MUSICI FERRARESI DELL’OTTOCENTO / FILIPPO ZAPPATA E FEDERICO SARTI
Filippo Zappata – Nativo di Ferrara (1817-1878), fu allievo del grande Gioachino Rossini presso il Liceo di Bologna nel 1841 e solo tre anni più tardi, nell’agosto del 1844, il municipio di Urbino lo elesse Maestro della cappella metropolitana. Il suo estro musicale rifulse nelle opere sacre, come ad esempio la Messa a piena orchestra eseguita nel luglio 1853 a Lugo (Bo), lodata per «la fecondità dei pensieri, la filosofia dell’espressione», o come la tragedia Abderamo o l’Assedio di Granata, eseguita sempre a Lugo nel 1859, o ancora come la Paola Monti rappresentata a Bologna nel 1862. Zappata venne anche nominato Maestro di cappella dal consiglio comunale di Comacchio, la cittadina dov’era nato. La sua opera più celebre e meglio riuscita è forse la Messa funebre a tre voci, definita «un’opera meravigliosa», «un capolavoro di musica liturgica». La lapide onoraria collocata davanti alla sua casa porta questa iscrizione: “Filippo Zappata / Comacchiese / Il suo genio grande / e alla musa rossiniana ispirato / nel teatro e nel tempio / effuse / melodie sublimi / Di merito più che di nome / insigne / onorò / l’arte e la patria”.
Federico Sarti – Nativo di Cento (Fe) e violinista di talento, Federico Sarti (1858-1921) ricevette in eredità dal padre – Leone Sarti, insegnante di violino presso le scuole musicali della città del Guercino – la passione per la musica, che lo portò ad affermarsi nell’attività concertistica nella limitrofa Bologna, oltre che emulare il padre nell’insegnamento. La carriera di Sarti si sviluppò su due piani: come solista e come concertista, in questo secondo caso soprattutto quale componente del famoso “Quartetto bolognese”, insieme a Consolini, Massarenti e Serrato.
Giuliano Poletti, il ministro che sta cercando di farci rimpiangere la signora Fornero, argomenta (si fa per dire) sul quotidiano “La Repubblica” il rifiuto di modificare il decreto sul lavoro a termine.
Domanda:«Il governo è disposto a ridurre la durata dei contratti a termine senza causale da 36 mesi a 24 come le chiede una parte del Partito democratico?»
Risposta di Poletti: «No. Ipotizzare questo cambiamento non è assolutamente possibile, dal mio punto di vista. Una modifica di questo tipo non sarebbe coerente con l’impianto del decreto. E poiché abbiamo detto che l’impianto del provvedimento non si tocca, devono restare i 36 mesi».
Come dire: abbiamo deciso di fare così perché sì e basta! Un vero monumento all’autoreferenzialità.
Almeno la signora Fornero cercava di difendere le proprie scelte con qualche ragionamento di merito, per quanto infondato.
Qui siamo oltre. E le molte argomentate critiche, provenienti da più parti, vengono semplicemente ignorate. Magari accompagnando il tutto con affermazioni del tutto immotivate, tipo “così aumenteranno gli occupati”.
E’ la solita ricetta ideologica propinata da vent’anni: “più flessibilità = più occupazione”. Peccato che non funzioni, come ha ampiamente dimostrato l’esperienza di questi anni. Ma chi se ne frega della realtà? L’importante è coprire il motivo vero: la volontà di fare un “regalino” alle imprese.
Quelle imprese che in questi anni, come ha osservato nei giorni scorsi il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, invece di investire per innovare prodotti e processi «hanno rinviato, riducendo il costo del lavoro e sfruttando la flessibilità.»
Come dire che tutta questa precarietà non solo non ha portato più occupazione, ma è stata anche uno degli elementi che hanno fatto perdere competitività al nostro Paese.
Continuiamo pure così – verrebbe da dire, morettianamente – facciamoci del male!
C’è chi dice che nel nome delle persone si nasconda il loro destino, per Marie-Joseph-Rose Tascher de la Pagerie, nata a Trois-Ilets in Martinica nel 1763, si può dire che in parte si sia realizzato. Rose era una creola, nata da ricchi latifondisti francesi nelle colonie caraibiche. La sensualità dei luoghi deve aver lasciato un’impronta in questa donna che, già da ragazzina, veniva descritta come dotata di un fascino e di una capacità di sedurre, ben superiori alla sua bellezza. Rose lasciò la Martinica come giovane sposa di un aristocratico ufficiale scelto dai genitori, ma non fu un matrimonio felice, nonostante la nascita di due figli, i due si separarono. Travolti dalla Rivoluzione, l’ufficiale finì ghigliottinato e Rose in carcere per mesi. Dopo essere stata scagionata e liberata, riuscì a recuperare parte delle ricchezze del marito e un posto in società. Il suo fascino non passò inosservato, di lei si innamorò un giovanissimo generale, che dopo una lunga corte, ottenne la sua mano. Il nuovo marito decise di cambiarle il nome in Josephine, troppi amanti l’avevano chiamata Rose. Nonostante l’amore per la moglie, il giovane dovette seguire il suo di destino che lo portò a combattere lontano da Parigi.
Fu così che Rose-Josephine decise di acquistare una proprietà di campagna in cui realizzare una sua idea: creare un giardino straordinario, la più grande collezione di rose dei suoi tempi. Altre dame francesi avevano la sua stessa passione, ma solo lei era la moglie di Napoleone Bonaparte e questo le aprì le porte di altre collezioni e di orti botanici, ma soprattutto le permise di mandare, al seguito dell’esercito del consorte, botanici e orticoltori, travestiti da soldati, in grado di scoprire e conservare le rose sparse per l’Europa e il Medio Oriente, e trapiantarle nel suo giardino alla Malmaison. Uno di questi era proprio il curatore del giardino di Josephine, un “certo” Etienne Soulange-Bodin che diventò, in tempi di pace, uno dei botanici più famosi di Francia, fondatore della prima Società di orticoltura francese e creatore della incantevole Magnolia soulangeana.
Nonostante il loro potesse sembrare un matrimonio pieno di licenze, Napoleone amò profondamente Josephine, e amò la Malmaison che fu una vera casa per il suo animo inquieto, quindi non ebbe difficoltà ad assecondare la moglie e il suo desiderio di collezionare il fiore che più rispecchiava la sua femminilità. Un giardino di rose è un sogno, una malattia, un impegno che ti ruba undici mesi all’anno per un mese di meraviglia assoluta. Amiamo le rose da sempre, la rosa è la rosa, l’unico fiore che viene chiamato con lo stesso nome ovunque, una pianta a cui chiediamo l’impossibile: la rifiorenza, il profumo, la bellezza. Cose che siamo riusciti ad ottenere dal fiore, ma non dalla pianta, che una volta sfiorita ritorna ad essere quello che è, un anonimo cespuglione pieno di spine. Josephine ne era consapevole, come era consapevole della fragilità di un giardino legato al suo creatore, per questo affidò a un virtuoso dell’illustrazione botanica, il belga Pierre-Joseph Redouté, il compito di fermare sulla carta la bellezza dei fiori delle sue rose. La collezione di Marie-Rose-Josephine Beauharnais Bonaparte non esiste più, in Francia altre collezioni, come il roseto de l’Haÿ [vedi], fanno rivivere oggi la sua magnificenza, ma il potere della bellezza delle immagini disegnate da Redouté, riprodotte ancora oggi su cartoline e calendari, ci permette di avere un’idea del sogno di Josephine e dell’importanza, storica e scientifica della Malmaison, nella diffusione della rosa come la vera regina dei giardini.
[immagine in evidenza tratta da: George Cruikshank, Napoleon, When First Consul & Madam Josephine (His First Wife) in the garden at Malmaison, 1824. Rosenbach Museum & Library. 1954.1880.1673]
La nozione di bisogno sta al centro dell’interesse dei servizi, delle imprese e della Pubblica amministrazione; non a caso hanno indagato questo tema cruciale la filosofia, la scienza politica, l’economia, la sociologia, la psicologia, il management e il marketing. La nozione di bisogno dipende quindi fortemente dalla prospettiva maturata in un determinato campo disciplinare e dal punto di vista dell’osservatore: essa appare in un modo ad un’azienda desiderosa di vendere un prodotto, in un altro al professionista impegnato in un servizio sociale o sanitario, in un altro ancora alla Ong in cerca di fondi per affrontare un problema di povertà in un paese in via di sviluppo, in modo ancora differente al politico in cerca di consenso.
Non a caso dunque la letteratura pullula di definizioni e classificazioni più o meno plausibili (bisogni primari e secondari; bisogni impliciti, espliciti e latenti; bisogni reali e bisogni indotti, solo per citare le più ricorrenti) e di approcci e modelli anche piuttosto diversificati oscillanti tra un estremo di massima oggettività (è possibile definire e misurare bisogni essenziali) ad un altro di massima soggettività (i bisogni sono pure preferenze).
Piramide di Maslow
Malgrado questa grande complessità, è tuttavia vero che alcune teorie sono piuttosto note anche tra il grande pubblico: tra di esse particolarmente noto è il celebre modello della piramide a 5 livelli di Abraham Maslow pubblicato per la prima volta nel lontano 1954. Il fondatore della psicologia umanistica riteneva che bisogni e motivazioni avessero lo stesso significato, e che si potessero strutturare in una gerarchia dove il passaggio da un livello all’altro avviene solo dopo che sono stati soddisfatti i bisogni di “grado inferiore”. Secondo questa ipotesi, ampiamente volgarizzata, la non soddisfazione dei bisogni fondamentali conduce alla non soddisfazione di quelli superiori in modo tale che, a titolo di esempio, la soddisfazione dei bisogni di appartenenza implica forzatamente che siano stati già soddisfatti prima i bisogni fisiologici e poi quelli di sicurezza.Se intorno alla struttura della tassonomia dei bisogni esiste tutto sommato un ragionevole consenso, la critica più serrata al modello di Maslow riguarda proprio la postulata consequenzialità delle fasi; una critica che appare sensata appena si considerino culture differenti da quella dominante all’epoca. A parere dei critici, infatti, questa sequenzialità gerarchica è specchio della cultura americana degli anni cinquanta del secolo scorso, all’interno della quale è nata: essa è in buona sostanza allineata con l’idea di capitalismo propria del periodo che risulta strettamente intrecciata con la nozione di consumismo, inteso come unica strategia per risolvere ogni bisogno delle persone. Anche una persona straordinaria come Maslow non riuscì dunque a liberarsi dalla cultura allora dominante e, non a caso, sembra che prima di morire (nel 1970) egli stesso avesse manifestato la necessità di capovolgerla completamente in ottemperanza al nuovo spirito dei tempi.Cosa succede dunque se facciamo nostro questo auspicio e ribaltiamo la logica sequenziale di questa piramide? Cosa succede se – un po’ provocatoriamente – si ipotizza che il fondamento di ogni bisogno umano, il punto di partenza, risieda innanzitutto nella costante ricerca di senso e di significato da parte del soggetto? Se si tratta di un’ipotesi credibile, quali conseguenze comporta per il modo in cui vengono individuati ed affrontati i bisogni, in particolare nel mondo dei servizi?
Percorsi di ricerca e costruzione di senso
I percorsi di ricerca e costruzione di senso possono prendere le più disparate direzioni, differire anche profondamente da cultura a cultura, evolvere e modificarsi nel tempo; essi non escludono la via della rinuncia (apollinea) né quella dell’eccesso (dionisiaca). Sono sicuramente esposti al rischio dell’errore proprio di ogni processo di apprendimento ed anche a quello più drammatico del fallimento. Pongono tuttavia l’individualità e la soggettività della persona, la sua creatività e resilienza al centro del processo, mettendone in risalto l’irrinunciabile responsabilità. Ribaltare la logica sequenziale della piramide costringe a ripensare all’infinita pluralità di soluzioni tra le quali non sembra possibile scegliere a priori quella del consumo come unica via; costringe soprattutto a concentrare l’attenzione su quei meccanismi che distruggono capacità, riducono la dimensione complessa della libertà a quella complicata di scelta tra beni (prodotti e servizi). Il ribaltamento della gerarchia consente di apprezzare maggiormente l’importanza degli infiniti processi in grado di generare e rigenerare senso, restituisce un significato intelligibile ai possibili percorsi di vita alternativi rispetto a quello fondato sul mero consumo, conferisce più valore a quelle culture che ancora resistono all’omologazione.
In quest’ottica appaiono più comprensibili anche le scelte di tutte quelle persone che hanno deciso di seguire la via della rinuncia, che hanno inventato e praticano forme alternative di vita comunitaria, che hanno abbracciato con entusiasmo le più svariate forme religiose ricercando costantemente l’incontro con qualcosa che potrebbe essere definito come altamente significativo. In fondo lo mostrano esemplarmente le storie di mistici e santi di ogni epoca, i miti fondativi della nostra e di altre culture, le storie di antiche civiltà e, spesso, le biografie dei grandi leader.
Accettare questa ipotesi non implica necessariamente spostare l’attenzione verso l’idea che i bisogni siano preferenze, ricadendo in buona sostanza nel quadro culturale del consumismo forzoso o del disimpegno rispetto a standard essenziali per una vita dignitosa. Consente piuttosto di valorizzare la diversità, di riconoscere la dimensione creativa aperta all’esplorazione del possibile, di aprire all’innovazione sociale che porta alla costruzione di pratiche di vita originali, anche attraverso pratiche che non necessariamente passano attraverso la finanza e i mercati. In questi percorsi un ruolo essenziale viene giocato dai valori e dalle virtù personali, due elementi essenziali che, se da un lato sono essenziali per evitare lo scivolamento verso un’idea di libertà intesa meramente come scelta di prodotti e servizi, dall’altro sono diventati parte della strategia di quel marketing 3.0 che proprio sull’attenzione all’anima del cliente e ai valori umani fonda il proprio approccio finalizzato ovviamente ad incrementare i profitti delle imprese.
Se si ammette questo ripensamento nel modo di concepire i bisogni, quali potrebbero essere le conseguenze per il sistema dei servizi e per tutti coloro che se ne occupano professionalmente e, soprattutto, quali potrebbero essere le possibili strategie da adottare per contribuire a creare una società più aperta, giusta ed inclusiva, partendo dal giusto riconoscimento della dimensione del bisogno?
Ecco qualche possibile suggerimento:
• investire sulla costruzione di identità eticamente orientate, forti, creative e flessibili, superando l’enfasi quasi esclusiva che è stata posta negli ultimi anni nel creare consumatori piuttosto che cittadini responsabili;
• sul piano personale ed etico, recuperare il valore delle virtù;
• cercare, attivare e valorizzare le potenzialità inespresse di coloro che si trovano nello stato di bisogno, evitando per quanto possibile la logica dell’assistenzialismo attraverso la somministrazione di beni e servizi che non siano assolutamente indispensabili;
• costruire ambienti di vita a misura di fragilità umana, ampliando gli spazi di esercizio di libertà delle persone e aprendo all’esplorazione di soluzioni innovative basate sulla creatività;
• favorire la costruzione di piattaforme tecnologiche abilitanti che consentano la creazione di capacità personali e sociali, anziché distruggere competenze e creare dipendenza rispetto all’uso indiscriminato di beni materiali e servizi;
• sul piano dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi, aprire alla collaborazione e alla partecipazione esterna responsabile, scoprendo e valorizzando risorse che consentano di aumentare l’efficienza pur mantenendo un forte orientamento valoriale.
