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pensiero

L’offesa e la rivolta. La politica che giudica la cultura

Mentre le sciagurate vicende che stiamo vivendo mostrano caratteri specifici degli italiani – falso perbenismo, subornazione ai capi, machiavellismo d’accatto, profondo livore per chi considera la cultura un patrimonio della vita civile – mi domando poi come da queste caratteristiche nascano esempi fulgidi di una intelligenza delle cose e degli uomini che pongono questo popolo ai livelli più alti dello spirito umano. Trovo veramente triste considerare quanto perdano coloro che si compiacciono a insultare, disprezzare, temere, il prodotto dell’intelligenza che è appunto la cultura. E si capisce che solo in questo paese poteva nascere la mafia ovvero l’antistato. Andrea Camilleri ne lascia ora testimonianza in uno dei suoi migliori romanzi, La banda Sacco dove racconta le vicende storicamente vere di una famiglia che osò, negli anni Venti del secolo scorso, ribellarsi alla mafia che si stava consolidando e diffondendo nel mondo. Camilleri così commenta il suo lavoro nella nota finale: “Ho tentato di raccontare, attraverso questo ‘western di cose nostre’ per usare un titolo di Sciascia, come la mafia non solo ammazzi, ma laddove lo Stato è latitante, sia anche in grado di condizionare e di stravolgere irreparabilmente la vita delle persone” (pag. 181). E che la mafia tema la cultura è ormai un dato sicuro. Si veda almeno la vicenda emblematica di Saviano. Perciò tanto più rivoltante appare il dileggio a cui ogni forma di cultura viene sottoposta per fini esclusivamente di consenso politico. Un atteggiamento ora così di moda siglato dalle urla isteriche dei comici capi popolo e dai loro servi di scena che si scagliano contro i quattro senatori a vita, non solo ma dovunque la cultura li costringa a una riflessione sempre elusa o rifiutata. Solo la cultura, infatti, dimostra la povertà mentale dell’uomo medio che anche nelle terribili condizioni della crisi economica urla e chiama “vecchi rincoglioniti” i senatori a vita. Sono gli stessi che quando Crozza li condanna e li imita ridono perché non sanno cosa voglia dire ironia e disprezzo miscelati assieme. Sono gli stessi, purtroppo, che ben conoscono il peso della cultura come il premio Nobel Dario Fo che applaude alle convulsioni di Grillo e poi si adonta se lo stesso comico insulta i giornalisti a lui contrari su facebook. Sono coloro che hanno il loro orizzonte mentale talmente ristretto da vedere come i miopi di dantesca memoria solo il qui e il presente non progettando un futuro che nasca dalla riflessione di un passato. E questa situazione è astutamente cavalcata da tanta politica in un mix tremendo di larghe intese che non lasciano distinguere il buono dal malvagio, il vero dalla menzogna.
Una cara amica, Lina Bolzoni, italianista e magistra alla Scuola Normale di Pisa, ci raccontava qui a Ferrara come i libri nel lungo percorso della formazione e consapevolezza di una futura nazione fossero gli “amici” che, al di là del momento storico in cui i loro autori vissero, ci accompagnavano nelle nostre scelte e nelle nostre decisioni. Attraverso la lettura, i nostri “amici” diventano i libri e attraverso loro gli autori. Ci accompagnano nei momenti difficili, quando abbiamo bisogno di rappresentarci la realtà come verità, somma e divina prerogativa della poesia, della musica, dell’arte, della scienza tanto da indurci a sentire fisicamente vicine le ombre dei grandi. Addirittura tentiamo di dare loro un volto, un aspetto, una vita come al più grande di tutti, quell’Omero che, come indaga il suo commosso e acuto esegeta, Claudio Cazzola, forse è solo un insieme di versi, forse è la somma di tante culture e di tante espressioni poetiche. Ecco allora come appare pericolosa la violenza con cui certa politica tenta di cancellare quell’immagine e quella “corporeità” del libro divenuto amico. Ecco allora come ci appare e si rafforza quella nuova amicizia che si diffonde attraverso i media. Trasmissioni televisive che si chiamano “Amici” oppure una sigla attraverso la quale gli “amici” costruiscono un dialogo che può interrompersi dopo un minuto o restare l’espace d’un matin e che ci può portare qualcosa di nuovo o ribadire ovvietà e preconcetti. Stiamo vivendo, come si sa, questo passaggio epocale simile a quello che rivoluzionò il modo di leggere e pensare nel tempo, ad esempio nell’epoca moderna la tradizione del libro manoscritto, consegnato solo a coloro che lo potevano fruire e esserne proprietari privilegiati a cui si sostituisce quello a stampa così come ora la rivoluzione dell e-book cerca e tenta di sostituire la stampa. Ma quello che fa più male e più offende è che per ragioni bassamente politiche la cultura che produce libri, musica, architettura, scoperte scientifiche non sia trattata, come andrebbe fatto, riconoscendole gli altissimi meriti che la costituzione stabilisce ma come la infima possibilità di “mangiare a sbafo” secondo la credenza e la volgarità di quei seguaci di un pensiero tipicamente mafioso che vede nella cultura l’offesa alla politica.

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Italia, tanti alibi mai un’autocritica

di Valentina Scabbia

MAGONZA – Mi fa paura osservare, da qui, il razzismo crescente in Italia, vedere quanto sia presente fra la popolazione. Tutte le invettive contro i Rom o gli extra comunitari… Se consideriamo l’Italia un paese cattolico ora mi chiedo dove è l’amore per il prossimo? Perché non si divide più ciò che si ha con i bisognosi? In fin dei conti ci si è dimenticati di quanti italiani all’inizio del ventesimo secolo a causa della fame sono espatriati verso l’America nella speranza di una vita migliore. Noi, io e mio marito viviamo da anni insieme ai profughi (sono nostri vicini temporanei). Non hai parole quando vieni a sapere delle loro tragedie, bambini cechi perché colpiti da bombe, cicatrici dovute a torture, problemi psichici conseguenza di anni trascorsi rinchiusi in campi di concentramento. E la lista potrebbe continuare per alcune pagine. Certo in Italia c’è poco lavoro, i segni della crisi sono visibili eppure non penso sia impossibile offrire agli ospiti stranieri una vita dignitosa. In fondo questa crisi economica è stata causata anche dagli italiani stessi. Sono stati loro a sostenere e votare per anni (usiamo le parole di Peer Steinbruek, ex candidato del partito socialista tedesco) “un clown”. Ed ora proteste, manifestazioni, scioperi, ingiurie anche contro la Merkel! Mettiamo in chiaro: non sono una sua sostenitrice e non condivido le sue direttive per quanto riguarda la politica dei tagli per le nazioni come Grecia, Italia, Spagna che non fanno altro che peggiorare la situazione di quei paesi. Mi arrabbio nel vedere, leggere e sentire che si cerca solo un capro espiatorio, un colpevole per non essere costretti a fare un esame di coscienza. Tra le mie conoscenze non ho ancora sentito nessuno recitare il “mea culpa”. La colpa è sempre e solo degli altri. Tutti i politici pensano prima a se stessi e poi forse ai loro concittadini (anche qui, benché in una forma meno palese, ci sono dei piccoli scandali: i tedeschi non sono certo dei santi), ma chi li elegge? La possibilità per un cambiamento c’è sempre e la speranza è sempre l’ ultima a morire anche in una ferrarese che da anni ha lasciato fisicamente la propria città, ma con il cuore vi risiede sempre.

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La biblioteca (e i vituperati dipendenti pubblici) che non t’aspetti

Biblioteche che ti bloccano il prestito per un mese perché hai riconsegnato il libro con un ritardo di sette giorni (Sala Borsa di Bologna); biblioteche che ti danno una penalità un po’ più compassionevole uguagliando i giorni del tuo ritardo con quelli di blocco dei tuoi prestiti (Ariostea di Ferrara). Addirittura biblioteche che ipotizzano di fare loro il metodo di “una sanzione pecuniaria a chi riporta il materiale in ritardo”. Che tristezza: la notizia era riportata il mese scorso sull’Unità-Emilia Romagna come proposta della rappresentante della Filcams-Cgil per finanziare i servizi appaltati del Comune di Bologna.
Poi ci sono le biblioteche che ti immaginavi tu, quelle dove il lettore è guardato con comprensione, che ti fanno entrare come un gradito ospite, ti consigliano, ti guidano. Bloccati o temporaneamente sospesi, a sorpresa e in piena crisi d’astinenza, può capitare di mettere il piede dentro a quella che viene definita una biblioteca di quartiere, la Rodari, a Ferrara in viale Krasnodar. Entri nell’edificio nuovo, semplice, tutto finestrato e c’è subito uno scaffale con libri in cerca di adozione, lasciati lì all’ingresso da persone che non sono più interessate ad averli, o che casomai hanno dovuto fare uno di quei traslochi generatori di orrore da scatoloni e allora lasciano lì i libri che in quelle occasioni si trasformano in puro peso. Piccole perle inaspettate: la raccolta degli articoli scritti da don Franco Patruno su cinema e arte, Colette, un piccolo atlante con illustrazioni a colori degli alberi. Poi si passa alla sala prestiti, dove ti vengono incontro nuovi arrivi, freschi di stampa e ben in evidenza per essere presi. Riviste di giardinaggio, musica e attualità. Tre computer sono accesi su Internet e davanti ci sono persone di colore venute apposta, in collegamento per guardare cose dei loro Paesi, per aprire la loro casella di posta o cercare informazioni utili a livello locale. Dei ragazzi sono seduti attorno a una grande scrivania forse per una ricerca scolastica, un padre con il figlio cercano un dvd per il loro fine settimana casalingo. C’è silenzio, ma un silenzio pacato e laborioso, niente di scostante.
Al banco dei prestiti una ragazza timidamente tira fuori i volumi da rendere e subito cerca di giustificarsi dicendo “in effetti credo di essere un po’ in ritardo”. La bibliotecaria Claudia Pirani la guarda sorridendo poi sposta lo sguardo sul monitor del suo computer. La giovane involontariamente stringe la mano con le unghie lunghe che ha e che devono conficcarsi un po’ nel palmo, ma l’addetta all’eventuale rimbrotto non aggrotta le sopracciglia, non la fissa intenzionalmente con occhi truci e commenta: “Sei giorni. Un ritardo ragionevole, direi. Prendi pure altri libri, se vuoi”. Le mani della ragazza si distendono, le sue labbra disegnano la stessa curva dell’espressione della bibliotecaria. Se ne va a caccia di libri e torna al bancone dove, nell’entusiasmo, anziché gli otto pezzi consentiti (tra libri, riviste, dvd), ne deve avere accumulati nove. Stavolta c’è il bibliotecario Andrea Poli che dice: “No, non mettere giù proprio ‘Acciaio’! Quello tienilo”. E lei lo tiene, lo porta a casa, magari lo legge e potrebbe essergliene pure grata. Grata della gentilezza, dell’incoraggiamento, del sorriso. Grazie bibliotecari Claudia e Andrea, grazie a tutte le persone appassionate che contraddicono i pregiudizi sui dipendenti pubblici scocciati e svogliati, grazie persone che fate il vostro lavoro con piacere e coinvolgimento e ci fate sentire in un mondo migliore. Il mondo dove i servizi sono possibili, facilitati, accoglienti.

