L’Intelligenza Artificiale e l’uguaglianza di genere
In molti settori professionali, si registra attualmente una numerosità di maschi e femmine quasi uguale (medici, avvocati e insegnanti, per fare un esempio). Tale appartenenza professionale, anche se spesso accompagnata da un gender pay gap negativo per le donne, sta cambiando alcune abitudini e ridefinendo degli stili di relazione atavici.
Ciò non si può dire per l’intelligenza artificiale (IA). Il numero di donne che lavorano in questo settore è decisamente più basso di quello degli uomini. Secondo il World Economic Forum, le donne rappresentano solo il 22% dei professionisti dell’IA a livello globale; il 13,83% degli autori di pubblicazioni sul tema e solo il 18% degli autori delle principali conferenze sull’intelligenza artificiale.
Non solo questi numeri sono un affronto ai principi chiave di diversità e inclusione, ma attestano una mancanza di partecipazione femminile che si tramuta in un forte danno ideativo e produttivo. Si sa che tutti i settori produttivi sono tanto più efficaci quanto più diversificati in termini di genere.
Su richiesta dei suoi membri, l’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, la Comunicazione e l’Informazione) ha redatto una Raccomandazione sull’etica dell’intelligenza artificiale, che rappresenta il primo strumento di definizione di standard globali per l’IA. Tale raccomandazione è stata adottata da tutti i 193 Stati membri nel novembre 2021.
Il documento pone le basi per una trasformazione digitale che rispetti i diritti umani, la dignità umana, l’uguaglianza di genere e la sostenibilità ambientale. Promuove il raggiungimento di questi obiettivi attraverso un insieme interconnesso di valori, principi, azioni e politiche per guidare lo sviluppo e l’uso etico dell’IA.
La raccomandazione indirizza i governi a promuovere l’uguaglianza di genere, a garantire “diversità e inclusività” e a tutelare il principio di “equità e non discriminazione”, delimitando il framework etico per un imperativo di uguaglianza di genere nell’era digitale.
Le azioni concrete contenute nella raccomandazione includono:
destinare fondi al finanziamento di programmi legati al genere per la promozione del lavoro delle donnenell’IA;
garantire che le politiche digitali nazionali abbiano un piano d’azione di genere;
affrontare la questione dei divari salariali e di pari opportunità sul posto di lavoro, che da decenni rappresentano un grave ostacolo all’emancipazione economica delle donne;
incoraggiare l’imprenditorialità, la partecipazione e l’impegno femminile in tutte le fasi del ciclo di vita dell’IA;
investire in programmi mirati per aumentare le opportunità di partecipazione delle ragazze e delle donne nelle discipline STEM e ICT;
sradicare gli stereotipi di genere e garantire che i pregiudizi discriminatori non si traducano nei sistemi di intelligenza artificiale.
L’UNESCO sta inoltre sviluppando due strumenti innovativi – la metodologia di valutazione ex ante e la valutazione dell’impatto etico – per garantire che l’intelligenza artificiale venga utilizzata per promuovere i diritti di tutti gli individui, comprese donne e ragazze.
“Oggi ci troviamo di fronte a un bivio: la scelta tra il progresso e la replica delle disuguaglianze e delle discriminazioni del “mondo fisico” nel “mondo digitale”. Anche se la tecnologia digitale diventerà sempre più disponibile sul mercato, il divario digitale di genere è sempre esistito e continuerà ad esistere, a meno che non modifichiamo le norme sociali di genere.”
… e in Italia? Storie di donne
La situazione italiana rispecchia quella europea e i dati non sono confortanti per le donne. Eppure, una tradizione di grandi menti matematiche l’abbiamo proprio noi. Un esempio è Maria Gaetana Agnesi, la prima donna a cui fu offerta una cattedra onoraria in un’università italiana nel 1750.
Il suo lavoro più importante è Istituzioni Analitiche, un testo pensato come manuale di studio che trattava in maniera chiara e concisa le diverse aree della matematica: l’algebra, la geometria e i neonati calcolo differenziale e integrale. Era il primo lavoro sistematico di questo genere ad ottenne un notevole successo, non solo per la chiarezza e l’originalità di molte argomentazioni, ma anche perché aggiornava le teorie seicentesche con le nuove teorie elaborate nel XVIII secolo. Esso inoltre contiene nuovi procedimenti per la risoluzione delle equazioni differenziali.
Maria Gaetana Agnesi fu una donna straordinaria il cui lavoro attesta quanto il genere femminile abbia sempre portato contributi innovativi e originali anche nel settore STEM e nella delimitazione della strada che ha portato allo sviluppo dell’IA.
Attualmente il lavoro di Sarah Bird, Chief Product Officer di Microsoft, consiste nell’evitare che l’intelligenza artificiale generativa, che l’azienda sta integrando nelle sue applicazioni per l’ufficio e in altri prodotti, vada fuori controllo. Osservando i generatori di testo, come quello che alimenta la chatbot di Bing, diventare sempre più evoluti, si è resa conto che questi sistemi si stanno efficientando anche sul fronte della produzione di contenuti fuorvianti e di codici dannosi.
Il suo gruppo professionale lavora proprio per contenere questo lato pericoloso della tecnologia. Secondo la Bird, l’IA potrebbe cambiare molte vite in meglio, ma “nulla di tutto ciò è possibile se le persone sono preoccupate che la tecnologia produca risultati intaccati da stereotipi“.
A partire dagli anni ’90 in Italia il numero delle studentesse universitarie ha superato quello dei ragazzi in ogni settore, anche in matematica e in ogni campo scientifico, eccetto nell’informatica dove sono il 14,5% del totale. Proprio poche.
Ma che fare?
Così sostiene Paola Govoni, storica della scienza dell’università di Bologna: “Dovremmo puntare a una scienza che sia al di sopra dei pregiudizi, sostenibile, rispettosa di ambiente, minoranze e diversità. E questo si raggiunge solo con la presenza delle donne. Donne che vogliono occuparsi di scienza per cambiarla”
“La scienza: un gioco da ragazze!”
Non si può che essere d’accordo con affermazioni di principio di tale levatura, anche se poi concretamente si fa fatica a trovare una strada per invertire la rotta. Far sì che le ragazze si appassionino alle materie STEM e trovino lì un percorso di realizzazione professionale soddisfacente.
Alcune indicazioni europee consigliano di:
Suggerire alle ragazze il test promosso dalla Commissione Europea “La scienza: un gioco da ragazze!”. Con questo test le ragazze possono scoprire il lavoro più affine alle loro attitudini e passioni e scoprire professioni di cui forse non conoscevano nemmeno l’esistenza come l’immunologa, la neuroscienziata, l’ingegnere del software, l’ingegnere oceanografico, la biologa marina, l’ingegnere aerospaziale.
Suggerire la conoscenza delle associazioni che promuovono le materie STEM. Ogni giorno nascono nuove associazioni, laboratori o camp pensati appositamente per avvicinare le ragazze alle STEM. Per esempio, la Scuola di robotica, Stem Innovation Camp, La nuvola Rosa, CoderKids, etc.
Trovare professioniste con esperienza in ambito STEM che possano essere testimoni attendibili e autorevoli della carriera che una donna può fare in questo settore.
Mostrare quanto possono essere interessanti e internazionali le materie STEM.
Non so se questi consigli siano davvero utili, di certo possono fornire indicazioni e aumentare la conoscenza del settore, anche se poi i veri problemi riemergono come lapilli di un’eruzione vulcanica e galleggiano minacciosi come isole di lava nel mare.
Mi riferisco alla responsabilità del lavoro di cura, che grava prevalentemente sulle donne, alla scarsità di servizi di accudimento per i più piccoli e per gli anziani, allo sbilanciamento delle possibilità di carriera legata alle interruzioni per maternità, che impediscono alle donne di accedere ai ruoli apicali, alla presenza di una costante segregazione verticale (tetto di cristallo) e anche di stereotipi, che portano a ritenere le donne più adatte ai lavori di accudimento e meno a quelli tecnici.
Tutti questi fenomeni sono in attenuamento e quindi forse aumenteranno anche le ragazze che intraprendono carriere legate alle STEM. Mi auguro che il loro percorso non sia troppo accidentato e che non le faccia pentire, ad un certo punto della loro carriera professionale, della scelta fatta. Se così fosse non avremmo fatto dei gran passi avanti ma solo “incastrato” delle donne in carriere professionali che alla fine risulteranno, per loro stesse, non soddisfacenti.
Penso anche che le libertà di scelta individuale vadano rispettate e se, vivere in certi contesti ambientali e lavorativi, facilita la serenità lavorativa e la progressione di carriera, magari attenzionando la conciliazione che resta un problema femminile, allora questi vadano sponsorizzati e consigliati.
Alla fine, conta di più la qualità della vita, che la missione “impossibile” di cambiare il mondo in poco tempo. Dipende dalle convinzioni personali, dalle scelte di vita, dall’ambiente in cui le donne sono cresciute, dalla consapevolezza che certi percorsi impongono. Non tutte sono delle novelle Giovanna D’Arco.
Anche di tutto questo si deve tener conto quando si consiglia a una donna una carriera professionale. Il mondo si può cambiare nelle piccole cose, come nelle grandi. Ad ognuno la sua missione, tenendo anche conto della fattibilità e dell’attenzione ad una possibile qualità della vita.
Mi rivolgo infine agli uomini: quanto siete davvero disposti a volere come compagna un ingegnere aerospaziale che dedica al suo lavoro tutte le sue migliori risorse ed è disposta per questo a delegare i lavori di cura? Credo che la risposta a questa domanda possa fare la differenza.
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“La democrazia non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”. Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità e uguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine e non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che possano diventare, a loro volta, maggioranze. È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società. Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare la basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro. Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune. “. [Sergio Matttarella, presidente della Repubblica]
Giorgia Meloni ha definito la riforma costituzionale che introduce l’elezione diretta del presidente del consiglio in Italia, la “madre di tutte le riforme”. L’obiettivo, sostiene la presidente, «è garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi farsi governare mettendo fine alla stagione dei ribaltoni». Nelle intenzioni del governo, questa norma vuole evitare che il risultato delle elezioni sia modificato con cambi di maggioranza durante la stessa legislatura.
La riforma è stata approvata dal Senato il 18 giugno e ora dovrà essere esaminata dalla Camera.
L’articolo 138 della Costituzione italiana infatti prevede due votazioni in ognuno dei rami parlamentari. Una riforma costituzionale va approvata con maggioranza assoluta in seconda votazione. Ma potrebbe essere molto difficile per Giorgia Meloni ottenere un sostegno così ampio.
Il referendum è quasi automatico per riforme costituzionali che non hanno due terzi dei voti in Parlamento (com’è già successo nel 2016 con la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi che fu respinta dagli elettori così come dieci anni prima nel 2006 fu respinta dal 61% degli italiani la riforma costituzionale proposta da Berlusconi che riguardava fra l’altro proprio un premierato forte e la devoluzione dei poteri alle regioni).
Il testo della riforma approvato in ogni caso può essere sottoposto successivamente a referendum su richiesta di 500 mila elettori, di un quinto dei membri di una camera o di cinque Consigli regionali, tranne nei casi in cui, come già precisato, le camere abbiano approvato in seconda deliberazione con la maggioranza dei due terzi dei componenti.
Ricordiamo che nei referendum costituzionali non c’è il quorum.
Liliana Segre, che raramente interviene in aula, in un discorso al Senato, ha messo in guardia sugli aspetti inquietanti di questa riforma: “Non posso e non voglio tacere”, ha detto la senatrice nel suo intervento di 12 minuti. Il rischio è il dominio assoluto del capo del governo. Al fianco di Liliana Segre si è alzata la voce di 180 costituzionalisti: “La riforma distrugge il principio della separazione dei poteri, non possiamo tacere”.
Intanto il 19 giugno è stato approvato definitivamente dalla Camera il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Pochi giorni dopo la presidente Meloni ha pubblicato un video per fare chiarezza sulla riforma e cogliere l’occasione per sostenere che il lavoro del governo, cito testualmente: “Va avanti a passi spediti per riformare questa nazione nonostante l’opposizione feroce di chi pur dicendo ogni giorno che in Italia molte cose non vanno bene ci propone come unico programma quello di lasciare tutto com’è. Però noi abbiamo preso degli impegni con gli italiani che ci chiedevano un cambiamento e intendiamo rispettare quegli impegni. Non a caso in meno di venti mesi abbiamo già avviato diverse importanti riforme”. E tra queste cita anche quella della giustizia.
Premierato, autonomia differenziata e depotenziamento dei poteri e dell’autonomia della magistratura tre riforme che potrebbero, secondo l’allarme di alcuni esperti e giuristi, disfare l’Italia.
Il costituzionalista, Michele Ainis, per esempio, è stato durissimo. Ha scritto su Repubblica, riferendosi a premierato e autonomia differenziata,: “Una riforma al giorno leva la Costituzione di torno. Lunedì il premierato, martedì l’autonomia differenziata. Oggi riposo, se lo sono meritati. Ma la domanda è se la meritano gli italiani, questa doppia innovazione? ”La Costituzione non è intoccabile, dice Ainis, ma il punto cruciale è cosa si vuole toccare e soprattutto come. Bocciando sonoramente le scelte del governo Meloni perché per entrambe le riforme viene meno un criterio fondamentale delle democrazie costituzionali e cioè quello dei pesi e contrappesi dei principi costituzionali, che – scrive Ainis – si compensano a vicenda, si bilanciano, si tengono in reciproco equilibrio. Né più né meno dei poteri dello Stato. Giacché dove c’è un potere, a fronteggiarlo dev’esserci un contropotere. Per impedirgli abusi, per evitare il rischio che la potenza del governo divenga prepotenza verso i cittadini”.
Ecco i cittadini. Secondo la sondaggista Alessandra Ghisleri, solo un italiano su 3 promuove le riforme ma oltre il 20 per cento non è informato.
Sabato 13 luglio 2024, dalle 20 alle 23, in Piazza Lucio Dalla è in programma “Bologna abbraccia il Brasile”, una festa solidale che lancerà l’omonima campagna di raccolta fondi per aiutare la popolazione brasiliana dello stato Rio Grande del Sud, alluvionata dalla scorsa primavera. Sarà una serata ricca di ospiti, con tanta musica, la possibilità di gustare cucina gaucha e raccogliere fondi da destinare alle Cucine popolari di Porto Alegre, Santa Maria e Alvorada.
L’iniziativa è promossa dalle Cucine popolari di Bologna, le Cucine popolari di Cesena, Le Cucine popolari di Cervia, Estragon club e l’organizzazione non profit internazionale Associação Rede Unida in collaborazione con Volabo – Centro Servizi per il volontariato della città metropolitana di Bologna, Comitê Popular de Luta Italia, Partido Trabalhista Brasileiro nucleo di Bologna e Ristorante Brasiliano O’Corcovado di Casalecchio di Reno.
Hanno già dato la loro adesione all’evento ANPI Bologna, CGIL Bologna, CISL Bologna e CSV Emilia. Sono in fase di richiesta i patrocini a Comune di Bologna – Quartiere Navile e Regione Emilia-Romagna.
L’alluvione in Brasile e l’invito alla solidarietà
Lo stato brasiliano di Rio Grande do Sul (Rio Grande del Sud) è duramente colpito dagli eventi climatici estremi che si sono verificati a fine di aprile e nel mese di maggio. Piogge intense, vento forte, inondazioni e smottamenti hanno coinvolto 478 comuni su un totale di 497 in un territorio che è grande circa 12 volte la nostra regione. Secondo i dati pubblicati dalla Defesa Civil (la protezione civile locale) il 2 luglio 2024 si contano 2.398.255 persone alluvionate, di cui sono oltre 800 quelle ferite, 32 le disperse, oltre 180 le morti accertate. In questo scenario particolarmente complesso, le squadre di soccorso e i volontari sono impegnati ad evacuare cittadini, gestire postazioni d’emergenza, raccogliere e consegnare beni di prima necessità. Le immagini che arrivano dal Brasile non sono diverse da quelle dell’alluvione in Romagna dello scorso anno: città, paesi e grandi terreni sommersi dai fiumi esondati, ponti letteralmente inghiottiti da acqua e fango, edifici distrutti e negli occhi delle persone paura, disperazione e tante altre emozioni che si mescolano insieme.
Con il duplice obiettivo di alimentare la speranza e garantire i pasti alle oltre 400 mila persone sfollate, le Cucine popolari di Bologna e di Cervia hanno accolto l’appello lanciato dalla Rede Unida e hanno scelto di gemellarsi con le Cucine popolari di Porto Alegre, Santa Maria e Alvorada. Anche Estragon club e tutte le realtà che collaborano hanno risposto alla chiamata, mettendo la loro competenza per organizzare questa grande festa solidale. Da quando l’emergenza è in corso alcune mense hanno infatti incrementato la loro attività. La cucina Associação de mulheres Maria da glória di Porto Alegre, ad esempio, è passata da 2 a 7 giorni di apertura, e da 600 a 1800 pasti distribuiti alla settimana. Sostenere per il tempo necessario questo impegno è sempre più difficile e l’aiuto della cittadinanza bolognese può fare davvero la differenza. Per questo il 13 luglio sarà lanciata la campagna di raccolta fondi “Bologna abbraccia il Brasile”.
“La Rede Unida è un’entità scientifico-culturale con sede in Brasile in cui si riconoscono Università, Governi statali, Municipali e movimenti sociali. Ha collaborazioni con entità internazionali tra cui l’OPAS/OMS, referenti istituzionali nella maggior parte degli stati centrali e sudamericani oltre ad alcuni paesi europei – spiega Maria Augusta Nicoli ex-dirigente dell’Agenzia sanitaria e sociale regionale Emilia-Romagna e vicecoordinatrice della Rede Unida. – L’associazione esiste da oltre 39 anni e negli ultimi 10 anni si è stretto un rapporto particolarmente fruttuoso con la Regione Emilia-Romagna realizzando il Laboratorio Italo-Brasiliano di Ricerca, Formazione e Pratiche in Salute collettiva e progetti per lo sviluppo delle politiche pubbliche universalistiche nel campo della salute e del welfare. Questo ha portato a condividere la necessità di rafforzare reti collaborative per alleanze che possano agire non solo nei momenti di solidarietà, come questo, ma anche per esprimere una visione del mondo in cui prevalgano scelte che non mettano a rischio le nostre vite in nome di un benessere costruito sulla violazione e lo sfruttamento intensivo dell’ambiente. Il 13 luglio è l’occasione per stringersi insieme in un abbraccio che possa esprimere vicinanza e nello stesso tempo restituirci la consapevolezza che solamente con questi legami solidali possiamo offrire delle alternative alla deriva di impotenza e di sfiducia che ci avvolge”.
Il programma della serata
Sabato 13 luglio, dalle 20 alle 23 sul palco di Piazza Lucio Dalla si alterneranno musicisti italiani e brasiliani e personaggi noti del mondo della cultura e dello spettacolo per condividere con la cittadinanza il messaggio di solidarietà. Tra gli ospiti confermati in presenza ci sono I gemelli Ruggeri – duo comico formato dagli attori Luciano Manzalini ed Eraldo Turra -, i musicisti Nelson Machado, Rogerio Tavares, Silvia Donati e Fabio Testoni – alias Dandy Bestia degli Skiantos -, il cantautore bolognese Federico Aicardi, DJ Farrapo, il giornalista Luca Bottura. Tra coloro che non potranno essere presenti ma parteciperanno con un video messaggio ci sono Milena Gabanelli, Danilo Masotti, Andrea Mingardi, Gianni Morandi. Ma siamo in attesa della conferma di altri personaggi che intendono portare il loro contributo, tra cui il Cardinale Matteo Maria Zuppi.
La conduzione dello spettacolo è affidata al poliedrico Eros Drusiani, scrittore e attore.
I cittadini potranno conoscere più da vicino le Cucine popolari di Alvorada, Porto Alegre e Santa Maria a cui saranno devolute le donazioni grazie ai video messaggi che arrivano direttamente dai loro volontari.
Durante tutta la serata sarà possibile assaporare la cucina gaucha presso il punto di ristoro allestito dal Ristorante Brasiliano O’Corcovado di Casalecchio di Reno e compiere così un piccolo gesto solidale, perché il ricavato sarà devoluto alle Cucine popolari oltreoceano.
