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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


cota

Alla faccia!

Cota il governatore leghista del Piemonte sotto inchiesta per gli scandali regionali giorni fa dichiarò che poteva girare a testa alta. Dopo aver letto le cronache di oggi, potremmo aggiungere – passateci l’espressione – anche a culo caldo, visto che con i soldi pubblici si è comperato pure le mutande. Però adesso l’altarino s’è scoperto. E lui è rimasto con quella faccia un po’ così…

Trento

Benessere, Trento vince in Italia ma l’Italia perde in Europa

Secondo la ricerca realizzata ogni fine anno dal Sole 24 Ore sulla qualità della vita nelle province italiane, Trento si aggiudica il primo posto. Non è la prima volta che la provincia autonoma conquista la vetta di questa competizione tutta italiana: già nel 2007 era salita sul gradino più alto. All’ultimo posto della classifica troviamo Napoli, che quest’anno sostituisce Taranto, salita di qualche posizione.
Quello che salta subito all’occhio, a una prima lettura, è la presenza di molte città nel Nord-Est ai primi posti della classifica: l’Emilia-Romagna è presente con Bologna (3° posto), Ravenna (6°), Modena (13°), Reggio Emilia (14°), Forlì-Cesena (15°), Parma (16°), Piacenza (17°); bisogna arrivare al 35° posto per trovare la provincia di Ferrara, che si piazza ultima tra quelle della nostra regione. Significativo tuttavia il suo balzo in avanti dal 49° posto del 2012. La nostra città è tra le prime 10 posizioni per quanto riguarda l’occupazione femminile e la presenza di asili nido. Decima posizione, con 11 imprese che chiudono i battenti ogni 1000 registrate, contro le 43 di Siracusa, e seconda in quella delle estorsioni, 4 ogni 100mila abitanti, contro le 27 di Foggia. Buone performance anche per quel che riguarda la velocità della giustizia e l’ambiente.
Ma come si colloca l’Italia nei confronti con l’estero? Innanzitutto è necessario sottolineare che diversi sono i criteri utilizzati dai vari organismi per misurare benessere e ricchezza, come da diversi anni dimostra la classifica stilata del Sole 24 Ore. Secondo le misurazioni che si basano sul Pil pro capite, cioè la ricchezza prodotta da un Paese diviso il numero dei cittadini, l’Italia è ventisettesima nella classifica mondiale e quindicesima in Europa. Se invece nei parametri introduciamo anche altri valori meno tangibili del reddito, come la salute, l’istruzione, l’ambiente, la famiglia, i risultati cambiano. Gli indicatori di benessere sono ormai numerosi, e capaci di suscitare accesi dibattiti tra specialisti del settore e politici. Secondo uno degli indici più accreditati, il Better Life Index, la nostra Penisola si trova al 20° posto tra i 34 membri dell’OCSE. Ci penalizzano i deludenti risultati nei campi dell’istruzione, dell’ambiente, della soddisfazione per il posto di lavoro.
In questa “guerra di statistiche” la priorità non è incoronare un vincitore, ma scandagliare la realtà e individuare i settori dell’economia e della società nei quali le istituzioni devono intervenire.

Vedi la mappa interattiva sulla qualità della vita in Italia elaborata del Sole 24 ore

calendario

Giorni bui, sui calendari trionfano gli ‘eroi’ dei tempi moderni

L’edicola dei giornali è luogo affascinante, è lì che impari a conoscere i tuoi simili, giornali di destra (tanti), di sinistra (pochissimi), settimanali-bestiario, quelli destinati a un pubblico femminile alla perenne ricerca di un gadget qualunque purché gratis, e, poi, libri, giocattoli, modellini di auto, pupazzetti, penne, matite, block-notes, di tutto vendono oggi i giornalai. Purtroppo anche i calendari. Quando l’anno si avvicina alla sua morte, l’edicola si riempie di ebdomadari di ogni genere, fino a qualche anno fa soprattutto impreziositi da immagini di donne bellissime e semi nude, quando non nude del tutto. Ma da qualche anno le donnine, che un tempo ti venivano regalate dal barbiere in plaquettes luccicanti e profumate di violetta, vanno diminuendo: gli italiani hanno perduto forse la loro caratteristica di guardoni inguaribili? Non è questo il punto, come direbbe il baffetto D’Alema. Il punto è che le immagini stereotipate delle ragazze copertina vengono sostituite da altre icone. Ed eccoli lì, appesi alla parete , in grande evidenza, i simulacri dell’italiano medio di oggi: in ordine, vedo da sinistra a destra l’immancabile calendario di Padre Pio, quindi della Madonna di Medjugorje, entrambi destinati a rendere sana e ricca la famiglia, come scriveva Sandor Marai in un suo bellissimo romanzo, insomma usati per fare i miracoli di cui siamo sempre in credito. Fin qui nulla di strano. Il grottesco viene subito dopo la parata di santi, quando sulla parete compaiono due immagini patinate di Berlusconi, una intitolata Mussolini e una seconda dedicata al Duce. Nudi?, chiedo all’amico giornalaio. No, no, risponde, sono in divisa, cioè in doppiopetto il primo e in orbace il secondo. Da un punto di vista sociale penso subito che questi calendari siano stupidi, non informati e moralmente censurabili. Ma come! Mussolini, oltre ad aver tolto pensiero e parola a chi non faceva il saluto romano, è stato la causa di una tragedia senza pari, milioni di giovani, di donne e di bambini immolati sull’inesistente altare della sua personalissima gloria; gli italiani sono riusciti con coraggio a disfarsi di un borioso cialtrone ed eccolo qui, il dittatore senza scrupoli, ritornare a colori su carta patinata con la mano alzata a salutare i suoi fedeli sudditi, come se nulla fosse stato, come se non ci fossero state le leggi speciali, le leggi razziali, la guerra, l’odio insegnato perfino ai ragazzini a scuola: “Ferrarizzare l’Italia!”, gridavano i fascisti dopo la lunga notte del ‘43, che significava ammazzare tutti gli antifascisti, un ordine preciso che diede luogo a una cruenta guerra civile. E Berlusconi? Beh, qui si cadrebbe nel comico, se il cavaliere in quasi vent’anni non avesse mortificato le coscienze degli italiani e impoverito le loro tasche. Siamo alla frutta, dico al giornalaio, mi dia la Settimana enigmistica.