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La disoccupazione colpisce soprattutto gli over 40

Qualche giorno fa la Provincia di Ferrara ha pubblicato gli ultimi dati relativi ai disoccupati iscritti alle liste dei propri centri per l’impiego. Si tratta dei dati riferiti al 30 settembre 2013.
Poiché il numero degli iscritti, soprattutto in un territorio a forte vocazione agricola e turistica, è fortemente condizionato dall’andamento stagionale, è poco significativo il confronto con il dato immediatamente precedente, quello di giugno 2013.
Ricostruendo invece la serie storica, dal 2008 al 2013, delle rilevazioni riferite alla stessa data (come evidenzia la tabella) si possono fare alcune considerazioni.
La prima è che dopo il vero e proprio balzo degli anni dal 2008 al 2012, l’aumento registrato nel 2013 è assai più modesto.
E’ un dato che si presta ad almeno due opposte interpretazioni. O l’economia sta un po’ meglio e la fase più dura della crisi è passata, come diversi messaggi mediatici oggi cercano di dirci, oppure siamo ormai arrivati ad un punto tale che l’assenza di lavoro crea scoraggiamento e quindi una parte dei potenziali disoccupati pensa che non valga neanche la pena di iscriversi alle liste del collocamento. Paradossalmente, potrebbero anche essere vere entrambe le cose.
In secondo luogo è evidente dai dati che il problema principale, nella nostra realtà, è quello della disoccupazione in età “matura”, oltre i 40 anni di età. E’ qui che si colloca ormai lo stock maggiore di disoccupati e la tendenza è senz’altro quella ad un ulteriore acutizzarsi del fenomeno.
Questo non significa che la disoccupazione giovanile non sia un problema molto serio, che tra l’altro emerge solo parzialmente da questi numeri, visto che la gran parte dei giovani neo-laureati, pur essendo a tutti gli effetti alla ricerca di un lavoro, difficilmente si affida all’iscrizione alle liste di disoccupazione. Ma non c’è dubbio che la novità più socialmente dirompente, effetto della crisi di questi anni, è il forte aumento della disoccupazione in età matura, spesso accompagnata da scarsa capacità di autonoma riqualificazione. Un buon punto di partenza per parlare di formazione professionale e di come andrebbe forse radicalmente ripensata.

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Impazza il Porcellum sui giornali e fra gli scranni

Che vergogna!
La Corte costituzionale, dunque, ha sentenziato che la legge con la quale sono stati eletti gli ultimi tre Parlamenti è incostituzionale. Contraria, cioè, alla legge fondamentale dello Stato italiano sui due punti del premio di maggioranza, esagerato e sghembo, e delle liste bloccate, per cui in Camera e Senato siedono non eletti ma nominati.
Ma la vergogna non è tanto questa, quanto la serie di reazioni dopo una tale bomba atomica piovuta sull’Italia.
Cominciamo con gli editoriali di Alessandro Sallusti (il Giornale) e Maurizio Belpietro (Libero), entrambi del 4 dicembre.
Il primo scrive che a questo punto sono tutti abusivi, dal Quirinale in giù.
Il secondo rileva, come un termometro, la fine senza appello delle larghe intese e del teorema Napolitano.
Insomma, tutti a casa e di nuovo alle urne.
Peccato che nessuno dica, e scriva, con quale legge. Sono così sicuri i due autorevoli direttori che la porcata normativa monca degli elementi accertati di incostituzionalità, non diventi un’entità ancor più sgradevole?
Ma soprattutto desta stupore il fatto che nessuna delle due puntute penne abbia ricordato, anche incidentalmente, che il Porcellum è una legge pensata, scritta, voluta e approvata dal centrodestra italiano.
E se ora l’intero Paese istituzionale si trova in uno stato surreale di illegittimità, la responsabilità originaria è di chi ha pensato, scritto, voluto e approvato questa legge.
Responsabilità non esclusiva, occorre dire, perché anche gli altri, a cominciare dal Pd, hanno fatto poco e nulla per mandarla il prima possibile in soffitta perché indecente.
Tutti insieme appassionatamente in due anni se ne sono fregati degli appelli lanciati a due alla volta finché non sono dispari, da un esausto, e immaginiamo furente, Capo dello Stato, per chiedere nuove regole prima che fosse troppo tardi.
Invece adesso tutto è compiuto, come disse Cristo sulla croce, e pure i costituzionalisti hanno iniziato a palesare una balbuzie preoccupante su cosa si possa fare per mettere ordine a questo suicidio politico ed istituzionale.
Il tutto, occorre non dimenticarlo, avviene sotto gli occhi, c’è da credere, sbigottiti del mondo e se a qualcuno venisse in mente ora di voler interpretare in senso costruttivo lo scetticismo espresso solo ieri l’altro dal commissario Ue Olli Rehn, è consigliabile tenga la bocca chiusa.
Già, perché comunque una cosa giusta la scrivono Belpietro e Sallusti, come del resto tutti gli altri: con questa sentenza l’Italia è oggettivamente al tappeto.
Se infatti il Parlamento è illegittimo, lo sarebbe anche il presidente della Repubblica, eletto dalle Camere, lo sarebbe il Governo, espressione fiduciata di una maggioranza parlamentare, e lo sarebbe anche la stessa Corte costituzionale i cui due terzi dei componenti sono nominati da presidente della Repubblica e Parlamento. Se si segue questo filo, anche se meglio sarebbe definire miccia, sarebbe pure incostituzionale la sentenza della Consulta, perché pronunciata da un collegio a sua infettato dall’illegittimità seminata a larghe mani da una politica sempre più prossima ad una pandemia, se non fosse che è stata pur sempre votata.
E di fronte a questo infarto sistemico appaiono ancor più sconfortanti le concomitanti reazioni di alcuni politici, che evidentemente non hanno capito che quello su cui camminano non è più un pavimento ma il cratere di un vulcano.
Ad esempio i senatori azzurrissimi Elisabetta Casellati e Lucio Malan, che hanno sempre l’espressione di chi ha appena lasciato un tavolo di burraco, in una giornata vicina al funerale delle istituzioni, se la prendono con i senatori a vita nominati da Napolitano: troppo di sinistra e poi dov’è tutto sto curriculum.
Bei tempi quelli in cui il Ministero della Pubblica istruzione sprizzava cultura da tutti i pori e benediceva con orgoglio tricolore l’inesistente tunnel dal Cern al Gran Sasso, all’interno del quale avrebbero trovato comoda sistemazione i simpatici neutrini con tanto di manina salutante.
Oppure prendiamo la dichiarazione di Renato Brunetta, e cioè il più grande economista apparso sulla faccia della Terra dal pleistocene fino alla settimana prossima: l’unico legittimato a stare in Parlamento è Silvio Berlusconi perché il suo nome stava scritto sul simbolo. A poco serve rammentare al più grande economista di tutti i tempi che quell’accelerazione materiale a Costituzione invariata, ha sempre rappresentato un ennesimo obbrobrio inopportunamente gettato nel caos gestaltico italiano.
Ma tant’è, per alcuni il casino è il luogo più naturale del mondo.
E mentre questi illuminati dal cielo hanno distillato le loro perle, alla Camera scoppiava la bagarre con alcuni onorevoli cinquestellati che, dopo avere provato l’ebbrezza di salire sui tetti e cantare insieme la canzone del sole come nei campi scuola, hanno voluto provare come si sta sulle poltrone dove di solito si siede il Governo.
Benedetta giovinezza, che s’en fugge tuttavia …
Il tutto mentre il Tar del Lazio ha detto che sul metodo Stamina è stato fatto un pastrocchio, inducendo un’imbarazzata ministra Beatrice Lorenzin ad annunciare la nomina di una nuova commissione, e la collega dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo, era al Brennero a protestare con Coldiretti contro le cosce di maiale importate dalla Germania e tutelare il made in Italy.
Qualcuno fa notare che un ministro dovrebbe essere istituzionalmente a Bruxelles, insieme ai nostri europarlamentari, dove si scrivono le regole di un mercato agroalimentare nel frattempo senza più confini.
Da una parte stop alle cosce di maiale e dall’altra quello alla porcata elettorale.
Persino il caso sembra divertirsi a prenderci per i fondelli.
Ironia della sorte finale vuole che Calderoli, proprio lui, in questo rompete le righe generale degno degli attimi finali del film Prova d’orchestra del profetico Federico Fellini, abbia presentato un ordine del giorno, udite, per il ritorno al Mattarellum.
Come diceva Nanni Moretti: ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi?

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Per combattere evasione ed elusione la nuova Isee non basta

Abbiamo una nuova Isee, bene. Però il problema principale resta l’evasione e l’elusione, non il metodo. I correttivi introdotti dal governo non appaiono adeguati a smascherare i ricchi che, per esempio, non pagano le tasse universitarie e hanno agevolazioni negli asili. Troppi hanno fatto i furbi e ancora troppi continuano a farlo. Nel silenzio generale, senza controlli. Intanto la povertà cresce davvero e non sappiamo misurarla e monitorarla, ma cresce in fretta. E’ un fenomeno sociale ed economico gravissimo. La povertà purtroppo non è più un problema lontano dalla nostra società in cui siamo sensibilizzati solo per situazione critiche nei Paesi in via di sviluppo; al contrario sta diventando una emergenza grave anche a casa nostra.
Il mercato sempre più difficile e le crisi di tutti i settori sono nel tempo state sopraffatte da una crisi globale di maggiori dimensioni che sta rendendo molto critico l’intero sistema economico e sociale. In questo periodo è cambiata la composizione della povertà ed è cresciuta la disuguaglianza sia a livello generale nella trasformazione economica della società sia nei risvolti quotidiani della vita. Gli approfondimenti socio-demografici e i riscontri di indicatori di disagio rilevano come cresca la crisi e la condizione di nuova povertà si manifesta con preoccupazione in diversi contesti. Si è passati da una visione tradizionale in cui il livello del reddito rappresentava il principale indicatore ad una moltiplicazione delle cause e una pluralità di segnali che rendono molto più articolato e complesso il problema; si passa ad una concezione della povertà che coinvolge moltissime famiglie in atteggiamenti spesso contraddittori in cui si squilibrano i bisogni e le necessità in un confuso contesto di costumi sociali. In sintesi si può dire che lo stato di povero oggi deve essere messo in relazione allo standard di vita medio della comunità, che determina quali sono i bisogni sociali essenziali e dunque il concetto di povertà assume un ruolo più complesso.
In generale ad esempio il rischio di povertà è alto quando si hanno in famiglia bambini piccoli, si abbassa quando il capofamiglia raggiunge l’apice della carriera lavorativa e i figli escono progressivamente di casa, infine torna ad aumentare tra i pensionati. La causa di fondo consiste nei noti difetti strutturali del nostro sistema di protezione sociale, spesso infatti si destinano poche risorse a tutela di alti rischi sociali, in particolare i carichi familiari e la disoccupazione.
Non solo i fattori appena descritti generano povertà ma il cambiamento strutturale della nostra società ha evidenziato come più correttamente si possa parlare di vulnerabilità sociale oltre che di povertà. Infatti, mentre negli anni in cui non esisteva il concetto di protezione sociale, era facile individuare chi poteva (o avrebbe potuto) avere problemi economici nella propria vita, ad esempio perché apparteneva a una famiglia disagiata o aveva una bassa scolarità ecc, oggi non è più così ovvio; infatti nel corso della vita di una persona basta un modesto cambiamento a generare crisi di povertà, ad esempio per l’improvviso venir meno di reti sociali.
La natura multidimensionale della povertà è infatti ormai ampiamente riconosciuta non solo sul piano dell’economia, ma soprattutto a livello politico-sociale. Aumentano le categorie più vulnerabili e non comprendono più solo la quota degli anziani (di cui uno su quattro è a rischio povertà), ma stanno coinvolgendo anche in modo crescente persone giovani sole e famiglie numerose. Ad una povertà tradizionale si aggiunge dunque una fascia di sofferenza e di disagio allargata costituita da famiglie monoreddito o con un solo genitore a basso reddito. Spesso poi è la perdita del lavoro la causa di un crescente indebitamento e dunque situazione di sofferenza. Forse dobbiamo parlarne di più e soprattutto fare di più.

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I vostri commenti per un confronto a viso aperto

Non è stata una decisione semplice, anzi l’abbiamo lungamente ponderata durante la gestazione di ferraraitalia. Condivisa era la volontà di dare spazio a voi lettori per aprire un confronto autentico. Ma sulle modalità di intervento le opinioni fra noi erano discordi: comune, invece, il fastidio per l’anonimato o la provocazione gratuita, fine a se stessa.
Abbiamo così introdotto un sistema che dà la possibilità ai lettori di esprimersi, in termini di consenso o di critica, e che al contempo garantisce la loro identità. Per avere la garanzia che dietro ogni opinione ci sia un volto e dietro il volto un nome, abbiamo condizionato la possibilità di commento a un meccanismo che prevede l’accesso attraverso le credenziali di Facebook. Così libertà e responsabilità conviveranno nella reciproca tutela.
Oltre ai commenti, sono graditi interventi. Per proporli, basta andare in “contatti”, nella barra orizzontale in alto, sopra la testata. Chi intende farlo dovrà specificare nome, cognome e indirizzo mail e incollare il testo nella finestra “message”.

