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Parole e figure /
“Migranti” di Isse Watanabe

Una storia che non cambia mai, quella di tante persone che fuggono alla ricerca di un destino migliore. “Migranti” di Isse Watanabe ci porta fra loro.

Dopo “Kintsugi”, Issa Watanabe racconta, con immagini straordinariamente forti e, ancora una volta senza parole (che qui, più che mai, non servono), una storia che si ripete tutti i giorni, da secoli, da sempre: le fatiche del viaggio, i pericoli e le incertezze che milioni di persone sono costrette ad affrontare per inseguire la speranza di una vita migliore.

“Migranti”, edito da Logos. Nero, buio pesto. Tratto deciso. In un bosco, di notte, un gruppo di animali si mette in viaggio con qualche valigia e pochi oggetti personali, il minimo indispensabile. Ci sono un po’ tutti, giraffe, conigli, elefanti, tucani, oche, leoni, anatre, orsi, fenicotteri, coccodrilli.

Una figura solitaria e malinconica li segue da lontano, l’unica che abbia fattezze umane. Al lettore incute subito inquietudine e un poco di paura. Lei e la sua borsetta misteriosa fra le mani. Gli animali, invece, accettano la sua presenza apparentemente gentile e nella segretezza della notte procedono sul loro cammino. In diligente fila indiana, fagotti in spalla, i pochi oggetti e ricordi da portare con sé. Quando si fermano per riposarsi ripetono i gesti quotidiani di quando erano ancora a casa. Pentole e pranzi improvvisati, qualche riposino sotto le coperte colorate, tutti vicini vicini. Sempre buio e strade irte, però.

Poi l’atteso arrivo al confine e la corsa verso una barca che li porterà ancora più lontano. La speranza che li sostiene, il pericolo che si profila. Onde su onde, un mare mosso.

Non tutti hanno la forza. La figura solitaria è sempre con loro, pronta ad accogliere coloro che non ce la fanno tra le sue braccia benevole…

Violenza, guerra, bombardamenti, fame, paura, esodo, rifugiati, mamme, bambini, bambine, orfani, migranti, barconi, salvataggi, annegati, scomparsi, illegali, frontiere, diritti umani. Silenzio. Sono le tante parole che leggiamo sulla quarta di copertina, le parole che sentiamo e usiamo quotidianamente per parlare di migrazioni e che troppo spesso si perdono in mille discorsi e nel silenzio di chi potrebbe fare qualcosa.

Una narrazione senza eufemismi, diretta e incisiva, che con estrema poesia e delicatezza vuole incoraggiarci a provare empatia e mostrare solidarietà. Per restare umani.

“Migranti” è stato tradotto in 17 lingue e ha ottenuto vari premi internazionali: Premio Llibreter de Álbum Ilustrado 2020, Premio Banco del libro de Venezuela Miglior narrazione per immagini 2020, Selezione White Ravens 2020, Premio Pictures 2020, Prix Sorcières 2021 Miglior albo illustrato per la categoria ‘narrativa’ 2021, Premio Zlata Hruska Migliore qualità letteraria 2021.

NB: Abbiamo già recensito un bellissimo albo dallo stesso titolo, “Migranti”, di Marcelo Simonetti e Maria Girón, edito da Kalandraka. Vi invitiamo a rileggerlo. Perché il tema è sempre tristemente terribilmente attuale, ahimè. Dalla notte dei tempi.

Issa Watanabe, Migranti, Logos edizioni, Modena, Collana ‘Gli albi della Ciopi’, 2023, 48 p.

Quanti confini dovremo ancora passare per arrivare a casa nostra? Theo Angelopoulos

Issa Watanabe è nata a Lima nel 1980. Cresciuta in una famiglia che le ha trasmesso l’amore per l’arte e la letteratura (la madre era illustratrice e il padre poeta), ha studiato lettere alla Universidad Católica di Lima prima di trasferirsi a Palma di Maiorca per frequentare corsi di illustrazione all’Accademia di Belle Arti. Ha sviluppato e diretto diversi progetti per promuovere l’integrazione sociale attraverso l’arte. In particolare, il progetto “Encuentro con la Mirada”, realizzato in collaborazione con il fotografo Rif Sphani e il Museo d’arte contemporanea di Maiorca Es Baluard, ha ottenuto nel 2012 il premio Obra Social da La Caixa Forum. Per il suo lavoro artistico, Watanabe è stata selezionata dalla Bologna Children’s Book Fair nel 2018 e nel 2020 e da Ilustrarte, nel 2021. Nel 2020, ha ricevuto anche il Gran Premio della Giuria alla BIBF Ananas International Illustration Exhibition di Pechino. Nel 2018 è stata nominata ambasciatrice della linea professionale di Faber Castell. Le sue illustrazioni sono state esposte in Spagna, Italia, Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, Francia, Messico, Brasile, Ecuador, Colombia, Cile e Perù e sono incluse nella mostra “Speechless: The Art in the Wordless Picture Books” dell’Eric Carle Museum of Picture Book Art in Massachusets.

L’ultima settimana

L’ultima settimana

E’ cominciata l’ultima settimana di campagna elettorale. Sono girati nei giorni scorsi alcuni numeri (che non riporto), ma si trattava di pseudo-sondaggi tutt’altro che attendibili. La verità è che il risultato è ancora incerto, e lo sarà fino all’ultimo.

Per riassumere il clima della campagna e l’atteggiamento dei protagonisti in campo (i 3 candidati, sindaco o sindaca), ho scelto una vignetta particolarmente azzeccata apparsa sui social. Vi sono simpaticamente raffigurati i 3 candidati. I primi due (Alan Fabbri e Fabio Anselmo) impegnati in un duello senza esclusione di colpi per rinfacciarsi  questo o quel torto. Sopra di loro, fuori dalle solite schermaglie, vola il tandem di Anna Zonari, protagonista di una campagna tutta centrata sui contenuti e sull’ascolto dei cittadini.

Ecco quindi che le elezioni amministrative risponderanno a due grandi interrogativi.  Prima di tutto c’è il confronto particolarmente duro (a Ferrara come in Europa) tra una Destra arrembante e il fronte variegato delle forze di Opposizione. A Ferrara, se verrà riconfermato Alan Fabbri, dovremmo aspettarci un governo ancora più spostato a destra, con i postfascisti di Fratelli d’Italia ancora più influenti. Se invece prevarranno i due candidati dell’opposizione (Anna Zonari e Fabio Anselmo) si potrà aprire una stagione diversa.

Il secondo interrogativo riguarda in particolare il risultato di Anna Zonari e La Comune di Ferrara, la lista popolare nata e cresciuta fuori dai partiti e dagli apparati, che ha elaborato “dal basso” un metodo e un programma coraggioso e innovativo e che chiede una vera e propria svolta nel modo di fare politica e nel governo cittadino.  Se questa candidatura (una donna in mezzo agli uomini) verrà premiata dagli elettori, sarà il segno che Ferrara e i ferraresi non hanno bisogno e non chiedono solo qualche aggiustamento, ma desiderano un’aria nuova, un cambio di passo e una nuova democrazia partecipata.

E cominciato il conto alla rovescia. Questa volta, vista la posta in gioco, non votare sarebbe davvero un peccato.

Cover: vignetta apparsa sulla pagina Facebook di Mario Zamorani

Lo stesso giorno/
Franz Kafka, uomini e topi

Franz Kafka, uomini e topi

Oggi cent’anni fa, il 3 giugno del 1924, moriva Franz Kafka. Aveva solo 41 anni. La sua tomba è nel nuovo cimitero ebraico di Praga a Žižkov. Una lapide alla base della stele funeraria commemora le tre sorelle dello scrittore, morte nei lager nazisti fra il 1942 e il 1943.

Non sono un critico letterario, tantomeno un germanista. Ma un semplice lettore, un appassionato lettore se volete. Se penso a Kafka mi vengono sempre mille pensieri, mille cose da riflettere e da scrivere, ma Kafka è talmente enorme smisurato buio profondo (chiamatelo pure genio, uno dei pochissimi che si sono affacciati nel mondo delle lettere), che ogni mia parola mi pare mancare il bersaglio, ridurre a poco la vastità del suo pensiero e della sua scrittura.

Franz Kafka è stato un genio universalmente riconosciuto. Per me, e per molti, il più grande autore del ‘900.  Ma perché un Genio? Per provare a rispondere mi viene in mente Giacomo Leopardi, il genio assoluto dell’ ‘800. Ed è interessante come anche la vita di Kafka e di Leopardi sembrano seguire lo stesso faticoso tragitto: un’esistenza infelice, incompiuta, troncata dalla malattia, E anche dal punto di vista letterario: un mezzo o un assoluto fallimento. Un fallimento ancora più duro da digerire, perché entrambi avevano una esatta coscienza del proprio valore.

È noto che dobbiamo al “tradimento” del suo fraterno amico Max Brod, se possiamo leggere le opere, compiute e incompiute di Kafka. In vita era riuscito a pubblicare solo qualche racconto, aveva bruciato  gran parte dei suoi manoscritti e prima di morire aveva chiesto a Brod di distruggere tutto il resto. La gran parte quindi dell’opera letteraria di Kafka è postuma: Il Castello, Il Processo, Amerika, La Tana… Anche per l’opus di Leopardi è rintracciabile un analogia. Certo, aveva pubblicato e con un certo successo I Canti e con molta meno fortuna le straordinarie Operette Morali (le rileggo continuamente), ma quello che viene riconosciuta come la sua “opera mondo”, l’inesauribile miniera, è lo Zibaldone dei pensieri, pubblicato postumo tra il 1898 e il 1900 da Giosuè Carducci.

Franz Kafka a circa 34 anni, luglio 1917 | © Verlag Klaus Wagenbach

Il parallelo, poco scientifico e molto personale, tra Kafka e Leopardi presenta altri capitoli ma mi porterebbe troppo lontano. Voglio invece provare a rispondere a mio modo alla domanda iniziale: perché Franz Kafka è un genio? Non solo, non tanto, per la sua scrittura, per il suo stile, per la sue invenzioni. Del resto, se bastasse scrivere bene saremmo letteralmente sommersi dalla genialità, non sapremmo dove metterli tutti questi geni. Due esempi. Dino Buzzati (poverino, perseguitato tutta la vita  dall’accusa di far il verso a Kafka) è stato un ottimo scrittore, non un genio. E a un’amico che mi decantava l’ultima fatica letteraria di Alessandro Baricco, mi sarei sentito di rispondere come Flaiano (o era Moravia?): “non l’ho letto e non mi piace”. Niente di personale, è solo per mancanza tempo: Baricco è bravo a scrivere, ma non è Kafka. E nemmeno Buzzati.

Invece Kafka – credo che lui stesso ne avesse coscienza – spacca a metà la letteratura, la cultura, il sentimento del tempo. C’è un prima e un dopo Kafka, e noi cent’anni dopo non possiamo ignorarlo. Dopo di lui – anche senza aver letto di lui nemmeno un rigo – non possiamo ignorare quello che ha svelato. Grazie a lui vediamo (possiamo vedere) la violenza insensata del Potere e l’irrimediabile solitudine dell’uomo. Vediamo (possiamo vedere se ci rimane un po’ di coraggio) quanto buio, quanta ombra pesa sopra gli oggetti. Vediamo e riconosciamo come il mistero attraversa prima di tutto noi stessi.

Con Kafka, grazie a Kafka, facciamo conoscenza ed esperienza della Modernità, la stessa che muove le lancette del nostro tempo presente. Più di Marx, più di Freud, Kafka descrive meticolosamente le insidie che nasconde una modernità che ci aveva promesso la felicità e che invece ci ha reso più fragili, indifesi davanti all’imponderabile. Come è capitato a Gregor Samsa. Questo il celebre incipit de La Metamorfosi (1912)
“Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi.”

Non siamo stupidi del tutto. Cerchiamo di difenderci (dal male, dal Potere, dal nemico), proviamo a nasconderci, usiamo tutta la nostra perizia e furbizia, ma scontando tutta la nostra impotenza ed ingenuità. Così La Tana (1924), la nostra tana che ci siamo costruiti, abbiamo pensato a uno specchietto per le allodole, una falsa entrata e abbiamo occultiato la vera entrata per renderla inaccessibile a qualsiasi invasore.
“Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo. Già dopo pochi passi s’incontra la roccia naturale e solida. Non voglio vantarmi di aver adottato questa astuzia con intenzione […] Ma non mi conosce chi pensa che io sia codardo e scavi questa tana soltanto per vigliaccheria. Ad almeno mille passi di distanza da questo buco si trova, coperto da uno strato spostabile di musco, il vero accesso alla tana che è al sicuro come può essere sicuro qualcosa al mondo.”

Un’ultima annotazione: contrariamente a quanto qualcuno vi avrà detto,  Kafka non è una lettura difficile. Angosciosa? Claustrofobica? Forse per le prime pagine, poi farete una scoperta: ma quello sono io, sta parlando di me, di noi, del mio universo, dell’ombra che ci avvolge. Franz Kafka è entrato nella vostra tana.

 

 

Se avete letto fin qui, consiglio la visione e l’ascolto del magnifico racconto di Franz Kafka Il messaggio dell’imperatore, tradotto dal tedesco per Periscopio da Francesco Tosi, lettura di Fabio Mangolini. [guarda  la videolettura]

 

In copertina: immagine tratta da culturificio.org

Per certi versi
La duna di Pilat,  Bordeaux 

La duna di Pilat,  Bordeaux 

È la più
La più alta
La più
Più solitaria
La più bella
Fronte
La più
Che veranda
Sulle nervature
Del mare
La folla di pini
I grandi specchi
Increspati
Dalla solitudine
Forse i cammelli
Stanno arrivando
Da Samarcanda
O forse da Bayonne
Chi lo sa
Niente che azzurro
Si vede
all’Occidente
Di vento
Mai sazia
Piccoli infiniti
Viaggiano
Come onde
Di cetra
la gioia
pietra
Disciolta
A granelli
Ringrazia

Vannacci? Quando lo schifo vince sull’ironia

Vannacci? Quando lo schifo vince sull’ironia
SCHIFO E RIBREZZO Ieri mattina, a Monaco di Baviera, sono tornato davanti alla fiamma perenne che arde sul monumento che commemora le vittime del nazismo. Là si fanno i conti con i propri orrori. Provo rabbia a valicare il confine e vedere, tra le prime immagini, questo personaggio esecrabile (lo ricordo, ospite riverito in città dell’emerito assessore Andrea Maggi nonché candidato nel partito del ringraziatissimo sindaco Alan Fabbri).
Vorrei essere ironico, e scrivere che sta mostrando la propria firma, perché già la lettura del suo primo libro mi aveva dato molte idee sul suo grado di alfabetizzazione e di coscienza sociale. Ma non ce la faccio a essere ironico con certa gente. Vannacci mi fa schifo, e mi fa schifo chi a ogni latitudine _ compresa Ferrara _ prova a legittimare o anche solo minimizzare i suoi atteggiamenti, riducendoli a calcolo elettorale, o semplicemente a ignoranza.
Qualche giorno di stacco mi fa essere meno coinvolto sulle imminenti amministrative ed Europee (un particolare: a Monaco di Baviera c’era un centesimo dei manifesti affissi nella nostra città), ma forse per questo più lucido. Questo essere, emblema di altre nullità che ben conosciamo, mi suscita ribrezzo.
E con questo, su di lui (e non solo) ci faccio una croce sopra. Non una ‘decima’, proprio la croce della cancellazione. Politica e morale. Ah, chi dice che andrebbe ignorato a mio avviso è un ingenuo o un cretino.
(Dalla pagina Facebook di Stefano Lolli)
In copertina: Roberto Vannacci durante la presentazione del suo libro all’Hotel Astra di Ferrara

BENVENUTO MIMMO LUCANO:
2 giugno, Sala Estense, ore 16

BENVENUTO MIMMO LUCANO
2 giugno Ferrara, Sala Estense, ore 16

Benvenuto Mimmo, dopo 10 anni dall’ultimo invito, le Associazioni “Cittadini del Mondo” e “Viale K” sono felici di accoglierti e confrontare le proprie esperienze di accoglienza con chi è stato in questi anni il nostro faro, punto di riferimento nei nostri percorsi, tra mille difficoltà.
Come noto Mimmo Lucano è l’artefice di quello che è conosciuto a livello mondiale come “MODELLO RIACE”, un modello che non solo fa diventare realtà la coesistenza tra diversi popoli, ma anche un modello che ha come principio cardine l’appartenenza all’Umanità.
Proprio 10 anni fa, Cittadini del Mondo e circolo Resistenza, lo invitammo alla Sala Estense per un confronto, per una visione diversa sull’integrazione, per parlare dell’immigrazione come risorsa e immaginare, come a Riace, che anche nei nostri paesi sempre più spopolati, le case abbandonate vengano abitate, i vecchi mestieri ripresi, i negozi riaperti e anche le scuole, grazie ai figli stessi degli immigrati.