Soprattutto diventa essenziale ripensare a quel modello culturale che spinge incessantemente ad intervenire sui sintomi trascurando il funzionamento del sistema complessivo, invertendo quel circuito perverso e profondamente radicato che, come spiegava Gregory Bateson,“spinge a curare i sintomi per rendere il mondo sano e salvo per la sua patologia”.
A Firenze si propone quanto segue: “Libero ingresso dei cani in uffici, negozi e spazi aperti al pubblico, con multe a chi espone cartelli con il divieto di accesso loro dedicato, lotta all’accattonaggio con animali e al traffico illegale di cuccioli (con obblighi di tracciabilità degli esemplari a carico di chi li vende), e regole a tutela dei cavalli dei fiaccherai.” Sono alcuni dei provvedimenti che approderanno ben presto al Consiglio comunale fiorentino. Ciò mitiga (ma di poco) il rapporto conflittuale con la mia ‘odiosamata’ Firenze in cui ancora mi sento cittadino. Qui da noi, a Ferrara, si sa, ci sono regole molto strette e a volte insopportabili che limitano l’accesso dei pelosi in luoghi molto frequentati: grandi magazzini et similia. Si va così dal divieto d’accesso a tutti i negozi dell’area Il Castello all’accoglienza calorosa con annessa bacinella d’acqua de Il Brico o del Mercatone Uno. Frattanto disposizioni incongrue rendono ancor più difficile la convivenza tra umani e pelosi. Citare l’esempio di Cane e padrone di Thomas Mann o di tutta la grande letteratura sui rapporti tra le due specie è vano. Di fronte allo sgambettio dei runners sulle mura nulla tiene. Ho saputo poi di una disposizione addirittura folle: sarebbero proibiti i guinzagli a filo superiori ai 2 metri perché sarebbero d’intralcio! Si sa “Ferara” ama poco gli animali ma è altrettanto vero che questa disposizione è accentuata dalla incoscienza e cattiva educazione dei proprietari di cani che NON vogliono raccogliere le deiezioni e rendono davvero le nostre strade un m…aio. Da qui ad attaccare cartelli d’insulti dei “lindi” abitanti il passo è breve. Una specie di grillismo delle due parti in lotta. Certo, se nell’area da me frequentata (ho rinunciato alle mura per questioni di probabili litigi a ogni passo) che è la zona medievale della città si cercasse di mettere qualche bidoncino in più per la raccolta (già lo sento l’urlo inferocito: “non ci sono soldi!!!”) non sarebbe male. Quello che trovo davvero curioso è come il rapporto tra cani e altri animali di compagnia – ossia gli umani – rispecchi fedelmente le lotte politiche in corso. Tuttavia qualche buona intenzione c’è e rende felici e contenti gli abitanti della zona.
La Lilla
Nel mio quartiere, i nostri amici pelosi sono organizzatissimi e hanno creato una comunità civile ed educata. Ci sono quelli di antica (diciamo meglio, di lunga data) che sono riconosciuti come i residenti più esperti della convivenza: ci sono la mia Lilla, l’Ada, la Carlotta, la Stella che naturalmente transitano dal bar ormai conosciuto come Dog’s bar. A volte si hanno conflitti d’interesse. Ad esempio perché Thor, un boxer fantastico di un architetto della zona e la sua mamma boxer debbono stare fuori, e guardano con occhi non proprio benevoli l’ingresso trionfale della mia Lilla. Ma poi si rassegnano! Accanto, il cane del sindaco un po’ appartato perché esce a ore molto preste e subito dopo la piccolissima batuffola del prof. Morsiani. Subito dopo nel palazzo d’angolo un magnifico labrador e un border collie. Tra il Dog’s bar e la casa del sindaco, la deliziosa canina del fornaio, Emy, che viene ogni tanto in visita. Di fronte al fornaio un canone che esce poco. L’eleganza suprema è indubbiamente a furor di popolo canino e umano assegnata al barboncino bianco di nome Toy che esce sempre con le scarpe arancioni. Se ci si spinge verso Porta Romana, lì abitano gli amati cani di casa Baraldini e Ansaloni, e nella via Porta d’Amore la colonia degli shisztu imparentati tra loro: bellissimi insomma, una vera comunità. Umani, prendete esempio!
Sostiene la Lilla: “Dici, dici… e poi lasci fuori gran parte della nostra comunità pelosa! Vogliamo capire perché non hai menzionato Briciola o la Lilli che ti fa inumidire gli occhi perché è tal quale la Lilla 1 o la comunità di via Beatrice d’Este”. Lei è molto agitata perché alla fine d’aprile andrà a parlare di “segreti” ai suoi amici umani di terza e quarta elementare. Sono segreti molto importanti perché si tratta di maghi che hanno nomi misteriosi: Omero, Dante, Giotto, Michelangelo e che hanno rivelato segreti fantastici con una magia potente che si chiama arte. Non mi piace nel suo ruolo didattico (è mezza fiorentina e aspira la “c”) ma non può rinunciare a condividere con gli altri una cosa ora MOLTO in disuso che si chiama sapere. Sghignazzando m’ha detto: “Guarda la tua Accademia! Avete cercato di rinnovare i concorsi e siete miserabilmente caduti nel solito tran tran d’incompetenze e favoritismi!” Ma si sa che è la caratteristica di noi “itagliani”. Profe Lilla quanta ragione tu hai!
Eppure in questa specie d’apologo niente risulta certo. A leggere sembra ormai evidente che il piacere più ambito dagli “itagliani” sia discutere in modo rozzo e carogna. E’ tutto un urlìo, con il sopraciglio alzato alla “sopracciò”. Si aboliscono le Province? Si? No, tu no! B. va al Quirinale? Chissà che c’è di mezzo! La tremenda Gruber nel suo dialogo con Renzi in veste di venditore porta a porta (Pardon madame! Lei sempre così supremamente elegante ier sera aveva una giacchetta orrenda a fiorami!) non vuole parlare di programmi ma di cosa intende fare B. Ma non è possibile! Ancora, e poi ancora, l’ombra del ventennio sovrasta e incombe. Ma è solo colpa della politica? Io credo sia responsabilità e vezzo degli italiani, questa volta senza “gl”, ovvero di tutti.
Euro si o no? Da tempo l’interrogativo tiene banco sulle pagine dei giornali e infiamma la rete, che si pretende di indiscusso dominio di Beppe Grillo. Ma non è così. Online si trova tutto e il contrario di tutto. Compresa l’essenza della nostra politica “caciarona” tendente al caos e alla schizofrenia. E’ curioso come in Italia i problemi più chiassosi, indipendentemente dal colore politico di chi li affronta, ne nascondano altri maggiormente complessi. Ne è convinto il commercialista Roberto Mazzanti coordinatore del circolo “Fermare il Declino” di Comacchio. “Quanto sta accadendo non è certo colpa dell’Euro, bensì di un Paese che in 20 anni non ha fatto una riforma e oggi si trova a dover pagare gli effetti di un ritardo politico aggravato dalla crisi economica”, spiega.
S’impone una riflessione anche periferica, lontana dalle luci della ribalta, per cercare una via d’uscita dal cul de sac nel quale l’Italia s’è cacciata aggravando lo stato di crisi in cui versa tutto l’occidente. “Non siamo certo noi ad avere le risposte in tasca, ma vogliamo dare un piccolo contributo di partecipazione alla vita politica. Abbiamo deciso di incontrarci la sera di venerdì con chi è interessato all’argomento, lo facciamo senza pregiudizi e senza la presenza di nomi altisonanti – continua – Ci troveremo al Monnalisa Restaurant del Lido degli Scacchi, dove saranno presenti i nostri coordinatori regionali Andrea Babini, Alberto Piovani e Gabriele Galli”.
Per Mazzanti rinnegare l’euro non conduce a nulla e, soprattutto, non cambierebbe le cose. Se non in peggio. “Potremmo anche uscire dall’Europa, tornare alla lira, ma con i nostri conti finiremo con il ritrovarci nelle medesime condizioni dell’Argentina dei momenti peggiori – prosegue – Sarebbe un salto nel buio, perché mai dovremmo correre un rischio così grande? Stampare la lira, magari in eccedenza non farebbe altro che aumentare l’inflazione. Torno a ripetermi, l’euro non è il problema è l’Italia che deve fare le riforme necessarie e poi, eventualmente, decidere della divisa più vantaggiosa”.
Inutile scaricare sull’Europa il declino di un Paese come il nostro, l’Italia al pari delle altre nazioni aderenti alla Ue gode di indipendenza fiscale e gestisce in proprio la spesa pubblica, il capitolo più spinoso della sua storia. La gestione è perlopiù fallimentare, è pertanto comprensibile, ma non per questo è giusto, che la politica, in tutte le sue declinazioni, cerchi di attribuire il problema e le responsabilità ad altri, all’Europa, appunto. Siamo un Paese immaturo. Un Paese con la sindrome di Peter Pan, senza memoria e con un senso analitico della vita politica impudico. “La cosa spiacevole è che le forze politiche si diano un gran da fare per cavalcare la difficoltà del momento e la rabbia della popolazione raccontando cose diverse dal vero – conclude – Si preferisce il caos alla chiarezza, la confusione alla razionalità. Basta pensare al fiscal compact, il patto di bilancio europeo, non è vero come si vuol far credere che ci costi 50 miliardi di euro l’anno. Averlo firmato nel 2012 quando al governo c’era Berlusconi, significa averne condiviso l’obiettivo: mettere cioè equilibrio tra Pil e debito. Più cresce il Pil più diminuisce l’esborso. Oggi si vuole dire il contrario, ma è propaganda”. Girala e voltala, la questione è sempre la stessa: i conti devono tornare. Anche per chi vive a palazzo.
Che il fallimento sia un vantaggio per i creditori non appare così scontato come si è letto in questi giorni. La recente sentenza pronunciata dal giudice Giusberti in merito alla vicenda Spal 1907 apre molti interrogativi e sta generando parecchia confusione interpretativa. Vale la pena ricostruire i passaggi essenziali per fare un po’ di chiarezza.
Dal gennaio 2010 la società Spal 1907 ha cominciato a ragionare sul progetto di un parco fotovoltaico dal quale trarre risorse per consolidare strutturalmente i propri bilanci e garantire una gestione corretta e virtuosa negli anni. I fatti accaduti hanno clamorosamente smentito quell’ambizione e sono culminati con l’esclusione della squadra dai ranghi federali e quindi dai campionati ed ora hanno avuto epilogo nella recente sentenza.
Il primo punto da precisare è che la Spal non ha fatto investimenti sul parco fotovoltaico, non ci ha messo soldi, non ha mai avuto quote societarie e non può quindi rivendicare nulla dalla attuale legittima proprietà, il consorzio Energia futura.
Ciò che ha fatto la Spal è stato operare per il rilascio dell’autorizzazione dell’impianto. Una volta ottenuta l’ha ceduta, nel 2011, a prezzo di mercato: tre milioni e 400mila euro per 14 megawatt. La ventilata ipotesi di revocatoria (ossia di annullamento dell’atto di cessione) circolata in questi giorni pare quindi priva di fondamento: il bene è stato ceduto al suo reale valore. Tentare questa strada appare temerario: genererebbe una ferma e motivata opposizione della controparte, cioè della proprietà, con il rischio che si trascini un lungo contenzioso giudiziario a discapito dei creditori che attendono di esser risarciti.
Il secondo punto è che Spal 1907 dalla cessione delle autorizzazioni non ha ricavato solo i 3,4 milioni di euro, ma anche una sorta di royalty pari al valore del 30% dell’energia venduta, il che genera un sistematico introito. Ogni anno si stima un provento di 400/500 mila euro secondo la produzione energetica effettivamente realizzata, che varia sulla base delle condizioni climatiche.
Per mantenere attivo questo cespite, la Spal 1907 – dichiarata fallita – dovrà essere mantenuta in stato di liquidazione per i prossimi vent’anni, periodo entro il quale maturano i crediti, in totale otto-nove milioni di euro (i 4/500 euro annui per i 20 anni di esercizio).
Per inciso va detto che l’autorizzazione è stata a suo tempo ceduta a Turra energia (che si era impegnato a entrare nel capitale sociale di Spal 1907 con una quota del 30 per cento), il quale circa un anno dopo l’ha rivenduta al Consorzio energia futura, del quale fanno parte gli imprenditori che hanno finanziato l’opera, oltre allo stesso Turra che ha realizzato l’impianto e ha trattenuto per sé una piccola quota. La controparte, che annualmente eroga alla Spal 1907 la quota di sua spettanza, è quindi il consorzio.
Il terzo punto è relativo all’ulteriore benefit riconosciuto all’atto della vendita del parco: consiste nel passaggio di proprietà dell’impianto alla Spal 1907, a conclusione del periodo di conferimento degli incentivi riconosciuti dal Gse, cioè al ventesimo anno di esercizio.
Questo significa, da un lato, che tutto il ricavato dell’energia prodotta dal ventunesimo anno sarà interamente appannaggio di Spal 1907; dall’altro che, proprio per questo motivo, lo stato di società in liquidazione dovrà trascinarsi anche oltre i 20 anni.
Da un punto di vista pratico questo comporta la nomina di un commissario liquidatore che resterà in carica per più di un ventennio, e che evidentemente non lavorerà gratis; normalmente queste figure sono ben retribuite e lo saranno anche in futuro (Renzi permettendo!). Ciò che andrà al commissario sarà sottratto alla massa degli introiti a discapito dei creditori che, secondo i dati filtrati dal tribunale, vantano complessivamente oltre 7 milioni di euro di pendenze.
Il quarto punto serve a evidenziare che, se fosse stato accolto il concordato come i creditori avevano in maggioranza richiesto, la procedura di pagamento potrebbe già essere avviata: in cassa sono maturati i crediti dei primi due anni e mezzo (più di un milione), le spettanze richieste sono già state validate e i creditori privilegiati, a breve (anche se la parola è un ossimoro quando c’è di mezzo il tribunale), avrebbero visto i loro soldi.
Così, con la dichiarazione di fallimento, tutto riparte da capo. Tanto è vero che i creditori sono stati convocati per il prossimo 15 luglio (da qui a tre mesi, con la dovuta calma) per ripetere quanto già fu fatto nell’aprile del 2013, la stima dei crediti, per poi formalizzare – entro i 30 giorni successivi – le richieste che dovranno essere successivamente valutate da commissario e giudice. Insomma, la storia ricomincia e non durerà poco. Bene che vada, per concretizzare, se ne riparlerà da qui a un anno. E il momento in cui chi è rimasto scottato riceverà il giusto indennizzo si allontana.
Chi scrive vanta crediti da Spal 1907, è tifoso Spal ed è sempre allo stadio da 42 anni.
Ha avuto parte attiva nella vicenda descritta come responsabile delle relazioni esterne, e ha molte ragioni di amarezza. Non per questo confonde o sovrappone gli interessi personali con la realtà dei fatti.
Fino ad ora, il sottoscritto, ha osservato un rigoroso e rispettoso silenzio. Ma le troppe inesattezze lette in questi anni mi impongono di parlare. Esporsi in prima persona non conviene quasi mai, è una legge di natura. Ma farlo risponde all’etica. I fatti devono essere conosciuti e giudicati per come si sono svolti. (s.g.)
