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Storie in pellicola / “Maestro”, il biopic di Leonard Bernstein firmato Bradley Cooper

Dal 20 dicembre su Netflix, il film “Maestro”, di Bradley Cooper (e prodotto, tra gli altri da Martin Scorsese e Steven Spielberg), applauditissimo alla 80° Mostra del cinema di Venezia, coinvolge ed emoziona.

‘L’arte deve saper suscitare domande’, per il grande direttore d’orchestra Leonard Bernstein era il principio guida. Ci sono tutti gli ingredienti che servono a un buon prodotto, in “Maestro”, il nuovo film da regista e protagonista di Bradley Cooper, che aveva già debuttato alla regia con “A Star is Born”: entusiasmo, passione, tempesta e impeto, sogni, libertà (e pure libertinismo), talento, aspirazioni, amore, famiglia, e, soprattutto, tanta musica. Ai recenti Golden Globe non ha vinto nulla, ma qualcuno parla di Oscar.

Un film in bianco e nero, che passa al colore solo in un secondo momento, con lo scorrere inesorabile del tempo, che racchiude momenti di leggerezza romantica e di dramma d’autore e qualche tocco di musical. Fino all’abile impiego della camera fissa quando l’incombere della malattia invade tutto e non lascia spazio più a nulla.

Si parte dalla fine della storia, un Leonard anziano e provato (Bradley Cooper, che firma anche la sceneggiatura), con un lungo flashback che ripercorre la sua vita e la nostalgia per l’amore della sua vita, l’attrice Felicia María Cohn Montealegre (una sensazionale Carrey Mulligan), dalla quale il maestro ebbe tre figli.

A dominare sullo schermo il carisma di Bernstein, eclettico e poliedrico personaggio, un direttore d’orchestra, pianista e compositore famoso in tutto il mondo, anche di musical popolari, su tutti, per il suo “West Side Story”.

Carrey Mulligan e Bradley Cooper, foto Netflix

Nato nel 1918 in Massachusetts da immigrati ucraini di religione ebraica, Bernstein iniziò a suonare il piano della zia in giovane età, da autodidatta, per poi prendere s lezioni e diventare a sua volta insegnante per i ragazzi del quartiere. Le sue prime esibizioni in orchestra risalgono al 1932, tre anni prima di iscriversi a Harvard per studiare musica. Dagli anni Quaranta, fin dalla sostituzione casuale di Bruno Walter per un concerto alla Carnegie Hall, iniziò ufficialmente una carriera folgorante soprattutto come direttore di orchestra (nel 1946 fu invitato da Arturo Toscanini, che all’epoca viveva negli Usa, a dirigere la Nbc Symphony Orchestra e nel 1953 fu il primo americano a dirigere l’orchestra della Scala di Milano).

Carrey Mulligan e Bradley Cooper, foto Netflix

Polemiche a parte sul naso, a piacere anche il racconto garbato di una bisessualità raccontata apertamente, senza moralismi, dove la vita di Felicia oscilla fra un innamoramento che diventa grande amore e una frustrazione per la doppia vita di un marito geniale e carismatico, doppia vita a lei nota ma, obtorto collo, tollerata.

Bradley Cooper e Matt Bomer, foto Netflix

Il film si concentra sull’intenso rapporto con Felicia, durato, fra alti e bassi, oltre 30 anni, nonostante le relazioni di Leonard con vari uomini, a cominciare dal rapporto con David Oppenheim (Matt Bomer). Il divorzio – per poter vivere con Tom Cothran (Gideon Glick), manager radiofonico e compositore – arriva nel 1976. Un anno dopo, la coppia torna però a vivere insieme, per la malattia di Felicia che la porta alla morte nel 1978. Subentra poi Kunihiko Hashimoto, grande amore di Bernstein, un giovane giapponese impiegato in una società di assicurazioni che gli rimane accanto fino alla sua morte, nel 1990.

Un film delicato, poetico, riflessivo, romantico, intelligente, originale e molto esistenziale. Rapiti dalle musiche, tutte di Leonard Bernstein, ma senza esagerare.

Secondo la sinossi ufficiale, questa pellicola è “una lettera d’amore per l’arte e la vita, un ritratto epico ed emozionate sull’amore e la famiglia”. Verissimo. Da vedere.

Maestro, di Bradley Cooper, con Bradley Cooper, Carey Mulligan, Matt Bomer, Gideon Glick,Vincenzo Amato, Maya Hawke (II), USA, 2023, 129 minuti.

Foto in evidenza e nel testo di Netflix

 

Parole a Capo
Sofia Zoli: Due poesie

La notte non è meno meravigliosa del giorno, non è meno divina; di notte risplendono luminose le stelle, e si hanno rivelazioni che il giorno ignora.
(Nikolaj Berdjaev)

 

Naufragi

Nella notte
ogni città è paese di provincia
Metropoli appiccica
nelle albe di giorni pigri
Un letto grande
ad accorciare le distanze
È rumore nel silenzio
questo caffè lavorato
Accompagna circolare voce automatica
– Linea 33

Le mie mani conoscono bene
i tagli della carta
i calli della neve e
l’ultima porta chiusa
– che è ben poco –
Le tue, la mia schiena
scarlatta e bruciata
di segni che voglio
contare a numeri familiari
di botte prese
sincera e incompresa

Tace,
a lasciarti vincere l’ultima volta
una pace
i cui morti hanno tutti il mio volto.

Io fiore di muro
cresciuta vent’anni
nel posto sbagliato
ho imparato a farmi zattera
salpare verso i confini
dimenticare questa nazione morta giovane

Un bacio é un naufragio
e nessuna carezza
a far sbocciare il grano difficile
della fiducia
e davvero poca fatica
a non confondermi
Subito
Con il petto di altri

ho diviso la mia sigaretta
con chi vive le notti
a compagne distratte
accompagna un sorriso
chi conosce il freddo
e riconosce il mio
dove gli altri non comprendono
– a chi tutto e
a chi niente
Me l’han detto
raccogliendo
un ricordo squartato dal fango,
mi accorgo
nel tuo rumore
essere stata falena
giunge a cantilena
una strofa d’amore
dedicata a me sola

Dice –
che è normale,
un cane randagio
Impara tardi
a farsi carezzare
smette presto di perdonare
Dispera in silenzio il dolore
di vedere
I propri germogli fiorire altrove
Ma quasi – li annaffia.

La rabbia ha un codice sacro
è intenzione, distruzione
è creazione e innovazione
ché ogni tanto ci crede
di poter cambiare il mondo
e poi
ne piange le frane.

Ricorda che le parole
sono solo parole
che serve azione e costruzione,
distrazione quando l’asfalto
ha lo stesso sapore per giorni
ma tu sai anche se neghi,
agli occhi basterà uno sguardo
un richiamo nel traffico
a rifugiarsi in braccia nuove
a rendermi colpevole ancora
di non aver detto
abbastanza
quello che volevi sentire.

Un giorno fuggiranno
i capelli rimasti
testardi ad aspettarti,
sanno anche loro
ci vuole – spazio
e un sesso nuovo
A completarsi certi
Che basti dirsele certe cose.

Obbligare l’amore
a una sola forma
adattarlo a conferma ogni giorno
d’essere un po’ meno soli
urlare solo per dirsi addio

Io – per andarmene –
Ho camminato
in punta
di piedi
per amarti
ho mostrato il difetto
E le ossa ancora rotte
– Chissà cosa non ho capito.

Basterà un gettone
a lavare il profumo
Io – continuerò a indossarlo
Senza dirlo mai
Ininterrotta parlando nel freddo
Nasconderò le mie guance a cercarlo
Sorriderò di questa cura
(mai meritata)
e ricorderò che sono bella
anche quando non mi guardi
e se volevi guardarmi
–   ormai
Me ne sono già andata.

*

 

Uomini nudi

 

Oh amore che follia
Pensare io sia
Una donna da riporto.
Amore, l’altro giorno mi han detto che son bella
E io ho negato e ringraziato
Mi son voltata e ho sorriso:
Certo lo sono.
Certo credete
non conosca il fascino
Della mia rabbia e della mia verità
Di quanto sia io
Meravigliosa e terribile.
Così vi lascio
Pensare di poter conquistare
Una corrente del sud.
Così vi lascio
Felici quando vi bacio
E mi preparo
Al vostro ripudio.
Voi, che vi innamorate della tempesta
Ma siete senza vestiti.

Sofia Zoli (Faenza). Ha 22 anni e ha fondato un progetto culturale, In BiancoUn progetto di cultura scondita (https://www.instagram.com/inbianco.culturascondita/ Instagram) che sta andando bene, collabora con un’associazione culturale di Forlì (si chiama Candischi https://www.instagram.com/candeidischi/) ed è tra i “poeti” della LIPS (Lega Italiana Poetry Slam).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

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Vite di carta /
“Dieci donne” e due dodici.

Vite di carta. Dieci donne e due dodici.

Dieci donne è il titolo del libro di Marcela Serrano uscito presso Feltrinelli nel 2011 con la bella traduzione di Michela Finassi Parolo e Tiziana Gibilisco.

Nove donne si confessano stando in gruppo dalla psicoterapeuta che hanno in comune, lei le vede arrivare tutte insieme dalla finestra dell’istituto dove potranno parlarsi, le accoglie e le ascolta. Ascolta e basta.

vite di carta. dieci donne e due dodiciSono loro che nel corso del racconto di sé, fluente e ricco di una introspezione che nel tempo si è fatta generosa, includono lei, Natasha, e ne spiegano il valore dentro le rispettive vite.

Ognuna di loro mette in chiaro i dolori e le fragilità che l’ha portata alla psicoterapia, nessuna tralascia di indicare quanto sia stato importante il sostegno avuto da Natasha.

Per esempio vengono rimarcate certe frasi che dice spesso per suscitare il dialogo,  oppure la tenerezza con cui si avvicina alla sostanza umana che le contraddistingue una per una.

Sono venuta qui, oggi. Erano mesi che ci pensavo e ora eccomi seduta nella grande cucina della mia Tata storica, quella che ha assistito a tutta la mia infanzia stando a casa mia come lavorante di mia madre.

Ritrovo in un minuto le coordinate della sua vita familiare: la stanza ben riscaldata perché si muove poco dopo l’ultima operazione all’anca, l’ultima di una serie, lo schermo gigante della tv perennemente accesa, l’affacciarsi sul davanzale della finestra di gatti e cagnolini che a turno chiedono di entrare.

E parla a ruota libera. Mentre la ascolto mi sento beata per la narrazione della sua vita che ritrovo e che abbiamo interrotto per troppo tempo. Non sono Natasha ma sì, la situazione è speculare a quella del libro e in fondo è la stessa: una donna parla e un’altra è venuta per ascoltarla.

Chi sentisse da fuori capirebbe che mi vuole bene da sempre: non mi include certo nel racconto della vita quotidiana nella quale non ho posto in questi ultimi anni, ma fa veloci incursioni nella mia infanzia, dice che qualcuno dei suoi quattro figli (ora quarantenni ) è stato come me in qualche piccola cosa. Una, la terzogenita, porta il mio stesso nome.

Oggi mi parla dei due nuovi nipotini nati da pochi mesi e le brillano gli occhi. Ora sono quattro i nipoti, tutti maschi. Provo a chiamarli i moschettieri per stemperare il rimpianto che le oscura lo sguardo mentre dice che il marito, che non c’è più, sarebbe stato felice di conoscerli uno ad uno. E subito rialza il capo, tornando a parlare dei due più piccoli, le esce anche una risata delle sue.

Viene allo scoperto il suo buon carattere, una vera miniera di forza che l’ha tenuta su, sempre. Gliela riconosco e gliela invidio bonariamente, credo di avergliela copiata negli anni in cui sono diventata adulta, se non altro ho costruito una buona impalcatura che ho chiamato compostezza e con quella tento di mantenere almeno la forma nei momenti duri.

La ascolto e intanto faccio entrare nella stanza le altre dieci donne: sono figure femminili di carta, ma hanno titolo per stare qui, ognuna con la sua parabola di vita.

Luisa è vedova di un desaparecido e rivive nel suo racconto i trent’anni che ha passato nell’attesa tenace che il suo Carlos tornasse, intanto che ha tirato su i figli e sbarcato il lunario con fatica. Andrea, una giornalista di successo, si rifugia nella solitudine del deserto di Atacama per rimettere in discussione ogni singolo pezzo che compone la sua vita frenetica. E così via con la storia delle altre.

La decima donna, Natasha la psicoterapeuta, non parla in prima persona ma affida alla sua fedele assistente il racconto della propria. Chi legge, e finora ha raccolto su di lei i giudizi delle altre, trova dispiegato nell’ultimo capitolo il nastro della sua esistenza. Una vita fatta di impegno familiare e professionale, di passioni e di spostamenti da un continente all’altro fino al Cile dove il libro è ambientato.

Di tutta la profondità della sua persona e della sua competenza nella psicoterapia mi sorprende una scheggia di poche straordinarie parole. Mi autorizza a credere che altrettanto forte quanto stare ad ascoltare chi ci parla e ci guarda negli occhi sia leggere le vite. Che anche la lettura sia una forma di ascolto.

Le parole sono queste: Natasha arriva stanca dopo una lunga giornata di lavoro e chiede alla sua assistente, donna umbratile e lettrice sterminata, “Raccontami della vita là fuori”. “Se per fuori intendi i personaggi dei miei romanzi…” “Sì, loro…raccontami che cosa fanno, che cosa dicono, che cosa pensano.

Nota bibliografica:

  • Marcela Serrano, Dieci donne, Feltrinelli, 2011

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Risposta ad Ernesto Galli della Loggia: l’inclusione scolastica accresce l’empatia, la solidarietà, la prossimità.

di Tonio Dall’Olio
Pubblicato su Mosaico di pace il 15 01.2024

No, caro Ernesto Galli della Loggia, l’inclusione scolastica non solo non reca alcun svantaggio ai “normodotati” ma, a sentire centinaia di testimonianze, accresce l’empatia, la solidarietà, la prossimità…

che devono stare ugualmente a cuore alla scuola. Quella dell’abolizione delle classi differenziali destinate ad alunni disabili o affetti da ritardi cognitivi o da disturbi nella socializzazione finiva per diventare una segregazione umiliante per scolari, studenti e rispettivi genitori, ma soprattutto non favoriva la crescita e l’apprendimento trattandosi di problematiche diverse che meritavano un sostegno ad hoc.
Caro Ernesto Galli della Loggia, anche se lei cita un testo recente e fa riferimento alla realtà dei fatti, per quanto mi sforzi non riesco a darle ragione. Se davvero vuole spendere la sua tastiera per qualcosa di utile al prossimo, proponga di migliorare la formazione e la dedizione dei docenti e del sistema di sostegno piuttosto che il ripristino del sistema di apartheid.
Non si offenda, il termine mi è germogliato spontaneamente dopo aver letto nel suo articolo anche del danno che provocherebbe la presenza degli stranieri “incapaci di spiccicare una parola d’italiano”. Infine consenta anche a me di suggerirle un testo piccolo piccolo. Si chiama “Lettera a una professoressa”. Potrebbe tornarle utile.

Quella cosa chiamata città /
MILETO 1982

Quella cosa chiamata città. MILETO 1982

I monti Mycale e il Thorax definiscono la piana alluvionale del fiume Meandro. Nell’antichità erano due isole, oggi prolungano verso il mare il gruppo dei monti Aydin che delimita il lato nord dello stretto bacino del fiume.

A sud, la piana è racchiusa dal massiccio del monte Latmos e più sotto dal monte Grion, da cui si stacca un’appendice che duemila anni prima di Cristo era un promontorio proteso in una insenatura dell’Egeo, in seguito divenuta una piana fertile.

Siamo sulla costa egea settentrionale della Turchia, al di sotto di Troia ed Efeso. Sul lato sud del promontorio si trova la città oracolare di Didyma, mentre sull’altro versante si trova Mileto, di cui ora parleremo.

Nel 1982, ritrovare la città non fu semplice, richiese uno sforzo rilevante di interpretazione delle mappe a nostra disposizione, associato anche ad un po’ di fortuna.

Mileto, Il teatro, 1982

Fondamentale fu la capacità di associare l’immagine che avevo in mente della città con le forme del paesaggio nel quale ci trovavamo a vagare, senza il supporto di alcuna indicazione stradale. Nella mia testa tutto ruotava attorno all’acqua, allora ero inconsapevole del ruolo giocato dalle modificazioni del territorio. Il promontorio lo vedevo come una sorta di dito che si conficcava nel mare Egeo e sul quale la città era sorta.

Ricordo una giornata molto luminosa, una luce pulita che creava una sorta di gioco di ombre con netti contrasti, e in questa ricerca spasmodica di un promontorio bagnato su tre lati dal mare, che in realtà non esisteva più, ecco apparire su di un’altura delle strane pietre biancastre ammassate una sull’altra che, viste in lontananza, sembravano delle concrezioni calcaree, che avevano come sfondo una piana in alcuni tratti limacciosa.

Consapevole che la luce prende forma quando incontra l’ombra, avvicinandomi le “pietre” iniziano ad assumere la forma di linee luminose alternate ad altre ombrose, alcune orizzontali, altre verticali, generate dalle scanalature delle colonne, o meglio dei frammenti di colonne doriche e corinzie ammassate alla rinfusa sul terreno insieme a capitelli e pezzi di trabeazione: eravamo giunti a Mileto.

Mileto, ruderi, 1982

Ci siamo arrivati a causa di una mia infatuazione per una mappa che un professore aveva presentato a lezione all’IUAV di Venezia. Il viaggio alla scoperta della antica città greca aveva seguito un percorso iniziato nell’altopiano anatolico, irrazionale, zigzagante e disarticolato, lasciandosi alle spalle insediamenti trogloditi, città sotterranee, caravanserragli abbandonati.

La pianta di Ippodamo di Mileto (V secolo a.C.)

La geometria ortogonale concepita da Ippodamo da Mileto era diventata una città, adattandosi alle irregolarità del promontorio, ma cosa era successo quando il principio geometrico aveva incontrato quel sito specifico?

Che rapporto si era stabilito tra la regola del modello ippodameo e la conformazione dei principali luoghi urbani o ancora, come l’architetto aveva regolato l’orientamento della città vista la particolare conformazione di quell’appendice rocciosa?

Queste erano alcune curiosità che avevo condiviso con i miei compagni di viaggio, per giustificare il fuori percorso e vincere le loro perplessità, probabilmente senza appassionarli.

Questa città, dove aveva vissuto una comunità di cittadini che abitava, lavorava, discuteva e concepiva visioni del mondo, che aveva generato numerose colonie urbane era ora deserta, abbandonata, nemmeno degna di un cartello stradale.

Indelebile rimane l’immagine dall’alto dell’agorà, un tempo probabilmente, attraversata da una via colonnata, che sembrava reggersi, instabile, sull’acquitrino che ne occupava l’invaso. Quel giorno oltre a noi, solo un pastore sostava con le sue pecore, che con il loro brucare tenevano puliti i ruderi dell’antica città, e ci osservava distratto e silenzioso, forse anche perplesso.

Tutte le foto, compresa quella di copertina sono di Romeo Farinella

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

 

 

 

La Bella Addormentata dovrà aspettare ancora.
Ferrara e il suo polo chimico: una lunga storia … di occasioni perdute

La Bella Addormentata dovrà aspettare ancora.
Ferrara e il suo polo chimico: una lunga storia … di occasioni perdute

Ferrara è stata definita dal CDS,  nel corso della presentazione dell’Annuario Economico Ferrarese 2023,  “la Bella Addormentata” …  tanto addormentata al punto da non essere stata in grado di svegliarsi neppure con i baci del principe Azzurro, manifestati nel corso degli anni attraverso le tante occasioni che si sono avvicendate e purtroppo perdute.

La favola dei fratelli Grimm ci racconta che dopo cento anni avvenne l’incantesimo e tutti vissero felici e contenti.

Purtroppo a Ferrara l’incantesimo non si è ancora verificato e sembra lontano dal verificarsi nonostante, dal dopoguerra ad oggi, si siano alternati diversi “principi azzurri” nelle forme delle tante occasioni, che la “comunità ferrarese” e in particolare coloro che hanno il potere e le disponibilità decisionali, non sono stati capaci di cogliere.

Una storia da raccontare

La storia che voglio raccontare (chiamarla favola forse è riduttivo, … ma fino un certo punto) parte nel dopoguerra in un territorio sottosviluppato ove era presente un latifondo diffuso, con decine di migliaia di braccianti con basso reddito, poche aziende industriali legate prevalentemente all’autarchia degli anni ’30 e ’40, l’assenza di scuole professionali adeguate e grossi problemi di qualità della vita, soprattutto nella parte orientale, …la Bassa.

La lungimirante scelta imprenditoriale della Montecatini, di entrare con tempestività nel settore Petrolchimico a guerra appena finita, creando a Ferrara il primo polo petrolchimico dell’Europa continentale, si era dimostrata vincente in quanto creava il presupposto per la realizzazione di un bacino industriale foriero di possibili ricadute sul piano occupazionale, scientifico, formativo, culturale in un’area vasta.

“L’iniziativa della Montecatini includeva anche la realizzazione di un piccolo laboratorio di controllo ed appoggio alle attività produttive dello Stabilimento, inizialmente di mero supporto ai primi impianti del Petrolchimico basati tutti su tecnologie d’acquisizione  –  leggiamo sul libro “Ferrara e il suo Petrolchimico, volume primo”, edito da CDS nel 2006 – che ebbe successivamente sempre più un ruolo di carattere creativo, verso cioè l’individuazione e lo sviluppo di veri nuovi prodotti e processi, in linea con la missione innovativa della Montecatini e della sua pregressa notevole cultura chimico-tecnologica”.

La scelta fondamentale e vincente fu quella del professore Giulio Natta, Premio Nobel per la chimica nel 1963, che pensò di sviluppare, proprio a Ferrara, le tecnologie di processo dei nuovi originali materiali da lui concepiti presso il Politecnico di Milano, principalmente il polipropilene (PP) e gli elastomeri olefinici etilene-propilene (EPR).

Ferrara capitale della ricerca

E da lì che ebbe origine il rilevante successo della ricerca ferrarese, unico nell’intero panorama italiano, che trascende i limiti del puro, sia pur eccellente, risultato scientifico ed industriale, che è poi alla base del successo stesso; una ricerca che si pone come obiettivo prioritario la individuazione e comprensione di tutte le complesse fenomenologie coinvolte molto spesso in ogni passaggio chimico, fisico, tecnologico, ingegneristico del progetto studiato e di ogni sua parte, ossia “vedere e capire le cose dal di dentro”, come insegnava il professore Giulio Natta.

La responsabilità nelle problematiche di scale-up, nella gestione degli impianti pilota, il coinvolgimento nella gestione degli impianti industriali, nella qualità dei prodotti e nella fase della loro commercializzazione spingeva la ricerca ferrarese alla sempre più completa comprensione di tutti quei fenomeni che la ricerca pura ed asettica di laboratorio, di tipo accademico e universitario, quale era quella sviluppata negli altri istituti, non vedeva, o non voleva vedere, lasciando ad altri, a valle, i compiti considerati “più vili” ma, guarda caso, anche più difficili ed allo stesso tempo avvincenti.