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Un 2014 tra rabbia e ricerca di nuovi valori

Il 2014 sembra profilarsi all’orizzonte sulla spinta di due tendenze contrapposte: da una parte le dinamiche del ripiegamento, del rancore, della radicalizzazione, del rifiuto dell’immigrazione; del risentimento; dall’altra quelle del rispetto, della solidarietà comunitaria, del comportamento civile. Lo afferma il recentissimo rapporto Swg-Media Lab “Scenari di un’Italia che cambia”, diffuso in questi giorni.
Il quadro generale resta pessimo: le insufficienze e le anomie in cui versa l’Italia resta soffocante; l’opinione pubblica è schiacciata non solo dalla crisi economica, ma anche dal vuoto di futuro e di società che pervadono la nostra realtà.
Eppure c’è una nuova domanda sociale che, secondo l’indagine della Swg, si manifesta insieme alle disillusioni, compresa quella nelle capacità salvifiche dei tecnici nel governo della cosa pubblica e di tutta la classe dirigente italiana (non solo quella politica). Una domanda fatta non solo di difesa e rinnovamento dello stato sociale, ma anche di rafforzamento dei legami sociali, del prendersi cura delle persone. Una dimensione nella quale non mancano l’apertura alle tecnologie, alle tematiche ambientali ed alla cultura del riciclo.
Rispetto, comportamento civile, onestà fanno parte di una cultura senza la quale non si va da nessuna parte. Di un cambiamento di mentalità che dovrebbe essere patrimonio prima di tutto della classe dirigente in generale e dei politici in primo luogo. I segni dell’insofferenza e del disagio sociali sono molti e inequivocabili – si vedano ad esempio gli assalti alle sedi del Pd a Roma in questi giorni, ma anche le sempre più numerose proteste davanti ai palazzi del potere, dai disoccupati della Sardegna ai malati di Sla – e la gente è stanca di parole alle quali non segue nessun atto concreto di cambiamento. Alla stanchezza può seguire la rivolta in forme e modi imprevedibili e difficilmente controllabili. Chi ha responsabilità deve stare molto attento per evitare tragedie.
Quel che viviamo è un tempo difficile, che ha le sue radici ben prima del ventennio berlusconiano – che ha contribuito non poco ad aggravare la situazione – se è vero che già trent’anni fa il 18° rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese esortava a un cambiamento di mentalità, a cercare una nuova combinazione di valori su cui fondare l’esistenza, a spostare le coscienze. Oggi ce lo sta dicendo – con molta chiarezza – Papa Francesco. Siamo avvertiti.

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Gli auguri di Massimo Gramellini a ferraraitalia

“Auguri di cuore al vostro bellissimo sito. Viva Ferraraitalia!”. Con orgoglio e soddisfazione abbiamo ricevuto via mail il sostegno di Massimo Gramellini. Vista l’autorevolezza del notissimo vicedirettore della Stampa, autore di successo e ospite fisso di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, questo messaggio ci conforta nella convinzione di avere realizzato un buon prodotto, destinato a crescere, e ci infonde ovviamente nuove energie. Vogliamo condividere con voi lettori la nostra gioia. Grazie da noi tutti a Massimo Gramellini.

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Il Pd regionale prima della coscienza ascolta i giudici

Dalla direzione regionale del Pd di ieri scaturisce una bella ipocrisia. Da una parte si brandisce il codice etico interno per dire che “è a quello che bisogna fare riferimento”. Dall’altra però si decide mollemente di attendere i riscontri dell’inchiesta giudiziaria. I conti non tornano. O vale il principio etico in base al quale non tutto ciò che è legittimo è anche moralmente accettabile, oppure ci si rimette supinamente al diritto, con la possibilità (come lucidamente sottolinea Michele Smargiassi su Repubblica Bologna) di obiettare che se poi va bene al giudice deve andare bene a chiunque. Ma il “codice etico”, al quale fariseicamente si fa riferimento, prescrive “rigore e sobrietà” dei quali si risponde in coscienza. E gli indiziati, in coscienza, sanno bene ciò che hanno fatto e moralmente sarebbero chiamati ad assumerne la responsabilità. Senza attendere i giudizi del tribunale.

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Consip, gli affaristi del risparmio

Non ho idea di quanti abbiano visto Report lunedì 2 dicembre su Rai Tre, dedicata a Consip e Mepa, ma i motivi per essere basiti sono così tanti che stavolta viene il dubbio di avere visto una puntata di Scherzi a parte.
E invece.
Cominciamo col dire che Consip (acronimo di Concessionaria Servizi Informativi Pubblici) è una spa pubblica, operativa dal 1998 per essere la centrale unica degli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione. Il Mepa, invece, è il mercato elettronico creato nel 2003 al quale gli uffici pubblici si rivolgono per comprare carta, matite, computer, arredi e, come non avrebbe mai detto Dante Alighieri, quant’altro.
L’idea in sé è buona, chiosa la brava Milena Gabanelli: invece di lasciare un mercato da una montagna di soldi, come in passato, ad amici e parenti, si istituisce un luogo unico che, muovendosi in grande, riesce a spuntare prezzi più vantaggiosi.
L’obiettivo è tagliare la spesa pubblica, che non può continuare ad essere la prateria di tutti e nessuno.
Tralasciando per un momento i risultati, più o meno un autogol da fare arrossire perfino Comunardo Niccolai, siamo così sicuri che l’idea fosse buona in partenza?
Sulla carta il ragionamento non fa una grinza.
Ma qualcuno ha pensato che sarebbe stato declinato in Italia? E più precisamente nella città emblema di un rapporto da sempre non proprio ascetico con il potere: Roma.
Mica Francoforte.
E poi cosa pensare delle nomine nella società? Ovviamente solo i maligni possono sospettare che la politica italiana sia incline a scegliere persone che poi restituiscano con gli interessi il favore.
Tanto più che centralizzare le forniture significa fare appalti per importi talmente elevati, che non ci vuole Einstein per capire che non tanti hanno le spalle grosse da presentare offerte.
La cartolibreria giù all’angolo, per esempio, potrebbe avere qualche problema già a leggere il capitolato.
E quante saranno le imprese che, metti nel settore delle pulizie come rilevato dalla sveglia redazione di Report, in Italia possono schierare un tale numero di scope?
Siccome potrebbero essere meno di cinque, come si ascolta in un’intercettazione telefonica, viene il sospetto che questi si mettano d’accordo su un bottino da milioni e milioni di euro: stavolta a me, la prossima a te.
Naturalmente solo i maliziosi possono pensarlo.
Fatalità vuole che le due cornette telefoniche in questione facciano capo a realtà imprenditoriali attorno al mondo cooperativo rosso e ciellino.
Poi vai a spiegare che i valori non sono negoziabili.
E siccome il tutto potrebbe avvenire sotto lo sguardo tiroideo della politica, che mani dietro la schiena assiste compiaciuta a questo dinamismo imprenditoriale cacio e pepe, non stupisce più di tanto se il buonumore è prolungato da donazioni, magnanime e longobarde aggiungerebbe Totò, per finanziare campagne elettorali e candidature.
A destra e a manca, perché in Italia chi comanda al momento in cui parte un affare, non è detto sia lo stesso quando la partita arriva alla stretta di mano finale.
Perciò ndò cojo cojo, appunto.
Ma le telecamere della Gabanelli non si sono fermate qui. Sono entrate in un ufficio pubblico e hanno filmato.
Salta fuori che il prezzo di una cosa qualsiasi è più conveniente proprio al negozio all’angolo, piuttosto che sulla piazza virtuale con tanto di firma digitale.
Il problema è che fanno prima gli astronauti a dialogare con Huston, che un funzionario pubblico ad avvertire il grande mercato elettronico.
Intanto c’è un numero verde che trovarlo libero è come fare sei al superenalotto.
È un vero peccato che l’incolpevole colore sia stato sequestrato dalla mano pubblica, perché ormai nessuno più osa associarlo alla natura incontaminata o alla salute.
E poi per convincere il Mepa (Mercato elettronico della Pubblica amministrazione) che, metti, le matite sono più convenienti in bottega, occorre affrontare una tiritera al computer in grado di sfiancare un orso.
Se poi non c’è neppure la banda larga, basta un pomeriggio di altalenanti connessioni alla rete per giocarsi l’appartenenza di una vita al cattolicesimo.
Ma uno dei momenti in cui è parso più spontaneo cercare la telecamera di Scherzi a parte è stato durante le interviste a Renata Polverini e Goffredo Bettini.
Avversari politici ma ambedue accomunati dal mettere in guardia l’intervistatore a fare attenzione alle parole.
Alle parole?
L’azzurra Polverini, quella che doveva mandarli a casa lei i responsabili degli scandali alla Regione Lazio, si aggrappa al verbo “spacciare”, usato dall’inviato per domandare se una certa regola non sia stata spacciata per fare gli interessi di qualcuno. “Attenzione – dice piccata – io non ho mai spacciato e non sono una spacciatrice”.
Fantastica la replica della Gabanelli in studio: “Chissà come avrebbe reagito se le fosse stato chiesto come ammazza il tempo”.
Ma lo show di Bettini è senza rivali.
Avvicinato per sapere se fosse a conoscenza di essere stato finanziato da una di quelle ditte di pulizia ontologicamente basate sui principi non negoziabili, la rotonda eminenza Pd si stupisce che un giornalista di sinistra osi rivolgergli certe domande.
A dire il vero siamo noi gli stupiti ad assistere all’infastidita ostentazione di un’idea dell’informazione che è il perfetto calco di un modello salpato definitivamente dal porto della deontologia professionale: si faccia una domanda e si dia una risposta.
Per di più, idea proferita da chi ha dato sangue, diremo poco, per distinguersi qualitativamente da una certa cultura della conservazione.
Il tutto avviene in un contesto nel quale il palazzo Consip è impenetrabile come il Pentagono e nessuno si concede nemmeno se a fare domande è Babbo Natale. Mentre sembra che dentro le mura della Elsinore in versione buiaccara, lo scambio di visioni del mondo con venditori e piazzisti sia cosa più normale.
E pensare che, per dirne una, basterebbe rendere più facile agli uffici comprare altrove rispetto agli scaffali del mercato dematerializzato, se si dimostra che costa meno.
L’impressione è che per vincere questi mega appalti servano imprese con certe dimensioni in termini di dipendenti e strutture. Il rovescio della medaglia è che occorra continuare a fare appalti del genere per tenere in vita imprese con questi costi fissi, altrimenti è un guaio.
Ma allora l’obiettivo è ridurre la spesa pubblica o mantenere delle portaerei?
Per carità, a nessuno venga in mente di organizzare un seminario per approfondire la questione.

 

Perché “Pepito Sbazzeguti”

Pepito Sbazzeguti è l’anagramma di Giuseppe Bottazzi, alias Peppone, l’indimenticabile sindaco di Brescello in perenne rivalità con l’altrettanto indimenticato don Camillo nella celebre saga raccontata da Guareschi.
Il film nel quale il compagno sindaco, impersonato sullo schermo da un grande Gino Cervi, si cela dietro un anagramma è Don Camillo monsignore … ma non troppo del 1961 per la regia di Carmine Gallone.
Ma perché nascondersi? Peppone aveva ricorso a quello stratagemma, Pepito Sbazzeguti, per non far sapere in paese che aveva osato giocare al totocalcio.
Proprio lui dall’incrollabile, almeno nella retorica, fiducia nel sol dell’avvenire che sarebbe sorto sul genere umano con scientifica puntualità grazie all’ardore rivoluzionario delle masse, si affidava ai capricci della fortuna. Una variabile per giunta individualista e borghese in palese contrasto con il moto dialettico e collettivo della storia.
Ma non basta. Peppone infatti vince e vince tanto; dieci milioni per l’epoca è una bella somma. Per sua sventura l’astuto don Camillo scopre tutto e si trova in mano l’asso di bastoni. “Ecco fatto – gli dice con quel ghigno che solo Fernandel poteva plasticamente rappresentare – gratta il Pepone e troverai il Pepito”. Non pago, il ruvido reverendo nel consegnargli la valigetta con il tesoro insiste: “Ti tremano le mani”. “Eh, ma … non è mica un soldo”, gli risponde il sindaco sempre più confuso, che immediatamente pensa al modo migliore per investirli perché non perdano valore. Scartando l’ipotesi della terra, perché notoriamente deve andare ai contadini, e dell’oro, che gli verrebbe requisito allo scoccare della rivoluzione nel nome supremo del popolo, Peppone si lascia trascinare nel tranello di don Camillo: “Bisogna depositarli all’estero … In America forse …”. “Ah sì – cede per un attimo il sindaco – ma lasciamo perdere, non capisco più niente io”, taglia corto poi, consapevole che non può finire nelle braccia del nemico capitalista per antonomasia.
Pepito Sbazzeguti è il nome giusto per una rubrica che non ha la pretesa di avere capito tutto e di dare risposte in una realtà difficile e confusa. Peppone è ancora oggi il simbolo di una coscienza tirata da una parte dalla coerenza di principi e valori e, dall’altra, dall’interesse personale. Una situazione di incertezza e di dubbio che lo porta sulle soglie di un rossore che non ha più niente a che fare con l’ardore ideologico.
Potrebbe anche essere un buon viatico, verso l’umiltà del capire prima di giudicare ed un elogio della pazienza in un mondo che corre velocemente, anche se spesso non si sa esattamente dove. La pazienza di mettere insieme faticosamente gli elementi del dibattito e della realtà con libertà e possibilmente senza pregiudizi.
Questa rubrica nasce così, con questo intento.
(Francesco Lavezzi)

cota

Alla faccia!