La raccolta fondi proseguirà martedì 23 luglio dalle 20 alle 23 presso la Cucina popolare “Cucinasorriso” di Cervia, in via Levico 11A, in occasione della festa organizzata dai volontari prima della sospensione delle attività prevista nel mese di agosto. La serata avrà come protagonista “la cozza di Cervia” donata dalla cooperativa La Fenice mitilicoltura e cucinata dalle chef Loriana Massj e Maria Cristina Cellini. Gli interventi istituzionali e musicali animeranno la cena, il cui ricavo sarà destinato al sostegno delle cucine popolari brasiliane di Porto Alegre, Sanata Maria e Alvarado.
In copertina: un’immagine delle inondazioni che lo scorso maggio hanno colpito in Brasile lo stato di Rio Grande do Sul; il bilancio provvisorio : 83 vittime, 300 feriti, 110 dispersi e decine di migliaia di sfollati.
«Dunja, mi dice il nomade, da noi, significa universo. Rinnova occhi d’universo, Dunja» perché «il carnato del cielo sveglia oasi al nomade d’amore»
(G. Ungaretti, Vita d’uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1996, 324; 28).
È questo che fa l’itineranza poetica di Ungaretti, pregna di un lirismo nomade, straniero, errante. Così al girovago d’amore cova in cuore il desiderio di allargare la sua tenda a misura e con occhi d’universo. Occhi che brillano come stelle e invitano ad essere luminosi; occhi che ascoltano la luce nella notte e che per questo trovano un varco nella paura, si orientano tra le dune movimentate dal vento.
Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle
Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore del cielo
Mi riconosco
immagine
passeggera
Presa in un giro
Immortale
(ivi, 86)
È con questo respiro, che aggiunge respiro a respiro e a ciò che passa un abbraccio d’eternità, che presento gli scritti di Francesco LavezziDal palazzo alla tenda. Cronache ecclesiali nel cambiamento, CedocSFR, Ferrara 2023. Sono 38 articoli raccolti nel Quaderno 49 del Centro di documentazione di S. Francesca scritti tra il 2013 e il 2023.
Scrive Francesco nella premessa: «Sono tutte riflessioni che si sviluppano attorno a temi di carattere ecclesiale e nell’ambito del cristianesimo. Dei 38 articoli qui raccolti, 36 sono stati pubblicati su Ferraraitalia (nel frattempo diventata Periscopio) e questo è un motivo di gratitudine ai direttori di questa testata ferrarese on line, dapprima diretta da Sergio Gessi (che ne è stato il fondatore) e ora da Francesco Monini.
Ad entrambi sono grato per avere dato ospitalità a queste mie riflessioni, che ho potuto svolgere in totale libertà. Lo considero un privilegio per un dilettante come me, che non ha certo la presunzione di proporsi come esperto.
Il penultimo saggio, dedicato alla morte di papa Benedetto XVI, è stato pubblicato su Ferraraitalia-Periscopio solamente nella prima parte, relativa alla cronaca dei giorni attorno ai funerali di Joseph Ratzinger. La parte, invece, che completa il saggio è un approfondimento inedito cui ho ritenuto di dover dare corso, anche grazie ai preziosi suggerimenti di lettura di Massimo Faggioli. L’ultimo testo è completamente inedito e vuole essere una riflessione – ancorché parziale e personale – sull’attuale pontificato in corso di papa Francesco» (ivi, 3).
Abramo partì senza sapere dove andava
La Chiesa se non è comunità in uscita non è chiesa. Così il suo tornare ad abitare le tende indica il ritorno a camminare con Dio nel deserto, un ritornare all’autenticità dell’esistenza che è incontro, dialogo verso gli spazi aperti dal futuro di Dio, sostenuti dalla speranza nelle sue promesse.
Non è solo il papa in cammino dal palazzo alla tenda, ma tutta la chiesa stessa e ciascuno di noi convocati da lui, chiamati fuori, in stile sinodale per una riforma ecclesiale di natura missionaria, affinché il vangelo torni ad essere l’Evangelii gaudium.
Così le “cronache ecclesiali nel cambiamento” di Francesco Lavezzi si sviluppano come una mappa testuale offerta ai lettori per rileggere gli avvenimenti più significativi, gli snodi e le tappe dottrinali ed esistenziali di un tratto del cammino della chiesa e della società, confrontando le dinamiche tra comunità e mondialità, località e globalità, a partire da quel passante di valico che è stato il Concilio vaticano II.
Se l’evento conciliare è stato definito come una primavera dello Spirito, di contro un ritorno alla stagione invernale è stata la sua difficile recezione e interpretazione.
Un cammino accidentato, faticoso, controverso; segnato da fratture e ricomposizioni, conflitti e riequilibri; quel difficile camminare insieme con chi guarda ancor oggi indietro, con la nostalgia del tempo perduto e vorrebbe il ricostituirsi di una cristianità ormai perduta e con chi guarda in avanti come Abramo nonostante tutto con speranza, perché il Cristo risorto precede sempre i suoi in avanti nella Galilea delle genti che è l’umanità:
«Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa» (Eb 11, 8-9).
Dal palazzo alla tenda
Le parole rivolte da Dio ad Abramo nella rilettura che ne fa papa Francesco (nel Discorso per la XXXVII Giornata mondiale della Gioventù a Lisbona 2023) sono parole rivolte anche alla chiesa di oggi, chiamata a vivere un nuovo tempo della sua storia, a volgersi di nuovo verso gli uomini di oggi in un tempo definito dal papa con un’espressione divenuta paradigmatica “non un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca”.
Ecco le sue parole: «Alzati! Alzati, cammina, non stare fermo. Tu hai un compito, tu hai una missione e devi compierla in cammino. Non rimanere seduto: alzati, in piedi».
E poi come a voler giustificarsi di fronte a tante resistenze e obiezioni, ai dubia di alcuni eminentissimi che lo accusavano di far deviare la chiesa fuori dall’ortodossia, verso un relativismo dottrinale e morale, verso un umanitarismo o sincretismo religioso, Francesco continua a ribadire che «non è la chiesa che deve seguire me sono io che seguo la chiesa… Semplicemente predico la dottrina sociale della Chiesa. Non è un fatto politico, è un fatto catechetico… non svendo la dottrina ma seguo il concilio».
Un cammino quello di Francesco con la chiesa del concilio, nel solco della singolarità cristologica, del Cristo sempre più grande, della fraternità tra i popoli, della cura del creato, nel servizio ai poveri, con stile dialogico, ecumenico e sinodale.
Di deviazione verso l’antropocentrismo furono pure le accuse da cui dovette difendersi Paolo VI nell’indimenticabile discorso dell’ultima sessione conciliare 7 dicembre 1965:
«Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì».
Dal palazzo alla tenda è l’invito a ripartire con un nuovo stile ecclesiale, a partire dalla scelta preferenziale dei poveri e questi non stanno nei palazzi dei re, ma nelle periferie vicine e lontane. “Io seguo la chiesa” e seguirla per Francesco significa sapere che «non si tratta solo della centralità della dottrina sociale della chiesa, ma del primato dello stesso vangelo. Prima i poveri. Passa da loro il Regno di Dio».
Nel testo di papa Francesco risuonano e si amplificano le stesse parole di Giovanni XXIII all’apertura del concilio e la sua intenzione programmatica: l’attenzione ai poveri, insieme all’istanza ecumenica e all’apertura alla mondialità e alla ricerca della pace sulla terra:
«La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». L’opzione per i poveri così intesa non consiste pertanto solo nell’aiutarli, ma nell’essere evangelizzati da loro e nell’accettare che attraverso di essi debba fondarsi e stabilirsi il Regno di Dio.
Sempre in cammino, ad ogni sosta allargando e la tenda
“Chiesa in uscita” è espressione familiare, conosciuta ormai da tutti, definitivamente entrata nel nostro modo di pensare e di dire lo stile di chiesa, se vuole rendere reale il sogno che lo Spirito ha ispirato alla chiesa a Pentecoste: «La Chiesa o è ‘in uscita’ o non è Chiesa, o è in cammino, allargando sempre il suo spazio (la sua tenda) affinché tutti possano entrare, o non è Chiesa» (Udienza 23 ottobre 2019).
Non è il palazzo il luogo in cui nasce e si sviluppa la fiducia, la fraternità, ma è nel dimorare sotto le tende che si rinnova continuamente la fede, la speranza e la carità del Vangelo, incamminati verso l’orizzonte di “fratelli tutti”.
E così ancora il pensiero del papa si rivolge alla figura di Abramo: «A me piace vedere come si ripete in questo passo, e in quelli di questo capitolo che seguono, che Abramo non edifica una casa: pianta una tenda, perché sa che è in cammino e si fida di Dio, si fida».
E «lui, il Signore, gli farà sapere quale sarà la terra. Abbiamo letto che l’ha fatta vedere: “Alla tua discendenza, io darò questa terra”». Da parte sua, «Abramo cosa edifica, una casa? No, un altare per adorare il Signore: fa il sacrificio e poi prende la tenda e continua a camminare».
È perciò «sempre in cammino». Un atteggiamento che ci ricorda che «il cristiano fermo non è vero cristiano: il cammino incomincia tutti i giorni al mattino, il cammino di affidarsi al Signore, il cammino aperto alle sorprese del Signore, tante volte non buone, tante volte brutte — pensiamo a una malattia, a una morte — ma aperto, perché io so che tu mi porterai a un posto sicuro, a una terra che tu hai preparato per me».
Ecco allora, prosegue il papa, «l’uomo in cammino, l’uomo che vive in una tenda, una tenda spirituale: l’anima nostra, quando si sistema troppo, si installa troppo, perde questa dimensione di andare verso la promessa e invece di camminare verso la promessa, porta la promessa e possiede la promessa. Ma questo non va, non è propriamente cristiano» (Meditazione a Santa Marta, 26 giugno 2017).
In un discorso del 25 luglio 2022 ritorna sul tema della tenda: «La tenda ha un grande significato biblico. Quando Israele camminava nel deserto, Dio dimorava in una tenda che veniva allestita ogni volta che il popolo si fermava: era laTenda del Convegno. Ci ricorda che Dio cammina con noi e ama incontrarci insieme, in convegno, in concilio. E quando si fa uomo, il Vangelo dice, letteralmente, che “pose la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14).
Dio è Dio della vicinanza, in Gesù ci insegna la lingua della compassione e della tenerezza. Questo si deve cogliere ogni volta che veniamo in chiesa, dove Egli è presente nel tabernacolo, parola che significa proprio tenda. Dio dunque pianta la sua tenda tra di noi, ci accompagna nei nostri deserti: non abita in palazzi celesti, ma nella nostra Chiesa, che desidera sia casa di riconciliazione».
Una traccia per la memoria storica e il discernimento per l’oggi
Il pregio di questa raccolta di articoli sta nel fatto che costituiscono una traccia per la memoria storica della nostra chiesa diocesana; offrono, uno spaccato del dibattito ecclesiale e pubblico visto dalla sua recezione locale.
Sono riflessioni che si sviluppano insieme agli avvenimenti, scritti strada facendo con il cammino ecclesiale, mossi non già da un interesse giornalistico o storico, ma con la passione di chi cerca di comprendere oltre la superficie dei luoghi comuni o, come ha scritto recentemente la teologa Marinella Perroni, “il male della banalità”.
Quasi tutti sono testi contemporanei ai fatti che descrivono, ma non rappresentano affatto un’opinione personale a caldo. Sono al contrario meditati e ricompresi nel tempo attraverso il confronto, l’ascolto di altre riflessioni; ripropongono, così come un puzzle, una sintesi degli interventi e delle competenze di altri osservatori di questi avvenimenti con l’obiettivo di ampliare l’orizzonte della comprensione e delle interpretazioni e renderle maggiormente intelligibili.
Sono testi frutto dalla ricerca e dello studio, che non si fermano al fatto di cronaca, agli eventi presi in sé, ma li collegano fra loro, li approfondiscono, tenendo conto di tutte le voci coinvolte nel dibattito, coì da mostrare gli eventi nel dispiegarsi dei processi che li hanno determinati senza temere di prevedere quelli che potrebbero determinarsi.
Questi scritti sono preziosi perché costituiscono un non comune esercizio di discernimento per l’intelligenza della fede dentro alla chiesa nel suo divenire nella storia.
Ci offrono pure uno stile, un metodo pedagogico di come affrontare il compito non facile di declinare per la propria fede e per la vita ecclesiale fede e storia, fede e vita, fede e servizio di umanità, che credo siano, da sempre, le sfide più impegnative per i credenti e che da sempre originano e rendono credibile la loro testimonianza.
Anche il poeta ostinato nomade dell’assoluto deve continuare ad andare, per sé e per gli altri, in cerca di una terra che non c’è: «Non ho che strade, strade, e strade: il grigio perfido di questo cammino senza conclusione», eppure terra promessa.
Girovago
In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare
A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto
E me ne stacco sempre
straniero
Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute
Godere un solo
minuto di vita
iniziale
Cerco un paese
Innocente
(G. Ungaretti, Vita d’uomo, 399; 85).
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In Gran Bretagna vincono i laburisti del moderato Keir Starmer
Dopo 14 anni di Governi dei Conservatori (Tory) dal 2010, vanno al Governo i Laburisti. Più che una vittoria dei Laburisti è stato un suicidio dei Conservatori minati anche dal nuovo partito di Farage di estrema destra (quello della Brexit) che ha avuto un enorme successo (14,3%). Così col sistema uninominale (un po’ medievale di GB) poiché chi arriva primo viene eletto, i laburisti ora hanno praticamente (con gli stessi voti di Corbyn del 2019) la maggioranza assoluta del Parlamento (411 seggi su 650).
Il nuovo segretario Starmer, un moderato figlio di operai, con lo slogan “cambiamento nella stabilità” ha avuto il 33,8% dei consensi (molto meno del previsto), mentre i Tory sono scesi dal 43,6% al 23,7% anche a causa del nuovo partito di estrema destra di Nigel Farage (Reform UK) che ha sottratto voti ai Conservatori. I Liberal democratici sono arrivati quarti con il 12,2% (11,5% nel 2019) e i Verdi quinti con una grande avanzata dal 2,7% al 6,8% (ma con solo 4 seggi). Gli altri seggi vanno ai partiti nazionali.
Come ho detto, più che una vittoria dei Laburisti è stato un suicidio dei Conservatori che hanno portato la Gran Bretagna a veder peggiorare molti indicatori.
Bisogna però risalire al 2008 per capire bene quanto è avvenuto. La crisi dei subprime made in Usa portò in recessione tutto il mondo ma mentre gli Stati Uniti ne uscirono dopo un anno con politiche espansive, l’Europa (dentro cui stava anche GB) ha seguito politiche di austerità ancora più dure di quelle della BCE di Draghi che solo dopo 4 anni (nel 2012) cambia registro con una politica monetaria espansiva passata alla storia recente sotto il nome di “Whatever it takes”. I Tory andati al potere nel 2010 hanno proseguito invece le politiche di austerità anche dopo il 2012, privatizzato parte della sanità pubblica e hanno cambiato 7 Governi in 14 anni creando un caos a cui gli inglesi non erano mai stati abituati. Il deficit pubblico è salito dal 70% al 100% del Pil (cosa inaudita per gli inglesi), le disuguaglianze sono cresciute, i poveri pure (da 100mila a 3,1 milioni) e nulla funziona più bene come prima: buche nelle strade, nella sanità il numero in lista di attesa per un’operazione è salito da 4,5 del 2019 a quasi 8 milioni di oggi, i servizi sociali non sono più quelli di una volta. L’unica cosa che cresce è l’occupazione (i disoccupati si sono dimezzati) ma perché è trainata dall’immigrazione che è esplosa (sempre più extra UE) e che i tories non solo non hanno diminuito, ma triplicato dal 2019 al 2024 dopo la Brexit, nonostante la proposta di Sunak di mandare gli irregolari in Ruanda ad un costo, peraltro, altissimo.
Si è così creato un diffuso malcontento (anche tra gli elettori tory) che è stato inizialmente incanalato nella Brexit (2016-2019), nella speranza che fossero vere le balle raccontate da Nigel Farage sugli enormi vantaggi della stessa(tra cui 380 milioni in più a settimana per la sanità pubblica). Quando gli inglesi hanno scoperto che la Brexit non portava nessun vantaggio, ma costi in più (come i 150mila impiegati in più alle dogane), prezzi più alti e problemi nel commercio per le imprese, la collera è salita e Keir Starmerl’ha catturata con un programma molto soft e moderato che non cambierà più di tanto le cose in GB, ma almeno dovrebbe dare (sperano gli elettori) più certezze e qualche vantaggio in più in economia, sanità e immigrazione che sono i tre temi, come dice il Financial Times, che hanno contato. C’è anche la creazione di una società energetica pubblica con la promessa di ridurre le bollette…mentre da noi è stata abolita (lo vogliono la UE e Draghi) con il risultato che abbiamo 700 utility e le bollette sono salite.
Non è invece vero quanto ha scritto Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera, e cioè che dal 2019 ad oggi con l’uscita dall’euro la Gran Bretagna abbia perso 1,8 milioni di occupati. Non è neppure vero che i salari negli ultimi 4 anni abbiano perso 2mila sterline a testa. I dati del Servizio statistico nazionale dicono esattamente il contrario: l’occupazione è cresciuta dopo la crisi del Covid, di cui la metà nel settore pubblico, superando i livelli del 2019 e il salario settimanale medio è cresciuto da 496 sterline a 526 in termini reali (post inflazione), dati consultabili nel sito ufficiale [Qui]
Occupazione e immigrazione
Il fatto è che tutta la crescita occupazionale sta andando a vantaggio degli immigrati che ora si trovano sempre più spesso anche nella sanità e in edilizia e la cosa non piace a molti inglesi. Dal 2019 al 2024 con la Brexit gli occupati sono cresciuti, ma sono calati gli inglesi (-674mila) e gli Europei (-208mila), mentre sono cresciuti di un milione e duecentomila dai paesi del Commonwealth. Inoltre gli immigrati (che sono i lavoratori più poveri) catturano la maggioranza degli aiuti pubblici (universal credit): chi guadagna 15mila sterline può ricevere anche 6mila sterline all’anno di sussidio. Ciò crea enormi malumori quando sanità e servizi pubblici non funzionano più come una volta, ma non perché l’occupazione in questi servizi sia scesa (anzi), ma perché sono in grande crescita le richieste stesse dei cittadini: il 20% degli anziani sono inattivi e con gravi patologie e crescono le richieste di servizi.
D’altra parte le imprese chiedono sempre più immigrati, che sono appunto triplicati negli ultimi 4 anni facendo crescere di un milione i residenti in GB – e i posti vacanti sono ancora 903mila.
Ma per il cittadino “normale” è solo un grande caos, e questa “modernità” fatta di immigrati, traffico, buche nelle strade, servizi pubblici che non funzionano più a dovere, fiumi inquinati…fa dire che la Gran Bretagna di un tempo non c’è più. Allora dopo 14 anni di caos e di promesse (Brexit e altro) non realizzate, i Tory perdono, mentre il Labour avanza di poco, ma col sistema uninominale conquista la maggioranza. Il Labour ha però un compito enorme perché soldi non ce ne sono: se vuole migliorare i servizi dovrà tassare qualcuno. Per ora conta sulla famosa “crescita del pil”…che non ci sarà.
In termini di Brexit, per la verità, l’economia non è andata così male negli ultimi 4 anni ma i britannici hanno impiegato 12 anni per riprendere i salari che avevano nel 2008 e solo dal 2020 sono saliti sopra. Starmer (che era contrario alla Brexit) dice che non cambierà nulla.
La sanità pubblica qui è in crisi ma ha il triplo di occupati dell’Italia (sì, avete letto bene) e noi in Italia l’abbiamo pure tagliata! E’ poi esplosa con la Covid-19, creando un enorme malumore tra gli inglesi che considerano i loro servizi sociali pubblici intoccabili. Non c’è stato alcun taglio di personale, in realtà: la crisi è legata alle crescenti richieste di servizi sanitari.