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Il lavoro secondo l’ineffabile compagno Alfano

Ho un attimo di smarrimento. La noia lineare che accompagna la lettura dell’intervista di ieri resa dal vicepresidente del Consiglio Alfano al quotidiano “La Repubblica” è improvvisamente turbata da un’affermazione che non m’aspetto. Alla domanda “quali sono i vostri punti irrinunciabili?” l’ineffabile Angelino replica inaspettatamente: “La parola chiave sarà lavoro: aumentare il numero degli occupati e dare una speranza ai nostri ragazzi”.
Gulp! Che succede? L’occupazione al primo posto! Alfano come la Cgil?!? Fatta questa premessa, adesso seguirà certamente un attacco frontale alla Merkel e alle dottrine neoliberiste: il classico scavalcamento a sinistra, degno della migliore tradizione democristiana, anche se è persino troppo facile con l’attuale Pd.
Ma poi purtroppo Alfano spiega meglio in cosa consiste la sua idea di centralità del lavoro.
Prima di tutto: “tagli robusti alla spesa pubblica improduttiva”. Vabbé, ci può stare, anche se temo non avremmo le stesse idee nel definire qual è quella improduttiva e rimane piuttosto oscuro come questi tagli possano creare nuova occupazione.
E poi: “riforma elettorale, fine del bicameralismo perfetto”: ok, titoli condivisibili, non facciamo gli schizzinosi, ma che c’entrano col lavoro e l’occupazione?
E ancora: “detassazione per le imprese”. Ecco, questa mi sembra d’averla già sentita. Quando è stata fatta non ha mai prodotto occupazione, ma che ci importa? Intanto detassiamo le imprese con la scusa del lavoro e poi magari per compensare facciamo pagare più tasse ai lavoratori! Semplice e già sperimentato. E’ vero che così l’economia va a rotoli, ma poi possiamo sempre far cassa alzando l’età pensionabile.
E infine, la perla: “determinazione del salario di produttività”. Ma che vuol dire? Il salario di produttività c’è già, fa parte di tutti i contratti nazionali di lavoro, si contratta generalmente in azienda, quando le condizioni economiche della stessa lo consentono. Chi lo deve determinare? Il governo? Ma soprattutto cosa c’entra con l’occupazione?
Letto questo, giro la pagina, anzi chiudo il giornale: è troppo!
E’ vero che ormai in questi anni ci siamo dovuti assuefare al peggio, ma queste fumoserie, queste affermazioni furbette e insensate, questo misto di studiata superficialità e incongruenza resta una delle eredità più devastanti della politica dell’ultimo ventennio.

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Violenza di genere. Non solo ‘bruti’ e non solo ‘fate’

Edoardo Bennato, nel 1977, cantava La Fata. «E forse è per vendetta e forse è per paura o solo per pazzia ma da sempre tu sei quella che paga di più. Se vuoi volare ti tirano giù. E se comincia la caccia alle streghe, la strega sei tu. E insegui sogni da bambina e chiedi amore e sei sincera. Non fai magie, né trucchi, ma nessuno ormai ci crederà. Chi ti urla che sei bella, che sei una fata, sei una stella. Poi ti fa schiava, però no, chiamarlo amore non si può». Sono passati 36 anni eppure, queste parole, sono tutt’oggi di grande attualità. Chi scrive avrebbe voluto leggerle, ieri, al seminario Comunicazione e violenza di genere, organizzato da Comune, Provincia, Centro Donna Giustizia e Udi, alla Sala Musica del Chiostro San Paolo, nell’ambito delle iniziative legate alla Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, ricorsa lo scorso 25 novembre. Ma non c’è stato il tempo, perché gli spunti emersi sono stati davvero tanti e tenere il filo era difficile. Questo a significare che il ragionamento sul tema è talmente complesso e articolato che le angolature dal quale afferrarlo sono molteplici. Giovanna Pezzuoli, autrice del blog del Corriere della Sera La 27esima ora, ha preso le distanze dall’utilizzo del termine ‘vittima’, cui preferirebbe ‘condizione temporanea’ di fragilità’, meno impattante, diciamo così, ai fini dell’elaborazione interiore della riconquista del proprio futuro. Serena Bersani, della rete Giulia (Giornaliste Unite Libere e Autonome), ha rimarcato come ancor oggi si utilizzi il maschile nell’identificazione dei ruoli – il Presidente invece che la Presidente – e come certi titoli di giornali siano profondamente e volutamente equivoci. «Baby Squillo – ha spiegato a mo’ di esempio con riferimento alle tristi vicende romane di prostituzione giovanile – o sono baby o sono squillo». Francesca Barzini, de Il Fatto Quotidiano e già coautrice del programma Rai, Presa Diretta, ha rilevato come ogni passaggio di un dramma andrebbe capito e messo in relazione al precedente. Troppo spesso invece si arriva soltanto alla fine e si parte di lì. «Quello è l’epilogo, prima ci sono stati segnali. Bisogna chiedersi se sono stati individuati». Tutti punti di vista, quelli delle relatrici – legati l’uno all’altro dagli interventi di Paola Castagnotto, responsabile del Centro Donna Giustizia, e introdotti dall’assessore comunale, Deanna Marescotti – che avrebbero meritato un convegno a parte tanto è vasta la materia. Materia che attiene all’educazione, alla socialità, alla cultura. E che subisce gli effetti della crisi economica, laddove la realizzazione personale femminile diventa più difficile e i ruoli, in casa, tornano spesso ad essere ‘impari’. Ma la sintesi, dicevamo, serve. Anche questo è emerso ieri. Come serve una soluzione. Che non può limitarsi al sollievo per la ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione di Istanbul, la cui lettura attenta rivela certamente un impegno, e notevoli passi avanti, ma anche i limiti di una cultura che troppo spesso si ferma agli intenti e al tentativo di dare definizioni, come nel caso della violenza domestica, che finalmente non viene più sminuita. Alla responsabile del Tg di Telestense, la giornalista Dalia Bighinati, che ha moderato il dibattito, va riconosciuto il merito di avere chiesto l’intervento dei colleghi del territorio: tanto dei quotidiani quanto degli uffici stampa. Un aspetto affatto scontato, perché la comunicazione si compie a vari livelli e quel che si legge o si ascolta al tg, è spesso il prodotto finito. Prima, al lavoro, ci sono altre professionalità, altre sensibilità. Come ha ben rimarcato Alessandro Zangara, responsabile dell’Ufficio Stampa del Comune di Ferrara, che ha sottolineato l’impegno suo e delle colleghe nello studio e nella divulgazione di un linguaggio anche di genere. E se l’atmosfera si è animata un po’ quando il collega de Il Resto del Carlino, Daniele Modica, ha rivelato di aver chiesto a un’associazione femminile di poter fare un servizio ‘sul campo’, e di avere ricevuto un rifiuto in quanto uomo, è innegabile che il suo contributo è stato fondamentale per rilevare che una sensibilità maschile c’è. E che non tutti gli uomini sono dei ‘bruti’ – come poi ha confermato Michele Poli, del Centro d’ascolto Uomini Maltrattanti, che ha insistito sulla necessità di sviscerare il punto di vista maschile – come non tutte le donne sono delle ‘fate’. Noi riteniamo, e questo abbiamo detto, che accanto alle vulnerabilità della condizione femminile, vadano evidenziati i punti di forza, che ci sono. Che lottare è giusto e doveroso, ma non solo per contrastare una cultura che permette a un uomo di perseguitarci o alzare le mani contro di noi perché incapace di accettare un rifiuto o un abbandono. Ma per affermare la nostra identità, le nostre prerogative. C’è una generazione, quella delle quarantenni di oggi, cui la sottoscritta appartiene, che gli strumenti per raggiungere una certa consapevolezza li ha avuti. Non tutti nella stessa misura, ci mancherebbe, ma in buona parte. Certo non generalizziamo. Poi c’è la generazione precedente, che ha dovuto conquistare ogni spazio, ogni diritto. Ma il vero problema sono le giovani e i giovani di oggi, depauperati o privati di valori cui aggrapparsi. Che spesso dimostrano di non capire o di non sapere che il corpo è quanto di più sacro abbiamo e se non impariamo a rispettarlo, non sapremo mai né rispettare gli altri né noi stessi. O noi stesse. Ecco perché in una società che ancora troppo spesso ammanta di romanticismo delitti efferati, che definisce ‘raptus’ un’azione premeditata, che giustifica con la locuzione ‘lato oscuro’ la convinzione di essere impuniti e impunibili, la sensibilizzazione va fatta a più livelli, a cominciare dalla scuola, la prima agenzia formativa. A noi l’argomento ha appassionato e ringraziamo gli organizzatori per l’invito. Sarebbe bello continuare su questa strada, quella del confronto tra i media e le istituzioni. Intanto per questa settimana, FerraraItalia ha deciso di accogliere gli interventi di chi vorrà dire la sua sull’argomento. Un argomento su cui, Bennato ci insegna, le cose da dire non si esauriscono mai.
Per inviare, è andare nella sezione “contatti”.