Purtroppo la presenza di uno stabilimento con un impianto di cracking della virgin nafta, il cuore pulsante di un petrolchimico e decine di impianti che producevano materie prime, prodotti di base per il settore, plastiche, elastomeri, ecc., condotti da diverse migliaia di addetti provenienti da ogni parte del Paese e non solo, non fu sufficiente a creare un indotto adeguato, peraltro realizzato in altre province della Regione e nelle regioni anche distanti dalla nostra, … non a Ferrara.

la prima occasione perduta

L’elevato contenuto scientifico e tecnologico del Centro Ricerche Giulio Natta, che sfornava centinaia di brevetti e soluzioni tecnologiche di avanguardia con riconoscimenti a livello internazionale, fu messo a disposizione per affrontare nuove tematiche di ricerca di interesse sociale in un’ottica di sponsorizzazione regionale”, come recita un promemoria emesso il 18 febbraio 1983 (quaranta anni fa !!!) a seguito di un incontro della Direzione del Centro con la Regione Emilia Romagna. Nonostante la formalizzazione di un apposito ufficio (Centro Incontri Tecnici) in città, accessibile a tutti, con la presenza di tecnici specializzati e accreditati “disponibili a fornire consulenza e assistenza tecnica alle aziende interessate”, non si registrarono risultati degni di nota … la straordinaria proposta innovativa andò praticamente deserta.

E siamo alla seconda occasione perduta

Ora passiamo ad anni più recenti, siamo nel maggio del 2001 in occasione dell’Accordo di Programma per la riqualificazione del polo chimico di Ferrara, realizzato per favorire uno sviluppo ecocompatibile, attraverso la costruzione  e il mantenimento nel Polo di condizioni di coesistenza tra tutela dell’ambiente e sviluppo nel settore chimico e la promozione dell’inserimento di nuove attività, siglato  tra la Regione Emilia-Romagna, il Ministero dell’Industria, l’Osservatorio chimico nazionale, Unindustria Ferrara, Federchimica, le Organizzazioni sindacali confederali e di categoria, Comune, Provincia e le aziende insediate.

L’Accordo fu accompagnato dal successo di una importante bonifica delle aree inquinate del Petrolchimico, praticamente unica a livello nazionale, con la messa a disposizione nello stabilimento di decine di ettari idonei per l’installazione di impianti industriali, … e anche qui dopo una ventina di anni non si è visto alcun risultato, nonostante che la collocazione del territorio bonificato sia in una area interamente attrezzata anche dal punto di vista dei servizi tecnologici e già pronta per la costruzione di impianti.

La terza occasione perduta è alle porte.

Arriviamo ai giorni nostri, con la recente straordinaria innovazione legata al progetto MoReTech del Centro Ricerche Giulio Natta, salutato con notevole favore a livello internazionale come altre iniziative del genere che, come è noto, sarà industrializzato da Lyondellbasell in Germania anche perchè con la chiusura del cracker di Porto Marghera si è sostanzialmente messo “un bastone fra le ruote” allo sviluppo della tecnologia del riciclo molecolare delle materie plastiche a Ferrara. Anche in questo caso si butta al vento una occasione di sviluppo del Petrolchimico che avrebbe avuto ricadute favorevoli per tutto il territorio.

La speranza è l’ultima  a morire … ma l’andamento della storia sa tanto di quarta occasione perduta.

Ho riportato in breve quattro opportunità di sviluppo strategico del Petrolchimico (una ricerca più approfondita potrà senz’altro evidenziarne altre) e del territorio in cui esso vive da ottanta anni, che si sono succedute con scadenza ventennale senza essere diventate occasione di crescita e che  tra l’altro sono scivolate via senza particolari emozioni da parte di chi conta a Ferrara dal punto di vista finanziario, economico, formativo,  produttivo, politico, ecc.

La “Bella Addormentata” dovrà aspettare ancora.

Anna Zonari: “Indignata per le parole offensive di Fabbri contro il vescovo Perego, la Chiesa e il volontariato”

Anna Zonari: “Indignata per le parole offensive e menzognere di Fabbri contro Perego

A margine dei ripetuti attacchi del Sindaco Alan Fabbri a monsignor Giancarlo Perego, Vescovo di Ferrara e Comacchio, pubblichiamo questa dichiarazione della candidata Anna Zonari.

“Leggo con sgomento e profonda indignazione le sprezzanti parole rivolte dal Primo Cittadino di Ferrara Alan Fabbri al Vescovo Giancarlo Perego. Una comunicazione offensiva e menzognera, che viene messa in atto oggi a Ferrara, perfettamente in linea con la macchina del fango in atto da tempo a livello mediatico contro la Chiesa di Papa Francesco dalla stampa e dagli esponenti politici di destra.
Scagliarsi oggi, a Ferrara, contro Monsignor Perego significa disprezzare le persone, credenti o non credenti, che osano disobbedire al vento dell’odio e dell’indifferenza che soffia potente in questa città sempre più autoritaria e in questo Paese.
Il Sindaco Fabbri dovrebbe sapere (oppure lo sa benissimo ma fa finta di non saperlo)  che a Ferrara sono migliaia i cittadini che, ogni giorno, si impegnano concretamente contro le diseguaglianze, le discriminazioni, i soprusi, nel volontariato delle parrocchie, delle associazioni e anche per semplice “umanità”, come chi spontaneamente la notte scorsa è andato in soccorso di chi rischia l’assideramento, sotto un portico del centro storico.
Il sindaco pensa di raccogliere voti in nome dell’indifferenza e dell’egoismo, moltiplicando le luci per oscurare la realtà (e la verità) di una città sofferente,  ma esiste una Ferrara che si ribella e si ribellerà sempre di più a questo tentativo di indurire i cuori e resisterà, resterà umana.”.

Anna Zonari

Cover: il sindaco Alan Fabbri e il vescovo Gian Carlo Perego (foto di agenzia Dire)

Mezzogiorno abbandonato

Taglio del Fondo di perequazione, rimodulazione Pnrr, utilizzo improprio del Fondo di coesione, accelerazione dell’autonomia. La strategia del governo sul Sud

di Roberta Lisi
(tratto da Collettiva del 15.01.2024)

RIDURRE I DIVARI

A voler essere obiettivi occorre ammettere che in gran parte le differenze tra Nord e Sud del Paese non sono frutto del fato cinico e baro, ma di scelte precise compiute nel corso degli anni. Senza scomodare come è avvenuto il processo di unificazione dell’Italia, basti ricordare che le ingenti risorse che sono state impiegate per dotare il settentrione di infrastrutture materiali e immateriali non sono state in egual modo destinate al meridione. Non sarà mica un caso che l‘Autostrada del Sole arrivi solo fino a Napoli, così come l’alta velocità ferroviaria si fermi a Salerno. E potremmo a lungo proseguire ricordando come l’insediamento di industrie private ha faticato a realizzarsi, anche per mancanza di strade e ferrovie efficienti. A pagarne le conseguenze sono innanzitutto i cittadini e le cittadine di quei territori e poi tutto il Paese. È stata l’Europa, assegnandoci la quota maggiore di risorse del fondo per Next Generation Eu, a dirci che quei divari vanno colmati.

TAGLI AL PNRR

Il ministro Fitto sembra non saperlo e non interessarsene, visto che nel piano di revisione del Pnrr ha proposto tagli per quasi 16 miliardi ma ben 7,6 riguardano finanziamenti per progetti del Mezzogiorno, dalla riqualificazione delle periferie ai piani urbani integrati, passando per il contratto di sviluppo di Salerno. Ultimo ma non per importanza, l’eliminazione di un miliardo destinato alla riconversione verde dell’ex Ilva di Taranto che proprio in queste ore rischia la chiusura. Non solo i tagli, ma anche la rimodulazione di alcuni finanziamenti colpiscono indirettamente il Sud. Lo spiega Luca Bianchi, direttore generale della Svimez che dice: “La rimodulazione ha sostanzialmente spostato le risorse da singoli progetti al Repower Eu cioè a incentivi alle imprese. Chiaramente, in assenza di un disegno industriale, rischiano di andare di più dove le imprese sono, quindi più al Centro-Nord. Temiamo che questa rimodulazione possa comportare un’ulteriore perdita relativa di risorse per il Sud”. Non solo, è sempre il direttore della Svimez a manifestare la preoccupazione che la riserva del 40% di stanziamenti destinati al Mezzogiorno non venga, così, rispettata.

 

RALLENTAMENTI SU LENTEZZE

 

Sempre il ministro Fitto, seguendo una strategia che sembra essergli cara, accentrare tutto il possibile, ha decretato la chiusura di otto Zes retroportuali che dopo anni di ritardi avevano cominciato a funzionare, per istituirne una sola allocata a Palazzo Chigi nel suo dicastero. Grande la perplessità della Cgil, sia a livello nazionale che territoriale. Anche Bianchi evidenzia una preoccupazione: “Se in linea generale l’idea di un’unica struttura potrebbe essere positiva dal punto di vista di un coordinamento reale degli interventi nei diversi territori meridionali, il rischio che tutto si fermi è reale. Occorre fare il piano strategico della Zes unica, che però non è stato ancora avviato. Il crinale tra successo e fallimento della Zes unica dipenderà dalla capacità di attuarla”.

LA DISTRAZIONE DEL FONDO DI COESIONE

L’ultima denuncia arriva dal presidente della Campania De Luca, che minaccia di denunciare Fitto per la mancata assegnazione di 20 miliardi del Fondo sviluppo e coesione. Già il segretario nazionale della Cgil Christian Ferrari sosteneva: “L’utilizzo delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione, per compensare quanto verrà tagliato con la cancellazione di molti progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è il classico gioco delle tre carte, perché già destinate per l’80% allo sviluppo del Sud”. E non solo, anche i presidenti di Calabria e Sicilia, eletti dal centrodestra, si sono lamentati della decisione del governo su richiesta del ministro Salvini, di destinare alla costruzione del famigerato ponte sullo stretto ben 1,6 miliardi del Fondo Coesione sottraendoli alle due regioni che magari avrebbero potuto utilizzarli per realizzare infrastrutture indispensabili ai cittadini di quei territori.

 

DULCIS IN FUNDO

 

Ma la vera ciliegina amara su una torta già assai indigesta è arrivata pochi giorni fa. Con un tratto di penna sono cassati i 4,4 miliardi del Fondo di perequazione destinato proprio a ridurre le differenze tra Nord e Sud. Era stato il governo Conte 2 a stanziare quelle risorse in vista dell’autonomia. Non solo, il Fondo è stato svuotato e proprio domani arriva all’esame dell’aula del Senato il testo sull’autonomia di Calderoli. Tre giorni di tempo per licenziarlo senza modifiche, questa la volontà del ministro.

IL VERO ALLARME

Lo lancia ancora il direttore Bianchi, è un allarme assai preoccupato: “L’azzeramento del Fondo di perequazione è stato un pessimo segnale. Pur essendo assolutamente insufficiente, era un primo tentativo di avviare, nell’ambito dell’attuazione del federalismo, un processo reale di perequazione strutturale, cioè di riallineamento delle offerte infrastrutturali”. E al pessimo segnale segue, appunto, l’arrivo in aula del testo Calderoli. Chiosa il dirigente della Svimez: “L’allarme per noi più elevato, più drammatico è la prosecuzione del percorso di attuazione dell’autonomia differenziata, perché al di là delle risorse, quella potrebbe essere la vera pietra tombale su qualunque prospettiva di riallineamento dei divari di cittadinanza tra Sud e Nord. Questa è la principale preoccupazione e questo rimane il tema principale su cui concentrarsi”.

ASSENZA DI POLITICHE O STRATEGIA?

Nelle tre ore di conferenza stampa di inizio d’anni, Meloni non ha mai pronunciato la parola Mezzogiorno. Dimenticanza o scelta strategica? La considerazione di Ferrari è netta: “L’esecutivo non ha idee, non ha una strategia, non investe sul Mezzogiorno. Soprattutto – conclude Ferrari – non ha alcuna intenzione di risolvere la sua crisi sociale sempre più acuta e in questo modo danneggia l’intero Paese, che ha bisogno, per crescere in maniera solida e strutturale, di ridurre diseguaglianze e divari territoriali, e di rilanciare innanzitutto le aree più svantaggiate”.

 

“Un tetto di cuori”.
Appello del gruppo di cittadini che assiste chi a Ferrara un tetto non ce l’ha

Appello del gruppo di cittadini che assiste chi a Ferrara un tetto non ce l’ha.  Il loro nome è “Un tetto di cuori” : ancora una volta il volontariato supplisce alla carenza del servizio pubblico. 

“Un tetto di cuori”. Questo è il nome scelto da un gruppo di persone che non volevano restare indifferenti al disagio ed alla sofferenza di quegli esseri umani che anche a Ferrara, come purtroppo in quasi tutte le altre città, compaiono come per incanto all’imbrunire raggomitolati sui loro miseri giacigli fatti di cartone in diversi punti del centro.

E sono solo una minima parte, quella più visibile, dei tanti esseri umani che passeranno la notte all’addiaccio in edifici fatiscenti della periferia. Il volontariato come ormai consuetudine, non solo supporta ma spesso si sostituisce alle Istituzioni pubbliche in quello che sarebbe un loro preciso compito ma che la carenza di finanziamenti e qualche volta di volontà, rende da tempo quasi impossibile sostenere.

Ed ecco quindi che da settimane ormai, con l’arrivo del freddo, donne e uomini mossi dallo stesso spirito di solidarietà, si danno appuntamento nei diversi punti del centro città nei quali ormai sanno di trovare persone alla disperata ricerca di calore, soprattutto umano verrebbe da dire.
Non solo bevande calde, panini e dolci, coperte, maglioni e guanti quindi ma soprattutto chiacchiere, sorrisi ed abbracci è ciò che viene offerto a queste persone che più che senza tetto sono senza affetto.

Non manca tuttavia l’attenzione alla pulizia dei ripari di fortuna ricavati sotto i portici, ed ecco quindi che vengono distribuiti scope, stracci e sacchi per i rifiuti, per lasciare pulito ed evitare così che i residenti od i negozianti non si limitino ad essere purtroppo indifferenti ma diventino addirittura insofferenti richiedendo l’intervento delle Forze di Polizia, costringendo questi esseri umani alla disperata ricerca di rifugi che diano loro la possibilità di sopportare le temperature gelide e di sopravvivere almeno a quella notte, e per le altre si vedrà.

E nell’attesa che finalmente le Istituzioni si decidano ad assolvere il loro dovere sociale che non è quello di emarginarli scacciandoli ma di accoglierli sostenendoli, “Un tetto di cuori” cerca di affiancarli con quel rispetto e quella cura la cui mancanza è quasi sempre all’origine del loro disagio.

E da qui infine il duplice appello lanciato dal gruppo “Un tetto di cuori”;
– alle Istituzioni pubbliche ad assumersi finalmente  la loro precisa responsabilità
con interventi più empatici che burocratici;
– ed ai ferraresi tutti ad essere almeno più tolleranti e magari solidali con questi loro “fratelli”, contattando la redazione redazione di Periscopio (redazione@periscopionline.it)  per fornire la propria disponibilità al gruppo “Un tetto di cuori” con l’intento di allargare e rafforzare questo “tetto” anche con i loro “cuori”.

 

Un tetto di cuori

Parole e figure /
“L’atelier sul mare”, o il potere dell’Arteterapia

Un bellissimo e delicato libro della giapponese Rimako Horikawa, “L’atelier sul mare”, edito dalla casa editrice bolognese Kira Kira, ci porta nel mondo dell’arte e delle storie del cuore, quelle che fanno bene

“Tutte le persone possono creare una storia dentro il loro cuore, perché lì dentro siamo tutti liberi. Disegna pure ciò che c’è così com’è. Non importa come viene”.

Piace fin dalla copertina dai colori tenui e dove una finestra ci porta ad osservare il mare. Lo sguardo si perde lontano, nell’azzurro infinito. Piace anche la camera della nonna, quella dove tutti, da bambini, ci siamo sentiti felici e a nostro agio. Spensierati e curiosi, con occhi e orecchie ben aperti. In attesa del budino alla vaniglia. E poi Kira Kira ci ha abituati alla delicatezza di un Giappone magico, fantasioso e mistico.

Una nonna condivide con la nipotina un ricordo prezioso e speciale della sua infanzia, partendo da un quadro appeso alla parete che la ritrae da bambina. Una settimana d’estate passata nello studio di una pittrice che abitava da sola in una casa dal soffitto alto in riva a mare, una vecchia amica della madre assorbita dalle sue tele e colori; una settimana in cui aveva dipinto molto giocherellando con gli acquerelli, plasmato argilla, letto una montagna di albi illustrati e di libri di pittura, giocato con il gatto, dormito in un comodo letto cigolante, ascoltato il frinire degli insetti e tanta musica, guardato il mondo a testa in giù, come in una danza, passeggiato lungo la riva del mare a guardare le onde e le conchiglie e a sentire l’odore delle alghe, scoperto l’arte e liberato la creatività. Senza più fogli bianchi. Senza un solo minuto di noia.

Mentre il cielo si colorava di arancio e si cenava con piatti inventati da quella poliedrica e libera pittrice, sorseggiando nei bei calici acqua al profumo di cocomero. E chiacchierando, tanto. Quelle letture che l’avevano fatta innamorare di tanti paesi stranieri e diventare insegnante di inglese…

Il racconto di formazione, che lascia a bocca aperta, fa sognare e perdersi, ispirato da un ricordo d’infanzia dell’autrice (“da bambina imparai a dipingere da una pittrice che abitava vicino a casa mia… fu il primo adulto a non trattarmi come una bambina”, scrive), evoca l’atmosfera di un momento speciale e fuori dall’ordinario e, attraverso tavole dettagliate e colte, sottolinea il potere salvifico dell’arte. Sempre. Con le mani intinte e perse nelle tonalità più svariate, con le dita e le piante dei piedi che riempiono fogli. Dando forma e colore a ciò che si è visto con il cuore. Meraviglioso. Unico.

Rimako Horikawa, L’atelier del mare, Kira Kira, Bologna, 2023, 32 p.

Nel 2021, “L’atelier del mare” ha vinto il Bunkamura Les Deux Magots Literature Award. Nel 2022, ha ricevuto il 53° Kodansha Picture Book Award e il 71° Shogakukan Children’s Publishing Culture Award ed è stato premiato nel Moe Children’s Book Shop Award, la classifica dei trenta libri preferiti dalle librerie giapponesi per bambini e ragazzi.

“L’Atelier sul mare” è patrocinato dall’Associazione Art Therapy Italiana, che promuove la pratica dell’Arteterapia e della Danzamovimentoterapia in Italia, attraverso la formazione di professionisti in grado di progettare e condurre interventi specifici in ambito sanitario, sociale e educativo, e contiene una prefazione della fondatrice Mimma Della Cagnoletta.

Rimako Horikawa, Foto Kosuke Adachi

Rimako Horikawa è nata a Tokyo nel 1965 ed è cresciuta in una famiglia amante dell’arte e le piace disegnare fin da quando era molto piccola. Si è laureata all’Università di Belle Arti della sua città. È sia una pittrice apprezzata che espone in Giappone sia un’autrice e illustratrice di picture book per diversi editori giapponesi. Il suo occhio e la sua coscienza sono sempre alla ricerca di qualcosa di interessante.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Vincenzo Mollica, “L’arte di non vedere”, da Roma a Milano attraverso il mondo

Per la prima volta in teatro, Vincenzo Mollica presenta il suo spettacolo “L’arte di non vedere”. All’Auditorium Parco della Musica di Roma l’11 gennaio e a Milano, al Teatro degli Arcimboldi, il 15 gennaio. Uno spettacolo indimenticabile.

Roma, Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, Sala Sinopoli. Tutto esaurito. Sfilata di vip, nelle prime file della platea: ci sono Fiorello con la moglie Susanna Biondo, Mara Venier, Renato Zero, Paola Cortellesi con il marito Riccardo Milani, Maria Grazia Cucinotta, Alberto Matano, Clemente Mimun. Noi più in fondo, ma ci siamo.

È un evento speciale e coinvolgente, questo monologo di due ore di Vincenzo Mollica, accompagnato al pianoforte dal gentile e attento cantautore Enrico Giaretta.

“L’Arte di non vedere”, Auditorium Parco della Musica, foto Simonetta Sandri
“L’Arte di non vedere”, Auditorium Parco della Musica, foto Simonetta Sandri

Una confessione intima e sincera. Un momento di grande emozione, commozione e risate, di fronte a un uomo che si racconta, che fa i conti con malattie e cecità – annunciatagli fin dall’età di sette anni e fatta di visione con un occhio solo fino a poco tempo fa -, senza alcuna autocommiserazione ma con grande ironia, presenza di spirito e di adattamento, quello che solo le grandi anime coraggiose sanno inventarsi.

Tantissimi gli aneddoti di una vita ricca e piena di soddisfazioni, costellata da grandi incontri con i più importanti personaggi del mondo dello spettacolo, riempita da quelle interviste che hanno fatto di Mollica un unicum, un faro per ogni giornalista che con quel mondo si confronta. Ineguagliabile, irripetibile, inimitabile, irraggiungibile.

“Omerico non lo sarò mai per le poesie, ma per mancanza di diottrie”, esordisce.

“Devo tutto a due grandi maestri”, continua, “a Federico Fellini che mi ha insegnato l’arte di vedere e ad Andrea Camilleri che mi ha insegnato quella di non vedere”.

I racconti degli incontri con Federico Fellini – di cui Mollica ha scritto molto – sono fra i più emozionanti, la bellezza di chi ha avuto il privilegio di lavorarci fianco a fianco, con i pranzi preparati da Giulietta e le scorribande per le vie di Roma. Quella Roma che era la ‘Hollywood sul Tevere’, bei tempi che furono.
C’è tanta Roma in questo spettacolo e il pubblico lo sente: sullo schermo scorrono le immagini di spezzoni con Alberto Sordi, Gabriella Ferri, Renato Zero, Nino Manfredi. Applausi ogni volta che sul video sfila un viso noto che non c’è più. Un bell’omaggio del pubblico a tanti personaggi dello spettacolo italiano e non.

Dai video del repertorio Rai rivediamo le battute con Paolo Conte, Lucio Dalla, Roberto a Benigni, Franco Battiato, ma a coinvolgere è, soprattutto, l’incontro con la grande Alda Merini che, a distanza, dialoga con Adriano Celentano, che lei adorava.

Unici e divertenti i racconti di Marcello Mastroianni che mente a Fellini, dicendo di trovarsi a girare in Grecia per nascondere le sue infedeltà, che vola a New York per cenare con Faye Dunaway dopo un pranzo a base di fagioli (il suo cibo preferito) o che “schiva con regalità” gli oggetti lanciatigli addosso da una Catherine Deneuve inferocita per le sue infedeltà. Una donna tradita che gli rimprovera pure di credere di saper recitare…

Toccanti i racconti degli scambi con Andrea Camilleri, uniche le strofe di canzoni intonate per lui da Bruce Spreengsten, Sharon Stone, Lady Gaga, George Clooney.

