio”. Collabora con «il manifesto» e con numerose riviste scientifiche. Ha scritto molti saggi sul tema della città e dello sviluppo sostenibile. Tra i suoi libri: Un paese ci vuole (2007), Ricominciamo dalle periferie (2009), Vite periferiche (2012), Fuori squadra (2017), Splendori e miserie dell’urbanistica (con I. Agostini, 2018).

Francia: Macron si ostina a impedire al Nuovo Fronte Popolare di governare

Francia: Macron si ostina a impedire al Nuovo Fronte Popolare di governare

Grazie a questa oculata scelta dopo il NFP si è piazzato il partito di Macron e solo terzo quello dei fascisti-razzisti del partito di Le Pen-Bardella (che in diversi casi hanno avuto i voti della destra tradizionale e anche di alcuni del partito di Macron).

Secondo la tradizione della Quinta Repubblica, Macron avrebbe dovuto subito designare un eletto del NFP come premier per la formazione del nuovo governo. Ma, ovviamente, pretende imporre una coalizione che non cancelli le sue scellerate scelte liberiste (la riforma sulle pensioni, le leggi sull’immigrazione, quella fascista e razzista sulla sicurezza e anche contro i francesi di origine non cristiana, l’assenza di tasse ai grandi ricchi ecc.). Da parte sua il NFP rivendica il diritto di applicare il programma politico che gli elettori hanno votato facendolo piazzare primo partito eletto (vedi qui).

Nonostante sia solo un programma riformista di tipo rooseveltiano-keynesiano, esso è palesemente aborrito da Macron che quindi ha cominciato a tramare per una coalizione fra il suo partito e la destra tradizionale e anche una parte degli eletti del partito di Le Pen e spera di poter dividere il NFP approfittando delle ovvie differenze fra le sue componenti.

All’interno di questo NFP gli eletti di La France Insoumise (LFI) sono i più numerosi davanti ai socialisti e poi agli ecologisti e i comunisti. Tutti questi hanno promesso di arrivare assieme a designare un candidato come premier da proporre a Macron e alla prima seduta del Parlamento, che per ora ha solo eletto il presidente e le varie cariche previste per il funzionamento di questa istituzione.

In questo frangente s’è visto che Macron e le destre hanno fatto fronte comune per rieleggere come presidente quella che già c’era ed è notoriamente una della destra del partito di Macron, ma è stata eletta anche dall’attuale capo del governo dimissionario e da ben 12 suoi ministri infrangendo così la regola che ne viete il diritto di voto parlamentare (e LFI ha fatto ricorso). Il NFP, però, è comunque riuscito a far eleggere come relatore per la legge finanziaria un suo eletto e come presidente della Commissione delle Finanze, Eric Coquerel di LFI.

Quanto al candidato al ruolo di premier in un primo momento LFI e gli ecologisti hanno proposto la deputata Huguette Bello, ma i socialisti hanno bocciato tale scelta e dopo hanno proposto insieme agli ecologisti Laurence Toubiana, che era stata relatrice del COP21 del 2015, una celebre accademica esperta di questioni ecologiche. Ma LFI ha rifiutato tale candidatura perché teme che questa celebre esperta tenda a essere fagocitata da Macron che l’avrebbe anche corteggiata come sua eventuale ministra.

Si è quindi approdati a un’impasse alquanto imbarazzante che immancabilmente suscita grande preoccupazione fra gli elettori e i militanti del NFP.

Tant’è che il sindacato dei ferrovieri la scorsa settimana ha indetto a Parigi una manifestazione alla quale hanno partecipato decine di migliaia di persone per sollecitare gli eletti del NFP a trovare l’unità. E la CGT (la CGIL francese) ha sollecitato il NFP a trovare l’intesa per la designazione del candidato premier.

Il 23 luglio si è infine approdati ad una soluzione con l’indicazione dell’economista Lucie Castets come premier. Considerata da tutti brillante, integra, onesta, è stata alta funzionaria di Stato, assessore alle finanze del comune di Parigi ed è nota per il suo decennale impegno per lo sviluppo dei servizi pubblici e in particolare dei servizi sociali.

Tempo addietro aveva dichiarato “I servizi pubblici possono essere un antidoto al RN (il partito di Le Pen-Bardella), sono contro il programma del RN. Occorre una riforma sulla fiscalità del capitale, bisogna essere in grado di finanziare massicciamente i servizi pubblici”.

