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FEMMINISMO E REGIME DI GUERRA: OLTRE LE POLITICHE DELL’IDENTITÀ

FEMMINISMO E REGIME DI GUERRA: OLTRE LE POLITICHE DELL’IDENTITÀ

L’obiettivo di questo intervento non è proporre chiavi di lettura definitive e dogmatiche, ma sollevare alcuni problemi, a partire, però, da alcuni punti che credo debbano essere tenuti saldi, anche perché permettono di ridefinire i problemi stessi. Partirò con alcune premesse teoriche, relative al femminismo, poi entro nel vivo della tematizzazione della prospettiva femminista rispetto alla guerra, in particolare rispetto alla Palestina, e poi chiudo con alcune considerazioni e problemi rispetto al lavoro di ricerca e a quello che possiamo definire “privilegio epistemico”.

Femminismo e valorizzazione

Si dice che ci siano molti femminismi. Per me femminismo è decostruzione e sovversione della riproduzione sociale del capitale, a partire da una critica basata su elementi precisi. È una politica di posizionamento, una politica di classe, dove “classe” è il nome di un soggetto che si dà nell’antagonismo, anche nei confronti della politica dei blocchi che il regime di guerra impone. Credo che sia particolarmente importante affermarlo oggi, soprattutto se si chiarisce quali siano i blocchi, che non sono solo geopolitici, ma anche concettuali. Femminismo è una politica di sovversione della riproduzione sociale perché è qualcosa di più di una politica delle identità.

Non intendo sostenere che identificare le soggettività subalterne e riconoscerle, o riconoscersi, come tali non sia determinante; tuttavia, se queste identità non articolano una politica di sovversione, il loro riconoscimento rischia di tradursi in nuovi processi in riduzione ad uno, o a molti uno, e di produrre o ulteriore subordinazione, o una riorganizzazione della subordinazione. La politica di classe assume come obiettivi polemici i nessi che collegano strutturalmente e funzionalmente quelle condizioni subalterne.

Nello specifico, il femminismo che convoco è quello che ha prodotto e continua a produrre una critica complessiva dell’ordine sociale, che non si limita alla determinante e sempre più necessaria denuncia della violenza sulle donne e di genere nelle sue varie forme, ma analizza la funzione costitutiva di quella violenza, tanto rispetto alla nazione e alla retorica dei nazionalismi, e quindi anche dei colonialismi, quanto rispetto alla subordinazione e gerarchizzazione su cui si fonda la riproduzione del capitale.

Affronto brevemente questo secondo tema, per poi tornare alla nazione. I movimenti veneti degli anni Settanta hanno prodotto un avanzamento di analisi e di discorso irrinunciabile proprio rispetto alla riflessione sulla riproduzione sociale. Mi riferisco alla critica femminista dell’economia politica elaborata, a partire da Marx, da Maria Rosa Dalla Costa, Alisa Del Re, Selma James, Silvia Federici e molte altre, all’interno del movimento internazionale per il salario contro il lavoro domestico[1]. Possiamo parlare di “un internazionalismo femminista”, con la definizione proposta da Veronica Gago, che la riflette sull’orizzonte aperto da Ni Una Menos[2].

Non mi soffermo sulla polemica di quel movimento con Marx; mi limito a rilevare gli elementi principali di analisi critica che ha sviluppato. Posto che, per autovalorizzarsi, il capitale sfrutta una forza lavoro che si deve riprodurre, il regime del lavoro salariato si fonda sulla divisione sessuale del lavoro sociale, che attribuisce alle donne un doppio carico di lavoro, quello di cura, e quello salariato. Con una precisazione: negli ultimi decenni, è aumentato significativamente il numero di donne bianche nel mercato del lavoro salariato – con tutte le differenze che pure rimangono rispetto alla forza lavoro maschile in termini di retribuzione, precariato, rischio di licenziamento, demansionamento ecc.

Questo fenomeno va di pari passo con l’attribuzione di buona parte del lavoro riproduttivo alle donne – ma anche agli uomini – migranti, in condizioni di sfruttamento note (ricatto per i permessi di soggiorno, lavoro nero e grigio, caporalato), accentuate dalla recente estensione del circuito delle piattaforme al mercato del lavoro di cura. Esiste, quindi, un differenziale di sfruttamento, contro cui, però, non si rivendica il diritto ad essere sfruttate quanto gli uomini, o di sfruttare quanto gli uomini, ma il rovesciamento delle condizioni di sfruttamento.

Questa critica femminista dell’economia politica non sia limita ad aggiungere un problema a quello, considerato principale, del lavoro salariato, ma mette in luce l’esistenza di un altro “segreto laboratorio”, non solo della produzione ma della riproduzione del capitale, che ha come simbolo e luogo le case, ma che viaggia sulle catene globali della cura. L’analisi dei modi di funzionamento del dominio patriarcale e razzista è imprescindibile per identificare, analizzare e combattere questo differenziale di sfruttamento, rispetto al quale gli strumenti della contestazione dello sfruttamento lavorativo si rivelano necessari ma non sufficienti.

È ora possibile tornare alla politica delle identità: razzismo e patriarcato possono essere due fattori alternativi o sovrapposti di identificazione di soggetti vulnerabili e maggiormente sfruttabili, e lo sono. Ma limitarsi a questo, e orientare prospettiva politica nell’ottica del risarcimento, ad esempio in termini giuridici, per quanto importante e utile, significa arrestarsi sulla linea della politica delle identità – almeno finche non saremo in grado di elaborare una politica del diritto radicalmente altra, che rimane da pensare.

È bene tenere un occhio all’immediato e l’altro all’infinito, e quindi interrogare complessivamente le trasformazioni in cui siamo immerse. L’accumulazione di capitale proietta globalmente la sua capacità di sussumere e organizzare modi di produzione molto differenti entro una serie di “operazioni”[3]: estrattivismo, di minerali e di dati; logistica, di merci, di persone, di idee; produzione industriale “semplice”, che non è sparita, e finanziarizzazione. Sono operazioni che, riorganizzando flussi, consentono al capitale di rispondere alla sua crisi. L’effetto, che osserviamo almeno da un paio di decenni, è una ridefinizione non solo della funzione degli Stati, ma anche di quella degli imperi e delle organizzazioni internazionali variamente intese.

Dentro questo quadro, mi pare rilevante capire in che modo patriarcato e razzismo agiscano congiuntamente nell’organizzare questi flussi di merci, dati, persone; in che modo definiscano le gerarchie che legano persone e merci con l’obiettivo di estrarre valore; e, soprattutto, che funzione avranno nella riorganizzazione di questi flussi nella fase di “ricostruzione” post-bellica, quando si saranno chiusi, si spera il prima possibile, almeno due fronti di guerra (Ucraina e Palestina), e che funzione hanno avuto e hanno ora nel determinare i fronti stessi.

Non per puro interesse analitico, ma perché sono i movimenti forse più rilevanti degli ultimi anni a indicarci gli snodi nevralgici di una lotta che può andare nella direzione della sovversione: le donne in Iran e il confederalismo in Rojava. Sono due esempi che non cito a caso, così come non ho citato a caso Maria Rosa Dalla Costa e Alisa Del Re, che con molti colleghi e compagni hanno praticato un modo di stare in università e di concepire la ricerca che va in una direzione opposta a quella che è ormai eletta a canone.

Per riassumere: la donna migrante non è più rilevante politicamente della donna bianca o dell’uomo migrante “solo” perché tre volte marginalizzata, ma perché occupa una posizione specifica all’interno della struttura della riproduzione sociale, perché incarna un punto di vista a partire dal quale ne rende visibile l’articolazione complessiva. È la posizione del margine, con bell hooks, che ci permette di seguire e ricostruire le catene del valore[4]. Assumere quello sguardo, quella prospettiva, è la sfida, critica e politica, per evitare le insidie di una politica dell’identità e della loro somma, e articolare un nuovo internazionalismo[5].

Riappropriarsi della rivoluzione

Sotto questo aspetto, ci vengono in aiuto tre documenti che non possiamo ignorare: il comunicato delle donne iraniane del movimento Jina di alcuni mesi fa[6], l’intervista all’attivista del Comitato Nesvan[7],– e il comunicato dell’Unione delle Comunità del Kurdistan[8]. Parto da quest’ultimo, che è stato preceduto nel 2023 da un opuscolo dal titolo Opportunità e pericoli della terza guerra mondiale[9]nel quale, di fronte alla Guerra in Ucraina, si ribadiva la necessità di guardare ai conflitti intrasistemici nelle potenze statali e a quelli che riorganizzano i flussi transnazionali del valore, a partire dai movimenti che ne decostruiscono la logica. Tra questi, il femminismo, che, con le parole di Abdullah Öcalan, è ribellione contro la più antica forma di colonizzazione – motivo per cui non c’è liberazione senza liberazione delle donne[10].

Il comunicato delle Comunità curde è del 17 ottobre 2023, condanna ovviamente l’aggressione del popolo palestinese, ma prende anche le distanze dall’attacco del 7 ottobre. Non si può certo accusare il movimento curdo di occidentalismo o di simpatie coloniali, o rimproverargli un rifiuto della rivoluzione armata, visto che la fa quotidianamente sotto le bombe di Edrogan. Il quale accoglie i leader di Hamas e, parallelamente, è finanziato dall’Unione Europea per tenere fuori dai confini i migranti siriani e afgani. La critica curda non si limita all’attestazione di un problema geopolitico, ma ci interroga politicamente in forza della sua chiarezza: «la mentalità statalista è la radice dei problemi della società e dell’umanità», perché non ha fatto altro che «aumentare i conflitti, soprattutto in Medio Oriente in seguito all’instaurazione dello Stato-nazione sviluppato dalla modernità capitalista».

Il movimento rivoluzionario pone, con toni che forse possono urtare, il problema della prospettiva futura, chiedendosi quali siano gli equilibri in gioco, non solo dal punto di vista geopolitico, ma nell’ottica di una democratizzazione rivoluzionaria del medio-oriente, che è stata a lungo al centro della prospettiva palestinese, per poi indebolirsi dopo gli accordi di Oslo[11].

La conferma viene dal primo testo delle donne iraniane, la cui lotta muove dall’omicidio di Masha Hamini, donna curda, e assume come proprie le parole d’ordine della rivoluzione curda: «nell’ultimo anno, siamo state in grado di riappropriarci della “rivoluzione” allontanandola dal discorso “rivoluzionario” corrotto e patriarcale della Repubblica islamica. Abbiamo reclamato la “rivoluzione”, l’abbiamo incarnata nella profondità delle nostre voci collettive e l’abbiamo ridefinita attraverso i nostri valori e desideri femministi».

Decifrare la rivoluzione significa, di fronte alla lotta palestinese «riconoscere la lotta per la liberazione della Palestina come parte del discorso femminista e anticoloniale», ma anche «non […] allinearsi alle narrazioni costruite dalla Repubblica Islamica, perché la lotta palestinese per la libertà non inizia né è definita dalla Repubblica islamica». L’obiettivo è «liberarci dalle catene della Repubblica islamica e dalle forze nazionaliste e di estrema destra», per tracciare «un percorso verso una vera solidarietà femminista transnazionale con le nostre care compagne in Palestina».

Anche in questo caso, e l’abbiamo visto negli ultimi mesi, vale una considerazione geopolitica: l’Iran ha un peso fondamentale negli equilibri tra Israele e Palestina, e il fatto che la morte di Raisi sia stata salutata come la morte di un martire dai leader di Hamas è indicativo. Anche qui, bisogna andare oltre la geopolitica.

Le donne iraniane sottolineano la necessità di vigilare sull’uso delle parole, e di risignificare i concetti che veicolano: una vigilanza che, nel caso di “rivoluzione”, ma vale anche per “resistenza”, richiede uno sforzo specifico e duplice, che passa per la concreta opposizione alle forme di dominio che cercano di appropriarsene, magari riscrivendo la storia delle lotte.

Per questo la critica all’ “asse della resistenza” è al centro dell’intervista a un’attivista del Comitato Rivoluzionario Nesvan, gruppo marxista di donne iraniane, che, nell’esprimere un fermo supporto al popolo palestinese e alla sua lotta di liberazione, sottolinea la difficoltà – ma anche la necessità – di assumere un posizionamento critico rispetto a «tutti i governi corrotti», quelli che fanno parte dell’ “asse della resistenza”, «che si oppongono ai movimenti di liberazione e ai movimenti di base nel loro contesto», che fanno parte di quell’asse, che si richiamano alla legge della terra e del sangue, e che non hanno a cuore i popoli, ma i territori e le loro risorse.

Quello che emerge da questi testi – e vale lo stesso per quello delle donne russe contro la guerra in Ucraina –, è che i concetti di “popolo”, “stato” e “nazione” producono e mettono gerarchicamente a valore le differenze. Questo non significa liquidare in toto le rivendicazioni che si iscrivono nella grammatica del popolo e della nazione: le lotte anti e decoloniali hanno dato delle indicazioni in merito, che però devono essere calate nel contesto della loro formulazione, e prestando attenzione alle interpretazioni, ad esempio, di Franz Fanon come teorico del nazionalismo e apologo della violenza tout-court.

Fintanto che ci si richiama alla logica del popolo e della nazione, che procede per unificazioni rappresentative e per identificazioni – individuale o su scala maggiore –, il rischio concreto è di cancellare le stratificazioni e le resistenze interne. Non si tratta di contestare il diritto del popolo palestinese a riconoscersi in identità – un’identità sistematicamente negata da Israele –, ma di interrogare i modi e i soggetti che stanno ridefinendo questa identità, in particolare nella striscia di Gaza.

L’aspirazione e la pratica anti-statalista del movimento curdo mi pare indicativa in questo senso, perché si realizza non solo nella democrazia radicale, ma anche nella convivenza tra popoli, culture, religioni, oltre ogni confine nazionale, contro ogni nazionalismo sciovinista. In quel caso l’unica unità, mai definitiva, sempre costituente, si concretizza nel progetto rivoluzionario, nella sua capacità di fare i conti con le contraddizioni, tenendo fermi i suoi pilastri, in primis la liberazione delle donne, che non viene dopo, ma è fondamento.

La logica della guerra

Lungi dal pretendere una semplice trasposizione dai movimenti curdo e iraniano alla situazione palestinese, credo tuttavia che questi documenti e prese di posizione siano imprescindibili, nella misura in cui ci danno un’indicazione di metodo e ci aiutano a orientarci nell’identificazione dei problemi entro il regime di guerra. Il femminismo ha messo in luce in modo esemplare la genealogia e gli effetti della dicotomia tra privato e pubblico, suggerendoci di andare oltre per interrogare e pensare una riproduzione radicalmente altra di forme di vita.

Da questo punto di vista, una prospettiva femminista ci aiuta a tenere a mente che la guerra è basata su una logica di contrapposizione che obbliga allo schieramento rispetto a dimensioni statali, nazionali, utili tendenzialmente alla rideterminazione di fronti interni ed esterni, in cui a perdere sono sempre le stesse persone e a vincere sempre i processi di valorizzazione.

Il femminismo ci aiuta a rifiutare la logica di guerra, non solo perché sottolinea che le donne sono esposte a una violenza specifica e determinata in tutti i conflitti, ma perché mostra la funzione costitutiva di quella violenza, ricordandoci, ad esempio, che il simbolico femminile è un’arma di guerra. Mentre la partecipazione delle donne alle forze armate viene eletta a emblema dell’eguaglianza di genere, in Ucraina come in Israele, in Russia l’aborto è sotto attacco, con proposte di legge per vietarlo, elaborate a partire dai documenti della Chiesa ortodossa che esaltano la maternità come valore nazionale.

A Gaza, nel frattempo, stiamo assistendo ad un attacco frontale alla riproduzione, tanto che si parla di “genocidio riproduttivo”. Il colonialismo israeliano, d’altronde, è da sempre caratterizzato da una violenza specifica contro le donne palestinesi, che dipinge come oggetto di una violenza maschile solo islamica per giustificare le sue invasioni. Parallelamente, la fratellanza musulmana ha definito un modello di “donna islamica”, diventato tema di discussione tra le donne palestinesi, sulla spinta, ad esempio, della rilettura dei testi sacri[12].

Non si può negare il fatto che Hamas, mentre ricostruiva la struttura di welfare della striscia di Gaza (asili nido, ospedali) riempiendo uno spazio politico lasciato vacante da gruppi laici e socialisti[13], comprimeva le spinte laiche, i movimenti femministi, quelli studenteschi; che, mentre accoglieva la nascita del comitato femminile all’interno del Partito della salvezza, nel 2021 decideva che le donne non sposate possono viaggiare solo se accompagnate da un parente maschio, dal marito se sposate.

Violenze e legittimizzazioni epistemiche

A partire da questo quadro, credo si possano formulare alcuni problemi in forma interrogativa, compreso quello, non indifferente, della “legittimazione epistemica” e della “residualità” di chi lavora e studia in università[14]. Lo faccio ponendo due domande, che secondo me obbligano a discutere l’altro corno problematico della politica delle identità, il concetto di privilegio.

1) Avanzare una critica ad Hamas significa promuovere un ragionamento coloniale, occidentale, islamofobo? 2) In che modo si può articolare una riflessione in merito senza finire per rafforzare, paradossalmente, proprio un discorso coloniale che, dipingendo le donne palestinesi come vittime dell’Islam, rischia di tradursi in sostegno della colonizzazione israeliana?

Queste due domande nascondono due impliciti, entrambi problematici, perché rischiano di chiuderci in una prospettiva antinomica: o si considerano le donne palestinesi assumendo una prospettiva coloniale, che le vede vittime dell’Islam, oppure, all’opposto, si nega la doppia oppressione a cui le palestinesi resistono.

Per rispondere a queste domande e fare i conti con questi due impliciti, bisogna, a mio modo di vedere, interrogare la questione proprio seguendo le connessioni stabilite dai movimenti, assumerne il quadro epistemico, e tenendo conto dei flussi di valorizzazione, andando oltre la prospettiva geopolitica.

Il tutto partendo da un dato: non sto chiedendo alle donne palestinesi di agire in questa direzione, visto che hanno il problema di sopravvivere alla violenza genocida israelianaTuttavia – ed è questo il punto –, non si può nemmeno fare finta che non l’abbiano fatto nel passato, anche recentissimo. Penso in particolare al movimento Tal’at, che ha sviluppato una prospettiva femminista per la liberazione della Palestina, ricordando che l’aumentata violenza maschile all’interno della società palestinese ha anche una genesi coloniale. «Israele ha lavorato strategicamente per schiacciare e frammentare i palestinesi socialmente, politicamente ed economicamente.

L’eliminazione dell’azione collettiva delle comunità palestinesi va di pari passo con il rafforzamento delle strutture patriarcali delle unità di parentela»[15], che Israele usa a suo vantaggio, perché la denuncia della violenza domestica alle autorità israeliane rinforza l’idea che la violenza sia caratteristica della società palestinese[16].

Se si tiene conto di questo tipo di analisi, che sottolinea il rapporto tra dominio maschile e dominio coloniale, e riconosce l’esistenza di entrambi, senza negare l’uno e l’altro, si può, credo, avanzare un’ipotesi apparentemente paradossale e in parte provocatoria: se rimaniamo ferme a uno o all’altro implicito – se, ad esempio, mettiamo sotto il tappeto decenni di lotta femminista in Palestina[17], non rischiamo di riprodurre un’immagine orientalista delle donne palestinesi vittime?

Non possiamo dimenticare le lotte precedenti al 7 ottobre, contro la dominazione coloniale e la sua violenza, ma anche in contrapposizione con un impianto politico che ha modificato gli assetti categoriali e sociali di una popolazione tendenzialmente laica, come quella palestinese, e chedal punto di vista delle politiche di governo, come ha ricordato Siyâvash Shahabi, agisce come una «borghesia reazionaria»[18].

Contraddizioni e privilegi. Rompere il regime di blocchi concettuali   

A questo punto, credo che il problema si possa formulare in questi termini: si possono avanzare questi ragionamenti e interrogativi, e nel frattempo sostenere la liberazione del popolo palestinese? A mio modo di vedere sì: possiamo e dobbiamo chiedere il cessate il fuoco immediato a Gaza, denunciare le innumerevoli violazioni del diritto internazionale commesse da Israele negli ultimi 75 anni, mettere in discussione il paradigma sionista e sostenere il movimento di liberazione in Palestina.

Parallelamente, credo sia legittimo interrogarsi sulle prospettive future, tenendo conto della situazione politica nei territori occupati – il che significa mettere a tema il fallimento delle politiche di Fatah, dell’ANP, e di Hamas –, ma anche degli effetti che avranno le politiche di alleanze che vanno configurandosi e consolidandosi. Ricordando, parallelamente, che se la liberazione dovesse tradursi nella supremazia di un gruppo sugli altri sarebbe una liberazione per pochi, come insegna l’esempio iraniano.

Detto altrimenti, bisogna valutare quali contraddizioni si aprono, capire se sono davvero contraddizioni e decidere cosa ne facciamo. Possiamo nasconderle? Chi deve nasconderle ora sono le palestinesi e i palestinesi sotto le bombe israeliane. Cosa accade se noi, da una posizione che negli ultimi anni abbiamo definito di “privilegio”, facciamo lo stesso, magari considerando ogni popolo “arabo” (ma vale anche per il popolo israeliano) come un blocco unico, operazione epistemica tipicamente orientalista e coloniale?

Credo da questo punto di vista, si possa tenere a mente l’analisi proposta da Edward Said quasi vent’anni fa. Il 21 marzo 1996, l’intellettuale palestinese sottolineava che un dibattito risucchiato nella polarità noi/loro (che va di pari passo con civile/incivile) avrebbe finito per rafforzare i tratti nazionalisti e identitari, validando a contrario la «dichiarazione di guerra globale» formulata da Huntington con le sue tesi sullo “scontro di civiltà”[19].

Mi pare un’indicazione significativa, perché mette in luce i pericoli di una rigida politica delle identità: richiama costantemente l’importanza di una prospettiva storica di lunga durata, che ricostruisca il contesto (tema centrale anche nel dopo 7 ottobre), in quel caso della nascita di Hamas, per sgombrare il campo da letture unilaterali, incapaci di fare i conti con le responsabilità dell’occidente, ma pronte a ricondurre tutto, appunto, alla logica noi/loro. Parallelamente, e proprio in nome di questa critica, Said mette in guardia dal rovescio interno di questa prospettiva, che tende a consolidare processi di identificazione reazionari, che con quella logica sono del tutto compatibili.

