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I soldi delle fondazioni di partito? Usiamoli a sostegno del disagio sociale in Italia

Alcuni giorni fa su facebook ho lanciato una idea e cioè: “Messa in liquidazione di tutte le fondazioni legate ai partiti politici e contestuale costituzione di un fondo finanziario a sostegno della povertà e del disagio sociale in Italia”.
Il perché è frutto di un ragionamento, non solo di superficie, ma attento a fatti, comportamenti, storie dei partiti politici, condizionamenti, denaro e organizzazione, ma anche di scelte politiche nel passaggio, con evidenti resistenze e con chiare riserve, dai vecchi ai nuovi partiti.
Su questa testata online si sono lette, sul tema dell’oro delle fondazioni del Pci e non solo, anche alcune riflessioni su l’Approdo, cioè quella del Pci-Pds-Ds del Pci ferrarese, dove anche alcuni attori ed amministratori locali si sono lanciati a parlare, a volte liberamente o quasi, a volte tra i denti a volte con imbarazzo.
Un comportamento accettabile se si considera che la legge approvata dal Parlamento italiano regola le fondazioni dei vecchi partiti e/o organismi assimilabili con una normativa a dir poco singolare, dove un patrimonio collettivo del passato viene veicolato in una sorta di blind trust, con amministratori a vita privati e con bilanci non molto trasparenti nei dettagli analitici, salvo le macro poste del dare/avere.
Quello che oggi, a distanza di almeno 5 anni, si può dire è che in queste fondazioni “passa di tutto”: dagli organici del personale e loro stipendi, al Tfr, alle proprietà immobiliari, alle strutture delle feste, alle royalties, alle rendite/affitti, ai contributi volontari, alle partecipazioni, a sostegni in alcune gestioni e, anche e non da poco, un forte condizionamento politico, sia di linea politica nel nuovo partito da parte del vecchio (Margherita, Forza Italia/Pdl, Ccd/Udc, Popolari, Msi/An, Pds/Ds, eccetera…), ma anche i rapporti con le cosi dette collaterali.
Se, poi, si vanno ad esaminare le ricollocazioni degli ex e già Amministratori, Sindaci, Presidenti ed Assessori di Provincia/Comuni capoluoghi e Aziende pubbliche e municipalizzate, il cerchio si chiude con una struttura complessiva ben radicata e di difficile rimozione, anzi aiuta l’immobilismo della politica e non solo.
Se quel “cambia verso” ha un senso sarebbe opportuno mettere in liquidazione, con una legge del Parlamento, le attuali fondazioni intitolate a partiti che sono estinti politicamente; e poiché le loro funzioni ed articolazioni sono di intoppo, di intoppo al cambiamento e alla discontinuità, meglio confluire l’intero involucro in un fondo finanziario, come in premessa, affidando il tutto in una normativa trasparente e con governance di una autority.
Ma sappiamo che non sarà facile, soprattutto sulle territorialità, anche per l’abolizione in corso del finanziamento pubblico ai partiti e allora si faccia una legge per le nuove fondazioni ma con uno spirito del “cambia verso”.
Ora che sembra che ci saranno nuovi sentieri per la politica, attendiamo di vedere se i giovani renziani, anche quelli indigeni, post ed ante litteram, raccoglieranno la sfida, la spinta e le sollecitazioni di ben duemilioniottocentomila elettori alle primarie dell’otto di dicembre.

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Sogni ad occhi aperti con l’utopia di Bloch fra libri, filosofia, musica e arte

di Giuliano Sansonetti

“Sogni ad occhi aperti, la speranza tra filosofia, letteratura, musica e arte” è il titolo stimolante di un’originale iniziativa in programma questa sera (venerdì 13 dicembre) alle 20.30 nella sala San Francesco di via Savonarola 3. Gli organizzatori (Progetto Ernst Bloch e Dialogo in collaborazione con l’Università degli studi di Ferrara) annunciano “una serata inedita”.
Ospite d’onore sarà il poeta e scrittore ferrarese Roberto Pazzi, che darà voce alle pagine di Ernst Bloch. Tommaso La Rocca condurrà il pubblico verso “un Buon-Luogo dove scrivere libri” e Nicola Alessandrini “parlerà di utopie, un vecchio artigianato a rischio di estinzione”. La serata terminerà con un concerto della band Dia-Logo, diretta dal maestro Sergio Ross Rossoni che percorrerà le note della speranza in un itinerario musicale italiano e internazionale rivisitato in chiave jazz.
Mentre l’installazione artistica di Cinzia Carantoni avrà idealmente la stessa materia dei sogni.
Al professor Giuliano Sansonetti, docente di Filosofia del nostro ateneo e presentatore d’eccezione dell’evento, abbiamo chiesto una riflessione in anteprima.

Per chi come me si è affacciato alla filosofia nella prima metà degli anni Sessanta e ha avuto dei maestri che lo stavano introducendo in Italia, Ernest Bloch, filosofo tedesco nato nel 1885 e morto nel 1977, è in certo senso una figura mitica, quasi monumentale, come in qualche modo lo era nell’aspetto fisico, imponente e dal viso come scolpito nella pietra. Così mi è rimasto impresso per averlo potuto vedere e ascoltare in un memorabile convegno sul pensiero di Hegel, tenutosi a Urbino nel settembre 1965, che vide la partecipazione della migliore filosofia europea e internazionale. Ma tra i grandi presenti a quel convegno, lui era il più grande, il filosofo per eccellenza, l’autore di due opere magne, Lo spirito dell’utopia del 1917, Il principio speranza del 1959, quest’ultima immensa anche per la sua mole, entrambe testimonianze dirette della grande cultura europea e tedesca della prima metà del secolo, segnata tuttavia dalla catastrofe. Filosofia, letteratura e arte in tutte le sue forme, tradizionali e d’avanguardia, vi sono strettamente intrecciate, fuse come in un crogiuolo, cosa che fa dell’opera di Bloch un che di unico e difficilmente comparabile. Questo spiega le passioni che ha sollecitato, ma anche i decisi rifiuti anche da chi, in teoria, era dalla sua stessa parte. A Bloch, militante marxista fin dalla prima ora, si deve la famosa distinzione tra la “corrente calda” e la “corrente fredda” del marxismo, ovvero tra un marxismo creativo, utopico, antidogmatico e un marxismo scolastico, falsamento scientifico e dogmatico; inutile dire che Bloch era schierato con la corrente calda, e questo – Stalin imperante – non gli poteva essere perdonato, pure da chi, come il grande filosofo ungherese Gyorgy Lukacs – spirito per molti versi affine – aveva fatto con lui un lungo tratto di strada, per farsi poi autorevole portavoce del marxismo della III Internazionale. Per questo Bloch ha saputo sollecitare e affascinare anche chi non faceva parte di quel mondo, per la sua ricerca inquieta e appassionata, sol che si pensi a quanto il suo Principio speranza abbia segnato profondamente il pensiero cristiano, di cui è rimasta espressione quella Teologia della speranza di Jürgen Moltmann che, nel lontano 1964, fece irruzione come una vera e propria rivoluzione teologica. L’utopia e la speranza, queste le parole che compendiano il cammino di pensiero di Ernest Bloch; utopia come “utopia concreta”, speranza come speranza nell’al di qua, e tuttavia tali da mantenere costantemente il pensiero nell’apertura al novum, al non-ancora. “Come? Io sono. Ma non mi possiedo. Per questo innanzitutto diveniamo”. Questa frase, posta ad epigrafe di uno dei suoi libri più singolari, Tracce, esprime come meglio non si potrebbe il senso della vita come inquietudine e ricerca. Per questo il suo pensiero continua a esercitare una forte suggestione, anche fuori dal contesto in cui è sorto e dai dibattiti che lo hanno caratterizzato.
È bello quindi che studiosi della più giovane generazione, come Nicola Alessandrini, siano impegnati a riscoprire il suo pensiero e a farlo conoscere anche nei modi e nelle forme che sono di questo tempo, cosa che sicuramente Bloch non avrebbe disdegnato.

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Oro del Pci, Bottoni precisa: “Sono rimasto nei Ds ma ho detto no alla fondazione”

di Giorgio Bottoni

Egregio direttore,
mentre riconosco la correttezza usata nei miei confronti nel chiedermi il consenso alla pubblicazione della lettera che ho inviato il 14 ottobre 2013 all’Unità e dalla stessa non pubblicata, il preambolo con il quale la mia lettera viene preceduta contiene un passaggio non proprio fedele che potrebbe portare ad una lettura non corrispondente al mio agire nei confronti del partito. Tale passaggio consiste, parlando del mio comportamento “che lo avevano indotto a lasciare i Democratici di Sinistra”. Le cose non sono andate in questo modo. Ero stato relatore, alla Direzione provinciale dei DS il 4 febbraio della proposta di costituzione della fondazione, indicandone anche la sua attuale denominazione, appunto “L’Approdo”. Se lo potessi fare ora lo integrerei con TEMPORANEO, ma quando mi resi conto che questo doveva avvenire su uno statuto standard, così voluto dal Nazionale del partito e che gli amministratori dovevano essere nominati a vita, mi rendevo conto della potenziale espropriazione delle proprietà immobiliari che dal partito andavano ad assumere una configurazione privatistica. Ho messo per iscritto a chi di competenza la mia contrarietà, ed ho chiesto ai primi del mese di aprile del 2007 a chi dare le consegne del lavoro svolto e che mi apprestavo ad interrompere, non avendone risposta, alla fine del mese ho cessato un rapporto di attività continuativa prestata per tanti anni presso la federazione provinciale. Non ho partecipato alla riunione del 4 maggio 2007 dell’organismo dirigente e di controllo, per la decisione sospesa a febbraio, per non essere coinvolto in quella scelta che proprio non condividevo e chi presiedeva tale riunione era in possesso della lettera poc’anzi citata contenente il mio disaccordo.
No, non ho lasciato i Democratici di Sinistra, ma rinunciando all’incarico di responsabile del patrimonio immobiliare, non potevo più, come avrei potuto e voluto fare, partecipare alle apposite riunioni che la federazione doveva promuovere, ne andare nelle località che me l’hanno chiesto e dire come la pensavo a proposito della scelta della fondazione. Tra questi compagni ero molto benvoluto perché per tanti anni, mi avevano trovato sempre disponibile e impegnato con serietà nella soluzioni dei tanti problemi che si prospettavano e l’ho fatto sempre in prima persona. Quando la scelta che a norma di regolamento (un regolamento che ci eravamo dati col passaggio della titolarità degli immobili alla federazione del partito. Questo richiedeva il parere espresso in forma scritta, di quella determinata organizzazione, quando la misura riguardava l’immobile di quella determinata località). Quindi, quando la decisione doveva essere presa nella organizzazione di mia appartenenza, la sezione Putinati e l’Unione Circoscrizionale di via Bologna, ho dato battaglia. Non sto a descrivere le numerose riunioni che si sono rese necessarie. Incontri coi vertici in federazione. Per ragioni di brevità non sto a descriverli, ma conservo una copiosa documentazione. Puntavo alla prescrizione dei termini che il partito fondatore dettava alla fondazione. Una sorta di “patto parasociale” che le articolazioni territoriali parietarie sostanziali degli immobili e la federazione che ne deteneva la formale proprietà prescrivevano nell’atto costitutivo che peraltro, lo si è saputo dopo, era già stato compiuto. Stavamo discutendo ad agosto e settembre e dagli atti notarili la fondazione risultata già istituita a luglio. Né è sortito, come conclusione,una lettera del segretario della federazione abbastanza blanda.
La soluzione non fu per niente soddisfacente e mi ha portato per non rovinarmi ulteriormente la salute ad evitare di partecipare alla parte che ha sottratto tutte le disponibilità finanziarie delle organizzazioni territoriali, versate al tesoriere della federazione, perché col cambio dei denominazione, vuoi cessate e se mantenete qualcosa diventa sottrazione. Una operazione del genere non l’avrei fatta neanche sotto tortura. Era tanto sbagliato andare a pretendere da organizzazioni statutariamente autonome che avevano già versato i loro contributi, dato alla federazione la quota fissata negli obbiettivi annuali, il frutto del loro lavoro, delle loro iniziative, dei risparmi realizzati con tanto attaccamento e passione. Altra cosa sarebbe sta presentarsi con umiltà e dichiarare uno stato di necessità e cercare motivato aiuto, per non lasciare in sospeso delle pendenze. Misi in una lettera tutta la mia contrarietà, portata alla segretaria provinciale del PD, da poco nominata, dopo avergli consigliato in una affollata assemblea di fermare quella sciagurata operazione. Per la gestione del fondo ho saputo che è stato costituito un comitato di tesoreria, uno strumento previsto dallo statuto e che prima non si era mai voluto. Quindi, in buona sostanza, costituivamo una nuova forza politica, il partito democratico, in questo riponevamo le tutte le nostre speranze. ma Il nuovo ha dovuto nascere dal niente e doveva per mettersi all’opera, indebitarsi col vecchio. Chi aveva versato tutte le sue disponibilità, da ora in poi per promuovere qualsiasi iniziativa che comportasse una spesa doveva richiedere un prestito al vecchio. Diveniva un incredibile e inaudito potenziale condizionamento.
Nelle organizzazioni della provincia di Ferrara la discussione deve essere stata abbastanza intensa e tuttavia si è svolta nella riservatezza. L’unica notizia che ho trovato sulla stampa locale l’ho letta sul Resto del Carlino- Ferrara, nella pagina di cronaca Argenta Porto Maggiore il 7 dicembre 2007, in poche righe dal titolo, ANITA “Patrimonio ex DS passa di mano”. Il testo integrale: “Passa di mano il patrimonio degli ex Democratici di sinistra relativo al parco delle feste 7 Aprile di Anita. Infatti, terreno, immobili ed attrezzature sono confluiti nella Fondazione che fa capo al nuovo Partito Democratico. Una soluzione questa, già adottata da altre realtà e conseguente ai nuovi assetti politici. Ad Anita, il trasferimento è avvenuto al termine di una accesa assemblea cittadina, che ha avuto non pochi strascichi polemici.” Qualora fosse stato proprio così ma, o ha capito male il giornalista o l’illustrazione non è stata per niente veritiera.
La sto facendo troppo lunga e quindi concludo con una precisa esortazione: una sorta di testamento: gli immobili che ora sono confluiti nella fondazione denominata “L’approdo” per ragioni di buona politica, moralità, coerenza con gli impegni assunti devono restare nella piena e totale disponibilità delle organizzazioni territoriali del Partito Democratico, e per essere ancora più preciso, di Anita, Porto Maggiore, S.M. Codifiume, Poggiorenatico, Bondeno, Via Bologna, Via Ortigara, Quacchio, ecc. fino a completare l’elenco. Buon lavoro.