Anatocismo, ossia il calcolo degli interessi sugli interessi. Per molti è sinonimo di fallimento. “Il debitore – spiega Cora Bonazza, consulente di risanamento aziendale – si trova spesso a sua insaputa a dover pagare non solo gli interessi pattuiti con la banca, sempre che lo siano stati per iscritto come prevede la legge, ma anche quelli calcolati sugli interessi scaduti”. Le difficoltà in cui annaspano le aziende, il loro rigido rapporto con le banche, che nella maggioranza dei casi non supportano più il rischio d’impresa a fronte di una crisi economica senza precedenti, sfociata in una debacle occupazionale con il conseguente quanto inevitabile crollo dei consumi e la mancanza di lavoro, ha messo all’angolo moltissime imprese.
Tre cause vinte contro due istituti di credito – la Cassa di Risparmio di Ferrara e la Carive – è il bilancio enunciato da Cora Bonazza e dall’avvocato Roberto Anselmi, che hanno lavorato a favore di un paio di imprese e un libero professionista chiamati a fare i conti con interessi troppo alti, frutto di calcoli attributi, appunto, “all’anatocismo, un reato ancora poco conosciuto sul quale non c’è sufficiente informazione”.
Piccole, grandi e medie, storiche o giovani, non fa differenza. “Penso alla ‘Pozzati e Crepaldi’ di Porto Viro specializzata in serramenti – racconta Bonazza – hanno rischiato grosso, molti istituti di credito (ma per fortuna non sono tutti uguali) alle prime difficoltà chiedono il rientro. Nel loro caso abbiamo passato ai raggi x 20 anni di rapporto con l’istituto di credito, per fortuna era tutto nero su bianco e CariVe è stata condannata a pagare 216 mila euro di risarcimento”. Prevenire, spiega la Bonazza, è sempre meglio di trovarsi di fronte a un decreto ingiuntivo. “Non ci vuole nulla perché si arrivi a vederselo recapitare, purtroppo molte aziende e anche liberi professionisti, tacciono per paura di peggiorare le situazioni – continua – In realtà sarebbe meglio fare emergere i problemi in modo da costringere gli istituti a una maggior trasparenza. Bloccare l’anatocismo significa spesso evitare il peggio, come ad esempio che vadano all’asta beni frutto del risparmio di una vita”.
E ancora: “Penso al geometra Michele Brunelli, alla sua casa messa in vendita, non escludo che proprio quelle preoccupazioni gli abbiamo procurato l’infarto che l’ha ucciso”, racconta. Anche nel caso dello scomparso geometra edile di Ostellato, ricorda la consulente, ci sono voluti tre anni ma la causa contro Carife è stata vinta così come quella della società Emac, che si occupava di impianti e attrezzature antincendio. “Sia chiaro noi non diciamo alle aziende di fare causa alle banche, l’istituto di credito non è responsabile di un investimento sbagliato – prosegue – può però essere tra le concause di un fallimento”. La consulente invoca un atteggiamento più etico. “Quando c’è un mutuo di mezzo e contemporaneamente una situazione a rischio, bisognerebbe suggerire la sospensione del primo – spiega – è una cosa che si può fare, ma spesso si evita perché è venuto meno il rapporto umano. Non si pensa che con quella sospensione un imprenditore potrebbe pagare gli stipendi dei suoi dipendenti. Ci vorrebbe una maggior coscienza del e sul lavoro”. E di contro, spiega, gli imprenditori non possono continuamente controllare i professionisti a cui si affidano perché trovino soluzioni adeguate alle loro esigenze. Hanno altro da fare.
“Per quanto riguarda le banche ci sono condizioni negative che sono mascherate nelle voci che compaiono sull’estratto conto – spiegano gli avvocati Roberto Anselmi e Carlo Bergamasco – succede spesso che analizzando la posizione bancaria, sia il cliente a dover pretendere crediti dal suo istituto ”. Insistere per un approfondimento significa avere l’opportunità di bloccare possibili pignoramenti, vendite all’asta e revoche dei conti. Ormai, insistono i legali, non è più legale calcolare gli interessi sugli interessi. “Le persone non sanno che possono richiedere il rimborso entro 10 anni dalla chiusura del conto – conclude – Non sanno neppure che le banche hanno fatto degli accantonamenti in previsione di future cause, che potrebbero metterle nelle condizioni di dover pagare”.
Nello scorso febbraio l’Istat ha certificato che il tasso di disoccupazione in Italia ha segnato un nuovo record, attestandosi al 13%, un livello mai così alto dal 1977. Oltre 3,3 milioni di persone sono in cerca di lavoro: +8 mila sul febbraio 2013 e +272 mila su base annua. La componente giovanile ha toccato il 42,3%, in lievissima diminuzione su gennaio, ma con un +3,6% su base annua: sono 678 mila i ragazzi tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro.
L’Italia è al top per l’incremento dei non occupati, inferiore solo a quello di Cipro e Grecia. Il tasso di occupazione, di converso, a febbraio è stato misurato al 55,2%: si torna indietro di 14 anni e in media si perdono mille posti di lavoro al giorno.
Nell’Eurozona (dati Eurostat) il livello di disoccupazione a febbraio è rimasto stabile all’11,9%. Nel febbraio 2013, la disoccupazione era al 12%. Nell’Ue a 28 Paesi si è invece registrato un lieve calo al 10,6%, contro il 10,7% di gennaio (10,9% in febbraio 2013).
Questi dati, che confermano l’aggravamento della realtà italiana in Europa, dicono che se anche da noi la ripresa è cominciata non incide sull’occupazione. Segnalano soprattutto che la flessibilità nel mercato del lavoro non è servita nemmeno, in tempo di crisi, a difendere l’esistente. Tanto da far dire giorni fa al governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che se flessibilità c’è stata, ora è giusto interrogarsi se sia buona o cattiva, e che flessibilità “non vuole dire precarietà”.
I sostenitori della flessibilità a tutti i costi dovrebbero finalmente chiedersi se le riforme del mercato del lavoro del 1997, del 2003, del 2012 e la foresta amazzonica di norme, decreti e articoli di altri provvedimenti – come l’articolo 8 della manovra economica 2011 che permette di derogare a qualsiasi disposizione di legge in materia di diritto del lavoro – abbiano davvero permesso di creare nuova occupazione. La risposta sta nei freddi dati della statistica che peraltro, come si sa, non colgono appieno il dramma sociale ed umano del lavoro precario e della mancanza di occupazione.
La verità è che non basta moltiplicare le forme di contratto o abbassare continuamente le tutele del lavoro dipendente (oramai si è raschiato il fondo del barile, dopo di che c’è la schiavitù) per creare nuovi posti. Bisogna creare lavoro, questo è il punto: bisogna investire tanto sul capitale umano – che come capitale va valorizzato e incrementato – quanto sulla ricerca, sull’innovazione, sul posizionamento dell’impresa nel mercato globale. Non a caso, le imprese che meglio hanno resistito alle tempeste della crisi sono quelle che hanno saputo esportare.
È più che mai il momento di sgravare concretamente l’impresa di costi che non possono essere addebitati a chi lavora o a chi dovrà lavorare, come la pressione fiscale eccessiva o gli insopportabili ceppi della burocrazia. E di capire, soprattutto nell’industria manifatturiera, cosa produrre e dove vendere ciò che si produce, con standard di sicurezza e qualità che ci distinguano nel mercato globale.
Carissimo Garibaldi generale Giuseppe, mi perdoni se disturbo la quiete eterna che La circonda, ma in questi giorni ho pensato molto a Lei, alle sue gesta nella vecchia Europa e nel nuovo mondo e, soprattutto, ho pensato alla ideologia che ha mosso il Suo operato.
Ho sempre letto con interesse i Suoi discorsi, le Sue lettere, le Sue dichiarazioni, tutto convergente a un solo fine: liberare l’Italia e , se possibile, il mondo intero, dal sopruso di governanti padroni, di regnanti dispotici, di preti senza religione, di banditi con tanto potere in mano.
Le cito un passaggio di un Suo discorso a Firenze il 24 settembre del 1866: “E soprattutto guardatevi dai preti, i quali sono la principal cagione delle disgrazie d’Italia”. Se affermasse oggi pubblicamente questa Sua convinzione non avrebbe il beneficio di una qualsiasi citazione sui nostri media così mediocri e sempre a capo chino. Ma c’è una Sua asserzione, caro Garibaldi, che, pur con tutta la mia stima verso di Lei, non condivido, anzi giudico con estrema severità: ricorda il Suo famoso incontro con il re piemontese Vittorio Emanuele II a Teano? Era il 26 ottobre del 1860 e Lei, in sella al Suo cavallo, disse al ridicolo sovrano, anche lui sul real cavallo bardato, disse “obbedisco”, consegnando così l’Italia ai Savoia e a quella volpe impicciona di Cavour. Non doveva dire “obbedisco”, Lei non immagina quali drammi, mi correggo: quali tragedie quel verbo ha comportato per il nostro popolo. Il Paese, che Lei avrebbe voluto libero da padroni, fu, al contrario, regalato a governanti illiberali, ai fascisti, agli intrallazzi democristiani.
No, caro Generale, non doveva dire obbedisco, togliendo, così, agli italiani ogni forza di ribellione, soltanto un soffio di aria pura con la Resistenza, un soffio, non di più: lei pensava di avere unito lo stivale? Niente di più errato. Pensi che oggi, nell’éra – dicono – della globalizzazione, è tornato di moda il localismo più bieco, pensi, Generale, che qualcuno vorrebbe addirittura che la Sardegna, La Sua Sardegna caro Garibaldi, divenisse un cantone svizzero e non parliamo dei veneti, che vogliono costituirsi in repubblica indipendente, ma quando ci sono state le alluvioni del Po, quando le case e i campi venivano distrutti dalle acque , quando un monte cadde sui paesi che dominava, allora i soldi degli altri italiani andavano bene, nessuna voce gridò “Veneto indipendente”. E aumentano, sa?, le richieste di sdoganamento da questa nostra sbrindellata repubblica, per la quale milioni, sì milioni, di giovani italiani, hanno versato il sangue, non soltanto nel Risorgimento, ma nella prima Guerra mondiale e poi nella seconda, sono morti per un ideale, Generale mio, ricorda i versi del Manzoni “chi potrà della gemina Dora e dell’Orba al Tanaro sposa …scerner l’onde confuse nel Po, quegli ancora una gente risorta potrà scindere in mille correnti…”? Ora è tutto scisso, alla vostra barba risorgimentale, generale Garibaldi!
Io non sono un nazionalista, da vecchio comunista libertario penso che tutto il mondo sia paese, le nazioni hanno creato e stanno ancora creando guerre, violenze, signor generale, ma detto questo, aggiungo che i localismi evocati da gente ignorante sono una sfida alla democrazia, né stato, né chiesa, né servi né padroni, d’accordo, ma non i beceri localismi, per favore. La prego, Generale, non dica più obbedisco!
Era il sette aprile del 1976 quando il ventiseienne Claudio Lolli pubblicò l’album “Ho visto anche degli zingari felici”. Erano gli anni della contestazione e lo zingaro felice era da intendersi come paradigma dell’uomo che si sottrae consapevolmente ai dettami del modello sociale unico e globalizzato.
Trentotto anni dopo il cinema teatro Galliera di via Matteotti ospita sul palcoscenico “lo zingaro” per eccellenza. Rimasto fuori per più di dieci anni dalla scena musicale Claudio Lolli non fa sconti a nessuno: «La politica culturale bolognese incensa i suoi scudieri e lascia indietro Freak Antony e me. Mattia Della Casa e i ragazzi del teatro Galliera suppliscono a questi vuoti culturali facendo letteralmente del volontariato culturale».
Il nove aprile, polemiche a parte, si potrà assistere a “Il ritorno degli zingari felici – Claudio Lolli in concerto”, un recital durante il quale l’artista canterà, leggerà testi e converserà col pubblico, accompagnato, rigorosamente dal vivo, dal fedele chitarrista Paolo Capodacqua, Roberto Soldati alla chitarra elettrica e Danilo Tomasetta al sax. I suoi fan non si sono certo lasciati scappare l’occasione: «I biglietti sono quasi esauriti, sono arrivate prenotazioni da tutta Italia, Napoli, Milano, Firenze e Caserta», afferma soddisfatto Mattia Della Casa, direttore artistico del teatro Galliera. Merito anche dell’imprimatur dato all’evento dall’associazione nazionale a difesa della canzone d’autore “Aspettando Godot”, che per loccasione allestirà nel foyer del teatro una mostra vendendo ai nuovi soci un cd con la registrazione originale risalente al settembre del 1976 di “Ho visto anche degli zingari felici” suonata al Caprice di Codigoro, una vera chicca per gli appassionati. Lo spettacolo si svolgerà in due tempi: un primo dedicato ai successi del repertorio “post-zingari”, meno noto, e il secondo dedicato alla celebre suite con ampi squarci di racconto.
Prezzo per accaparrarsi un posto in platea 16 euro: «Prezzo unico che vuole invogliare anche i giovani del quartiere Navile a partecipare». E i giovani, Claudio Lolli ex professore del liceo, padre di due ragazzi, li conosce bene. Per loro non ha formule o banali consigli: «Siate aperti a tutto quello che succede» e aggiunge «I ragazzi sono molto meglio di come vengono descritti sui giornali, non sono disimpegnati, hanno il loro modo di affrontare la realtà e la solitudine e per educarli basta essergli da esempio». A loro il cantautore suggerisce di ascoltare “Via col vento” inserita nell’album “Claudio Lolli” del 1988, canzone composta appositamente per i suoi alunni della quinta liceo che recita: “Via col vento professore, abbiamo fretta e voglia solo di far l’amore… Via col vento che non ha più risposte solo un presentimento”. I ragazzi dal canto loro ripagano il cantautore. In molti hanno già prenotato il biglietto giovani e giovanissimi: «I ventenni sono mossi dalla curiosità e conoscono Lolli perché hanno ascoltato i dischi dei loro genitori», il cantautore a questo punto interviene laconico: «Quando mi diranno l’ho ascoltato perché mio nonno aveva il suo disco la smetterò».
Eravamo “quelli dell’Ulivo”, e ci ritrovavamo in alcuni luoghi in Strada Maggiore a Bologna alla ricerca di conoscenze e saperi per costruire quella ricchezza di idee da offrire alla politica.
Proviamo a sforare nella memoria di quel tempo e a tracciarne gli avvenimenti più rilevanti, come la caduta del muro di Berlino, la rottura del sistema bipolare del mondo, l’accelerazione dei percorsi della globalizzazione, per capire, anche oggi, che quell’idea aveva un senso, un profondo senso di nuova politica.
E in quel contesto anche l’Emilia Romagna si trovò a dover accettare la sfida: quasi una dovuta primogenitura per la centralità della città felsinea; e per i territori della sua lontana periferia, come quelli degli estensi, dopo un lungo decennio di stordimenti, pensarono di non doversi sottrarre.
I fondi strutturali messi a disposizione dall’UE per l’Obiettivo 2 (per il quadriennio 2000-2006),con una finestra nel Basso ferrarese costituirono la molla per uscire dall’addormentamento, risorse che si articolavano su due assi, e cioè: sullo sviluppo del territorio, 109 i progetti finanziati, 44.481 milioni di euro i contributi concessi, 77.722 milioni di euro gli investimenti attivati; sulla qualificazione e l’innovazione delle imprese, 118 i progetti finanziati, 3.436 milioni di euro i contributi concessi, 11.695 milioni di euro gli investimenti attivati. Sono stati coinvolti 21 comuni della provincia di Ferrara, una superficie complessiva di 1.432 kmq e 143.276 abitanti.
