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Ferrara film corto festival

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Presto di mattina /
In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 2. parte

(Continua. Per leggere In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano –  1. parte clicca sul titolo)

Presto di mattina. In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 2. parte

Una storia della spiritualità uscita dalle persone

Dopo il primo volume del 1989, seguito da quello del 1997 si aggiunse anche il Profilo di storia della spiritualità, che, al di là delle differenze e delle vicende storiche non immediatamente collegabili, rappresenta il filone unificante, quello della spiritualità, ad un livello più alto delle vicende storiche e istituzionali: (A. Samaritani, Profilo di storia della spiritualità, pietà e devozione nella Chiesa di Ferrara-Comacchio. Vicende, scritti e figure, Reggio Emilia 2004).

È questo uno studio ricapitolativo di tutto il percorso euristico e storiografico di Samaritani sulla chiesa locale. Un testo, va tuttavia sottolineato, per nulla riassuntivo. Semmai, come si direbbe oggi, un “ipertesto”. Un ambiente testuale con molteplici accessi; un’agorà in cui convergono e ripartono innumerevoli percorsi narrativi. Un volume in cui vengono ricreate situazioni narrative, esistenziali e storiche, come porte di una città che conducono ai suoi primitivi testi e alle loro successive elaborazioni in una forma nuova: una universitas testuale.

Egli ricordava ancora che storia istituzionale e storia della spiritualità non hanno ragione di correre parallele, «c’è una compenetrazione profonda, per cui l’istituzionale non si capisce senza lo spirituale, mentre lo spirituale ha la sua evidente esplicazione istituzionale» (Radici della spiritualità ferrarese, in Boll. Eccl., 2 /1993, 345).

Così per Samaritani la storia della spiritualità non fu a compartimenti stagni, mero esercizio storiografico, ma si intrecciò con la storia religiosa, con quella economica e sociale. La fatica della ricerca minuziosa altro non fu, alla fine, che il mezzo per offrire più spessore di autenticità e di qualità storica. Per il tipo della spiritualità ferrarese sembra emergere un profilo tendenzialmente statico, che comprende però una grande capacità di mediazione nella pastorale tra il nuovo e il vecchio.

Fare lo storico è stato così per lui una vocazione nella vocazione; una chiamata ad educare, condurre fuori e oltre, che impegnava a ritrovare sé stessi, rischiandosi con la propria realtà sociale, culturale e religiosa in relazione. Al tempo stesso, egli ambiva a vivere relazioni veramente comunicative di senso e di esperienza con gli altri, al fine di rendere più disponibili e motivati come presenza riflessiva e fattiva qui e ora nel nostro tempo di umanità e spiritualità.

Samaritani al vivo, dentro la sua opera

Viene così da fare un raffronto tra Samaritani, medievista e storico pomposiano, con la figura bella ed efficace che Bernard Guenée dà dello storico medievale alla voce “Storia”, nel Dizionario dell’Occidente medievale: «Nel Medioevo lo storico si nasconde spesso dietro la sua opera. Per comprendere quanto ha voluto fare non vi è altra risorsa che analizzare l’opera stessa. Tuttavia, più spesso di quanto non si creda, l’autore compare nel suo racconto e, soprattutto, si preoccupa di dire, nel prologo, quali siano stati i suoi fini e i suoi metodi».

Così è stato anche per Samaritani; bisogna infatti cercare soprattutto nelle presentazioni, prefazioni o introduzioni il suo sentire più vivo e le glosse che disvelano i significati del suo cercare come storico e umanista. In questi brevi testi egli ha nascosto il suo metodo storiografico, ma molto di più la sua passione per la vita e per la gente, il suo amore a Cristo e alla chiesa per vivere la fraternità.

Anche per lui come per uno storico medievale «la storia è un racconto semplice e vero destinato a trasmettere alla posterità la memoria di quanto è accaduto. Anche la liturgia aveva il compito di riprendere ogni anno la vita di Cristo e dei santi. Come la liturgia, la storia è strumento di memoria» (ivi, Einaudi, Torino 2004, 1123).

La sua bibliografia del 2015 si compone di 419 titoli tra libri articoli e presentazioni. L’apparato critico e la bibliografia nelle note che corredano le sue ricerche danno le vertigini. Osservava Luciano Chiappini, presentando la bibliografia del 1996:

«C’è in monsignor Samaritani un’estrema attenzione alla ricerca dei dati e delle notizie. I suoi lavori ne traboccano in misura straordinaria. Ma non si tratta di una forma, sia pur rara e sorprendente, di erudizione. Il dato e la notizia sono sempre considerati in funzione del quadro complessivo, del giudizio di assieme» (Cfr. “Acti laboris comes est laetitia; del comune, compiuto lavoro è compagna la gioia”, Quaderno Cedoc SFR 30/2015).

Ma se si vuole guardarlo negli occhi a capolino sopra gli occhiali mentre vi racconta la sua storia, occorre immergersi nella la sua autobiografia: Vicende e pensieri di un prete della Bassa Ferrarese della seconda metà del secolo XX, Cartografica, Ferrara 2014.

Credo di poter dire della sua autobiografia quello che Michel de Certeau scrisse a proposito del Memoriale di Pierre Favre, uno dei primi compagni di S. Ignazio: «volle prendersi il tempo per avviare una conversazione con sé stesso, modo per intraprenderne una con Dio… Un modo per rintracciare l’azione di Dio che costruisce dal di dentro non soltanto ciascuna persona, ma l’umanità intera, l’autentica storia».

presto di mattina antonio samaritaniCosì Samaritani scrive nella premessa delle sue memorie: «Ho scritto queste mie personali note, quasi sospinto da un bisogno incoercibile di chiarire a me stesso (e per poi lungamente meditarle) sulla piccola vicenda della mia esistenza e anche perché i miei fratelli, sorelle, nipoti, congiunti e amici meglio mi potessero conoscere e capire. Potranno, queste note, eventualmente e senza alcuna presunzione, costituire un minimo contributo alla storia della vita religiosa, ecclesiale, locale e risultare infine una marginalissima testimonianza, fra le tante, delle vicende della Chiesa in Italia, nelle sue fasce più periferiche e meno significative, prima e dopo il Concilio»(ivi, 23).

Microstorie

Vi è, credo, una parola chiave che può servirci come guida per attraversare i sentieri testuali delle sue innumerevoli pubblicazioni e che connota significativamente la ricerca storica di mons. Samaritani: essa è “microstoria”, in grado di declinare lo spirito di Samaritani come storico con il suo desiderio di voler intravedere qualcosa “più giù” ancora, di quanto già avesse scovato nei sotterranei della storia, per scendere di livello e rendersi conto degli strati più bassi, di ciò che in essi è segno flebile o appena affiorante.

Egli era infatti convinto che panoramiche storiche omnicomprensive sono irrimediabilmente affette dall’astrattezza. La storia si costruisce con i frammenti della vita; anzi la storia dei piccoli è l’unica vera storia.

L’ambito della “microstoria” si rivela così per Samaritani campo pionieristico che individua piste di ricerca innovative. Una microstoria che diventa punto di convergenza della vicenda spirituale e di quella umanistica, cono di luce veritativo, rivelativo e critico insieme, per comprendere con più autenticità la “macrostoria”.

Al convegno del 22 novembre 2014 a Cento nella sede della Partecipanza Agraria, organizzato per ricordare mons. Samaritani, presentando la sua autobiografia, ho cercato di mostrare la relazione tra questo testo e la sua bibliografia: di questa ne costituisce la chiave e l’orizzonte interpretativo, pur nella pluralità e differenza degli argomenti, che spaziano dal medioevo all’attualità, da studi corposi a recensioni o presentazioni di poche pagine. Il memoriale fa percepire i singoli titoli bibliografici in un insieme organico; sfaccettature di un prisma che narrano di un’unica esperienza umana e spirituale nel suo divenire complesso, evolutivo e storico: la sua imago hominis.

Dal nostro passato una vocazione alla sinodalità da vivere oggi

Per Samaritani i dati, le notizie che trovava spigolando negli archivi, come le stesse persone, erano sempre valutati nel loro quadro complessivo, nelle loro situazioni esistenziali. Non sorprende dunque la sua spiccata tendenza a porre la storia passata in relazione all’attualità, quasi ci fosse in essa un orientamento, una bussola per la vita civile ed ecclesiale dell’oggi. Lo studio del passato è in vista del vivere nel presente per intravederne spiragli di futuro.

Così, dalle sue ricerche nel passato della nostra storia e territorio, emerge una vocazione plurale, come ordito che tiene unite diversità non locali. Lo rivela un aggettivo preso dai suoi testi: “sinecistico”, che richiama l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti, estranee, “allogene”, direbbero gli storici,  per riferirsi a popoli e culture non originarie del sito, nate altrove.

È l’abitare insieme nella casa con altri diversi da noi, realizzata proprio dalla e nella convivialità delle differenze; vocazione dunque unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, tendenti a far confluire stili di vita culturali, religiosi e sociali, in modi “distinti ma non dissociati”, in uno scambio reciproco e convergente.

«A modesto parere, – scrive Samaritani – a salvare, rivalutare e perpetuare il patrono civico, il suo duomo e l’unità civica anche in età postridentina, sta la vocazione sinecistica originaria di Comacchio, rilevabile pure in campo ecclesiale» (in La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo medioevo, Bologna 1986, 14).

Anche Cento costituisce una filigrana multipla di esperienze di storia, di spiritualità e di umanità con i suoi quattro borghi “gemmati”, borgo di mezzo fu chiamato il primo, con i suoi Allodieri, piccoli proprietari coltivatori di libere terre, con i Fumanti, gente benestante non originari del luogo e con gli immancabili poveri: «Quei poveri che non conobbero Francesco né nel terz’ordine, né nelle confraternite a base, purtroppo, categoriale», (Il laicato francescano…, Palestra del Clero, 58/1979, 17).

Una vocazione comunitaria alla mediazione e all’integrazione

Ma questo vale anche per Ferrara e la sua storia spirituale. Nel carattere ferrarese e nella spiritualità della chiesa diocesana, è riscontrabile «un timbro di sintesi, non di avanguardia». Ritroviamo anche qui una vocazione ricapitolativa che struttura il profilo identitario locale, interagendo o integrando diversità originarie e provenienti da altrove.

Prova ne sia che il patrono San Giorgio non è un proto-vescovo, né un martire della chiesa locale, ricorda sempre Samaritani, ma viene da fuori: è un santo neo-comunitario, anche se immigrato, un guerriero. Ma proprio grazie al suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione.

Le sue rappresentazioni, quella nella lunetta del protiro come quella nella scultura bronzea presso la tomba del vescovo Ruggero Bovelli in Cattedrale, rappresentano in sintesi il processo di integrazione delle diversità da guerriero con la lancia in resta a pacificatore con la lancia in riposo: come a dire il passaggio di Ferrara da presidio militare a città umanistica.

San Giorgio è scelto così come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto, civis optimo iure, in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno scelto come mediatore.

Antonio Samaritani ha condotto i suoi studi per circoscrizioni territoriali, le Chiese locali. Queste ricerche sono risultate ben definite nella loro dimensione geografica e tuttavia mai anguste, in quanto connesse ad un orizzonte più ampio, sia di letteratura storica sia di ambientazione geografica. Fu la sua cifra stilistica, la capacità di declinare insieme universale e particolare, centro e periferia attraverso un’interazione policentrica.

Parlare di chiese locali ha significato per Samaritani anche riconoscere loro una soggettualità in relazione. Tanto che la loro vocazione sinecistica equivale, nel vocabolario ecclesiale, a vocazione alla sinodalità. La sinodalità è la forma della chiesa, non solo un metodo di convivenza tra diversi, ma una postura interiore ed esteriore del suo abitare nel mondo, tra la gente, con il vangelo.

Attraverso l’esercizio della sinodalità la chiesa è chiamata a esprimere il suo mistero, la comunione che unisce pluralità differenti; e la sua totalità, la sua forma catholica /unita, non è data da una somma di chiese ma dalla loro comunione che unisce differenziando come l’amore.

Il sogno della terra

«Terra, non è questo quel che tu vuoi: risorgere invisibilmente entro di noi?».

Il desiderio della terra è come quello delle storie della povera gente: risorgere in noi. Così ha fatto don Tonino per sé e per noi. Questa potente espressione poetica di Rilke dice bene il servizio ecclesiale e civile di Samaritani, come storico della chiesa.

Far riemergere dentro di noi le coordinate storiche e interpretative del genio cristiano della nostra chiesa diocesana, e non in parallelo ma compenetrandosi con la storia della città, del suo territorio delle sue genti. Di più: essa esprime l’indole e le ragioni dell’amore di don Tonino per la storia minuta, il suo essere incline alle storie della povera gente perché è lì che la terra, l’umano che si trova in essa, hanno bisogno di risorgere, di essere portati alla luce, da noi e in noi.

La storia è come la terra, una soglia che lo storico e pure gli amanti attraversano perché è di coloro che amano e si amano, come ci rammenta Rilke: «logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto consunta, anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo… leggermente».

E questo per fare entrare in noi la viandante umanità – noi pure viatores e velatores dell’umano direbbe Samaritani, narrando altre storie, incrociando altre vite e accompagnarle entro il mistero di un’altra storia invisibile, di una terra e nuova umanità: «Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro vengon meno… Innumerabile esistere mi scaturisce in cuore».

Non è facile e non è tutta qui la IX elegia di Rilke. È solo il respiro, un battito appena di  un mistero di speranza sepolta che sogna la luce, a cui anche le storie più crudeli anelano, sospirando il riscatto, il capovolgimento del destino celato nell’attesa di risurrezione.

Ma perché, se è possibile trascorrere questo po’
d’esistenza
come alloro, il verde un po’ più cupo
di tutto l’altro verde, le piccole onde ad ogni
margine di foglia (sorriso di brezza) – perché
costringersi all’umano e, evitando il Destino,
struggersi per il Destino?…

Non per curiosità o per esercizio del cuore,
questo, anche nel lauro sarebbe…
Ma perché essere qui è molto, e perché sembra
che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste
effimere
che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri.
Ogni cosa
una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.
E anche noi
una volta. Mai più. Ma quest’essere
stati una volta, anche una volta sola,
quest’essere stati terreni pare irrevocabile.
E così ci affanniamo, e lo vogliamo compiere,
vogliamo contenerlo nelle nostre semplici mani,
nello sguardo che ne trabocca e nel cuore che non ha
parola…
Anche il viandante dal pendio della cresta del monte,
non porta a valle una manciata di terra,
terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,
pura, la genziana
gialla e blu. Forse noi siamo qui per dire: casa
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre. Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,
nell’intimo,
mai intendevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta
di questa terra che sa tacere, quand’essa sollecita gli
amanti così
che ogni cosa, ogni cosa s’esalta nel loro sentire?
Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto
consunta,
anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo…
leggermente.

Terra, non è questo quel che tu vuoi, invisibile
risorgere in noi? – Non è questo il tuo sogno,
d’essere una volta invisibile? – Terra! invisibile!
Che è mai, se non trasmutamento quello che sì
pressante ci commetti?
Terra, tu cara, accetto. Oh, credi, non ci sarebbe più
Bisogno
delle tue primavere per guadagnarmi a te, una,
ah, una sola è fin troppo per il sangue.
Da lungi e senza nome io mi dichiaro a te.
Tu eri sempre nel giusto, e la tua santa pensata
è la confidenza con la morte.
Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro
vengon meno… Innumerabile esistere
mi scaturisce in cuore.
(Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Torino, Einaudi, 1978, 55)

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Presto di mattina /
In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 1. parte

Presto di mattina. In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 1. parte

Una prossimità di storia e di vita: sulle tracce della povera gente

«Incline per indole alla storia minuta quotidiana della gente qualsiasi, ho preferito guardare in faccia a quello che mi sembrava il reale, senza orpelli ma senza precomprensioni di favore o di sfavore, in libertà di spirito» (Vita religiosa e autoriforma (cattolica) nella Cento pretridentina (aa 1423-1539), Cento 2008, 3).

In queste poche righe Antonio Samaritani ci ha lasciato intravedere un tratto significativo della sua personalità, del suo sentire e declinare la storia in umanesimo e spiritualità, “amando cordialmente povertade”, direbbe Beltramo de Rupta di Ferrara, eremita con sensibilità pastorale vissuto nel sec. XV. «Lo studio della storia della Chiesa – mi disse in un incontro a Cento – necessita di persone nascoste, di condizione umile, che si interessino degli umili».

In un’intervista su Innovazione (aprile 1993, 5) Samaritani alla domanda: “Cosa ha significato per lei questo impegno di studio e di ricerca?” rispose: “È stato, e lo è tuttora, un realizzo interiore e personale. Una continua ricerca, approfondimento e riscoperta della fede. La storia la vivo come un approccio concreto verso la Verità, una strada angusta ma sicura verso il mistero di Dio».

Molto prima, in un’altra intervista a Il Resto del Carlino del 26 giugno 1979, in occasione del Convegno sulla Cattedrale cittadina, in merito alla sua predilezione per la storia medievale del territorio ferrarese, rispose senza indugiare: «È la storia della povera gente dei secoli X e XI. L’attività caritativa del mondo monastico, dei conversi (i monaci più poveri), dei servi della masnada (i feudatari più umili), è tipica della nostra terra e del Friuli».

Aggiungendo che la storia medievale è un “fermento pluralistico” «con il Medioevo abbiamo rivisto le nostre convinzioni: I poveri di Cristo – Istituto di carità durato dalla fine del ‘300 alla metà del ‘500 – emblematizza il medioevo spirituale per molte diocesi d’Italia e la stessa ‘devotio moderna’ si ispira ai francescani. Chiamiamo in causa, con il Medioevo, anche il Comune di Ferrara perché la nostra storia non si ferma intorno all’area degli estensi».

È solo grazie all’investigazione di minuti e poveri reperti, quali sono le disposizioni testamentarie, che mons. Samaritani ci ha testimoniato che: «L’anima più profonda della mentalità religiosa ferrarese dal 1095 al 1399 è da trarsi dalle due grandi direzioni in cui è andata ad articolarsi la religiosità cittadina: il versante della pietà e quello della carità» (La Chiesa di Ferrara tra pieno e basso medioevo, in La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio, I, 413, infra).