Hanno pesato anche l’alta inflazione e la spesa nel settore militare (2,5% le spese per la difesa sul Pil) per via della guerra in Ucraina. Di conseguenza poco arriva ai cittadini in termini di migliori servizi e case, affitti e trasporti pubblici che hanno prezzi sempre più alti a causa dello sviluppo incessante delle città inglesi a discapito delle campagne. La gentrificazione produce sempre più pendolari e traffico. Ecco perché il Labour promette 300mila nuove case all’anno a costi minori, con mutui prima casa, togliendo il business alle multinazionali ma senza stravolgere le cinture verdi attorno alle città. Come ci riuscirà, è un rebus.
Starmer comunque piace anche perché ha un basso profilo, è un moderato (viene considerato saporito come un brodino) e parrebbe dare quella stabilità che i Tory hanno buttato al vento con 7 primi ministri, uno più inaffidabile degli altri. Ha dichiarato che lavora massimo fino alle 18 e poi si dovrà dedicare ai due figli di 13 e 16 anni: una bella e insolita dichiarazione per un politico, già avvocato (fu nel team di Ghedini per difendere Berlusconi nel 2013 alla Corte Europea…).
La lezione è che quindi si può vincere con gli stessi voti del 2019 se l’avversario fa la follia di dividersi in due partiti (Tory e Reform UK), e se non si mantiene ciò che si promette.
Ma non bisogna sottovalutare l’impresa che anche il Labour dovrà affrontare nei prossimi 5 anni: quella di una società che perde colpi sotto la disgregazione prodotta da globalizzazione e liberismo, che non riduce le disuguaglianze, non migliora il welfare, anche perché non si vogliono toccare le imposte sui ricchi.
Un altro tema sensibile, che tocca tutti i paesi è l’immigrazione. Farageha fatto boom col 14% (anche se ha solo 4 deputati) con lo slogan “immigrazione zero”. Ovviamente non è possibile in presenza (come anche in GB) del declino demografico, ma che essa debba essere regolata è fuori di dubbio se non si vuole che una gran parte degli elettori ti punisca al voto. La protesta è soft ma è forte anche qui. Molti immigrati lavorano 6 mesi e poi tornano in patria. Infatti anche il Labour ne ha fatto un punto centrale. Il programma-manifesto del Labour [vedi Qui] recita così: “Il livello complessivo deve essere controllato e gestito. In caso contrario, gli incentivi per le imprese a formarsi a livello locale diminuiscono. Quindi l’immigrazione netta sarà ridotta. Riformeremo il sistema di immigrazione basato su punti in modo che sia giusto e adeguatamente gestito, con restrizioni sui visti e collegando la politica di immigrazione e quella delle competenze. Il lavoro non tollererà che i datori di lavoro o le agenzie di reclutamento abusino del sistema dei visti. E non sopporteremo violazioni del diritto del lavoro. Ai datori di lavoro che infrangono le regole non sarà consentito assumere lavoratori dall’estero”.
Un altro aspetto molto sentito è stata la riforma sanitaria che prevede nel programma Labour 5 punti: “Ridurre i tempi di attesa del servizio sanitario nazionale con 40mila appuntamenti in più ogni settimana; raddoppiare il numero di scanner per il cancro; un nuovo piano di prevenzione dentistica; 8.500 operatori di salute mentale aggiuntivi; il ritorno del medico di famiglia”.
Italia e Gran Bretagna
Vorrei concludere con una breve riflessione di confronto tra gli occupati britannici e quelli italiani, che ci fa capire meglio anche il nostro paese. In Gran Bretagna ci sono 32 milioni di occupati rispetto ai 23,6 dell’Italia. Se GB (che ha 67 milioni) avesse la stessa popolazione dell’Italia (59) ne avrebbe il 13% in meno, cioè 28,6, cioè comunque 5 milioni di occupati in più. In GB i part-time sono il 25%, più dell’Italia (18%), ma la differenza di occupati rimane comunque (in termini di ore lavorate) enorme (20%). La nostra percentuale di lavoro nero e irregolare è superiore – anche se Istat dichiara che è già considerata nei dati sugli occupati.
L’Italia ha più del doppio di occupati in agricoltura e nell’industria manifatturiera ma meno in tutti gli altri settori, incluse le costruzioni, nonostante l’enorme quantità di case di proprietà degli italiani. In GB l’affitto è molto più diffuso; case e trasporti costano molto di più che in Italia (specie nelle città). C’è però un enorme lavoro per manutenere e migliorare le abitazioni, come si vede dall’occupazione nelle costruzioni che ha il 40% di occupati in più dell’Italia – nonostante il superbonus 110%, che in GB non sarebbe mai stato adottato, e che è andato a beneficio soprattutto dei più abbienti. Molti più occupati ci sono in tutte le attività bancarie e finanziarie (questo è noto), anche se alcune si sono trasferite dopo la Brexit in Europa. Meno nota è l’enorme quantità di occupati nei servizi di tutti i tipi, educazione e sanità incluse, in cui gli inglesi hanno sviluppato una enorme quantità di servizi dedicati a pagamento.
La nostra forza risiederebbe nell’agricoltura, nella manifattura e nel turismo. La nostra debolezza nella corruzione e nell’enorme evasione fiscale e contributiva e nella incapacità di generare lavoro: una palla al piede che ci ha portato ad avere un debito di quasi 3mila miliardi di euro che ci comporta spese annue di 83 miliardi per pagare questo “mutuo”, quando ne spendiamo solo 50 nella scuola. Così a soffrire è il nostro welfare state (educazione e sanità, in particolare, che a confronto con quelli inglesi hanno quasi la metà degli occupati).
Possiamo però dire che in 14 anni di Tory i britannici si sono avvicinati a noi: con un debito maggiore, servizi più scadenti, politici meno affidabili, immigrazione e disuguaglianze in crescita. Ricette facili non ce ne sono.
In copertina: Keir Starmer – foto BBC
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Giro nel nuovo Museo, da poco inaugurato, per il regista in questi giorni in Italia. Plauso al progetto: “luogo favoloso, grazie a Ferrara per averlo realizzato”.
Il 25 giugno, il grande regista Wim Wenders – che ha appena regalato al suo pubblico il meraviglioso ‘Perfect Days’ – ha fatto tappa a Ferrara per visitare lo Spazio Antonioni, inaugurato il 1° giugno scorso, un universo unico che raccoglie parte dei 47mila oggetti che il celebre regista ferrarese Michelangelo Antonioni ha devoluto alla sua città natia.
Ad accompagnarlo lungo il percorso c’erano Enrica Fico, moglie di Antonioni e tra i promotori insieme a Vittorio Sgarbi del nuovo spazio museale di Corso Porta Mare 5, la moglie (l’artista e fotografa Donata Wenders) e l’assessore alla Cultura Marco Gulinelli.
Una promessa si mantiene
Si tratta di una promessa mantenuta: proprio nel giorno dell’inaugurazione del nuovo spazio, Wenders era stato impossibilitato a essere presente fisicamente a Ferrara. Si era però collegato per un saluto in streaming, promettendo che a giugno sarebbe venuto a visitarlo personalmente durante la sua permanenza in Italia in occasione del Festival Cinema Ritrovato di Bologna, per la proiezione della versione restaurata dalla Cineteca di Bologna di Buena Vista Social Club (1999), in lingua originale con sottotitoli in italiano. Un momento emozionante per festeggiare i 25 anni dall’uscita del gruppo di musicisti della tradizione cubana (tra gli altri, Compay Segundo, Ibrahim Ferrer e Omara Portuondo), riunito dal chitarrista Ry Cooder.
Arrivato nella città estense, mani congiunte in segno di preghiera sopra al capo, gesto di estrema eleganza e delicatezza, Wenders rivolge un “Grazie” in alto, verso la scritta “Spazio Antonioni” che campeggia all’ingresso del museo di viale porta Mare.
Uno sguardo verso l’orizzonte, ‘Al di là delle nuvole’
Il regista e sceneggiatore tedesco, che con Antonioni firmò il film in gran parte realizzato a Ferrara, Al di là delle nuvole (1995), si ferma subito ad ammirare gli spezzoni in mostra di Gente del Po, il documentario realizzato negli anni Quaranta da un giovane Antonioni a inizio carriera, il quadro di Filippo de Pisis, “Pesci nel paesaggio di Pomposa” (1928) e quello di Burri. Immagini iconiche che arricchiscono il percorso museale.
Scherza con Enrica Fico, che gli spiega le opere selezionate: lettere, fotografie, spezzoni, quadri. Si ferma davanti a un’immagine di Lucia Bosé: “Non eri gelosa di queste immagini che Michelangelo conservava nel suo archivio?”, le dice sorridendo Wenders.
I premi prestigiosi premi di Antonioni in mostra: ispirazione
Wenders osserva poi i premi, tra quelli esposti in mostra: l’Oscar alla carriera, il Leone d’oro sempre alla carriera, la Palma d’oro di Cannes per il miglior film ottenuto con Blow Up, nel 1967. Si è poi fermato ad assaporare i molti spezzoni di film presenti nello spazio, da La signora senza camelie (1953) a Zabriskie point (1970).
“Questo è un posto che ispira. Si crea al suo interno una giusta dimensione per accogliere l’universo di Antonioni. È favoloso, congratulazioni a chi l’ha reso possibile”, ha detto Wenders, che è anche membro del comitato d’onore del museo ferrarese, a fine della sua presenza in mostra. Lo stesso regista, all’inaugurazione dello spazio lo scorso 31 maggio, aveva detto che quello di Ferrara “sarà spazio non solo per le generazioni di oggi, ma anche per le generazioni future”. “Conservo – aveva inoltre detto – solo i ricordi più cari del nostro lavoro a Ferrara con Michelangelo ed Enrica e mi sento legato a questa meravigliosa città e al nostro amore comune per il grande Michelangelo, il celebre figlio di Ferrara, nato lì 112 anni fa”.
“Si tratta della visita più sentita dopo la giornata dell’inaugurazione, racconta Enrica Fico Antonioni. L’emozione, ora, continua: Wim è la persona più vicina a Michelangelo e quindi anche a Ferrara. La sua visita, come sempre, è stata arricchita di battute, gli piace scherzare come piaceva altrettanto ad Antonioni. Wenders è un amico preziosissimo e un grande uomo, spero potrà collaborare con noi per rendere questo luogo vivo: questa deve essere la casa di Antonioni, vissuta dagli artisti e da chi da lui si lascia ispirare”.
“L’emozione personale si unisce a quella professionale: Wim Wenders è tra i più grandi registi viventi e con il suo operato, la sua umiltà e il suo silenzioso insegnamento è di stimolo a fare sempre meglio e a lavorare con passione. Casa Antonioni è casa di Michelangelo e anche casa sua”, ha concluso l’assessore Marco Gulinelli.
“C’è grande povertà nel mondo: quella delle persone che non sono mai contente di nulla, quella di chi non sa né ridere né piangere, quella di coloro che non sanno dare nulla di sé agli altri. Poi c’è la povertà ancora più gelida: quella dovuta alla mancanza d’amore.”
(Romano Battaglia)
POCO PRIMA CHE L’ALBA INCIAMPI
Può capitare se resti,
come la radice del silenzio
e la mano sul sogno sversato,
con il tempo che sfigura
nelle ferite sconosciute,
chiuse nei fori della pioggia
e mai venute fuori
neanche nei giorni
delle foglie concave.
L’anima è a disagio
quando la promessa
della cattiva sorte
giunge puntuale,
nella buona c’è una folla
di sconosciuti in festa
fino a quando la memoria torna
per il riconoscimento di ognuno.
A volte, il nome sui vetri brinati
è privo delle ultime lettere
che ci frugano il rimpianto,
poco prima che l’alba inciampi.
*
L’INCHINO DEL DISPIACERE
(Le tragedie dimenticate)
Non ricordo che giorno fosse,
ma erano trascorse già
diverse tiepide lune
quando ancora rimuovevo
dalle macerie
lo sporco in superficie,
in compagnia della vana gloria
di lamine di cielo
a ricoprire ciò che restava
delle lacrime tinteggiate
di rauco lamento,
si stava costruendo il ricordo
di vernice fresca,
la tragedia da soffiarci su
un volo di gabbiani al tramonto,
vicino anche il mare rotto
a guscio d’uovo
per fare miglior figura.
Infine, l’inchino del dispiacere
due volte fece il giro dell’isolato.
*
L’EQUILIBRIO DEGLI SCARTI
Se fossi il tuo ventre in attesa,
aspetterei la piegatura delle primule
prima di attraversare il deserto,
e c’è stato un tempo dove le madri
alla ruota, facevano la preghiera
con i piedi bagnati nel sangue rotto,
ora però la vista si è affievolita
e di notte cerca forza nei pezzi di ferro
poggiati sul cuscino, e non farci caso
se ti sei già perso tra queste parole,
a volte la notte più lunga passa
come il viaggio da fermo
con il posto davanti al finestrino.
Pensa, c’è chi ha visto la ruggine
ballare con il ferro più esperto,
e noi al di fuori nel silenzio
viviamo l’equilibrio degli scarti.
Oggi non scriverò nulla
e non dovrai riconoscermi.
GLI INCOMPLETI DI PENA
Non si può dimenticare
chi non si conosce,
ma voi che siete così bravi
ad apprezzare chi afferma
di sapere come soffre la parola
quando si sveste tra altri corpi nudi
che sono nudi da tanta pelle,
ditemi in quale margine
si sta bene al centro
così da replicare la distrazione
dovuta agli incompleti di pena,
e ditemi anche come si può spiegare
la mimesi del bene a chi
deve abituarsi ai prestiti del tepore
di breve durata.
E ditemi ancora come ci si può
dolere di un’altra speranza,
nell’attesa che un livido di luce
venga a cercarmi.
LA QUINTA STAGIONE
La carne salta i giorni,
e in un vassoio le muffe
distraggono la leggerezza
delle letture lasciate a metà,
la rivista servita a raccogliere
le mele in offerta.
Il disordine va oltre le pareti
e non viene più nessuno da tempo,
quando si muore a scaglie
è da molto prima
che ci si deve allontanare.
Se ricordi una frase, scrivila in fretta
prima che le tasche proiettino
la trama dei pezzi di cibo
caduti di nascosto,
una vergogna simile alla quinta stagione.
Farà ancora giorno
e d’intonaco cadrà il cielo,
qualcuno porterà via le ultime cose.
L’ORA D’ARIA
L’attesa deturpata del volto dei belli
è come la lingua muta dei poeti,
sempre sulla soglia
tra il presente e il nulla,
paziente nel forgiare l’alba
di un universo sbrigativo
nelle sue pendenze.
Tra noi e la recita c’è un pessimo impresario
con poca gratitudine quando ci mordiamo
i dispiaceri con consumata maestria.
Basterebbe spogliarsi dall’asfissia
del già tutto previsto,
ignoto come la regola del retro delle cose,
e frequentare poco il bel giardino
orlato di sterpi
per guarire ammalandosi di comprensione,
per aspettare maggio e la sua piaga
del buono per diletto, solitario nostro
a specchio d’acqua che sembrano liquami,
ma sono solo secchi rami di compagnia
all’ora d’aria,
la prigione è fuori.
A due anni dalla precedente uscita della raccolta poetica “Verranno a perderci in trionfo“, Francesco D’Angiò dà alle stampe la sua terza raccolta di poesie “L’equilibrio degli scarti”, G.C.L. Edizioni, marzo 2024, con una preziosa nota di lettura di Alfonso Guida. Tra le tante liriche di pregio e profonde, ne ho scelte alcune, ripromettendomi di ritornarci sopra quanto prima.
Francesco D’Angiò è nato a San Vitaliano (Na) nel 1968, sposato e residente a Matera. Nell’ottobre 2020 pubblica per la casa editrice Planet Book il romanzo dal titolo Lo sconosciuto. Nel 2021 ha pubblicato il primo libro di poesie Clessidre orizzontali, Edizioni Tripla EEE. Ad ottobre 2022 viene pubblicata anche una raccolta di due racconti dal titolo “Siamo tutti normali“, Dialoghi Edizioni. Nella rubrica “Parole a Capo”, sono state pubblicate poesie di D’Angiò il 15 luglio 2021 e il 23 giugno 2022.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Antonello Mangano ha scritto un libro (La Spoon River dei braccianti, ed. Meltemi) in cui spiega dettagliatamente ciò che avviene da decenni nei campi italiani, dove si muore per le condizioni di lavoro e per l’omissione di soccorso dei datori di lavoro che non vogliono far conoscere quelle condizioni di lavoro.
La vicenda di Satnam Singh non è che l’ultima di una serie molto nutrita.Ioan Puscasu, per esempio, rumeno, viveva a trenta chilometri da Torino ed è morto in una serra incandescente, dove lavorava in nero senza limiti di orario e per pochi soldi. Quando i padroni hanno visto il cadavere, lo hanno spogliato, lavato e rivestito per evitare sanzioni. Ma è una cosa che è già avvenuta ad altre decine di braccianti, uomini e donne, stranieri ma anche qualche italiano e italiana, accomunati da una morte atroce per sfruttamento da lavoro agricolo: chi bruciato vivo nei ghetti, chi ricacciato nell’emarginazione dal rifiuto della richiesta di documenti, chi vittima del razzismo istituzionale e chi ammazzato dove prevale ancora una mentalità mafiosa. Stessa sorte è quella di Anton Petrica, anche lui rumeno, lavorava nelle campagne di Giugliano, provincia di Napoli: i datori di lavoro lo hanno abbandonato vicino a casa boccheggiante dopo un “malore”. Quando la proprietaria dell’abitazione se ne è accorta e ha chiamato i soccorsi era troppo tardi: è morto in ospedale nel 2019. Ma ci sono anche casi di italiani come quello di Paola Clemente, morta nel 2015 e che almeno portò all’approvazione delle legge contro lo sfruttamento e il caporalato.
Da allora sono passati 10 anni ma poco o nulla si è fatto. Le storie che ha raccolto Antonello Mangano rivelano in filigrana la società italiana: il razzismo diffuso, la logica di sfruttamento di imprenditori che si sentono di poter fare quello che vogliono e i molti interessi che bloccano quel cambiamento che sarebbe doveroso per una società che si riempie la bocca nel dire di essere civile.
Il governo promette la solita “stretta” contro il caporalato, anche se in questo caso Singh è morto perché c’era un imprenditore che teneva i lavoratori in condizioni illegali e non ha chiamato i soccorsi per non venire scoperto, in quanto non voleva che diventasse evidente il “sistema” che da tempo funziona nelle campagne: ti assumo in nero, sei ricattabile e farai tutto quello che ti dico, anche perché con la legge Bossi-Fini se perdi il lavoro perdi anche il permesso di soggiorno. Oppure lavori in regola finchè non ottieni la disoccupazione agricola e poi continuerai a lavorare in nero percependo la disoccupazione dall’Inps.
Il governo ha detto di voler rilanciare la «Rete del lavoro agricolo di qualità» pensata per certificare le imprese “etiche”. Una regola che esiste dal 2015 con 7mila imprese iscritte su 75mila (meno del 10%) e che non serve a nulla, anche perché sarebbe come se ci fosse l’albo degli “automobilisti di qualità”. Se c’è la legge va rispettata: punto e a capo. Invece in agricoltura si ragiona come se l’illegalità fosse la norma.
La prima cosa da fare (e non solo in agricoltura) è introdurre il salario minimo, per evitare che si possa pagare 3-4 euro all’ora. E poi più controlli. Un modo efficace che riduce la necessità di ispettori è quello basato sull’indice di congruità, che incrocia la quantità di prodotto di un’azienda con i contributi pagati ai lavoratori. Nell’azienda di Lovato che fatturava oltre un milione di euro c’era solo un dipendente (il figlio). A Latina ci sono 40 imprenditori accusati di usare il sistema di farli lavorare per i giorni per maturare la disoccupazione agricola, licenziarli e poi farli continuare a lavorare in nero pagati dall’Inps. Così si fa anche per la Cassa Integrazione. Si parla di Intelligenza Artificiale ma chissà come mai in alcuni casi non si sa usare neppure l’informatica.