Gli aforismi messi in musica da Giaretta, “Molliche di Mollica”, sono originali, molti, rivisitati, li si ritrovano nel suo libro “Scritto a mano pensato a piedi: aforismi per la vita di ogni giorno”, altri sono brevi pensieri che giungono dalla pagina Instagram di Mollica, la sola, confessa, che ora riesce in qualche modo a gestire.

Belli anche i disegni che sfilano sullo sfondo, di, fra gli altri, Andrea Pazienza e Milo Manara, a ricordare la passione del cronista per il mondo dei fumetti.

Ma le parole più amichevoli e tenere sono tutte per Rosario Fiorello, l’amico di sempre che lo incoraggia e sostiene e che l’ha trasformato in pupazzo, perché “sono l’unico entrato in televisione come un personaggio in carne ed ossa e uscito come un pupazzo”, scherza.

E poi, ricorda, “ho avuto anche il grande onore di essere un personaggio dei fumetti della Disney, Vincenzo Paperica”, il simpatico cronista paperopolese con la passione per il cinema, nato grazie alla mano di Giorgio Cavazzano, apparso per la prima volta nella storia di “Paperino Oscar del centenario” su “Topolino” n.2074 del 29 agosto 1995 (nel 2021, è anche uscito, con Giunti, “Papershow”, una raccolta delle 12 migliori storie a fumetti di Topolino che hanno per protagonista il personaggio di Paperica).

Sullo sfondo, nello schermo gigante, appare, allora, il sorridente papero e il giornalista ancora scherza: “quando vado al cimitero e vedo le immagini sulle lapidi, sono sicuro del fatto che nessuno dei defunti abbia mai scelto la sua. Sono foto terribili, con espressioni improbabili e impossibili. Per questo ho chiesto a mia moglie Rosa Maria, di mettere, sulla mia tomba, quella di Paperica, con la frase qui giace Paperica, in vita fu Mollica”.

Ci auguriamo, sinceramente, che quel momento arrivi tardi, tardissimo, caro Vincenzo, abbiamo ancora bisogno di te. Tanto. In attesa che mamma Rai, di cui ti senti parte da sempre, – e quanto lo hai ripetuto -, presenti a tutti, presto, questa bella serata.

Dimenticavo la parte più bella. Chiude lo spettacolo una ‘standing ovation’ del pubblico, sulle note di “Azzurro”. Cantiamo tutti, con le lacrime agli occhi.

Estratto video da Corriere TV

Cinquant’anni fa Andy Wharol era a Ferrara invitato da Franco Farina.
Oggi Vittorio Sgarbi, dopo la “mostra pacco” di BANKSY, ci riprova con Mapplethorpe.

Ferrara “città d’arte e di cultura” appare oggi un significante senza significato, un contenitore incontinente, un’indossatrice che deve apparire interessante senza accendere nessun altro interesse che non sia rivolto solo ed esclusivamente alla forma esteriore delle vesti con cui viene vestita, presentata e offerta al pubblico pagante.

Di fronte all’uso esteriore banalmente seduttivo che viene fatto dell’arte e della cultura a Ferrara e per arginare il dilagante fenomeno di narrazioni incomplete, decontestualizzate e alterate che ci sta portando alla nebulizzazione dei confini tra falso e vero e alla scomparsa del pensiero critico, verrebbe innanzitutto voglia di invocare la massima dello scrittore Karl Kraus: “Quando il sole della cultura vola basso, i nani hanno l’aspetto di  giganti”.

L’atteggiamento assunto dalla nostra città negli ambiti artistici e culturali ufficiali, fa sorgere interrogativi inquietanti. Impossibile non porseli.

Quanto dovremo attendere affinché azioni veramente culturali rendano la nostra comunità consapevolmente attiva e partecipe alla vita pubblica, unita nelle differenze, erede della propria tradizione, orgogliosa della propria storia e determinata a preservare il patrimonio materiale e immateriale da incurie, abbandono e speculazioni scorrette?

L’arte potrà nuovamente stimolare il dialogo sociale e politico, fungendo da catalizzatore per la riflessione e la discussione su questioni rilevanti?

Saprà di nuovo sfidare le percezioni esistenti, stimolare la curiosità, potenziare la creatività e invitare a considerare differenti prospettive di pensiero?

Se sì, come fare affinché tutto ciò avvenga o ri-avvenga di nuovo?

Una risposta teorica potrebbe arrivare da Marco Tullio Cicerone il quale sosteneva che le opere d’arte non sono solo ornamenta, ma sono da considerare monumenta: non luoghi di svago e passatempo, ma luoghi di costruzione della società civile, attraverso i quali non solo difendere il passato, ma costruire il futuro.
Ma quando il sole della cultura vola basso, mai così in basso come oggi a Ferrara, talmente raso terra da illuminare solo piccole forme e lunghissime ombre, è perché ci troviamo in presenza di nani o di giganti?

In entrambi i casi, cosa fare?

Una risposta pratica che è tutto un programma – anzi è il programma delle cose da fare – arriva da Bernardo di Chartres il quale sosteneva che quando “Siamo come nani sulle spalle dei giganti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.

In altre parole, se anche fossimo in presenza di veri e propri giganti, la cosa da fare è innalzarci per vedere meglio e più lontano di loro.

Cominciando da BANKSY, non autorizzato e tradito

Nella grafica del manifesto/copertina catalogo della mostra a cura di Stefano Antonelli, Gianluca Marziani e Acoris Andipa organizzata da Fondazione Ferrara Arte e Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, in collaborazione con Associazione Culturale MetaMorfosi, la dicitura UNAUTORIZED (non autorizzata) risulta illeggibile

Il concetto che è stato alla base dell’evento espositivo “Un Artista Chiamato Banksy ospitato presso la Civica Galleria Comunale di Arte Moderna Palazzo dei Diamanti di Ferrara dal 30 maggio al 27 settembre 2020, è il primo che merita di essere riproposto per i motivi che hanno sollevato critiche sulla sua non autenticità, sulla sua liceità e sull’effettivo valore dei contenuti espressi  all’interno di un contenitore di eccellenza apprezzato a livello internazionale proprio per le metodologie espositive totalmente differenti sino ad allora adottate.

Vittorio Sgarbi, in qualità di neoeletto presidente della Fondazione Ferrara Arte e di artefice della mostra, è stato criticato apertamente nei contenuti e nella forma fin dal momento in cui, in campagna elettorale, ha cominciato a speculare sul fatto sensazionale che lui, se eletto, avrebbe portato Banksy a Ferrara.

La nuova gestione della giunta Fabbri sì è pertanto presentata con una proposta espositiva a pagamento che ha avuto come risultato finale una delle più grandi truffe dell’arte moderna contemporanea, contemporaneamente rifilata all’artista, al pubblico e all’arte.

Un atto inaugurale di un nuovo corso politico-culturale che non ha preannunciava niente di buono e che presagiva qualcosa di ancora peggio, lasciando intravvedere fin da subito precise volontà di orientare – se non di dirottare – l’arte e la cultura ferrarese in direzioni demagogiche, personalistiche e clientelari.

Aderendo in pieno al solito cliché che quando si parla di Banksy e quando si organizzano mostre sulle sue opere si parla di un artista inglese vivente la cui vera identità è sconosciuta, considerato uno dei maggiori esponenti di quella che viene genericamente definita Street Art (disciplina considerata giuridicamente illegale e vandalica), nell’ambito della mostra sono state esposte 100 opere provenienti da collezioni private sotto forma di serigrafie, manifesti, poster, copertine di dischi, adesivi, t-shirt e memorabilia che riproducono le solite icone, la bambina con il palloncino, il lanciatore di fiori, l’elicottero militare con il fiocco rosa, giocatori che anziché con le bocce giocano con bombe a mano, pensando così di dare in pasto al gusto del pubblico quello che s’aspetterebbe se fosse presentato solo come un simpatico vignettista satirico diventato genio per l’abilità dimostrata nel gestirsi al limite della legalità e rimanendo nascosto e anonimo per convenienza e strategia mediatica.

Cosa non ha mostrato la non mostra su Banksy è che la maggior parte delle sue opere sono nate in funzione dei e per i luoghi in cui sono realizzati, che le “tele” su cui le ha dipinte sono i muri e che i muri su cui ha dipinto le sue opere più significative – cioè quelle gratuite e pubbliche che lo hanno consacrato come uno dei massimi esponenti sì della street art, ma della street art di denuncia e di protesta – si trovano nel Lower East Side di New York, cioè in uno dei luoghi di nascita e diffusione del Graffitismo Metropolitano degli anni ’70; nella baraccopoli di Calais, cioè nella “Jungle” umana che raccoglie i migranti in fuga dai più cruenti scenari di violenze e crimini di guerra subiti da popolazioni civili in Medioriente e Africa; in Palestina, all’interno della Striscia di Gaza e, in maggior parte, in Israele sul muro di oltre settecento chilometri che l’esercito israeliano che lo ha costruito chiama Barriera di Separazione o Security Fence; la popolazione civile palestinese che lo subisce -nonostante l’illegalità riconosciuta a livello mondiale dall’Assemblea Generale dell’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja- lo chiama Muro della Vergogna o Muro dell’Apartheid.

Quello che a Ferrara è sfuggito dal clichè è stato colto in maniera spontanea e approfondita (vedasi i commenti dello stesso Banksy sulla bacheca della sua pagina ufficiale Instagram @banksy, la pagina Facebook “Banksy a Fe a Fake” e la pubblicazione da parte della casa editrice ferrarese La Carmelina di un catalogo non ufficiale definito “apocrifo” curato da Franco Ferioli e Federico Felloni “Palestine Bad Art: Massima destinazione del writing”, video di Nicola Jesu Cattani della presentazione del libro visibile a questo indirizzo.  Critiche anche su tutta una serie di stridenti differenze di stile, dal momento che la mostra che avrebbe dovuto raccogliere tutto il pensiero e tutta l’opera artistica di Banksy, oltre ad essere stata organizzata senza la sua presenza e contro la sua volontà, non è nemmeno stata in grado di programmare alcuna iniziativa collaterale.

Nessun incontro, nessuna conferenza, nessun coinvolgimento ludico-didattico o laboratoriale, solo comprensibili insoddisfazioni da parte di coloro che si sono recati alla cassa per pagare un biglietto di ingresso dal costo di molto superiore a quello che gli avrebbe garantito i medesimi risultati di una connessione telefonica per poter accedere alla pagina on line dell’artista e scaricare liberamente gran parte dei contenuti cartacei esposti in sala.

Non ha nemmeno avuto luogo la sbandierata presenza – annunciata direttamente dal sig. Sindaco Alan Fabbri a coronamento del “grande successo” della mostra – del celebre musicista e dj inglese Daddy G, talmente vicino all’ambiente artistico del misterioso Banksy, da rifiutarsi di prendere parte ad un evento anche da lui giudicato falso, offensivo e lesivo.

Quando si organizzano e si propongono mostre di un artista vivente che le considera inappropriate, non ufficiali e non autorizzate, cioè condotte senza il suo coinvolgimento, senza la sua presenza e contro la sua volontà, è l’atteggiamento etico e morale degli artefici che inizia a vacillare, aprendo il campo a dubbi legittimi sul vero significato, sul valore e sull’appartenenza dell’arte, fermo restando che svincolare l’arte e la produzione artistica dall’artista cui appartiene, è un’operazione di pirateria condotta sia a livello personale e individuale che a livello collettivo e pubblico.

L’opera d’arte ridotta a variabile decorativa

L’uso strumentale degli artisti in chiave personalistica fa emergere il ruolo del culturale contro la cultura, il valore della quantità contro la qualità, il vantaggio del privato contro il pubblicoL’opera d’arte, ridotta a variabile decorativa, diviene illustrazione del pensiero critico.

La mostra espositiva, declinando in mostra propagandistica da “leggere” per farsi eleggere, risalta quello di sensale come unico compito del curatore, attribuisce il merito della paternità a un demagogo populista e diviene evento che scorre attraverso narrazioni non appropriate, pubblicazioni poco approfondite, saggi per niente «saggi», per poi sfociare in una molteplice offerta di vendita prodotti di merchandising e di oggettistica da art-shop.

Appena Banksy ha bollato la mostra un fake, cioè falsa e non autorizzata, si è compreso che ad essere falsi e non autorizzati sono stati il titolo, la mostra, la sede che l’ha ospitata, l’artefice e i curatori che l’hanno presentata in modo scorretto, incompleto e strumentale, compiendo un oltraggio artistico, una speculazione economica e una prevaricazione intellettuale che offende i concetti di libertà di espressione artistica e di libertà di pensiero politico e sociale.

Quello che è emerge dalle sale comunali d’arte moderna a Ferrara è un vero tradimento, la perdita di un doppio concetto:
– ogni artista è sempre stato libero di stabilire chi, come e dove possa ritenersi autorizzato a diffondere il significato e il valore della propria opera;
– il metodo conoscitivo offerto dalla storia dell’arte è sempre stato attento a considerare qualsiasi fenomeno di espressione artistica in relazione all’ambiente e al contesto storico, sociale e culturale di riferimento.

Tutto questo con riflessi negativi non solo a livello locale, provinciale o regionale, ma anche a livello nazionale e internazionale, in tutti quei contesti in cui ogni esempio apportato dalle precedenti esperienze e attività espositive del Palazzo aveva brillato di luce propria come ognuno dei Diamanti scolpiti sulle proprie pareti esterne. 

Franco Farina ed Andy Warhol 

Ciò che risulta inconcepibile è che non si sia riusciti a comprendere come la Galleria Comunale d’Arte Moderna Palazzo dei Diamanti non possa avere come scopo istituzionale quello di operare contro la volontà degli artisti e quello di strumentalizzarne l’operato. Oltretutto, fingendo di seguire le orme dei “giganti” del passato, facendo esplicito riferimento ai meriti conseguiti dal lavoro svolto dalle equipe dei predecessori e da uno dei suoi direttori più emeriti come il Maestro Franco Farina, colui cioè che invitò Andy Warhol a venire a Ferrara quando era considerato, al pari del Banksy odierno, l’esponente più conosciuto della Pop Art.

Nell’autunno del 1975, Ferrara era come New York e Corso Ercole d’Este come la 47a Strada: Andy Warhol passava il tempo tra il Palazzo Diamanti e il ristorante La Provvidenza.

“Ladies and Gentlemen” era il titolo della mostra, organizzata dal direttore Franco Farina e dai suoi collaboratori, dedicata ai ritratti dei travestiti afroamericani che animavano le notti del The Gilded Grape, uno dei locali più frequentati dall’ambiente underground newyorkese negli anni ’70.

Sbarcato per la prima volta in Italia e in Europa, Andy Warhol trascorse qualche settimana a Ferrara per allestire la mostra, presenziare all’inaugurazione e e incontrare il pubblico, gli intellettuali, gli artisti e i giornalisti, tra i quali anche Pier Paolo Pasolini, che venne invitato a scrivere un testo critico sulla sbalorditiva esposizione dei duecento ritratti di donne transgender afro e portoricane.

Vitorio Sgarbi e Robert Mapplethorpe

Nell’autunno del 2023, quello che avrebbe dovuto essere l’evento di punta della programmazione espositiva di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, la mostra-dialogo tra il fotografo Robert Mapplethorpe e il pittore Filippo de Pisis, la cui inaugurazione avrebbe dovuto tenersi il 23 marzo 2024, è stato annullato.

Mapplethorpe, autoritratto, Robert Mapplethorpe Foundation ©

A spingere la Robert Mapplethorpe Foundation a far saltare tutto è stata la scelta del titolo della mostra, proposto dal Presidente di Ferrara Arte Vittorio Sgarbi: “Fiori e cazzi”.

A nulla sono valsi i tentativi da parte degli organizzatori di modificare il titolo della mostra, tramite una nota pubblicata dal Comune di Ferrara in occasione della Fiera Internazionale del Turismo di Rimini: “Fallo coi fiori” oppure “Filippo de Pisis e Robert Mapplethorpe, tra grazia e dannazione”.

La nota ufficiale a firma di Vittorio Sgarbi Segretario alla Cultura e Presidente della Fondazione Ferrara Arte, Alan Fabbri Sindaco e Marco Gulinelli Assessore alla Cultura, si conclude speranzosa che Sarà un inedito viaggio tra fotografia e pittura con sorprendenti parallelismi tra i due giganti delle rispettive arti”.
Ma il contenuto della nota e i nuovi titoli non sono serviti a fare cambiare idea alla Robert Mapplethorpe Foundation e al suo direttore Joree Adilman“estremamente turbato dal titolo”– nemmeno quando Sgarbi ha argomentato le motivazioni che lo hanno spinto a proporre come primo titolo Fiori e cazzi: a ispirarlo sarebbe stata un  frase dello stesso Mapplethorpe, che, secondo Sgarbi, sarebbe questa: “cerco la perfezione nella forma, lo faccio con i ritratti, lo faccio con i cazzi, lo faccio con i fiori”.

Mentre invece la frase è questa: «Cerco la perfezione nella forma. Lo faccio con i ritratti. Lo faccio con i peni. Lo faccio con i fiori. Non c’è differenza da un soggetto all’altro. Cerco di catturare tutto quello che mi appare scultoreo”.

E dall’interno di questi due poli iniziali e finali, Banski e Mapplethorpe , entrambi negativi, che si è composta la nuova forma di fare arte e cultura nella Ferrara di Alan Fabbri e del grande ispiratore Vittorio Sgarbi. 

Se vorremo riprendere il cammino culturale che la città di Ferrara merita, dovremo rialzarci e cambiare strada. E guardare a quanto di originale, di nuovo, e di importante la nostra città ha rappresentato per la cultura e per l’arte internazionale.

Per approfondire:

https://www.palazzodiamanti.it/mostre/un-artista-chiamato-banksy/

https://www.mapplethorpe.org/foundation

https://www.kermes-restauro.it/salta-la-mostra-de-pisis-mapplethorpe/

https://www.comune.fe.it/it/z/1931/view?modelClass=elitedivision%5Camos%5Cnews%5Cmodels%5CNews&view=detailNews

https://www.fanpage.it/spettacolo/persohttps://www.kermes-restauro.it/salta-la-mostra-de-pisis-mapplethorpe/naggi/vittorio-sgarbi-pronta-una-mostra-che-si-chiama-fiori-e-caz-ma-i-moralisti-non-me-la-faranno-fare/

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Franco Ferioli, clicca sul nome dell’autore, oppure visita la sua rubrica Controcorrente

Per certi versi / Ai Baci

AI BACI

I baci
Sono
Numeri
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E internazionali
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La lingua
Che parla
A un’altra
lingua
Senza traduzione
Ah i baci
Più di Catullo
Sono infiniti
Non decimali
Non periodici
Non hanno
Radici
Sono fatti
Per essere
Inseparabili
Amici
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Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Tasse, disuguaglianze, povertà e armamenti:
Istantanee di un’Italia decadente

Tasse, disuguaglianze, povertà e armamenti: istantanee di un’Italia decadente

La pressione fiscale sui contribuenti onesti è al 47,4%: così titolava il giorno dell’Epifania in un suo comunicato la CGIA di Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese), aggiungendo che lo scorso anno i contribuenti italiani fedeli al fisco hanno subìto quasi 5 punti di tassazione in più rispetto al dato ufficiale, che l’anno scorso si è attestato al 42,5 per cento. Perchè una tale differenza? “Il nostro Pil, come del resto quello di molti altri Paesi dell’Unione Europea, comprende anche gli effetti dell’economia non osservata – sottolinea la CGIA di Mestre – il cui contributo alle casse dello Stato è per definizione nullo. Pertanto, alla luce del fatto che la pressione fiscale è data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil, se da quest’ultimo storniamo la componente riconducibile al sommerso, il peso del fisco in capo ai contribuenti onesti sale inevitabilmente, consegnandoci un carico fiscale reale per il 2023 del 47,4 per cento. Si tratta di un livello di 4,9 punti superiore a quello ufficiale che, invece, si è attestato al 42,5 per cento.”

La CGIA di Mestre prende atto che nel 2023 il prelievo fiscale è finalmente sceso rispetto all’anno precedente: la pressione fiscale è diminuita di 0,2 punti percentuali, grazie alla rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni dell’Irpef e al modesto aumento del Pil. Analogamente, anche nel 2024 il peso complessivo delle tasse e dei contributi sulla ricchezza prodotta nel Paese dovrebbe scendere. “Tuttavia – osserva sempre l’associazione – è verosimile ritenere che la gran parte degli italiani, purtroppo, non se ne sia accorta, poiché allo stesso tempo è cresciuto il costo delle bollette, della Tari, dei ticket sanitari, dei pedaggi autostradali, dei servizi postali, dei trasporti, etc. Insomma, se le tasse sono diminuite, il peso delle tariffe invece è salito creando un effetto distorsivo. In sintesi, i contribuenti non hanno potuto beneficiare pienamente della diminuzione della pressione fiscale perché, nel frattempo, sono aumentate le tariffe che, a differenza delle tasse, statisticamente non vengono incluse tra le voci che compongono le entrate fiscali.”

Salari fermi da oltre trent’anni, ricchezze sempre più nelle mani di pochi, divari tra nord e sud e tra uomini e donne, aumento della pressione fiscale e dell’inflazione e un lavoro sempre più precario, povero e malpagato stanno ingrossando giorno dopo giorno le file delle povertà, ove già faticano ad andare avanti oltre 5,6 milioni di poveri assoluti, pari al 9,7% della popolazione. Una povertà diventata ormai un fenomeno strutturale e non più residuale come in passato. Nel presentare l’ultimo rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia dal titoloTutto da perderedon Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana sottolineava che: “la presenza di oltre 2,1 milioni di famiglie povere è una sconfitta non solo per chi ne è direttamente coinvolto, ma anche per l’intera società, perché così essa si trova a dover fare i conti con la perdita di capitale umano, sociale, relazionale che produce gravi e visibili impatti anche sul piano dei diritti.

La Legge di Bilancio del Governo Meloni, come ha evidenziato Sbilanciamoci!, non fa nulla per cercare di arginare le povertà in continua espansione, per combattere seriamente l’evasione e il sommerso e per cercare di ridurre le disuguaglianze. Al contrario, favorisce l’evasione fiscale e i privilegiati, taglia i fondi alla sanità e al welfare, criminalizza i migranti, non guarda in alcun modo alla lotta a diseguaglianze e cambiamenti climatici, devolve miliardi di euro a un’opera dannosa e inutile come il Ponte sullo Stretto e aumenta le spese militari. “In Italia, si legge in un recente rapporto di Greenpeace, la crescita della spesa per le armi (+132%) tra il 2013 e il 2023 supera anche quella della spesa pubblica in conto capitale per la costruzione di scuole (+3%), ospedali (+33%) o impianti di trattamento delle acque (che ha registrato addirittura un trend negativo: -6%).”