Nel 2016, quando Ferrara apparve in tv e su tutti i giornali nazionali ed internazionali per il respingimento di 12 donne richiedenti asilo con barricate a Gorino capeggiate da quello che diventò, proprio sull’onda di queste bravate, il nostro vicesindaco, proprio la sera stessa Mimmo ci telefonò: “le ospitiamo noi” disse semplicemente.

Per questo, per il “modello Riace”, nell’ottobre del 2018 abbiamo convocato come Cittadini del Mondo, con l’adesione del Festival di Internazionale, una manifestazione a sostegno di Mimmo Lucano, vittima di violenti attacchi da parte della destra al potere con arresto e accuse infamanti poi finite nel nulla.

E ancora oggi a Ferrara lottiamo per un’inclusione diffusa e garantita che non è, purtroppo, quella che vediamo realizzata con sempre meno fondi e sempre più burocrazia. Assistiamo ad una integrazione di facciata, non basta una candidata di origine africana a nascondere le pratiche razziste, i problemi gravi ed urgenti che vivono gli immigrati, la mancanza di alloggi anche se nei paesi limitrofi le case popolari sono vuote, la mancanza di opportunità lavorative anche se manca manodopera in agricoltura e nell’industria e persino chi ha un lavoro in regola non riesce a rinnovare il permesso di soggiorno né a trasformarlo in un permesso per lavoro. Per un immigrato è difficile ottenere la residenza, registrarsi all’anagrafe, persino per i bambini nati qui. Per non parlare del razzismo istituzionale, di quello serpeggiante e della profilazione razziale, se sei nero, se sembri nordafricano, allora le forze dell’ordine anche locali ti fermano continuamente e, a caso, se non hai i documenti a posto, in particolare se sei tunisino per te c’è il CPR con rimpatrio assicurato. I continui fermi a volte sfociano in aperte provocazioni e se qualcuno sembra irrequieto allora c’è il taser, con tutti i rischi già denunciati.

Domenico Lucano è candidato alle elezioni europee come indipendente nelle liste di Alleanza Verdi Sinistra e speriamo davvero che sia eletto per portare a Bruxelles un po’ di umanità.

Associazione Cittadini del Mondo
Associazione Viale K

“Vedere” e capire la Danza… Un percorso di formazione in 4 incontri al Fienile di Baura: giugno 2024

sabato 8 / domenica 9 / sabato 22 / domenica 23 giugno 2024

al Fienile di Baura – Via Raffanello 79 Baura (FE)

Come rendere accessibili gli spettacoli di danza ad un pubblico di persone con deficit visivi?  Come descrivere poeticamente uno spettacolo di danza ad una persona non vedente, con un linguaggio che non sia quello del movimento ma che dal movimento prenda ispirazione?

Audiodescrizioni poetiche  per la danza

Un percorso di formazione in quattro incontri
con Giuseppe Comuniello e Camilla Guarino

  

La fruizione di spettacoli di danza da parte di un pubblico non vedente oggi è ancora molto limitata. Tuttavia negli ultimi anni diversi teatri stanno introducendo l’audiodescrizione all’interno della propria offerta, generando una richiesta di competenze per questa funzione.

L’attenzione alle forme di accessibilità che consentono di aumentare la gamma e la tipologia di esperienze artistiche fruibili da persone con disabilità è fra gli obiettivi del programma R.ACCOLTO del Fienile di Baura. Per questa ragione gli organizzatori hanno deciso di ospitare in quella sede il percorso formativo promosso dal performer e danzatore non vedente  Giuseppe Comuniello e dalla performer, danzatrice e drammaturga Camilla Guarino, con l’obiettivo di formare persone a questa specifica pratica di accessibilità messa a punto e perfezionata da questi artisti, già ospitati nel programma di R.ACCOLTO del 2022 con un workshop e un incontro pubblico.

Il percorso formativo si articola in quattro incontri in due fine settimana di Giugno (sabato 8, domenica 9, sabato 22, domenica 23) con sessioni di lavoro al mattino (10.00 – 13.00) e al pomeriggio (14.30 – 17.30).

Il costo complessivo del percorso è di 150 euro a persona. Al raggiungimento del numero minimo di potenziali partecipanti gli organizzatori invieranno la richiesta di confermare la propria iscrizione versando la caparra di 70 euro (la quota residua potrà essere pagata sul posto il primo giorno di corso).

Seppur di particolare interesse per chi opera in ambito artistico, operatori teatrali e studenti, la partecipazione al corso non necessita di esperienza pregressa in nessun ambito performativo: la proposta formativa si rivolge a chiunque desideri conoscere e imparare ad applicare questa pratica di accessibilità, e a chiunque abbia una personale inclinazione ad acquisire competenze che agevolino la partecipazione sociale delle persone con disabilità.

PRE-ISCRIZIONE: 

l’invio della pre-iscrizione avviene compilando il Modulo di adesione entro il 25 Maggio a questo link:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSek7sPux9Xsk-7ecCm58UKL-s7xgrr4NVv02deJu0q_ZWqxAw/viewform?usp=pp_url

ISCRIZIONE:

la conferma dell’iscrizione avviene versando la caparra  Causale-: Caparra per Corso formazione audiodescrizioni poetiche per la danza

Lo staff di R.ACCOLTO del Fienile di Baura
INFO: info.lstferrara@gamil.com

LA SEDE DEL CORSO: Fienile di Baura
Via Raffanello 79 – Baura, Ferrara

Io davanti al voto.
Per una Europa di pace e una Ferrara “femminile, plurale e partecipata”

Io davanti al voto. Per una Europa di pace e una Ferrara “femminile, plurale e partecipata”

Siamo vicini a scadenze elettorali importanti e, visto che qualcuno dei miei 25 lettori me l’ha chiesto, sviluppo alcuni ragionamenti in proposito e anche le mie intenzioni di voto.

Una Europa con l’ossessione della guerra

Inizio, ovviamente, dalla scadenza elettorale europea, con la consapevolezza che questa volta il suo esito è ben più importante rispetto agli anni passati.
Intanto, perché il ruolo dell’Europa, nonostante le sue contraddizioni interne, è decisamente cresciuto rispetto alla definizione delle politiche anche dei singoli Stati.
In secondo luogo, perché potrebbe essere in discussione lo stesso asse politico – quello tra Popolari e Socialisti – che ha retto la costruzione europea da un bel po’ di tempo in qua. Infatti, ahinoi, il vento nazionalista e di destra spira forte in tutt’Europa, non risparmiando praticamente nessun Paese, dalla Francia alla Germania, dall’Italia a diversi Paesi dell’Est. Non sto ora ad indagare le ragioni di questa situazione, anche se esse sono sufficientemente precise e stanno in particolare nelle scelte sbagliate e vocate all’austerità che sono state dominanti da Maastricht in avanti.

Quello che è chiaro è che un ulteriore spostamento a destra del quadro politico europeo non potrebbe che determinare una regressione ancora più forte delle scelte improvvide che l’Unione Europea ha compiuto nell’ultimo periodo di tempo, schierandosi dentro un orizzonte di guerra, rafforzando le politiche di respingimento dell’immigrazione, allentando gli interventi che guardano alla conversione ecologica e ambientale.

In ogni caso, già oggi assistiamo ad una situazione in cui, da una parte, i singoli Stati europei procedono in ordine sparso, rendendo più forte l’idea della ”Europa delle nazioni” e, però, dall’altra, sono accomunati da un’impostazione per cui si considera inevitabile il ricorso alla guerra e si accantona ogni idea di svolgere un ruolo attivo di rilancio del dialogo e della diplomazia.
Emblematico è ciò che sta succedendo a proposito dell’ultima scellerata ipotesi avanzata dal segretario della Nato Stoltenberg di utilizzare le armi date all’Ucraina anche per attaccare il territorio russo: da una parte Francia, Germania (che in un primo tempo si era espressa negativamente) e Polonia, assieme agli altri Stati baltici si pronunciano in termini favorevoli, Spagna e, per ora, Italia, si dicono contrari, ma, alla fine, tutti si allineeranno nei fatti alle volontà degli USA ( e della Nato), in un ulteriore rafforzamento della spinta bellica.

Siamo di fronte ad un’involuzione profonda dell’Unione Europea: lo dico con le parole efficaci dell’insigne giurista Ferrajoli che, in un recente articolo apparso su Il Manifesto, ha scritto che “ l’Europa sta negando se stessa. L’Unione Europea è nata su due fondamenti, l’uguaglianza e la pace…Entrambi questi fondamenti stanno venendo meno. E’ questa la prospettiva che dovrebbe essere presente…”.

Anche a me pare che questa sia la bussola con la quale orientarsi nelle prossime elezioni europee. E che richiama la necessità di una svolta profonda, partendo dal fatto che la lotta per la pace e il disarmo dovrebbero essere assunti come valori e proposte vincolanti e non negoziabili.
Per dirla in altri termini, bisogna scegliere la pace “senza se e senza ma”, affermare che “la pace viene prima di tutto” non solo per le tragedie che la guerra comporta, ma perché essa diventa sovrastante su tutto, sulla vita delle persone e sul modello produttivo e sociale che costruisce. Si potrà discutere se è meglio la linea regressiva della von Leyen o quella più innovativa di Draghi e Letta, ma non possiamo non vedere che entrambe muovono dall’assumere la difesa e la persistenza della guerra come i tratti fondamentali del futuro del mondo.

Per questo, il mio pensiero e la mia intenzione va nel sostenere chi, con più coerenza e determinazione, sta nel campo del pacifismo, che non è una “nobile ispirazione”, ma l’indicazione di un modello di società e di convivenza, basato sul multipolarismo, la centralità dell’iniziativa diplomatica e della cooperazione tra gli Stati, l’uguaglianza e la giustizia sociale e ambientale.

In questo senso, lasciando perdere la destra che si è velocemente convertita all’atlantismo e al neoliberismo, non si può non vedere come il PD, assieme a tutta la socialdemocrazia europea, rimane imprigionato in una logica per cui lo scenario di guerra, e l’invio delle armi che ne è il presupposto, è un orizzonte inevitabile.

Meglio fanno il M5S e anche l’Alleanza Verdi e Sinistra, ma non tanto da farci fuoriuscire da questa prospettiva. Non il primo che, da sempre impregnato da una cultura politica fragile, continua ad oscillare tra proclami contro la guerra e scelte concrete che vanno in altra direzione, come nel caso del sostegno al primo invio delle armi all’Ucraina durante il governo Draghi e il voto favorevole alla missione italiana nel Mar Rosso per “difendere il traffico commerciale” ( sic!) in quell’area. Anche l’Alleanza Verdi e Sinistra, per quanto esprimano posizioni più limpide e coerenti sul tema, non sfugge al fatto di considerare intoccabile il rapporto politico con il PD, finendo per risultarne subalterno.
Insomma, per quanto mi riguarda, solo la lista “Pace, terra e dignità” risponde alla caratteristiche di provare a segnare un punto di forte discontinuità con le politiche dominanti in Europa, da cui non penso si possa prescindere, al di là del risultato elettorale che sondaggi, forse non del tutto disinteressati ( e che peraltro si sono spesso dimostrati inattendibili), attribuiscono ad essa.

Le elezioni a Ferrara

Qualche considerazione sintetica la dedico anche alle elezioni comunali di Ferrara. Non perché ci sia un nesso diretto e immediato con la scadenza elettorale europea, se non la coincidenza delle date con cui si va al voto.
Tirando un po’ il ragionamento, si può sostenere che anche per la nostra città è all’ordine del giorno la necessità di una svolta radicale rispetto alle politiche che la destra ha realizzato in questi ultimi 5 anni di governo della città.

Occorre “liberarsi” da un’Amministrazione che, da una parte, ha sostanzialmente galleggiato sull’esistente, senza costruire nessuna prospettiva di futuro per una città che ha molti problemi, dall’invecchiamento e dalla solitudine della popolazione all’inesistenza di una struttura produttiva capace di produrre lavoro di qualità e soluzioni per i giovani – solo per citarne alcuni. In compenso abbiamo assistito a scelte che hanno privilegiato unicamente il bacino elettorale della destra, dal lavoro autonomo alle attività legate al commercio e al turismo, peraltro di poco respiro, condite da una propaganda contemporaneamente sopra le righe sulla “Ferrara che rinasce” e regressiva e ideologica sui diritti delle persone, a partire da quelle immigrate.

Mi pare che bisogna essere avvertiti che, comunque, mettere da parte questa destra è possibile, ma non sarà un’operazione semplice, sia perché pesa il fatto che l’opposizione politica di questi anni non è riuscita a presentare contenuti realmente alternativi e a voltare pagina rispetto ad elementi di continuità con le passate Amministrazioni di centro-sinistra, sia perché la stessa campagna elettorale non si è distanziata troppo da un’impostazione, viziata anche dalla legge elettorale esistente, di contrapposizione personalizzata tra i candidati sulla carta più forti.

Invece, la mia convinzione è che insistere sui contenuti, su un’idea alternativa di città, capace di fare i conti con le problematiche emergenti, è il modo più utile per avvicinare quelle parti di società che hanno deciso di non votare nella tornata scorsa e che hanno fatto buona parte della differenza tra destra e centro-sinistra, determinando la vittoria della prima. Con ciò confermando che essa è stata prima ancora un allontanamento delle politiche del centro-sinistra che un “ merito” della destra e che alcune letture, imperniate sull’utilità di costruire un unico soggetto elettorale anziché una pluralità di liste, non hanno fatto i conti con le tendenze reali del corpo elettorale.

Da questi sommari elementi nasce il mio sostegno alla lista “La Comune di Ferrara”, che, sin dalla sua definizione di essere “femminile, plurale e partecipata”, rende bene l’idea di voler avanzare un nuovo e diverso approccio al governo della città. Che poi si esplicita ancor meglio nel programma definito, nel momento in cui si mettono al centro i temi della democrazia partecipativa, del contrasto al cambiamento climatico e della conversione ecologica, della pubblicizzazione dei beni comuni, della “città per le donne”, insomma di un ruolo più forte e condiviso dell’intervento pubblico, come assi portanti per disegnare il futuro di Ferrara.
Poi, certamente, solo un nuovo intreccio tra iniziativa sociale partecipata e ruolo lungimirante delle istituzioni potrà sul serio far iniziare un nuovo percorso anche per Ferrara. Ma di questo si spera si potrà parlare dopo l’8 e il 9 giugno.

Storie in pellicola / Alle “Giornate della luce” di Spilimbergo tornano le mostre fotografiche 

Omaggio a Marcello Mastroianni a 100 anni dalla nascita con la mostra “Marcello Mastroianni ritrovato”, sul set di Paola Cortellesi con la mostra “C’è ancora domani, sempre” e poi, Elio Ciol, con “Gli ultimi”. Le mostre aperte al pubblico fino al 23 giugno.

La manifestazione ideata da Gloria De Antoni e da lei diretta con Donato Guerra sarà l’occasione per celebrare, come di consueto, gli autori della fotografia, veri protagonisti del festival.

Inaugura sabato 1° giugno, a Palazzo della Loggia a Spilimbergo, la mostra fotografica di Claudio Iannone dal titolo “C’è ancora domani, sempre”. 54 scatti realizzati sul set del film di Paola Cortellesi per mantenere vivo, attraverso l’occhio della fotocamera, il messaggio di denuncia e l’impegno civile che lo ha ispirato.