Il problema vero è che manca la volontà politica. Nessuno ha interesse a risolvere la situazione che contribuisce a tenere basso il costo del lavoro. In generale per evitare lo sfruttamento è fondamentale che i lavoratori, stranieri o italiani, non siano ricattabili. E invece lo sono. Per i migranti in Italia è difficile ottenere regolari permessi di soggiorno e questo crea enormi bacini di manodopera marginalizzata, sfruttabile. Se lavori in nero come fai a denunciare il datore di lavoro che ti fa lavorare in condizioni illegali? Rilasciare documenti per tutti i migranti presenti sul territorio è il primo passo per invertire la rotta. Inoltre la legge Bossi-Fini prevede che chi perde un contratto di lavoro, perde anche il permesso di soggiorno. Anche questo rende dipendenti dai “padroni”.
Alberi crescono in Africa con un piccolo nostro aiuto
Un modo efficace per costruire un mondo migliore è quello di creare piccole comunità in Occidente che si aiutano tra loro e collaborano con altre piccole comunità nei paesi poveri. E’ importante consolidare rapporti personali con persone affidabili ed è anche un modo per rendere la nostra vita più ricca di relazioni vere e fare meno turismo. Raccontiamo quindi dell’Associazione Avè, creata a Pontenure (Piacenza) anche da alcuni nostri amici ferraresi che là sono andati a vivere.
Sono varie le cose che fanno per aiutare una piccola comunità del Togo, ma l’impegno attuale è quello di piantumare alberi di mango, aranci e Khaya, una pianta minacciata di estinzione usata sia per fare legna e nella stagione secca come foraggio per il bestiame L’estratto della corteccia possiede vari usi terapeutici: antinfiammatorio, cicatrizzante e contro la malaria. Nel giugno 2022 hanno piantumati i primi cento alberi e altri duecento nel 2023. Quest’anno sperano di piantumarne altri 270 e proseguire negli anni prossimi. Un albero costa solo 2,56 euro e con 10 euro ne puoi far piantare 4. In Italia i Comuni spendono spesso 50-100 volte tanto per piantare un albero.
Ciascuno di noi può contribuire con una donazione (IBAN IT24F0623065430000030316015, associazioneave.blogspot.com, referente: Francesca Molinari, tel.3394904627, email: francescamolinari123@gmail.com e Margherita Lega) sapendo che possiamo recuperare il 35% di quanto versato, in quanto donazione.
E’ un buon modo di aiutare una piccola associazione con pochi euro e dare un grande aiuto a chi vive in povertà e anche di aiutare a coltivare la terra con buone pratiche, oltreché costruire la pace tra i popoli dal basso.
Questa collaborazione aiuta dal 2015 la Fattoria didattica del villaggio di Assahoun nella Prefettura di Ave’ nel Sud del Togo. Benché piccola nelle dimensioni essa raggiunge 20 cooperative e 400 contadine/i che da 3 anni vengono regolarmente formati e accompagnati dalla ONG di Piacenza che è partner SDD-Togo (Soutien a le Developement Durable) nell’acquisizione pratica di metodi di coltivazione e gestione della distribuzione che uniscono l’Ecologia all’Agricoltura.
Attraverso l’Agro-Ecologia si rende concreta la speranza di migliorare le condizioni di vita degli agricoltori e di preservare l’ecosistema locale nel Sud (come si dovrebbe fare anche nel Nord del mondo). L’Associazione Avè accompagna questo percorso togolese sostenendo le contadine/i dei villaggi nelle loro agricolture familiari, le attività artigianali e commerciali, i progetti di Agri-forestazione che spesso sono ritualmente festeggiati nelle comunità. Una via concreta che aiuta ad affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici.
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LAND-GRABBING E CONSUMO DI SUOLO. Come invertire la rotta?
L’apocalisse climatica sta arrivando. Per prepararci ad affrontarla abbiamo bisogno di ammettere che non possiamo prevenirla. Jonathan Franzen
E se smettessimo di fingere? (2020)
Passati gli impegni della campagna elettorale e “metabolizzati” (forse) i risultati, è tempo di riprendere a scrivere di ambiente e delle molte scadenze di queste ultime settimane. Dalla giornata mondiale per la Lotta alla desertificazione e alla siccità celebrata il 17 giugno a quella dell’Ambiente del 5 dello stesso mese, fino, andando a ritroso, l’overshoot day per l’Italia, il 19 maggio scorso. Di grande interesse invece l’importante atto del Consiglio Europeo riguardante la Nature Restoration Law, norma tornata al voto il 17 di giugno con inaspettato successo. Nel sito della Fondazione per lo sviluppo sostenibile [vedi Qui] si legge come questo sia “uno dei provvedimenti più innovativi e ambiziosi del Green Deal europeo, che prevede misure per il ripristino degli ecosistemi in cattivo stato di conservazione e stabilisce obiettivi e obblighi rigorosi per gli Stati Membri. Le azioni di riqualificazione dovranno interessare almeno il 30 % della superficie totale degli habitat degradati entro il 2030, almeno il 60 % entro il 2040 e almeno il 90 % entro il 2050”.
Il Consiglio ha dato la sua approvazione definitiva a questo regolamento con il voto contrario di Italia, Paesi Bassi, Finlandia, Svezia, Ungheria e Polonia, l’astensione del Belgio e creando un caso politico in Austria dove il ministro del clima ed energia ha dato il suo voto favorevole contraddicendo il suo governo e salvando così la legge.
Tanti i temi affrontati da una normativa il cui testo finale, come riportato dalla piattaforma Green Planet[vedi qui], “risulta comunque meno rigido rispetto alle versioni iniziali prevedendo, in casi eccezionali, alcune deroghe alle politiche di tutela dei suoli, in pratica una scelta di “compromesso per venire incontro al settore agricolo”. L’obiettivo della normativa è affrontare direttamente il ripristino degli ecosistemi – da quelli terrestri a quelli marini, d’acqua dolce e urbani – per “combattere la crisi climatica e attuare politiche di mitigazione e adattamento agli effetti dei disastri naturali, garantendo al contempo la sicurezza alimentare”.
Green Planet, commentando il voto contrario del governo italiano, scrive che il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che già in passato aveva criticato la Nature Restoration Law, si era detto preoccupato del possibile impatto sul settore agricolo. La viceministra Vannia Gava, presente al Consiglio, ha spiegato così il voto contrario dell’Italia: “Per quanto siano stati introdotti miglioramenti l’accordo finale resta per noi insoddisfacente, non potendo accettare che si vadano ad accrescere gli oneri economici e amministrativi per il settore agricolo”.
Vittoria storica, titola poi il sito di WWF Italia, perché l’approvazione della legge va letta come “un risultato straordinario che premia l’impegno della coalizione #RestoreNature, composta da BirdLife Europe, ClientEarth, EEB e WWF Europa, e che raccoglie l’invito della società civile e del mondo della ricerca scientifica”, e che ha dovuto affrontare “uno dei viaggi più tumultuosi nella storia della legislazione europea: dopo essere sopravvissuta a una campagna di disinformazione senza precedenti, la legge ha rischiato di essere respinta all’ultimo passaggio nel Consiglio Ambiente”. Ora si tratta di monitorarne l’applicazione quando entrà in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell’UE.
Earth Overshoot Day. Come riportato all’inizio, il nostro paese ha esaurito il 19 maggio il budget di risorse naturali a disposizione per quest’anno. Dal giorno dopo, 20 maggio. abbiamo iniziato a consumare le risorse naturali future, a cominciare da quelle del 2025, riferisce il che ogni anno misura la domanda di risorse e servizi da parte delle popolazioni e l’offerta di risorse e servizi da parte dei loro ecosistemi. A livello mondiale Qatar e Lussemburgo già a febbraio facevano toccare il fondo alle risorse del Pianeta, mentre Emirati Arabi, Stati Uniti e Canada hanno esaurito le risorse a marzo. I paesi più virtuosi, Ecuador e Indonesia, si prevede esauriscano le loro risorse per l’anno in corso il 24 novembre.
In generale, in Europa tutti consumano più di quanto la Terra riesca a produrre in un anno.
Lo spreco alimentare e l’accessibilità al cibo sono tra le cause che portano la maggioranza dei paesi ad esaurire le risorse biologiche che gli ecosistemi terrestri sono in grado di rigenerare in un anno. La soluzione va ricercata e deve essere quella di un cambiamento radicale, a livello sociale, culturale, politico ed economico, da mettere in atto al più presto.
Lo spreco alimentare nel mondo arriva al 30% e la produzione di cibo è la causa di 4,8 miliardi di tonnellate di gas serra nell’atmosfera.
Giornata mondiale dell’Ambiente. Quest’anno, scrive ISPRA alla pagina notizie del suo sito [Vedi Qui], il tema della giornata sarà il Ripristino degli Ecosistemi, con l’obiettivo di “prevenire, fermare e invertire i danni inflitti agli ecosistemi del pianeta, cercando di passare dallo sfruttamento della natura alla sua guarigione”. Il tema presenta molte affinità alla Nature Restoration Law, da poco approvata in ambito UE: tutto ciò fa ben sperare in una inversione di tendenza rispetto alla situazione attuale, anche in considerazione del fatto che in questa giornata è stato lanciato ufficialmente il Decennio delle Nazioni Unite per il Ripristino dell’Ecosistema un appello per la protezione e il rilancio degli ecosistemi in tutto il mondo, a beneficio delle persone e della natura, la cui missione globale è quella di far “rivivere miliardi di ettari, dalle foreste ai terreni agricoli, dalla cima delle montagne alle profondità del mare”. Navigando nel sitowww.decadeonrestoration.org è possibile trovare moltissime informazioni, esperienze, progetti che offrono spunti di riflessione, percorsi e consigli per azioni a favore del Pianeta.
“Vivere felici entro i limiti di un solo pianeta è possibile”, scrive WWF Italia. “Serve rispetto profondo per la natura o non ci sarà futuro nemmeno per noi, la nostra salute, dipende anche da quella del Pianeta. Ma per fare ciò serve un cambiamento da parte di ognuno, perché siamo noi la specie a rischio di estinzione”. Tra le tante riflessioni e considerazioni che questa giornata ci spinge a fare il WWF mette in primo piano la relazione tra salute e felicità. Nel mondo, secondo uno studio, “negli ultimi tre decenni il numero di nuovi casi di tumore negli under 50 è aumentato quasi dell’80%”. Le cause vanno ricercate primariamente negli stili di vita con una alimentazione troppo ricca di carne e nell’esposizione a sostanze inquinanti presenti nell’ambiente (aria e acqua) e nel cibo. “In Italia, continua l’associazione ambientalista, l’incidenza della maggioranza dei tumori continua a crescere: +1,4% nei maschi e +0,7% nelle femmine solo tra il 2022 e il 2023 e la più elevata mortalità per cancro si registra là dove è maggiore l’inquinamento ambientale”.
Tante le testate giornalistiche, le associazioni che ricordano questa importante giornata volta a promuovere una maggiore consapevolezza tra i cittadini e a compiere un’opera di sensibilizzazione rispetto alle azioni a favore dell’ambiente e dell’uomo che ne è parte integrante. Merita citare a tra i tanti interventi quello della trasmissione radiofonica Radio3 Scienza che, il 5 giugno, tra gli ospiti, intervista Francesca Santolini, giornalista ed esperta di temi ambientali, autrice di Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno, uscito nel 2019, e, per Einaudi, del recente Ecofascisti. Estrema destra e ambiente. Francesca Santolini, in questo libro, afferma quanto “l’ecofascismo sia una realtà”. “In Europa come negli Stati Uniti, l’estrema destra si appropria dei fondamentali dell’ecologia per giustificare i suoi discorsi politici identitari e nazionalisti”. Chi sono gli ecofascisti e quale relazione esiste tra la crisi climatica e l’ascesa dei nazionalismi, si chiede l’autrice. Il libro, continua l’introduzione, “ripercorre la lunga storia dell’ambientalismo di estrema destra e analizza i modi in cui tale movimento si sta adattando al mondo contemporaneo” e indaga il legame tra l’arcipelago delle destre radicali e la difesa dell’ambiente che esiste ed è pericolosamente vitale e porta con sé minacce culturali, sociali e politiche. “Non potendo più negare il cambiamento climatico, oggi l’estrema destra sta mutando strategia per conservare la sua identità: legge strumentalmente la crisi ambientale come risultato dei flussi migratori dal Sud del mondo e torna a proporre in forma nuova il suo violento armamentario ideologico fatto di teorie della cospirazione, xenofobia, razzismo.”
Lotta alla desertificazione e alla siccità. Sul sito del quotidiano indipendente eHabitat sono riportate le mappe create dal movimento Salva il Suolo [Qui] utilizzando i dati dell’United Nations Convention to Combat Desertification [1] (UNCCD, mappa 2019) e una stima del Global Environment Facility[2](GEF, mappa 2050), che illustrano quanta terra fertile potrebbe rimanere nel 2050 se gli attuali tassi di degrado continuassero. “I risultati sono tutt’altro che confortanti, si legge su eHabitat, con il 95% del territorio terrestre destinato a degradarsi entro il 2050, e conseguenze, in termini di crisi alimentare, che sarebbero tragiche per la popolazione mondiale, stimabile per quella data in 9,8 miliardi di persone”. La nuova mappa vede la luce nel 30° anniversario della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Siccità e la Desertificazione (UNCCD).
Il focus scelto per la Giornata Mondiale per la Lotta alla Desertificazione e alla Siccità 2024, scrive il quotidiano, è “Uniti per la terra. La nostra eredità. Il nostro futuro” Il tema, ancora una volta, “mette al centro la necessità di una corretta gestione del suolo per garantire la stabilità e la prosperità di miliardi di persone in tutto il mondo”.
La Giornata Mondiale, istituita nel 1994 dalle Nazioni Unite, “per promuovere la consapevolezza pubblica degli sforzi internazionali per combattere la desertificazione, la perdita di fertilità del suolo e il conseguente degrado delle risorse naturali causati dalle attività umane quali inquinamento, eccessivo sfruttamento delle terre, sovra-pascolamento, deforestazione, incendi e irrigazione con acque saline”, è così ricordata nel sito dell’Associazione Ambiente Mare Italia[3] con sede a Roma.
Ma il 17 giugno di quest’anno, come già ricordato, cade anche il 30° anniversario della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione, unico trattato internazionale giuridicamente vincolante sulla gestione del territorio e sulla siccità e una delle tre Convenzioni di Rio insieme al cambiamento climatico e alla biodiversità.
“Coinvolgere le generazioni presenti e future, ricorda l’associazione, è più importante che mai per fermare e invertire queste tendenze allarmanti e rispettare gli impegni globali volti a ripristinare 1 miliardo di ettari di terreno degradato entro il 2030. “Uniti per la terra: la nostra eredità, il nostro futuro”, il tema della Giornata di quest’anno, cerca di mobilitare tutte le parti della società a sostegno di una gestione sostenibile del territorio, in vista della più grande conferenza delle Nazioni Unite sulla terra e la siccità che si terrà a Riyadh, in Arabia Saudita, nel dicembre 2024.
Altro aspetto importante della giornata viene ricordato dal notiziario d’informazione agroambientale EcolOggi. Tra i dei temi che quest’anno vengono approfonditi, e sicuramente il più adatto per concludere questa carrellata di argomenti ambientali, è Her Land. Her Rights, che, ponendo l’accento sui diritti delle donne legati alla terra, mette in luce come l’uguaglianza di genere sia fondamentale per raggiungere la neutralità del degrado del suolo entro il 2030.
“Le donne, scrive EcolOggi, rappresentano una parte significativa della popolazione rurale mondiale e dipendono fortemente dalla terra per il loro sostentamento. Tuttavia hanno meno probabilità rispetto agli uomini di possedere o controllare le risorse terriere, e questo le espone a maggiori rischi di povertà, fame, violenza di genere e sfollamento. Garantire alle donne diritti equi sulla terra non è quindi unicamente una questione di giustizia sociale, ma è anche cruciale per la gestione sostenibile delle risorse naturali.”
Non ho vissuto gli anni ’50, essendo nato alla fine di quel decennio, ho vissuto quello dopo, ma ne ricordo solo la seconda parte. Era, per molte famiglie, un tempo di modernità ingenua, anche esasperata. La televisione, il frigorifero, la lavatrice, l’automobile cambiavano pratiche familiari che erano evolute lentamente, a piccoli passi.
Anche le case cambiavano. Nei loro interni molti vecchi mobili di legno, probabilmente fine Ottocento, venivano sostituiti dalla “formica”, i palché all’italiana e anche i pavimenti in cotto antico spesso lasciavano spazio al linoleum, alle piastrelle, alla moquette.
L’alluminio anodizzato stravolge ancora oggi l’immagine di molte strade. Carosello, quiz, serie romanzate e teatro televisivo riempivano le serate, mentre i film si andavano a vedere al cinema. Le coppie prodotto/attore scandivano con regolarità le pubblicità: Bramieri e il Moplen, Calindri e il Cinar, contro il logorio della vita moderna, il jazzista Franco Cerri era tutte le sere in ammollo. Molti a quel tempo si sono messi alla ricerca di Carmencita nei pueblo messicani, mentre il Montana diventa un luogo familiare: tra mandrie e cow boy.
E se il nostro mondo provinciale viene scosso da Blow Up o Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, Valerio Zurlini fa cantare Mina in luoghi improbabili con scenografie brutaliste o da minimal art, grazie alla generosità di Barilla. Molte piccole città per dimostrare di essere moderne costruiscono i loro grattacieli: Ferrara, Rimini, Cesenatico e altre, pur conservando i loro centri storici. Ma la vita per molti continua ad essere agra, ci rammenta Bianciardi.
Sicuramente per mio nonno che tutte le mattine alle 5 si alzava per andare da Genova Pegli a Genova Cornegliano, all’Italsider, con la sua schiscetta riempita di pasta fredda che mia nonna gli cucinava tutte le sere prima di andare a letto. La storia dei miei nonni materni racconta l’Italia novecentesca dei subalterni e dei migranti. Quella del nonno era immigrata dal Padovano nel Basso ferrarese, per prosciugare le valli tra Mezzogoro e Tresigallo, e poi, finita la stagione d’oro delle bonifiche meccaniche, via verso il triangolo industriale alla ricerca di fortuna.
Il palazzo dove abitavano è ancora l’ultimo di una strada ripida dalla quale scendendo verso il mare si entra in città mentre, continuando a salire, ci si inoltra nei boschi dietro la città. È un palazzo di abitazioni costruito negli anni del boom economico nelle colline a ovest di Genova, nella località di Pegli, che in quegli anni si sono trasformate da luogo naturale e rurale a periferia. Lo potremmo definire una speculazione, forse necessaria per dare casa ai tanti che arrivavano a Genova in cerca di lavoro da molte parti d’Italia.
Gli spazi stretti dei carrugi genovesi
Oltrepassando il viadotto dell’autostrada, il sentiero diviene sempre più naturale, stretto e ripido e ad un certo punto si arriva ad una fonte, dove gli abitanti del quartiere si riforniscono (si rifornivano?) di acqua.
Ho trascorso le estati della mia infanzia nell’appartamento dei miei nonni che lì erano emigrati dal Mezzogoro in cerca di lavoro. Ho trascorso molte giornate sul poggiolo del primo piano del palazzo che, essendo l’ultimo della strada, guardava il resto del quartiere dall’alto al basso.
Lì, ho scoperto la verticalità dello spazio, abituato come ero alla orizzontalità delle campagne della bassa ferrarese, ho scoperto, attraverso l’osservazione, la fatica del quotidiano: le signore che ogni mattina risalivano la strada, con le borse della spesa, mentre i mariti montavano la sera tornando dalle fabbriche del ponente o dal porto.
Tutta l’Italia più misera era rappresentata in quella strada. Lì probabilmente è nato il mio interesse per gli intrecci spaziali urbani che mi ha portato a diventare un architetto interessato alle forme e alle culture delle città.
Il Viale della Pineta (questo è il nome della strada) è una strada residenziale che, scendendo confluisce in via Vianson, che pur essendo residenziale ha (aveva?) un fronte articolato di negozi, con il forno della focaccia, la latteria, la drogheria, il negozio dei tessuti e dei bottoni, la bottega alimentare, il barbiere, il calzolaio e la parrucchiera.
Scendendo ancora le alternative diventano varie, girando in una direzione si arriva a Villa Doria, con il suo museo navale e il suo parco pubblico, proseguendo si arriva a Villa Pallavicini attraversando quartieri di eleganti palazzi borghesi.