Cota il governatore leghista del Piemonte sotto inchiesta per gli scandali regionali giorni fa dichiarò che poteva girare a testa alta. Dopo aver letto le cronache di oggi, potremmo aggiungere – passateci l’espressione – anche a culo caldo, visto che con i soldi pubblici si è comperato pure le mutande. Però adesso l’altarino s’è scoperto. E lui è rimasto con quella faccia un po’ così…

Trento

Benessere, Trento vince in Italia ma l’Italia perde in Europa

Secondo la ricerca realizzata ogni fine anno dal Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle province italiane, Trento si aggiudica il primo posto. Non è la prima volta che la provincia autonoma conquista la vetta di questa competizione tutta italiana: già nel 2007 era salita sul gradino più alto. All’ultimo posto della classifica troviamo Napoli, che quest’anno sostituisce Taranto, salita di qualche posizione.
Quello che salta subito all’occhio, a una prima lettura, è la presenza di molte città nel Nord-Est ai primi posti della classifica: l’Emilia-Romagna è presente con Bologna (3° posto), Ravenna (6°), Modena (13°), Reggio Emilia (14°), Forlì-Cesena (15°), Parma (16°), Piacenza (17°); bisogna arrivare al 35° posto per trovare la provincia di Ferrara, che si piazza ultima tra quelle della nostra regione. Significativo tuttavia il suo balzo in avanti dal 49° posto del 2012. La nostra città è tra le prime 10 posizioni per quanto riguarda l’occupazione femminile e la presenza di asili nido. Decima posizione, con 11 imprese che chiudono i battenti ogni 1000 registrate, contro le 43 di Siracusa, e seconda in quella delle estorsioni, 4 ogni 100mila abitanti, contro le 27 di Foggia. Buone performance anche per quel che riguarda la velocità della giustizia e l’ambiente.
Ma come si colloca l’Italia nei confronti con l’estero? Innanzitutto è necessario sottolineare che diversi sono i criteri utilizzati dai vari organismi per misurare benessere e ricchezza, come da diversi anni dimostra la classifica stilata del Sole 24 Ore. Secondo le misurazioni che si basano sul Pil pro capite, cioè la ricchezza prodotta da un Paese diviso il numero dei cittadini, l’Italia è ventisettesima nella classifica mondiale e quindicesima in Europa. Se invece nei parametri introduciamo anche altri valori meno tangibili del reddito, come la salute, l’istruzione, l’ambiente, la famiglia, i risultati cambiano. Gli indicatori di benessere sono ormai numerosi, e capaci di suscitare accesi dibattiti tra specialisti del settore e politici. Secondo uno degli indici più accreditati, il Better Life Index, la nostra Penisola si trova al 20° posto tra i 34 membri dell’OCSE. Ci penalizzano i deludenti risultati nei campi dell’istruzione, dell’ambiente, della soddisfazione per il posto di lavoro.
In questa “guerra di statistiche” la priorità non è incoronare un vincitore, ma scandagliare la realtà e individuare i settori dell’economia e della società nei quali le istituzioni devono intervenire.

Vedi la mappa interattiva sulla qualità della vita in Italia elaborata del Sole 24 ore

calendario

Giorni bui, sui calendari trionfano gli ‘eroi’ dei tempi moderni

L’edicola dei giornali è luogo affascinante, è lì che impari a conoscere i tuoi simili, giornali di destra (tanti), di sinistra (pochissimi), settimanali-bestiario, quelli destinati a un pubblico femminile alla perenne ricerca di un gadget qualunque purché gratis, e, poi, libri, giocattoli, modellini di auto, pupazzetti, penne, matite, block-notes, di tutto vendono oggi i giornalai. Purtroppo anche i calendari. Quando l’anno si avvicina alla sua morte, l’edicola si riempie di ebdomadari di ogni genere, fino a qualche anno fa soprattutto impreziositi da immagini di donne bellissime e semi nude, quando non nude del tutto. Ma da qualche anno le donnine, che un tempo ti venivano regalate dal barbiere in plaquettes luccicanti e profumate di violetta, vanno diminuendo: gli italiani hanno perduto forse la loro caratteristica di guardoni inguaribili? Non è questo il punto, come direbbe il baffetto D’Alema. Il punto è che le immagini stereotipate delle ragazze copertina vengono sostituite da altre icone. Ed eccoli lì, appesi alla parete , in grande evidenza, i simulacri dell’italiano medio di oggi: in ordine, vedo da sinistra a destra l’immancabile calendario di Padre Pio, quindi della Madonna di Medjugorje, entrambi destinati a rendere sana e ricca la famiglia, come scriveva Sandor Marai in un suo bellissimo romanzo, insomma usati per fare i miracoli di cui siamo sempre in credito. Fin qui nulla di strano. Il grottesco viene subito dopo la parata di santi, quando sulla parete compaiono due immagini patinate di Berlusconi, una intitolata Mussolini e una seconda dedicata al Duce. Nudi?, chiedo all’amico giornalaio. No, no, risponde, sono in divisa, cioè in doppiopetto il primo e in orbace il secondo. Da un punto di vista sociale penso subito che questi calendari siano stupidi, non informati e moralmente censurabili. Ma come! Mussolini, oltre ad aver tolto pensiero e parola a chi non faceva il saluto romano, è stato la causa di una tragedia senza pari, milioni di giovani, di donne e di bambini immolati sull’inesistente altare della sua personalissima gloria; gli italiani sono riusciti con coraggio a disfarsi di un borioso cialtrone ed eccolo qui, il dittatore senza scrupoli, ritornare a colori su carta patinata con la mano alzata a salutare i suoi fedeli sudditi, come se nulla fosse stato, come se non ci fossero state le leggi speciali, le leggi razziali, la guerra, l’odio insegnato perfino ai ragazzini a scuola: “Ferrarizzare l’Italia!”, gridavano i fascisti dopo la lunga notte del ‘43, che significava ammazzare tutti gli antifascisti, un ordine preciso che diede luogo a una cruenta guerra civile. E Berlusconi? Beh, qui si cadrebbe nel comico, se il cavaliere in quasi vent’anni non avesse mortificato le coscienze degli italiani e impoverito le loro tasche. Siamo alla frutta, dico al giornalaio, mi dia la Settimana enigmistica.

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Il lavoro secondo l’ineffabile compagno Alfano

Ho un attimo di smarrimento. La noia lineare che accompagna la lettura dell’intervista di ieri resa dal vicepresidente del Consiglio Alfano al quotidiano “La Repubblica” è improvvisamente turbata da un’affermazione che non m’aspetto. Alla domanda “quali sono i vostri punti irrinunciabili?” l’ineffabile Angelino replica inaspettatamente: “La parola chiave sarà lavoro: aumentare il numero degli occupati e dare una speranza ai nostri ragazzi”.
Gulp! Che succede? L’occupazione al primo posto! Alfano come la Cgil?!? Fatta questa premessa, adesso seguirà certamente un attacco frontale alla Merkel e alle dottrine neoliberiste: il classico scavalcamento a sinistra, degno della migliore tradizione democristiana, anche se è persino troppo facile con l’attuale Pd.
Ma poi purtroppo Alfano spiega meglio in cosa consiste la sua idea di centralità del lavoro.
Prima di tutto: “tagli robusti alla spesa pubblica improduttiva”. Vabbé, ci può stare, anche se temo non avremmo le stesse idee nel definire qual è quella improduttiva e rimane piuttosto oscuro come questi tagli possano creare nuova occupazione.
E poi: “riforma elettorale, fine del bicameralismo perfetto”: ok, titoli condivisibili, non facciamo gli schizzinosi, ma che c’entrano col lavoro e l’occupazione?
E ancora: “detassazione per le imprese”. Ecco, questa mi sembra d’averla già sentita. Quando è stata fatta non ha mai prodotto occupazione, ma che ci importa? Intanto detassiamo le imprese con la scusa del lavoro e poi magari per compensare facciamo pagare più tasse ai lavoratori! Semplice e già sperimentato. E’ vero che così l’economia va a rotoli, ma poi possiamo sempre far cassa alzando l’età pensionabile.
E infine, la perla: “determinazione del salario di produttività”. Ma che vuol dire? Il salario di produttività c’è già, fa parte di tutti i contratti nazionali di lavoro, si contratta generalmente in azienda, quando le condizioni economiche della stessa lo consentono. Chi lo deve determinare? Il governo? Ma soprattutto cosa c’entra con l’occupazione?
Letto questo, giro la pagina, anzi chiudo il giornale: è troppo!
E’ vero che ormai in questi anni ci siamo dovuti assuefare al peggio, ma queste fumoserie, queste affermazioni furbette e insensate, questo misto di studiata superficialità e incongruenza resta una delle eredità più devastanti della politica dell’ultimo ventennio.

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Violenza di genere. Non solo ‘bruti’ e non solo ‘fate’