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L’oro del Pci, Torri: “Rendere conto pubblicamente? Mai pensato, ma si può fare”

Nel nostro viaggio sulle tracce del tesoro del Pci (e dei suoi eredi: Pds-Ds) c’è stato un piccolo colpo di scena. Dal confronto con Secondo Cusinatti, presidente della fondazione L’Approdo che gestisce il patrimonio immobiliare, era emerso come il denaro contante fosse stato in massima parte conferito al Pd. Altre fonti hanno però provveduto a farci sapere che le cose stanno diversamente e che la cassa è tuttora gestita da un organismo che fa capo all’ultimo amministratore dei Ds, Attilio Torri, sulle cui tracce ci siamo immediatamente lanciati.
L’incontro di questa mattina è stata preceduto da un vivace colloquio telefonico nel quale Torri ha cercato in ogni modo di chiamarsi fuori. Prima affermando di “non c’entrare più nulla”, poi di “non essere interessato a parlare” menando vanto di non avere mai rilasciato interviste nei 16 anni in cui è stato sindaco di Lagosanto, e infine capitolando di fronte alla nostra insistenza, “visto che non riesco a scrollarmela di dosso”.

Perché la liquidità non è stata conferita alla fondazione?
“I Ds in quanto azienda avevano dipendenti e debiti da gestire. Per la fondazione sarebbe stato complicato”
E’ stato fatto così ovunque?
“Secondo me sì”
Ma non vi siete consultati a livello nazionale?
“Sì, ma solo per la gestione del patrimonio immobiliare”
A quanto ammontava la somma avuta in consegna nel 2007?
“Non ne ho la più pallida idea”
Strano, lei amministra un fondo da sei anni e non ha idea di quale sia l’importo?
“Non so, non ricordo. Mah, oggi saranno 200/250mila euro. Ma nel 2007 erano di più”
Quanti di più e come avete speso quelli che mancano?
“Abbiamo pagato i debiti”
E quindi quanti ne avevate in cassa? Almeno a spanne lo saprà?
“Non si arrivava al milione, diciamo 6/700mila”
Dove sono depositati e quali sono gli impieghi?
“Sono in un conto della filiale Unipol Banca di via Bologna, una piccola parte in liquidità il resto in titoli”
E una volta saldati tutti i debiti cosa farete del residuo?
“Non ne ho la più pallida idea”
Ma non considera doveroso rendere pubblico ciò che fate?
“Se i Ds avessero finanziamenti pubblici sarebbe un conto. Ma così…”
A me per la verità risulta che sino al 2011 i contributi pubblici siano stati percepiti…
“A Ferrara non sono mai arrivati”
A parte questo, sono comunque soldi derivanti da sottoscrizioni, lavoro volontario, non denari vostri…
“Se un iscritto vuol saperlo può domandarcelo, basta che mi telefoni e glielo dico”
Ma voi non avvertite il dovere di rendere conto?
“Non ci è mai venuto in mente”
Quindi per lei non sussiste un problema di trasparenza? Potreste cominciare a pubblicare quantomeno i bilanci annuali…
“Non l’abbiamo mai fatto, ma in effetti si potrebbe benissimo anche fare. Io sono disponibile. E’ una cosa che potrei anche proporre al Consiglio di tesoreria”
A proposito, quante persone la compongono?
“Quattordici, tutta la provincia è rappresentata. Fra gli altri ci sono Franca Vandelli di Bosco Mesola, Giovanni Nardini di Bondeno, Rodolfo Spanazza, Alberto Bovinelli e Maurizio Benvenuti di Ferrara… Ci riuniamo almeno una volta l’anno per il bilancio e poi quando c’è un problema da affrontare. Il compito è quello di sistemare crediti e debiti e liquidare il partito che ancora giuridicamente esiste anche se non svolge più attività politica”
Siete pagati per questo?
“Nessuno di noi percepisce un soldo, né gettoni né rimborsi. Né il presidente, né i consiglieri, né la segretaria di amministrazione che ci dà una mano a titolo volontario”
Lei è stato il primo presidente della fondazione L’Approdo, poi si è dimesso. Perché?
“Io ero presidente e tesorieri insieme. Una volta costituita la fondazione ho esaurito il mio compito”
Era previsto quindi?
“No, ma è andata così”
Con Cusinatti che è subentrato nel ruolo vi sentite regolarmente?
“Ci sentiamo quando c’è bisogno”
L’ultima volta quando è stato?
“Quando i Ds hanno deciso di liberare la sede di viale Krasnodar perché c’è stata la necessità di trasferire al centro feste di Vigarano l’archivio dei Ds che appartiene alla tesoreria. I documenti saranno visionati e selezionati da Anna Quarzi dell’Istituto di storia contemporanea al quale a suo tempo già abbiamo donato l’archivio del Pci. Ho imballato io il materiale e il trasloco l’ho fatto con la mia macchina ottenendo eccezionalmente un rimborso di 20 centesimi a chilometro, inferiore alla tariffa Aci”
Avete dato soldi alla fondazione?
“Solo all’inizio, circa 50mila euro per le minute spese necessarie alla manutenzione del patrimonio immobiliare che è in loro possesso”
E al Pd?
“Sì, ma non ricordo quanto”
Più o meno di quanto è andato alla fondazione?
“Saranno stati 70/80 mila euro”
E’ stato giusto nel 2007 impedire che liquidità e patrimonio passassero al Pd?
“Non ne ho idea”
Ma come? Lei era un dirigente del partito!
“E’ stato deciso a livello nazionale…”
E quindi va bene così. Ma ora, ciò che resterà una volta liquidati i Ds, a suo parere, è più sensato che vada alla fondazione o al Pd?
“Per adesso giuridicamente ci sono ancora i Ds”
Ma per quanto? C’è una data per la liquidazione?
“No, ne abbiamo discusso in tesoreria ma non abbiamo deciso. Ci occupiamo ormai solo delle passività e i debiti li abbiamo onorati tutti, ma a quanto mi hanno spiegato c’è il rischio di rivalse da parte dell’Inps entro un termine di circa dieci anni dalla data ci cessata attività”
Quindi c’è la possibilità che questa situazione si trascini per altri quattro anni?
“Sì, è possibile”

Ci salutiamo dandoci un nuovo appuntamento, con l’impegno di Torri di produrre bilanci e documenti contabili.

5 – CONTINUA

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Emergenza rifiuti, riprogrammare il ciclo integrato

Il settore dei rifiuti cresce costantemente di importanza, di dimensione e di complessità, ma rimane ancora molto lontano da una soluzione di sistema, continuando a vivere su emergenze e contrasti. La criticità è ormai cronica in molti territori si sta allargando anziché trovare soluzioni condivise. E se ripensassimo le regole del sistema integrato dei rifiuti?
Analizzando il ciclo integrato dei rifiuti si rileva infatti come, a seconda del ruolo e della dimensione del gestore ne discendono comportamenti aziendali e strategie imprenditoriali che in alcuni casi distorcano il valore dei principi di base del sistema. Il punto di fondo è far coincidere o meglio convivere differenti strategie di riferimento che da una parte permettano la migliore ricerca di qualità e di sostenibilità a difesa dei cittadini e dall’altro che sia comunque avviato un concreto processo di industrializzazione e di modernizzazione del settore. Si tratta di soluzioni divergenti ma si può (anzi si deve) trovare un corretto sistema di regolazione che sappia valorizzare entrambe le posizioni. A questo proposito si propone una analisi disgiunta del sistema che potrebbe avere utili ritorni sia in termini di efficacia gestionale sia di regolazione e dunque di risposta più efficiente di sistema. Attuare una riforma dei servizi di interesse pubblico-economico significa soprattutto porsi come obiettivo il miglioramento della qualità ambientale per l’utente, la generazione delle risorse per lo sviluppo dei servizi, il contenimento dei prezzi, la tutela dell’ambiente, l’introduzione di meccanismi di qualità nei servizi, la sicurezza e la sopportabilità per il cittadino. Proviamo allora a vedere se sia possibile individuare delle aree separate di riferimento in cui poter meglio definire le priorità e le responsabilità di una politica economica ambientale.
In una prima analisi pare possibile separare il ciclo integrato in tre grandi macroaree:
– il comparto dell’igiene urbana e dunque della pulizia del suolo, ovvero i servizi di pulizia del suolo e la manutenzione del verde pubblico, insomma la gestione del territorio pubblico che tanto qualifica i centri urbani e la qualità della vita dei cittadini
– l’importante comparto dei servizi di gestione e di raccolta dei rifiuti (anche allargando il concetto ai non assimilati ed alcuni speciali) con il grande obbiettivo delle raccolte differenziate ed in particolare dell’incremento del riciclo ad obiettivi significativi
– il delicato settore degli smaltimenti e dei trattamenti e dunque la gestione degli impianti, la crescita delle tecnologie e l’attenzione all’inquinamento del suolo e dell’aria.
E’ evidente come queste tre aree siano tra loro fortemente integrate e complementari, ma nello stesso tempo emergono specificità e peculiarità che potrebbero trovare maggiori fattori di sviluppo se non si ritrovassero spesso ad “ostacolarsi” tra loro. Senza dunque mettere in discussione l’importanza del ciclo integrato, si invita solo a fare anche valutazioni sull’opportunità di prevedere alcune regolazioni separate basate sulle priorità economiche, ambientali e di gestione del settore. La dimensione modesta degli ambiti provinciali e la presenza diffusa di piccoli e medi impianti (ampliati gradualmente) potrebbe poi essere sostituita da una programmazione strategica di sistema in cui impianti maggiori, a tecnologia evoluta, spesso più economici ed anche più affidabili, oltrecchè meno inquinanti, possano rispondere alle esigenze di un territorio più ampio. In Emilia Romagna ci si sta provando, ma con che tempi? E altrove?