Il porto di Genova
Seguendo un’altra discesa si arriva sul lungomare all’altezza dell’Hotel Mediterranee. Un frammento di lungomare nato con grandi ambizioni, da Nizza o Sanremo, ma in seguito ridimensionate dalle zone industriali e portuali che a est, da Sestri Ponente arrivano alla Lanterna, e a ovest dall’espansione, allora in nuce, del porto di Voltri, mentre la pista dell’Aeroporto, costruita sul mare, ne delimita ancora l’orizzonte.
Era bello vedere dal tetto del palazzo dove abitavano gli zii gli aerei che decollavano o atterravano sul mare.
Genova sembrava non esistere, la vedevo attraverso i racconti in famiglia, sempre concentrati sulla topografia della perdizione, luoghi da cui un ragazzino di campagna doveva stare lontano, anche se un giovane zio, a volte di nascosto, mi caricava in auto e mi portava a vedere i luoghi del peccato che si chiamavano Sottoripa, via Pré, via del Campo, mentre la Raffaello e la Michelangelo era alternativamente alla fonda del porto vecchio, in attesa di partire per l’altro mondo.
Poi, finita l’estate, ripreso il treno che cambiava a Voghera e ritornato al mio paese, tutto ritornava spazialmente più semplice.
In copertina: Genova, Il lungomare di Pegli
Foto di Romeo Farinella
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SE CAMMINASSI VERSO DI TE… CAMMINERESTI VERSO DI ME?
Il 28 giugno, per la regia di Massimiliano Piva e con il patrocino di AIAS e del Comune di Ferrara, è andato in scena alla sala Estense lo spettacolo “Se camminassi verso di te..”
Il titolo dello spettacolo, suggestivo ed evocativo, ha mantenuto le promesse perché il fulcro dello spettacolo mi è parso proprio il movimento, tanto più difficile e improbabile essendo la maggioranza degli attori su una sedia rotelle, icona scelta per la locandina dell’evento.
Ma di movimento interiore si è soprattutto trattato, nella recitazione di storie scritte dagli attoristessi, che si sono raccontati con semplicità e autenticità, a volte usufruendo della voce amica di alcuni volontari dell’Aias. Hanno raccontato la loro storia, piena di interrogativi, a volte di rabbia e dolore, a volte di semplice stupore dell’imprevedibilità del destino.
L’essenzialità della scenografia convogliava magneticamente l’attenzione sui monologhi e i dialoghi recitati dagli attori. Non sono mancati i momenti di improvvisazione , simpatici e allegri, mostrando di esserespecialmente “gruppo”, dove la battuta comica e a volte ironica scaturisce dalla confidenza della frequentazione frequente, dalla fiducia nell’amicizia degli altri.
I valori messi in moto che hanno “camminato” verso il pubblico sono la merce rarissima della spontaneità, dell’autenticità e della sim-patia, in un mondo che ha reificato tutto, nello scandalo, direbbe il grande Heidegger, della “cosalità” delle persone, il cui essere è trasformato in ente da quella che eufemisticamente alcuni si ostinano a chiamare “economia di mercato”, mentre altro non che la trasformazione degli esseri umani in oggetti, producendone dei nuovi ed eliminando quelli difettosi.
La sapiente regia di Massimiliano Piva , basata sulla “Cosquillas theatre methodology”, è apparsa quasi invisibile, come ha affermato lo stesso Piva : “ Il regista deve apparire il meno possibile, le idee provengono da loro, io dopo anni di esperienza teatrale non ne ho più”. Conferma che tutte le cose grandi, comprese le grandi professionalità, sono innanzitutto semplici, immediate, immuni dal protagonismo.
La professionalità del regista è stata avvallata dal risultato: anche il pubblico si è mosso, o meglio com-mosso, mosso insieme e verso gli attori, al di là di essere parenti, amici o comunque spettatori benevolenti. Il messaggio dello spettacolo, l’ipotesi iniziale, ha avuto una risposta affermativa: Sí, se tu camminassi verso di me”, quello che accadrebbe , ed è accaduto in questo spettacolo, è che io camminerei verso di te.
La regia di Massimiliano Piva, oltre a uno spettacolo divertente, ma profondo, alla fine ha diretto un incontro, fra gli attori, fra attori e volontari dell’Aias, fra attori e pubblico.
Mi sembra importante ragionare in modo approfondito sul risultato delle recenti elezioni comunali a Ferrara. Anticipo ciò che argomenterò anche dopo, e cioè che è necessario svolgere una forte riflessione sul loro esito, cosa che non è stato fatto dopo la sconfitta del centro-sinistra nel 2019 e che si è rilevato essere un grave errore, che si è pagato in questi anni e anche nel risultato odierno. A partire dal fatto che dico volutamente in modo secco e schematico: se nel 2019 le elezioni sono state perse in primo luogo dal centro-sinistra, oggi le elezioni le ha vinte Fabbri.
I numeri di una grande sconfitta
Ciò è evidente non solo per la sua vittoria al primo turno, ma, ancor più, per la percentuale del 57,88% dei voti e il numero assoluto di 40.921 voti, che segnano un incremento, rispetto al 1° turno delle elezioni del 2019, di circa l’8% e di più di 3000 voti raccolti dall’insieme della destra.
E questo a fronte di un calo dell’affluenza al voto, che è stata di 72.288 persone, pari al 67,6%, rispetto a 77.534 votanti e al 71,45% del 2019, dunque rispettivamente di – 5246 partecipanti al voto e di – 3,85 in termini percentuali.
Simmetricamente, la coalizione raccolta attorno ad Anselmo (che questa volta comprendeva anche il M5S) ha registrato un calo di quasi 4000 voti, e del 2,44%, rispetto alla somma dei candidati Modonesi e Mantovani del 2019.
Complessivamente, tutto lo schieramento di “sinistra”, conteggiando tutte le componenti, da quelle più moderate a quelle più radicali e anche il M5S, dal 2019 al 2024, arretra di più di 8000 voti e di circa 8 punti percentuali ( parliamo, in termini di valori assoluti, di più del 20% dei voti, scesi da 37908 a 29783, non proprio poca cosa!).
Che si tratti di una vittoria della destra e, in specifico, di Fabbri, poi, viene evidenziato da 2 indizi forti: il primo è il raffronto, per quanto non del tutto proprio, con l’andamento delle elezioni europee che si sono tenute negli stessi giorni. In quest’occasione, pur con una partecipazione al voto proprio di poco superiore a quella delle elezioni comunali ( 68,99% rispetto al 67,6%), il complesso di tutte le componenti di “sinistra”, compreso il M5S, è ben più avanti del risultato alle elezioni comunali, sia in valori assoluti che in percentuali ( alle elezioni europee rispettivamente 36161 voti pari al 52,17 contro 29783 e il 42,13% a quelle comunali, più di 6000 voti di differenza); mentre l’insieme della destra raccoglie 33161 voti e il 47,83, con Fratelli d’Italia che, da solo, arriva a 21656 voti, pari al 31,24% ( appena sotto al PD che ottiene 21820 voti pari al 31,48%).
Un dato, quest’ultimo di FdI, che rappresenta il secondo elemento che mi ha fatto parlare sopra di vittoria di Fabbri: infatti, alle elezioni comunali il consenso a Fratelli d’Italia si ferma a 7569 voti ( 11,05%), mentre la lista Alan Fabbri sindaco vola a 20934 voti, pari al 30,56%, indicando che siamo in presenza di una forte affermazione personale.
Alle comunali la “sinistra” cede voti all’astensione e a Fabbri
Già questi dati aggregati sono abbastanza eloquenti per farci dire che tutto lo schieramento di “sinistra”, compreso il M5S, cede voti all’astensione, ma c’è anche un travaso di voti verso Fabbri; viceversa, l’avanzata di Fabbri deriva sia da un recupero nel bacino dell’astensionismo, sia da un passaggio a suo favore dallo schieramento avverso. Non è facile avanzare una stima più precisa di questi flussi con i dati a nostra disposizione, ma non c’è dubbio che la tendenza sia quella delineata.
Questa valutazione sui flussi del voto è ulteriormente corroborata dall’analisi dei risultati disaggregati per le 160 sezioni in cui si è votato.
Qui emerge in modo chiaro il risultato positivo della destra, in termini diffusi: infatti, Fabbri è sotto il 50% dei voti solo in 19 sezioni ( l’11,9% sul totale), mentre è sopra il suo consenso medio del 57,88% in 52 seggi ( il 32,5% sul totale), addirittura sopra il 60% in 51 seggi, incrementando peraltro il suo vantaggio nelle frazioni. Fabbri arretra, rispetto al 2019, solo in 2 sezioni in termini percentuali e in 13 in voti in valore assoluto.
E questo succede dopo il risultato negativo già visto nel 2019. Ora, se non è così semplice trarre conclusioni dirimenti nel raffronto tra i risultati alle elezioni comunali del 2019 rispetto a quelli del 2014, almeno in parte “drogati”, in quest’ultima occasione, dalla forte crescita “congiunturale” del PD di Renzi, comunque non si può notare che, a fronte di una sostanzialità stabilità nell’affluenza al voto, l’insieme dei sindaci collocabili nel “campo largo” della sinistra e del centrosinistra (senza il M5S) perde, dal 2014 al 2019, più di 11.000 voti, il candidato del M5S arretra di più di 6000 voti, che si spostano in tutti e due i casi, più che presumibilmente, sia verso l’astensione che verso la destra.
Siamo dunque in presenza di un dato che ha una sua continuità temporale importante, che non può essere considerato episodico. E che non può essere messo tra parentesi, con la constatazione consolatoria che il PD nel 2024 conferma, in termini di valori assoluti, più o meno il numero di 15.000 voti del 2019, visto che, da una parte, lo stesso PD, negli anni che vanno dal 2004 al 2014, si attestava sempre a non meno di 30.000, così come non è possibile ignorare che il M5S sta andando verso la sua irrilevanza, passando da più di 12000 voti del 2014 ai poco meno dei 2000 di oggi.
Non fare come dopo le elezio9ni del 2019
Certamente il voto, negli ultimi 15 anni, ha visto un’oscillazione e una fluidità notevole, che, certamente, potrà ripresentarsi. Però, tutto quanto sopra riportato mi fa dire che una riflessione vera, che riguarda tutta la sua sinistra, nelle sue varie componenti ed espressioni sia politiche che sociali, non è più rimandabile.
Non si può ripetere l’errore del dopo elezioni del 2019, quando questa mancò del tutto e venne, più o meno esplicitamente, fatta avanzare una lettura per cui il problema era stato quello della debolezza della figura del candidato sindaco di allora. Non mi piace farlo solitamente, ma questa volta mi tocca autocitarmi rispetto a quanto da me scritto all’indomani del risultato elettorale del 2019 sulle pagine di Periscopio, perché, ahimè, prefigurava quello che poi si è verificato. Scrivevo nel giugno 2019che “ è ormai diventato un ritornello quello di individuare la responsabilità primaria nell’opzione di continuità politica e programmatica rappresentata dalla scelta di aver candidato a sindaco Aldo Modonesi e nell’atteggiamento di “arroccamento” del Pd locale…. Ritengo però quest’analisi un po’ troppo sommaria, con il rischio che essa finisca persino quasi auto assolutoria per troppi. Intendo dire che, forzando solo un poco questo ragionamento, si potrebbe arrivare alla conclusione che, se si fosse avanzata la proposta di un candidato “civico” sostenuto dal Pd, ciò sarebbe stato da solo in grado di produrre un altro risultato …… In realtà, a me pare che la scelta di continuità operata dal Pd ferrarese anche in quest’ultima vicenda elettorale non sia altro che la “punta di un iceberg” di questioni ben più profonde e che datano da non poco tempo”. Non ho molto da cambiare rispetto a quelle considerazioni, guardando alla situazione di allora, ma, con gli occhi dei risultati delle elezioni comunali del 2024, va necessariamente aggiunto che occorre, in primo luogo, provare a dare una risposta sul perché Fabbri ha vinto con un consenso così significativo.
Certamente, la vittoria di Fabbri si inscrive in un quadro più generale, di una società che si spoliticizza, di una sua “americanizzazione”, che alimenta, contemporaneamente, astensionismo e personalizzazione del consenso. Ma, anche qui a Ferrara, è un interrogativo che non si può saltare a piè pari, né penso che si possano banalizzare le risposte, dicendo, per esempio, semplicemente che la destra è riuscita a comunicare bene la proprio narrazione e/o che su questo ha prodotto un forte investimento o, peggio ancora, a “colpevolizzare” le persone, perché incapaci di capire o facilmente manipolabili.
Intendiamoci bene: in termini generali, a me pare che nella società sono cresciuti fenomeni di ripiegamento, a volte anche di tipo rancoroso, e, in ogni caso, di rottura della solidarietà, dei legami sociali e di crescita dell’individualismo. Ma ciò a sua volta richiede di capire perché si sia determinata questa situazione (e il discorso sarebbe lungo) e non può essere invocato come giustificazione per non interrogarsi seriamente.
La tesi, magari un po’ provocatoriamente, che mi sento di avanzare è che, in realtà, si è costruita una saldatura tra scelte e loro narrazione, molte volte di tipo propagandistico, portate avanti dall’Amministrazione di destra e ”senso comune” di una parte significativa della popolazione ferrarese.Se si guarda, infatti, alle scelte compiute in questi ultimi 5 anni, penso possiamo vedere come ci siamo trovati di fronte ad un impasto tra “normalità” dell’azione amministrativa, galleggiando sull’esistente e con, in più il fatto di non essere in una situazione di penuria di risorse, grazie in particolare ai fondi del PNRR, e regressione sul piano culturale e dei diritti (vedi, solo per esemplificare, la discriminazione per i non residenti per l’assegnazione delle case popolari) che, però, non sempre è patrimonio della maggioranza dei cittadini e, anzi, rischia di alimentarsi nella contrapposizione artificiosa tra “ultimi” e “penultimi”. Il tutto, poi, condito da un’efficace propaganda sulla “Ferrara che rinasce”, sulla messa in campo di eventi e realizzazioni, più o meno grandi, tesi ad evidenziare che, comunque, la città non era ferma, ma, anzi, si era messa nuovamente in movimento.
Non basta avere la consapevolezza e dire che tutto ciò non è in grado di delineare alcun futuro e prospettiva per gli anni a venire per riprendere il consenso perduto, se non si è in grado di proporre un’idea alternativa delle scelte di fondo da compiere e operare una rottura di continuità anche con le politiche che il centro sinistra ha portato avanti negli anni in cui ha governato.
Peggio ancora se poi, come per buona parte dell’azione dell’opposizione negli anni passati e, ancor più, nella campagna elettorale, da parte in specifico della coalizione raggruppata attorno al candidato Anselmo, si è privilegiato un messaggio in gran parte incentrato sugli errori e le manchevolezze dell’Amministrazione, a partire da fenomeni reali di mancanza di rispetto delle regole istituzionali, cose sacrosante ma che, molto probabilmente, non hanno incrociato il sentire diffuso, anzi, per certi versi, hanno contribuito a rendere più forte l’idea che lo scontro con la destra si riducesse ad una semplice rivincita in nome del passato. Solo la lista La Comune di Ferrara ha provato a calcare un terreno diverso, quello appunto di presentare un’idea alternativa di città e del suo futuro, ma il poco tempo e risorse a sua disposizione non hanno certo consentito di farlo emergere come quello che connotava l’opzione di candidarsi a sostituirsi all’Amministrazione uscente.
Da qui, però, secondo me, occorre ripartire. Con uno sguardo largo, che chiami tutti, soggetti sociali e politici che si ritrovano in quest’orizzonte alternativo, con la loro autonomia, a lavorare su alcuni progetti alternativi ( l’idea della “città decarbonizzata”, il ruolo essenziale della democrazia partecipativa, la difesa e la promozione dei beni comuni e di un nuovo intervento pubblico, il punto di vista di una città guardata dagli occhi delle donne e altro ancora). Sapendo che il lavoro di “ricostruzione”, perché di questo si tratta, è di medio-lungo periodo, nel momento in cui si tratta sia di promuovere un pensiero e un’iniziativa capace di incidere sul “senso comune” e, contemporaneamente, di mettere in campo una nuova progettualità. Facendola soprattutto vivere tra le persone reali e comunicandola in modo diffuso ed efficace. Non sono cose di poco conto, e occorrerà tornare a parlarne in modo più puntuale e approfondito.
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Spartaco Giusti, nonostante il suo nome, non era un combattente. Vicino ai settant’anni, avvocato in un noto studio legale, viveva di procedura, curandosi di modeste cause civili che il suo principale, Galeazzo Tassoni, gli affidava. Piccolo, magro, nervoso, sempre con la sigaretta pendente all’angolo della bocca, parlava a voce bassa, guardando negli occhi l’interlocutore con un sorrisetto ironico.
Abitudinario, usciva da casa e vi rientrava alle stesse ore, tranne quando si recava in Tribunale per questioni ereditarie, controversie di agricoltori confinanti, liti su diritti di proprietà. Dopopranzo, dalle due alle tre, andava spessissimo al caffè Belvedere, frequentato dalla migliore società locale, con debito contorno di fattori, mediatori, mercanti, giocatori d’azzardo incalliti, trafficoni.
Metodico e senza grandi pretese sì, ma Giusti un rovello l’aveva: desiderava ardentemente partecipare ai riti dei ricchi, particolarmente alle feste che si svolgevano al teatro Trianon, di gran moda in quei primi anni Cinquanta: sfarzosi eventi mondani con sfoggio di luci, gioielli, vestiti. Lì si ritrovavano le più affascinanti donne; la musica risuonava fino alle prime ore del mattino, quando i protagonisti uscivano incontrando gli operai che andavano a lavorare nelle fabbriche della cittadina.
L’avvocato soffriva. Quante volte aveva sognato di gettarsi nel vivo del ballo, trasportando una bella donna nelle onde della musica! Di mescolarsi alla folla elegante, riverito e rispettato! Di poter raccontare le meraviglie di quelle feste, dicendo: io c’ero! Di poter parlare con industriali e possidenti da pari a pari, come faceva Tassoni, di affari e finanza, di teatro e opere liriche, di viaggi e di corse automobilistiche!
No, questo mondo gli era precluso. Si doveva accontentare di osservare da fuori – il teatro era proprio di fronte allo studio legale – l’arrivo delle auto lussuose in uno sfavillio di luci, il tripudio dei vestiti e dei gioielli, e di annusare i profumi femminili di cui si riempiva l’aria… Terminate le apparizioni, chiuse le grandi porte del Trianon, se ne tornava a casa, nel suo modesto appartamento, da dove gli sembrava di sentire le note di qualche canzone romantica, fino a quando riusciva a prendere sonno.
L’indomani era daccapo tra le sue scartoffie, alle prese con clienti che non capivano mai quel che diceva, che pretendevano tutto e subito e s’incazzavano di brutto se una causa andava male o troppo per le lunghe.
***
Una sera Giusti uscì molto tardi dallo studio, dopo essersi rotto il capo su una causa rognosa e complicata, per la quale aveva dovuto compulsare a lungo il codice civile e numerose sentenze. Una di quelle vertenze che danno origine a interpretazioni diverse, rivoli legislativi che sembrano divaricarsi sempre più e che non ti fanno trovare la ratio, i nessi, il giudizio conclusivo.
Gli girava un po’ la testa per le molte sigarette fumate. La notte era serena, il cielo pieno di stelle. Le luci del teatro erano accese: dentro, impazzava un veglione mascherato di Carnevale.
Il desiderio di entrare prese l’avvocato alla gola. Spinto da un impulso irrefrenabile, si avvicinò al palazzo e, nella via laterale, si accorse che la porticina d’ingresso degli artisti, chissà perché, era aperta, proiettando una debole luce sulla strada.
Entrò e si diresse verso i palchi laterali. Non c’era nessuno. Salendo le scale udì uno scoppio di voci, una maschile e una femminile, provenire dal primo ordine di palchi. Una lite che diventava sempre più accesa.
«Sei una troia – diceva l’uomo – vai con tutti senza vergogna. Ed io che per te ho speso una fortuna, credendo che tu mi amassi! Maledetta la volta che ti ho conosciuto …»
«Finiscila, bastardo! – rispose la donna – Sei un essere spregevole, non ti permettere di offendermi. Non voglio più vederti. Riprenditi i tuoi gioielli e gli altri tuoi regali! Io vivo anche senza il tuo denaro.»
