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Contratti pirata:
come fare i signori con i soldi di chi lavora

Contratti pirata: come fare i signori con i soldi di chi lavora

“Sono un pirata ed un signore”, cantava di sé un autoindulgente Julio Iglesias. Entrambe le categorie tornano d’attualità: pirati, che si mettono d’accordo con i signori coi soldi altrui, quelli che non danno a chi lavora per loro.

La prossima volta che qualcuno vi dirà che la CGIL ha firmato dei contratti che prevedono una paga oraria inferiore alla proposta sul salario minimo, sbattetegli in faccia la storia del nuovo contratto dei call center. E’ un caso di scuola. Le parti che hanno firmato il contratto sono l’Assocontact (imprese) e la Cisal (lavoratori). Sulla Cisal c’è un interessante precedente del 2022: il Consiglio di Stato (e la Corte Costituzionale di seguito) hanno stabilito che questo sindacato non può essere considerato “comparativamente più rappresentativo” sul piano nazionale rispetto a chi firma i contratti nazionali di categoria (ovvero Cgil, Cisl e Uil), non solo perché rispetto a loro non rappresenta quasi nessuno, ma soprattutto perché in una comparazione tra iscritti non viene per terzo, quarto o quinto, ma (ad esempio) per settimo. Vale a dire che non è dotato di una rappresentatività tale per cui arrivi, per numero di iscritti, subito dopo le tre sigle più rappresentative. Quindi, in italiano, non può essere definito “comparativamente” più rappresentativo.

Siccome la Cisal è uno di quei sindacati che piacciono al governo attuale, allo scopo di conferirgli “per legge” un’autorevolezza che non ha e legittimarlo ai tavoli nazionali così come al CNEL, la dizione contenuta nel DDL governativo sulla sicurezza sul lavoro è stata cambiata: possono partecipare i sindacati “maggiormente rappresentativi”. Ora, se io ho cinquanta iscritti sono “maggiormente rappresentativo” rispetto ad un sindacato che ne ha quaranta. Ma il trucco sta proprio nel cancellare la necessità di comparazione: senza bisogno di mettersi a confronto con i sindacati che firmano i contratti nazionali, infatti, qualunque sindacatino che aggreghi iscritti pari agli abitanti di un rione di paese può definirsi “maggiormente rappresentativo” di quello che abbia iscritti pari ai residenti in un condominio. Con questo trucchetto il Governo legittima al tavolo associazioni di scappati di casa (e sto indicando la migliore delle ipotesi) conferendo loro la stessa dignità di chi rappresenta decine, o centinaia di migliaia di persone. Il risultato è il contratto pirata, quello che, come facevano i pirati, se ne frega delle regole e fa strame di diritti e tutele.

Questa premessa era necessaria per capire cosa è successo nel recente rinnovo di contratto dei contact center. I lavoratori dei call center dovrebbero essere inseriti in termini di tutele contrattuali nel comparto delle Telecomunicazioni. Assocontact però ha trovato la controparte sindacale che le ha permesso di firmare un contratto nazionale a parte, a condizioni (per lei) migliori, e per i lavoratori e lavoratrici nettamente peggiori. Questa “controparte” è appunto la Cisal, che ha siglato il 4 dicembre un contratto che prevede una paga oraria di appena 6,50 euro per gli operatori assunti come co.co.co e un aumento di soli 7 euro al mese per gli altri. Inoltre, condizioni peggiorative per quanto riguarda la maternità e i permessi. Lo denunciano Slc Cgil, Fistel Cisl e UilCom, le tre sigle confederali delle telecomunicazioni. Agli addetti dei call center viene da anni applicato il contratto collettivo delle telecomunicazioni firmato con Asstel(aderente a Confindustria). Questo accordo è in vigore per tutti i 140mila dipendenti delle telecomunicazioni in Italia, dei quali i circa 40mila operatori di call center fanno parte. La piattaforma sindacale di rinnovo contrattuale nel settore TLC rivendica un aumento di 260 euro al mese per recuperare l’inflazione. Nel frattempo le due associazioni di furbastri hanno pensato bene di smarcarsi per riportare indietro tutele e diritti degli operatori telefonici. Facciamo finta che voi facciate parte dei trentottomila che non hanno una tessera Cisal in tasca. Sareste contenti di vedervi applicare un contratto firmato da gente che ha avuto il mandato dai restanti duemila (immagino non siano numeri esatti ma, appunto, chi li ha?). Secondo voi, perché un’associazione di padroni firma un contratto solo con un sindacato di minoranza? Per filantropia o per risparmiare denaro e avere mani libere?

Attualmente, su circa 900 contratti nazionali, solo un terzo sono stati firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi, e con controparti aderenti alle principali associazioni datoriali. Non è possibile affidarsi solo ai giudici – oppure alle assemblee dei lavoratori – per far cessare questa concorrenza al ribasso, che in alcuni settori (ne cito giusto altri tre oltre ai call center: trasporti, logistica e appalto assicurativo) costringe anche le organizzazioni più rappresentative a sottoscrivere contratti nazionali a condizioni che non sono le migliori, ma le meno peggiori. E’ indispensabile una legge sulla rappresentanza sindacale. Ci vogliono regole che consentano di misurare il peso di ogni sindacato in termini di iscritti e di conseguenza la sua titolarità a firmare contratti validi per tutti (il famoso erga omnes), in modo che il contratto sia applicabile a tutti solamente se almeno il 50 per cento più uno (in termini di rappresentatività) dei sindacati lo firma. Ma appunto, come lo si determina questo dato?  Esiste un Testo Unico sulla rappresentanza sindacale, di origine negoziale ed ora assunto all’interno di una convenzione sottoscritta anche dall’Inps e dall’Ispettorato del Lavoro: ma non basta, perché vale solo per il settore industriale e per le aziende che aderiscono a Confindustria – e peraltro sono tante le aziende importanti che ne sono uscite per farsi dei contratti ad hoc.

Peccato che attualmente al Governo ci sono persone che i pirati li invitano ai tavoli nazionali.

 

Una pietra racconta

Pace con la natura. Una pietra racconta

 

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

Ho visto gli oceani retrocedere e i continenti emergere, ho visto le montagne alzarsi e i fiumi tracciare i loro solchi attraverso la terra.

Ho gioito del primo verde, dei primi alberi e del primo fiore. Ho sentito il primo ronzio degli insetti, ho visto il primo bruco trasformarsi in farfalla, ho ammirato il volo degli uccelli e la morbida pelliccia degli animali che la usavano per scaldare i loro piccoli indifesi.

È stato bellissimo assistere al fiorire del creato: tanta varietà, tanti colori, tante abilità, tanta musica, tanta bellezza.

Una cosa dipendeva da un’altra, una cosa era il nutrimento di un’altra. Ogni cosa aveva il suo posto, aveva il suo scopo.

Si è creato l’eterno ciclo del divenire e del trapassare.

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

Poi, dopo molte epoche, la natura fece nascere un nuovo essere, diverso da quelli precedenti. Era capace di cose insolite, poteva fare di più di voi piante e di voi animali. Lo guardammo mentre cominciava a vagare per la terra, sfidando le ere glaciali, diventando padrone del fuoco e aiutandosi con le sue abili mani.

Dopo l’ultimo grande riposo invernale del mondo, la nuova creatura cambiò rapidamente. In molti luoghi, dove il clima, le piante e gli altri animali lo permettevano, questo membro più giovane della creazione si stabilì.

Si chiamò uomo, trasformò la natura selvaggia in giardini, si moltiplicò e cominciò a contare il tempo.

Capiva ancora il linguaggio di voi uccelli, si rallegrava del vostro volo, riconosceva in esso i messaggi dei giorni a venire. Sapeva interpretare il ronzio e il cinguettio di voi insetti, così come le nuvole e la luce della sera.

Era ancora vicino alle stelle come alla terra, come a noi pietre, a voi acque, a voi bambini del regno di Flora e Fauna e anche a se stesso.

Ma con ogni ora che passava, si allontanava dalla sua origine, dalla nostra origine. Ha dimenticato che il fiore e l’albero, la roccia e il fiume, il tasso e il tordo sono suoi fratelli. Ha dimenticato di godere dell’esuberante volo delle rondini che salutavano le sere d’estate.

Ha dimenticato di fare silenzio quando si è seduto vicino ai fiumi o sotto gli alberi. Ha anche dimenticato di prendere solo il necessario per vivere.

Invece, ha iniziato a creare gerarchie e a mettere gli uni al di sopra degli altri.

La Terra è grande e questo cambiamento non è avvenuto così rapidamente ovunque. In alcune parti del mondo, gli esseri umani sono rimasti legati alle loro origini per molto tempo.

Ma dove mi trovo io, nella parte della terra che l’uomo oggi chiama Europa, questo cambiamento è stato più grave e rapido.

Qui, rispetto ai tempi della sua infanzia, molto era già stato dimenticato, ma la gente onorava ancora Madre Terra e cercava la sua vicinanza nelle grandi foreste.

Ma poi arrivò una stella con la coda e sostituì la luna.

Il ciclo divenne questo mondo e l’aldilà il bene e il male.

La credenza su come il mondo sia stato creato e tenuto insieme proveniva dalle regioni desertiche, dove Madre Terra non si presenta con opulenza e abbondanza agli esseri umani e agli altri figli del creato.

Lì era il cielo notturno a dare conforto ed essere la sede di ogni origine. (1) La nuova fede era fondamentalmente piena di amore e avrebbe potuto onorare non solo Padre Cielo, ma anche Madre Terra e tutti gli altri esseri.

Non so perché gli uomini non l’abbiano capito.

E poi tutto è cambiato molto rapidamente – tra voi alberi ce ne sono ancora alcuni che ricordano com’era.

Invece di condividere, si rubava, invece di aiutare, la sofferenza aumentava, le gerarchie si rafforzavano e la vita si spegneva senza senso.

Il dono meraviglioso che era stato dato ai figli degli uomini, il loro spirito inventivo, il loro potere creativo è stato usato non tanto per la vita quanto per la sua distruzione.

Hanno estratto i tesori della terra, eppure non sono diventati più ricchi.

Pensavano ai loro simili e alla natura come a delle macchine (2).

Avevano smesso da tempo di ascoltare il canto delle loro anime, la melodia destinata solo a loro e di vivere fuori nel silenzio della natura – il canto che regala verità alle loro anime.

Forse è per questo che hanno cominciato a vedersi come creatori e a intervenire senza pensare ai più piccoli elementi della vita.

Siamo tutti di fronte a una svolta epocale, perché gli esseri umani rischiano di morire a causa del loro comportamento sconsiderato e irrispettoso.

Molti di voi, piante e animali, esistono solo come ricordo, poiché le vostre specie sono state spazzate via dall’uomo – attraverso il furto del vostro habitat o l’avidità per la vostra carne, la vostra pelliccia o le vostre ossa.

Molte di noi rocce e pietre non ci sono più – sono state frantumate a beneficio di pochi. E voi fiumi siete stati inquinati e modificati nel vostro corso.

Anche se tanta bellezza e diversità è andata perduta per sempre, la creazione e la natura si riprenderanno e continueranno a esistere.

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

Figli umani, parte della creazione, parte della natura, svegliatevi e riconoscete finalmente chi e cosa siete.

Avete tante capacità, avete creato tante cose belle. Il vostro linguaggio è poetico, le vostre mani e la vostra bocca sono musicali, il vostro pensiero e la vostra abilità costruiscono case in legno e pietra. Trasformate i metalli in oggetti di grazia, avete imparato dai vostri simili.

Che cosa è successo?

Perché la vostra arroganza si è trasformata in mancanza di rispetto e poi in stupidità? Una stupidità così grande che non avete imparato dai vostri errori.

Avete portato tanta sofferenza al mondo nella convinzione che il passo in avanti – il progresso – sia l’unico percorso predeterminato o appropriato.

Tornate indietro, avete viaggiato troppo lontano dalla vostra origine.

Non desiderate sempre di più, perché non sarà mai abbastanza. (3) Ascoltate le parole di un saggio vissuto molto tempo fa: “La più grande ricchezza è l’autosufficienza. Il frutto più bello dell’autosufficienza è la libertà” (4).

Tornate a essere liberi dalle cose che avete creato per voi stessi.

Chiamate tante cose “pratiche”, ma quello che vedo è spesso solo una prigione in cui vi siete messi. Questi piccoli aggeggi così rumorosi, come molte altre cose vostre, vi rendono così distratti e poco liberi, annegando ogni cinguettio di uccello, ogni fruscio di grillo, ogni gorgoglio di ruscello e il ticchettio della pioggia sulle foglie degli alberi.

Guardate un po’ indietro, come eravate un tempo.

Uscite di nuovo e ascoltate le voci della natura, ascoltate il vostro essere più profondo, il canto della vostra anima. Uscite di nuovo e guardate le meraviglie della neve bianca, del primo filo d’erba, dei semi di cicuta e delle foglie colorate in autunno.

Uscite di nuovo per sentire il profumo delle fragole selvatiche, dell’aria dopo un temporale estivo e dell’acqua salata dei mari. Uscite di nuovo a sentire il muschio morbido sotto i piedi, il vento sulla pelle e le gocce di pioggia sul viso.

Imparate dai vostri bambini, che sanno ancora meravigliarsi e scoprire un miracolo ogni giorno: parlano ancora con le pietre e ringraziano i fiori.(5)

Imparate dalle comunità che chiamate “indigene”. Spesso sanno ancora qualcosa del volo degli uccelli, delle immagini delle nuvole, della gratitudine nei confronti di Madre Terra e di tutti i nostri simili. (6)

Imparate da chi ha avuto il potere delle parole per descrivere la bellezza della natura dentro e fuori di sé. (7)

E non temete che le conoscenze acquisite siano in contrasto con un mondo vivo: possono andare di pari passo.

Partecipate al passaggio delle stagioni, al risveglio della primavera, alla pienezza dell’estate, alla maturazione dell’autunno e alla calma dell’inverno. Celebrate le loro feste e percepitele con tutti i vostri sensi.

Riconoscete che la gratitudine è un grande dono, perché vi dimostra che siete amati.

Cari uomini, venite da noi e vedete che la natura non è solo uno sfondo della vostra vita, ma rendetevi conto che siete parte di essa, proprio come le piante, i funghi, tutti gli altri animali, i fiumi e, come me, la pietra. Allora sarete in pace con la natura e con voi stessi… E forse continuerete a esistere ancora per un po’.

Io sono una pietra – ero già lì – alla nascita del mondo.

 

Note:

(1) Un ottimo libro con contributi di vari teologi e studiosi di religione sull’influenza della cristianizzazione sulla comprensione della natura nell’Europa centrale: Hunold, Gerfried (ed.): Ökologische Theologie und Ethik – 1999

(2) La pietra si riferisce al meccanicismo, la visione meccanica del mondo fondata nel primo Illuminismo, il cui rappresentante più noto è Cartesio.

(3) Immer mehr ist nicht genug – Eine kurze Geschichte der Ökonomie der Maßlosigkeit (Sempre di più non basta – Breve storia dell’economia dell’eccesso) di Bernhard Ungericht è il titolo di un ottimo libro sulla storia del nostro sistema economico capitalista fin dall’antichità.

(4) Citazione da Epicuro di Samo (341-271 a.C.)

(5) Un libro che, secondo gli standard odierni di argomentazione, cioè molti studi scientifici, mostra chiaramente come la natura abbia un effetto estremamente positivo su tutti i livelli di sviluppo del bambino e dell’adulto: Raith Andreas, Lude Armin: Startkapital Natur – wie Naturerfahrung die kindliche Entwicklung fördert.

(6) Un saggio altamente raccomandabile dal titolo Indigeniality del filosofo Andreas Weber, pubblicato da Nicolai Verlag.

(7) Henry David Thoreau è descritto come uno dei più grandi scrittori americani. A mio parere, questo titolo è un po’ immeritato. Per me è un mistico. Se si leggono i suoi saggi, i suoi diari, si può avere una visione profonda della bellezza della natura interiore ed esteriore.

Ancora qualche dichiarazione d’amore: al richiamo della civetta – alla coda della colomba – ai campanellini del cardellino – al volo delle gru – al muso vellutato di una capra – alla crescita di un albero – al profumo di una mela – alla colorazione dei fiori del ranuncolo primaverile e della polmonaria – all’arricciarsi di una foglia di felce – al rigoglio di un rovo – al blu della cicoria – al viola dell’ambrosia – al bagliore del fiore di papavero – al seme del dente di leone – al sussurro dei pioppi – alla luce bianca della Bretagna – alla simmetria di un fiocco di neve – ai cespugli avvolti dalla brina – al verde giovane delle latifoglie – al profumo del tiglio – al risveglio del canto degli uccelli dopo un temporale – all’aria resinosa di una pineta in estate – ai passi sulle foglie autunnali – al tappeto dorato degli aghi di larice – ai fili d’erba che si stagliano contro il cielo serale – al crepuscolo – al profumo dei fiori di falena nel buio – al silenzio della notte – all’odore della terra.

( Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid )

L’autrice

Coco Burckhardt vive in una fattoria autosufficiente in Bretagna. È un’autrice di lingua tedesca,  tiene seminari sulle piante selvatiche e sul folklore vegetale e ha molti anni di esperienza nell’educazione forestale e naturalistica. Con il suo lavoro vuole aiutare le persone a riconoscere la meraviglia della natura, a sentire e ricostruire un legame profondo con essa – l’uomo come parte del creato e non al di sopra di esso. Con il suo ultimo libro “Pflanzenbrauch im Jahreslauf – Mit Baum und Kraut im Reigen der Jahreskreisfeste spielen, heilen und genießen” accompagna le persone durante l’anno.  www.waldundwiesenwonne.de

 

In copertina: Cerchio di pietre di Callanish, Isola di Lewis, Scozia. (Foto di Bobby Langer)

 

La tregua di Natale del 1914

La tregua di Natale del 1914

La notte di Natale del 1914 sulle trincee delle Fiandre a sud di Ypres, in Belgio, i soldati tedeschi dell’impero austro-ungarico hanno di fronte i soldati inglesi e si combattono duramente da 4 mesi.

La guerra è iniziata il 28 luglio 1914, un mese dopo l’attentato a Sarajevo all’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore d’Austria, designato come futuro imperatore. L’omicida è Gavrilo Princip, studente di 19 anni serbo-bosniaco che fa parte di un movimento indipendentista (Mlada Bosnia, Giovane Bosnia). L’impero dopo un mese dichiara guerra alla Serbia che sa bene come ciò porterà alla guerra anche con la Russia (che è sua protettrice), così come la Germania, alleata all’Austria, quando invade il Belgio (neutrale) dà il destro alla Gran Bretagna ad entrare in guerra (a fine agosto).

La guerra sembra nascere dalle aspirazioni di indipendenza della Serbia ma in realtà dietro le quinte cova sia il conflitto della Francia contro gli imperi centrali (tedesco e austriaco), avendo perso le regioni Alsazia e Lorena nella guerra del 1870 e soprattutto il conflitto con la Gran Bretagna che rischia di perdere l’egemonia sui traffici marittimi mondiali per l’ascesa degli imperi centrali che vogliono giocare un ruolo di potenze mondiali; ruolo che non sta bene agli anglosassoni, ora forti anche del figlio (molto cresciuto) che si chiama Stati Uniti.

Un conflitto interno all’Europa tra aspirazioni indipendentiste della Serbia nei confronti dell’impero austro-ungarico (che aveva mantenuto in pace ben 17 etnie), serve agli anglosassoni per una guerra che smantelli gli imperi centrali tedesco-austriaco, diventati troppo ingombranti.

E’ l’inizio di una guerra che pone le basi di un “novus ordo seclorum” come è scritto esplicitamente dal 1935 sulla cartamoneta da un dollaro, in cui gli anglosassoni vogliono diventare leader nel mondo sbarazzandosi dell’unico vero competitor che possono trovare in Europa: la Germania e il suo forte alleato, l’impero austro-ungarico.

Solo così si capisce come mai la Gran Bretagna, che non fa parte dell’Europa, e ancor più gli Stati Uniti, entrino in guerra a fianco di Russia, Francia, Italia (poi Giappone) contro Austria-Germania. Raccontarlo non è mainstream perchè mette in cattiva luce i padroni del XX secolo che vorrebbero continuare ad esserlo anche nel XXI (da qui lo scontro in Ucraina e con Russia, Cina e Brics).

Ma torniamo alla nostra bella storia di pace. Siamo nella notte di Natale del 24 dicembre sulle trincee delle Fiandre e i soldati tedeschi cominciano ad accendere molte candele sul bordo della trincea.
Un soldato inglese le nota. Poi sente il canto natalizio dei tedeschi (Stille Nacht) che augura buon Natale agli inglesi.
A quel punto sull’altro fronte gli inglesi rispondono unendosi a un canto che è a loro noto in lingua inglese (Silent Night, il nostro Astro del ciel).
Racconta in una lettera un soldato inglese: “Mentre osservavo il campo ancora sognante, i miei occhi hanno colto un bagliore nell’oscurità. A quell’ora della notte una luce nella trincea nemica è una cosa così rara che ho passato la voce. Non avevo ancora finito che lungo tutta la linea tedesca è sbocciata una luce dopo l’altra. Subito dopo, vicino alle nostre buche, così vicino da farmi stringere forte il fucile, ho sentito una voce. Non si poteva confondere quell’accento, con il suo timbro roco. Ho teso le orecchie, rimanendo in ascolto, ed ecco arrivare lungo tutta la nostra linea un saluto mai sentito in questa guerra: ‘Soldato inglese, soldato inglese, buon Natale! Buon Natale!‘”.

Senza che nulla sia stato concordato dai generali, i soldati degli opposti schieramenti cessano il fuoco, si accendono candele, si cantano inni di Natale. Comincia un botta e risposta di auguri gridati da parte a parte, fino a che qualcuno si spinge fuori dalla propria trincea per incontrare il nemico e stringergli la mano. La “tregua di Natale” fu un atto straordinario e coraggioso che partì da semplici soldati mossi da sentimenti di profonda umanità e fratellanza. Rileggere oggi, a distanza di cento anni, le lettere spedite dal fronte che raccontano quel gesto di spontanea e generosa insubordinazione ci commuove e ci interroga: è davvero impossibile costruire un mondo pacifico e solidale? Allora scattò una tregua in cui si celebrò la messa di Natale, si seppellirono i morti e il giorno dopo si farà addirittura una partita di calcio.

Lo si racconta nel bel libro di A. Del Bono “La tregua, lettere dal fronte” tra cui ci sono anche quelle del sergente inglese Bernard Joseph Brookes che racconta: è stato un Natale ideale, lo spirito di pace e buona volontà cozzava con l’odio e la morte dei mesi precedenti. E’ stato sorprendente che un simile cambiamento dei due eserciti opposti sia stato generato da un evento accaduto una notte duemila anni fa”.

La storia è poi stata ripresa anche nel film (dvd e libro) Niente di nuovo sul fronte occidentale. Lo ha raccontato anche Alessandro D’Avenia nella sua rubrica sul Corriere del lunedì;  “Quegli uomini capiscono che la guerra è frutto di propaganda e avidità di potenti che trasformano le persone in soldati ad energia distruttiva contro presunti nemici che sono in realtà come “noi”. Quell’unità profonda di tutte le cose che i Greci chiamavano Logos del cosmo, che Giovanni scrive nel suo vangelo essersi incarnata e che Francesco d’Assisi tradurrà dando del fratello o sorella al fuoco, all’acqua, alle stelle e….persino alla morte”.

In copertina: Soldati tedeschi in posa fuori dalle trincee durante il Natale 1914. Foto Wikimedia.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Marco Plebani: alcune poesie edite ed inedite

Alcune poesie edite ed inedite di Marco Plebani,

Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni.
(Henri Cartier-Bresson)

 

CHERNOBYL

Non ho pianto quando Chernobyl
sotto forma di nube al cancro
rubò i miei giochi esposti
in terrazzo.
Né quando mia madre
la serenità perse e non fece finta di nulla.
Né quando mio padre si è sigillato,
chiuso per sempre nel suo dolore
e nel trafitto silenzio: “Addio fratelli dispersi”.
Né quando,
per giorni,
mia sorella si è sentita
completamente sola
sotto un sole ripieno di sorrisi.
Né soprattutto
sopr’ogni cosa,
quando nell’87 gli infermieri mi hanno chiesto
di “gonfiare un palloncino”
in una sala operatoria.

Anestesia totale.

Mi svegliai burattino nei legni dolente.
Ho pianto ogni volta che qualcuno è morto
ed una parte di me ha camminato
per sempre nei cortei funebri.
Troppo preziose e troppo rare
le lacrime di un uomo.