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Quel 12 dicembre… Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi

“Ore 16.37. Un boato enorme seguito da una altissima fiammata sconvolge la sede centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana 4, in pieno centro di Milano: i vetri dell’edificio, squassato dall’esplosione, vanno in frantumi, decine di clienti vengono buttati all’aria come fuscelli, i corpi dilaniati; altre decine di impiegati vengono scaraventate a terra, pur protette dal grande bancone dietro il quale lavorano. In un attimo è il finimondo, il panico… Ma fin dal primo momento una cosa è certa: è un massacro. Il bilancio verrà dopo, spaventoso: tredici morti (saliranno a sedici), novantun feriti. Sul primo momento nessuno capisce che cosa sia avvenuto, qualcuno dice che sono saltate le caldaie giù in cantina, ma le caldaie sono intatte, continuano a funzionare regolarmente. La certezza viene poco dopo: l’esplosione è stata provocata da una bomba ad altissimo potenziale. Non si tratta di un tragico destino, ma di una fredda, determinata, folle azione. Un’infame provocazione”.
Rileggo queste righe, da me scritte tre ore dopo la strage, sull’enciclopedia del “XX Secolo” della Mondadori, che, per rappresentare l’evento, riprese l’incipit del mio articolo in prima pagina del “Giorno”, il cui titolo a otto colonne, era “Infame provocazione“. Non era la prima provocazione: l’attacco al paese che voleva una sana e moderna democrazia antifascista, era stato preceduto dalla strage di Portella delle Ginestre, dalle condanne agli scioperanti degli anni dal ’50 al ’54, dagli eccidi di Reggio Emilia – cinque morti, 1960 – dove la polizia, appostata sui tetti delle case, sparò a mitraglia sui dimostranti in corteo, dai vari tentativi di colpi di stato, nel ’60, appunto, con il governo democristiano di Tambroni allargato ai fascisti, e nel ’64 con il golpe quasi riuscito del servizio segreto Sifar: la stagione del terrore durava dall’immediato dopo-guerra. E il terrorismo continuò a mietere vittime: da piazza Fontana (1969) al Natale del 1984, i morti assassinati dai neofascisti, con la vigile complicità dei servizi segreti al soldo delle forze reazionarie governative, furono 149 e i feriti 688. Quale il fine di tanto sangue di poveri cittadini incolpevoli? Certamente abbassare la forza della protesta popolare e indebolire la presa di coscienza dei giovani, assicurando al potere, costituito e no, la licenza di lavorare per interessi non sempre leciti e, comunque, incomprensibili per il cittadino lavoratore. Banche, grandi finanziarie, multinazionali, politiche vessatorie attraverso una tassazione che non colpisce gli evasori: il nodo, ancora oggi, è sempre quello, la politica di destra e il neocapitalismo ne hanno tratto vantaggio e tuttora affliggono professionisti, commercianti, artigiani, operai, cioè il popolo attivo che ha mantenuto i privilegiati italiani, figli indegni della democrazia. Se qualcuno, quando parla di terrorismo, confonde la matrice addossando ai “rossi” il peso di tutte le responsabilità, quel qualcuno è non soltanto male informato, ma in malafede. Oggi paghiamo le spese di una situazione creatasi anche attraverso un attacco massiccio propagandistico del danaro, creando una generalizzata disinformazione e aiutando un paradossale ritorno a una disarmante povertà culturale, oltre sei milioni sono gli analfabeti, siamo un paese sottosviluppato. Questi ultimi vent’anni berlusconiani hanno raccolto il testimone da quel progetto golpistico che ha insanguinato le nostre strade. E il prossimo futuro rimane pieno di inquietanti interrogativi

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Oro del Pci, la lettera di Bottoni censurata dall’Unità

Due mesi fa Giorgio Bottoni, storico amministratore del Pci e poi tesoriere della federazione provinciale, scrive all’Unità per spiegare le ragioni che nel 2007 lo avevano indotto a lasciare i Democratici di sinistra. Nella lettera racconta che ciò avvenne prima che il patrimonio del partito nel quale aveva militato per tutta la vita fosse congelato all’interno di una fondazione privata, per impedirne il passaggio all’allora nascente Partito democratico. Egli definisce quell’atto una “sottrazione al legittimo proprietario”, aggravata “dal capestro delle nomine a vita degli amministratori”.
La sua lettera, datata 14 ottobre 2013, non viene pubblicata. Noi l’abbiamo recuperata e la riproduciamo integralmente qua sotto.

“Cara Unità,

Ritorno a chiederti un po’ di spazio che normalmente mi stai negando, almeno nelle ultime occasioni, per aiutare Emanuele Macaluso, i cui scritti leggo sempre con molto interesse, ad individuare, stando alla sua metafora la vera rete, altrimenti quando scrive “a proposito di autogol” rischia di buttare la palla in tribuna. Nello scritto odierno, mentre racconta della sua” esperienza eccezionale” ad un certo punto scrive “Mi chiedo: perché il Pd che voleva unire queste storie, ha mollato le Case del popolo…?”

Da diretto testimone a Ferrara, ultimo amministratore e primo tesoriere della Federazione provinciale del partito (il cambio della denominazione per la stessa funzione è stata decisa dal congresso nazionale del 1989), per venti anni mi sono occupato dei patrimoni immobiliari del partito, curandone i passaggi dal Pci al Pds ai Ds senza perderne neppure un mattone, ma accrescendone quantità e qualità d’uso.
Quando si è posto il problema di fare il Pd, una scelta da me condivisa e sostenuta, diversamente anche da Macaluso, invece di ripetere quanto fatto nei precedenti passaggi, la direttiva che veniva dalla tesoreria nazionale dei Ds è stata di non attuare il passaggio delle sedi al Pd, ma di dare vita a delle fondazioni, per valutare come si affermava la nuova formazione politica. Una sorta di attesa di giudizio, inoltre nello statuto-tipo da attuare in tutte le fondazioni – credo siano diventate 93, una per ciascuna Federazione – a modifica della proposta iniziale di confluire in un unica fondazione nazionale, vi era il capestro: la nomina a vita degli amministratori delle fondazioni stesse. Decisioni che mi hanno portato a dissentire, rompendo un rapporto quotidiano, durato una vita, perché quella scelta diventava di fatto una separazione con sottrazione al legittimo proprietario, il partito per il quale erano stati compiuti sacrifici, giustamente ricordati, da parte dei militanti e dei nostri elettori. Il PD non ha mollato proprio niente, eventualmente gli è stato sottratta la titolarità delle sedi, Case del Popolo comprese, prima ancora che il Pd nascesse.
Sarebbe apprezzabile se l’iniziativa della “Notte Rossa” (promossa il 12 ottobre, particolarmente a Bologna e provincia) tra le finalità indicasse non una generica sinistra, ma un Pd che ne rappresenta l’autentica prospettiva e che legittimamente ne potrebbe rivendicare e utilizzare la titolarità.

Quanto ai temi che il congresso giustamente deve affrontare che significa discutere, mettere a confronto le posizioni, riflettere sulle esperienze: il dramma degli immigrati, chi fugge dalla miseria, la condizione vergognosa delle nostre carceri. Di tutto ciò dobbiamo attribuirci le colpe? Dobbiamo scordarci chi ha governato, promesso e non fatto? Dobbiamo tenerci la Bossi Fini, perché Alfano ritiene la soppressione di quella legge sarebbe un atto demagogico? Dobbiamo tenerci la Giovanardi che mette in galera i drogati? Dobbiamo scordarci dei costi pagati politicamente quando il condono è stato attuato dal governo Prodi? Dobbiamo prendere o lasciare? Sarà meglio entrare nel merito, come lo stesso Epifani ha già detto, con gradualità, il condono e amministra, alla fine, o come ad eventuali ultime misure.
Attribuire la scelta di Renzi come frutto dei sondaggi, o il dire che ragiona come Grillo, mi sembra che si commetta un errore e facciamo un torto alla nostra intelligenza e a quella delle persone che dovrebbero esprimerci il proprio consenso”.

Giorgio Bottoni

Ferrara, li 14.10.2013

4 – CONTINUA

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Nasce “Consumiamo il consumabile”: una mappa per la sostenibilità

E’ di fine novembre la presentazione del nuovo progetto a respiro provinciale Consumiamo il Consumabile: la prima mappa per il consumo sostenibile.
Il suo obiettivo? Segnalare ai cittadini tutti gli esercizi o le realtà che sul territorio si attengono e lavorano secondo i principi del rispetto ambientale. Un sito web e una App gratuita per poterli individuare.

Un’iniziativa ampia e strutturata che interessa realtà che si inscrivono in categorie quali Ristorazione e Ospitalità, Acquisti Sostenibili, Mercati Contadini, G.A.S (Gruppi di acquisto sostenibile) e Fontane Pubbliche.

Chiare e imprescindibili poi le regole per tutti gli esercizi commerciali e non che vorranno aderire, tra di esse: la riduzione nell’uso di packaging e imballaggi, l’adozione di prodotti locali, freschi e di stagione, mercati a km 0, rivendite di oggetti usati e di recupero o l’utilizzo di energie rinnovabili.

A titolo completamente gratuito, le realtà che si attengono a tali principi potranno essere inserite sulla mappa di Consumiamo il consumabile (contattando il Ceas Museo delle Valli) e individuate così dai consumatori che operano scelte consapevoli ed attente a temi green ed ambientali.

Promosso da Ceas Museo delle Valli di Argenta, Ceas Centro Idea Ferrara, Ceas Giardino delle Capinere Ferrara, Ceas Mesola, dai Comuni di Argenta e Mesola, nonché da Soelia Spa e con il contributo della Regione Emilia Romagna, il progetto in fase di start-up promette di segnare un nuovo importante passo per la coscienza ambientale del nostro territorio.

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L’oro del Pci, Valente: “Io col Pd non c’entro, ma quei soldi spettano a loro…”

“Quelli della fondazione sono compagni di specchiata moralità, li conosco da anni. Ma questo non sposta il problema: c’è una stortura che va affrontata e risolta”. Alfredo Valente, oggi ai vertici del Prc a Ferrara, ripercorre la sua vicenda. “Sono stato iscritto al Pci dal 1976 fino al 1992. Sono uscito un anno dopo il congresso di Rimini che decretò la fine del Partito comunista italiano e la nascita del Partito democratico della sinistra. Rimasi disorientato e mi servì tempo per capire cosa fare. Da una parte c’era la neonata Rifondazione comunista con a capo Cossutta, un uomo con il quale non mi identificavo. Io, come Rossi e Zappaterra, ero dall’area ingraiana e Ingrao, pur in dissenso era rimasto nel Pds. Ma dopo un anno capii che non potevo più restare e approdai a Rifondazione, nel frattempo arricchita dall’apporto di compagni di Dp e altri soggetti. Allora ritenevo che al nuovo soggetto che si era staccato dal Pds fosse dovuto un risarcimento, una parte del patrimonio. Ma la scelta fu diversa e tutto rimase al Pds e successivamente passò ai Ds. Per logica e per coerenza ritengo che ora quel patrimonio spetti al Pd, c’è un’indiscutibile continuità del gruppo dirigente. Negarlo equivarrebbe a un’espropriazione nei confronti di chi è confluito dai Ds al Pd. Non ho alcun interesse a sostenere questa tesi. Io faccio ancora parte di Rifondazione. Paradossalmente se fosse riconosciuto il diritto della fondazione di trattenere il patrimonio potremmo avanzare delle rivendicazioni anche noi: se la storia è finita ognuno si riprende la sua parte. A questo punto potremmo anche intraprendere un’azione collettiva, una class action come si usa dire. Ma ripeto, per logica quel che c’è spetta al Pd”.

3 – CONTINUA

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Il diritto di tutti i bambini e le bambine a una scuola d’infanzia di qualità

di Loredana Bondi

Ricorre in questi giorni l’anniversario della legge (la 1044 del 2 dicembre 1971) dello Stato italiano che ha istituito il servizio educativo dei Nidi sulla base di intenti davvero edificanti dal punto di vista sociale e culturale. E’ stata la prima forma di disciplina normativa e di fatto è rimasta per decenni pura enunciazione di principio causa finanziamenti assolutamente inadeguati per realizzare l’obiettivo originario.
Da allora, tante promesse e impegni di Governi e Parlamento si sono udite, ma non si è mai concretizzato l’impegno reale di investire nell’educazione e cura dei cittadini più piccoli. Perché questo obiettivo costa “troppo” per la comunità e, ad eccezione di qualche stanziamento all’interno della finanziaria di qualche anno fa con il Governo Prodi, non se ne è più parlato.
L’attuale Legge di stabilità non stanzia un euro per i servizi per la prima infanzia, mentre in altri paesi dell’Unione Europea, ad esempio la Francia, il finanziamento è pari al 50% dell’investimento. Gli Enti locali hanno tentato di arginare le grandi difficoltà finanziarie in cui si trovano, taluni aumentando le rette, altri esternalizzando (o addirittura chiudendo alcune sezioni di Nido), mettendo ancor più in crisi le famiglie che, già colpite dalla situazione economico-sociale, sono spesso costrette a ritirare i propri figli da scuola. La crisi prolungata produce un welfare incapace di difendere i diritti dei bambini e i servizi per l’infanzia; aumentano così le difficoltà dei Comuni e dei gestori privati a mantenere il sistema esistente.
Ecco perché il Gruppo nazionale Nidi e Infanzia, associazione di promozione sociale che opera a livello nazionale per la diffusione della cultura dell’infanzia e dei suoi servizi, ha organizzato anche quest’anno una serie di eventi pubblici che coinvolgono cittadini, genitori, bambini e operatori con incontri e un flash mob in tante piazze di città e paesi d’Italia per richiamare l’attenzione di tutti su questo grosso tema della vita della nostra comunità, proprio in occasione della ricorrenza della Legge 1044 del dicembre 1971 di istituzione dei Nidi e della Legge 444 del 1968 della Scuola statale dell’infanzia.
E’ l’occasione per ribadire la necessità di garantire ai bambini e alle loro famiglie un percorso educativo di qualità che richiede di essere consolidato e riaffermato con forza, perché rappresenta un patrimonio di risorse culturali, umane e professionali che sta correndo grossi rischi. Si chiede, quindi, ai Consigli Regionali e Comunali di pretendere dal Governo e dal Parlamento, in sintonia con le politiche europee, con i documenti della Commissione Europea e con l’esperienza consolidata dell’Ocse una serie di interventi:
primo, una nuova legge che garantisca il diritto all’educazione fin dai primi anni di vita e sancisca la continuità educativa 0-6 anni con il sostegno e potenziamento dei servizi per l’infanzia di qualità;
secondo, un welfare capace di salvaguardare i diritti di tutti i bambini, ricordando che là dove sta bene un bambino, stanno bene tutti;
terzo, la salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio di servizi, di idealità, di cultura e concretezza che la crisi prolungata sta mettendo a rischio e con essa lo sviluppo dell’intero Paese.
La capacità di sviluppo, intelligenza e personalità dei propri cittadini è la ricchezza di un Paese. Iniziare dai più piccoli significa investire nel presente e nel futuro. Credo davvero che in Italia il percorso formativo non debba finire dopo, ma debba cominciare prima con Nidi e scuola dell’infanzia di qualità per tutti.