Giusti ascoltava trattenendo il fiato. Era arrivato all’inizio del corridoio e da dietro un tendaggio poteva intravedere due persone ben vestite che litigavano. Poi udì alcune urla acutissime e il rumore di un corpo che cadeva.
Uscì dal nascondiglio in tempo per scorgere l’uomo che fuggiva, vestito con un elegante trench bianco. A terra giaceva Luisa Galbiati, una delle più belle donne della città, colpita da diverse coltellate. Una macchia rossa si allargava sull’abito da sera e i suoi occhi ormai vitrei fissavano le lampade del corridoio.
Per un attimo il testimone non seppe cosa fare. Chiamare aiuto? E come poteva giustificare la sua presenza lì, in quel momento? L’avvocato fuggì, mentre la gente, attirata dalle grida, si riversava nei corridoi, fuori dai palchi.
***
Giusti aprì la porta di casa sudando come una fontana e in preda ad un’estrema agitazione. Uscendo dal teatro non aveva incontrato nessuno, meno male. Si accasciò sulla poltrona e subito un pensiero lo colpì: il trench bianco era inequivocabilmente quello che usava sfoggiare Saverio Durando, industriale tra i più ricchi della zona. Quel Durando che, quando capitava nello studio legale di Tassoni, non lo degnava di uno sguardo. Lo stesso che con la moglie sedeva sempre nei primi banchi della Cattedrale, alla messa principale della domenica.
Il mattino, dopo una notte insonne, l’avvocato si recò al lavoro. Al bar, dove si fermò per un caffè, si parlava già dell’omicidio di Luisa Galbiati. Gli abitanti delle case vicine al teatro avevano sentito nella notte l’ambulanza arrivata dal vicino ospedale e il sopraggiungere delle auto dei carabinieri. Anche se i giornali non riportavano nulla, perché il fatto era successo nella notte, la notizia tra la gente era volata. Nello studio era un continuo incrociarsi di occhiate e di commenti tra i due giovani avvocati praticanti e le tre segretarie.
Giusti si sedette nel suo ufficio e aprì a caso uno dei suoi fascicoli, mentre pensava febbrilmente cosa fare. Verso le undici arrivò l’avvocato Tassoni, scurissimo in viso: si chiuse nel suo studio senza dire una parola. Dopo una mezz’ora si presentò Luigi Manetti, il segretario di Durando, che andò difilato nello studio del capo, passando davanti ai clienti che aspettavano in anticamera.
Da queste mosse Giusti capì quasi tutto. Uscì dal suo ufficio, fingendo di dover cercare dei documenti in archivio. La presenza di Manetti confermava che Durando era stato incriminato. Nel pomeriggio seppe infatti dai colleghi di studio che l’industriale si era costituito e aveva confessato il suo delitto, venendo arrestato.
Stava riflettendo sul vorticoso succedere di tutti gli eventi, quando la segretaria di Tassoni gli disse che il capo lo voleva nel suo ufficio.
Entrò nel sancta sanctorum, foderato di libri fino al soffitto e dove troneggiavano due busti lignei di illustri giuristi.
«Si accomodi, Giusti – bofonchiò sbrigativamente Tassoni – L’ho chiamata perché ho bisogno del suo aiuto. Dobbiamo preparare la difesa dell’ingegner Durando per le prime fasi del procedimento.»
«Avvocato Tassoni, io non mi occupo di diritto penale da parecchio tempo» obiettò Giusti.
«Non si preoccupi. Per il processo mi affiancherà un collega della capitale» e Tassoni nominò un famoso principe del foro. «Adesso siamo alle prime battute. Lei mi serve perché i ragazzi sono ancora poco esperti.»
Trascorse qualche minuto di silenzio… «No, io non voglio collaborare in questa causa» si sentì dire Giusti. Subito gli parve che avesse parlato un altro al posto suo. Incredibile: si rifiutava di adempiere il suo dovere professionale? Disobbediva a chi gli aveva dato da lavorare per anni?
«Come ha detto?» domandò incredulo Tassoni «Non intende collaborare?»
«No» ripeté Giusti.
«Se ne vada! – urlò Tassoni – lei è licenziato!»
Giusti si alzò in silenzio e uscì dallo studio. Andò a prelevare la sua borsa e l’impermeabile e disse alla segretaria:
«Tornerò domani per prendere le mie cose. Arrivederci.»
A casa si chiuse in camera, dove restò per ore steso sul letto. Era ancora stupito per la sua reazione e insieme provava un sentimento d’orgoglio che gli cresceva dentro. Antiche simpatie socialiste riemersero nei suoi pensieri. In pochi minuti aveva chiuso per sempre il rapporto con quel mondo di privilegiati del quale aveva tante volte desiderato di far parte.
***
Qualche mese più tardi si svolse la prima udienza del processo a Durando. Giusti andò in Tribunale e si sedette tra il pubblico. Quando gli passò accanto l’industriale pallido e disfatto per recarsi al posto degli imputati, gli sguardi dei due si incrociarono.
In quel preciso momento, il volto dell’avvocato Giusti assunse la più beffarda e insolente espressione possibile, accompagnata da una lunga e sonora risata. Era una manifestazione di ciò che in tedesco si chiama Schadenfreude, il piacere della disgrazia altrui, anche delle persone importanti. Puntuale, arrivò il richiamo del presidente della Corte che lo espulse dall’aula, ma tutto finì lì.
E Giusti visse una soddisfazione intensa, come mai gli era capitato nella sua scialba vita.
Passa come un treno
vecchia littorina
Di fumo che sbuffa
Ma
L’oro che sparge
Acceca
Non c’è niente
Di più bello
Del grano tagliato
I bianchi guardiani
Del vento
Seguono le piste
Delle messi cadute
E noi
Non siamo fachiri
Sdraiati sulla
Crespa steppaglia
Il passato mormora
Nelle canzoni
D’antica memoria
La festa
L’allegria
Ci tengono
Stretti
In una dolce tenaglia
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Gioventù Meloniana: l’inchiesta di Fanpage sui giovani di FdI
Ecco il video completo. A noi di Periscopio pare che le immagini parlino da sole, ma aspettiamo i vostri commenti.
Ma c’è di peggio della paccottiglia nazifascista esibita da gruppi di giovani e meno giovani di “Gioventù Italiana”, la federazione giovanile di Fratelli d’Italia. L’inchiesta, infatti, ha suscitato le reazioni stizzite degli esponenti della Destra Italiana. Eccone un paio, cominciando da quella del Presidente del Consiglio che attacca frontalmente la libertà di stampa e tira in ballo anche Sergio Mattarella.
Giorgia Meloni: “Perché nessuno in 75 anni di Repubblica ha ritenuto di infiltrarsi in un partito politico e riprenderne segretamente le riunioni? È consentito da oggi? Lo chiedo a lei, ai partiti politici, al presidente della Repubblica. Infiltrarsi nelle riunioni dei partiti politici è un metodo da regime.”.
Italo Bocchino, ex deputato, direttore del Secolo d’Italia, organo del partito: “Viste cose raccapriccianti ma questo è giornalismo spazzatura. Di questa storia non frega niente a nessuno, “
Apriamo con questo intervento di Alessandro Saheby un dibattito su destra e sinistra. Non solo e non tanto per commentare gli ultimi o penultimi risultati elettorali, ma per riflettere più a fondo le ragioni del successo della destra (e delle varie e diverse destre) e analizzare le mancanze, le dimenticanze e gli errori della sinistra, in Italia e in tutta Europa. Chi volesse intervenire può inviare il suo articolo a redazione@periscopionline.it (La redazione di Periscopio)
Il merito della destra
Avanza la destra, quella nera. E di fronte a questo ad ogni “giorno dopo” non riusciamo a far molto di più che responsabilizzare il popolo bue, nella grottesca rappresentazione razzista, omofoba, misogina a cui tanto ci piace dare credito.
È sempre colpa dei boomer, dell’analfabetismo funzionale o del populismo. È colpa dei media, del Pd o della politica. Insomma colpa loro, chiunque essi siano.
E così restiamo comodamente seduti sulla barricata di chi ha capito tutto, perpetuando gli errori del progressismo occidentale senza renderci conto che l’avanzamento della destra nasconde in realtà, per semplice correlazione complementare, l’arretramento inesorabile della sinistra. Che, badate bene, non soffre tanto di scarso appeal politico, quanto di carenza di una proposta desiderabile. E utopica.
Che utopia non è una brutta parola. Ma andiamo con ordine.
Voto utile: arginare la destra o arginare il consenso?
È dal 2008 che mi viene detto che è necessario tapparsi il naso e votare Partito Democratico per arginare la destra, Berlusconi al tempo. Nel frattempo sono passati sedici anni, sono cambiati i pericolosi avversari (prima Salvini e poi Meloni) e il cosiddetto voto utile ha perso qualcosa come sei milioni di voti.
Il meccanismo che spinge l’elettore ad aderire alla chiamata del voto utile si basa sull’assunto per cui scegliere il meno peggiosia un dovere sofferto ma necessario per frenare l’avanzata dell’onda nera.
Il meccanismo, tuttavia, è a tratti perverso. Da una parte chi vota viene investito dall’enorme responsabilità di arginare la tempesta populista sacrificando il proprio voto. Dall’altra, quel voto continua ad andare a chi offre le stesse ricette politiche che hanno causato il malessere e il malcontento che favorisce l’estrema destra. In Italia, se consideriamo gli ultimi vent’anni, il meno peggio ha governato per la maggior parte del tempo.
Naturalmente chi difende il voto utile è convinto che questo amaro compromesso abbia un carattere prettamente temporaneo e che questo serva ad arginare l’imminente pericolo reazionario, in vista di un futuro miglioramento.
Tuttavia, anche qui, l’inganno elettorale è evidente. Il voto utile, ovvero il voto all’ala progressista dello status quo, in questi anni non è stato in grado di rispettare la promessa di miglioramento sociale consolidando le offerte politiche ingiuste e scadenti del capitalismo contemporaneo. Insomma, quel “domani andrà meglio” non è mai arrivato e, con il ricatto del realismo e sotto la schiacciante leva della responsabilità dell’elettore, il meno peggio si è limitato ad accettare le regole del gioco neoliberale, rimbalzandosi di tanto in tanto il potere con il “molto peggio”.
Insomma, come dice Fisher, il meno peggio non significa solo scegliere questa opzione in questo momento elettorale ma significa innanzitutto aderire ad un sistema che ti costringe ad accettare il meno peggio come massimo a cui poter aspirare.
Ma, soprattutto, voto utile ha rappresentato una sponda alla strategia di esclusione di tutti quei movimenti e partiti alternativi al capitalismo. Qualsiasi proposta politica che abbia provato a mettere in discussione i capisaldi del sistema dominante è stata infatti schernita, silenziata, infantilizzata e falsamente bollata come irrealizzabile.
Votare per un partito piccolo ma, a suo modo, rivoluzionario è stato dipinto come atto di scarso realismo. Se non fosse che il realismo del meno peggio non ha nulla a che vedere con il reale. Al contrario: il reale è ciò che il realismo del meno peggio è continuamente costretto a sopprimere.
E il reale ci urla ogni giorno che l’elettorato non vota a destra perché non riconosce le libertà o i diritti delle minoranze. Non vota a destra perché imperniato di patriarcato e sbeffeggiante ignoranza.
L’elettorato vota a destra perché ha paura.
Il futuro ci fa paura?
È connaturata all’Homo Sapiens la paura del futuro. Oggi, in un mondo sempre più dominato dal disordine neoliberale, questa paura è accentuata. La progressiva cancellazione delle tutele sociali e dei diritti, unita allo smantellamento delle strutture di welfare e sostegno agli individui, ci ha resi terribilmente fragili.
Abbiamo il terrore di perdere il lavoro, di non riuscire a pagare un mutuo o un affitto, di vedere peggiorare le nostre condizioni. E siamo dolorosamente consapevoli di essere soli, di dipendere unicamente dalle nostre forze, privati di quei paracadute collettivi che un tempo venivano definiti diritti e che oggi, erroneamente, chiamiamo privilegi.
La differenza storica tra destra e sinistra si è sempre contraddistinta nell’approccio alle soluzioni per questa paura. La destra ha sempre offerto scenari futuri conservativi, se non passatisti. Quando Donald Trump urla “Make America Great Again“, sta evocando un passato di presunti splendori, un’epoca in cui gli Stati Uniti dominavano il mondo e il benessere economico sembrava alla portata di tutti. Bolsonaro, in Brasile, ha seguito una retorica simile, rimpiangendo i “bei tempi” del regime. Matteo Salvini ha fatto eco con il suo celebre “rivoglio l’Italia dei miei nonni“, mentre Giorgia Meloni si appella alla sicurezza apparente di un’esistenza ancorata alla spiritualità tradizionale (Dio), all’appartenenza a uno Stato orgoglioso e presente (Patria), e alle certezze di forme di aggregazione collettiva in un’epoca di aggressivo individualismo (Famiglia).
Questa nostalgia del passato proiettata nel futuro è rassicurante, perché conosciuta. È incastonata nei ricordi di un tempo in cui ci si sentiva più protetti, più comunità, più società.
L’elettore non è stupido: nessuno con un po’ di sale in zucca crede veramente che la lancetta del tempo possa arbitrariamente essere riportata indietro attraverso un’azione politica. L’elettore però non ha scelta: il mondo cambia e cambia in modo crudele, ha paura, e si trova a dover scegliere tra un futuro posticciamente tracciato con i contorni del passato e l’alternativa del futuro di progresso e prosperità sociale proposto dalla sinistra.
Futuro che, oggettivamente, non esiste.
Un futuro desiderabile
La diffusa sensazione che permea la nostra società è che il capitalismo sia l’unico percorso politico ed economico percorribile, tanto che è ritenuto quasi folle immaginare un’alternativa concreta. Intrappolati nei limiti del reale, il massimo che possiamo fare è decorare un sistema basato sullo sfruttamento illimitato di risorse e persone, senza trovare il coraggio di andare oltre, fare la sinistra, tracciare un percorso che accompagni l’elettore in una direzione desiderabile e di progresso.
Desiderare significa esattamente questo: viene dal latino siderare, ovvero l’atto di alzare lo sguardo per fissare le stelle. È sognare ad occhi aperti.
Il fascino per gli astri ha sempre caratterizzato la nostra specie, generando miti, leggende, scoperte scientifiche. Senza il desiderio di toccare il cielo, non avremmo costruito cannocchiali, aerei, satelliti, astronavi. Abbiamo guardato la volta celeste e ci siamo promessi di raggiungere le stelle. Un’utopia che poi si è incredibilmente realizzata.
Certo, dai tempi di Icaro fino all’Apollo 13, abbiamo sperimentato numerosi insuccessi, ma non ci siamo mai arresi alla disperazione o alla paura di rimanere legati al suolo. Alla fine, abbiamo imparato a volare.
Non è curioso? Siamo riusciti a sollevare l’Homo Sapiens dal suolo dopo 200.000 anni di tentativi falliti, eppure non riusciamo nemmeno a concepire l’idea di liberarci di un sistema economico che esiste da solo pochi secoli e che continua a fare paura.
Al futuricidio del capitalismo siamo stati in grado di contrapporre poco, ci siamo nascosti nella sua accettazione. Abbiamo spento ogni utopia.
E, questa rassegnazione, finisce per essere trasmessa all’elettore.
Che diventa, nei tribunali morali di cui siamo giudici auto eletti, il cattivo votante.
Il merito della destra
In un sistema che per vari motivi non funziona abbiamo lasciato alla destra lo scettro dell’anti sistema. Essere contro non significa trovare nel rozzo elettore di destra l’ennesima etichetta da affibiargli per deumanizzarlo. Non è dandogli dell’omofobo, dei razzistia o dell’analfabeta che lo convinceremo che noi siamo migliori. Essere contro significa proporre un modello che rappresenti un’alternativa futura alle contraddizioni del presente, significa dire alle persone è lì che ci stiamo dirigendo.
Attirerò molte antipatie, lo so. Ma la pace in Palestina, il femminile esteso o l’eliminazione della retorica classista al lavoro o in un’università sono utili a malapena a rendere il mondo più giusto, non a renderlo giusto e basta. Le battaglie che conduciamo, tutte giuste e sacrosante, non rispondono alla domanda che molti di noi si chiedono quotidianamente: che ne sarà di me domani?
Non dicono molto sul futuro, non danno soluzioni all’insicurezza e alla paura che permeano le vite precarie della maggior parte di noi. Non ci danno una direzione collettiva in grado di costruire una proposta politica se non in forme di resistenza sparsa e disordinata allo status quo.
E l’elettore, che stupido non è, di fronte alla mancanza di controllo della sua stessa esistenza si trova costretto a rispondere in due modi: o attraverso l’atto politico più svilente, la presa di coscienza della sua impotenza, con l’adesione al partito dell’astensione. Oppure affidandosi a chi promette un futuro tangibile, sicuro e alternativo. Affidandosi a chi dà risposte.
Lo sta facendo, e lo sta facendo bene, la destra. Lo sta facendo intercettando la paura e proponendo improbabili e irrealizzabili soluzioni. Ma comunque soluzioni.
Non lo stiamo facendo noi, da quando abbiamo deciso di smettere di immaginare ad un futuro desiderabile e di liberazione.
Quale è stato, in passato, il socialismo e la sua utopia.
Complimenti amari alla destra, vittoria ahimè meritata.
Ancora una volta.
Note
Lo so, avevo promesso “non più di una mail al mese”. Ma non mi andava di fare post o storie su Instagram, credo che l’argomento meritasse una riflessione più profonda. Spero di non disturbare.
Grazie ancora ai 1922 sostenitori e sostenitrici che mi hanno offerto un caffè, sostenendo l’indipendenza e la gratuità del mio lavoro di divulgazione.
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Che legame c’è fra la matita e il film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi?
Mai sottovalutare il potere di una matita. Oggi più che mai. Il suo tratto può raccontare, disegnare, ritrarre, descrivere, ascrivere, votare. Nata dalla grafite, inizialmente utilizzata per segnare il bestiame, viene chiamata anche làpis, la sanguigna (lapis aematitis) del XVI secolo.
Da sempre simbolo del potere della cultura, minaccia per le dittature – basti ricordare l’intensa pellicola del 1986 di Héctor Olivera, “La notte delle matite spezzate” – la matita ha un posto importante in “C’è ancora domani”, esordio alla regia di Paola Cortellesi. Tutto porta a lei, a quello che può fare e rappresentare. Un giorno pure a far cambiare.
In una Roma in bianco e nero del Secondo Dopoguerra, Delia (Paola Cortellesi) è la moglie di Ivano (Valerio Mastandrea) e la madre di tre figli. Madre e moglie, questo il ruolo di una donna come tante altre del periodo: né Donna, con la d maiuscola, né tantomeno cittadina. Anche il ruolo di lavoratrice con i propri diritti le è precluso: Delia è solo una brava domestica di famiglia, nonché badante del suocero, il dispotico Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), che le rimprovera di osare “ribattere un po’ troppo”. Va zittita. Lei come tutte.
Paola Cortellesi, foto Claudio Iannone
Ivano è manesco, lavora duramente per portare i soldi a casa (come se Delia non lo facesse con i suoi frenetici e mal pagati lavori di rammendo, di riparazioni di ombrelli e di iniezioni a domicilio), ama usare la cinghia per farsi ascoltare e rispettare. Non ha altro linguaggio. Unico sollievo di Delia è l’amica Marisa (Emanuela Fanelli), con la quale condivide momenti di leggerezza e qualche intima confidenza. Un incontro di solitudini.
Di questo film pluripremiato al botteghino e con ben 19 candidature al David di Donatello 2024 – record assoluto per un film d’esordio – (e 6 David vinti), sono molti i punti convincenti. I toni del neorealismo, una sceneggiatura – scritta dalla stessa Cortellesi insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti – che parla, in maniera semplice, a tutte le donne, la trovata geniale delle botte di Ivano inferte a tempo di musica in una danza macabra e un ‘paso doble’ del terrore che solo la Cortellesi, con il suo humour da comédienne e da impeccabile imitatrice, poteva inventarsi. Viene quasi da ridere senza che ci sia davvero nulla da ridere. C’è poi rabbia gentile, sullo schermo, quella che fa bene perché fa riflettere.