 

VALE DI PIÙ

 

Essere innamorato di te fa male
e vale di più della
crisi nervosa che attanagliante
ricopre mio corpo nudo tremolante,
di plumbee giornate in cui sfortuna
accanisce incisiva,
della vigna che prepara il vino
per la tua bocca,
di chi è passato e ha lasciato
strisce di sangue pubico,
del sanguine di Cristo
e dell’ideal marxista-leninista,
del tuo volto che s’asconde ancora
alla mia sessualità erettile,
inopportuna ed ansiogena.
Essere innamorato di te è un
Mistero conficcato nel palpito.

(poesie tratte da “Decimo dan“, Edizioni La Gru, 2022)

 

Morsa l’epidermide sopra l’osso frontale in cucina,
convivente,
torna tutto nelle rifiniture o nella ceramica di un pavimento insoddisfacente.
Occhi, divieto di cinque anni fa,
aumentata secrezione lacrimale dal Falerio.
Calore in dispersione da ricarica.
L’ultimo giorno di scuola a colazione ad un certo punto ha detto: “Aheee,
aheee, aheee” alla scolaresca allibita dall’ipotesi infondante.

Le espressioni di una religiosità interiorizzata
giustappostandosi sul letto nel sonno
del passaggio dal solstizio all’equinozio.

(inedito)

 

*

 

Esisti perimetrata da muri abbraccianti,
calpestata su pattern persiani
dissepolti su stoffa,
gioia di questo giorno immune.

Né fiori né ombre sotto al neon.

Arrivare nudi a nuove cadenze.

*

Guerra nuova in riscaldo,
fredda pareva.
Non diremo agli alunni
che non avremmo più temuto
scacchieri
forieri
di missili a lungo raggio
e tremato come balaustre d’allumimio
appoggiate da mani malferme.

Qualcuno assemblerà
futuri tavoli, robusti,
di noce,
per firmare accordi
e preparare voli d’oltreoceano.

(Queste ultime due poesie inedite provengono da un laboratorio di poesia tenutosi a Macerata che aveva come temi rispettivamente la “gioia primaverile” e il “futuro”)

Marco Plebani (1978). Insegnante di lettere presso la Scuola Media “Enrico Fermi” di Macerata (MC). Pubblicazioni: “Un giorno qualsiasi” (Ed. OTMA, Milano, 2011) secondo classificato al premio A.U.P.I. (Albo Ufficiale Poeti Italiani) (2011), “Decimo Dan” (Ed. La Gru, Latina, 2022). Segnalazioni su blog, riviste e rubriche: Poesia del Nostro Tempo, Versante Ripido, Niederngasse, L’Estroverso, Independent Poetry, ‘900 Letterario, Poesia Ultracontemporanea (a cura di Sonia Caporossi), La Poesia e lo Spirito (a cura di Fabrizio Centofanti e Pasquale Vitagliano), Di Sesta e di Settima Grandezza (a cura di Alfredo Rienzi), Almanacco (pagina di Puntoacapo Edizioni), La Rosa in più (a cura di Salvatore Sblando), Le parole di Fedro (a cura di Sergio Daniele Donati), Fare Voci (bimestrale a cura di Giovanni Fierro), Il Tasto Giallo (a cura di Rosanna Frattaruolo e Antonio Corona), Bibbia d’Asfalto, Margutte, Monolith Volume, Limina Mundi, Brainstorming Culturale, Emme24, Pelagos, Il Passaparola dei Libri, Federico Preziosi (blog), L’Osservatore, Neobar, Casa della Poesia Torino, TuttaToscana Libri, PoetryDream (a cura di Antonio Spagnuolo), Il Mangialibri, Enea Biumi (blog letterario), Dianora Tinti (blog letterario), Lucaniart Magazine, Dissonanze Letterarie (a cura di Giulia Scialò), Libri e Recensioni, Verso Libero (a cura di Patrizia Baglione), Libriamoci, Circolare Poesia, Cultura e Letteratura (a cura di Lorenzo Spurio), Arcipelago Itaca (blog magazine), L’Altrove, Il Giornalaccio, Lo Specchio Magazine, traduzione di Antonio Nazzaro in spagnolo di “Adriatica” per il Centro Cultural Tina Modotti, Scafffale (Rai 3 Marche).

 

Un grazie all’autore per avere autorizzato la pubblicazione di questi versi.

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 264° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Carlone.
Una favola di Natale

Carlone
Una racconto di Natale

Neve neve e ancora neve. Sconosciuta in città da più di dieci anni, la neve si era presa una formidabile rivincita. Era arrivata col primo buio della Vigilia e nella notte si era mutata in tempesta. Il mattino di Natale il vento era caduto ma da un cielo di ghiaccio continuavano a scendere fiocchi leggeri, grossi come pagnotte di pane.
Alle nove terminava il turno della prima colazione, gli ospiti della mensa della Caritas uscivano alla spicciolata dal grande portone di via Brasavola 19, ma nessuno se ne andava, stavano fermi lì, occupando tutta la stretta strada medievale, la neve fino alle caviglie e gli occhi al cielo a godersi lo spettacolo di Natale. Agitavano le mani, si battevano sulle spalle, parlavano e gridavano le loro lingue. Sembravano quasi felici, ma Mohamed era addirittura entusiasta, rideva, saltava, le braccia al cielo a ringraziare Allah.

Aveva quasi trent’anni Mohamed, scappato dalla sua Siria, più di metà della sua vita l’aveva passata in Italia; a Napoli, a Roma, a Torino e ora a Ferrara. Qui lo chiamavano Momo; più corto, più semplice. Quella neve lo portava indietro, al freddo inverno di Aleppo, quando il vento gelido scendeva dalle montagne e imbiancava tutta la città, la grande porta, le moschee, le chiese cristiane, la sinagoga, perfino il suo campo profughi.
Sotto la neve Momo era l’uomo più felice del mondo e allora si voltò per cercare il suo amico Carlone.
Era impossibile non notarlo, era più grosso e più alto di tutti, una torre con un berretto rosso di lana grossa su una nuvola di riccioli bianchi.
Ma Carlone non c’era. Momo tornò sui suoi passi verso la sala mensa.

Non se n’era accorto nessuno. A fine colazione Anna e Rodrigo passavano per la pulizia del salone. Ci misero una mezzora per arrivare in fondo, agli ultimi tavoli, e fu lì che trovarono Carlone, che non sembrava neanche lui, incastrato tra la panca e il pavimento di piastrelle, la faccia verso il soffitto e gli occhi aperti, azzurri e vuoti. La sua grande collana di ferro con la croce argentata toccava quasi terra. È Carlone, disse Rodrigo. Certo, è Carlone, rispose Anna, solo lui è così grosso. Anna gli toccò la faccia. Povero, almeno è morto al caldo. Smisero di pulire e andarono ad avvertire il responsabile della mensa.

Don Andrea si trovò subito un grosso problema da risolvere, perché Carlone era un vecchio a dir poco monumentale, facciamo 150 chili, facciamo pure 180 chili. Bisognava portarlo via da lì, liberare il tavolo, si doveva apparecchiare il pranzo di Natale. Ma c’era un secondo problema: dove portare il corpo di Carlone? Gli venne in mente il posto più vicino, il piccolo ambulatorio medico a pochi passi dalla sala mensa. Lì Carlone poteva starsene a dormire tranquillo.

Don Andrea, la sua efficienza eguagliava quasi la sua bontà, afferrò il cellulare e chiamò in cucina. Subito spuntarono i tre volontari richiesti, due sulla sessantina e uno giovanissimo. I loro nomi vanno citati, ora che sono entrati nella storia: Giuseppe e Giovanni i due valenti pensionati, Gigi il ventenne, appena arruolato dalla parrocchia dell’Immacolata per far fronte al superlavoro natalizio.
Tutti e tre, più Don Andrea, più Anna e Rodrigo fanno cerchio attorno al morto, guardano con attenzione quel corpaccione rovesciato, da sopra e da sotto, cercano di capire da che parte prenderlo. In quel tempo arriva di corsa Momo, si fa strada con le braccia, rompe il cerchio e raggiunge il suo amico. Afferra la sua mano enorme, lo accarezza sulle guance, piange.
C’è bisogno di tutti, anche di Momo che continua a singhiozzare, per trasportare il corpo di Carlone nell’ambulatorio. È più pesante da morto che da vivo. A fatica riescono ad alzarlo e a metterlo lungo disteso sul tavolo dell’accettazione. A faccia in su. Ma sembra ancora un sacco informe. Gli levano il vecchio cappottone tutto rattoppato. Meglio, sotto è tutto un altro vedere, indossa una tuta fiammante rossa e blu con i bordi d’oro. Gli stivali? No no, quelli sono impresentabili. Li togliamo, dice Gigi. Li prendono in mano: questi qui avranno almeno cent’anni, peseranno cinque chili l’uno.

Si dice che a volte i morti li guardi in viso e sembrano sorridere, ma forse sono i vivi che vogliono vederlo quel sorriso a fior di labbra.  Però adesso Carlone, morto stecchito e senza stivali, rideva, rideva a piena bocca. Rideva in silenzio, ma rideva, tanto che anche il suo amico Momo aveva smesso di piangere. Insomma, così elegante (senza stivali erano apparsi anche due splendidi calzettoni rossi), la fluente capigliatura e il candido barbone, non era mai stato cosi bello. E da morto come da vivo saltava agli occhi una impressionante somiglianza con Karl Marx. Proprio lui, il famoso filosofo attaccabrighe di Treviri, e proprio da Marx aveva preso il suo soprannome, quel Carlone con cui era conosciuto in tutta la città.

Don Andrea è pieno di dubbi. Gestire un morto è la prima volta che gli capita, e poi oggi, proprio il giorno di Natale. Ma Carlone merita un trattamento speciale, lo conosce da parecchi anni, è un ospite fisso della mensa. Grande, grosso, ingombrante, ma educato. Un gigante buono, un uomo mite, a parte quella sua mania, quell’odio verso Amazon e i suoi pacchetti. Appena vedeva un corriere con un pacco in mano, lo inseguiva. Non gliene scappava uno. Affrontava lo sventurato, gli strappava di mano il pacchetto e scappava come una lepre. Come una lepre, nonostante il suo quintale e mezzo di peso.

Era stato fermato più volte dalle forze dell’ordine  e si era fatto anche qualche notte in questura. Documenti? Nessun documento. Permesso di soggiorno? Nemmeno, ho fatto la fila ma non me lo vogliono dare. Professione? Pensionato, prima facevo il postino, ero piuttosto bravo. Nazionalità? Apolide, cittadino del mondo, un po’ qui e un po’ là: scriva quello che vuole. Ma alla fine lo lasciavano sempre andare. C’era la sua crociata contro Amazon (un testimone l’aveva sentito sussurrare: mi hanno disoccupato, maledetti capitalisti di merda), ma quel Carlone era totalmente inoffensivo. Si comportava in modo eccentrico ma esemplare; nessuno conosceva la sua storia ma era benvoluto da tutti. E ai bambini regalava caramelle.

Don Andrea prende in mano la croce argentata che pende dal collo del morto: giusto, pensa, per lui ci vuole anche una messa come si deve. Magari qui accanto, in fondo alla via, nella chiesetta di Santa Teresa del Bambino Gesù, le Carmelitane non avranno obiezioni. Ora però deve chiamare le autorità competenti, ma uno di cui ci si può fidare, ad esempio il maresciallo Di Francesco, va a messa tutte le domeniche a Santa Maria in Vado.

Quando arriva Luigi (detto Gino) Di Francesco, maresciallo della Benemerita, c’è solo Momo a vegliare il morto. Gli altri sono tutti impegnati con il pranzo in mensa. Il maresciallo conosce Carlone e fa subito le condoglianze. A Momo, perché c’è solo lui nell’ambulatorio trasformato in camera ardente provvisoria.
Il maresciallo ispeziona con cura il defunto. Al polso sinistro, semicoperto dalla manica della tuta, vede spuntare un gigantesco orologio d’oro. Sembra di gran valore, commenta a voce alta il maresciallo. Con delicatezza scopre la manica fino all’avambraccio. L’orologio pare antichissimo; forse è scarico, o è rotto, segna un’ora strampalata.
Sul lato interno dell’avambraccio c’è una strana scritta, un tatuaggio con numero inciso, sette cifre, si legge male ma si legge: 1121957. Il maresciallo rimane di sale, quelle cifre le ha già viste, sono una firma inconfondibile. Solo chi è stato ad Auschwitz, solo i pochi sopravvissuti possono esibire quel marchio infame. Ma, aspetta un attimo, allora questo Carlone era un ebreo, non un cristiano. Un sosia ebreo di Carlo Marx, che tra parentesi era ebreo pure lui. Però ad Auschwitz ci mandavano a crepare anche i comunisti. Forse allora Carlone non era nemmeno ebreo, era un comunista. Un semplice comunista rompicoglioni. Magari sempre in omaggio a quel suo famoso nonno comunista, il più marxiano dei marxisti, quello che aveva dato inizio a tutta la storia.
A questo punto al maresciallo Gino Di Francesco gira un po’ la testa. È intelligente ma realista. E ragiona: sono un carabiniere, non un detective, e questo non è un giallo, qui c’è solo un uomo morto, cristiano o ebreo o comunista non fa nessuna differenza, almeno per me. Guarda Momo e gli rifà le condoglianze: Lei è un parente? No, solo un amico. Si faccia coraggio. E non si preoccupi, penso io a chiamare l’azienda mortuaria.

Il pranzo di Natale è finito. Oggi che è un giorno speciale c’è stata anche un po’ di musica, ma poi le canzoni sono finite e i poveri sono usciti dal portone. Ognuno per la sua strada, Sotto la neve, che non ha smesso per niente. Il portone dovrebbe chiudere alla cinque di sera, ma Don Andrea e Momo stanno ancora aspettando gli addetti delle pompe funebri.
Invece, come una folata di vento, entrano correndo dal portone una folla di uomini e donne in miniatura. Sono alti non più di una cinquantina di centimetri, vestiti tutti di verde con in testa un cappellino a punta rosso. Potrebbero essere nani, gnomi, o forse elfi, leprecauni, o folletti del bosco. Difficile dirlo, in ogni caso, anche se li vedi coi tuoi occhi, fai fatica a credere nella loro esistenza. Sono creature di un mondo che esiste solo nelle fiabe o nelle poesie. Il gruppo degli elfi (Don Andrea e Momo hanno scelto questa ipotesi) non sembrano per niente spaesati. Hanno un compito preciso da svolgere. E hanno una gran fretta.

Mohamed detto Momo esce in strada seguendo il gruppo di quei piccoli esseri verdi. Sono almeno in venti a reggere sulle spalle la grande tavola di legno dove giace disteso il loro re. Gli hanno anche rimesso gli stivali e ornato la punta con due campanellini d’oro.
Usciti dal portone gli elfi voltano a sinistra, procedono lentamente in mezzo alla via ingombra di neve. Cantano sottovoce una nenia dolce e incomprensibile. Momo li segue a qualche passo di distanza. Arrivati in fondo a via Brasavola, di fronte ai ruderi della chiesa di Sant’Andrea, il corteo volta a destra per via Camposabbionario, e subito a sinistra per via Coperta. Ora si dirigono verso la grande area verde delle Mura di Ferrara.
Continua a cadere neve su neve ma la processione non si ferma, affronta con coraggio la breve salita che conduce al baluardo della Montagna. Momo è sempre dietro il corteo, non capisce dove stanno portando il suo amico Carlone, poi finalmente riesce a vederlo: sopra il torrione, vicino al bordo dove la mura strapiomba nel vallo, c’è uno strano oggetto di legno chiaro. Sembra un carro ma è senza ruote. Attaccati a quel coso ci sono dieci cavalli sbuffanti, pronti per la partenza. Cavalli con in testa le corna? Mai visto dei cavalli del genere, pensa Momo, nemmeno ad Aleppo.

Ora gli elfi hanno issato Carlone a cassetta, è molle come la gomma, ce ne vogliono due per lato per sostenerlo e tenerlo seduto, qualcuno gli ha rimesso in testa il suo berrettone rosso. Si sente un grido sottile, un segnale, la carrozza si alza in una verticale perfetta, si ferma per qualche secondo appena sopra la cima gli alberi, poi parte improvvisamente, senza uno sbuffo, veloce e silenziosa come un’astronave aliena.

In copertina:  Le Mura di Ferrara  sotto le neve.

Natale al Cafè Puškin di Mosca.
– un racconto di Natale

Natale al Cafè Puškin di Mosca

Una leggenda d’altri tempi

Siamo in pieno inverno, quello che in Russia arriva presto e che da noi arriva sempre dopo. Pochi giorni al Natale, quello che tempo fa, a Mosca, era ancora sereno, quello dove trascorrevo giorni di condivisione e di profonda amicizia, in attesa di un nuovo anno che sarebbe stato migliore, senza guerre e in pace, ne eravamo certi. Oggi non più.

Si avvicina il momento del tepore, della ricerca di un luogo dove rifugiarsi che accolga con una calda cioccolata in tazza, con un thè verde dall’aroma avvolgente e intenso. Ricordi. Quanti. Il tempo cambia, l’umore e noi stessi pure. La magia si avvicina comunque.

Cafè Puškin, Simonetta Sandri
Cafè Puškin, Simonetta Sandri

Nevica, quelle candida neve leggera che, costante e paziente avvolgerà presto tutta la città, accarezzerà i suoi parchi e giardini eleganti, ammantando tetti e cortili. Un vento frizzantino sfiora alberi e guance, ancora poche ore al Natale e ci siamo, mentre luci di ogni colore avvolgono tronchi e antichi palazzi. I pensieri sono lievi e lontani. Siamo sul viale Tverskoy. Improvvisamente eccoci davanti a una cascata cristallina, quasi di puri, lucenti e trasparenti diamanti, sembra di avere davanti un castello delle favole, vi entriamo piano piano, con rispetto e timore quasi reverenziale, accolti da un educato cameriere che ci accoglie dall’alto della sua bella livrea sfolgorante color melagrana. Se fuori sembra tutto luce e fatto di sola luce, dentro ci accoglie un’illuminazione delicata e soffusa.

Cafè Puškin, Simonetta Sandri

C’è musica, in sottofondo, le note di un’arpa delicata e di un flauto leggero. Gli occhi vanno coccolati, la mente lasciata libera. L’atmosfera è incantata, ci si sente una bella e sontuosa principessa, anche in assenza del principe azzurro che ora si trova lontano. Tutto è imperioso, maestoso, elegante, sfolgorante, accogliente. Oggetti antichi che sanno di oro, come librerie, volumi, cannocchiali e mappamondi affascinano subito e riportano ad altri tempi solenni, quelli magici, quelli fastosi e letterari. Più di 50 anni fa, quando il noto chansonnier francese Gilbert Bécaud si esibì a Mosca, al suo ritorno a Parigi scrisse la canzone Nathalie, dedicata alla sua affascinante guida russa, e raccontò di una cioccolata al Cafè Puškin. Quella che mi piace tanto.

La Piazza Rossa era vuota / Davanti a me marciava Nathalie / Aveva un nome carino, la mia guida / Nathalie. La Piazza Rossa era bianca / La neve faceva un tappeto / Ed io seguivo per quella fredda domenica / Nathalie / Parlava in frasi sobrie / Della rivoluzione di ottobre / Io pensavo già / Che dopo la tomba di Lenin / Si poteva andare al Cafè Puškin / A bere una cioccolata. (…) Niente più domande su frasi sobrie / Né della rivoluzione di ottobre / Non eravamo più là / Finita la tomba di Lenin / La cioccolata da Puškin / Era già lontano. / Ora la mia vita mi sembra vuota / Ma so che un giorno a Parigi / Sarò io a servirle da guida / Nathalie

La canzone divenne popolare in Francia, ma pochi sapevano che quel caffè non esisteva, che si trattava di una fantasia poetica del cantautore. Ma sarà più tardi quella stessa canzone a ispirare Andrei Stellos, un artista e restauratore franco-russo che aprì il Cafè Puškin, il 4 giugno 1999, sul viale Tverskoy, luogo caro al poeta da cui prese il nome. All’inaugurazione, lo stesso Bécaud cantò la sua ormai famosa Nathalie. Questo luogo è ormai una leggenda, ospitato in un palazzo risalente alla fine del XVIII secolo, voluto da un nobile al servizio di Caterina la Grande, che qui si trasferì dopo interventi di architetti italiani.

Cafè Puškin da sito web

Al piano terra vi era una farmacia (che oggi ne mantiene il nome), dove i clienti, in attesa della preparazione della loro medicina o pozione miracolosa, potevano gustare bevande, the, caffè o cioccolata calda. Vi sono specchi, stucchi e soffitti, tutto delicatamente affrescato ed elegantemente dipinto. I soggetti dei soffitti arrivano dal mondo della mitologia: Leda e il cigno, Apollo e le Muse, Pegaso e Perseo, Atena e Afrodite. Ci sono orologi a pendolo, globi, microscopi, porte con griglie di bronzo, copie di statue egizie del British Museum. Il bancone della farmacia è ben conservato, alle sue spalle antiche e preziose porcellane, vasi, bottiglie dalle iscrizioni latine, che, ancora una volta, ricordano pozioni, essenze, lozioni e tinture delle favole. Anche qui sempre e solo magia. Quelle che emanano le stelle lucenti.

Cafè Puškin da sito web

Ci sono anche molti oggetti interessanti che ricordano i grandi progressi tecnologici del XX secolo, come una macchina da scrivere made in Amburgo, una teiera inglese, tazze da cioccolato o un cavatappi. Busti di grandi filosofi del passato salutano e omaggiano il visitatore curioso: sono Diderot, Seneca, Voltaire, Molière, Lomonosov, Socrate e Cicerone a dare il loro caloroso e fortunato benvenuto. Un privilegio per ogni ospite.

Al piano superiore ci accoglie la libreria e il suo mezzanino, l’ambiente più sofisticato, con oltre tremila volumi che vanno dal XVIII al XX secolo. La letteratura russa è rappresentata da Pushkin, Gogol, Belinsky, Turgenev, Saltykov-Shchedrin, Leskov, Tolstoy, Fet, Derzhavin, Zhukovsky, Chekhov e Dostoevsky, quella inglese da Shakespeare, Dickens, Scott e Moore, la francese da Rousseau, Diderot, Maupassant, Voltaire e Montesquieu, l’italiana da Dante e Petrarca, la tedesca da Goethe, Heine, Schiller e Hegel. Ci sono tutti gli ingredienti per una splendida e tranquilla serata.

Credetemi, è un ambiente davvero incantato, dove ci si perde facilmente fra le parole dei libri, la musica delicata, l’eleganza della clientela, l’incanto di un’atmosfera d’altri tempi. Ovviamente gustando cibo delicato tipicamente russo. La porta d’entrata, avvolta in cristalli di neve, annunciando magia, non ha mentito. Mai. Nulla qui vi deluderà. Parola di scout dalla memoria lunga. Allora come ora. E magari anche domani.

Cafè Puškin, Viale Tverskoy, Edificio 26-A, Mosca, http://cafe-pushkin.ru/

 

Il sogno di Erode.
– un racconto di Natale

Il sogno di Erode.  un racconto di Natale

Un temporale si avvicinava da Oriente. Grosse nubi nere rotolavano mimetiche nel buio della notte. Radi lampi squassavano il cielo illuminando la città sottostante. Nel palazzo di Erode nessuno dormiva. Il sangue di migliaia di bambini innocenti teneva svegli uomini e animali. Pochi fuochi sparsi qua e la, tentavano invano di dar calore alla reggia, mentre i cani del re vagavano inquieti per le enormi stanze gelide, fiutando il temporale imminente. Nelle scuderie i cavalli irrequieti nitrivano e battevano gli zoccoli, raspando fra lo strame, senza alcun motivo apparente e gli stallieri non riuscivano a calmarli. Erode non aveva detto una parola, dalla notizia portata dai messi, che l’ultimo primogenito nato da madre era stato ucciso. Stava seduto sul trono, in silenzio, ad occhi chiusi. Aveva paura, l’orrore di quanto compiuto dai suoi spietati mercenari quel giorno, lo aveva raggiunto d’improvviso. Temeva il sonno e con tutte le forze cercava di mantenere la veglia. Non voleva dormire, ma dormì, e – purtroppo per lui – sognò. L’incubo venne a visitarlo quella notte.