Pci-Ds

Panebianco sul Corriere della Sera cita “l’oro del Pci”

La questione, sollevata ieri da ferraraitalia, relativa al patrimonio ex Pci conservato da una rete di fondazioni private non ha solamente un significativo risvolto etico ma risulta nodale in questa fase della vita politica del nostro Paese. A segnalarne il rilievo è, nel suo editoriale di oggi sul Corriere della Sera, il noto politologo Angelo Panebianco, che scrive: “Sarà interessante soprattutto vedere come Renzi affronterà una questione per lui cruciale, quella dell’ ‘oro del Pci’ (il patrimonio immobiliare del vecchio partito). L’Italia è un curioso Paese nel quale può accadere che i beni di chi è stato dichiarato ufficialmente defunto non passino agli eredi, come ci si aspetterebbe, ma vengano invece messi ‘al sicuro’ in qualche Fondazione, in attesa di non si sa che cosa. Renzi ha due ottime ragioni per affrontare la questione. Se non ne viene a capo non potrà sconfiggere definitivamente il vecchio partito di apparato. E non potrà tenere fede all’impegno di abolizione (vera) del finanziamento pubblico ai partiti. Si ritroverebbe al verde o quasi. Le donazioni che affluirebbero dai suoi sostenitori probabilmente non gli basterebbero. E con pochi soldi è difficile fare politica”.

Su questo tema ferraraitalia intende sviluppare la propria riflessione e sollecita a intervenire, per arricchire il confronto, anche quanti abbiano argomentazioni da addurre o vogliano esporre il proprio punto di vista.
Al riguardo Gaetano Marani, autore del volume autobiografico “I miei 60 anni nel Pci”, prima tesoriere poi contabile del partito, da noi interpellato ricorda che “nel 2007 ero già fuori, ma pensavo che sarebbe stato opportuno fondere nel nuovo partito tutto quanto: debiti, crediti e patrimonio di Ds e Margherita. Invece si è deciso di congelare il patrimonio in attesa di vedere se l’unione funzionava. Questo è accaduto anche a causa di un atteggiamento ondivago dei dirigenti dei Ds, sempre incerti sulle decisioni da prendere”. E oggi come la vede quest’uomo che ha goduto nell’organizzazione e fra i militanti di incondizionata stima per le sue qualità morali? “Sono ancora della stessa opinione. La fase transitoria non si può trascinare all’infinito, altrimenti resta sempre un equivoco irrisolto. Se i due partiti si sono saldamente fusi tutto va ricondotto a unità e la restituzione del patrimonio è indispensabile per il suo consolidamento”.

2 – CONTINUA

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Renzi, il pericolo del revanscismo generazionale

di Giuseppe Fornaro

La scuola Mediaset ha lasciato il segno sulla comunicazione del neo segretario del Pd. A Renzi, infatti, va riconosciuta una grande capacità di comunicazione, un’attenzione a toccare le corde sensibili dell’uditorio, a porsi come il capitano di una squadra. “Sono orgoglioso di voi” ripetuto varie volte.
Devo confessare, però, che sentir parlare Renzi è stato un choc. Un discorso duro, dove non solo viene riaffermato il principio più volte ribadito della rottamazione, ma è stato lo sdoganamento, in più passaggi nei trentatre minuti di intervento, della contrapposizione generazionale, un principio pericoloso per la tenuta sociale. Anziani contro giovani, coloro che avrebbero fallito (a detta del neo segretario) contro coloro che hanno tutto da costruire e che finora sono stati esclusi dalla gestione del potere.
Di una verità oggettiva (l’esclusione dei giovani dal potere decisionale) Renzi ne fa un assioma per rivendicare l’indispensabilità di un ricambio generazionale. “Tocca a noi guidare la macchina. Tocca a noi che eravamo alle medie quando cadeva il muro di Berlino. Tocca noi che abbiamo scelto di iscriverci a giurisprudenza quando saltavano in aria Falcone e Borsellino. Tocca a noi che siamo cresciuti cittadini globali orfani della politica” (e cita i crimini di guerra del Ruanda e della ex Jugoslavia come simbolo dell’impotenza della politica). “Siamo cresciuti in un mondo orfano di politica”. Ora arriva Renzi e improvvisamente la politica, per una sorta di palingenesi, dovrebbe rinnovarsi attraverso il rinnovamento anagrafico.
E ancora, un altro passaggio ancora più duro per le implicazioni culturali oltre che politiche. “Noi stiamo cambiano i giocatori, non stiamo andando dall’altra parte del campo. Stiamo cambiando giocatori che hanno dato il meglio di se stessi, ma adesso hanno bisogno della sostituzione. Credo sia arrivato un momento in cui non possa bastare più continuare a sentirsi raccontare quanto è stata bella la loro storia, è arrivato il momento di scrivere la nostra storia e non solo sentirsi raccontare quanto è stata bella la storia degli altri”. Come se quella storia narrata non fosse anche la storia dell’emancipazione di intere generazioni dalla sottomissione, la fame, la negazione dei diritti, ma fossero una favola dal “lieto” fine. E qui potrebbe aprirsi un varco ai tanti relativismi storici di cui negli ultimi due-tre decenni se ne sono visti di tutti i colori. Dove vuole arrivare Renzi?

Ma c’è un passaggio che mi ha fatto saltare sulla sedia (oltre a quello, che non merita commento, sul sindacato la cui tessera sarebbe un viatico per la carriera, sic!) quando ha detto: “Talvolta abbiamo detto che era giusto privatizzare e abbiamo svenduto, non solo per colpa della sinistra, ma anche nostra”. Renzi, “nostra” di chi? Tu non ti senti parte della sinistra? O per te, in te, parlava qualcun altro?

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La sconfitta di Cuperlo figlia di una politica sciagurata e subalterna

Fra i commenti sulla sconfitta di Cuperlo prevale un leit motiv: è finita la storia degli eredi del Pci. Sono d’accordo. Con una avvertenza: quando si farà questa ‘storia’, si vedrà che il post-Pci è stato diretto in un modo sciagurato… Se siamo arrivati all’esito di questi mesi (un partito che deriva da una delle più grandi forze della sinistra europea, oggi nelle mani di due leader che non c’entrano niente con quella storia: Renzi e Letta…) più che merito dei ‘vincitori’ è demerito di un’intera classe dirigente che ne ha combinate di tutti i colori. E’ stata un disastro sul piano etico, progettuale, politico… Ha selezionato un personale dirigente (nazionale e locale…) all’insegna del tatticismo deteriore, opportunismo, carrierismo. E’ stata complice nella costruzione della ‘casta’ con tutti i privilegi e benefit approvati in questi decenni insieme alla destra berlusconiana in Parlamento e nelle Regioni. E’ stata subalterna a tutto e a tutti. Non ha mai avuto uno scatto di innovazione e combattività. Alla fine è stata percepita come una zavorra inaccettabile: di qui la vittoria di Renzi come frutto di una vera e propria repulsione verso costoro…
E adesso? Adesso la prova dei fatti e degli atti politici riguarda chi ha vinto. Infine, mi auguro che finisca il tempo della battute ‘grottesche’ (ieri Renzi: “ci manca Mike Bongiorno…”); e che si presti attenzione al ‘simbolico’ (la delirante telefonata di complimenti del delinquente Berlusconi, con accompagnamento di applausi delle signore presenti: “bravooo!”).

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Il potere del libro per educare alla bellezza del corpo e dei rapporti

Ventitré racconti per spiegare a bambini e adolescenti cos’è la violenza di genere, in tutte le sue declinazioni. Per fare capire loro che bisogna evitarla non per paura di essere ‘puniti’, ma perché è sbagliata, punto e basta. Perché è innaturale, punto e basta. Perché la nostra compagna di banco e di vita va rispettata, punto e basta. Li hanno scritti 23 autrici di favole e sono raccolti nel libro Chiamarlo Amore non si può, edito per i tipi Mammeonline. E se il nome della piccola casa editrice di Foggia rimanda alla cultura digitale, va detto invece che il testo è di carta, pronto per essere sottolineato, bistrattato con le pieghe agli angoli delle pagine, consumato. Perché la vera sensibilizzazione, come spiega Donatella Caione, responsabile della casa editrice, passa per la cultura. E attecchisce tanto di più se ad assimilarla sono i ragazzini di oggi, gli adulti di domani. Capovolgendo una prassi consolidata per cui gli adulti parlano agli adulti, Caione ha deciso che no, il futuro si cambia soltanto se a fare propri nuovi modelli comportamento sono i ‘grandi’ di domani. Presentato nei giorni scorsi alla Sala Conferenze della Camera dei Deputati, del testo (i cui proventi andranno all’Aidos, Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) si stanno occupando tutti i media nazionali. E in corso sono presentazioni nelle scuole dello Stivale perché l’argomento non va esaurito nelle settimane che precedono o seguono le iniziative relative alla Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne.
Racconti di fantasia o attinti dalla realtà?
Entrambe le cose, nel senso che ovviamente c’è la fantasia, che si snoda però su vicende forti, di stupri, di botte, di angherie psicologiche. Con un linguaggio ed esempi consoni. Si parla di storie d’amore tra adolescenti, di ‘pressioni’ fatte attraverso i social network per la rabbia causata dall’abbandono. Abbiamo tenuto in considerazione l’età e la sensibilità dei ragazzi, tenendo però in altrettanta considerazione che i nostri figli vengono bombardati ogni giorno dalla cronaca, dai programmi di cronaca nera. Non sono avulsi dalla realtà, al contrario ne conoscono le efferatezze. La narrazione mette in campo tanti fattori, tanti sentimenti, li aiuta a comprendere tanti passaggi. Ogni storia contiene un personaggio positivo, dunque uno spiraglio, una speranza da cui ricominciare.
L’obiettivo?
Le ragazzine debbono realizzare che si può dire no, i ragazzini che non possono pretendere. Bisogna educare i maschi al rispetto dell’altrui corpo, le femmine alla dignità. Bisogna uscire da un concetto di mercificazione per cui anche un prodotto per la pulizia della casa, oggi, viene pubblicizzato grazie a una ragazza seminuda. Il richiamo alla fisicità, alla sessualità, è ovunque. E’ necessario mettere uno stop.
Quindi bisogna ripartire dalla scuola?
Certo, formando anche gli insegnanti, diversamente si mettono in campo solo azioni ‘tampone’. Detto questo, vanno superati anche certi gli stereotipi che la scuola si porta dietro. Un esempio? Nelle immagini di famiglia viene rappresentata la mamma in cucina e il padre in poltrona.
In Italia si legge sempre meno. La sua è una bella sfida…
I libri sono un mezzo straordinario per parlare di ‘bene’, per affrontare argomenti delicati, hanno un grande potere. Basti pensare ai bimbi piccoli, cui la mamma legge le favole, magari sul divano, sotto una coperta. Ecco che il libro diventa l’estensione della mamma e lo si amerà per sempre.
Chiamarlo amore non si può, come va letto?
Anche soli o con i genitori vicini, affinché possano mediare, affinché alla fine i nostri figli non si sentano soli e possano fare domande.
Perché solo autrici donne?
Perché vogliamo divulgare un linguaggio di genere, per darci visibilità, perché si parla di emozioni. E perché quel che non si nomina, non esiste.