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“Museo di Spina e Pinacoteca esempi virtuosi per uscire dalle secche”

Il potere taumaturgico della bellezza riesce a superare anche le secche in cui s’è incagliato il sistema Italia nella sua affannosa ricerca di darsi un volto politico possibilmente senza le rughe del passato ma anche con una parvenza di eticità che sembra scontrarsi, anche nei migliori, con il sistema politico stesso. Così mentre si leggono notizie che potrebbero solo renderci orgogliosi (vedi il reportage di Francesco Erbani su “Repubblica” di qualche giorno fa) quali quelle che riferisce che in Italia vi sono più di cinquemila luoghi museali, rispetto ai quasi millecinquecento che può vantare la Francia, seconda in questa classifica mondiale, luoghi dislocati nelle città di provincia piccole o medie che non riescono a gestire questo patrimonio per mancanza di personale o di una decente catalogazione. L’aiuto potrebbe venire dalle benemerite associazioni che, come accade in città “oberate” dal peso di una immensa offerta museale quali Venezia, Firenze o Roma, affidano l’apertura dei musei minori ad associazioni quali gli Amici dei Musei che però sono presenti solo in 261 realtà. Qual è l’origine prima di questa difficoltà? Probabilmente la resistenza che i lavoratori addetti a questa bisogna oppongono a una prestazione del tutto gratuita, spalleggiati in questo diritto dai sindacati. Non è che una delle tante difficoltà burocratiche che impediscono ai musei di aprire con regolarità. Un’altra causa che Salvatore Settis commenta nel suo articolo apparso su “Repubblica del 1 dicembre (“Ai cittadini spetta la sovranità sui nostri territori”) è l’uso commerciale che a siti naturali, musei, luoghi d’arte vengono affidati come set di ambientazione di qualche prodotto: dal prosciutto toscano appeso alle spalle del David di Michelangelo per reclamizzare il prodotto (“Perfetto equilibrio del gusto”) alle modelle occhieggianti tra i gessi canoviani della gipsoteca di Possagno a una celebre fattoria della Val d’Orcia location per la più famosa marca di pasta e biscotti. Oppure allo sfruttamento del celebre Corridoio vasariano che unisce con una via aerea Palazzo Vecchio a Firenze fino a Palazzo Pitti affidato a una impresa privata che richiede “solo” 16 euro per percorrerlo nonostante che i lavoratori dei musei fiorentini fossero disponibili a tenerlo aperto gratuitamente. Settis, approvando la decisione del ministro Bray che attesta come i lavoratori della Soprintendenza fiorentina sono “impegnati nella difesa della Costituzione” conclude che “su paesaggi e opere d’arte non ci sono copyright. Che i sovrani sono i cittadini”. La situazione ferrarese non è tanto diversa. I piccoli musei sono praticamente chiusi perché non sufficientemente tutelati data la crisi economica, la disponibilità di monumenti famosi quali il Castello a ospitare eventi di natura commerciale resta modesta e comunque non sempre all’altezza con un luogo così famoso come il palazzo degli Este. Solo poche realtà locali sono riuscite a vincere la sfida con la crisi e il terremoto attraverso un’intelligente amministrazione. Il Museo Archeologico di Spina che rimane un esempio brillantissimo delle possibilità di rendere stimolante l’offerta museale con una serie di manifestazioni calibrate che esulano dalla sola esposizione di reperti che, pur di fondamentale importanza nel panorama mondiale, non riescono da soli ad attirare un pubblico “motivato” o la Pinacoteca Nazionale del Palazzo dei Diamanti. Entrambe le istituzioni sanno offrire a gran parte dei cittadini o dei visitatori stimolanti proposte programmando manifestazioni che pur rimanendo nell’ambito di un’offerta culturale alta sanno coniugare il primo compito del museo (casa di tutti i cittadini “ che ne sono sovrani” secondo Settis) che è quello di esporre i reperti della nostra storia e della nostra civiltà con altre scelte quasi sempre azzeccate. Ad esempio quelle che ho potuto sperimentare tra ieri e oggi: l’inaugurazione dell’anno sociale degli Amici dei Musei con una conferenza lezione su Verdi e la poesia tenuta da un giovane studioso ferrarese Michele Borsatti che ha incantato il folto pubblico. Di seguito ha proposto un concerto di memories tra Beatles e pezzi classici interpretati da un giovanissimo pianista quindicenne di grande bravura per i bambini in emergenza. O domenica l’esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi con l’Ensemble Barocco del Conservatorio ferrarese, altra straordinaria realtà culturale della città, e con due stupefacenti e giovanissimi cantanti. Allora sì che, riprendendo l’inizio di questa riflessione, il potere taumaturgico della bellezza riesce a superare anche le secche in cui s’è incagliato il sistema Italia. Si pensi anche all’attività della Pinacoteca sempre pronta a spalancare le porte del meraviglioso salone d’onore di Palazzo dei Diamanti a iniziative nobili e raffinate come sarà il 4 dicembre la presentazione del libro brillantissimo di un grande studioso dal nome celebre, Masolino d’Amico, che scrive un divertissement sul più grande “sarto” del paesaggio inglese così come ora lo conosciamo: Lancelot “Capability” Brown che cucì, secondo il modello del cosiddetto giardino inglese, le bellezze della campagna e dei suoi meravigliosi siti. Capisco che l’amministrazione comunale e provinciale deve fare di necessità virtù, capisco anche che il pubblico dei visitatori e cittadino preferisca il festival dei Buskers o quello dei Baloons a una più difficile scelta di cultura falsamente bollata come elitaria in quanto non promuove il turismo o solo un certo tipo di turismo. Capisco anche che le mostre di Ferrara arte o l’attività del Teatro comunale siano di vitale importanza per l’immagine della città. Meno capisco l’ossessione di ricavare comunque un reddito dall’evento. E primo fra tutti la scelta dell’incendio del Castello che mette a repentaglio diversi monumenti della città, che evoca nella sua fase più intensa un mondo di fuoco e fiamme, una Gehenna di cui non capisco il valore ma capisco la simbologia: fuoco, fiamme e boati. Ma alle scelte condivise da tanti non si può che opporre un educato dissenso. Spiace comunque che chi non è in riga con queste scelte e con queste soluzioni sia solo riservato il ruolo di noioso e “vecchio” intellettuale. A una domanda rivolta per interposta persona al guru di Renzi, il celebre Gori, se sembrava corretta la scelta commerciale fatta dal sindaco fiorentino delle bellezze artistiche della città la risposta è stata un secco “La cultura non deve essere elitaria”. Alla grazia!