Un Convegno per ricordarlo

Oggi nel X anniversario della morte, il 18 novembre 2013, l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio unitamente all’Archivio Storico Diocesano ha organizzato un convegno per ricordarne la figura e la ricerca storiografia in ambito pomposiano, ferrarese e centese. Il convegno si articola in due sessioni, la prima nella mattinata a Cento, l’altra nel pomeriggio in Ferrara a Casa Cini.

Antonio Samaritani, nato a Comacchio il 25 maggio 1926 è ordinato sacerdote a Cento l’11 giugno 1949. Ottenne la laurea in teologia, indirizzo storico, presso la Pontificia Università del Laterano nel 1955. Dal 1969 fu docente presso il Seminario di Ferrara nonché presidente dell’Istituto di cultura “Antica Diocesi di Comacchio” a partire dal 1986 (anno di fondazione) sino al 2004.

Fu socio effettivo della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria dal 1960 e consigliere dal 1985. Iniziò la vita pastorale come vicario parrocchiale a Lagosanto dal 1949 al 1952, fu direttore spirituale del Seminario di Comacchio dal 1950 al 1952, poi parroco di Medelana dal 1956 al 1976. Dopo il gravissimo incidente del 1974, dal 1977 si stabilì a Cento, vicino ai familiari; in quell’eremo di pazienza poté quindi dedicarsi a tempo pieno alla ricerca storica e agli studi, alla preghiera di intercessione e al ministero dell’ascolto delle persone.

Storico pomposiano

Abbazia di Pomposa

Samaritani fu editore e curatore degli statuti civili duecenteschi dell’abbazia di Pomposa e poi nel 1963, dei regesti delle prime 860 pergamene (dall’a. 874 all’a. 1199). Questa ricerca documentaria e gli studi sull’Abbazia pomposiana proseguiti in seguito lo designarono “storico pomposiano”.

Decisive in questa sua opera furono le vicende che portarono Samaritani all’acquisizione delle carte di Pomposa presenti a Montecassino; un “recupero tormentato”, un lavoro fatto in collaborazione con l’Istituto dei Beni culturali di Bologna e che sortì l’acquisizione in microfilm del Codice diplomatico del monastero cassinese.

Al suo nome, o meglio, al suo decisivo impulso iniziale è indissolubilmente legata la collana degli Analecta Pomposiana, iniziata nel 1965 con il volume celebrativo del IX centenario del campanile di Pomposa.

Una circostanza che dette avvio al Centro italiano di studi pomposiani, cui si affiancò l‘Istituto per la storia religiosa delle diocesi di Ferrara e Comacchio. (Le origini del monastero di Pomposa fra VI e X secolo, in Analecta Pomposiana, 15 (1990), 15-36.

Alla salvezza si giunge piangenti

Al Convegno Delta chiama Delta del 1996 al Lido degli Estensi in vista del Giubileo del 2000, che affrontava il tema dello stretto rapporto tra religiosità e territorio circostante, Samaritani ricordava che la realtà deltizia del Po è «la realtà antica di una civiltà navigatrice che ha saputo estendere i propri rapporti commerciali fino al Reno, al Rodano, al Danubio ed oltre.

La storia del Delta del Po affonda le proprie origini nel ritrovamento della Stele funeraria di Aufidia Venusta, – una donna ancora pagana del nostro territorio vicoaventino, nel primo secolo dell’era cristiana – rinvenuta tra Argenta e Portomaggiore, riportante lo strazio di una madre privata dell’unico figlio.

La sofferenza della donna, indirizzata ai viandanti “per terra e per fiume” è da considerarsi come l’espressione più autentica dell’indole del popolo deltizio. È con le lacrime agli occhi che si giunge alla salvezza. Emblema significativo dell’emarginazione e della solitudine che caratterizzavano, insieme ad una profonda solidarietà, il carattere degli abitanti del Delta del Po.

La connessione tra la natura tipica della zona e l’insediamento in loco di comunità religiose dedite alla meditazione pressoché eremitica fu amplificata dall’edificazione dell’Abbazia di Pomposa. Centro da cui fu diffuso il messaggio solidale; essa forse in epoca carolingia fu di grande rilievo in quanto anello di congiunzione tra la civiltà ecclesiastica e quella laica; dall’Abbazia, infatti, partì la nuova concezione del pensiero benedettino che, per la prima volta, affiancava al pellegrinaggio la solidarietà, il martiro e l’evangelizzazione come una pacifica crociata» (Fonte, La Nuova Ferrara, 14.9.1996).

«Mediazione e lacrime»

Mediazione e lacrime costituiscono per Samaritani i tratti spirituali dei luoghi a connotazione valliva e fluviale, come i nostri, impregnati da un vangelo latente nella sua gente. Ma proprio in questo contesto di marginale espressione spirituale, proprio in questo retaggio di condizione minoritaria, rispetto ai grandi flussi e figure della spiritualità cristiana, – viene da dirsi infatti: quale buon saluto, quale evangelium possono mai annunciarci il silenzio degli eremiti e le lacrime di una madre e per giunta pagana, in lutto per il figlio morto?

Proprio nella umilissima semplicità di una annunciazione, di un saluto inciso sulla pietra: “Salvete et bene valete”, con cui questa donna, pur schiacciata dal male, augura il bene ai viatores e ai velatores di passaggio, praticando così la regola d’oro gesuana fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi (Mt 7, 12-14), si rivela così la buona notizia del Regno di Dio, la sua più struggente priorità, quella di consolare e di farsi carico delle lacrime e del dolore degli uomini.

Così è nata la ricerca di una storia “altra”

Samaritani fu sempre alla ricerca per sé e per gli altri di una “storia altra”, come ricorda lo storico francese Fernand Braudel. Tanto da scrivere nell’introduzione al libro su mons. Ruggero Bovelli di A. Baruffaldi circa l’esigenza di una «biografia diversa, “altra appunto”, che potesse evidenziare «quel “particulare” esistenziale tutto bovelliano di accattivante umanità»; come a dire: la storia minuta, le microstorie della povera gente.

Il percorso storiografico di mons. Samaritani fu proprio quello di istruire piste di ricerca e studi coinvolgendo altri studiosi in un tracciato interdisciplinare che facesse emergere profili di religiosità e di civiltà locali, marginali e dunque a valenza e significato sociale e mai disgiunte tuttavia dal contesto storico globale, tenendo insieme e avendo presente sia gli avvenimenti che le strutture: una ricerca che si muovesse dentro e fuori porta, “tra Istituzioni e Società”.

Due secoli dopo il Compendio della storia sacra e politica di Ferrara, Bologna, Forni, 1972 del Manini Ferranti, ecco uscire i due volumi: A. Benati – A. Samaritani, La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio, I, secoli IV-XIV, Corbo, Ferrara 1989 e II, secoli XV-XX, L. Chiappini, W. Angelini, A. Baruffaldi, coord. A. Samaritani, Corbo, Ferrara, 1997.

Quest’opera è rivelativa e programmatica di uno stile, del declinare insieme chiesa e società, presenza religiosa nella città e nel territorio così da evidenziare il carattere “soggettuale”, relazionale della chiesa diocesana, come chiesa situata in loco, protesa verso l’altro.

Una storia innovativa

Così Samaritani commentava l’esito di quella ricerca: «Innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a fissare il rapporto tra comunità religiosa e comunità civile della Chiesa ferrarese. E questo a livello, ad un tempo, scientifico nella sostanza e alto divulgativo nella forma.

Era tale sintesi – nel progetto – destinata alla Chiesa diocesana, nell’atto che si andava e sempre più prossimamente si va preparando al sinodo, convocata dal suo pastore. Uno sguardo panoramico quindi, alle origini e all’esperienza dodici volte secolare che si ponesse come strumento alla individualizzazione e al recupero obiettivi della identità specifica di questa nostra tipica Chiesa locale» (ivi, v. I, 341).

Compreso come un servizio culturale, ecclesiale e cittadino che prevedeva un solo volume, divenne in seguito un progetto complesso nella forma di una trilogia, completato da un volume di sintesi sulla spiritualità per «recepire istanze sempre più introspettive e stimolanti, come del resto è invalso dalla paradigmatica Storia d’Italia di Einaudi in poi (…) va timidamente profilandosi all’orizzonte un altro volume dedicato alla storia del sentimento religioso, della spiritualità e della pietà (Bremond, più De Luca, più Braudel, per intenderci) ferraresi e comacchiesi ad un tempo, muovendo dal versante liturgico per approdare a quello laicale e popolare» (ivi, 342).

(Continua domani su Periscopio)

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Storie in pellicola /
“Il Mai nato”, incontro con la regista Tania Innamorati

Tania Innamorati firma un “mockumentary” su un bambino che non vuole nascere. Premio ‘climate change’ al Ferrara Film Corto Festival 2023 (FFCF), l’abbiamo incontrata per soddisfare alcune curiosità.
Guarda “Il Mai Nato” nella versione integrale in fondo all’intervista.

Dopo “One day all of this will be yours”, oggi vogliamo parlare de “Il Mai Nato”, Premio ‘climate change’ del FFCF 2023 dedicato all’interpretazione della tematica relativa al cambiamento climatico a Tania Innamorati e Gregory J. Rossi per l’originalità e l’ironia con le quali vengono trattati tutti i paradossi di una società contemporanea nella loro complessità. Entrambi i corti parlano di un mondo che non dà più molte speranze, un mondo ormai irrespirabile, invivibile e sanguinante consegnato alle nuove generazioni, che tanto ignare del dramma e del pericolo poi non sono.

Tania Innamorati riceve il Premio ‘climate change’ al FFCF 2023
Tania Innamorati riceve il Premio ‘climate change’ al FFCF 2023

Profondamenti colpiti da “Il Mai Nato”, la storia del primo e unico bambino al mondo che si è rifiutato di nascere, barricandosi nell’utero materno per 18 anni come forma di protesta sociale e diventando un simbolo per le persone di tutto il Mondo, abbiamo voluto incontrare la regista Tania Innamorati.

Ma prima alcune precisazioni. “Il Mai nato” è un ‘mockumentary (un falso documentario) di 20 minuti che racconta, attraverso la voce dei media nazionali e internazionali e di alcuni testimoni, l’epopea di questo bambino che sta bene dove si trova, Sarò Messina.

Un’invenzione geniale che vuole affrontare, in modo ironico, avvalendosi dell’assurdo, le storture della società contemporanea, ponendo un dubbio socio-esistenziale che tutti noi abbiamo avuto almeno una volta: “ha davvero senso nascere in un mondo come questo?”.

Il corto, selezionato in molti festival importanti (fra i quali il “Los Angeles, Italia Film Festival” e il “Bellaria Film Festival”) e vincitore dell’’Audience Award’ al “Festival Afrodite Shorts”, è prodotto dal gruppo tutto al femminile Le Bestevem, in collaborazione con Nero Film, e da Roberto Benuzzi e distribuito da Premiere Film.

Le Bestevem

Molte le curiosità per Tania, che abbiamo raggiunto telefonicamente, soprattutto sulla genesi del corto, su come è stato progettato e poi costruito e sui progetti futuri.

Le Bestevem, ci anticipa, è l’acronimo che racchiude le dieci iniziali delle fondatrici dell’associazione, creata nel 2013, trasformatasi poi in società di produzione. Anche se oggi sono rimaste in tre (Eva Basteiro-Bertolí, cantautrice e produttrice, Ester Stigliano, architetta e scenografa e Tania Innamorati, produttrice e autrice) hanno voluto mantenere il nome a cui restano molto legate. Un logo simile a quello di Barbie, nella sua travolgente femminilità, un sogno, un progetto culturale, una factory di giovani talenti, un modo di vedere e raccontare la realtà. La volontà di realizzare film che raccontino il mondo nei suoi chiaroscuri, accendere un faro su chi non ha luce, su chi non ha voce.

Alcune domande per Tania, allora, tanta la disponibilità, la cortesia e la gentilezza.

Siamo curiosi di sapere come è nata l’idea de “Il Mai Nato”, quale ne è stata la fortunata genesi? Pensiamo che l’intuizione sia geniale…

Al quinto mese di gravidanza ho avuto un’illuminazione: mi sono chiesta, che mondo lascerò ai miei figli? Quello della gravidanza è un momento davvero molto creativo.

Al tempo frequentavo un corso di sceneggiatura e dovevo pensare a un corto, un progetto da inventare e da descrivere. Ecco arrivare l’idea, mi pareva una follia, ma una cara amica, una brava sceneggiatrice, mi ha detto che l’idea era ottima e funzionava. Poi l’ho scritto in un giorno e mi pareva poco professionale averlo fatto in così poco tempo. Ho però provato a metterci le mani in seguito, ma non sono riuscita a cambiare nulla.

Come lo hai costruito, ci sono molte scene di manifestazioni, di proteste o di folle acclamanti. Sembrano tratte dalla vita reale, è così?

In effetti è così. Mi piace molto mescolare immagini esistenti, giocarci, usarle per raccontare quello che voglio. All’epoca ero rimasta molto colpita dal finto trailer di “Shining” montato come una commedia romantica. Mi affascina come musica e montaggio possano cambiare il senso dell’idea del film, stravolgerlo, come ci si possa servire di alcune immagini per raccontare la propria storia. Il 60 percento delle immagini del corto – tratte dal web, da YouTube, da Vimeo o da archivi a pagamento, sempre non troppo costosi – sono di repertorio, le ho usate e montate per raccontare la mia storia. Nel mio ordine e per la mia finalità.

E poi, aggiungiamo noi, qui ci sono le storture di questo mondo, il potere dei social media, le strumentalizzazioni dei politici, la loro incoerenza e il non rispettare le promesse fatte…

Una scena del corto

Perché Sarò Messina?

Mi piaceva il connubio fra il nome tipicamente siciliano Saro e quel verbo futuro da usarsi per un bambino che non voleva nascere, da qui Sarò. Se il nome era siciliano bisognava, di conseguenza, ambientare la storia in Sicilia, ed ecco quindi anche il cognome, Messina; mi pareva una scelta drammaturgia interessante e originale. Il tutto in un contesto non ricco e in certi luoghi anche un po’ degradati. Era un set ideale.

Una scena del corto

Quando avete effettuato le riprese e come avete scelto gli attori?

Le riprese sono state fatte in una settimana, il corto è stato girato interamente e molto prima del montaggio, in epoca pre-Covid. Le mascherine utilizzate parlavano di un mondo divenuto irrespirabile, al momento delle riprese nulla lasciava presagire quello che il Covid avrebbe comportato. Incredibile quindi che quelle mascherine usate per il film siano servite dopo… Alle presentazioni ai festival tutti pensavano, inizialmente, che si trattasse di un film sul Covid. Invece era stato solo un incredibile presagio.

Quanto agli attori, non ho usato attori professionisti, tranne il padre di Sarò. Ci sono poi anche alcuni giornalisti della carta stampata, tra i quali Giorgio Meletti e Guido Torlai. Abbiamo fatto molti provini, tutti siciliani, a parte i ruoli che non lo prevedevano. La nonna di Sarò, Catena, è davvero bravissima. Far recitare in un ‘mockumentary’ un attore non è semplice, l’attore recita sempre e qui servivano persone della società civile che ‘vivono’ la storia. Aurora Peres è la sola attrice adatta a far finta di non recitare che ho voluto. Per questo ho scelto persone di altri mondi.

La nonna di Sarò

Progetti per il futuro?

Oggi il corto va in pensione, ha fatto la sua strada, ha dato le sue soddisfazioni. Anche se, in realtà, stiamo ragionando sulla fattibilità di farne un lungometraggio o una serie.

Sto lavorando su un documentario su due Centri di Recupero per bambine e bambini-soldato, in Uganda e in Congo Kinshasa, per la regia di Christian Carmosino e dal titolo provvisorio “Adieu Maman”.

Ad impegnarmi molto anche il 48 Hour Film Project Roma” e il progetto, per cui abbiamo appena vinto un bando, finanziato dall’ambasciata americana, rivolto ai licei artistici multimediali in Italia, che mira a sensibilizzare i ragazzi sull’ambiente attraverso video da loro stessi girati.

In attesa di tanti (bellissimi) progetti futuri, ci salutiamo. Ad maiora, Tania. E grazie.

“Il Mai Nato”, qui sotto nella sua integralità:

Pagina Facebook de “Il Mai Nato”

Tania Innamorati

Giuliese di nascita, romana d’adozione, è laureata in Dams, diplomata presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, ha conseguito un Master in comunicazione presso l’Università per Stranieri di Perugia e un Master in Scrittura Creativa alla Scuola Holden di Torino. Dopo aver seguito la produzione di diversi programmi televisivi per La7 e per TV2000, ha creato la piattaforma Cineama.it: community online per appassionati di cinema finalizzata alla produzione e distribuzione di film indipendenti grazie alle pratiche partecipative della rete, premiata come Miglior Progetto Pilota in Europa da Media nel 2013. Da oltre 10 anni organizza il 48 Hour Film Project Roma, con Le Bestevem di cui è Presidente. Parallelamente scrive, dirige e produce progetti propri. Ha all’attivo il cortometraggio Eve Al Desnudo”, selezionato al Festival di Cannes 2015, sezione ‘Short Film Corner’, le cui musiche sono state concesse da Ian Anderson, leader dei Jethro Tull.

Per una bella intervista a Le Bestelem

 

ELOGIO DEL RACCONTO
Perché i racconti ci assomigliano molto. Come quelli di Carlo Tassi

I racconti ci assomigliano molto. Come quelli di Carlo Tassi

Il genere racconto non gode in Italia di grande fortuna: vuoi mettere “il peso” di un romanzo di 600 pagine? Altrove, penso agli Stati Uniti o all’Argentina, i racconti sono invece merce prelibata, Un autore di racconti (solo di racconti) può raggiungere le vette delle classifiche e può diventare un “classico”. Gli esempi si sprecano: Poe, Carver, Hemingway, Borges, Cortazar… In Italia si arriva al punto di presentare una raccolta di racconti sotto la forma di romanzo. “Se questo è un uomo” di Primo Levi non è un romanzo, sono racconti in una medesima unità di tempo e di spazio. In realtà. un grandissimo autore come Primo Levi ha scritto solo racconti, la stessa cosa si può dire per Italo Calvino.

Ma la mia frequentazione e il mio amore per il genere racconto mi porterebbero lontano. Qui serve a dire che i racconti, anche i racconti di Carlo Tassi, vanno presi sul serio, letti e gustati fino in fondo.  Perché è in fondo, nel finale, che molto spesso si svela il meccanismo a orologeria che sta alla base di tanti racconti.