Info su casa editrice Mammeonline e possibilità di acquistare il testo per le scuole con una speciale scoutistica

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Scenari post-crisi, noio vulevam savuar l’indiriss

Confesso di essere un lettore distratto. Ma mi chiedo perché, nell’oceano di statistiche, grafici, dati e cifre che ogni giorno ci sommerge, non trovino quasi mai posto un ragionamento, un’indicazione, uno studio sul cosa fare per superare questa crisi.
La contrapposizione dottrinale e politica tra rigore e sviluppo tiene ancora banco in Europa, e non si sa ancora quale dei due orientamenti prevarrà. Nel frattempo chiudono imprese, saltano posti di lavoro, si riducono al lumicino le speranze di migliaia di giovani di avere un lavoro ed un futuro. Per l’Italia, il Rapporto Censis 2013 – non certo un bollettino rivoluzionario – punta il dito contro politici, imprenditori e banchieri, additandoli come responsabili primari della crisi. “È impossibile pensare ad un cambiamento – sostiene il Censis – perché la classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di drammatizzare la crisi per gestirla”. Terribile.
Tentiamo qualche ragionamento. Negli ultimi quindici – vent’anni il nostro Paese ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato tra i primi al mondo. Dapprima l’informatica e la chimica; poi l’elettronica di consumo, l’industria aeronautica, gli elettrodomestici e la siderurgia. O si sono perse posizioni, o si è restati marginali.
Rimane in piedi l’auto, con tutte le difficoltà ben note di un mercato maturo e dal futuro imprevedibile. Il fallimento della municipalità di Detroit, città dell’automotive per eccellenza schiacciata da 18 miliardi di dollari di debiti, è un campanello d’allarme preoccupante al riguardo.
Perché sono così in pochi ad indicare come uscire da questa situazione? Nessuno dice cosa si deve produrre in Italia, al posto di quello che non si produce più, e dove lo si deve vendere.
La verità è che il nostro Paese da anni non investe o investe poco nelle intelligenze e in settori nuovi. Quando lo fa, lo fa male. Nella produzione di energia alternative, ad esempio. Il fotovoltaico ha pesato troppo sulla bolletta elettrica e con il calo degli incentivi si è sgonfiato rapidamente. L’utilizzo delle biomasse, soprattutto nella Valle Padana, ha suscitato proteste più che consensi, probabilmente perché non ha utilizzato giuste ed avanzate tecnologie. Più in generale, la green economy – cavallo di battaglia di uno sviluppo alternativo – in Italia non è diventata sistema, nonostante molte e lodevoli iniziative imprenditoriali.
Intanto si aspettano idee per uscire dalla crisi. Dal governo, anzitutto, ma anche dagli imprenditori. Tempo fa il presidente di Confindustria Squinzi ha detto più o meno che, se incentivati da politiche pubbliche, gli industriali italiani ci avrebbero stupito. Aspettiamo fiduciosi, ma non tanto.

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Il patrimonio ex Pci, sei milioni nelle mani di una fondazione privata

Dov’è finito il patrimonio dell’ex Pci, transitato nel 1991 nel Pds poi ereditato nel 1998 dai Ds ma mai conferito al Pd? La storia non è nuova, ma non sono in molti a conoscerla. Quel patrimonio, fatto essenzialmente di immobili, dall’autunno del 2007 è custodito da una rete di fondazioni private. Quella provinciale, che gestisce le ex case del popolo, i magazzini e gli stabili che un tempo furono del Partito comunista ferrarese e poi dei suoi eredi diretti, si chiama “L’approdo”. A governarla è un comitato di indirizzo, composto da cinque membri nominati a vita e presieduto da Secondo Cusinatti, storico dirigente del Pci copparese. Ne fanno parte Severino Franco, Riccardo Baricordi, Alberto Bovinelli e Daniele Zoli. C’è poi il consiglio di amministrazione, di cui fanno parte cinque persone: il presidente Bracciano Lodi e i consiglieri Maurizio Aguiari, Daniele Ravagnani, Alessandro Tedaldi e lo stesso Cusinatti. Poi ecco il collegio dei (tre) revisori dei conti. Tredici persone in tutto. Lo statuto prevede anche un comitato scientifico con relativo direttore generale ma di questi sino a oggi si è fatto a meno.
“Nessuno di noi percepisce un euro”, si affretta a chiarire Cusinatti, e fa bene a mettere le mani avanti perché di questi tempi il sospetto è legittimo. “Nemmeno i rimborsi spesa – aggiunge – se vado a Bologna mi pago la benzina”. Nessun gettone da 900 euro per la trasferta? Se la ride, ma non si sa quanto di gusto. Per uno che in certi valori crede davvero quel che sta accadendo non è facile da mandare giù.

Ma di cosa stiamo parlando in soldoni? Grossomodo di sei milioni di euro, il valore di una trentina di immobili proprietà dei Ds che non sono finiti nei forzieri del Pd, oltre a circa 170mila euro di rendita annua che deriva dal loro affitto. Cifre approssimate, ricavate dal presidente che al momento del nostro colloquio non ha sottomano i bilanci (“ma sono controllati, c’è la massima trasparenza”, afferma) e per soddisfare la nostra insistenza ci rimanda al sito della Regione dove – sostiene – sono pubblicati. Ma dalla Regione, dopo vane ricerche in rete e un lungo giro di contatti, apprendiamo che in realtà i bilanci delle fondazioni non sono online e per poterli consultare i tempi non sono brevi. C’è il solito iter… Così, sollecitato di nuovo, Cusinatti l’indomani ci richiama e dice di avere ritrovato un appunto al margine di una relazione e snocciola questi numeri. Altro non c’è, perché – spiega – la liquidità di cassa, a Ferrara come in tutta Italia, fu devoluta al nuovo partito ai tempi della fusione, sei anni fa. In ogni caso non è poco. Sei milioni di roba e 170mila euro di rendita annua sono un bel gruzzolo, benché un provento del 3 percento su un simile patrimonio non sia proprio da lustrarsi gli occhi.

A questo punto subentrano gli interrogativi. Il primo è capitale. Perché nel 2007, pur devolvendo la cassa, ci si tenne “l’argenteria”? Diffidenza reciproca, sostanzialmente – afferma in una sua recente memoria Giorgio Bottoni, allora tesoriere dei Ds, che non condivise però la soluzione delle fondazioni e non entrò a farne parte -. L’interpretazione appare convincente. D’altronde quello fra Democratici di sinistra e Margherita fu un matrimonio innaturale. Le due formazioni politiche ereditavano la tradizione di Pci e Dc, eterni rivali. Mettersi insieme, pur in un contesto storico radicalmente mutato, era una scommessa e per qualcuno forse un azzardo. Tanti non aderirono, non riconoscendosi nell’identità del nuovo soggetto. E coloro che comunque decisero di andare avanti lo fecero con riserva tutelandosi nel caso che… L’idea era che qualora il matrimonio fosse fallito ciascuno (mettendo preventivamente da parte i propri averi) poteva sempre tornare a casa propria. Sotto questa luce l’operazione appariva come un temporaneo accantonamento, in attesa che si dissipassero i dubbi sulla possibilità di convivere nel nuovo partito. In maniera analoga si regolò anche la Margherita.

Cusinatti però non la vede così. “Il problema era un altro: i partiti da sempre sono mangiasoldi. Quei beni sarebbero spariti in fretta. La volontà delle fondazioni nate a livello nazionale e messe in rete fra loro era quella di mantenere il patrimonio frutto del lavoro dei compagni delle feste dell’Unità, delle autotassazioni, delle sovvenzioni…. Dietro la facciata delle parole emerge però un retropensiero che l’interlocutore non esplicita ma lascia intendere: quello che il Pd non rappresentasse coerentemente il patrimonio ideale dei Ds, cioè della sinistra. E che quel patrimonio andasse preservato dalla deriva ideologica.
A questo punto però lo scenario si complica e divergenti appaiono le implicazioni.
Se il problema sono “i partiti mangiasoldi” – come dice Cusinatti – c’è da chiedersi sulla base di quale autorità morale fondazioni private, per sottrarre il patrimonio alla voragine, si siano di fatto impadronite di una ricchezza che era pur sempre maturata nell’alveo di una formazione politica, dunque collettiva.
Se di operazione di pura cautela si trattava – come invece pensava il tesoriere Bottoni – beh probabilmente dopo sei anni di sposalizio la reciproca diffidenza si potrebbe considerare superata e nulla più osterebbe al conferimento del patrimonio al suo legittimo erede, il Pd.
Ammenoché non prevalga la terza, implicita, riserva: quella politica. Il Pd è indegno erede e quindi tutto resta congelato in attesa della fine del mondo e di una palingenesi: la rinascita dalle ceneri di un erede finalmente degno. Uno scenario apocalittico, ma in fondo neppure troppo remoto visti i continui dissidi interni ai Democratici. Che però sono abbastanza trasversali alle vecchie appartenenze e quindi potrebbero un domani, qualora pure si giungesse a una scissione, non approdare alla formazione di un soggetto in grado di soddisfare la purezza di pedigree attesa dai depositari degli antichi ideali.

Tornando ai fatti, la realtà ferrarese parla, come anticipato, di sei milioni di patrimonio immobiliare (metà dei quali ascrivibili al centro feste di Vigarano). Cosa dovrebbe fare L’Approdo di questo bendidio? “Metterlo a disposizione della collettività”, afferma in maniera vaga Cusinatti. Per cosa concretamente? L’imperativo che viene esplicitato è “diffondere la conoscenza della storia e della cultura della sinistra”. Ottimo. Ma in concreto cosa è stato fatto? Gli anni sono già sei ma nel sito ufficiale (www.fondazionelapprodo.it) l’unica cosa segnalata alla voce “attività” è la pubblicazione del volume “E l’Unità faceva festa” a firma Sara Accorsi, realizzato e stampato in trentamila copia nel 2010 da Cirelli e Zanirato, al costo (precisa il presidente del comitato di indirizzo) di 30mila euro, “in vendita – è scritto nel sito – in tutte le migliori librerie al costo di soli 21 euro”.
Già questo lascia perplessi: in vendita, dunque. Ma – chiediamo a Cusinatti – non dovreste divulgare, mettere a disposizione? “Sì, infatti li abbiamo poi regalati, a parte un centinaio. Adesso stiamo vedendo cosa fare delle rimanenze. Quante? Un migliaio. Andranno ai circoli di partito e alle biblioteche”.
Va bé… E a parte il libro? “Beh stiamo sistemando i locali di piazzetta Righi, da viale Krasnodar trasferiremo lì la sede, stiamo anche attrezzando un archivio…”. Questo è l’oggi – puntualizziamo – ma in passato? “Ci siamo preoccupati della manutenzione degli immobili, della loro messa a norma…”. Già, ma che c’entra con la divulgazione dei valori della sinistra? “Abbiamo pubblicato un libro di Gaetano Marani e contribuito alla scuola di formazione del Pd”. E “tutto” questo fervore culturale quanto vi costa ogni anno? “Dai 15 ai 25mila euro”, sostiene l’interlocutore. Che aggiunge: “Abbiamo anche concorso con le fondazioni di tutta Italia alla realizzazione della mostra itinerante sul Pci”.

Onestamente ci pare poco. Da quanto ci viene riferito la fondazione sembra avere quale scopo primario quello di sopravvivere. Si fa manutenzione, appunto, ma manca la progettualità. Addentrandoci nelle scarne cifre di bilancio, guidati dal presidente Cusinatti e dai suoi appunti, scopriamo che nel 2012 dei 147mila euro di uscite circa la metà sono andati a copertura dei mutui che gravano su alcuni degli immobili, 20mila per opere di messa a norma, 11mila per il personale di segreteria e il rimanente in spese assicurative, tasse e tributi vari. Alle iniziative culturali sono finite solo le briciole. Eppure il bilancio si è chiuso con un attivo di 23mila euro. Dunque se si fa poco a livello di iniziative il motivo c’è: si spende poco o nulla. Ma lo scopo della fondazione, ribadiamo, non è galleggiare, bensì promuovere e diffondere la conoscenza dei valori della sinistra. E allora? Mancheranno mica le idee?
Già che ci siamo ne buttiamo lì una. Perché non vendere una parte cospicua del patrimonio e col ricavato creare, per esempio, un grande centro culturale multimediale che davvero dia impulso alla ricerca sui temi propri della sinistra, oltre che coltivarne la memoria? Cusinatti replica che non si può fare, poi si corregge e dice che sì, si potrebbe, ma è un’idea troppo ambiziosa, “mica siamo a Roma”.

Allora si torna al quesito iniziale. Una fondazione così ripiegata in se stessa a cosa serve? Ne comprenderemmo la ratio se la funzione (come sostiene Bottoni in una lettera scritta alla Nuova Ferrara nella primavera scorsa) fosse quella di cassa di sicurezza, in caso di divorzio nel Pd. A questa condizione la gestione meramente conservativa avrebbe un senso. Ma se la fondazione deve essere un motore di conoscenza, come viceversa reputa Cusinatti, non può semplicemente svivacchiare, tirare avanti ridipingendo le pareti di casa e togliendo la muffa. “Senza le fondazioni metà del patrimonio già oggi non ci sarebbe più”, ribadisce tosto il presidente. E io provoco: quindi la vostra è solo una funzione di tutela, un rifugio dagli spendaccioni di partito? “Da una cultura sbagliata che c’era anche dentro i partiti di sinistra”, chiarisce l’interlocutore. E si affretta a precisare (con un paradosso che dissipa possibili malevole interpretazioni): “Voler spedire quell’unica copia dell’Unità in Valle d’Aosta costava 500 euro, non era economicamente conveniente…”.

Bene, ma oggi che l’Unità non c’è più (per stare alla metafora) e siamo a fine anno, cosa si propone di fare L’Approdo per il 2014? Al dubbio che ci assale chiediamo soluzione a chi ha potere di decidere. “Ad aprile ci troveremo per stilare il bilancio consuntivo e approvare quello preventivo”. Ad aprile? Siamo a dicembre! E poi che c’entra il bilancio, stiamo parlando di programmi, di attività, progetti, non di contabilità… “Sistemeremo la nuova sede, l’archivio, ci sarà una saletta con 40/50 posti”. E per farne cosa? Chi siederà su quelle sedie? I dubbi persistono.