Sbilanciamoci! nella sua contromanovra, a proposito di fisco, scrive che: “gli interventi da mettere in campo per una riforma fiscale organica e seriamente redistributiva sono dunque di segno opposto rispetto al disegno del governo Meloni e sono quelli delineati dalla campagna Tax the Rich di Sbilanciamoci! . Occorre innanzitutto invertire la tendenza alla frammentazione della base imponibile Irpef riconducendo a tassazione progressiva tutte le fonti di reddito. Anziché appiattire ulteriormente la struttura delle aliquote Irpef, occorre potenziare la progressività aumentando il numero di scaglioni in modo da poter alleggerire il carico fiscale delle fasce di reddito più basse. Sul fronte della tassazione della ricchezza, risulta ormai improrogabile l’introduzione di una tassazione patrimoniale progressiva che vada a colpire i patrimoni milionari (superiori al milione di euro) e le successioni dei grandi patrimoni, andando a incidere sulla trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. Infine, occorre delineare una vera tassazione delle rendite finanziarie per colpire le attività altamente speculative e rimettere al centro l’economia reale.”

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“Le 7 Ave Maria”, di Elisa Piffanelli, domenica 14 gennaio alla basilica di San Giorgio

Domenica 14 gennaio alle h. 18.00 a seguito della messa presso la basilica di San Giorgio verranno proposti ascolti musicali di brani scritti per la Vergine Maria.

Il progetto, intitolato “ le 7 Ave Maria “ creato e diretto da Elisa Piffanelli, nasce con la volontà di portare ascolti musicali ispirati da un sentire intimo, dolce, accorato. un tema unico declinato in vari modi.

Gli ascolti si svolgono in ambiti sacri per la Bellezza artistica, architettonica, e la spiritualità dei luoghi di culto, resi unici e vari sia per i brani proposti sia per le timbriche degli strumenti scelti: duo voce e pianoforte, oppure violino e pianoforte, trio violino voce e pianoforte, quartetto d’archi e voce, trio d’archi, pianoforte e voce.

Autori non solo tra i più celebri quali Schubert, Gounod, Caccini, Verdi ma anche C. Gomez, Piazzolla, Howard, Kaldalons, Ocko hanno scritto intensi brani dedicati alla Vergine Maria.

Da Novembre ad oggi sono stati effettuati ascolti presso il monastero di Sant’Antonio in Polesine, la parrocchia di Santo Spirito, il santuario del Poggetto , la Basilica di San Giorgio.

“È la delicatezza del sentire che mi muove a ricercare musiche dedicate alla Vergine Maria – spiega Elisa Piffanelli – mi affascina come sia stato curato da molti musicisti, più e meno noti, la preghiera alla Vergine Maria accumuna molti artisti non solo compositori ma anche poeti Alda Marini, ad esempio “.

I brani prendono vita grazie alla preziosa voce di Serena Dominici, mezzo soprano, assieme ad Elisa Piffanelli (pianoforte), Vanessa Avanzi (pianoforte) e giovani musicisti che scelgono di volta in volta di aderire

Scopo del progetto è avvicinare i giovani a suonare e a sentirsi tutt’ uno tra arte, spirito e musica.

Piffany Ensemble esegue musiche per cerimonie (matrimoni, battesimi, funerali) interventi nell’ambito dedicato ai diritti delle donne e per la valorizzazione delle piccole imprese al femminile.

Per contatti info@elisapiffanelli.it oppure wa 373 78 03 540

Leggi anche articolo di Simonetta Sandri, Elisa, esploratrice di suoni

Gli spari sopra /
Intervista a Karl Marx

Intervista a Karl Marx

«Ciao Ka!»

«Ciao Cri!»

«Eh quindi? Cioè volevo dire, anzi non sono bene cosa volevo dire, sarebbero tante, troppissime le domande che vorrei farti, vorrei chiederti soluzioni, opinioni, vorrei che mi, anzi ci, indicassi la via, ci dessi una mano a trovare il bandolo della matassa, ma ancor di più vorrei chiederti perché?»

«Beh intanto io sarei morto da una cento quarantina d’anni, le tue perplessità e domande mi sembrano assai poco chiare, altresì dovrei essere io a chiedere a te e a voi perché? Si certo io sono stato veggente, ho visto lo sviluppo della vostra misera società con un secolo d’anticipo, ho visto nascere e morire poeti, economisti, scrittori, politici, donne e uomini del popolo che hanno creduto in me, le masse, il famoso proletariato, vedeva in noi una speranza, l’unica. Il quarto stato come dal bel dipinto di Pellizza marciava verso la propria autodeterminazione. Poi, cos’è successo?»

«Ok Ka, ma non è che puoi farmi il verso, sei tu l’economista, filosofo, poeta e il libero pensatore, il traino delle masse, se lo sapessi di sicuro non sarei un alienato all’interno di una fabbrica»

«Vabbè, intanto noto che hai utilizzato un termine a me caro e che è in un certo qual senso uno dei perni del mio pensiero, che ti ricordo non essere marxista, mi spiego meglio, io KM ero Comunista, il mio pensiero era marxista in quanto nasceva da me medesimi. Vabbè non è troppo chiaro, ma non è questo il punto.»

«Esatto, qual è il punto, dove si è fermato il nostro cammino, dov’è che i posteri hanno sbagliato, come è stato che ti hanno messo da parte?»

«E ridaje con queste domande. Secondo me bisogna partire da lontano, molto lontano. In vita le nostre teorie, le mie e quelle di Federico, ma pure di altri compagni, anarchici, socialisti, non riuscirono ad attecchire come avremmo voluto. Ti ricordo che noi inventammo o almeno cercammo di perseguire la democrazia (con buona pace degli antichi greci), che all’epoca non esisteva come concetto. Oppure era solo e esclusivamente appannaggio delle classi dominanti, la borghesia stava plasmando i propri partiti, pure qualcuno progressista, altrettanto vero che la Rivoluzione Francese già da cinquanta anni prima della mia nascita aveva abbozzato l’idea di raggruppamenti di persone che perseguivano una stessa idea o ideale, parola che nei vostri tempi ha assunto una accezione negativa, non ho mai capito il perché. Questo era il nostro punto di partenza. Il proletariato industriale stava nascendo in Inghilterra ed è lì dove io pensavo ci sarebbe stata la scintilla rivoluzionaria, certamente non in Russia, dove era da poco stata superata la servitù della gleba e il popolo non aveva la benché minima coscienza di classe. Chiaro questo, sì?»

«No»

«Vabbè, non è che sei poi tanto sveglio»

«Mai detto questo, sono solo diplomato con il minimo dei voti»

«Va bene, riprendiamo il concetto, la Russia era l’ultima delle nazioni europee che aveva le potenzialità per far vincere la rivoluzione, semplicemente perché non esisteva una classe, in grado di emanciparsi. Ma lì avvenne, grazie a Vladimiro e ai Bolscevichi. La rivoluzione fu cruenta, come tutte le rivoluzioni, è un concetto mutuato dalla fisica. Vlad, pur con errori fece un gran lavoro, lui, la Russia e i comunisti divennero una speranza per i derelitti e per i bisognosi, i mezzi di produzione divennero dello stato, e in estrema sintesi la dittatura del proletariato fu messa in pratica. Chiaro sì, cosa intendevo per dittatura del proletariato? No, credo proprio di no, i posteri, gli studiosi, gli elaboratori del mio pensiero, su questo concetto non ce  l’hanno mai fatta a fare chiarezza, a rendere ineccepibile il concetto. Dittatura del proletariato è un ossimoro, il comunismo non può essere dittatura, perché è il popolo che decide per se stesso, per il proprio bene, per la propria dignità. Ho sempre apprezzato George Horwell, dai tempi in cui combatteva con le Brigate internazionali in Spagna e lui nel suo simpatico romanzo lo spiega bene, uguali vuol dire uguali, non come i maiali che divennero più uguali degli altri e ricondussero la fattoria alla schiavitù e al culto della personalità impersonato da quel famoso Giuseppe che mai ha rappresentato il mio pensiero e la mia visione? Chiaro questo concetto?»

«Si questo a me è chiaro, credo di ripeterlo a pappagallo dai tempi delle elementari, ma a tutt’oggi esiste gente che si ritiene dei compagni che sta storia non l’ha ancora digerita.»

«Proseguiamo perché la storia è ancora lunga, dalla presa del Palazzo d’inverno a oggi è passato davvero tanto tempo e io benché l’avessi vista lunga mai mi sarei immaginato un mondo con queste fattezze. Anche se il concetto di fondo lo avevo capito. Ma andiamo con ordine. Nel secolo breve, quel famoso novecento dove noi e le nostre idee acquisimmo dignità, grazia alle speranza (disattese) della Russia, ma soprattutto per merito di pensatori che fecero progredire il mio pensiero, nella politica ma anche nelle arti. Ora i nomi li conosci, in Italia vi furono ragazzi che ebbero davvero a comprendere ciò che io volevo dire, Antonio, Giuseppe, Enrico, Pietro, Lucio, Luciana, Nilde e tante altre donne e uomini del partito, ma pure nella poesia, Pier Paolo, Jan Paul, Pablo, Vladimir, Nazim e tanti, tantissimi altri dopo e prima di loro. In quel ‘900 il quarto stato davvero camminò e trainò le messe. Insegnò ai proletari a leggere e a scrivere, insegnò ai cafoni a non togliersi il cappello davanti al padrone, insegnò a lottare per i diritti di tutti, questo facemmo noi comunisti. Questo fu il percorso e il lungo cammino di autodeterminazione. Gli anni sessanta e settanta, pur nella violenza furono anni di grande fermento, dove la reazione pareva sconfitta. Ma così non fu.

Il capitale il nostro grande nemico, si sviluppò e diventò all’apparenza umano, anzi, vi furono davvero casi in cui il capitalista aveva a cuore l’operaio, ma furono casi e pure quelli ora sono morti. Il superfluo, l’inutile divenne religione, gli anni ’80 del famoso edonismo sancirono l’inizio della fine. Da lì in poi cominciaste a vergognarvi di essere comunisti mentre altri vollero essere più comunisti di me, dando spazio alla moderazione, alla reazione, al trionfo del capitale. Produci, consuma e muori, questo è il vostro percorso di vita.»

«E quindi? Il capitalismo ha vinto?»

«No ragazzo mio, siamo noi ad avere perso. Il capitale continua, anzi amplifica ciò che ha sempre fatto, aumenta le disuguaglianze, crea sfruttati e sfruttatori, definisce confini e frontiere, cataloga i popoli in vincenti e sconfitti, accende focolai di guerra sempre e solo per gli stessi motivi, potere, imperialismo, religione (ricordi l’oppio dei popoli?). Un manipolo di oligarchi che detiene la ricchezza di tutto il mondo, i pochi contro i tanti, gli ultimi che combattono e si uccidono fra loro arricchendo i potenti pancioni che nascondono i soldi sporchi di sangue, olio e petrolio nelle stesse banche di un secolo fa. Con una grande differenza rispetto ad allora, non c’è più nessuno che prende per mano i miserabili e li conduca nella speranza di un avvenire migliore. Il sole dell’avvenire si sta spegnendo nel trionfo del capitale che continua a mettere gli ultimi contro i penultimi, gli umili contro i derelitti, gli operai contro gli operai, mandando al macello generazioni di giovani, inquinando e desertificando l’unico pianeta che avete, andando a passi da gigante incontro all’ignoto.»

«Quindi Ka, l’inevitabile è oramai raggiunto?»

«Sì in effetti l’avevo vista lunga, ma non sono mai stato un mago. Se posso darvi un consiglio, rileggetemi e e soprattutto capite ciò che ho scritto, magari una nuova speranza esiste e che non sia ancora una volta ciò che scrisse un tizio … “proletari di tutto il mondo unitevi”»

«Ciao Ka, e grazie di tutto»

La lunga storia della corruzione in Italia:
intervista a Isaia Sales, meridionalista e studioso della camorra

La lunga storia della corruzione in Italia: intervista a Isaia Sales, meridionalista e studioso della camorra. È dall’Unità che conviviamo con il fenomeno. Isaia Sales: “Le élite si autoassolvono e i cittadini non ne percepiscono la gravità”

di Roberta Lisi
pubblicato su Collettiva del 1.01.2024

L’ultimo in ordine di tempo è l’arresto per corruzione del sindaco di Palma Campania, Nello Donnarumma di Fratelli di Italia. Insieme a lui sono indagate altre 7 persone e i reati ipotizzati sono “degni di nota”, tanto più in una stagione di grandi risorse pubbliche europee pronte per essere investite mentre il governo cerca di allentare i controlli di legalità e togliere i cosiddetti lacci e laccioli dalle procedure per gli appalti pubblici. I reati ipotizzati nell’inchiesta della Procura di Nola su corruzione e appalti truccati, dunque, che hanno portato agli arresti domiciliari – oltre all’amministratore locale – anche un’altra persona, sono corruzione, turbata libertà degli incanti, falso in atto pubblico, depistaggio e subappalto non autorizzato.

Di pochi giorni fa, invece, la notizia dell’indagine sui Verdini e la corruzione all’Anas. E mentre arrivano i fondi del Pnrr, il governo di centrodestra modifica la legge sui contratti pubblici consentendo l’assegnazione di opere senza gara per il 90% dei casi, indebolisce l’Anac, cerca di svuotare di poteri di controllo della Corte dei Conti, abolisce il reato di abuso d’ufficio e vuole attenuare la legge Severino.

Isaia Sales, meridionalista e grande studioso della camorra e in generale delle mafie, per anni ha insegnato a Napoli all’Università Suor Orsola Benincasa presso il Dipartimento di Giurisprudenza “Storia delle mafie”. Lo studioso ritiene che la corruzione accompagni la storia d’Italia dalla sua unità ad oggi, ma che non susciti riprovazione sociale.

Il caso Verdini, forse sarebbe più corretto definirlo Verdini/Salvini, ha di nuovo acceso i riflettori sulla corruzione, fenomeno che pensavamo superato. Distrazione, sottovalutazione o cosa?
È comodità di pensiero, fa sì che la corruzione esista solo quando la si scopre. È confortante, consente di immaginare di vivere in un Paese non così cattivo come lo si dipinge. La corruzione, quindi, viene sottovalutata perché la si scopre poco e quando la si scopre i colpevoli pagano poco, pochissimi finiscono in galera. Siamo, in realtà, di fronte a un paradosso: uno dei fenomeni più continuativi e diffusi della storia d’Italia è ampiamente sottovalutato e quindi – in questo modo – si fa il gioco proprio dei corrotti. Si ha l’impressione che la corruzione esista, ma come fatto eccezionale, solo quando la si scopre. Ma non è affatto un’eccezione. Anzi, come dicevo, la corruzione è il fenomeno di maggiore continuità della storia italiana.

Non è un reato legato al bisogno, è un reato delle classi dirigenti. Perché non si riesce a estirparla? Perché dall’Ottocento a oggi non è cambiato quasi niente?
Proprio perché è un fenomeno di classi dirigenti. Non solo si autoassolvono, ma hanno tutta la possibilità di farla franca. In gran parte i corrotti sono ricchi, possidenti, benestanti e, spesso, in Italia controllano anche la grande stampa, hanno quindi la possibilità di mettere la sordina al fenomeno. Sostengo da tempo che la criminologia vada in tilt quando parla di corruzione, perché la ritiene fondata su reati commessi dalle classi pericolose, in genere formate da persone in stato di deprivazione, ignoranti, quindi reati commessi per bisogno o per ignoranza. Ma la corruzione è esattamente il contrario, chi la commette è benestante, ha la possibilità e la capacità di farne parlare poco, di stabilire pene poco afflittive. Le élite si difendono, esiste una sorta di impunità nella corruzione, altro elemento continuativo della nostra storia.

Non sarà che il vero problema italiano, per quanto riguarda la corruzione ma non solo, è la straordinaria debolezza delle classi dirigenti? Lo dico al plurale perché sono quelle della politica, quelle economiche, imprenditoriali, fino forse anche a quella giuridica e intellettuale

Assolutamente sì! Ed è un fenomeno interessante anche dal punto di vista dello studio della cultura, o meglio della sottocultura delle classi dirigenti. La corruzione è ancora più preoccupante di altri reati perché è compiuta da uomini e donne dello Stato, della legge, da persone che hanno fatto e fanno le leggi, da rappresentanti dello Stato. E quindi, se c’è una lunga dimestichezza dell’Italia e delle classi dirigenti con la corruzione, dobbiamo porci la domanda, se non siamo in presenza di un ordinamento giuridico alternativo a quello ufficiale. Ritengo che siamo di fronte al fatto che le stesse classi dirigenti, oltre a fare le leggi, si siano organizzate in maniera tale da avere una specie di impunità dando vita a regole diverse da quelle dello Stato. Questa la ragione della lunga continuità nella storia italiana: accanto alla legge esiste una modalità di gestire il potere fuori dalla legge. Il potere coincide con l’abuso, questo è l’elemento culturale impressionante della corruzione, è un reato compiuto da coloro che dovrebbero applicare la legge, che dovrebbero rappresentare lo Stato e che invece fanno cose contro lo Stato e contro la legge.

La Francia ha una storia unitaria molto più lunga della nostra, ma anche un apparato burocratico molto più solido del nostro. Forse alcuni anticorpi rispetto alla corruzione risiedono proprio in questo: burocrazia e senso dello Stato. Ed è questo che in Italia manca. Non so se derivi dalla storia unitaria molto più breve, o dal ventennio fascista, ma è come se i vari corpi dello Stato in realtà non si sentissero per davvero parte fino in fondo dello Stato. È una sensazione sbagliata?

È così. Noi non abbiamo senso dello Stato. Bisognerebbe interrogare la nostra storia per capire perché. La corruzione riguarda anche altri paesi e altre nazioni. Quello che cambia in Italia è che quando si è presi nelle maglie della giustizia per il reato di corruzione non si perde prestigio, autorità, stima e qualche volta succede che si venga addirittura rieletti nel comune, nella regione o in Parlamento. È come se avessimo una riserva verso lo Stato e una diffidenza verso la cosa pubblica. Sembrano valere in alcuni ambienti le parole di un personaggio di Sciascia, che affermava che chi non ruba sottrae qualcosa alla sua famiglia. Questo è il paradosso della corruzione in Italia, non che esista, ma che chi la pratica viene considerato un potente che sa fare il suo mestiere. L’idea dello Stato come riconoscimento di un bene pubblico è una cosa ancora da costruire nella formazione delle classi dirigenti italiane.

In altri paesi i fenomeni corruttivi suscitano riprovazione sociale, da noi no. Non solo, esiste una sorta di stima aggiuntiva, di aurea di autorevolezza nei confronti di chi esercita il suo potere in maniera così distorta e corrotta. Forse questo fenomeno è legato anche alla subalternità dei cittadini rispetto all’esigibilità dei diritti. Troppo spesso il diritto diventa favore elargito.

La vicinanza tra clientela, corruzione e mafia è una cosa che andrebbe indagata. Non sono la stessa cosa in assoluto, perché si può essere clientelari senza essere corrotti, si può essere corrotti senza legami con la mafia, però queste tre modalità appartengono a un’idea dello Stato come fatto privato. Cioè il potere coincide con la capacità di privatizzare ciò che è pubblico, la capacità del politico è di mettere a disposizione di una cerchia ristretta di persone i beni pubblici e questo lo fa attraverso la clientela, la corruzione o anche i rapporti con la mafia. E la corruzione è uno dei pochi reati in cui non esiste una vittima apparente, perché tutti quelli che ne sono coinvolti ne beneficiano. E questo è un problema, da tempo penso che sarebbe opportuno che l’Istat, per esempio, facesse uno sforzo per comunicare quanti morti ci sono stati in Italia a seguito di fenomeni corruttivi, dai ponti crollati agli edifici costruiti male, basti pensare alle vittime del Ponte Morandi di Genova o a quelle dello Studentato de L’Aquila. Se non mettiamo nelle statistiche ufficiali i morti a causa di corruzione non avremo consapevolezza del costo sociale che paghiamo. Dovremmo fare qualcosa per rendere più consapevoli gli italiani e le italiane che la corruzione ha dei costi economici, sociali e umani altissimi. Non è un reato senza vittime, la vittima è lo Stato, sono gli inermi cittadini e cittadine che a causa della corruzione hanno pagato con la vita a seguito di opere malfatte.

E forse tra le vittime della corruzione andrebbero annoverati anche il costo economico e il mancato sviluppo del Paese.

E infatti alcuni studiosi hanno calcolato che, nei paesi più corrotti, c’è un minore sviluppo economico dove c’è maggiore corruzione. In genere c’è un costo che si distribuisce sulla collettività e una riduzione della crescita di quel Paese. La cosa a cui tengo di più, però, è proprio questa: rendere consapevoli che esiste un costo economico e un costo umano della corruzione.

Oltre a rendere evidenti i costi umani, sociali ed economici della corruzione, quali sono le medicine e quali gli anticorpi che andrebbero immessi nel sistema Italia per cominciare a limitare il fenomeno?

Domanda non da poco, me la cavo dicendo che in Italia è necessario costruire il senso dello Stato.  Abbiamo appartenenze familiari, locali ma non abbiamo ancora appartenenze a ciò che è pubblico. Insomma, è su questo che bisogna investire moltissimo, almeno rispetto alle nuove generazioni e nella formazione di una burocrazia adeguata al valore dello Stato. Una nazione è più considerata e ha più stima di sé se c’è una classe politica che non pratica questi fenomeni. In sostanza, possiamo fare tutti gli sforzi di questo mondo verso la formazione di nuove generazioni della burocrazia, ma se la classe dirigente del Paese continua ad essere così tollerante con i Verdini di turno, non c’è da essere molto ottimisti.

Parole a Capo
Daniela Stasi: “Il respiro del lombrico” e altre poesie

I poeti lavorano di notte quando il tempo non urge su di loro, quando tace il rumore della folla e termina il linguaggio delle ore
(Alda Merini)

 

Il respiro del lombrico

Contienimi Vita, nel tuo
respiro

Qualunque sia, il Figlio che ti chieda
riparo

Che io diventi farfalla

o lombrico,
cieco.

 

Il Perdono

Si possono ripercorrere, a ritroso
i propri passi

affidandoli alle stelle dell’emisfero
opposto?

Mi dicono che la terra ruoti, per giorni
interi

per ritrovarli, qualunque sia l’orientamento
scelto.

 

Se il perdono lasciasse una traccia

Se il perdono lasciasse una traccia
e bastasse seguire quella, che tu segnasti
a fare l’alba, all’esausto mio ‒ Mi spiace ‒

forse riuscirei a deviare, dalla mia faccia:
quella che più non si voltò; per riuscire a ruotare
in avanti ‒ del guardare ‒ il senso amaro del suo

‒ Abbandonare ‒

 

Afasia d’amare

Vorrei che alla fine
di me rimanesse
il sorriso sull’uscio

Della mia assenza
a rimediare
all’afasia d’amare.

(poesie tratte da “Il respiro del lombrico“, Il Convivio Editore, 2023)

 

L’esserci-necessario

Ci sono
Come non ci fosse
Altra necessità
Che l’esserci
Già stata

(inedito)

 

Il tempo interrotto

Cosa vuol dire che, da oggi, non esisti
più, alla tua vita?