Ora, proviamo a passare dalle cifre ai contenuti e agli obiettivi che allora si dettero e che cerchiamo qui di sintetizzare, per capire e per fare tesoro di alcune considerazioni, anche in vista del dopo crisi di questi prossimi anni.
Fin dall’inizio abbiamo fatto nostra la posizione di chi nel dibattito tra economisti e istituzionalisti sosteneva l’idea di favorire lo sviluppo attraverso la responsabilizzazione dei soggetti locali, favorendo la cooperazione tra istituzioni e tra queste e i privati, con strumenti legislativi e finanziari e tutto il portato di innovazione che ciò comportava.
Si sono messe in campo responsabilità e dinamismo senza affidarsi ad un “centro” regionale o nazionale dispensatore di soluzioni, sostituendo la propensione al comando con la partnership. E questo per poter dare all’area del ferrarese la possibilità di sviluppare un nuovo distretto produttivo.
E’ stato studiato un lavoro integrato per rimuovere i dati strutturali propri di un “area svantaggiata” soprattutto nell’occupazione; e sulla qualità del contesto territoriale e della qualità delle pubbliche amministrazioni.
Se si tiene presente che gli investimenti sopra citati hanno avuto una ricaduta anche oltre il settennato, da dopo la crisi del 2007 fino ad oggi, e forse per altri due anni ancora, pochissimo si è visto sulle politiche delle infrastrutture, del sostegno e dell’attrazione delle imprese, del lavoro e dell’occupazione, e cioè di come contribuire alla costruzione e alla formazione della ricchezza e della sua crescita e distribuzione.
Dire che le istituzioni, locali e regionale, siano state ferme non sarebbe corretto; certo abbiamo visto costruire molte rotonde in città e nelle viabilità provinciali, alcune ristrutturazioni di angoli nei centri storici, anche l’inaugurazione dell’ospedale del Delta e, pochi mesi fa, anche Cona, molti chilometri di guard rail e qualche pezzo di circonvallazione est e della Cispadana, la vendita delle aziende municipalizzate ad Hera e un po’ di welfare sociale.
Ma nei sei anni di crisi, abbiamo visto soprattutto molta cassa integrazione (il monte ore più alto per abitante della Regione e del nord-est), una forte crescita della disoccupazione, anche giovanile, moltissime piccole aziende chiudere, i centri storici svuotarsi, e le relazioni sociali diventare abbastanza tese anche se, per ora, rimane abbastanza salda la coesione sociale dei ferraresi (anche a seguito del terremoto nell’alto ferrarese).
Forse si sperava in qualcosa di più, ma forse di più non era possibile. O forse quel necessario di più non è stato raccolto da Roma e Bruxelles, o non si è fatto rete e governance dei territori, dalla città al centese, dall’entroterra alla costa, al mare; oppure forse siamo noi ferraresi ancora troppo pigri, ancora indifferenti, ancora avvolti dalla nebbia, ancora conservatori.
In questo quotidiano, da tempo e fin dalla sua nascita nel novembre scorso, abbiamo scritto molto su come si potrebbe costruire il futuro nel ferrarese, e sempre nella visione di area vasta e nella ricerca di strumenti adeguati, risorse comprese e su dove trovarle.
Lascio al lettore le proprie riflessioni e considerazioni su queste note, anche se non posso sottacere che serve cambiare passo.
Fra non molto, il 25 maggio, saremo chiamati ad esprimerci; dovremmo entrare in cabina consapevoli che si tratta di cogliere una grande opportunità per scegliere quale Europa, quale Sindaco, quale Consiglio comunale, ma soprattutto, quale futuro vogliamo, per le persone, le comunità e per noi ferraresi.
Alla vigilia della decisione della magistratura sugli arresti domiciliari (o affidamento ai servizi sociali), il pregiudicato di Arcore si fa ricevere dal Presidente della Repubblica. E’ vero che Napolitano non offre sponde a Berlusconi sulla sua sorte giudiziaria, ma resta il vulnus al principio costituzionale che dice che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Perché non c’è dubbio che il solo riceverlo è un atto politico di alto valore simbolico (fra l’altro, si tratta di una pressione oggettiva verso i giudici mostrando loro di essere un interlocutore sia del Presidente del Consiglio, che di quello della Repubblica…). Non a caso sono i berlusconiani che hanno reso pubblica la notizia dell’imbarazzante incontro. Anche così si continua a sfigurare la democrazia.
“La vita nella grande città”, scrive Philippe Ariès (1914-1984) nella sua magnifica Storia della morte in Occidente “ci fa credere che nessuno debba più morire”. La sparizione dalla vita temporale e la radicale rimozione della morte – e non soltanto del crepare nei macelli delle dittature – sono percepibili anche a Ferrara. Piccole cose e atti quotidiani testimoniano queste processo collettivo di passare sotto silenzio il pensiero della morte, un pensiero che potrebbe anche ostacolare la propensione al consumo. Nelle piccole e medie città italiane, ad esempio, è sempre più difficile trovare quegli annunci di morte affissi in modo “selvaggio” ai muri delle case. In passato, tra un incontro d’affari ed un altro, facendo la fila alla fermata dell‘autobus o uscendo dal bar era possibile leggere, anche se solo di sfuggita, la notizia del decesso di qualche concittadino. Le poche note biografiche riportate nei manifesti, raccontavano anche piccole storie di vita, ricordavano ai passanti che non siamo affatto immortali. “Ora”, scrive Ariès, “bisogna fingere che non si morirà mai”. Forse la morte è rimasto l’ultimo tabù che si oppone ad una mercificazione totale della vita umana.
Quei manifesti bianchi bordati di nero con i simboli della morte non sono ancora del tutto spariti dalle strade italiane, ma se non sbaglio il loro numero è sensibilmente diminuito. Vuol dire forse che si muore di meno in Italia? Dal momento che gli annunci di morte pubblici spariscono dai muri delle case, gli abitanti delle città perdono anche la consapevolezza della propria finitezza. Questo non avrà ripercussioni sui consumi, ma che impatto può avere sul patrimonio umano di una comunità?
[Si ringrazia Giovanna Runggaldier per la traduzione dell’articolo dal tedesco all’italiano]
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, 1998, Bur – Biblioteca Universale Rizzoli, collana “La scala. Saggi”
Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.
Il sequestro di un casale inabitato e di un magazzino a Vaccolino (riconducibili ad un imprenditore calabrese indagato) a seguito di un’operazione disposta dalla Direzione Investigativa Antimafia di Firenze, induce una riflessione. Ciò che è avvenuto rispecchia quanto già da tempo è noto. Non è certo un segreto, infatti, che le ndrine, cosche malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta calabrese, siano radicate nel ferrarese.
Poco più di un anno fa sull’Espresso, Lirio Abbate aveva disegnato una mappa delle infiltrazione mafiose; il legame tra la malavita organizzata calabrese e il business dell’edilizia ferrarese era dato per certo. Il settore è stato per anni, almeno gli ultimi 10, assai importante nell’ambito del riciclaggio di denaro sporco. Il ferrarese era una lavatrice posizionata in un angolo tranquillo e silenzioso dell’Italia del nord. Se ieri il business illegale era l’edilizia, l’altro ieri lo è stato il traffico di rifiuti tossici, che sulla Romea ha avuto diverse “stazioni” accertate tanto da vantare sul tema una notevole bibliografia prodotta dall’Ateneo bolognese.
Quale attenzione riservi oggi la n’drangheta al mattone non è dato sapere, certo è che seguendo le orme dell’imprenditoria ufficiale, la diversificazione dei propri affari resta un buon modo per mantenerli in equilibrio.
“La storia è memoria”: dietro questa apparentemente banale affermazione, si nasconde tutto il significato dell’opera di Jacques Le Goff, l’ultimo grande storico francese, spentosi ieri a Parigi all’età di 90 anni. Affermare che la storia è memoria, per il grande studioso francese, significava anzitutto inglobare nella ricerca storica le altre scienze sociali e interrogarsi sugli aspetti della storia “marginali”, le pieghe nascoste della storia spesso dimenticate dalla dottrina ufficiale.
Nato a Tolone il 1 gennaio 1924, fu professore alla facoltà di lettere dell’università di Lille, poi direttore di ricerche all’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Nel 1972 fu eletto alla direzione della sesta sezione dello stesso istituto, diventato nel 1975 l’ Ecole Pratique des Hautes Etudes en sciences sociales. Dalla fine degli anni sessanta è stato anche condirettore della rivista “Annales”.
Inserendosi in quel filone culturale che nasce da Marc Bloch e Lucien Febvre e che trovò in Fernand Braudel uno dei massimi rappresentanti, Le Goff fu probabilmente il più efficace divulgatore del racconto storiografico concepito essenzialmente come proposta di problemi. Uno dei padri del medievalismo europeo, si deve proprio a Le Goff la fine del mito errato del Medioevo come epoca oscura, parentesi buia durante l’avanzata progressiva della civiltà.
Pochi storici hanno saputo cogliere i nessi fra storia della cultura e dinamica economica, sociologica, antropologica, e contemporaneamente individuare il formarsi di atteggiamenti, mentalità e dottrine all’interno di una ricerca unitaria dei processi storici.
Legato tantissimo all’Italia (“La mia seconda patria”, amava ripetere), durante la sua lunghissima carriera di studioso Le Goff strinse amicizia con molti intellettuali italiani, su tutti Umberto Eco e l’editore Giulio Einaudi, con il quale ha pubblicato numerosi libri. A coronamento del forte legame con il nostro Paese, nel 2000 l’Università di Pavia lo insignì della laurea honoris causa in Filosofia, mentre l’Università di Bologna ha intitolato a lui l’ambito premio che ogni anno viene dato a uno storico del Medioevo.
Ma la più grande passione della sua vita fu sicuramente la moglie Anka, morta nel 2004 dopo oltre 40 anni di vita in comune e alla quale dedicò il commovente libro “Con Anka”, nel quale lo storico ricostruì il tratto di vita comune con la sua compagna, trasformandolo in un affresco sull’Europa contemporanea: “E’ un libro d’ amore e un atto di memoria”, così descrisse la sua opera le Goff. “Ma è soprattutto il tentativo di far rivivere, nell’ individualità della persona e della sua esistenza, una donna. Una donna che tutti quelli che l’ hanno conosciuta sono concordi nel definire eccezionale e affascinante. Una donna che ho profondamente amato e amerò sempre ardentemente fino alla mia morte”.
“La mia formazione teatrale è partita dal cosiddetto ‘teatro sociale’ degli anni ’60 che mirava a sperimentare forme di comunicazione all’interno di tutte le strutture di disagio fisico e psichico e di conseguenza anche nelle carceri”. A parlare è Michalis Traitsis, regista e pedagogo dell’associazione culturale Balamòs e membro fondatore del Coordinamento dei teatri in carcere. Le esperienze pionieristiche di quegli anni, in particolare del Living Theatre e del “Teatro dell’Oppresso”, confluirono poi nel teatro-forum. Dopo un primo spettacolo di questo nuovo genere, con Roberto Mazzini della cooperativa sociale Giolli di Parma e altre esperienze in istituti di pena, vincendo un bando della Regione Veneto, Michalis Traitsis poi ha avviato nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia il progetto “Passi Sospesi” (attualmente a sua volta sospeso per mancanza di fondi…) che ha portato, nel 2007, alla genesi di “Vite Parallele “, un altro spettacolo di teatro-forum, sempre in collaborazione con Mazzini. Nonostante gli attori e la maggioranza degli ‘spett- attori’ (come si definisce il pubblico di questo genere di teatro) fossero detenuti, ho avuto la possibilità di assistere e mi ricordo come all’inizio, durante la presentazione del funzionamento dello spettacolo, la cosa mi parve piuttosto macchinosa. Ma nel momento in cui fu chiesto se qualcuno dei presenti volesse intervenire e sostituirsi al personaggio che si trovava in una condizione di oppressione e che stava però sbagliando approccio, si alzò subito dal pubblico qualcuno che, con grande motivazione, si inserì nella scena. La situazione rappresentava un rapporto familiare, nel quale l’ex detenuto doveva provare a reintegrarsi, scontrandosi con la mancanza di fiducia da parte del fratello. L’immedesimazione e la commozione di chi intervenne risultarono così reali e palpabili da contagiare rapidamente molti dei presenti, ormai proiettati in situazioni analoghe, che certamente avrebbero dovuto imparare a fronteggiare una volta scontata la pena.
A mio avviso, si tratta di un esempio lampante e concreto di che cosa significhi l’utilizzo di queste tecniche per il reinserimento dei detenuti. Ma non solo, spiega Traitsis: “Sono fortemente convinto dell’utilità e della necessità di un teatro per i reclusi, ma penso anche che sia il teatro ad avere bisogno del carcere.” In che modo? Nel progetto “Passi Sospesi”, grazie anche alla collaborazione con il Teatro stabile del Veneto, sono stati coinvolti registi, attori, musicisti, scenografi, come Fatih Akin, Antonio Albanese, Cèsar Brie, Alessandro Gassman, Fabio Mangolini, Mira Nair, Giuliano Scabia, Elena Souchilina, Stefano Randisi ed Enzo Vetrano. Dal 2008 i video-documentari di Marco Valentini vengono poi proiettati nell’ambito della Biennale del Cinema di Venezia.
Ma oltre all’importante aspetto culturale, il percorso scelto da Traitsis ha risvolti pedagogici sublimati da questa modalità concretamente biunivoca: dal 2006, gli studenti del Centro teatrale universitario di Ferrara partecipano ad incontri di laboratorio misto con i detenuti e all’allestimento di studi teatrali creati in comune. Alcune classi degli istituti superiori di Venezia hanno inoltre avuto la possibilità di conoscere tale realtà non solo tramite i video, ma anche assistendo agli spettacoli all’interno della casa di reclusione femminile della giudecca. E’ in questa struttura detentiva che sono stati raggiunti i migliori risultati. Le motivazioni riguardano soprattutto la gestione dell’ istituto: “E’ considerato all’avanguardia in Italia – spiega Traitsis – intanto per i numerosi laboratori, come quello di sartoria e di serigrafia, ma anche per il tipo di detenzione che è attenuata e quindi, durante il giorno, le donne non sono rinchiuse, ma possono usufruire dei vari spazi comuni”.
Un’eccezione quindi. Le attività di reinserimento sono possibili a prescindere dall’annosa questione del sovraffollamento e dell’inadeguatezza degli spazi che riguardano la stragrande maggioranza degli altri istituti di pena? Come possono essere praticate quando la condizione detentiva è più restrittiva, sempre ammesso che sia necessaria? Sono questioni dibattute da tempo, ma spesso in modo sterile e solo il confronto con chi se ne occupa nel concreto può fornire indicazioni produttive. A otto anni dalla fondazione ad opera di Michalis Traitsis, Balamòs lavora in maniera stabile e continuativa, anche con mancanza totale di finanziamenti. “Chiaramente la crisi ricade in primis su questi progetti, ma si tratta anche di crisi culturale”, sostiene Traitsis. “ Il vero problema è come possano essere programmate e progettate tali attività, ma oggi questo è in Italia un argomento tabù. La convinzione è che sia più questione di spazio mentale che di spazio fisico.”