Lo immerse dapprima in una nebbia cupa e fitta, lo fece gemere e singhiozzare a lungo. Tornò bambino, solo e disperato. Attorno a lui nessuno, soltanto nebbia gelida, che entrava nelle ossa. Erode bambino camminava nudo, piangendo e chiamando a gran voce la sua nutrice, quando vide davanti a sé un uomo enorme, una lama corta e lucente in pugno. Si gettò a terra, la testa fra le piccole mani. Non accadde nulla e allora, facendosi coraggio, riaprì gli occhi e vide sua madre, lontana da lui, sempre più lontana. Sorrideva. Ma non a lui. Provò una grande rabbia e all’improvviso vide sbucare dalla nebbia un bambino che si reggeva appena sulle gambe, poi un altro, e un altro ancora. Una miriade di bambini e bambine circondava ora sua madre, che senza alcun sforzo apparente li abbracciava e baciava tutti, come brezza lieve che accarezza le cime degli alberi. Si senti perduto, e iniziò a piangere, correndo verso la madre, ma l’immagine svanì e si ritrovò nuovamente solo. La nebbia  lentamente saliva e, in un tempo che dovette sembrargli eterno, rivelò un paesaggio di rovine che a stento riconobbe. Era il suo palazzo, o meglio ciò che ne restava. Si ritrovò vecchio, molto più vecchio di quanto non fosse. Iniziò a frugare febbrilmente fra le pietre, i resti delle travi, dei muri. Ma ogni volta che trovava qualcosa: una moneta, una pietra preziosa, un monile, questa si sbriciolava fra le sue mani, lasciando soltanto un po’ di polvere. Cadde in ginocchio e pianse amaramente, lo sconforto era tale che non vedeva un minuto oltre. Sentiva di essere perduto. Se solo avesse visto quel bambino fra gli altri, forse lo avrebbe riconosciuto, e allora l’avrebbe implorato di togliere l’odio dal suo cuore. Ora sapeva. Sapeva che la strage era stata vana, che quel bambino viveva, sarebbe vissuto lontano da Betlemme, e capì. Capì quanto era stato crudele e accecato dall’odio, dalla brama di potere: quel bambino avrebbe rovesciato un giorno tutti i troni, non soltanto il suo. Avrebbe letto il libro dell’Apocalisse e giudicato i vivi e i morti. Vide il bambino diventare grande, raccogliere discepoli e apostoli, predicare in Samaria, in Galilea, compiere miracoli e suscitare l’odio di Farisei e Sacerdoti. Lo vide morire di Croce, fra atroci tormenti, ed ebbe pietà, un’immensa e smisurata pietà. E in quel momento comprese, capì che in quel bambino Dio si era fatto uomo, e allora si gettò a terra, rotolandosi nella polvere, urlando e gemendo per l’abominio che aveva compiuto e credette, d’improvviso credette.

Erode visse ancora pochi anni, ma dopo quel sogno non fu più lo stesso. Si ritirò nel deserto e c’è chi giura di averlo visto poi fra i seguaci del Battista, l’unico che se ne stava in disparte, l’unico che non volle mai ricevere il battesimo, sostenendo di non esserne degno.

Per leggere gli altri articoli e i racconti di Stefano Agnelli  su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Siria: le donne e le libere città curde in pericolo

Siria: le donne e le libere città curde in pericolo

Al di là di come i mass media stanno presentando il ‘nuovo barbuto ” siriano, come liberatore, in realtà l’asse Isis-Erdogan è il vero artefice di una situazione drammatica, dove si punta ad abbattere le minoranze e comunque gli ambiti realmente democratici. Prima di tutti, nel mirino ci sono i curdi e le loro città libere. Pubblichiamo un loro appello.
(La redazione di Periscopio)

 

Care e cari,

Come sapete negli ultimi 15 giorni, con la caduta del regime di Bashar al-Assad, l’Esercito Nazionale Siriano (SNA) ha attaccato le nostre città di Shebah, Tal Rifat, Sherawa e Manbij.
200.000 persone sono state sfollate e costrette a trovare riparo a est dell’Eufrate, in pieno inverno. A queste persone è stato dato riparo in ogni luogo possibile, scuole, edifici pubblici e case, ma le difficoltà sono molte e la situazione umanitaria è disastrosa.

Nel frattempo le Forze Democratiche Siriane stanno cercando di difendere la terra del Nord-Est da una imminente invasione, specialmente su Kobane, nel 10° anniversario della sua liberazione.

Per questo vi chiediamo, in questo momento così delicato per la rivoluzione delle donne del Rojava, di prendere iniziative istituzionali e non nelle vostre città, e regioni, anche simboliche. 

Per difendere l’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est e il suo popolo c’è bisogno di voi, e di tutto ciò che potrete fare nei vostri quartieri e nelle vostre città affinché non rimangano soli.

Inoltre, se volete contribuire economicamente, a seguire  trovate i conti correnti della nostra associazione e della Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia.

UIKI – Rete Kurdistan

Ufficio di Informazione del Kurdistan In Italia Onlus

Codice Fiscale: 97165690583

IBAN: IT89 F 02008 05209 000102651599

BIC/ SWIFT: UNCRITM1710

 

Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia ETS

C.F.: 92123770494

IBAN: IT53 R050 1802 8000 0001 6990 236

www.mezzalunarossakurdistan.org

e-mail: mezzalunarossacurda@gmail.com

Filastrocca di Babbo Natale

Filastrocca di Babbo Natale

Se tuttavia Babbo Natale
Non fosse tale e quale
E venisse all’improvviso
Mostrando un altro viso,
Gli faresti ancor le feste
O butteresti via le ceste?
Se lui fosse un nigeriano
Stringeresti la sua mano?
E se fosse un algerino
Gli vorresti star vicino?
Se lui fosse un albanese
Lo terresti al tuo paese?
E se fosse un moldavo
Con lui faresti il bravo?
Se lui fosse un rumeno
Ci viaggeresti in treno?

E se fosse un vietnamita
Conosceresti la sua vita?
Se lui fosse un honduregno
Di star qui sarebbe degno?
Non so ben le tue risposte
Le mie non son nascoste.
Uniche sono le persone
senza alcuna eccezione.
Diversità è una ricchezza
Ci salverà la sua bellezza.
Immagina se gli umani
Si prendessero le mani,
Si ascoltassero col cuore,
Non badassero al colore.
Immagina se sulla terra
Non facessimo la guerra.

Immagina, se ti piace,
di iniziare a far la pace.
Puoi partir, sarebbe bello,
accogliendo tuo fratello:
Se lui viene da lontano
Ha bisogno di una mano,
Se si sente come straccio
C’è bisogno dell’abbraccio.
Se lo credi una persona
Anche lui una cosa dona:
la speranza che un domani
saremo tutti un po’ più umani!

 

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le filastrocche di Mauro Presini clicca sul nome dell’autore.

Parole e figure /
Viva la danza! – Strenne natalizie

Didier Lévy e Magali Le Huche ci conducono nel mondo della danza. Un nuovo Billy Elliot che vola sui tetti di Parigi con la spensieratezza di Mary Poppins!

Natale, tempo di sogni, tempo di leggerezza, tempo di danza, quella che riscopro entrando nei locali della biglietteria del Teatro Comunale di Ferrara. tempo di ultimi regali. Dagli scaffali spunta il libriccino “Viva la danza!”, di Didier Lévy e Magali Le Huche, Edizioni Clichy. Lo prendo, è mio!

Mi piacciono subito i disegni, adorabile l’atmosfera. Si sentono le note del lucente ed elegante pianoforte a coda, i bisbiglii delle ballerine e i delicati ed eterei passi di danza.

I genitori di Ettore, ragazzino super vivace, decidono di iscriverlo a un corso di danza classica, magari si tranquillizza e si calma un pochino… ma… Colpo di fulmine, Coup de foudre! Da quel momento Ettore fa tutto ballando: va a scuola ballando, riordina la camera ballando, si lava i denti ballando, porta a spasso il suo cane Pistacchio danzando…

Nessuno se lo aspettava: Ettore diventa ancora più fastidioso, la gente chiacchiera, si stancherà? Pare davvero di no… Mentre Madame Ivanova suona.

Ora però basta! Quando è troppo, è troppo…. Il papà decide di intervenire, ma il nostro piccolo appassionato danzatore si rifiuta di smettere!

Prende una bella rincorsa e in uno slancio incredibile si alza 4 metri da terra e continua a ballare lassù, fra i lampadari di cristallo. Impossibile farlo scendere! Ma attenzione, la leggerezza è contagiosa e anche la mamma finisce a volteggiare in aria! Per recuperare la sua famiglia, al papà non resta altra scelta che una bella piroetta: e 1 e 2 e 3…

Un album che salta sugli stereotipi e sulla volontà! L’umorismo tenero e devastante di Magali Le Huche funziona al meglio. Su un argomento forte, la danza, fatta per lei!

“Danzano tutti per aria. Danzano sulle strade, sui passanti stupefatti, sulle piazze. Danzano su tutta la città. … e di quello che pensa la gente, ebbene, se ne fregano COM-PLE-TA-MEN-TE!!!”

Didier Lévy, Magali Le Huche, Viva la danza!,  Edizioni Clichy, collana Carrousel – Albi illustrati per bambini, 2024, 36 p.

Didier Lévy, nato a Parigi nel 1964, è uno tra i maggiori autori francesi per l’infanzia, conteso dalle più prestigiose case editrici d’oltralpe. Autore talentuoso e sensibile, capace di affrontare con linguaggio semplice i grandi temi della vita e le tappe fondamentali della crescita.

Magali Le Huche è nata nel 1979 a Parigi, da piccola si inventava delle storie che la facevano stare sveglia tutta la notte, allora ha iniziato a disegnare per ritrovare il sonno. Da grande, la voglia di inventare storie e di disegnare non l’ha abbandonata, così è partita alla volta di Strasburgo per frequentare l’Accademia di Arti decorative. È una delle illustratrici di riferimento di Clichy.

 

Natale SENZA (2)
Lettere dal carcere

Natale SENZA (2)
Lettere dal carcere

Natale è una festa da passare CON, con i figli, con i genitori, con fratelli e sorelle. Per le persone detenute invece il Natale è SENZA, senza i figli, senza i genitori, senza fratelli e sorelle. Quei figli, quei genitori, quei fratelli e quelle sorelle preparano ogni Natale un posto a tavola, destinato a rimanere vuoto.
 
Pubblichiamo la seconda parte delle lettere dei Carcerati. I testi che seguono sono pezzi di vita poco natalizi, storie di Natale tristi: noi li dedichiamo prima di tutto a chi potrebbe fare qualcosa per cambiare le condizioni di vita delle persone detenute, e in particolare i loro rapporti con la famiglia. Siamo sicuri che con il nuovo anno tante persone si uniranno a noi per chiedere più umanità nei rapporti delle persone detenute con i loro cari.
Molti già l’hanno fatto, e vogliamo ringraziarli di cuore, e ringraziare tutte le persone detenute che hanno deciso di affiancarsi a noi, raccogliendo firme, scrivendo le loro testimonianze, coinvolgendo le loro famiglie. Il modo migliore per sentirsi tutti un po’ meno soli.

La redazione di Ristretti Orizzonti – Casa di reclusione di Padova

 

Cerco di abbracciare con la voce mia moglie e mio figlio
Paradossalmente, mi chiamo proprio Natale, sono detenuto da circa 25 anni, e se dovessi rispondere con una formula alla domanda sul Natale “dentro” direi “Malinconia per 2 elevata alla quinta”, unito al forte desiderio di far passare quei giorni in un battito di ciglia! Ma non si può modificare il tempo, a noi umani non è consentito poterlo fare, quindi, ogni anno si deve affrontare questo mare di malinconia che ti pervade senza pietà, fino ad annichilire quella forza interiore e quel “facciamo finta che questa sia vita…” che ci accompagna assiduamente nelle normali giornate dell’anno.
In questo periodo, ci si alza comunque, cerco di fronteggiare quel giorno, quei giorni, iniziando a pensare alla telefonata da fare a casa per abbracciare con la voce mia moglie, mio figlio, qualcuna delle mie sorelle che si trovi lì per l’ occasione, Poi si cucina qualcosa di particolare, si porta qualche fetta di panettone a qualche compagno con il quale ci si frequenta più che con altri, si prende un caffè insieme, ci facciamo i conti del dolore unito e silenzioso che si prova per la lontananza dalla famiglia cercando di carpire chi soffre più tra noi, ma ci accorgiamo che nessuno “vince”, c’è una livella in tal senso che ci accomuna tutti, e tutti ci auguriamo che il prossimo Natale possa essere trascorso tra l’abbraccio dei nostri cari. Troviamo altresì il tempo di pensare a chi sta peggio di noi per un motivo o per un altro e immancabilmente ci si affida a questo Gesù bambino che non si stanca mai di ricordare all’ umanità intera che è lui la speranza per gli uomini, a prescindere delle condizioni in cui ci si trova.Mai perdere la speranza.
Natale Bonafede

Natale senza i miei cari è tanta tristezza
Mi chiamo Iulian e sto soffrendo tantissimo a passare anche questo Natale qui in carcere. Per me il Natale in questo posto è soprattutto il dolore di stare senza la famiglia, mi mancano tutti i miei cari tanto, troppo. Soprattutto mia madre, mio padre e mia sorella.
Il ricordo più bello è la grande tavolata dove tutti mangiamo insieme, e qui non è possibile. Ricordo le tradizioni del mio paese, la Romania, i bambini vengono a recitare poesie e canzoni e in cambio gli adulti danno piccoli regali, o dolci, oppure qualche soldino. Tutto questo calore nel freddo della mia cella non lo posso trovare. Natale senza i miei cari è tanta tristezza.
Iulian M.

Un Natale amaro per tutta la famiglia
Per questioni di lavoro due, tre volte all’anno venivo alla Casa di reclusione di Padova per ritirare il buono o ordine di servizio, dopo aver vinto la gara per la manutenzione antincendio e forniture varie. Quello che mi colpiva di più era quante auto erano presenti nei parcheggi antistanti l’ingresso.
Sembrava l’ingresso di una grande azienda più che di un carcere.
E pensavo cosa ci faceva tutta quella gente dentro un luogo molto distante dalle mie aspettative di lavoro, mai e poi mai avrei immaginato un giorno di far parte di questo contesto.
Comunque il mio Natale era sempre molto sentito nella mia famiglia. Si cominciava con l’addobbare in giardino i vari alberelli, poi si appendevano le ciocche sulla porta, e si cominciava a mettere le luci attorno ai balconi, e si passava a fare l’albero con tutte le palline e le luci. Ricordo che ogni giorno arrivava qualche dono da amici e parenti, poi da mia moglie per me per mio figlio e per la nuora, ma più di tutti erano i regali per mia nipote Matilde.
La notte di Natale si andava a messa, si passava a bere una cioccolata per poi tornare a casa ad aprire i regali, e lì cominciava una grandissima festa che finiva dopo il pranzo di Natale. Oggi mi trovo in carcere e il mio cuore è molto triste, immagino di già che il giorno più bello per me lo passerò in cella con il mio compagno, anche se è di un’altra religione spero di fare comunque una bella festa, pensando ai miei cari che come me passeranno un Natale amaro, ma la vita va avanti e spero di tornare quanto prima dalla mia famiglia.
A me piacerebbe in sezione andare a messa il giorno di Natale, poi dopo averlo organizzato fra compagni di sventura, fare un pranzo tutti assieme in saletta.
Ma so già che questo non sarà possibile perché siamo in tanti, e tutti non la pensano come me, comunque io ci provo!!!
Questo sarà un Natale molto amaro per me e i miei cari, ma soprattutto per mia nipote, ma sono consapevole che dal male può nascere il bene, ed avrò altre occasioni di passare le feste con i miei cari. Ringrazio la redazione di Ristretti Orizzonti per avermi introdotto in questo gruppo dove si parla di tutto il buono che si può trarre in questo luogo e si impara a confrontaci per tirane fuori il meglio da ognuno di noi. Grazie a tutti e buon Natale.
Gianni M.

Speravo in un Natale diverso per i miei cari, per me e per molti miei compagni
Mi presento, mi chiamo Fatmir e sono un ragazzo albanese di 31 anni e sono nella redazione di Ristretti da qualche mese, ma in carcere ormai da otto anni.
Ho una moglie e un figlio di 11 anni che non vedo fisicamente da quasi un anno a causa della distanza, perché loro vivono a Bolzano, a circa 300 km da Padova.
Quando c’è stata la sentenza della Corte Costituzionale inerente agli incontri intimi in carcere nel mio cuore ho gioito, perché finalmente pensavo di poter riabbracciare in maniera quasi normale le persone che amo. Invece, dopo dieci mesi non è successo nulla, passerò anche questo Natale nella più completa solitudine. Ma la stessa cosa sarà per mia moglie e soprattutto per mio figlio.
Questo sistema infernale, che non vuole cambiare veramente, uccide a poco a poco i sentimenti e ti fa crescere tanta rabbia dentro. Perché noi reclusi dobbiamo pagare due volte la carcerazione? Io spero che chi deve far partire questa iniziativa degli incontri intimi possa esser spinto dalla “magia” del Natale e capire che per noi, ma soprattutto per i nostri cari, è molto dura la lontananza, e non devono pagare anche loro.
Pensavo e speravo in un Natale diverso per loro, per me e per molti miei compagni di sezione ed invece ancora una volta prevale l’indifferenza. Io capisco che ci sia indifferenza per chi ha fatto un reato, ma i sentimenti delle famiglie non meritano di essere dimenticati.
Fatmir M

Natale senza tutto ma non senza la speranza…
Natale con… la gioia, la famiglia, l’allegria, i regali, chi ami. E invece no, sono qui a scrivere di un ennesimo (il terzo) Natale senza…
Chi legge si chiederà “senza chi o senza cosa”. In realtà, se è un detenuto come me a scriverlo, è un Natale senza tutto ciò che ho nominato.
Senza la GIOIA: per me la gioia era vedere il sorriso, gli occhi che si illuminano, la contentezza delle persone con le quali fuori condividevo questo giorno, magari scambiandoci i regali; la gioia dell’attesa che arrivi il Natale. Attesa che qui in carcere è infinita per ogni cosa: per un permesso, per incontrare un parente, per parlare con il magistrato e soprattutto per il giorno dell’uscita.
Senza la FAMIGLIA: il Natale rappresenta la famiglia, e qui dentro è ciò che manca di più. Che Natale può essere senza aver vicino chi ami? I figli che vorrebbero tanto averti accanto, ed invece, con enormi sensi di colpa, non puoi accontentare per cui diventa una sofferenza per loro e per te.
Senza ALLEGRIA: una tavola imbandita, un albero pieno di regali, il presepe ricco di luci… tutte cose che danno allegria e pace nel cuore. La pace di un cuore che qui dentro è costantemente ferito e non riesce a trovare allegria. Puoi solo immaginare quella che possono avere i tuoi cari e che tu qui puoi solo sfiorare.
Però un Natale non sarà mai senza… la SPERANZA. Speranza ovvia di uscire, speranza di una nuova vita, e di tanta tanta serenità da donare a tutti quelli che ami e che con te stanno attraversando questa tempesta. Le tempeste di neve natalizie portano qualcosa di Magico… Io spero che questa magia entri nel cuore di chi sta vivendo qui tra queste fredde mura e possa portare a ognuno di noi qualcosa di Speciale.
Mattia G.

Mi manca mio figlio, e non voglio arrivare tardi quando avrà bisogno di me
Il “Natale senza” è una cosa che mi fa pensare sempre a mio padre, che ora purtroppo non è più con me a darmi consigli e aiutarmi nella vita di tutti i giorni.
Sono arrivato in Italia quando avevo circa 18 anni sperando in un lavoro, e con la motivazione di aiutare la mia famiglia in Albania, prendendo il posto di mio papà che purtroppo si era ammalato.
Avevo trovato un lavoro e iniziavo a guadagnare dei soldi, cosa che mi avrebbe consentito di prendere quel posto fondamentale di capofamiglia, e questo grazie ad alcuni miei parenti che vivono in Italia.
Mio padre è morto e non sono stato capace di fare quello che mi ero ripromesso, ora sono una persona matura, seria e soprattutto sono padre. Vorrei, appena finita la detenzione, prendermi cura di ogni percorso di vita di mio figlio, aiutandolo, e soprattutto essere presente come mio padre fece con me.
Il “Natale senza” per me è quella mancanza della mia famiglia, con la quale non vivo più ormai da oltre dieci anni, ma soprattutto quella voglia di essere come mio padre.
Mi manca mio figlio, e spero solo di non arrivare tardi quando avrà bisogno di me.
Besim X.

Per mia sfortuna non sono nato né cresciuto in una famiglia gioiosa
Fin da bambino ho sempre amato il Natale! Però non ho mai avuto modo di avere un natale “famigliare”, così come vedevo o come immaginavo che una famiglia normale potrebbe avere.
Per mia sfortuna non sono nato né cresciuto in una famiglia gioiosa, dall’età di 4 anni sono cresciuto senza la mia mamma, con un papà presente, ma molto assente nello stesso tempo.
Ricordo che nella mia infanzia Babbo Natale è passato una sola volta, non per il fatto che io non fossi un bambino bravo, ma soltanto per il fatto che ero dato sempre per scontato, come se essere bravo fosse la cosa più facile.
Nella mia vita ho odiato e amato tante cose, cosi come tantissime cose le ho date per scontate. Ma il Natale mi piaceva! Mi trasmetteva quella meraviglia, quell’amore che a me mancava, una gioia che nelle altre feste non riuscivo a cogliere.
Proprio per questo motivo quando avevo chiesto alla mia ex ragazza di sposarmi lo avevo fatto alla vigilia di Natale! pensando che se il Natale mi rendeva felice, sicuramente rendeva felici anche gli altri!
Nel 2016, una volta entrato in carcere, questa gioia del Natale spariva, non riuscivo più a cogliere quella meraviglia e quell’amore che il Natale mi offriva, fino al 2023, quando ho incontrato una persona speciale! Un’amica, un’amica come una sorella! che mi insegna a sognare ed a sorridere!
Arrivati sotto Natale, lei insieme a suo marito mi hanno fatto un regalo, un gesto d’affetto che ha acceso in me quella luce, quel desiderio, l’armonia e la gioia del Natale!
Ormai sono adulto, ma a Natale mi sento ancora un bambino bisognoso di essere amato e coccolato!
Credo che il senso del Natale sia di esprimere il fanciullino che c’è in ognuno di noi e la gioia di sentirsi a casa e sentirsi amati! Per il semplice fatto che l’amore dura finché si continua ad amare.
Filip A.

L’impossibilità di dimostrare alla mia famiglia che posso prendermi cura di loro
Dopo tanti anni di sofferenza, incertezze e problemi, in quest’ultimo anno sono riuscito a fare qualcosa che mi porta ad essere veramente consapevole di me e delle mie azioni. Probabilmente negli anni precedenti, se qualcuno mi avesse formulato la domanda “Cos’è per te il Natale?”, avrei elencato mille cose futili e materiali che avrebbero solo potuto brillare per compiacere qualcosa di estremamente superficiale, le stesse cose che mi hanno portato in tutti questi anni ad entrare e uscire dal carcere. Oggi, dopo un percorso che dura ormai da troppi anni, tra alti e bassi sto cercando di avere quella profonda consapevolezza degli errori commessi e, guardandomi attentamente davanti allo specchio della vita, capire esattamente chi sono e ciò che voglio.
Il carcere sa essere uno strumento duro e severo, che ti allontana da ogni affetto e amore, ha nei suoi molti spazi bui grande sofferenza, in tante sere e notti cupe sa essere uno dei giudici più crudeli che abbia mai incontrato e darmi una sentenza di “fallimento” senza poter essere difeso o sperare in un altro grado di giudizio.
Penso alla mia famiglia, che purtroppo non vedo spesso, che prepara le luci, gli addobbi e tante cose da mangiare, proprio come quando, dopo una giornata dura di lavoro, si rientrava a casa e mia madre, dopo essere anche lei tornata dalla sua giornata faticosa, si prendeva cura di noi e con amore guardava mio papà come se volesse rassicurarlo e ringraziarlo di aver provveduto a noi.
Proprio questo senso di amore e sacrificio è diventato per me una spada che mi trafigge l’anima, la stessa che mi ha dato la forza e fatto sentire il dovere di migliorarmi e abbandonare la vita che avevo condotto fino a quel momento.
Oggi posso dire che per me il “Natale senza” è quella mancanza di mia mamma, di mio papà e di tutti i miei famigliari, ma soprattutto l’impossibilità di dimostrare che sono quella persona che può prendersi cura di loro, una persona seria, affidabile, su cui poter contare, che è in grado di essere quel valore aggiunto che, riportato dentro alla società, non è un pericolo ma una persona nuova.
Il “Natale senza” però è anche la mancanza in carcere di un percorso equo, di una giusta valutazione che metta in evidenza le possibilità e la dignità di un uomo, che valorizzi ciò che è riuscito ad imparare in un mondo pieno di pregiudizi. Ma quello che più di tutto vorrei è il regalo di riuscire a essere il punto di riferimento delle persone più importanti della mia vita, la mia famiglia.
Armando M.

In copertina: murales di Banksy sul carcere inglese di Reading

Le storie di Costanza /
Le stelle di Natale della zia Costanza

Le storie di Costanza. Le stelle di Natale della zia Costanza

La zia Costanza sta spostando verso la portafinestra le stelle di Natale che si sono riempite di foglie rosse. Sono le stesse piante dello scorso anno e degli anni precedenti. Spostandole di qua e di là nel cortile e rincasandole quando fa freddo, riesce a tenerle a una temperatura costante di almeno quindici gradi, rendendole più belle di anno in anno.