“Nessuna foto posata o elaborazione grafica avrebbero potuto narrare l’insieme dei sentimenti che animano i personaggi di questo film quanto la foto di scena che è diventata la locandina di C’è ancora domani. La presenza discreta e lo sguardo attento e profondo di Claudio lannone – ha detto Paola Cortellesi parlando delle foto di scena del film – hanno permesso di cogliere in ogni scatto l’essenza di situazioni brutali e ridicole, di personaggi disperati e buffi e di restituirne, con forza, le emozioni. La mostra sarà aperta al pubblico fino al 23 giugno.

Mostra fotografica C’è ancora domani, sempre di Claudio Iannone ©
Mostra fotografica C’è ancora domani, sempre di Claudio Iannone ©

Domenica 2 giugno alle ore 12.00 un grande omaggio a Marcello Mastroianni con l’inaugurazione della mostra Marcello Mastroianni Ritrovato – Nelle foto inedite di Paul Ronald sul set di 8 ½. Un omaggio a Marcello Mastroianni, nel centenario della nascita, con la mostra che vede protagoniste le foto inedite di Paul Ronald sul set di 8 ½ di Federico Fellini (1963).

Uno dei principali fotografi di scena del cinema italiano, Paul Ronald (1924-2005), chiamato da Federico Fellini sul set di 8 ½, ha lasciato attraverso i suoi scatti una testimonianza eccezionale sul lavoro del regista.

Aneddotico l’inizio della collaborazione tra Paul Ronald e Federico Fellini. Ronald che aveva lavorato a che da La terra trema (1948) era il fotografo di fiducia di Luchino Visconti, fu impegnato casualmente sul set dell’episodio felliniano Le tentazioni del dottor Antonio (del collettivo Boccaccio ‘70, di cui aveva anche documentato il segmento Il lavoro di Visconti). Fellini ne apprezzò, oltre che la bravura, anche la discrezione (era abituato all’esuberanza e all’invadenza di Pierluigi, fotografo de La dolce vita) e gli chiese di seguirlo per il successivo 8½. Così il fotografo ricorda l’episodio: «Un giorno mi telefona Nello Meniconi, il direttore di produzione di Fellini: “Aspetta ti passo Federico”. E Fellini scherzando mi dice: “Cosa devo fare? Devo venire con gli Oscar in mano per chiederti di fare il mio film?”. “Vengo subito”. Così mi sono ritrovato coinvolto nell’avventura di 8½ ».

Mostra fotografica Marcello Mastroianni Ritrovato – a cura di Antonio Maraldi ©

La mostra, curata da Antonio Maraldi, sarà aperta allo Spazio Linzi di Spilimbergo fino al 23 giugno, tutti i giorni dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 19.00.

Sempre sul fronte delle mostre, domenica 2 giugno alle ore 12.00, presso la sede del Confartigianato di Spilimbergo, sarà inaugurata quella su Elio Ciol, famoso fotografo friuliano, dal titolo Elio Ciol, “Gli ultimi” e la fotografia come rispecchiamento identitario. Le immagini scattate sul set del film Gli ultimi (1963), affresco della vita dei contadini del Friuli negli anni 1930, sono da considerarsi una documentazione imprescindibile della fotografia di scena nel campo del cinema italiano. La mostra, a cura di Stefano Ciol, in collaborazione con Confartigianato Pordenone, CATA e Cinemazero sarà aperta fino al 23 giugno, dal lunedì al venerdì dalle 8.00 alle 13.00.

A raccontare il rapporto tra cinema e cucina, infine, la mostra fotografica Cinema italiano tra tavola e cucina che si propone di far vedere come il cinema di casa nostra abbia raccontato, in questo scorcio di nuovo secolo, ciò che succede attorno alla tavola e ai suoi commensali. Le foto in mostra, realizzate dai fotografi di cinema delle ultime generazioni, provengono dall’archivio di Cliciak, il concorso nazionale per fotografi di scena organizzato dal Centro Cinema Città di Cesena dal 1998. A ospitare la mostra a Spilimbergo, aperta durante il festival, una serie di locali, ristoranti e osterie cittadine. La mostra è curata da Antonio Maraldi e presentata in collaborazione con il Centro Cinema Città di Cesena e Associazione Nuovo Corso. La mostra è aperta dal 2 al 23 giugno, tutti i giorni dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 19.00.

Mostra fotografica Cinema italiano tra tavola e cucina, a cura di Antonio Maraldi ©
Mostra fotografica Cinema italiano tra tavola e cucina – a cura di Antonio Maraldi ©

Le Giornate della Luce sono organizzate dall’Associazione Culturale Il Circolo di Spilimbergo e nel 2023 hanno avuto il sostegno di MiC, Regione Autonoma Friuli-Venezia GiuliaCittà di Spilimbergo, Fondazione Friuli, Banca 360 FVG.

Immagini Storyfinders – immagine in evidenza Mostra fotografica Marcello Mastroianni Ritrovato, a cura di Antonio Maraldi ©

Pace subito! Parliamone in classe

Pace subito! Parliamone in classe

 Inoltro in maniera convinta questa proposta del Gruppo Nazionale Ricerca Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa alla quale aderisco, contribuisco con un lavoro svolto in classe ed invito a partecipare.

 PER I DOCENTI DELLE SCUOLE SECONDARIE

Cari e care insegnanti, il rischio che le guerre attuali, oltre a non cessare, divampino in guerre ancora più tremende e globali è molto alto e crediamo debba coinvolgere tutti i giovani nella riflessione. Papa Francesco è l’unico leader mondiale che da tempo confida nell’impegno diretto dei giovani e parla di terza guerra mondiale strisciante.

Crediamo che attualmente non ci sia tema migliore da affrontare nelle scuole se non questo e sarebbe un’attività didattica molto utile e pertinente per la crescita e la maturazione dei ragazzi e delle ragazze. Vi invitiamo a dedicare del tempo ad ascoltare il pensiero dei vostri studenti e delle vostre studentesse sulla situazione attuale e sulle proposte che, siamo certi, saprebbero trovare per provare a invertire la tendenza a fare guerre ogni qualvolta si presenti un conflitto tra le nazioni.

Siamo certi che loro e voi insegnanti sapreste farlo nel rispetto delle ragioni e delle priorità dei diversi contendenti. Potreste leggere nelle classi il nostro Appello a cessare il fuoco subito e discuterne (in allegato Appello per il cessate il fuoco di Europe for Peace Piacenza a cui aderisce il MCE e un breve video dei ragazzi di un liceo di Parma).

Altrimenti parlare di Educazione civica a scuola non ha senso, come non avrebbero senso gli articoli approvati nel 1989 nella Dichiarazione dei Diritti dei Bambini e dell’Infanzia e quelli della Costituzione Italiana, dove si dice che anche i bambini e i ragazzi hanno il diritto di esprimersi su tutte le questioni che li riguardano. Con fiducia e speranza contiamo che tanti insegnanti si attivino in questo senso.

PER I DOCENTI DELLA SCUOLA PRIMARIA

Care maestre e cari maestri, sappiamo quanto vi stiano a cuore tutti i bambini e le bambine che quotidianamente accogliete a scuola. Pensiamo che in questo momento occorra farsi carico delle domande che alunni e alunne si fanno e cercare di aiutarli ad esprimere il loro disagio.

Per questo vi proponiamo di far raccontare liberamente ai vostri alunni e alle vostre alunne il loro vissuto ponendogli una semplice domanda: “È importante fermare le guerre? Perché?”

I bambini e le bambine potrebbero esprimersi attraverso un breve scritto, un disegno, un video o altro, sia in forma individuale che collettiva. Chi vuole potrà inviarci il materiale a: educationpaix@mce-fimem.it

CIÒ CHE PREVEDE LA LEGGE PER IL DIRITTO DI BAMBINE/I E RAGAZZI/E AD ESPRIMERSI

Convenzione Onu

La Convenzione Onu è stata adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989.

Sono ben 193 i Paesi che hanno adottato questo strumento internazionale (ad eccezione di Somalia e Stati Uniti). L’Italia ha adottato la Convenzione nel 1991 con la legge n. 176.

La Convenzione si compone di 54 articoli. I primi 41 contengono l’elenco dei diritti e delle libertà riconosciuti ai bambini/e e ai ragazzi/e fino al raggiungimento della maggiore età; gli articoli dal 42 in poi individuano gli obblighi degli Stati nel dare attuazione e garantire l’esercizio e il rispetto dei diritti in essa contenuti.

L’articolo 12 dice che bambini e ragazzi hanno diritto a esprimere la loro opinione su quello che interessa o riguarda loro e che gli adulti hanno il dovere di prendere in considerazione le loro idee.

Dice che hanno diritto di pensare quello che vogliono, in tutta libertà. E che hanno diritto di esprimersi tramite Internet o la stampa, attraverso disegni o con ogni altro mezzo a loro scelta. E anche in questo lo Stato deve aiutarli, non ostacolarli o censurarli e metterli nella condizione di potersi esprimere liberamente nel rispetto della libertà di tutti.

Articolo 13

  1. Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni ed idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo.

Articolo 14

  1. Gli Stati Parti rispettano il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

Costituzione italiana

Articolo 21

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

 

Appello a cessare il fuoco subito

Scarica e stampa il pdf:
Appello Pace subito

 

Video dei ragazzi e delle ragazze di un Liceo di Parma

Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / Issa Watanabe vince il Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole”

Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole” a Issa Watanabe, per “Kintsugi”, edito da Logos edizioni. Un libro che parla di bellezza nei momenti bui

Il “Kintsugi” è un’antica arte o pratica giapponese che consiste nel riparare il vasellame rotto riunendo i cocci con un collante naturale misto a metalli preziosi (solitamente dell’oro liquido): il materiale prezioso funziona da collante per rimettere e tenere insieme i cocci, i frammenti dell’oggetto che si è spaccato. Riparare quanto è rotto, perché poi sia meglio di prima oltre che unico.

A questa meravigliosa tradizione è dedicato l’omonimo albo illustrato, silent, di Issa Watanabe, già vincitore del Premio Bologna Ragazzi Award categoria “fiction” 2024 e oggi Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole”, per l’affascinante e rarefatta grazia di un racconto sospeso nel tempo e nello spazio. Per una metafora potente e al tempo stesso delicata sulla necessità di affrontare le difficoltà della vita. Per un albo dalle molteplici possibilità di interpretazione e lettura delle figure.”

Un albo che invita ad accogliere la pienezza della vita anche nei momenti più bui.

È l’ora del tè. Sfondo nero pece. Un coniglio e un uccellino rosso siedono a un lungo tavolo da cui spuntano rami verdi. Appesi a essi, alcuni oggetti di uso quotidiano, come una tazzina, una scaletta, uno specchio, una lattiera, una bottiglia, una valigia, un carretto, un piatto, un libro, una chiave, un cappello, una conchiglia o una scarpa.

All’improvviso i colori dell’uccellino cominciano a sbiadire, così come la sedia su cui è appollaiato. Entrambi diventano bianchi. La tazzina si rompe. E poi anche il tavolo si rovescia, mandando in frantumi tutto ciò che sosteneva. L’uccellino vola via, tirando con sé la tovaglia bianca. Tutto va all’aria. Sgomento, il coniglio si lancia all’inseguimento ma senza successo. Inciampa e cade. Il suo amico ormai è lontano e non lo vedrà più.

Non gli resta allora che partire, con sempre in mano un ramoscello: sarà un viaggio lungo, faticoso e complesso, fra acque, coralli e ghiacci, un percorso irto e difficile alla ricerca di consolazione e speranza in un mondo dove tutto sembra sgretolarsi.

Riuscirà a trovarle?

Issa Watanabe, che dedica l’albo alla figlia Mae, si addentra nell’animo umano, abbracciando una dimensione intima.

Per fare ciò, come si diceva, l’illustratrice si ispira all’arte del “Kintsugi”: l’oggetto riparato non torna come prima ma acquista nuova vita: le imperfezioni lo arricchiscono rendendolo unico. La sua bellezza è imperfetta, incompleta. È ciò che accade a ognuno di noi. Le incertezze e i dolori fanno parte della vita e, una volta che impariamo a conviverci, ci rendono ciò che siamo: individui splendidi e irripetibili. Insostituibili.

Ancora una volta, le illustrazioni – che riportano alla mente i dipinti di Henri Rousseau –spiccano su uno sfondo nero che accentua il simbolismo insito nell’uso del bianco e del colore e avvolge il lettore nella sua densa atmosfera.

La storia lieve e immediata può essere esplorata su più livelli, rendendola fruibile a ogni età.

Un racconto per affrontare i momenti difficili che ha la forza di una visione e la serenità di una meditazione.

“Speranza” è la cosa con le piume che si posa nell’anima e canta l’aria senza le parole e non smette – proprio mai. E si sente – dolcissima – nel vento e dev’essere furiosa la tormenta per riuscire a intimorire l’uccellino che ha riscaldato tanti. L’ho udito nella landa più fredda e sul mare più sconosciuto eppure, mai, nella disperazione ha chiesto da parte mia – una briciola”. Emily Dickinson

 

Issa Watanabe è nata a Lima nel 1980. Cresciuta in una famiglia che le ha trasmesso l’amore per l’arte e la letteratura (la madre era illustratrice e il padre poeta), ha studiato lettere alla Universidad Católica di Lima prima di trasferirsi a Palma di Maiorca per frequentare corsi di illustrazione all’Accademia di Belle Arti. Ha sviluppato e diretto diversi progetti per promuovere l’integrazione sociale attraverso l’arte. In particolare, il progetto “Encuentro con la Mirada”, realizzato in collaborazione con il fotografo Rif Sphani e il Museo d’arte contemporanea di Maiorca Es Baluard, ha ottenuto nel 2012 il premio Obra Social da La Caixa Forum. Per il suo lavoro artistico, Watanabe è stata selezionata dalla Bologna Children’s Book Fair nel 2018 e nel 2020 e da Ilustrarte, nel 2021. Nel 2020, ha ricevuto anche il Gran Premio della Giuria alla BIBF Ananas International Illustration Exhibition di Pechino. Nel 2018 è stata nominata ambasciatrice della linea professionale di Faber Castell. Le sue illustrazioni sono state esposte in Spagna, Italia, Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, Francia, Messico, Brasile, Ecuador, Colombia, Cile e Perù e sono incluse nella mostra “Speechless: The Art in the Wordless Picture Books” dell’Eric Carle Museum of Picture Book Art in Massachusets.

Issa Watanabe, Kintsugi, Logos edizioni, Modena, Collana ‘Gli albi della Ciopi’, 2023, 48 p.

 

 

Addio a Giovanna Marini, straordinaria cantastorie combattente

Ci ha lasciato Giovanna Marini, straordinaria cantastorie combattente

Redazione di Patria Indipendente- Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

Aveva 87 anni. Patria con Chiara Ferrari l’aveva incontrata qualche tempo fa nella sua casa ai Castelli romani. Il racconto di una vita tra musica, ricerca, impegno civile, le collaborazioni con Pasolini, Calvino, Dario Fo, Francesco De Gregori. E la Scuola Popolare di Testaccio: “Era parte della lotta antifascista che arrivava dalla lotta di Liberazione. I giovani stranieri quando sentono noi italiani raccontare i nostri canti, subito si emozionano, perché non hanno questo patrimonio. L’Italia si deve ancora ricostruire. E questi canti hanno una funzione tuttora rilevante”

Addio a Giovanna Marini

Se ne è andata ieri sera, 8 maggio, a 87 anni a Roma, dove era nata il 19 gennaio 1937. Patria con Chiara Ferrari l’aveva incontrata qualche anno fa nella sua casa ai Castelli romani.

Figlia d’arte: «Venivo da una famiglia di quattro generazioni di musicisti: padri, madri, zie, zii. Si parlava solo di musica. Io e i miei fratelli ci sentivamo diversi in mezzo agli altri, ci comportavamo in modo differente, perché venivamo da un mondo altro». Studi classici importanti anche all’estero, in Inghilterra, e le prime scelte coraggiose: «Quando decisi di abbandonare il pianoforte per la chitarra è stata una tragedia per la mia famiglia. È uno strumento minore, uno strumento da posteggiatori, mi dicevano».