Qui riemerge il tema centrale del punto di vista, della prospettiva: cosa significa produrre un’analisi femminista del sionismo come hanno fatto, tra le altre, le attiviste di Tal’at? Cosa ha significato e cosa significa ora, per le donne palestinesi che vivono e resistono in a una doppia oppressione, coloniale e patriarcale, immaginare e lottare per una liberazione femminista della Palestina? Cosa succederebbe se quella prospettiva venisse meno? Chi ne farebbe le spese?

In questo momento, credo che per evitare approcci da femminismo coloniale, o coerenti con cosiddetto femminismo sionista – per il quale «femminismo significa dare alle donne lo stesso diritto di uomini nel gestire il capitalismo, con il suo sfruttamento, l’occupazione e il razzismo»[20] –, sia utile riconoscere i molteplici modi in cui le donne e gli uomini palestinesi resistono all’invasione e alla violenza israeliana, come hanno sempre fatto, ed essere disponibili nel momento in cui volessero rivendicare, tramite la loro liberazione, la possibilità di una forma di vita diversa all’interno e per la società palestinese libera.

Chiudo con una breve considerazione sull’università, sul lavoro di ricerca e sulle lotte che, tessendo rapporti transnazionali, si sviluppano nel contesto universitario. Come sottolineato da Michele Lancione, smilitarizzare l’università significa inchiestare e opporsi al diretto rapporto istituzionale tra gli atenei, i dipartimenti e i complessi tecnologico-militari come Leonardo o Frontex, pretendere la chiusura degli accordi di committenza mascherati da accordi di ricerca, e che le cordate con gli apparati della difesa vengano cancellate dai pilastri per i finanziamenti europei alla ricerca.

Vuol dire anche, a mio modo di vedere, produrre un discorso critico che rifiuti la logica e il linguaggio di guerra, i blocchi concettuali e identitari, che si riconosca la capacità di convalidare epistemicamente l’opposizione alla guerra nella sua complessità. Bisogna muovere da ciò che si sta già dando, non per automatismo, ma perché le lotte di questi mesi, nei campus e nelle università, hanno prodotto spostamenti e prese di posizione. Perché queste ultime non si trasformino in schieramenti monolitici, e a loro volta identitari, è necessario assumere collettivamente la complessità come punto di partenza, interrogandoci costantemente sugli effetti dei discorsi che “produciamo” nelle università.

Questo articolo è stato pubblicato su globalproject l’8 giugno 2024.


[1] Cfr. M. Dalla Costa, Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro (1975), OmbreCorte, 2021; S. Federici, Salario contro il lavoro domestico, Napoli, 1976.

[2] V. Gago, La potenza femministaO il desiderio di cambiare tutto, Capovolte, Alessandria, 2022.

[3] Sulle “operazioni” del capitale, S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, Manifestolibri, Roma, 2021.

[4] bell hooks, Elogio del margine, Tamu, Napoli, 2022.

[5] Rispetto a nuove prospettive internazionaliste, Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Per un nuovo internazionalismo. Considerazioni preliminari, Euronomade 7 Aprile 2024

[6] Jin, Jiyan, Azadî come nella Palestina libera, Connessioni Precarie

[7] Nasvan: Un comitato segreto rivoluzionario per le donne iraniane, Connessioni Precarie

[8] Risolvere la questione palestinese, Globalproject 17 ottobre 2023

[9] Academy for Democratic Modernity, Opportunità e pericoli della terza guerra mondiale, Gennaio 2023.

[10] cfr. Istituto Andrea Wolf, Jin Jiyan Azadi. La rivoluzione delle donne in Kurdistan, Tamu, Napoli, 2022.

[11] Su questi aspetti Tommaso Baldo, Quale liberazione per la Palestina?, Globalproject 29 maggio 2024

[12] Cfr. I. Jad, Islamist Women of Hamas: Between Feminism and Nationalism, REMMM, 128, pp. 137-165.

[13] Cfr. P. Caridi, HamasDalla resistenza al regime, Feltrinelli, Milano, 2023. Sui diritti delle donne palestinesi in West Bank, cfr. M. Hattab & M. Abualrob, Under the Veil: Women’s economic and marriage Rights in Palestine, in «Humanities and Social Science Communications»,10/2023.

[14]Uso le espressioni richiamando il dibattito tra Gennaro Avallone, Valentina Ripa, Michele Lancione e Giso Amendola.

[15] Hala Marshood e Riya Alsanah, Tal’at: a feminist movement that is redefining liberation and reimagining Palestine, Mondoweiss 25 Febbraio 2020. Sul ruolo di Tal’at.

[16] The birds shall return: Imagining Palestinian feminist futurities, Briatpatch Magazine 4 Maggio 2022

[17] Cecilia Dalla Negra, L’8 Marzo e il movimento femminista palestinese, Orient XXI 8 Marzo 2021

[18] Francesco Brusa, La lotta palestinese vista dall’Iran e i rischi dell’islam politico, Dinamopress 4 Dicembre 2023

[19] E. Said, La campagna contro il «terrore islamico». 21 marzo 1996, in Fine del processo di pace. Palestina/Israele dopo Oslo, Feltrinelli, 2002.

[20] Con la definizione di R. Abdulhadi, S. Adely, A.Y. Davis, S. James, Confronting apartheid has everything to do with feminism, Mondoweiss 21 Marzo 2017.

Storie in pellicola – Ciné – Giornate di Cinema, Riccione 2-5 luglio

“Ciné – Giornate di Cinema”, la manifestazione estiva di networking e di aggiornamento professionale dell’industria cinematografica, si terrà dal 2 al 5 luglio al Palazzo dei Congressi di Riccione. Nutrito il programma.

Le convention

Dal 2 al 5 luglio, il programma business, riservato agli addetti ai lavori, si svolgerà al Palazzo dei Congressi con le convention di 01 Distribution, Bim, Eagle Pictures, I Wonder, Lucky Red, Medusa Film, Notorius Pictures, Piperfilm, Universal Pictures, Vision Distribution, Warner Bros. e The Walt Disney Company, a cui si aggiungono le presentazioni dei listini di Adler Entertainment, Europictures, Fandango, Officine Ubu, Plaion, Vertice 360 e Wanted Cinema.

I premi

In occasione di Ciné N.13, ANICA – Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Digitali, festeggerà l’80° anniversario della propria fondazione, attraverso una serie di iniziative, tra cui il Premio ANICA 80, che fa il suo debutto proprio a Ciné e si svolgerà il 4 luglio.

Il Premio ANICA Mina Larocca, invece, verrà assegnato martedì 2 luglio e premierà una manager o un’imprenditrice del settore cinematografico, audiovisivo e digitale

Panel e convegni

Il programma btob della manifestazione si completa anche con ulteriori momenti di approfondimento e incontri professionali, come il consueto convegno, organizzato da Box Office, in programma nella giornata inaugurale, dal titolo Il pubblico in sala tra rivelazioni al box office, case history e scommesse per il futuro.

Ad arricchire il programma di Ciné, anche l’evento di lancio della seconda edizione LED – Leader Esercenti Donne, il programma di mentoring dedicato alle professioniste dell’esercizio cinematografico, ideato dall’ ANEC – Associazione Nazionale Esercenti Cinema.

Nella giornata di mercoledì 3 luglio ACEC – Associazione Cattolica Esercenti Cinema propone il panel Tra hype e critica cinematografica: le aspettative che spingono il box office. Il dibattito verterà sul ruolo dei critici e degli influencer, ma anche di quanto l’esercizio e la comunicazione alimentare un dibattito e la passione nel pubblico.

Agenda completa

Parole a capo /
Elisa Sansovino e le poete perse d’amor perduto

Elisa Sansovino e le poete perse d’amor perduto

Elisa Sansovino (eteronimo di Beppe Salvia, Potenza, 10 Ottobre 1954-Roma, 6 Aprile 1985). Poeta italiano

 Come le pennellate minuziose e maniacali di un pittore, le singole parole che compongono i versi di Beppe Salvia sono ossessivamente risolte come pixels intermittenti sul foglio o luminose infiorescenze primaverili che appena sbocciate subito rimandano all’autunno.
Lui stesso scrive in una pagina, quasi testamentaria, di Elemosine eleusine:

«…in mia vita ho scritto versi di quattro stagioni. inverno fu la prima, e dello scrivere nemico. venne dunque l’estate, d’Elisa Sansovino. e per la primavera un semplice e celeste quadernetto, cieli celesti suo poverissimo titolo. l’autunno ahimè io non l’ho scritto. perché, come per tutta la poesia grande, esso è l’implicito, sta dietro assai a tutti quanti i miei versi, nella mia vita vana».

Beppe Salvia fu conosciuto dal grande pubblico solo dopo la sua morte avvenuta nella vigilia di Pasqua del 1985 dopo un‘ultima occhiata al mondo. In quello stesso anno fu pubblicata una silloge poetica di una giovane poeta, Elisa Sansovino, dal titolo Estate, curata proprio da Beppe Salvia.

La raccolta, poco più di un quadernetto, recava al suo interno una foto della ragazza insieme a sue compagne di liceo: il curatore si premurava di informare che la silloge era già stata stampata privatamente nel 1949 in “cinquecento copie, legate in brossura e con la copertina di colore grigio”. Continuando questo gioco di rimandi, Salvia segnalava che nella fotografia, con in prima piano una motoretta  e quattro ragazze sedute sul sellino, Elisa era quella con il vestito bianco, la meno carina.

In effetti la raccolta a una prima lettura distratta restituisce la sensazione del diario in versi di un primo amore e, pertanto, la poesia risulta ingenua proprio come quella che ci si può attendere da un ragazzina. Poi, inoltrandosi più attentamente nei testi, si scopre un lessico capace di slanci e ricercatezze che denotano conoscenze ben superiori a quelle di un’adolescente.

Così in quel 1985 si scoprì un po’ alla volta che c’erano già stati altri componimenti poetici di Beppe Salvia sotto eteronimi femminili, come le poesie di Silvia Isola, fatta nascere nel 1962 e pubblicate nella rivista L’oca parlante. E Elisa Sansovino, Silvia Isola e altri eteronimi maschili, a poco a poco, cominciarono a restituire “l’identità” di un vero e nuovo Poeta.

Andrea Zanzotto fu uno dei primi a riconoscere e a definire l’identità di Beppe Salvia :

«…la sua poesia che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso  verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di prendere contatto con il “cuore” del mondo…[questa poesia] si è fatta subito notare per una straordinaria limpidezza dello spalancarsi di una potenza e di un’unità lirica. Tutto resta preso come in un abbraccio di una sconcertante luce, che da una parte sorregge e dall’altra , però, crea un inquietante sfondo di allontanamento».

Dopo queste parole, le poesie di Estate non solo non sembrano più scritte da una ragazzina di 16 anni ma neanche da un giovane uomo di 10 anni più vecchio di quella ragazzina.

Quelle poesie sembravano davvero essere scritte da un antico poeta cinese che come disse Attilio Bertolucci  guardava fuori, una delle sue ultime ore :

la sdraio a strisce piane
è accanto alla vetrata

e a quelle vane bande
colorate posa accanto

 smesso un abito sgargiante
bianco

Anche in questi versi ci pare di cogliere una luce di sillabe, e il ritocco maniacale delle parole, quasi di una loro disposizione su una tela.

Così come accade per i colori in un quadro di Pierre Bonnard, torna anche qui un’analoga sapienza per le sillabe, “una più vasta scienza”, agognata come un frutto infantile.  È la medesima arte, lo stesso sguardo sulla crescita naturale di colori e sillabe, di un mondo vasto e libero visto dalla terrazza di una  casa e il medesimo tentativo di cogliere la vita in ogni suo dettaglio. E torna quella fatidica impossibilità di contenere tutte le stagioni, quella necessità di dover osare maniacalmente la perfezione riconoscendo, in fondo,  che il cuore, è invaso da un segreto, una segregazione (un autunno) che uccide.

Pochi ricordano che Estate terminava con una poesia mancante nella prima edizione del 1949, quella di Elisa Sansovino, una poesia aggiunta da Beppe che nell’ultima occhiata dalla…terrazza duplica il gioco e lo rovescia.

Elisa/Beppe/Saggio Cinese dedica i suoi ultimi versi a un interlocutore lontano , oltre il quadro, oltre la pagina. Oltre:

vorrei darti conforto, 

ma mi mancasti prima e spesso io
ti cerco invano…

Questi versi versati non importa da chi sembrano diretti ora proprio a chi li ha versati; a chi, con i suoi colori, con le sue parole e con le sue maschere, intendeva celare il suo amore per la vita, alla morte. Riuscendoci per poco.

  

Helle Busacca (S. Piero Patti , Messina, 21 Dicembre 1915-Firenze, 15 Gennaio 1996).
Poeta, pittrice e narratrice italiana.

In un suo curriculum vitae del 1988 Helle Busacca scriveva: «La poesia è il culmine delle infinite stratificazioni che dal primo bang ci hanno creati come siamo: per questo, a memoria d’uomo, possiamo ritrovarci in essa. Dove non ci ritroviamo non c’è poesia».

La coscienza del contesto: questo è ciò che colpisce in queste parole. La poesia è dunque il risultato di un processo evolutivo che dal (primo) Big Bang ha portato alla creazione di specie viventi su un pianeta di un sistema solare remoto in una delle innumerevoli galassie di questo universo che non è forse il primo e né sarà l’ultimo. Anzi la poesia è proprio il culmine di questa evoluzione che conferisce all’uomo, o meglio, lo “costringe” (per la sua stessa natura) a una certezza potremmo dire di specie: quella di ritrovarsi, di conoscersi solo nella poesia e grazie ad essa.

Ma da ben altro bang, di più corte coordinate e scale temporali, è creata la poesia di Helle. Ed è in questo “universetto” e nel suo parlato “telefonico” che Helle continua a riconoscersi e ritrovarsi. Una particolare stratificazione della sua vita… le apparve così importante da non poter essere lasciata cadere nell’oblio: la scomparsa tragica del suo amatissimo fratello Aldo.

Non solo questa fu una dolorosa esperienza personale ma anche la scoperta che la poesia non è mai cosa soggettiva. Quanto più essa prende le mosse da eventi personali e privati, nascosti come se fossero i nodi del retro di un arazzo, tanto più sembra assumere una figura chiara e distinta sul fronte, una risultante necessaria ch’emerge dall’intrecciarsi di tutti i fili che compongono e guardano il mondo.

Da questo momento la sua opera si trasforma in una grande liturgia laica nella quale nodi mediterranei sottostanti

per lui i tappeti

chiari e le finestre piene di cielo

per lui sul terrazzo le azalee vive

e i crochi i voli

 

sorreggono e fanno emergere l’arazzo cosmico

Sì, credo che scrivo un poema

dopo undicimila anni forse è il momento

di inviare un messaggio verso le stelle

…scrivo un poema io donna

che scrive perché è stato assassinato un uomo

 

Come i canti di una commedia postmoderna, le sezioni del libro sono denominati Quanti quasi fossero icone di fenomeni energetici simultaneamente corpuscolari e ondulatori dove la certezza di fissare la qualità della parola si equilibra all’incertezza di catturare una quantità di pathos.

I Quanti dell’integrazione, quelli della rottura, della desolazione fino ai Quanti della discriminazione, del rifiuto e della visione, rappresentano i nodi retrostanti all’arazzo della vita del fratello Aldo, anzi di aldo (come lo fissa, con l’iniziale minuscola, sulla pagina) e quindi di tutti i fratelli. Ne deriva così una sorta di breviario laico che ricercando le tracce del fratello lo individua nella vittima sacrificale di un sistema ambiguo, competitivo/nepotistico, baronale/meritocratico insieme, come lo sono quello accademico e quello lavorativo che risolvono tutte queste ambiguità con gli stessi strumenti di sempre: la furbizia, il sopruso, la prevaricazione, le complicità familistiche e clientelari.

Helle ambienta la sua comedia sull’isola di Creta al lido di Mallia, noto rifugio dei “capelloni”. Tra questi ragazzi idealisti e pacifici lei canta il ricordo del suo amato fratello e dunque di ogni fratello annunciando la scomparsa di molte specie viventi tra le quali, appunto, homo. (Che dire dell’attualità del messaggio, oggi che sono i giovani a ricordare ai “grandi” i pericoli che incombono sugli ecosistemi non più in grado di sostenere – meglio: sopportare – l’umanità?).

Qui i giovani la interrogheranno su ogni specie scomparsa e alla fine le chiedono

aldo? come era?

Helle guarda con tenerezza quei giovani che non si avvedono della scomparsa dei pesci dal mare, degli uccelli dal cielo; che non si accorgono delle foreste che già venivano distrutte, dei mari e dei fiumi che venivano inquinati e si limiterà a rispondere:

Era l’Uomo. E l’Uomo era meraviglioso.

Quando lui c’era c’era anche Dio.    

 

Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996).
Poeta, organista ed etnomusicologa italiana.

 Nel 1953, a soli trent’anni, Rocco Scotellaro, il poeta-contadino lucano, muore d’infarto.

Da quel momento “i suoi contadini”, come raccontato da Carlo Levi, avrebbero continuato, ogni sera e per altri dieci anni ancora, ad accendere un lumino di cera alle finestre del paese e delle campagne materane. Nel 1953 Amelia Rosselli ha 23 anni e aveva conosciuto Rocco tre anni prima. A 14 anni i fascisti le avevano ucciso il padre, Carlo, e lo zio, Nello e lei e Rocco si conobbero a bordo di un battello a Venezia,  proprio in occasione di un convegno sui fratelli Rosselli.

Tra i due scattò subito una forte intesa. Amelia dopo il rifiuto verso il mondo borghese delle città, ritrovò la sua libertà, grazie a Rocco, in Lucania. E fu proprio in questi tre anni che maturò il suo interesse etnologico. Tra lei che ancora non aveva scritto nulla e il “poeta-contadino” che già scriveva della sua terra e dei suoi affetti, si stabilì un legame fatto di richieste ed esigenze profonde.

Rocco cercava qualcuno al quale svelare la bellezza di un mondo arcaico e contadino fatto di umiltà, semplicità e stagionalità. Inoltre aveva un urgente bisogno di  ricevere stimoli e incoraggiamenti per la sua poesia del mondo ridotto, letteralmente, a terra. Amelia cercava un eden primitivo ed innocente dentro al quale sentirsi a casa, uno spazio rassicurante e protettivo. Entrambi, per motivi diversi, soffrivano di un male inestinguibile: sentirsi legati a radici certe, non  doversene allontanare e cantare in versi quel dilemma dell’erranza che si fa restanza, come dice l’antropologo Vito Teti, e della restanza che si fa esilio. Questi i motivi profondi della poesia e del senso delle loro vite.

Al funerale di Rocco, Amelia perse la memoria e fu rinchiusa in un manicomio in Svizzera, subì l’elettroshock, finché tornò in Italia e cominciò la sua attività poetica in lingua italiana.

Del mondo scriveva:

«è sottile e piano: / pochi elefanti vi girano, ottusi».

Con la morte di Rocco, Amelia inizia a identificarsi con lui, esattamente come successe anni prima quando morì sua madre, e lei cominciò a farsi chiamare Marion. È proprio da questa identificazione che nasce Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro), i primi testi della Rosselli in italiano, che fino a quel momento aveva scritto e “cantato” in inglese e in francese. Grazie all’amore per Rocco, quindi, Amelia “cantò” l’italiano per la prima volta.

Questa è la cantilena d’amore e morte per Rocco

Dopo che la luna fu immediatamente calata

ti presi tra le braccia, morto

Un Cristo piccolino

a cui m’inchino

non crocefisso ma dolcemente abbandonato

disincantato

Come un lago nella memoria

i nostri incontri

come un’ombra appena

il tuo volto affilato

un’arpa la tua voce

e le mani suonano

tamburelli

Sposo nel cielo

ti ho tutto circondato

ma sei tu che comandi

e sono tua sposa d’infanzia

sposa trasparente

Poi si gonfierà

il sacco delle lacrime

ma non si spillerà

lo metterò in un vasetto

greco-latino

me lo porterò a casa

trionfante elefante di pena

Tu salito nella bruma

ti vedo lontano che ti aggiri

consigliando

che ne è di me e di te ora dopo la morte

tu, sui colli

Lasciatemi

ho il battito al cuore

donna a cavallo di galli e di maiali

Rocco vestito di perla

come il grigiore dei colli vicino al tuo paese

mostrami la via che conduce

non so dove

nuovo anno

arrivi

teneramente

ossequioso

 

Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina Guerrini, Bologna, 28 aprile 1923 – Roma, 10 gennaio 1977).
Poeta, scrittrice e traduttrice italiana.

È un fatto: alcune volte Dio ci sembra molto lontano, anzi come aveva ”bestemmiato” Giobbe, ci appare come un nemico, una…tigre mimetizzata tra l’erba alta della jungla in attesa di assalirci e dilaniarci attraverso la sofferenza e la prova. Quanto evidente risulta questo fatto, oggi, in un’epoca ancora di peste e guerre!

Oh quanto ci sei duro

Maestro e Signore!

Con quanti denti il tuo amore

ci morde…

Così scriveva Cristina Campo, poetessa morta nel 1977 che visse tutta la sua vita con un distacco e una discrezione quasi eremitici. Fu lei stessa a scrivere di sé in un risvolto di copertina:

«Ha scritto poco e vorrebbe aver scritto ancora meno».

Il suo vero nome era un altro ma volle chiamarsi cristina da Cristo, suo segreto e profondo amore, e campo così evocativo del Signore che lavora la terra per vederla fiorire di tutti i suoi frutti. Una donna apparentemente mistica e appartenente a un’epoca medievale ma che nella realtà fu traduttrice, scrittrice e poetessa inafferrabile, di salute cagionevole ma di mente raffinatissima , dalle letture vastissime  e profonda conoscitrice  di tradizioni sapienziali ed esoteriche. Per tutto questo annotò tra le sue frasi preferite il detto di Pascal:

«Un po’ di sapere può allontanare da Dio, ma molto sapere vi può ricondurre».

Incontrare l’Amore può essere drammatico e a volte può comportare tanta sofferenza e lacerazione come dice nel suo frammento Cristina. I denti e gli artigli di questa “tigre” ci mordono, ci lacerano nell’intimo e ci fanno sanguinare ma ecco che l’Amore stesso disvela il mistero del Suo assalto: quei denti e quegli artigli hanno la capacità di ferire e di baciare:

con quanti denti il tuo amore ci morde…

E dunque l’immagine acquista un valore sorprendente lasciando intravvedere (meglio sarebbe dire : infrasentire) fra dolore, ferite e ostilità, il loro controcanto: l’ebrezza di un abbraccio, la pace ritrovata, l’intimità di una certezza.