Carlo Tassi, che con troppa modestia ama definirsi “un architetto mancato”, scrive splendidi racconti, ma è anche uno straordinario disegnatore e illustratore. Ne fanno fede alcune immagini che illustrano questo articolo e che ho rubato dal suo archivio privato che mostra solo agli amici. Da anni Carlo è redattore ed apprezzato autore di Periscopio, sotto il suo nome potete trovare i suoi articoli, i suoi racconti, le sue vignette satiriche.

Carlo Tassi scrive quasi sempre racconti brevi. Sono, credo, i più difficili. Occorre unire la fantasia dell’invenzione con la costruzione di un meccanismo narrativo perfetto, dove l’incipit si apre su una scena che si riflette, e spesso si capovolge in un finale a sorpresa. Spiazzante.  I suoi sono racconti duri, cattivi, senza redenzione. Racconti notturni, onirici, come scaturiti dal sottosuolo della coscienza.

Per questa ragione – gliel’ ho detto anche a voce – il titolo del volumetto che raccoglie per la prima volta le sue prove narrative non mi trova d’accordo. Le sue sono tutt’altro che “carabattole”. Dietro c’è un grande lavoro sulla scrittura, con risultati sempre sorprendenti. Dalla lettura di questi racconti si esce un po’ diversi da come si è entrati, un po’ turbati, con qualche interrogativo in più sulla vita e la morte, e su se stessi.

Forse però, per dire di più e meglio sui racconti di Carlo Tassi, è bene lasciare la parola all’autore. Ho scelto un racconto che a me è particolarmente piaciuto. Lo trovate di seguito, appena dopo una divertente carrellata di animali fantastici usciti dalla sua penna.

Un caso di coscienza
racconto di Carlo Tassi

Il tizio è un’apoteosi di merda umana!
Capelli a spazzola biondo platino, pelle butterata e una cicatrice zigzagante tra guancia e mento, lobi anellati, collo taurino con uno scorcio di tatuaggio che corre giù sotto la maglia sudicia.
Mastica una gomma al sapor di fragola marcia e me la soffia addosso. Mi osserva sfacciato col suo feroce sguardo da ebete.
«Hai bisogno?» gli faccio.
Questo mi sorride aprendo una spelonca inguardabile con una sfilza di dentini color giallo canarino.
Mi si legge in faccia quanto mi fa schifo sto tizio, eppure ostento cortesia, falso come Giuda: «Non farti problemi, se hai bisogno dimmi»
Questo non parla e non smette di fissarmi e sorridere, con una ghigna da prendere a schiaffi e farci l’abbonamento. Così getto la maschera: «Beh, allora che vuoi che ti dica… Vaffanculo!»
Sono al limite, la trottola fotonica mi gira ormai senza controllo. Penso che se non me ne vado va a finire che lo meno, perciò alzo i tacchi e tolgo il disturbo. Tanto più che questo è un marcantonio di quasi due metri per oltre un quintale di ignoranza. Sì, meglio andare. Mi allontano dalla parte opposta quando sento una voce alle mie spalle.
«Scusa, non volevo farti incazzare»
Il tizio ha parlato finalmente!
Mi blocco e mi giro di nuovo verso di lui. La sua espressione è cambiata, ora sembra diverso, con uno sguardo tutt’altro che ebete.
Sembra che qualcosa l’abbia trasformato dandogli uno spessore che prima non aveva. O forse sono io stesso che, sentendo la sua voce, ho cambiato opinione.
Ora vedo due occhi profondi, animati da un certo non so che di pudore e incertezza che fino a un attimo prima non avrei mai sospettato. Persino quell’aspetto sgradevole fino all’insopportabile non è più tale.
Cosa sta succedendo?
«No scusa te per il vaffanculo… Ma se non vuoi che te lo ripeta mi devi dire perché sei venuto da me a fissarmi!» gli dico con una punta di rimorso.
«Beh, la verità è che non so come dirtelo»
«Dirmi cosa?»
«È difficile»
Lo guardo. La pressione mi si alza che ormai sistole e diastole sono in orbita scrotale. «Non capisco… Senti, fa lo stesso. Io me ne vado!»
«Non andare per favore!» sembra supplicare sul serio.
«Oh insomma, che cazzo vuoi?» Se non fosse così grosso gli avrei già sgrullato la faccia di schiaffi.
«Vorrei che parlassimo un po’» risponde calmo e controllato da far schifo.
«Ma di che cazzo vuoi parlare… io non ti conosco!»
«Oh… Sì che mi conosci!» insiste. Poi mi sorride di nuovo, stavolta senza aprire la fogna.
«Senti stronzo, se avessi già visto la tua faccia me la ricorderei… Fa così schifo che stanotte dovrò addormentarmi guardando il poster di Freddy Krueger per togliermela dalla mente e sperare di non avere incubi»
«In verità la vedi tutti i giorni, come adesso»
«Basta m’hai stufato!» trattengo il respiro e parto col cartone. Un ripieno di noccioline tostate a sangue per ricordarsi che se tiri la corda oltre l’orizzonte degli eventi poi questa si spezza.
Ma la manata va a sbattere contro un muro di vetro… Questo s’infrange in mille pezzi o forse più.
Mi guardo il pugno criccato di sangue, il mio sangue.
«Cazzo, lo specchio s’è rotto… Adesso sette anni di sfiga!» esclamo preso da improvviso buon umore.
Sorrido, ma è un sorriso incerto, non proprio convinto. I tagli sulla mano bruciano.

Capita, quando incontri la tua coscienza e non la riconosci.
Capita, quando questa ti parla e non la vuoi stare a sentire.

Ieri ho fatto un’altra cazzata, oggi me ne sto tranquillo e domani chissà.
La cicatrice mi fa prurito, forse domani pioverà.

 

 

 

Il volume di Carlo Tassi “Pensieri e altre carabattole” viene presentato oggi, 16 settembre alle ore 17, alla sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. Dialogano con l’autore Sergio Gessi e Giorgia Mazzotti. Il libro è disponibile nelle migliori librerie di Ferrara.

 

Cover e illustrazioni nel testo sono di Carlo Tassi.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole a capo /
Tania Chimenti: “Autunno” e altre poesie

La fantasia è un posto dove ci piove dentro.
(Italo Calvino)

 

La sera dell’appuntamento

La sera dell’appuntamento
ero senza pelle
rivestii la nudità col cappotto
i bottoni arginati entusiasmi in asole
e le mani confinate a metà pugno
nelle tasche sudate
ogni bottone stretto
nella difficile impresa
di essere tra due limiti
mi intimava di restare salda
legata fino al collo
la postura col mondo.

 

Prova d’orchestra

Che si possa decretare
L’ inizio e la fine
Di ogni relazione
Con la certezza che è per l’orchestra
nel segno del legno d’acero la bacchetta
Del movimento a vuoto
La resa
Lo smarrimento
L’attesa.
E invece siamo qui
Ad ascoltare parole senza sinfonia
Fumata nera
La sera.

 

Il mio nome

Chiamami per la prima volta
col mio vero nome
individua la mia essenza
non fare come gli uomini
che chiamano terra
il pianeta fatto d’acqua
si innamorano dei corpi
che sono involucri d’anima
guardano il cielo distante
e non pensano al suono
come vibrazione dell’aria
così che anche il nome
quando mi chiami
è cielo

 

Se le parole perse

Se le parole perse
in rivoli di silenzio sfilacciate
come lettere
sparse nell’infinito alfabeto
tornassero felici di unirsi tra loro
Come la prima volta
sul quaderno del bambino
non squadernerei più le giornate
alla ricerca della verità
lascerei ogni segno legarsi
a caso agli altri
senza cercarne il senso.

*

Ho cercato nell’amore
La salvezza dagli umori corrotti
Il drenaggio degli ematomi
Le carezze sulle cicatrici
La sanguisuga che bevesse
Il mio sangue malato
ma da quando sono guarita
non ho più amato

 

Autunno

Abbiate slanci
Per chi sa che nascere
Ha il peso
Di una foglia che cade

 

Tania Chimenti (Bari, 1968). Laureata in giurisprudenza, si è occupata di risorse umane per una multinazionale, attualmente libera professionista e madre di tre gemelli. Ha tra i vari interessi, quello di dare voce alle emozioni attraverso la poesia. Ha ottenuto in relazione alla partecipazione a diversi premi letterari, menzioni di merito ed inserimento in diverse raccolte antologiche.
In particolare, menzione di merito per la partecipazione al XVI concorso internazionale di poesia inedita dedicato a Poesie per ricordare, Giornata mondiale della poesia, con inserimento nella relativa raccolta antologica “La panchina dei versi“, edizione Aurora. Menzione di merito per la partecipazione al concorso VI premio internazionale Salvatore Quasimodo e relativo inserimento nella raccolta antologica.
Finalista al concorso di poesia il federiciano e relativo inserimento nell’antologia Corallo.
Inserimento nell’Enciclopedia dei poeti italiani contemporanei primavera 2021. Inserimento nell’antologia Cierzo, 2021. Partecipazione al progetto Alessandro Quasimodo legge i poeti contemporanei. Pubblicazione della silloge “ Abbracciami cielo “nella collana Spazio Tempo curata da Alessandro Lattarulo, prefazione di Giuseppe Scaglione edita da Wip edizioni, marzo 2023.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Il sacrificio degli agnelli

Il sacrificio degli agnelli

L’altra mattina alle 7 sento alla radio che l’ospedale di Gaza City, più volte bombardato dagli aerei israeliani, è completamente fuori uso. Niente Elettricità, niente acqua, niente di niente. L’ospedale non c’è più. Nella nursery muoiono anche i neonati. Muoiono senza scampo, in quello che una volta era il reparto di terapia intensiva. L’invasione israeliana continua. Nella striscia di Gaza muore un bambino ogni 3 minuti.
Oggi al telegiornale sento la conta dei morti nella striscia: oltre 11.000 vittime, 4.650 bambini. In quello che era un ospedale, una fossa comune accoglie oltre 170 ricoverati.

Mi sono chiesto, con tutta l’ingenuità che mi rimane: perché la pace non arriva?

Davanti alla strage, al sacrificio degli agnelli, qualsiasi persona di qualsiasi bandiera vorrebbe che le armi tacessero, che si spegnesse il rimbombo degli aerei, che si levasse il fumo per soccorrere gli inermi e per seppellire i morti. Non è forse vero? Perché allora LA PACE, che appare la cosa più semplice, più naturale, più ragionevole del mondo, non arriva mai? Perché ci raccontano che le cose sono terribilmente complicate, che nemmeno i diplomatici e gli esperti più esperti… figuriamoci noi comuni mortali (e lontani) se possiamo capire le implicazioni politiche strategiche economiche…

Tutte le notti gli agnelli piangono, tendete le orecchie e sentirete i loro strilli. Gli agnelli muoiono, ma la guerra è da sempre la nostra compagna. È la guerra – così ci insegnano – ad essere normale, semplice, naturale, non la pace. Che la guerra, non la pace, corrisponde alla nostra umana natura. Che l’uomo è un lupo per gli altri uomini.  E, ingenui come siamo, non abbiamo ancora imparato  l’antica massima di Carl von Clausewitz, che “La Guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” ?

Eppure. Eppure sono in tanti, in tantissimi, a scendere in piazza in tutto il mondo per chiedere il cessate il fuoco, la tregua, la pace. Pochi giorni fa a Londra c’è stata una manifestazione oceanica. Talmente gigantesca che, se vi è sfuggita, merita di essere vista.

Manifestazione a Londra per la tregua a Gaza (Fb del Partito Democratico)

Ma Londra è solo un esempio. Questo “popolo ingenuo che vuole la pace”, in Palestina come in Ucraina manifesta tutti i giorni: in Europa, negli Stati Uniti, in Israele. Sfila per le strade delle metropoli come delle piccole città di provincia.

Lo sappiamo, i pacifisti non godono di buona stampa. Se va bene, sono trattati come sognatori e utopisti, spesso come piantagrane, come agitatori, come terroristi tout court. A pochi viene in mente che la marea umana che si mobilita per la pace rappresenta la grande maggioranza del genere umano. Che nessuna donna e nessun uomo, nessuna madre, padre, ragazzo, bambino può sopportare il pianto disperato degli agnelli.

La natura umana corrisponde alla pace, non alla guerra. Eppure la pace è irrisa. La guerra è in minoranza, eppure insanguina il mondo.  Con tutta l’ingenuità che vi rimane, provate a capire perché la pace “non arriva mai”? Forse non arriva perché i Capi di Stato, gli stessi che si dicono impegnati a fermare le armi, non ne hanno nessuna intenzione. Forse perché se si arriva alla pace, la carriera politica di Netanyahu e Zelensky, ma anche di Putin e Biden, sarebbe finita. Addio potere. E che fine farebbe la potentissima e ubiqua lobby delle armi?

Magari il problema è più generale. Il problema è il potere. Per far prevalere la maggioranza e la pace, bisognerebbe abolire gli Stati e i Capi di Stato. Come stanno facendo le libere città kurde.

Ecco, ho cominciato da ingenuo e ho finito come anarchico. Chiedo scusa al lettore, ma il pianto degli agnelli non mi fa dormire.

Cover:  Bambino di Gaza, acquerello di Miriam Cariani da un fermo immagine di un video reale, l’immagine è stata modificata per rispettare la privacy. 

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Lettera aperta: “L’invito a tacere del Sindaco di Ferrara al Vescovo sui Cpr è un atto grossolano e intollerabile”

Gentile Direttore,

come Consigli Pastorali delle Parrocchie del Corpus Domini e di Sant’Agostino, le chiediamo ospitalità per intervenire sulla polemica sorta, ancora una volta, in seguito alle parole del nostro Vescovo Gian Carlo.

Come in passato, sorvoleremo pazientemente sul disagio che proviamo a vedere maltrattata una figura che per noi è paterna e fraterna. Tuttavia non siamo solo cattolici che vedono mortificato il loro pastore, ma siamo anche cittadini consapevoli di questa città, e pensiamo di avere dei diritti.

Di questi diritti, il primo – ma il discorso sarebbe, chiaramente, molto più ampio – è che i nostri amministratori usino il linguaggio con il rispetto che esso merita. Siamo grandi abbastanza per sapere che la politica è usualmente disinvolta nell’uso delle parole, ma riteniamo che sia sempre più necessaria un’inversione di tendenza.

Nel caso specifico:

Invocare il Concordato per chiedere a un Vescovo di tacere quando c’è in ballo la dignità degli esseri umani è un atto insieme grossolano e giuridicamente infondato. È verissimo che Stato e Chiesa sono reciprocamente indipendenti, ma è altrettanto indiscutibile che, quando si riduce l’essere umano in condizioni non dignitose – ed è esattamente questo che avviene nei CPR – la Chiesa interviene, perché ogni uomo è figlio di Dio.

Ridurre ogni confronto politico ad una contrapposizione tra “destra” e “sinistra” è ormai noiosamente fuori dal tempo. Un cittadino maturo non vuole per la sua città soluzioni di destra o di sinistra. Vuole soluzioni efficaci. I CPR non lo sono, per il semplice fatto che generano – sia negli internati che nei cittadini – frustrazione, astio e rivalsa. E una città che si nutre di questi sentimenti ha il fiato corto.

Ritenere di cavarsela intimando al Vescovo (o ad altre figure pubbliche) che, se vuole esprimersi, “si candidi con la sinistra” è semplicemente incomprensibile: dobbiamo forse pensare che, nel prossimo futuro, per esprimere un opinione, non basti più essere cittadini ma si debba iscriversi a una partito o, almeno, schierarsi con una parte?

Infine, ma non per importanza. Non è tollerabile che, ogni qualvolta la Chiesa fa sentire la sua voce, qualcuno si erga a ricordare alla Chiesa stessa che “dovrebbe occuparsi delle anime e delle chiese vuote”. La Chiesa ha a cuore l’uomo e la sua santa dignità, non le statistiche relative alla frequenza della Messa.

Sui CPR esistono posizioni diverse. È comprensibile, e fa parte della dinamica democratica. Entrare in questa dinamica inquinando il linguaggio non fa bene a nessuno, alla nostra città, poi, men che meno.

La ringraziamo cordialmente per l’ospitalità.

I Consigli pastorali delle Parrocchie del Corpus Domini e di S. Agostino – Ferrara

 

In copertina: Il Cpr di Torino. Credits: Agora, periodico del Consiglio comunale di Torino.

Cpr per immigrati come i ricoveri di mendicità dell’800

Cpr per immigrati come i ricoveri di mendicità dell’800.

La rivoluzione industriale iniziò in Inghilterra dal 1730 con un’ondata di invenzioni che avevano meccanizzato la filatura in grandi fabbriche spinte da macchine a vapore e dove lavoravano anche mille operai non qualificati, ma anche donne e bambini. Oltre a macchine per la manifattura come la Cucitrice che faceva il lavoro di 40 cucitrici, c’erano quelle agricole per tagliare il grano venti volte più velocemente o la Piallatrice che faceva il lavoro di 100 falegnami. Nelle miniere di carbone le pompe mosse da macchine a vapore toglievano l’acqua e aumentarono di molto la produttività, anche sfruttando i bambini piccoli che potevano entrare nei piccoli pertugi. Fece impressione la prima indagine Reale del 1832 quando scoprì che almeno 60mila bambini dai 6 anni in su ci lavoravano 12 ore al giorno.

L’enorme aumento di produttività dovuto alla massiccia automazione arricchì in modo stupefacente pochi industriali e commercianti ma non si diffuse affatto a chi lavorava. Per questo dal 1730 al 1840 le innovazioni tecnologiche di allora produssero un enorme peggioramento delle condizioni di vita di contadini e artigiani qualificati ora costretti in fabbriche in mansioni parcellizzate per 12 ore al giorno (l’orario settimanale era nel 1800 di 65 ore) e con salari minori di quelli di 100 anni prima. Le condizioni nelle città sovraffollate erano diventate spaventose con nuove malattie come tbc e colera. Solo dal 1840 in poi le condizioni igieniche migliorarono così come i salari con la nascita dei sindacati e di contropoteri. Finché la classe operaia non si organizzò fu preda delle brame primordiali delle élite di allora e dell’automazione esasperata.