Paolo Pietrangeli al centro, con Francesco Guccini e Giovanna Marini

Poi il Folkstudio, locale capitolino mito della nuova musica popolare, dove si esibiva con Bach, e i viaggi a Milano  i viaggi in America. Così arriva alla sua rivoluzione: «All’inizio io suonavo Bach al Folkstudio, non avevo canti popolari – aveva precisato Giovanna –. Poi mi hanno regalato un libro, me lo sono studiato e ho cominciato a trafficare sulle ballate piemontesi. Un giorno si è presentato Roberto Leydi perché al Folkstudio doveva arrivare Pete Seeger, così io venni coinvolta per tradurre la sua intervista. Mi chiese di andare a Milano per cantare con il Nuovo Canzoniere Italiano. Andai e in una sera conobbi Ivan della Mea, Paolo Ciarchi, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Fausto Amodei. Pensai subito che fosse un gruppo di persone speciali, di estrema intelligenza: Gianni Bosio che parlava come un libro stampato, e poi Luciano della Mea, Michele Straniero, i teorici. Ero colpitissima da tutto ciò. Un mondo di cultura, di storia, di intelligenza, era lì alla Casa di Cultura di Milano. Era un movimento grandioso».

E raccontando a Chiara Ferrari aveva proseguito: «La qualità, comunque, che mi colpì di tutta questa gente era la grandissima umanità, qualcosa che nel mondo della musica classica non avevo mai trovato. La musica classica è fatta di individualismo, mentre io sono interessata al genere umano, quasi più che al suono. Alla fine sono tornata nel piattume romano e ho cominciato a inventare canti popolari perché pensavo fosse così che si faceva: io sono popolo e allora faccio un canto popolare. Naturalmente il primo che scrissi partiva dall’arpeggio di re minore e un esperto capiva subito che non era affatto un canto popolare. Ma a quell’epoca non si era ancora esaminato tanto quel genere per comprendere come la musica potesse accompagnare. È stato comunque molto interessante per me e piano piano mi sono fatta una cultura da autodidatta, anche perché all’epoca non si studiava questo materiale. Poi, lavorando con Leydi, Bosio, Straniero, ho imparato tantissime cose».

Più tardi la Scuola di musica popolare di Testaccio, fondata nel 1975, frutto di una scelta: «In Italia negli anni Cinquanta-Sessanta ci fu un movimento enorme attorno alla canzone popolare, un movimento partito dai grandi intellettuali. Cesare Pavese, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini erano uomini di cultura, antifascisti legati a un’idea politica, una fede politica vera. C’era da vincere la guerra, da buttare fuori i tedeschi, bisognava raccogliere tutte le forze possibili. Quegli intellettuali erano rappresentanti eroici per noi cantautori. Da lì, infatti, da quel mondo, da quelle loro parole, dalle loro letture, siamo tutti provenuti».

Sul palco del 25 aprile 2023 a Roma

Il rapporto con personalità quali Gianni Bosio, Roberto Leydi, Emilio Jona che aveva raccolto per primo i canti popolari, seguito da Michele Straniero. E piano piano quel lavoro era entrato nell’interesse degli italiani, ricordava Marini.  «Un lavoro molto legato al fatto sociale, radicato nella popolazione, sentito dalla popolazione come parte di una lotta. Contro la violenza e la sopraffazione del nazifascismo. Negli altri Paesi questo non c’è stato. I giovani stranieri quando sentono noi italiani raccontare i nostri canti, subito si emozionano, perché non hanno questo patrimonio. (…) L’Italia si deve ancora ricostruire. E questi canti hanno una funzione tuttora rilevante».

Addio Giovanna Marini, la tua voce e la tua chitarra ci hanno aiutato tanto a crescere, capire e lottare.

Qui per leggere l’intervista realizzata da Chiara Ferrari e ascoltare i brani.

Parole a Capo
Elisa Ruotolo: Alcune liriche da “Alveare”

Lasciate un angolo incolto, perché almeno lì possano nascere e crescere anche le erbe e i fiori selvatici.
(San Francesco d’Assisi)

 

INVERNO

Ogni voce è perduta e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno
la propria memoria.
Mentre l’inverno apparecchia sventure alle linfe
impariamo una nuova preghiera
e il congedo dai chiodi dell’estate.
La morchia della terra mescolata all’umore
l’innesto del sonno sul moto mercuriale dei corpi,
la breve paga del riposo, ci annodano in un torpore
ingordo, che distanzia ogni amore di veglia.
Il glomere pulsa di fiamma e protezione
nel suo miracolo un delirio senza tregua
– ventre nero, dubbio di vita, antro in cui si scende
da cavatori in cerca d’un rimedio
alla stagione.
I campi sono nudi e i fiori, nel bavaglio del freddo
non chiamano da tempo.
Ogni promessa è rimandata e persino il cielo
– sempre fermo
persino lui ci lascia e va lontano, quasi crudele
va a cercare altrove, in altri deserti
la sua dolcezza.
È inverno, e lui sa farci piccole davvero
mentre la resurrezione è remota,
irreale
quanto la primavera.

 

L’APICOLTORE

Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell’asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla?
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere La Città del miele
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia
non ho miele da dare, io.

 

VOCI DALL’ALVEARE
ULTIMO STADIO DI SVILUPPO

La Pupa
Quale volto ha la vita? Quale la morte?
E dove collocare il fondale più basso?
Ho troppe domande
in questa notte di voci in cui
non imparo a dormire eppure sogno,
e divento.
Vado avanti senza un luogo
mentre cresco e forzo la poca pelle che resta
contro il mondo.
Infanzia è stare fermi a nutrirsi – è attesa,
fame di tutto
il malinteso di un corpo che vibra
inascoltato, in una cella di limiti
e occasioni.
Uscire dalla culla sarà un andare per briciole
e cimiteri di rami che la vita – di machete
avrà già sfrondato.
Un educare la voce a fare
da lingua madre.
Sono molle contro il ferro del fuori
sono sinistra nel gioco del possibile
che mi rende inaffidabile
alla forma.
Cresco nel desiderio e nella perversione
di amare tutto – il dato e il negato.
Ma alla fine mi toccherà una vita sola
non un andito secondario per fuggirla
o un abaco puntuale
nella conta dei giorni.
Dureranno o sfrideranno in fretta?
Batto contro il diaframma che mi tiene in disparte
e grido da questa infanzia di cautele
da questa cella che sa tutto di me
e io non indovino.
Cieca e bambina accumulo presagi per lo svago
quando arriverà a toccarmi.
Eccomi
rompo il guscio, m’insinuo nel taglio di vita
umida e in paura
mi guardo dall’alto degli occhi
e non capisco
cosa sarò e se dio saprà vedermi.
Nasco, e questa enormità non pesa niente,
questa solennità modesta
non fa rumore.
Sono qui
tra tanti
e non importa a nessuno.

 

ELISA RUOTOLO Scrittrice, poetessa è nata a Santa Maria a Vico (Ce), dove vive. Esordisce nel 2010 con la raccolta di racconti pubblicata da nottetempo Ho rubato la pioggia, Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito. Il suo primo romanzo Ovunque, proteggici – uscito per nottetempo nel 2014 e riproposto da Feltrinelli nel 2021 – è finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e Selezione Premio Strega 2014. È del 2018 il suo primo testo per ragazzi intitolato Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu) cui fanno seguito, nel 2019, la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia) e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo, Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021) è finalista al Premio Rapallo e al Premio Bergamo ed è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Nel febbraio 2023 con l’Editore Bompiani pubblica Il lungo inverno di Ugo Singer (finalista al Premio Campiello junior). Il suo secondo testo poetico è Alveare (Crocetti, 2023).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Diario in pubblico /
Dante e la scuola

Diario in pubblico. Dante e la scuola

Da dantista che negli anni passati ha insegnato il verbo del poeta all’Università di Firenze, dove detenevo la titolarità dell’insegnamento, resto senza parole a leggere ciò che è accaduto presso una scuola di Treviso, dove la docente di lettere, accogliendo una richiesta della famiglia di due studenti mussulmani, li ha esentati dallo studio del poeta sostituendolo con Boccaccio.

La follia della richiesta e del permesso si lega con la miserabilità di una visione così pericolosa da richiedere un commento che in tempi normali avrebbe dovuto essere niente altro che un manifesto contro la indocta ignorantia che flagella gli stessi dispensatori di cultura, ma che nel caso odierno si rivela un pericoloso strumento della deriva politico-culturale a cui stiamo approdando.

Si parta dunque da una premessa non scontata. Che significa insegnare i classici e come va inteso questo insegnamento? Nella storia del secolo breve molto si è discusso sulla necessità di far entrare lo studio dei classici come modo di capire la Storia e porre il discente nella possibilità di comprenderne l’evoluzione e il conseguente magistero. A dispetto della renitenza tipicamente giovanile (ma non solo) a porvisi a confronto. Eppure, il risultato fu soddisfacente.

Per quello che riguarda la mia esperienza, indimenticabili furono gli anni in cui Roberto Benigni ed io collaborammo nel proporre lo studio del Poeta. Roberto attirava folle entusiaste in piazza Santa Croce, poi la palla passava a me, che esaminavo, usando lo strumento della filologia e della storia della letteratura. Veniva poi affittato un teatro per contenere gli studenti che dovevano passare gli esami, i quali erano di diversissime nazioni, di estrazioni cosmopolite, di culture eterogenee.

Nel caso di Treviso colpisce la totale mancanza di prospettiva professionale della docente che riflette ciò che da sempre è stato il più grave handicap dell’insegnamento quello che ho chiamato ignoranza storica. E qui si apre uno dei problemi più spinosi, a cui ho dedicato molta parte del mio percorso culturale, cioè la pericolosità dei metodi dell’Accademia applicati direttamente al contesto storico-politico.

Mi spiego. Io deus ex machina, cioè professore di ruolo, scelgo i miei collaboratori non solo in base alle loro capacità, ma come riflesso della mia visione culturale e a chi trasgredisce l’ordine “peste gli colga”!

Nel caso della scuola di Treviso, sembra quasi che lo smarrimento attestato dalla insegnante sia legato a quella deficienza di visione che Michele Serra nella sua Amaca del 26 maggio così individua: “La cultura serve a contestualizzare la storia e l’arte, collocando ogni evento e ogni opera nella sua epoca”. Una posizione condivisa anche dall’intervento di Vittorio Sgarbi nella puntata del 27 maggio di Quarta Repubblica condotta da Nicola Porro.

Qui si dovrebbe aprire un a riflessione molto più coinvolgente e necessaria e che riguarda lo stato mai così basso raggiunto dalla scuola pubblica, che sopravvive miseramente tra mancanza di fondi, che dovrebbero consentire un migliore funzionamento di tutti i suoi organi. Altro che fuga in altri luoghi che garantiscono una occupazione migliore!

La vergogna che la politica di tutti gli schieramenti non sa o non vuole (e questo è più grave) sanare.

Alla fine del mio impegno culturale è una colpa che sebbene incolpevole mi grava sulle spalle.

Cover: Domenico di Michelino, Dante con in mano la Divina Commedia, 1465 – su licenza Wikimedia Commons

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Daniele Lugli, idee, lotte, passione civile: “La difesa di cui abbiamo bisogno”

Daniele Lugli, idee, lotte, passione civile: “La difesa di cui abbiamo bisogno”

Ricorre in questi giorni l’anniversario della morte improvvisa dell’amico Daniele Lugli. Ripresentiamo qui il testo integrale di una sua lunga intervista realizzata da Dalia Bighinati  per Telestense e trascritta da Elena Buccoliero. Ai lettori raccomandiamo anche la lettura dei numerosi articoli ed interventi di Daniele apparsi su Periscopio e presenti nel nostro archivio.[vedi qui]
La redazione di Periscopio

La difesa di cui abbiamo bisogno – I parte

Nella primavera 2015 Daniele Lugli è stato intervistato da Dalia Bighinati, giornalista di Telestense, tv locale di Ferrara. La conversazione prende spunto dalla campagna “Un’altra difesa è possibile” che allora aveva in corso la prima raccolta firme, per parlare più ampiamente di quale difesa ci sia necessaria a livello internazionale e non solo. Nell’anniversario della scomparsa di Daniele, riprendiamo i passaggi essenziali di quell’incontro.
(Elena Buccoliero)

“I conflitti anche estremi che ormai lambiscono l’Europa richiedono, proprio per la loro complessità, di non essere affrontati con la soluzione militare. Una convinzione, che non è solo del MN. Alla campagna “Un’altra difesa è possibile” hanno aderito oltre duecento associazioni, alcune piccole come il Movimento Nonviolento, altre di dimensioni ben maggiori come Cgil, Fiom, Lega Coop, Acli, Agesci…  Associazioni di matrici differenti che hanno trovato un punto di convinzione comune. Mai si è mostrato che la soluzione militare sia idonea ad affrontare i conflitti, di solito serve a prepararne degli altri, o ad aggravare quelli esistenti. Ma proprio la complessità dei conflitti, lo scontro di culture differenti, di impostazioni diverse, la difficoltà persino di comunicare su basi comuni impone di avere altri strumenti di contatto e di difesa. Impone di trovare delle possibilità. Prima che i conflitti giungono al loro estremo, intanto, interventi che valgano o a mitigarli o a fargli prendere un’altra direzione”.

La diplomazia dovrebbe essere deputata a questo.

“Certamente, ma vediamo che anche la diplomazia degli stati incontra forti limiti, proprio per i forti interessi, anche spesso distorsivi, che gli stati portano. Mentre da un lato si afferma di voler combattere una certa situazione di ingiustizia all’interno di un paese, e questo diventa motivo di un intervento, contemporaneamente ci sono interessi potenti, magari di carattere economico, che predominano. Abbiamo visto invece che diplomazie dal basso, magari sostenute non dal piccolo Movimento Nonviolento ma dalla Comunità di Sant’Egidio, hanno avuto un effetto che interventi di carattere statuale non riuscivano ad avere”.

Nei conflitti, indipendentemente dagli interessi dichiarati, religiosi, culturali… ci sono sempre anche interessi ulteriori, per esempio quelli della lobby delle armi. Di fronte a questo, scegliere la difesa non armata e nonviolenta non è come andare contro un colosso con uno stuzzicadenti?

“Certo, la sproporzione è evidente. Ma proprio per quello si è pensato a dare strumenti di carattere istituzionale a questa intuizione. Che ci sia questa necessità, è avvertito. Gli stessi militari più avveduti ce lo dicono. In un dibattito che ho avuto ormai anni fa a Viterbo con il generale Mini – un generale importante, che in Kossovo ha assunto ruolo decisivo, ed è credo l’unico generale non americano che ha comandato una divisione di carri armati americani, quindi aveva conoscenza sul terreno – lui stesso riconosceva, come altri, che ci sono cose che i militari non possono fare. Proprio perché hanno bombardato fino al giorno prima, non sono adatti, poi, a ricomporre. Perché bene o male i conflitti finiscono. E anche durante i conflitti, una presenza civile preparata, non improvvisata, non allo sbaraglio, è in grado di mitigarne gli effetti più pesanti”.

Quali sono i contenuti di questa campagna?

“La campagna consiste nell’idea di istituire un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta, nel quale possano esprimersi capacità che hanno già avuto qualche terreno di traduzione, molto spesso basato solamente su un volontariato generoso. Stiamo parlando da un lato del servizio civile nelle sue dimensioni internazionali, ma anche e ulteriormente dei caschi bianchi, delle brigate per la pace, di formazioni di civili che sono intervenute nei conflitti. Persone che hanno fatto scelte anche estreme, nel collocarsi come scudi umani nei momenti in cui i conflitti erano aperti, però assumendo iniziative che hanno mostrato delle possibilità. Per esempio in Kossovo, ne conosciamo parecchie di queste esperienze. Hanno bisogno di avere un altro respiro, un’altra forza. Ecco, allora, i corpi civili di pace”.