Da parte sua Jean-Luc Mélenchon ha dichiarato “questa scelta conferma la capacità del NFP di essere all’altezza delle circostanze nel rispetto degli impegni presi con le donne e gli uomini che l’hanno votato più di tutti gli altri”. Plauso anche da parte di socialisti, ecologisti e comunisti.

Ma, come prevedibile Macron non vuole intendere di parlarne! E la sera stessa del 23 in TV, in risposta al giornalista che gli ricordava che il NFP è la coalizione che ha avuto più voti, ha dichiarato che “La questione non è questa”, per continuare a non riconoscere che il NFP ha avuto più voti di tutti gli altri e ha ripetuto la sua solfa: “nessuno ha vinto” (SIC). E ha aggiunto che comunque non ci sarà alcuna nomina per formare un nuovo governo prima delle Olimpiadi. “Sino a metà agosto non siamo in situazione de dover cambiare”.

Ha quindi reiterato la sua rivendicazione di essere il “garante della stabilità del paese e ha rilanciato la sua richiesta alle “forze che hanno beneficiato del fronte repubblicano di trovare dei compromessi per dirigere il paese insieme”.

In altre parole pretende imporre un governo innanzitutto col suo partito, la destra tradizionale e con i deputati NFP che ci stanno.

Di nuovo Manuel Bompard, coordinatore di La France insoumise (LFI – la componente più forte del NFP) ha affermato che Macron cancella il risultato delle elezioni politiche. È una grave negazione insopportabile per la democrazia. In Francia, non c’è veto presidenziale quando il popolo si esprime votando”. Lo stesso hanno dichiarato gli altri leader del NFP.

È ovvio che se Macron continuerà a ignorare la vittoria dl NFP si andrà verso una caldissima estate e verso un altrettanto caldo autunno: tutti i sindacati sono pronti a scendere in piazza anche perché la prima legge che il NFP vuole votare è l’abrogazione della famigerata riforma delle pensioni.

Parole a Capo
Danila Di Croce: “Come se non fosse mai stato” e altre poesie

Danila Di Croce: “Come se non fosse mai stato” e altre poesie

Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo
(Alda Merini)

 

Si tradisce più dimenticando,
correndo a perdifiato – il vento in faccia
e l’erba alta a nascondere il sentiero.
Certo, una carezza è l’aria, il sole
un amo che t’aggancia,

ma i passi,

i passi faticosi e lenti
sulla pietra sanno meglio aderire
al tempo della caduta, all’ombra
incerta e fragile dell’imperfezione.

 

*

 

Come se non fosse mai stato,
così calarsi in grembo a questa sera
di giugno che sfoltisce il buio,
ne fa covoni per l’avverarsi
della luce. E quell’albero
di fico tutto foglie
ora conosce che non c’è stagione
per fruttificare: non c’è che l’istante
per addolcire la tua fame.

 

*

 

È che si impara a perdere
quando osservi la vita di profilo,
più smilza e distante, forse,
ma con l’occhio rapito dalla frangia
esatta delle nuvole.

Davvero si apprende a cedere ore
e pretese, a rintanarsi in pochi
angoli di prato, per non scordare.
E accade che persino il lungo fiume
degli addii s’incanali infine
con più capace abbandono.

Sì, è altura spoglia da conquistare
questo verso mandato a memoria
e s’impara anche solo guardando
chi dorme sul cartone, lungo i portici,
così, con un sogno addomesticato.

 

*

 

Risale asciutto il taglio
dalla potatura: non gronda
sangue e il suo grido
è visibilmente sfrondato.

Anche così s’impara la bellezza,
riducendo l’ampia linea
del sopracciglio, perché poi lo sguardo
stia stretto sulla gioia, sul dolore

(a interrogarne la somiglianza).

 

*

 

Chi dice che il mondo non possa poi ridursi
a poco, ai confini di una stanza,
al respiro di ogni uomo.
Che ne sa il mondo intero della risalita
di un fiato, della curva di una bocca,
della spinta degli occhi.
Non ha gesti, il mondo, che non siano
le mosse minime di chi abita
i pochi centimetri del cuore.