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Lo “scandalo” dopo la tragedia: solite domande, solita retorica

Puntuale, dopo la tragedia, viene a galla lo scandalo! A Prato, dietro ai morti, si scopre un distretto intero (una grande area pubblica della città di lavoro e vita sociale…) cresciuta all’insegna dell’illegalità e dello schiavismo. E puntuali si ripropongono le ‘domande-accuse’: dov’erano in questi anni lo Stato di Diritto, la Regione Toscana, il Comune, la politica, la sinistra, il Pd, i sindacati, l’informazione? Diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein: “Ecco la roccia contro cui si piega la vanga!” La roccia è questa realtà di fatti durissimi; la vanga sono le ‘chiacchiere’ di una politica retorica, demagogica, parolaia, inconcludente, impotente. Al toscano Renzi e agli altri candidati delle primarie va chiesto: cosa fareste per bonificare questa piaga immonda dello schiavismo del lavoro e dell’illegalità?

Simone Merli

Merli apre alla città: “Nelle liste del Pd vorrei anche gli indipendenti”

“Considerate le drammatiche difficoltà del momento che riguardano chiunque, con gente che perde il lavoro e altra che fatica a trovarlo, problemi per le famiglie da tutti i punti di vista, tagli ai Comuni, mi sembra che la giunta stia facendo bene la sua parte”. Così Simone Merli, segretario cittadino del Pd, respinge le critiche di chi imputa all’Amministrazione comunale un basso profilo. “L’accusa, per tradurla nel gergo calcistico, è che manca lo spunto del numero 10? Beh io dico che oggi il numero 10 è quello che risolve i problemi e credo che Tagliani e la giunta siano riusciti a risolverne buona parte. Per completare l’opera servono altri cinque anni di lavoro, durante i quali magari mettere assieme anche qualche idea che possa essere di slancio. Però questa è una responsabilità che deve essere della città nel suo insieme a cominciare dall’Università”.
C’è un dialogo aperto?
“Pensiamo al teatro Verdi o al progetto Grisù: con il coinvolgimento di professionisti ed esperti sono state fatte cose significative. Però il rapporto deve intensificarsi, divenire prassi. Tutto coloro che vogliono bene a questa città ci mettano competenza e passione, non lascino la giunta da sola ma si rimbocchino le maniche, dicano quello che pensano e diano una mano”.
Quali i fiori all’occhiello di questo primo mandato?
“Essere riusciti a mantenere un livello culturale elevato in queste condizioni è stato importante: significa credere a un investimento che ha dato ricchezza e prestigio alla città. La seconda cosa è la riduzione del debito, troppo spesso considerato un tecnicismo. Invece è la condizione per fare nuove operazione e non lasciare a chi verrà dopo di noi altre passivi da dover sanare. Inoltre si è riusciti a mantenere la capacità di intervento nei servizi sociali, nella scuola e nel comparto dei lavori pubblici”.
Qualche esempio?
“Internazionale, i già citati teatro Verdi e Grisù. Per quanto riguarda servizi sociali e scuola e più difficile indicare cose concrete, perché a qualificarli è il silenzioso ma prezioso lavorio quotidiano degli operatori e delle strutture. Nella scuola però c’è stata finalmente l’apertura del nuovo asilo di via del Salice…”
E cosa invece si attendeva e non è stato fatto?
“Probabilmente ci dovremo impegnare di più per rendere questa città maggiormente attrattiva dal punto di vista imprenditoriale, per creare nuovi posti di lavoro. Avevamo approvato una delibera che introduceva una riduzione dell’Imu per le nuove imprese e per quelle che avessero rilevato aziende fallite, ma il governo Monti ce l’ha bocciata considerando l’intervento al di fuori delle nostre competenze legislative”.
Colgo un pieno allineamento sull’azione della Giunta. Nessuna riserva, nessun distinguo?
“Capisco che può sembrare un atteggiamento tattico o diplomatico, ma la verità è che le decisioni sono precedute da un approfondito confronto, quindi se ci sono elementi controversi vengono affrontati e risolti prima. Non è che un partito debba per forza pubblicamente dissentire per marcare la propria presenza”.
E alla critica del professor Venturi che sostanzialmente imputa alla Giunta di non dispiegare una vera politica della cultura e la sferza a pensare in grande cosa risponde?
“Al mio amico Gianni Venturi dico che è legittima la sua opinione e fa bene a venire allo scoperto per stimolare il confronto, utile a capire se si può fare di più e meglio. Vorremmo riuscire a mettere attorno a un tavolo coloro che hanno idee e proposte da discutere. Con Ferrara 2020 come partito lo stiamo già facendo da un anno e mezzo, ragionando ogni settimana attorno ai vari ambiti della vita cittadina anche con i non iscritti per trovare idee e soluzioni”.
In primavera si vota. Scontata la rielezione di Tagliani?
“Ho imparato che in politica non c’è nulla di scontato. Alla fine della conta se avremo un voto più degli altri avremo vinto! Guai alle sottovalutazioni. Oltretutto il clima sociale è pesante. Però conosciamo a fondo la città e abbiamo le capacità per affrontare i suoi problemi e rispondere alle sue esigenze”.
L’impressione è che l’opposizione, abbastanza lacerata, vi stia dando una mano…
Vero, ma sono anche convinto che l’opposizione fatichi a non condividere l’azione che viene svolta…”.
Siete troppo bravi?
“Diciamo che le cose che si fanno sono sensate e persone responsabili non possono non tenerne conto”.
In tema di alleanze, rispetto a Sel si coglie un atteggiamento ambivalente.
“Con Sel il dialogo è positivo e lo immaginiamo come nostro alleato nel governo della città perché interpreta in modo moderno il proprio patrimonio ideale. Nelle altre espressioni della sinistra vedo un mondo politico superato, c’è rispetto ma non sussistono i presupposti per lavorare insieme”.
La squadra di giunta va bene così o deve essere corretta?
“Ci penserà il sindaco. I partiti è giusto che facciano le loro valutazioni ma la scelta finale spetta a lui. Tagliani ha la capacità di leggere e interpretare quali sono i bisogni: di conseguenza deciderà se serve il contributo di nuove figure o se qualcuno andrà avvicendato”.
A proposito del sindaco, vi ha infastidito quella sua esternazione dei mesi scorsi quando dichiarò che i candidati si sarebbero presentati con la sua maglia? O era concordata?
“La lista del sindaco non ci sarà. Comunque no, l’uscita non era concordata, ma neppure ci ha infastidito. Anzi, io stesso avevo detto qualcosa di analogo in quel periodo. Noi immaginiamo una coalizione fatta da Pd e Sel con l’apporto di espressioni di un mondo civico fatto da saperi, professioni, nuove competenze. Chi ha voglia di mettersi a disposizione della giunta e della città deve trovare spazio. Lo stesso penso per il Pd, dobbiamo dare spazio, anche in lista, agli indipendenti, sto già incontrando figure rappresentative alle quali chiedo la disponibilità di lavorare insieme senza dover aderire organicamente”.
Allargando lo sguardo al quadro nazionale in vista dell’elezione del vostro nuovo segretario, a lei non si può dire d’essere saltato sul carro del (presunto) vincitore, ci si era accomodato già al principio della corsa.
Spalanca le braccia. “Vero, però penso che al di là di qualche opportunismo tanti si siano ricreduti sinceramente su Renzi e credo che lo stesso Renzi in quest’ultimo anno sia cresciuto e maturato politicamente. Personalmente gli avevo suggerito di fare attenzione alle ambiguità dell’idea di rottamazione e al rischio che assumesse un connotato solamente anagrafico. Bisogna guardare ciò che la gente ha fatto, non l’età. Ci sono persone che hanno dato a questo Paese e a questo partito la vita senza chiedere nulla, senza mai avere un incarico. Per fare un esempio di casa nostra, crediamo che di uomini come Giancarlo Ziotti e Luciano Bratti non ci sia più bisogno? Io dico che meritano ogni giorno il nostro grazie”.
Infine un giudizio sul governo Letta. Si sente rappresentato?
“All’epoca dell’insediamento accolsi l’idea delle larghe intese, ma limitata a due obiettivi: interventi decisi immediata per contrastare l’emergenza economica e una nuova legge elettorale per tornare a votare in condizioni diverse. Non sono state fatti né gli uni né l’altra e non credo verranno fatti. E’ un governo nel quale non mi riconosco. Non ho costruito il Pd per arrivare alle larghe intese. Il nuovo centrodestra mi pare prigioniero di vecchie logiche e vecchie sudditanze, d’altronde vent’anni con Berlusconi non te li scrolli di dosso dalla sera alla mattina. Fra loro e noi c’è una differenza fondamentale. Loro hanno un padrone, noi no. E non è poco”.