Edoardo Bennato, nel 1977, cantava La Fata. «E forse è per vendetta e forse è per paura o solo per pazzia ma da sempre tu sei quella che paga di più. Se vuoi volare ti tirano giù. E se comincia la caccia alle streghe, la strega sei tu. E insegui sogni da bambina e chiedi amore e sei sincera. Non fai magie, né trucchi, ma nessuno ormai ci crederà. Chi ti urla che sei bella, che sei una fata, sei una stella. Poi ti fa schiava, però no, chiamarlo amore non si può». Sono passati 36 anni eppure, queste parole, sono tutt’oggi di grande attualità. Chi scrive avrebbe voluto leggerle, ieri, al seminario Comunicazione e violenza di genere, organizzato da Comune, Provincia, Centro Donna Giustizia e Udi, alla Sala Musica del Chiostro San Paolo, nell’ambito delle iniziative legate alla Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, ricorsa lo scorso 25 novembre. Ma non c’è stato il tempo, perché gli spunti emersi sono stati davvero tanti e tenere il filo era difficile. Questo a significare che il ragionamento sul tema è talmente complesso e articolato che le angolature dal quale afferrarlo sono molteplici. Giovanna Pezzuoli, autrice del blog del Corriere della Sera La 27esima ora, ha preso le distanze dall’utilizzo del termine ‘vittima’, cui preferirebbe ‘condizione temporanea’ di fragilità’, meno impattante, diciamo così, ai fini dell’elaborazione interiore della riconquista del proprio futuro. Serena Bersani, della rete Giulia (Giornaliste Unite Libere e Autonome), ha rimarcato come ancor oggi si utilizzi il maschile nell’identificazione dei ruoli – il Presidente invece che la Presidente – e come certi titoli di giornali siano profondamente e volutamente equivoci. «Baby Squillo – ha spiegato a mo’ di esempio con riferimento alle tristi vicende romane di prostituzione giovanile – o sono baby o sono squillo». Francesca Barzini, de Il Fatto Quotidiano e già coautrice del programma Rai, Presa Diretta, ha rilevato come ogni passaggio di un dramma andrebbe capito e messo in relazione al precedente. Troppo spesso invece si arriva soltanto alla fine e si parte di lì. «Quello è l’epilogo, prima ci sono stati segnali. Bisogna chiedersi se sono stati individuati». Tutti punti di vista, quelli delle relatrici – legati l’uno all’altro dagli interventi di Paola Castagnotto, responsabile del Centro Donna Giustizia, e introdotti dall’assessore comunale, Deanna Marescotti – che avrebbero meritato un convegno a parte tanto è vasta la materia. Materia che attiene all’educazione, alla socialità, alla cultura. E che subisce gli effetti della crisi economica, laddove la realizzazione personale femminile diventa più difficile e i ruoli, in casa, tornano spesso ad essere ‘impari’. Ma la sintesi, dicevamo, serve. Anche questo è emerso ieri. Come serve una soluzione. Che non può limitarsi al sollievo per la ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione di Istanbul, la cui lettura attenta rivela certamente un impegno, e notevoli passi avanti, ma anche i limiti di una cultura che troppo spesso si ferma agli intenti e al tentativo di dare definizioni, come nel caso della violenza domestica, che finalmente non viene più sminuita. Alla responsabile del Tg di Telestense, la giornalista Dalia Bighinati, che ha moderato il dibattito, va riconosciuto il merito di avere chiesto l’intervento dei colleghi del territorio: tanto dei quotidiani quanto degli uffici stampa. Un aspetto affatto scontato, perché la comunicazione si compie a vari livelli e quel che si legge o si ascolta al tg, è spesso il prodotto finito. Prima, al lavoro, ci sono altre professionalità, altre sensibilità. Come ha ben rimarcato Alessandro Zangara, responsabile dell’Ufficio Stampa del Comune di Ferrara, che ha sottolineato l’impegno suo e delle colleghe nello studio e nella divulgazione di un linguaggio anche di genere. E se l’atmosfera si è animata un po’ quando il collega de Il Resto del Carlino, Daniele Modica, ha rivelato di aver chiesto a un’associazione femminile di poter fare un servizio ‘sul campo’, e di avere ricevuto un rifiuto in quanto uomo, è innegabile che il suo contributo è stato fondamentale per rilevare che una sensibilità maschile c’è. E che non tutti gli uomini sono dei ‘bruti’ – come poi ha confermato Michele Poli, del Centro d’ascolto Uomini Maltrattanti, che ha insistito sulla necessità di sviscerare il punto di vista maschile – come non tutte le donne sono delle ‘fate’. Noi riteniamo, e questo abbiamo detto, che accanto alle vulnerabilità della condizione femminile, vadano evidenziati i punti di forza, che ci sono. Che lottare è giusto e doveroso, ma non solo per contrastare una cultura che permette a un uomo di perseguitarci o alzare le mani contro di noi perché incapace di accettare un rifiuto o un abbandono. Ma per affermare la nostra identità, le nostre prerogative. C’è una generazione, quella delle quarantenni di oggi, cui la sottoscritta appartiene, che gli strumenti per raggiungere una certa consapevolezza li ha avuti. Non tutti nella stessa misura, ci mancherebbe, ma in buona parte. Certo non generalizziamo. Poi c’è la generazione precedente, che ha dovuto conquistare ogni spazio, ogni diritto. Ma il vero problema sono le giovani e i giovani di oggi, depauperati o privati di valori cui aggrapparsi. Che spesso dimostrano di non capire o di non sapere che il corpo è quanto di più sacro abbiamo e se non impariamo a rispettarlo, non sapremo mai né rispettare gli altri né noi stessi. O noi stesse. Ecco perché in una società che ancora troppo spesso ammanta di romanticismo delitti efferati, che definisce ‘raptus’ un’azione premeditata, che giustifica con la locuzione ‘lato oscuro’ la convinzione di essere impuniti e impunibili, la sensibilizzazione va fatta a più livelli, a cominciare dalla scuola, la prima agenzia formativa. A noi l’argomento ha appassionato e ringraziamo gli organizzatori per l’invito. Sarebbe bello continuare su questa strada, quella del confronto tra i media e le istituzioni. Intanto per questa settimana, FerraraItalia ha deciso di accogliere gli interventi di chi vorrà dire la sua sull’argomento. Un argomento su cui, Bennato ci insegna, le cose da dire non si esauriscono mai.
Per inviare, è andare nella sezione “contatti”.

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“Museo di Spina e Pinacoteca esempi virtuosi per uscire dalle secche”

Il potere taumaturgico della bellezza riesce a superare anche le secche in cui s’è incagliato il sistema Italia nella sua affannosa ricerca di darsi un volto politico possibilmente senza le rughe del passato ma anche con una parvenza di eticità che sembra scontrarsi, anche nei migliori, con il sistema politico stesso. Così mentre si leggono notizie che potrebbero solo renderci orgogliosi (vedi il reportage di Francesco Erbani su “Repubblica” di qualche giorno fa) quali quelle che riferisce che in Italia vi sono più di cinquemila luoghi museali, rispetto ai quasi millecinquecento che può vantare la Francia, seconda in questa classifica mondiale, luoghi dislocati nelle città di provincia piccole o medie che non riescono a gestire questo patrimonio per mancanza di personale o di una decente catalogazione. L’aiuto potrebbe venire dalle benemerite associazioni che, come accade in città “oberate” dal peso di una immensa offerta museale quali Venezia, Firenze o Roma, affidano l’apertura dei musei minori ad associazioni quali gli Amici dei Musei che però sono presenti solo in 261 realtà. Qual è l’origine prima di questa difficoltà? Probabilmente la resistenza che i lavoratori addetti a questa bisogna oppongono a una prestazione del tutto gratuita, spalleggiati in questo diritto dai sindacati. Non è che una delle tante difficoltà burocratiche che impediscono ai musei di aprire con regolarità. Un’altra causa che Salvatore Settis commenta nel suo articolo apparso su “Repubblica del 1 dicembre (“Ai cittadini spetta la sovranità sui nostri territori”) è l’uso commerciale che a siti naturali, musei, luoghi d’arte vengono affidati come set di ambientazione di qualche prodotto: dal prosciutto toscano appeso alle spalle del David di Michelangelo per reclamizzare il prodotto (“Perfetto equilibrio del gusto”) alle modelle occhieggianti tra i gessi canoviani della gipsoteca di Possagno a una celebre fattoria della Val d’Orcia location per la più famosa marca di pasta e biscotti. Oppure allo sfruttamento del celebre Corridoio vasariano che unisce con una via aerea Palazzo Vecchio a Firenze fino a Palazzo Pitti affidato a una impresa privata che richiede “solo” 16 euro per percorrerlo nonostante che i lavoratori dei musei fiorentini fossero disponibili a tenerlo aperto gratuitamente. Settis, approvando la decisione del ministro Bray che attesta come i lavoratori della Soprintendenza fiorentina sono “impegnati nella difesa della Costituzione” conclude che “su paesaggi e opere d’arte non ci sono copyright. Che i sovrani sono i cittadini”. La situazione ferrarese non è tanto diversa. I piccoli musei sono praticamente chiusi perché non sufficientemente tutelati data la crisi economica, la disponibilità di monumenti famosi quali il Castello a ospitare eventi di natura commerciale resta modesta e comunque non sempre all’altezza con un luogo così famoso come il palazzo degli Este. Solo poche realtà locali sono riuscite a vincere la sfida con la crisi e il terremoto attraverso un’intelligente amministrazione. Il Museo Archeologico di Spina che rimane un esempio brillantissimo delle possibilità di rendere stimolante l’offerta museale con una serie di manifestazioni calibrate che esulano dalla sola esposizione di reperti che, pur di fondamentale importanza nel panorama mondiale, non riescono da soli ad attirare un pubblico “motivato” o la Pinacoteca Nazionale del Palazzo dei Diamanti. Entrambe le istituzioni sanno offrire a gran parte dei cittadini o dei visitatori stimolanti proposte programmando manifestazioni che pur rimanendo nell’ambito di un’offerta culturale alta sanno coniugare il primo compito del museo (casa di tutti i cittadini “ che ne sono sovrani” secondo Settis) che è quello di esporre i reperti della nostra storia e della nostra civiltà con altre scelte quasi sempre azzeccate. Ad esempio quelle che ho potuto sperimentare tra ieri e oggi: l’inaugurazione dell’anno sociale degli Amici dei Musei con una conferenza lezione su Verdi e la poesia tenuta da un giovane studioso ferrarese Michele Borsatti che ha incantato il folto pubblico. Di seguito ha proposto un concerto di memories tra Beatles e pezzi classici interpretati da un giovanissimo pianista quindicenne di grande bravura per i bambini in emergenza. O domenica l’esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi con l’Ensemble Barocco del Conservatorio ferrarese, altra straordinaria realtà culturale della città, e con due stupefacenti e giovanissimi cantanti. Allora sì che, riprendendo l’inizio di questa riflessione, il potere taumaturgico della bellezza riesce a superare anche le secche in cui s’è incagliato il sistema Italia. Si pensi anche all’attività della Pinacoteca sempre pronta a spalancare le porte del meraviglioso salone d’onore di Palazzo dei Diamanti a iniziative nobili e raffinate come sarà il 4 dicembre la presentazione del libro brillantissimo di un grande studioso dal nome celebre, Masolino d’Amico, che scrive un divertissement sul più grande “sarto” del paesaggio inglese così come ora lo conosciamo: Lancelot “Capability” Brown che cucì, secondo il modello del cosiddetto giardino inglese, le bellezze della campagna e dei suoi meravigliosi siti. Capisco che l’amministrazione comunale e provinciale deve fare di necessità virtù, capisco anche che il pubblico dei visitatori e cittadino preferisca il festival dei Buskers o quello dei Baloons a una più difficile scelta di cultura falsamente bollata come elitaria in quanto non promuove il turismo o solo un certo tipo di turismo. Capisco anche che le mostre di Ferrara arte o l’attività del Teatro comunale siano di vitale importanza per l’immagine della città. Meno capisco l’ossessione di ricavare comunque un reddito dall’evento. E primo fra tutti la scelta dell’incendio del Castello che mette a repentaglio diversi monumenti della città, che evoca nella sua fase più intensa un mondo di fuoco e fiamme, una Gehenna di cui non capisco il valore ma capisco la simbologia: fuoco, fiamme e boati. Ma alle scelte condivise da tanti non si può che opporre un educato dissenso. Spiace comunque che chi non è in riga con queste scelte e con queste soluzioni sia solo riservato il ruolo di noioso e “vecchio” intellettuale. A una domanda rivolta per interposta persona al guru di Renzi, il celebre Gori, se sembrava corretta la scelta commerciale fatta dal sindaco fiorentino delle bellezze artistiche della città la risposta è stata un secco “La cultura non deve essere elitaria”. Alla grazia!

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Lo “scandalo” dopo la tragedia: solite domande, solita retorica

Puntuale, dopo la tragedia, viene a galla lo scandalo! A Prato, dietro ai morti, si scopre un distretto intero (una grande area pubblica della città di lavoro e vita sociale…) cresciuta all’insegna dell’illegalità e dello schiavismo. E puntuali si ripropongono le ‘domande-accuse’: dov’erano in questi anni lo Stato di Diritto, la Regione Toscana, il Comune, la politica, la sinistra, il Pd, i sindacati, l’informazione? Diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein: “Ecco la roccia contro cui si piega la vanga!” La roccia è questa realtà di fatti durissimi; la vanga sono le ‘chiacchiere’ di una politica retorica, demagogica, parolaia, inconcludente, impotente. Al toscano Renzi e agli altri candidati delle primarie va chiesto: cosa fareste per bonificare questa piaga immonda dello schiavismo del lavoro e dell’illegalità?