Lo chiedo a te, dal tuo punto di vista,
non dal mio!

Quello di chi non corre, contro il tempo,
ma gli corre incontro: così che – per te –
non è mai passato, il mio tempo
a scorrere.

Al contrario di me, che faccio a gara,
per accertare quale ragione arrivi prima;
se anche quella arrivi a te – prima –
che a me.

E il tempo – interrotto – a chi rimane
tale e quale com’è, tutto intero?

(inedito)

Daniela Stasi è nata a Milano, dove vive e lavora, si è laureata in Architettura, ad indirizzo storico-critico, svolgendo la propria attività professionale nel mondo dell’editoria e della comunicazione.
La poesia  rappresenta, da sempre, lo strumento principe delle sue istanze espressive, su cui far convergere – per distillarle – tutte le parole elaborate nel corso dei suoi studi, specie in ambito filosofico e spirituale.
Le sue poesie sono presenti in alcune Antologie:  tra cui, la più recente, quella curata da Giuseppe Vetromile; nell’ambito del progetto “Transiti Poetici”; e “Riflessi – Rassegna critica alla poesia contemporanea – ” Edizioni Progetto Cultura, a cura di Patrizia Baglione. E’ co-amministratrice de Le Finestre: blog e pagina Facebook ; con un proprio focus sulla Poesia delle Donne.
Ha partecipato, inoltre, ad alcuni progetti poetici a più voci: come quelli promossi dal gruppo di poete de “La Stanza della Poesia” dell’Associazione culturale Apriti Cielo, di Milano.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Storie in pellicola /
“La chimera” e la sua dea etrusca come risposta alternativa a “Barbie”

“La chimera” e la sua dea etrusca come risposta alternativa a “Barbie”

È la civiltà sepolta in un passato remoto il grande polo di attrazione del film “La chimera”. Questo universo rintracciabile con fatica e mezzi incerti sottoterra è la spinta irresistibile che muove i protagonisti dell’ultimo film della regista Alice Rohrwacher e che incanta  uno spettatore disponibile a farsi trasportare da questa poetica scarna e visionaria. Uno spettatore o spettatrice che, alla fine, vorrebbe scendere, visitare quelle tombe etrusche, vedere da vicino quelle pitture di uccelli e vegetazione che trasformano le cavità nel sogno di un Eden. E – soprattutto – si vorrebbe poter girare intorno a quella statua che viene rinvenuta alla fine per rimirarla meglio, godersela e apprezzarne tutti i dettagli.

Ricostruzione della tomba etrusca della scenografa Emita Frigato

La scoperta della scultura della dea degli animali segna il culmine della vicenda. La candida e levigata fanciulla rimasta nascosta sotto i devastanti impianti industriali della centrale termoelettrica è la rivelazione visiva più imponente e anche la rappresentazione materiale di un culto femminile che non ha eguali. Un magnifico contraltare in versione di donna per tutti quelli che sono da sempre amanti della figura di Francesco d’Assisi, del suo messaggio di celebrazione del creato e dell’iconografia che lo rappresenta mentre predica al lupo e ancor di più di quella che lo inserisce davanti a un variegato uditorio di uccelli. La dea – nel film – i volatili li accoglie in cima alla testa tra la capigliatura marmorea, mentre in braccio tiene un pesce e un felino è al suo fianco.

“San Francesco predica agli uccelli” di Giotto – Basilica di San Francesco, Assisi 1292-1296
Illustrazione della statua della dea di Fabian Negrin per il film “La chimera”

Un film di questa stessa annata come “Barbie” ha messo in scena il divario tra la supremazia dell’universo femminile nell’immaginario del gioco e il predominio maschile che contraddistingue il mondo reale persino nell’emancipata società occidentale americana.

Scena del film “Barbie”

Il film “La chimera” invece, in tutt’altro stile e maniera, accenna al divario tra quest’antica civiltà matriarcale e quella patriarcale del mondo contemporaneo.

O’Connor con regista – foto Simona Pampallona

“Mi piacciono gli etruschi, perché era una società dove comandavano le donne” dice il personaggio di Melodie, interpretata dall’attrice Lou Roy Lecollinet deliziosamente piena di vitalità, di carne e di buona predisposizione d’animo.

Il cerchio si chiude con la rivelazione della vera identità del fantomatico collezionista e cultore dei reperti archeologici, il riverito Spartaco che solo nelle scene finali rivela volto e personalità. E un’identità che non è quella dell’uomo che il nome faceva immaginare.

Scena dell’asta ne “La chimera”

Alle mie amiche il film “Barbie” non è piaciuto: troppo legato a un prodotto commerciale, troppo rosa, troppo lungo. Neanche “La Chimera”, però, hanno sopportato: troppo autoriale, troppo scarno con un’immagine che volutamente replica le imperfezioni della vecchia pellicola, che usa improvvise rotazioni di camera e talvolta riprese velocizzate.

Locandina del film “La chimera”

Serve, ovviamente, un atto di sospensione dell’incredulità per apprezzare l’una o l’altra, un’accettazione della lettura, dell’immaginario e dei tempi che in entrambi i casi offrono le registe: l’americana Greta Gerwig e la nazionale Alice Rohrwacher.

La caduta del sogno nel film “Barbie”
La discesa archeologica ne “La chimera”

Ma “La chimera” lascia più spazi, più aria, più rimandi poetici. Ci sono richiami alla cinematografia felliniana con la statua che vola agganciata al cavo aereo come il Gesù de “La dolce vita” e poi in Sorrentino. Solo che questa volta la scultura è quella di una divinità del creato, una dea.

Leggi su Periscopio:
– Catina Balotta: “Succede a Barbieland”
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NOA HA APERTO GLI OCCHI?
Da cosa devo “riprendermi”? Alcuni dicono che la mia visione della vita è crollata il 7 ottobre. È così?

Noa ha aperto gli occhi? Da cosa devo “riprendermi”? Alcuni dicono che la mia visione della vita è crollata il 7 ottobre. È così?

Dalla sua pagina Facebook (Gennaio 2024)

Cari amici

Una settimana fa ho tenuto un discorso in una manifestazione a Tel Aviv organizzata da un gruppo chiamato “Standing Together”. Arabi ed ebrei israeliani lavorano e manifestano insieme. Alla fine sono riuscito a mettere i sottotitoli in inglese. Sento che sia il mio contributo più importante fino ad oggi, all’orribile situazione in cui ci troviamo. Voglio aggiungere un punto importante:

Questo discorso è rivolto ai miei concittadini israeliani. Sono la mia gente, mi prendo la responsabilità per loro. Mi auguro che lo stesso tipo di discorso venga fatto da un cantante palestinese/arabo/musulmano, o da chiunque altro, in qualsiasi parte del mondo arabo, rivolto al suo popolo. Osare essere critici, sfidare lo status quo, insistendo sul fatto che deve esserci un altro modo.

A parte la mia amica Mira Awad, cittadina israeliana palestinese, non ho ancora sentito una voce del genere. È estremamente importante… aspetto e spero… per non dire, prego… di ascoltarlo. Se conosci una voce simile, per favore condividila con me. Spero che quest’anno porti benessere e progresso, empatia, gentilezza e pace a tutti noi.

Ultimamente mi è stato chiesto se sono già tornata sobria.

E mi chiedo: da cosa esattamente? Come se avessi vissuto in un sogno e avessi finalmente aperto gli occhi?

Come se fossi ubriaca, avessi le allucinazioni, corressi in un campo di fiori? Come se mi fossi ingannata e improvvisamente avessi visto la luce, la saggezza e la “salvezza” che hanno portato Israele al peggior massacro della sua breve storia, nel giorno più nero, il 7 ottobre?

E forse è vero il contrario? Sono un attivista per la pace da 28 anni, da quell’orribile notte del 4 novembre 1995, quando Gil Dor e io eravamo sul palco, orgogliosi e gloriosi, cantando “una luce brillerà” per le centinaia di migliaia di persone che nella piazza erano venute a cantare. “sì alla pace, no alla violenza”, una serata che si è conclusa con un violento atto di terrore compiuto dal terrorista ebreo Yigal Amir, la cui casa non è stata distrutta, e che è celebrato come un eroe da alcuni membri del governo israeliano!

Da allora, ho assistito al deterioramento del mio amato Paese nell’abisso in cui ci troviamo oggi. Un incubo in piena regola. Dopo l’assassinio del primo ministro Yizchak Rabin, i miei occhi si sono oscurati e ho lottato per trovare la luce, ostinatamente e costantemente.

Una linea diretta, rossa come il sangue, può essere tracciata tra questi due eventi, il 4 novembre 1995 e il 7 ottobre 2023. E sì, lo so, è iniziata molto prima di quell’orribile omicidio, è una storia lunga, complicata, continua e complessa. Capisco la complessità, del resto sono un artista, la complessità è al centro della mia esistenza. Ma per me era il 4 novembre 1995.. Il giorno in cui Yitzchak Rabin perse la vita e la mia vita cambiò per sempre.

Quindi da cosa dovrei “riprendermi”?

La mia fede nell’umanità, nel valore di ogni vita umana, nell’uguaglianza e nella giustizia? Devo rinunciare alla convinzione l’umanità possa riparare qualsiasi cosa? No, non possiamo riportare in vita i morti (ancora) ma possiamo almeno provare a evitare altre morti, altre vittime, altre famiglie in lutto, vite distrutte, anime spezzate con occhi vuoti, dolore e agonia?

Devo “riprendermi” dall’idea che tutto è possibile con il duro lavoro e la buona volontà, anche di fronte a ciò che viene percepito come il “male ultimo, puro”?

Cosa c’è di più che osservare Berlino, dove risiedono decine di migliaia di israeliani, dove Mira Awad, Gil Dor ed io ci siamo esibiti sul palco della Filarmonica di Berlino solo poche settimane fa, in una manifestazione che chiedeva il rilascio degli ostaggi e porre fine a ogni violenza, raccogliendo fondi per Women Waging Peace, Women of the Sun e le famiglie degli ostaggi? Berlino, quella era la Germania nazista solo pochi minuti fa in termini storici…?

Da cosa devo “riprendermi”? Alcuni dicono che la mia visione della vita è crollata il 7 ottobre. È così?

Non è piuttosto una visione della vita arrogante, separatista, suprematista, settaria, sciovinista, militarista, fascista, patriarcale, cieca, pessimista, cinica, “gestrice dei conflitti”, egoista, avida, intrisa di menzogna, avvelenata dalla corruzione, dalla frode?

e la violazione della fiducia, corrotta e, peggio ancora, messianica, che è crollata in un mare di sangue, lacrime e agonia che nessuna parola può descrivere???

Sono orgogliosa di ogni momento di attività per la pace, l’uguaglianza e l’esistenza condivisa, con Gil Dor e infiniti amici e colleghi in 33 anni di carriera internazionale, e non ho intenzione di mollare… è vero il contrario.

L’attività, che in sostanza, consiste nel rompere i muri. E così vengono costruiti tanti muri, invece di creare una situazione in cui non sono più necessari. Si costruiscono tanti muri per evitare di vedere l’altro, chiunque non sia “noi”. E i muri di mattoni non sono niente in confronto ai muri del cuore! Un cuore nato puro e amorevole, cementato nella pietra e nel filo spinato.

Partiamo dai deboli, dai perseguitati, dai poveri, dalle minoranze della nostra società in tutti i settori, religioni, forme e dimensioni, per arrivare ai richiedenti asilo, ai sopravvissuti all’olocausto, alle madri single, ai lavoratori stranieri, alle persone con disabilità, ai soldati che tornano dalla guerra con disturbo da stress post-traumatico, e l’elenco è lungo…e poi uomini, donne, bambini e anziani che vivono nei territori occupati e a Gaza… tutti sono invisibili per gran parte della nostra società.. Come se fossero non carne e ossa come noi, come se tra loro non ci fossero buoni e cattivi, assassini e angeli, santi e criminali, terroristi e bambini, guerrieri e madri, e tante persone che vogliono semplicemente vivere e non morire…  Semplicemente come noi.

Lev Tolstoj scriveva: “se provi dolore, sei vivo. Se senti il dolore dell’altro, sei umano”.

Allora, da cosa devo “diventare sobria”? Non è forse chiaro che la folle agenda jihadista, che santifica la morte e si sforza di creare “Shahid” in massa, che sacrifica consapevolmente persone innocenti sull’altare di un culto della morte distorto, NON è un partner per il dialogo o il compromesso?Non è questa una ragione sufficiente per NON consegnare loro valigie piene di soldi, o dire, come ha detto un ministro del governo israeliano, e cito: “Hamas è una risorsa”?

Allora, da cosa dovrei “riprendermi”?

Ora la tendenza è quella di disumanizzare il tuo avversario (a Gaza) in modo da poterlo distruggere senza interferenze.

Mi chiedo quale sia la soluzione di tutti questi geni alla disumanizzazione rivolta agli israeliani e agli ebrei ovunque? Non sono chiaramente due facce della stessa medaglia? La stessa spada che ci ucciderà tutti?

Il mio amico Said Abu Shakra dice: ricorda, quando punti il dito contro qualcuno, tre dita puntano proprio verso di te. C’è molta ricerca interiore e molta resa dei conti da fare. E ora, questa terribile guerra sanguinosa, e su così tanti fronti!! In primo luogo, ognuno di noi in guerra con se stesso, lottando per non cedere al dolore, alla disperazione e all’ansia, per non lasciare che la rabbia e il sentimento di tradimento ci facciano impazzire, per resistere alle anime spezzate delle famiglie di i rapiti, la preoccupazione e la paura nei loro occhi selvaggi, che da soli possono farti impazzire!!

E la guerra a Gaza, con un’organizzazione terroristica omicida, e nel Nord con Hezbollah, e nello Yemen, e in Siria, e in Libano, e in Cisgiordania, i terroristi palestinesi e israeliani dilagano, e molti dei nostri bambini sono trascinati in questo incubo. compreso il mio!

E sullo sfondo la minaccia iraniana e l’intera Jihad islamica, e questo prima ancora che iniziassimo con il fiasco rappresentato dall’opinione pubblica internazionale, dall’antisemitismo globale, dalla vergogna e dall’orrore, dal collasso totale del sistema!

Ma, signore e signori, credo che ci sia una cosa che può porre fine a TUTTE queste guerre. Sì, fino alla FINE! Né in un giorno, né domani, forse saranno necessarie una o due generazioni, ma una volta che il processo sarà iniziato, e gli sarà permesso di crescere e acquisire slancio, renderà tutte le guerre che ho appena descritto marginali, persino ridicole, fino a quando, alla fine, saranno scomparirà.

Si tratta di un’iniziativa pubblica immediata per una soluzione diplomatica con l’obiettivo di porre fine al conflitto israelo-palestinese e raggiungere la pace con l’intero mondo arabo. Non sono un personaggio militare. Non ho intenzione di dare consigli su come gestire un’operazione militare, così come non mi aspetterei consigli da Hertzy HaLevi (il nostro comandante in capo) sulla poesia di Leah Goldberg o Johan Sebastian Bach. All’IDF è stata presentata un’enorme sfida e auguro loro buona fortuna! Ma posso certamente indicare la direzione in cui voglio andare e chiedere al mio Paese di fare lo stesso.

1. Liberare tutti gli ostaggi, in ogni modo possibile, immediatamente, adesso! Punto.

2. Le dimissioni immediate di tutto questo orribile governo che rappresenta nientemeno che una minaccia esistenziale per Israele. Sotto il loro controllo, Israele ha vissuto la catastrofe più orribile da quando è stata fondata. Un governo che ha sulle mani il sangue di persone innocenti. Un governo che, mentre parliamo, continua a incitare, dividere, odiare e mentire, agendo con negligenza criminale, distruggendo la nostra democrazia e rubando dalle casse pubbliche in un modo che sfida ogni logica o empatia umana e distrugge violentemente ogni senso di solidarietà, tutto questo mentre i nostri figli e le nostre figlie vengono riportati a casa nelle bare e noi piangiamo l’indescrivibile perdita e danno che ha devastato i pilastri della nostra stessa esistenza! Se non si dimettono, noi popolo li elimineremo, costringendoli a dimettersi, esercitando il nostro diritto democratico di manifestare in massa, non dopo la guerra ma OGGI! dobbiamo iniziare a ridefinire ORA  un governo sano e dignitoso che pianificherà e realizzerà la scrupolosa ripresa del nostro Paese, un processo troppo profondo e lungo per essere descritto qui.
3. Soprattutto, la dichiarazione immediata e la volontà di attuare un accordo globale con l’intervento e il patrocinio internazionale, guidato dai paesi arabi moderati e dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di porre fine al conflitto israelo-palestinese! Un accordo che porterà sicurezza ad entrambe le parti, rafforzerà i poteri moderati e spingerà gli estremisti negli angoli bui e, se possibile, all’inferno, a cui appartengono. Un accordo che consentirà e sosterrà la ricostruzione di ciò che è stato così orribilmente distrutto, a Gaza e in Israele, la distruzione fisica ed emotiva e i valori condivisi che devono essere ricostruiti e ricreati, per il bene della vita e di un nuovo orizzonte per tutti .
È possibile? Ovviamente lo è. Puoi sempre trovare partner per la pace, devi semplicemente DESIDERARE veramente di vederli. Sono sempre stati lì, e dopo il 7 ottobre… forse anche più che mai. Se sentire tutto questo dalla bocca di qualche cantante non ti impressiona, sei il benvenuto ad ascoltare una conferenza online tenuta dal mio amico Ami Ayalon, ex capo della Marina e dei servizi segreti israeliani, un eroe decorato e uomo di merito indiscutibile.
Quindi sì, sono tornata sobria. Ho aperto gli occhi e vedo davanti a me i cittadini di Israele, vedo brave persone qui, oltre confine e oltre oceano, ebrei, musulmani cristiani, palestinesi, persone a cui possiamo e dobbiamo tendere la mano, anche nelle ore più buie ora, e con loro camminare senza paura, Verso la luce.

Noa (Achinoam Nini)

IL RICORDO
Luisa Gallotti Balboni, a Ferrara la prima sindaca d’Italia

Questo articolo di Daniele Lugli, un amico, un maestro, un grande ferrarese che ci ha lasciato l’anno scorso, è apparso su Periscopio  quasi 8 anni fa, il 28 maggio del 2016. Lo ripubblico integralmente, così come Daniele l’aveva pensato e scritto, per ricordare una figura che la nostra città ha dimenticato. Luisa Gallotti Balboni è stata sindaca di Ferrara (e non senza polemiche) dal 1950  fino al 1958: la prima donna in Italia guidare una città capoluogo. Dopo di lei a Ferrara solo uomini, forse perché la politica è prodiga di complimenti alle donne, ma le ha sempre tenute fuori dalla stanza dei bottoni. Non si sa mai che potrebbero combinare…
Francesco Monini

Luisa Gallotti Balboni, a Ferrara la prima sindaca d’Italia

di Daniele Lugli 

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Luisa Gallotti Balboni (foto Archivio centrale dello Stato, Senato della Repubblica)

Ci sono molte persone, in particolare donne, in grado di ricordarla, anche in questa circostanza, molto meglio di me. In primo luogo quelle che hanno realizzato il libro “Una donna ritrovata: sulle tracce di una sindachessa” (Spazio libri, 1992), curato da Delfina Tromboni e Liviana Zagagnoni, o quelle che le hanno, anche in tempi successivi, dedicato articoli. In copertina del libro c’è una bella illustrazione, opera di Paola Bonora: un filare di pioppi, o meglio di piope (in ferrarese è femminile), tutte alte uguali, ma una fa un’ombra più lunga. Così Luisa, donna tra le donne, ma con una singolarità che la contraddistingue: primo sindaco donna in Italia di una città capoluogo.
Ricordare Luisa Gallotti Balboni è importante per tutti, donne e uomini, per chi l’ha conosciuta e per chi non l’ha conosciuta, perché il suo nome viene legato a una scuola, perché me ne ha richiamato vivamente il ricordo. Di lei molto si potrà dire. Una sua biografia potrà credo essere messa a disposizione di tutti gli interessati. Non sarò io a fare questo. Dovrei dire della sua opera negli anni della ricostruzione di Ferrara, così duramente colpita dalla guerra, della sua azione per nuovi servizi, come la prima farmacia comunale, ancora in apprezzata attività, o della municipalizzazione della nettezza urbana o delle iniziative culturali. Mi limiterò invece a poche osservazioni legate al voto, delle donne e alle donne, al luogo che le viene intitolato, che è una scuola, e al mio ricordo personale.

Nel marzo del 1946 si vota anche a Ferrara per le elezioni amministrative, seguirà nel giugno il voto al referendum e alle politiche. Per le donne è la prima volta. La conquista del voto non è stata una passeggiata. Dopo la Prima Guerra Mondiale il voto alle donne è nel programma non solo dei socialisti, da molto sostenitori del suffragio universale, ma pure dei popolari e dei fascisti. Sembra cosa fatta: il 9 marzo 1919 è approvato un ordine del giorno per l’ammissione delle donne al voto amministrativo e politico. La legge è approvata nel settembre alla Camera, ma non giunge al Senato e quindi decade, per la caduta anticipata della legislatura, dovuta all’occupazione di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio. Fiume era governata, mentre se ne reclamava l’annessione all’Italia, dalla Carta del Carnaro, che prevedeva il diritto di voto alle donne. Come promesso, il Presidente del Consiglio Mussolini riconosce il suffragio femminile a partire dal voto amministrativo, ma la riforma degli Enti locali del 1925, non più elettivi, la rende inoperante. L’estensione del diritto del voto politico neppure si pone, venendo abolito anche per i maschi.

È del 31 gennaio 1945 il decreto legislativo luogotenenziale n. 23, che conferisce il diritto di voto alle donne maggiorenni, sollecitato da Togliatti e De Gasperi accogliendo la proposta sul voto e pieni diritti politici alle donne, avanzata fin dall’ottobre del 1944 dall’Udi e dalle altre associazioni femminili e ribadito con una lettera comune il 9 gennaio del 1945. Non basta però: con questo decreto le donne erano ammesse al voto, ma non erano ancora dichiarate eleggibili. Questa possibilità sarà attribuita il 10 marzo del 1946.