Bisogna continuare a cercare nei morsi del dolore e tra il sangue delle ferite i segni di un senso dell’Amore, del progetto che Dio ha su ognuno di noi. Bisogna cioè sforzarsi di comprendere il significato delle beatitudini  (Beati i poveri…gli afflitti…gli affamati…i perseguitati…).

Il piccolissimo corpus poetico campiano è costituito da: 11 composizioni che videro la luce presso Scheiwiller nel 1956 nella sola raccolta, Passo d’addio, pubblicata dall’autrice; 6 poesie recuperate dal quadernetto che Cristina inviò all’amica Margherita Pieracci Harwell, quale dono per il Natale del 1954 più 11 testi che formano la sezione delle poesie sparse.

Passo d’addio è un canzoniere delicatamente strutturato secondo una calcolata architettura “quasi” perfetta. La raccolta è imperniata sulla misura temporale dell’anno e del suo ritorno al punto di partenza,  al termine del dodicesimo mese. Le 11 composizioni sono dunque una voluta approssimazione per difetto della…perfezione costituita dai 12 mesi.

Ogni lirica appare come un…passo di avvicinamento al congedo finale: non si dimentichi che il passo d’addio è una prova di danza che un’allieva esegue per le altre allieve al termine del loro percorso comune.

Congedarsi significa preparare la propria anima, il “tu”, all’incontro con il proprio Amore: il Tu. E lo si deve fare intrecciando il filo tematico dell’addio con quello temporale che è insieme esterno e interiore. Così attraverso un cammino avviato in sordina e nascosto sotto una semplice poesia di fine estate si giunge alla richiesta di una folgorazione sulla via di Damasco e all’epilogo finale. Il passo… d’avvìo.

(X)

E la mia valle rosata dagli uliveti

e la città intricata dei miei amor

siano richiuse come breve palmo,

il mio palmo segnato da tutte le mie morti.

 

O Medio Oriente disteso dalla sua voce,

voglio destarmi sulla via di Damasco –

né mai lo sguardo aver levato a un cielo

altro dal suo, da tanta gioia in croce.

 

(XI)

Devota come ramo

curvato da molte nevi

allegra come falò

per colline d’oblio.

 

Su acutissime lame

in bianca lama d’ortiche,

ti insegnerò, mia anima,

questo passo d’addio…

 

Sitografia

http://www.lamacchinasognante.com/versi-di-tre-stagioni-sulla-poesia-di-beppe-salvia-giuseppe-ferrara/

https://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/bio_busacca.htm

https://biografieonline.it/biografia-amelia-rosselli

http://www.cristinacampo.it/

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Firmare oggi per il Referendum 2025 per il Lavoro:
intervista alla politologa Nadia Urbinati

Firmare oggi per il Referendum 2025 per il Lavoro: intervista alla politologa Nadia Urbinati

di Patrizia Pallara
pubblicato da Collettiva del 11 giugno 2024


Che tipo di confusione si potrebbe creare, professoressa?

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali possono essere sottoposte a referendum se si verificano determinate condizioni stabilite dalla legge. In tal caso, per la validità della consultazione non è richiesto un quorum minimo di votanti. Per la validità della consultazione popolare proposta dalla Cgil, invece, è necessario che vada alle urne la metà degli aventi diritto al voto più uno. Ecco, questo può creare confusione. I cittadini potrebbero pensare che andare o meno a votare non faccia differenza, mentre non sarebbe così.

Secondo lei bisogna comunque metterci la firma, giusto?

Certo! Nonostante i dubbi sulla tempistica, questi referendum sul lavoro sono sacrosanti: mettere i lavoratori in condizioni di maggiore tutela è una questione straordinariamente importante. Metterci la firma oggi e andare a votare domani. Il numero delle firme raccolte darà l’indicazione della partecipazione e al tempo stesso dello scontento dei cittadini.

È anche vero che in alcuni casi, anche per referendum che hanno registrato una grande partecipazione al voto, la volontà del popolo non è stata rispettata.

Sì, c’è anche questo rischio. Prenda il referendum sull’acqua pubblica, nonostante la vittoria dei proponenti il legislatore non ne ha tenuto conto. Questo naturalmente fa radicare nei cittadini l’idea che lo strumento sia inutile, che loro stessi non abbiano potere, con il risultato che non vanno a votare, come avviene per le elezioni. Questo non è un bel segnale, è un tassello in più di erosione della funzionalità degli strumenti di decisione politica.

Il lavoro e le condizioni di lavoro, che sono al centro dei quesiti della Cgil, sono questioni che riguardano tutti, vecchi e giovani, dipendenti e autonomi. Quanto è sentito secondo lei il tema?

Ci sono due aspetti da considerare. Il lavoro ha una funzione fondamentale per gli esseri umani, lavoriamo anche quando crediamo di non farlo, nel vivere quotidiano. Il lavoro è associato al sacrificio e anche alla sofferenza, ma dall’altro lato ci dà soddisfazione, ci arricchisce e valorizza la nostra creatività perché consente la realizzazione di piani e progetti.

Il lavoro ha quindi caratteristiche opposte, ma le società democratiche moderne hanno voluto attribuirgli una valenza politica e sociale: è condizione di emancipazione e ci consente una vita libera e dignitosa se non è sfruttamento. Per chi è partita Iva il lavoro è essenzialmente un mezzo di guadagno, uno strumento per portare a casa qualche soldo, ma è svincolato dai progetti di vita. È un problema culturale e politico che il sindacato dovrebbe affrontare. Ma è un’impresa titanica.

E il secondo aspetto qual è?

Sono passati i tempi in cui le grandi politiche industriali le facevano i governi, in cui c’era un’industria nazionale e il lavoro era inteso come occupazione stabile, con contratto a tempo indeterminato, e aveva un valore e una potenza. Tutto è cambiato e le responsabilità sono a destra come a sinistra. Oggi il lavoro è sempre più percepito come una condizione di necessità per sopravvivere; è sempre meno assicurato dalla progettualità politica e sempre più un esito delle scelte di mercato, le cui regole assomigliano a leggi naturali come quelle della fisica.

Inoltre dalla fine del Novecento si è generata la convinzione che i governi possano fare ben poco nella progettazione delle politiche economiche, perché queste sono legate più ai flussi globali e internazionali che agli stessi Paesi. In questo contesto l’Europa unita ha dimostrato di avere funzioni antitrust e regolative. È un’ottima cosa che ci sia, ma è la prova che la sovranità degli Stati ha molto meno potere che in passato, se non associata in entità sovrannazionali.

E poi c’è la questione della salute e della sicurezza sul lavoro, su cui il quarto quesito della Cgil prova a mettere un paletto.

Il lavoro non dovrebbe essere sofferenza pura né dovrebbe mettere a rischio la vita di nessuno. Se succede è un campanello di allarme, significa che la società è meno democratica e che c’è più attenzione agli interessi di una parte. Non si può usare il lavoro come strumento per arricchire qualcuno al di là della sicurezza, non si possono ridurre i costi al massimo per espandere i profitti come accade nelle attività di subappalto. Su questo e sul lavoro, destra e sinistra devono dimostrare la loro distanza e differenza.

Cover: immagine da Facebook Cgil Roma Lazio 

Quello che non si può dire: perché l’eolico in appennino non salverà il pianeta

Quello che non si può dire: perché l’eolico in appennino non salverà il pianeta

Già, proprio così, spesso la voce della scienza, quella di ricerca e di studio “serio e senza padroni” nel nostro Paese, spesso e volentieri viene imbavagliata. Se già in Italia abbiamo grossi problemi di trasparenza nelle amministrazioni pubbliche, contiamo decine e decine di giornalisti “embeddeb” cioè incastrati (QUI), che anche in tempo di pace devono soddisfare la linea politica degli editori delle testate e dei media di cui sono a libro paga, anche chi lavora negli enti di ricerca e di controllo, in particolare in materia di problemi e di danni ambientali, sempre più frequentemente è sottoposto al ricatto tra la carriera o addirittura il rischio di perdere il posto di lavoro e la veridicità dei dati, la completezza e l’onestà delle ricerche e delle informazioni. E chi scrive si è scontrata spesso con questo problema e ne ha viste le conseguenze direttamente.  Insomma, lo sappiamo tutti ma non lo possiamo dire: non bisogna disturbare il manovratore, tanto più potente è, tanto meno tollera versioni che contrastano il proprio interesse. Certamente questo è un bel limite alla libertà e all’onestà intellettuale!

Con grande coraggio e consapevolezza della situazione e dei problemi esistenti l‘Associazione Italia Nostra appoggia e diffonde la nota di un gruppo di ingegneri energetici, che  preferisce mantenere l’incognito,  e ci dà l’opportunità di divulgare le informazioni e i dati in essa contenuti, con cui i ricercatori e studiosi dei problemi energetici del nostro Paese ci spiegano “PERCHÉ L’EOLICO SULL’APPENNINO – e a maggior ragione in qualsiasi altro ambiente italiano – NON SALVERÀ IL PIANETA” facendo piazza pulita delle mistificazioni e falsità di chi difende senza se e senza ma l’industria eolica come energia rinnovabile.

L’ITALIA E’ IRRILEVANTE

I promotori degli impianti eolici sulle montagne del nostro Appennino dicono che serve a “salvare il pianeta” e che bisogna fare in fretta perché “non c’è più tempo”. Lo scopo di questa nota è dimostrare, con dati certi e verificabili, che gli impianti eolici non salveranno un bel niente. L’Italia è  in realtà irrilevante rispetto al Pianeta. I cambiamenti climatici sono un’emergenza globale, che riguarda tutto il pianeta. Ricordiamoci sempre che l’Italia da sola può fare ben poco. Ovviamente questo non significa che non dobbiamo fare nulla, ma è importante essere sempre consapevoli delle reali dimensioni del problema. I consumi energetici dell’Italia (e le conseguenti emissioni di CO2) ammontano ad un misero 0,97% del totale mondiale. L’intera Europa non arriva al 9% dei consumi energetici mondiali.
Se per magia oggi stesso l’Italia o anche l’Europa diventasse 100% rinnovabile, il pianeta non se ne accorgerebbe neanche! Quindi tranquilli: non sarà l’opposizione contro l’eolico in Appennino – o nelle altre sub regioni della nostra Toscana – a condannare il pianeta: possono anche riempire l’Italia di pale eoliche e non cambierà nulla.
Però qualcuno potrebbe obiettare: noi dobbiamo comunque fare la nostra parte! D’accordo, allora continuiamo il ragionamento per dimostrare che gli impianti eolici sono inutili anche a fare la nostra misera piccola parte.

QUANTO CONTRIBUISCE L’EOLICO A SODDISFARE IL FABBISOGNO ENERGETICO ITALIANO?

I dati di Terna ci dicono che l’eolico ha prodotto il 7,4% dell’energia elettrica consumata in Italia nel 2022. Attenzione, qui c’è un trucco da smascherare subito! I promotori dell’eolico giocano a confondere il fabbisogno di energia elettrica con il fabbisogno di energia totale, facendoci credere che il consumo di energia elettrica corrisponda al consumo totale. Non è così!!! Spieghiamo bene questo punto fondamentale (non è difficile, ma non lo chiarisce mai nessuno): l’energia complessivamente viene utilizzata in DUE diverse forme: energia elettrica ed energia termica. Con energia termica intendiamo il CALORE e in generale qualsiasi uso dei combustibili (quindi anche benzina e gasolio per i trasporti).
Ebbene, il bilancio energetico nazionale ci dice chiaramente che la ripartizione tra energia elettrica ed energia termica negli usi finali dell’energia è circa 20%-80%, cioè l’energia elettrica è SOLO IL 20% DEL TOTALE! Precisamente, in Italia, nel 2022 la percentuale di energia elettrica, rispetto all’energia totale consumata, è stata del 22,7% (dati Terna).

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Fabbisogno percentuale di energia termica ed elettrica sul totale in Italia e frazione dell’energia eolica sulla frazione elettrica

Come sappiamo, gli impianti eolici producono solo energia elettrica. Questo ridimensiona moltissimo il contributo dell’eolico nel soddisfare il fabbisogno energetico italiano: se consideriamo il totale dell’energia consumata (elettrica + termica), il contributo dell’eolico si ottiene moltiplicando le due percentuali appena viste, cioè 7,4% x 22,7% = 1,45%.

In conclusione, tutte le migliaia di pale eoliche oggi sparse soprattutto nel sud Italia, contribuiscono a soddisfare solo un misero 1,45% del fabbisogno energetico italiano! Il previsto raddoppio degli impianti eolici in Italia otterrà, quindi, come risultato che passeremo dall’attuale 1,45% a circa il 3%. In pratica non cambierà quasi nulla. E ricordiamo che gli impianti eolici attualmente in funzione sono situati nelle aree più ventose, mentre oggi si punta ad occupare anche le aree con vento scarso, come l’Appennino – o le basse colline e le pianure della Maremma –, con conseguente calo della produttività.

QUANTO CONTRIBUISCE L’ITALIA NELLA LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI?

Dato che i cambiamenti climatici sono un problema mondiale, possiamo continuare questo giochino delle percentuali per calcolare quanto contribuisce, oggi, l’eolico italiano alla lotta ai cambiamenti climatici. Se oggi l’eolico soddisfa l’1,45% del fabbisogno energetico italiano, e l’Italia consuma lo 0,97% dei consumi mondiali, possiamo dire che l’eolico italiano contribuisce a soddisfare lo 0,014% dei consumi energetici mondiali, cioè una parte su settemila (infatti: 1,45% x 0,97% = 0,014%). Ma in realtà il contributo è ancora più basso: le statistiche ci dicono che le emissioni di CO2 non dipendono solo dalla produzione di energia, ma anche da altre attività umane (agricoltura, allevamenti, rifiuti, ecc.). Precisamente il contributo del settore energia alle emissioni di CO2 in Europa è circa del 77% (dati Eurostat). Perciò, possiamo dire che l’eolico italiano contribuisce a ridurre le emissioni mondiali di CO2 dello 0,01%, cioè una parte su diecimila (infatti: 0,014% x 77% = 0,01%).
Evitiamo, per carità di Patria, di calcolare quanto sarebbe modesto il contributo di un impianto eolico situato sul nostro Appennino, sarebbe una lunghissima sequenza di zeri dopo la virgola. Con questo non vogliamo dire che le rinnovabili siano inutili, possono avere un’importanza locale a certe condizioni. Vogliamo solo ribadire di pensarci bene prima di distruggere la natura delle nostre montagne, visto il risultato così misero che se ne ottiene in cambio.

RICORDIAMOCI CHE IN APPENNINO NON C’E’ VENTO!

Per renderci conto della bassa ventosità dell’Appennino possiamo ricorrere alle mappe della ventosità dell’European Wind Atlas, dalle quali si vede chiaramente che la ventosità è molto scarsa sull’Appennino (siamo nella zona 1 su una scala di 5), ma anche le altre regioni più ventose d’Italia (Sud e isole) sono molto meno ventose rispetto all’Europa settentrionale e occidentale.
Nella prima versione cartacea dello European Wind Atlas erano riportati dati di ventosità di varie località europee e italiane, ma non erano neanche prese in considerazione le località dell’Appennino centro-settentrionale, considerate improduttive ai fini delle installazioni eoliche. (QUI)

European Wind Atlas: mappa di ventosità dell’Europa

Osservando la mappa, ci si rende conto facilmente che nel ventoso Nord Europa (Danimarca, Scozia, Irlanda, ecc.) la produttività di un impianto eolico è quasi doppia rispetto all’Italia. In pratica, la stessa pala eolica che si vorrebbe piantare sull’Appennino, se piantata in Danimarca produrrebbe circa il doppio di energia (nell’unità di tempo n.d.r.)! E siccome per costruire impianti eolici si utilizzano energia e materie prime preziose, sarebbe logico, allo scopo di “salvare il pianeta” (visto che il problema climatico è globale) impiegare al meglio gli impianti, cioè installarli solo dove producono di più.
E allora, ci si chiede: perché le aziende vengono ad investire da noi anziché andare in Danimarca? Perché sanno che in Italia guadagnano di più: c’è Pantalone che paga incentivi, si assume tutti i rischi, fa investimenti sulla rete elettrica, i politici spesso sono facili da convincere. Evidentemente i danesi, gli scozzesi, gli irlandesi sono più furbi.
Ricordiamo che in alcuni Paesi (Germania, Olanda) da qualche anno si realizzano impianti eolici senza incentivi pubblici. E alcune imprese in quei Paesi hanno rinunciato ad investire nell’eolico perché giudicato poco remunerativo. Se in Italia non ci fossero gli incentivi pagati dai cittadini non verrebbe proprio nessuno ad investire. È un mercato drogato.

IL TRUCCO DELL’ENERGIA DELLE FAMIGLIE

Un altro trucchetto utilizzato spesso dai promotori dell’eolico (non solo in Italia per la verità, anzi il copyright è del Nord Europa) è rapportare la produzione di energia elettrica al fabbisogno delle famiglie. Non c’è nulla di inesatto, intendiamoci: si considera la produzione dell’impianto eolico e si fa il rapporto con il consumo elettrico medio di una famiglia italiana (2700 kWh/anno, secondo Terna). Però l’affermazione si presta a fraintendimenti che è bene chiarire.  Si dice, ad esempio: “l’impianto eolico produrrà energia elettrica in misura tale da soddisfare i consumi elettrici di circa 30 mila famiglie”. Se in una certa area abitano 30 mila famiglie, un ingenuo potrebbe pensare che l’impianto eolico sia in grado di risolvere tutti i problemi energetici della zona interessata. A parte il fatto (già spiegato) che i consumi elettrici sono solo il 20% dei consumi totali (quindi, semmai, sarebbe risolto solo il 20% del problema), bisogna sapere che i consumi elettrici in una certa area geografica non sono dati solo dai consumi domestici, ma soprattutto da tutti gli altri servizi (industrie, attività commerciali, scuole, ospedali, uffici pubblici, illuminazione, ecc.).

I consumi elettrici domestici (dati Terna, 2022) sono solo il 21,8% dei consumi elettrici totali. Quindi un impianto eolico che fornisce energia elettrica corrispondente al fabbisogno di 30 mila famiglie, fornisce solo un quinto dell’energia elettrica necessaria e un venticinquesimo (cioè, il 4%) dell’energia totale necessaria, elettrica + termica.

LE PALE EOLICHE NON SONO RICICLABILI

Le pale eoliche sono realizzate quasi sempre in materiale composito, costituito da fibra di vetro e resine epossidiche, praticamente impossibile da riciclare. Hanno una vita utile di 20-25 anni, dopo devono essere
sostituite e smaltite. Ovviamente l’industria sta cercando di trovare un modo per riciclarle, ma per il momento non sembra aver trovato una soluzione fattibile;  non dimentichiamo mai che per riciclare dobbiamo consumare energia, il che riduce ulteriormente la convenienza dell’eolico ai fini della salvaguardia del pianeta.
Oggi le pale eoliche finiscono in discarica. Considerando che ogni pala può essere lunga 60 metri o più, e che in ogni torre ne sono presenti TRE, ci si rende facilmente conto della quantità enorme di materiale da smaltire. Ogni pala equivale in pratica a smaltire un megayacht, che più o meno è fatto dello stesso materiale.
Qualcuno ha proposto anche di realizzare le pale eoliche in legno lamellare, ma, viste le dimensioni, significherebbe abbattere alberi in quantità. Abbattere alberi per difendere l’ambiente, vi sembra una buona soluzione?

Cimitero di pale eoliche negli USA

UCCELLI A FETTE

La velocità periferica dell’estremità di una pala eolica in movimento può arrivare a 300 km/h: facile capire che i poveri uccelli possono essere colpiti e uccisi. Come documentato in Germania dall’associazione CABS (Komitee gegen den Vogelmord), l’impatto sull’avifauna è notevole, e i dati sulle uccisioni sono fortemente sottostimati perché gli imprenditori dell’eolico tendono a nascondere i dati (se trovano un rapace morto non vanno certo a raccontarlo in giro). Ovviamente l’impatto è molto più pesante se l’impianto eolico è situato in una zona ricca di biodiversità.
Alcuni stanno tentando di ridurre la mortalità degli uccelli attraverso dissuasori acustici. Quindi aggiungendo altro rumore e fastidio a quello che già c’è, e che non è affatto basso.

da documenti della General Electric (industria americana che produce impianti eolici): quanto rumore produce una turbina elettrica e a quanti metri di distanza si diffonde

La potenza sonora emessa dagli impianti, dichiarata dagli stessi costruttori (si vedano ad esempio le schede tecniche della dita Vestas), è di circa 105 dB (decibel). Ovviamente il rumore diminuisce allontanandosi dall’impianto, ma a 500 metri di distanza rimane comunque alto: 40 dB (rumore di un frigorifero). Si veda l’immagine seguente realizzata dalla General Electric (industria americana che produce impianti eolici, quindi non
certo degli attivisti anti-eolico): oltre a riportare i livelli di rumore che abbiamo detto, si raccomanda di non installare impianti eolici a meno di 300 metri dalle abitazioni più vicine, per limitare il disturbo da rumore alle persone (ovviamente, agli animali non pensa nessuno).
Gli uccelli, che volano anche in vicinanza delle pale, si troveranno quindi esposti a rumori fino a 105 dB, laddove in precedenza regnava il silenzio della natura. Non vi sembra un impatto ambientale questo? Come afferma l’ARPAT Toscana (QUI) un rumore di 105 dB è veramente assordante: una via di mezzo tra un concerto rock e il passaggio di un treno. Anche 40 dB non sono pochi, un ronzio in grado di causare nell’uomo “possibile deconcentrazione” (ricordiamo che dovremmo trovarci in aperta campagna).

Tabella dei rumori di ARPAT

QUALI RINNOVABILI?

Le fonti rinnovabili sono preziose e vanno utilizzate con intelligenza. Queste fonti si basano sull’utilizzo delle risorse naturali locali (sole, vento, acqua, calore della terra) e ogni Paese deve sfruttare le risorse di cui dispone maggiormente.
Questo discorso vale anche per l’eolico. Nei Paesi in cui la ventosità è abbondante e costante (come i Paesi del Nord Europa) è giusto che questa risorsa venga sfruttata a pieno. Ma tra questi Paesi non c’è l’Italia. Da noi, come abbiamo visto, il vento è scarso quasi ovunque, le uniche regioni con ventosità decente sono già ampiamente sfruttate e da questo sfruttamento ricaviamo un misero 1,45% dell’energia che ci serve. Invece in Italia abbiamo disponibilità di sole in abbondanza, in alcune aree è possibile sfruttare la geotermia e l’idroelettrico, altre zone hanno disponibilità di biomassa da utilizzare localmente.