La zia col giardinaggio è molto brava, legge sempre manuali di botanica e sa tutte le novità in fatto di floricultura. Ormai è dicembre e buona parte delle sue piante sono state trasportare in case e posizionate nei punti in cui c’è maggior luce. Ce ne sono nel grande soggiorno, sulla scala che sale al secondo piano, sul pianerottolo, in cucina e anche sul davanzale interno della finestra del bagno.

Solo le più robuste e resistenti al freddo sono ancora all’aperto, sotto il portico della vecchia casa di Via Santoni Rosa 21. Sono rimaste fuori tre grandi agavi e tre palme, un piccolo nespolo e quattro ortensie. Se la zia vede che una pianta perde brillantezza la sposta e continua a rifare la stessa operazione fino a quando trova un angolo dove la pianta recupera vitalità. Uno dei suoi fiori più belli è un’azalea con i petali rossi.

È un regalo dei gemelli Cominelli, amici di vecchia data dello zio Pietro, si conoscono da sempre. I Cominelli sono due “tappetti” con gli occhiali e delle folte chiome di capelli biondi, amanti dello sport e della buona cucina. Hanno una casa di proprietà sul lago di Parda, dove lo zio Pietro andava in vacanza d’estate quando era un giovane studente universitario.

Nel 2021 hanno regalato alla zia Costanza un’azalea e lei è riuscita a trovarle subito la posizione perfetta. L’ha messa vicino alla porta esterna del soggiorno, su un treppiedi di ferro arrugginito che ha sicuramente visto tempi migliori. Sopra il treppiedi ha posizionato un sottovaso marrone, e su questo la pianta.

Quando fa freddo il vaso viene interamente avvolto con del panno verde che era in origine il tappeto di un tavolo da biliardo del Bar Ghepardi. Qualche anno fa, Iris e Bella, le nostre cugine di Cremantello che gestiscono il bar, hanno deciso di cambiare il tavolo da gioco e ci hanno regalato il panno che lo ricopriva.

Il riciclo è una delle buone abitudini dei santoniani (gli abitanti di via Santoni), così il tessuto è stato sezionato in lunghe strisce pronte per l’uso. Avvolti dal panno verde, i fiori affrontano l’inverno ad una temperatura che permette loro di non congelare.

La morte delle piante è una delle preoccupazioni di Costanza, più della nebbia impenetrabile e delle esondazioni del Lungone, i due eventi climatici che animano i brutti sogni degli abitanti di questa zona. Anche la scelta dei vasi da lasciare all’esterno e da avvolgere nel panno non è banale, oltretutto il tessuto in questione non si deve bagnare per assolvere al meglio la sua funzione di protezione. Chi dà da bere alle piante deve perciò stare attento a questo particolare habitat e bagnare solo la terra, evitando accuratamente il vaso e il panno.

Con tutte queste attenzioni e con un po’ di fortuna data dalla resistenza congenita della pianta, l’azalea regalata dai Cominelli prospera magnifica e si riempie due volte all’anno di splendidi fiori. Sono così tanti che le foglioline verdi spariscono e si vede solo una macchia colorata omogenea e brillante. Sembra un quadro impressionista reso tridimensionale dall’intelligenza artificiale, invece è solo la bravura della giardiniera di casa.

Lo scorso anno Mario Cominelli ha commentato “Questo fiore è bellissimo!” e Costanza gli ha risposto “Me l’hai regalato tu tre anni fa!” Mario non si ricordava del regalo, oppure non l’aveva riconosciuto tanto aveva prosperato. È rimasto incantato a guardare la pianta.

L’ha fotografata e postata sui social con la scritta “La bellezza ci salverà”, poi l’ha trasformata in sfondo del suo cellulare. Io ho messo subito un like col cuore e, nel giro di mezz’ora, ne sono arrivati altri cento. Così, in pochissimo tempo, un capolavoro della zia è diventato virale.

La velocità di questa diffusione stride paurosamente con la lentezza con cui la pianta cresce e con il tempo che ci vuole per curarla, nutrirla, salvarla dai parassiti e ripararla dal freddo. Un lungo tempo per la cura, un brevissimo tempo per la diffusione della sua immagine. È come se un semplice like volesse pareggiare la fatica della zia, bruciare il tempo e portarsela via, chissà dove.

Un tempo bruciato è senza cuore. Il tempo buono è quello lento, che si espande, che rallenta i secondi, che ci permette di vedere in ogni attimo che passa una briciola di bellezza e un presagio d’eternità. A ogni evento va data la sua giusta importanza. Un like dura pochissimo, un secondo può espandersi fino a diventare eterno. Però a volte i social sono utili, tutti hanno visto la bellezza dell’azalea e io di questo sono contenta. Sono orgogliosa della bravura della mia amatissima zietta. Il mondo sarebbe più brutto senza di lei.

L’azalea è un’acidofila, quindi serve un terreno particolarmente acido e drenato. Esistono fertilizzanti specifici per queste piante, ma la zia non li usa, le innaffia con l’acqua del nostro acquedotto che lascia depositare nei secchi almeno due giorni, poi continua a spostarle cercando la combinazione di luce e aria che ritiene più idonea.

Una specie di Feng Shui casalingo, nostrano e floreale. Il Feng Shui è un’antica arte geomantica taoista della Cina, ausiliaria dell’architettura, affine alla geomanzia occidentale. A differenza di questa prende però in considerazione anche aspetti della psiche e dell’astrologia. Secondo i suoi sostenitori, esistono direzioni più propizie per le varie attività nella casa, nella vita, e nei viaggi.

Anche le forme e i colori di mobili, degli oggetti e delle piante devono avere assonanza con i cinque elementi chiave del Feng Shui: legno, metallo, fuoco, acqua e terra.  Una casa ben costruita dovrebbe essere quadrata o rettangolare senza angoli o parti mancanti e con forma regolare, dovrebbe avere un drago verde ad Est (delle piante alte che proteggano questo lato), una tigre bianca ad Ovest (possono esservi anche da questa parte delle piante, ma più basse), una tartaruga nera a Nord (una collina o un grosso masso) e la fenice rossa a Sud (può essere anche sotto forma simbolica, ad esempio un sasso con un filo rosso avvolto intorno).

Quando la zia si è messa a spiegare a Mario Cominelli la teoria del Feng Shui e la sua particolare e unica applicazione al mondo santoniano, lui ha commentato con tono laconico: “Tutto è vero fino a prova contraria. Qui di prove che questa specie di teoria abbia un senso non ce ne sono. Forse è la tua interpretazione molto libera che è efficace, ha davvero poco di ortodosso. Comunque, le piante sono belle e il giardino magnifico”.

Il gemello di Mario Cominelli si chiama Luigi. Non gli importa molto delle piante della zia e nemmeno di quelle che crescono nel giardino della sua casa vicino al lago. “Ciò che sopravvive, sopravvive e ciò che non sopravvive, non sopravvive”. Questa è la filosofia che sottende il suo approccio al mondo vegetale, lasciando poco scampo alle piante che per questione di siccità, parassiti, malattia, eccesso di acqua e incidenti di varia natura, soccombono.

È vero che la natura si rigenera in modi e forme sorprendenti ed è altrettanto vero che le modalità rigenerative selvagge sono affascinanti. Però un giardino con delle belle piante curate appaga la vista, trasmette tranquillità. A Luigi piacciono di più i grandi alberi, come gli ulivi. Nel suo giardino ce ne sono cinque. Da quelli raccoglie le olive e le porta al frantoio che in cambio gli fornisce l’olio in quantità proporzionale ai chili di frutti consegnati. Lo zio Pietro va quasi tutti gli anni ad aiutarli nella raccolta. La zia non ci va, la sua cervicale ne risentirebbe in maniera preoccupante.

I gemelli Cominelli non abitano più a Pontalba da molto tempo ma, quando si avvicina il Natale, vengono sempre a trovarci. Uno si è sposato e abita vicino a Vergania, l’altro abita direttamente in città. Stanno relativamente vicini, così se uno ha bisogno l’altro lo può aiutare, come ci si può aspettare da due gemelli.

La nonna Anna è stata la loro maestra e li rivede ogni anno con simpatia e orgoglio. Li abbraccia e dice sempre “i miei bambini …”. Io guardo sempre con piacere questo quadretto casalingo, penso che sia uno dei simboli del nostro Natale.

Questo ritrovarsi un po’ prevedibile ma comunque festoso, piace a tutti. Perché il Natale è così, è fatto di tradizioni che si ripetono sempre un po’ uguali, di incontri prevedibili, sereni e forieri di speranza nel buon cuore dell’umanità. Li trovo incontri belli, quella bellezza che partendo dagli occhi arriva al cuore, si mescola ai buoni propositi e li nutre.

La mescolanza tra buoni sentimenti e belle visioni crea la bellezza più vera, quella che mette insieme occhi e anima. Auguro a tutti un Natale fatto di incontri con persone amiche, di un tempo lento che ci permette di capire chi ci vuol bene, guardando i comportamenti e ascoltando le parole.

Non esiste un amore senza la sua manifestazione, non esiste un sentire senza un fare, senza un approccio al mondo che comprende sensibilità e gestualità. È per questo che la bellezza ci salverà ed è per questo che l’augurio di questo Natale comprende il “bello” che diventa festa.

Pensando a tutto questo rivedo con la mente la mia super-zietta in mezzo alle sue Stelle di Natale. Quell’immagine di una persona che si fonde con il suo mondo, con i suoi fiori e con le sue innumerevoli piante, mi sembra un bellissimo quadro Natalizio. Una fusione con la natura, con la terra, col vento e, alzando gli occhi verso il cielo, con l’idea di un bambino Santo che nascerà. Un’immagine che diffonde serenità in chi la sa vedere e crede che il Natale porti appresso la felicità.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.

Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Natale SENZA (1)
Lettere dal carcere

Natale SENZA (1)
Lettere dal carcere

Natale è una festa da passare CON, con i figli, con i genitori, con fratelli e sorelle. Per le persone detenute invece il Natale è SENZA, senza i figli, senza i genitori, senza fratelli e sorelle. Quei figli, quei genitori, quei fratelli e quelle sorelle preparano ogni Natale un posto a tavola, destinato a rimanere vuoto.
 
I testi che seguono sono pezzi di vita poco natalizi, storie di Natale tristi: noi li dedichiamo prima di tutto a chi potrebbe fare qualcosa per cambiare le condizioni di vita delle persone detenute, e in particolare i loro rapporti con la famiglia. 
Li dedichiamo al nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché nel suo discorso di fine anno si ricordi delle famiglie più maltrattate, quelle delle persone detenute, che pagano colpe non loro.
Li dedichiamo al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e ai sottosegretari che si occupano delle carceri.
Li dedichiamo al Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, alla Vice Capo Lina Di Domenico e al nuovo Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, Ernesto Napolillo, al Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e Di Comunità, Antonio Sangermano.
Li dedichiamo a tutti i parlamentari: a quelli che si sono detti disponibili a fare una nuova legge per liberalizzare le telefonate e permettere colloqui riservati senza controllo visivo per le persone detenute e le loro famiglie, ma anche a quelli che non si sono interessati di questo problema, ma possono farlo, e siamo sicuri che lo faranno perché le famiglie delle persone detenute sono INNOCENTI, e meritano un altro trattamento. E perché la Corte Costituzionale ci ha detto che le persone detenute hanno DIRITTO ai colloqui intimi, e noi speriamo che le nostre Istituzioni diano l’esempio di come si devono rispettare le leggi e la Costituzione, SEMPRE.
Li dedichiamo a operatori, magistrati, volontari, e a tutti coloro che possono fare qualcosa per rendere la vita in carcere meno disperata. Perché è assurdo discutere di un suicidio in più o uno in meno, si deve solo fare tutto il possibile per prevenire questi disastri.
E per finire, li dedichiamo a Papa Francesco, perché siamo sicuri che, se ha avuto il coraggio di dire che l’ergastolo è “una pena di morte nascosta”, avrà senz’altro anche il coraggio di difendere le famiglie delle persone detenute, e in particolare le famiglie degli ergastolani. 

Siamo sicuri che con il nuovo anno tante persone si uniranno a noi per chiedere più umanità nei rapporti delle persone detenute con i loro cari.
Molti già l’hanno fatto, e vogliamo ringraziarli di cuore, e ringraziare tutte le persone detenute che hanno deciso di affiancarsi a noi, raccogliendo firme, scrivendo le loro testimonianze, coinvolgendo le loro famiglie. Il modo migliore per sentirsi tutti un po’ meno soli.
La redazione di Ristretti Orizzonti – Casa di reclusione di Padova

Quegli occhi accusatori di mio figlio
Per i miei cari faccio finta di stare bene, faccio finta di festeggiare il Natale, ma è tutta una finzione e lo e anche il Natale per chi è detenuto.
Per motivi legati al carcere da 25 anni a questa parte non abbiamo riunito più la famiglia a Natale, da 5 anni ho un bambino e ogni anno che cresce faccio sempre più fatica a giustificare la mia assenza, e questo mi crea un gran senso di colpa. Quegli occhi accusatori di mio figlio, che parlano, mi dicono “dove sei?” e non mi fanno dormire la notte ricordandomi della sua infanzia.
In futuro non avrà mai un ricordo di un Natale passato con me. Mi tormenta il fatto che un giorno avrò un suo giudizio negativo, spero che mi perdoni per avergli provocato delle mancanze e mi impegno per riscattarmi in futuro. Perché il papà c’è e ti augura un buon Natale con tutto il suo cuore.
Salvatore F.

Natale in carcere diventa il giorno più brutto dell’anno
Il mio sesto Natale in carcere. Il sesto Natale lontano dai miei figli Medison e Domenic. Mi ricordo gli occhi di Medison l’ultimo Natale trascorso insieme. Aveva solo 9 anni e gli occhi pieni di felicità mentre apriva il suo regalo. Era un giorno pieno di colori e di gioia. Lui era così piccolo e sapere che adesso ha 15 anni mi rende molto triste. Ormai è un ragazzo, ma soprattutto è un ragazzo cresciuto senza padre.
Per noi adesso il Natale non è più un giorno di gioia ma un giorno di malinconia. Di Domenic invece che dire? Quell’ultimo Natale aveva 4 anni e oggi ne ha 9. Noi due non ci siamo vissuti mai un vero Natale insieme, o almeno non a casa ma solo ai soliti colloqui in carcere. Racconto questo perché credo sarebbe molto bello avere qui un posto riservato ai festeggiamenti del Natale in famiglia, perché i nostri figli hanno il diritto di trascorrere questo giorno di festa con i loro padri. Uno spazio in cui poter fare un pranzo, scartare i regali e stare vicini ai nostri affetti. Invece questo non è possibile e Natale ogni anno qui dentro diventa il giorno più brutto dell’anno.
Jody G.

Sono 32 Natali che ti aspetto, papà
Sono Francesca, la figlia di un detenuto condannato all’ergastolo e da 33 anni aspetto che ritorni a casa, non nascondo che purtroppo ho perso le speranze.
Quando mio padre è stato arrestato io avevo solo 15 mesi, non mi ricordo mio padre a casa perché ero troppo piccola, ora sono mamma e desideravo tanto che almeno adesso potesse tornare a casa per poter far il nonno, visto che il papà non l’ha potuto fare, desideravo tanto che tutto quello che ha perso come padre potesse recuperarlo con i miei figli.
Questo dovrebbe essere il periodo più bello dell’anno, ma purtroppo per me e per tutti i figli dei detenuti, a dicembre oltre alle luci, i colori e soprattutto i regali c’è dietro tanta tristezza, sofferenza e mancanza, quella mancanza che si sente ancora di più allo scoccare della mezzanotte del primo dell’anno, quando tutti si abbracciano e si fanno gli auguri per un nuovo anno, io oltre a non poterlo abbracciare e augurargli buon anno dico tra me e me “è un altro anno che se ne va senza di te, mio caro papà.
Sono 32 Natali che ti aspetto, papà, pensavamo di avercela fatta due anni fa con quei pochi permessi che ti avevano dato, e invece ci hanno illuso perché purtroppo ti hanno trasferito e poi negato i permessi, tu ti sei sempre comportato bene in ogni permesso ed è proprio per questa illusione e soprattutto delusione che mi sento vuota, mi sento più triste che mai perché penso che piano piano, a un passo alla volta, potevamo recuperare almeno un minimo, ma invece siamo tornati indietro, anzi peggio perché ti hanno trasferito in un carcere ancora più lontano e difficile da raggiungere visto che è in un’isola, e proprio per questo ancora non conosci, perché non l’hai mai incontrato in presenza, il mio piccolo Tommasino, il tuo ultimo nipotino. Aspettavo un permesso per fartelo conoscere di presenza e invece te l’hanno negato e dovrò portartelo in carcere, mi dispiace moltissimo soprattutto per te per la delusione che provi, perché avevi fatto un percorso soprattutto di cambiamento e la cosa più bella è che eri cambiato davvero, mi dispiace per l’ennesimo Natale che passi senza la tua famiglia, senza il calore dei tuoi amati nipotini, non so se mai ci sarà l’occasione di passarlo insieme, purtroppo ho perso la speranza, ma come ogni anno io sotto l’albero vorrei il mio regalo più prezioso che aspetto da tanto tempo ormai.
Francesca R.

È il trentatreesimo Natale che mi tocca passare in solitudine
Mi chiamo Antonio P. e sono un ergastolano in carcere dal settembre 1992.
Anche quest’anno senza Natale e lontano degli affetti più cari. Sono trascorsi trentatré anni, anni nei quali non conosco più cos’è il Santo Natale. Una volta il Natale era sentito da tutti, gli emigranti facevano migliaia di chilometri per tornare al paese d’origine per trascorrere il Santo Natale con i propri famigliari e amici d’infanzia.
In questi trentatré giorni di Natale trascorsi in questi luoghi capita che quando si avvicinano le feste natalizie i ricordi affiorano e mi portano a quei Natali trascorsi assieme ai miei familiari, i cenoni che si facevano la vigilia, anche se poveri e poco nutrienti, erano ricchi d’amore e d’affetto, e finché durano questi ricordi mi sento felice e sto bene, poi quando i ricordi svaniscono appaiono i fantasmi della notte che prendono possesso del mio corpo e si divertono a tormentarmi.
Quest’anno speravo di stare lontano dei fantasmi e trascorrere il Natale assieme ai miei familiari fuori da questi posti, in quanto dopo 32 anni di carcere, da marzo avevo iniziato ad usufruire dei benefici penitenziari, cioè dei permessi premio. Dopo aver fatto nove permessi premio e nell’avvicinarsi del Santo Natale questo spiraglio di luce, che si era acceso, con un piccolo soffio di vento si è spento, spariti ogni speranza e ogni progetto.
Ripeto, dopo aver beneficiato di nove permessi premio ho fatto la decima istanza di permesso ma questa volta mi è stato negato. La motivazione è perché in questi giorni un mio figlio è stato arrestato, ma io cosa c’entro? la legge dice che la responsabilità è personale, perché devo pagare colpe non mie? pertanto anche questo Natale mi tocca passarlo in solitudine per cose a me ignote.
Purtroppo non c’è da farsi meraviglia, viviamo in un Paese dove le leggi, quando sono a discapito del detenuto, anche se è estraneo ai fatti vengono applicate con grande rapidità, mentre invece quando si tratta di applicare un diritto ai carcerati si trovano spesso mille scuse per non applicarlo, un esempio è la sentenza della Corte Costituzionale sui colloqui intimi, che è stata pubblicata quasi un anno fa e ancora non viene applicata. Nel frattempo a me hanno vietato il Natale.
Antonio P.

Natale in carcere, spinoso fuori e malinconicamente dolcissimo al suo interno
Alla domanda su com’è il Natale in carcere risponderei che è per me simile ad un frutto, il ficodindia, spinoso fuori e malinconicamente dolcissimo al suo interno.
Mi chiamo Santo, sono in carcere da oltre 32 anni, e se non fosse per una data, quella del mio arresto, non saprei più contare quanti Natali sono passati da allora.
Quello che mi ricordo bene è, che sono stati, e saranno, tutti uguali: carichi di tristezza con tanto contorno di malinconia, e per dessert, la voglia dio starsene a letto dalla vigilia fino al 7 gennaio. Ma non si può, sarebbe egoistico da parte mia, principalmente nei confronti delle persone che amo, e poi, anche per alcuni compagni di detenzione con i quali condivido quella quotidianità del qui dentro, e che versano nelle mie medesime condizioni emotive.
Le festività natalizie si passano in una cella insieme, cercando di preparare del cibo “fac-simile” di quello di casa, tipo: pasta al forno, ma cotta in un tegame sul fornelletto a gas, oppure della carne impanata con contorno di patate al forno, sempre cotte in tegame e naturalmente senza forno. Poi si improvvisa qualche dolce creato da noi con gli ingredienti che abbiamo disponibili “del tipo consentito”, che alla fine non riesce mai ad addolcire quell’amaro che alberga in fondo al cuore di ciascuno.
Ci basta guardarci negli occhi per riuscire a vedere il vero stato d’animo di ognuno.
Non manco mai, alla vigilia di Natale, di sperare in cuor mio che un giorno possa divenire realtà quel sogno ad occhi aperti di poter trascorrere nuovamente un Natale in famiglia, con mia moglie, i miei figli, e quei nipotini che, come i miei figli, ho visto crescere e abbracciati soltanto nelle salette colloqui di ogni carcere che ho passato in tutti questi anni, tuttavia, auguro BUON NATALE a tutti.
 Santo B.

Non so cosa darei per trascorrere un Natale con tutta la mia famiglia
Il Natale preme alle porte da 33 anni che sono dentro, io ho trascorso 33 Natali qui dentro e ogni anno è sempre molto toccante, perché sono festività che sono pesanti da passare in questi brutti luoghi, ma quello che mi pesa di più è che ho quattro figli, ma con il più piccolo non ho mai passato un Natale o una festa, perché quando sono stato tratto in arresto mio figlio è nato sei mesi dopo. Per me è ogni volta sempre più pesante perché mi viene molta nostalgia e non so cosa darei per trascorrere un Natale con tutta la mia famiglia, con figli moglie e i miei nipotini, sarebbe un grandissimo Natale e penso il più bello della mia vita, spero che si avveri presto questo mio sogno.
Ignazio B.

Natale senza colore, senza calore
Le festività natalizie, nella nostra cultura, anche per chi non crede alla festa religiosa che il Natale celebra nei propri riti, sono diventate sinonimo di famiglia, di calore umano, di festa, spensieratezza e clima gioioso da trascorrere e condividere con le persone che si amano.
Ritrovarsi in carcere, ristretti senza la possibilità di allungare una carezza ai propri figli, senza il calore delle luci che colorano i ritmi delle festività, senza il dolce tatto della propria compagna di vita, rinchiusi in un ambiente angusto e grigio in compagnia di perfetti sconosciuti, anch’essi attanagliati dalle tue stesse buie malinconie; senza colore, senza calore. Privati non solo della libertà personale, ma anche di quella affettiva.
Non è Natale se non lo trascorri con i tuoi affetti. Se non assapori le emozioni che solo l’atmosfera natalizia sa far scaturire, se non vivi l’emozione della condivisione con i tuoi cari. Un bacio dato e ricevuto. Magari trascorrendo qualche ora lieta con la mamma e il fratello che vedi di rado. Un pranzo in famiglia, tutti riuniti, anche solo a discutere di stupidaggini.
Mi assalgono un doloroso rammarico e una profonda nostalgia.
Natale senza la vicinanza delle persone che si amano è solo una triste ricorrenza segnata in rosso sul calendario.
Questa è la prima volta che trascorro un Natale lontano dalla mia compagna e dai miei figli. Il solo pensiero mi devasta. Non solo la nostalgia dei riti natalizi: l’apertura dei regali, pranzi e cene in famiglia, rivedere affetti dopo mesi e poter condividere idee e riflessioni, ma anche la leggerezza di pensiero che regala il clima natalizio: qualche giornata di festa in più del solito concede spazi di spensieratezza che non si vivono in nessun altro periodo dell’anno. Anche la serenità e la libertà mentale di trascorrere qualche ora in più in intimità con la mia dolcissima Roberta. Quest’anno mi mancherà moltissimo anche questo, e mi mancherà soprattutto non poter approfittare del maggior tempo libero e di un pizzico di allegra fantasia in più per concederci qualche ora solo per noi.
Ormai da nove mesi sono lontano da casa. Mi manca il contatto fisico. Mi rattrista non poterla accarezzare, lei mi manca davvero tanto. Natale senza lei non è Natale.
Andrea C.