E poi c’è il problema delle cariche a vita. Sempre Giorgio Bottoni scrive che di questi compagni ci si può fidare (“sono brave persone, oneste, disinteressante”), ma domanda: una volta che non ci siano più loro che succede? Lo statuto prevede che se uno degli attuali componenti per qualsiasi motivo viene a mancare si sceglie un sostituito per cooptazione. Pratiche da “ancien regime” che credevamo superate. “Già – sorride – Cusinatti – però almeno noi siamo tutti gratis”, lasciando intendere che la carica è, in tutti i sensi, più un peso che un godimento.

Ci salutiamo e a me resta una convinzione. Se questi signori sono garanti di un patrimonio collettivo, come il presidente stesso ammette, non è giusto che decidano tutto da soli. Non sarebbe stato meglio, nel 2007, coinvolgere la totalità degli iscritti ai Ds di quell’anno come se fossero i soci di un azionariato diffuso, definire una forma associativa condivisa fra tutti i militanti e posta sotto il loro controllo assembleare anziché privatizzare la gestione? Non sarebbe stato più giusto, più “di sinistra”? “La scelta è stata nazionale, si è deciso così”, chiosa Cusinatti.

Mentre ci allontaniamo, ad accompagnarci è l’altro rovello: che senso ha mantenere in vita la fondazione in una condizione di sostanziale inerzia?
Se lo scopo era semplicemente quello di preservare il patrimonio nel caso di rottura nel Pd, ha ragione Bottoni quando dice che ora è tempo che quei soldi vadano al Partito democratico. Se invece, come ritiene Cusinatti, il Pd non rappresenta i valori della sinistra, e quindi la fondazione ha il dovere di sviluppare una propria autonomia azione per sostenere e diffondere quei valori, è tempo di rimboccarsi le maniche: in sei anni due libri, qualche contributo all’Istituto di storia contemporanea e il sostegno alla scuola di partito (del Pd peraltro, che in quest’ottica risulta un paradosso, ammenoché non si pensi di indottrinarne i dirigenti!) sono il nulla. Insomma, in qualsiasi caso, così non va.

1 – CONTINUA

L’allenatore di campioni al campetto del San Luca

Dei ragazzini che giocano a calcio in un campetto di Ferrara, un campione del Manchester City come Yaya Touré e un attaccante acclamato come Gervinho. Che cosa hanno in comune questi 13enni ferraresi, attaccanti, difensori e portieri dalla maglia rossoblù con il centrocampista di una delle più celebri e blasonate squadre inglesi e con uno dei nuovi idoli della Roma? In comune hanno un pezzetto di quella terra d’Africa, la Costa d’Avorio. Un paese martoriato da una guerra fratricida che, però, non è riuscita a uccidere la passione, la voglia di vivere, correre e lottare per qualcosa che va oltre ogni confine: lo sport e, in questo caso, precisamente il calcio.
Perché, a lanciare da un campetto delle giovanili africane Yaya Touré prima e poi Gervinho, è stato Traore Aboubakar, meglio conosciuto come Abu. Adesso Abu allena il gruppo Esordienti dell’associazione sportiva Acli San Luca-San Giorgio di Ferrara.
Abu è venuto via dalla Costa d’Avorio, come Yaya e Gervinho. Ognuno di loro, la cosa che sa fare bene, è il calcio. Alle spalle una storia personale segnata; nel cuore la voglia di non arrendersi mai. Nelle giovanili africane Abu ha conosciuto, scelto e allenato questi ex ragazzini, ne ha apprezzato la bravura, li ha spronati a superare se stessi. Nel luglio 2010 Yaya firma un contratto quinquennale con il Manchester City, nel 2011 e nel 2012 viene eletto miglior giocatore africano dell’anno. La carriera di Gervinho prende il volo in Francia, nel Lille, per poi passare all’Arsenal fino ad arrivare, quest’estate, alla Roma. Insieme con Didier Drogba, Touré e Gervinho sono tra i giocatori più rappresentativi della Nazionale ivoriana.
In Italia dal 2009, Abu ha ottenuto l’asilo politico e a Ferrara la possibilità di portare avanti il suo mestiere, che gli serve per mantenere i due bambini rimasti orfani della mamma e per non spegnere mai la passione che, insieme con il cibo e l’aria, è quella che tiene vivi dentro. A seguirlo e a fare tesoro della sua professionalità e della sua carica di umanità una quindicina di ragazzini, classe 2000 e 1999. Che corrono, sudano e esultano con Abu in via del Campo e nei prati dove li porta il campionato esordienti ferrarese.

tecnocrazia

Dittatura economica, i tecnocrati sottraggono la sovranità ai cittadini

di Barbara Diolaiti

Quando, leggendo il “Bill of Rights” del 1689, chiedo agli studenti di Quarta Itis di individuare quali affermazioni secondo loro confermino con maggiore chiarezza la vittoria del Parlamento inglese sul Re, sempre citano: “Che imporre tributi in favore o ad uso della Corona, per pretese prerogative, senza l’approvazione del Parlamento, per un periodo più lungo o in altra maniera che lo stesso Parlamento non ha e non avrà concesso, è illegale.” Il potere fiscale sottratto al Re.

Penso a questo sabato 7 dicembre mentre ascolto Franco Russo, relatore del terzo appuntamento della scuola di formazione popolare “Invertire la rotta”, organizzata dal Comitato Acqua pubblica di Ferrara in collaborazione con Attac Italia e Insolvenzfest.

“I trattati dell’Unione Europea – spiega, infatti, Russo – sono basati sul criterio dell’efficienza e non della democrazia. L’obbligo degli Stati membri di approvare e inviare alla Ue le leggi di stabilità entro il 15 ottobre di ogni anno, leggi che devono uniformarsi alle indicazioni della Ue stessa, dimostra che il potere fiscale non è più nelle mani dei Parlamenti nazionali e nemmeno del Parlamento europeo, ma di organismi tecnocratici che, in pratica, svolgono il ruolo che era dei Re nelle monarchie assolute.”
L’incontro è dedicato al tema “Stati sovrani? Economia del debito e democrazia economica”; i due precedenti a “Finanziarizzazione dell’economia e dei servizi pubblici” (30 novembre, Roberto Errico e Ivan Cicconi) e a “l’Europa delle istituzioni, dei popoli, della finanza” (23 novembre, Stefano Risso e Claudio Gnesutta).
Cinquanta, settanta persone ad ogni incontro, molte domande e riflessioni.
Alessandro Somma, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, ha coordinato l’intero ciclo e con lui hanno dialogato i diversi relatori.
Somma ricostruisce la progressiva perdita di sovranità ricordando che già il fascismo si presentò come una soluzione sul piano prima di tutto economico: “La liberalizzazione del mercato era in profonda crisi e vi era il rischio che l’economia venisse presa in mano da un movimento operaio forte. Il fascismo rappresentò così la “terza via” per riformare il mercato e la politica divenne lo strumento per presidiare l’ordine economico attraverso l’applicazione dell’ordoliberalismo: lo Stato interveniva nell’economia difendendo la proprietà e l’iniziativa private, garantiva alcune misure di protezione sociale, ma lasciava il singolo individuo solo di fronte al potere politico ed economico.”
“Non è un caso – prosegue Somma – che le Costituzioni democratiche dei Paesi che, pur in momenti diversi, hanno vissuto la dittatura (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) siano fortemente caratterizzate da una reazione anche alla dittatura economica.”
Perché per difendersi da involuzioni autoritarie non è sufficiente garantire la democrazia politica, ma è indispensabile prevedere la socializzazione dei beni economici. E sono proprio questi, oggi, gli Stati sotto attacco costante della Troika europea, che impone – e ottiene – modifiche di quelle Costituzioni e delle Leggi conseguenti proprio nelle parti relative alla democrazia economica. Ecco allora il pareggio di bilancio in Costituzione o la modifica dell’art.18 che affievolisce la difesa del lavoratore e lo lascia più solo di fronte al potere politico ed economico.
“Per la Germania andò diversamente – chiarisce Somma – perché decisero gli Alleati, prevedendo già una Costituzione con l’obbligo di pareggio di Bilancio, ad esempio. L’Unione Europea nacque con l’obiettivo di realizzare un’ “economia sociale di mercato”, che di fatto reintroduceva il concetto di ordoliberalismo al quale ora si sta via via riconducendo l’economia dei singoli Stati membri.”
“Il federalismo europeo di marca liberale – riprende Russo – riteneva che si dovesse agire sul mercato per superare la volontà di potenza degli Stati sovrani, che, in effetti, era stato elemento determinante nello scoppio delle due guerre mondiali. L’idea era unificare i meccanismi economici per giungere anche all’unità politica. Ma quelle posizioni vennero velocemente eliminate e si costruì, invece, un’Unione funzionale all’economia capitalista, basata sul criterio dell’efficienza e non della democrazia economica. Oggi siamo in presenza di un ordine giuridico del mercato, che prescinde dai diritti delle persone.”

“Non è questione di difendere la sovranità dei singoli Stati o dell’Europa – incalza Somma – ma di difendere la sovranità dei cittadini ai quali questa sovranità è stata tolta. Ogni volta che si ristruttura il debito per adeguare un Paese ai parametri europei si compie una violenza sulla sovranità dei cittadini tagliando servizi, dismettendo il patrimonio pubblico. Per citare lo storico Marc Bloch, se tutti i debiti venissero saldati, il sistema capitalista crollerebbe. Non a caso ora nessuno permette ai Paesi di fallire: occorre mantenerli indifesi di fronte a cambiamenti strutturali. Eppure nella Storia sono numerosi gli esempi di Stati falliti. Gli Stati dovrebbero avere il diritto di fallire anche perché questo significherebbe avviare una rilettura di ciò che è accaduto, delle scelte compiute, assicurarsi la possibilità di cambiare rotta.”

Che fare, allora, per restituire a tutti noi quei diritti democratici che non possono prescindere dalla democrazia economica?
“Non è facile – riflette Somma – anche perché abbiamo introiettato il metro economico per valutare ogni cosa. Ma vi sembra normale che si pensi di eliminare le Province per risparmiare soldi? O di ridurre il numero di parlamentari sempre per risparmiare soldi? Nell’entusiasmo generale si sceglie di privarsi di strumenti democratici per risparmiare soldi e contemporaneamente si afferma però di rivolere la sovranità. Il tema dovrebbe essere il controllo democratico delle scelte, come recuperare spazi di democrazia e di conflitto.”

Franco Russo è chiaro: “Per contrastare questo disegno, per invertire davvero la rotta occorre prima di tutto mantenere un atteggiamento etico, essere consapevoli che alle ragioni dell’economia vanno contrapposte le ragioni delle persone. Smettiamola di pensare che coloro che decidono siano degli idioti inconsapevoli della realtà, che propongano ricette fallimentari poiché incapaci. Sanno perfettamente ciò che fanno e di certo operano consapevolmente contro noi cittadini.”

“La nostra alfabetizzazione – conclude Russo – è un passaggio ineludibile: basta con la superficialità. Dobbiamo studiare, approfondire, rifuggire dalle banalità e dalle scorciatoie. Troppo a lungo la Sinistra ha sottovalutato l’importanza dell’Unione Europea e la necessità di agire per modificarne la direzione. E poi il sindacato…i sindacati sono presenti in tutti i Paesi aderenti alla Ue eppure non lottano contro le scelte dell’Unione Europea; si accordano, sembra abbiano rinunciato a difendere i diritti dei lavoratori. Occorre aprire un confronto anche su questo.”

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Un presepe per sciogliere l’algido vescovo

E’ arrivato il presepe nel palazzo arcivescovile. Speriamo che l’immagine della natività riscaldi il cuore anche a monsignor Negri, che ancora ieri mattina ha spiegato al Carlino con algido distacco che a Erik Zattoni “la Chiesa italiana secondo le normative vigenti non è tenuta a fornire alcun risarcimento perché i preti non sono considerati impiegati della Curia”.
Peraltro, già mercoledì sera il vescovo era intervenuto in sala Estense al pubblico incontro dal titolo “La sfida della famiglia oggi. La responsabilità dei cattolici”, senza avvertire il dovere morale di fare cenno alla vicenda. Ma pur evitando di regolare i conti in casa propria si è erto a giudice dei comportamenti altrui. Per fortuna la parabola della trave e della pagliuzza è di Gesù, mica nostra.