Il fotovoltaico ha ancora enormi potenzialità di sviluppo in aree urbanizzate: coperture di edifici, aree industriali, parcheggi, autostrade e ferrovie, ecc., evitando assolutamente di occupare aree agricole, come dimostrano parecchi studi. Altra fonte che presenta grandi possibilità di sfruttamento è il solare termico, oggi utilizzato pochissimo.

Poi non si parla mai della fonte rinnovabile più importante: il risparmio energetico. Avete mai sentito i promotori dell’eolico proporre qualcosa di concreto per ridurre gli sprechi di energia?
Ricordiamo poi che l’eolico è la fonte rinnovabile con maggiore impatto ambientale (sarebbe meglio dire con maggiore impatto naturalistico). Infatti, a differenza di altre rinnovabili, l’eolico deve essere installato inevitabilmente lontano dalle aree abitate, perché gli impianti sono ingombranti, rumorosi, creano interferenze
elettromagnetiche. Ma le aree disabitate sono spesso anche le aree di maggior pregio naturalistico. Quindi un impianto eolico va sempre ad alterare un’area che in precedenza non era urbanizzata.

Un impianto eolico è alto come un grattacielo di 50 piani (e  gli ultimi modelli di pale molto di più, in quanto raggiungono i 230 m di altezza n.d.r.). Nessuna legge urbanistica permetterebbe la costruzione di un ecomostro di 50 piani  in un’area disabitata di pregio naturalistico. Eppure, con gli impianti eolici questo è possibile, perché “dobbiamo salvare il pianeta”.

Con questa nota abbiamo voluto dimostrare come tale giustificazione non stia in piedi. Le informazioni sono tratte dalle seguenti fonti ufficiali:

Consumi energetici in Italia, Europa e mondo (statistiche Eurostat e International Energy Agency) :
htps://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/nrg_bal_c__custom_11634672/default/table?lang=en

https://www.iea.org/data-and-statistics/data-tools/energy-statistics-data-browser?country=WORLD&fuel=Energy%20consumption&indicator=TFCbySource

Bilancio elettrico italiano 2022 (Terna):

https://www.terna.it/it/sistema-elettrico/transparency-report/energy-balance

htps://download.terna.it/terna/ANNUARIO%20STATISTICO%202022_8dbd4774c25facd.pdf

Bilancio energetico italiano 2022 (MASE):

Emissioni di gas serra per settori in UE (Parlamento Europeo):
https://www.europarl.europa.eu/resources/library/images/20211026PHT15878/20211026PHT15878_original.jpg

In copertina: un disegno di Annette Seipp

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C’era una volta un’idea di Europa

C’era una volta un’idea di Europa

L’Europa dei 6 paesi fondatori è stato un grande sogno per intere generazioni, dopo due guerre mondiali fratricide. Un’ Europa che è stata trainata sin dalle origini dalla Germania (pur sconfitta nella seconda guerra mondiale) e a cui gli americani avevano imposto il federalismo, con l’idea di indebolirla come entità unica statuale. Invece è diventata la leader in Europa e finché aveva come primo ministro Angela Merkel ambiva a diventare un polo mondiale autonomo tra Cina e Usa.

Agli americani un’ Europa autonoma non è mai piaciuta. La prima bastonata all’idea di Europa dei padri fondatori è arrivata con la sua nascita monca: moneta e mercato comune, nessuna ambizione statuale comune, nessuna politica estera e difesa comune. Nonostante ciò, l’Europa è cresciuta tantissimo dal 2001 al 2008, “troppo”, al punto che il cambio con l’euro da paritario era diventato 1 a 1,15 a suo favore. Così è arrivata la seconda bastonata, con la crisi dei mutui subprime made in Usa nel 2008 che ci riporta nei ranghi, compreso il cambio dollaro-euro a 1:1.  Malgrado questo,  l’Europa cerca, almeno finchè non esce di scena la Merkel, di rimanere attaccata all’idea originaria di un polo autonomo nel mondo e, come tale, dialogante con la vicina Russia.

Pur alleata degli Stati Uniti, quell’ Europa a trazione tedesca aveva capito che il secolo americano stava tramontando, che era intelligente e utile fare accordi con Russia, Cina (e Brics) per andare verso un secolo XXI che appariva sempre più multilaterale e in cui l’Europa si sarebbe potuta affermare come un “polo” mondiale in virtù non del suo potere militare (che non aveva), ma in virtù della sua civiltà, del suo modello sociale con al centro il welfare e i diritti, mentre potenti e ricchi sono interessati ai soldi, ai mercati, alla globalizzazione, alla finanza come regolatore dell’economia.

L’Europa, già nata “sbagliata” in funzione esclusivamente di moneta e mercati, commette un primo errore nel 2004, allargandosi a 100 milioni di lavoratori dei paesi dell’Est per smania di conquistare nuovi mercati (spinta dagli americani) e sedotta dalla legge dell’euro e dei mercati su cui si concentra, lasciando perdere la sua costruzione come entità politica autonoma nel mondo. Una scelta a favore dei mercati ma in cui finiscono impoveriti i lavoratori del Sud Europa (italiani, greci, spagnoli, portoghesi). L’alternativa? Bastava fare “accordi di associazione” con questi Paesi, invece si è voluto scientemente allargarsi sia per avere più mercati, sia per diluire il potere dei vecchi fondatori, arrivando sin alle frontiere della Russia e così di fatto provocandola.

Nel 2011 il secondo grave errore, seguire la folle idea dei vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Francia, Gran Bretagna) di distruggere il regime di Gheddafi, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo, fornitore di gas, petrolio, a guardia della Sponda Sud, che soltanto sei mesi prima avevamo ricevuto a Roma in pompa magna, che aveva sviluppato come una Svizzera africana il suo paese e aveva in mente una grande alleanza dei paesi nord africani, includente l’idea di una moneta unica. Un progetto che a Italia e Germania andava benissimo e che li avrebbe rafforzati in futuro. Ma ci è stato ricordato che, essendo paesi sconfitti, abbiamo l’obbligo di seguire i vincitori e siamo, pertanto, a sovranità limitata, come già era successo nel 1999 con il bombardamento degli Stati Uniti a Belgrado e la guerra nei Balcani (condannata dall’Onu).

Ora gli italiani, disinformati dai media, credono di essere “neutrali” nella guerra Russia/Ucraina-USA-Nato perché Governo ed opposizione dell’Italia sono contrari (giustamente) ad usare le armi che diamo all’Ucraina contro il territorio russo. Tuttavia, se e quando sarà guerra vera, saremo coinvolti anche noi, che abbiamo oltre 50 basi militari Nato sul nostro territorio, non siamo certo in grado di controllare come usano le nostre armi gli Ucraini, siamo alleati di una Nato che è caduta (come nel 1999) nella “trappola slava” e andiamo come sonnambuli verso la guerra, senza capire perché – come nel primo conflitto mondiale.

Come sempre decideranno gli americani da soli, com’è stato in Afghanistan e prima ancora in Vietnam, Iraq, Libia e Siria, sempre perdendo.

Come siamo arrivati a questo? Ci siamo arrivati grazie alla propaganda che va avanti da due anni sul fatto che è giusto fare la guerra al russo invasore, come se fosse possibile che l’Ucraina potesse scatenare una controffensiva e battere una potenza come la Russia, dotata di 6mila missili nucleari. Montagne di bugie che vanno avanti da due anni e che ora rischiano davvero di portarci alla terza guerra mondiale.

Del resto gli europei senza la Merkel (un gigante rispetto agli altri statisti) non potevano rimediare agli errori americani, i quali prima decidono di andare in guerra (che è un business) e poi si chiedono perchè. I “nuovi arrivati” slavi in Europa, come la Polonia, hanno poi contribuito a rendere la situazione più difficile, alleandosi con gli Stati Uniti e marginalizzando Germania e Italia.

In questa nuova Europa, a trazione slava (polacca e ucraina) e britannica (fuori dall’Europa ma sono pur sempre i genitori degli Usa), che vuole una divisione storica con la Russia per i prossimi decenni, il prezzo più alto lo pagano proprio la Germania e l’Italia. Se prima la Germania era la locomotiva dell’Unione Europea (e il Nord Italia seguiva), il paese più importante, ora non decide più nulla. Il cancelliere Scholtz venne umiliato alla Casa Bianca ancora prima che la guerra cominciasse quando, l’8 febbraio 2022, Biden testualmente affermò:

Se la Russia invade l’Ucraina, e intendo con carri armati o truppe che attraversano il confine, allora non ci sarà più il gasdotto Nord Stream 2, vi porremo fine”. E ad una giornalista che chiedeva: “Ma come lo farete esattamente, dal momento che il progetto è sotto controllo della Germania?”, Biden rispose: “Ve lo prometto, saremo in grado di farlo”. Merkel lo aveva difeso strenuamente dagli attacchi del Congresso e dell’amministrazione Usa: gli ucraini con gli occidentali lo hanno fatto saltare in aria.

Così l’ Europa che abbiamo sognato si allontana, come ben si vede in Medio Oriente, a Gaza, in Nord Africa e nel Sahel. Ci rimane solo la speranza che la storia svolti improvvisamente con un accordo di pace, prima che la voglia di regolare i conti degli USA non ci trascini tutti nella catastrofe.

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Numeri /
Elezioni europee: giovani in direzione ostinata e contraria

Elezioni europee: giovani in direzione ostinata e contraria

The day after. Boom in Europa della Destra. Giorgia Meloni sugli scudi. Tracollo di Macron (che un po’ di destra è anche lui) e cavalcata trionfale di Marine Le Pen. Male anche in Germania. Esulta Ursula von der Leyen, che sarebbe il Centro ma anche lei ultra liberista, perché il prossimo governo  dell’Europa rimarrà probabilmente quello di prima, Sempre atlantista, bellicista, impotente.

Fonte Ministero dell’Interno

C’è però un piccolo dato (fonte Ministero dell’Interno) che racconta qualcosa di diverso. I giovani italiani (18-29 anni) hanno votato a sinistra, e soprattutto per un Europa solidale e di pace.
Fratelli d’Italia, primo partito in Italia con quasi il 29%, tra i giovani dai 18 ai 29 anni scende al 14%, meno della metà. PD, 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra lo precedono nettamente [vedi foto a fianco].

Se poi ci concentriamo sul voto degli Studenti Fuori Sede il dato è ancora più clamoroso.  La lista Verdi Sinistra Italiana – in lista Mimmo Lucano e Ilaria Salis – supera il 40% de consensi. Ecco i dati del Ministero dell’Interno: Alleanza Verdi-Sinistra 40,35 per cento, seguita dalla lista del Partito Democratico (25,47 per cento) e da quella di Azione (10,21 per cento). Seguono poi il Movimento 5 Stelle (7,84 per cento), la lista Stati Uniti d’Europa (7,64 per cento), (3,37Fratelli d’Italia  per cento), Forza Italia (2,33 per cento) e Pace Terra Dignità (1,73 per cento). Con 93 voti, la Lega si è fermata allo 0,53 per cento. Evidentemente il supervotato Vannacci ai giovani non piace. 

I numeri non hanno bisogno di commento. O forse solo uno: i giovani e gli universitari italiani – tanto quotidianamente vituperati, quanto blanditi e corteggiati in tempo di elezioni – non sono dei qualunquisti e neppure degli agitatori. Semplicemente sognano un Italia e un Europa che non c’è.

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Il delitto Matteotti: un fumetto in libreria

Il delitto Matteotti: un fumetto in libreria

A 100 anni dalla morte di Giacomo Matteotti, ucciso da una squadra di fascisti, (ri)esce, in libreria, con BeccoGiallo edizioni, un fumetto a lui dedicato

È il 30 maggio del 1924, quando il deputato socialista Giacomo Matteotti firma, con un discorso alla Camera, la sua condanna a morte. “Tempesta”, come viene chiamato dai compagni di partito per il suo carattere battagliero, ne è consapevole, perché finito di parlare – dopo aver denunciato pubblicamente l’uso sistematico della violenza a scopo intimidatorio usata dai fascisti per vincere le elezioni e contestato la validità del voto – dice ai colleghi: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”.

Pochi giorni dopo, il 10 giugno, viene rapito a Roma. Sono da poco passate le quattro del pomeriggio e una squadra di fascisti guidata da Amerigo Dumini lo preleva con la forza e lo carica in auto, dove viene picchiato e accoltellato fino alla morte, per poi essere seppellito nel bosco della Quartarella, a venticinque chilometri dalla Capitale.

 

Francesco Barilli e Manuel De Carli, Il delitto Matteotti, Beccogiallo edizioni, 2024, 144 p.

“Confiteor, l’uomo che sono diventato”.
Piergiorgio Paterlini presenta a Sala Borsa il suo nuovo libro.

Bologna, Sala Borsa, giovedì 13 giugno, alle ore 18 
“Confiteor, l’uomo che sono diventato”. Piergiorgio Paterlini presenta a Sala Borsa il suo nuovo libro

“Confiteor”. In tutte le librerie


«Confiteor è il racconto dell’uomo che sono diventato, non flusso di coscienza, ma fatti, storie. E l’attraversamento, in settant’anni di vita, di tre secoli, dal mio “Ottocento” a oggi». Piergiorgio Paterlini ci consegna un mondo, non soltanto un libro.
Raccontando di sé − in una confessione sorprendente, spregiudicata, il bisbiglìo a un amico durante una lunga notte − incrocia la sua storia personale con quella di un Paese, tra amarcord e ricerca delle radici, tra romanzo di formazione e la scelta di vivere “dalla parte del torto”, in un turbinìo di episodi e riflessioni, fratture, ricomposizioni, struggimenti, sliding doors e sogni impossibili agguantati con tenacia, accadimenti mai svelati, fino all’approdo cui è arrivato come uomo, come pensatore, come giornalista, come scrittore.
I grandi della letteratura fanno così. Non un’autobiografia, ma un modo tutto particolare di guardare retrospettivamente a sé stesso che coinvolge e rapisce, un “memoriale” commovente e colto che tiene insieme forza romanzesca e narrazione civile, passioni, legami, amori, maestri. E i “secoli” che hanno visto protagonista il suo sguardo di intellettuale dolcemente libero.

Giovedì 13 giugno  alle 18 in Piazza CopertaPiergiorgio Paterlini parla del suo libro Confiteor (Piemme, 2024) con Alessandra Sarchi.
L’incontro è realizzato in collaborazione con Edizioni Piemme e Libreria Il Secondo Rinascimento.

Ingresso libero
Una volta raggiunta la capienza massima consentita non sarà possibile entrare e sostare in piedi.
L’incontro sarà trasmesso in diretta streaming anche sul canale YouTube di Bologna Biblioteche.

In copertina: L’autore, Piergiorgio Paterlini

Le voci da dentro /
Le carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti

Carceri in Emilia Romagna: la relazione del Garante dei Detenuti

Molti paesi europei prevedono una figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà. In Italia, un percorso avviato fin dal 1997 ha portato all’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale alla fine del 2013, ma la nomina del Collegio e la costituzione dell’Ufficio, che hanno consentito l’effettiva operatività, sono avvenuti solo nei primi mesi del 2016.

Il Garante nazionale è un’Autorità di garanzia indipendente a cui la legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà, visitando i luoghi di privazione della libertà. Scopo delle visite è quello di individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle. Dopo ogni visita, il Garante nazionale redige un rapporto contenente osservazioni ed eventuali raccomandazioni e lo inoltra alle autorità competenti.

Anche le regioni ed i comuni possono nominare la figura del Garante sulla base di atti istitutivi che ne definiscono poteri e mandato.

Qui metto a disposizione delle persone interessate uno stralcio della relazione (in fondo il link al testo integrale della relazione) delle attività svolte in Emilia Romagna dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale nell’anno 2023. Il dottor Roberto Cavalieri ha presentato la sua relazione il 16 maggio scorso in Commissione per la parità e per i diritti delle persone.

Mauro Presini

La situazione delle carceri in Emilia Romagna

Casi di suicido, di autolesionismo, danneggiamenti alle strutture, abuso di farmaci, mancato o ritardato rientro da un beneficio, manifestazioni di protesta, un tentativo di evasione, ritrovamento di oggetti non consentiti, radicalizzazioni e violazione delle norme penali. È questa l’impietosa fotografia che emerge nella relazione del garante regionale dei detenuti, che ha illustrato lo scorso 16 maggio in commissione per la Parità e per i diritti delle persone le criticità riscontrate nelle carceri della nostra regione. Una situazione che descrive lo stato di difficoltà dei detenuti e conseguentemente di tutte quelle persone che, a vario titolo, operano in questo tipo di strutture. Su un punto il garante è perentorio: la situazione penitenziaria in Emilia-Romagna impone una ridefinizione delle priorità a partire dal tema del lavoro per i detenuti, che, insieme alla formazione, devono diventare l’aspetto centrale nel percorso rieducativo anche attraverso un maggiore coinvolgimento degli enti territoriali attivi sulle politiche sociali e sulle politiche del lavoro così come sulle politiche abitative.

Le richieste di intervento rivolte al garante, come indicato nella relazione presentata in commissione sull’attività dell’ufficio nel corso del 2023, arrivano a 450. Segnalazioni che riguardano, per fare solo alcuni esempi, i servizi sanitari in carcere, la condizione detentiva, l’accesso alle misure alternative, i trasferimenti, i servizi sociali, il lavoro e il rapporto con la magistratura di sorveglianza.

Il garante riferisce di una capienza regolamentare media nelle carceri della regione pari a 2.981 posti, cifra che contrasta con il dato delle presenze effettive di detenuti che, invece, arrivano in media a 3.466, di cui 158 donne (il 4,55% della popolazione detenuta). Gli stranieri presenti sono in media 1.672 (48,2% sul totale). Da non sottovalutare, poi, il dato sui detenuti semiliberi, in media 68 (di cui 21 stranieri), solo l’1,9% del totale. La questione sovraffollamento – rimarca il garante – porta con sé molti altri problemi, come, ad esempio, garantire a tutti i detenuti percorsi adeguati.

Sempre relativamente all’anno 2023, le carceri emiliano-romagnole sono popolate per lo più da detenuti con condanna in via definitiva (77,6% sul totale), di cui il 73,5% stranieri. I condannati con condanna non definitiva (appellanti, ricorrenti e con posizione mista) arrivano al 9,2%, mentre quelli in attesa di primo giudizio sono l’11,8%. Fra questi in molti hanno un residuo pena ridotto, che consentirebbe l’accesso ai benefici, che in molti casi non viene attivato. Da rilevare, poi, che i detenuti che usufruiscono delle attività formative rappresentano una decisa minoranza. Gli ergastolani, invece, arrivano in media a 173, il 66% a Parma, istituto con presenza di circuiti di alta sicurezza (a partire dai casi di 41bis).

Il garante rileva anche l’aumento di casi di violenza in carcere, con protagonisti i detenuti. Inoltre, segnala eccessi, in casi seppur isolati, da parte della polizia penitenziaria, ricordando il caso di un detenuto di Reggio Emilia aggredito da personale della polizia penitenziaria. Riguardo al problema dei detenuti con disabilità, rimarca come in diversi istituti di pena a questi detenuti non venga garantita sufficiente attenzione.

Particolare, poi l’attenzione al sistema del volontariato carcerario: nel 2023 è stato avviato un percorso (ancora in corso) di incontri che toccherà tutti gli istituti penitenziari della regione, al fine di far conoscere e condividere le buone pratiche attivate.

RELAZIONE_GARANTE_DETENUTI  testo integrale della relazione 

In Copertina: Roberto Cavalieri, Garante dei Detenuti dell’Emilia-Romagna

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Daniela Pes ti fa cantare in una lingua che (ancora) non conosci. Racconto di un concerto

Daniela Pes ti fa cantare in una lingua che (ancora) non conosci

L’artista emergente Daniela Pes si è esibita mercoledì 5 giugno 2024 nella nostra città come ospite di “Ferrara sotto le stelle”. Hanno suonato con lei sul palco Mariagiulia Degli Amori e Maru Barucco. Il suo album Spira, pubblicato nel 2023 da Tanca Records, ha vinto il Premio Tenco come miglior opera prima. 

Io e gli altri spettatori arrivati di buon’ora ci sediamo per terra, sul selciato del cortile del Castello Estense; sopra le nostre teste il sole delle otto di sera lavora dolcemente senza togliere il fiato. Da anni, in questo ambiente quattrocentesco, si svolge il festival Ferrara sotto le stelle; così, nel giugno e nel luglio del passato, sul palco che osservo sorseggiando il mio bicchiere di pignoletto hanno suonato tanti musicisti di culto che rinuncio a elencare. Mi limito a sbirciare quella ragazza in prima fila che gli volge con ostentazione le spalle per leggere più comodamente il suo libro, appoggiando la schiena alla transenna. Non sono sicuro di aver dato una bella risposta al mio amico fotografo Luca Pasqualini che, non conoscendo (ancora) bene l’artista per cui siamo qui stasera, mi ha fatto la madre di tutte le domande, nel tentativo di farsi un’idea sul suo stile: che genere fa?

Pubblico nel cortile del Castello (foto di Sara Tosi)

Siamo pochi, a dir la verità, anche se gli organizzatori hanno annunciato il sold-out da diverse ore; mi do la spiegazione che dipenda dalle dimensioni del cortile, che lo rendono adatto soltanto a una quantità di pubblico ridotta, ma cambio idea un’ora dopo, intorno alle nove e mezza, quando la cantautrice che ci traghetta dai toni del tramonto ai colori della notte, scende dal palco, dicendo che anche lei non vede l’ora di ascoltare Daniela Pes, e io, voltandomi, mi accorgo che dietro, affianco e tutto intorno a me si è riempito di persone. Fra le teste, i corpi, le voci e gli sguardi di chi attende la cantante sarda riconosco il candidato sindaco del centrosinistra Fabio Anselmo, che partecipa alla contesa elettorale del nostro Comune. Con il fidato zainetto sulle spalle e la camicia azzurra, sta conversando animatamente in una zona un po’ defilata dalle parti del bar. Io, che non rinuncerei alla mia posizione, attiro l’attenzione di Luca che, vivendo con meno stress la questione, si sposta volentieri per scattargli una fotografia.

I ragazzi della squadra che allestisce lo stage portano dietro le quinte gli strumenti di Birthh, che ha dato il via alla serata con un concerto di apertura, e preparano la scena per l’arrivo di Daniela Pes: il computer, il mixer, i sonagli, il tamburo… Sulla maglia di uno di loro c’è disegnato l’astronauta russo Jurij Gagarin; è ritratto in tuta spaziale, il casco CCCP e la scritta: non c’è nessun dio quassù. Mentre loro si affannano e il fonico risolve gli ultimi capricci tecnici, mi vengono in mente i racconti di Vasco Brondi che non ancora ventenne montava e smontava i palchi di questo festival, anche quando erano venuti i Radiohead a suonarci nel 2003.