Simone Merli

Merli apre alla città: “Nelle liste del Pd vorrei anche gli indipendenti”

“Considerate le drammatiche difficoltà del momento che riguardano chiunque, con gente che perde il lavoro e altra che fatica a trovarlo, problemi per le famiglie da tutti i punti di vista, tagli ai Comuni, mi sembra che la giunta stia facendo bene la sua parte”. Così Simone Merli, segretario cittadino del Pd, respinge le critiche di chi imputa all’Amministrazione comunale un basso profilo. “L’accusa, per tradurla nel gergo calcistico, è che manca lo spunto del numero 10? Beh io dico che oggi il numero 10 è quello che risolve i problemi e credo che Tagliani e la giunta siano riusciti a risolverne buona parte. Per completare l’opera servono altri cinque anni di lavoro, durante i quali magari mettere assieme anche qualche idea che possa essere di slancio. Però questa è una responsabilità che deve essere della città nel suo insieme a cominciare dall’Università”.
C’è un dialogo aperto?
“Pensiamo al teatro Verdi o al progetto Grisù: con il coinvolgimento di professionisti ed esperti sono state fatte cose significative. Però il rapporto deve intensificarsi, divenire prassi. Tutto coloro che vogliono bene a questa città ci mettano competenza e passione, non lascino la giunta da sola ma si rimbocchino le maniche, dicano quello che pensano e diano una mano”.
Quali i fiori all’occhiello di questo primo mandato?
“Essere riusciti a mantenere un livello culturale elevato in queste condizioni è stato importante: significa credere a un investimento che ha dato ricchezza e prestigio alla città. La seconda cosa è la riduzione del debito, troppo spesso considerato un tecnicismo. Invece è la condizione per fare nuove operazione e non lasciare a chi verrà dopo di noi altre passivi da dover sanare. Inoltre si è riusciti a mantenere la capacità di intervento nei servizi sociali, nella scuola e nel comparto dei lavori pubblici”.
Qualche esempio?
“Internazionale, i già citati teatro Verdi e Grisù. Per quanto riguarda servizi sociali e scuola e più difficile indicare cose concrete, perché a qualificarli è il silenzioso ma prezioso lavorio quotidiano degli operatori e delle strutture. Nella scuola però c’è stata finalmente l’apertura del nuovo asilo di via del Salice…”
E cosa invece si attendeva e non è stato fatto?
“Probabilmente ci dovremo impegnare di più per rendere questa città maggiormente attrattiva dal punto di vista imprenditoriale, per creare nuovi posti di lavoro. Avevamo approvato una delibera che introduceva una riduzione dell’Imu per le nuove imprese e per quelle che avessero rilevato aziende fallite, ma il governo Monti ce l’ha bocciata considerando l’intervento al di fuori delle nostre competenze legislative”.
Colgo un pieno allineamento sull’azione della Giunta. Nessuna riserva, nessun distinguo?
“Capisco che può sembrare un atteggiamento tattico o diplomatico, ma la verità è che le decisioni sono precedute da un approfondito confronto, quindi se ci sono elementi controversi vengono affrontati e risolti prima. Non è che un partito debba per forza pubblicamente dissentire per marcare la propria presenza”.
E alla critica del professor Venturi che sostanzialmente imputa alla Giunta di non dispiegare una vera politica della cultura e la sferza a pensare in grande cosa risponde?
“Al mio amico Gianni Venturi dico che è legittima la sua opinione e fa bene a venire allo scoperto per stimolare il confronto, utile a capire se si può fare di più e meglio. Vorremmo riuscire a mettere attorno a un tavolo coloro che hanno idee e proposte da discutere. Con Ferrara 2020 come partito lo stiamo già facendo da un anno e mezzo, ragionando ogni settimana attorno ai vari ambiti della vita cittadina anche con i non iscritti per trovare idee e soluzioni”.
In primavera si vota. Scontata la rielezione di Tagliani?
“Ho imparato che in politica non c’è nulla di scontato. Alla fine della conta se avremo un voto più degli altri avremo vinto! Guai alle sottovalutazioni. Oltretutto il clima sociale è pesante. Però conosciamo a fondo la città e abbiamo le capacità per affrontare i suoi problemi e rispondere alle sue esigenze”.
L’impressione è che l’opposizione, abbastanza lacerata, vi stia dando una mano…
Vero, ma sono anche convinto che l’opposizione fatichi a non condividere l’azione che viene svolta…”.
Siete troppo bravi?
“Diciamo che le cose che si fanno sono sensate e persone responsabili non possono non tenerne conto”.
In tema di alleanze, rispetto a Sel si coglie un atteggiamento ambivalente.
“Con Sel il dialogo è positivo e lo immaginiamo come nostro alleato nel governo della città perché interpreta in modo moderno il proprio patrimonio ideale. Nelle altre espressioni della sinistra vedo un mondo politico superato, c’è rispetto ma non sussistono i presupposti per lavorare insieme”.
La squadra di giunta va bene così o deve essere corretta?
“Ci penserà il sindaco. I partiti è giusto che facciano le loro valutazioni ma la scelta finale spetta a lui. Tagliani ha la capacità di leggere e interpretare quali sono i bisogni: di conseguenza deciderà se serve il contributo di nuove figure o se qualcuno andrà avvicendato”.
A proposito del sindaco, vi ha infastidito quella sua esternazione dei mesi scorsi quando dichiarò che i candidati si sarebbero presentati con la sua maglia? O era concordata?
“La lista del sindaco non ci sarà. Comunque no, l’uscita non era concordata, ma neppure ci ha infastidito. Anzi, io stesso avevo detto qualcosa di analogo in quel periodo. Noi immaginiamo una coalizione fatta da Pd e Sel con l’apporto di espressioni di un mondo civico fatto da saperi, professioni, nuove competenze. Chi ha voglia di mettersi a disposizione della giunta e della città deve trovare spazio. Lo stesso penso per il Pd, dobbiamo dare spazio, anche in lista, agli indipendenti, sto già incontrando figure rappresentative alle quali chiedo la disponibilità di lavorare insieme senza dover aderire organicamente”.
Allargando lo sguardo al quadro nazionale in vista dell’elezione del vostro nuovo segretario, a lei non si può dire d’essere saltato sul carro del (presunto) vincitore, ci si era accomodato già al principio della corsa.
Spalanca le braccia. “Vero, però penso che al di là di qualche opportunismo tanti si siano ricreduti sinceramente su Renzi e credo che lo stesso Renzi in quest’ultimo anno sia cresciuto e maturato politicamente. Personalmente gli avevo suggerito di fare attenzione alle ambiguità dell’idea di rottamazione e al rischio che assumesse un connotato solamente anagrafico. Bisogna guardare ciò che la gente ha fatto, non l’età. Ci sono persone che hanno dato a questo Paese e a questo partito la vita senza chiedere nulla, senza mai avere un incarico. Per fare un esempio di casa nostra, crediamo che di uomini come Giancarlo Ziotti e Luciano Bratti non ci sia più bisogno? Io dico che meritano ogni giorno il nostro grazie”.
Infine un giudizio sul governo Letta. Si sente rappresentato?
“All’epoca dell’insediamento accolsi l’idea delle larghe intese, ma limitata a due obiettivi: interventi decisi immediata per contrastare l’emergenza economica e una nuova legge elettorale per tornare a votare in condizioni diverse. Non sono state fatti né gli uni né l’altra e non credo verranno fatti. E’ un governo nel quale non mi riconosco. Non ho costruito il Pd per arrivare alle larghe intese. Il nuovo centrodestra mi pare prigioniero di vecchie logiche e vecchie sudditanze, d’altronde vent’anni con Berlusconi non te li scrolli di dosso dalla sera alla mattina. Fra loro e noi c’è una differenza fondamentale. Loro hanno un padrone, noi no. E non è poco”.

cavina

Il narratore-pizzaiolo finalista al Premio Strega: “Racconto la vita di paese”

Jeans, felpa con cappuccio, un piercing al sopracciglio sinistro e se gli chiedeste qual è il suo vero mestiere risponderebbe senza pensarci un attimo: “Il pizzaiolo”. E’ lo scrittore Cristiano Cavina, made in Casola Valsenio, classe 1974, incontrato alla presentazione del suo ultimo lavoro: Inutile Tentare Imprigionare Sogni (acronimo di I.T.I.S), uscito recentemente per Marcos Y Marcos. “Non mi piace dire d’essere uno scrittore, un po’ m’imbarazza. In paese sono semplicemente Cristiano, il pizzaiolo” – racconta con assoluta limpidezza e senz’ombra di falsa modestia Cavina, sette libri nel proprio carnet, finalista Premio Strega 2009 con I frutti dimenticati, Premio Castiglioncello e città di Vigevano 2007, e Premi Tondelli e Fenice Europa 2006. Si definisce un narratore, piuttosto: “Le mie storie sono legate al racconto orale: quanto ero bambino i miei nonni litigavano in continuazione ed erano i fatti del passato ad essere rivangati; lo stesso vale per i racconti epici che potevo ascoltare al bar di paese, tra una partita a carte e l’altra. Quelle per me sono Le storie. Per questo mi sento un narratore: metto la mia vita a disposizione dei miei libri”.

Cresciuto insieme alla madre e ai nonni in una colorita vita di paese, Cristiano Cavina proprio non amava andare a scuola ed è di questa spinosa vicenda che racconta nel suo Inutile Tentare Imprigionare Sogni, affidando al giovane Baldo Creonti, il protagonista, una sentitissima verità: “Per certe cose bisogna nascerci. Io non c’ero nato”. Ironico e profondo al tempo stesso, il libro consente al lettore di fare un salto tra i banchi di scuola, quelli dell’I.T.I.S Alberghetti di Imola, e di calarsi nei panni (e nei piccoli e grandi drammi) di un sedicenne che quella scuola proprio non la voleva frequentare. La figura centrale di una madre premurosa ed attenta, i fedeli ritratti dei compagni di scuola, di un primo non corrisposto amore e le caricature di bidelli e professori, a rendere queste pagine tenere e credibili. “Ho sempre saputo che un giorno avrei raccontato di quegli anni e del mio rapporto con la scuola. Volevo celebrare quel periodo della mia vita, dire ai miei ex compagni quanto è stato bello viverlo con loro” – aggiunge spontaneamente Cristiano Cavina. Una spontaneità che mette anche quando racconta dei curiosi episodi in cui, ad esempio, a causa dei suoi jeans e di una storica felpa dei Pearl Jam, una Serena Dandini impegnata ad intervistare i dieci finalisti del Premio Strega 2009 lo scambia per un fonico audio; o della reazione che professori e presidi hanno quando lo scrittore fa visita agli studenti nelle scuole: “Non è il genere di intellettuale che ci aspettavamo” – il commento che arriva puntualmente. E proprio perché impastato della stessa semplicità, è impossibile per il lettore non immaginare in Baldo Creonti, aspirante genio del crimine specializzato in Piani B, un alter ego di Cristiano Cavina che conclude confessando: “I fuori tema e i piani B mi hanno salvato la vita. Uscendo dal seminato, con i miei 9 in italiano fatti di temi creativamente reinterpretati, ho scoperto che da grande volevo scrivere”.

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Un’altra Irlanda (senza i negozietti di souvenir)

DUBLINO – Atterri a Dublino in un piovoso, surprise surprise, pomeriggio di dicembre. Alberi di natale e jingle bells. Esci dal megascalo e trovi ad aspettarti il pullmino verde del “Paddy tour” con l’immancabile lepricorno stampato sul fianco. Emozioni garantite: cliff of moher, hill of Tara, greggi di pecore, suonatori di violini e spettacolino fuori programma di Irish dance. Irish coffee e Standing ovation finale. Tutto molto bello ma anche tutto già immaginato. Torni a casa con un maglione di Aran ed un berretto in tweed. Una miriade di Like, sorrisi e commenti sui social networks. Foto ricordo e souvenirs. Di certo abbastanza global.
Ma c’è un altra Irlanda che incomincia sul “rapido” che da Huston Station ti porta a sud, nella regione del Munster, nella città di Cork. Terribilmente local. Te ne accorgi appena scendi a Kent Station, manca il negozietto dei souvenir e niente farmacia. Do not panick, in compenso troverai il primo pub non appena fuori dalla stazione. L’anonimato di Dublino lascia spazio a ritmi di paese, sei finalmente in Irlanda. Ai locali piace chiamarla anche The real capital, sia per la rivalità con Dublino che per essere stato un centro anti-trattato, l’accordo con il quale l’Inghilterra nel 1921 dava di fatto l’indipendenza all’Irlanda ma manteneva possesso dell’Ulster. Michael Collins, figliol prodigo; pagherà con la vita la firma del trattato proprio nelle campagne di Cork, assassinato in un imboscata l’anno successivo nei pressi di Bandon.
Cork, The rebel city, per la sua convivenza, storicamente mai pacifica con I sudditi di sua maestà è un importante ex polo commerciale, industriale e manifatturiero. l’economia si risolleva durante gli anni ruggenti della Celtic tiger. Call center ed aziende americane spuntano con i funghi. Il mistero della trinità viene momentaneamente sostituito da quello della triangolazione fiscale. Le periferie crescono a dismisura inglobando i villaggi limitrofi. Per rifare il centro il comune si rivolge ad archistar. Molta voglia di global. Ma nonostante tutto irrimediabilmente local. Nella Rebel City esci e ti sembra di fare una vasca in piazza. Stessi ritmi. In mezz’ora hai fatto il giro del centro e non sai più dove andare. Per fortuna c’è sempre un pub dietro l’angolo. Non ci sono zone franche per I turisti, la polvere non e nascosta sotto il tappetto. E forse proprio questo e’ il suo bello.