Frattanto il 18 settembre scorso è stato stipulato un protocollo d’intesa tra il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, l’Istituto superiore di studi penitenziari e il Coordinamento. “Si tratta di un documento ufficiale per la tutela e la promozione dell’attività teatrale all’interno del carcere – riconosce Traitsis – e questo è significativo, ma resta da vedere come verrà applicato”. Riserve più che mai giustificate da parte di chi di queste problematiche si occupa con passione fin dagli inizi del suo percorso.
Per garantire ai cittadini possibilità di indirizzo e di controllo, a partire dagli anni Settanta si è avviato un poderoso processo di decentramento amministrativo. Enti e servizi sono stati sottratti all’impunità garantita dalla lontananza e incardinati al territorio.
Ora è iniziata la retromarcia: la nuova tendenza si esprime nella formuletta “area vasta” e impone la riaggregazione di ciò che prima si era smembrato.
Un esempio per tutti: la creazione delle Unità sanitarie locali successivamente trasformate in Asl, cioè aziende, in nome di un efficientismo sbandierato ma non praticato. Adesso capita invece che l’Asl di Ferrara distolga lo sguardo dai quartieri e dalle frazioni e lo indirizzi verso altre realtà urbane, Bologna e Imola. La nuova logica è quella dell’economia di scala; la necessità è allargare il bacino di riferimento in termini di approvvigionamento e di utenti, per ridurre le uscite e accrescere i proventi. Un analogo riassetto, sempre in ambito sanitario, è avvenuto di recente per il 118, il servizio di pronto intervento.
Dietro questo apparente impazzimento c’è la presa d’atto che le cose, così come sono, contabilmente non stanno in piedi. Di conseguenza si cerca una via d’uscita. Il problema vero è la carenza di risorse e si tenta di ovviare con escamotage organizzativi.
Ma visto che servono soldi, c’è una strada sicura per reperirli. Fino ad ora è stato preso alla lettera il provocatorio Petrolini che esortava a prelevare il denaro dove si trova, cioè presso i poveri “che ne hanno poco, ma sono tanti”!
Io preferirei invece che si lasciassero istituzioni e servizi comodamente sotto casa e sotto lo sguardo vigile dei cittadini; magari creando alleanze e facendo rete in un sistema consortile, ma restando ciascuno ancorato al proprio territorio. E per reperire il denaro auspico il rivoluzionamento della prassi: i soldi li si prenda là dove realmente si trovano, presso i ricchi che sono pochi ma ne hanno tantissimi…
Nel romanzo di George Steiner (“Il correttore” Garzanti) in un dialogo tra un comunista e un gesuita, il primo dice, facendo un bilancio della sconfitta dei propri ideali: “Sì, abbiamo sbagliato. Sbagliato mostruosamente, come dici tu. Ma il grande errore, quello di sopravvalutare l’uomo, l’errore che ci ha traviato, è in assoluto la mossa più nobile dello spirito umano nella nostra tremenda storia.” Il gesuita replica: “Il capitalismo non ha mai fatto questo errore. Non capisci? Il libero mercato si basa sull’uomo medio. E che media mediocre! Sai, professore, l’America è probabilmente la prima nazione e società nella storia dell’umanità a incoraggiare gli esseri comuni, fallibili e impauriti, a sentirsi a loro agio nella propria pelle.”
In democrazia vince chi sa parlare all’uomo comune. Una parte lo farà senza grandi ambizioni di cambiamenti; un’altra cercando di realizzarli per costruire una società di cittadini liberi e uguali. Comunque, lo scontro tra queste due linee non può saltare la considerazione e il consenso dell’uomo medio. Queste riflessioni mi vengono dal bilancio degli insuccessi di tutti quei volonterosi che provano a costruire movimenti e liste elettorali nel nome dei poveri, dei lavoratori e di grandi cambiamenti, azioni che poi scoppiano per risse interne fra personalità, oppure raccolgono consensi elettorali irrilevanti.
I fattori di questi insuccessi sono numerosi. In questa sede vorrei richiamarne uno fondamentale che riguarda la natura della democrazia nelle società del nostro tempo. Da un punto di vista strutturale, la democrazia obbedisce a due principi contraddittori e opposti. Da un lato essa è il regime che si fonda su norme di natura universale (eguaglianza dei cittadini, giustizia sociale, diritti e doveri uguali per tutti); dall’altro, permette ai singoli e a gruppi di interessi di organizzarsi e di battersi per affermare il proprio particulare.
Le contraddizioni e la vita delle democrazie dipendono dalle varie politiche in grado di conciliare e combinare di volta in volta i bisogni corporativi dei singoli e dei gruppi con i valori universali delle liberal-democrazie. Luigi Einaudi ha sintetizzato e definito efficacemente questo ossimoro del regime democratico: “La democrazia è un’anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge.” Deve essere chiaro, quindi, che entrambe le posizioni (difesa degli interessi particolari e affermazione dell’interesse generale) sono legittimamente presenti nella vita di una democrazia. La domanda che dobbiamo porci è come far sì che i nodi che si creano si possano sciogliere nella direzione di una società più giusta e più libera.
Se dovessi indicare il limite che blocca l’espansione di una forza di sinistra adeguata a questo tempo globale e di permanente trasformazione, lo indicherei così: non saper proporre una saldatura convincente tra un’analisi approfondita del presente, l’indicazione di obbiettivi e progetti per il futuro, la selezione di una classe dirigente credibile. Dell’analisi del presente fa parte l’abbandono di atteggiamenti aristocratici verso i luoghi comuni che plasmano il modo di pensare e di vivere delle persone normali. I luoghi comuni non sono solo delle banalità. Spesso sono contenitori simbolici che raccolgono domande ritenute importanti nella vita quotidiana. Se non vengono esaminate con attenzione per ricavarne indicazioni di soluzioni nell’interesse generale, finiscono nel tritatutto dei demagoghi che ne fanno un uso contro la democrazia.
Come rappresentare, dunque, la dialettica ideale di una democrazia matura? C’è chi punta sul rafforzamento di un confronto pubblico razionale con gli interessi di gruppi e di poteri forti, con l’obbiettivo di intaccare privilegi e diseguaglianze: la democrazia come casa di vetro. E c’è chi cerca di sottrarre gli interessi più corporativi o più forti alla trasparenza di un confronto pubblico (nelle Istituzioni e nella società civile), trasformando così la democrazia in un ideale irraggiungibile. Se dovessi tradurre questo discorso in un linguaggio filosofico, direi che il compito più difficile è tenere insieme logos e polemos, cioè dialogo razionale e conflitto sociale e politico. Oggi, siamo in una situazione in cui è vincente chi sostiene il primato assoluto della decisione di una élite ristretta che considera il dialogo una perdita di tempo, la vita delle Istituzioni rappresentative un fattore di inefficienza, le Costituzioni un ferrovecchio del passato, i partiti solo delle consorterie clientelari irriformabili, e il conflitto un demone destabilizzante della società.
Sta tramontando la concezione di una democrazia che funziona secondo una logica mista, cooperativa e conflittuale, dialogica e polemica insieme? Cosa si sta preparando al suo posto?
Non vogliono la centrale biogas ad alghe nella Sacca di Goro, “è troppo pericolosa”, dicono: incerti ambientali, rischi d’incidente e incognite sulla salute pubblica. Troppe ombre sul futuro dei loro figli e dell’economia costiera giocata sull’industria delle vongole e, da qualche tempo, anche sul turismo naturalistico.
Probabile marcia indietro sulla costruzione della centrale biogas di Goro, evidente la pericolosità per salute e ambiente
Parola del neonato Comitato antibiogas, presieduto da Angelo Morinelli e radunato in assemblea ieri sera per ribadire il “no” all’impianto industriale. Per il Comitato il d-day più importante sarà il 9 aprile, quando i dissidenti raggiungeranno in bus la Provincia di Ferrara per fare una pacifica pressione sulla conferenza dei servizi, perché rinunci all’idea di dare il via libera all’impianto.
La centrale, curata fin dal progetto da alcune società della holding forlivese Cclg spa, il cui business contempla tra gli altri la sfera delle energie rinnovabili, ha perso fascino strada facendo. La valorizzazione energetica delle alghe si è afflosciata, per eliminarle dalla Sacca si cercheranno soluzioni alternative.
Salvo colpi di scena, il Consiglio comunale, a febbraio favorevole all’impianto tanto da piegare un terreno agricolo alle esigenze della sua costruzione, farà marcia indietro revocando la propria delibera. “Sono venuti meno i requisiti di interesse pubblico con cui è stata giustificata la posizione dell’Amministrazione – spiega Cristina Fabbri, vice presidente del Comitato – Il passo indietro del Comune ci fa molto piacere”. Parole diplomatiche, utili alla causa, ma dalle retrovie le voci sono altre: il ripensamento comunale era inevitabile, i presidenti delle cooperative hanno ritirato l’adesione all’accordo raggiunto con la società costruttrice della centrale e, di conseguenza, è decaduta la voce “interesse pubblico” su cui si reggeva il progetto.
Probabile marcia indietro sulla costruzione della centrale biogas di Goro, evidente la pericolosità per salute e ambiente
L’assenza del sindaco e della maggior parte degli amministratori non smentisce il pensiero che serpeggia in sala ed esprime lo strappo tra la politica, le sue scelte e la società civile. A gettare acqua sul fuoco è il presidente Morinelli, che giudica gli amministratori colpevoli di superficialità per non aver approfondito i pro e i contro della produzione di biogas e compost dalle alghe. “In realtà l’apporto delle alghe è pari al 30 per cento di quanto si dovrebbe bruciare, sono solo un pretesto per creare l’impianto. Sarebbe meglio usarle per fare compostaggio senza le emissioni di tre motori sempre accesi e la presenza di serbatoi con liquidi inquinanti”, precisa il ruralista Michele Corti, docente universitario di zootecnia di montagna all’Università di Milano e ospite della serata organizzata dal Comitato. “Gli impianti sono forzature spinte dagli incentivi – dice – Si parla di usare scarti di legno, ma chi garantisce non siano trattati con sostanze nocive?”. Cosa si manda in fumo? Liquami zootecnici, fanghi industriali, cascami di animali macellati? Quali rifiuti? E, soprattutto, quali sostanze gassose si mescolano all’aria? Gli interrogativi di Corti sono quelli di tutti i presenti, tanto più che la visura camerale relativa alla ditta di costruzione della centrale, riferisce della presenza nella cordata di un’azienda di smaltimento di rifiuti industriali, urbani e tossici. Il che è motivo di grande preoccupazione per i goresi. “Se siamo qui non è certo per la politica, ma per il nostro futuro e quello dei nostri figli”, ribadisce Cristina Fabbri.
“La ditta dice che sosterrà i costi di costruzione dell’impianto, in realtà li paghiamo in bolletta, sono soldi che rientrano nei generosi incentivi dell’Italia – continua il professore – C’è poi molto da dire sulla posizione della centrale, in una zona confinante con il Parco del Delta del Po, nella Sacca, dove la profondità dell’acqua non supera i 60 centimetri. Basta un incidente, anche il più piccolo, per compromettere un ambiente tanto fragile”. La lista delle controindicazioni è senza fine: dal rischio di esondazione, che vedrebbe sommerso l’impianto e versati gli inquinanti in un mare stagnante, a quello di una perdita che potrebbe infilarsi nell’idrovora di Bonello con un conseguente disastro per gli allevamenti di vongole. “E’ una centrale complessa, l’unica in riva al mare, dove la salsedine con la sua potenza corrosiva, potrebbe favorire il deteriorarsi prematuro dell’impianto e dare vita a problemi seri per la salute e l’ambiente – continua – Faccio un esempio, se si versa per sbaglio il compost prima che sia stabilizzato ci si può trovare a fronteggiare batteri pericolosi”. Salmonella, eutero cocchi coliformi e molti altri bacilli pericolosi per l’uomo e anche per l’habitat marino. Lo sanno bene in Germania, dove le biogas sono responsabili della metà delle emergenze ambientali da incidente. L’Italia è sulla buona strada. Un esempio per tutti: il divieto di balneazione sul Garda tra Padenghe e Lonato durante la passata stagione estiva. C’è poco da scherzare.
Probabile marcia indietro sulla costruzione della centrale biogas di Goro, evidente la pericolosità per salute e ambiente
Arrivato al capitolo economia, Marchi ricorda come sia impensabile sposare la ciclabile panoramica, pensata per il turismo naturalista, con la presenza di un impianto industriale circondato dal filo spinato, con silos alti 10 metri mimetizzati da una siepe di cipressi dalla quale emergono quattro metri di serbatoi d’acciaio verde sulla cui cima, di tanto in tanto, brilla una torcia alta sette metri. Cose da Blade Runner. Ce n’è quanto basta per smorzare l’entusiasmo turistico che si cerca di accendere intorno al Parco del Delta del Po in ogni fiera internazionale dedicata alle vacanze verdi. Insomma, bisogna decidere cosa si vuole essere. Parco o ricettacolo di strutture industriali? Qual è la scelta politica definitiva di fronte a convivenze impossibili? La tutela dell’ambiente non può conciliarsi con la sua industrializzazione, che nulla c’entra con lo sviluppo. “Il Parco del Delta del Po ha consegnato le proprie osservazioni alla Provincia durante la Conferenza di Servizi del 27 febbraio, contenevano diversi interrogativi e richiami alle prescrizioni previste dall’ente di tutela. E’ stupefacente come il Comune non abbia tenuto conto degli strumenti sovraordinati prima di esprimersi positivamente sulla realizzazione della centrale – spiega Marino Rizzati presidente del circolo Delta Po Legambiente – Sono stati ignorati vincoli che impediscono la costruzione di questo tipo di impianti. E’ noto come nelle zone pre-parco i rifiuti, perché di questo si tratta, non possano essere lavorati. Speriamo che il passo indietro dell’Amministrazione sia di buon auspicio, in caso contrario il Comitato dovrà denunciare le violazioni di legge”.
L’augurio, insiste Rizzati, è quello di una soluzione dettata dal buonsenso e dalla legalità. Una soluzione ispirata dalla consapevolezza di dover arginare i rischi elencati da Luigi Gasparini di Medici per l’Ambiente. “Le emissioni delle biogas sono considerate falsamente frutto di energia rinnovabile – dice – le quantità di biossido di azoto per le biogas sono dalle 5 alle 10 volte superiori a quelle consentite per le centrali turbogas”. Anche sull’aria non ci siamo. Troppi inquinanti e parametri, dice Gasparini, tarati sugli adulti piuttosto che sui bambini. Va da sé l’aumento dei rischi per la salute.
“I sindaci possono fare molto per impedire la costruzione di una biogas purché intervengano per tempo”, spiega in una video intervista l’avvocato Maria Calzoni. “In sede di Conferenza di Servizi il soggetto più importante è il primo cittadino, che ben conosce il suo territorio e quindi dovrà verificare se è idoneo ad accogliere una centrale”. E ancora: “Il Comune di Goro per difendere la salute e la sicurezza può insistere sul fatto che l’impianto stravolge la programmazione del territorio. Nella provincia di Padova un sindaco ha bloccato sette centrali e quando un primo cittadino si unisce a un comitato le cose cambiano”, conclude.