Daniela Pes a Ferrara
Vista dall’alto della serata

Rombo di tuono e luce di lampo, Daniela Pes si presenta a noi in silenzio. Mette le mani sul mixer; le due musiciste che la accompagnano si dispongono al suo fianco. Tutte e tre in abito nero, il loro sguardo si rivolge a un punto indefinito lontano, oltre a noi spettatori. Le prime note, alle nove e cinquanta, sono della canzone Ora. È il solo brano in cui la musica non è composta da lei, bensì da Iosonouncane, il produttore, pure lui sardo, del disco. I loro percorsi artistici sono intrecciati anche perché, parlando dei testi, entrambi hanno immaginato una lingua nuova per scriverli. Daniela ha cominciato il suo percorso lavorando sulle poesie in dialetto gallurese di un prete del Settecento che portava il suo stesso cognome – Pes. Col tempo ha fatto una scrematura, arrivando a mantenere di quelle poesie solo un nucleo di lingua arcaica; e ha sviluppato la propria cifra stilistica mescolando a ciò una serie di linee melodiche complementari di sua invenzione.

Iosonouncane ha fatto qualcosa del genere nel suo terzo album, in cui i testi sono una commistione di quattro lingue esistenti diverse.

Termino il pignoletto e, come fa il ragazzo vicino a me, infilo alla buona il bicchiere di plastica robusta nella tasca dei pantaloni, per liberarmi le mani e percepire più intensamente i suoni che infondono ritmo ai piedi e alle gambe, al collo e alla testa. Un trio di ragazze alle mie spalle già non riesce a star fermo, e la cosa mi mette di buon’umore perché, a proposito della domanda del mio amico Luca, la vera risposta che volevo dargli è che la musicista sarda ha fatto un disco di canti sacri che chiedono di essere danzati.

Daniela Pes
Maru Barucco
Mariagiulia Degli Amori

Mentre scorrono Ca mira, Illa sera e Carme sento che le amiche alle mie spalle, e una di loro in particolare, canta gioiosamente i versi nella lingua inventata di Daniela Pes e anche io decido di lasciarmi andare pur senza sapere che cosa sto dicendo. È una sensazione simile a quella che ho provato alla cerimonia della capanna sudatoria. La donna che mi ospitava nella piccola isola della Danimarca in cui ho vissuto per un periodo amava purificarsi con questo rito. Nella versione che io ho sperimentato con lei, l’officiante intonava degli inni nella lingua dei nativi americani, precisamente della tribù Lakota, suonando ferocemente il tamburo. Lui, Jens, aveva imparato l’idioma e i precetti del rituale trascorrendo molto tempo in America con loro, mentre lei, Daffy, era ancora un’apprendista ai primi passi. Cantando gli ultimi fonemi della canzone di Daniela Pes che sta per terminare, mi sento Daffy che cerca di ricalcare le liriche degli indiani. A questo brano ne segue un altro, un’esplosione strumentale di dieci minuti, in cui non c’è niente da intonare. Dopodiché la cantante sarda e la musicista alta e bionda, quella che suona il tamburo, lasciano sul palco l’altra, bruna e piccolina, a sperimentare dei suoni extra-album con i sintetizzatori.

Quindi tutte assieme suonano le ultime tre canzoni; poco prima delle undici terminano il concerto senza aver detto una parola che non fosse di canto; la lunga ovazione finale la accolgono con emozione e ripetuti inchini di ringraziamento come si fa a teatro. Mi soffermo senza fretta di andarmene, nella speranza che magari faranno un’ultima canzone, ma in molti hanno già cominciato a tagliare la corda, ed è chiaro che non ci sarà nessun bis; anche il ragazzo con la maglia dell’astronauta e i suoi colleghi hanno ripreso a darsi da fare e stanno sgomberando la scena dagli strumenti musicali. Mi incammino anche io: attraverso la piazza ciottolata, imbocco la via dei locali, dei bar e dei ristoranti etnici. Degli uomini asiatici, come risposta al caldo urbano improvviso, si sono seduti placidamente ai tavolini, coi piedi nudi per terra e le infradito lasciate poco più in là. Supero dei ragazzi miei coetanei, universitari forse, e sento con un pizzico di sorpresa che stanno parlando di politica e delle elezioni imminenti. Mi torna in mente il candidato sindaco che ho visto al concerto e mi chiedo come abbia trovato l’esibizione di Daniela Pes, se gli sarà piaciuto il concerto.

Un momento del concerto
L’artista in scena

Per quanto mi riguarda questo non era il suo primo live a cui assistevo, l’avevo ascoltata a Milano poche settimane fa al festival Mi Ami. Avevo insistito coi miei amici perché o non la conoscevano o non ne erano incuriositi. Avevo avuto la meglio e c’eravamo andati, ma in quella gran confusione di oltre trenta artisti in poche ore e cinque palchi, non eravamo riusciti ad apprezzarla come volevo. Ricevo su whatsapp un messaggio da Luca, il mio amico fotografo, che dice: “Mi è piaciuta, molto, la riascolterò sicuramente”. Ne sono contento, non la considero una cosa scontata. In effetti, per godere di una musica sofisticata come la sua, credo che l’atmosfera del Castello Estense e di Ferrara sotto le stelle sia l’ideale. Per me ci è voluto tempo, a dire la verità. Ho iniziato ad ascoltarla in Danimarca; sentivo sei, sette ore di musica al giorno: tante playlist, tanta NTS Radio, non molti album interi. Verso la fine di quell’esperienza scandinava stavo già transitando verso una nuova esperienza di ascolto (più selettiva, con momenti di digiuno dalle canzoni, ovvero di silenzio); rientrato a Ferrara, ho ascoltato quasi soltanto dei dischi per intero. Fra questi c’è Spira, che se vi piace camminare da soli alla sera per le vie del centro o della periferia sarà un compagno dolcissimo, ma qualcosa, anzi qualcuna, una ragazza alla ricerca del proprio equilibrio interiore, mi suggerisce che va bene anche se vi piacere sudare, cantare, battere il tempo su un tamburo… insomma, se pensate di partecipare a una capanna sudatoria in futuro, please, remember the nameis it music or new vodoo?

Reportage di Emanuele Gessi, fotografie di Sara Tosi

Numeri /
Flussi regolari di immigrati o criminalità organizzata?

Flussi regolari di immigrati o criminalità organizzata?

L’Italia sprofonda da 10 anni in un calo demografico spaventoso. La cosa è stranota. Le soluzioni sono due:

1.  aspettare che questo tracollo abbia effetti devastanti sullo sviluppo, l’occupazione regolare, con una drastica riduzione delle imposte (le entrate dello Stato) e, di conseguenza, con una drastica riduzione del welfare (meno sanità, meno scuola, meno pensioni, meno per tutto ciò che è bene comune e più poveri) come, peraltro, vorrebbero alcuni partiti, oppure

2.  attivare flussi regolari in modo da dare risposta a quelle 462mila domande di lavoro delle imprese per il solo 2023 e costruire un paese (come già sono tanti in Occidente) dove convivono in pace una maggioranza di italiani e minoranze di stranieri occupati regolarmente che rispettano le nostre leggi e danno un enorme contributo al nostro sviluppo.

E cosa fa il Governo Meloni? Ha alzato il numero dei flussi regolari di immigrati da 69.700 posti del 2001 a 82.705 del 2003 (e questo è positivo) anche se sono molto meno delle richieste delle imprese (ben 462mila), ma non ha cambiato le procedure (demenziali) di reclutamento legate al “click day, un giorno in cui chi arriva prima -con una procedura telematica- prenota l’immigrato richiesto. Il fatto è però che per 100 che riescono ad arrivare primi, gli immigrati che poi vengono realmente assunti sono solo 23 (nel 2003 14mila su 82mila). Le ragioni sono:

1) ritardi delle nostre ambasciate all’estero a rilasciare il visto (per venire in Italia ci vuole quasi sempre il visto e i visti sono stati solo 55mila nel 2022 (su 69mila) e 58mila nel 2023 (su 82mila);

2) ritardi delle prefetture a controllare le pratiche (i giorni sono stati ridotti a 20 dal Governo Meloni),

per cui il risultato finale è che ne arrivano pochissimi (14mila pari al 23% delle domande e 3% delle richieste effettive delle imprese) e quei pochi sono in mano, almeno per la metà, alla criminalità organizzata, cioè imprese che hanno pochi addetti e che ne chiedono 100, finti imprenditori morti, partite iva false. In sostanza false assunzioni organizzate da italiani per sfruttare poveri immigrati che finiscono nelle mani della criminalità organizzata.

Per capirlo basta vedere la tabella allegata. E mai possibile che Napoli, una delle città col più basso tasso di occupazione in Italia richieda immigrati pari al 24% dei suoi occupati mentre Milano l’1,6%.
E così le città che chiedono più immigrati sono le più disastrate: Napoli, Ragusa, Salerno, Caserta Foggia, Latina, Crotone, Matera, Cosenza, Avellino, Rovigo…con Campania e Calabria ai primi posti. Come noto sono le aree a più alta occupazione e sviluppo in Italia! E così regolarizzano immigrati del Bangladesh quasi sempre in assenza dei requisiti richiesti che finiscono poi nelle mani della criminalità organizzata. Basterebbe copiare dalla Germania o da qualche paese serio, ma si sa che siamo governati da incompetenti.

Sta tutto scritto in modo dettagliato nel rapporto “Ero straniero” di Actionaid presentato pochi giorni fa da parte di Asgi, Flai Cgil, Chiese evangeliche, Oxfam e molte altre associazioni non profit che chiedono di riformare dal 2017 una procedura a dir poco demenziale con una iniziativa popolare firmata da 90mila persone. Nessun Governo ha fatto nulla, tantomeno quello attuale.

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Elezioni Europee in Italia: il governo perde un milione di voti, i pacifisti avanzano

Elezioni Europee in Italia: il governo perde un milione di voti, i pacifisti avanzano

Il risultato delle elezioni europee conferma una tendenza generale: metà dell’elettorato non va votare. Ma come al solito tutti hanno vinto, secondo il principio che basta guardare i dati che si vogliono guardare e , soprattutto, non guardare i voti che si sono presi, che sono lo specchio reale ed obiettivo del consenso che si ha.

Così, mentre i commenti main stream si soffermano sulle percentuali (che nascondono con abilità e nonchalance la realtà dei fatti) le persone serie e posate dovrebbero andare a leggere i voti. Per farlo sembra ragionevole confrontare i dati delle recenti elezioni con le politiche, in particolare con le elezioni della camera dei deputati del 2022.

Fratelli d’Italia perde voti: insieme al Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia è il partito che ha perso più voti, esattamente 600mila; è il primo partito ma l’entusiasmo immediatamente manifestato da Giorgia Meloni non è giustificato. Per giunta  la nuova alleanza tra Forza Italia e Noi Moderati ha perso 200mila voti e la Lega ne ha presi 350mila circa in meno. In totale il governo che sta cantando vittoria ha perso oltre un milione di voti.

Partito Democratico, avanti piano: anche qui a guardare le percentuali sembra un grande successo, a guardare il numero di voti si scopre che il PD ha preso solo 250mila voti in più. Elly Shlein che ha cautamente portato il partito su alcune posizioni più di sinistra può essere contenta.

Movimento 5 stelle, continua a scendere: 2 milioni tondi di discesa nelle preferenze degli elettori: il ritorno ad alcuni temi classici degli inizi e la scritta “pace” dentro il simbolo non hanno impedito agli elettori di punire un movimento anti-sistema che quando è stato al governo non ha realizzato la maggior parte delle promesse elettorali.

Avanzano i pacifisti: nonostante i movimenti pacifisti non siano riusciti ad esprimere una lista comune come molti  pacifisti italiani  si aspettavano ma si siano divisi in varie liste, l’avanzata dell’Alleanza Verdi Sinistra è stata di oltre mezzo milione di voti mentre la lista Pace Terra Dignità, esclusa dagli eletti per l’incomprensibile soglia di  sbarramento, ha preso almeno centomila voti in più di quelli che aveva preso alla Camera la lista di Unione Popolare, e questo nonostante l’assoluta assenza dalle reti televisive e radiofoniche.  A questi voti vanno aggiunti anche quelli delle altre liste che facevano proposte chiaramente pacifiste (Libertà e Democrazia Sovrana e Popolare in totale altri 300mila voti). Se in questo conto volessimo considerare anche i voti assegnati alM5S potremmo dire che il pacifismo ha ottenuto circa 5 milioni di voti.

Astensionismo: ancora una volta la percentuale di chi non vota è salita, segno evidente che la sfiducia nella politica non ha freno. La propaganda sottile verso il non voto, dietro ai proclami retorici alla “partecipazione democratica” ha vinto una volta di più. Ma dietro l’astensionismo ci sono fenomeni molto diversi, dalla motivazione politica, alla disillusione, al menefreghismo, alla convinzione profonda dello scippo che altri poteri hanno fatto alla politica, in primis le grandi lobby finanziarie. Quello che resta è il fatto che meno gente vota (e non vota per i rompiscatole)  e più per i potenti è facile comprare eletti già “addomesticati”. Si spende meno…

In copertina: Foto di Pexels

Prometeo, Epimeteo e…Apometeo.

Prometeo, Epimeteo e… Apometeo

Nati da Giapeto – figlio di Urano e Gea – e da Climene – figlia di Oceano –, Prometeo e il fratello Epimeteo sono Titani, esseri appartenenti alla generazione divina precedente a quella di Zeus e degli altri dei olimpici: come si sa, nei miti (così come nella scienza), non c’è fine all’origine!

Epimeteo sta, etimologicamente, per «colui che pensa dopo aver agito» e Prometeo, al contrario, per «colui che pensa prima di agire».

Prometeo è senza dubbio il fratello più noto, in quanto è ricordato come colui che ha donato il fuoco agli esseri umani.

Dunque la storia della nostra specie, secondo la cosmogonia greca, inizia dai due fratelli Titani e tutto, secondo quanto vedremo, potrebbe concludersi grazie al “terzo” dei fratelli Titani, il meno conosciuto Apometeo, il fratello che ci servirebbe oggi: «colui che pensa più lontano per spronare ad agire oggi».

Come avrete capito Apometeo non è mai esistito: non è un Titano “vero” come gli altri due, ma in un tempo di fake news e di vere app chi potrà mai preoccuparsi di un “falso Titano”?

Andiamo con ordine. Partiamo dai due fratelli coinvolti nella nascita della nostra specie, secondo quanto ci viene raccontato da Platone nel Protagora (320 C – 324 A).

Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali, cioè tutte le specie animali compresa la nostra. “Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono mescolando… terra e fuoco e ordinando a Prometeo e a Epimeteo di distribuire con misura, a ciascuna specie vivente, appropriate facoltà ”.

Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito” – disse – “tu controllerai…”. Così nella distribuzione, Epimeteo decise di dare ad alcuni la forza, mentre ad altri destinò la velocità; ad alcuni fornì artigli, denti robusti,  mentre altri furono dotati di caratteristiche mimetiche, nascondigli sicuri e astuti accorgimenti a garanzia della propria sopravvivenza.

Ma Epimeteo non si rivelò affidabile: avendo consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione non si ritrovò nulla da assegnare al genere umano. Quando giunse Prometeo per controllare la distribuzione, si accorse di questa disparità e che il genere umano era nudo, scalzo, privo di giacigli e armi di difesa, in una parola, destinato a sicura e veloce estinzione.

Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce e quindi Prometeo, non sapendo come porre rimedio all’errore del fratello, rubò a Efesto e ad Atena il fuoco e la perizia tecnica per donarli all’uomo.

Prometeo venne punito dagli dei per il furto, ma da quel momento la specie umana divenne partecipe della sorte divina e in primo luogo, unico fra gli esseri viventi, cominciò a percepire la presenza del divino e a credere agli dei. Inoltre, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, inventò case, vestiti, calzari, giacigli, l’agricoltura e la metallurgia.

La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve. Allora gli individui della specie cercarono di unirsi per difendersi insieme e costruirono luoghi fortificati: nacquero le mura e le città. Ma ogni volta che stavano insieme finivano per commettere ingiustizie gli uni contro gli altri e, dividendosi di nuovo, morivano.

Zeus dunque, temendo l’estinzione della stirpe umana, inviò Ermes per consegnare agli uomini le due cose fondamentali per vivere insieme: il senso del pudore (aidos) e il senso di giustizia (dike) . “A differenza delle doti artistiche e tecniche queste due cose distribuiscile a tutti!” – disse Zeus a Ermes – “Che  tutti ne siano partecipi, in quanto non esisterebbe la comunità, se solo pochi fossero partecipi di pudore e giustizia”.

Per questo motivo, conclude Platone nel Protagora, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura, di salute o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a chi è competente la facoltà di dare pareri e prendere decisioni. Quando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi del senso di pudore e del senso di giustizia.

Ma arriviamo per l’appunto ad oggi e alla necessità di un altro Titano che per la verità introduco in modo surrettizio grazie a una “parabola” del filosofo tedesco Günther Anders riportata in un piccolo ma denso libretto di Jean-Pierre Dupuy (Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo,  Donzelli Editore, Roma 2006, pg.8).

Apometeo è il “fratello” più vecchio di Prometeo ed Epimeteo, Titano dimenticato, perché profeta di sventura, che annunciava l’imminenza di una catastrofe (un vero e proprio Diluvio Universale!), che però non arrivava e al quale quindi nessuno più prestava attenzione.

Un giorno decise di provare una cosa nuova. Entrò nella città, dove il senso di pudore e quello di giustizia erano praticamente scomparsi, e vedendo che tutti, indistintamente, davano pareri sulle epidemie, sui cambiamenti climatici e sulla intelligenza artificiale, cominciò a raccontare agli abitanti della città di una catastrofe che si era verificata e molti, radunatisi intorno a lui, gli chiedevano conto di quanti fossero i morti e di chi fosse morto.

Apometeo rispose che erano morti in tanti quanti erano gli abitanti della città e “…con gran divertimento di coloro che lo ascoltavano disse che quei morti erano loro. E quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani”.

Approfittando dello sconcerto che aveva creato, Apometeo continuò dicendo: “dopodomani la catastrofe sarà una cosa che sarà stata. E quando la catastrofe sarà stata, tutto quello che ora c’è non sarà mai esistito. Perché quando tutto verrà cancellato dalla catastrofe, sarà troppo tardi per ricordarsene, dato che non ci sarà più nessuno”.

“Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi. Dopo di che se ne tornò a casa”. A sera un gruppo di medici e infermieri bussarono alla sua porta e gli dissero: “lascia che ti aiutiamo con questo vaccino e con la nostra arte: se la catastrofe di domani è una epidemia potremmo esserti utili adesso, cosicché quello che hai detto diventi falso.”

Più tardi un gruppo di imprenditori, sindacalisti e  governanti si aggiunsero agli altri dicendo: l’aria sta cominciando a diventare irrespirabile, lascia che ti aiutiamo anche noi perché quello che hai detto diventi falso. E più tardi ancora degli hackers bussarono alla sua porta e dissero: la conoscenza sta scomparendo così come la coscienza e la verità, lascia che anche noi possiamo darti una mano perché diventi falso quello che hai detto.

Questa storiella titanica ci invita dunque a una inversione temporale per stabilire una reciprocità tra il presente e il futuro: vederci nel presente, con le esigenze di uno sguardo al futuro che saremo noi stessi a generare.

Perché può darsi che il futuro non ci stia aspettando da qualche parte, come pensiamo, o che sia là a vederci arrivare da qui a qualche anno in avanti ma, soprattutto, potrebbe darsi che “questo futuro” non abbia bisogno di noi e che non sia collocato così lontano da noi, ma è qui, presente, seppure… invisibile.

Siamo noi ad aver bisogno del futuro perché è ciò che dà senso a quello che facciamo. Proprio ora.

Magari recuperando un minimo di aidos e di dike.

Cover: particolare del sarcofago di Prometeo e la creazione dell’uomo, Pozzuoli su licenza Wikimedia Commons

 

DA CHE PARTE STAI?
Appello per la fine immediata delle 23 misure cautelari contro compagne e compagni di Bologna

Periscopio aderisce e rilancia la campagna ” Da che parte stai ” per la fine immediata delle 23 misure cautelari contro i giovani del movimento studentesco di Bologna_

Dal 4 giugno 23 persone, attive nei movimenti sociali di Bologna, sono sottoposte a misure cautelari, 13 di loro hanno ricevuto un divieto di dimora, ossia il divieto di poter entrare in città. Il luogo in cui vivono, lavorano, studiano, fanno attività politica, amano, costruiscono relazioni e mondi.

Un esilio a tempo indeterminato che è stato annunciato e applaudito con gioia da vari pezzi del Governo (dal ministro Salvini a Galeazzo Bignami) e della destra cittadina e regionale. Ai loro occhi, e non solo ai loro, le lotte sociali che queste 23 persone hanno portato avanti, insieme a centinaia e migliaia di altre, sono infatti pericolose. Sono pericolose perché mettono in discussione gli attuali rapporti di potere e di proprietà, le culture dominanti. Di quali lotte stiamo parlando?

Parliamo di lotte per il diritto all’abitare, per il reddito, per la solidarietà internazionale con la Palestina, contro la guerra, per un sapere demilitarizzato. Queste lotte che attraversano e creano movimenti sociali aprono spazi di autonomia e processi di liberazione, e di frequente si trovano dinnanzi controparti che questi spazi provano a chiuderli, questi processi tentano di bloccarli.
Questo genera conflitto, un conflitto sociale che senza paura queste 23 persone, che noi chiamiamo compagne e compagni, accettano di affrontare consapevoli dei costi che ciò comporta. Un conflitto sociale che in questi mesi è stato agito da migliaia di persone a Bologna, dalle riappropriazioni abitative ai cortei per la Palestina, dalle lotte transfemministe a quelle ecologiste.

È a questo variegato mondo che queste misure cautelari si rivolgono, non solo alle 23 persone che le stanno subendo.
Vogliono spaventare, vogliono metterci paura.
Queste misure cautelari vogliono “dare l’esempio”, far rientrare nei ranghi, non far straripare nuove maree. Queste misure cautelari fanno venire tanta rabbia.
Al contempo, però, non possono che farci rispondere con un sorriso beffardo, lo stesso sorriso che abbiamo visto fare a Ilaria Salis incatenata nel tribunale di Budapest, lo stesso sorriso che abbiamo visto tante volte sulle labbra di chi è consapevole di quanto costa amare le lotte, di quanto è duro lo scontro, ma che essendo dalla parte giusta della storia non può che guardare con compassione e odio cm prova a fermarci.