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Il narratore-pizzaiolo finalista al Premio Strega: “Racconto la vita di paese”

Jeans, felpa con cappuccio, un piercing al sopracciglio sinistro e se gli chiedeste qual è il suo vero mestiere risponderebbe senza pensarci un attimo: “Il pizzaiolo”. E’ lo scrittore Cristiano Cavina, made in Casola Valsenio, classe 1974, incontrato alla presentazione del suo ultimo lavoro: Inutile Tentare Imprigionare Sogni (acronimo di I.T.I.S), uscito recentemente per Marcos Y Marcos. “Non mi piace dire d’essere uno scrittore, un po’ m’imbarazza. In paese sono semplicemente Cristiano, il pizzaiolo” – racconta con assoluta limpidezza e senz’ombra di falsa modestia Cavina, sette libri nel proprio carnet, finalista Premio Strega 2009 con I frutti dimenticati, Premio Castiglioncello e città di Vigevano 2007, e Premi Tondelli e Fenice Europa 2006. Si definisce un narratore, piuttosto: “Le mie storie sono legate al racconto orale: quanto ero bambino i miei nonni litigavano in continuazione ed erano i fatti del passato ad essere rivangati; lo stesso vale per i racconti epici che potevo ascoltare al bar di paese, tra una partita a carte e l’altra. Quelle per me sono Le storie. Per questo mi sento un narratore: metto la mia vita a disposizione dei miei libri”.

Cresciuto insieme alla madre e ai nonni in una colorita vita di paese, Cristiano Cavina proprio non amava andare a scuola ed è di questa spinosa vicenda che racconta nel suo Inutile Tentare Imprigionare Sogni, affidando al giovane Baldo Creonti, il protagonista, una sentitissima verità: “Per certe cose bisogna nascerci. Io non c’ero nato”. Ironico e profondo al tempo stesso, il libro consente al lettore di fare un salto tra i banchi di scuola, quelli dell’I.T.I.S Alberghetti di Imola, e di calarsi nei panni (e nei piccoli e grandi drammi) di un sedicenne che quella scuola proprio non la voleva frequentare. La figura centrale di una madre premurosa ed attenta, i fedeli ritratti dei compagni di scuola, di un primo non corrisposto amore e le caricature di bidelli e professori, a rendere queste pagine tenere e credibili. “Ho sempre saputo che un giorno avrei raccontato di quegli anni e del mio rapporto con la scuola. Volevo celebrare quel periodo della mia vita, dire ai miei ex compagni quanto è stato bello viverlo con loro” – aggiunge spontaneamente Cristiano Cavina. Una spontaneità che mette anche quando racconta dei curiosi episodi in cui, ad esempio, a causa dei suoi jeans e di una storica felpa dei Pearl Jam, una Serena Dandini impegnata ad intervistare i dieci finalisti del Premio Strega 2009 lo scambia per un fonico audio; o della reazione che professori e presidi hanno quando lo scrittore fa visita agli studenti nelle scuole: “Non è il genere di intellettuale che ci aspettavamo” – il commento che arriva puntualmente. E proprio perché impastato della stessa semplicità, è impossibile per il lettore non immaginare in Baldo Creonti, aspirante genio del crimine specializzato in Piani B, un alter ego di Cristiano Cavina che conclude confessando: “I fuori tema e i piani B mi hanno salvato la vita. Uscendo dal seminato, con i miei 9 in italiano fatti di temi creativamente reinterpretati, ho scoperto che da grande volevo scrivere”.