Non è il caso di Lendinara da dove proviene Antonella Marzara di Intercom Ambiente, un impegno per l’habitat nato dalla malattia, la leucemia, che l’ha colpita. “Vivo circondata da centrali biogas e spero che qui non si faccia – esordisce – Intorno a casa ce ne sono quattro, bruciano di tutto. Ogni 12 minuti passano 30 camion, di notte e di giorno, sono carichi di scarti puzzolenti tanto da non stendere nemmeno più i panni all’aperto, sto con le finestre chiuse per il cattivo odore”. Da sentinella dell’ambiente ha controllato l’attività degli impianti, fotografato, catturato immagini proibite di una poltiglia scura, il digestato, sparpagliato sui campi alla chetichella. Ha denunciato ed è stata minacciata. “Ho ricevuto dei proiettili, a quel punto è intervenuta la magistratura – racconta – Il problema è che di fronte agli incidenti, le domande su effetti e responsabilità restano senza risposta. E’ il modo di operare di finti agricoltori a caccia di incentivi statali facili”. E ancora: “La Bagnolo Power è a 300 metri dall’ospedale di Trecenta, lavora come un inceneritore, brucia 5 mila chili di legno l’anno – spiega – E’ come se 22 mila camini urbani fossero sempre accesi. Vogliamo parlare di chi brucia rifiuti ospedalieri e poi si regala il compost. Il 25 aprile alla Bio Power c’è stata un’implosione, i gas sono comunque fuoriusciti, quanti e quali non è dato sapere. Mancava persino la centralina prevista dalla legge per fare i rilevamenti. Tutto questo per dire che il fenomeno non può essere ignorato”. Non si può sopportare, come le è successo, di sentirsi dire che la malattia è un danno collaterale accettabile a fronte dei vantaggi offerti dal progresso. Molto meglio un passo indietro.
La consueta e ormai consolidata riflessione sul concetto di maturità viene di nuovo stimolata dalla presentazione dell’autore alla ristampa ampliata del suo importante saggio: Francesco M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, 2014, apparso sul Domenicale del Sole 24 ore del 30 marzo. Chi abbia letto in precedenza il libro di Cataluccio sa che tra due figure di riferimento tratte da due libri che hanno aperto e concluso il Novecento si snoda il percorso della scelta simbolica di entrare o meno nel mondo degli adulti e nella assunzione di responsabilità. Nel 1904 Peter Pan e nel decennio 1997-2007 la saga di Harry Potter. Due figure, commenta Cataluccio, che esprimono con la verità propria alle invenzioni poetiche i due atteggiamenti controversi del venire al mondo nella società adulta. Peter Pan rifiuta quella responsabilità, Harry Potter l’accetta. “Harry Potter diventa adulto e rinuncia alla spensieratezza, che è ebrezza del presente, oblio del passato e disinteresse nei confronti del futuro.”
Riferita alla contemporaneità socio-politica, ma prima di tutto soggettiva, sembra evidente che la spinta a rovesciare le posizioni e attraverso il più noto ma non unico principio della “rottamazione” i giovani intendano e vogliano pervicacemente sostituirsi ai “maturi”, ai vecchi. Da qui l’analisi del concetto di vecchiaia, una lotta per la vecchiaia, commenta Cataluccio, a cui tende tutto il nostro percorso di vita. Ma ciò che qui interessa sottolineare è l’atteggiamento che in Italia si ha del problema giovani/vecchi. Cataluccio dimostra come l’Italia sia uno dei Paesi dove la vecchiaia è trattata peggio e, appoggiandosi alle tesi del presidente della Società di Psichiatria, Claudio Mencacci, afferma che l’Italia è il luogo dove la convivenza sociale è contagiata da “una venatura paranoica” per cui, “pur essendo convinto della giustezza e della necessità di “rottamare” quella parte della vecchia classe politica che ha commesso gravi errori e talvolta poco onesti […] mi pare che ogni battaglia mascherata da problema generazionale (vecchio contro nuovo, giovani contro anziani) sia molto limitante e possa essere persino pericolosa.” Così se lo scontro generazionale nella politica può essere ammesso e addirittura sollecitato non lo è né lo deve essere per altre professioni o scelte artistiche. L’esperienza giovanilistica sperimentata nel secolo da cui proveniamo “ci ha mostrato però chiaramente che questa cultura giovanilistica e immatura e la pratica su di essa basata, è in realtà assai reazionaria e foriera di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari.”
Al di là della estremizzazione di una tesi ampiamente condivisibile (almeno per chi scrive al di là della sua appartenenza alla generazione vecchia) mi pare che il discorso di Cataluccio sia degno di una riflessione né superficiale né banale proprio per le implicazioni culturali che essa solleva. Prima di tutto l’antagonismo vecchi/giovani non è mai foriero di una vivere civile né le due generazioni hanno in sé il rimedio assoluto. Non è che essere giovani sia meglio che essere vecchi né che essere uomini sia meglio che essere donne. La storia ha dimostrato che solo l’interazione tra queste due forme opposte ha prodotto uno scatto positivo nel tormentato percorso della democrazia o della società. Ma l’accentuazione del problema generazionale viene spinto dal sentire generalizzato e da ciò che è forse il principio primo della società moderna: l’opinione dell’uomo comune che, se non viene adeguatamente e riflessivamente tenuto in considerazione, sfocia nel populismo e nel plebiscitarismo più sconsiderato.
Andrei oltre le tesi di Cataluccio e mi appellerei al fatto che anche la rottamazione politica al di là delle innegabili colpe di chi ha scelto questa strada e ha dantescamente percorso non la “diritta via ma la “selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura” non può essere lineare o a-critica. Lo si vede oggi nella tormentata vicenda del cambiamento proposto e impugnato dal “giovane” Renzi e anche dalle risposte che suscita. Di questo abbiamo discusso con Fiorenzo Baratelli che esporrà il suo punto di vista su questo giornale; ma quello che mi pare assolutamente condivisibile nei nostri punti di vista è che l’intellettuale di sinistra (una figura che molto significa o, al contrario, nulla significa) ha avuto il torto di non occuparsi o di poco occuparsi dell’ uomo comune, delle sue reazioni e dei suoi convincimenti. Tuttavia se questo è innegabile; innegabile cioè come il concetto di “popolo” inteso in modo astratto (o inteso nella vecchia identità di “compagno”) non sia stato sostituito da quello più realistico dell’uomo comune, lasciato quindi in balia dei populismi che ovviamente tendono a livellare le capacità attraverso la scelta del nuovo e del giovane contro quel vecchio che non ha saputo realizzare le speranze e le idee del common sense.
Resta un punto dove però una pericolosa deriva non può varcare un limite che forse il ventennio berlusconiano ha promosso come adesione o promozione all’immaturità di tanti italiani e nello specifico una sollecitazione a fare dei giovani, dei ragazzi, dei bambini dei piccoli uomini o piccole donne. Ho visto con sdegno e incredulità una trasmissione di grande successo: “Ti lascio una canzone” dove autorevoli personaggi di teatro ( compreso un mio mito, la celebre cantante lirica Cecilia Gasdia) promuovevano o bocciavano in una gara canora le voci di piccoli e giovani cantanti. Nulla di male se questo fosse avvenuto nei limiti di una gara che come tale premia la qualità dell’interpretazione. Ciò che invece rendeva mostruosa la performance erano le mosse, i costumi, le inflessioni di quei giovani che mimavano pose, atteggiamenti, maniere del mondo adulto. Compreso i balletti di bambine che a mio parere sembravano avere appreso le mosse da qualche burlesque. E ancor più impressionante il viso incantato, le lacrime, il delirio di applausi che scuotevano i genitori e i fans come se quei piccoli diventati mostri (nel significato latino di monstrum, degno di essere esibito e seguito) potessero soddisfare le loro esigenza di uomini e donne comuni. Su questa violazione del diritto e dovere ad una infanzia cioè alla decisione di saltare le tappe della crescita per approdare alla maturità mi sembra stia il pericolo vero di chi, giovane, brama e desidera giungere alla ripeness senza mai arrivarci. Proprio perché rifiuta la necessità e il dovere di misurarsi con un’altra generazione.
Proviamo ora, a distanza di moltissimo tempo e cioè dai primi anni Ottanta, a rileggere cosa ha detto di noi il Censis e come viene descritta la “regione” ferrarese nella Storia illustrata di Ferrara; questo potrebbe aiutarci, forse, a riflettere e a capire perché siamo ancora un lembo lontano della via Emilia, e perché sia così difficile per noi svegliarci e uscire da una complicata storia di secoli.
Sulla base dei racconti di 424 imprenditori intervistati, il Censis evidenziò in particolare che:
– il tessuto imprenditoriale ferrarese pare incapace di esprimere strategie ed ha accumulato ritardi, risulta ancora debole, si chiude dentro il locale, ha una evoluzione lenta; non maturo ad una cultura del fare impresa, è privo di relazioni industriali, da segnali di inerzia e emerge una sorta di sviluppo bloccato, le cooperative sono un mercato protetto e questo non è positivo, manca il salto per guardare altrove più che guardare oltre;
– la classe politica debole è di ostacolo all’innovazione e porta ad un sistema associativo poco evoluto, si sente il bisogno di immaginazione politica a ipotesi forti, scarso è il contributo della politica locale ad affrontare le criticità sociali e si tende a caricare elementi di tensione;
– interessanti risultano alcuni comportamenti imprenditoriali di modernizzazione dei processi, tra il ’75 e l’85 il 35% è nuova imprenditoria; si richiede una sorta di evoluzione di onda lunga, serve un artigianato più evoluto ed un innesto di imprese dall’esterno per fare struttura di tessuto; per evitare l’impoverimento del vissuto, serve allargarsi ad aree contigue per puntare su piste lunghe, si manifesta una volontà di fuga.
E ora riprendiamo alcuni passaggi tratti dalla Storia illustrata di Ferrara (a cura di Francesca Bocchi, Sellerio, 1987):
– il ferrarese muta con il mutare del tempo (estensi, medioevo, rinascimento) in un processo storico che ha sedimentato nel territorio taluni caratteri, formando l’immagine di una identità;
– sentirsi ferrarese significa parlare di “regione” ferrarese; Ferrara è la biforcazione tra il Primaro e il Volano, un crocevia idroviario, terre nuove;
– è “una regione” che ha visto svilupparsi la propria storia in una altalena di situazioni spesso estreme, che ha dovuto modellare la propria identità su contrapposizioni sempre nette;
– nel quadro della geografia economica italiana, il Ferrarese sconta, anche, gli effetti negativi della posizione. Secoli di dominio papale, una situazione di accentuata concentrazione fondiaria, la presenza di un esercito di braccianti sottoccupati, l’assenza di investimenti locali, sono tutti elementi che storicamente hanno favorito la situazione di marginalità;
– il Ferrarese è uscito dal secondo conflitto mondiale lacerato nella sua economia e nella sua identità. Un fardello pesante per quelle generazioni, si è spezzato il rapporto con il passato, persa la continuità anche del ventennio, di un tessuto di solidarietà sociale. Ricostruire fu arduo, ci fu un’emarginazione politica.
Cosa dire di quel tempo, se non che molto è dipeso e dipende da noi; siamo ancora immersi in quelle storie, restiamo nel ducato anche se nel suo perimetro debordano gli sguardi delle terre del comacchiese, dell’argentano e del centese, più come fuga e come distacco di diversità.
La città, poi, l’altro ieri, ieri e ancora oggi, pensa più alla sua lettura città-centrica che non ad una visione d’area, e la più lunga e ampia possibile. E non ci meraviglia che nella ‘città della non contiguità con altre terre’, non ci sia la volontà di farsi in una ritrovata geopolitica, non solo per poter crescere e svilupparsi economicamente, ma anche per far propri caratteri d’ambiente, per farsi incrocio fra culture e costruttore di nuovi orizzonti di comunità.
Se, infine, chi ci legge è per una diversa seppure approfondita lettura, è sicuramente un bene, perché quello che si chiede è come uscire da queste secche e farsi veramente storia di un piccolo popolo, ogni proposta risulta utile e preziosa.
E se fossimo assaliti, e le nostre mura estensi, difesa oggigiorno inutile e dannosa, espugnate? Verrebbe quasi da augurarsi, fuor di metafora, un evento che ci costringa a guardare oltre le mura, lontano, noi pensiamo a est e verso la costa.
Finalmente diventeremmo una regione ferrarese, dentro ed insieme ad altri con un sogno, una speranza che affidiamo a coloro che possono lasciare un solco del ‘cambiare verso’. Forse è possibile, e perché non andare verso una grande Romagna?
Renzi procede brandendo l’arma del ricatto: “O si fa come dico io, o è la catastrofe!” Ogni giorno attacca tutto ciò che è corpo intermedio (Parlamento, partiti, sindacati, intellettuali…) parlando direttamente al ‘popolo’ e in nome del popolo. La linea è tecnicamente, politicamente e culturalmente populistico-plebiscitaria. Ed è una linea forte. Perché? Perché sfrutta il fallimento delle classi dirigenti degli ultimi decenni (comprese quelle dei movimenti e del Pd da cui proviene il medesimo Renzi e tanti che oggi lo seguono…) e della sinistra politica e sindacale. Chi ha idee diverse viene marchiato con il titolo di disfattista, o ‘parrucone’, o ‘professorone’ parolaio.
Con gli attacchi agli uomini e donne di cultura Renzi continua una miserabile tradizione di sprezzante giudizio del potere politico verso la cultura: dal ‘culturame’ di Scelba, all’anatema di Craxi ‘contro gli intellettuali dei miei stivali’, ai ‘sapientoni’ di Bossi quando ruppe con Gianfranco Miglio…Renzi non entra nel merito di obiezioni o proposte (sia nel campo elettorale-istituzionale, che in quello del lavoro…), ma a tutti risponde che è da trent’anni che si discute e ora bisogna decidere. E’ vero. Ma sarebbe onesto aggiungere che lui non dice niente di nuovo, ma sta solo scegliendo una linea che è stata nettamente sostenuta dalla destra berlusconiana per ciò che riguarda un’ispirazione generale: svuotamento della Costituzione e abolizione dei diritti. La tragedia è che questa linea sta passando nel mare magnum dello scetticismo e dell’impotenza di una parte di cittadini e di lavoratori. Il cittadino crede sempre meno che la Costituzione si possa applicare nelle sue parti migliori e correggere in quelle superate. Il lavoratore si è ormai persuaso che i diritti sono un lusso che non possiamo permetterci. Alla fine di questo percorso non si capisce che cosa resterà in piedi della democrazia costituzionale rappresentativa, e che cosa ci stanno a fare i sindacati…
Regolarmente accade che prese di posizione come quella assunta nei giorni scorsi dal cardinale Bagnasco e dal presidente dell’Age (Associazione italiana genitori) contro le iniziative del Miur per contrastare, a partire dalle scuole, ogni forma di discriminazione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, riaprano un’annosa questione, che per di più ha contribuito a mantenere nell’ambiguità il ruolo del sistema formativo del nostro paese, quando non a frenarne la crescita in qualità.
Mi riferisco al peccato originale del sistema scolastico pubblico italiano, quello per cui nel 1894 il ministro dell’Istruzione all’epoca, Guido Baccelli, esordiva in parlamento, a proposito dei nuovi programmi per la scuola elementare, con la frase: «Istruire quanto basta, educare più che si può».