La legge, i tribunali e i “media” (diremmo oggi, allora i pensatori, quelli che avevano studiato) erano dalla parte dei padroni (lo Statute of laboureres del 1351 che prevedeva che non si poteva lavorare per salari più alti o per altri padroni, fu abrogato nel 1863) e si accanivano anche allora contro i poveri. I pensatori del tempo proponevano che le misure di sostegno alla povertà prevedessero degli aiuti tramite i ricoveri di mendicità che però dovevano evitare che i poveri oziassero anziché continuare a lavorare. E la soluzione fu di rendere i ricoveri di mendicità inospitali per spingere le persone al lavoro anziché all’assistenza. Uno studioso li definì un “sistema carcerario per punire la povertà”.

Mi pare che ci sia una assonanza coi Cpr per immigrati del 2023.
Anziché organizzarsi per includere quei 250mila immigrati di cui abbiamo bisogno come Paese per le nostre imprese e campi con vantaggi nostri e loro, li incarceriamo. Allora i “Cpr” erano per i bianchi poveri per spingerli a lavorare nelle fabbriche inglesi, oggi per escludere gli immigrati anche dal lavoro.
I bianchi poveri puniti con lo sfruttamento del lavoro, gli immigrati col carcere. Tempi diversi ma logica simile.

Cover: Mensa per i poveri a Basilea; fotografia del 1914-1918 di Carl Kling-Jenny (Staatsarchiv Basel-Stadt, BILD 13, 606).

Ricominciano le conferenze di “Apertamente” all’Istituto Einaudi:
mercoledì 22 novembre la sociolinguista Vera Gheno parlerà del potere delle parole.

Ricominciano le conferenze di Apertamente all’Istituto Einaudi di Ferrara:
mercoledì 22 novembre con la sociolinguista Vera Gheno parlerà del potere delle parole.

Mercoledì 22 novembre alle ore 11 in aula magna “Giulio Einaudi” presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Einaudi” in via Savonarola, 32, a Ferrara, riprenderanno le conferenze di ApertaMente, ciclo di incontri aperti a studenti e cittadinanza che festeggia quest’anno il suo decennale.
Un’edizione speciale e un calendario particolarmente ricco, che spazia dalla letteratura alla matematica, dall’imprenditoria al giornalismo, dalla storia alla più stretta attualità.
Si comincia appunto mercoledì 22 novembre con la sociolinguista Vera Gheno, che parlerà del potere delle parole.
Si proseguirà lunedì 27 novembre con gli scrittori Pietro Rivaroli e Cecilia Gallotta e, il 30 novembre, con la poetessa Stella N’Djoku, ricercatrice presso l’Università della Svizzera italiana.
I successivi incontri saranno di ambito scientifico: sabato 16 dicembre la divulgatrice Valentina Brombin, parlerà di Antropocene, mentre sabato 13 gennaio la professoressa Maria Giulia Luguresi (Unife) concentrerà il suo intervento su Pitagora e il suo teorema.
Il 2024 proseguirà con Ilaria Potenza, collaboratrice di Sole24Ore, Rolling Stone e Linkiesta, che il 20 gennaio discuterà con gli studenti proprio del lavoro della giornalista. Il 30 gennaio sarà la volta di Alice Bernardi, fornaia e titolare di Filonificio, che parlerà di imprenditoria creativa e sociale.
Nei mesi a seguire, lo storico Andrea Baravelli (Unife) investigherà le ragioni profonde del conflitto in Ucraina (8 febbraio), mentre sabato 24 febbraio si parlerà di transizione di genere con Nicolò Sproccati (interprete del documentario “Nel mio nome”, andato in onda su Sky) e Giovanna Cristina Vivinetto, autrice di “Dolore minimo”, prima raccolta poetica in Italia a infrangere il tabù della transessualità. Il 21 marzo si toccheranno le tematiche della disabilità e della rinascita dopo un incidente con Alessandra Santandrea e Marianna Casciani che presenteranno il libro “La sedia di Lulù”, mentre il 26 marzo si ricorderà, a vent’anni dalla morte, la figura di Tiziano Terzani, con Alen Loreti, curatore del Meridiano Mondadori a lui dedicato. Continueranno infine le collaborazioni con Ente Palio, che organizzerà una dimostrazione di giochi e feste di epoca estense (20 aprile) e con l’associazione Libera, che in due incontri, a febbraio e maggio, porterà anche quest’anno a scuola testimonianze di vittime della mafia.
Per info, orari e programma completo consultare il sito www.einaudiferrara.edu.it o scrivere a: michele.ronchistefanati@einaudife.istruzioneer.it

15 NOVEMBRE 1943: NON DISPERDERE LA MEMORIA

“…di lontano non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti buttati là, al sole, nella neve fradicia”,
Le parole di Giorgio Bassani hanno consegnato per sempre alla grande letteratura una delle pagine più buie e feroci della nostra storia cittadina.

La notte del 15 novembre 1943, undici personalità molto note nella Ferrara del tempo furono uccise per rappresaglia dai fascisti in risposta all’assassinio del federale Igino Ghisellini. Tra le vittime figurano importanti antifascisti, come il procuratore Colagrande e gli avvocati Zanatta e Piazzi, caduti assieme al senatore Arlotti che, al contrario, era stato compromesso col regime. E poi semplici cittadini trucidati perché ebrei o per il fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, come gli Hanau o l’operaio Cinzio Belletti. Non tutti morirono davanti alla fossa del Castello.

Due di loro furono fucilati vicino alle mura cittadine, presso il Baluardo di S. Tommaso: Girolamo Savonuzzi e Arturo Torboli. Il primo era stato assessore socialista fino al 1920, quando gli squadristi lo costrinsero alle dimissioni. Savonuzzi conservò comunque il suo incarico di ingegnere capo del Comune e fu tra i principali artefici del rinnovamento urbanistico di Ferrara tra le due guerre mondiali. Torboli, invece, in qualità di ragioniere capo del Comune procedette, dopo il 25 luglio ‘43, a liquidare i beni accumulati in città dal disciolto Partito Nazionale Fascista. Pagarono dunque con la vita le loro convinzioni politiche, la loro fede nella libertà e nelle istituzioni.

Girolamo Savonuzzi
Arturo Torboli

Il loro sacrificio è testimoniato da un monumento, ben visibile in viale Alfonso d’Este, che da diversi anni versa in stato di forte abbandono e degrado.
Ignoti hanno asportato nottetempo l’elegante capitello e la croce in ottone che sormontavano la bianca colonna, rimasta sola a testimoniare una strage dimenticata. I nomi di Savonuzzi e Torboli, incisi sulla stessa, sono quasi illeggibili.
È giusto tutto ciò? Non credo. Nell’80esimo anniversario di quella lunga notte del ’43 mi sarei aspettato, oltre alle celebrazioni di rito, un intervento di ripristino e manutenzione di quel monumento e di altri che ricordano la lotta partigiana nella nostra città. Purtroppo, sono ancora molte le lapidi, i cippi e i monumenti disseminati per il territorio comunale che risultano ammalorati o in stato di evidente degrado: ricordano fatti e persone che hanno contribuito a rendere la nostra comunità più giusta e libera, durante il Risorgimento e la Resistenza.

Il monumento in memoria di Girolamo Savonuzzi e Arturo Torboli sulle Mura, ormai in stato di degrado da diversi anni e monco di una parte.

 

È possibile recuperarli implementando i fondi dedicati nel Piano triennale delle opere pubbliche ma sarebbe opportuno coinvolgere in tale impresa anche associazioni e privati cittadini, interessati a non disperdere un patrimonio di memoria comune.

Ferrara non può dimenticare o, peggio, ignorare la sua storia: è ciò che ci ha resi quello che siamo.

Davide Nanni
Consigliere Comunale PD Ferrara

In copertina: monumento alla memoria dell’eccidio del 15 novembre 1943 presso la fossa del Castello. 

Fantasmi /
Ferrara, la città dei fantasmi

80 anni sono passati, ma chi può scordare quella “Lunga notte”? Le squadracce fasciste erano partite da Verona e da Padova; arrivano in piena notte in città, prelevano dalle loro case 72 persone: antifascisti, molti ebrei, alcuni cittadini considerati “traditori” per non essersi iscritti alla Repubblica Sociale, oppositori del regime in genere e le portano alla Caserma della Milizia in piazza Beretta. Fra loro e i 34 antifascisti, ebrei, oppositori del regime che erano già nelle carceri di via Piangipane (arrestati il 7 ottobre 1943) vengono “scelti” i dieci cittadini innocenti da passare per le armi per punire la morte del Federale Igino Ghisellini.
All’alba del 15 novembre davanti a Castello Estense vengono fucilati Emilio ArlottiPasquale ColagrandeMario e Vittore HanauGiulio PiazziUgo TeglioAlberto Vita FinziMario Zanatta; sulle mura presso i Rampari di San Giorgio: Gerolamo Savonuzzi e Arturo Torboli e in via Boldini: Cinzio Belletti che un caso aveva portato nelle vicinanze del Castello quella notte. I cadaveri verranno lasciati davanti al muretto del Castello per tutta la mattina, come monito per i ferraresi. Solo l’Arcivescovo Ruggero Bovelli con un duro intervento presso le autorità fasciste riuscirà a far spostare i corpi.
Alda Costa, la maestra perseguitata dal fascismo, morì meno di un anno dopo quella Notte dell’odio, il 30 aprile del 1944. La città ancora in mano ai fascisti,  un gruppo sparuto al suo funerale, la primavera della Liberazione ancora lontana.
Il racconto, vero e fantastico, di Sandro Abruzzese parla di questo.
(Effe Emme)

Ferrara, la città dei fantasmi
(un racconto di Sandro Abruzzese)

Stasera prima di rientrare verso via Saraceno, prendo un giro largo. Sono in bici in Borgo dei Leoni, il grazioso quartiere centrale dove molti mesi fa, insieme ad Atiscia, conoscemmo la zingara di Berra e i suoi figli in attesa di processo. Lascio alle spalle il Museo di storia naturale, passo nei pressi della scuola elementare “Alda Costa”, un edificio di architettura razionalista che dà l’idea di una stazione dei treni della Lego. Davanti alla scuola tornano in mente gli ultimi, strampalati racconti del vecchio Athos: “tu adesso vedi la pace, tu… “, mi disse in una di quelle occasioni slinguazzando da destra a sinistra, “vedi la città ordinata, le luci. Ma quello che ho visto io, avresti dovuto vederlo, sai? Sicché rastrellamenti, delazioni, traditori. Ah… non farmi parlare, va là. Di mio fratello trovai il corpo. Ammassato era, a tutti gli altri, quella notte, il ’43 era, novembre. Ragazzi prelevati dal carcere dai fascisti per vendetta. Sicché senza pietà li ammazzarono, li ho visti, sai, quei corpi ammassati ai piedi del Castello, lungo il fossato; con questi occhi qui li ho visti: bestie! Nessun nome, nessun colpevole il giorno dopo, uff… Dei cadaveri solo la puzza. Da Verona eran scesi gli assassini. Ma nessuno ne sapeva nulla: bestie! Sicché era amico della maestra, mio fratello Alberto, socialista come lei. Questa la sua colpa.

Era sindacalista, era una brava donna Alda Costa. Per la fame si disperava. Ma mica per la sua, come accade oggi. Per quella dei suoi scolari della campagna si disperava, me lo diceva mio fratello, sai, buon’anima, pace all’anima sua. Sicché la perquisivano, la poveretta, minacce, umiliazioni, percosse, a una donna poi: bestie! Ah! Ma quando è morta, chi è che in tutta la città ha avuto il coraggio di seguirne la bara…dì un po’? Lo sai mica tu? Non ne sai nulla, si capisce. Bene, allora te lo dico io, chi c’era: eravamo don Quinto, poi c’era un vecchio giudice, e io. Ecco chi eravamo: noialtri. Ah! Bella la città ordinata, certo. Bella la pace, si capisce. Ma ordine e pace non voglion mica dire giustizia, sai. Ma lascia stare. Cosa ne volete sapere voialtri.

Il primo maggio o il due era, non ricordo bene. Sicché dall’ospedale partimmo, verso il cimitero. Era chiusa la città, chiusa di poliziotti e silenzio. Porte, finestre, cancelli sprangati. Nessuno nemmeno alla finestra. Un deserto di spettri. Un silenzio. Ah, ma don Quinto se urlava, sicché recitava a voce alta la messa per Alda Costa, così che tutti ascoltassero ugualmente, da dietro le finestre, uff… suscitava un senso di… di… di verità.

Morì l’ultimo giorno d’aprile, la maestra, mi pare. Sicché il don disse che in punto di morte si era comunicata. Non lo so mica se sia vero. Lo disse per i funerali, perché avesse diritto ai funerali. Tutti dovevano sapere. Fu la sua rivincita. Cos’altro avrebbe potuto? Ancora la sua voce mi capita di risentirla.

Mai fatto un solo nome, Alda Costa, mai tradito i suoi compagni, nemmeno sotto tortura, sai. E sì che quei criminali nient’altro che bestie erano.

L’accompagnai. Ero monarchico io, lo sai bene, ma quando ti uccidono un fratello non c’è mica più Stato. Se uccidessero tuo fratello… uff… allora capiresti di cosa parlo. Sicché, mi fanno schifo quelli lì, i fascisti e sai perché? Sono dei codardi. Sicché per mio fratello ci andai al funerale e per fargli intendere che erano dei codardi e lo sarebbero rimasti. Ammazzato come un cane a vent’anni, uff…

Seguire la bara di Alda, è stato come seguire la sua bara, assistere anche lui, mio fratello, nell’ora più nera. Era anche lui lì con noialtri in una città di fantasmi”.

A poche pedalate di distanza dalla scuola “Alda Costa”, un’altra cella, un altro recluso. È la cella del Tasso, poeta folle della vecchia Gerusalemme.

Davanti alla porta d’ingresso, sul muretto, ragazzi siedono, mangiano il gelato. Qualcuno fuma. Una coppia, in piedi, unita, si bacia lungamente. Le bocche congiunte. Gli occhi chiusi. Lei tiene le punte dei piedi alzate. Lui il collo abbassato, le mani cingono i fianchi. Si baciano ininterrottamente. Tutto è sospeso tra quelle braccia protese. Tutto è un’immane promessa e rende come l’illusione che il mondo sia più lieve.

Titolo originale : “Città Fantasma”, tratto da: Sandro Abruzzese, “CasaperCasa”, Rubettino Editore, 2018, pp.177-178.  

© Sandro Abruzzese, è vietata la riproduzione anche parziale del testo.

Cover: Ferrara, Scuola elementare “Alda Costa” su licenza Wikimedia Commons

Per leggere gli articoli e i racconti di  Sandro Abruzzese  pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
Io e Pepper, o il ginocchio sbucciato – Strenne Natalizie

Novità sotto l’albero di Natale: il divertimento di sbucciarsi le ginocchia nel nuovo albo di Beatrice Alemagna, “Io e Pepper”, edito da Topipittori

Avevamo parlato di lei sempre a Natale, lo scorso anno, sfogliando il delicato “Cose che passano” e il coloratissimo “Cicciapelliccia”. E sempre nel bel mondo dell’infanzia.

Beatrice Alemagna sorprende sempre, oggi ancora con il suo nuovo albo “Io e Pepper”, i cui disegni e colori ricordano quelli di “Cicciapelliccia”: il racconto di una bambina dai capelli rossi e dai vestiti larghi alla quale capita la cosa più normale per la sua età, una caduta con tanto di graffi e sbucciatura al ginocchio. Inciampa e sbam, cade, la testa era forse fra le nuvole.

Si piange, ci si dispera, arriva pure la consolazione e la rassicurazione da parte di mamma e papà ma, dopo la medicazione e la crema, si forma una crosticina. Come brucia! C’è tutto il nutrito catalogo di comportamenti tipici dei bambini…

Il corpo infagottato, il centro del racconto, in lui una presenza nuova da indagare, alla quale abituarsi, un’estranea. Quella cosa strana va interrogata, cosa vorrà mai da lei, perché si trova lì, quando toglierà il disturbo? Ha forse la malaugurata intenzione di restarsene lì con lei per sempre, appiccicata come un fastidioso chewing-gum sotto le suole che non se ne vuole andare? La segue ovunque, anche in vacanza dai nonni che però non la notano, tanto vale, allora, darle un nome, Pepper, il nome del cane dello zio.

Si sa, tutti i bambini hanno delle croste, anche strane, ma la sua pare la peggiore di tutte.

Un giorno, però, la sorpresa: la crosta rosea dalla brutta faccia e forma, e che un giorno prima o poi dovrà cadere, si anima, prende vita, inizia a parlare, si lamenta del nome orribile affibbiatole; ma fra la bambina e quell’intrusa invadente si stabilisce una forte amicizia. In fondo fa solo il suo lavoro e come tale va rispettata.

Piano piano la ragazzina si abitua a lei, ai suoi cambiamenti, ai sorrisi che pare farle, le racconta di quando si è persa nella foresta, della sua paura dei ragni, del sogno di andare in Giappone, di quello di avere un cane tutto suo. Poi una mattina… e dopo mesi…

Ci sono tante parole, ma le immagini basterebbero, il silenzio potrebbe parlare.

La storia è fresca, divertente e originale, tanta la delicatezza nel raccontare lo spirito ingenuo e acuto dell’infanzia, la poesia, l’ingenuità, l’umorismo che scaccia la paura.

Ingredienti ai quali Beatrice Alemagna ci ha abituati, con la sua fantasia poetica e accattivante e la perenne capacità di stupire e meravigliare.

Un perfetto regalo di Natale, anche per i più grandi che vogliono restare bambini.

Beatrice Alemagna, Io e Pepper, Topipittori, Milano, 2023, 48 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

GAZA: CERCASI VOLONTARI PER SERVIZIO DI TELEMEDICINA – VOLUNTEERS NEEDED TELEMEDICINE SERVICE – مطلوب متطوعين من الاطباء للتواصل عن بعد

GAZA: CERCASI VOLONTARI PER SERVIZIO DI TELEMEDICINA

Chi è studente di medicina o medico o conosce studenti di medicina/medici potrebbe far girare loro questo messaggio dicendolo di farlo girare ai loro colleghi? Soprattutto se siete/ conoscete/ conoscete gente che conosce gente specializzata nei campi richiesti?