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Un’altra Irlanda (senza i negozietti di souvenir)

DUBLINO – Atterri a Dublino in un piovoso, surprise surprise, pomeriggio di dicembre. Alberi di natale e jingle bells. Esci dal megascalo e trovi ad aspettarti il pullmino verde del “Paddy tour” con l’immancabile lepricorno stampato sul fianco. Emozioni garantite: cliff of moher, hill of Tara, greggi di pecore, suonatori di violini e spettacolino fuori programma di Irish dance. Irish coffee e Standing ovation finale. Tutto molto bello ma anche tutto già immaginato. Torni a casa con un maglione di Aran ed un berretto in tweed. Una miriade di Like, sorrisi e commenti sui social networks. Foto ricordo e souvenirs. Di certo abbastanza global.
Ma c’è un altra Irlanda che incomincia sul “rapido” che da Huston Station ti porta a sud, nella regione del Munster, nella città di Cork. Terribilmente local. Te ne accorgi appena scendi a Kent Station, manca il negozietto dei souvenir e niente farmacia. Do not panick, in compenso troverai il primo pub non appena fuori dalla stazione. L’anonimato di Dublino lascia spazio a ritmi di paese, sei finalmente in Irlanda. Ai locali piace chiamarla anche The real capital, sia per la rivalità con Dublino che per essere stato un centro anti-trattato, l’accordo con il quale l’Inghilterra nel 1921 dava di fatto l’indipendenza all’Irlanda ma manteneva possesso dell’Ulster. Michael Collins, figliol prodigo; pagherà con la vita la firma del trattato proprio nelle campagne di Cork, assassinato in un imboscata l’anno successivo nei pressi di Bandon.
Cork, The rebel city, per la sua convivenza, storicamente mai pacifica con I sudditi di sua maestà è un importante ex polo commerciale, industriale e manifatturiero. l’economia si risolleva durante gli anni ruggenti della Celtic tiger. Call center ed aziende americane spuntano con i funghi. Il mistero della trinità viene momentaneamente sostituito da quello della triangolazione fiscale. Le periferie crescono a dismisura inglobando i villaggi limitrofi. Per rifare il centro il comune si rivolge ad archistar. Molta voglia di global. Ma nonostante tutto irrimediabilmente local. Nella Rebel City esci e ti sembra di fare una vasca in piazza. Stessi ritmi. In mezz’ora hai fatto il giro del centro e non sai più dove andare. Per fortuna c’è sempre un pub dietro l’angolo. Non ci sono zone franche per I turisti, la polvere non e nascosta sotto il tappetto. E forse proprio questo e’ il suo bello.

Il centro cittadino si sviluppa alla fine di un fiordo, secondo porto naturale più esteso al mondo dopo quello di Sidney, attorno ai due maggiori rami del fiume Lee che subito prima di aprirsi la corsa verso il mare si dirama in svariati corsi d’acqua, molti dei quali oggi ricoperti da strade e viali. Passeggi e incontri sempre il fiume. La campagna e il mare sono ancora lontani ma sulle sponde un innumerevole numero di gabbiani, aironi, altri pennuti che la mia ignoranza in ornitologia mi impedisce di identificare. Forse cormorani. Con un po’ di fortuna potresti vedere la foca che abita il fiume (qui aggiungo prova fotografica in quanto non pochi si chiederanno quante pints ho bevuto prima di avere avuto visione di suddetto mammifero…).

irlanda cormorano
Una foca nel fiume Lee

Continui a camminare per il centro, verso il mare non perdi mai di vista i resti imponenti del vecchio porto, ai lati le zone collinari dei quartieri popolari e della nobiltà che fu. La parte nord, “the north side”, è sicuramente la più interessante con le aree signorili di Sunday’s well e St. Lukes, quartieri residenziali caratterizzati da enormi palazzi dell’800 e di inizio ’900 dove spesso il cocciuto proprietario si ostina ancora a voler abitare, resistendo alla tentazione di trasferirsi nell’anonima periferia. Evitando di conseguenza di trasformare “the family mansion” in un alveare di insalubri monolocali per diseredati come già avvenuto in molte altre aree della città. Questione di tempo. Nel mezzo le aree popolari di Shandon e Blackpool. Cottage con il muschio sui tetti e negozietti improponibili inglobati dalla città. In cinque minuti passi dai campi da cricket e giardini botanici del Mardike ai compro tutto / svendo tutto di Shandon street. Signore distinte a passeggio col cagnolino e personaggi – molto poco rassicuranti – in tuta e catene d’oro al collo. Tutto nello stesso luogo, spazio condiviso di una città che appartiene ancora ai suoi abitanti.

Torni verso il centro ed e d’obbligo un passaggio all’Englih Market, il mercato coperto. Generazioni di macellai, garzoni, banchi del pesce, fruttivendoli. Urla, frenesia, who’s next? how can I help you sir? A volte non devi comperare nulla ma ci passi lo stesso, tanto per guardare. Un vero gioiello e ti chiedi come e possibile che non si riesca a rilanciare anche quello di Ferrara. Ma ancora niente sciccherie o trappoloni per turisti. Everybody’s welcome, certo. Ma il mercato e lì per gli abitanti di Cork. semplicemente per fare la spesa.
Vicoli e buskers agli angoli delle strade. Giorno e notte. Tempo permettendo. Di norma studenti, chitarra, buona voce e buon repertorio. Tutto normale. fenomeni accreditati se ne vedono pochi, saranno tutti in giro per festival internazionali. Una città generosa, che in passato e riuscita ad inglobare vichinghi danesi, ugonotti in fuga da Parigi, ebrei in cerca di fortuna dalla Lituania e che oggi accoglie migliaia di giovani e non da tutto il mondo, Europa, Asia, Africa, America. Forse per la sua natura di città di mare, dove per le vie del centro e normale sentire parlare italiano, francese, spagnolo, lingue slave ed accenti est europei.
Cala la sera e le strade si svuotano. Se ne vanno a casa anche gli strilloni dell’eveningh echo (il giornale cittadino). Cork ama i suoi strilloni, al punto da erigergli una piccola statua nel viale principale, St.Patrick street.

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Il monumento allo strillone

Qualche ora di calma. E riparte la baraonda. Per stomaci forti. I pub si riempiono, alcuni dei quali decisamente meravigliosi. I più belli forse Sin E, Mutton Lane, The Oval. Ma qui francamente c’è l’imbarazzo della scelta. Concerti dal vivo e socialità. Chiacchiere con perfetti sconosciuti fino a notte fonda. E una birra rimane una birra. Ogni volta che provi a chiedergli un glass (la nostra “piccola”) il barista si farà ripetere la richiesta, penserà che forse sei malato (a glass? what wrong with you boy?) o di avere capito male e ti servira lo stesso una pint. Che di norma diviene la prima di una serie, nonostante le buone intenzioni. Il menu è inesistente, probabilmente nascosto da qualche parte c’è un listino prezzi ma personalmente non sono mai riuscito a vederlo.