Ma allora, chi sono queste 23 persone? Sono forse eroi ed eroine? Certo che no. Persone normali, come tutte noi, con le loro forze e debolezze, ma che hanno scelto da che parte stare.
In particolare in un momento storico terribile, in cui la guerra dispiegata si riaffaccia come possibilità concreta del nostro presente. E’ proprio la dimensione della guerra che sta creando il contesto per grosse operazioni repressive come quella di cui stiamo parlando. Il fatto che molti stati occidentali e la NATO di cui l’Italia è parte siano di fatto già in guerra è una realtà ancora non chiarissima alla “opinione pubblica”, ma inviare armi su fronti bellici, navi militari nel mar Rosso, non condannare il genocidio in corso a Gaza da parte del Governo, parlare di rilancio dell’industria bellica e della leva obbligatoria, sono tutte parti di un quadro di congiuntura di guerra in cui siamo dentro.

Il clima bellico restringe spazi di libertà, punta a eliminare il dissenso e l’opposizione sociale, e diffonde una serie di
“regimi di guerra” in ogni dimensione sociale, e sposta le risorse dal wellare al warlare.
Le 23 compagne e compagni sono dissidenti interni, e come tali vengono trattati. Per noi, sono dalla parte giusta della storia, e per questo chiediamo che vengano immediatamente ritirate le 23 misure cautelari. In gioco è una questione di giustizia, che non è come spesso ipocritamente si pretende un qualcosa di astratto o di vagamente universale, ma di maledettamente concreto. In questo caso, si tratta di schierarsi.
Schierarsi in modo solidale al fianco di chi ha messo in gioco la propria libertà per un’altra visione di società.

Schierarsi al fianco delle e dei 23 è stare da una parte contro un’altra. Da una parte chi diffonde la guerra, tagli sociali, estrazione di rendita, riproduzione di rapporti patriarcali, razzismo. Dall’altra l’eterogenea galassia delle lotte sociali, delle insubordinazioni, dei movimenti, delle resistenze. Quello che sta succedendo a Gaza, dove decine di migliaia di perone vengono uccise da mesi coi bombardamenti indiscriminati; quello che succede tutti i giorno a migliaia e migliaia di migranti che vengono espulsi e confinati; quello che succede nei nostri territori, e la repressione verso le 23 persone di cui stiamo parlando…
Non sono, ovviamente, la stessa cosa. Ma sono dalla stessa parte, nello stesso mondo, dallo stesso lato della storia. 
E tu, da che parte stai?

Sosteniamo la campagna per la fine immediata delle misure cautelari

LIBER3 TUTT3, SUBITO!

Per certi versi /
Le cicogne a Bentivoglio 

Le cicogne a Bentivoglio 

Le cose della natura

Amano il silenzio

Il grande incantatore

Della paura

In ogni veleno

Si nasconde una medicina

Nelle acque palustri

Passeggiano

I cavalieri d’Italia

E’ un’ oasi

Vicina a casa

La casa

Dei migratori

Con o senza ali

Nel suo cuore

Dalla fitta

Boscaglia

Sulle chiome più alte

A santuario

Galleggiano

Le culle delle cicogne

Annunciano le buone

Novelle

Sono perfette

Più che belle

scrutano il tempo

Bisogna aspettare

Con pazienza

Che si aprano in volo

Dolce

Unico assolo

In copertina: foto dell’altore

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Ripenso al tuo sorriso quando giunge l’oscurità

Presto di mattina. Ripenso al tuo sorriso quando giunge l’oscurità

Come restare saldi nella fede?

È la domanda che ritorna sempre di nuovo quando sovrasta la bufera. Che interroga i credenti, i poeti anche. Anch’essi domandano come stare saldi nella parola quando questa ammutolisce, affogata dalle grida del silenzio.

Come stare saldi è la domanda portata ancora e ancora dal respiro sospirato di tutti gli uomini e le donne delle beatitudini a qualsiasi fede e popolo appartengano quando li afferra l’oscurità.

L’espressione ricorre più volte anche negli scritti degli Atti degli Apostoli e nelle Lettere non solo in quelle paoline: «Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie» (Col 2,6-7).

«State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Ef 6, 14-17; cf anche: Ef 6,13; Col 4,12; 1Cor 16,13; At 14, 22; Tt 2,2; 1Ts 3,8.13; Gal 5,1; Fil 1,27. 4,12; 1Pt 5,9.12).

Nei vangeli è legata all’atto del vegliare e pregare propri di Gesù. Fissando lo sguardo su di lui quando «cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse ai discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me” (Mt 26,37-38). Così, rivolto verso il Padre suo, restò saldo nella fede filiale fino alla fine, consegnandogli nelle mani lo spirito e così fece anche verso noi quando, chinato il capo, rese lo spirito.

Come restare saldi nella fede? E tutte le volte che mi sovviene questa domanda non ho altra risposta che questa: fissare lo sguardo su coloro che ci hanno preceduto e sono rimasti saldi nella fede e tra disumani fermi in umanità, facendo rivivere la memoria della loro testimonianza.

Lì attinge un’acqua limpida, direbbe il poeta, anche quella fede che è tentata di lasciarsi andare riarsa dall’arsura dell’oblio. D’altronde non ci conferma forse l’autore della lettera agli Ebrei quando scrive che «Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,1-2).

Come restare saldi? Ripensando al tuo sorriso

Ripenso al tuo sorriso è una poesia di Eugenio Montale nella raccolta Ossi di Seppia parole dedicate a Boris Kniaseff (a K) ballerino e pedagogo russo; nella lirica si rievoca la memoria di un incontro a casa di amici a Genova; riaffiora un volto e nel volto un sorriso, rivive una figura e postura mite e quieta, che si erge come cima di giovinetta palma dalle ceneri della memoria.

Come uno spiraglio di speranza, lampo che per un istante fa chiaro nel male di vivere vissuto e di continuo raccontato dal poeta nei suoi testi, che lo fa restare saldo, resistente nel credere ancora alla parola, a proferirla ancora al sopravvenire della bufera sentita come fiumara dolorosa di pietre senza nome, crollo di pietrame.

Resta, la parola: «ciotolo róso sul mio cammino/ impietrato soffrire senza nome». Sta la parola: «informe rottame/ che gittò fuor del corso la fiumara/ del vivere in un fitto di ramure e di strame» (Montale, 56).

Così è proprio ripensando al sorriso sempre riaffiorante di padre Silvio Turazzi ferrarese, missionario saveriano in Africa, nel secondo anniversario della sua morte (26 maggio 2022), che cerco anch’io di ridestare il coraggio e la pratica del credere; di credere ancora nella pace e come lui nella rinascita dell’Africa così brutalmente violata e sfrutta anche oggi.

In questo periodo, in cui per le guerre vicine si dimenticano spesso quelle lontane, desidero così ricordare un’altra bufera che da trent’anni incombe violenta sulle popolazioni africane nella Regione dei Grandi Laghi (Ruanda, Burundi, Repubblica democratica del Congo) e nel Nord-Kivu.

Ricordando soprattutto la città di Goma, la città di padre Silvio e della sua fraternità nonostante tutto. Notizie mi giungono anche dalle lettere dell’associazione Solidarietà Muungano, da lui fondata per promuovere la solidarietà internazionale in RdCongo e l’accoglienza stranieri a Parma.

Sì, per stare saldo rivedo il tuo sorriso, caro Silvio

E così, tenendo fisso nel tuo volto lo sguardo, vado sillabando a fior di labbra, lentamente, le parole del poeta.

Inflorescenza d’edera tra pietraie d’un greto screpolato vedono i tuoi occhi come quelli del poeta. Nell’immane sofferenza di un popolo abbracciato al cielo e sprofondato in un inferno di dolore, i tuoi occhi fissano quell’esiguo specchio limpido, volti di gente che «recano il loro soffrire con sé come un talismano». Talismano, promessa di riscatto, presenza condivisa di un soffrire abitato, dopo il Golgota, da un Dio di uomini, fatto pure lui uomo di croce.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo
[estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma …
(Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 32.)

Idolatria: Non hanno occhi per vedere

«I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie, le loro mani servono solo a perseguitarci». È la citazione che troviamo come incipit della poesia La Bufera di Montale, chiaro riferimento al contesto storico di guerra in cui il testo viene pubblicato in Svizzera nel 1943, a causa della censura fascista e suona come una condanna di ogni dittatura e contro i signori della guerra.

Secondo un elenco delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), perdura la crisi umanitaria più vecchia al mondo, che dura da più di 30 anni. Le violenze dei gruppi armati, nella parte orientale del paese, sono in continua crescita, così come aumentano la fame e gli sfollamenti tra i civili. Più di 25 milioni di persone, un quarto della popolazione, continuano a fronteggiare una grave insicurezza alimentare. Solo negli ultimi mesi, più di 700.000 persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, portando il numero totale degli sfollati al livello record di 7,2 milioni.

I responsabili dell’Unicef, Oms, Unhcr, Wfp sollecitano una mobilitazione internazionale perché “Il Congo è sull’orlo della catastrofe”. I servizi sanitari continuano a deteriorarsi, come nel 1994 il colera e il morbillo hanno ripreso a diffondersi rapidamente e gli aiuti umanitari da soli non possono risollevare un paese sull’orlo del baratro.

Il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per la Rdc, Bruno Lemarquis, ricorda che «La guerra, è da imputarsi prevalentemente agli ingenti giacimenti minerari di cui la regione è ricca. Si tratta non solo di uranio, oro e diamanti ma, anche di coltan (columbite e tantalite), indispensabile per il funzionamento di telefonini gsm, computer e per la componentistica aeronautica.

Negli ultimi tempi, inoltre, i profitti più importanti arrivano dall’estrazione della cassiterite (biossido di stagno), di cui il Congo detiene un terzo delle riserve mondiali, anch’essa impiegata nella costruzione di apparecchiature elettroniche. Tali ricchezze sono oggetto di saccheggio e di commercio illegale da parte di diversi gruppi di ribelli che, finanziati e sostenuti dagli stati vicini come Rwanda, Uganda e Burundi, trasportano i minerali in questi paesi che, a loro volta, li esportano verso il mondo occidentale, creando un giro di affari di milioni di dollari.

A contendersi questo territorio, da sempre complicato e instabile, sono oltre cento gruppi armati, tra cui le Forze Democratiche Alleate (Adf), affiliate all’Isis. Ma i combattimenti, che si sono intensificati nelle ultime settimane, sono dovuti ai ribelli del movimento M23.

Il gruppo, sostenuto dal vicino Ruanda, secondo il governo congolese e diversi esperti delle Nazioni Unite, cerca di controllare le risorse minerarie compiendo omicidi di massa. In risposta all’attivismo di questo gruppo il governo congolese ha avviato un grande movimento di truppe nella regione, con relativo impegno di risorse. La spesa militare della Rdc è raddoppiata nel 2023 rispetto al 2022. Risorse inesorabilmente sottratte allo sviluppo sociale» (Fonte: L’Osservatore Romano, 11/05/2024).

E Jean Baptiste Salumu, direttore di Muungano Goma, ci scrive in una lettera: «Oggi si stima quasi centomila la popolazione sfollata che si è riversata nella nostra città in una miseria indescrivibile e una promiscuità che non ha nome! In una casetta di tenda, trovate il papà, la mamma e i figli dove passano la notte e il giorno senza nulla fare senza cibo, mentre hanno dovuto abbandonare i loro campi dove coltivavano e vivevano bene.

Quando visitiamo questi campi di sfollati si sente “la miseria”, ci sono già malattie per mancanza d’acqua (colera); infine, non solamente per gli abitanti della città l’aumento enorme dei prezzi delle derrate alimentari, peggio ancora per gli sfollati che sono senza niente e manchiamo di rifornimenti perché tutte le strade verso l’interno sono bloccate dai gruppi armati dell’M23».

Bufera

Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles,
Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter …
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa …
Come quando
ti rivolgesti e con la mano. sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrar nel buio
(ivi, 197).

La vita è a misura dell’amore

Dal diario di padre Silvio del 25 luglio 1994: «Ricomincia la settimana. Come una notte interminabile, il tempo sembra fermarsi. [Epidemia di colera]. Vedo il camion, il carico dei corpi, i vuoti da riempire in modo da risparmiare tutti gli spazi con i corpi dei più piccoli … è terribile, non riesco più a piangere, la scena si ripete due volte al giorno. Prego: “prendi anche me Signore, non sono certo migliore dei miei fratelli”.

Continuo a vagare visitando gli ammalati, i bambini. Trovo strano di non essere ancora del gruppo di coloro che hanno lasciato questa terra. Ho voglia di cielo “a chi mi ama mi manifesterò”. So che qui o là la vita è a misura dell’amore che si ha: nella gratuità semplice e aperta. Lo chiedo al Signore come un dono: sapere amare cercando di capire, consolare: come sanno fare tante persone semplici.

Nel “cerchio” del mattino ascolto episodi che suscitano pietà: il neonato raccolto da mons. Charles sul petto della madre agonizzante; due fratelli stesi per terra si tengono stretti per mano, in attesa di morire; la madre che arriva stringendo al petto la sua creatura: piange, chiede la dawa (medicina), l’infermiere risponde che non c’è più posto, ma la donna insiste … così si decide di curare anche alla porta con il preparato di acqua, zucchero e sale.

In giornata conosciamo i dati ufficiali di M.S.F., quaranta mila sono le vittime dell’epidemia. È la guerra che continua; questo esodo di massa, questi morti sono la sconfitta della violenza, della guerra che allontana sempre di più i fratelli della casa comune.

Sento tutto il peso e la responsabilità dei gruppi politici estremisti, che hanno scelto la strada del terrore. Sento la responsabilità delle grandi potenze che avvolgono nel silenzio questo continente, prolungando in modo nuovo lo sfruttamento che dura da cinque secoli.

Mi vergogno pensando al sostegno dato ai dittatori in cambio dei mercati, al commercio delle armi, al debito estero adoperato a vantaggio di alcune famiglie al potere e degli stessi donatori, che ha ridotto il popolo alla miseria; al commercio internazionale che vede il ricco rubare al povero.»

Saldi nell’amore

27 luglio 1994. «Non c’è amore più grande che dare la vita. Ascolto l’esperienza forte di una donna che sta donando la propria vita per servire i rifugiati ammalati di colera, tra vomito e dissenteria. Il Signore parla e dà forza soprattutto in queste situazioni. Nella sua luce si vede il legame tra la terra e il cielo. Anche quei poveri corpi disidratati, stesi sulla nuda terra ai bordi della strada, mi sembrano un ricordo di coloro che dopo tante tribolazioni sono già arrivati alla casa del Padre. Sì, ci può essere pace anche nel lazzaretto di questa città. Lo vedo nella gente che ha aperto la porta della propria casa, in chi si è messo a servire i più poveri, in chi chiede di diventare padre o madre dei bimbi dispersi.

Il cielo di Dio sono i suoi figli.
Così ho visto il futuro dell’umanità
Il nostro buio, il nostro affannarci,
saranno purificati e illuminati
dallo scaturire perenne del suo amore. Silvio»

Cover: padre Silvio Turazzi

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

UN FORTE APPELLO A TUTTI I CANDIDATI:
NON SI SALVA IL PIANETA DANNEGGIANDO IL PAESAGGIO E LA BIODIVERSITÀ

Cosa è quanto sia sostenibile delle attività umane non è facile determinarlo oggi, quando siamo ormai ad un passo dalla catastrofe climatica e già con un piede nella fossa dei disastri ambientali: scioglimento dei ghiacciai e del permafrost e siccità estrema da una parte, alluvioni e piogge torrenziali fuori stagione dall’altra, con le tragiche conseguenze che conosciamo. Ma chi studia i cambiamenti climatici, le ricadute sull’ambiente e sugli ecosistemi, ci ripete da tempo e quasi quotidianamente ciò che ancora la generalità delle persone non riesce a digerire e, purtroppo, anche i politici, coloro che dovrebbero operare le scelte per il bene delle popolazioni e dei territori, non vogliono capire: le RISORSE del PIANETA TERRA, e quindi anche quelle della UE e del nostro Paese, SONO LIMITATE, perciò vanno difese e tutelate tutte! (QUI)

Il 22 maggio scorso a Roma si sono svolti gli STATI GENERALI CONTRO L’EOLICO E IL FOTOVOLTAICO A TERRA, proprio per portare l’attenzione, ancora una volta, sugli ormai  annosi problemi della distruzione del paesaggio italiano e  i danni irrecuperabili alla biodiversità e agli ecosistemi, tanto ricchi quanto fragili, dell‘aumento indiscriminato del consumo di suolo, ad opera degli impianti industriali di energia cosidetta “sostenibile”. Solo nei primi due mesi del 2024 il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) ha ricevuto ben 168 richieste di Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) relative a progetti di impianti eolici e fotovoltaici a terra, per un totale di 8.378 MegaWatt (MW) pari al 56% dei 15 GigaWatt fissati dalPiano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) come obiettivo da raggiungere entro il 2025. Poco più del 50% dei progetti proposti (4.322 MW) sono impianti a energia solare a terra, il resto è rappresentato da 513 pale eoliche. (QUI)

Da sempre questi scempi di ambiente e natura sono stati ignorati dai media pubblici e privati e dalla stampa locale e nazionale, spesso anzi i nostri bravi giornalisti, da buoni cavalier serventi ai politici di turno e all’impresa/finanziaria che realizza gli impianti e si quota in borsa, (Enel, Sorgenia, AGSM-AIM ecc.) hanno realizzato trasmissioni TV o pubblicato articoli totalmente favorevoli alle rinnovabili industriali ed eretto muri di notizie vaghe e incomplete, per non dire false, contro le ripetute denunce dei  comitati di cittadini e delle associazioni in difesa del territorio.

L’artefice dell’incontro romano è stata #CoalizioneArt 9 (QUI) , che si rifà nei suoi principi generali appunto all’art. 9 della Costituzione, e che in meno di tre settimane ha raccolto circa 500 adesioni all’iniziativa: 90 tra primi cittadini di Comuni e rappresentanti di Amministrazioni locali, 120 tra associazioni ambientaliste e culturali, comitati, e tanti tanti cittadine e cittadini, aziende agricole e imprenditori attive/i nella difesa dell’ambiente e nella tutela del territorio. Provenivano tutti dalle zone invase e danneggiate dalla presenza di enormi  impianti industriali di produzione di energia eolica e/o di fotovoltaico a terra: dal Foggiano e dal Salento, dalla Sardegna e dalla Sicilia, dal Beneventano, dalla Tuscia, dalla Calabria, dall’Abruzzo e dal Molise, e salendo su, lungo l’Appennino, sono arrivati rappresentanti dall’ Umbria e dalle Marche. Erano altresì presenti i comitati antieolico del Mugello e quelli dell’Alta Valmarecchia e Montefeltro, che stanno combattendo proprio ora contro la realizzazione di nuovi impianti eolici di enormi dimensioni (pale alte fino a 230 m) sui crinali appenninici, che la Regione Toscana e il MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) hanno approvato o intendono approvare.

Quando si parla di interessi quelli che prevalgono presso quasi tutti i politici non sono quelli delle popolazioni, che da questi impianti ricevono solo danni economici e alla salute, vedendo cancellate le possibilità di uno sviluppo agricolo-ambientale, e turistico-culturale  equilibrati, ma sono gli interessi finanziari delle imprese e delle multinazionali dell’energia,  provenienti la maggior parte dal Nord Europa e da un pò di anni a questa parte anche dal Nord Italia, che hanno tutto da guadagnare dalla loro realizzazione.
Si tratta infatti di investimenti ad elevata remuneratività, assicurata dai finanziamenti a fondo perduto per la realizzazione degli impianti, garantititi anche  dall’enorme flusso di danaro che l’Unione europea ha destinato all’Italia per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, dagli incentivi per la vendita dell’energia prodotta (QUI) e le prospettive di crescita e finanziamento del comparto (PNIEC e PNRR). I costi per la realizzazione dei mega-impianti sono sostenuti ampiamente anche dai contribuenti italiani, anche da quella fetta di popolazione che, pur essendo contraria all’ eolico o al fotovoltaico industriale che gli costruiscono sotto o sopra casa, suo malgrado ne paga la realizzazione attraverso le tasse e altre spese inserite nelle bollette energetiche (luce e gas).  Soldi  pubblici che al 100%, attraverso i finanziamenti nazionali ed europei, serviranno a costruire e piazzare le torri eoliche e i pannelli solari, corredati di tutti gli annessi e connessi, sui crinali delle nostre montagne, nei terreni agricoli e forestali espropriati agli stessi cittadini che oltre al danno subiscono la beffa, se così si può chiamare, di dover convivere con la vista di gigantesche e orribili pale, con il rumore, con i campi elettromagnetici che generano tutto intorno, oltre a tutti i disagi alla salute che la loro realizzazione, mantenimento ed esercizio comportano. Nessun beneficio va al territorio e alla popolazione, si tratta solo di speculazione finanziaria.

Per denunciare i gravi danni economici, ambientali e sociali che derivano ai territori e l’enorme speculazione che si nasconde  dietro al mercato delle rinnovabili,  per dare un segnale forte e chiaro alla politica che così non può e non deve continuare, sono state enunciate le seguenti richieste, che tutti i partecipanti all’evento  hanno condiviso:

1) che i pannelli fotovoltaici debbano essere installati solo sulle superfici edificate, sulle aree degradate o nelle aree di bonifica, al di fuori dei centri storici;

2) che debba essere cancellata ogni forma di incentivo e bandita ogni forma di speculazione a spese delle comunità locali;

3) che gli impianti energetici da fonti rinnovabili possano essere insediati solo ed esclusivamente nelle Aree Idonee definite dalle Regioni, in base a linee guida, senza produrre ulteriore consumo di suolo;

4) che nelle more dell’individuazione delle aree idonee si sospendano nuovi insediamenti;

5) che vengano abrogate le norme che consentono gli espropri di terreni agricoli per la realizzazione di progetti di rinnovabili.

 

 

Coalizione Articolo 9 è formata da numerose associazioni nazionali e comitati territoriali, in questa occasione da Italia Nostra, Amici della Terra, Mountain Wilderness, Ente Nazionale Protezione Animali, ProNatura, AssoTuscania, Altura, l’Altritalia Ambiente, Crinali Bene Comune, Rete Resistenza dei Crinali, Associazione Italiana Wilderness AIW, Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, LIPU Puglia e Basilicata, Centro Parchi Internazionale, Salviamo il Paesaggio, GRIG Gruppo Intervento Giuridico, Comitato per la Bellezza, Comitato per il Paesaggio, Emergenze Cultura e Appennino Sostenibile.