Il centro cittadino si sviluppa alla fine di un fiordo, secondo porto naturale più esteso al mondo dopo quello di Sidney, attorno ai due maggiori rami del fiume Lee che subito prima di aprirsi la corsa verso il mare si dirama in svariati corsi d’acqua, molti dei quali oggi ricoperti da strade e viali. Passeggi e incontri sempre il fiume. La campagna e il mare sono ancora lontani ma sulle sponde un innumerevole numero di gabbiani, aironi, altri pennuti che la mia ignoranza in ornitologia mi impedisce di identificare. Forse cormorani. Con un po’ di fortuna potresti vedere la foca che abita il fiume (qui aggiungo prova fotografica in quanto non pochi si chiederanno quante pints ho bevuto prima di avere avuto visione di suddetto mammifero…).

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Una foca nel fiume Lee

Continui a camminare per il centro, verso il mare non perdi mai di vista i resti imponenti del vecchio porto, ai lati le zone collinari dei quartieri popolari e della nobiltà che fu. La parte nord, “the north side”, è sicuramente la più interessante con le aree signorili di Sunday’s well e St. Lukes, quartieri residenziali caratterizzati da enormi palazzi dell’800 e di inizio ’900 dove spesso il cocciuto proprietario si ostina ancora a voler abitare, resistendo alla tentazione di trasferirsi nell’anonima periferia. Evitando di conseguenza di trasformare “the family mansion” in un alveare di insalubri monolocali per diseredati come già avvenuto in molte altre aree della città. Questione di tempo. Nel mezzo le aree popolari di Shandon e Blackpool. Cottage con il muschio sui tetti e negozietti improponibili inglobati dalla città. In cinque minuti passi dai campi da cricket e giardini botanici del Mardike ai compro tutto / svendo tutto di Shandon street. Signore distinte a passeggio col cagnolino e personaggi – molto poco rassicuranti – in tuta e catene d’oro al collo. Tutto nello stesso luogo, spazio condiviso di una città che appartiene ancora ai suoi abitanti.

Torni verso il centro ed e d’obbligo un passaggio all’Englih Market, il mercato coperto. Generazioni di macellai, garzoni, banchi del pesce, fruttivendoli. Urla, frenesia, who’s next? how can I help you sir? A volte non devi comperare nulla ma ci passi lo stesso, tanto per guardare. Un vero gioiello e ti chiedi come e possibile che non si riesca a rilanciare anche quello di Ferrara. Ma ancora niente sciccherie o trappoloni per turisti. Everybody’s welcome, certo. Ma il mercato e lì per gli abitanti di Cork. semplicemente per fare la spesa.
Vicoli e buskers agli angoli delle strade. Giorno e notte. Tempo permettendo. Di norma studenti, chitarra, buona voce e buon repertorio. Tutto normale. fenomeni accreditati se ne vedono pochi, saranno tutti in giro per festival internazionali. Una città generosa, che in passato e riuscita ad inglobare vichinghi danesi, ugonotti in fuga da Parigi, ebrei in cerca di fortuna dalla Lituania e che oggi accoglie migliaia di giovani e non da tutto il mondo, Europa, Asia, Africa, America. Forse per la sua natura di città di mare, dove per le vie del centro e normale sentire parlare italiano, francese, spagnolo, lingue slave ed accenti est europei.
Cala la sera e le strade si svuotano. Se ne vanno a casa anche gli strilloni dell’eveningh echo (il giornale cittadino). Cork ama i suoi strilloni, al punto da erigergli una piccola statua nel viale principale, St.Patrick street.

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Il monumento allo strillone

Qualche ora di calma. E riparte la baraonda. Per stomaci forti. I pub si riempiono, alcuni dei quali decisamente meravigliosi. I più belli forse Sin E, Mutton Lane, The Oval. Ma qui francamente c’è l’imbarazzo della scelta. Concerti dal vivo e socialità. Chiacchiere con perfetti sconosciuti fino a notte fonda. E una birra rimane una birra. Ogni volta che provi a chiedergli un glass (la nostra “piccola”) il barista si farà ripetere la richiesta, penserà che forse sei malato (a glass? what wrong with you boy?) o di avere capito male e ti servira lo stesso una pint. Che di norma diviene la prima di una serie, nonostante le buone intenzioni. Il menu è inesistente, probabilmente nascosto da qualche parte c’è un listino prezzi ma personalmente non sono mai riuscito a vederlo.

Non di rado si assiste a scazzottate memorabili. Meglio ricordarsi che si è in Irlanda e mantenere un certo low profile è d’obbligo, tarallucci e vino non sono inclusi nei menù a queste latitudini.
Arrivano le 2 di notte e si chiude bottega. Tutti si riversano in strada, tutti alla stessa ora. File davanti alle friggitorie, pandemonio, scene surreali che cercherai per anni di dimenticare. Invano. lotta per trovare un taxi che ti porti a casa.
La mattina il sole (pioggia permettendo) si leva su Cork. Esci ed in giro non c’è quasi nessuno. Un ultimo ubriaco sta ancora cercando di trascinarsi a casa dopo una notte passata chissà dove. Tra qualche ora ricomincerà il tram tram frenetico di una città che appartiene ancora ai suoi abitanti.

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Linguaggio da Taverna, “meglio chiudere il Senato”

Gli onorevoli Gasparri e Gelmini sono concordi: il fatto che in Senato ci sia una persona come la capogruppo 5 stelle Paola Taverna è un motivo in più per abolire quel ramo del Parlamento. Che ha combinato la senatrice Taverna per fare infuriare i suoi colleghi di Forza Italia? In un comizio di paese ha affermato che è tentata dallo sputazzare Berlusconi. Dissentire dal colorito lessico della Taverna è certamente legittimo.
In Senato e alla Camera in questi anni sono circolati cappi e mortadelle e si sono inscenati atteggiamenti tali far arrossire i padri costituenti e tutti coloro che ancora credono nella dignità delle istituzioni. Ma se questo capita la responsabilità è degli individui. Quando in casa c’è sporco si fa pulizia, non si bombarda la casa per eliminarlo.
D’altra parte l’idea di chiudere un’assemblea democratica perché al suo interno si esprimono opinioni non gradite non è neppure una trovata originale. Qualcuno già ci aveva pensato e lo aveva fatto nel ’25 e il ventennio che ne è seguito non è stato per l’Italia un fulgido esempio di democrazia e libero confronto.

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Ferrara vista dai “fuori sede”, una rassicurante bomba inesplosa

di Alessandro Oliva

Rassicurante, tranquilla, a misura d’uomo. Ma anche una bomba inesplosa o “una periferia”, cioè un luogo distante dal palpitare della vita. Ferrara, vista con gli occhi di chi studia qui, appare così, nella sua ambivalente dimensione. Sede universitaria sin dal 1391, da una quindicina d’anni si è consolidata nell’immaginario collettivo come una “città per studenti”, evidentemente attratti da un ateneo che attualmente offre ben 50 corsi di laurea. Gli iscritti si attestano, secondo dati recenti, a 17.961, il 37% dei quali rientra nella categoria dei fuori sede. Ma chi sono i “fuori sede”? Ragazzi e ragazze provenienti da altre località che risiedono più o meno stabilmente a Ferrara per motivi di studio e popolano gli appartamenti del centro storico, riempiono i bar e le biblioteche, si radunano sotto il duomo il mercoledì sera e affollano via San Romano e le enoteche di Carlo Mayr. Sono il cuore giovane della città, una spinta continua alla sua vitalità, uno spunto per rinnovarsi e modificarsi. I fuori sede sì studiano, ma soprattutto vivono Ferrara e vivacizzano la città. E’ una presenza per nulla scontata, corpi che si muovono e occhi originali che osservano.

Forse per questo loro essere fuori contesto, le impressioni che esprimono sul luogo in cui si trovano sono meno banali di quanto ci si potrebbe aspettare. E, pur nella pluralità delle voci, emergono alcuni punti di accordo.
Unanime è, per esempio, il gradimento circa l’ottimo livello di vivibilità di Ferrara, una città “tranquilla e a misura d’uomo”, come dichiara Andrea (21 anni, Medicina, di Belluno, qui da tre anni). Una qualità fondamentale che garantisce, aggiunge Zeno, (22 anni, da due in città per frequentare Medicina), la possibilità di “muoversi agevolmente” e il fatto che ci siano “strutture, dedicate a studenti e giovani in generale, abbastanza centrali e quindi facilmente raggiungibili”.

Ma la realtà è più sfaccettata e mostra anche risvolti un po’ meno positivi. La pur accogliente e paciosa Ferrara non brilla certo per senso dell’accoglienza stando ai racconti degli studenti, specie quelli provenienti dalle regioni più lontane, che da noi trovano accoglienza e integrazione quasi esclusivamente all’interno dell’ambito universitario. Restano, per questo, studenti senza sentirsi pienamente cittadini. La città, anziché essere il primo motore di inclusione e coinvolgimento, delega questo ruolo all’università, al di fuori della quale ci si sente distanti, ai margini di qualcosa di cui si vorrebbe far invece pienamente parte. Per questo Carmelo, catanese iscritto a Biologia, 23 anni dei quali gli ultimi tre trascorsi qui, definisce Ferrara come “una bomba che ha fatto cilecca”; per questo Sara (21 anni, Scienze della Comunicazione, di Lecce, qui da tre anni) dichiara che “in realtà vivere a Ferrara da studentessa fuori sede è un po’ come vivere ai margini di una città, in periferia”. Parole forti, che portano a galla quella che se non è una colpa è sicuramente una mancanza, un’ambivalenza che però ipoteca una possibile evoluzione.
Indubbiamente lo studente fuori sede si trova a Ferrara per studiare. Questo è il suo scopo primario e l’indirizzo del suo presente, che si incarna fisicamente nell’università, perno comune su cui si fondano legami, amicizie e giornate. Però è inevitabile uscire fuori dal guscio, varcare il microcosmo universitario. Nello spazio condiviso della città molti fra gli intervistati dichiarano di sentirsi se non propriamente esclusi quantomeno trascurati. E’ una carenza che ha riflessi variegati: dalla mancanza di un servizio di trasporto pubblico per il CUS, molto difficoltoso da raggiungere soprattutto d’inverno, a insufficienze sul versante comunicativo che limiterebbero la conoscenza degli eventi a quelli di ambito strettamente universitario, trascurando gli altri circuiti cittadini; infine, qualcuno addirittura lamenta atteggiamenti di totale chiusura, che portano – come sottolinea Nicolò, ventunenne bellunese che da un triennio frequenta le aule di Architettura, a considerare “gli studenti che vengono da fuori ‘un cancro’ mentre sono la vera anima di Ferrara”.
Ma il disagio evidentemente è sopportabile perché, pur in questo scenario nebbioso, l’università cresce e nel 2013 ha segnato un incremento di iscrizioni del 4,9%. Più persone che abitano tra le mura estensi, popolano il centro, fanno la spesa nei negozi e nei supermercati, frequentano i bar. “Più persone che – come afferma il ventiduenne veronese Sirio, iscritto a Medicina – si attendono che la città nel week-end offra qualche alternativa al mesto ritorno a casa”.
Per “esplodere” Ferrara dovrà accompagnare la crescita universitaria scrollandosi di dosso il suo strato di polvere. Gli studenti chiamano e attendono risposte, perché a nessuno piace stare in periferia. E tantomeno rimanere dei protagonisti mancati.