Ci sono degli esempi in altri Paesi?

“Statuali no. Ci sono però degli esempi cospicui, per esempio in Germania, che forse per un lungo periodo, con i limiti che aveva rispetto al riarmo, ha sviluppato un’attenzione maggiore di quella che ha avuto il nostro Paese, e ha sviluppato interventi di una certa efficacia. Ma esempi ne abbiamo anche in Italia, con i caschi bianchi legati in particolare alla Papa Giovanni XXIII, un’esperienza che si è innestata anche su una parte del servizio civile. L’idea è quella che Langer nel ’95 aveva portato al Parlamento Europeo, perché quella a me sembra la sede giusta: istituire dei Corpi civili di pace in grado di intervenire anche fuori dai confini europei”.

Per non essere scambiati per dei pacifisti ingenui, che cosa lei si sente di dire in questo momento, rispetto al bisogno di difendersi dalla paura?

“Internamente, ora che il servizio miliare è stato come tale sospeso e c’è un servizio volontario, portiamo avanti l’idea che vi sia un servizio civile che si preoccupa di difendere l’ambiente, l’equilibrio idrogeologico… che difenda tutti noi da quello che davvero ci minaccia, come la disoccupazione, che oggi preoccupa almeno altrettanto quanto il pericolo esterno.

“Nelle relazioni internazionali si tratta di affiancare alla difesa militare un’altra possibilità di difesa, di intervento, di interlocuzione, sapendo che anche il nemico non è un monolite e che le possibilità passano – come si è visto nelle guerre passate – attraverso le conversioni, attraverso i mutamenti in positivo, attraverso dei punti di sbocco per cui non è vero che uno deve vincere tutto e l’altro deve perdere tutto ma si possono trovare dei punti di saldatura.

“E poi c’è il fatto di comprendere, credo, che è proprio di questa generazione il compito di tradurre quello che generazioni precedenti avevano avvertito come imprescindibile”.

Cioè?

“Nella nostra Costituzione, perché è scritto che l’Italia ripudia la guerra? Avevano scritto prima condanna, poi rinunzia, poi hanno trovato che ripudia era l’espressione più forte. E perché è scritto che la difesa dello stato è sacro dovere del cittadino, e dopo si parla del servizio militare obbligatorio? Originariamente veniva prima il comma sul servizio militare. L’inversione, per significare il fatto che la difesa è molto più del servizio militare obbligatorio, è dovuta a una richiesta di Aldo Moro, molto precisa e molto ben determinata. Così come è in Costituzione l’idea che l’esercito si conformi all’ordinamento democratico della Repubblica: è sempre il cittadino, nella sua pienezza e nella sua dignità, che difende se stesso e la sua comunità”.

La difesa di cui abbiamo bisogno – II parte

Nella prima parte dell’intervista raccolta nella primavera 2015 dalla giornalista Dalia Bighinati per Telestense, Daniele Lugli prendeva spunto dalla campagna “Un’altra difesa è possibile”, che allora era in pieno svolgimento, per parlare di corpi civili di pace e della necessità di costruire a livello internazionale forme non armate di prevenzione, mitigazione e ricomposizione dei conflitti.
Di seguito la seconda parte di quell’incontro, dedicata alle potenzialità e ai limiti della democrazia. La difficoltà, dice Daniele, è “avere il senso di quello che ci sta accadendo”.
(Elena Buccoliero)

In questi anni abbiamo sentito crescere la paura nei confronti dell’invasore, anche se è un invasore macilento che mette a repentaglio la propria vita per arrivare in Italia. Però questo è un tema dominante, insieme a venature fortissimamente razziste, e anche oggi i media lo favoriscono. Nei confronti di questa paura, il Movimento Nonviolento e gli altri movimenti dell’area, cosa argomentano?

Quando c’è la paura non c’è spazio per altro. Ed è vero che la paura come tale, quando c’è, bisogna prendere atto che c’è. Però è possibile, intanto, non farsene imprenditori, al contrario di alcune forze politiche, o di alcune forze che a fatica si possono chiamare culturali. E quindi comprendere il gioco molto sporco che si va facendo, su un elemento drammatico e però costante che è quello delle grandi migrazioni di massa che peraltro si volgono, al 90%, all’interno di questo terzo mondo in difficoltà, aumentandone le difficoltà. E si è visto anche una contrazione dell’immigrazione per quello che riguarda il nostro paese, collegata, ahimè, alla crisi economica. Persone che cercano un posto dove stare meglio molto spesso vedono l’Italia come un ponte per andare in Germania, in Danimarca, in Norvegia… paesi che hanno altre possibilità di occupazione, per cui il disagio nostro, quello di essere attraversati, è limitato rispetto al disagio delle persone che fanno questa scelta.

La difesa però innesca anche reazioni di tipo adrenalinico. Lei dice: va incanalata.

Esattamente. Per questo per noi è molto importante conoscere nel modo più approfondito e più preciso le situazioni per come si presentano. Non abbiamo nessun interesse a fare una rappresentazione irenica della realtà, vogliamo proprio vederci dentro. Non a caso sono i movimenti pacifisti ad avere studiato con più attenzione gli ultimi conflitti internazionali, e ad avere rilevato – questo è diventato ormai indiscutibile – che in ogni conflitto affrontato militarmente si è usciti peggio di come si era entrati. Gli stessi generali hanno detto: va bene, possiamo fare la guerra, ma ci dite per che cosa? E neanche si è capito verso quale direzione di pacificazione, di maggior giustizia, in qualche modo si andasse.

A Ferrara è venuto più volte Yadh Ben Achour, autorità militare e politica in Tunisia, colui che ha guidato una sorta di corte costituzionale per una transizione culturale e politica. Ha scritto un libro molto bello, “La tentazione democratica”. Questo ci dice che ci sono forze in quel mondo che vedono la democrazia come tentazione e come orizzonte. Il problema è, per noi, far vedere che la democrazia è in grado di mantenere le sue promesse. L’unica sua forza è proprio far vedere che nonostante le paure è in grado di mantenere le promesse che fa.

Però ha funzionato l’affermazione per cui la democrazia doveva essere esportata con gli eserciti.

Diciamolo semplicemente: è una cosa infame. Non è mai successo, e non potrà mai succedere. La democrazia deve essere vissuta quotidianamente. Anche nel nostro paese, nel momento in cui se ne avverte la fragilità, se ne avvertono i limiti, se ne avverte l’impotenza, non c’è niente che ce la imponga. Nonostante pensiamo in Europa di essere il cuore della democrazia.

Eppure le armi hanno sempre avuto il loro fascino, anche nei giochi dei bambini. Forse a scuola, nello studio della storia, non c’è abbastanza attenzione nel mantenere la memoria di quello che è stata la guerra. Dopo Auschwitz, altri genocidi sono avvenuti. Forse le nuove generazioni non sono abbastanza coscienti di quello che è accaduto.

Sì, però io credo che la difficoltà sia non solo quella di mantenere la memoria del passato, ma di avere il senso di quello che ci sta accadendo. Passaggi di disumanità che una situazione di pericolo, o come tale avvertito, rende generalizzati.

In questi anni abbiamo sentito crescere la paura nei confronti dell’invasore, anche se è un invasore macilento che mette a repentaglio la propria vita per arrivare in Italia. Però questo è un tema dominante, insieme a venature fortissimamente razziste, e anche oggi i media lo favoriscono. Nei confronti di questa paura, il Movimento Nonviolento e gli altri movimenti dell’area, cosa argomentano?

Quando c’è la paura non c’è spazio per altro. Ed è vero che la paura come tale, quando c’è, bisogna prendere atto che c’è. Però è possibile, intanto, non farsene imprenditori, al contrario di alcune forze politiche, o di alcune forze che a fatica si possono chiamare culturali. E quindi comprendere il gioco molto sporco che si va facendo, su un elemento drammatico e però costante che è quello delle grandi migrazioni di massa che peraltro si volgono, al 90%, all’interno di questo terzo mondo in difficoltà, aumentandone le difficoltà. E si è visto anche una contrazione dell’immigrazione per quello che riguarda il nostro paese, collegata, ahimè, alla crisi economica. Persone che cercano un posto dove stare meglio molto spesso vedono l’Italia come un ponte per andare in Germania, in Danimarca, in Norvegia… paesi che hanno altre possibilità di occupazione, per cui il disagio nostro, quello di essere attraversati, è limitato rispetto al disagio delle persone che fanno questa scelta.

La difesa però innesca anche reazioni di tipo adrenalinico. Lei dice: va incanalata.

Esattamente. Per questo per noi è molto importante conoscere nel modo più approfondito e più preciso le situazioni per come si presentano. Non abbiamo nessun interesse a fare una rappresentazione irenica della realtà, vogliamo proprio vederci dentro. Non a caso sono i movimenti pacifisti ad avere studiato con più attenzione gli ultimi conflitti internazionali, e ad avere rilevato – questo è diventato ormai indiscutibile – che in ogni conflitto affrontato militarmente si è usciti peggio di come si era entrati. Gli stessi generali hanno detto: va bene, possiamo fare la guerra, ma ci dite per che cosa? E neanche si è capito verso quale direzione di pacificazione, di maggior giustizia, in qualche modo si andasse.

A Ferrara è venuto più volte Yadh Ben Achour, autorità militare e politica in Tunisia, colui che ha guidato una sorta di corte costituzionale per una transizione culturale e politica. Ha scritto un libro molto bello, “La tentazione democratica”. Questo ci dice che ci sono forze in quel mondo che vedono la democrazia come tentazione e come orizzonte. Il problema è, per noi, far vedere che la democrazia è in grado di mantenere le sue promesse. L’unica sua forza è proprio far vedere che nonostante le paure è in grado di mantenere le promesse che fa.

Però ha funzionato l’affermazione per cui la democrazia doveva essere esportata con gli eserciti.

Diciamolo semplicemente: è una cosa infame. Non è mai successo, e non potrà mai succedere. La democrazia deve essere vissuta quotidianamente. Anche nel nostro paese, nel momento in cui se ne avverte la fragilità, se ne avvertono i limiti, se ne avverte l’impotenza, non c’è niente che ce la imponga. Nonostante pensiamo in Europa di essere il cuore della democrazia.

Eppure le armi hanno sempre avuto il loro fascino, anche nei giochi dei bambini. Forse a scuola, nello studio della storia, non c’è abbastanza attenzione nel mantenere la memoria di quello che è stata la guerra. Dopo Auschwitz, altri genocidi sono avvenuti. Forse le nuove generazioni non sono abbastanza coscienti di quello che è accaduto.

Sì, però io credo che la difficoltà sia non solo quella di mantenere la memoria del passato, ma di avere il senso di quello che ci sta accadendo. Passaggi di disumanità che una situazione di pericolo, o come tale avvertito, rende generalizzati.

La difesa di cui abbiamo bisogno – III parte

La nonviolenza può essere un criterio che orienta la buona amministrazione? Daniele Lugli ritiene di sì e lo spiega, facendo tesoro di molteplici esperienze: trent’anni di lavoro nell’Amministrazione Provinciale di Ferrara, tanta formazione ai dipendenti pubblici, due incarichi di assessore comunale e, dal 2008 al 2013, quello come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna, una figura che Daniele riassumeva nell’idea dell’uomo-ponte per ricostruire la fiducia e il dialogo interrotto tra i cittadini e la pubblica amministrazione.
Di questi argomenti Daniele Lugli parla nella primavera 2015, intervistato dalla tv locale della sua città, Telestense, in dialogo con la giornalista Dalia Bighinati. Su queste pagine, nelle settimane precedenti, abbiamo ripreso la prima parte di quella conversazione, dedicata alla campagna “Un’altra difesa è possibile” e ai corpi civili di pace, e la seconda parte, sulle potenzialità e i limiti della democrazia.
(Elena Buccoliero)

 Come presidente emerito del Movimento Nonviolento, accanto ai temi della pace e della nonviolenza, è sempre in prima linea quando si parla di lotta alla corruzione. Oppure, in positivo, di promozione della legalità. Fra violenza e diffusione di pratiche di illegalità ci sono delle relazioni?

Certamente. Va bene, quando parliamo di violenza noi pensiamo in genere alle sue manifestazioni estreme. Capitini diceva: scegliendo la nonviolenza io intanto ti dico che non ti ucciderò; io intanto ti dico che rispetto tutto quello che c’è, sono contento che ci sia, e ne voglio la libertà e ne voglio lo sviluppo – che è poi la definizione di nonviolenza che io prediligo. La corruzione, però, induce un elemento di incertezza, uno scadimento nelle relazioni tra le persone, oltre a essere poi veicolo della criminalità organizzata, che non scherza quando di violenza ha bisogno.

La corruzione si può intendere come versione soft della sopraffazione?

Non c’è dubbio. La corruzione è uno strumento attraverso il quale chi ha un potere economico, o comunque un potere di controllo nei confronti delle istituzioni democratiche, riesce a stravolgerne le regole. In questo senso è uno dei potentissimi elementi attraverso i quali una democrazia finisce nel discredito.

Quale può essere l’antidoto?

C’è bisogno di una trasparenza non fatta solo di carta. C’è bisogno di impadronirsi dei termini essenziali. Ho visto, ad esempio, fare bilanci ambientali con parametri complessi che un cittadino difficilmente può comprendere. Quando io ho visto portare via la ghiaia dalle cave, e entrare rifiuti, ho avuto chiaro che il nostro bilancio ambientale non poteva andare bene. Con questo voglio dire che tutti i discorsi sulla trasparenza e sul controllo delle amministrazioni devono essere portati alla capacità del cittadino. Occorre dare ai cittadini il filo per impadronirsi di questi temi, e che ciò avvenga con continuità. Nella mia piccola esperienza di Difensore civico regionale questo era uno dei temi che più mi impegnava. Il Difensore civico non è solo quello che solleva i ritardi della burocrazia – cosa utilissima e vera, certo – ma è colui che si impegna per costruire un ponte di fiducia tra amministratori e cittadini.

Da dove si può partire per fare questo?

Si parte da chi se la sente. Il problema è di avere, su questo, capacità, coerenza e continuità. Quante volte si sente dire che un sindaco che si era dichiarato contro la mafia risulta colluso!? Ma del resto i cittadini, che protestano contro la criminalità organizzata, se solo possono, cercano anche loro una strada di corruzione se questa può risultare conveniente.

Aldo Capitini nel ’44, appena liberata Perugia, la prima cosa che fa è istituire il Cos, il Centro di Orientamento Sociale, un luogo dove le persone si trovano due volte alla settimana, nel centro e in tutte le frazioni del comune di Perugia, e parlano insieme dei problemi che incontrano.

Oggi si direbbe che il web è salvifico perché mette in connessione persone anche molto distanti nella discussione su argomenti comuni.

Sì, ma non è sufficiente. È uno strumento importantissimo, ma il problema è come sempre il modo in cui gli strumenti si usano. E la rete non può sostituire il tempo dedicato all’ascolto. Spesso sui social troviamo dei monologhi in conflitto tra di loro e in una escalation continua, senza che ci sia nessun dialogo, nessuna discussione. “Discussione”, mi ha insegnato Capitini, è una cosa precisa. Vuol dire scuotere con forza. Scuotere che cosa? La tenuta degli argomenti che hai, quando li sottoponi al confronto con le posizioni dell’altro, e sei contento non quando vinci ma quando esci dalla discussione con argomenti migliori di quelli con cui ci sei entrato.

Per me, che venivo da una formazione avvocatesca, questa è stata un’acquisizione importante alla quale non riesco sempre a essere fedele. È stato capire che in una discussione devo uscire meglio di come ci sono entrato. Quando vedo che da un luogo, da un ruolo, esco più stupido e cattivo, vuol dire che è l’ora di smettere. E questo vale anche per l’uso dei social.

Tra le tecniche della nonviolenza c’è il sabotaggio. Oggi viene nominato anche a livello informatico, ad esempio nei confronti dell’Isis.