🚨GAZA: CERCASI VOLONTARI3 PER SERVIZIO DI TELEMEDICINA
VOLUNTEERS NEEDED – TELEMEDICINE SERVICE
مطلوب متطوعين من الاطباء
للتواصل عن بعد

Gaza Medic Voices @gazamedicvoices (associazione di medicɜ con esperienza di lavoro in Palestina) sta organizzando un servizio di telemedicina per supportare da remoto (pro bono) lɜ colleghɜ medicɜ a Gaza nella gestione di casi clinici complessi. Si tratta di un progetto a medio-lungo termine.

Specialità richieste:
– chirurgia vascolare
– traumatologia e ortopedia
– plastica e ustioni
– pediatria
– ostetricia
– oncologia
– radiologia
– neurochirurgia

Se interessatɜ, potete compilare il modulo a questo link
https://forms.gle/MxCKkZdNKoZ5jGad9

Per qualsiasi informazioni potete rivolgervi a
gazaremotemedic@gmail.com

Si prega di dare massima diffusione fra colleghɜ.

 

Immagine di copertina da infopal.it

Presentazione del volume di Carlo Tassi “Pensieri e altre carabattole”.
Giovedì 16 novembre 2023, ore 17, Biblioteca Ariostea

Giovedì 16 novembre 2023, alle 17, presso la Biblioteca Ariostea in Via delle Scienze, 17, a Ferrara sarà presentato il libro del nostro Carlo Tassi, edito da Este Edition. Dialoga con l’autore, il giornalista Sergio Gessi

“Like a rolling stone”. Lasciatemi subito dire che non mi trovo d’accordo con il titolo di questa intensa raccolta di pensieri e di vita. Tutto si può dire tranne che si tratti di carabattole. Carabattola, una parola dall’etimologia evangelica che porta con sé il significato di “cosa di poco conto”. Surge, tolle grabatum tuum, et ambula. Come sabbia nelle scarpe. Non è certo questo il caso delle pagine di Carlo. Al suono onomatopeico cui, invece, mi porta la parola, assocerei, piuttosto, l’immagine di una pietra rotolante, a rolling stone.

I pensieri, infatti, scorrono, cadono giù, quasi a strapiombo, da una cima di montagna innevata, fragorosi, rumorosi, pesanti, travolgenti, insistenti, persistenti, avvolgenti, potenti. Come una valanga impetuosa che spazza via tutto. Spazzano via il tempo, la paura, la noia, la gioia, i ricordi, la tristezza, la felicità, la bellezza, la bruttezza, l’ansia, la giovinezza, la vecchiaia. (…)

Parte della prefazione al libro di Carlo che ho avuto l’onore di preparare, su suo gentilissimo invito, ma lascerei la parola a lui.

Pensieri e altre carabattole è nato dall’urgente bisogno di mettere un po’ d’ordine nella mia stanza delle idee. Con quei fogli scritti di notte, da tanto tempo in attesa d’essere etichettati in qualche modo, ormai sempre più tra i piedi, che non sapevo più dove e come sistemarli. Un giorno mia moglie Cristina mi dice: ‘Smettila di portarteli ovunque, rileggerli e rigirarli ogni momento … Fanne un libro e non pensarci più!’.
Forse aveva ragione lei. Forse, da fogli sparsi un po’ ovunque come carabattole, dovevo decidermi a considerarli elementi variabilmente creati per un unico insieme, come i frammenti di un mosaico. Pensieri, sogni, memorie e brevi racconti, appunto. Semplici parti di un qualcosa che a ben vedere rivela chi sono io. Ci vuole del coraggio a scrivere!”.

Vi aspettiamo numerosi, dunque.

Carlo Tassi, nato a Ferrara nel 1964, impara a disegnare ancor prima di imparare a scrivere e non smetterà più. Innamorato di fumetti da sempre, da ragazzo scopre la passione per la letteratura americana leggendo autori pulp come Lovecraft e Howard, ma anche Fante, Bukowski, Steinbeck. Studi di architettura, una laurea in scienze e tecnologie della comunicazione, vari mestieri, dall’operaio al grafico e illustratore freelance, poi l’approdo al giornale online “Ferraraitalia”, quindi a Periscopio,  come autore e vignettista.

Evento a cura del Consorzio Eventi Editoriali, Cover del libro dell’autore

UN BEL POSTO DOVE VIVERE.
9 suggerimenti per costruire piccoli mondi a misura d’uomo

Un bel posto dove vivere.  9 suggerimenti per costruire piccoli mondi a misura d’uomo

Un un contesto sociale sempre più urbanizzato e sempre più mobile sembra essersi modificato radicalmente il legame delle persone con i luoghi e delle comunità con i territori che abitano. Da un lato, come ha notato Marshall McLuhan, più aumenta la mobilità e, in particolare, la velocità della mobilità, più viene distrutta la possibilità della comunità”; dall’altro gli spazi sono sempre più privatizzati e ridotti a merce, trasformati in mero panorama in alcuni casi, spesso de-classificati a contenitori di beni e di oggetti, ridotti a supporti per il traffico di merci ed informazioni o, peggio ancora, deprezzati e ridotti a discariche per le esternalità della produzione e del consumo. Malgrado questo non possiamo che vivere in un ambiente senza mai dimenticare che la qualità della nostra vita dipende ampiamente dalla qualità dell’ecosistema in cui viviamo.

L’uomo del futuro, che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’immaginario cinematografico scaturito dagli incubi visionari di Philip K.Dick, rimane un monito e allo stesso tempo una sinistra possibilità. Oggi comunque nessuno può vivere nei circuiti digitali dove viaggia il capitale globale e dove scorrono le informazioni; nessuno può ancora vivere bene nei circuiti della logistica planetaria, dove circolano le merci stipate nei container, non meno delle persone inscatolate nei charter; non possiamo vivere a lungo e in salute in non luoghi e negli ambienti degradati; per fortuna gran parte di noi vive ancora in uno spazio fisico, in un territorio, in un posto che si può riconoscere come “casa”.

Malgrado si viva sommersi da prodotti materiali e servizi c’è ancora chi resta convinto che la qualità della vita e la salute dipendano anche dalla possibilità di respirare aria pulita, bere acqua pura, godere di buoni paesaggi, mangiare cibi naturali e salubri, coltivare buone relazioni personali, vivere in spazi a misura d’uomo, disporre di tempo libero, conoscere gli altri e conoscere se stessi. Il sistema socio-economico in cui viviamo non nega affatto queste possibilità: lo fa però attraverso la trasformazione dei bisogni in merci e servizi, attraverso il mercato, la privatizzazione e, in ultima istanza (e purtroppo) attraverso la distruzione dell’ambiente, delle culture, dei beni comuni e collettivi.
Emerge con tutta evidenza la miopia di un discorso collettivo tutto centrato sul PIL, sulla crescita, sul teatrino della politica totalmente succube dei poteri forti della finanza, dove la democrazia diventa una rappresentazione rituale e stereotipata, dove la sostenibilità viene ridotta a semplice argomentazione, quasi sempre priva di applicazioni concrete. A fronte di questo c’è l’opportunità per ogni cittadino di cambiare rotta, di uscire dalle conversazioni politicamente corrette, di guardarsi attorno, di pensare e di proporre qualcosa, lavorando su ciò che è vicino e di cui ci si può prendere cura direttamente.

Cosa chiedere dunque, cosa suggerire? Cosa serve per costruire qualcosa di meglio a partire dal basso, dal territorio e dalle comunità? In che modo dare senso e contenuto alla massima “pensare globalmente agire localmente”?

  • 1. Servono spazi ben organizzati dal punto di vista urbanistico, nei quali poter vivere a misura delle fragilità umane, partendo dal presupposto che i bisogni essenziali delle persone vengono prima di quelli riconducibili alle merci; un territorio organizzato in modo tale che le fasce più deboli della popolazione, anziani, bambini, diversamente abili e ammalati, possano esercitare l’elementare diritto alla cittadinanza, alla mobilità pedonale, al gioco e alla sicurezza e, in tal modo, possano vivere la propria naturale socialità indipendentemente dall’esistenza di prodotti e servizi a pagamento. Il territorio non può essere regolato dalla logica della speculazione e della corruzione che rappresenta fin troppo spesso il volto visibile del mercato.
  • 2. Servono luoghi di vita nei quali poter praticare e sviluppare la nostra capacità di contemplazione esteticaLuoghi che valorizzino il patrimonio ambientale e culturale, dove si presti grande cura alla qualità urbanistica ed architettonica, alla qualità dell’aria che si respira e dell’acqua che si beve. Non è più sostenibile la vita in territori abbruttiti dai quali si evade di tanto in tanto per godere a pagamento di spazi dedicati ad un benessere momentaneo.
  • 3. Servono infrastrutture tecnologiche intelligenti, piattaforme diffuse che favoriscano l’apprendimento, che generino capacità, che diminuiscano gli sprechi e che non esproprino le persone dei loro talenti per sostituirli sempre con merci e servizi a pagamento. Le tecnologie abilitanti che si presentano in forma di reti ed autostrade digitali, sistemi di controllo intelligenti, sistemi di coproduzione energetica e quant’altro, rappresentano un modo per attivare il protagonismo e la responsabilità delle persone e un mezzo per rendere le comunità maggiormente protagoniste del proprio destino.
  • 4. Serve un modo nuovo di guardare ai bisogni delle persone, capace di separare ciò che è essenziale in termini di promozione della libertà e delle capacità personali e dei gruppi da ciò che è indotto dalla coazione al consumo. Il bisogno è sia una carenza che una motivazione, una spinta all’azione: non è più sostenibile che il bisogno venga esclusivamente ridotto ad una funzione della produzione, mentre questa dipende dai giochi di una finanza completamente sganciata dalla realtà della vita delle persone. Non è bene che i bisogni vengano definiti in via esclusiva da una casta di professionisti il cui unico scopo è salvaguardare ed ampliare la propria sfera di influenza con i relativi benefici economici.
  • 5. Serve una conoscenza reale e diffusa del territorio, della cultura e dell’ambiente in cui si vive; spesso è qui infatti che sono presenti straordinari saperi, conoscenze e competenze che non possono essere ridotte al mero folklore o relegate al campo dell’obsoleto; esse costituiscono di per sé potenziali micro agenzie formative non formali che si collocano al di fuori dei circuiti (scolastici) ufficiali. In Italia la ricchezza di questo patrimonio è straordinaria: si tratta di importanti dimensioni di senso che possono acquisire una rilevante dimensione anche economica se si esce dagli stereotipi dei mercati di massa e si osservano con cura le opportunità dei mercati di nicchia. Queste agenzie non formali di apprendimento vanno riscoperte a valorizzate in modi innovativi che vadano oltre la logica del nobile e antico imparare a bottega.
  • 6. Bisogna riconoscere e valorizzare, accanto all’economia formale, l‘economia informale, conviviale e familiare, che comunica e produce senso attraverso lo scambio di beni e servizi non contabilizzati. È il recupero dell’economia del dono, dell’informalità, della socievolezza che può dare più valore alla vita sociale senza nulla togliere all’importanza dell’economia ufficiale.
  • 7. Serve una consapevolezza diffusa circa i danni alla salute che sono causati da uno stile di vita dissipativo, dall’alimentazione insalubre spinta dalla corsa al profitto, dal vivere in ambienti inquinati, pensati per le merci e non per gli uomini che, ridotti a consumatori, quelle dovrebbero semplicemente produrre e consumare. Le evidenze sono chiarissime pubblicamente dichiarate dalle agenzie sanitarie ma sempre disattese alla prova dei fatti.
  • 8. Servono nuove storie, nuove narrazioni e nuovi miti capaci di sostenere un cambiamento di enorme portata che ci investe nel profondo. Bisogna infatti riconoscere che sono le strutture narrative ben più dei numeri e delle statistiche che ci consentono di comprendere il mondo come ben sanno tutti i manipolatori della pubblica opinione, i professionisti dei media e i pubblicitari.
  • 9. Soprattutto servono persone capaci di motivare ed entusiasmare, di portare modi alternativi di vedere le cose dentro processi decisionali che sono attualmente abbandonati agli interessi della speculazione ed ai meccanismi apparentemente impersonali della burocrazia e della finanza.
Su tutte queste tematiche esiste un ampio dibattito che fatica però a tradursi in pratica; da un lato la comunicazione è soffocata e traviata dalla retorica mainstream; dall’altro troppi attori interessati si sono impadroniti della forma ma non della sostanza di queste argomentazioni: capitale sociale, resilienza, crescita sostenibile, sviluppo di comunità, innovazione sociale, programmazione partecipata, integrazione di politiche locali, governance locale, inclusione, sono le etichette che ad ondate successive si abbattono sui territori, solitamente senza alcuna consapevolezza dei fini e dei valori che veicolano e dei vincoli che pongono se correttamente applicate.
Purtroppo basta girare ed osservare lo scempio degli ultimi 30 anni per capire come all’aumentare della retorica della sostenibilità sia aumentato anche e in misura decisamente maggiore il danno prodotto.
Impossibile uscirne?
NO, se appena si riconosce l’impotenza di un pensiero basato sull’unico feticcio della crescita ad ogni costo e sull’idolatria del mercato e del profitto per il profitto;
NO, se si sanno cogliere e valorizzare i semi di cambiamento che già esistono, assumendo consapevolmente un ruolo di cittadini più attivi attenti a quello che abbiamo intorno e vicino.
Intanto, facciamo un sforzo per uscire dai miti dissipativi ed iniziamo ad inventare, costruire e raccontare storie buone e diverse.
Si può fare,
Passaparola!

Le storie di Costanza /
Novembre 2062 – Il piastrino medicale

Le storie di Costanza. Novembre 2062 – Il piastrino medicale

A novembre c’è la nebbia e si mangiano le castagne arrosto. Zeus-t le deposita ancora bollenti nelle ciotole di legno e le trasporta volando ai commensali. Buone e calde sanno d’autunno e di tepore, sono gialle e dolci.  Mi trovo a casa della prozia Costanza e della nonna Cecilia in via Santoni Rosa. Qui abitano i ‘santoniani’, buona parte dei miei parenti.

Sono le sedici, sono tornata da Trescia e invece di andare dritta a casa mia, ho fatto una deviazione girando in questa via stretta e corta dove abitano i miei nonni e i miei zii. Mi piace venire in questa casa, perché la prozia mi dice sempre che sono bella e brava, perché la casa è accogliente, perché i canarini che qui vivono, sono colorati e canterini e mi allietano le giornate con la loro presenza saltellante.

Pit-x è l’uccellino meccatronico che abita nella voliera di Costanza. Saltella sempre di qui e di là e fa girare la testa velocemente, un piccolo periscopio sempre in movimento. Mi sono seduta in terra sul tappeto di mollan che è posizionato in parte sotto la voliera e in parte la precede, creando una piccola area coperta dove è piacevole riposare.

Sono qui senza scarpe, con i jeans e un maglione, i capelli legati, alcuni braccialetti di stoffa colorata legati al braccio sinistro, vicino al cinturino dell’orologio, me li ha regalati Dylan.

Sul braccio destro ho invece posizionato il piastrino medicale, piccolo computer che serve per rilevare l’eventuale anomalia dei miei parametri vitali. È collegato ad una grossa macchina dell’ospedale, in modo che se succede qualcosa, i sanitari mi chiamano e io vado là per farmi curare.

Per fortuna non capita quasi mai che delle persone vengano allertate per recarsi urgentemente dai medici. I controlli periodici bastano per scongiurare la presenza di malattie gravi e il piastrino dorme silente attaccato al braccio. Molte persone non lo vogliono, dicono che quell’affare mette ansia e che non si può permettere ai medici di spiare continuamente lo stato di salute della gente.

Facciano come preferiscono, io lo voglio, a me piace averlo al braccio, lo trovo tranquillizzante. So che, se mi dovesse succedere qualcosa di grave, ci penserebbe il piastrino ad aiutarmi.
Quasi tutti i miei compagni di università lo usano, mentre molte persone anziane lo detestano, lo considerano un’intrusione inaccettabile nella normalità della loro vita.

Credo che questa opposizione di vedute sia proprio un segnale dei tempi che passano. I giovani trovano normale e utile portare il piastrino, gli anziani il contrario. Non fa parte della loro storia, delle loro abitudini. Quel piccolo computer da polso è un forte indicatore di come la meccatronica e i suoi apparecchi accompagnano la nostra vita, praticamente in tutto. A noi giovani sembra normale, ai vecchi sembra intrusiva la sua presenza e coercitivo il suo uso.

I piastrini sono graziosi. Ci sono sia monocolore sia variopinti e alcuni hanno anche delle piccole pietre incastonate. Il mio ha un brillantino minuscolo che lo fa luccicare quando il braccio è girato in modo da incontrare direttamente la luce. Sul mio polso brilla per un attimo una piccola stella, poi la luce scompare e resta la presenza di quell’oggetto che ci conosce alla perfezione.
Sa quanti battiti ha fatto il nostro cuore da quando siamo nati, quanti ne ha fatti nell’ultimo anno, nell’ultimo giorno e nell’ultima ora.
Sa più di quanto ne sappiamo noi della nostra salute, forse è proprio questo tipo di sapienza che fa paura, a cui bisogna abituarsi un po’ alla volta. I nativi del piastrino sono diversi dagli altri esseri umani, hanno incorporato dentro la loro percezione corporea (ciò che è il loro corpo) un apparecchio che li aiuta ma non è congenito, è tardivo e applicato.

Il piastrino può anche essere portato come un collare legato al collo. Una specie di collana un po’ rigida che manifesta la sua presenza quotidianamente. A me messo al collo non piace, sembra un po’ un collare per cani, un po’ un monile di una sfinge egizia e un po’ un cappio. Troppo impegnativo e omologante. Lo preferisco al braccio, è più discreto, più anonimo. Accompagna senza invadere, è presente in maniera meno aggressiva.

Quanto il nostro corpo sia autentico e quanto sia bionico, cioè aiutato da apparecchiature costruite, rende alcune considerazioni sulla durata della vita e sulla sua qualità, attuali. Retine finte, dita finte, fegati prodotti in laboratorio, impianti ed espianti di quasi tutti gli organi vitali, farmaci che fanno crescere e rimpicciolire organi esistenti, potenti intromissioni sui DNA dei bambini, quanto su quello degli anziani. Molte malattie scomparse, altre appena arrivate. Una vita lunga, piena di accidenti. Questo è quello che ci garantisce quest’anno che si avvicina alla fine.