Cover: paesaggio italiano – immagine da www.salviamoilpaesaggio.it 

La scuola di Valditara

La scuola di Valditara

Il ministro Valditara ha scritto un libro (La scuola dei talenti, pag. 192, 18 euro) in cui espone il suo punto di vista sulla scuola. Lo fecero anche altri ministri come Giovanni Gentile nel 1932 con La riforma della scuola in Italia, in cui metteva in luce i grandi cambiamenti fatti nel decennio precedente con una riforma che ancora oggi influenza la nostra scuola. Altri Ministri che si sono cimentati sono Guido Gonella (La riforma della scuola, 1958), Riccardo Misasi (Questa scuola impossibile, 1972), Luigi Berlinguer (La nuova scuola, 2001).

Il libro è ricco di informazioni e ci racconta sull’impostazione che potrebbe avere questo Governo fino al termine della legislatura. Molti punti sono condivisibili, anche se bisognerà vedere come si passerà dalle parole ai fatti, un problema che hanno avuto molti altri Ministri.

Per Valditara la scuola del merito “si fa carico del bisognoe cerca di far fronte all’abbassamento del livello di studi” (a suo avviso prodotto da una certa sinistra e dal ’68) che di fatto ha favorito i figli delle famiglie ricche, in quanto i poveri devono accontentarsi di una scuola non di qualità qual è quella pubblica di oggi. Cita Marx quando dice che “sono i poveri che più hanno bisogno dello Stato”, ma non dice che anche il Governo Meloni vuole chiudere le scuole con pochi studenti, dislocate nei paesi deboli o in montagna.

Valditara vorrebbe dare a tutti la possibilità di sviluppare i propri talenti con una scuola di qualità per tutti. E’ però conscio degli attuali enormi divari che esistono tra gli studenti delle famiglie povere (che solo nel 2,7% raggiungono ottimi voti alla licenza media), e quelli delle famiglie ricche (18% con ottimi voti).

Voti alla licenza media in base allo status socio-economico delle famiglie

Questo divario esiste anche tra scuole del Nord e del Sud e tra quelle del centro e delle periferie nelle stesse città del Nord. Fa l’esempio di Torino, dove la dispersione implicita (diplomati che di fatto hanno un apprendimento pari a quello della licenza media) è del 24% nelle periferie e dell’1,1% al centro. Non c’è dubbio che siano gli studenti immigrati nelle scuole delle periferie ad innalzare questi tassi e ciò pone il problema di come realizzare una vera integrazione degli studenti stranieri, che spesso non conoscono bene la lingua italiana. L’Italia è il solo grande paese in Europa che inserisce i giovani immigrati neo arrivati in classi ordinarie per tutte le lezioni, quando è noto che il tempo minimo necessario per apprendere una lingua che consenta di poter studiare una qualsiasi materia è 12-18 mesi. E ciò spiega perché quasi tutti gli altri paesi europei inseriscano gli immigrati in classi preparatorie (solitamente per un periodo di 12-18 mesi) (Svezia, Belgio) o usino un sistema flessibile (Francia, Germania, Spagna, Finlandia, Polonia) in cui parte delle lezioni sono in classi ordinarie. Valditara è di questa opinione.

Il ministro esalta le recenti innovazioni: insegnante tutor, coordinatore, orientatore (con compensi aggiuntivi) che hanno il compito di personalizzare l’apprendimento e aiutare i più fragili, ma trascura di affrontare il tema della riduzione del numero di alunni (le classi “pollaio”) specie al primo anno dei Tecnici e Professionali. Qualsiasi innovazione si scontra infatti con l’impossibilità di insegnare in classi numerose (25-28 alunni), specie se la metà sono immigrati con scarsa conoscenza della lingua italiana o poco motivati.

Concorda col premio Nobel Joseph Stiglitz che le società sono progredite negli ultimi due secoli soprattutto quando si sono impegnate per aumentare le capacità di apprendimento dei giovani e che bisognerebbe investire di più nella scuola che nell’economia, ma secondo gli stessi suoi dati dice che l’Italia investe il 3,2% del PIL nell’istruzione quando la media OCSE è 3,6%. Ciò significa che per raggiungere questa media dovremmo passare da 55 miliardi investiti a 62.

Ci mancano quindi 7 miliardi con cui finanziare tutte le cose di cui parla: realizzare una vera integrazione per gli studenti stranieri, una educazione affettiva e il rispetto per l’altro per maschi e femmine, contrastare la droga, una scuola inclusiva, insegnanti di qualità, più studenti STEM, sviluppare il pensiero critico e i talenti di tutti. Cita il rapporto del sociologo Usa Coleman del 1966, che sosteneva che se non si interviene anche nelle situazioni famigliari disastrate degli studenti fragili è impossibile educare solo a scuola. Ma chi lo fa, se mancano i fondi anche per cose essenziali?

Per fare bene tutte queste cose servono infatti quei 7 miliardi che questo stesso Governo sta investendo altrove. Se no tutto è retorica, parole buone per tutte le stagioni. Il calo demografico che riduce ogni anno di 100mila unità gli studenti sarebbe in tal senso una grande opportunità, invece lo si usa per ridurre ancora le risorse.

Sono d’accordo con Valditara, quando afferma che il lavoro viene visto come fumo negli occhi da certa sinistra, mentre se fosse usato nel giusto modo (non come professionalizzante ma come formazione umanistica), esso accelera e integra la formazione, come dicevano anche Marx, Engels e lo stesso Gramsci. Il lavoro come aspetto caratterizzante all’interno della scuola e non secondo il modello di alternanza guidato dall’impresa. A tal proposito cita anche Togliatti e Concetto Marchesi che davano al lavoro e allo studio della civiltà classica, della storia, un rilievo importante.

La feroce selezione (e gli abbandoni espliciti) ai primi anni dei Tecnici e Professionali avvengono anche perché ci sono classi pollaio, per l’impossibilità di personalizzare la didattica a 25 studenti, specie dopo che con Covid e Dad si è abbassata tantissimo la disponibilità a seguire lezioni seduti al banco.

Valditara non è in grado di affrontare un punto centrale della debolezza della scuola italiana: la carenza  di una cultura dell’apprendimento da Sperimentazione (via laboratori manuali e artistici), ma anche di apprendimento dalla Vita e dal Lavoro che si potrebbe fare usando bene le imprese e il lavoro con un vero accompagnamento in cui è la scuola a “dirigere” e non l’impresa (come nel modello di alternanza tedesco, che pure, peraltro, funziona).

Valditara (che riprende Ricolfi) ha ragione quando dice che la qualità della scuola italiana si è abbassata. Ma anche qui, come lui stesso fa vedere, ci sono enormi differenze tra scuole e scuole e il Ministro sa bene che ci sono ottime scuole pubbliche e private e pessime scuole pubbliche e private. La domanda allora è: perché non si riprende la vecchia idea di Luigi Berlinguer di una Autority pubblica che analizza seriamente tutte le scuole (pubbliche e private, come avviene anche all’estero) in modo da evidenziare, ben al di là delle prove Invalsi, limiti e talenti di ciascuna imparando da chi lavora meglio, siano queste scuole private o pubbliche.

In conclusione buoni propositi e un grande interrogativo: dove sono i soldi?

Per leggere gli altri articoli e interventi di Andrea Gandini, clicca sul nome dell’autore

Immaginario /
Sotto il vestito un bel niente

Sotto il vestito un bel niente

Ecco l’immagine intera. Non è un opera d’arte, ma merita di essere osservata con attenzione.

Il parto annunciato

La prima cosa che salta agli occhi è quel FERRARA RINASCE a caratteri cubitali.  Se fate un giro in città ve la trovate ripetuta all’infinito, appiccicata ovunque.  Ma cos’è FERRARA RINASCE? Leggo dalla presentazione sul sito e sulla relativa pagina Facebook: “Ferrara Rinasce è non solo un gruppo, ma anche un messaggio che incarna perfettamente l’anima di una città sempre pronta a rialzarsi. Dopo il terremoto del 2012, e ancor più dopo la pandemia, Ferrara si è risollevata”. Lo spot continua, anche se con un italiano un po’ incerto: “Ferrara è una meta instancabile (instancabile? in che senso instancabile? Ndr.), un luogo suggestivo dove tutto l’anno si susseguono eventi, mostre, rassegne, concerti e appuntamenti culturali…” .

Va bene, abbiamo  capito – anzi, l’avevamo capito da mo’ – FERRARA RINASCE è il nome di battaglia della Giunta Fabbri, lo slogan evocativo e furbetto, mediaticamente trattato e trasformato in un ubiquo tormentone. Così, vedi la foto, FERRARA RINASCE  è sempre associato al logo del Comune di Ferrara. Come per dire: “Eccoci caro cittadino, dai un’occhiata: siamo noi, siamo sempre noi!“. In politica, molte volte apparire (dire, proclamare, ribadire) sostituisce la verità dei fatti. In fondo è la stessa “pubblicità progresso” adottata dalla Giorgia nazionale.

Resta da chiedersi se Ferrara sia rinata o no? A me pare solo un “parto annunciato”,  ma saranno i ferraresi con il loro voto a dire se in questi 5 anni sono stati meglio o peggio, se si sentono “rinati” o più poveri, più inquinati, più abbandonati a se stessi.

Povero San Giorgio

Tornate a guardare la foto. Siamo all’angolo tra via Porta Romana e via XX Settembre, già via della Ghiara, perché corre dentro il letto di un antico Po di Primaro.  La conosciamo tutti, è una strada splendida, rettilinea, che al tramonto ti accoglie con un colore speciale, piena di emergenze architettoniche il cui culmine è il Palazzo di Ludovico il Moro (mio padre: “il palazzo rinascimentale più bello d’Europa”). L’incipit, l’invito alla strada, è una magnifica prospettiva settecentesca, il Portale della Ghiara.
È da restaurare. Ci sono i soldi del PNNR… Giusto, restauriamola.

Infatti oggi il portale non lo vediamo, al suo posto ci sono 300 metri quadrati di una sciccosa tela cerata azzurra, che coprono le impalcature del cantiere. Una tela illustrata, e non come si usa con la silhouette del monumento temporaneamente celato, ma con le celeberrime sagome del dipinto di Cosmè Tura: San Giorgio, il Drago e la Principessa.
In calce al telone azzurro leggiamo: ” ll restauro per esaltare l’architettura di un prezioso portale settecentesco”. 

Cosmè Tura, San Giorgio e la principessa (1469 circa).
I ruderi della Porta di San Giorgio

Ecco allora che la scelta di San Giorgio come illustre testimonial di quel restauro appare poco opportuna, fuori contesto, una citazione tanto suggestiva quanto sbagliata.
Il capolavoro di Cosmè Tura è infatti datato attorno al 1469, tre secoli prima della costruzione del Portale della Ghiara.   

Ma anche il semplice riferimento al nostro santo patrono mi sembra fuori luogo: siamo infatti ben lontani dall’Isola di San Giorgio, e lontani sono i ruderi della antica Porta di San Giorgio, principale ingresso meridionale della città di Ferrara fino al XVI secolo.

 

Scegliere figure del 1400 per magnificare e pubblicizzare un Portale del 1700 non è però un peccato mortale. L’enfasi propagandistica (in questo caso della Giunta Fabbri) si incrocia fatalmente con l’ignoranza e il pressapochismo, ma attenzione, la politica-propaganda c’era anche prima, e ci sarà dopo l’era Fabbri. Se per Henry Ford “la pubblicità è l’anima del commercio”,  la stessa cosa si può dire per la politica. Insomma, non c’è da scandalizzarsi, farsi pubblicità è normale. Solo che non bisogna esagerare. Invece…

Sotto il vestito un bel niente

Nei mesi appena precedenti alle elezioni, la Giunta di Destra che governa Ferrara ha riempito la città di cantieri. Per dimostrare che “Ferrara rinasce” e naturalmente per massimizzare il consenso dei ferraresi. Ecco qualche foto, ma ne mancherà certamente qualcuna.

Area ex AMGA – via Bologna
Palazzo Prosperi Sacrati – via Ercole I d’Este
Via San Maurelio – vicino al ponte di San Giorgio

Il Portale della Ghiara in via XX Settembre, area Ex Amga all’inizio di via Bologna, Palazzo Prosperi Sacrati, Via San Maurelio (ma il catalogo è solo parziale), sono tutti vestiti d’azzurro e tutti targati Ferrara Rinasce. Ma ci passo davanti da mesi, da buon “umarèl” metto un occhio nella grata, cerco una fessura strategica per guardare dentro. E dentro non c’è nulla, nessun operaio, nessun rumore. Sotto il vestito (azzurro) non c’è un bel niente. Infatti non c’è nessun cartello con la data d’inizio e fine lavori. Sono solo cantieri pubblicitari e immaginari.
Il caso del Complesso Boldini, una vicenda vergognosa che i ferraresi conoscono molto bene, si trascina da più di 3 anni. Proprio in questi giorni leggo sulla stampa locale che “Il Comune ha trovato finalmente una ditta” e che i lavori dovrebbero finalmente partire. Non so se crederci, visto che l’annuncio è arrivato a una sola settimana dal voto e dopo molte proteste. Per ora, ci sono passato stamani, dietro il vestito (blu) del Boldini, c’è solo degrado e silenziose macerie.

Flash mob per la riapertura del Boldini

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Parole a Capo
Sonia Tri “Luna tonda” e altre poesie

Devo essere una sirena. Non ho paura della profondità e ho una gran paura della vita superficiale.
(Anaïs Nin)

 

Adesso, la pioggia
mi chiede chi sono.
Vorrei risponderle
che sono la sua
insistenza
sulla terra.
Il suo brusio,
d’api d’acqua.
Ogni suo segreto
perso,
nelle maree.
Sono l’anima inquieta
del vento,
che la spinge.
Dell’uomo che cerca
riparo
sul mio seno.
Sono la strada
inondata.
L’albero inerme.
Io ero la nuvola.

*

Sembra
appena accaduto
di vivere.
Canuti aquiloni
senza filo,
volteggiano
senza vento.
L’abitudine di esistere,
non distoglie
il cielo
e il tempo
ruzzola a picco.
*
“Il tuo caffè caldo, al
mattino.
Le mie rose, guance fresche
di bimba.
Storie da scrivere
in lunghi aloni
di cielo pallido.
Non cerco altra
realizzazione
di me, di te
Vorrei solo essere
abbracciata tutta,
sulla baia china dei
tuoi occhi.
Conservando
la benevolenza
incomprensibile
dell’esistenza.”
*
E poi ci sei Tu.
Rivincita dei miei
giorni,
sconosciuti al mondo.
E sogni e sassi
senza peso ormai.
Poca cosa la coscienza,
quand’è solo
tenerezza di attimi
condivisi, resi.
Brughiera di mare,
tu che nuoti
le mie parole.
Polpa bianca
delle lune,
aroma serale
della calendula.
Incessante pioggia,
che non bagna
il nostro piacere.
Mano che trema,
sole che sorge.
Sonia Tri nasce a Pordenone nel 1969. Appassionata di poesia, si cimenta presto nella composizione in versi. Due, le sillogi pubblicate : “Senti come respirano gli alberi” (2013) e “Tutti i colori del cielo a settembre” (2020). Presente in molte antologie, cura la pagina Facebook: “Le parole di Sonia Tri“. In “Parole a Capo” sono state pubblicate poesie di Sonia Tri il 19 ottobre 2023, il 17 febbraio 2022 e il 1 luglio 2021.

 

LA FERRARA CHE VORREI

LA FERRARA CHE VORREI

Ferrara e la costruzione di una rete di città

La Ferrara che vorrei è una città che inizia il suo racconto affermando che la sua intenzione non è di competere ma di cooperare con le città che gli stanno vicino, con il suo territorio e con le città del mondo, dalle quali ha molto da imparare e qualche cosa da dare.

È una città, quella che vorrei, che mi consente di muovermi utilizzando il trasporto pubblico, sia al suo interno, sia per raggiungere le città vicine, senza dover prendere l’automobile. Potremmo quindi fermarci di costruire strade ad alta velocità e autostrade, ponti, tunnel, parcheggi. Da questo punto di vista siamo già molto infrastrutturati e i denari che risparmiamo, utilizzarli per costruire tram e linee di trasporto metropolitano tra le città.

Da anni si parla di corridoi infrastrutturali europei, questi hanno lo scopo di mettere in relazioni le grandi polarità urbane e subregionali del territorio europeo e di norma intrecciano strade, ferrovie, trasporto metropolitano, ma quando si arriva da noi il dibattito si concentra solo sulla Cispadana e sulla terza corsia dell’A13 (e il passante bolognese), quindi, su strade.

Ma l’UE punta a trasferire su ferro il 30% del trasporto merci su distanze superiori a 300 km e il 50% entro il 2050, questo non dovrebbe spostare l’attenzione sul potenziamento della rete del ferro? Non corriamo il rischio di cantierare nei prossimi anni interventi nati già vecchi? Il mondo più avanzato sta andando in altra direzione, o meglio colloca l’adeguamento della rete stradale dentro una strategia incentrata su ferrovia e metropolitane, ma da noi di questo non se ne parla nemmeno.

Si potrebbe iniziare a parlarne, caso mai rileggendo criticamente il Progetto 80, o le idee di Città-Regione, di cui tanto si parlava negli anni Sessanta e Settanta senza arrivare a nulla, mentre gli olandesi realizzavano la regione metropolitana conosciuta come Randstadt Holland, puntando su treni infraurbani, metropolitane, linee di tram e circuiti estesi di percorsi ciclabili.

È necessario un piccolo sforzo: aprire dei tavoli di confronto e concertazione con le città vicine e con la regione (e con lo stato e l’UE) perché abbiamo bisogno di pianificazione e di strategie condivise (e non solo di gestione delle emergenze).

Ferrara, distretto della conoscenza

Vorrei una città che non sia costretta, per dinamizzare la sua economia, a ricorrere solo alle zone franche urbane (ZFU). Se si realizzeranno le condizioni per attuarle lo si farà, ma bisogna essere consapevoli che il mondo è pieno di zone dove un’impresa può insediarsi spendendo meno, trovando una tassazione o un costo della manodopera più bassa quindi, questo non può essere il motivo trainante di una strategia.

È la qualità del contesto politico, culturale, istituzionale di una città e di una regione urbana che fa la differenza. Gli investimenti di qualità, ad alto valore aggiunto hanno bisogno di ambienti di vita ad alta qualità sociale, di alta scolarità, di luoghi dove sviluppare innovazione, perché vi sono istituzioni attive nella ricerca. Perché le culture si intrecciano arricchendosi l’un l’altra e pure le città, anche economicamente.

Vorrei che Ferrara si distinguesse per essere una città che non esalta la ricerca dei “talenti” o delle competenze. Queste arriveranno certamente se il nostro sistema educativo e formativo si orienterà verso la formazione di cittadini con una diffusa capacità critica nell’acquisizione di competenze.

Le “teste” vanno ben formate (criticamente) e non ben riempite e prima della “competenza” viene la “conoscenza”. L’uso pedissequo di parole come “competizione”, “talenti”, è ciò di cui non abbiamo bisogno, se non vogliamo aumentare le ansie di prestazione per giovani che già vivono quelle ecologiche.

Vorrei che Ferrara diventasse una città della innovazione consapevole e solidale, perché l’innovazione da sola, così come la scienza, non portano con sé progresso, se non accompagnati da regole precise e principi etici. La scienza ha prodotto anche i campi di sterminio, la bomba atomica e la crisi ecologica del pianeta. Vorrei quindi che Ferrara diventasse un luogo di incontro tra scienza, cultura ed etica.

Vorrei che Ferrara insieme a Bologna, Modena e le altre città della regione desse vita ad un “distretto della conoscenza” visto che in 100 chilometri in linea d’aria abbiamo tre storiche università, creando sinergie tra laboratori, enti di ricerca e imprese, dando vita a spin-off, sostenendone lo sviluppo. Quindi non solo una valley dove si mangia e si va veloci in automobile e motocicletta.

Ferrara: per una rete storica di città. Recupero delle aree dismesse e un treno che unisce

Vorrei che Mantova-Ferrara-Ravenna fossero unite da un treno unico, diretto, in grado di supportare progetti culturali che accomunano tre città patrimonio Unesco e analogamente con Bologna e Modena e tra Bologna-Ferrara e il Parco del Delta del Po.

Vorrei anche che l’aeroporto di Bologna fosse l’aeroporto della regione e non solo del suo capoluogo. Vorrei insomma godere del privilegio di vivere in una rete storica di città, muovendomi da una all’altra, di giorno e di notte, senza essere costretto a prendere l’automobile.

Vorrei una città che blocca l’espansione, quindi la cementificazione e l’asfaltizzazione, perché è in grado di riorganizzarsi con quello che già ha, recuperando le sue aree dismesse, il suo patrimonio abitativo pubblico, le sue aree industriali, artigianali o commerciali abbandonate o sottoutilizzate.

Potremmo recuperare gli edifici che ci servono, altri demolirli e poi, perché un’area artigianale, o degli uffici non posso essere dentro un’area verde, anziché essere circondata da grandi superfici di asfalto. Abbiamo tanti edifici anche storici vuoti o sottoutilizzati, perché non recuperarli per usi civici e culturali.

In questi ultimi anni ci siamo riuniti spesso per degli incontri pubblici in una chiesa offerta gratuitamente ad una associazione di cittadini. La nostra città è piena di luoghi di questo tipo perché non usarli? Dobbiamo pensare ai nostri edifici in maniera più multifunzionale, avendo molti edifici e spazi sottoutilizzati.

Un esempio, vorrei che l’ex chiesa di Sant’Apollonia, di proprietà del Museo di Spina, che gli sta di fianco, fosse restaurata per diventare un luogo pubblico culturale. Siamo in fondo una città di uno dei paesi più ricchi del mondo.

Vorrei riscaldarmi e illuminare le mie serate grazie all’elettricità fornitami dalla comunità energetica che il mio comune ha istituito in tutto il territorio.

Ferrara, città solidale e ospitale

Vorrei incontrare in un ufficio pubblico, o in un laboratorio di ricerca, o in una struttura sanitaria a Ferrara giovani laureati e tecnici venuti da paesi stranieri per lavorare a Ferrara, non perché sono emigrati, ma perché hanno trovato qui da noi delle buone condizioni di lavoro e una bella città che li ospita. Come mi capita quando vado nelle università europee, negli uffici di comuni come Amsterdam o Lione, o in laboratori e istituzioni europee, dove trovo tante italiane e italiani che però, ahimè, sono scappati dal nostro paese alla ricerca di un lavoro appagante.