Certamente, c’è anche questo. E poi, per gli amici della nonviolenza, c’è tutto il campo della formazione nei confronti dei giovani. Chiediamoci perché l’Isis può attrarre, sia pure minoranze ristrette, ma giovani che sono cresciuti nel nostro paese, che ha infiniti difetti, ma certamente ha condizioni complessive di vita, e di rapporti e di relazioni, migliori di quelle che vengono prese a modello. Quindi proviamo a chiederci in quale modo efficace contrastare questa attrazione che i giovani sentono, dando loro la possibilità di fare qualcosa, qualcosa di decisivo, dall’interno della proposta che i nostri paesi imperfetti, ma con una solida Costituzione, possono offrire.

L’intervista integrale può essere vista su telestense  a questo link.

 

Claudio Cintoli alla galleria Zanzara riporta a Ferrara la ricerca artistica degli anni ’60 e ’70

Claudio Cintoli alla galleria Zanzara riporta a Ferrara la ricerca artistica degli anni ’60 e ’70

Una mostra che vale un museo, perché porta a Ferrara – alla galleria Zanzara arte contemporanea – un’esposizione che è uno spaccato completo dell’opera di Claudio Cintoli, interprete dei movimenti artistici più importanti degli anni Sessanta e Settanta. L’artista (nato a Imola nel 1935 e morto a Roma nel 1978) ha saputo registrare in maniera tutta personale i nuovi linguaggi performativi e visivi dell’arte contemporanea. Morto prematuramente a soli 43 anni, nel breve spazio di un ventennio ha prodotto opere entrate a pieno titolo nella storia dell’arte di un periodo caratterizzato da grandi spinte all’innovazione e alla sperimentazione.

Sara Ricci e Giulia Giliberti – zanzara art directors

Sperimentazione e ricerca sono del resto le linee guida del percorso artistico, che ora a Ferrara viene rimesso al centro della scena dalle giovani curatrici e galleriste Giulia Giliberti e Sara Ricci di Zanzara arte contemporanea attraverso l’interpretazione personale delle tendenze più innovative di quel momento così fervido. In mostra video e reperti originali della performance che prevedevano il coinvolgimento del pubblico e body art, opere in linea con nuovo dadaismo, personalissima interpretazione di pop art, arte povera, arte concettuale, persino iper-realismo. Uno sguardo fuori dagli schemi e rivolto sempre verso il futuro e le avanguardie.

Cintoli, sala 1 galleria zanzara arte contemporanea – foto Francesca Occhi

L’esposizione intitolata Claudio Cintoli – Il Confine del Doppio è di fatto un estratto della raccolta di un intero museo. Ci sono i video per due terzi inediti; materiali utilizzati nelle performance del ’68; collage, dipinti; carte e opere che rappresentano una campionatura significativa della sua produzione e del contenuto del museo, rilevato dallo storico gallerista ferrarese Giuseppe Falivene, già collezionista di diverse opere di questo autore.

Cintoli, sala 2-3 di galleria zanzara arte contemporanea – foto Francesca Occhi

Un forte legame con la città di Ferrara, quindi, dove l’opera di Cintoli è stata esposta negli spazi della galleria gestita da Falivene in via Palestro (1998-2012) e, dopo il 2015, per alcuni anni nella centralissima via Frizzi nella più contenuta galleria Pi.gallery con un catalogo dei protagonisti di spicco dell’arte contemporanea da Mario Schifano a Tano Festa, Mario Ceroli, Alighiero Boetti, Lucio Del Pezzo.

Cintoli, sala 2 zanzara arte contemporanea – foto Francesca Occhi

Tra le opere in mostra è presente la rievocazione di Annodare, azione compiuta da Cintoli alla celebre galleria romana L’Attico di Fabio Sargentini nel marzo 1969. L’installazione si compone di un grande pettine in legno, della scritta “tutti i nodi vengono al pettine” e di una serie di gomitoli di corda (nodi) di differenti dimensioni, che il pubblico nel corso della storica performance poteva sciogliere, riannodare e manipolare liberamente.

Video della performance “Annodare” di Cintoli

Un’altra proiezione documenta Colare colore, l’azione compiuta da Cintoli sempre alla galleria romana L’Attico nel dicembre 1969: una colata di colore su una parete, che rievoca le esperienze dell’action painting di Jackson Pollock, Robert Motherwell e Franz Kline.

“Colare colore” di Cintoli

Crisalide è il titolo dell’ultimo video, che registra l’azione presentata nel dicembre 1972 a Roma, nell’ambito di una rassegna curata da Achille Bonito Oliva. L’artista qui è chiuso in un sacco sospeso a un muro, da dove in modo lento e faticoso si muove per cercare di uscirne, come in una rinascita.

“Crisalide” di Cintoli

La mostra ferrarese – che rientra nell’ambito del percorso Videoarte: Origini e Sperimentazioni #2 –  rappresenta il proseguimento dell’intelligente lavoro dalle galleriste della Zanzara arte contemporanea, che valorizzano e rinvigoriscono un aspetto artistico che ha visto Ferrara al centro dell’attività nazionale e internazionale con il suo storico Centro di Video Arte, affidato alla guida di Lola Bonora dall’allora direttore delle civiche Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea Franco Farina.

A vivacizzare la mostra nell’apertura inaugurale di venerdì 24 maggio 2024 le presenze artistiche di Maurizio Camerani, che è stato tra gli autori protagonisti e pionieri della video arte, la giovane artista fotografa Francesca Occhi, la pittrice e scultrice Daniela Carletti, critici ed esperti di arte contemporanea come la docente Patrizia Ada Fiorillo della Sezione di Arti dell’Università Ferrara, la curatrice delle civiche Gallerie d’arte moderna e contemporanea di Ferrara Chiara Vorrasi, lo storico dell’arte Massimo Marchetti, la gallerista Maria Livia Brunelli, ma anche la capo delegazione del Fondo per l’ambiente italiano-Fai Ferrara Barbara Pazi con Elisa Luciani e tanti altri.

L’esposizione è curata da Zanzara arte contemporanea in collaborazione con Archivio Pi.Gallery e Casa Museo Claudio Cintoli di Giuseppe Falivene, ha il supporto di Generali Giovecca Insurance e Investment e  il patrocinio di Regione Emilia-Romagna e Comune di Ferrara.

Installazione, sala 1 ex-scuderie, zanzara arte contemporanea – foto Francesca Occhi

Il titolo della mostra Claudio Cintoli – Il Confine del Doppio ripropone la lettura che di questo artista fa il critico Ludovico Pratesi su un ampio articolo pubblicato su Flash Art 289 (dicembre-gennaio 2011). Un testo dove  l’autore evidenziava il legame tra arte e vita nel percorso evolutivo di Cintoli, capace di spaziare dalla pittura materica fino all’azione simbolica più estrema di body-art, come nella performance Crisalide, visibile in galleria.

Opere di Cintoli, sala 2 zanzara arte contemporanea – foto F.Occhi

La rassegna è visitabile fino al 29 giugno 2024 nei doppi spazi di via del Podestà, a pochi passi da piazza Municipio e dal Duomo di Ferrara: sullo sfondo delle pareti bianche ai civici 11 e 11/a e in quell’antro suggestivo delle ex-scuderie al civico 14/a, che si trova di fronte, sul lato opposto della piccola strada del centro storico.

Enzo Minarelli venerdì 31 porterà la performance alla Zanzara gallery

Fino a sabato 29 giugno 2024 mostra Claudio Cintoli – Il Confine del Doppio, video inediti e di opere della collezione Archivio Pi.Gallery, galleria Zanzara arte contemporanea, via del Podestà 11 e14, Ferrara.
Venerdì 31 maggio 2024 alle 18 performance videosonora Polipoesia LIVE in Ferrara di Enzo Minarelli, poeta sonoro e artista performer legato al Centro Video Arte di Ferrara.

Corrente alternata, corrente continua:
AC/DC a Campo Volo

Corrente alternata, corrente continua: AC/DC a Campo Volo

Corrente alternata, corrente continua: puro, semplice e ignorante Rock’n’Roll, nulla di più nulla di meno, nel mezzo trentatre anni dall’ultima volta che vi ho visto in concerto, quarantaquattro anni dalla prima cassetta. Nel mezzo la mia vita, le gioie, i dolori, le risate, le lacrime. Quando, a casa di Masce, il suo fratello maggiore ci registrò una Basf C90 con For those about to Rock io e Chiaro non eravamo ancora adolescenti. Ora che l’adolescenza l’abbiamo passata da decenni, ieri sera a Campo Volo l’abbiamo ritrovata.

Se vuoi il sangue, ragazzo, l’avrai, ma rimarrà dentro l’arena, la violenza delle corde stuprate da Angus, il martello della batteria, e Brian che grida al microfono, assorbono la violenza dall’aria e la trasformano in rock. Non ci sarebbe violenza nel mondo, se il mondo diventasse Rock ‘n’ Roll. Il ritorno in nero, cari i miei ragazzi, fu un momento durissimo, Bon Scott era morto e tutto sarebbe potuto finire. I demoni del fuoco escono dal palco lontano e ci aggrovigliano le budella, costringendoci a saltare, ballare e cantare senza nessun dopo, solo un fottuto adesso. Per sempre. No, non siamo stari abbattuti dalle fiamme, da loro ci siamo rigenerati, siamo rinati come delle arabe fenici, senza nessuna età.

Anche il temporale ha avuto paura di noi, ci ha schivato, ma la folgore e la sua luce hanno incendiato l’arena – il riff di Angus è sempre uguale, non si dimentica, ci si dibatte, lo si assorbe, ti brucia dentro. Poi sì, qualche birra, e Bon vieni a bere con me, con noi, si sente che sei su quel palco, io ti vedo, noi lo sappiamo che sei lì, per te suonano anche le campane dell’inferno. Dodici rintocchi, ci squassano, manca solo la mazza da dieci chili contro il pesante ottone, ma ti capiamo Brian, i bicipiti non sono più quelli di una volta. Uno sparo nel buio ci crea apprensione, ma è solo musica, hard blues, solo quello, nessuna violenza vera esce da quella Gibson diavoletto, le corde ci tengono sulle corde. Intanto tengo duro, continuo a ballare mentre tu continui a scuotermi tutta la notte, mentre il treno del rock ‘n’ roll ci porta in un’altra dimensione, spara per emozionarci, laggiù fino a Sin City.

Non ci accontentiamo di dare un osso al cane, no, noi vogliamo di più, delle sporche azioni a buon mercato, ma non gratis, tanto lo sappiamo che cane mangia cane.

I Marshall sparano nell’ etere il loro alto voltaggio di adrenalina nebulizzata in milioni di particelle di anima e sudore, diavolo, non è un brutto posto dove stare questo mondo se non ci fosse più questa marmaglia crudele, falli sparire Angus col tuo riff!

La notte ormai ci ha accolto e noi saliamo su in macchina con voi e percorriamo l’autostrada per l’inferno, perché in paradiso non conosciamo nessuno, sulla nostra Cadillac c’è anche quel gran pezzo di Rosie, mentre Angus duetta con Malcolm, anche se non c’è, ma le due chitarre si danno la voce, una risponde all’altra.

Ed ora visto che siamo verso la fine, sia fatto il Rock, lascia che la Gibson ti indichi la strada, fino a quando la dinamite farà definitivamente esplodere la gioia della nostra gioventù, sopra questo mondo ammalato di nostalgia e cattiveria.

Alla fine, per quelli a cui piace il Rock vi salutiamo, tra gli spari dei nostri cannoni, che non fanno male come le bombe dei potenti, ma ci garantiscono l’eternità, in una notte che sancisce ora e per sempre la nostra amicizia.

Grazie ragazzacci per ciò che mi avete fatto provare, non da ora ma dall’alba della mia adolescenza, a cavallo di due secoli e di un millennio, che vi vede ancora protagonisti.

We salute you, fire.

 

Parole e figure / Issa Watanabe vince il Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole”

Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole” a Issa Watanabe, per “Kintsugi”, edito da Logos edizioni. Un libro che parla di bellezza nei momenti bui

Il “Kintsugi” è un’antica arte o pratica giapponese che consiste nel riparare il vasellame rotto riunendo i cocci con un collante naturale misto a metalli preziosi (solitamente dell’oro liquido): il materiale prezioso funziona da collante per rimettere e tenere insieme i cocci, i frammenti dell’oggetto che si è spaccato. Riparare quanto è rotto, perché poi sia meglio di prima oltre che unico.

A questa meravigliosa tradizione è dedicato l’omonimo albo illustrato, silent, di Issa Watanabe, già vincitore del Premio Bologna Ragazzi Award categoria “fiction” 2024 e oggi Premio Andersen 2024 “Miglior libro senza parole”, per l’affascinante e rarefatta grazia di un racconto sospeso nel tempo e nello spazio. Per una metafora potente e al tempo stesso delicata sulla necessità di affrontare le difficoltà della vita. Per un albo dalle molteplici possibilità di interpretazione e lettura delle figure.”

Un albo che invita ad accogliere la pienezza della vita anche nei momenti più bui.

È l’ora del tè. Sfondo nero pece. Un coniglio e un uccellino rosso siedono a un lungo tavolo da cui spuntano rami verdi. Appesi a essi, alcuni oggetti di uso quotidiano, come una tazzina, una scaletta, uno specchio, una lattiera, una bottiglia, una valigia, un carretto, un piatto, un libro, una chiave, un cappello, una conchiglia o una scarpa.

All’improvviso i colori dell’uccellino cominciano a sbiadire, così come la sedia su cui è appollaiato. Entrambi diventano bianchi. La tazzina si rompe. E poi anche il tavolo si rovescia, mandando in frantumi tutto ciò che sosteneva. L’uccellino vola via, tirando con sé la tovaglia bianca. Tutto va all’aria. Sgomento, il coniglio si lancia all’inseguimento ma senza successo. Inciampa e cade. Il suo amico ormai è lontano e non lo vedrà più.

Non gli resta allora che partire, con sempre in mano un ramoscello: sarà un viaggio lungo, faticoso e complesso, fra acque, coralli e ghiacci, un percorso irto e difficile alla ricerca di consolazione e speranza in un mondo dove tutto sembra sgretolarsi.

Riuscirà a trovarle?

Issa Watanabe, che dedica l’albo alla figlia Mae, si addentra nell’animo umano, abbracciando una dimensione intima.

Per fare ciò, come si diceva, l’illustratrice si ispira all’arte del “Kintsugi”: l’oggetto riparato non torna come prima ma acquista nuova vita: le imperfezioni lo arricchiscono rendendolo unico. La sua bellezza è imperfetta, incompleta. È ciò che accade a ognuno di noi. Le incertezze e i dolori fanno parte della vita e, una volta che impariamo a conviverci, ci rendono ciò che siamo: individui splendidi e irripetibili. Insostituibili.

Ancora una volta, le illustrazioni – che riportano alla mente i dipinti di Henri Rousseau –spiccano su uno sfondo nero che accentua il simbolismo insito nell’uso del bianco e del colore e avvolge il lettore nella sua densa atmosfera.

La storia lieve e immediata può essere esplorata su più livelli, rendendola fruibile a ogni età.

Un racconto per affrontare i momenti difficili che ha la forza di una visione e la serenità di una meditazione.

“Speranza” è la cosa con le piume che si posa nell’anima e canta l’aria senza le parole e non smette – proprio mai. E si sente – dolcissima – nel vento e dev’essere furiosa la tormenta per riuscire a intimorire l’uccellino che ha riscaldato tanti. L’ho udito nella landa più fredda e sul mare più sconosciuto eppure, mai, nella disperazione ha chiesto da parte mia – una briciola”. Emily Dickinson

 

Issa Watanabe è nata a Lima nel 1980. Cresciuta in una famiglia che le ha trasmesso l’amore per l’arte e la letteratura (la madre era illustratrice e il padre poeta), ha studiato lettere alla Universidad Católica di Lima prima di trasferirsi a Palma di Maiorca per frequentare corsi di illustrazione all’Accademia di Belle Arti. Ha sviluppato e diretto diversi progetti per promuovere l’integrazione sociale attraverso l’arte. In particolare, il progetto “Encuentro con la Mirada”, realizzato in collaborazione con il fotografo Rif Sphani e il Museo d’arte contemporanea di Maiorca Es Baluard, ha ottenuto nel 2012 il premio Obra Social da La Caixa Forum. Per il suo lavoro artistico, Watanabe è stata selezionata dalla Bologna Children’s Book Fair nel 2018 e nel 2020 e da Ilustrarte, nel 2021. Nel 2020, ha ricevuto anche il Gran Premio della Giuria alla BIBF Ananas International Illustration Exhibition di Pechino. Nel 2018 è stata nominata ambasciatrice della linea professionale di Faber Castell. Le sue illustrazioni sono state esposte in Spagna, Italia, Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, Francia, Messico, Brasile, Ecuador, Colombia, Cile e Perù e sono incluse nella mostra “Speechless: The Art in the Wordless Picture Books” dell’Eric Carle Museum of Picture Book Art in Massachusets.