Quell’anno vengono elette a Ferrara due consigliere Luisa Gallotti Balboni e Maria Teresa Testa Pomini, entrambe nella lista del Pci, con 30.740 preferenze la prima e 30.739 la seconda. Il Partito comunista, che ha ricevuto la più alta percentuale di voti, dà prova assieme della sua attenzione al ruolo delle donne e della sua capacità organizzativa nel dosare le preferenze. Sono 2 donne in un consiglio con 50 componenti. Oggi a Ferrara le consigliere sono 8 su 33, in proporzione sono dunque sestuplicate. E i consigli comunali della provincia sono anche più femminili: nel totale la loro percentuale, rispetto a quella del 1946, è moltiplicata per otto. Nella Giunta che si costituisce non ci sono donne. Entrerà, come assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura la Balboni appunto, alla fine del 1948, in un rimpasto di Giunta provocato dalle dimissioni del Sindaco e dalla morte del giovane Silvano Balboni, che non risulta parente del marito di Luisa, Pietro Balboni. Un precedente, a volerlo cercare, c’era: nella giunta nominata dal CLN alla Liberazione di Ferrara, di ben 15 componenti, 11 effettivi e 4 supplenti, tra i supplenti c’erano due giovani donne Angelina Bazzocchi, vedova Zanatta, e Gina Paolazzi, vedova Colagrande. I loro mariti sono stati fucilati al muretto del castello nel novembre del 1943. La loro presenza in giunta finisce però nel luglio del 1945 con la riduzione della Giunta a 12 componenti di cui 3 supplenti. Ora, su 10 componenti, nella Giunta di Ferrara 4 sono donne e la media è la stessa, considerate tutte le giunte comunali della provincia.

Il 25 marzo del 1950 Luisa Balboni viene nominata sindaco dal Consiglio comunale. Anche il Sindaco Curti, subentrato a Buzzoni, è stato fatto decadere. Travagliata è la vita della prima Amministrazione comunale elettiva alla cui guida si sono succeduti il sindaco Buzzoni, il prosindaco Marcolini, il sindaco Curti, già assessore con Buzzoni, il prosindaco Bardellini. L’elezione della Balboni è annullata dal Prefetto con una inconsistente motivazione, come sarà riconosciuto dal Consiglio di Stato nel novembre del 1951. La sua nomina non solo è in vario modo osteggiata. Ma appare quasi uno scandalo. Oggi nella nostra provincia su 23 sindaci in carica 7 sono donne. La situazione non è equilibrata, ma non è confrontabile con quella di allora: su oltre cento comuni capoluogo uno solo aveva un sindaco donna. Alla convalida della sua nomina Luisa si trova ad affrontare le molteplici urgenze legate alla rotta del Po. E’ allora che ne sento parlare a scuola dalla mia professoressa Antonietta Cavalini, che sollecita iniziative di solidarietà e vicinanza a nostri compagni – non ce n’erano in classe con me, ma in altre in forte rapporto con la mia classe sì – provenienti dalle zone alluvionate.

Qualche mese dopo la Balboni visiterà la nostra classe, che era sperimentale in vista della scuola media unica, arrivata dieci anni dopo, priva delle innovazioni che hanno caratterizzato la sperimentazione. La ricordo ancora alla mostra di fine anno dei lavori della nostra classe dedicati a Leonardo da Vinci, per i 500 anni dalla nascita. La Balboni è una donna di scuola, professione esercitata prima dell’impegno assorbente in ambito amministrativo e politico. Lo è per professione, insegnante di lingue, e per vocazione. A lei si deve in gran parte il consolidamento e la diffusione della scuola materna, sorta a Ferrara a partire dalla Casa del Bambino per iniziativa principale di quel Silvano Balboni prima ricordato che, esule in Svizzera, aveva stretto legami decisivi per quella realizzazione. Era stato il primo impegno dell’assessora, subentrando a Faust Athos Poltronieri, antifascista, già di Italia Libera, eletto nelle liste del Pci, collaboratore di Silvano Balboni nell’avvio della Casa del bambino.

Nella mia piccola esperienza di amministratore, prima a Codigoro e poi a Ferrara, le scuole per l’infanzia hanno rappresentato un elemento essenziale. Sento perciò come vivo e particolarmente vicino l’impegno nel settore di Luisa Balboni, prima come assessore e poi come sindaco. Nel maggio del 1952 è rieletta in Consiglio e di nuovo Sindaca, così pure avviene nel maggio del 1956. Non completa l’incarico per candidarsi al Senato dove viene eletta nel maggio del 1958. I senatori sono 315, le senatrici 3. Una è la nostra Luisa, le altre due sono le socialiste Giuliana Nenni e Giuseppina Palumbo. Un’annotazione: sia la Balboni, sia la Nenni, che ho ben conosciuto, sono elette nella nostra circoscrizione, coincidente con la regione. Ora le senatrici elette, in quello che forse sarà l’ultimo Senato elettivo, sono quasi cento. E nella nostra circoscrizione superano i maschi: sono 13 su 22.

Ho insistito su questi aspetti elettorali, a partire dalla istituzione che ci è più vicina, anche se non ritengo che il voto sia il solo e neppure il più importante strumento di democrazia operante. Considero però grave e preoccupante, proprio perché non priva di valide motivazioni, la disaffezione alla politica e alla partecipazione, anche alla più semplice che si esprime con il voto.

Molte cose sono cambiate nelle nostre istituzioni e nelle nostre leggi elettorali dai tempi di Luisa Balboni. Molti altri cambiamenti si profilano. Alcuni non li ho condivisi, né condivido quelli che si sono decisi recentemente. Ma la mia opinione è rilevante solo per me. Molte speranze nella Repubblica democratica, succeduta a una dittatura ventennale, sono però certamente andate deluse, ma non è il disimpegno delle cittadine e dei cittadini che può porvi rimedio, può solo aggravare una crisi della democrazia e della convivenza civile, con danni per tutti e ciascuno. Nel dopoguerra c’era un Paese e una città da ricostruire su basi diverse da quelle che avevano portato alla dittatura e alla guerra. In questo Luisa Gallotti Balboni si è spesa. Oggi non è necessario un impegno minore, in una situazione che appare complessa e densa di pericoli. Parlare in una scuola d’infanzia è aprirsi alla fiducia e alla speranza, come mi ha insegnato Aldo Capitini : Il bambino è il figlio della festa; ogni data di nascita è un natale… una prova del portare al massimo il nostro impegno . Riandare col pensiero alla sindachessa, e quindi agli anni della mia formazione e di un piccolo, personale, sentito, impegno civile, mi è stato utile, spero non sia stato sgradito a voi.

Leggi anche
Giorgia Mazzotti “Luisa, a Ferrara prima sindaca italiana”

Per leggere su Periscopio tutti gli articoli e gli interventi di Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923) clicca sul nome dell’autore.

Parole e figure /
Sembra questo, sembra quello

“Sembra questo, sembra quello”, di Maria Enrica Agostinelli: un classico per aiutare i bambini a distinguere un’immagine da un particolare e a farci capire (bambini e adulti) che c’è molto altro dietro le apparenze.

Oggi presentiamo uno straordinario libro di immagini, dedicato alla prima infanzia e giunto alla nona edizione, una filastrocca illustrata in rima, un evergreen sull’illusorietà dell’apparenza: Sembra questo, sembra quello”, di Maria Enrica Agostinelli.

Sembra questo, sembra quello… sembra brutto, invece è bello, sembra un cesto, ma è un cappello, sembra un monte, ma è un cammello… ma cos’è veramente? L’importante è capire che si può sempre sbagliare e che spesso quel che sembra non è come appare…

Si comincia con ciò che pare una fiamma ardente, per poi rivelarsi una parte della cresta di un galletto; si prosegue con un apparente fiore giallo (in realtà parte di un becco del pappagallo) e ci si snoda attraverso cappellini che paiono cestini e ali del pipistrello “travestite da ombrelli”. Ombrello o cammello? Piante o elefante? Mondo o occhio tondo? Basta guardare bene per scoprirlo, fra disegni deliziosi.

E poi c’è il signor Ivo che sembra buono, ma è in realtà animato da pessime intenzioni (a discapito del suo aspetto mite), poiché regge dietro la schiena un bastone, e il suo alter-ego, il signor Tono, che sembra cattivo a causa di un aspetto tetro, mentre tiene in realtà un simpatico fiorellino dietro la schiena e dunque è …

Non c’è quindi alcuna trama, in “Sembra questo, sembra quello”, si chiede solamente al bambino di interagire, di giocare con la sua vista e di sforzarsi a percepire quanto vede rappresentato in ogni pagina, per poi decostruire con dolcezza le piccole certezze, facendogli capire come spesso si confonda una parte con il tutto.

E che, dubbio dopo dubbio, con delicata dialettica e spirito critico che piano piano si sviluppa, non sempre tutto non è come pare. E poi, bello trasferire nozioni, immergersi un mondo nuovo e, senza (pre)giudizio, vedere da prospettive differenti…

Maria Enrica Agostinelli, Sembra questo, sembra quello, Milano, Salani, 2019, 48 p.

Maria Enrica Agostinelli (1929-1980) è nata a Varese. Ha lavorato vari anni in un’agenzia pubblicitaria raggiungendo poi un grande successo grazie alle collaborazioni con Gianni Rodari, Bruno Munari e Italo Calvino.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

GOVERNO MELONI: ARRIVA IL PIANO NAZIONALE DI ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI. E DELUDE TUTTI

ARRIVA IL PIANO NAZIONALE DI ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI (PNACC) . E DELUDE TUTTI

di Emanuele Bompan
Pubblicato su Materia Rinnovabile del 4 gennaio 2024

Dopo sei lunghi anni è arrivato infine il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC). Con decreto firmato dal ministro Gilberto Pichetto Fratin lo scorso 21 dicembre (il n. 434) e ufficializzato il 2 gennaio 2023, il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica pone una prima pietra sui processi di adattamento al cambiamento climatico in un Paese che gli scienziati considerano un hotspot climatico e quindi molto esposto a ondate di calore mortali prolungate, siccità estese, alluvioni fuori scala ed erosione costiera. Solo nel 2023 gli eventi estremi in Italia sono arrivati a quota 378, +22% rispetto all’anno precedente. Mai come oggi questo documento dovrebbe essere centrale per la messa in sicurezza di cittadini e cittadine.

Per il MASE rappresenta un “passo importante per la pianificazione e l’attuazione delle azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nel nostro Paese”. Il PNACC difatti prova a rispondere a una duplice esigenza: quella di realizzare un’apposita struttura di governance nazionale, e quella di produrre un documento di pianificazione di breve e di lungo termine per l’adattamento ai cambiamenti climatici, attraverso la definizione di specifiche misure volte al rafforzamento della capacità di adattamento a livello nazionale e territoriale.

Il documento è composto da 907 pagine (inclusi gli allegati) e un Excel (allegato IV) in cui sono contenute 361 misure generiche di carattere nazionale o regionale che dovranno essere intraprese in vari settori, dall’energia alla sanità, dalla gestione idrica e del dissesto alle foreste, zone costiere e insediamenti urbani e una serie di indicazione per l’integrazione nella pianificazione territoriale locale e regionale (mancante un’indicazione per la pianificazione economica).

Sarebbe un traguardo lungamente atteso, dopo lo stallo che ha attraversato ben cinque Governi. Ma il PNACC arriva alla fine del suo iter senza la forza necessaria. Il documento, secondo vari intervistati del mondo della politica, della pianificazione, della PA e dell’ambientalismo, arriva già vecchio e con numerose lacune, sia procedurali che di contenuto che di forma. Essendo poi un decreto ministeriale e non un DL approvato dal Parlamento, manca ovviamente della forza normativa che necessiterebbe per essere un’asse centrale dello sviluppo economico e ambientale del Paese.

“È un ottimo documento di analisi scientifica, con importantissime indicazioni, ma che non ha impatto sul mondo reale della pubblica amministrazione, dei cittadini e delle imprese”, riferisce una fonte governativa che preferisce non rivelare la propria identità. Altre fonti menzionano come sia stato escluso o limitato il ruolo del settore privato, e troppo complessa la metodologia per strutturare la pianificazione territoriale. Il documento ha solide basi scientifiche, ma è molto lacunoso sull’applicazione e sulla governace”, commenta Piero Pelizzaro, direttore scientifico di Globe Italia e autore del libro La Città Resiliente.

“Le ondate di calore eccezionale che quest’estate hanno creato disagi e sono concausa di migliaia di morti premature (18.000 nel 2022 solo nel nostro Paese) e gli altri eventi estremi rischiano di rendere già vecchio il PNACC che è stato calcolato su modelli che non avevano preso in considerazione la forza di molti eventi estremi”, è il messaggio che manda Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi.

Per Legambiente è un successo “ma vanno trovare le risorse economiche”, spiega il presidente Stefano Ciafani. Per il WWF “il Piano […] è analogo a quello precedente e ha gli stessi limiti, mancanza di decisioni chiare e coraggiose, ottima identificazione sintetica dei possibili impatti e problemi, scarsa e deficitaria individuazione delle cose da fare e di come finanziarle.”.

Una governance complessa

Una delle prime azioni da attuare entro il 21 marzo è la definizione di una struttura di governance nazionale per l’adattamento, di coordinamento tra i diversi livelli di governo del territorio e i diversi settori di intervento, con l’istituzione dell’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, composto dai rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, per l’individuazione delle priorità territoriali e settoriali e per il monitoraggio dell’efficacia delle azioni di adattamento.

Esso sarà affiancato da un forum permanente per la promozione dell’informazione, della formazione e della capacità decisionale dei cittadini e dei portatori di interesse, che funge da organo consultivo per l’Osservatorio.

Di fatto dovrebbe diventare il centro decisionale sull’adattamento al cambiamento climatico italiano che aggiornerà periodicamente il PNACC e le azioni da compiere; avrà la responsabilità di trovare le fonti di finanziamento per l’attuazione del PNACC; coordinerà i vari strumenti di pianificazione nazionali e regionali, inclusa la pianificazione economica; si occuperà del monitoraggio, reporting e valutazione.

Come saranno scelti i partecipanti sarà questione di questi mesi, ma pare confermata la natura volontaristica della partecipazione che limiterebbe l’efficacia dell’organismo e che invece avrebbe dovuto vedere la nascita di un’Agenzia o di un ente di piccole dimensioni ma in grado di migliorare il  coordinamento dell’ingente lavoro che negli anni e decenni a venire sarà richiesto, se si guarda soprattutto alla raffinata analisi scientifica sui rischi climatici che copre le prime ottanta pagine del documento. Scarsi anche i meccanismi di partecipazione (nel forum) che si riducono a mera cassa di risonanza e non a gruppi di lavori territoriali di ascolto e confronto, visto che molte opere e azioni inevitabilmente creeranno conflitto sociale ed economico.

Le azioni, esclusa la programmazione economica

Il secondo livello di intervento del PNACC è mirato a esercitare una “funzione di indirizzo” individuando una cornice di riferimento entro la quale possano svilupparsi la pianificazione e la realizzazione delle azioni di adattamento regionali e locali. Tale cornice è basata su due strumenti del Piano costituiti da un “quadro delle misure di adattamento” e da “indirizzi per la pianificazione a scala regionale e locale’”, si legge sempre nel Piano. Al suo interno vengono poi chiarite le metodologie per la definizione di strategie e piani regionali e locali di adattamento ai cambiamenti climatici, in sinergia anche con altri piani, come il Piano sull’economia circolare e il PNIEC (da approvare entro giugno).

“Il PNACC però risulta limitato nella definizione della dimensione regolativa dei territori”, commenta Francesco Musco, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione Urbanistica dell’Università IUAV di Venezia ed esperto di adattamento. “Chi si occuperà dell’implementazione del Piano, le Regioni? Quali uffici dovranno intervenire? Come sarà gestito il lavoro di integrazione con gli strumenti regolatori già esistenti? In questo il Piano rimane molto vago.”

Secondo Piero Pelizzaro, “sorprendono le limitate indicazioni per il mondo delle utilities e delle grandi società energetiche e di trasporto pubblico, visti gli importanti investimenti sulle reti di energia, acqua e rifiuti che si faranno nei prossimi anni, finanziati dalle tariffe. Sarebbe stato utile avere chiare indicazioni sulla progettazione resiliente così come richiesto dal DSNH anche nel settore privato. Pensiamo anche al ruolo che potrebbe svolgere il settore assicurativo se si introducesse il concetto di adattamento di proprietà oltre che di comunità, leva fondamentale anche per la movimentazione delle risorse necessarie. Non può essere lo Stato a pagare per l’adattamento della proprietà privata”.

Una posizione, quella sulla mancata programmazione socio-economica che condivide anche il WWF nella sua nota: “Riteniamo che la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico dovrebbero costituire la base per la programmazione in senso generale, a partire da quella economica e sociale”.

Risorse economiche per l’implementazione? Nessuna

Per tutti gli intervistati la questione centrale è dove reperire i fondi per l’adattamento del nostro Paese. Lo stesso Osservatorio, il forum, la formazione delle competenze, la promozione del Piano, che dovrebbero essere sostenuti dal Governo, non hanno risorse economiche allocate (come visto dalla nostra analisi della Manovra di Bilancio).

“Ricordiamo al Ministro dell’ambiente e al Governo Meloni che per attuare il PNACC sarà fondamentale stanziare le risorse economiche necessarie e ad oggi ancora assenti, non previste neanche nell’ultima Legge di Bilancio, altrimenti il rischio è che il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici resti solo sulla carta”, commenta Stefano Ciafani.

Per l’implementazione delle azioni a livello locale e regionale la gran parte delle risorse dovranno venire dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e dai Programmi operativi regionali (POR), ma visto che molti piani territoriali sono già stati sviluppati (la tempistica di pubblicazione del PNACC non aiuta di certo), non sarà facile riorientare la spesa, capendo anche come sfruttare le risorse del PNRR nel rispetto del principio guida Do Not Significant Harm (DNSH), principio poco impiegato dal PNACC che invece sarebbe potuto servire come architrave di guida di ogni azione di spesa pubblica.

Infine serve allineare il settore privato, in particolare assicurativo e industriale, dato che non può essere lo Stato a mettere in sicurezza adattiva (non ha i soldi) sia le imprese che tutte le abitazioni degli italiani. La riflessione è completamente assente, ma sono questi soggetti che dovranno mettersi al riparo dagli effetti catastrofici del cambiamento climatico.

Un altro grave buco nella strategia climatica di un Paese che ‒ non solo con il Governo Meloni ‒ non ha mai saputo essere all’altezza della sfida e che negli anni a venire costerà molto, molto caro sul nostro benessere e sulle nostre vite, “Un paese del G7, di cui ha appena assunto la presidenza, che ha l’obbligo di guidare la lotta climatica per le proprie responsabilità del passato, non può essere la Cenerentola dell’adattamento”.vista anche la lentezza strutturale a livello globale dei processi di mitigazione delle emissioni. Conclude Pelizzaro:

L’autore
Maggio 2023, alluvione in Romagna (foto CESVI), direttore responsabile della rivista Materia Rinnovabile|Renewable Matter e autore del libro “Che cosa è l’economia circolare”. Nel 2010 ha vinto il prestigioso Middlebury Fellowship for Environmental Journalism, premio per giornalisti ambientalisti. Per ben quattro volte è stato insignito della EJC grant per l’innovazione nel giornalismo. La sua specializzazione sono i negoziati sul clima, disastri ambientali, mercati energetici, economia circolare e green economy.

Cover: Maggio 2023, alluvione in Romagna (foto CESVI)

Piano Urbanistico Generale di Ferrara: Italia Nostra chiede al Sindaco una proroga di 60 giorni per consentire a tutti un adeguato studio del piano e la presentazioni delle osservazioni

Piano Urbanistico Generale di Ferrara: Italia Nostra chiede al Sindaco una proroga di 60 giorni per consentire a tutti un adeguato studio del piano e la presentazioni delle osservazioni.

– Al Sindaco di Ferrara
– All’Ufficio di Piano del Comune di FERRARA
serviziopianificazioneterritoriale @cert.comune.fe.it

OGGETTO:
Richiesta di congrua proroga della scadenza per la presentazione delle osservazioni al nuovo Piano Urbanistico Generale di Ferrara in base all’art. 45.5 della legge regionale 24/2017.

 

IL PUG, Piano Urbanistico Generale, è lo strumento che regolerà lo sviluppo e le trasformazioni della città nei prossimi anni, forse nei prossimi decenni.
È uno strumento importante e complesso, che deve poter essere accuratamente esaminato dai cittadini e dalle associazioni e organizzazioni che costituiscono il tessuto sociale, civile ed economico della città al fine di elaborare osservazioni sia specifiche e che generali utili alla elaborazione della stesura definitiva del Piano nell’interesse generale.

Il periodo di 60 giorni previsto per la presentazione delle osservazioni, comprensivo del periodo di festività natalizie e di fine anno, risulta assolutamente insufficiente per una analisi dettagliata degli elaborati e della cartografia del Piano da parte, ad esempio, di associazioni come Italia Nostra che si basano unicamente sul volontariato.

L’incarico per l’elaborazione del Piano è stato conferito con anni di ritardo rispetto alle scadenze previste dalla legge urbanistica regionale; durante la fase di elaborazione del Piano sono state fornite dall’Amministrazione solo indicazioni di tipo generale sui contenuti del piano stesso nei pochi momenti di comunicazione e confronto con la cittadinanza (con le associazioni ambientaliste e culturali due sole convocazioni ufficiali, l’ultima delle quali l’8 di agosto!).

Ora finalmente i contenuti del Piano sono stati resi noti nel dettaglio e le osservazioni costituiscono l’unico strumento per i cittadini, singoli o organizzati, per cercare di modificare lo strumento proposto ove ritenuto errato o carente o per proporre integrazioni, nell’ottica della trasparenza e della difesa dell’interesse pubblico e collettivo, come previsto dalla legge. È quindi la fase più importante prima del passaggio in Consiglio Comunale, che non può essere compressa da esigenze di approvazione in tempi prestabiliti, dopo i tanti ritardi accumulati in precedenza.

Italia Nostra RICHIEDE,

per consentire l’adeguato svolgimento di un passaggio di partecipazione democratica importantissimo per il futuro della città, che venga concessa dall’Amministrazione Comunale, come previsto al punto 5 dell’articolo 45 della legge Urbanistica Regionale n 24/2017, una proroga di 60 giorni del termine di presentazione delle osservazioni al Piano Urbanistico Generale della città. Tale termine è ritenuto essenziale per consentire un adeguato studio del piano e per la redazione e il coordinamento delle osservazioni.

Italia Nostra – Ferrara

FERRARA DECARBONIZZATA: UN PIANO URGENTE PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ.
Convegno Pubblico promosso dal Forum Città Partecipata, martedì 16 dicembre ore 17,30

FERRARA DECARBONIZZATA: UN PIANO URGENTE PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ

il 16 gennaio alle ore 17,30 c/o Parrocchia s.Giacomo, via Arginone 161, promuoviamo l’incontro pubblico rivolto alla cittadinanza e alle forze politiche e sociali sul tema della “città decarbonizzata”, e cioè sulla transizione e conversione ecologica della nostra città. 

Il Forum Ferrara Partecipata, Rete composta da numerose Associazioni e cittadini che, dopo l’impegno per contrastare il progetto Feris,  ha esteso la sua riflessione e iniziativa sui temi riguardanti la visione della città futura, organizza per martedì 16 gennaio alle ore 17,30 presso la Sala Sinodale della Parrocchia di San Giacomo Apostolo, via Arginone 16, un incontro pubblico sul tema:
“UN PIANO URGENTE DI CONVERSIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ. LE PROPOSTE DEL FORUM FERRARA PARTECIPATA”.