Non di rado si assiste a scazzottate memorabili. Meglio ricordarsi che si è in Irlanda e mantenere un certo low profile è d’obbligo, tarallucci e vino non sono inclusi nei menù a queste latitudini.
Arrivano le 2 di notte e si chiude bottega. Tutti si riversano in strada, tutti alla stessa ora. File davanti alle friggitorie, pandemonio, scene surreali che cercherai per anni di dimenticare. Invano. lotta per trovare un taxi che ti porti a casa.
La mattina il sole (pioggia permettendo) si leva su Cork. Esci ed in giro non c’è quasi nessuno. Un ultimo ubriaco sta ancora cercando di trascinarsi a casa dopo una notte passata chissà dove. Tra qualche ora ricomincerà il tram tram frenetico di una città che appartiene ancora ai suoi abitanti.

taverna

Linguaggio da Taverna, “meglio chiudere il Senato”

Gli onorevoli Gasparri e Gelmini sono concordi: il fatto che in Senato ci sia una persona come la capogruppo 5 stelle Paola Taverna è un motivo in più per abolire quel ramo del Parlamento. Che ha combinato la senatrice Taverna per fare infuriare i suoi colleghi di Forza Italia? In un comizio di paese ha affermato che è tentata dallo sputazzare Berlusconi. Dissentire dal colorito lessico della Taverna è certamente legittimo.
In Senato e alla Camera in questi anni sono circolati cappi e mortadelle e si sono inscenati atteggiamenti tali far arrossire i padri costituenti e tutti coloro che ancora credono nella dignità delle istituzioni. Ma se questo capita la responsabilità è degli individui. Quando in casa c’è sporco si fa pulizia, non si bombarda la casa per eliminarlo.
D’altra parte l’idea di chiudere un’assemblea democratica perché al suo interno si esprimono opinioni non gradite non è neppure una trovata originale. Qualcuno già ci aveva pensato e lo aveva fatto nel ’25 e il ventennio che ne è seguito non è stato per l’Italia un fulgido esempio di democrazia e libero confronto.

studenti unife

Ferrara vista dai “fuori sede”, una rassicurante bomba inesplosa

di Alessandro Oliva

Rassicurante, tranquilla, a misura d’uomo. Ma anche una bomba inesplosa o “una periferia”, cioè un luogo distante dal palpitare della vita. Ferrara, vista con gli occhi di chi studia qui, appare così, nella sua ambivalente dimensione. Sede universitaria sin dal 1391, da una quindicina d’anni si è consolidata nell’immaginario collettivo come una “città per studenti”, evidentemente attratti da un ateneo che attualmente offre ben 50 corsi di laurea. Gli iscritti si attestano, secondo dati recenti, a 17.961, il 37% dei quali rientra nella categoria dei fuori sede. Ma chi sono i “fuori sede”? Ragazzi e ragazze provenienti da altre località che risiedono più o meno stabilmente a Ferrara per motivi di studio e popolano gli appartamenti del centro storico, riempiono i bar e le biblioteche, si radunano sotto il duomo il mercoledì sera e affollano via San Romano e le enoteche di Carlo Mayr. Sono il cuore giovane della città, una spinta continua alla sua vitalità, uno spunto per rinnovarsi e modificarsi. I fuori sede sì studiano, ma soprattutto vivono Ferrara e vivacizzano la città. E’ una presenza per nulla scontata, corpi che si muovono e occhi originali che osservano.

Forse per questo loro essere fuori contesto, le impressioni che esprimono sul luogo in cui si trovano sono meno banali di quanto ci si potrebbe aspettare. E, pur nella pluralità delle voci, emergono alcuni punti di accordo.
Unanime è, per esempio, il gradimento circa l’ottimo livello di vivibilità di Ferrara, una città “tranquilla e a misura d’uomo”, come dichiara Andrea (21 anni, Medicina, di Belluno, qui da tre anni). Una qualità fondamentale che garantisce, aggiunge Zeno, (22 anni, da due in città per frequentare Medicina), la possibilità di “muoversi agevolmente” e il fatto che ci siano “strutture, dedicate a studenti e giovani in generale, abbastanza centrali e quindi facilmente raggiungibili”.

Ma la realtà è più sfaccettata e mostra anche risvolti un po’ meno positivi. La pur accogliente e paciosa Ferrara non brilla certo per senso dell’accoglienza stando ai racconti degli studenti, specie quelli provenienti dalle regioni più lontane, che da noi trovano accoglienza e integrazione quasi esclusivamente all’interno dell’ambito universitario. Restano, per questo, studenti senza sentirsi pienamente cittadini. La città, anziché essere il primo motore di inclusione e coinvolgimento, delega questo ruolo all’università, al di fuori della quale ci si sente distanti, ai margini di qualcosa di cui si vorrebbe far invece pienamente parte. Per questo Carmelo, catanese iscritto a Biologia, 23 anni dei quali gli ultimi tre trascorsi qui, definisce Ferrara come “una bomba che ha fatto cilecca”; per questo Sara (21 anni, Scienze della Comunicazione, di Lecce, qui da tre anni) dichiara che “in realtà vivere a Ferrara da studentessa fuori sede è un po’ come vivere ai margini di una città, in periferia”. Parole forti, che portano a galla quella che se non è una colpa è sicuramente una mancanza, un’ambivalenza che però ipoteca una possibile evoluzione.
Indubbiamente lo studente fuori sede si trova a Ferrara per studiare. Questo è il suo scopo primario e l’indirizzo del suo presente, che si incarna fisicamente nell’università, perno comune su cui si fondano legami, amicizie e giornate. Però è inevitabile uscire fuori dal guscio, varcare il microcosmo universitario. Nello spazio condiviso della città molti fra gli intervistati dichiarano di sentirsi se non propriamente esclusi quantomeno trascurati. E’ una carenza che ha riflessi variegati: dalla mancanza di un servizio di trasporto pubblico per il CUS, molto difficoltoso da raggiungere soprattutto d’inverno, a insufficienze sul versante comunicativo che limiterebbero la conoscenza degli eventi a quelli di ambito strettamente universitario, trascurando gli altri circuiti cittadini; infine, qualcuno addirittura lamenta atteggiamenti di totale chiusura, che portano – come sottolinea Nicolò, ventunenne bellunese che da un triennio frequenta le aule di Architettura, a considerare “gli studenti che vengono da fuori ‘un cancro’ mentre sono la vera anima di Ferrara”.
Ma il disagio evidentemente è sopportabile perché, pur in questo scenario nebbioso, l’università cresce e nel 2013 ha segnato un incremento di iscrizioni del 4,9%. Più persone che abitano tra le mura estensi, popolano il centro, fanno la spesa nei negozi e nei supermercati, frequentano i bar. “Più persone che – come afferma il ventiduenne veronese Sirio, iscritto a Medicina – si attendono che la città nel week-end offra qualche alternativa al mesto ritorno a casa”.
Per “esplodere” Ferrara dovrà accompagnare la crescita universitaria scrollandosi di dosso il suo strato di polvere. Gli studenti chiamano e attendono risposte, perché a nessuno piace stare in periferia. E tantomeno rimanere dei protagonisti mancati.