Da allora ai giorni nostri sulla scuola è piovuta ogni sorta di educazione, dal virile e patriottico indottrinamento del regime fascista alle educazioni più gentili alla salute, all’ambiente, stradale, alimentare, digitale, multimediale, alla legalità, alla cittadinanza attiva e l’elenco sarebbe ancora molto lungo se solo lo volessimo completare, tutto sempre comprimendo questo ampio spettro di compiti, attribuiti alla scuola e ai suoi insegnanti, nel modesto orario settimanale delle discipline.
Non è mia intenzione aprire una querelle, tipo l’uovo e la gallina, riproponendo una sterile quanto inutile contrapposizione tra educazione e istruzione. La connessione delle due funzioni è di una tale reciprocità che salta agli occhi anche dei più sprovveduti.
Ma non siamo inglesi. Gli inglesi tale problema non potrebbero mai porselo, perché l’hanno risolto a monte avendo un’unica parola da poter usare: education, che, al di là delle apparenze, significa istruzione.
Dal 1948 l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclama: «Tutti hanno diritto all’istruzione». Ma se si vanno a rileggere gli atti del dibattito della commissione che giunse, attraverso non pochi compromessi, a questa formulazione, si vedrà che si confrontarono due modi diametralmente opposti di concepire l’istruzione. Quello dei paesi con sistemi scolastici autoritari per ragioni ideologiche o religiose, e quello dei paesi con sistemi scolastici che autoritari non sono.
Può il diritto all’istruzione essere garantito in tutto il mondo a prescindere dalle differenze culturali, religiose, politiche e sociali? Purtroppo sappiamo che non è così, perché la volontà di condizionare i comportamenti delle persone, soprattutto quelli delle giovani generazioni, porta a una prevaricazione dell’educazione sull’istruzione come fonte di sapere e di conoscenza, uccidendo la possibilità per ognuno di scegliere e quindi di essere uomini e donne liberi.
Forse è anche per questo che i nostri padri costituenti, con un’intelligenza e lucidità che ancora a distanza di tempo lasciano stupefatti, la parola educare la usano una volta sola e nel testo dell’art. 30 a proposito della famiglia che deve “istruire ed educare i figli…”. Mentre lo Stato riserva per sé il solo compito di istruire: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione…” (art.33), “L’istruzione […] è obbligatoria e gratuita” (art. 34).
Non è un caso che dal dopoguerra in poi nel nostro Paese ci sia il ministero dell’Istruzione e non più il Ministero dell’educazione nazionale dei Gentile e dei Bottai.
Lo Stato non ha una sua visione educativa, non ha una sua pedagogia. Se così fosse sarebbe uno Stato confessionale, uno Stato di sudditi anziché di cittadini. La nostra scuola è pubblica e laica, laica nel significato che appartiene al popolo, non al cardinale Bagnasco e neppure a nessun presidente dell’Age o di qualunque altra consorteria politica o religiosa.
La visione educativa deve averla la società nelle persone che la compongono, nelle sue organizzazioni e associazioni, visioni che non possono che essere le più varie, specie in un mondo globalizzato, sempre più a grana multiculturale e multietnica.
La scuola statale istruisce attraverso la ricerca, l’esercizio della critica e l’apprendimento del sapere, perché ognuno costruisca la conoscenza necessaria alla propria crescita, a creare se stesso, come è nell’etimologia della parola crescere, consapevoli che l’esperienza scolastica, fortunatamente, non è esaustiva della formazione delle persone.
È proprio dalla tutela, dalla difesa e dalla qualificazione del ruolo della scuola pubblica come luogo dell’istruzione che discende la garanzia che ogni insegnamento in essa impartito non è mai una forma di indottrinamento, salvo quello, ma da ciascuno liberamente scelto, della religione cattolica.
E d’altra parte come potrebbe essere di fronte a quella dirompente modernissima forza prescrittiva che è il primo comma dell’articolo 33 della Carta costituzionale: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.
Ciò che indigna, ciò che nessuno cittadino, a partire da chi esercita professione di cultura nelle nostre scuole, dovrebbe tollerare, non è già la presa di posizione di questo o quel gruppo, di questa o quella gerarchia ecclesiastica, ma che il governo del paese si inchini al loro volere, ritirando i propri provvedimenti per combattere l’omofobia, umiliando la scuola, chi vi lavora, i suoi studenti, tradendo i principi dettati dalla Costituzione su cui ha giurato.
C’è da chiedersi che Paese è quello che continua a tollerare simili sfregi, che educazione costruita sull’argilla darà mai ai suoi figli? Sono questi i sepolcri imbiancati di cui parla papa Francesco? E allora cosa aspetta la Chiesa a dare una mano a sbiancarli a partire dalla scuola?
O dovremo assistere all’espandersi anche tra le aule scolastiche della scandalosa obiezione di coscienza che, umiliando le donne, la loro dignità e la nostra, si consuma ogni giorno negli ospedali del sistema sanitario pubblico?
Pare che in Francia lo stiano già facendo e in Italia gli epigoni siano sul piede di guerra, quello di tenere a casa dalle lezioni scolastiche i propri figli un giorno al mese per protesta contro una scuola che, poiché fa il suo mestiere di istruire, insegnare, informare, mina i valori della famiglia e dell’educazione cattolica. Liberi di farlo, sottostando alle regole sulle assenze da scuola, ovviamente. Nel caso, presumo, assenze ingiustificate.
Non libero il nostro ministro dell’Istruzione, appunto, di subirne il ricatto, svilendo ancora una volta di più la scuola della nostra Costituzione, ridotta ad essere nana su spalle da giganti.
Sono sopravvissuti all’atomica di Hiroshima, ma non è chiaro se scamperanno agli effetti collaterali di una lite tra condomini finita in tribunale. Il futuro resta un’incognita per i tre ginkgo biloba e l’ailanthus piantati quarant’anni fa nel cortile del condominio ‘Il vialetto’ al 144 di viale Cavour. Vivere o morire ora va oltre la volontà degli inquilini che si sono battuti a loro difesa. Oggi dipende dall’esito di un tavolo tecnico e, soprattutto, dalla capacità degli alberi di reagire all’amputazione di alcune radici utili ad ancorarsi al suolo. La soluzione di taglio parziale era stata concordata in virtù di un’intesa con cui si pensava di salvaguardare la vita delle piante e, contemporaneamente, permettere il rifacimento del vecchissimo muro di cinta pericolante. “Quando si è fatto l’accordo probabilmente nessuno aveva ben chiara la grandezza delle radici emerse dopo lo scavo utile al rifacimento del muro – dice l’agronoma Stefania Gasperini –. In realtà per come sono andate le cose e per l’importanza dell’intervento subìto, la stabilità degli alberi dovrà comunque essere testata e nel caso aiutata con qualche puntello. Nessuno vuole rischiare un crollo interno a un condominio dove passano le persone”.
Mutilati, obbligati a una condizione contraria alla natura e del tutto inconciliabile con la primavera, gli alberi aspettano. Non sanno di essere stati giudicati responsabili della malformazione del muro e condannati in prima istanza a essere abbattuti. Aspettano ignari del fiume di parole e delle tante carte bollate a cui è legato il loro destino di alberi di città a rischio estinzione. Aspettano, vivi e poco vegeti, inconsapevoli degli oltre 40mila euro pagati dagli inquilini de “Il Vialetto” per il rifare il muro come richiesto dai confinanti de “Il Giardino” e della sentenza di appello con cui il giudice ha sospeso la loro esecuzione.
Fin dalle prime ore del mattino di ieri alcuni inquilini, in rappresentanza di una parte di assemblea condominiale, hanno presidiato le piante per scoraggiare gli operai della ditta incaricata dei lavori. “Non si sa più che fare – dice il responsabile Rossano Felloni – Uno dice di andare avanti l’altro di fermarsi”. Allarga le braccia, ma di rimettere la terra per riparare le radici non se ne parla.
“Invece di una colata di cemento armato bastava una siepe”, suggerisce l’ambientalista Sergio Golinelli, accorso sul luogo della singolar tenzone. “Sarebbe sufficiente una copertura o un archetto per permettere alle radici di trovare il loro spazio”, incalza Angela Buono, munita di delega condominiale di quelli del Vialetto per controllare lo stato dei lavori.
Nessuna soluzione – se non quella di riavere il muro integro – è invece la posizione di Giovanni Vitali de “Il Giardino”, presente insieme all’avvocato Giuliano Onorati. “Secondo l’accordo raggiunto avrebbero dovuto mettere le radici in sicurezza, ma non l’hanno fatto”, taglia corto. E’ una questione di muri, di recinti e foglie da ripulire. Storie di condomini di provincia, dove il tempo è ancora un benefit a misura d’uomo.
Qualcuno invoca la necessità di un altro muro, ben diverso da quello abbattuto nell’attesa di alzarne uno nuovo fiammante, che l’avvocato David Zanforlini, rappresentante insieme al collega Federico Carlini de “Il Vialetto”, vorrebbe invece identico al vecchio. Uguale anche nell’anomalia della pancia e nelle fondamenta ‘leggere’ anziché corazzate come lasciano intendere le gabbie calate nello scavo. Un ritorno al passato giusto per preservare le piante dall’ormai prossima colata di cemento armato. In fondo, è sempre questione di muri. “Proprio di fronte a questo – indica un signore che da anni vive al Vialetto – c’era un muretto, era vecchio ed è crollato da solo, non c’è stato bisogno di alberi”.
“Mi chiamo Temple Grandin, non sono come le altre persone. Io penso per immagini e le connetto.” Inizia con questa assertiva presentazione il film con cui abbiamo scelto di partecipare alla giornata mondiale dell’autismo. Si tratta della biografia di una donna straordinaria: diagnosticata come autistica all’età di quattro anni, con forti problemi relazionali e difficoltà nel linguaggio, consegue un Ph. D. in Scienze animali e diventa una grande scienziata specializzata nella gestione e nello sviluppo di attrezzature sperimentali per il bestiame. Attualmente è professore di Scienze animali alla Colorado state university e tiene continuamente conferenze sull’autismo in tutti gli Stati uniti.
Temple Grandin, locandina del film
Abbiamo voluto guardare il film con la lente autorevole dell’esperto, partendo dalla recensione di Paolo Meucci pubblicata su Spiweb: “Il taglio narrativo del film pone il fuoco sulla forza di reagire, sulla capacità di tramutare in ricchezza le proprie difficoltà. È un film sulla possibilità di vivere appassionatamente e trovare un adattamento funzionale grazie all’accettazione del disturbo e alla conversione delle difficoltà in punti di forza: “Avevo un dono, vedevo il mondo da un’altra prospettiva, invisibile agli occhi degli altri”. [vedi le scene salienti del film]
Temple infatti non pensa con le parole, non pensa per concetti, ma per immagini. Non legge la realtà come le altre persone, ma ha la capacità di cogliere con straordinaria consapevolezza tutto ciò che le succede attorno, sentendo ogni minimo rumore, percependo lo stato d’animo di persone e animali, catturandone i movimenti, e ricevendo da tutto questo una grandissima quantità di informazioni che fotografa e traduce in sistemi per poterle comprendere. Come nelle scene del film che si svolgono nel ranch della zia e che mostrano con disegni in sovrimpressione il modo di pensare della protagonista: se noi vediamo una mandria di mucche che procedono disordinatamente, lei vede una serie di frecce che ne tracciano la precisa traiettoria; se noi apriamo e richiudiamo una sbarra manualmente facendola sbattere contro il pilone a fine corsa, la sua mente disegna immediatamente il progetto per rendere l’operazione automatica e senza far sbattere la barra, rumore che a lei risulta insopportabile; oppure quando al college le chiedono di leggere una pagina del libro, lei non riesce a leggere le singole frasi ma fotografa l’intera pagina, la memorizza, poi la ripete tale e quale.
Nel suo terzo libro Pensare in immagini, e altre testimonianze della mia vita di autistica, scritto a quattro mani con Diedra Enwright, Grandin descrive così il suo modo di pensare: “Il pensiero visivo mi ha permesso di costruire interi sistemi nella mia immaginazione. […] La mia immaginazione funziona come i programmi grafici del computer […] quando faccio una simulazione dell’uso di un’attrezzatura o lavoro su un problema di progettazione, è come se li vedessi su una videocassetta nella mia mente. Posso osservare da ogni punto di vista, ponendomi sopra o sotto l’attrezzatura e facendola contemporaneamente ruotare. Non ho bisogno di un sofisticato programma di grafica che produca simulazioni tridimensionali del progetto. Posso fare tutto questo meglio e più rapidamente nella mia testa.”
Lo spiegano bene in termini specialistici Stefania Ucelli e Francesco Barale della Società psicoanalitica italiana: «Le eccezionali capacità visuo-spaziali di Temple Grandin, il suo “pensare per immagini” (così come il talento matematico di Rain Man, per fare un altro esempio cinematografico) non sono solo delle curiosità, ma aspetti estremi che, nella loro eccezionalità, mettono bene in luce il funzionamento della mente autistica illustrato da uno dei grandi modelli post-psicoanalitici dell’autismo, quello della “coerenza centrale”. Questo modello, attraverso una imponente mole di dati sia clinici sia empirici, ha indicato le particolari modalità di elaborazione e integrazione dell’esperienza che spesso sono presenti nell’autismo. Peculiarità che sono alla base insieme delle difficoltà autistiche, degli “isolotti di capacità” e dei “talenti speciali”».
Ed è proprio così, perché Temple ha enormi difficoltà a comprendere il mondo reale, il mondo è oscuro, incomprensibile, oppure inondante, non ha l’ “evidenza naturale” che ha invece per le persone non autistiche, e lo spiega direttamente: “La realtà per una persona autistica è una massa interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi e segnali. Niente sembra avere limiti netti, ordine o significato. Gran parte della mia vita è stata dedicata al tentativo di scoprire il disegno nascosto di ogni cosa. La routine, scadenze predeterminate, percorsi e rituali aiutano ad introdurre un ordine in una situazione inesorabilmente caotica”.
Il film racconta proprio gli anni in cui lei realizza, tra incomprensioni e sofferenze, di essere “diversa ma non inferiore”. Alcune scene del film riportano alcuni dei momenti più duri della vita di Temple e della sua famiglia: da bambina non riesce a seguire la mamma che tenta di insegnarle a parlare, perché la sua attenzione è attirata totalmente dal luccichio del lampadario a gocce; da ragazza è terrorizzata dai rumori e dal caos, e a nulla valgono i tentativi di consolazione della mamma o della zia perché lei non sopporta i gesti d’affetto, gli abbracci la spaventano, trova sollievo soltanto quando si infila nel passaggio di immobilizzazione per le mucche, sentendosi stretta e contenuta. A diciotto anni, prendendo spunto da questa gabbia, si costruisce una “macchina degli abbracci” (hug machine) che sarà l’unico modo per calmarsi nei momenti di panico. E sta proprio in questo la forza di Temple, nel cercare soluzioni ai propri disagi, imparare a gestire le situazioni, inventare e costruire da sé oggetti che la aiutino a sopravvivere in un mondo a lei così ostile.