L’incontro, sarà introdotto da Francesca Cigala Fulgosi che presenterà le proposte del Forum per una conversione ecologica della città e vedrà i contributi di Romeo Farinella, architetto-urbanista dell’ Università di Ferrara e  Margherita Venturi, professoressa Alma Mater, del gruppo “Energia Per l’Italia”.

Dalia Bighinati, giornalista di Telestense, modererà il dibattito.

Invitiamo  i cittadini e le forze politiche a un confronto per definire impegni concreti che garantiscano un’effettiva conversione e transizione ecologica che non è più rinviabile e che deve essere al centro delle scelte di rinnovamento e trasformazione della città.

La situazione di grave crisi eco-climatica e sociale in cui ci troviamo rende urgente introdurre grandi trasformazioni. Per far fronte alla complessità dei problemi legati alla transizione energetica e alle azioni di adattamento alla crisi climatica è necessario pianificare un nuovo disegno della città. E’ necessario pensare a nuovi modelli produttivi e sociali che guardino alla salute e al benessere collettivo, alla salvaguardia del territorio e alla riduzione del consumo di suolo, alla riduzione degli sprechi, alla tutela dei beni comuni, a nuovi modi di gestire la mobilità, gli spazi e il verde urbano, le politiche energetiche, il welfare e le politiche abitative.

In particolare chiediamo alle forze politiche e sociali, in un momento vicino alla prossima scadenza elettorale amministrativa, di partecipare e di intervenire nella discussione, misurandosi con le proposte che il Forum Ferrara Partecipata ha elaborato in questi ultimi mesi.

Allegato
Estratto del Documento Programmatico elaborato dal Forum

AL CENTRO DELLE SCELTE PER LA CITTA’ LA TRANSIZIONE E LA CONVERSIONE ECOLOGICA

E’ sotto gli occhi di tutti  che il nostro pianeta sia davanti a un collasso climatico ed ecologico che pone dei gravi rischi per la salute e la vita umana sulla Terra: lo dice a gran voce, ormai da anni, praticamente tutta la comunità scientifica. La crisi climatica è inequivocabilmente causata dalle attività umane e sta già colpendo ogni angolo del Pianeta, si sta aggravando più rapidamente di quanto previsto e il tempo per fermare la catastrofe sta finendo. In Emilia Romagna, area tra le più inquinate, cementificate e surriscaldate d’Europa, e anche a Ferrara, abbiamo visto direttamente lo sconquasso del caos climatico.
Dobbiamo partire da qui per pensare a un modello di città che guardi al futuro.  
L’IPCC è chiarissimo su quali siano le cause principali del cambiamento climatico: le emissioni di gas serra dovute all’uso dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas) in tutte le attività umane.
Sappiamo qual è la soluzione del problema: dobbiamo abbandonare rapidamente i combustibili fossili e accelerare sulla via della transizione energetica. Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere e di relazionarci con la natura e gli spazi in cui viviamo, dovremo cambiare modelli di economia, dovremo modificare profondamente stili di vita, di produzione e di consumo, individuare strade che portino a una radicale e rapida trasformazione della società. Dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, dall’economia lineare all’economia circolare, dal consumismo alla sobrietà.  E sappiamo che dobbiamo farlo in un’ottica di giustizia climatica, senza far pagare il prezzo più alto alle classi più disagiate e ai Paesi più poveri.
Per far fronte alla complessità dei problemi legati alla transizione energetica e alle azioni di adattamento alla crisi climatica è necessario pensare a un nuovo modello produttivo e sociale che guardi alla salute e al benessere collettivo, alla salvaguardia del territorio e alla riduzione del consumo di suolo, alla tutela dei beni comuni, alla riduzione degli sprechi, alla ripubblicizzazione di servizi pubblici, a nuovi  modi di gestire le politiche del welfare, le politiche abitative, gli spazi e il verde urbano, la mobilità ed è necessario farlo coinvolgendo i cittadini in tutte le scelte importanti che riguardano il rinnovamento della città.
Proviamo ad indicare alcune scelte concrete su punti fondamentali, certamente non esaudtive, ma che indicano una chiara direzione di mrcia coerente con gli obiettivi sopra esposti.
  • Intanto, una questione centrale è quella della promozione di una mobilità “ad emissioni zero”, basata sul trasporto pubblico, tendenzialmente gratuito, e mettendo al centro pedoni e ciclisti.

AZIONI PER LA MOBILITÀ

  • Altro tema fondamentale è quello della transizione e la riqualificazione energetica, puntando con forza a sviluppare l’utilizzo delle energie rinnovabili e all’efficientamento energetico ( scheda 2.2 AZIONI PER LA TRANSIZIONE E LA RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA).
  • In questo quadro, occorre poi misurarsi con gli interventi di adattamento alla crisi climatica, fermando il consumo di suolo e pensando ad una vera e propria “trama verde” per Ferrara, facendo di ciò uno dei punti di forza del nuovo PUG ( assieme a quello della rigenerazione urbana). Sempre qui è possibile affrontare il tema del mantenimento della vocazione del Parco Urbano Bassani ( scheda 2.3 AZIONI PER L’ ADATTAMENTO ALLA CRISI CLIMATICA. UNA TRAMA VERDE PER FERRARA).
  • Si tratta anche di mettere in campo iniziative efficaci per la rigenerazione urbana, riaffermando la centralità dell’interesse pubblico nelle operazioni da avviare con un ruolo dell’amministrazione pubblica non di facilitatrice delle richieste dei privati ma di gestrice dei processi, favorendo anche l’acquisizione di terreni pubblici, e valorizzando la funzione dell’Università. ( scheda 2.4 PER LA RIGENERAZIONE URBANA).
L’idea di fondo è quella di andare verso la “mobilità ad emissioni zero”, ribaltando lo schema gerarchico da auto, bicicletta, pedone a pedone, bicicletta, auto, ridando centralità al trasporto pubblico.
  • Piano per la decarbonizzazione del trasporto urbano basato sul trasporto pubblico e che ponga pedoni e ciclisti al centro, un piano per  ridurre le emissioni e i gas serra dei veicoli pubblici e privati, per potenziare mezzi elettrificati, corse, orari del trasporto pubblico integrato, per estendere la mobilità condivisa, per far crescere la mobilità attiva a piedi (“ Pedibus” per i tragitti casa/scuola ) e in bicicletta  (messa in sicurezza e raccordi tra le piste ciclabili, creando circuiti di quartiere interconnessi tra di loro e con il trasporto pubblico), per la valorizzazione delle vie d’acqua, per una nuova logistica della distribuzione delle merci con interdizione dell’abitato ai mezzi pesanti (distribuzione con mezzi elettrici e a pedale di ridotte dimensioni, con  orari regolamentati).  Per incentivare l’uso dei mezzi pubblici, oltre che efficiente, il trasporto pubblico dovrebbe essere, oltre che potenziato, progressivamente reso gratuito. Già in diverse città ci sono infatti azioni, pur differenti, che però fanno leva sull’aspetto economico di risparmio delle famiglie, per promuovere il trasporto pubblico e disincentivare l’uso dell’auto provata, da Trento a Firenze, da Bologna a Bari ( abbonamento annuale a 20 € ). Siamo convinti che, anche nella nostra provincia, andare in questa direzione molti cittadini passerebbero al mezzo pubblico, liberando la città da traffico e polveri sottili.
  • Piano per una ridefinizione degli spazi urbani che estenda gli spazi pedonali e le ZTL e che ampli il più possibile l’estensione di “aree 30km/h” fino a diventare “città 30”. E’ ormai necessario ampliare la zona pedonale e estendere la ZTL a tutto il centro  entro le Mura ( così come già previsto dal PUMS ). Servono agevoli parcheggi scambiatori ai quattro assi cardinali con navette gratuite ogni 10  minuti e bike-sharing  Ed è necessario che ogni quartiere fuori le Mura abbia un centro con una ZTL e una zona pedonale per favorire aggregazione e vita sociale.
  • Costruzione di un tavolo di confronto con le città vicine e in particolare Bologna per avviare politiche comuni orientate verso la costruzione di una rete di trasporto metropolitano di superficie, per eliminare il pendolarismo automobilistico.

AZIONI PER LA TRANSIZIONE E LA RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA

Si tratta di sviluppare l’utilizzo delle energie rinnovabili fornite dal sole, dal vento e dall’acqua, energie che non producono CO2 né inquinamento e che forniscono direttamente energia elettrica, una forma di energia molto più efficiente del calore generato dai combustibili fossili, e attuare politiche urbanistiche volte alla riduzione del fabbisogno energetico degli edifici.
-Sostegno e sviluppo  delle  comunità energetiche con incentivi e campagne di informazione e promozione: l’energia deve diventare un bene comune, staccandosi dalla logica dei sistemi centralizzati in cui pochi producono/distribuiscono e tutti consumano la risorsa (se hanno la possibilità di acquistarla )
-Adozione di energie  rinnovabili e efficientamento  energetico in tutti gli edifici pubblici. Con le ristrutturazioni edilizie si possono tagliare del 44% i consumi termici del residenziale. -Ricorso al teleriscaldamento sganciandolo dall’utilizzo dell’inceneritore
-Rifiuto all’autorizzazione di nuove centrali a biogas e biometano nel territorio comunale (centrale di Villanova e altre ) Il biometano non è rinnovabile, non è verde, non è sano.

AZIONI PER L’ ADATTAMENTO ALLA CRISI CLIMATICA. UNA TRAMA VERDE PER FERRARA

Azioni di adattamento per ridurre i rischi già presenti e quelli futuri, che saranno maggiori e più frequenti, non sono più rimandabili. Va ripensata l’organizzazione delle città dopo che negli ultimi decenni la cementificazione selvaggia ha trasformato e spesso compromesso il territorio.
Abbiamo bisogno di una programmazione urbanistica in grado di ipotizzare un futuro possibile senza consumare suolo e anche di ipotizzare interventi di “decostruzione” per affrontare e mitigare gli effetti “isola di calore” tipica delle aree urbane.
  • Dall’addizione verde alla trama verde fondata su due punti di forza: il parco/addizioneverde e il corridoio verde delle mura. Si tratta di due punti di partenza per costruire una varietà di luoghi naturali e paesaggisti in gradi di connettere aree urbane e territorio agricolo con una sequenza di spazi che vanno dal bosco urbano, ai corridoi verdi, ai viali alberti, alle piazze della città murate rinverdite (es. Piazza Sacrati), ai sagrati liberati dai parcheggi). In questo contesto, si collocano il potenziamento Parco Urbano-Agricolo G. Bassani (addizione verde), il consolidamento del corridoio verde e patrimoniale delle mura, la creazione del parco urbano sud attorno e dentro via Bologna, la costruzione di una rete dei giardini universitari tra via Savonarola e Corso Giovecca, la valorizzazione dell’area agricola dentro le mura, la trasformazione verde di piazze urbane del centro storico (es. Cortevecchia, Sacrati) e dei sagrati. delle chiese, eliminando i parcheggi dove esistenti, il potenziamento dei viali alberati nelle aree urbanizzate, anche per contrastare il calore, la creazione di connessioni verdi urbani recuperando aree dismesse o sottoutilizzati da immettere nella trama verde urbana. In particolare, per quanto riguarda il Parco Urbano, occorre inserirlo come Stazione del territorio protetto dal Parco Regionale del Delta del Po; in ogni caso, va ribadita la valenza ecologica tra gli scopi principali del Parco. Questo aspetto va assunto nel nuovo PUG- Piano Urbanistico Generale- , cercando di normare con precisione le funzioni e le attività compatibili col Parco e quelle incompatibili da svolgere altrove. Vanno escluse, ad esempio, attività che richiamino forte affluenza di pubblico concentrata in poco tempo, attività con impatto acustico tale da recare danno o disturbo alla fauna, attività che richiedano la costruzione di strutture temporanee di grandi dimensioni,
  • Istituzione del garante del verde e gestione realmente pubblica del servizio del verde del
Comune, eliminando il ricorso agli appalti esterni da parte di Ferrara Tua, pensando all’internalizzazione del personale operativo.
-“Stop consumo suolo” applicato  realmente e depavimentazioni, dove possibile,  per ridurre le aree impermeabilizzate
  • Rivedere l’applicazione del PAIR ( Piano Aria Integrato Regionale) nel Comune, che notoriamente ogni anno ha un numero significativo di sforamenti dei valori ottimali di PM10
  • Elaborazione del PUG ( Piano Urbanistico Generale), in termini di coerenza e di assunzione dei punti sopra espressi e di quelli relativi alla rigenerazione urbana ( che seguono subito sotto). Inoltre il Pug dovrà valorizzare adeguatamente il ruolo delle frazioni e costruire un equilibrio importante tra centro e “periferie”, tra area urbana e contesto periurbano.
No alla  terza corsia dell’autostrada Bologna-Ferrara, no all’autostrada Cispadana, no alla autostrada “Nuova Romea Commerciale”

PER LA RIGENERAZIONE URBANA

E’ necessario ribadire la centralità dell’interesse pubblico nelle operazioni da avviare con un ruolo dell’amministrazione pubblica non di facilitatrice delle richieste dei privati ma di gestrice dei processi, favorendo anche l’acquisizione di terreni pubblici.
  • Elaborazione di un piano casa programmando risorse per i prossimi 10 anni per alloggi dedicati alle fasce più marginali, studenti e a chi cerca affitto a canone agevolato.
  • Riorganizzazione degli spazi pubblici dei quartieri della città per favorire sicurezza e mobilità attiva per anziani e bambini.
  • Pianificazione territoriale per la valorizzazione delle vie d’acqua e la sicurezza idraulica per limitare i danni conseguenti alle piogge intense, di cui faccia parte un ripensamento delle piazze e delle strade come aree di laminazione delle acque piovane intese, favorendo un disegno in grado di affiancare il sistema urbano di raccolta e smaltimento delle acque.
  • Ripensamento dell’organizzazione del commercio mettendolo in relazione con il tema della mobilità. Se si vuole realizzare una città della prossimità nel commercio e nei servizi bisogna probabilmente rivedere il modello incentrato sulla diffusione nella città extra-mura degli ipermercati e centri commerciali.
In questo contesto, l’Università è chiamata a svolgere un ruolo importante,  come vero e proprio soggetto-guida per l’implementazione delle necessarie trasformazioni urbane, in sinergia con l’Amministrazione pubblica e gli altri principali attori socio-economici locali. In particolare, l’idea di una potenziale “città-campus” diventa un riferimento fondamentale per disegnare l’idea futura di città,  pensando all’Università come soggetto in grado di distribuire su tutto il territorio comunale gli effetti culturali ed economici da essa generati.

 PRIORITA’ E SCELTE OPERATIVE

TRANSIZIONI ECOLOGICA E ENERGETICA

    a) Centralità tema mobilità

  • Trasporto pubblico. Sulla base di uno studio sui flussi di traffico, iniziando da quello prodotto dalla mobilità scolastica mattutina, prevedere un potenziamento forte del trasporto pubblico, renderlo tendenzialmente gratuito e ecologicamente sostenibile. Reale pubblicizzazione dell’azienda che gestisce tale servizio ( vedi anche beni comuni)
  • Isituzione parcheggi scambiatori ai quattro assi cardinali di accesso alla città
  • Navette elettriche gratuite ogni 10 minuti
  • Piste ciclabili connesse
  • Estensione area ZTL entro le Mura e aree 30 in tutta la città
  • Vie d’acqua

       b) Trama verde per la città

  • Aree dedicate al verde urbano e isole verdi
  • No allo snaturamento di aree a vocazione naturalistica- ecologica ( vedi Parco Urbano)
         Fermare completamente il consumo di suolo
         Mantenimento e valorizzazione paesaggio agricolo
         Utilizzo aree dismesse anche per attività considerate strategiche e/o di interesse pubblico

         c ) Transizione energetica

  • Promozione e diffusione comunità energetiche
  • Efficientamento energetico, a partire dagli edifici pubblici
  • Fermare tutte le autorizzazioni agli impianti di biogas/biometano

Quella cosa chiamata città /
ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE

Quella cosa chiamata città. ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE

La linea dell’acqua e quella sinuosa delle colline, con i minareti che agganciano la città al cielo, definiscono la forma di Istanbul. Un carattere che Le Corbusier coglie mirabilmente disegnando il paesaggio urbano del Corno d’oro, visto dal Bosforo. La città viene sintetizzata in una linea lievemente movimentata che mostra una morfologia dolcemente collinare, ma che schizza verso l’alto quando incontra un minareto, come in un istogramma.

Le mura che delimitavano l’acqua, sono scomparse, ma gli schizzi dell’architetto svizzero fanno emergere la città come fosse un piano rialzato, quasi fosse su di un piedistallo. Si sa, il disegno e soprattutto lo schizzo, sono il frutto di una selezione: non tutto viene rappresentato. Lo sguardo è sempre intenzionale, si evidenziano punti particolari, situazioni, intrecci, conflitti sui quali si intende porre l’attenzione.

Per tale motivo si tratta di un esercizio (lo schizzo che legge, interpreta e misura un luogo) fondamentale per un architetto. Attraverso la matita, Le Corbusier ci dà delle informazioni sulla consistenza fisica della città, come quando descrive l’effetto “muro” delle case appiccicate sulla riva del mare o i vecchi palazzi bizantini, le cui finestre iniziano tra i 15 e i 18 metri d’altezza.

Istanbul. Il cortile di una moschea nel Sultanahmet, 1982

I luoghi immediatamente percepibili dal bacino d’acqua che unisce le tre parti della città sono certamente le moschee dello sfondo, la mole metallica del ponte di Galata, con la torre genovese che svetta a Galata, ma più di tutti il complesso del Topkapi, che chiude sul mare il triangolo del Corno d’Oro.

Il complesso vede uniti il palazzo del sultano, i giardini circostanti e la moschea di Solimano, costruita nella seconda metà del Cinquecento da Sinān, il più famoso architetto ottomano. Siamo nel Sultanahmet, una delle 57 mahalle (quartieri) che compongono la parte più antica della città, coincidente con il distretto di Fatih.

Un dedalo di strade compone il Sultanahmet e Kapalıçarşı, dove pulsa il bazar: un pezzo di città straordinario per la complessità dei suoi spazi, per il suo essere un recinto dentro la città, e per gli spazi di transizione che lo preannunciano.

In fondo un modello, come lo sono anche i sūq, per la nascita dei moderni luoghi del commercio delle nostre metropoli nell’Ottocento e nel primo Novecento. Penso ai passages parigini e alle loro fantasmagorie, descritti da Louis Aragon.

Il bazar di Istanbul, 1982

In realtà le trasformazioni nel distretto di Fatih sono state veramente radicali. Le famose case di legno di Istanbul sono quasi tutte bruciate, e i terremoti e le devastanti modernizzazioni hanno fatto il resto. Rimangono come al solito dei frammenti: una casa di legno, un palazzo neoclassico, le chiese bizantine, le fontane e i cimiteri che, con il loro verde e le caffetterie, sono i veri giardini della città.

Istanbul. Una strada di Fatih, 1982

È la medesima impressione che si ha percorrendo Atene o altre città greche come Patrasso o Salonicco, dove alcune preesistenze ti segnalano una storia ricca e complessa che non c’è più. Rimane intatto il fascino per queste città vissute in ogni loro spazio. Rimangono anche le descrizioni di viaggiatori come Pierre Loti o Edmondo de Amicis.

 Impressionante è la dissolvenza delle luci che accompagnano il tramonto sul Corno d’Oro. Quattro cose ancora oggi mi colpiscono. Innanzitutto, l’illuminazione delle moschee, inquietanti appaiono anche le sagome buie delle basse colline, punteggiate qua e là dalle luci delle case e dei piccoli borghi.

Ricca di suggestioni è la successione dei colori del cielo durante il percorso dal tramonto alla notte. L’azzurro del cielo si trasforma gradualmente in un arancio prima chiaro, poi scuro e infine nel rosso che transita nel nero della notte, preceduto da un blu molto scuro.

Infine, è il riverbero sull’acqua delle luci della città, che rende teatrale questo luogo. Paesaggio meraviglioso, certo, ma attenzione si tratta in realtà di un campo di contraddizioni e conflitti composto di elementi dissonanti, di monumenti straordinari, anche per la loro posizione rispetto all’acqua e di trasformazioni radicali e brutali.

Andai la prima volta a Istanbul nel 1982 e in Turchia vigeva il coprifuoco stabilito dalla giunta militare che aveva preso il potere due anni prima. Di quel viaggio rimane un susseguirsi di immagini sedimentate nella mia memoria, che si scontrano con quello che oggi esiste e si vede, ma in fondo è questo conflitto percettivo che alimenta l’immaginario di un luogo.

Se Genova si vede dal mare, Istanbul ancora di più. Ne erano certamente consapevoli i parigini che sul finire dell’800 potevano ammirarla, in uno dei panoramas dei grands boulevards, osservando «la città [che] si amplia a paesaggio» (Walter Benjamin).

Un tempo a Galata si parlava francese e anche italiano, le vie erano ricche di edifici neoclassici alcuni con splendide viste sul lato occidentale del Corno d’oro, orientata sul tramonto. Una città europea, dove importanti famiglie aristocratiche e borghesi si rappresentavano attraverso l’architettura, come i Camondo (sefarditi spagnoli, poi «stambulioti» e infine parigini dopo un passaggio tra Austria, Trieste e Venezia), a cui si deve la famosa scalinata che lega strade di quote diverse, accostata a palazzi di impronta neorinascimentale.

Infine, un dedalo di stradine ripide, che ancora si inerpicano dalla quota del mare verso le parti più alte del quartiere ricordando i carrugi di Genova. Non tutto qui era però lindo e ordinato, anzi come in tutte le città di mare, le zone adiacenti alle aree portuali erano sovente dei luoghi di degrado.

Zürafa sokak era la via delle prostitute, dove si raccontava che centoventi prostitute servissero una media di cinquemila/settemila uomini al giorno in diciotto case. Siamo nella parte bassa di Galata, non molto lontano dal bordo del mare: una strada chiusa più che una casa chiusa. Gli accessi alla strada allora erano presidiati dalla polizia che faceva entrare solo uomini, la ricordo quasi come una via commerciale, con edifici in stile europeo e con “botteghe” che esponevano la merce.

Si trattava di donne giovani e vecchie, discinte e vistose, ogni tanto qualcuno entrava nel negozio o in un portone neoclassico, trattava il prezzo e, attraversando un pertugio, saliva con la donna scelta. Gran parte della folla però guardava, chi con curiosità, chi con disgusto, mentre chi non poteva permettersi questo momento di sfogo saltava da una bottega all’altra, come in preda ad una febbrile eccitazione.

Mi è ancora chiaro il ricordo di una giovane donna, una ragazza, che la memoria me la fa ricordare bellissima, accerchiata da abbruttiti che cercavano di toccarla, mentre una megera li allontanava. Ricordo il suo sguardo rivolto a noi giovani, evidentemente diversi dalla folla che si muoveva convulsamente lungo la strada. La sua espressione, per niente altera e sprezzante, sembrava cercare aiuto.