Vinicio Marchioni e Paola Cortellesi, foto Claudio Iannone
Un thriller, con tanto di suspence che fa temere, ad ogni momento, che possa tornare l’orco cattivo, un principe azzurro in tenuta da meccanico con il quale si pensa (e si spera), fino all’ultimo, che Delia voglia fuggire, la semplicità di una famiglia del passato come ce ne sono state tante, nell’Italia ferita delle nostre nonne operose e delle nostre madri tenaci.
Pur con qualche stereotipo di troppo, come il soldato americano di colore che regala sigarette e cioccolata, il film, girato nel quartiere romano di Testaccio, è intenso e coinvolgente e sfiora le corde dei cuori più timorosi e restii a sapere e ricordare.
Nelle parentesi quotidiane di violenza ci sono amicizia, amore, tenerezza, complicità, sentimenti in equilibrio più o meno precario. La volontà di liberare la giovane e inesperta figlia Marcella (Romana Maggiora Vergano) dallo stesso destino. E poi c’è la messa della domenica, alla quale si deve assolutamente andare, proprio quella domenica precisa, quella di una data storica. Ora si può. Il monito è forte. Non dimenticare mai quel potere che, con lotta e sangue, ci è stato regalato dai nostri preveggenti avi. C’è, infatti, sempre un altro giorno per cambiare. Basta saperlo attendere. Con la matita in mano.
“C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi, con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli, Giorgio Colangeli, Vinicio Marchioni, Italia, 2023, durata 118 minuti.
un’azione teatrale itinerante, evento finale del progetto “Dentro i Margini”
svolto da Balamòs Teatro APS alla Comunità Papa Giovanni XXIII° di Denore (FE)
diretto da: Michalis Traitsis collaborazione artistica: Patrizia Ninu accompagnamento musicale dal vivo: Chiara Alberani foto: Andrea Casari
Venerdì 28 Giugno 2024, ore 18.30 Comunità Terapeutica Papa Giovanni XXIII°, via Massafiscaglia 434, Denore, (FE)
Presentazione (Alessandro), Accoglienza (Luca), Cambiamento (Salah), Rinuncia e Scelta (Debora), Benvenuto Mondo (Rebecca), Amore (Enrico), Obbedienza (Valeria), Pace (Alessandro).
Che vale avere amato se nessuno se ne è accorto anche se lo hai fatto per il bene di tutti tu con la tua povertà, tu con la tua umiltà, hai saputo umiliarci.
(Poesia a San Francesco, Fabrizio De André)
Forse non si possono neanche contare tutti i saggi, i romanzi, i canti, le immagini, le storie dedicate a Francesco. Chi era Francesco D’Assisi? Vagabondo, folle d’amore, elemosiniere di Dio, provocatore, santo, poeta, giullare di Dio, come amava definirsi?
Attorno a lui si sono appassionati, e talora divisi, laici e religiosi, credenti e scettici di ogni tempo. Ostinato, irruento, libero come nessuno, Francesco compie il gesto più difficile per un uomo: Francesco cambia radicalmente la propria vita e non ritorna più indietro.
Il giullare è anche colui che cammina a testa in giù e che in tal modo ci offre uno sguardo capovolto sul mondo. Abbraccia la povertà, la fratellanza, l’amore universale. Non approda alla solitudine e al ritiro ma sceglie di confrontarsi e di agire nel mondo. Inizialmente contrastato, deriso, messo alla gogna, Francesco dà vita, in un tempo assai breve, a un Ordine di enormi dimensioni e importanza.
L’intenzione di questa azione teatrale itinerante non è quella di ricostruire e raccontare la vita di Francesco ma di scegliere alcune parole che ne hanno punteggiato alcuni episodi della sua vita e che hanno creato echi in ciascuno di noi.
In queste ore si sta tenendo il primo storico sciopero dei lavoratori della Borsa di Milano. Nell’attesa di vedere come sarà andata, postiamo questo articolo tratto da Collettiva nel quale vengono esplicitate le ragioni della mobilitazione.
La Redazione di Periscopio
Primo sciopero del Gruppo Borsa italiana in oltre duecento anni storia. Una protesta che si articolerà domani, 27 giugno, nelle ultime due ore di turno, quando gli operatori del gestore del mercato finanziario italiano, di proprietà del colosso francese Euronext, incroceranno le braccia e scenderanno in piazza, a partire dalle ore 14 a Milano.
A proclamare questa clamorosa azione di protesta, alla quale faranno seguito altre azioni, come il blocco degli straordinari e della reperibilità, fino al 14 luglio, sono state le organizzazioni sindacali Fabi, First Cisl e Fisac Cgil. Due ore di blocco che coinvolgeranno Piazza Affari insieme alle altre società del gruppo: Cassa Compensazione e Garanzia, Mts e Monte Titoli.
Una protesta eclatante che investe un presidio cruciale per il sistema economico e finanziario: dalla stabilità dei mercati finanziari ai riflessi sull’economia reale, che trae carburante dal mercato di Piazza Affari, fino alla delicata gestione del nostro debito pubblico.
Ed è per queste ragioni che, nelle ore immediatamente successive alla proclamazione dello sciopero, si sono fatti sentire due esponenti di primo piano del governo. Da una parte il ministro Urso, che ha convocato per il 3 luglio prossimo le organizzazioni sindacali al ministero delle Imprese e del Made in Italy, mentre la settimana successiva toccherà ai rappresentanti di Borsa Italiana; dall’altra il ministro Giorgetti che ha assicurato l’interessamento del Mef alla vicenda, nonché quello della Consob.
Si delinea un interessamento istituzionale, tutto da valutare, in linea con quanto rivendicato dalla segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, che aveva difatti chiesto “un urgente intervento istituzionale per salvaguardare una realtà di interesse strategico per il paese” proprio perché come sistema paese “non possiamo permetterci che venga minata l’autonomia decisionale e strategica delle società italiane del Gruppo Borsa italiana”.
Quattro le ragioni che hanno indotto le sigle sindacali a questa storica decisione: la tenuta occupazionale e la valorizzazione professionale delle lavoratrici del Gruppo Borsa italiana, la questione salariale, una non funzionale organizzazione salariale e, infine, il tema della governance e della progressiva perdita di autonomia direzionale e strategica delle società italiane del Gruppo Borsa Italiana. Su questo ultimo punto, infatti, la questione diventa geoconomica, ponendo ancora una volta su fonti contrapposti Francia e Italia. Infatti Euronext, la borsa pan-europea nata a Parigi, ha acquistato Borsa Italiana nel 2021 con principali azionisti l’italiana Cassa depositi e prestiti e la francese Caisse Des Dépots, per generare una operazione paritaria, di tipo federativo e non competitivo.
Ma è nel susseguente processo di integrazione, lungo i successivi governi, che le cose iniziano a scricchiolare. “Peraltro come Paese – ricorda Gabriele Poeta Paccati, segretario generale della Fisac Lombardia e delegato a seguire la questione dalla segreteria nazionale – portavamo in dote a questa operazione delle vere e proprie eccellenze tecnologiche: non solo Borsa Italiana ma anche Cassa compensazione e garanzia, Mts e Monte Titoli. Tre gioielli tecnologici, di assoluta avanguardia e competenza, che Euronext non aveva.
Non solo: in termini occupazionali l’Italia è il Paese che pesa di più in Euronext, con 764 occupati, pari al 37% del totale”. Nel silenzio della politica, il merger è andato avanti: “Circa due anni fa – afferma ancora – inizia l’integrazione vera e propria, con lo spostamento dei mercati verso una piattaforma unica parigina. Finiscono le sperimentazioni che Borsa aveva in cantiere e inizia un lento esodo dei dirigenti, tra licenziamenti e allontanamenti, e di piccole riorganizzazioni sostanziali che svuotano i ruoli sulla piazza italiana. Monte Titoli, ad esempio, viene frammentata e splittata tra i vari Paesi europei. Perdiamo centralità”.
La “mente” del Gruppo varca i confini nazionali e approda a Parigi. “Rischiamo di diventare un mercato di periferia – lancia l’allarme Poeta Paccati – in una posizione subordinata, svuotata, rispetto alle decisioni strategiche”. Da qui la necessità che le istituzioni, allo stesso tempo azioniste di Euronext, facciano sentire la loro voce. “Attraverso Cdp siamo tutti azionisti – continua -, c’è bisogno di esercitare un ruolo di vigilanza e di indirizzo. Parliamo, tra le altre cose, della gestione del nostro debito pubblico, tema molto delicato, che non può uscire fuori dal perimetro nazionale. Ma parliamo anche di un mercato cruciale per l’economia reale, il collante tra risparmio e investimenti, a doppio filo legati al tema della crescita”.
Per quanto riguarda la posizione sindacale, le questioni dirimenti nel Gruppo Borsa Italiana sono due: “La tenuta occupazionale e la valorizzazione professionale – aggiunge Poeta Paccati –, che vanno di pari passo con una riaffermata centralità del Gruppo. Viviamo pessime relazioni sindacali, che si riverberano su una non adeguata organizzazione del lavoro: le lavoratrici e i lavoratori lamentano turni massacranti, in ragione di un lavoro che non conosce soste, e una reperibilità continua. Non c’è stato l’adeguamento salariale previsto dal rinnovo del contratto del credito, con l’assorbimento degli ad personam. E le prospettive del prossimo piano industriale sul piano occupazionale non ci fanno ben sperare. Questo complesso di ragioni, sedimentate nel tempo, mesi di malcontento e orecchie sorde del management, ci hanno portato allo sciopero”.
La mobilitazione è per questo in campo, nei prossimi giorni, dallo sciopero di domani alla convocazione al Mimit, capiremo quanto sia davvero strategica, per Euronext e per il paese, Gruppo Borsa Italiana.
“Domani è spesso il giorno più occupato della settimana.”
(Proverbio spagnolo)
Nel mondo dei social
abbiamo disimparato
la comunicazione
Nel mondo dell’abbondanza
la semplicità
è lusso dei ricchi
la serenità
il prezzo scontato
dai poveri cristi
Nel mondo dell’apparenza
i corpi sono commercio
la bellezza una moneta di scambio
la giovinezza un’illusione eterna
Nel mondo della velocità
il tempo è la vera ricchezza
rallentare
la scelta più coraggiosa
Nel mondo degli oggetti
sono le esperienze a fare la differenza
la conoscenza
a indicare la libertà
Nel mondo dell’intelligenza artificiale
l’ignoranza trionfa
il pregiudizio
insegna la paura
Nel mondo della logica
la trascendenza è il bisogno naturale
di chi conserva
scintille d’infinito
Nel mondo del consumo
c’è fame di relazioni autentiche
di mettersi in cerchio
attorno a un fuoco
Nel mondo della norma
le differenze vanno al rogo
ma è l’unicità
la nostra salvezza
Il mondo
che seppellisce la pace
che si abitua alla morte dei suoi figli
e gira la testa verso
un uomo che muore per strada
è già la nostra condanna
*
Poiché a ogni attimo
siamo diversi
avrei voluto
che tu incontrassi
la mia versione intatta
meno ammaccata della tempesta
meno segnata di una banana matura
quella che riceveva rotoli di fax
e a rotoli rispondeva
quella di francobolli/cartoline
e ghiaccioli al tamarindo
con la musica in cassetta
e film a peso da noleggio
la me stessa acerba e disinvolta
che ignorava tutto del vivere
ma ne serbava ogni speranza
non sapendo
che si rimane puri
solo conservando meraviglia
che si rimane vivi
solo se non si diventa
ciò che la vita ci ha fatto
*
Ci pensi mai
a quando saremo fuori
dal limite del tempo?
Quando per ogni cosa
avremo l’infinito
senz’affanno
la calma dovuta
allo stropicciare di papaveri
il lento sostare
lungo la riva del fiume
l’inizio non sarà diverso dalla fine
nessuna fretta
per ogni domanda
faremo risposta
Saremo stagione
che non delude
cerchio perfetto
frutto che coincide
a sé stesso
ancor fiore
ancora seme
compiuta coincidenza
della vita
*
Accettare la morte delle anime belle
è un masso da spostare in salita
una contraddizione in termini
un dispiacere crudele
lama che spezza il cuore
Ci sono destini incomprensibili
che vanno oltre
riservati a ciò
che ancora non capiamo
Non rimane
che lottare con la rabbia
spegnere i pensieri
affidarsi all’altrove
rendere grazia
per il dono ricevuto
anche se troppo breve
Resta tutto il bene
restano ricordi da onorare
con il meglio che siamo
con il meglio che possiamo
*
Amo
le persone finestra aperta
le persone sorso d’acqua
le colonne del tempio
chi porta tutto il peso
i piloni del rugby
Amo
gli angeli in borghese
con le ali dimenticate in valigia
le custodi della casa
chi rende facile
l’immensamente difficile
Amo
ogni forma di brillante umanità
d’alta frequenza
di cuore spalancato
d’inestimabile improvvisazione
di folle indispensabile poesia
Solo così
si vince tutto
Solo così
si vive tutto
*
A quelli che dicono
che la poesia è cosa antica
senza senso ai giorni nostri
io rispondo
che di sensi ne ha più d’uno
L’essenza
in un mondo di eccessi
la messa a fuoco
di quel che conta
Il silenzio
fra il nero inchiostro
e il bianco delle lettere
La musica
che gira intorno
che sta dentro
che esce fuori
La lentezza
dello scrivere
del leggere/rileggere
del sentire
siamo ruminanti di pensieri
La sorpresa
lo svelamento inaspettato
di ciò che abbiamo guardato
milioni di volte
ma solo ora vediamo
Il valore delle parole
ne bastano pochissime
per cambiare il mondo
Ciascuno trovi
le sue
Anna Martinenghi è nata a Soncino (Cr) in una notte di neve del 1972. Nel 2007 ha vinto il concorso indetto dalla casa editrice EDIZIONI CINQUEMARZO di Viareggio, pubblicando la sua prima raccolta in versi liberi “DIDASCALIE” a cui sono seguite la silloge “NUDA” (2009) – “PAROLE POVERE” (2010).
Nel 2010 a seguito della vittoria della XXI edizione del concorso letterario organizzato dall’associazione culturale “Il paese che non c’è” di Bergamo ha pubblicato la silloge “FOTOSENSIBILE” con l’editore Franco Colacello di Bergamo. Nel 2011 la nuova raccolta di poesie “IL CIELO DI SCORTA E ALTRE OFFERTE DELLA SETTIMANA” è stata segnalata durante il premio nazionale “SCRIVERE DONNA 2011” presieduto dalla poetessa MariaLuisa Spaziani, tale raccolta è stata poi pubblicata nel maggio 2013 dalla casa editrice Linee Infinite di Lodi. Nel 2013 con il testo teatrale “HABLA CON EVA” vince il premio PORTALE SIPARIO nel Concorso “Autori Italiani” organizzato dalla Fondazione Teatro Italiano “Carlo Terron” di Milano in collaborazione con la rivista SIPARIO.
Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di racconti “SEI TROPPO GRANDE PER CAPIRE CERTE COSE“, Edizioni del Gattaccio – Milano.
Nel 2020 con Giorgia Ferrari e Chiara Nobilia ha curato l’antologia poetica CON-TATTO in risposta al Covid19. Nel 2021 vince il premio Bukowski nella Sezione poesia con la raccolta “O2. Ossigeno”, Giovane Holden Edizioni. Nel 2022 la stessa raccolta vince il Contropremio Carver per la poesia edita. Nel 2023 pubblica la raccolta “Faccio cose del secolo scorso” con Controluna Edizioni di Poesia. In “Parole a Capo” sono state pubblicate altre sue poesie il 9 Novembre 2023.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Tanti femminismi, un solo capitalismo: oltre le identità per una vera lotta di classe
Vorrei riprendere alcune problematiche introdotte da Anna Guerrini nel suo interessante saggio “Femminismo e regime di guerra: oltre le politiche dell’identità”(si può leggere qui).
Prima di tutto il superamento della definizione al plurale di un movimento che ha voluto, evolvendosi nel corso di un secolo, includere diverse appartenenze identitarie, pur rimanendo nell’ambito sociologico e politico di partenza. Si parla molto di femminismi di vario tipo, le cui diciture proliferano di anno in anno, in una rincorsa alla modernità che va dall’intersezionalismo al transfemminismo di ultima generazione. Oltre al fatto di creare un serio imbarazzo negli interlocutori maschi, che capiscono sempre meno di cosa si stia parlando, concordo con la critica della filosofa Donna Haraway, che avverte come le “tassonomie” del femminismo possono creare dicotomie artificiali includendovi discorsi femministi che ostacolanoseriamente i discorsi costruttivi sulla soggettività femminile. In altre parole: se i femminismi sono tanti, i discorsi politici costruttivi sulla soggettività femminile sono ostacolati prima di tutto da uno solo: il capitalismo globale, fagocitante, totalizzante e sempre più armato.
Per questo motivo ho apprezzato la semplice e pregnante definizione della Guerrini: “Per me femminismo è decostruzione e sovversione della riproduzione sociale del capitale […]È una politica di classe, dove “ classe” è il nome di un soggetto che si dà nell’antagonismo, anche nei confronti della politica dei blocchi che il regime di guerra impone.”
Una delle prime e più gravi divaricazioni del movimento femminista è stata fra “emancipazioniste” e promotrici della liberazione della donna. Certo emancipazionismo ha portato al femminismo liberale e neo liberale (di cui possiamo valutare la valenza reazionaria anche nel capo del governo italiano), corredato dalla ridicola legge sulle quote e dalla parola d’ordine “me first” di superwomen rampanti nel mondo degli affari, che rivendicano il diritto di “sfruttare quanto gli uomini”.
Anche uno dei pochi momenti che ha visto l’internazionalismo del movimento femminista lottare per il salario in cambio del lavoro domestico, ormai di lontana memoria, è stato brillantemente superato dal connubio fra razzismo e capitalismo che ha affidato progressivamente il lavoro di cura alle badanti immigrate, trasformandolo gradualmente in lavoro salariato, creando le catene globali della cura, con flussi di capitali, per esempio in Ucraina, ma non solo, da far concorrenza a quelli americani.
Di fatto mentre Russia e Ucraina, Palestina e Israele si fanno una guerra all’ultimo sangue, nel nome del nazionalismo più feroce, stranamente la legge sull’aborto è sotto attacco nei primi tre Paesi (Israele ha invece semplificato l’accesso all’aborto), per non parlare degli Stati Uniti. La spiegazione di questa visione unanime in Paesi con contrasti che paiono insanabili è che il simbolico femminile viene visto come un’arma di guerra, un’enorme riserva di stabilità sociale, di capacità riproduttiva di esseri umani da mandare al massacro.
La violenza specifica a cui sono esposte le donne nelle economie di guerra è che sono quasi sempre vittime di una doppia oppressione: quella del nemico esterno, ma anche quella del nemico interno, che coglie l’occasione per vanificare i diritti faticosamente conquistati. In accordo con le analisi di Max Weber sull’importanza del fattore religioso nella vita economico-politica, l’attacco alle donne avviene subdolamente attraverso l’intervento della chiesa ortodossa per le donne russe e ucraine, la religione islamica di Hamas per le palestinesi, il richiamo del Papa per le cattoliche.
In conclusione il movimento femminista, a mio parere, deve prima di tutto prendere coscienza che l’ideologia della guerra, da cui siamo quotidianamente martellati, obbligandoci allo schieramento rispetto a dimensioni politiche nazionali, è principalmente utilizzata per rideterminare fronti interni, eliminare resistenze, restaurare vecchi paradigmi. Con lo specchietto per le allodole che la partecipazione delle donne alle forze armate sia l’emblema dell’uguaglianza di genere. Se questa è l’uguaglianza, io non la voglio.
A volte serve una bella provocazione per ragionare seriamente sulla società in cui stiamo vivendo e sui modelli culturali che certi mass media ci tengono a veicolare. Ad esempio, il pubblico televisivo sembra attirato magneticamente da programmi ambigui in cui i concorrenti gareggiano fra loro per apparire più capaci, più seducenti o più affascinanti ed al pubblico viene dato il potere di eliminare la persona che non gli piace. Trovo queste offerte commerciali davvero finte ed ipocrite e credo che, forse, avremo bisogno di fermarci a riflettere su quali modelli potrebbero invece esserci utili per poter pensare ad una società inclusiva in cui si possa vivere insieme, cooperando con impegno e sincerità. (Mauro Presini)
The Jail
di V.