Novembre è il penultimo mese dell’anno. Se uno guarda fuori dalla finestra capisce il perché. È un anno vecchio quello che ci accompagna in questi giorni, tetro. Ha già vissuto la primavera e l’estate, i suoi giorni migliori sono sbocciati tra i fiori e si sono arroventato col caldo di agosto.

Settembre ha ingiallito le foglie e colorato d’azzurro il cielo, ora restano novembre e dicembre e poi un nuovo anno arriverà con tutti i suoi campanelli. Come quello della befana, che il nuovo anno accompagna. Novembre è grigio e nebbioso, novembre è buio. Eppure, a me piace. Si può stare seduti sul tappeto e leggere, parlare, pensare, fantasticare. Fare ipotesi su come sarà il Natale, su come sarà il prossimo anno.

Quando il tempo col suo grigiore lascia spazio alla fantasia umana come forme di rimedio e sollievo, nascono i migliori pensieri, il cervello si rigenera in un processo introspettivo che non ha bisogno di riscontri che vengono dai tramonti rossi e dalle mattine bianche e brillanti. Il pensiero di novembre si rigenera nel cervello e nel cuore. Trae linfa vitale dai ricordi e sostanza nelle aspettative.

Qui seduta sul tappeto sto pensando che per Natale regalerò un piastrino a Dylan, il mio migliore amico. Credo che ne sceglierò una versione semplice, color metallo con sfumature azzurre. Lo vorrei quadrato con il cinturino di cauton trasparente.

Il cauton è un polimero traspirante e leggerissimo, un cinturino di cauton pesa circa due grammi. Come non averlo. Così uno si dimentica il piccolo computer da polso e convive con esso come con i suoi capelli e le sue unghie. Dylan ne ha già uno, ma si lamenta perché dice che è troppo grande e colorato. In realtà è a strisce rosse, bianche e blu. Ricorda la bandiera francese. È ora di cambiarlo e di renderlo più moderno, ci sta.

Pensando al regalo da fare a Dylan mi torna in mente che, circa dieci anni fa, alla prozia Rachele è successa una disavventura. Davanti alla palazzina dove abita a Torino c’è un tombino. In una mattina piovosa la prozia è scivolata sull’asfalto davanti a casa e, per mantenersi in piedi, si è appoggiata con il braccio destro al muro vicino. La malaugurata sorte ha voluto che, a causa dell’urto violento del polso contro il muro, il piastrino si sia staccato e sia caduto nel tombino.

Così sono iniziate tutta una serie di manovre per recuperarlo, prima compiute direttamente da Rachele e poi da buona parte del vicinato che un po’ alla volta, allertato dalla strana posizione semisupina della prozia davanti alla porta di casa, si è avvicinata per portare il suo aiuto a quella povera donna sofferente.

La sofferenza non dipendeva però da un problema fisico appena insorto e la strana posizione non era causata da un malessere improvviso, ma semplicemente dal fatto che la prozia era stesa a terra e aveva infilato il braccio nel tombino per recuperare il suo piastrino. Nel tombino sono così stati inseriti pezzi di stoffa, di plastica, fil di ferro, uncini più o meno lunghi, stringhe, lacci per le scarpe, fibbie, corde con piccoli arpioni fissati in testa. Non c’è stato niente da fare, in piastrino è rimasto sul fondo del tombino.

Dopo diversi tentavi la prozia e i vicini si sono trovati tutti bagnati e doloranti per strada e l’impresa è stata abbandonata, anche perché, come tutti gli apparecchi meccatronici, anche i piastrini temono l’acqua e quello di Rachele era ormai inzuppato e moribondo.

È stato Pino a decidere che era ora di abbandonare l’impresa di recupero: “lasciamolo lì, ormai non c’è più niente da fare, portiamo in salvo noi stessi da questa pioggia, prima che ci venga la polmonite”. Alcuni vicini si sono adeguati subito alla proposta, altri hanno messo in atto un ultimo tentativo di recupero, per poi abbandonare definitivamente l’impresa.

Il piastrino medicale, ormai fuori uso, è stato recuperato il giorno dopo da un netturbino. Dopo essere stato ripulito, è stato deposto in uno dei cassetti del comodino di Rachele, come ricordo nefasto di quel che può succedere nelle giornate di pioggia. Per comprarne uno nuovo ci vuole circa uno stipendio di un impiegato, non uno sproposito, ma nemmeno un nonnulla. Ci sono anche sottomarche che hanno prezzi molto più bassi per chi non può permettersi altro.

Esiste anche una diatriba politica sul fatto che sia o non sia il caso di fornirlo a tutti gratuitamente, di fornirlo facendo pagare solo il ticket, di renderlo gratuito solo per i giovani, solo per gli anziani. Il dibattito prosegue e non sembra volersi arrestare. Intanto il tempo passa, e gli strilli dei politici riempiono la piazza.

Di fatto, ognuno compera il piastrino in base ai soldi che ha. Due anni fa io e mio fratello Gianblu ne abbiamo regalato uno alla prozia Costanza, per il suo compleanno. Prima ci ha abbracciato e poi ci ha detto con la sua voce squillante: “Grazie ragazzi miei, terrò il vostro regalo nel comodino e quando sarò vecchia vedrò di utilizzarlo!”

La zia ha novant’anni, ma il minicomputer al polso non se lo mette mai. È proprio vero che l’idea di vecchiaia e giovinezza ha una componente di soggettività importante. Anche per il concetto di utilità e non utilità è così, come per quello di salute e non salute, di essenzialità.

Così ognuno continua a fare ciò che vuole, a usare o non usare il piastrino medicale, facendo impazzire i sanitari e rivendicando nella quotidianità l’autonomia di decidere ciò che significa libertà. Viene rivendicata l’autonomia di decidere se la regolarità dei parametri vitali determina l’essenzialità dei giorni che viviamo.

Non so. Mi viene in mente l’accidentalità degli eventi che fanno battere il cuore, il colore delle emozioni e il vento della passione che spira forte e violento.  Il cuore che batte forte è uno dei pochi eventi che, qualche volta, riesce a cambiare la nostra vita.

I parametri vitali si alterano e l’esistenza cambia strada senza necessariamente passare dall’ospedale. Allora il piastrino può anche squillare ma nessuno lo ascolta, come quando il navigatore viene spento per ritrovare il senso della strada che si farà. Nel cammino, nel vento, per il tempo che sarà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Passante di Mezzo a Bologna: La resistenza cresce

Passante di Mezzo a Bologna: La resistenza cresce

Continua la lotta contro il Passante di Mezzo a Bologna. Giovedì attiviste e attivisti del comitato Chico Mendes, residenti del quartiere Navile, e altri della galassia “No Passante” si sono riuniti sotto la sede regionale dell’Arpae Emilia Romagna a Bologna.

Appena iniziata la “spentolata” di protesta, dall’Arpae sono scesi subito a parlare con i manifestanti.

“Abbiamo chiesto all’Arpae dati aggiornati sull’inquinamento dell’aria, forniti dalle nuove centraline lungo la tangenziale, ci hanno detto che le centraline non sono gestite da Arpa ma da Autostrade, e che i dati vengono pubblicati dall’Osservatorio ambientale per il Passante, dove comunque siede anche Arpae. I dati finora pubblicati, accorpati e trimestrali non sono sufficienti, né confrontabili con quelli della VIA. Ci hanno assicurato che porteranno la nostra richiesta in Osservatorio” riassume Elisa, attivista di Chico Mendes “noi continueremo a pressare e vigilare affinché ciò avvenga”.

“Altro punto cruciale è la Valutazione di Impatto Ambientale che risale al 2016, già scaduta (dopo 5 anni ndr) e riproposta senza alcun aggiornamento, nonostante si basi su dati, studi e tendenze già smentiti dai processi in corso, che sottostimano l’inquinamento del traffico”. Le associazioni aspettano a questo riguardo la sentenza del Tar al quale hanno fatto ricorso.

Dall’inizio del 2023 però sono partiti i cantieri “preliminari” per il Passante che già hanno portato all’abbattimento di migliaia di grandi alberi per il cosiddetto “lotto 0”.

“Nonostante siamo in assenza di un Progetto Esecutivo del Passante di Bologna (fermo al Ministero competente), qui a Bologna già si chiudono parchi e giardini pubblici, e si abbattono migliaia di alberi, che costituiscono un patrimonio comune” denunciano gli attivisti.

L’assemblea no Passante è stata finora promotrice di grandi manifestazioni popolari (come quella del 22 ottobre 2022 con 30 mila persone) oltre a continue “spentolate” rumorose sotto al Comune di Bologna per contestare il “greenwashing” e chiedere la Valutazione di Impatto Sanitario.

Mercoledì sera intanto l’assemblea cittadina (100 cittadini sorteggiati e rappresentativi della composizione sociale di Bologna), fortemente richiesta da Extinction Rebellion, dopo mesi di incontri e formazione, ha votato un documento conclusivo con svariate proposte. Quella che più spicca è proprio la VIS, la Valutazione di Impatto Sanitario per il Passante, che considera il danno alla salute provocato provocato dall’allargamento del Passante in un’area urbana densamente popolata, tra scuole, case e centri sociali. Allargare il Passante di Mezzo significherà infatti il passaggio di ulteriori 25 mila veicoli al giorno rispetto ad ora, per un totale di 65 milioni veicoli l’anno, con un aumento evidente di poveri sottili e inquinanti. Oggi il Passante produce più del 40% dello smog cittadino, con l’ampliamento, aumenterà ad almeno il 50%, in una zona, quella della Pianura Padana già tra le più inquinate in Europa. A dispetto della lotta al consumo di suolo, 25 ettari di territorio saranno asfaltati tra San Lazzaro e Borgo Panigale, le emissioni di CO2 totali saranno 266 mila all’anno, (+1850) rispetto al non allargamento.

Ora la palla passa al Consiglio Comunale che potrebbe decidere di cassare le richieste “scomode” dell’assemblea cittadina (come la VIS) e accettare solo quelle comode e inoffensive, ma per la Bologna progressista e “verde” (come si dipinge) sarebbe un ulteriore smacco.

Per domenica 19 novembre alle 10, intanto è prevista una nuova “spentolata” di protesta sotto al Comune di Bologna e alle 16 assemblea al circolo Caserme Rosse, via di Corticella.

Linda Maggiori
Sono nata a Recanati nel 1981, fin da piccola ho sempre adorato scrivere e lottare contro le ingiustizie. Laureata in Scienze dell’Educazione e Servizio sociale ho fatto varie esperienze come educatrice. Ho scritto vari libri per adulti e bambini sull’ambiente, sono blogger per il Fatto Quotidiano, collaboro come giornalista con Terra Nuova, il Manifesto, e con la testata di comunicazione ambientale Envi.info. Vivo a Faenza (Ra), con mio marito e i nostri quatto figli, dove da 10 anni sperimentiamo e testimoniamo uno stile di vita sostenibile: senz’auto, a rifiuti (quasi) zero, con solo energia rinnovabile.

CPR A FERRARA: LA CATTIVERIA E L’IGNORANZA.
Eppure si potrebbe cambiare rotta e restare umani

CPR a Ferrara: la cattiveria e l’ignoranza. Costruire un altro carcere,  trattare le persone come virus da isolare, significa solo un rischio per la società. Invece si potrebbe cambiare rotta e “restare umani”. Con risultati migliori. 

Ho un ricordo: l’ultimo comizio in piazza a Ferrara tenuto da Alan Fabbri accompagnato da Matteo Salvini prima dell’elezione a sindaco.
In quella occasione Fabbri disse che se fosse diventato sindaco a Ferrara non si sarebbero più visti i burqa. Non donne con il velo, ma proprio donne con il burqa, ovvero quell’abito che copre integralmente corpo e viso delle donne.
Ora penso che forse sia Salvini che Fabbri intendessero il velo, quello che anche mia madre portava negli anni 70: a Ferrara non ho mai visto donne con il burqa.

Dichiarazioni e promesse fatte con superficialità e cattiveria, non supportate da alcuna realtà e verità.

Ora, costruire un CPR a Ferrara per questa Giunta, che voleva debellare il burqa, parrebbe  essere utile per gestire problemi di irregolarità e criminalità.

Problemi per i quali esiste già un carcere, che si è visto non essere il sistema più adeguato per gestire problemi di irregolarità e che rappresenta un costo in termini di violazione sia dei diritti umani che di quelli economici, in assenza di un reale rischio che le persone migranti perlopiù trattenute rappresentino un vero pericolo per la società.

Ricordo che già le attuali leggi vigenti in materia di espulsione non riescono ad essere applicate per ragioni su cui sarebbe utile tornare a ragionare e che espellere le persone comporta comunque costi molto elevati: esistono infatti già progetti e sistemi di rimpatrio volontario e forzato che faticano ad essere attuati anche per poche persone.

Perché dunque costruire un CPR dove arriverebbero migranti da ogni luogo e che rappresenterebbe un bacino di raccolta di persone trattate come virus da isolare?  Se fosse cosi si costruirebbe davvero un centro di rischio per la salute pubblica.
Oppure saremmo di fronte alla costruzione di una sorta di “albergo” per migranti? In questo caso qualcuno di esterno e non migrante potrebbe rivendicare giustamente il diritto di essere accolto.

Ma sappiamo che i CPR sono in realtà carceri.

Ancora una volta a mio avviso il vero scopo è quello di coprire, spostare, confondere e negare  i problemi piuttosto che risolverli.
Problemi che se non risolti adeguatamente diventeranno ancora più grandi.

Ma sicuramente il ministro Piantedosi verrà a spiegarci meglio e a convincerci che possiamo essere migliori rispetto a quei territori in cui questi centri sono stati chiusi. Verrà a spiegarci come Ferrara diventerà migliore invece che spiegare noi a lui di cosa abbiamo bisogno.

Perché non cambiare la rotta?

Perché non permettere alle persone di girare più liberamente, non quelle pericolose certamente, (ricordo che i migranti sono fotosegnalati tutti gli anni e sono come ho detto sopra sottoposti a controlli ed espulsioni) invece che tenerle in ostaggio per tantissimo tempo con l’attesa del rilascio di un permesso di soggiorno? Magari assumendo più personale di polizia?

Perché non permettere loro di raggiungere amici e parenti che spesso non sono in Italia; di andare a cercare un lavoro altrove o di lavorare in regola per pagare le tasse e potersi pagare un affitto o costruire la propria casa?

Perché non accogliere con gioia i bambini, molti migranti, che nascono e creare nuovi asili per rendere questa città una città viva in cui età e provenienza sono ricchezze da valorizzare?

Bambine e bambini nati o arrivati a Ferrara che non possono possono diventare italiani (Miriam Cariani, tecnica acquarello)

bambina

Certo, questi sono solo esempi di una realtà complessa che alcuni vogliono semplificare, a scapito dei tanti, puntando sulla paura delle persone che sono stanche e non ce la fanno più e per questo sempre più vulnerabili.

Mentre c’è una realtà, fatta di persone che lavorano da anni presso associazioni, organizzazioni, istituzioni , che conosce soluzioni migliori purtroppo di difficile attuazione senza il sostegno di un governo centrale e locale diverso, che abbia a cuore la salute delle persone e non gli interessi di pochi.

È un principio  che vale a Ferrara, in Italia, ovunque.

Sui CPR solo propaganda e disinformazione. Perché non ci dicono che il modello detentivo dei CPR è un assoluto fallimento?

Ferrara, leggo dalla stampa locale, molto probabilmente sarà tra la decina di capoluoghi in tutta Italia a ospitare uno dei nuovi CPR per migranti previsti dal governo Meloni. Mi immedesimo nei panni di un cittadino ferrarese e mi sento un po’ in ansia.

Continuo a leggere e trovo un virgolettato del Sindaco Fabbri: “questo (il CPR) ci consentirà anche di poter chiedere di avere immediato e diretto accesso al sistema di espulsione di soggetti pericolosi per il nostro territorio ferrarese”.

Leggo un ulteriore articolo in cui si minacciano barricate in zona via Aeroporto, sull’esempio delle barricate di Gorino, che respinsero una dozzina di donne migranti, alcune incinta.
E mi rendo conto quanta responsabilità ha la disinformazione e la propaganda nel fare leva su un sentimento di paura ed insicurezza dei cittadini, che avrebbero diritto ad una corretta informazione.

Cosa sono i CPR?

I CPR Centri di Permanenza per i Rimpatri sono dei centri in cui le persone sono detenute per motivi amministrativi. In questi Centri finiscono non persone che hanno commesso furti, rapine o aggressioni, come lascia intendere il Sindaco e i timori di alcuni cittadini particolarmente allarmati, ma quelli che si trovano in Italia senza un regolare permesso di soggiorno, e che per questo devono essere allontanati dal territorio nazionale. I CPR sono, tecnicamente, luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (art. 14, D.Lgs. 286/1998).

Stiamo quindi parlando di irregolarità amministrative. L’irregolarità amministrativa non equivale a criminalità. In Italia, si diventa irregolari per banali motivi burocratici, ad esempio perché si è perso il lavoro (la legge Bossi-Fini lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro), o perché si sono visti rifiutare la domanda di asilo, o per altri motivi che non hanno a che fare con la pericolosità sociale. Prova ne è che se si commette un reato non si finisce nel CPR.

Nei CPR si è detenuti a tutti gli effetti, ovvero privati della libertà personale e sottoposti ad un regime di coercizione che, tra le altre cose, impedisce di ricevere visite, di far valere il fondamentale diritto alla difesa legale e ancor più di andarsene a spasso per la città. Si entra in un CPR e si è reclusi fino allo spostamento finalizzato all’espatrio. Fareste le barricate davanti al carcere di Ferrara?

CPR: centri di detenzione in assenza di reato penale

I CPR, quindi, sono luoghi di detenzione a tutti gli effetti, in cui però sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato penale. Questi centri di detenzione, però, sono esterni al normale circuito penitenziario e non sono sottoposti ai controlli che l’autorità giudiziaria esercita normalmente nelle carceri. La loro gestione è affidata interamente alla polizia e al Ministero dell’Interno.
I tempi di durata massima della detenzione sono diventati sempre più lunghi: nel 1998 erano di 30 giorni, nel 2023 sono diventati di 18 mesi, con i relativi costi esorbitanti. A questo però non è corrisposto un tasso crescente di rimpatri, anzi: i rimpatri continuano a diminuire, dal 60% del 2014 si è passati al 49% del 2021.