Giornata mondiale dell’autismo: la storia eccezionale di Temple Grandin, intelligenza brillante e forza di reagire
Ma Temple ha avuto la fortuna di essere stata costantemente incoraggiata e stimolata dalla madre, punto di riferimento importantissimo, come si evince dalla dedica al libro citato: “Dedico questo libro a mia madre. Senza il suo amore, la sua dedizione e la sua perspicacia, io non avrei potuto riuscire”. Sua madre aveva un’eccezionale abilità nel riconoscere quali persone avrebbero potuto aiutarla veramente e quali no, cercò per lei gli insegnanti e le scuole migliori, questo in un’epoca in cui la maggior parte dei bambini autistici veniva istituzionalizzata. Era risoluta nel tenerla fuori dagli istituti. Diverse figure hanno avuto quindi un ruolo fondamentale nell’incanalare i suoi interessi e le sue “manie”, e nell’aiutarla ad adattarsi ai contesti e agli ambienti, il più importante di tutti fu il professor Carlock, ex scienziato della Nasa, che ne scoprì l’intelligenza e il talento, e nel cui laboratorio di scienze Temple mise le ali per spiccare il volo.
Occorre però dire che la grande maggioranza delle persone con autismo non è ad “alto funzionamento” come Temple Grandin e purtroppo non ha neppure il suo successo. Ci sono vari tipi e quadri clinici di autismo, tanto che si parla anche di autismi o disturbi dello spettro autistico, e ancora oggi risulta difficile classificarli perché, in una certa misura, lo si può sapere solo a posteriori, dopo aver creduto nelle potenzialità del soggetto ed aver ricercato un’ autentica, seppur parziale, condivisione di mondi e di esperienze.
Ritornando a Grandin, è veramente incredibile vederla parlare nei numerosi video di conferenze che si trovano su youtube, in cui si muove disinvolta sfoggiando un’invidiabile sicurezza e scioltezza. In particolare vi segnaliamo una TED conference “Temple Grandin: Il mondo ha bisogno di tutti i tipi di mente” [vedi] in cui lei sostiene che il suo successo nel lavoro di progettista dipende proprio dalla sua condizione di autistica, perché è a partire da tale condizione infatti che riesce a soffermarsi su dettagli minutissimi, e che il mondo ha bisogno delle persone che rientrano nello spettro dei disturbi dell’autismo: pensatori visivi, pensatori schematici, pensatori verbali nonché di tutti quei bambini intelligenti che definiamo “geek” o “nerd”. Afferma anche che pensare per immagini e progettare sono il suo lato “geek”, e che la sua mente funziona come Google per le immagini, «io vedo immagini specifiche che mi lampeggiano nella memoria proprio come le immagini di Google; se mi dite scarpa, io vedo tantissime immagini di scarpe che si aprono nella mia mente come pop-up, che partono dai ricordi di scarpe degli anni ‘50 e ’60, e tante altre che si aggiungono velocemente, all’infinito».
Ci piace concludere questo articolo con una sua battuta, perché Temple tra l’altro è una donna simpaticissima e di grande ironia: “Non chiedermi cosa ne penso di una cosa… ma ‘google me!’ ”.
Temple Grandin – Una donna straordinaria è un film per la televisione del 2010 diretto da Mick Jackson con Claire Danes, Catherine O’Hara, Julia Ormond, Stephanie Faracy, David Strathairn. Drammatico, durata 103 min., Usa 2010. Il film ha debuttato sulla HBO il 6 febbraio 2010, ottenendo riscontri positivi. A luglio dello stesso anno riceve sette candidature agli Emmy Award, tra cui quelle per miglior film e miglior attrice in una miniserie o film Tv. In Italia il film è stato trasmesso il 26 ottobre 2010 su Sky Cinema 1. [vedi il trailer in Inglese]
Il disegno di legge (ddl) a firma Graziano Delrio è stato approvato dal Senato mercoledì 26 marzo scorso, con 160 sì contro 133 no. A questo punto il testo è tornato alla Camera per una terza, e in tanti sperano definitiva, lettura.
Dunque è ormai centrato l’obiettivo di eliminare le Province? Neanche per idea.
Il provvedimento, intitolato non a caso “svuota Province”, è solo il passo intermedio per arrivare alla cancellazione della parola “Provincia” nell’articolo 114 della Costituzione e, quindi, all’abolizione definitiva.
Nel frattempo, è trasformata in ente di secondo livello e cioè non più eletta dai cittadini, come ora, ma governata dai sindaci, a partire dal 2015.
Ma se l’obiettivo è la loro cancellazione, perché fare una tappa?
Come dicevano Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, “soprassediamo”.
Vediamo piuttosto come dovrebbero funzionare le cose, sempre che il termine “funzionare” non suoni sarcastico.
Al posto di presidenti, assessori e consiglieri provinciali, governeranno i sindaci. Quello del Comune capoluogo sarà il nuovo presidente della Provincia e consiglieri (da 10 a 16 al massimo) saranno altri sindaci designati dall’assemblea dei primi cittadini. Questi i nuovi organi. Tutto a zero euro di indennità, perché i sindaci hanno già la loro.
Nel frattempo gli attuali presidenti potranno restare in carica fino al 31 dicembre 2014, ma a titolo gratuito.
È uno dei pilastri della riduzione dei costi della politica tanto predicata dal premier Renzi, insieme alla trasformazione del Senato e al taglio delle indennità ai manager di Stato.
Si dice che sono sulle tremila le indennità degli amministratori che saranno in questo modo eliminate, con un risparmio …
Ecco, appunto, il risparmio.
Abbagliato dai responsi di alcuni centri studi, il ministro Delrio tempo fa aveva parlato di possibili due miliardi di tagli. Poi qualcuno deve avergli tirato la giacca e allora si è iniziato a parlare di una riduzione di 160 milioni, in seguito calati a 110. Successivamente la Corte dei Conti ha preso carta e penna e ha puntualizzato che, secondo i propri calcoli, il risparmio, se c’è, si aggira sui 35 milioni.
Sul tema ci ha messo bocca anche la commissione Bilancio di Palazzo Madama, esprimendo la preoccupazione che la spesa potrebbe addirittura aumentare.
Potrebbero gonfiarsi le spese se si decidesse che i sindaci metropolitani vanno eletti dai cittadini, anziché essere designati con lo stesso meccanismo di secondo livello previsto per le Province. Cosa possibile e prevista dall’attuale ddl.
Più costi arriverebbero anche dall’aumento di consiglieri e assessori nei Comuni fino a 10mila abitanti (altra cosa contenuta nel ddl), anche se per la verità la ministra Boschi ha detto da Lilli Gruber che la crescita di amministratori avverrà a costo zero.
Ma non è finita. Si dice che alcune funzioni finora esercitate dalle Province passeranno ad altri enti, fra cui Stato e Regioni. Ad esempio, i Centri per l’impiego potrebbero diventare parte di agenzie dello Stato o regionali. Nessuno dice che traslocare il personale in forza a questi uffici significa pagarli con i contratti regionali o statali (stipendio tabellare e trattamenti accessori), che costano di più rispetto a quelli degli enti locali.
Insomma, la conclusione è che è tutto da dimostrare se ci saranno effettivamente risparmi.
A proposito di funzioni, con la riforma rimarranno alle Province l’edilizia e la programmazione della rete scolastica e pianificazione in tema di trasporti e ambiente, oltre a controllare che non ci siano discriminazioni sui luoghi di lavoro in tema di pari opportunità. Per le città metropolitane, destinate a sostituire le Province, si aggiungono, tanto per semplificare le cose, infrastrutture, viabilità, mobilità, reti di servizi e sviluppo economico.
Apriamo una parentesi.
Con la riforma diventano città metropolitane Napoli, Milano, Torino, Bari, Bologna, Firenze, Genova, Venezia, Reggio Calabria e Roma, cui si uniranno Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste.
In Europa le città metropolitane sono venti in tutto. Ad esempio sono due in Francia, due in Germania e due in Spagna.
Solo in Italia saranno alla fine 15.
“Lascia fare – diceva Totò nella famosa scena della lettera nel film “Totò, Peppino e la malafemmina” – che non si dica che siamo provinciali”.
Sempre guardando oltre le Alpi si scopre che lo “svuota Province” va in controtendenza. In Germania le Province sono 400, 16 le Regioni e oltre 12mila i Comuni. Lì a non esistere non sono gli amministratori eletti dai cittadini, ma i prefetti nominati dal governo, come scrive in una nota stampa Antonio Saitta, presidente nazionale Upi.
Andiamo avanti. In Francia le Province sono 100 (26 Regioni e 36mila Comuni), mentre in Spagna hanno 17 Regioni, 50 Province e 8mila Comuni.
Ma noi siamo un laboratorio politico. E allora quando si dice che bisogna tagliare, si va ad incidere sulle Province dove la spesa pubblica vale l’1,27 per cento del totale, mentre possono continuare a dormire sonni tranquilli quelli che valgono il 60 per cento, cioè l’amministrazione centrale dello Stato, oppure le Regioni le quali 16 su 20 sono indagate a vario titolo dalla magistratura: dagli acquisti di giochini erotici, alle mutande verdi, allo champagne come se piovesse.
Dicevamo della Germania.
Se c’era una cosa buona nella riforma Monti (cassata per incostituzionalità perché il professore ha fatto l’errore di usare un decreto legge che vale solo per motivi di necessità e urgenza), era che la riduzione per accorpamento delle Province sarebbe andata di pari passo con il taglio di uffici periferici dello Stato (Prefetture, Questure,Tribunali …). Lì sarebbe stato il risparmio.
Invece si è preferito colpire un’istituzione che, come visto, non è un’anomalia nel panorama continentale e soprattutto un livello di espressione diretta dei cittadini.
Proprio la questione democratica pone più di un interrogativo.
Per Luigi Oliveri, che scrive su www.lavoce.it il 10 gennaio scorso, con il subentro dei sindaci al governo delle Province avviene di fatto un’espropriazione per i cittadini. Infatti, gli elettori di un sindaco, eletto per risolvere i problemi di una città, si trovano con la riforma Delrio ad incidere su questioni amministrative di altre realtà territoriali.
A questo aspetto altri se ne aggiungono che non convincono.
Va bene tagliare i costi della politica, ma pretendere che presidenti di Provincia e sindaci metropolitani possano governare territori vasti – e cioè assumersi responsabilità amministrative, penali e civili – come se svolgessero una comune attività di volontariato, francamente fa sorridere.
Non è comprensibile, inoltre, come un sindaco di Ferrara, eletto dai cittadini di Ferrara, possa farsi venire il mal di pancia per una linea bus, oppure per la riparazione di una scuola a Mesola, piuttosto che a Cento.
E questo vale tendenzialmente per ognuno dei 10 (massimo 16) sindaci che siederanno nei nuovi Consigli (sempre, per giunta, gratis). E, restando alla realtà ferrarese, gli altri 14 Comuni non rappresentati in Consiglio? Chi penserà a far sentire la loro voce?
Restando alla questione democratica, ci sono livelli decisionali che riguardano quisquilie come lo sviluppo economico e la situazione idrica del territorio, che tuttora sono gestiti prescindendo da ogni criterio democratico. Perché le decisioni delle Camere di Commercio o dei Consorzi di bonifica devono essere materia esclusiva di ristrette rappresentanze e non dei cittadini tutti?
Invece si è preferito azzerare uno spazio democratico, peraltro in un periodo nel quale la democrazia – come concetto, cultura, tentazioni populiste e numero di coloro che non vanno più a votare – non sta godendo di ottima salute.
Gira una battuta: fra Delrio e delirio c’è solo una “i” di differenza.
L’impressione è che quella “i” potrebbe presto presentare un conto ben più salato di quanto si pensi di risparmiare.
Nuove tecnologie a costi accessibili per monitorare la nostra salute. Si tratta di strumenti che rilevano diversi indicatori biochimici e li comunicano in tempo reale. Questo estremo controllo sulla salute farà la felicità di un gran numero di ipocondriaci e, ovviamente, dell’enorme giro di business che ruota attorno alle nuove app per la salute? O, al contrario sarà un servizio per le persone e un contributo alla individuazione di più efficienti metodi di cura? Come sempre, entrambe le risposte colgono una parte di verità.
I modelli di telemedicina – e le relative soluzioni – nascono dall’esigenza di risparmiare, sopperire alla carenza di personale medico, fornire teleassistenza, monitorare i pazienti dimessi o cronici che, comunicando i valori biomedici, ricevono indicazioni e consigli su alimentazione e dosaggi dei farmaci. Certo rappresentano vantaggi perché offrono sicurezza ai pazienti (pensiamo a cardiopatici e diabetici), facendo risparmiare fatica, tempo e denaro pubblico.
La ricerca ha dato vita, accanto al mercato dell’e-health, ad un nuovo enorme mercato: quello delle app per il fai-da-te della salute. I dispositivi che non hanno bisogno di un professionista per essere applicati e per l’interpretazione dei dati sono già molti. Alcuni esempi: un holter Ecg wireless che viene collegato al petto e indossato sotto i vestiti e avvisa l’utente di eventuali aritmie; sensori che rilevano i livelli di glucosio, li convertono in curva e consentono di monitorare l’andamento glicemico, un cerchietto indossabile che legge le onde cerebrali per controllare stanchezza e concentrazione, visualizza le onde sullo smartphone e suggerisce esercizi; un gilet che misura la pressione arteriosa, comunica via bluetooth con lo smartphone a cui trasferisce i dati; un bracciale che misura il battito cardiaco e il livello di ossigeno nel sangue per monitorare lo stato di affaticamento, un sensore collegato allo smartphone che promette di migliorare la postura avvertendo il soggetto dell’errore attraverso una vibrazione; non poteva mancare una bilancia che misura la distribuzione della massa corporea e offre indicazione su esercizi e dieta. Il global mobile healthcare market ha raggiunto i 6,6 milioni di dollari nel 2013 e toccherà i 20,7 milioni nel 2018 (Dati Markets and Markets – Dallas).
L’autodiagnosi consentirà di esprimere in tempo reale quantità di informazioni sulla nostra salute senza precedenti. Un’opportunità di ricerca epidemiologica straordinaria a basso costo, con la raccolta automatica da parte dei pazienti di una mole di dati utili al monitoraggio di patologie croniche. Vi è però una linea di confine sottile tra strumenti di controllo e autodiagnosi che può creare confusione e proporre rischi: in alcune app basta inserire sintomi per ricevere indicazioni di diagnosi e terapie.
Alcune prime considerazioni su un fenomeno in rapida crescita. Il confine tra servizi sanitari e gestione autonoma della salute è sottile, i rischi del fai da te e dell’autodiagnosi sono evidenti. Vi è il rischio di perdere una visione d’insieme del quadro clinico e, soprattutto, di annullare la relazione con il medico che è indispensabile strumento diagnostico, ma anche complemento della terapia, come dimostrano gli studi di neuroscienza sull’importanza del rapporto fiduciario medico paziente per la cura.
Non da ultimo, si crea un confine labile tra indicazioni di salute e di performance nel campo del wellness. Questo mi pare l’aspetto più preoccupante a livello di massa. Il rischio è di patologizzare i comportamenti (a partire da quelli alimentari, considerando l’alimentazione un insieme di ingredienti e di nutrienti) di medicalizzare la vita (inducendo un’ossessione per il controllo di parametri dentro cui portare colesterolo, pressione, affaticamento e indice di massa corporea), di diffondere “tecnologie persuasive” che valutino, al nostro posto, cosa ci fa stare bene.
Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it