In copertina: immagine da PesciolinoRosso.org

Babbo Natale è al verde.
un racconto di Natale

Babbo Natale è al verde

Tanto tanto tempo fa nel paese di chissà dove viveva un uomo buono e generoso. Aveva la barba lunga e un grosso pancione che dentro sembrava avesse un pallone. Il suo nome lo san tutti: grandi, piccoli, belli e brutti. Tutti  sanno che esiste un tale che porta il nome di Babbo Natale. Una mattina di dicembre si svegliò presto presto, guardò fuori e vide cadere la neve dai vetri della sua finestra.

Brrr brrr questa neve è troppo fredda, è caduta sopra al tetto e io che faccio? Quasi quasi torno a letto!

Non poteva tornare a letto tra pochi giorni sarebbe stato Natale. Doveva andare a fare la spesa e comprare i regali da distribuire a grandi e piccini.

Andò in camera e prese il suo portafoglio di corteccia, che gli avevano regalato gli gnomi, suoi vicini di casa. Lo aprì e dentro non c’era nulla, era vuoto. Le bollette aveva pagato, l’assicurazione delle renne era salata. Poi la spesa era aumentata.

Sono al verde, senza danaro, come farò i regali a comprare?  I bambini aspetteranno che gli porti tutto quanto: bambole, giostre e chitarrine, piste, astucci e pupazzini, anelli, collane e maglioni di lana. Tutti in attesa del loro regalo.

– Cosa dirò ai bambini domani? Babbo Natale non può fare regali, perché l’inflazione è sempre più cara. Cosa ne sanno i bambini dell’economia, lasciamoli vivere nella fantasia.

Babbo Natale non sapeva come fare, era triste e non volle mangiare.

Ma la fata Natalina che abitava su in collina scese a valle dal suo amico con la borsa piene di matite.

– Babbo babbo tu sei al verde,  ma i bambini ti aspetteranno e non puoi giocar d’inganno.

Ora scrivo una letterina a tutti i bambini, ognuno metterà sul davanzale il gioco che più non usa. La fata Natalina aveva avuto proprio una bella idea. La notte di Natale ogni bambino mise un gioco sulla finestra. Babbo Natale quatto quatto passò a ritirare i giocattoli, ne riempì un gran saccone e con fata Natalina distribuì il bel bottino.

A Luca diede il trenino di Marco; a Marco diede la palla di Eugenio; a Francesca diede la bambola di Lucia; a Lucia diede la corona di Matilde; a Eugenio diede il pupazzo di  Maria e a Matilde diede un regalo di un altro bambino e quello di un altro bambino ad un altro bambino ancora e così via per tutta la notte. Tutti i bambini ebbero un gioco che per loro era nuovo. La generosità aveva salvato Babbo Natale.

Babbo Natale e fata Natalina, tornarono nel paese di chissà dove cantando così:

Che bella nottata abbiamo passato, quanti bambini abbiamo accontentato, ognuno ha dato qualcosa di sé e ha ricevuto un regalo da te.

 

Verso la pace in Ucraina?

Verso la pace in Ucraina?

Zelensky ha dichiarato al vertice Nato dello scorso 18 dicembre quanto sostengono da 3 anni molti esperti:  “l’Ucraina non ha le forze sufficienti per conquistare Donbass e Crimea. Lo dichiara dopo poche ore dall’uccisione del generale russo e del suo vice per via di un attentato del suo servizio di intelligence. E’ evidente che queste dichiarazioni nascono dopo l’elezione di Trump (che si insedierà il 20 gennaio prossimo) in quanto cade l’ipotesi, che a lungo l’amministrazione Biden aveva caldeggiato (seguita dall’improvvida Europa), di una vittoria dell’Ucraina sulla Russia. Trump ha fatto capire che intende cessare gli aiuti made in Usa a Kiev e chiudere una guerra molto dispendiosa per gli americani e impossibile da vincere (come avvenne in Vietnam e poi in Afghanistan) , anche perchè dietro la Russia ci sono la Cina e i Brics che hanno dimostrato come l’economia russa (sotto sanzioni occidentali) non si riesca ad indebolire. Si prospetta dunque un cessate il fuoco e, speriamo, una pace.

Da questa guerra escono sconfitti non solo gli ucraini che perderanno definitivamente tutte le regioni russofile (Donbass -20% del territorio- e Crimea) ma anche tutta l’Europa che ha pagato un prezzo enorme alla fine del dialogo commerciale con la Russia. La caduta dei governi tedesco e francese sta lì a dimostrarlo, ma anche l’Italia non se la passerà meglio: tutto il nostro sistema produttivo (e le famiglie) è indebolito da un prezzo di elettricità, gas e materie prime molto più alto della media UE e che avrà effetti depressivi di lungo periodo.

L’idea che la Russia voglia invadere anche altre parti dell’Europa è del tutto funzionale ad un’ Europa succube delle scelte Usa. Le ragioni geopolitiche dell’invasione della Russia del Donbass e dell’annessione della Crimea erano più che note agli esperti: la Russia non vuole la Nato ai suoi confini, non vuole un allargamento ad est fino ai suoi confini, come Putin ha, peraltro, ripetutamente detto negli ultimi 15 anni, così come gli Stati Uniti non accetterebbero ai suoi confini un Messico o Canada nella sfera Cina-Russia. L’Europa, seguendo la via americana, ha fatto forse il più grande errore dalla sua nascita, che avrà ricadute di lungo periodo sui suoi cittadini e imprese.

Una difesa comune europea (che ora tutti reclamano) si potrebbe fare spendendo la metà di quello che i singoli Stati spendono oggi, che è pari a 315 miliardi – il triplo della Russia che ne spende 126 e un terzo degli Stati Uniti che sono leader mondiali con 900 miliardi. Purtroppo le principali cancellerie europee pare siano invece intenzionate ad un massiccio riarmo come se dovessimo prepararci ad una guerra, il che avrebbe come effetto di deprimere ulteriormente le spese europee per scuola, sanità e pensioni.

La guerra si poteva fermare già in primavera 2022 quando le due delegazioni (Ucraina e Russia) avevano avviato le trattative. Ma sia Gran Bretagna (Boris Johnson) che Usa (Biden), sotto la spinta delle multinazionali delle armi, sabotarono l’azione diplomatica.

Come disse all’Università di Ferrara all’indomani dell’invasione della Russia Khrystyna Gavrysh, ricercatrice specializzata in cooperazione giudiziaria internazionale e diritto penale internazionale, sarebbe stato sufficiente, per evitare la guerra e un milione tra morti e feriti, rispettare gli accordi di Minsk che lo stesso Zelensky aveva promosso, salvo poi farli naufragare il 29.8.2019 per seguire strategie geopolitiche di emanazione anglosassone che pensavano di indebolire la Russia e, per questa via, la Cina. L’effetto è stato tutto il contrario: la Russia si è rafforzata sul piano mondiale e tutto il sistema dei BRICS ha preso forza. Chi subirà un effetto depressivo di lungo periodo saranno i cittadini europei. Di seguito riportiamo un estratto dell’ intervento di Gavrysh in Unife:

Gli accordi di Minsk rappresentano un compromesso tra le aspirazioni imperialiste della Russia e l’esigenza dell’Ucraina a preservare la propria integrità territoriale. “, Tali accordi sono stati firmati dai rappresentanti della Russia, dell’Ucraina e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OCSE), …oltreché dai due rappresentanti delle regioni separatiste. La conclusione di questi accordi è stata altresì favorita tramite i negoziati promossi in seno al c.d. Formato Normandia, composto dai rappresentanti dell’Ucraina, Russia, Germania e Francia… Tale dichiarazione è stata anche inserita nell’allegato 2 alla risoluzione n. 2202/2015 del Consiglio di sicurezza che recepisce altresì il secondo accordo di Minsk, rendendo peraltro l’organo delle Nazioni Unite un ulteriore garante, oltre all’OCSE, dell’esecuzione di quanto disposto negli stessi. …
Tra gli obblighi più rilevanti degli Accordi di Minsk vi è il cessate il fuoco da ambo le parti, il ritiro delle truppe da parte della Russia e una riforma costituzionale sul decentramento territoriale in capo all’Ucraina entro la fine del 2015. Quest’ultimo obbligo, in particolare, è sancito dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk ed è indicato dall’art. 9 dello stesso come presupposto necessario affinché la Russia ceda il pieno controllo sulla frontiera nelle zone del conflitto al Governo ucraino, creando così una subordinazione normativa tra le due disposizioni.

Il successivo governo ucraino ha mostrato un atteggiamento piuttosto ambiguo in relazione agli accordi. In effetti, Petro Poroshenko – l’ex presidente ucraino che ha promosso la loro stipula, conferendo all’uopo i poteri di rappresentanza a Leonid Kuchma – è stato sottoposto ad un procedimento penale per alto tradimento per fatti connessi alla conclusione degli stessi e, in particolare, per gli accordi di fornitura di carbone con le regioni separatiste. Il procedimento però è finito con un’assoluzione. C’è stata anche un’inchiesta parlamentare sulla possibile violazione della Costituzione ucraina connessa sempre alla stipula degli accordi di Minsk e alle successive riforme promosse proprio da Poroshenko per adeguarvisi. D’altro canto, Volodymyr Zelensky – subentrato a Poroshenko nel 2019 – ha più volte confermato l’intenzione di attuarli, ma anche l’esigenza di rinegoziarli, mai presa in considerazione dalla Russia. Al di là di questi rilievi, rimane però intangibile un dato fattuale: la riforma costituzionale sull’autonomia territoriale – seppur oggetto di una specifica proposta di legge costituzionale n. 2217а del 1° luglio 2015, che avrebbe apportato significative modifiche all’art. 133 della Costituzione ucraina in materia di organizzazione territoriale – a favore delle regioni separatiste, imposta dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk, non è mai stata attuata per eccessive divergenze politiche in seno al Parlamento ucraino, venendo definitivamente revocata il 29 agosto 2019.

Ma veniamo ora alle ragioni sovente invocate … per asserire la carenza di vincolatività giuridica degli accordi di Minsk e, dunque, la loro mera valenza politica (Markov et al.), “Legal Nature Issues of the Minsk Agreements (International and Legal Analysis)”, Law and Safety, no. 4, 2020, p. 20 ss.). Gli argomenti principali sono due: mancata espressione della volontà a vincolarsi mediante la ratifica, ai sensi dell’art. 9, par. 1, della Costituzione ucraina, da parte del Parlamento ucraino (Verchovna Rada) e mancato conferimento di pieni poteri a Leonid Kuchma e, dunque, violazione degli articoli 3, 5 e 6 della legge ucraina n. 1906-IV del 29 giugno 2004 sugli accordi internazionali (recanti norme sul procedimento interno da rispettare in materia di conclusione dei trattati) in combinato disposto con l’art. 103, par. 3, della Costituzione ucraina sulla competenza del Presidente a concludere gli accordi internazionali.

Per comprendere se il conferimento dei pieni poteri fosse incompleto o viziato, occorre, dunque, analizzare il documento con il quale esso è stato effettuato. Orbene, si tratta dell’ordine n. 953 dell’8 luglio 2014, intitolato «Sull’autorizzazione di Kuchma a partecipare al gruppo di contatto tripartito per la risoluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk. Al fine di attuare il piano del Presidente dell’Ucraina sulla soluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk e di raggiungere accordi sulla sua attuazione». Dal testo del documento non paiono esserci dubbi che si tratti di un vero e proprio conferimento di pieni poteri.

Passando… alla mancata ratifica ai sensi dell’art. 9, par. 1 da parte del Parlamento ucraino, va precisato che in effetti la fattispecie in oggetto – ossia la stipula di un accordo di pacificazione– ricade nelle ipotesi in cui l’atto di ratifica è richiesto dall’art. 9, par. 2, lett. a), della legge n. 1906-IV/2004 sugli accordi internazionali. Tuttavia, la conclusione degli accordi in forma semplificata e, dunque, attraverso l’espressione del consenso mediante la firma, rappresenta una prassi piuttosto consolidata nel diritto internazionale….In applicazione dei principi ivi sanciti, si può giungere alla conclusione che il conferimento dei pieni poteri e il testo degli accordi mediante l’utilizzo di una terminologia assolutamente imperativa faccia pensare senz’altro alla volontà di creare un vincolo giuridico sul piano internazionale. … Del resto, l’Ucraina non ha mai invocato ufficialmente la nullità degli accordi di Minsk.

Fugati i dubbi sulla validità degli accordi oggetto di questa disamina, non pare però ci siano le condizioni sulla loro possibile estinzione, ufficialmente invocata da Putin nella conferenza stampa del 22 febbraio, concessa a seguito del discorso alla nazione in cui riconosceva pubblicamente le Repubbliche indipendenti di Donetsk e Luhansk. Il presidente russo adduceva due argomenti a supporto di tale estinzione. Anzitutto, egli afferma che «questo compromesso [rappresentato dagli accordi] è rimasto lettera morta per colpa dell’attuale Governo ucraino. Gli accordi di Minsk sono stati uccisi ben prima del riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk, ma non da me e nemmeno dal Governo delle Repubbliche, bensì dal Governo ucraino. Già da tempo il Governo di Kiev ha pubblicamente affermato che non era intenzionato a rispettare tali accordi (…). A questo punto gli accordi di Minsk non esistono più» (posizione assunta anche dall’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Vasily Nebenzia, in seno al Consiglio di sicurezza e in qualità di suo presidente, all’incontro n. 8974 del 23 febbraio 2022, UN Doc. S/PV.8974). L’estinzione in questo caso rappresenterebbe una reazione all’inadempimento da parte dell’Ucraina ai sensi dell’art. 60 della Convenzione di Vienna. In secondo luogo, il leader russo ribatte ai giornalisti che insistono sull’importanza degli accordi: «Cosa dobbiamo rispettare se abbiamo riconosciuto l’indipendenza di queste regioni?!», facendo così leva sul mutamento fondamentale delle circostanze previsto dall’art. 62 della Convenzione di Vienna. Tuttavia il diritto internazionale non ne riconosce l’estinzione e dà validità agli accordi di Minsk.”

 

In copertina: riproduzione opera “Der Krieg”, Marc Chagall, licenza Creative Commons

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Bibliotecari in viaggio:
Palermo, la BPG fa visita alla BOOQ

LA BIBLIOTECA POPOLARE GIARDINO IN VIAGGIO
(PRIMA TAPPA PALERMO)

Da mesi si parlava tra noi soci/e volontari/e della Biblioteca Popolare Giardino di metterci in moto per andare ad incontrare altre realtà affini alla nostra: biblioteche di quartiere, centri culturali impegnati nei territori di riferimento. Dopo diverse esperienze all’estero grazie ad alcuni viaggi -promossi e organizzati  dalla Cooperativa EQUILIBRI di Modena nell’ambito di un Progetto Erasmus dell’Unione Europea per l’educazione permanente degli adulti – che hanno permesso ad alcunə di noi di arricchire conoscenze e curiosità, abbiamo deciso di cominciare ad organizzare dei tour in luoghi vicini e lontani, vicinissimi o lontanissimi, sulla base dei periodi dell’anno e della sostenibilità economica (particolare, questo, per nulla trascurabile, dal momento che, in assenza di fondi ed eventuali finanziamenti, tutto va affrontato a spese proprie).

L’ingresso della BOOQ di Palermo

Per il primo dei nostri spostamenti si è deciso di andare a Palermo, attrattə certo dalla bellezza della città, ma spintə soprattutto dalla volontà di incontrare l’amicissimo Gabriele e la sua BOOQ – Bibliofficina Occupata di Quartiere. Ci interessava sicuramente andare a conoscere luoghi, spazi, organizzazione, progetti della BOOQ, ma volevamo che a illustrarci il tutto fosse appunto Gabriele, che alcune di noi avevano conosciuto in Erasmus a Colonia e ad Atene. Partiamo in 10: Arianna, Alessandra, Guido, Cristina, Alida, Tito, Serena, Giuliana, Nice ed io.

Gabriele ci ha accoltə con la sua simpatia ed empatia ed entusiasmo e professionalità, ci ha aperto la BOOQ in un giorno festivo e ha risposto a tutte le nostre curiosità sia ‘tecniche’ che ‘intellettuali’ e di tipo sociale. A noi interessava anche inquadrare la BOOQ nel suo territorio di riferimento, per darle un posto adeguato nella visita che insieme stavamo facendo di luoghi e zone significativi della città di Palermo. Perciò la inseriamo nei percorsi che, nel pomeriggio del primo nostro giorno palermitano, ci conducono da Ballarò (necessaria tappa per gustare cibo e folklore colorato e rumoroso) al mare passando per Piazza Bellini con la bella Chiesa dell’Ammiraglio detta la Martorana e accanto la cappella di San Cataldo con le tre cupolette rosse, Piazza Quattro Canti, Piazza Pretoria con al centro la fontana omonima, il Lungomare che ci porta al Foro Italico, con la bella Passeggiata delle Cattive dalla quale, voltandosi indietro, si vede il suggestivo ed emozionante murale dedicato a Giovanni Falcone e  Paolo Borsellino.

Arriviamo così alla Kalsa, l’Eletta, cittadella fortificata davanti al mare fondata in epoca araba. La presenza di BOOQ nel quartiere della Kalsa, che negli ultimi anni ha mutato fisionomia, composizione demografica e modalità di utilizzo degli spazi pubblici, parte, nel 2014, dalla sua collocazione in un complesso architettonico da tempo inutilizzato. L’edificio che la ospita è l’antico Convento di Santa Teresa delle Carmelitane Scalze poi Istituto delle Artigianelle di proprietà del Comune di Palermo. L’involucro storico è stato riconvertito, grazie ad un progetto attento e sostenibile, in uno spazio culturale e di integrazione aperto a tutta la comunità di abitanti. Il progetto di riqualificazione, nel rispetto della struttura esistente, propone una nuova configurazione spaziale, funzionale alle attività della bibliofficina di quartiere; tiene conto delle funzioni future, del contesto storico nel quale si trova, della sostenibilità dell’intervento.

Le scelte progettuali sono state frutto di un lavoro di interazione tra diversi soggetti che si sono confrontati sulle caratteristiche che lo spazio di BOOQ avrebbe dovuto avere (accoglienza, convivialità, studio, manualità, scambio di conoscenze), rappresentando, nelle forme come nelle scelte compositive e cromatiche, un vero e proprio metodo applicato alla progettazione, al recupero e all’uso degli spazi, agli arredi. Questi, disegnati su misura, sono riconoscibili per le caratteristiche cromatiche, le forme e i materiali scelti.
Gabriele ci illustra il vivace percorso che, a partire da esperienze molto significative, per il quartiere, di attivismo e occupazioni, ha portato alla individuazione dello spazio sopra descritto ed è giunto in diversi anni all’aspetto e alle funzioni attuali.

Il 2 gennaio del 2017 BOOQ diventa un’associazione di promozione sociale nella quale confluiscono cittadini e associazioni. La scelta di costituirsi in APS è il risultato di un lungo ragionamento sulle attività del gruppo e sulle contraddizioni in cui ci si trova ad agire: la gestione degli spazi pubblici, la cultura come bene comune, l’accesso ai servizi sempre più demandato al terzo settore.

Diventare un soggetto giuridico senza rinunciare a uno spirito di attivismo a favore dei diritti umani significa dialogare con le istituzioni pubbliche e private, pensare a forme di autoreddito, intervenire nei processi sociali e culturali per contrastare i fenomeni di marginalità ed esclusione.

Diffusa, aperta, solidale sono le parole e azioni che descrivono BOOQ e noi, anche se ci troviamo a visitarla in un giorno senza bambini né adulti intorno, riusciamo ad immaginare il fervore dei giorni di apertura, giacché ci muoviamo negli spazi in cui bambine e bambini troveranno libri belli e di qualità, posti morbidi e mondi da esplorare; intuiamo, dalla presenza di libri ad alta leggibilità e da informazioni su laboratori in cui si valorizzano le diversabilità, che chi ha delle difficoltà non verrà escluso.

Sala lettura e video BOOQ
Gli attrezzi della Bibliofficina

Curiosando tra gli scaffali, guidati da Gabriele, scopriamo il ricco patrimonio di libri di letteratura, politica, educazione e società provenienti da donazioni e/o acquisti, atti a soddisfare esigenze di svago e di studio degli utenti; osserviamo, molto incuriositi, la zona della officina vera e propria, con una parete ricca di attrezzi di ogni tipo predisposti all’interno del Progetto ZERO (Zona Ecologica Riuso Oggetti) nato con l’obiettivo di promuovere la condivisione di strumenti domestici poco utilizzati, al fine di ridurre gli sprechi e promuovere un modello economico circolare. L’attività prevalente è quella che consente il recupero di vecchie biciclette. Grazie agli attrezzi specifici messi a disposizione e all’aiuto di altri ciclisti più esperti, chiunque può imparare a riparare la propria bici e mantenerla sicura.

Davanti All’Annunciata di Antonello da Messina

Gratificatə dalla entusiasmante visita alla BOOQ, proseguiamo, nei giorni seguenti, i nostri itinerari in cerca di cose belle. La mattina del secondo nostro giorno a Palermo ci rechiamo al Palazzo Abatellis, sontuosa dimora tardo quattrocentesca – che fu anche convento benedettino – più volte rimaneggiata e poi ampliata. Nel 1954, dopo i pesanti danni subiti nel corso della guerra, fu restaurata e adattata da Carlo Scarpa a sede della Galleria Regionale Interdisciplinare della Sicilia.

Rimaniamo incantatə in particolar modo dagli interventi architettonici che danno risalto ai capolavori raccolti: in primo luogo Il trionfo della morte, grande affresco realizzato intorno alla metà del Quattrocento, collocato in una sorta di grande cappella e contemplabile anche dall’altro grazie a una sorta di balconata ideata da Scarpa. E poi l’Annunciata, l’inarrivabile piccola tavola di Antonello da Messina, in cui il perfetto ovale del volto della Vergine emerge dalla geometria essenziale del manto.

Il Teatro Massimo è la successiva, affascinante tappa, seguito dal magnifico Orto Botanico, in cui ci deliziamo tra alberi centenari, innumerevoli piante grasse e altrettante esotiche, ma soprattutto gioiamo quando va a buon fine la ricerca del sicomoro di cui parla Paola Caridi nel suo Il gelso di Gerusalemme.

Il terzo giorno ha visto alcunə di noi recarsi a Monreale e altrə al Palazzo dei Normanni e Cappella Palatina e, in serata, tuttə in un luogo particolarmente significativo, collocato in un quartiere popolare, la Zisa, termine arabo che significa la Splendida, perché splendido era il castello omonimo costruito nel 1180, testimonianza dell’arte arabo-normanna in Sicilia.

Ci arriviamo di sera e giriamo per un po’ a vuoto, in cerca dei Cantieri Culturali, un’area di archeologia industriale trasformata in fabbriche per la produzione di valore culturale; il complesso, di 55.000 metri quadrati, è quello delle ex fabbriche di mobili Ducrot, chiuse nel 1968 e acquistate nel 1995 dal Comune di Palermo, che iniziò uno straordinario esperimento, in parte governato, in parte spinto dal basso, di rigenerazione urbana e sociale. Molti dei padiglioni del complesso sono stati recuperati e rivitalizzati come centro di cultura per mostre d’arte contemporanea e fotografia, spettacoli teatrali, musicali, cinematografici, incontri di letture, iniziative di comunità.

Teatro Massimo
Il Sicomoro nell’Orto Botanico
Murale dedicato a Falcone e Borsellino

Dobbiamo ammirare ed intuire tutto dall’esterno, perché è domenica e tutti gli spazi sono chiusi, tutti tranne uno, proprio quello che desideriamo vivere, vedere, respirare: il Centro Internazionale di Fotografia di cui il sindaco Leoluca Orlando affidò nel 2017 la direzione a Letizia Battaglia che lo aveva sognato e immaginato e ci furono tanti che gli chiesero: Picchì idda? Ci aggiriamo tra le sale dalle suggestive pareti nere su cui spiccano le foto di una mostra che si inaugura proprio il 3 novembre, ma poi siamo assolutamente catturatə e catalizzatə dalla sala in cui sono esposte moltissime foto di Letizia stessa e di molti altri fotografi, che riproducono i tanti, troppi fatti drammatici che hanno insanguinato Palermo negli anni bui in cui la mafia sparava, si sparava e attentava.

Un brillante concerto jazz in un locale accanto al Carcere dell’Ucciardone ci restituisce un po’ di sorrisi e vitalità, nella sera conclusiva del nostro primo viaggio bibliotecario.

Le foto sono di Maria Calabrese, Alessandra Muntoni, Alida Nepa e Arianna Chendi.
In copertina: le volontarie della Biblioteca Popolare Giardino di Ferrara ospiti della Bibliofficina Occupata di Quartiere di Palermo.

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul nome dell’autrice.