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Gli artigiani di quarta generazione si incontrano in città

“MEme-Maker Exposed”, il festival internazionale dedicato agli “artigiani del futuro”, che ha scelto come teatro proprio la nostra città, prende il via domani alle 17 al mercato coperto di via Boccacanale di Santo Stefano. Dal 9 al 15 dicembre Ferrara si animerà dunque di conferenze, workshop e temporary shop in cui a farla da protagonisti saranno designer, creativi, nuovi talenti e progettisti: dall’abbigliamento all’oggettistica, sotto il comune denominatore di una qualità del fare tutta italiana.
Innovazione e tradizione si incontreranno nei luoghi ferraresi tra cui il mercato coperto, il circolo dei negozianti di palazzo Roverella, la Camera di commercio e la Sala dei Comuni del castello Estense, per discutere delle professioni del futuro, quelle capaci di concretizzare idee materializzandole in forme inedite, producendo valore e utilità sociale.
Tra gli appuntamenti di cui prender nota, sicuramente quello di sabato mattina in castello, ore 10 alla Sala dei Comuni: “Think Tank, Nuovi cambiamenti, buone politiche e nuova impresa”, a cui prenderanno parte Stefano Micelli, docente a Ca’ Foscari di Venezia; Stefano Maffei, del Politecnico di Milano, Francesco Bombardi, direttore del FabLab, il Digital fabrication laboratory FabLab Reggio Emilia, coordinati da Giampaolo Colletti, autore “Wwworkers” del Gruppo24Ore.

Consulta il programma di MEme

pecore

Perde la conoscenza chi non si pone più domande

Credo che la conoscenza sia insieme memoria e risposta alla domanda “perché”. Ritengo che la città senza conoscenza sia la città che più ancora che la mancanza di risposte sconta la mancanza di domande. La città non ha più conoscenza, gli uomini non hanno più conoscenza quando smettono di interrogarsi, di indignarsi, di sorprendersi, di meravigliarsi, di chiedersi ragione di ciò che gli scorre accanto. Quando considerano che tutto sia ovvio, inevitabile; quando non trovano più in loro la forza per rimettere in discussione l’ordine delle cose, quando subentra l’apatia, l’indifferenza, la resa alle condizioni date. Quando le vite di chi ci sta attorno e anche la nostra sembrano incanalate nell’alveo di un fiume, con un’unica direzione obbligata. Quando non ci sono più la fantasia, l’immaginazione, l’utopia a guidare e a cercare di modificare il nostro cammino. Quando smettiamo di chiederci perché: perché questo è possibile, perché quest’altro non potrebbe essere. Quando smettiamo di cercare di prefigurare un futuro non scontato, quando crediamo che le domande non abbiano più senso perché le risposte sono già tutte scritte, magari da altri. E’ proprio allora che perdiamo la conoscenza poiché rinunciamo al libero arbitrio e ci disponiamo a “viver come bruti”, rinneghiamo il sacro furore dell’intelletto che si interroga e non si rassegna, rigettiamo l’inventiva, il desiderio e l’ambizione di essere protagonisti e arbitri del nostro destino.

pensiero

L’offesa e la rivolta. La politica che giudica la cultura

Mentre le sciagurate vicende che stiamo vivendo mostrano caratteri specifici degli italiani – falso perbenismo, subornazione ai capi, machiavellismo d’accatto, profondo livore per chi considera la cultura un patrimonio della vita civile – mi domando poi come da queste caratteristiche nascano esempi fulgidi di una intelligenza delle cose e degli uomini che pongono questo popolo ai livelli più alti dello spirito umano. Trovo veramente triste considerare quanto perdano coloro che si compiacciono a insultare, disprezzare, temere, il prodotto dell’intelligenza che è appunto la cultura. E si capisce che solo in questo paese poteva nascere la mafia ovvero l’antistato. Andrea Camilleri ne lascia ora testimonianza in uno dei suoi migliori romanzi, La banda Sacco dove racconta le vicende storicamente vere di una famiglia che osò, negli anni Venti del secolo scorso, ribellarsi alla mafia che si stava consolidando e diffondendo nel mondo. Camilleri così commenta il suo lavoro nella nota finale: “Ho tentato di raccontare, attraverso questo ‘western di cose nostre’ per usare un titolo di Sciascia, come la mafia non solo ammazzi, ma laddove lo Stato è latitante, sia anche in grado di condizionare e di stravolgere irreparabilmente la vita delle persone” (pag. 181). E che la mafia tema la cultura è ormai un dato sicuro. Si veda almeno la vicenda emblematica di Saviano. Perciò tanto più rivoltante appare il dileggio a cui ogni forma di cultura viene sottoposta per fini esclusivamente di consenso politico. Un atteggiamento ora così di moda siglato dalle urla isteriche dei comici capi popolo e dai loro servi di scena che si scagliano contro i quattro senatori a vita, non solo ma dovunque la cultura li costringa a una riflessione sempre elusa o rifiutata. Solo la cultura, infatti, dimostra la povertà mentale dell’uomo medio che anche nelle terribili condizioni della crisi economica urla e chiama “vecchi rincoglioniti” i senatori a vita. Sono gli stessi che quando Crozza li condanna e li imita ridono perché non sanno cosa voglia dire ironia e disprezzo miscelati assieme. Sono gli stessi, purtroppo, che ben conoscono il peso della cultura come il premio Nobel Dario Fo che applaude alle convulsioni di Grillo e poi si adonta se lo stesso comico insulta i giornalisti a lui contrari su facebook. Sono coloro che hanno il loro orizzonte mentale talmente ristretto da vedere come i miopi di dantesca memoria solo il qui e il presente non progettando un futuro che nasca dalla riflessione di un passato. E questa situazione è astutamente cavalcata da tanta politica in un mix tremendo di larghe intese che non lasciano distinguere il buono dal malvagio, il vero dalla menzogna.
Una cara amica, Lina Bolzoni, italianista e magistra alla Scuola Normale di Pisa, ci raccontava qui a Ferrara come i libri nel lungo percorso della formazione e consapevolezza di una futura nazione fossero gli “amici” che, al di là del momento storico in cui i loro autori vissero, ci accompagnavano nelle nostre scelte e nelle nostre decisioni. Attraverso la lettura, i nostri “amici” diventano i libri e attraverso loro gli autori. Ci accompagnano nei momenti difficili, quando abbiamo bisogno di rappresentarci la realtà come verità, somma e divina prerogativa della poesia, della musica, dell’arte, della scienza tanto da indurci a sentire fisicamente vicine le ombre dei grandi. Addirittura tentiamo di dare loro un volto, un aspetto, una vita come al più grande di tutti, quell’Omero che, come indaga il suo commosso e acuto esegeta, Claudio Cazzola, forse è solo un insieme di versi, forse è la somma di tante culture e di tante espressioni poetiche. Ecco allora come appare pericolosa la violenza con cui certa politica tenta di cancellare quell’immagine e quella “corporeità” del libro divenuto amico. Ecco allora come ci appare e si rafforza quella nuova amicizia che si diffonde attraverso i media. Trasmissioni televisive che si chiamano “Amici” oppure una sigla attraverso la quale gli “amici” costruiscono un dialogo che può interrompersi dopo un minuto o restare l’espace d’un matin e che ci può portare qualcosa di nuovo o ribadire ovvietà e preconcetti. Stiamo vivendo, come si sa, questo passaggio epocale simile a quello che rivoluzionò il modo di leggere e pensare nel tempo, ad esempio nell’epoca moderna la tradizione del libro manoscritto, consegnato solo a coloro che lo potevano fruire e esserne proprietari privilegiati a cui si sostituisce quello a stampa così come ora la rivoluzione dell e-book cerca e tenta di sostituire la stampa. Ma quello che fa più male e più offende è che per ragioni bassamente politiche la cultura che produce libri, musica, architettura, scoperte scientifiche non sia trattata, come andrebbe fatto, riconoscendole gli altissimi meriti che la costituzione stabilisce ma come la infima possibilità di “mangiare a sbafo” secondo la credenza e la volgarità di quei seguaci di un pensiero tipicamente mafioso che vede nella cultura l’offesa alla politica.

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Italia, tanti alibi mai un’autocritica

di Valentina Scabbia

MAGONZA – Mi fa paura osservare, da qui, il razzismo crescente in Italia, vedere quanto sia presente fra la popolazione. Tutte le invettive contro i Rom o gli extra comunitari… Se consideriamo l’Italia un paese cattolico ora mi chiedo dove è l’amore per il prossimo? Perché non si divide più ciò che si ha con i bisognosi? In fin dei conti ci si è dimenticati di quanti italiani all’inizio del ventesimo secolo a causa della fame sono espatriati verso l’America nella speranza di una vita migliore. Noi, io e mio marito viviamo da anni insieme ai profughi (sono nostri vicini temporanei). Non hai parole quando vieni a sapere delle loro tragedie, bambini cechi perché colpiti da bombe, cicatrici dovute a torture, problemi psichici conseguenza di anni trascorsi rinchiusi in campi di concentramento. E la lista potrebbe continuare per alcune pagine. Certo in Italia c’è poco lavoro, i segni della crisi sono visibili eppure non penso sia impossibile offrire agli ospiti stranieri una vita dignitosa. In fondo questa crisi economica è stata causata anche dagli italiani stessi. Sono stati loro a sostenere e votare per anni (usiamo le parole di Peer Steinbruek, ex candidato del partito socialista tedesco) “un clown”. Ed ora proteste, manifestazioni, scioperi, ingiurie anche contro la Merkel! Mettiamo in chiaro: non sono una sua sostenitrice e non condivido le sue direttive per quanto riguarda la politica dei tagli per le nazioni come Grecia, Italia, Spagna che non fanno altro che peggiorare la situazione di quei paesi. Mi arrabbio nel vedere, leggere e sentire che si cerca solo un capro espiatorio, un colpevole per non essere costretti a fare un esame di coscienza. Tra le mie conoscenze non ho ancora sentito nessuno recitare il “mea culpa”. La colpa è sempre e solo degli altri. Tutti i politici pensano prima a se stessi e poi forse ai loro concittadini (anche qui, benché in una forma meno palese, ci sono dei piccoli scandali: i tedeschi non sono certo dei santi), ma chi li elegge? La possibilità per un cambiamento c’è sempre e la speranza è sempre l’ ultima a morire anche in una ferrarese che da anni ha lasciato fisicamente la propria città, ma con il cuore vi risiede sempre.

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La biblioteca (e i vituperati dipendenti pubblici) che non t’aspetti

Biblioteche che ti bloccano il prestito per un mese perché hai riconsegnato il libro con un ritardo di sette giorni (Sala Borsa di Bologna); biblioteche che ti danno una penalità un po’ più compassionevole uguagliando i giorni del tuo ritardo con quelli di blocco dei tuoi prestiti (Ariostea di Ferrara). Addirittura biblioteche che ipotizzano di fare loro il metodo di “una sanzione pecuniaria a chi riporta il materiale in ritardo”. Che tristezza: la notizia era riportata il mese scorso sull’Unità-Emilia Romagna come proposta della rappresentante della Filcams-Cgil per finanziare i servizi appaltati del Comune di Bologna.
Poi ci sono le biblioteche che ti immaginavi tu, quelle dove il lettore è guardato con comprensione, che ti fanno entrare come un gradito ospite, ti consigliano, ti guidano. Bloccati o temporaneamente sospesi, a sorpresa e in piena crisi d’astinenza, può capitare di mettere il piede dentro a quella che viene definita una biblioteca di quartiere, la Rodari, a Ferrara in viale Krasnodar. Entri nell’edificio nuovo, semplice, tutto finestrato e c’è subito uno scaffale con libri in cerca di adozione, lasciati lì all’ingresso da persone che non sono più interessate ad averli, o che casomai hanno dovuto fare uno di quei traslochi generatori di orrore da scatoloni e allora lasciano lì i libri che in quelle occasioni si trasformano in puro peso. Piccole perle inaspettate: la raccolta degli articoli scritti da don Franco Patruno su cinema e arte, Colette, un piccolo atlante con illustrazioni a colori degli alberi. Poi si passa alla sala prestiti, dove ti vengono incontro nuovi arrivi, freschi di stampa e ben in evidenza per essere presi. Riviste di giardinaggio, musica e attualità. Tre computer sono accesi su Internet e davanti ci sono persone di colore venute apposta, in collegamento per guardare cose dei loro Paesi, per aprire la loro casella di posta o cercare informazioni utili a livello locale. Dei ragazzi sono seduti attorno a una grande scrivania forse per una ricerca scolastica, un padre con il figlio cercano un dvd per il loro fine settimana casalingo. C’è silenzio, ma un silenzio pacato e laborioso, niente di scostante.
Al banco dei prestiti una ragazza timidamente tira fuori i volumi da rendere e subito cerca di giustificarsi dicendo “in effetti credo di essere un po’ in ritardo”. La bibliotecaria Claudia Pirani la guarda sorridendo poi sposta lo sguardo sul monitor del suo computer. La giovane involontariamente stringe la mano con le unghie lunghe che ha e che devono conficcarsi un po’ nel palmo, ma l’addetta all’eventuale rimbrotto non aggrotta le sopracciglia, non la fissa intenzionalmente con occhi truci e commenta: “Sei giorni. Un ritardo ragionevole, direi. Prendi pure altri libri, se vuoi”. Le mani della ragazza si distendono, le sue labbra disegnano la stessa curva dell’espressione della bibliotecaria. Se ne va a caccia di libri e torna al bancone dove, nell’entusiasmo, anziché gli otto pezzi consentiti (tra libri, riviste, dvd), ne deve avere accumulati nove. Stavolta c’è il bibliotecario Andrea Poli che dice: “No, non mettere giù proprio ‘Acciaio’! Quello tienilo”. E lei lo tiene, lo porta a casa, magari lo legge e potrebbe essergliene pure grata. Grata della gentilezza, dell’incoraggiamento, del sorriso. Grazie bibliotecari Claudia e Andrea, grazie a tutte le persone appassionate che contraddicono i pregiudizi sui dipendenti pubblici scocciati e svogliati, grazie persone che fate il vostro lavoro con piacere e coinvolgimento e ci fate sentire in un mondo migliore. Il mondo dove i servizi sono possibili, facilitati, accoglienti.