Issa Watanabe, Kintsugi, Logos edizioni, Modena, Collana ‘Gli albi della Ciopi’, 2023, 48 p.

 

 

Dal “libero mercato” al protezionismo: la nuova America (e l’Europa segue)

Dal “libero mercato” al protezionismo: la nuova America (e l’Europa segue)

Ha cominciato Trump nel 2018, introducendo poderosi dazi alle merci importate dalla Cina per proteggere il lavoro made in Usa. Allora fu attaccato da tutti come sovvertitore del libero mercato. Trump non ha cambiato idea e nel suo programma elettorale prevede dazi dal 60% al 200% su tutti i prodotti cinesi e il 10% su tutto l’import dall’estero (sia da paesi amici che nemici). Ora Biden va oltre, avendo scoperto che tra gli elettori difendere il lavoro degli americani porta voti, per cui ha deciso la più gigantesca operazione di protezionismo: i dazi sulle auto elettriche cinesi saliranno dall’attuale 27,5% al 102,5%, sulle batterie di litio al 25% (il cui maggiore produttore al mondo è il Congo con miniere controllate dai cinesi), e 50% sui pannelli solari e chip cinesi. Nel 2023 l’export cinese in Usa è stato di 427 miliardi. Già oggi i dazi del 27,5% fanno si che le sole auto cinesi che arrivano in Usa (60mila) siano di marchi di case americane ma fatti completamente in Cina (si chiama “badge engineering”). Ci sono poi dazi su terre rare e grafite dal 2026, su certi acciai, le gru per scarico dalle navi, materiali sanitari, etc. In sostanza tutti i prodotti dei settori green e high tech che il governo Usa sussidia, ma che i consumatori americani possono oggi comprare dalla Cina a prezzi inferiori.

Prima di Trump i beneficiati dai bassi prezzi cinesi erano gli americani in quanto consumatori, ma erano colpiti molti americani in quanto lavoratori. Ora succede il contrario: si difende il lavoro americano a scapito di prezzi più alti per tutti i consumatori. Biden si è allineato (su questo punto) a Trump, e giustifica questi dazi col fatto di “volere una competizione equa”. Cosa ci sia di equo in dazi di questa portata rimane un mistero per chi si dichiara liberista. Ovviamente ciò porterà all’introduzione di dazi anche per l’import Usa in Cina.

La svolta americana, a cui seguirà quella dell’Europa, dimostra che il “libero mercato” (se non è regolato) distrugge il lavoro nei settori più deboli (o nascenti), come quando fai combattere sul ring un pugile peso massimo con un peso piuma (e infatti nella boxe vigono rigorose regole di peso).

Che fare allora? Da sempre tra i paesi ci sono dazi e regole che cercano di contemperare la difesa del lavoro interno coi vantaggi di prezzi bassi per i consumatori. E’ quello che non è avvenuto in Italia, per esempio, con l’allargamento del mercato europeo nel 2004 a 100 milioni di lavoratori dell’est (voluto da Germania, Francia e paesi nordici), per cui oggi ci ritroviamo in Italia con salari reali più bassi del 4,5% rispetto al 2013, mentre per Francia, Spagna e Germania le retribuzioni reali sono aumentate rispettivamente dell’1,1, del 3,2 e del 5,7%. Nei paesi dell’est gli aumenti sono stati molto maggiori.

Per l’Italia abbiamo avuto prezzi più bassi per tutti i consumatori ma, in cambio, salari più bassi e il lavoro in più è stato soprattutto lavoro povero (nel manifatturiero abbiamo perso il 20% degli occupati in 20 anni, mentre la Germania è cresciuta).

L’Italia ha oggi più occupati di 10 anni fa, ma detiene il record europeo di lavoratori che guadagnano meno del 60% del salario mediano e sono quindi considerati poveri (11,5%, 4,4 milioni, rispetto alla media UE – 8,7%-, con un aumento rispetto a 10 anni fa). Dopo 10 anni gli occupati nelle professioni “alte” (intellettuali, scientifiche e tecniche) sono cresciuti pochissimo (dal 30 al 33% del totale): un’incidenza appena superiore rispetto alla Spagna (32% che però 10 anni fa era al 24%) e 10 punti inferiore alla Francia (42,7%) e alla Germania (43,6%). Da 20 anni cresce poi solo l’occupazione over 50 e 60, mentre calano i giovani. La crescita è anche dovuta ai part-time, che in Italia sono cresciuti più che altrove: ora ne abbiamo più di Francia e Spagna. Sono cresciuti anche coloro che lavorano a tempo determinato (16% sul totale) per cui ora siamo primi in Europa, mentre la Spagna che ne aveva una marea (35%) è riuscita a dimezzarli (16%).

L’Italia ha raggiunto inoltre il massimo numero di individui in situazione di povertà assoluta (5,7 milioni) negli ultimi 10 anni, che si aggiungono ai lavoratori poveri cresciuti dal 4,9% del 2014 al 7,6% del 2023. Sono dati contenuti nel Rapporto Annuale 2024 Istat appena pubblicato. (https://www.istat.it/it/files//2024/05/Capitolo-2.pdf)

Nonostante infatti ogni trimestre si dica che gli occupati italiani crescono, il tasso di occupazione dai 20 ai 64 anni sulla popolazione è in Italia nel 2023 il più basso in Europa (66,3%), 10 punti inferiore alla media UE 27 e sotto la stessa media dei paesi dell’Est Europa, che quando sono entrati nel 2004 stavano molto peggio di noi.

Ora è probabile che anche l’Europa segua (come al solito) gli Stati Uniti nell’imporre dazi alle auto cinesi e ad altri prodotti importati, ma intanto Stellantis (la multinazionale gigante formata nel 2021 da FCA e PSA) ha fatto una partnership con la casa cinese Leapmotor di Hangzhou (di cui possiede il 20%) mettendo a disposizione la sua rete europea per vendere le auto elettriche made in China. Stellantis nega di fare “badge engineering”, vale a dire rimarchiare auto Leapmotor col brand Fiat, Opel o Citroën – come fa Lidl con la cioccolata Ferrero, pur vendendo anche Ferrero ad un prezzo maggiore. Nel groviglio di fornitori e interessi globali degli azionisti sarà dura in futuro sapere, quando si acquista un’auto, chi ci lavora dietro per costruirla.

Il Ceo di Stellantis, il portoghese Tavares (39 milioni di stipendio quest’anno), a chi lo accusa di fare il “cavallo di Troia” importando auto elettriche cinesi in Europa, risponde che almeno così ci guadagna anche Stellantis, in quanto i cinesi “arriverebbero comunque”. Più che da produttore ragiona da mercante: pensa al profitto e a come remunerare gli azionisti di Stellantis. Il lavoro dell’ automotive in Italia potrebbe anche finire: è sceso infatti da 112.000 dipendenti del 2000 ai 47.200 del 2023. Hanno chiuso centinaia di piccole industrie della filiera auto e della manifattura, dove i salari sono più alti degli altri settori: ciò spiega perché cresca in Italia il lavoro povero. Ormai ci resta qualcosa di marginale di Stellantis con la 500 ibrida a Mirafiori e Melfi, Alfa Romeo Giulia, Stelvio e Lancia Gamma, Maserati, Ferrari (ma la pista di Nardò è stata venduta a Porsche). I grandi volumi si faranno in Polonia, Spagna, Francia, Germania, Serbia (dove nascerà la Panda elettrica) e in Marocco dove il costo del lavoro – anche degli ingegneri indiani e brasiliani – è 5 volte più basso.

La cinese Leapmotor ha venduto nel 2023 144.000 auto, ma può salire a 800.000 nel futuro.

Il ministro delle Imprese e Made in Italy Adolfo Urso conferma così l’interesse, che è anche dei sindacati, a far entrare in Italia un secondo produttore di auto, che potrebbe essere proprio cinese. La Cgil propone che i modelli Leapmotor cinesi siano almeno costruiti in Italia negli stabilimenti Stellantis (i sindacati cioè puntano a difendere il lavoro). In sostanza si vede bene come la polarità “lavoro” verso “profitti” non sia più centrale: varrebbe la pena discuterne, non da oggi ma da ieri, da quando è nata l’Europa, perché a forza di “libero mercato” deregolato, arriva lo spettro della miseria e la rottura del nostro ordine sociale, disperdendo decenni di progressi nei diritti sociali e del lavoro.

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Lo stesso giorno /
Hammett, inventore dell’hard boiled, comunista dalla schiena dritta

130 anni fa, Il 27 maggio 1894, nella contea di Saint Mary, Maryland, nasceva Dashiell Hammett, inventore e campione di un genere letterario, la hard boiled school (la scuola dei duri).

Oggi, mentre siamo sommersi, nei libri e in video, da delitti e investigatori -gialli – thriller – crimen story – noir assortiti –  è doveroso ricordare un grande scrittore americano. Avrebbe meritato il Nobel molto più di altri. Non poteva ottenerlo perché allora le storie poliziesche erano ancora considerate “non letteratura”, letteratura di serie B. E per un’altra ragione, Dashiell Hammett era un comunista e amico dei comunisti. Era un bravo cittadino, un bravo soldato, decorato, aveva partecipato ad entrambe le guerre mondiali, ma non gli piaceva l’America del Proibizionismo e della Grande Depressione. Aveva scelto di stare dalla parte dell’America sofferente, e aveva dato una mano al piccolo Partito Comunista Americano. A suo rischio e pericolo, come si vedrà.

La sua storia di uomo va raccontata. Quanto alla sua arte, al suo stile secco e antiromantico che in tanti, Chandler per primo, hanno provato inutilmente ad imitare, fanno fede i suoi (pochi) romanzi e i suoi racconti. A tutti il mio invito a mollare per un attimo i gialli seriali contemporanei per riprendere in mano qualcosa di Hammett. Com’è stato scritto, “nei gialli di Hammett a essere colpevole non è il solito maggiordomo ma l’intera società”.

Dashiell Hammett il mestiere dell’investigatore privato (“lince” o “annusa patte” in gergo) lo conosceva molto bene. Dopo aver fatto mille lavori per sbarcare il lunario, era stato assunto dalla famosa Pinkerton National Detective Agency dove rimase a lavorare per vent’anni. Nel 1922 pubblica il  suo primo racconto, The Road Home (La strada di casa) sulla altrettanto celebre rivista Black Mask. Negli anni a seguire pubblica decine di racconti con protagonista il detective privato Continental Op, poi nel 1928 adotta un altro protagonista, Sam Spade, che però assomiglia moltissimo al primo. Entrambi poco fotogenici e poco eroici, immersi in un’America dove è sempre più difficile distinguere la legalità dalla malavita. Sam Spade è il detective privato anche del Il Falco Maltese, il suo romanzo più noto che esce in volume nel 1930 e approda più volte a Hollywood (celebre il film di John Huston Il Mistero del Falco del 1941).

Nel 1934 pubblica il suo ultimo romanzo, a 40 anni Dashiell Hammett smette di scrivere. Intanto cerca di entrare come sceneggiatore nel rutilante mondo dell’industria cinematografica, ma non sarà un’esperienza né facile né tranquilla.

Nel 1948 inizia a pagare per le sue idee politiche.  Allora l’HUAC, la Commissione per le attività antiamericane, nata nel 1930, il Committee on Govement Operations e il Permanent Investigative Subcommittee, presieduti ambedue dal famigerato Joseph Mc Carthy, diventano in breve tempo i maggiori artefici della caccia alle streghe comuniste in terra americana. Simpatizzanti, iscritti al Partito Comunista Americano, loro amici e parenti… prima o poi vengono chiamati tutti in causa davanti al popolo americano.
Così Dashiell Hammett, nel luglio del 1951, viene chiamato a rispondere della sua attività comunista e della sua posizione all’interno del Civil Rights Congress, un’organizzazione legata al Partito Comunista Americano. Davanti al giudice Sylvester Ryan risponde alle domande che gli vengono poste dal procuratore Irving Saypol, il più temibile cacciatore di comunisti allora in circolazione.

Hammett risponde, alle domande che gli vengono poste, appellandosi quasi sempre al Quinto Emendamento della Costituzione americana. Comunque, usare questa tattica non l’aiuta per niente perché continuando a dire “mi rifiuto di rispondere a questa domanda perché potrebbe portare alla mia incriminazione” si vede ugualmente condannato a sei mesi di prigione, anche se, come ricorda Lillian Hellman, per molti anni compagna dello scrittore, “Hammett non aveva mai messo piede nell’ufficio del Civil Rights Congress e non conosceva il nome di neppure uno dei sottoscrittori. La sera prima del processo gli chiesi: Perché non dici che non li conosci i nomi?, (e lui rispose): No, non posso dirlo… perché intendo mantenere la mia parola, credo che sia questo il motivo…”. 

Quando esce di prigione, Hammett trova la Hellman ad aspettarlo e le confida che in prigione, dopotutto, non si sta male: “il cibo è disgustoso e spesso anche rancido, ma puoi sempre chiedere latte; i contrabbandieri d’alcool e i ladri d’auto sono imbecilli, ma la loro conversazione non è più stupida di quella che si sente a un qualsiasi cocktail party a New York; pulire gabinetti non piace a nessuno, ma col tempo finisci anche con l’andar fiero del tuo lavoro e con l’interessarti agli attrezzi e al materiale per la pulizia” .
Ma tempo due anni e Dashiell Hammett viene di nuovo convocato per un altro interrogatorio, ma questa volta deve rispondere alle domande del Permanent Investigative Sub-committee presieduto dal senatore Joseph McCarthy. Anche da questo incontro, appellandosi ancora al Quinto Emendamento, Hammett  ne esce male.

Hammett è tagliato fuori da cinema, radio, televisione e perfino dalle biblioteche (anche i suoi libri, perché scritti da un comunista, vengono ritirati dalle public library americane) e si ritira in solitudine, in stato di povertà, da solo fino al 1956, quando il continuo aggravarsi della salute lo costringe, malgrado il proprio orgoglio, a trasferirsi in casa di Lillian Hellman. Nel 1960 la tubercolosi si trasforma in cancro e inizia un’agonia destinata a protrarsi fino al 10 gennaio 1961.
Magra consolazione, Dashiell Hammett viene sepolto nel Cimitero Nazionale di Arlington (il cimitero militare per i veterani di guerra) e l’FBI, con una telefonata al cimitero, verifica il fatto per chiudere finalmente la pratica sullo scrittore.

A un anno dalla scomparsa, l’eredità di Daniele Lugli.
Letture di Fabio Mangolini – 31 maggio, ore 17,30

INVITO AGLI AMICI

A un anno dalla scomparsa, l’eredità di Daniele Lugli. Letture di Fabio Mangolini
Ferrara, Chiostro di Santo Spirito,  venerdì 31 maggio, ore 17,30

 

Per certi versi /
Il Cane Travis

Il Cane Travis 

Sei bello Travis

Guardiano

buono

Pastore

Australiano

Neronocciola

Bianco

Un cane mai sazio

Di amicizia

Affettuoso e geloso

Per la micia

Fusarola

Giocattone

Vivace

Attendi puntuale

L’ora del giro

Il tuo facebook

Di odori

Indizi e indirizzi

Corri con le lepri

Nascondi le ossa

Tra le piante

E ci guardiamo

Guardiamo

Lampeggiare

Il

Dove andiamo

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Siamo sempre migrati, siamo figli della terra

Siamo sempre migrati, siamo figli della terra

di Viviana Galeb Adriazola, insegnante e poetessa cilena

Nell’antichità, all’età della pietra, gli esseri umani avevano bisogno di spostarsi da un luogo all’altro secondo la stagione per portare i loro greggi in cerca di pascoli freschi e acqua. La transumanza era diffusa a quei tempi. Non c’erano confini, né Stati, né regni, quindi spostarsi era naturale e non veniva penalizzato.