Quante volte abbiamo sentito dire che non ci sono soldi per le carceri e soprattutto che un detenuto costa cifre spropositate allo stato?
Davvero le cose non possono cambiare?
E se ci fosse un sistema per far risparmiare lo stato, o addirittura far guadagnare, e addirittura migliorare le condizioni delle carceri?
Si è notato come al pubblico televisivo piacciano sempre di più programmi di reality come Il grande fratello, L’isola dei famosi, Temptation Island, Il collegio, ecc … e soprattutto si è notato come il pubblico sia sempre più disposto a pagare per avere la possibilità di seguire i propri beniamini.
In tutte le carceri italiane sono istallate decine e decine di telecamere per il videocontrollo. La nostra idea è drammaticamente semplice.
Perché non offrire un servizio a pagamento dove poter acquistare la possibilità di vedere cosa riprendono le telecamere istallate nelle carceri? Magari con dei pacchetti realizzati ad hoc.
Provate a pensare se poi in un carcere dove è ristretto un “VIP” della criminalità (solo per non offendere nessuno si faranno i nomi solo di personaggi già passati a miglior vita) come un Messina Denaro, un Salvatore Riina.
Quanta curiosità si avrebbe nel sapere che c’è la possibilità di vedere come vive e che fa un grande capo mafia costretto nelle patrie galere?
Se la serie Gomorra ha spopolato ed era solo una finzione, figurarsi poter avere la possibilità di vedere in diretta il vero male della società.
Come vive uno spacciatore?
Che faccia ha un assassino appena sveglio?
Sono famose le aggressioni che capitano nelle sezioni, perché non monetizzare il macabro spettacolo che spesso viene messo in scena?
Se anche solo lontanamente il pubblico apprezzasse in maniera simile ai normali reality ci potrebbe essere un guadagno nell’ordine di miliardi di euro ogni anno…
Con a disposizione cifre del genere quante cose potrebbero essere migliorate presso tutte le nostre carceri? Ci sarebbe poi un effetto benefico secondario che non è per noi da sottovalutare: se i detenuti sanno di essere osservati in tutto quello che fanno cercheranno di rispettare molto di più le regole imposte dalla legge.
La polizia penitenziaria ha una carenza patologica di organico, poter contare su qualche milione di occhi in più non potrebbe che migliorare l’efficienza anche del loro operato.
In piccolo negli Stati Uniti sono già stati creati programmi televisivi dove si racconta la vita dei detenuti presso carceri a regime attenuato; evidentemente non è un’idea così balorda ma soprattutto è fattibile.
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Ci sarà stato chi ha pensato che invitare per la prima volta un papa al vertice dei potenti del mondo, valeva la pena in termini di immagine, anche a rischio di qualche sbavatura nel rodato copione che queste cose devono seguire.
Trattandosi di questo papa, Francesco, di sicuro ci sarà stato anche chi avrà ragionato sul come “confinare” il suo intervento ad un tema, l’Intelligenza Artificiale, in fondo potesse essere il meno problematico da fargli maneggiare.
Un tema che parla di futuro possibile, di grandi conquiste dovute alla capacità umana, di inimmaginabili opportunità di valicare nuove frontiere. Main un contesto come il nostro, quello della guerra globale, i grandi pensieri positivi sul futuro vengono soffocati sul nascere.
Basterebbe il 3 per cento
La corsa al riarmo, l’industria di morte della produzione di macchine di distruzione di massa, è il vero focus di questo G7 purtroppo. Eppure basterebbe il 3% di ciò che spendono i “grandi” per armarsi, a sfamare tutto il mondo e a cancellare il debito oppressivo della sua parte più povera, come ci ricorda:
“La violenza provocata dalle guerre mostra con evidenza quanta arroganza muove chi si ritiene potente davanti agli uomini, mentre è miserabile agli occhi di Dio” ha ripetuto il Papa nel suo Messaggio per la giornata dei poveri.
E la guerra di poveri ne produce sempre di più. E la guerra contro i poveri, come quella fatta ai migranti, è all’ordine del giorno. E anche quando si parla di IA, inevitabilmente, la guerra entra in gioco, con le sue follie e il suo dominio incontrastato su questo mondo.
Tra intelligenza “naturale” e “artificiale”
Ogni innovazione tecnologica prodotta dall’uomo, ha nell’uso che si decide di farne, la determinazione degli effetti, positivi o disastrosi, sulla vita e sul pianeta. È una intelligenza “naturale”, sulla quale ci interroghiamo sempre meno, che decide.
Sarà forse anche per questo allora, che l’Osservatore Romano pochi giorni fa, ha pubblicato un interessante articolo a firma di Roberto Cetera, proprio sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e dispositivo di guerra. L’IA che uccide era il titolo, senza possibilità di equivoci.
Il materiale d’inchiesta preso a riferimento dall’Osservatore Romano, deriva da una pubblicazione del Guardian e di due giornali online israeliani, e riguarda informazioni raccolte soprattutto da alti ufficiali dell’esercito di Tel Aviv.
“Lavanda”
La pianificazione del massacro di Gaza, che ancora non sembra avere fine, è frutto dell’Intelligenza Artificiale. Il software utilizzato per indirizzare i caccia e le truppe d’assalto, per la scelta dei proiettili e delle armi di morte da utilizzare, per calcolare tempi, modi, stategie di uno degli eserciti più potenti del mondo, si chiama Lavender, ‘Lavanda’.
È un sistema sottoposto a pochissima supervisione umana. Seleziona gli obiettivi da “eliminare”, utilizzando un database di informazioni che vengono caricate dalla “control room” della guerra e riguardano profili di migliaia di “potenziali” nemici da colpire. Potenziali, perchè quelli “sicuri” erano già noti e sotto il tiro.
Ma l’eliminazione dei presunti nemici, ritenuti possibili fiancheggiatori delle milizie di Hamas o della Jhiad, è avvenuta sulla base di una “profilazione” di tutta la popolazione civile eseguita dal potentissimo software. 37 mila gli obiettivi individuati, e sottoposti al “processo di eliminazione”.
Lavender ha calcolato tutto, e direzionato gli attacchi, su una base di parametri indicati dal comando “umano” delle operazioni. Tra questi parametri anche il costo valutato di 15-20 vittime civili innocenti per ogni miliziano eliminato, fino a cento innocenti uccisi per ogni alto funzionario colpito.
L’uso dell’IA nella guerra contemporanea, segue una strada antica: le innovazioni tecnologiche sempre hanno avuto come applicazione primaria il “militare”, e questo a testimonianza di quanto sia importante per il nostro mondo “essere più bravi ad uccidere” di tutti gli altri.
La centralità della “tecnica” è spesso servita per creare alibi alle scelte, spesso efferate, prese dall’uomo. Allontanare la “coscienza” dalla “scienza”, ed affidare a quest’ultima una autonomia, una sorta di “neutralità”, allontana anche noi dal pericolo di impazzire di fronte alle mostruosità che siamo in grado di compiere.
Secondo Wired, che riprende la stessa inchiesta, diffusa dal sito di +972 e del giornale di lingua ebraica Local Call, i sei membri dell’unità dei servizi segreti israeliani conosciuta come “unità 8200” intervistati, sono fra coloro che hanno sviluppato e usato Lavender.
Sono loro che hanno rivelato che l’operatore umano, quello che metaforicamente o concretamente, “preme il grilletto”, ha venti secondi per dare l’ok all’obiettivo indicato dal software. Con un flusso continuo di richieste di autorizzazioni a procedere, e con una velocità del genere, nessuna “analisi dell’opportunità” fatta da umani, è possibile. Pena bloccare la guerra, che invece è l’imperativo ultimo, “fino alla vittoria”.
In tempi “normali”, cioè prima della carneficina del 7 ottobre, l’identificazione degli obiettivi avrebbe richiesto l’approvazione di un consulente legale, prima di poter dare il via all’attacco. Oggi non è più così: gli attacchi sono tutti “pre-autorizzati” di default, cioè decide la macchina, compreso il sacrificio di donne, uomini e bambini in altissimo numero.
Il “costo necessario” del quale parla Netanyahu riferendosi al massacro di Gaza, passa tecnicamente dall’eliminazione di qualsiasi procedura di “discernimento” umano, troppo lento e troppo imprevedibile. La macchina, una volta impostati i parametri, procede, e senza alcun problema di “coscienza”. Chissà se in un’ipotetico processo per crimini di guerra, qualche sodato un giorno dirà che “eseguiva gli ordini della macchina”.
Il costo
La guerra, il processo globale che domina il mondo in questo momento, se da una parte si sviluppa come dispositivo che tende ad eliminare il più possibile la dipendenza da valutazioni umane sul “costo” di vite innocenti da far pagare al nemico, dall’altra invece valuta con sempre maggiore importanza il “costo” economico.
Ad esempio sempre dall’inchiesta, si ricava che l’esercito di Tel Aviv fa ampio ricorso anche alle cosiddette “bombe mute”, munizioni non intelligenti che causano un alto numero di vittime innocenti, perché servono a distruggere completamente edifici che potrebbero essere “potenziali” nascondigli per i nemici. Queste bombe “sporche”, che vengono usate in grande quantità con effetti terribili sulla popolazione, costano molto di meno in termini di soldi. E dunque la ragione del loro utilizzo sta tutta nell’economia.
Gospel
Oltre a Lavander, la guerra è condotta da un altro software, Gospel (Vangelo). Questa applicazione dell’intelligenza artificiale è anche chiamata “fabbrica di obiettivi”. Stiamo parlando di una macchina che ha raddoppiato la fornitura all’esercito di obiettivi da colpire con “bombardamenti incessanti e non chirurgici”, passando da 50 bersagli al giorno, a cento.
Nessuno naturalmente spiega quali siano i dati che i profiler abbiano immesso per poi ottenere nome, cognome ed indirizzo di chi annientare. Gospel, dagli ambienti critici sull’uso di questi sistemi, è stato definito “la fabbrica degli assassinii di massa”.
Quando si parla di intelligenza artificiale, si aggiunge sempre il termine “generativa”. Un sistema di “apprendimento” della macchina, capace di elaborare una inimmaginabile quantità di informazioni che potrebbe attingere dalle fonti più disparate. Ad esempio, analizzando il consumo dell’acqua e dell’energia domestica di una popolazione “da profilare”, ma anche mettendosi in rete con i sistemi di controllo della mobilità in una metropoli, oppure con le chiuse di una diga, le dorsali dei dati, le pipeline del gas e del petrolio. Tutto è in rete.
Chi sono i padroni delle macchine? Le macchine hanno certo dei padroni “ufficiali”, ma siamo sicuri che sono quelli che crediamo? Il mercato che abbiamo eletto a unico regolatore globale della vita e della morte sul pianeta, è uno spazio complesso e non trasparente per definizione. Si può comprare tutto nel mercato, e soprattutto si può vendere tutto. E dunque, l’Intelligenza Artificiale Generativa, grande opportunità come dicono al G7, ma anche grande, enorme problema.
Che cosa siamo (diventati)?
Dipende sempre dall’uomo, non c’è dubbio, ma che tipo di “uomo” esiste oggi? Siamo convinti che al ritmo dei nostri salti tecnologici, non sia corrisposta anche una vera e propria mutazione antropologica riguardo a noi stessi? Può esistere l’uomo capace di discernere per il meglio, senza un nuovo umanesimo? Ancora una volta la “tecnica”, e le lodi cantate alla magnificenza dello sviluppo raggiunto, coprono i grugniti di un’uomo ridotto a corpo senz’anima.
I principi, i valori, l’etica, la trascendenza, a cosa servono se l’unico senso che diamo alla vita è uccidere di più e meglio degli altri, arricchirsi di più e meglio dell’altro, sfruttare di più e meglio di ognuno? Qual è il “modello di uomo” che dovrebbe decidere come usare al meglio per noi tutti, l’Intelligenza Artificiale?
Forse quell’Elon Musk che si è appena fatto accreditare uno stipendio annuale da 56 miliardi di dollari, sei milioni di dollari l’ora? E’ lui il Messia? Se non è lui, perché diciamo di affidarci a sistemi sociali e non ai singoli individui, la sistematica demolizione in corso di principi fondanti come quelli di “bene comune”, “collettività”, “solidarietà”, “diritti umani”, ci sta aiutando?
O stiamo solo prendendo atto che, come in guerra, non c’è tempo per una decisione umana, non c’è tempo per la coscienza, e dunque pre-autorizziamo la macchina, il mercato, il denaro, a decidere per noi, ridotti a nostra volta a merce per generare profitto?
Per leggere gli articoli diLuca CasarinisuPeriscopioclicca sul nome dell’autore
Welfare State e Maria Montessori, tracce della maturità: lo spirito del tempo che potrebbe venire
Quest’anno tra le tracce della maturità c’erano due argomenti che, a mio avviso, indicano lo “spirito del tempoche potrebbe venire”: l’importanza del Welfare (o Stato sociale)[1] e il contributo di Dewey e Montessori a come si dovrebbe fare scuola.
La cosa curiosa è che siamo in una fase in cui le cose vanno proprio nel senso contrario: il Welfare State è in declino ovunque in Occidente (in Oriente non è mai nato) e la scuola (almeno quella italiana) non applica certo le idee di Dewey e/o Montessori. Come mai dunque sono nelle tracce della maturità? Che messaggio mandano i commissari che di certo le hanno attentamente selezionate? Una qualche ragione ci deve pur essere ed ecco perchè parlo di “spirito del tempo che potrebbe venire”, o almeno lo spero.
Ralph Waldo Emerson, filosofo statunitense che concepiva la Natura come maestra di spiritualità, scrisse, a proposito dello spirito del tempo, che “se un uomo vuole familiarizzarsi con la reale storia del mondo, con lo spirito del tempo, deve cercare il sottile spirito della vita nei fatti più vicini”. In sostanza dobbiamo ascoltare i segnali deboli (spesso molto deboli) che ci arrivano da vicino. Non è facile in un’epoca in cui dominano messaggi grossolani e forti, l’immagine sulla sostanza, il profitto come nuovo Dio e gli influencer, ma ci si può provare.
In Occidente, l’area più ricca al mondo, abbiamo sviluppato molto l’autocoscienza ma, come contrappeso, anche la paura. Se uno Stato vuole però ridurre l’insicurezza dei suoi cittadini deve potenziare quei servizi che lo rendono più sicuro: scuola, sanità, pensioni, aiuti ai poveri, ai disabili a chi ha gravi problemi di salute, controlli sull’immigrazione e la criminalità.
Dagli anni ’70 del secolo scorso questi servizi pubblici sono cresciuti tantissimo, specie in Europa e in Italia, contribuendo alla nostra prosperità e sicurezza. Ma da almeno 30 anni sono in declino. Tra i molti cito “Sfidare il capitalismo” (ed. Fazi), di Bernie Sanders, democratico progressista statunitense (che nulla ha a che vedere con il liberale Biden), convinto che oggi la prosperità sia non tanto abbattere il capitalismo ma creare un diffuso Welfare che in America non è mai decollato.
Spero che prima o poi anche i nostri cittadini non accetteranno sempre che una crescente ricchezza non si traduca in veri servizi per tutti. Già l’Inghilterra presenta il conto il 4 luglio, dopo 14 anni di liberismo dei Conservatori, si annuncia una schiacciante vittoria dei Laburisti (i sondaggi dicono 44% verso 23%) e col sistema uninominale il Labour potrebbe prendere oltre 400 seggi su 630.
Martin Wolf è il più noto editorialista del Financial Times (il quotidiano finanziario più letto dal business anglosassone) e di recente ha scritto un libro (La crisi del capitalismo democratico, ed. Einaudi, pag.648, 24 euro) in cui mette in luce quelli che a suo avviso sono i limiti di un sistema di produzione (il capitalismo) che rischia di collassare sotto il peso delle sue “disfunzioni”. Wolf è un liberista e non a caso è un editorialista del più importante quotidiano finanziario occidentale, ma è anche consapevole dei limiti di questo sistema che comunque difende non essendoci, per ora, una seria alternativa. Propone riforme incisive che portino a un tenore di vita in crescita per tutti (e non solo per una minoranza): buoni posti di lavoro, uguaglianza e opportunità per i più deboli, sicurezza per chi ne ha bisogno, fine dei privilegi speciali per pochi, fine della corruzione. In sostanza: rafforzare il Welfare State. Wolf ce l’ha anche con il grande potere assunto dalla finanza globale e da manager ultrapagati che non rendono conto a nessuno[2]. L’idea è “restaurare” un capitalismo democratico rispetto a quello finanziario “cattivo” che oggi domina. Del resto come dargli torto visto il paradosso che i diritti negoziabili per la CO2, nati per i settori industriali che hanno più difficoltà a ridurre il loro impatto sul Pianeta, sono diventati un mercato finanziario, dove i primi dieci attori non sono le industrie ma i soggetti finanziari? Il programma di Wolf è nel complesso “moderato” ma, per molti aspetti, in totale controtendenza con quanto avviene nei nostri paesi occidentali (da cui la crisi della democrazia). Wolf a mio avviso ascolta “lo spirito del tempo che potrebbe venire”.
Trenta anni fa scrisse, sempre sul Financial Times, parafrasando Adam Smith, che una Nazione diventa ricca non se ha risorse energetiche o materie prime, non se ha una buona scuola o una buona sanità,… ma se ha “buone Istituzioni”, cioè se i suoi governanti fanno gli interessi dei loro cittadini, non rubano e sono trasparenti nelle scelte che si sforzano sempre di fare nell’interesse pubblico. Se si comportano così nel lungo periodo, questa Nazione diventerà ricca.
Una delle caratteristiche di molti nostri governanti è invece l’uso personale del potere. Stare al potere sviluppa negli anni amicizie e legami con potenti, ricchi, imprenditori, ma anche semplici amici o “amici degli amici” che portano a favorirli nei loro traffici, spesso contro l’interesse pubblico, in cambio di consensi elettorali per essere rieletti. Per questo è una buona norma quella del ricambio delle classi dirigenti e di avere al massimo due mandati – rammento che al tempo dei Comuni si amministrava massimo per un anno. In alternativa si crea una “cupola” politica, imprenditoriale e burocratica che, al di là dei reati, espropria i luoghi della decisione politica e della partecipazione dei cittadini. Ciò avviene quando si assumono decisioni sul futuro di un territorio in cui, anziché esserci il massimo di trasparenza e partecipazione, c’è il loro contrario.
Termino con la scuola di Dewey e Montessori. Qui i segnali che qualcosa non funziona nella scuola sono, per la verità, non sottili ma giganteschi. Eppure poco o nulla si muove in quanto non ci sono idee, né nell’attuale Governo né all’opposizione, su come cambiarla nel profondo. I commissari ci sono però “arrivati” e propongono (sommessamente) almeno Montessori e Dewey, per i quali conta tantissimo l’ambiente (studiare in una bella scuola), apprendere dall’ esperienza, esplorare l’ambiente circostante, i laboratori manuali e artistici. La scuola non può più essere solo banchi e lavagna come 200 anni fa. Tutte attività che fanno di queste scuole “private”, ottime scuole e che, se ci fosse un sistema nazionale di valutazione di tutte le scuole (private e pubbliche), sarebbero pagate al 100%, in modo da creare uno stimolo per tutti, premiando le pratiche migliori siano esse pubbliche o private. Era un’idea anche del ministro Luigi Berlinguer, bocciata nel 2000 da Regioni e sindacati. Ma Berlinguer aveva le idee chiare quando disse che “è pubblico non ciò che è erogato dal servizio pubblico ma ciò che svolge una funzione pubblica”, anche se a svolgerlo sono privati (che devono esser certamente controllati e verificati…ma alla fine pagati).
[1]Mercato e welfare state (stato sociale) nell’epoca della globalizzazione.
[2] E’ di oggi invece la decisione di JP Morgan e Goldman Sachs di dare bonus ai manager in UK (fuori quindi dai tetti UE stabiliti nel 2014) anche oltre 25 volte lo stipendio base del manager. Vedremo cosa dirà Starmer, prossimo primo ministro laburista.
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