Iconografica CPR in Italia

CPR, storia di un fallimento: quasi il 70% dei rimpatri dai CPR è di soli cittadini tunisini

Sono questi i tratti caratteristici del sistema dei CPR raccolti nel report pubblicato pochi mesi fa “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” di ActionAid e del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari. Un lavoro di analisi dettagliata di dati sul sistema di detenzione dei Centri di permanenza per il rimpatrio dal 2014 al 2021, raccolti grazie a 51 richieste di accesso agli atti a Ministero dell’Interno, Prefetture e Questure e a 30 richieste di riesame. Un lavoro di ricostruzione di informazioni, dal dato complessivo fino alla singola struttura, disponibile in formato accessibile e aperto a tutti sulla nuova piattaforma Trattenuti.

Fabrizio Coresi, esperto Migrazioni ActionAid, nelle conclusioni del rapporto scrive “Dall’Italia si rimpatria sempre di meno e con modalità̀ sempre più̀ coercitive. Accanto all’allarmante aumento dei costi umani ed economici della politica di rimpatrio, preoccupa la sempre maggiore diversificazione del sistema detentivo…. Ciò rischia di portare ad una moltiplicazione di strutture detentive non censite, situate in luoghi “idonei” o in aree militarizzate sottratte al controllo della società civile. Il rischio è quello di una ulteriore riduzione della trasparenza e dell’accessibilità di luoghi dove, è bene ricordarlo, le persone vengono private della libertà personale senza aver violato la legge penale”.

Restiamo umani

Alla base della nostra Costituzione, e  di qualsiasi democrazia, vi è il rispetto per la dignità umana e per i diritti universali dell’uomo, che troppo spesso, vengono calpestati. Il rispetto per la dignità umana è emerso dagli orrori delle guerre e dei totalitarismi novecenteschi e rappresenta la base  della nostra conquistata libertà. Dimenticarsene, spalanca le porte a venti pericolosi ed inquietanti.

Come Mediterranea Saving Humans Ferrara denunciamo la mancanza di politiche non propagandistiche, capaci di affrontare seriamente e dignitosamente i fenomeni migratori, ad esempio con corridoi umanitari che consentano a donne, uomini e bambini di ottenere dei visti regolari prima della partenza, così da evitare di intraprendere viaggi mortiferi o di finire nelle mani di trafficanti e aguzzini; la possibilità di superare il trattato di Dublino consentendo una reale ed operativa redistribuzione delle persone nel continente europeo, aumentando ad esempio il personale degli uffici pubblici preposti alla valutazione ed al rilascio dei permessi di soggiorno, così che le pratiche possano essere evase nei tempi di legge, piuttosto che in tre o quattro anni!

Questo governo sceglie, ancora una volta, di considerare la migrazione di uomini e donne come un problema securitario e di ordine pubblico, che si può affrontare solo con repressione, carcerazione, espulsione. E se i reati non sussistono, piuttosto si impiegano tempo e risorse per crearli ex novo.

Anna Zonari
Portavoce di Mediterranea Saving Humans – Ferrara

Per certi versi /
Apologia del cane

Apologia del cane

Credo
Che siamo
Come italiani
Gli unici
Al mondo
A bestemmiare
A imprecare
Con la parola
Cane
A infierire
Sulle parole
Mettendoci
Il cane
Ma perché…
Travis
Mio pastore aussie
Perché
Se guardo
I tuoi occhi
Fedeli
Buoni
Come il pane…C’è chi vi
AbbandonaUomo
Cane
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Torna a Roma, dal 13 al 19 novembre, CiakPolska Film Festival

CiakPolska Film Festival a Roma dal 13 al 19 novembre: film che raccontano la cinematografia polacca attraverso le opere di grandi autori classici. Inaugura Jerzy Skolimowski

Arriva a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, ma con una apertura speciale al Cinema Troisi di Trastevere, da lunedì 13 a domenica 19 novembre, la XI edizione di CiakPolska Film Festival appuntamento con la migliore produzione del cinema polacco.

Si parte lunedì 13 novembre al Cinema Troisi alle ore 19.30 con l’incontro con uno dei maestri del cinema mondiale, Jerzy Skolimowski, regista, sceneggiatore, attore, Leone d’Oro alla carriera al Festival di Venezia 2016, autore di capolavori come Il vergine (1967), La ragazza del bagno pubblico (1970), L’australiano (1978) Essential Killing (2010) e 11 minuti (2015).

Jerzy Skolimowski

Presenterà al pubblico, insieme alla co-sceneggiatrice Ewa Piaskowska, il suo ultimo film EO, vincitore del premio della giuria al festival di Cannes 2022. Un asino, liberato da un circo, inizia un viaggio attraverso l’Europa, durante il quale incontra e conosce le gioie e i dolori dell’umanità più varia. Una versione poetica, dolceamara e profondamente umanista di un road movie che ci aiuta a estendere i confini della nostra empatia. Modererà l’incontro Malgorzata Furdal, autrice di numerose pubblicazioni sul cinema polacco, tra cui un saggio dedicato a Skolimowski.

Da martedì 14 prende il via la rassegna Grandi classici del cinema polacco al Palazzo Esposizioni di Roma, in via Milano 9, che avrà luogo fino a domenica 19 novembre. Una settimana di cinema, resa possibile grazie agli Studi cinematografici WDFiF di Varsavia, che permetterà di riscoprire i capolavori, in versione restaurata, di alcuni grandi maestri che hanno segnato la storia del cinema non solo polacco, ma europeo e mondiale. Da Krzysztof Kieślowski Roman Polański Jerzy Skolimowski. Da Andrzej Wajda a Wanda Jakubowska, Wojciech Jerzy Has, Andrzej Munk Krzysztof Zanussi.

Inaugura la rassegna martedì 14 alle 20.00 Segni particolari: nessuno (1965) alla presenza del regista Jerzy Skolimowski. Il folgorante debutto di Jerzy Skolimowski e al contempo il ritratto di una generazione. È il racconto delle ultime ore di libertà prima della partenza per la leva militare di Andrzej Leszczyc (interpretato dallo stesso regista) e delle sue scombinate peregrinazioni.

Segni particolari: nessuno (1965), di Jerzy Skolimowski

Si prosegue mercoledì 15 alle ore 20.00 con il primo di 5 corti documentari di Krzysztof Kieślowski che verranno presentati nel quadro della rassegna: Sette donne di età diversa (1978). Sette ballerine, un unico ritratto in un documentario che si fa composizione estremamente poetica sull’esistenza. A seguire L’ultima tappa (1948) di Wanda Jakubowska, una delle primissime testimonianze cinematografiche sulla Shoah, ambientato nel campo di Auschwitz-Birkenau, dove la stessa regista fu internata, la pellicola occupa un posto unico e leggendario nel cinema mondiale, nonché nella filmografia di Wanda Jakubowska, prima regista donna polacca ad affermarsi nel cinema.

Sette donne di età diversa (1978), di Krzysztof Kieślowski
L’ultima tappa (1948) di Wanda Jakubowska

Giovedì 16 alle ore 20.00 è in programma l’incontro con il regista cinematografico e teatrale,  sceneggiatore e docente Robert Gliński che parlerà di Wojeciech Jerzy Has (regista a cui lui stesso ha dedicato nel 2012 il documentario Trecce), maestro indiscusso della “scuola polacca” di cui è in programma la proiezione di Come essere amata (1963). Felicja ricorda i tempi dell’occupazione tedesca, quando diede rifugio nel suo appartamento a un attore, Wiktor, di cui si era innamorata. Has, autore del leggendario Manoscritto trovato a Saragozza, tra i film polacchi più ammirati di tutti i tempi, in Polonia come all’estero, tra i suoi ammiratori Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, realizza un’originale opera “storica”, in chiave non eroica, ma melodrammatica. Precede la visione di Come essere amata il cortometraggio La radiografia (1974) di Krzysztof Kieślowski. Nel quadro di una natura incontaminata, la telecamera raccoglie le confessioni dei ricoverati in un ospedale, i loro sogni e le loro paure.

Si prosegue venerdì 17 alle 20.00 con Teste parlanti (1980) di Krzysztof Kieślowski. Quando sei nato? Chi sei? Che cosa vorresti? Le interviste di Kieślowski a 44 polacchi, in ordine cronologico da 0 ai 100 anni. Uno dei documentari più famosi e premiati del regista polacco. Presentano Alessandro Aniballi e Daria Pomponio, nei 10 anni di attività di Quinlan.it.
A seguire Il coltello nell’acqua (1962) di Roman Polański, film d’esordio del regista polacco, Premio FIPRESCI a Venezia, primo film polacco candidato all’Oscar come miglior film straniero. Una coppia invita un giovane autostoppista per una gita in barca. Thriller carico di tensione e desiderio, Il coltello nell’acqua è il lungometraggio d’esordio di Polański.

Il coltello nell’acqua (1962) di Roman Polański

Sabato 18 novembre si comincia alle ore 17.00 con Ritornello (1972) di Krzysztof KieślowskiLa routine lavorativa di un’impresa di pompe funebri riflette lo spirito più profondo di una società dominata dal controllo. A seguire uno dei film più famosi della cinematografia polacca e una delle riflessioni più acute sulla Shoah, La passeggera (1964) opera capitale del grande maestro Andrzej MunkSu una crociera in rotta per Amburgo, alla passeggera Liza, che fu kapò ad Auschwitz, pare di riconoscere in un’altra viaggiatrice una delle sue prigioniere.

La passeggera (1964) di Andrzej Munk

Alle ore 20.00 La terra della grande promessa (1975) di Andrzej Wajda. Łódź, fine Ottocento: Karol, giovane nobile impiegato come capo ingegnere tessile, progetta di costruire una sua fabbrica; viene aiutato nell’impresa dal tedesco Maks e dall’ebreo Moryc. Ma in un mondo dominato dal denaro, la realizzazione dei sogni ha certamente un prezzo. Kolossal di grande potenza visiva, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 1976.

La terra della grande promessa (1975) di Andrzej Wajda

L’ultimo giorno della manifestazione domenica 19 novembre prende il via alle ore 17.00 con la proiezione speciale, in occasione della rassegna, di IDA (2013) opera di uno dei registi polacchi più conosciuti della scena contemporanea Paweł Pawlikowski, premio Oscar nel 2015. La diciottenne Anna, orfana cresciuta in convento, decide di farsi suora. Poco prima di prendere i voti, scopre di avere una zia ancora in vita, Wanda, la sorella di sua madreInsieme a lei la ragazza affronterà un viaggio alla scoperta di sé stessa e del proprio passato. A seguire alle ore 20.00 Sono stato un soldato (1970) di Krzysztof Kieślowski che a proposito del film dichiarò: È un documentario su degli uomini che hanno perso la vista facendo il soldato durante la Seconda Guerra Mondiale. (…) Io gli chiedo di raccontare i loro sogni. È di questo che il film parla in realtà.

Chiude la rassegna Illuminazione (1972) di Krzysztof ZanussiIl giovane Franciszek studia fisica, si innamora, si sposa e dà alla luce un figlio. L’improvvisa morte di un amico lo mette in crisi e lo costringe a prendere coscienza della fallibilità delle certezze scientifiche. Pardo d’Oro al Festival di Locarno del 1973, divenuto film di culto nella Polonia degli anni Settanta, Illuminazione presenta le tematiche più care al regista.

Illuminazione (1972) di Krzysztof Zanussi

La Rassegna “Grandi Classici del Cinema Polacco” è a cura degli Studi Cinematografici di Film e Documentari WFDiF (Documentary and Feature Film Studios). Organizzata da Studi Cinematografici di Film e Documentari WFDiF (Documentary and Feature Film Studios) e Istituto Polacco di Roma. In collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo e promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale. Partner: Raggio Verde Subtitles. La rassegna è finanziata dal Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia nell’ambito del progetto INSPIRING CULTURE.

Partner di CiakPolska 2023 IAM (Istituto Adam Mickiewicz), POT (Ufficio Turistico Polacco), Cinema Troisi-Piccolo America, Bergamo Film Meeting, Trieste Film Festival – Alpe Adria Cinema Fantafestival. Media Partner: Quinlan.it, Sentieri Selvaggi e Cineclandestino.
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti
Per la serata inaugurale del 13 novembre al Cinema Troisi, per l’incontro con Jerzy Skolimowski e la proiezione di EO, info e biglietti su https://cinematroisi.it/

Per le successive proiezioni del Festival al Palazzo delle Esposizioni Roma: Le prenotazioni si effettuano su www.palazzoesposizioni.it dalle ore 9,00 del giorno precedente alla proiezione fino a un’ora prima.

Proiezioni in versione originale con sottotitoli italiani

Informazioni e foto Ufficio stampa STORYFINDERS 

LIBERATE ASSANGE
UN FLASH MOB CHE DIVENTA SPETTACOLO

Ferrara, 11 novembre 2023
Ferrara si è svegliata. Lo scorso 20 settembre al cinema Apollo erano circa in 400 a vedere “ITHAKA”, il bellissimo docufilm di Ben Lawrence sul giornalista australiano Julian Assange,  attraverso le parole di suo padre, un padre perso e ritrovato. Allora, Alessandro Tagliati, uno dei promotori del Comitato Ferrara per Assange, aveva parlato appena 10 minuti per raccontare l’incredibile storia di un giornalista libero che per aver rivelato i crimini del governo e dello stato maggiore dell’esercito americano è stato perseguitato, quindi sbattuto in prigione, e ora in attesa di estradizione negli Stati Uniti dove è stato condannato a più di 170 anni di prigione.

Ricordo le facce di quella sera all’uscita dal cinema. Facce stupite e turbate, nessuno: nessun grande giornale, nessuna televisione, nessun giornalista sotto padrone, si era preso la briga di raccontargli le tappe della tragica epopea di Julian.  i una tragedia umana e politica.

Alessandro Tagliati, attivista per Julian Assange

Oggi, dopo meno di due mesi da quella serata, l’impegno per rompere il muro del silenzio ha suggerito agli attivisti ferraresi, con l’aiuto degli amici di  Bologna, la messa in scena di un evento di piazza. Il flash mob è diventato un piccolo spettacolo: scenografie (le scale, la gabbia rossa), maschere, musica e canzoni si sono intrecciate agli slogan, ai cartelli, ai volantini  e agli striscioni rossi con le frasi di Assange.

In Piazza Castello, nel centro di Ferrara, passanti e turisti si fermavano a guardare ed ascoltare: alla fine si era formato un gruppo di spettatori interessati.

Morale: per parlare di Julian Assange e farsi ascoltare, la creatività è fondamentale. Per fortuna, ai sostenitori si Assange e della Libertà di Stampa, questa dote non manca.

 

Ecco qualche scatto dell’evento.

 

               

 

Per informarsi e per aderire alla lotta per la Libertà di Julian Assange e la Libertà di Espressione e di Stampa: 
www.facebook.com/ferraraperassange
freeassangebologna@proton.me

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Omaggi di guerra: i pensieri dei bambini

Omaggi di guerra: i pensieri dei bambini,

Ecco i pensieri dei bambini e delle bambine della mia classe raccolti il giorno dopo il passaggio sulla città di Ferrara (e sulla scuola primaria “Bruno Ciari” di Cocomaro di Cona) di tre aerei da guerra che, come riportato dalla stampa locale, “hanno omaggiato la città” in occasione dell’attestato di cittadinanza onoraria consegnato dal vicesindaco Nicola Lodi al Comando Operazioni Aerospaziali dell’Aeronautica Militare di Poggio Renatico.

Il rombo così assordante ci aveva spaventato e i bambini e le bambine mi avevano chiesto se quelli fossero aerei da guerra; io mi ero impegnato ad informarmi.
Così il giorno dopo a scuola, prima di raccontare ciò che avevo letto, ho chiesto loro quali emozioni avevano provato mentre passavano quegli aerei che facevano quel rumore. Questo è quello che hanno raccontato.

Quando ho sentito passare nel cielo quei tre aerei…

– mi ha dato fastidio alle orecchie;
– ho avuto paura che cadessero nel cortile della scuola;
– ero curioso perché volevo vedere come erano fatti gli aerei;
– non ho sentito perché stavo saltando le foglie e stavo urlando forte;
– ho avuto paura perché pensavo che fossero aerei da guerra;
– ho avuto paura perché credevo fosse un aereo di Israele che venisse da noi;
– ho avuto paura che ci potessero scambiare per nemici;
– non ci ho fatto molto caso perché stavo correndo;
– ho avuto paura che lanciassero un missile per sbaglio;
– mi sembrava strano perché quando passano gli altri aerei non fanno tutto quel rumore;
– ho avuto paura perché pensavo fossero aerei russi;
– ne ho sentiti anche degli altri quindi non mi sono preoccupato;
– ero curioso di sapere perché sorvolavano la nostra scuola;
– ero tranquillo;
– ho avuto paura che atterrassero vicino a noi;
– mi ha lasciato indifferente perché non mi ha disturbato;
– non mi sono spaventato perché al mare, ogni tanto, passano quegli aerei;
– ho avuto paura ma non so dire perché;
– pensavo fossero le frecce tricolori;
– ero triste perché il rumore degli aerei mi ha ricordato le persone che hanno perso la casa e gli affetti per la guerra;
– ho avuto paura che, per sbaglio, sganciassero delle bombe.

Quando ho raccontato che quello era una specie di “regalo” alla città per un “compleanno”, i più sono rimasti in silenzio con gli occhi stupiti.
Dopo una decina di secondi di silenzio, un bimbo è intervenuto timidamente dicendo: “Se al mio compleanno qualcuno mi fa un regalo pauroso, io mi spaventerei così non festeggerei bene con i miei amici”.
Il suo timido intervento ha avuto molti consensi in classe testimoniati dai tanti “Anche io!”

Comunque la pensiate, questi sono i pensieri di bambini e di bambine che saranno il nostro futuro, che ci piaccia o no
.
Non tutti i bambini e le bambine la penseranno come quelli in classe con me ma se, ai politici, interessa davvero il futuro vale la pena ascoltare seriamente i loro pensieri per preparare da subito un presente di pace, fatto anche di “omaggi di pace”, in modo da garantirsi un futuro di convivenza pacifica.