Cover: Istanbul. Pescatori sul Bosforo, 1982

Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Romeo Farinella

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore

L’orrore di Gaza contiene il germe della fine della tirannia sionista

L’orrore di Gaza contiene il germe della fine della tirannia sionista 

Quella che ormai non può che essere vista come la “Soluzione Finale” di Israele per i Palestinesi affonda le proprie radici nella storia di ieri. La guerra del 1948, chiamata in Israele “Guerra di Indipendenza”, ha comportato la nascita dello Stato di Israele e ha significato la morte del popolo palestinese.

La Dichiarazione di Indipendenza israeliana ha comportato la Nakba (catastrofe) in Palestina.

Per via di una beffarda coincidenza storica, anche la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stata adottata in quello stesso anno, quando un’ondata di violenza e terrore contro una popolazione inerme di 1.3 milioni individui causò la distruzione di 524 città e villaggi e una fuga di massa di 780mila palestinesi. Due milioni e trecentomila discendenti di quei primi profughi fuggiti di casa nel 1948, sono coloro che oggi risiedono nell’inferno della Striscia di Gaza, vittime di una nuova devastante catastrofe umanitaria.

La mentalità terrorista attraverso la quale Israele è stato concepito, costruito e sostenuto, è stata un fallimento fin dall’inizio, eppure Israele ancora si rifiuta di accettare ciò che risulta ovvio: fintanto che la sua esistenza sarà imposta con l’uso delle armi, non vi sarà uscita dal tunnel degli orrori.  Chi continua a fare affidamento sulla narrazione israeliana imposta dall’ideologia sionista viene ingannato dal potere  economico militare degli Stati Uniti e dalle influenze delle lobby israeliane.

L’insensata propaganda della versione sionista della storia, tesa a convincerci che non ci sarebbe stato nessun genocidio dei palestinesi, è già crollata sotto il peso degli studi condotti dal movimento della Nuova Storiografia Israeliana, un gruppo di ricercatori e docenti israeliani che ha sfidato le versioni tradizionali sul reale ruolo assunto dal proprio Paese nella guerra del 1948. Oggi, quella stessa visione negazionista rischia di disintegrarsi sotto il peso morale della guerra di Gaza.

La soluzione finale per i palestinesi che sta avvenendo nell’inferno di Gaza è speculare a ciò che sta avvenendo nell’inferno di Israele: la risoluzione finale dell’ideologia sionista. L’attacco militare non può più essere raccontato come una missione necessaria per “eliminare il terrorismo di Hamas” in contrapposizione a ciò che realmente è: una vera e propria guerra, tra le più distruttive e letali del 21°secolo, per entrambe le parti.

Haytham Manna, presidente dell’Istituto Scandinavo per i Diritti Umani (SIHR), ha osservato che la guerra in corso ha già mietuto il doppio delle vittime civili rispetto ai due ultimi anni di guerra in Ucraina (2022-2023), e che il numero dei medici e del personale delle agenzie delle Nazioni Unite uccisi durante l’esercizio delle loro funzioni è infinitamente superiore a quello registrato in 20 anni di guerra del Vietnam (1955-1975) o in 8 anni di guerra in Iraq (2003-2011). Anche i 90 tra giornalisti, fotografi e operatori rimasti uccisi vanno ad aumentare il tragico conto delle vittime.

I 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza, cioè la prigione più grande del mondo per 2.3 milioni di profughi e figli di profughi di guerra, sono stati ridotti a un terreno di caccia di esseri umani che vengono uccisi in maniera indiscriminata. Oltre 12.000 tonnellate di bombe sono state sganciate nelle prime due settimane di guerra per incenerire almeno il 45% delle unità abitative nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese, secondo l’Ufficio Umanitario delle Nazioni Unite.

Coloro che non sono morti sotto le macerie delle proprie case e non sono stati uccisi dagli elicotteri, dai droni o dai carri armati mentre tentavano di fuggire da una regione all’altra, stanno ora morendo di malattie, di fame e di sete. Carl Skau, vicedirettore del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, ha confermato: «La metà della popolazione muore di fame, nove su dieci non mangiano tutti i giorni». Richard Peeperkorn, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che “in soli 66 giorni il sistema sanitario è passato da 36 ospedali funzionanti a 11 parzialmente funzionanti”. Secondo un dettagliato rapporto della ong Euro-Med Human Rights Monitor, con sede in Europa, circa 25mila bambini di Gaza hanno perduto uno o entrambi i genitori. Il numero totale di bambini e di adolescenti uccisi potrebbe superare i 10mila, perchè non è stato possibile estrarre dalle macerie i corpi di tanti di loro. 640.000 persone non hanno più una casa.  Non una sola categoria di civili palestinesi è stata risparmiata da questo orribile destino: ospedalizzati, malati, vecchi, bambini, donne, insegnanti, medici, infermieri, soccorritori, artisti, poeti, giornalisti, cameramen. L’elenco delle vittime è in continua crescita. Quotidianamente contiamo le uccisioni e i ferimenti subiti da entrambe le parti, correndo il rischio che la perdita vera, per tutti noi lontani dal conflitto, sia tutt’altra: la perdita della nostra umanità.

Da quando l’esercito israeliano ha sottoposto i civili palestinesi di Gaza al più intenso bombardamento di sempre – distruggendo case, ospedali, asili, scuole, università, centri culturali, moschee, chiese, mercati,  pozzi, panetterie, punti di distribuzione alimentare delle Nazioni Unite, centrali elettriche, edifici pubblici, sedi governative, infrastrutture civili, provocando 18.800 morti e 8.000 dispersi sotto le macerie, 35.000 feriti, 1.9 milioni di sfollati ammassati nel settore meridionale della Striscia in rifugi di fortuna, senza acqua potabile né cibo, né servizi igienici-  amare la Palestina consiste nel lanciare allarmi su una catastrofe umanitaria senza precedenti.

Da quando, dopo alcuni giorni di tregua, è poi ripresa la preannunciata offensiva, essa non può più nemmeno essere raccontata agli occhi del mondo come la missione finalizzata ad ottenere il rilascio degli ostaggi: l’esercito israeliano si è ufficialmente assunto la responsabilità dell’uccisione involontaria di tre ostaggi israeliani avvenuta mentre si avvicinavano alle forze israeliane senza maglietta, sventolando una bandiera bianca e invocando aiuto in ebraico, dopo che erano stati liberati o sfuggiti ai carcerieri di Hamas. Nell’attacco, avvenuto per mano di un cecchino, alla parrocchia cattolica della Sacra Famiglia di Gaza sono state uccise due donne e altri sette fedeli sono rimasti feriti mentre tentavano di soccorrere le persone bombardate dentro la chiesa. Nahida e sua figlia Samar, questi i nomi delle vittime cristiane, sono state colpite a sangue freddo mentre camminavano all’interno della parrocchia per recarsi nel convento.

Il corrispondente arabo di Al Jazeera Wael Dahdouh – che ha perso moglie, figlio, figlia e nipote in un precedente bombardamento israeliano – è rimasto ferito da un attacco di droni mentre stava documentando gli effetti di un precedente attacco aereo contro la scuola Farhana di Khan Younis dove i civili avevano invano cercato rifugio. Il cameraman Samer Abudaqa è stato lasciato morire dissanguato,  poiché le forze israeliane hanno impedito alle ambulanze e ai soccorritori di raggiungerlo.

Non tutti gli ebrei sono sionisti

I drammatici dati ufficiali espressi da entrambe le parti coinvolte; i disperati allarmi lanciati da tutti gli organismi umanitari dell’ONU; la ferma denuncia da parte di ogni tipologia di associazioni pacifiste; l’aperta condanna dei manifestanti di tutto il mondo; la crescente preoccupazione delle associazioni religiose cristiane, musulmane ed ebraiche; i sofferti appelli di Papa Francesco e le infinite voci che denunciano come si stia consumando una crisi catastrofica, prodotta da una violenza senza limite né controllo, rivolta contro tutto e tutti, vengono messe a tacere. Si cerca di convincere la pubblica opinione che il sionismo israeliano sia una forma di nazionalismo apprezzata da tutto il popolo ebraico.

In realtà, non tutti gli ebrei sono sionisti e molti, moltissimi, non sono nazionalisti e ancor meno  israeliani. Gli ebrei in Palestina sono circa cinque milioni, ma la popolazione ebraica supera i venti milioni. E’ anche per questo che Israele non ha mai potuto essere la Nazione di tutti gli ebrei, tanto meno della maggioranza di coloro che hanno preferito vivere e vivono tuttora in Europa, in Russia, negli USA, in Latino-America, in India, in Australia e altrove.

Non solo: moltissimi di costoro non accetterebbero di andare a vivere nello stato di Israele. In base a quali motivazioni personali si dovrebbe andare a vivere in una regione piena di armi, muri e conflitti senza fine? Per aderire forse ad una idea di “israelizzazione”? Dal 7 ottobre sono stati circa 470.000 gli israeliani che hanno lasciato il Paese per trasferirsi in Canada, Australia, Regno Unito o Stati Uniti. La Germania nei primi due decenni di questo secolo ha visto un afflusso di circa 20.000 israeliani.

Il mondo descritto dall’ossessionante narrazione sionista, un mondo in cui i popoli del pianeta aspetterebbero solo l’occasione buona per scatenare nuovamente antisemitismo e persecuzione contro gli ebrei, non esiste più. Lo dimostra il fatto che la maggior parte degli ebrei, fuori da Israele, vive liberamente e, molto spesso, in prosperità materiale e spirituale. Lo stato di Israele si presenta come uno stato democratico a favore dei suoi cittadini ebrei, ma nella realtà, anche contro i suoi propri cittadini, si sta dimostrando una vera e propria dittatura militare.

E’ prima di tutto per questi motivi che amare Israele consiste nel denunciare lo Stato di Israele.

Perché da oggi Israele sarà per sempre il responsabile morale della ferocia dei suoi crimini e gli ebrei di tutto il mondo che soffriranno molto più degli altri, saranno proprio gli ebrei di Israele: non per via dell’antisemitismo, ma a causa dell’ignobile, ributtante e atroce crimine di genocidio che stanno perpetrando contro i palestinesi. Oltretutto Israele, con la sua insensata propaganda di guerra, si rivolge all’Occidente – cioè al contesto geopolitico nel quale si è prodotto l’Olocausto – attribuendo la minaccia di persecuzione e di sterminio ad un Oriente arabo e musulmano che in tutto il suo passato non ha mai perseguitato gli ebrei e non ha mai compiuto olocausti. Gli storici hanno dimostrato che è proprio nel mondo arabo e musulmano che è fiorito il meglio della cultura ebraica: in Spagna prima del 1492, nell’impero Ottomano, in Turchia, a Baghdad, a Damasco, in Marocco. La storia dice anche che gli arabi non sono mai stati antisemiti; in Oriente e in Nord Africa le comunità ebraiche sefardite hanno vissuto pacificamente con i musulmani per millenni, senza essere confinate in ghetti, senza essere perseguitate, senza essere espulse.

Il “modello israeliano” non è solo bellico, tecnologico e industriale, ma anche culturale, ideologico, mediatico e propagandistico. Ma il patriottismo, il coraggio, l’eroismo, la “purity of arms”, stemma e orgoglio dell’esercito israeliano, quando tradiscono i propri valori compiendo genocidi contro una popolazione civile vinta, oppressa e imprigionata, dimostrano inevitabilmente ed inesorabilmente il proprio punto debole e il proprio tallone di Achille.

La società israeliana, composta per sua natura da un melting pot di differenti etnie ebraiche scampate clandestinamente alla shoah o immigrate in tempi più recenti, è pervasa da fenomeni culturali, politici, religiosi e mediatici che supportano sia il casus belli di ogni operazione militare, giustificata da motivi di sicurezza contro attacchi terroristici o lancio di razzi, sia la sproporzionata efferatezza della reazione agli stessi. Il richiamo a dogmi di estremismo religioso, l’ipermilitarismo, il razzismo, la disumanizzazione del nemico, l’impunità dei crimini di guerra, l’eroicizzazione dei soldati e delle soldatesse, i privilegi destinati alle caste militari o alle classi sociali più estremiste – così come la persuasione mediatica e il controllo delle informazioni – sono linee guida della società israeliana.

In otto settimane di guerra Israele ha contato il più alto numero di propri morti e feriti che in 106 anni di presenza ebraica in Palestina.

La costante insistenza di Israele sul fatto che la sua guerra sia condotta contro Hamas, contro il “terrorismo”, contro il fondamentalismo islamico, potrebbe continuare a convincere solo coloro che sono ancora disposti a prendere per oro colato la versione israeliana degli eventi. Ma quando i corpi dei civili palestinesi, tra cui migliaia di bambini, hanno iniziato ad accumularsi negli obitori degli ospedali di Gaza e nelle strade, la narrazione ha cominciato a cambiare. I corpi polverizzati dei bambini palestinesi, di intere famiglie morte insieme, testimoniano la brutalità di Israele, il sostegno immorale dei suoi alleati e la disumanità di un ordine internazionale che premia l’assassino e ammonisce la vittima.

Nella società israeliana e nel resto del mondo chiunque ponga l’attenzione sulle durissime condizioni di vita imposte da Israele ai suoi stessi cittadini e cittadine, soldati e soldatesse, e chiunque analizzi la catastrofe che il sionismo ha provocato ai palestinesi, viene ostracizzato, ridotto al silenzio, definito antisemita o, se ebreo, un ebreo che odia sè stesso e gli altri ebrei.

Il disordine mentale dopo essere stato un soldato israeliano

Bisognerebbe iniziare a chiedersi chi veramente trae vantaggi dal sionismo, e chi invece ne subisce le conseguenze. Il sito web “Israel Today”, citando fonti vicine al dipartimento di salute mentale, riporta che tra i soldati aumenta la necessità di ricorrere a trattamenti psicologici dopo le missioni, con conseguente aumento dei casi di esonero da ulteriori impieghi sui campi di azione. Per le scene terribili alle quali hanno assistito o per i crimini che sono stati costretti a commettere durante le precedenti nove operazioni nella Striscia di Gaza, centinaia di soldati israeliani sono stati trasferiti a speciali “reparti di psicoterapia”.

Quella dell’aumento dell’uso di sostanze stupefacenti, dei casi ufficiali di suicidio e del numero di obiettori di coscienza arrestati, processati e incarcerati per essersi rifiutati di prestare servizio di leva o di essere richiamati come riservisti, è una realtà che tutti conoscono in Israele, ma le organizzazioni pacifiste, le Ong o i movimenti ebrei antisionisti non riescono a parlare senza essere accusati di tradimento, disfattismo e viltà.

Breaking the Silence, Courage to Refuse, Gush Shalom, Taayush, New Profile, Target 21, B’Tselem sono le più conosciute tra le organizzazioni dei cosiddetti “pacifisti radicali israeliani” accusate e condannate per aver pubblicato testimonianze dirette sulle esperienze e sulle tecniche utilizzate dai soldati per reprimere la resistenza palestinese, o manuali in cui veniva spiegato ai giovani israeliani come fare a sottrarsi dal servizio di leva obbligatorio.

Per tentare di cancellare i traumi delle esperienze belliche che li hanno devastati psicologicamente, distaccandosi il più possibile dal peso del proprio insopportabile passato e giungendo a scelte prolungate di tipo eremitico, appena terminato il periodo di leva, ogni anno decine e decine di migliaia di neo congedati e neo congedate scelgono di passare lunghi periodi di permanenza all’estero, in special modo in India, Thailandia e Nepal, formando vere e proprie piccole comunità di ex militari israeliani. Tra di loro vi è chi tenta di rimuovere dalla propria coscienza il trauma di essere stato un combattente sfruttato al servizio di una lugubre polizia politica. Quello che viene ufficialmente raccontato come un meritato periodo di riposo, o il vantaggio di un anno sabbatico, non tiene in nessun conto il proliferare di apposite agenzie investigative private specializzatesi nel rintracciare, per conto dei genitori, un gran numero di figli che, partiti con un budget di viaggio ricavato dalla liquidazione spettante al termine del servizio di leva, sono assenti da anni, non intendono più tornare a casa e non vogliono più dare notizie di sé ai famigliari e a una Patria pronta a riconoscerli come eroi ed eroine.

In ogni guerra, l’informazione viene utilizzata come arma. Fare affidamento esclusivamente sulle armi della narrazione israeliana significa essere ingannati, non solo riguardo ai crimini di guerra commessi dall’esercito di difesa israeliano, ma anche sulla natura della guerra stessa. Una delle campagne più efficaci proposte dalle organizzazioni pacifiste, ha proposto alla visione pubblica le foto personali dei soldati scattate nel corso del proprio servizio. Gli scambi di commenti ai ricordi e la rilettura delle testimonianze ha consentito di avviare un percorso di presa di coscienza molto difficile da contrastare da parte del militarismo culturale e della cultura della guerra.

L’esercito israeliano, che chiama sè stesso Israeli Defence Force (Forza di Difesa di Israele), è considerato uno dei più armati e tecnologicamente avanzati al mondo ed è composto da circa 200.000 militari, perlopiù di leva. La chiamata alle armi avviene al compimento del 18esimo anno di età, dura 36 mesi per gli uomini, 24 mesi per le donne e in caso di necessità può mobilitare circa 500.000 riservisti che continuano a prestare servizio per un mese all’anno fino al compimento di 42 anni di età.

L’esercito è il pilastro dell’identità sionista ed è il rimosso di Israele

L’impatto con la realtà israeliana è sconcertante per chiunque, ma per i pellegrini delle tre religioni monoteiste può risultare addirittura sconvolgente.

Nel Hadassah Ein Kerem Hospital opera un dipartimento specializzato di psichiatria per stranieri che presentano i sintomi della cosiddetta “Sindrome di Gerusalemme”. Visitare Gerusalemme può far impazzire chi, posto di fronte a un bivio tra spiritualità, misticismo, religiosità, mitologia, archeologia, arte da un lato, e recinzioni, check-point, torri di controllo, muri, basi militari dall’altro, possa sentirsi afflitto da ciò che, in termini specifici, viene descritta come una “infermità psichica dissociativa isterica”. Le sue cause e i suoi sintomi si riflettono nell’isterismo psichico di una sindrome che ammorba tutto Israele e che in Gerusalemme raggiunge un picco di incidenza assoluta.

L’ampio piazzale di 10mila metri quadrati dinnanzi al Muro del Pianto, l’attrazione preferita dai turisti che viaggiano per il mondo, dai pellegrini e da molti capi di Stato stranieri che visitano il Muro come forma di rispetto per il significato che rappresenta per Israele e per tutto il mondo ebraico, non ha nemmeno sessant’anni. Fino al 1967 quello spazio era occupato da un insieme di edifici storici, piccoli e grandi, posti ai piedi del Muro Occidentale dell’antico tempio di Gerusalemme. Il quartiere fu fondato 800 anni prima dagli Ayyubidi di Ṣalāḥ al-Dīn per accogliere i pellegrini musulmani provenienti dal Nord Africa. Venne completamente raso al suolo nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1967 dai mezzi dell’esercito israeliano, che aveva appena preso il controllo dei quartieri orientali della Città Santa, alla fine della vittoriosa Guerra dei Sei Giorni.

I vittoriosi generali dell’esercito israeliano che decisero senza alcuna autorizzazione ufficiale di demolire il medioevale quartiere maghrebino Hārat al-Maghāriba di Gerusalemme sfollando i suoi mille abitanti, presumevano che la fascinazione degli ebrei per il muro avrebbe impedito di notare le macerie. Le moltitudini che affluirono nella neonata spianata del muro del pianto, nemmeno le videro: i cumuli di macerie erano stati tutti rimossi grazie all’impiego di modelli speciali di bulldozer che avevano risparmiato solamente qualche albero.

Nella mitologia italica e romana il più antico degli Dei è Giano, concepito e raffigurato come bifronte. Le porte del suo tempio, nel Foro Romano, rimanevano aperte in tempo di guerra per aspettare il ritorno dei cittadini andati a combattere e si chiudeva quando, finite le operazioni militari, essi tornavano in città. Nella mitologia sionista il più antico dei bulldozer militari è il Caterpillar D9R. Si presenta come un trattore cingolato corazzato bifronte, sormontato da una cabina di guida blindata, dove si può azionare contemporaneamente la pala anteriore o i vomeri posteriori. Da quando ha iniziato ad essere utilizzato con successo dall’esercito nel cuore di Gerusalemme nel giugno 1967, viene ancora usato dai Combat Engineering Corps per radere al suolo case, demolire edifici, sfondare recinzioni, sradicare uliveti, passare due volte sul corpo della manifestante pacifista statunitense Rachel Corrie.

E’ soprannominato “דובי” (orsacchiotto) in Israele.

Viene messo in azione con altrettanta efficacia anche quando si ordina di mettere in atto la “procedura della pentola a pressione” o “intervento D9”, finalizzato alla cattura dei ricercati per terrorismo. Il bulldozer si avvicina alla casa dove si rifugia il ricercato per terrorismo da arrestare e con il rombo del motore lo si invita ad uscire. Se la pressione psicologica non da’ esito, il bulldozer scuote la casa. Se ancora non basta, la casa viene totalmente demolita seppellendone vivi gli eventuali occupanti. L’Hasbara israeliana, הסְבָּרָה, come eufemismo per propaganda, e come sinonimo di propaganda militare, è la prima a sfilare al corteo funebre dell’ideologia sionista.

Per le esequie in corso della tirannia militare israeliana, non fiori recisi, ma talee di rami di ulivo, preghiere per la pace e opere di bene.

NOTE

https://www.terrasanta.net/2023/06/il-quartiere-maghrebino-di-gerusalemme-ricostruito-in-rete/ https://comune-info.net/una-gaza-planetaria/

https://www.terrasanta.net/2023/06/il-quartiere-maghrebino-di-gerusalemme-ricostruito-in-rete/ https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2023/12/10/onu-meta-della-popolazione-di-gaza-sta-morendo-di-fame_ https://pagineesteri.it/2023/12/13/medioriente/gaza-ong-25mila-bambini-palestinesi-sono-rimasti-orfani-

https://tg.la7.it/esteri/raid-di-israele-a-khan-younis-ucciso-un-operatore-di-al-jazeera-e-ferito-un-giornalista-15-

12-2023-

https://www.rainews.it/video/2023/12/il-patriarca-latino-di-gerusalemme-i-fatti-nella-chiesa-cattolica-di-gazasono-incontrovertibili-adde45c0-8b8f-40e3-9c56-519c6b109da6.html

rainews.it/maratona/2023/12/lesercito-israeliano-uccide-tre-ostaggi-identificati-per-errore-come-minaccia-laguerra-di-gaza-giorno-70-30dbd095-4ff6-49b5-b1cd-939c1cdd5655.html

https://www.rainews.it/video/2023/12/chiesa-della-sacra-famiglia-le-due-donne-uccise-a-sangue-freddomentre-andavano-in-bagno-1300147f-9911-41bc-8aba-39e1273078ca.html

https://www.invictapalestina.org/archives/50011 https://en.wikipedia.org/wiki/Caterpillar_D9#References

In copertina: Foto originale tratta dal docufilm “De Gaza” di Mirko Faienza/Franco Ferioli

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