Per certi Versi
OGLIASTRA

Ogliastra  (a novembre)

I corbezzoli bruni
sole generoso
Quel granito
Del popolo Sardo
Un mito antico
Sull’altopiano
Verso Goloritze’
In fondo
Sì spalanca
paradiso
Di uno spettacolo
Blu metano

Si faceva il bagno

Là dove
Ci sono
Gli alberi
stelle
Di Natale
La memoria
Insegna
Ogliastra
Isola
Nell’isola
La Sardegna

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La Ferrara di oggi e la Ferrara futura… tutta da costruire

La Ferrara di oggi e la Ferrara futura… tutta da costruire.

Non era difficile immaginare che la politica a Ferrara sarebbe stata fortemente impegnata a discutere della vicenda che ha visto la condanna dell’assessore della Lega Lodi a 2 anni e 10 mesi per induzione indebita a dare o promettere utilità.
Come prevedibile, stiamo assistendo a difese d’ufficio imbarazzanti e a richieste di dimissioni immediate, ritenendo che attorno a ciò si giochi una partita importante per il futuro dell’Amministrazione di destra. La mia opinione, senza sottovalutare la questione e soprattutto la sua gravità inaudita, è un po’ diversa. Svestiti i toni sguaiati e sopra le righe dell’assessore e già vicesindaco Lodi – fatto già iniziato con la nuova consiliatura e che la vicenda giudiziaria contribuirà ad accelerare – in realtà, a me pare che continueranno, con un po’ di più di aplomb “istituzionale”, le linee di fondo con cui la destra sta governando questa città dal 2019.

Penso le si possano riassumere utilizzando questa triade, la stessa che possiamo osservare, con i dovuti aggiustamenti, nell’azione del governo nazionale: affidamento al mercato e al neoliberismo, ricerca del consenso rivolta in particolare al ceto medio e ai commercianti, con una buona dose di propaganda, e comando sui punti di fondo che si vogliono affermare e nei confronti di chi dissente. Poi, in ogni opzione importante questi elementi si combinano tra loro. Proviamo, per esemplificare, a vederne alcuni.

Nei giorni passati, il Consiglio comunale ha approvato il PUG (Piano Urbanistico Generale), un progetto che, messa da parte la retorica falsa e altisonante della rigenerazione urbana e dell’ambientalismo di facciata, si rivela a maglie talmente larghe, che inevitabilmente si risolverà nel lasciar spazio ai soggetti privati e alla loro contrattazione con l’Amministrazione. In più, assunto con una discussione ristretta nei tempi, senza confrontarsi con le realtà associative che avevano avanzato proposte “scomode” e bocciando, con furore ideologico e al di là di qualsiasi merito, tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni in Consiglio comunale: un paradigma perfetto che coniuga impostazione mercatista e volontà di comando.

Nelle prossime settimane, probabilmente, si arriverà a decidere sull’affidamento della gestione del servizio dei rifiuti urbani, che ora è in proroga ad Hera dalla fine del 2017. Non è un mistero che le intenzioni dell’Amministrazione guardino alla promozione della gara, con la conseguenza, più che prevedibile, che essa sarà appannaggio di Hera, nonostante la Rete Giustizia Climatica e Forum Ferrara Partecipata abbiano abbondantemente dimostrato – anche con conti alla mano- che la ripubblicizzazione del servizio è assolutamente utile e possibile. In questo ispirandosi anche all’esperienza di Alea di Forlì e dintorni, società a totale capitale pubblico, che sta ottenendo i risultati migliori in regione per quel che riguarda la riduzione della produzione dei rifiuti e il fatto di rendere minori quelli non riciclati.
Non importa che Hera, ultimamente, sia stata multata dall’Agenzia per la Concorrenza e il Mercato per circa 2 milioni di euro per il suo atteggiamento speculativo messo in atto proprio qui a Ferrara rispetto agli aumenti ingiustificati della tariffa del teleriscaldamento: quel che conta è che si proceda con le politiche di privatizzazione dei beni comuni, che anche qui sia il mercato a dettare le scelte.

In quanto alle politiche di favore nei confronti della propria base sociale di riferimento, non c’è che l’imbarazzo della scelta per trovare le prove di tutto ciò: si può spaziare dall’idea della città attrattiva per il turismo, concepito unicamente in una logica di risorsa economica, fino all’utilizzo, del tutto improprio, che si vuole rendere permanente, del Parco Bassani per lo svolgimento di grandi eventi, snaturandone il ruolo di nodo ecologico, incompatibile per questo genere di attività. Il tutto supportato da uno studio, falsato e artatamente costruito, per dimostrare che il concerto di Bruce Springsteen tenutosi lì l’anno scorso avrebbe generato circa 10 milioni di indotto per la città!

Finisco questa carrellata esemplificativa con la vicenda del Centro sociale La Resistenza, “sequestrato” dall’Amministrazione da più di un anno con pretesti gonfiati (le condizioni di sicurezza del luogo) e perseguendo una logica ostruzionistica rispetto all’intenzione di chi l’ha gestito per intervenire e risolvere i problemi esistenti: una scelta emblematica per un’Amministrazione che vuole, contemporaneamente, chiudere gli spazi sociali, affermare che solo il mercato può decidere sugli spazi urbani, e colpire le persone e le realtà sociali che si permettono di criticarla.

A me pare chiaro che l’impostazione di fondo su cui l’Amministrazione di destra sta basando la propria iniziativa non ha un grande respiro e non è in grado di disegnare una prospettiva per il futuro. Non è in grado. cioè. di dare risposte adeguate ai problemi strutturali che assediano Ferrara, una città che vive una deindustrializzazione crescente, che non ha una vocazione definita dal punto di vista produttivo e incapace di creare lavoro di qualità, che rischia di veder accentuare la propria dipendenza da dinamiche esterne e dalle città limitrofe, finora Bologna e in futuro magari da Ravenna, che vede espandersi le problematiche crescenti relative ad un forte invecchiamento della popolazione. Figuriamoci poi rispetto alla necessità di confrontarsi con i nuovi temi emergenti, da quello di progettare una città “decarbonizzata” a quello di trattenere il numero significativo, cresciuto in termini importanti negli ultimi anni, degli studenti che frequentano l’ateneo, solo per citarne due.

Ciò non toglie che non si può negare che, come dimostra la riconferma del sindaco con un buon risultato nella tornata amministrativa del giugno scorso, finora questa stessa impostazione dell’Amministrazione ha goduto di un consenso reale.
Il punto è che non si può semplicemente aspettare che essa mostri le sue contraddizioni e la sua debolezza e tantomeno affidarsi a vicende giudiziarie.

Si tratta, invece, di avere una chiarezza sufficiente per vedere che solo una progettualità alternativa, la messa in campo di un’altra idea di città può far venire meno l’appoggio delle persone a questa regressiva esperienza amministrativa. E questa non si può dare, da una parte, senza una messa in discussione anche della lettura e delle opzioni che hanno animato il centrosinistra in un arco di tempo che dura da ben più di un decennio, e senza individuare, dall’altra, alcuni punti di fondo, selezionati ma anche con un valore “simbolico” alto, capaci appunto di comunicare un’altra idea di città.

Soprattutto, questo approccio non può vivere al di fuori di una forte mobilitazione sociale, di cui si intravedono le possibilità, ma che va anche costruita con determinazione. Se dovessi indicare una sola questione (anche se, ovviamente, bisognerà mobilitarsi anche su altre), nell’immediato mi viene da dire che la battaglia per far riaprire il Centro sociale La Resistenza potrebbe avere queste caratteristiche, di far vivere cioè un’idea di città che respinge la logica di privatizzazione dello spazio pubblico e propone invece un’alternativa basata sulla socialità e la partecipazione. Una battaglia su cui innestare una mobilitazione sociale e politica unitaria ed estesa. Penso valga la pena provarci.

In copertina: Ferrara, Palazzo Todeschi, particolare del soffitto – foto Roberto Targa.

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Presto di mattina /
La rosa di Natale

Presto di mattina. La rosa di Natale

Il volto della stella

In un’intervista degli anni ’90, Iosif Brodskij (1940-1996) ricordava di aver cercato di scrivere una poesia per ogni Natale e non sempre ci riuscì. Le sue Poesie di Natale (Adelphi, Milano 2004), in tutto diciotto, le compose quasi fossero «un augurio di compleanno». Nella Natività amava vedere «quella concentrazione di ogni cosa in un solo luogo – il che è quanto si verifica nella scena della grotta» (ivi, 2a di copertina).

Nella fredda stagione, in luoghi avvezzi all’afa
più che al gelo, e a piatte distese più che ai monti,
nacque un bambino per salvare il mondo, in una grotta;
turbinava il vento, come può solo nel deserto d’inverno.
Enorme tutto gli sembrava; il seno della madre, le nari
del bue fumanti di vapore, i re Magi; quei doni
da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre fin lì portati.
Il bimbo era un punto solamente. E un punto era la stella.
Con gran circospezione, senza neppure un battito
di ciglia, tra rade nubi, di lontano, dalle profondità
del Cosmo, giusto dall’altro estremo, la stella fissava
nella grotta il bimbo sulla greppia. Di un padre era lo sguardo.
(Ivi, “Stella di Natale”, 24 dicembre 1987, 73)

 

Sì, proprio tutto è concentrato lì in quella grotta dell’umano gelo, direbbe Clemente Rèbora (1885-1957), ma un fuoco dentro resta, e pace altra sta a custodire l’infinita pena d’uomini e di donne. Pace parla ancora al cuore che domanda.

Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo;
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
(Clemente Rebora, Le poesie 1913-1957, Garzanti, Milano 1994, 288).

 

“Ave”, è d’inverno il canto delle rose

Carlo Betocchi (1899-1986), che fonda la sua poetica su un linguaggio diretto, sul realismo e su una forte tensione etica, pensa che a Natale l’inverno sarà rivestito di fiori reali e in terra, come il gloria degli angeli in cielo, la rosa, il giglio, l’elleboro diranno il loro “Ave”, “Bene valete”: saluto e benedizione.

Ma non basta augurare il bene; è poca cosa. Credere proprio a Natale allora sarà non senza gli altri, non senza rivestire il patire loro; per noi come per gli ellebori sarà stare erbosi e fitti come croci nel gelido freddo dei conflitti, rivestendo “l’empio sterno delle città distrutte” dalle guerre.

Sarà, per i fiori reali, inverno,
un mitico inverno di brine,
d’ albori, di chiarezze tutte gelo;
e diranno «Ave» senza fine.
La rosa con il giglio con l’elleboro
rivestiranno l’empio sterno
delle città distrutte, un roseo fuoco
a vaghi armenti. Ma sarà poco
credere! Dovremo star confitti
nel freddo, di là dallo schermo
della rassegnazione, erbosi e fitti
come croci, nell’inverno.
(“Sarà inverno”, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1996, 512).

La luce dell’elleboro, sole infante, luce nascente nell’inverno

Per la sua radice nera è nominato l’Helleborus niger. È una pianta perenne resistente al freddo che appartiene alla famiglia delle Ranunculaceae, alta non più di 40 centimetri. Ha corolla pendula formata da cinque petali, come i cinque sensi nostri.

L’elleboro, nonostante il suo brunito nome, ha fiori candidi e pistilli dorati come solari raggi di luce. Fiorisce all’inizio dell’inverno nel mese di dicembre, come a simboleggiare «l’alba del solstizio invernale e l’oro del sole nuovo, del sole “bambino”, destinato a crescere sull’orizzonte» (A. Cattabiani, Florario, 319).

Il suo nome deriva dal termine greco “elleboros”, termine formato da due parole che tradotte significano “far morire” e “nutrimento”: le sue radici se ingerite sono infatti velenose, ma da esse si ricava un rimedio e nutrimento medicinali che nell’antichità si pensava fossero curativi della pazzia.

Di Eduard Mörike (1804-1875), poeta e narratore tedesco pastore luterano e docente di letteratura tedesca, è la lirica più famosa dedicata all’elleboro: A una rosa di Natale, (Auf eine Christblume, 1842).

Di lui Cristina Campo scrive: «Solitario e purissimo cantore svevo… nostalgico pastore “in cilindro e parapioggia” colui che prediligeva Mozart quando l’Europa intera apparteneva a Beethoven: che giocava coi bambini, parlava con gli alberi e faceva dell’amicizia una religione» (Sotto falso nome, Adephi, Milano 1998, 189-190. Il suo testo più conosciuto è Mozart in viaggio verso Praga, Passigli Editori, Bagno a Ripoli FI 1990).

L’Helleborus niger nella lingua del poeta suona Christblume e Weihnachtsblume: Fiore di Cristo e insieme Fiore di Natale. Il poeta, osserva anche gocce purpuree sul biancore dei petali a ricordargli il sangue della Passione, presagio della morte già nella immacolatezza della nascita e paragonando la sua corolla alla veste nunziale di Maria la Madre Benedetta.

A una rosa di Natale

Figlia della foresta, parente dei gigli,
quelli sconosciuti, cercata da me da tanto tempo,
nel camposanto dimenticato di una chiesa, freddo e invernale!
Per la prima volta, o bella, ti ho trovata!
Per mano di chi sei fiorita qui,
non so, né di chi sia la tomba che custodisci;
Se è un giovane, gli è stata donata la salvezza,
Se è una fanciulla, dolcemente è caduta la sua parte.
Nel boschetto vicino, coperto di luce nevosa,
dove il cervo pascola piamente davanti a te,
Vicino alla cappella, vicino allo stagno cristallino,
Lì cercai il tuo regno magico.
Sei bella, figlia della luna, non del sole;
La delizia di altri fiori ti sarebbe fatale,
Ti nutre, il casto corpo pieno di gelo e di fragranza,
l’aria dolce e balsamica del freddo celeste.
Nel tuo seno dorato si crea
Una fragranza che a malapena si annuncia;
Così profumava, toccato dalla mano di un angelo,
La veste nuziale della madre benedetta.
Tu saresti, ricordando la santa sofferenza,
vestita da cinque gocce di porpora, bella e unica:
Ma tu ti adorni come un bambino, nel periodo natalizio,
di verde chiaro con un soffio il tuo vestito bianco.
L’elfo, che nell’ora di mezzanotte
va a danzare nella terra luminosa,
di fronte al tuo mistico splendore si ferma timidamente
Curiosamente tace da lontano e si allontana.
Nella terra invernale dorme un fiore,
La farfalla che un tempo si aggirava intorno a cespugli e colline
Nelle notti di primavera cullando l’ala di velluto;
Non assaggerà mai il tuo seme di miele.
Ma chi sa se il suo tenero spirito
Quando ogni traccia dell’estate sarà svanita,
un giorno si inebrierà della tua morbida fragranza,
invisibile a me, circonderà te fiorita!
(Canti scelti di Eduard Mörike, Carabba editore, Lanciani [Chieti] 1939, 104-105, nuova traduzione di Christine Schwienbacher).

La leggenda della Rosa di Natale

Anch’io a Natale ho scritto per diversi anni storie di alberi per la gente della parrocchia e così per non saltare l’anno ho ricevuto un’assit. Non mi sono lasciato sfuggire la storia della scrittrice svedese Selma Lagerlöf (1858-1940).

È stata la prima donna a vincere il Nobel per la letteratura nel 1909 a soli 51 anni e nel 1914 entrò a far parte dell’Accademia svedese. Nei suoi racconti rivive la Svezia delle antiche fiabe, quella dei miti e delle leggende, delle storie tramandate nella lunga notte nordica.

Così inizia il racconto:

«La moglie del brigante, che viveva in una caverna lassù nella foresta di Göinge, si era messa un giorno in viaggio per andare a mendicare giù in pianura. Il brigante era un bandito fuorilegge e non osava uscire dalla foresta, accontentandosi di stare in agguato dei viandanti che si avventuravano nella fascia dei boschi. Mendicando di casa in casa, la moglie del brigante arrivò un giorno a Öved, che all’epoca era un monastero. Suonò e chiese del cibo. Il guardiano abbassò uno sportellino che si apriva nel portone e le allungò sei pani rotondi: uno per lei e uno per ogni ragazzo».

Il monastero era circondato da un altro e massiccio muro. Impossibile era vedervi dentro; ma uno dei figli scoprii una porticina lasciata aperta da un monaco converso. Sgattaiolando dentro la donna rimase stupita nel vedere il giardino e il suo splendore. L’Abate Hans infatti ne aveva fatto un orto botanico senza paragoni. L’aveva arricchito di piante e fiori portati da tanti paesi. Era davvero il suo orgoglio, se così si può dire di un dimesso abate, ma certo il più bello di tutta la regione.

Accortosi dell’intrusione il monaco converso, che aveva l’abitudine di strappare tutte le erbacce che gli capitavano sotto gli occhi, si affrettò prima con le buone maniere, ma poi, visto l’inefficacia di quelle si premurò, per convincere gli intrusi, di chiamare in aiuto alcuni monaci nerboruti così da costringere la donna e i suoi figli ad allontanarsi. Ma non bastarono neppure loro; quella fu irremovibile e li raggelò, gridando e minacciando addirittura di far venire il brigante suo marito.

Accorse così alle grida anche l’abate Hans, preoccupato della quiete, e congedati i monaci, per tranquillizzare la donna, la invitò a visitare tutto il suo orto botanico, sentiero per sentiero aiuola per aiuola attraversando arbusti, siepi e alberi secolari.

L’abate Hans passando tra i sentieri e volgendo intorno lo sguardo su quella meraviglia sempre cangiante che gli sollevava l’animo, tuttavia teneva pure d’occhio la moglie del brigante e vedendola sorridere allegra, si compiaceva. Si accorse però ad un tratto che quel suo sorriso, nascondeva qualcosa, sembrava di sfida ne fu certo quando la donna gli disse: «Alla prima occhiata ho pensato di non averne mai visto uno più bello, ma ora mi accorgo che non regge il confronto con un altro che conosco».

A quelle parole l’abate Hans fu scosso da un fremito interiore e l’afferrò un incontenibile desiderio di vedere quel giardino misterioso nel cuore della foresta di indicibile bellezza, ma che secondo le parole della donna era visibile solo la notte di Natale: di lì a pochi giorni dunque.

Così nonostante la contrarietà di tutti i monaci, l’abate chiese al vescovo di Absalon il permesso di recarsi nella foresta e, sapendo l’ostilità terribile del brigante che gli avrebbe impedito l’ingresso, domandò per lui un lasciapassare: in cambio, il perdono di tutti i suoi misfatti e il ritorno tra la gente dei villaggi.

E il vescovo gli rispose: «“Questo te lo posso promettere, abate Hans”, disse sorridendo. “Il giorno che mi manderai un fiore del giardino di Natale di Göinge, ti farò avere lettere d’assoluzione per tutti i fuorilegge che vorrai”».

Così, presto di mattina la vigilia del Natale, dopo aver attraversato per tutto il giorno la foresta, l’abate e il monaco converso, giunsero ormai congelati alla grotta del brigante guidati da uno dei figli. Trovarono grande miseria e pure ostilità e aggressività, ma solo nelle parole, che non gli furono d’ostacolo ad entrare in quella povertà disarmante.

Nell’incontro tra quei due mondi, ci volle umiltà, pazienza resistente e la promessa d’assoluzione e, alla fine, il brigante patteggiò una tregua temporanea giungendo persino a rispondere all’Abate: «Sì, sì, se avrò una lettera d’assoluzione da Absalon, ti prometto che non ruberò mai più nemmeno un’oca».

Ma intanto giunse piano piano con la neve la notte silenziosa e santa e la donna che era rimasta a vegliare il bosco dalla finestra disse all’abate Hans: «Tu stai qui a chiacchierare, abate Hans, e finiamo per dimenticarci di tenere d’occhio la foresta. Non sentite che le campane di Natale hanno già cominciato a suonare?».

 «Aveva appena pronunciato queste parole che tutti balzarono in piedi e corsero fuori. Ma nella foresta regnava ancora la notte buia e il gelido inverno. L’unica cosa che avvertirono fu uno scampanio lontano portato da un leggero vento da sud.

“Come potranno questi deboli rintocchi ridestare la foresta morta?” si domandava l’abate Hans. Ora che stava nel mezzo dell’oscurità invernale, gli sembrava molto più improbabile di quanto avesse mai creduto che lì potesse spuntare un rigoglioso giardino.

Ma quando le campane ebbero suonato per qualche minuto, un improvviso chiarore penetrò la foresta. L’attimo dopo era di nuovo buio, e poi tornò la luce. Si insinuava come una nebbia radiosa tra gli alberi scuri, e continuò a espandersi finché la notte si diradò in una pallida aurora.

Allora l’abate Hans vide che la neve era sparita dal suolo, come se qualcuno avesse tolto un tappeto, e la terra cominciava a inverdire. Le felci allungavano le loro fronde, incurvandosi come pastorali. L’erica che cresceva sulle rocce e le mirici radicate nel muschio si rivestivano di verde acceso. Il muschio si espandeva e si sollevava e fiori primaverili spuntavano con i loro boccioli rigonfi, con già un accenno di colore.

Il cuore dell’abate Hans batteva forte davanti a quei primi segni del risveglio della foresta. “Che a un vecchio come me sia dato di assistere a questo miracolo!” pensò, e le lacrime premevano per sgorgargli dagli occhi. A tratti diventava così buio che temeva il ritorno delle tenebre della notte. Ma presto irruppe una nuova ondata di luce che portava con sé gorgoglii di ruscelli e scrosci di cascate. Allora sugli alberi germogliarono le foglie, così in fretta che era come se un nugolo di farfalle verdi fosse venuto a posarsi sui rami.

E non erano solo gli alberi e le piante a risvegliarsi, perché tra i rami cominciarono a saltellare i crocieri, e i picchi martellavano le cortecce tra nuvole di schegge. Un volo di storni migranti verso settentrione scese a riposarsi su un abete. Erano storni superbi: le punte di ogni piccola piuma brillavano rosse e quando si muovevano luccicavano come gioielli.

Il buio tornò per un istante, seguito da una nuova ondata di luce. Da sud spirò un forte vento caldo che sparse sul suolo della foresta tutti i piccoli semi delle terre meridionali che gli uccelli e le navi e i venti avevano portato fin lassù e che non avrebbero potuto crescere per i rigori dell’inverno. E ora si radicavano e germogliavano nell’attimo stesso che toccavano terra. Alla successiva ondata di luce sbocciarono i mirtilli rossi e neri. Anitre selvatiche e gru riempirono l’aria dei loro gridi acuti, i passeri costruivano i nidi, e i piccoli degli scoiattoli giocavano sui rami più alti.

… Le ondate di luce calda si succedevano senza posa e ora portavano con sé semi di floristelle. Il polline dorato della segale galleggiava nell’aria, e poi arrivarono farfalle così grandi che sembravano gigli volanti. Un alveare nel tronco cavo di una quercia traboccava già di miele che gocciolava lungo la corteccia.

Ora fiorivano anche le piante provenienti da paesi lontani. Le splendide rose si arrampicavano sulla parete della montagna gareggiando con le more, e nel sottobosco spuntavano fiori grandi come volti umani. L’abate Hans pensava al fiore che aveva promesso al vescovo Absalon, ma non si decideva a coglierlo. Ogni nuovo che sbocciava era più incantevole degli altri e lui voleva scegliere il più bello di tutti.

Ma in tutto quello splendore il monaco converso e apprendista giardiniere, fino a quel giorno sempre dedito a strappare le erbacce, non vedeva niente di buono, presagiva in quella nascita e risveglio precoci della foresta addirittura una macchinazione del diavolo, una stregoneria per ingannare il suo abate e così cercava in tutti i modi di dissuaderlo e convincerlo ad andare via e via in fretta.

Ostinato a vedere erbacce in ogni dove dimenticò la parabola evangelica e per togliere la zizzania strappò anche il grano buono. Così quando un piccolo colombo si posò sulla spalla dell’abate il monaco, visti vani tutti i tentativi di persuaderlo, alle fine gridò con tutta la forza che aveva in corpo: «Tornatene all’inferno da dove sei venuto!».

A quelle parole tutto si spense, d’improvviso tutto fu inghiottito dal buio, tornò la notte fonda e il gelo e la neve imprigionarono di nuovo la foresta. In quel momento l’abate Hans si sentì morire, una stretta fortissima al cuore e cadendo sulla neve si ricordò della promessa fatta al vescovo di portagli un fiore da quel giardino e dell’assoluzione promessa al brigante, fece solo in tempo ad annaspare nel muschio con la mano e a frugare tra le foglie per cercare almeno un piccolo fiore. Ma dopo quello sforzo non riuscì più a rialzarsi e rimase morto coperto dalla neve.

Quel giorno, il Natale del Signore, i monaci raggiunta la foresta ritrovarono il suo corpo. E quel Natale fu così anche il dies natalis dell’abate Hans, passando ancora una volta dal buio alla luce egli entrò vivo in quel giardino sorprendente, perduto e ritrovato.

Fu riportato nel monastero con grande dolore e rimpianto. La notte seguente nella veglia funebre i monaci si accorsero che teneva qualcosa serrato nel pugno della mano congelata. A fatica l’aprirono e vi trovarono dei piccoli tuberi bianchi che l’abate doveva aver strappato tra il muschio e le foglie prima di morire.