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L’uomo dal furgone blu che alimenta il passaparola della solidarietà

di Silvia Poletti

A vederlo si direbbe uno dei tanti furgoni a noleggio che ci sono in circolazione. Ma se ti capita di aggirarlo, invece della scritta “Amico Blu” che ti aspetteresti, ti sorprende un più sobrio e quasi impersonale “Centro di Solidarietà-Carità”. E la cosa curiosa è che una volta che lo hai notato (da quanti anni, magari, senza farci caso?) continui a vederlo sempre, preferibilmente nei tardi pomeriggi della fine del mese, nella canicola come tra i nebbioni.
“Molti ci scambiano per la Caritas – racconta divertito Massimo Travasoni, che del Centro è vice-presidente”, invece anche la Caritas, come un centinaio di altri enti caritativi e di assistenza del nostro territorio, si rivolge a lui per ricevere gli alimenti con cui far funzionare la mensa cittadina e assistere le famiglie.
Questa è una storia che merita di essere raccontata. Uno, perché è quasi sconosciuta ai più. Due, perché ribalta il tradizionale rapporto tra pubblico e privato (ma questo non è così infrequente nel Terzo Settore e si chiama “sussidiarietà”), laddove un’associazione gestita da volontari diventa un soggetto insostituibile, organizzato, capace di offrire servizi anche alla rete territoriale dei servizi sociali.
E tre perché, tra le righe, dimostra che il “come” può essere più importante del “quanto”.
La giornata di Travasoni, di professione bancario, inizia molto presto; se va bene pochi minuti prima dell’apertura della filiale, ma a volte anche alle cinque e mezza di mattina, quando c’è il furgone da caricare per il pomeriggio. Chiuso l’ufficio inizia “il giro”, che si sa quando inizia ma non si sa quando finisce. Via Bologna, Barco, via Oroboni sono i quartieri più battuti; il copione è lo stesso: campanello, consegna del pacco alimentare, due chiacchiere, come va, come stanno i figli, cosa c’è di nuovo. Ma le scene sono tutte diverse: “alcuni ti accolgono in garage, altri non ti fanno entrare in casa per timore che i vicini vedano, ma con altri il rapporto si approfondisce, nascono amicizie che durano anni, si sviluppano reti di aiuto che coinvolgono altre famiglie”.
Un po’ come tornare alle origini, a quel 1997 in cui Travasoni iniziò a seguire una famiglia in difficoltà nel Basso Ferrarese. “A loro ho portato i primi scatoloni di cibo, forniti dal Banco Alimentare di Imola. Poi il passaparola ha fatto il resto e due anni dopo abbiamo fondato, con gli amici di Comunione e Liberazione di Ferrara, il Centro di Solidarietà-Carità. Che, in convenzione con il Banco, distribuiva cibo alle persone in difficoltà e anche agli enti di assistenza, in base al principio dell’aiutare chi aiuta.
E se nel 1999 gli enti erano 30 e le persone raggiunte 3.000, oggi gli enti sono un centinaio e le persone 17mila in totale. Ecco perché l’organizzazione dev’essere ferrea, benché su base completamente volontaria. Nei magazzini – due al Mercato Ortofrutticolo di Ferrara e uno a Comacchio – avviene il confezionamento dei pacchi per le famiglie e la distribuzione agli enti. Il resto si gioca sul rapporto individuale e sull’assunzione di responsabilità: “Al chi ci segnala altre persone in difficoltà chiediamo di farsene carico consegnando loro i pacchi – spiega Travasoni – . Questo ha permesso alla rete di allargarsi, ma sulla base di rapporti di fiducia”. Entrare in casa, scambiare due chiacchiere, chiedere aiuto: sono questi i detonatori più comuni dell’amicizia, e può capitare – e capita – che il cibo diventi anche il pretesto per incontrarsi, per avere qualcosa da aspettare.
“E sai qual è il paradosso? Che entrare così profondamente nella vita delle persone ti dà disagio, perché non puoi rispondere a tutti i bisogni che vedi. Ma allo stesso tempo ti regala una gioia, proprio una letizia… che ti dice per cosa siamo fatti, com’è fatto il cuore dell’uomo. Ci muove l’incontro con il cristianesimo, che ci insegna ad avere lo stesso sguardo di misericordia sull’uomo che ha avuto Cristo. Ci educa, letteralmente, perché ci dà un criterio con cui stare di fronte a tutto”.
Gli alimenti distribuiti dal Centro di solidarietà carità di Ferrara provengono dal Banco alimentare, dalla Comunità europea (tramite il programma Agea, che però terminerà alla fine di quest’anno, sottraendo almeno il 30-40% delle risorse alimentari disponibili), da aziende locali (a Ferrara: Due valli, Mazzoni, Coldiretti, Conserve Italia e alcune aziende agricole) e dalla Colletta alimentare, in programma per sabato 30 novembre in tutti i supermercati di città e provincia.

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Voltini sporchi e bui. E metterci una luce?

Non solo sono sporchi, ma sono anche bui. I voltini del castello sono un passaggio caratteristico nel cuore della città, sormontato dall’antica “via Coperta” che congiunge la fortezza estense con il palazzo Ducale, attuale sede del municipio. E’ l’elemento di cesura e insieme di congiunzione, proprio tramite il varco costituito dai passaggi a volta, fra piazza Savonarola e piazza Castello. Ebbene questo elemento architettonico così rilevante della città storica spicca per trascuratezza. Da sempre, va detto, non da oggi. Sono stati sempre inspiegabilmente lasciati all’incuria, scrostati, ammuffiti, considerati alla stregua del sottoscala di casa, dove si ammonticchiano cose inutili, sormontate da polvere e ragnatele. Addirittura alla notte, complice la totale oscurità in cui versano, si prestano, in funzione di impropri orinatoi, ad alleviare le necessità di ineducati viandanti.
Solo un breve fulgido momento hanno vissuto nella loro storia recente: fu trent’anni fa in occasione della visita di papa Wojtyla. In quell’occasione anche loro, al pari di tutta la città, furono tirati a lucido come mai erano stati. E così, dignitosamente, rimasero sino a quando la pittura prese a scrostarsi e i muri ad ammuffirsi, per tornare ad essere ciò che furono e ciò che attualmente sono. Eppure basterebbe davvero poco per renderli attraenti: un imbianchino e – già che è stata inventata la luce elettrica – magari pure un elettricista: illuminati, la sera donerebbero un tocco di suggestione in più alla piazza e forse dissuaderebbero pure le incursioni degli incontinenti.

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Cattani: “Investire per superare la crisi. Carife? Un fallimento politico”

“Dalla crisi si esce se rilanciamo il volano degli investimenti”. Così Luigi Cattani, una vita nel sindacato, immagina la fine del tunnel che ci attraversa: “La soluzione – spiega – non sta certo in una maggiore flessibilità contrattuale, da 15 anni battiamo questa strada e i risultati… si vedono! C’è a monte certamente un problema di ambiguità del quadro di riferimento, 47 normative che disciplinano il mercato del lavoro dentro le quali ci sta tutto e il suo contrario. Ma un conto è semplificare e razionalizzare, altro è avere mano libera come pretenderebbero gli imprenditori per cancellare ogni forma di regolamentazione e seppellire una volta per tutte i contratti collettivi”.
Gli imprenditori però sostengono che la flessibilità favorirebbe una maggiore fluidità anche in ingresso nel mercato del lavoro…
“E infatti la disoccupazione ha raggiunto punte record, specie quella giovanile! Certo, molta parte di responsabilità va ascritta alla crisi. Ma c’è anche una chiave di interpretazione diversa: nonostante l’introduzione di numerose forme di contratti atipici la realtà documenta un aumento medio dell’orario settimanale di lavoro a 47/48 ore. Il lavoro si concentra sugli occupati. Questo significa che la medicina della flessibilità ha fallito clamorosamente il suo obiettivo”.
Resta il fatto che per investire servono i capitali. E le banche nicchiano.
Qui la situazione è al limite della legalità. Gli istituti ricevono denaro con un tasso di interesse dello 0,25% e prestano normalmente al 7/8%. Quando prestano…”
C’è chi immagina che la soluzione sia uscire dall’Euro così, svalutando, si recupera competitività e al contempo, in un regime di autarchia, ci si affranca dai rigidi vincoli alla spesa imposti dall’Unione europea.
“La storia dell’Euro è il solito modo per non affrontare i problemi: l’Italia deve sì rivendicare una maggiore elasticità nei vincoli di spesa dai quali rischia di rimanere strangolata, ma non risolverà i suoi guai isolandosi. Penso piuttosto che la Banca centrale europea, oltre che stampare moneta per il circuito bancario il quale poi la gestisce con le storture indicate, dovrebbe anche stampare moneta immediatamente trasferibile ai cittadini tramite lo Stato”.
In che maniera?
“Per esempio attraverso forme dirette di sostegno o di finanziamento agevolato a progetti. E un pool di banche, debitamente disciplinate, dovrebbero accantonare la propensione commerciale per recuperare quella di servizio e di supporto all’impresa e ai cittadini”.
Come del resto sarebbe nella natura delle banche popolari e delle casse di risparmio, tipo Carife…
“Già, la Carife però, ormai da decenni, ha smesso di fare ciò che lo statuto le imporrebbe. Ha puntato tutto sulle sulle grandi imprese benevise dal potere politico trascurando le piccole e medie”.
E a proposito di Carife, quali sono le ragioni del tracollo?
“Alla base c’è il fallimento di una strategia sbagliata, quella di puntare sull’industria del mattone, indotta dalle intrusioni di una classe politica miope. I crolli della Coop Costruttori e poi della Cir di Mascellani si sono tirati dietro anche la Cassa di risparmio. Paradossalmente, a doversi fare carico del problema in primis sono i lavoratori, con licenziamenti e riduzione dei salari. E poi ci sono gli azionisti, spesso piccoli risparmiatori che hanno investito parte dei loro risparmi in quote che oggi hanno perso gran parte del loro valore”.

1 – SEGUE

Leggi la seconda parte

Unicità della rosa nella natura morta che passa per Ferrara

Bicchiere con acqua e una rosa su un piattino di metallo. E’ una natura morta dipinta da Francisco de Zurbarán in mostra a Palazzo dei Diamanti, Ferrara, fino al 6 gennaio 2014. Un olio su tela piccolino, prezioso e luminoso, che riallaccia i fili della pittura – e in questo caso, in particolare, della natura morta – in una triangolazione internazionale che vola sopra i confini di spazio e tempo.

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“Bicchiere con acqua” di Zurbaran, 1630

In questa tela di dimensioni minute, come in altre nature morte del “Caravaggio spagnolo” , persino il clamore classico e quello barocco che caratterizzano la sua arte sembrano mettersi un po’ in disparte. La lezione di realtà della pittura caravaggesca, fatta di luci e ombre, diventa strumento per dar voce a un linguaggio moderno. L’opera lascia parlare gli oggetti, tanto più significativi quanto più comuni, veri. Per evidenziare l’attualità di Zurbarán ci vengono in aiuto alcune opere, sempre legate in qualche modo alla città estense. Ecco allora Jean Siméon Chardin, protagonista qualche anno fa di un’altra grande mostra di Palazzo dei Diamanti. Anche in quel caso un autore non particolarmente noto, che anziché rappresentare l’atteggiata aristocrazia della Francia del ’700, si dedica a soggetti un po’ marginali, con scene di vita minore e con quelle nature morte piene di umiltà e sentimento cui deve la fama.

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“Il cestino di fragole selvatiche” di Chardin, 1761

A mettere insieme queste opere e questa poetica artistica arrivate dalla Francia del ’700 e dal Spagna del ’600 dà un contributo decisivo Giorgio Morandi, che dalla confinante Bologna raccoglie l’eredità di questa poetica e la rilancia facendo apprezzare questo genere nel mondo.

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“Vaso di fiori” di Giorgio Morandi, 1950

I quadri morandiani pieni di bottiglie, vasi o paesaggi ci dicono perché quelle nature morte sono ancora attuali. Per farlo basta uno dei vasi con i fiori di Morandi. Zurbarán trasfigura la rosa alludendo alla Madonna, bianca e virginea come il bicchiere, pura come l’acqua, splendente come lo specchio. Morandi, che ama molto l’opera di Zurbarán, quello stesso messaggio raccoglie e riscrive in una chiave laica, novecentesca, usando una gamma ridotta di colori che rende il fiore scabro, intimo, poetico. Una rosa irrinunciabile non più come regina floreale o divina, ma come quella del Piccolo Principe, unica perché annaffiata, protetta e curata da lui: la rosa addomesticata, la rosa del cuore, che ti emoziona perché è proprio quella lì. Staccata dal giardino del re o oltre un umile muro con in cima cocci di bottiglia poco importa, è la sola per noi, ora, davanti al quadro.