Vorrei che il tema del fabbisogno abitativo venisse affrontato con politiche pubbliche e non solo in termini di detassazione per i privati, anche perché esistono già misure come il canone calmierato e la cedolare secca, che però non vengono sfruttate a dovere, perché gli affitti brevi fanno più comodo. L’emergenza casa non si affronta senza un intervento pubblico, Bologna lo sta facendo, Vienna e Amsterdam lo fanno dagli anni ’20 del secolo scorso.

Sottovalutando il problema, il rischio è che anche a Ferrara si creino delle tensioni tra chi cerca alloggi in locazione, chi li cercherebbe se potesse pagare l’affitto e le esigenze abitative degli studenti. Nel paese la mancanza di una strategia (e quindi di risorse) per la casa e per il diritto allo studio è stata confermata dal disimpegno su questi temi del PNRR, con alcune limitate esperienze come Napoli, dove si sono avviati dei progetti di rigenerazione insieme ad associazioni, comitati e cittadini promossi dal comune, coinvolgendo anche l’Università.

Vorrei che Ferrara fosse una città solidale e ospitale per tante persone che fuggono da situazioni di conflitto e di povertà e che portano tante storie da condividere con noi, rafforzandone il carattere di città del mondo, ma vorrei anche che non si dimenticasse di chi se ne andò.

E la vorrei solidale e ospitale non per spirito caritatevole, ma per volontà politica, perché solo così si lotta contro le diseguaglianze.

Vorrei che la cultura del cibo della nostra città si mescolasse, facendo emergere le tante culture gastronomiche che convivono con la nostra tradizione. Vorrei cenare a Ferrara in un vero ristorante marocchino o tunisino o libanese o africano, mentre nelle nostre biblioteche, librerie, circoli culturali si promuove la conoscenza di altre culture artistiche, letterarie senza nascondere conflitti e problemi, ma affrontandoli laicamente.

Ferrara, un ecosistema urbano per una città-parco

Vorrei vedere anche attraverso una grata di metallo i tanti cortili e giardini interni, di cui sento parlare da sempre, ma che non ho mai visto, perché i portoni sono chiusi, come il cortile di Palazzo Varano-Dotti in via Montebello. Spazi interni che vengono comunicati al mondo come luoghi straordinari, ma che nessun turista vede, perché non esistono dei circuiti dei cortili e dei giardini gestiti attraverso una convenzione tra comune e privati.

Vorrei vedere, passando da via Savonarola, il cortile di Casa Romei con il portone aperto e non semichiuso cosi come vorrei che il giardino del Museo archeologico fosse aperto al pubblico gratuitamente, è in fondo un bene di tutti. Vorrei che i cortili di Sant’Antonio in Polesine diventassero dei giardini pubblici, così come tante aree verdi della città, pubbliche o di grandi proprietà, che attraverso apposite convenzioni possano essere fruibili o visitabili.

Vorrei insomma che Ferrara diventasse una città parco e una città paesaggio, senza ricorrere a immagini bucoliche o nostalgiche. Lo vorrei come progetto politico incentrato sull’idea di Ferrara come ecosistema urbano. Dunque, una strategia realistica, di cui il verde costituisce una componente fondamentale, non l’unica, fondata sulla condivisione di obiettivi, quali il contrasto ai cambiamenti climatici, la valorizzazione di un patrimonio sia culturale che naturale, l’importanza data alla biodiversità, educando alla conoscenza delle altre specie viventi, il riconoscimento di un valore etico, perché la città-parco deve esserlo per tutti.

Vorrei insomma che Ferrara si trasformasse in un sistema antropico e vegetale complesso, dove gli spazi di cultura e di natura si intrecciano, mentre la vegetazione urbana si articola in varie forme: trame, parchi, giardini, viali alberati, piazze verdi cercando di “naturalizzare” una superficie equivalente a quella oggi costruita.

Entrando nel parco urbano a nord e in futuro anche a sud vorrei essere colpito dalla sua complessità e varietà. Innanzitutto, passando a fianco delle masse forestali, ricche di sottobosco, che lo caratterizzano, giustamente non accessibili per me. Seguendo i sentieri che guidano il mio percorso vorrei poi attraversare prati e radure che creano viste e prospettive caratterizzate da tappeti erbosi e prati fioriti con alberi monumentali isolati che mi fanno da guida.

L’importanza dell’acqua mi viene segnalata dalle diverse forme del suo utilizzo, perché mentre consente la prosperità di varie specie animali, svolge un lavoro di fitodepurazione, grazie all’uso delle piante ed inoltre, mi rendo conto che è anche un bacino di acqua dolce, che può ricaricare la falda e accogliere acqua piovana in eccesso.

Tutto questo lo scopro percorrendo la rete dei percorsi ciclabili e pedonali (in materiale stabilizzato e drenante non asfalto o bitume), che mi ricorda che attraverso comunque uno spazio artificiale, esito di un progetto e che necessita di cura, come mi capita quando mi trovo nel Vondelpark di Amsterdam, o nell’Emberton country park, poco fuori Milton Keynes.

Ma il mio desiderio va oltre e vorrei che il territorio attorno a Ferrara diventasse un parco agricolo periurbano in grado di valorizzare, anche attraverso marchi di qualità, una agricoltura biologica, e un paesaggio urbano/rurale ricco nelle sue componenti vegetali. Un percorso possibile, dove la cultura del paesaggio agrario si associa ad un ritrovata naturalità da perseguire, ad esempio, attraverso la reintroduzione delle siepi e la predisposizione di aree forestali di infiltrazione delle acque piovane, alternate ai campi coltivati.

Vorrei ripensare l’ambito delle mura, in particolare la parte sud. Questo perimetro necessita di cura e deve diventare una vera cintura verde e patrimoniale, su cui far convergere la trama della città parco. Va bloccata ogni trasformazione di questo spazio in parcheggio o attività commerciale, cercando, dove possibile, di depavimentare per aumentare le aree verdi.

Vorrei che venissero potenziati, valorizzati e naturalizzati molti spazi aperti presenti nel centro storico, come nel settore dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli e di via Savonarola, dove vi è la possibilità di creare una rete di giardini in grado di creare connessioni pedonali con Corso Giovecca, associando l’idea di Ferrara città-parco a quella di Ferrara città-campus, valorizzando la dotazione verde delle sedi universitarie, aprendole al pubblico e organizzandole per lo studio e il lavoro open-air, associate ai giardini pubblici, ai sagrati da riqualificare, agli spazi verdi interni delle mura.

Vorrei che si valorizzasse il quadrivio del Palazzo dei Diamanti, una delle aree dismesse più critiche e dequalificate della città. Il Quadrivio potrebbe essere messo in relazione alla Piazza Ariostea che non può più essere solo un parcheggio, valorizzando un asse dove, oltre a musei, sedi universitarie, abbiamo anche Parco Massari, lo Spazio Antonioni e l’Orto botanico di Unife, costituendo quindi un grande polmone verde nel cuore storico della città, sul modello di tanti importi parchi urbani che associano giardini e orti botanici, dove la cura della biodiversità associa cultura, didattica e tempo libero.

Vorrei che Ferrara avesse un “museo della città” in grado di associare dei luoghi espositivi (da creare, esponendo anche il suo straordinario patrimonio di mappe storiche) con la città storica e sociale delle sue strade e piazze. La città dovrebbe inoltre rinsaldare il suo rapporto con il territorio entrando nel Parco del Delta,  promuovendo la scoperta della sua cultura dell’acqua, dei fiumi, delle bonifiche, della costa per farla diventare un grande progetto culturale, di ricerca e turistico.

La Ferrara che non vorrei

Non vorrei più vedere:

  • i rifiuti dilaganti in giro per la città e davanti a casa;
  • la mobilità e la sosta selvaggia in tutto il centro storico;
  • lo stato miserevole dei marciapiedi e delle piste ciclabili, dove una persona che ha difficolta a camminare non riesce a muoversi;
  • l’inadeguatezza del trasporto pubblico che ci rende dipendenti dalle automobili;
  • la violenza che si riscontra nelle strade della città (alla faccia della sicurezza), anche nelle relazioni interpersonali che hanno bandito la gentilezza e la cortesia;
  • gli allagamenti delle strade, quando piove intensamente;
  • la pessima qualità dell’aria nonostante tutti gli alberi piantati;
  • il calo del turismo e in particolare di qualità (per intenderci quello straniero, che spende);
  • l’economia che stenta e il nostro essere sempre fanalino di coda nelle classifiche sulla qualità;
  • lo spacciare l’apertura di supermercati come rigenerazione urbana mentre nel PUG si dichiara la città di 15 minuti;
  • il degrado dell’area di Darsena city lungo il Burana;
  • il degrado delle piazze storiche coperte da teloni neri, tubi innocenti e bagni chimici;
  • il perseguire una idea di città-prigione e segregazionista, invece di puntare verso una politica inclusiva sui migranti che avrebbe anche, in prospettiva, importanti ricadute economiche per la città e il paese;
  • infine, ma non da ultimo il razzismo latente che si respira in città.
Piazza Trento Trieste. Summer Festival 2023

Vorrei che questo non fosse un sogno, ma un percorso politico da costruire insieme.

Romeo Farinella, Professore di Progettazione Urbanistica del Dipartimento di Architettura di Unife.
Candidato nella lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca  

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

Sono in lista perché è l’ora di una sindaca donna

Sono in lista perché è l’ora di una sindaca donna

Sabato 25 maggio 2024 le socie del Centro Documentazione Donna di Ferrara hanno  organizzato un incontro con alcune donne che si sono candidate alle prossime elezioni comunali nelle liste civiche. In redazione è arrivata ieri una email con il testo del breve discorso pronunciato in quella occasione da Laura Albano. Si tratta di un intervento inusuale e importante – un racconto molto personale e  nel contempo  molto politico. Ci è sembrato giusto farlo conoscere ai nostri lettori.
(La redazione di Periscopio)

Mi chiamo Laura Albano,

prima delle ragioni che mi hanno spinto a candidarmi con la lista de La Comune di Ferrara, vorrei brevemente raccontare delle tante volte nelle quali ho subito comportamenti maschilisti, comportamenti che la nostra cultura tende a mascherare e normalizzare.
Le racconto ben consapevole che tutte noi subiamo quotidianamente compio.

Subito dopo la laurea ad ogni colloquio di lavoro una delle prime domande era: lei è sposata / fidanzata? e a seguire: Ha figli? Ne desidera?
Una volta trovato lavoro ero la “ragazza dell’amministrazione” oppure Laura (mai Dott.ssa Albano), ovviamente i colleghi maschi erano tutti dottori anche se non laureati, colleghi che a volte si sentivano in diritto di chiedermi se “gli preparavo un caffè”. In questi casi quello che mi colpiva maggiormente era lo stupore delle colleghe quando riferivo di essermi rifiutata.

In passato, un superiore, con l’ufficio confinante con il mio, ritenendo una scocciatura ricordare il mio numero interno e quello della collega nella scrivania accanto, aveva ideato un simpatico modo per convocarci: un colpo nel muro mi dovevo alzare io, due colpi la collega. Anche in questo caso, quello che mi colpiva maggiormente era lo sconcerto della collega vedendo che non scattavo sull’attenti; rimediava lei, presentandosi prontamente alla scrivania del superiore.

Poi un paio di anni fa, in piena pandemia, su un affollato treno Ferrara – Roma, chiedo gentilmente alla persona (di sesso maschile) seduta nel posto di fronte al mio di indossare correttamente la mascherina (la teneva a mezzo mento, con bocca e naso scoperti). Provoca in lui una reazione talmente rabbiosa che ne resto stupefatta: prima mi chiede di mostrargli il green pass, poi mi applaude con dileggio quando in sottofondo passa il messaggio registrato che ricorda come si indossa la mascherina e, alla mia richiesta di rivolgersi a me con il lei e non con il tu, urla più volte “Stai zitta”.

Mi sono sentita improvvisamente catapultata in uno dei libri di Michela Murgia intitolato appunto “Stai zitta”. La Murgia, quanto ci manca, ci ricorda come la pratica dello “Stai zitta” non è solo maleducata, ma soprattutto sessista, perché unilaterale, invano cercheremo una donna che abbia pubblicamente tentato di imporre il silenzio a un uomo, nemmeno in contesti molto alterati (cit.).

Ecco qui la mia storia, simile a quella di tante immagino … quindi perché mi candido con Anna Zonari? La risposta è scontata, è ora di una sindaca donna!

Una sindaca donna è tutta un’altra storia, un vento nuovo anche nel metodo: concretezza, dialogo, collaborazione, trasparenza, determinazione.

Da oltre 65 anni Ferrara non ha una Sindaca.  Penso che la città abbia bisogno di una donna capace di includere e non escludere, e di attivare strumenti stabili di partecipazione reale. La lista che sostiene Anna Zonari (l’unica candidata donna fra 3 uomini) è anche una lista “a trazione femminile”: siamo 18 donne donne, la maggioranza.

Penso e mi batto per una sindaca che creda nella cooperazione, nella squadra, non nell’individuo solo al comando.

Nel nostro programma abbiamo un punto che si chiama “Ferrara città per le donne”, ci sono varie proposte per la parità e le politiche di genere.

Sono proposte che vanno nella direzione di una sensibilizzazione di tutte e tutti noi, per una nuova cultura, con la promozione di iniziative in collaborazione con le associazioni femminili e femministe e la creazione di un Portale Ferrara città per le donne, per facilitare la diffusione delle iniziative.

Vogliamo il potenziamento dei centri antiviolenza, con la creazione di percorsi di accompagnamento rivolti a uomini che vogliano cambiare i loro comportamenti di maltrattamento nei confronti delle donne.

Vogliamo un Osservatorio dedicato al monitoraggio del livello della Parità di Genere nelle imprese, per avere luoghi di lavoro che rispettino principi di equità, inclusione e trasparenza, e vogliamo la realizzazione di sportelli informativi atti a raccogliere segnalazioni in forma protetta di comportamenti discriminatori e abusivi”.

Laura Albano è candidata lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca 

In copertina: immagine di Laura Albano

Vite di carta /
L’abitudine al dolore

Vite di carta. L’abitudine al dolore

Dopo avere letto il suo L’abitudine sbagliata, uscito nel 2023, ho voluto vedere il volto dell’autrice, Francesca Capossele. Benedetto Youtube, in questo. Nel video di pochi minuti Capossele ha parlato con fluidità e con voce sicura dei temi del libro e in particolare dei protagonisti: quattro giovani che somigliano ai giovani che siamo stati noi nati negli anni Cinquanta.

Tre di loro crescono in provincia, a ridosso del fiume che bagna un città piccola e dall’aria stantia, il quarto si aggiunge negli anni dell’Università quando per Maria, Bruno e Lalla è avvenuto il trasferimento nella città grande, dopo lo strappo tanto atteso dall’ambiente familiare.

Sono amici fin dalla prima infanzia. Sono anche di più, come dice Maria che è la voce narrante: “Fratelli. Complici. Se preferite, soldati nella stessa trincea”. Lottano da adolescenti contro la mentalità ristretta del loro ambiente, contro le aspettative a tenaglia delle rispettive famiglie.

Concretamente, Lalla e Maria tendono a dare spazio ai loro sogni, sgravandosi da pesi e retaggi degli stereotipi al femminile, Bruno ha a che fare con la propria omosessualità in molti modi, tutti inautentici e corrosivi. Finché non incontra anche lui nella grande città Luis, il quarto vertice del  quadrilatero esistenziale su cui è costruita la storia.

Dice Francesca Capossele che tutto il racconto dipende dalla foto descritta nella pagina iniziale: Maria la porta bene impressa nella memoria, è stata scattata in montagna e li ritrae tutti e quattro mentre camminano nella luce del pomeriggio. È una luce sinistra, lo si capisce dalla chiusa: “L’immagine è terribile, e noi ci siamo dentro, prigionieri”.

Con questo viatico inquietante inizia il racconto all’indietro nel tempo: infanzia, giovinezza ed età adulta dei quattro si dispiegano attraverso la ricostruzione che ne fa Maria, attraverso piani temporali sfalsati che bene si accordano alla soggettività di lei e alle suggestioni della memoria.

Mi sono dovuta interrogare durante la lettura. Da quasi coetanea dell’autrice, da ragazza di paese quale sono stata e tale rimango con serenità, ho mantenuto acceso il laser del mio coinvolgimento. Ho sondato il panorama sociale di quegli anni, i Sessanta e i Settanta, per come ne parla Maria Francesca e mi sono chiesta quale consapevolezza avessi io a quei tempi del cambiamento in atto. Del boom economico che imborghesiva a grandi passi anche le famiglie più modeste. Del costume che si imbizzarriva come un cavallo libero dal morso e scalpitava fino alle esplosioni degli anni di piombo.

Sapevo poco, sapevo di quell’aura che mi cingeva non troppo lontana dal corpo che ho portato dentro le aule scolastiche fino all’Università: un’aura piena di energia. C’era dentro la voglia di riscatto dei miei, che volevano farmi studiare e la mobilità sociale necessaria e sufficiente a farmi arrivare all’obiettivo.

Leggevo i quotidiani con accanimento. Studiavo. Avevo amici, ma senza contrarre il legame così esclusivo, utopistico, che nel libro lega Lalla a Maria, a Bruno e poi a Luis. Ho frequentato solo un coetaneo, che percepivo come omosessuale, ma nessuno di noi ci ha costruito su.

Così come nessuno di noi ha lottato contro la propria famiglia, se non per piccoli oggetti del contendere, una uscita con gli altri o un voto preso al liceo. I miei erano avanti, tutto sommato. Mio padre non trascinabile dal consumismo e mia madre una donna libera. Il disinteresse in ciò che faccio è quello che mi hanno trasmesso e che mi caratterizza.

Se guardo al destino che hanno avuto i quattro protagonisti di L’abitudine sbagliata riconosco varianti che non somigliano alla mia. Nel presente della narrazione due di loro non ci sono più. Gli altri, Maria e Luis, vivono in una solitudine ovattata.

Intuisco che abbiano stipulato una tregua con i se stessi che sono stati. Per Luis, che ha i capelli corti e brizzolati, Maria dice verso la fine del libro che la sofferenza è un’abitudine “ora conclusa”. Vivere al Nord gli ha fatto trovare equilibrio e autenticità.

Quanto a me, posso dire che ho sofferto nella mia infanzia e nella giovinezza, ho sofferto di timidezza. Ma non ho contratto l’abitudine al dolore. Mi sembra che la possibilità di soffrire si spalmi sull’intera nostra parabola di vita, e che il dolore cambi volto nel tempo. Ora anche per me somiglia alla paura e ha i toni della fragilità, a suo tempo è stato senso della perdita.

Riconosco tuttavia ai quattro protagonisti la titolarità a rappresentare una generazione come la nostra, che si è risparmiata la guerra, ma non le compromissioni del benessere venuto dopo e si è liberata dal paradigma culturale del primo Novecento non senza squilibri. Soprattutto Bruno è stato perseguitato dal disagio della sua vita inautentica. Lalla spezzata dalla malattia.

La nostra cifra esistenziale è questa: ci siamo potuti permettere una vita interiore complessa e l’abbiamo scandagliata con qualche raffinatezza. Manteniamo la curiosità e l’impegno, anche in questa epoca che sembra essersene allontanata.

Di questo sarà fatto l’osso a mandorla che abbiamo nella schiena e che non può mai andare distrutto, come usava dire il padre di Maria.

Nota bibliografica:

  • Francesca Capossele, L’abitudine sbagliata, Playground, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

SonArte per Linea d’Ombra

SonArte per Linea d’Ombra

Domenica 26 maggio alle ore 18:00 alla presenza di circa 200 persone si è tenuto presso la Sala Macchine di Factory Grisù il concerto del coro femminile SonArte di Ferrara a favore dell’Associazione Linea d’Ombra di Trieste.

La Direttrice del coro Sonya Mireya Pico ha ricordato l’impegno del coro femminile ferrarese a favore delle organizzazioni umanitarie di volontariato, un impegno che anche quest’anno, in questo periodo, si concretizza nel grande concerto pre-estivo. Questa volta, a chiusura di una stagione con diversi appuntamenti regionali, oltre al grande coro si è esibito il Piccolo Ensamble recentemente costituito.

Come sempre accade con il coro SonArte anche questa volta si è viaggiato tra le voci, le lingue e i ritmi del mondo, passando dagli inni spirituali africani, ai canti popolari palestinesi e israeliani; deviando anche su sofisticati canoni finlandesi e inoltrandosi in deliziose ninne nanne spagnole, ebraiche e sudafricane e, ovviamente, senza dimenticare di “riprendere fiato” nei canti tradizionali delle donne senegalesi, macedoni e sudamericane.

Il viaggio durato quasi due ore è stato sapientemente accompagnato dalle delicate note pianistiche di Valentina Usai e dai ritmi discreti e mai invadenti di Agnese Pillari e Marco Tassinari.

E di lunghi viaggi, di lingue orientali e balcaniche e ritmi di passi si interessa anche l’Associazione Linea d’Ombra.

Linea d’Ombra è nata a Trieste nel 2018 dall’attività di Lorena Fornasir e GianAndrea Franchi, per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica.

La frontiera della solidarietà continua: Per i migranti dalla rotta balcanica a Trieste

L’associazione rivendica la dimensione politica del proprio agire attraverso l’accoglienza, le cure mediche e il sostentamento a chi transita per Trieste o a chi è bloccato in Bosnia, mettendo così in luce la schizofrenia delle politiche migratorie europee.

Ogni giorno con altri attivisti, medici volontari, scout e con persone della società civile che arrivano da ogni parte d’Italia, i volontari cercano di lenire i traumi delle centinaia di ragazzi che “giocano” il cosiddetto Game:

attraversare il confine italo-sloveno, dopo settimane, mesi e, a volte, anni di cammino spinti dalla necessità di… vivere, cioè di fare quello che siamo cosi abituati a farlo da considerarlo davvero naturale per tutti: studiare lavorare, stare in un luogo tranquillo.

Lorena cura loro le ferite dei piedi e considera questo “ gesto” un atto di importanza imprescindibile, per dare dignità a queste persone, per dare loro speranza.

Anche i canti del coro SonArte hanno fatto, per così dire, parte di questa cura: sono semplici “gesti” che con la solidarietà di tanti potranno contribuire a restituire il desiderio di esseri umani ad… essere umani, sia a coloro che fuggono dalle guerre, dai cambiamenti climatici, dalla povertà, sia a quelli che, sempre di più, accoglieranno e cureranno.

Per leggere gli articoli di Giuseppe Ferrara su Periscopio clicca sul nome dell’autore