 

(Queste poesie fanno parte della silloge “Ciò che vedo è la luce”, perQuod, 2023)

 

 

Danila Di Croce vive ad Atessa (CH) e insegna Italiano e Latino al Liceo Scientifico. La sua più recente raccolta poetica, Ciò che vedo è la luce (peQuod 2023), è risultata vincitrice al Premio InediTO – Colline di Torino 2022 (in palio la pubblicazione dell’opera) e più recentemente, per la poesia edita, prima al Premio Vito Moretti 2024, quinta al Premio San Domenichino e finalista ai Premi Europa in Versi e Versante ripido.
Nel 2023 si è classificata prima con testi inediti nei seguenti premi letterari: Lago Gerundo, Daniela Cairoli, Chiaramonte Gulfi – Premio Sygla, Arturo Giovannitti, Città di Acqui Terme (anche con il premio della Stampa) e Città di Sant’Anastasia. È stata premiata o è risultata finalista ai concorsi Gozzano, Europa in Versi, Bo-Descalzo, Città di Como, Ossi di Seppia, Montano, Arcipelago itaca, Gianmario Lucini, Sinestetica, Rodolfo Valentino, Poeti Oggi. Suoi testi figurano nel Settimo repertorio di poesia italiana contemporanea (AA. VV., Arcipelago itaca, 2023), in Distanze verticali. Escursioni poetiche sulla montagna (Macabor Editore 2024, a cura di Irene Sabetta), su alcuni blog e su antologie legate a premi letterari. Ha pubblicato il suo primo libro di poesia, Punto coronato (ed. Carabba), nel 2011 e prossimamente uscirà per la casa editrice puntoacapo l’opera vincitrice del Premio Lago Gerundo 2023 per la poesia inedita. È membro di Giuria in alcuni concorsi.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini, inaugurata nel maggio del 2020, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 240° numero.  Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Mariana Mazzuccato, Rachel Reeves, Angela Rayner
Le tre donne del Labour e la speranza di una politica nuova

Mariana Mazzuccato, Rachel Reeves, Angela Rayner: le tre donne del Labour e la speranza di una politica nuova.

Dopo 14 anni di governi Conservatori in Gran Bretagna ha vinto il Labour. Come già abbiamo detto è stata più che una vittoria del Labour, una sconfitta dei Tory, favorita dal nuovo partito di destra di Farage che ha portato via dai Tory il 14,3% dei voti facendoli crollare in moltissimi dei 650 collegi dal 43% (di 5 anni fa) al 23%, sotto quindi il Labour (33,7%) che ha così vinto 412 seggi su 650 prendendo anche meno voti (in valore assoluto) di 5 anni fa (anche se è cresciuto in percentuale di +1,7%).

Il Labour ha ottenuto anche la quota di voti più bassa di sempre nelle aree svantaggiate e la più alta nelle aree più benestanti, in coerenza con la svolta moderata del suo leader Starmer, il quale sa bene quanto rischia alle prossime elezioni, soprattutto se non riuscirà a limitare e regolare l’immigrazione (che è il cavallo di battaglia di Farage) e a non invertire il declino del benessere nella maggioranza dei britannici.

Il programma di Starmer si basa su tre filoni dietro ai quali stanno tre donne ispiratrici (due al Governo e una fuori, a noi nota perché è un’economista italo-americana). Si tratta di Mariana Mazzuccato che sostiene da sempre l’importanza del ruolo propulsivo dello Stato nell’economia, con massicci investimenti pubblici nella politica industriale capaci di catalizzare le imprese private verso obiettivi ambiziosi, e in cui il ruolo strategico rimane quello dello Stato o di imprese controllate dallo Stato. Una scelta opposta all’idea che il “libero mercato” possa generare benessere per la maggioranza e quindi di uno Stato che si defila e appalta le grandi scelte alla finanza e alle grandi corporation.

Rachel Reeves

La seconda donna è Rachel Reeves, nuova ministra delle finanze del governo britannico e prima donna a ricoprire questo ruolo, autrice di “The Everyday Economy” (L’economia della vita quotidiana) dove sostiene che la politica economica deve tornare a preoccuparsi dei beni e servizi importanti nella vita quotidiana delle persone: trasporti, sanità, assistenza sociale, istruzione, servizi di pubblica utilità, piccolo commercio, dopo l’ideologia (che va avanti da 20 anni) dell’importanza della gestione finanziaria e che solo il privato è bello.