Il monaco converso che piangeva e gemeva più di tutti, perché sapeva di averne causato la morte con la sua stoltezza, a quella vista trasalì e comprese che c’è anche un tempo per piantare. Si fece coraggio, prese dalla mano del suo abate quei tuberi diventati a lui così preziosi e andò ad interrarli nel giardino del monastero.

Per tutto quell’anno rimase addolorato e terribilmente affranto vegliando giorno e notte su quelle piante. Ora non strappava più le erbacce ma curava le erbe più fragili e malate. Così arrivò anche quell’anno la vigilia di Natale.

In quella vigilia il monaco «sentì più vivo nell’anima il ricordo dell’abate Hans e uscì nel giardino per rivolgere a lui i suoi pensieri. Finché passando accanto al posto dove aveva interrato i tuberi nudi, vide che erano cresciuti dei rigogliosi gambi verdi con in cima dei bellissimi fiori con foglie bianco argentate.

Corse a chiamare tutti i monaci di Öved, i quali, vedendo che le piante fiorivano la vigilia di Natale, quando tutte le altre erano come morte, capirono che l’abate Hans aveva realmente raccolto quei fiori nel giardino di Natale della foresta di Göinge.

Il frate giardiniere chiese il permesso di portarne qualcuno all’arcivescovo Absalon. Quando gli fu davanti gli porse i fiori dicendo: “Questi li manda l’abate Hans. Sono i fiori che promise di cogliere per te nel giardino di Natale della foresta di Göinge”. Al vedere quei fiori nati dalla terra nel gelido inverno, l’arcivescovo di Absalon impallidì come se avesse incontrato un morto. Dopo un lungo silenzio disse: “L’abate Hans ha mantenuto la sua promessa, e io manterrò la mia.”

Quando giunse nella foresta la lettera del vescovo «il bandito rimase lì pallido e muto, ma la moglie rispose per lui: “L’abate Hans ha mantenuto la sua promessa, e il brigante manterrà la sua”. Quando il brigante, la moglie e i figli abbandonarono la caverna, il frate converso vi andò ad abitare e visse lassù in solitudine, continuando a pregare che la sua durezza di cuore potesse essergli perdonata».

A perenne ricordo di quel luminoso Natale di Göinge, nella foresta ritornata oscura, è rimasto anche oggi a far luce un fiore, il più bello di tutti: la pianta di elleboro nero, che da quel giorno fu chiamata Rosa di Natale.
(La leggenda della Rosa di Natale, Iperborea, Milano 2014).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Niente da vedere. Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati
Il libro-documentario di Sandro Abruzzese

Niente da vedere. Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati. Il libro-documentario di Sandro Abruzzese

L’ultimo libro-documentario di Sandro Abruzzese e Marco Belli Niente da vedere, pubblicato nella collana Che ci faccio qui di Rubbettino  è un sofisticato esercizio di traduzione. Dietro (o avanti) la raccolta di Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati, come recita il sottotitolo, si nasconde altro, anzi si vede tutto il resto.

Questa narrazione foto-letteraria dei due autori a me è subito apparsa come un manifesto sul tema  della “traduzione della realtà” in immagini o in parole.

Già dai titoli dei capitoli si coglie questa particolarità: l’istituirsi nel libro e grazie al libro di un intreccio, tra quelle “cose” che non vediamo ma che tentiamo di tradurre grazie ai linguaggi, con quelle altre “cose” che pur vedendole “concretamente”, non riusciamo a tradurre in alcun modo.

Forse appartiene solo alla poesia questa capacità di complementare questi due aspetti e creare l’intreccio del quale parlo; una poesia, per esempio, come quella di Angelo Andreotti, poeta di questi stessi spazi:

Così ogni transito, come ogni tragitto,
è sempre un attraversare alla cieca
un passaggio dal noto all’ignoto,
e ignoto è anche il passo che ancora
non tocca pietra. E tuttavia, sempre,
tutto ha più di una sintassi.
Il percorso non è mai lo stesso
il ruscello dissotterra le pietre
cambia l’assetto del camminamento
e la tenuta non è più sicura.
Si va a intuito. Si valuta.
Si sceglie, ma ogni giudizio
è una scommessa dall’esito incerto
comunque ineluttabile.
[Da Pietre di passo, pg.11, puntoacapo Editrice, 2023]

Tornando alla composizione fotografica di Belli e alla paratassi testuale di Abruzzese si ha questa stessa impressione di transito, quasi gli autori volessero spingerci continuamente a (ri)attraversare vere e proprie cornici narrative nella loro aspirazione (poetica) di sparire nell’azione.

Sono queste cornici, non necessariamente fisiche, che predispongono noi osservatori/lettori davanti allo scatto o al testo, quasi a invitarci a un posizionamento, mediante una inversione tra figura e sfondo, tra verticale e orizzontale, tra visione (reale o immaginaria) e linguaggio.

Un elemento compositivo questo, il cosiddetto doppio framing, che induce a ragionare sulla traduzione. In generale una cornice forza il posizionamento: si può guardare dentro o rimanere fuori, raccontare il sogno o solo osservarlo. Così come il fotografo che esita nello scatto per… farsi scattare; come fa l’autore nell’ascolto per… farsi parlare.

Le foto di Belli sono un buon esempio per chiarire il concetto.

Oltre al consueto formato fotografico, appare evidente in quasi tutte le foto una seconda cornice che, come insegna il magistero di Luigi Ghirri, necessariamente allinea e dirige lo sguardo. Quelle rappresentate da Belli sono però cornici… velate appositamente per evitare allo sguardo di indugiare su eventuali… interni: in questo modo non sembra esistere una realtà… nascosta, uno spazio successivo a quello mostrato. E forse neppure un tempo seguente.

No, la realtà è tutta lì esterna, ampia, aperta non ha bisogno di essere ulteriormente tradotta, così comprensibile quale è, quasi una visione onirica come quella di Kekulé che raccoglie l’intero saputo cosciente, tutto, e l’insaputo inconscio più di tutto. Una visione che spiega senza parlare. Un’ampia mappa che abbraccia l’intero territorio.

Come è noto la traduzione, in fotografia, è una operazione di esclusione: si esclude il resto del mondo per farne vedere solo un pezzettino. Ma qui si esaltano spazi sconfinati attraverso un piccolo scatto su piccole volumetrie chiuse o abbandonate.

A pg. 65 Abruzzese “confessa” il suo metodo di… traduzione: «…l’impreparazione è il motore del viaggio, guai a saperne qualcosa di più…Voglio dire che quando ci si prepara, non so come, ma si finisce per trovare solo conferme, oppure per vedere proprio ciò che avevamo studiato in precedenza e non altro. Per cui il mondo diventa un’ipotesi da verificare».

Questi racconti quindi non sono un insieme di dati e di nozioni da sommare per dimostrare qualcosa (una nota realtà, una verità nascosta), ma tasselli di un puzzle necessari per comporre un immagine più grande, come quei volti giganteschi delle pubblicità formati da tantissime minuscole e irrisolvibili facce. L’espressione dell’enorme volto è il racconto delle singole espressioni. L’ampio spazio è formato da frammenti e la cornice piccola contiene, per così dire, quella più grande.

Bisogna tornare e ritornare sui singoli volti, muoversi lentamente tra le “foto tessere” (i singoli racconti), nel tentativo di ricomporre una realtà spaziale e dunque una fluidità temporale.

È attraverso questo gioco di doppie cornici – foto nella foto, racconti nel racconto – che la verità di questi luoghi resiste ad ogni cambiamento e in tal modo crea il fondamento di una presenza umana che pare sia qui per allontanarsi e contemporaneamente nascondersi, aprirsi in spazi sconfinati e ritirarsi nel filo di un campanile, esibirsi con sguardi invisibili e parole silenziose.

La verità è ciò che non possiamo cambiare e non possiamo tradurre, perché il cambiamento come la traduzione (in immagini o in parole) opera a posteriori una scrematura, una discriminazione che appartiene tanto alla foto che alla parola. La verità è proprio ciò che non possiamo vedere.

Ed è seguendo alla lettera il titolo del libro che gli autori ci aiutano almeno a non modificarla tale quale è. Non c’è niente da vedere perché la verità è tutta qui, in quello che non si può cambiare che non si può mostrare o raccontare: metaforicamente essa è la palude sulla quale stiamo e gli spazi infiniti tutto intorno. 

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia

Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia

L’efficacia del sistema internazionale di protezione dei diritti umani – che comprende sia gli accordi di diritto internazionale che gli organi di giustizia internazionale – dipende dalla volontà degli stati di collaborare. Sempre più spesso, purtroppo, vediamo in azione i doppi standard: quelli per cui l’invocazione della violazione di un trattato internazionale viene sollevata nei confronti di uno stato “nemico” e taciuta se lo stato è “amico”

 

La risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 17 dicembre rappresenta un interessante passo avanti, ne puoi spiegare gli aspetti positivi?

Intanto, il numero dei voti a favore continua di biennio in biennio ad aumentare: quest’anno è arrivato a 130. In secondo luogo, ma in conseguenza del primo, alcuni stati cambiano da un biennio a un altro posizione: da contrari ad astenuti o, ancora meglio, da astenuti a favorevoli. Gli stati che votano contro, e ancor di più quelli che continuano a usare la pena di morte, sono sempre più una ridotta minoranza.

Il problema resta cosa fare nei due anni che passano tra una risoluzione all’altra: rischiamo di avere una retorica abolizionista globale senza una politica abolizionista globale. Dovrebbero esserci azioni concrete, nei 24 mesi in questione, azioni concrete per salvare vite umane o condanne con effetti concreti per le esecuzioni che hanno luogo.

Mentre la prospettiva che uccidere una persona sia una soluzione perde via via peso stanno aumentando le cosiddette “esecuzioni extragiudiziali” su cui Amnesty fa una campagna e un monitoraggio da tempo, ci puoi illustrare la situazione?

Mi viene in mente il commento che feci, tra me e me, quando la Guinea Equatoriale abolì alcuni anni fa la pena capitale: non ne ha più bisogno, ricorre ad altri metodi che danno meno nell’occhio, in quel caso le detenzioni in isolamento senza contatti col mondo esterno. C’è poi, giustamente, il tema della “giustizia fai da te”, ovvero gli omicidi mirati che si verificano soprattutto in situazioni di tensione o di conflitto. Un esempio clamoroso è quello dell’uccisione, da parte di Israele, di due (se non di tutti e tre) i leader politico-militari di Hamas di cui la Corte penale internazionale aveva chiesto – per poi averne uno, nel caso di quello forse ancora vivo ma è evidente che li avrebbe avuti tutti e tre – e ottenuto l’emissione di un mandato d’arresto. Si sfrutta, in questo caso, l’incomprensione del fatto che gli omicidi mirati sono essi stessi delle violazioni dei diritti umani.

Più in generale come vedi il discredito che convenzioni e istituzioni internazionali stanno subendo negli ultimi anni?

L’efficacia del sistema internazionale di protezione dei diritti umani – che comprende sia gli accordi di diritto internazionale che gli organi di giustizia internazionale – dipende dalla volontà degli stati di collaborare. Sempre più spesso, purtroppo, vediamo in azione i doppi standard: quelli per cui l’invocazione della violazione di un trattato internazionale viene sollevata nei confronti di uno stato “nemico” e taciuta se lo stato è “amico”; quelli per cui distinguiamo le persone richiedenti asilo da accogliere in dignità e diritti da quelle che respingiamo; quelli per cui la giustizia internazionale va elogiata se emette un mandato di cattura verso il leader del campo avverso e va dileggiata se lo fa verso un amico.

Tu pensi che una riforma in senso democratico dell’ONU (come suggeriscono gli obiettivi della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza) possa essere un passo verso la soluzione dei conflitti internazionali e del miglioramento dei Diritti Umani?

Questa riforma è più che mai necessaria, anche per dare voce e spazio al cosiddetto Sud globale. In particolare, il Consiglio di sicurezza è composto, per quanto riguarda i membri permanenti, dagli stati vincitori della Seconda Guerra Mondiale o dai loro eredi. Quattro quinti di loro, che dovrebbero assicurare la pace e la sicurezza a livello mondiale, sono intervenuti con le armi nel conflitto siriano nello scorso decennio.

Da anni, Amnesty International chiede che in caso di crisi umanitarie e dei diritti umani non sia consentito usare, da parte dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza, il potere di veto. Forse non c’è esempio più forte e peggiore di doppi standard dell’uso contrapposto del potere di veto: degli Usa per proteggere Israele, della Russia per proteggere la Siria di Assad.

Metalmeccanica: volano i profitti, giù i salari

Metalmeccanica: volano i profitti, giù i salari

di Marco Togna
Pubblicato su Collettiva del 18 dicembre 2024 

La Fiom Cgil presenta lo studio sui numeri del settore: raddoppiano gli utili delle imprese, briciole per i lavoratori. De Palma: “Servono strumenti straordinari”

Un report che ha anzitutto affermato due verità. La prima è che la metalmeccanica è un settore in espansione: nel 2023, infatti, l’occupazione è cresciuta di 103 mila unità, passando da 2 milioni 572 mila lavoratori a 2 milioni 675 mila. La seconda è che è un settore molto significativo per l’economia italiana: nel 2022 il suo peso, rispetto al totale delle attività economiche nazionali, è stato dell’8,16% in termini di valore aggiunto e del 9,14 come investimenti fissi lordi.

Raddoppiano gli utili, calano gli investimenti

Il report inizialmente si concentra sulle principali voci del “conto economico” nel periodo 2019-2023. A fronte di un incremento del 33,47% del valore della produzione, gli utili netti sono aumentati del 91,56% (rispetto al 2019 sono quindi quasi raddoppiati), mentre i costi per il personale hanno registrato una crescita soltanto del 19,48. Tanto per essere chiari: nel 2023 le imprese metalmeccaniche hanno realizzato oltre 30 miliardi di euro di utili.

Notevole è anche la differenza tra investimenti e profitti. Nel 2023 i primi rappresentavano il 34,95%, in progressiva diminuzione dal 2019. I profitti, invece, nel medesimo anno toccavano quota 65,05%, in progressivo aumento dal 2019.

La ricchezza prodotta va a vantaggio solo dei profitti

La quota di valore aggiunto che va ai lavoratori è diminuita tra il 2019 e il 2023 di 7,34 punti percentuali, mentre la quota di profitti lordi (Ebitda) è aumentata di 7,63 punti percentuali. Cosa vuole dire? Che la distribuzione della ricchezza prodotta è andata a vantaggio dei profitti e a totale discapito dei salari.

Va segnalato, inoltre, che il valore aggiunto per ora lavorata in Italia è superiore alla media Ue (nella metallurgia, ad esempio, è del 70,83% contro il 35,33). Di contro, il costo del lavoro è più basso della media Ue: sempre nella metallurgia, è del 30,95% contro una media europea del 31,33. Se poi calcoliamo l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto, continuando a prendere la metallurgia come esempio, in Italia è del 43,70% contro una media Ue del 58,75.

Migliaia i posti di lavoro persi, boom della cassa integrazione

Partiamo dagli ammortizzatori sociali. Nei primi otto mesi del 2024 (ossia da gennaio ad agosto) le ore di cassa integrazione hanno abbondantemente superato i 19 milioni (per la precisione: 19.467.052), registrando un balzo in avanti di oltre cinque milioni nel medesimo periodo del 2023 (erano 14.042.229).

Venendo ai 38 tavoli di crisi attivati al ministero delle Imprese presi in considerazione dal report, il primo dato è che dall’origine della crisi (il cui anno è diverso da azienda ad azienda) il numero di posti di lavoro persi è pari a 11.452. Il numero di addetti attualmente coinvolti in situazioni difficili (cioè con esuberi dichiarati e/o lavoratori in ammortizzatori sociali) è pari a 18.055: il 44,5% del personale attualmente in forza a tali aziende.

Il primo comparto maggiormente in difficoltà è quella della siderurgia, con 8.240 addetti coinvolti. Dall’origine delle crisi a oggi in questo settore sono stati persi 5.177 posti di lavoro, mentre il totale dei lavoratori coinvolti costituisce il 54,4% dei dipendenti attuali. Qui si segnalano i casi delle Acciaierie d’Italia (ex Ilva) con 5.650 lavoratori coinvolti, cui seguono Jsw Steel Italia (1.488) e Berco (550).

Il secondo comparto è l’elettrodomestico, con 2.618 addetti coinvolti. Dall’origine delle crisi a oggi qui sono stati persi 1.766 posti di lavoro; il totale dei lavoratori coinvolti costituisce il 27% dei dipendenti attuali. I casi principali sono quelli della Beko (ex Whirlpool), con 1.935 addetti coinvolti, cui seguono Italian Green Factory (ex Whirlpool), con 295 addetti coinvolti ed Electrolux (283). Il terzo comparto è quello delle telecomunicazioni ed elettronica (2.362), cui seguono l’automotive (2.299, escludendo Stellantis), altri mezzi di trasporto (1.509) e l’energia (1.027).

Riguardo l’automotive, dall’origine delle crisi a oggi sono stati persi 1.372 posti di lavoro, mentre il totale degli addetti coinvolti costituisce il 35,5% dei lavoratori attuali. Si segnalano i casi della Tecnologie Diesel (700 dipendenti), cui seguono Lear Corporation (390), Speedline (270), ex Blutec (210) e Denso Manufacturing Italia (200).

Il caso Stellantis

Partiamo dall’esorbitante differenza di stipendi. Nel 2023 l’amministratore delegato Carlos Tavares (ora ex ceo di Stellantis) ha guadagnato 23,5 milioni di euro. Nello stesso anno la paga mensile media di un operaio è stata di 2.100 euro lordi, che scende a 1.200 euro netti nei periodi di cassa integrazione.

Il 53,31% dei lavoratori ex Fiat è attualmente coinvolto in ammortizzatori sociali, praticamente non c’è stabilimento che non sia alle prese con riduzioni di orario e di stipendi. Segnaliamo solo i casi più eclatanti, a partire da Melfi (Potenza), dove 5.361 lavoratori (su complessivi 5.400) sono in contratto di solidarietà fino al 26 giugno 2025.

Passiamo poi all’impianto di Pomigliano d’Arco (Napoli) dove sono in ammortizzatori sociali tutti i 4.001 lavoratori per le ultime 24 settimane, con la cassa integrazione ordinaria chiesta appunto per tutti. Vi è Termoli (Campobasso), con 1.931 addetti (su complessivi 2.020) in ammortizzatori sociali: di questi, 887 della unità Fire sono in contratti di solidarietà al 90 per cento fino al 1° agosto 2025.

Cassino (Frosinone) 1.960 lavoratori (su complessivi 2.450) sono in contratti di solidarietà, mediamente all’80 per cento, fino al 25 aprile 2025. Nell’impianto di Atessa 1.500 lavoratori (su 4.830) sono in cassa integrazione ordinaria fino al 19 gennaio 2025, ma questa potrebbe essere prorogata fino a giugno 2025. A Pratola Serra tutti i 1.500 lavoratori sono in cassa integrazione ordinaria fino a giugno 2025.

Concludiamo con lo stabilimento torinese di Mirafiori. In contratti di solidarietà, dal 7 gennaio prossimo al 2 agosto 2025, sono gli 804 lavoratori (su 1.005) delle Carrozzerie 500 Bev, i 635 (su 794) delle Carrozzerie Maserati, i 267 (su 334) della ex Pcma di San Benigno, i 240 (su 300) delle Presse e i 76 (su 96) della Costruzione Stampi. In cassa, ma per ora fino al 14 febbraio 2025, i 203 lavoratori (su 254) del reparto Preassembly & Logistic.

De Palma, Fiom: “Bloccare i licenziamenti, aumentare i salari”

“Questi numeri ci dicono che l’Italia, senza l’industria, non farebbe parte del G7, non sarebbe nei consessi internazionali. Pensiamo, proprio partendo da questo, che occorra rimettere al centro il ruolo dell’industria metalmeccanica”, dice il segretario generale Fiom Cgil: “Abbiamo bisogno di lavorare a un’autonomia del nostro sistema industriale, a una sovranità italiana ed europea dell’industria, perché i beni e i mezzi che noi produciamo sono quelli che determinano il futuro della nostra società”.

Work now for the future”, questo il piano presentato oggi dalla Fiom. “La prima cosa da fare è impedire il processo di distruzione in atto della struttura industriale nazionale ed europea”, spiega De Palma: “Noi importiamo acciaio dall’Indonesia e dalla Turchia, auto dalla Turchia e dall’Algeria. Il processo di finanziarizzazione dell’economia sta mettendo in discussione l’industria europea, con il risultato che le aziende fanno profitti ma mancano sia gli investimenti sia le risorse per i salari”.

Con il sindacato continentale la Fiom ha costruito una proposta fondata su due elementi. “Abbiamo anzitutto bisogno di mantenere la capacità produttiva installata, che è quella che ci ha consentito di ripartire dopo l’emergenza Covid”, illustra il leader sindacale: “E abbiamo bisogno di uscire dalla competizione tra Paesi europei e, guardando all’Italia, dalla dinamica competitiva tra regioni, approdando invece a un sistema cooperativo di politiche pubbliche”.

Serve, dunque, un confronto tra il sistema delle imprese, l’Unione Europea e il governo nazionale per realizzare un “agreement for labour and environment”. Per De Palma “è del tutto evidente che il modello continentale basato sull’export degli anni passati non regge a causa delle attuali crisi geopolitiche. Occorre far ripartire la domanda interna all’Europa, e questo si deve fare allargando la base occupazionale e aumentando i salari”.

Da un punto di vista industriale, il segretario generale Fiom rileva la necessità di “accorciare le filiere produttive e fare investimenti in ricerca e sviluppo per ridurre il dumping con altri sistemi industriali, come quelli di Cina e Stati Uniti”. Altrettanto indispensabili sono alcuni interventi straordinari: “Pensiamo a tre fondi pubblici. Il primo di investimento nei settori strategici, il secondo per realizzare l’aggregazione delle piccole e medie imprese delle filiere che lavorano sullo stesso prodotto, il terzo per dare vita a un’agenzia di ricerca e sviluppo”.

Ma c’è di più. “Occorre avviare – conclude De Palma – un osservatorio nazionale dell’industria metalmeccanica e bloccare i licenziamenti. Occorre, infine, istituire uno strumento straordinario quinquennale per accompagnare i lavoratori nell’attuale fase di transizione ecologica e tecnologica, da realizzare con un mix tra contratto di espansione per favorire l’assunzione di giovani, la formazione e la riduzione dell’orario di lavoro”.

 

Parole e figure /
Inseguendo Monsieur Degas – Strenne natalizie

Impressionismo, danza, Degas. Tre parole sotto l’albero. Finalista al Premio Andersen XXX edizione come ‘Miglior libro di divulgazione’, “Inseguendo Degas”, di Eva Montanari, ci conduce nell’effervescente Parigi ottocentesca.

Ottocento, Parigi – città del cuore, città nel cuore – e una giovane ballerina dell’Opera, che, al termine delle interminabili e dure prove generali, scopre di aver scambiato la sua borsa con quella di Monsieur Edgar Degas, il pittore che per mesi ha ritratto le ballerine mentre danzano, si riposano e chiacchierano. Accanto a lui all’Opera, il fedele cagnolino Dudù che quasi quasi conosce, ormai, anche lui i leggeri e delicati passi di danza.

Che disastro: nella borsa della ballerina c’è il tutù nuovo fiammante che deve indossare quella sera! Come farà mai ora, non può certo usare i tubetti di colore… Bisogna sbrigarsi allora, e fuori piove pure a dirotto…

La ragazza corre per la città in cerca del Maestro e incontra alcuni straordinari artisti che ritraggono la Ville Lumière di quegli anni. Incontriamo Gustave Caillebotte che coglie, sulla tela, l’impressione leggera della pioggia, volgendo lo sguardo a Monsieur Claude Monet.

Il suggerimento è che Degas, passato di lì poco prima, sia andato a mangiarsi un boccone al Moulin de la Galette, a Montmartre. Tempo di arrivarci e splenderà il sole.

La luce filtra dal pergolato: lui è lì dentro, eccolo in compagnia. Ma le ballerine sono tante, troppe. Pennellate di colori, una folla allegra e festante, un’atmosfera magica.

Il celebre Monsieur Renoir le dice che Degas si è allontanato per comprare dei colori. Bisogna correre al negozio, allora, quello di Père Tanguy. Che vetrina meravigliosa!

Nulla di fatto. Il pittore irraggiungibile sta andando a portare i colori alla pittrice americana Mary Stevenson Cassatt. Una pittrice donna, che bella e inattesa scoperta! Bisogna precipitarsi da lei. Ad aprire la porta, una modella. Degas è uscito, ancora, ora è diretto verso l’Opera dove deve dipingere il balletto di quella sera. La corsa continua.