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La disoccupazione colpisce soprattutto gli over 40

Qualche giorno fa la Provincia di Ferrara ha pubblicato gli ultimi dati relativi ai disoccupati iscritti alle liste dei propri centri per l’impiego. Si tratta dei dati riferiti al 30 settembre 2013.
Poiché il numero degli iscritti, soprattutto in un territorio a forte vocazione agricola e turistica, è fortemente condizionato dall’andamento stagionale, è poco significativo il confronto con il dato immediatamente precedente, quello di giugno 2013.
Ricostruendo invece la serie storica, dal 2008 al 2013, delle rilevazioni riferite alla stessa data (come evidenzia la tabella) si possono fare alcune considerazioni.
La prima è che dopo il vero e proprio balzo degli anni dal 2008 al 2012, l’aumento registrato nel 2013 è assai più modesto.
E’ un dato che si presta ad almeno due opposte interpretazioni. O l’economia sta un po’ meglio e la fase più dura della crisi è passata, come diversi messaggi mediatici oggi cercano di dirci, oppure siamo ormai arrivati ad un punto tale che l’assenza di lavoro crea scoraggiamento e quindi una parte dei potenziali disoccupati pensa che non valga neanche la pena di iscriversi alle liste del collocamento. Paradossalmente, potrebbero anche essere vere entrambe le cose.
In secondo luogo è evidente dai dati che il problema principale, nella nostra realtà, è quello della disoccupazione in età “matura”, oltre i 40 anni di età. E’ qui che si colloca ormai lo stock maggiore di disoccupati e la tendenza è senz’altro quella ad un ulteriore acutizzarsi del fenomeno.
Questo non significa che la disoccupazione giovanile non sia un problema molto serio, che tra l’altro emerge solo parzialmente da questi numeri, visto che la gran parte dei giovani neo-laureati, pur essendo a tutti gli effetti alla ricerca di un lavoro, difficilmente si affida all’iscrizione alle liste di disoccupazione. Ma non c’è dubbio che la novità più socialmente dirompente, effetto della crisi di questi anni, è il forte aumento della disoccupazione in età matura, spesso accompagnata da scarsa capacità di autonoma riqualificazione. Un buon punto di partenza per parlare di formazione professionale e di come andrebbe forse radicalmente ripensata.

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Impazza il Porcellum sui giornali e fra gli scranni

Che vergogna!
La Corte costituzionale, dunque, ha sentenziato che la legge con la quale sono stati eletti gli ultimi tre Parlamenti è incostituzionale. Contraria, cioè, alla legge fondamentale dello Stato italiano sui due punti del premio di maggioranza, esagerato e sghembo, e delle liste bloccate, per cui in Camera e Senato siedono non eletti ma nominati.
Ma la vergogna non è tanto questa, quanto la serie di reazioni dopo una tale bomba atomica piovuta sull’Italia.
Cominciamo con gli editoriali di Alessandro Sallusti (il Giornale) e Maurizio Belpietro (Libero), entrambi del 4 dicembre.
Il primo scrive che a questo punto sono tutti abusivi, dal Quirinale in giù.
Il secondo rileva, come un termometro, la fine senza appello delle larghe intese e del teorema Napolitano.
Insomma, tutti a casa e di nuovo alle urne.
Peccato che nessuno dica, e scriva, con quale legge. Sono così sicuri i due autorevoli direttori che la porcata normativa monca degli elementi accertati di incostituzionalità, non diventi un’entità ancor più sgradevole?
Ma soprattutto desta stupore il fatto che nessuna delle due puntute penne abbia ricordato, anche incidentalmente, che il Porcellum è una legge pensata, scritta, voluta e approvata dal centrodestra italiano.
E se ora l’intero Paese istituzionale si trova in uno stato surreale di illegittimità, la responsabilità originaria è di chi ha pensato, scritto, voluto e approvato questa legge.
Responsabilità non esclusiva, occorre dire, perché anche gli altri, a cominciare dal Pd, hanno fatto poco e nulla per mandarla il prima possibile in soffitta perché indecente.
Tutti insieme appassionatamente in due anni se ne sono fregati degli appelli lanciati a due alla volta finché non sono dispari, da un esausto, e immaginiamo furente, Capo dello Stato, per chiedere nuove regole prima che fosse troppo tardi.
Invece adesso tutto è compiuto, come disse Cristo sulla croce, e pure i costituzionalisti hanno iniziato a palesare una balbuzie preoccupante su cosa si possa fare per mettere ordine a questo suicidio politico ed istituzionale.
Il tutto, occorre non dimenticarlo, avviene sotto gli occhi, c’è da credere, sbigottiti del mondo e se a qualcuno venisse in mente ora di voler interpretare in senso costruttivo lo scetticismo espresso solo ieri l’altro dal commissario Ue Olli Rehn, è consigliabile tenga la bocca chiusa.
Già, perché comunque una cosa giusta la scrivono Belpietro e Sallusti, come del resto tutti gli altri: con questa sentenza l’Italia è oggettivamente al tappeto.
Se infatti il Parlamento è illegittimo, lo sarebbe anche il presidente della Repubblica, eletto dalle Camere, lo sarebbe il Governo, espressione fiduciata di una maggioranza parlamentare, e lo sarebbe anche la stessa Corte costituzionale i cui due terzi dei componenti sono nominati da presidente della Repubblica e Parlamento. Se si segue questo filo, anche se meglio sarebbe definire miccia, sarebbe pure incostituzionale la sentenza della Consulta, perché pronunciata da un collegio a sua infettato dall’illegittimità seminata a larghe mani da una politica sempre più prossima ad una pandemia, se non fosse che è stata pur sempre votata.
E di fronte a questo infarto sistemico appaiono ancor più sconfortanti le concomitanti reazioni di alcuni politici, che evidentemente non hanno capito che quello su cui camminano non è più un pavimento ma il cratere di un vulcano.
Ad esempio i senatori azzurrissimi Elisabetta Casellati e Lucio Malan, che hanno sempre l’espressione di chi ha appena lasciato un tavolo di burraco, in una giornata vicina al funerale delle istituzioni, se la prendono con i senatori a vita nominati da Napolitano: troppo di sinistra e poi dov’è tutto sto curriculum.
Bei tempi quelli in cui il Ministero della Pubblica istruzione sprizzava cultura da tutti i pori e benediceva con orgoglio tricolore l’inesistente tunnel dal Cern al Gran Sasso, all’interno del quale avrebbero trovato comoda sistemazione i simpatici neutrini con tanto di manina salutante.
Oppure prendiamo la dichiarazione di Renato Brunetta, e cioè il più grande economista apparso sulla faccia della Terra dal pleistocene fino alla settimana prossima: l’unico legittimato a stare in Parlamento è Silvio Berlusconi perché il suo nome stava scritto sul simbolo. A poco serve rammentare al più grande economista di tutti i tempi che quell’accelerazione materiale a Costituzione invariata, ha sempre rappresentato un ennesimo obbrobrio inopportunamente gettato nel caos gestaltico italiano.
Ma tant’è, per alcuni il casino è il luogo più naturale del mondo.
E mentre questi illuminati dal cielo hanno distillato le loro perle, alla Camera scoppiava la bagarre con alcuni onorevoli cinquestellati che, dopo avere provato l’ebbrezza di salire sui tetti e cantare insieme la canzone del sole come nei campi scuola, hanno voluto provare come si sta sulle poltrone dove di solito si siede il Governo.
Benedetta giovinezza, che s’en fugge tuttavia …
Il tutto mentre il Tar del Lazio ha detto che sul metodo Stamina è stato fatto un pastrocchio, inducendo un’imbarazzata ministra Beatrice Lorenzin ad annunciare la nomina di una nuova commissione, e la collega dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo, era al Brennero a protestare con Coldiretti contro le cosce di maiale importate dalla Germania e tutelare il made in Italy.
Qualcuno fa notare che un ministro dovrebbe essere istituzionalmente a Bruxelles, insieme ai nostri europarlamentari, dove si scrivono le regole di un mercato agroalimentare nel frattempo senza più confini.
Da una parte stop alle cosce di maiale e dall’altra quello alla porcata elettorale.
Persino il caso sembra divertirsi a prenderci per i fondelli.
Ironia della sorte finale vuole che Calderoli, proprio lui, in questo rompete le righe generale degno degli attimi finali del film Prova d’orchestra del profetico Federico Fellini, abbia presentato un ordine del giorno, udite, per il ritorno al Mattarellum.
Come diceva Nanni Moretti: ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi?

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Per combattere evasione ed elusione la nuova Isee non basta

Abbiamo una nuova Isee, bene. Però il problema principale resta l’evasione e l’elusione, non il metodo. I correttivi introdotti dal governo non appaiono adeguati a smascherare i ricchi che, per esempio, non pagano le tasse universitarie e hanno agevolazioni negli asili. Troppi hanno fatto i furbi e ancora troppi continuano a farlo. Nel silenzio generale, senza controlli. Intanto la povertà cresce davvero e non sappiamo misurarla e monitorarla, ma cresce in fretta. E’ un fenomeno sociale ed economico gravissimo. La povertà purtroppo non è più un problema lontano dalla nostra società in cui siamo sensibilizzati solo per situazione critiche nei Paesi in via di sviluppo; al contrario sta diventando una emergenza grave anche a casa nostra.
Il mercato sempre più difficile e le crisi di tutti i settori sono nel tempo state sopraffatte da una crisi globale di maggiori dimensioni che sta rendendo molto critico l’intero sistema economico e sociale. In questo periodo è cambiata la composizione della povertà ed è cresciuta la disuguaglianza sia a livello generale nella trasformazione economica della società sia nei risvolti quotidiani della vita. Gli approfondimenti socio-demografici e i riscontri di indicatori di disagio rilevano come cresca la crisi e la condizione di nuova povertà si manifesta con preoccupazione in diversi contesti. Si è passati da una visione tradizionale in cui il livello del reddito rappresentava il principale indicatore ad una moltiplicazione delle cause e una pluralità di segnali che rendono molto più articolato e complesso il problema; si passa ad una concezione della povertà che coinvolge moltissime famiglie in atteggiamenti spesso contraddittori in cui si squilibrano i bisogni e le necessità in un confuso contesto di costumi sociali. In sintesi si può dire che lo stato di povero oggi deve essere messo in relazione allo standard di vita medio della comunità, che determina quali sono i bisogni sociali essenziali e dunque il concetto di povertà assume un ruolo più complesso.
In generale ad esempio il rischio di povertà è alto quando si hanno in famiglia bambini piccoli, si abbassa quando il capofamiglia raggiunge l’apice della carriera lavorativa e i figli escono progressivamente di casa, infine torna ad aumentare tra i pensionati. La causa di fondo consiste nei noti difetti strutturali del nostro sistema di protezione sociale, spesso infatti si destinano poche risorse a tutela di alti rischi sociali, in particolare i carichi familiari e la disoccupazione.
Non solo i fattori appena descritti generano povertà ma il cambiamento strutturale della nostra società ha evidenziato come più correttamente si possa parlare di vulnerabilità sociale oltre che di povertà. Infatti, mentre negli anni in cui non esisteva il concetto di protezione sociale, era facile individuare chi poteva (o avrebbe potuto) avere problemi economici nella propria vita, ad esempio perché apparteneva a una famiglia disagiata o aveva una bassa scolarità ecc, oggi non è più così ovvio; infatti nel corso della vita di una persona basta un modesto cambiamento a generare crisi di povertà, ad esempio per l’improvviso venir meno di reti sociali.
La natura multidimensionale della povertà è infatti ormai ampiamente riconosciuta non solo sul piano dell’economia, ma soprattutto a livello politico-sociale. Aumentano le categorie più vulnerabili e non comprendono più solo la quota degli anziani (di cui uno su quattro è a rischio povertà), ma stanno coinvolgendo anche in modo crescente persone giovani sole e famiglie numerose. Ad una povertà tradizionale si aggiunge dunque una fascia di sofferenza e di disagio allargata costituita da famiglie monoreddito o con un solo genitore a basso reddito. Spesso poi è la perdita del lavoro la causa di un crescente indebitamento e dunque situazione di sofferenza. Forse dobbiamo parlarne di più e soprattutto fare di più.