Angela Rayner

 

La terza donna è Angela Rayner, ex sindacalista, cresciuta in una famiglia poverissima con la sola madre, che si occuperà come ministro delle politiche per la casa, delle comunità e del governo locale e con particolare attenzione ai “luoghi che non contano, dove sono cresciute le diseguaglianze sociali, economiche, in territori marginalizzati e diventati anonimi, in quanto i Tory avevano puntato tutto sul potenziale innovativo della classe creativa nelle grandi città, sui servizi finanziari della City e sull’alta tecnologia.

 

Così potrebbe essere (ma va verificato) che stiamo passando da leader dove l’immagine è tutto a leader veri, che lavorano dietro le quinte, che sanno costruire una squadra e in cui il fare è più importante dell’immagine,
Se il programma Labour dovesse rispondere con successo alla diffusa rabbia e risentimento, un sentiment che è presente in tutti i paesi occidentali (dall’Europa agli Stati Uniti), sarebbe una scelta inaspettata. Per questo sarà importante seguire con attenzione il caso britannico.

Cover: Mariana Mazzucato – ph. Stuart Robinson

Vite di carta /
Ferraù e la seconda scelta

Vite di carta. Ferraù e la seconda scelta

Sto rileggendo il primo canto dell’Orlando furioso insieme a Federica, che recupera la storia letteraria di quarta liceo dopo avere fatto l’intero anno scolastico all’estero. Nell’universo grande  costruito da Ludovico Ariosto col suo poema non è piccolo l’universo che si incontra nel primo canto: le antologie della scuola superiore lo presentano come canto indicativo dei temi e di modi narrativi della poesia ariostesca. Vero. A leggerlo con cura ci si fa un’idea di come debba essere il poema, con i restanti 45 canti già avviati dal motore narrativo del primo. Con i tempi risicati che ha la didattica questo pregio esce dal testo e si trasforma in un secondo, graditissimo: quello di dare una spintarella allo “svolgimento del programma”.

Ciò che non dirò a Federica è la propensione che provo per un personaggio minore, anche lui talmente preso dall’amore per Angelica ora in fuga nella selva, che non ha esitazioni nel lasciare ciò che stava facendo per rincorrerla quando la vede passare a cavallo.  Di innamorati così, ne girano altri nelle 81 ottave che compongono il canto e vengono tutti da lontano: letterariamente, escono dalle pagine incompiute dell’Orlando innamorato del Boiardo e si gettano nel nuovo labirinto tessuto dai fili narrativi delle ottave del Furioso.

Il mio preferito resta Ferraù, il cavaliere saraceno spagnolo che nell’Innamorato aveva ucciso in combattimento il fratello di Angelica, Argalia. Tra l’ottava 14 e la 31 si consuma l’epopea individuale di questo cavaliere, non meno cortese dei cugini Orlando e Rinaldo e pronto alla “tenzone” in difesa della bella fanciulla. La vede passare a cavallo vicino al fiume dove egli ha trovato riposo (ma ha perduto qualcos’altro) rispetto alla battaglia che si combatte presso Parigi tra l’esercito cristiano di Carlo Magno e il suo, quello infedele del re Marsilio. Appare “pallida e turbata” mentre fugge da Rinaldo (lo odia perché, sempre nell’altro poema, ha bevuto a una fontana fatata), Ferraù la riconosce e subito interrompe la ricerca dell’elmo che gli è caduto in acqua e affronta in un cruento duello il suo inseguitore (ottave 17- 18).

In un poema fatto di donne, cavallier, arme, amori, cortesie e audaci imprese, come proclamano i due versi iniziali, Ferraù è al posto giusto. In un poema che prende il motivo corale delle armi proveniente dalle chansons de geste e lo fonde con i temi del ciclo bretone, l’amore e il gusto dell’avventura individuale, Ferraù è la figura esemplare del cavaliere che nello spazio della stessa giornata combatte per il suo re e duella per amore. 

Nello spazio delle successive 13 ottave gli accade di: interrompere  saggiamente lo scontro e unire le forze per cercare Angelica insieme a Rinaldo, procedere con lui “per selve oscure e calli obliqui” fino a dove il sentiero si biforca, lasciare Rinaldo e mettersi “ad arbitrio di fortuna” (sempre lei, volubile e donna, come dice Machiavelli) in una delle due strade, non sapendo quale abbia percorso la donna. Infine ritrovarsi, dopo un lungo giro nel bosco, esattamente al punto di partenza.