Finalmente. La ballerina dai capelli color terra d’ombra e Degas si ritrovano poco prima dell’apertura del sipario. Lui dipinge. Sarà sempre e solo lei la protagonista.

“Degas mi mostrò la tela che stava dipingendo. Rappresentava l’Etoile, la stella dello spettacolo. E quella ballerina ero io”.

Un magnifico tributo all’Impressionismo francese, alla danza e alla favolosa città di Parigi che, a Natale, è più scintillante che mai.

Eva Montanari, Inseguendo Degas, Kite edizioni, Padova, III edizione 2022, 40 p.

Eva Montanari è nata a Rimini, e, fin da bambina, ama leggere e inventare storie con immagini e parole. Oggi è un’autrice e illustratrice e vive fra Rimini e Milano. Dal 2000 i suoi albi sono stati pubblicati in Italia, Stati Uniti, Inghilterra, Cina, Taiwan, Brasile, Spagna, Francia, Germania, Giappone e tradotti anche in Portogallo, Corea, Croazia, Finlandia, Turchia, Tailandia e Argentina. Lavora con tecniche tradizionali: matite, gessi, colori a olio, tempere acriliche e ama realizzare sculture polimateriche. I suoi lavori sono stati selezionati per l’esposizione della Fiera del Libro per ragazzi di Bologna, “Original Art”-Society of Illustrators (New York), Mostra Internazionale di Illustrazione di Sarmede, Croatian Biennal of Illustration, Nami Island Exhibition, Ilustrarte (Portogallo), Sharjan Book Fair (UAE), Little Hakka international Picture Book (China). Fra i premi ricevuti: Premio Alpi Apuane, Premio Primavera del libro, Premio Sardegna, Premio Roberta Maloberti, Premio Cassa di Risparmio di Cento, Premio Fiera del libro di Torino, Premio ministero della Cultura Spagnola, Little Hakka prize. Sito web

POVERA ITALIA.
Chi paga le tasse e chi non le paga.

Chi paga le tasse in Italia? E chi non le paga?

L’Europa (e anche l’Italia) differisce dal modello americano perché si pagano più imposte, in cambio di più servizi (welfare) come sanità, scuola, pensioni e molti altri sussidi a favore dei più fragili e bisognosi. Per questo, gli immigrati, sono attratti dai paesi nordici (Svezia, Danimarca, Finlandia, Norvegia) ma anche da Germania e Gran Bretagna che hanno forti welfare a favore dei più fragili e dove quindi le disuguaglianze sono minori.

Negli Stati Uniti si pagano meno imposte ma chi evade è fortemente perseguito al punto che un terzo dei detenuti lo è per evasione fiscale, mentre in Italia non c’è nessuno in prigione per aver evaso il fisco. Ma gli Stati Uniti non sono stati sempre così, sia nel periodo del New Deal sia negli anni ’50 si pagavano molte imposte se eri ricco e l’aliquota saliva all’80% per quei redditi che superavano la soglia dei 400mila dollari all’anno.

In Italia le entrate tributarie sono circa 860 miliardi, dei quali 295 sui consumi (iva,…), 301 sui redditi (205 di Irpef, 52 da Ires/imprese, poi addizionali locali) e 264 da oneri sociali pagati da imprese e lavoratori per pensioni e sanità. Le entrate tributarie dell’Irpef (sul reddito) sono basse anche perché circa 100 miliardi sono di detrazioni per casa, salute e altre spese, di cui usufruiscono in maggior misura i redditi medio-alti.

Le imposte sui consumi sono pagate da tutti ogni volta che acquistiamo e sono regressive, nel senso che pesano di più su chi guadagna meno.
Quelle sul reddito sono pagate per l’83% da pensionati e dipendenti (che non possono evadere in quanto hanno una trattenuta alla fonte), mentre i 5,8 milioni di lavoratori autonomi hanno un’altissima evasione stimata al 68% di quanto dovrebbero dichiarare: su 100 euro ne dichiarano in media 32 (fonte Agenzia delle Entrate, vedi la tabella sottostante)

Ciò spiega perché in Italia l’evasione fiscale sia stimata al 10,8% del gettito, mentre nella media UE è la metà (5,3%). Lo Stato italiano è gravato quindi da due zavorre: 1) 83 miliardi di evasione fiscale; 2) da 100 miliardi di interessi che paga sul debito pubblico. Quasi la somma della spesa per scuola e università (80 miliardi) e della sanità (130 miliardi).

Meno imposte, più crescita? Un’illusione

I partiti di destra sostengono che con meno imposte si rafforzerà la crescita economica. In realtà solo in alcuni casi ciò avviene quando, per esempio, imprese e lavoratori autonomi e professionisti, pagando meno imposte, fanno più investimenti o pagano salari più alti.
Nelle società dove c’è un alto senso civico pagare tutti meno tasse potrebbe in effetti produrre più sviluppo, anche se l’esperienza di 50 anni dice che ciò non è mai avvenuto e quasi sempre si è usata l’elusione fiscale (legale, cioè leggi con cui si paga meno) e l’evasione (illegale) per aumentare il proprio patrimonio immobiliare (sono 5,7 milioni le seconde case in Italia) o mobiliare (depositi in banca, azioni, obbligazioni,…).
Così si spiega perché gli italiani posseggano uno dei patrimoni liquidi (solo di depositi bancari 1.572 miliardi, senza considerare azioni e obbligazioni) maggiori al mondo. Patrimonio che però si concentra tra i ceti ricchi e abbienti, i quali si sono arricchiti pagando anche meno imposte. Il risultato è: Stato povero, maggioranza degli italiani poveri e una minoranza (20-30%) abbienti e ricchi. E lo si vede bene nelle imposte sull’eredità che da noi sono 10 volte inferiori a quelle di Stati Uniti, UK, Germania e Francia.

Da 30 anni i ricchi di tutti i paesi, grazie alla globalizzazione, o non pagano imposte sfruttando i vari paradisi fiscali o pagano sempre meno, a causa della concorrenza che i paesi si fanno tra loro per attrarli (in assenza di una regola internazionale). La UE ha imposto all’Irlanda di incassare almeno 13 miliardi di mancate imposte di Apple negli ultimi 15 anni. Così il nostro bravissimo e umile Sinner non paga le imposte in quanto residente a Montecarlo e i gli eredi Luxottica (come gli altri ricchi) pagano una cifra irrisoria di eredità.

La tendenza in tutti i paesi occidentali è ridurre le imposte sul reddito in modo però da far crescere quelle sui consumi (iva) salita in Italia al 22%.

L’attuale Governo Meloni riduce le imposte di qualcosina a 31 milioni di contribuenti dipendenti (quelli con redditi fino a 35mila euro all’anno) e favorisce col concordato anche tutti i 5,8 milioni di lavoratori autonomi. Professionisti e imprese che hanno fatturato quest’anno molto più che nel 2023 possono dichiarare un aumento “presunto” del 10% dei loro redditi, anche se nella realtà li hanno raddoppiati. Inoltre a chi concorda un imponibile anche di poco superiore a quello del 2023, si apre l’opzione di versare un’aliquota ridotta – fra il 10% e il 15% – sanando con un condono tutte le controversie aperte relative agli anni 2018-2022. Opzione offerta a chi ha una bassissima fedeltà fiscale, cioè a evasori sistemici.
Una proposta poco astuta, in quanto da un lato lo Stato rinuncia a future entrate e chi non si aspetta forti aumenti di reddito non aderirà. Se “pizzicati” dal fisco sanno di cavarsela in quanto prima o poi pensano che arriverà un altro concordato (ne sono stati fatti 10 negli ultimi 15 anni). E ciò spiega perché il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ruffini se ne sia andato (“…che ci sto a fa”).

Pagando meno tasse ed evadendole ci sono però alcuni “effetti collaterali”.
Il primo riguarda il ceto medio e alto dei dipendenti (7-8 milioni, quasi un quarto dei contribuenti) che vede crescere il suo contributo al totale delle imposte sul reddito (73% del totale).
Anche i pensionati con più dii 2mila euro al mese sono penalizzati perché sono indicizzate all’inflazione solo per il 25% e quindi anno, dopo anno, perdono potere d’acquisto. Infine non ci sono soldi per scuola, sanità e altri sussidi.

Scuola e sanità pubblica  allo sbando

La scuola e l’università versano ormai in uno stato di coma che ben conosce[1] chi ci lavora e di cui si parla poco perché, anche se ci fossero più risorse, lo stesso centro-sinistra non sa bene come spenderle (e infatti manca una proposta). Il vecchio modello educativo (specie alle superiori) è entrato completamente in crisi con studenti resi più abulici dall’uso delle app degli smartphone e indisposti a stare in classe ad imparare. Il che sta producendo un terrificante abbassamento dell’apprendimento (metà studenti sono scarsi in matematica e italiano) e l’ultima indagine Pisa dice che i nostri laureati ne sanno quanto i diplomati finlandesi.

Nella sanità la situazione è in peggioramento costante da 15 anni e sono ormai un terzo (41 miliardi) le spese che paghiamo per cure private…chi se lo può permettere di non aspettare mesi per le cure nei servizi pubblici. I poveri (7,6% della popolazione) invece non si curano più non potendo permettersi queste spese.

Se questa tendenza prosegue il sistema sanitario sarà sempre più privato (all’americana), con assicurazioni per chi può permetterselo, sapendo però che ciò comporta (per tutti) spese maggiori.
Negli Stati Uniti un’assicurazione media costa 6mila dollari all’anno per ciascun cittadino (noi ne spendiamo a testa in media 1.915 di imposte), ma spesso non consente le cure più costose e ciò spiega il consenso di massa che ha avuto tra gli americani l’omicida Luigi Mangione che ha assassinato il capo di una grande assicurazione sanitaria perché una delle pratiche diffuse nelle assicurazioni Usa (quotate in borsa) è quella che, dovendo garantire profitti agli azionisti, tagliano le cure troppo costose ed hanno una ipertrofica burocrazia (3 impiegati per medico, mentre in Italia abbiamo 3 medici per ogni impiegato amministrativo).

In un paese come l’Italia dove crescono le disuguaglianze e triplicano i poveri assoluti (da 2,1 milioni del 2006 a 5,7 del 2023) e quelli relativi (da 6,5 milioni a 8,6), afflitto da bassi salari e da una crescita di occupati solo in settori poveri (turismo, edilizia, servizi poveri), da una crisi industriale sempre più grave, da un ceto medio sempre più povero e imbufalito, potrebbe succedere al Governo Meloni (al di là dei consensi attuali) quello che è già successo a Renzi e al M5S.
Non è però chiara la ricetta dell’opposizione, vincolata da un’Europa che esige una crescente austerità fino al 2032 e con pulsioni UE-Nato al riarmo passando dall’attuale 1,57% del PIl al 3% (da 30 a 60 miliardi). Col clima che peggiora e un debito pubblico cresciuto (a valori costanti) di 53 miliardi all’anno dal 2008 al 2024, non si sa dove trovare i soldi…a meno che non si cerchino tra chi li ha. La ricetta mainstream è sempre la stessa (tecnologia & innovazione e globalizzazione) che ci ha portato fin qui.

Ma un recente studio della Luiss[2] mostra che l’investimento in scuola, sanità e protezione sociale è uno dei fattori che spiega la differenza nella crescita del reddito pro-capite, in quanto accresce il “capitale umano” generando effetti sulla produttività del lavoro e maggiore uguaglianza di opportunità. L’Italia dal 2000 al 2020 ha investito la metà (0,5%) della media UE, deteriorando il suo welfare. Nella scuola spendiamo il 4,1% del PIL e, insieme a Bulgaria, Grecia, Romania, siamo tra chi spende meno in UE. Nella sanità siamo precipitati. Ma noi insistiamo con tecnologia & innovazione, austerità e ora col riarmo. Sarebbero le basi del nostro sviluppo umano. Poveri noi.

Note:
[1] Jonathan Haidt[1] (La generazione ansiosa) la chiama la “grande Riconfigurazione”. L’introduzione dello smartphone dal 2008 ha portato l’infanzia (e adolescenti) a crescere basandosi sul telefono anziché sul gioco libero. I danni sui nostri giovani sono di portata gigantesca e spiegano, più ancora dell’economia, perché Russia, Cina e BRICS scommettono sul declino dell’Occidente.
[2] Institute for European Analysis and Policy (LEAP), presieduto da Valentina Meliciani, ordinario di Economia applicata alla Luiss su un campione di paesi della UE dal 2000 al 2022.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore.

Parole a capo
Michela Silla: alcune poesie da “Cosa c’è di vero nelle città di mare”

La notte è calda, la notte è lunga, la notte è magnifica per ascoltare storie.
(Antonio Tabucchi)

 

La testa sulle mie ginocchia

occhi farfalla

volto alba

dove tutto inizia
ora e sempre.

Mi chiedi le rondini dove vanno,
se si perdono.

 

*

 

I passi che hai fatto
verso me controvento,

le porte del treno
su nero feroce.

Sono oceani
le strade che prendi.

 

*

La notte arida di zolle,

ti cercavo dal crinale
ma non guardavo la cima –

ora che niente è come prima,
dall’alto mani operose
case crollanti, veli di spose,

svolgi per noi corde di luce;
calano adagio da spazi tra nubi.

 

*

 

Non vinceranno
la foglia secca sul ciglio della via
o i muri grigi di periferia,

ma l’abbraccio, la preghiera,
l’odore del pane,
la dolcezza della sera;

la mattina presto l’aria pungente
che dice: sei ancora qui

e non hai capito niente.

 

*

 

Notte di gigli, si apre il mare,
la medesima incoscienza
della stella che si lascia cadere.

 

*

 

Maestrale spezza i rami,
il cielo è fermo,
non cede.

 

 

Michela Silla, nata a Cagliari nel 1984, è laureata in Lettere e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filologia, Letteratura italiana, Linguistica. Attualmente vive a Firenze e insegna italiano lingua seconda e strategie creative per gli insegnanti di lingua. Ha pubblicato Limpida a guardare (Transeuropa Edizioni, 2022) e i suoi testi sono apparsi in alcune riviste letterarie. È attiva nel panorama culturale e artistico di Firenze dove cura la rassegna poetica “Il prodigio della lingua nella poesia”. In Parole a capo sono uscite alcune altre sue poesie il 15 febbraio 2024.

Ringrazio l’autrice per avere autorizzato la pubblicazione di questi versi tratti dal suo nuovo libro “Cosa c’è di vero nelle città di mare“, edita da CartaCanta (Capire Edizioni), 2024, nella collana diretta da Davide Rondoni “I Passatori – Contrabbando di poesia”. Il libro è acquistabile in libreria e negli store online. 

NOTA REDAZIONALE: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 263° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Appello: Israele, Palestina e Italia, uniti contro la guerra

Israele, Palestina e Italia, uniti contro la guerra

Il 15 dicembre, Giornata nazionale dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, è stata resa pubblica la Dichiarazione congiunta di obiezione di coscienza alla guerra di tre movimenti che lavorano insieme in Israele, Palestina e Italia.

Con questo documento (non il solito appello, ma un’assunzione di responsabilità), che presentiamo nelle lingue dei tre movimenti, ci impegniamo a sostenere azioni concrete nei prossimi mesi in Italia, in Israele e Palestina, chiedendo il sostegno (morale, economico, operativo) di tutti coloro che vogliono favorire un processo di pace.

Il testo che segue è uno dei frutti del lavoro di solidarietà internazionale con i gruppi misti che il Tour in Italia, sostenuto dalla Campagna di Obiezione alla Guerra, promosso dal Movimento Nonviolento con le associazioni israelo-palestinesi Mesarvot e CPT ha generato.
È scritta in arabo, ebraico, italiano, la Dichiarazione congiunta dei tre movimenti pacifisti che lavorano come “gruppo misto” di obiezione alla guerra.

Israele, Palestina e Italia, uniti contro la guerra.
Dichiarazione congiunta per un comune lavoro di pace

a partire dall’obiezione alla guerra

إعلان مشترك من أجل العمل لسلام مشترك،
رفض الحرب والاحتلال

הצהרה משותפת למען פעילות שלום משותפת,
מסרבים למלחמה ולכיבוש

 La violenza genera violenza, il sangue chiama altro sangue, e noi siamo determinati a spezzare questo ciclo che altrimenti conduce alla morte e alla distruzione reciproca di tutti. Siamo obiettori di coscienza e resistenti nonviolenti che hanno scelto la nonviolenza, convinti che sia per noi la forma migliore di resistenza al male, a difesa della vita, della giustizia e dei diritti di tutti.

العنف يولد العنف، والدم يدعو إلى مزيد من الدماء، ونحن عازمون على كسر هذه الدائرة التي تؤدي إلى الموت والدمار المتبادل للجميع. نحن المستنكفين ضميريًا والمقاومين السلميين اخترنا اللاعنف، مقتنعين بأنه أفضل شكل من أشكال المقاومة للشر، دفاعًا عن الحياة والعدالة وحقوق الجميع.

אלימות מולידה אלימות, דם קורא ליותר דם, ואנו נחושים לשבור את המעגל הזה שאחרת מוביל למוות ולהרס הדדי לכולם. אנחנו סרבני מצפון ומתנגדים לא אלימים שבחרו באי אלימות, משוכנעים שזו הדרך הטובה ביותר להתנגד לרוע, להגן על החיים, הצדק והזכויות של כולם.

 

Attraverso l’obiezione di coscienza e la resistenza nonviolenta, lavoriamo per ripristinare la giustizia per tutti, dalla quale può sorgere la pace. E la pace, a sua volta, promuoverà la giustizia e il rispetto del diritto. “Giustizia e pace si baceranno,” è scritto nei testi sacri per ebrei, cristiani e musulmani.

من خلال الرفض الضميري والمقاومة السلمية، نسعى إلى استعادة العدالة للجميع التي منها سينبثق السلام. والسلام بدوره يعزز العدالة واحترام القانون. “العدل والسلام يتبادلان القبلة”، كماورد في النصوص المقدسة لليهود والمسيحيين والمسلمين على حد سواء.

באמצעות סרבנות מצפון והתנגדות לא אלימה, אנו שואפים לשקם את הצדק לכולם, שממנו יוכל לצמוח השלום. שלום, בתורו, יקדם צדק וכיבוד החוק. “צדק ושלום יתנשקו”, נכתב בטקסטים הקדושים של יהודים, נוצרים ומוסלמים כאחד.

 

Già lavoriamo insieme – israeliani, palestinesi, italiani – per difendere il diritto umano fondamentale all’obiezione di coscienza e il diritto di tutti a vivere in pace e libertà. Le armi e le voci dell’odio devono tacere per lasciare spazio alla verità e alla riconciliazione. Chiediamo un immediato cessate il fuoco, che noi stessi abbiamo già attuato, lavorando insieme come gruppi misti per dimostrare che la collaborazione, anche in mezzo a una radicata oppressione, può piantare i semi di un futuro più giusto e pacifico.

نحن نعمل معًا – إسرائيليون وفلسطينيون وإيطاليون، للدفاع عن الحق الإنساني الأساسي في الرفض الضميري وحق الجميع في العيش بسلام وحرية. يجب إسكات الأسلحة وأصوات الكراهية لإفساح المجال للحقيقة والمصالحة. نطالب بوقف إطلاق النار الفوري، وهو ما قمنا به بالفعل من خلال العمل معًا في مجموعات مختلطة، مما يظهر أن التعاون، حتى وسط القمع العميق، يمكن أن يزرع الآن بذور مستقبل أكثر عدلاً وسلامًا.

אנחנו כבר עובדים יחד – ישראלים, פלסטינים, איטלקים – כדי להגן על זכות האדם הבסיסית לסרבנות מצפונית והזכות לחיות בשלום ובחופש. יש להשתיק את כלי הנשק ואת קולות השנאה כדי לפנות מקום לאמת ולפיוס. אנו דורשים הפסקת אש מיידית, אותה כבר יישמנו בעצמנו על ידי עבודה משותפת בקבוצות מעורבות, ומוכיחים כי שיתוף פעולה, גם תחת דיכוי עמוק, יכול לשתול כבר עכשיו את זרעי עתיד צודק ושלו יותר.

 

Conosciamo la forza della nonviolenza come stile di vita e come potenza capace di contrastare l’ingiustizia, la violenza e la guerra. Lavoriamo sia per resistere nonviolentemente alla guerra sia per favorire trasformazioni sociali, promuovendo una cultura di pace. Crediamo nella libertà, nella democrazia e nei diritti umani, e ci impegniamo per un rispetto reciproco tra i nostri popoli.

نحن نعرف قوة اللاعنف كأسلوب حياة وكقوة عظيمة لمواجهة الظلم والعنف والحرب. نحن نعمل على مقاومة الحرب بطريقة سلمية وتحقيق التحول الاجتماعي وتعزيز ثقافة السلام. نحن نؤمن بالحرية والديمقراطية وحقوق الإنسان، ونسعى إلى الاحترام المتبادل بين شعوبنا.

אנו מכירים בעוצמתה של ההתנגדות הבלתי-אלימה כדרך חיים וככוח אדיר להתמודדות עם אי-צדק, אלימות ומלחמה. אנו פועלים הן להתנגדות למלחמה בדרכי שלום והן להשגת שינוי חברתי, תוך טיפוח תרבות שלום. אנו מאמינים בחירות, בדמוקרטיה ובזכויות אדם, ואנו שואפים לכבוד הדדי בין עמינו.

 

La coscienza individuale è una difesa contro la propaganda di guerra e può proteggere i civili dal coinvolgimento in guerre di conquista e oppressione. Faremo tutto ciò che è in nostro potere per proteggere il diritto umano all’obiezione di coscienza al servizio militare nelle nostre comunità.

الضمير الفردي هو حصن ضد دعاية الحرب ويمكن أن يحمي المدنيين من الانخراط في حروب الغزو والقمع. سنبذل قصارى جهدنا لحماية الحق الإنساني في الرفض الضميري للخدمة العسكرية في مجتمعاتنا

המצפון האישי הוא מגן מפני תעמולת מלחמה ויכול להגן על אזרחים מפני מעורבות במלחמות כיבוש ודיכוי. נעשה כל שביכולתנו כדי להגן על הזכות האנושית לסרבנות מצפון בשירות צבאי בקהילותינו.

 

L’occupazione militare israeliana della terra destinata al popolo palestinese è da lungo tempo fonte di oppressione, una violazione del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dei palestinesi: il diritto di esistere come persone libere e sovrane. Questa occupazione, che ha causato profonde ingiustizie e sofferenze insostenibili, è aggravata da altre forme di violenza contro civili inermi, a cui si risponde con la brutalità delle stragi di civili innocenti a Gaza, alimentando la spirale di odio e vendetta: finché esiste l’oppressione, la resistenza persisterà. Per interrompere questo ciclo vizioso, è necessario abolire il sistema di occupazione e apartheid che lo genera.

منذ مده طويله يشكل الاحتلال العسكري الإسرائيلي للأراضي الفلسطينية مصدرا للقمع، وينتهك القانون الدولي والحقوق الأساسية للفلسطينيين: الحق في الوجود كشعب حر وذو سيادة. هذا الاحتلال، الذي تسبب في ظلم عميق ومعاناة لا تطاق، يزداد سوءًا بأشكال أخرى من العنف ضد المدنيين الأبرياء، كالمجاز الوحشية التي ترتكب بحق المدنيين الأبرياء في غزة، هذا العنف يؤدي إلى تصاعد دوامة الكراهية والانتقام: طالما استمر القمع، ستستمر المقاومة. لكسر هذه الدائرة العنيفة، يجب إلغاء نظام الاحتلال ونظام الفصل العنصري الذي يولدها.

הכיבוש הצבאי הישראלי של אדמות הפלסטיניות הוא המקור של הדיכוי, ומהווה הפרה של המשפט הבינלאומי ושל הזכויות הבסיסיות של הפלסטינים, כולל את הזכות להתקיים כעם חופשי וריבוני. הכיבוש הזה, שגורם לעוולות עמוקות ולסבל בלתי נסבל, מייצר צורות אחרות של אלימות המופנות כלפי אזרחים תמימים, המלוות באכזריות של טבחים באזרחים תמימים בעזה, ומתדרדרות לספירלה של שנאה ונקמה: כל עוד יהיה דיכוי, ההתנגדות תימשך. כדי לשבור את המעגל האכזרי הזה, יש לבטל את משטר הכיבוש ואת משטר האפרטהייד המוליד אותו.

 

Tutto questo deve finire.
Ci sentiamo uniti e siamo solidali con chi soffre per qualsiasi guerra nel mondo oggi.

هذا يجب أن ينتهي.
نحن شعر بالوحدة والتضامن مع كل من يعاني من أي حرب في العالم اليوم.

זה חייב להסתיים.
אנו מרגישים מאוחדים ועומדים בסולידריות עם כל קורבן מלחמה בעולם כיום.

 

Community Peacemaker Teams – Palestine

Mesarvot  – Israel

Movimento Nonviolento – Italia