Storicamente, la transumanza è stata una parte importante dell’economia e della cultura di molte regioni del mondo, soprattutto in quelle aree in cui l’agricoltura non era praticabile tutto l’anno a causa di condizioni climatiche estreme o di limitazioni del territorio. La transumanza non riguardava solo lo spostamento degli animali, ma aveva anche implicazioni culturali, sociali e ambientali.

C’era uno scambio di costumi, conoscenze e lingue. Influenzava la formazione di identità regionali e la conservazione di conoscenze tradizionali sulla gestione del bestiame e dell’ambiente.

Non esiste un essere umano puro

Recenti studi sul DNA dell’Homo sapiens moderno dimostrano che non esiste un essere umano puro: tutti noi portiamo nel nostro DNA un’eredità ancestrale. Siamo figli della terra e come tali abbiamo ereditato conoscenze e costumi ancestrali dai nostri antenati.

La migrazione nel XXI secolo è stata guidata da una serie di fattori complessi e interconnessi, simili alla transumanza. Tra le ragioni principali vi sono conflitti e crisi umanitarie.

Conflitti armati, violenza politica e disastri naturali hanno causato lo sfollamento di milioni di persone in tutto il mondo. Paesi come l’Ucraina, Israele, la Palestina, la Siria, l’Afghanistan, lo Yemen e il Venezuela hanno vissuto conflitti interni prolungati che hanno costretto molte persone a fuggire dalle loro case in cerca di sicurezza e rifugio in altri Paesi. Gli esseri umani hanno trovato necessario migrare verso territori più promettenti e con maggiori prospettive per il futuro, dove potersi stabilire, sviluppare e contribuire al luogo con le loro migliori credenze e stili di vita. È questa diversità che rafforza una società, rendendo il gruppo umano migrante un creatore di opportunità di lavoro e un promotore dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in molti momenti della storia.

I miei nonni erano emigrati dal Libano dopo la caduta dell’Impero Ottomano nel 1920. Arrivarono in Cile alla ricerca, come tutti i migranti, di maggiori opportunità di sopravvivenza. Approdarono solo con i vestiti che avevano addosso e iniziarono una nuova vita, e all’epoca lo Stato cileno e il suo popolo li accolsero, dando loro nuove identità e nuove opportunità di lavoro. Si verificò una fusione culturale: assimilarono la lingua e, a loro volta, miscele di sapori culinari che si intrecciarono con i nostri.

È chiaro che per costruire ponti tra culture e persone diverse è essenziale valorizzare e rispettare le loro peculiarità. L’importanza di comprendere, riconoscere e apprezzare le diverse culture, tradizioni e storie che ci circondano sarà una via d’uscita. Questo processo ci permette non solo di colmare le nostre differenze, ma anche di valorizzare i nostri punti di forza individuali e di trovare un terreno comune che ci unisca.

Ognuno di noi ha la capacità di contribuire in modo unico al raggiungimento di obiettivi comuni. È essenziale riconoscere come le nostre azioni e i nostri contributi possano avere un impatto positivo sul nostro ambiente e sulla realizzazione degli obiettivi comuni. In definitiva, l’apprezzamento reciproco è la base su cui possiamo costruire relazioni forti e collaborative, arricchendo così le nostre vite e le nostre comunità.

L’esistenza di una crisi del modello statale in quasi tutti i Paesi latinoamericani, accompagnata da disuguaglianze economiche e politiche, favorisce un piccolo gruppo privilegiato nella società. Questo genera un senso di insicurezza e di terrore e non fa che destabilizzare aree prive di violenza.

Gli Stati sono sempre più attenti alle migrazioni in tutto il mondo; la crisi umanitaria si è aggravata a tal punto che i poveri e gli svantaggiati stanno soffrendo di più. Inoltre, il cambiamento climatico ha esacerbato la crisi umanitaria. Gli Stati, più che mai, devono rendere flessibile un fenomeno che non sarà fermato da leggi discriminatorie che incoraggiano la xenofobia o con il blocco delle frontiere. Al contrario, devono promuovere la stabilità, l’istruzione e le opportunità di lavoro e ridurre i fattori che spingono alla migrazione forzata, permettendo così alle persone di scegliere se restare o emigrare.

Vorrei tornare a quei tempi in cui gli esseri umani potevano andare e venire liberamente come i figli della terra che siamo.

Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid. Revisione di Mariasole Cailotto.
Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseSpagnoloFranceseTedesco

Storie in pellicola / Le Giornate della Luce di Spilimbergo, dall’1 al 9 giugno

Annunciati i tre film in concorso selezionati dalla giuria presieduta da Monica Guerritore per il premio alla miglior fotografia della decima edizione del festival Giornate della Luce di Spilimbergo

C’è un bellissimo festival consacrato ai direttori della fotografia o, meglio, al miglior autore della fotografia di un lungometraggio. Un omaggio a coloro che sono veri coautori del film, non solo collaboratori del regista. Come pensare a Bernardo Bertolucci senza Vittorio Storaro o a Ingmar Bergman senza Sven Nykvist? Recentemente abbiamo visto il film di Matteo Garrone, “Io Capitano”. Come immaginarlo senza Paolo Carnera?

Parliamo de “Le Giornate della Luce”, di Spilimbergo, evento che quest’anno compie dieci anni. Nel tempo, sono stati premiati artisti come Luca Bigazzi (con il record di sette David di Donatello), Daniele Ciprì e Luciano Tovoli.

In questi giorni, sono stati annunciati i film in concorso per Il Quarzo di Spilimbergo – Light Award, assegnato alla migliore fotografia di un film italiano dell’ultima stagione, della decima edizione delle Giornate della Luce di Spilimbergo.

Un appuntamento ormai irrinunciabile nel panorama dei festival italiani che celebra gli autori della fotografia, veri protagonisti della manifestazione, con proiezioni, masterclass, dibattiti e mostre. Occasione di confronto sul ruolo della fotografia nel cinema per condividere esperienze, progetti e visioni.

Il festival, ideato da Gloria De Antoni e da lei diretto con Donato Guerra, si svolgerà dall’1 al 9 giugno 2024 in Friuli-Venezia Giulia. La rassegna, infatti, non è circoscritta a Spilimbergo: in questi anni si sono organizzati eventi anche a Gorizia, Pordenone, Udine, Gemona del Friuli, Casarsa della Delizia, Codroipo e a Nova Gorica in Slovenia.

La giuria 2024 del festival, capitanata quest’anno da Monica Guerritore, ha selezionato tre film in concorso:

Per la fotografia di Davide Leone, il campione di incassi “C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi, vincitore di 6 David di Donatello, del Premio Speciale della Giuria e del premio del Pubblico alla Festa del Cinema di Roma, Nastro d’Argento come film dell’anno e vincitore del SuperCiak d’oro 2023 del Cinema italiano.

Paola Cortellesi fa il suo esordio alla regia con un originale ‘dramedy’ in bianco e nero ambientato nel Secondo Dopoguerra che ci parla di emancipazione femminile dai codici etici ed estetici della donna nella società.

Per la fotografia di Francesco Di Giacomo, “Rapito”, di Marco Bellocchio, vincitore di sei Nastri d’Argento 2023 e cinque David di Donatello 2024.

Il film ricostruisce la figura di Edgardo Mortara, il bambino ebreo il cui rapimento da parte del Vaticano nel 1858 divenne un caso internazionale.

Chiude la selezione, per la fotografia di Lorenzo Casadio Vannucci, “Gli oceani sono i veri continenti”, di Tommaso Santambrogio, film d’apertura delle Giornate degli Autori alla 80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Tre diversi mondi si intrecciano in un paesino dell’entroterra cubano. A San Antonio De Los Baños, il tempo sembra si sia fermato. In un affresco di contemporaneità che prende vita tramite la memoria dei personaggi aleggia lo spettro della separazione, vera grande piaga della società contemporanea cubana.

I film in concorso, come di consueto, concorreranno per i seguenti premi:

Il Quarzo di Spilimbergo – Light Award assegnato dalla giuria composta in questa decima edizione da Monica Guerritore con Luan Amelio, Gianni Fiorito, Mateja Zorn e Oreste De Fornari alla migliore fotografia di un film italiano dell’ultima stagione.

Il Quarzo dei Giovani assegnato da una giuria composta da studenti di cinema, ospiti del festival, provenienti da 10 università e scuole italiane e europee presieduta dal direttore della fotografia catalano Jordi Bransuela. Tra i premi Il Quarzo del Pubblico assegnato dagli spettatori del festival.

La manifestazione comprende anche una ‘summer school’ per gli studenti di cinema presenti ed è, pertanto, un’ottima opportunità per arricchire la loro esperienza formativa.

Le Giornate della Luce sono organizzate dall’Associazione Culturale Il Circolo di Spilimbergo e nel 2023 hanno avuto il sostegno di MiC, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Città di Spilimbergo, Fondazione Friuli, Banca 360 FVG.

Immagini Storyfinders

Sito web

Essere bambini in una notte a teatro

28 alunni di due classi di prima elementare hanno dormito a teatro e scoperto la storia e gli aneddoti sul comunale. Per avvicinare i più piccoli alla cultura e all’arte

Probabilmente per i 28 bambini che hanno vissuto l’esperienza di dormire a teatro per una notte è stato come un sogno da gustare a occhi aperti. Un’esperienza che porteranno con sé anche una volta adulti.

Al Teatro Comunale di Ferrara, infatti, la notte di martedì 21 maggio, gli alunni di due prime elementari (classi primarie di secondo grado) della scuola paritaria Sant’Antonio di Ferrara hanno vissuto l’emozione di conoscere e ammirare la bellezza del teatro cittadino, dedicato al Maestro Claudio Abbado.

Si tratta della seconda volta che una scuola viene coinvolta per il progetto del Teatro Comunale “Una notte a Teatro”, che nel 2022 per la prima volta aveva visto i bambini di una quinta elementare (Scuola Primaria “Villaggio Ina” di Ferrara) vivere il teatro di notte.

Con i loro maestri come accompagnatori, dopo aver mangiato tutti insieme, indossati i pigiami e muniti di torcia, hanno visitato gli spazi del teatro come il Ridotto, rigorosamente e magicamente al buio, animati da racconti e storie, con il contributo dei coinvolgenti attori Andrea Lugli e Liliana Letterese. Alcuni lavoratori del Comunale hanno raccontato la storia dell’edificio e i tanti aneddoti, come perché l’orologio del teatro, sopra il palcoscenico, sia fermo e non sia mai stato riavviato. Ai piccoli è stato donato “A teatro con Claudio e Ciuffo“, libretto per bambini pubblicato dal Teatro, da un’idea di Monica Ercolano e illustrato da Raffaele Mangolini.

Una volta concluse le storie della buonanotte, i bambini hanno indossato il pigiama, si sono lavati i denti, hanno aperto materassini e sacchi a pelo, abbracciato forte il loro peluche preferito prima di prendere sonno tutti insieme sul palcoscenico del Teatro.

Foto ufficio stampa Teatro Comunale

 

Storie di uomini, bici e montagne

Storie di uomini, bici e montagne

Tra caos, polemiche e situazioni impreviste o sottovalutate che riguardano il Giro d’Italia di quest’anno e il suo passaggio alpino, occorre ammettere che emerge sempre e comunque l’impatto emotivo che questo evento sportivo genera. La 16^ tappa è stata accorciata di 85 km, tre passi montani annullati nel percorso, orari modificati rispetto la tabella di marcia, condizioni atmosferiche difficili, che richiedevano l’applicazione del protocollo per le temperature estreme, discese su un manto stradale scivoloso sotto il nevischio.

La storia del ciclismo è indissolubilmente legata alle Dolomiti e molti ricordano le grandi imprese compiute sui Passi, che hanno reso immortali grandi campioni, primi fra tutti Fausto Coppi e Gino Bartali. Nel 1937 il Giro d’Italia passò per la prima volta sull’arco dolomitico, un debutto che vide vincitore della tappa Bartali, che scollinò per primo, in maniera epica, sul Passo Rolle, mentre dietro di sé si formava il vuoto. Le strade di montagna dell’epoca erano sconnesse, sassi e buche costituivano un autentico attentato alla sicurezza dei ciclisti ma la passione, la preparazione, la forza e resistenza permettevano queste imprese. La Seconda Guerra mondiale impose una sospensione di questa incredibile competizione, che riprese con immutato entusiasmo negli Anni ’40. Le edizioni successive, quelle del ’46 e ’47, sono teatro delle imprese di Coppi e Bartali, tra cadute, rivalità, rimpalli, fughe, vittorie e vantaggi alterni, sullo sfondo di quelle Dolomiti che facevano sognare, superare se stessi, affrontare l’impossibile, sudare, rallentare, imprecare, pregare. Ammaliatrici e seducenti, madri e matrigne da sempre, oggi come ieri: attimi di discesa seguono all’infinità della salita nella percezione del tempo dei protagonisti del pedale. E poi i falsipiani, gli avvallamenti, le curve, i tornanti, l’illusione di qualche rettilineo che faccia respirare e allentare i muscoli.
Visi contraffatti dalla fatica, volti giovani che perdono ogni leggerezza per trasformarsi nello sforzo. Occhi attenti, concentrati su quei metri di asfalto da percorrere, capelli che sbucano attraverso la calottina di oggi, che prende il posto del berretto con visiera di ieri, sfrecciano tra le località montane, nella solitudine dei posti più isolati e l’applauso di due ali di folla che incita nelle valli e nei paesi.

La carovana del Giro d’Italia al seguito dei corridori è oggi meno folkloristica e colorata, più formale e compassata, meno chiassosa di un tempo, quando diventava parte di uno spettacolo che andava oltre la gara. I mezzi di assistenza delle scuderie e degli sponsor sfilano asettici e veloci, quasi volessero togliersi di fretta il pensiero dell’incombenza, rombando tra clacson e sgommate per sparire in un attimo nel nulla.
Sono finiti i tempi dei gadget che i bambini, ma anche gli adulti, aspettavano ansiosamente ai bordi della strada, borracce, berrettini, immagini autografate dei campioni del momento, penne, qualche dolcetto, i sacchettini di caffè per i più fortunati o i più svelti ad afferrare: poca cosa, ma era lo spettacolo nello spettacolo che avvicinava ancora di più la gente a quegli uomini e ragazzi sulle due ruote.
Ma anche oggi come allora, assistere al passaggio del Giro costituisce un momento emozionante e l’arrivo dei primi corridori nelle valli dolomitiche rimanda subito a ciò che si sono lasciati alle spalle: lo sforzo immane che la montagna chiede.
Guizzano gli scalatori che hanno appena lasciato le loro energie e la loro resistenza sulle lunghe salite; attaccano gli sprinter con la loro potenza nelle volate, stando in piedi sui pedali e viene in mente ciò che diceva Indro Montanelli: “La fuga non è l’attimo di quell’uomo che si mette a pedalare più forte degli altri; è invece un grande urlo e un gesto disperato che mettono d’improvviso in confusione tutta la carovana”.

E gli spettatori avvertono la tensione di ogni fibra di quegli esseri umani intenti a portare a termine la loro impresa, a volte estrema, in un appuntamento atteso, preparato, consolidato. Nel Giro d’Italia non si respira solo odore di sudore, di lubrificante per biciclette, di bruciato di pneumatici dei mezzi al seguito: è l’odore della Storia che rimane incollato al suo passaggio e ci fa rivivere un passato di avvenimenti e vicende culturali, politiche e di costume accostati ad esso, che hanno caratterizzato il nostro Paese.