Non dirò a Federica che anche a lei sta accadendo qualcosa di simile col programma di Italiano: ha fatto un lungo giro per seguire l’anno scolastico negli Usa e ora è tornata nel punto in cui lo aveva lasciato (il programma).

Scherzi a parte, non vorrò dirle quanto mi sia vicino l’errare di Ferraù, un zigzagare fuori di sé nella selva e anche dentro i suoi desideri (i nostri desideri) seguendo il proprio cammino di uomo prima che di cavaliere in un poema epico-cavalleresco.

Ci penseranno le pagine del manuale a perimetrare per lei la grandezza inventiva e narrativa di Ariosto, in quel suo poema che è opera aperta, piena di spifferi e di folate soffiate dalla mutevolezza del vivere che spingono i personaggi in ogni dove, ognuno con un desiderio in testa. Orlando, il cui desiderio folle verso Angelica è destinato a rimanere deluso, sarà il più inappagato di tutti. Perduto e poi recuperato il senno che Astolfo gli ha portato giù dalla luna, negli ultimi canti uscirà in via definitiva dal filone dei romanzi bretoni per infilarsi nel genere epico della Chanson de Roland: farà la guerra e solo la guerra, portando alla vittoria il suo re, Carlo Magno.

Senza occupare troppo spazio, Ferraù come Orlando mostra a chi legge qual è la parabola della vita dentro al poema. Indica quale sia la circolarità complessiva del suo movimento: corri corri, fai sempre lo stesso giro dietro a obiettivi che non cambiano o, se cambiano, soffiano all’indietro per predisporti ad accettarli.

Di Ferraù mi incanta il suo adeguarsi alla mutevolezza del mondo. Fallita la prima scelta, quella d’amore, si adegua a sposarne una seconda. Che poi è la prima che aveva interrotto: insomma cerca l’elmo caduto nelle acque del fiume.

Sulla spinta delle parole del fantasma di Argalia che è sbucato dall’acqua, Ferraù si prepara a uscire dal canto con la testa piena di un ulteriore desiderio: impadronirsi dell’elmo che è più elmo di tutti, quello di Orlando.

Federica apprenderà dal suo manuale che nel caso di Ferraù la ricerca dell’elmo è una ricerca degradata, il surrogato cioè di una meta più alta e irraggiungibile. Nel Furioso l’inchiesta come motore dell’azione individuale alla fine fallisce e i personaggi devono ripiegare su un oggetto sostitutivo, e via di nuovo col meccanismo della ricerca, quello che nel mio manuale preferito di docente viene definito il “meccanismo comico dell’attesa delusa”.

Con la sua sensibilità di diciottenne apprezzerà, credo, che nella architettura così complessa del Furioso la monade narrativa del primo canto rechi in sé l’intero DNA del poema e del suo altissimo valore letterario.

Quello che non vorrò suggerire è di far uscire Ferraù dalla pagina per dirle che spesso così è anche la vita fuori dal poema. Federica ha sogni e progetti che non è ancora tempo di relativizzare davanti al suo sguardo acceso di futuro.

 

Nota bibliografica:

  • Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Garzanti i grandi libri, 1994

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Referendum Autonomia differenziata: 100.000 firme on line in meno di due giorni

Referendum Autonomia differenziata: 100.000 firme on line in meno di due giorni

Le adesioni online alla richiesta di referendum per abrogare la legge sull’Autonomia differenziata hanno superato quota 100.000 in meno di due giorni, il 20% delle 500.000 richieste, un obiettivo alla nostra portata.

Ma non ci accontenteremo e continueremo a raccogliere le firme per tutto il tempo disponibile, sia sul web che nei banchetti che abbiamo organizzato e che intendiamo moltiplicare in maniera capillare in tutta Italia.

Per noi è fondamentale parlare con il maggior numero possibile di persone, spiegare le ragioni della nostra mobilitazione e rendere questa battaglia sempre più condivisa e partecipata: una battaglia democratica in difesa dell’unità e della coesione nazionale, del welfare pubblico e universalistico e delle prospettive economiche e sociali del paese.

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Nota Bene
Periscopio, quotidiano online indipendente, aderisce alla campagna referendaria contro l’Autonomia differenziata