Diario in pubblico /
Senza fine…

Diario in pubblico. Senza fine…

 In queste giornate di fine autunno mi risveglio con il solito rumore del garage in costruzione attiguo alla mia casa. Le solite tonanti voci degli operai che commentano, tra un urlo e un altro, la progressione dei lavori e lo scarabattolio di attrezzi spostati e altri rumori indefiniti.

Mi ritorna in mente una canzone, Senza fine, che canticchio a mo’ di consolazione, adattandola alle condizioni del presente: «Senza fine, tu sei un’opera senza fine. Hai avuto tanti ieri, non so quanti domani, ma ormai rompi sempre di più!» Quasi a significare una ricezione della canzone, misteriosamente i rumori cessano e un gelido silenzio invade la via e i suoi dintorni. Riprenderanno? Chissà!

I misteri non s’allentano. Da qualche notte un minaccioso rumore, come di ansito prodotto da macchine, invade il mio salotto. Chiamo in aiuto esperti che, con l’orecchio a terra, seguono il rim-bombo. Continua. Organizziamo una spedizione presso i vicini di casa che negano ogni addebito. Poi d’un tratto, come è apparso, il rumore scompare. Que sera, seraOrmai do fondo alle mie scarse conoscenze di canzonette, ma l’attesa si fa sempre più acuta e i nervi traballano.

Seguo con attenzione le cronache cittadine, appassionandomi (poco, a dire il vero) delle proposte e discussioni sulle candidature di sinistra. Approvo incondizionatamente la relazione di Ilaria Baraldi, mentre a Firenze avanza e poi viene distratta la candidatura dell’amico Tomaso (mi raccomando una sola m) Montanari.

Continuo a studiare Italo Calvino e la sua contiguità con l’ambiente e i personaggi ferraresi. Quasi da non credere. Mah! Chissà cosa direbbe il mio Maestro Claudio Varese, primo e fondamentale studioso dello scrittore.

Poi, quasi a consolidare lo spirito di servizio verso la letteratura che entrambi condividiamo, arriva la telefonata di Fiorenzo Baratelli e allora le dighe si aprono e ancora una volta parliamo e discutiamo l’opera del nostro Cesare Pavese.

Sempre più sconsolato mi appresto ad aspettare la proposta della donazione delle carte Cicognara e del Neoclassicismo che ho offerto alla Biblioteca Ariostea, ma il silenzio è totale, Chissà! Senza fine?

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

FERMARE IL MASSACRO DI GAZA
Corteo a Ferrara, sabato 11 novembre, partenza ore 15,30

Fermiamo il Massacro di Gaza
Partecipa al Corteo a Ferrara

Partenza alle 15,30 da Piazzale dei Giochi (via Porta Catena)

Mentre scriviamo, mentre parliamo, mentre passeggiamo, mentre guardiamo la televisione, mentre viviamo… continua senza sosta il massacro a Gaza. 2 milioni di persone, un popolo di profughi è in trappola, la fuga verso sud impossibile. I bombardamenti non si fermano, l’esercito israeliano continua l’avanzata a Gaza City, lascandosi dietro una scia di sangue.  Finora più di 10.000 civili palestinesi sono morti, tantissimi i bambini. Netanyahu, contestato in patria e in tutto il mondo, ma appoggiato senza riserve da Biden, si oppone alla tregua. A morire sono e saranno i civili inermi, i palestinesi e anche i 240 ostaggi innocenti in mano ad Hamas.
(Effe Emme)

 

Aggiornamenti da Gaza:

GAZA. Esodo a sud, migliaia a piedi verso una salvezza che non c’è

Storie in pellicola /
Un giorno tutto questo sarà tuo…

“One day all of this will be yours”, il cortometraggio di Losing Truth ci descrive un futuro incerto, dove manca l’aria, ormai irrespirabile, un luogo senza musica dominato dal grigiore. A figli e nipoti lasciamo un’eredità terrificante…

Sceso il sipario sul Ferrara Film Corto Festival e dopo avervi presentato “L’allaccio”, di Daniele Morelli, menzione Speciale della giuria del festival, oggi è il turno del Premio al miglior corto nella categoria “Ambiente è Musica” al regista Losing Truth con l’opera “One day all of this will be yours”: Per l’impatto emotivo suscitato dalla giusta alchimia ottenuta tra musica e immagini che sensibilizza l’osservatore sulle questioni ambientali arrivando a toccare le coscienze.

Il corto è stato realizzato in sole 72 ore per Artivis(mo) Contest 2021, del novembre 2021 [(Artivismo /Arte + Attivismo + mo (ora)], dove ha vinto il premio ‘Video-Art Category’. Per la sua realizzazione non sono stati usati filmati di stock e il regista ha realizzato tutto da solo. Oltre a varie candidature in numerosi festival, ha vinto il premio all’Ariano International Film Festival nell’agosto 2022 come “Best Documentary – AIFF Green”.

Di fronte al titolo viene alla mente Lord Fauntleroy, quando, nel film “Il piccolo Lord” (1980), sulla collina verdeggiante da cui si ammirano gli ampi possedimenti inglesi, dice all’amato e delicato nipote Cedric: “tutto questo sarà tuo, un giorno”.

Invece no, siamo all’antitesi, parliamo di tutt’altra eredità, quell’amaro regalo che noi, incoscienti abitanti dell’Antropocene, stiamo facendo alle generazioni future: un mondo in disastrosa rovina.

La natura ci ha messo alle strette e tra qualche anno il nostro pianeta potrebbe non essere più vivibile. Almeno non lo sarà per noi umani, perché Lei, Madre Natura, troverà il modo di andare avanti. A causa dell’indifferenza verso un futuro che sembra sempre troppo lontano, ma che in realtà è sempre più vicino, la situazione sta diventando irreversibile.

Nemmeno i supereroi potrebbero salvare questo mondo terribilmente devastato, ferito.

Non esiste un Pianeta B e stiamo consegnando alle generazioni future l’eredità peggiore: un mondo fatto di mascherine, dove l’aria sarà irrespirabile, dove il canto degli uccelli non esisterà più e dove l’acqua sarà quasi indisponibile. Aridità di risorse e sentimenti.

A circondare i superstiti, solo rifiuti, plastica, detriti, scarti, smog, nebbia, fumo e assenza totale di note e di musica. Mancano i colori, le tonalità del grigio stanno sostituendo il rosso-arancio del sole e il giallo dei girasoli. Tutto è plumbeo. Dallo schermo si percepisce l’odore acre del disastro. È un quadro raccapricciante, triste e spaventoso. Ma reale.

Ai (tristi e miseri) posteri stiamo dicendo: un giorno (non troppo lontano) tutto questo sarà tuo! Purtroppo. È già troppo tardi per invertire la rotta?

Per vedere il corto:

Losing Truth (alias Damiano Petrucci) è un artista multimediale con oltre dieci anni di esperienza nel mondo della fotografia e della musica. Nel 2020, si diploma in “Musica Elettronica e Composizione Audiovisiva Digitale” presso il “Conservatorio Licinio Refice” di Frosinone dove tutt’ora studia musica elettronica, sound design e composizione audiovisiva.

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“Che c’entra Roma con un Candidato Sindaco di Ferrara?”
Intervista ad Anna Zonari, portavoce di La Comune di Ferrara

Intervista ad Anna Zonari, portavoce di La Comune di Ferrara: “Che c’entra Roma con un Candidato Sindaco di Ferrara?”

Ieri sul Carlino Ferrara è uscita la notizia che saranno i leader nazionali di PD, M5S, Sinistra Italiana e probabilmente anche il Terzo Polo a decidere la figura del Candidato o Candidata Sindaco di Ferrara, sbloccando la  situazione in cui si è trovato il Tavolo dell’Alternativa, ovvero la scelta tra Laura Calafà e Fabio Anselmo. Qual è stata la vostra reazione a questo inatteso sviluppo?

Siamo rimasti molto sorpresi. Ci sembra quanto meno anomalo che si ricorra a Roma per affrontare una questione locale, che dovrebbe coinvolgere in primis i partiti che in questi mesi hanno lavorato, a detta loro, con buoni risultati, ad un programma unico. I ferraresi apprezzano questa scelta, o avrebbero preferito che l’intesa fosse raggiunta con gli attori locali, che conoscono il territorio e le sue esigenze?

Avete incontrato recentemente il tavolo dell’alternativa, a cui avete fatto una proposta metodologica precisa. Com’è andata?

Ci era sembrato ci fosse stata una attenzione alle questioni che abbiamo posto, che sono soprattutto legate alla necessità di sperimentare un diverso metodo politico. Anche per questo motivo, questa decisione di rivolgersi a Schlein, Conte e Fratoianni ci stupisce. In particolare, ai rappresentanti del Tavolo dell’Alternativa abbiamo esposto la necessità di un maggiore coinvolgimento della società civile ferrarese sia nella stesura del programma, che nella scelta dei candidati. Un approccio che viene spontaneo partendo dall’assunto che l’amministrazione di una città non è affare solo dei partiti o di chi l’amministra.

Dunque il metodo serve a mettere a fuoco il merito, cioè il programma e a scegliere il candidato?
Esatto. Il come scegli di fare le cose è già politica.

Voi avete detto più volte che non rifiutate il ruolo e l’importanza dei partiti, ma che se ci si ferma a quel tavolo, sarebbe una scelta che non riuscirà a coinvolgere tutti quei cittadini che non si riconoscono nelle scelte della attuale Giunta di destra che governa Ferrara. La scelta di rivolgersi al livello nazionale cambia la vostra visione?

Nessuno di noi è pregiudizialmente contro i partiti. Comprendiamo e apprezziamo il lavoro svolto dal Tavolo per creare un clima di collaborazione e coesione tra le forze d’opposizione. E’ stato un lavoro necessario, doveroso, ma a nostro avviso, non sufficiente. Abbiamo evidenziato un rischio: che molti ferraresi vedano questo metodo politico come “calato dall’alto”. La decisione di esternalizzare una questione locale a Roma, se confermata, accentua la nostra impressione.

Cosa pensate di fare ora?

Continueremo con la nostra proposta politica. Abbiamo organizzato per domenica 19 novembre un world cafè [Vedi qui il comunicato stampa con l’Invito], un metodo efficace per dare vita a conversazioni informali, concrete e costruttive su questioni cruciali che interessano la nostra città: cultura, arte, giovani, sicurezza, equità sociale, inclusione, democrazia partecipata, rigenerazione urbana, mobilità, economia, beni comuni, scuola, università… per una Ferrara più giusta, più verde e solidale. Abbiamo invitato la società civile, il volontariato sociale e culturale, i gruppi informali, i comitati che in questi ultimi anni si sono mobilitati e anche i partiti del Tavolo dell’Alternativa, perché crediamo che i programmi si possano costruire dal basso, a partire dalle idee, competenze ed esperienze di chi abita, conosce ed ama la propria comunità.

E il candidato sindaco?

Crediamo, anzi l’abbiamo già toccato con mano. In città ci sono tante risorse, competenze e disponibilità da coinvolgere e valorizzare. Non ci sono solo Laura Calafà e Fabio Anselmo ad essere disponibili. Ma li ringraziamo per essersi fatti avanti e al world cafè sono invitati anche loro.

Oggi sulla stampa c’è una intervista alla consigliera Pd Ilaria Baraldi che mi sembra “cantare fuori dal coro” ed espone ragionamenti più vicini ai vostri. Dice la Baraldi: “Non si sceglie un candidato in quanto donna, non lo si sceglie perché è molto conosciuto. C’è il tempo e ci sono le modalità più aperte e inclusive per comporre un quadro che sia il più positivo e solido per affrontare una campagna elettorale che ci qualifichi davvero come alternativa”. E più avanti giudica negativamente la scelta di far scegliere a Roma il candidato sindaco. Voi cosa ne pensate? 

Ho letto sulla stampa locale l’intervista di Ilaria Baraldi, è la prima apertura che arriva da un politico ferrarese. Se posso aggiungere un pensiero personale, non mi sembra un caso che venga da una donna. Aspettiamo Ilaria il 19 novembre, lì di sicuro troverà una modalità aperta e inclusiva.

Come definiresti questo vostro gruppo di cittadine e cittadini de La Comune di Ferrara? Una formazione politica, una lista elettorale, un gruppo di pressione?

Lo definirei un esperimento e allo stesso tempo un invito, anche una sfida, che parte da un gruppo spontaneo di cittadine e cittadini e si rivolge ad altre cittadine e cittadini. Crediamo che tutte e tutti siamo chiamati ad incidere a partire dal posto in cui ciascuno di noi opera e a qualunque titolo: ognuno si deve sentire interpellato. Non c’è più tempo per esitazioni.
Servono atti di responsabilità che superino l’indifferenza, la sottomissione o la speranza che sia qualcun altro, magari una sorta di salvatore, a risolvere i nostri problemi. Serve ingegno, creatività, coraggio. Come dice papa Francesco serve “fare germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, suscitare speranza, riscaldare il cuore e orientare lo sguardo”.

Nelle scorse amministrative del 2019 l’astensione raggiunse quasi il 40%: più di 40.000 ferraresi non andarono a votare. La vostra iniziativa ha anche l’obiettivo di richiamare al voto almeno una parte del popolo degli astenuti. Per quale motivo questa volta dovrebbero votare?

Tanta gente non vota più, perché, si è sentita delusa e non più rappresentata dalla politica. Personalmente conosco parecchie persone che, con dolore, hanno rinunciato ad esercitare questo diritto, anche persone di una certa età che mai avrebbero, per loro senso civico, immaginato un giorno di smettere di votare. Un Diritto che, ricordiamo, è sia una conquista, che una pratica di democrazia. Crediamo che tanta gente possa tornare a votare, anzi avrebbe voglia di tornare a votare, se vedesse condizioni diverse, modi nuovi di fare politica. E’ la politica dunque che deve cambiare! Al contempo, nella nostra città, ci pare di assistere ad un crescente desiderio di partecipazione, di visione, competenza ed innovazione.

Un’ultima curiosità, perché questo nome: La Comune di Ferrara? Volete fare la rivoluzione?

Ad una delle prime riunioni, uno dei partecipanti, per rimarcare l’importanza di un maggior protagonismo femminile nella vita politica, ha detto ridendo: Basta parlare di Comune di Ferrara…perché non La Comune di Ferrara!
Tant’è che il sottotitolo è Femminile. Plurale. Partecipata. Rievocare oggi dalla memoria storica, un termine come La Comune, significa anche assumere la complessità  e l’incertezza del nostro tempo, le grandi sfide che pone, e contemporaneamente tentare, dal basso, di immaginare e lavorare per un cambiamento di visione politica e di metodo.

Emergency: il protocollo d’intesa Italia-Albania sul trasferimento di 36.000 migranti è un ennesimo attacco al diritto di asilo.

Le politiche di esternalizzazione delle frontiere sono fallimentari e controproducenti per la protezione delle persone in movimento, ma hanno incoraggiato la tratta di esseri umani e reso le traversate più pericolose

Oltre all’esternalizzazione delle frontiere, ai porti sempre più lontani per le navi delle Ong che svolgono attività di ricerca e soccorso, alla stretta sulla protezione speciale, alle procedure accelerate di frontiera, alla riduzione di tutele persino per i minori stranieri non accompagnati, i migranti troveranno sulla loro strada verso l’Europa altri ostacoli, frutto del recentissimo Protocollo d’intesa tra Italia e Albania

Il focus dell’accordo – siglato il 6 novembre dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal primo ministro albanese, Edi Rama – ruota intorno al trasferimento dei migranti soccorsi in mare dalle navi italiane di Guardia Costiera o Guardia di Finanza o comunque di competenza delle autorità italiane verso un Paese – l’Albania – che non fa parte dell’Unione europea e dunque non è vincolato a rispettarne i criteri in fatto di diritti umani.

“Di fatto è un modo per impedire che i migranti possano mettere piede sul suolo italiano – e quindi europeo – e chiedere asilo, come invece prevede il diritto europeo e internazionale. L’ennesimo attacco al diritto di asilo e a quanto prevede l’articolo 10 della nostra Costituzione”

Anche se il testo precisa che l’intesa intende agire in conformità al diritto europeo e internazionale, oltre a quello italiano, i 36 mila migranti che potranno essere trattenuti ogni anno in Albania difficilmente potranno avvalersi del diritto al colloquio presso la commissione territoriale italiana competente a decidere sulla richiesta d’asilo. Allo stesso modo resterà solo teorico il diritto al ricorso di fronte a un eventuale diniego: le strutture previste dall’accordo saranno centri chiusi, con forti profili di illegittimità perché la detenzione dovrebbe essere consentita solo come estrema ratio e con un provvedimento di un giudice e, anche se sulla carta il Protocollo consente l’accesso nelle strutture di avvocati, organizzazioni internazionali e agenzie europee che danno assistenza ai richiedenti protezione internazionale, è praticamente impossibile che questi diritti vengano rispettati.

Passando dagli annunci ai fatti, non c’è riferimento nel testo all’annunciata esclusione delle persone vulnerabili dalla misura, che per EMERGENCY desta molti dubbi sulla sua effettiva applicazione. A livello operativo si farebbero degli sbarchi selettivi per far scendere donne e bambini in Italia e si porterebbero poi gli altri in Albania? Chi valuterebbe chi è vulnerabile e chi no, sulla base di quali criteri?

Tutte le persone soccorse in mare  dovrebbero raggiungere un luogo sicuro nel minor tempo possibile perché naufraghe prima che migranti. Tutti dovrebbero essere considerati vulnerabili e ricevere un trattamento dignitoso e una protezione adeguata nel rispetto del diritto internazionale e comunitario”.

L’Italia inoltre si impegnerebbe ad “allontanare” i migranti superato il tempo limite di permanenza nelle strutture dedicate in Albania, ma al momento questo non avviene neanche nel caso dei migranti trattenuti dai CPR italiani per mancanza di accordi bilaterali per il rimpatrio.

Al di là delle contestazioni più strettamente giuridiche o pratiche, per noi di EMERGENCY è la logica che sottende questo accordo a essere inaccettabile.

Le politiche di esternalizzazione delle frontiere hanno già dato prova di essere fallimentari e controproducenti per la protezione delle persone in movimento, ma un effetto l’hanno avuto. Hanno incoraggiato la tratta di esseri umani e reso le rotte e le traversate più pericolose, con oltre 20 mila morti nel Mediterraneo dal 2014 a oggi

Emergency