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L’uomo dal furgone blu che alimenta il passaparola della solidarietà

di Silvia Poletti

A vederlo si direbbe uno dei tanti furgoni a noleggio che ci sono in circolazione. Ma se ti capita di aggirarlo, invece della scritta “Amico Blu” che ti aspetteresti, ti sorprende un più sobrio e quasi impersonale “Centro di Solidarietà-Carità”. E la cosa curiosa è che una volta che lo hai notato (da quanti anni, magari, senza farci caso?) continui a vederlo sempre, preferibilmente nei tardi pomeriggi della fine del mese, nella canicola come tra i nebbioni.
“Molti ci scambiano per la Caritas – racconta divertito Massimo Travasoni, che del Centro è vice-presidente”, invece anche la Caritas, come un centinaio di altri enti caritativi e di assistenza del nostro territorio, si rivolge a lui per ricevere gli alimenti con cui far funzionare la mensa cittadina e assistere le famiglie.
Questa è una storia che merita di essere raccontata. Uno, perché è quasi sconosciuta ai più. Due, perché ribalta il tradizionale rapporto tra pubblico e privato (ma questo non è così infrequente nel Terzo Settore e si chiama “sussidiarietà”), laddove un’associazione gestita da volontari diventa un soggetto insostituibile, organizzato, capace di offrire servizi anche alla rete territoriale dei servizi sociali.
E tre perché, tra le righe, dimostra che il “come” può essere più importante del “quanto”.
La giornata di Travasoni, di professione bancario, inizia molto presto; se va bene pochi minuti prima dell’apertura della filiale, ma a volte anche alle cinque e mezza di mattina, quando c’è il furgone da caricare per il pomeriggio. Chiuso l’ufficio inizia “il giro”, che si sa quando inizia ma non si sa quando finisce. Via Bologna, Barco, via Oroboni sono i quartieri più battuti; il copione è lo stesso: campanello, consegna del pacco alimentare, due chiacchiere, come va, come stanno i figli, cosa c’è di nuovo. Ma le scene sono tutte diverse: “alcuni ti accolgono in garage, altri non ti fanno entrare in casa per timore che i vicini vedano, ma con altri il rapporto si approfondisce, nascono amicizie che durano anni, si sviluppano reti di aiuto che coinvolgono altre famiglie”.
Un po’ come tornare alle origini, a quel 1997 in cui Travasoni iniziò a seguire una famiglia in difficoltà nel Basso Ferrarese. “A loro ho portato i primi scatoloni di cibo, forniti dal Banco Alimentare di Imola. Poi il passaparola ha fatto il resto e due anni dopo abbiamo fondato, con gli amici di Comunione e Liberazione di Ferrara, il Centro di Solidarietà-Carità. Che, in convenzione con il Banco, distribuiva cibo alle persone in difficoltà e anche agli enti di assistenza, in base al principio dell’aiutare chi aiuta.
E se nel 1999 gli enti erano 30 e le persone raggiunte 3.000, oggi gli enti sono un centinaio e le persone 17mila in totale. Ecco perché l’organizzazione dev’essere ferrea, benché su base completamente volontaria. Nei magazzini – due al Mercato Ortofrutticolo di Ferrara e uno a Comacchio – avviene il confezionamento dei pacchi per le famiglie e la distribuzione agli enti. Il resto si gioca sul rapporto individuale e sull’assunzione di responsabilità: “Al chi ci segnala altre persone in difficoltà chiediamo di farsene carico consegnando loro i pacchi – spiega Travasoni – . Questo ha permesso alla rete di allargarsi, ma sulla base di rapporti di fiducia”. Entrare in casa, scambiare due chiacchiere, chiedere aiuto: sono questi i detonatori più comuni dell’amicizia, e può capitare – e capita – che il cibo diventi anche il pretesto per incontrarsi, per avere qualcosa da aspettare.
“E sai qual è il paradosso? Che entrare così profondamente nella vita delle persone ti dà disagio, perché non puoi rispondere a tutti i bisogni che vedi. Ma allo stesso tempo ti regala una gioia, proprio una letizia… che ti dice per cosa siamo fatti, com’è fatto il cuore dell’uomo. Ci muove l’incontro con il cristianesimo, che ci insegna ad avere lo stesso sguardo di misericordia sull’uomo che ha avuto Cristo. Ci educa, letteralmente, perché ci dà un criterio con cui stare di fronte a tutto”.
Gli alimenti distribuiti dal Centro di solidarietà carità di Ferrara provengono dal Banco alimentare, dalla Comunità europea (tramite il programma Agea, che però terminerà alla fine di quest’anno, sottraendo almeno il 30-40% delle risorse alimentari disponibili), da aziende locali (a Ferrara: Due valli, Mazzoni, Coldiretti, Conserve Italia e alcune aziende agricole) e dalla Colletta alimentare, in programma per sabato 30 novembre in tutti i supermercati di città e provincia.

Voltini castello

Voltini sporchi e bui. E metterci una luce?

Non solo sono sporchi, ma sono anche bui. I voltini del castello sono un passaggio caratteristico nel cuore della città, sormontato dall’antica “via Coperta” che congiunge la fortezza estense con il palazzo Ducale, attuale sede del municipio. E’ l’elemento di cesura e insieme di congiunzione, proprio tramite il varco costituito dai passaggi a volta, fra piazza Savonarola e piazza Castello. Ebbene questo elemento architettonico così rilevante della città storica spicca per trascuratezza. Da sempre, va detto, non da oggi. Sono stati sempre inspiegabilmente lasciati all’incuria, scrostati, ammuffiti, considerati alla stregua del sottoscala di casa, dove si ammonticchiano cose inutili, sormontate da polvere e ragnatele. Addirittura alla notte, complice la totale oscurità in cui versano, si prestano, in funzione di impropri orinatoi, ad alleviare le necessità di ineducati viandanti.
Solo un breve fulgido momento hanno vissuto nella loro storia recente: fu trent’anni fa in occasione della visita di papa Wojtyla. In quell’occasione anche loro, al pari di tutta la città, furono tirati a lucido come mai erano stati. E così, dignitosamente, rimasero sino a quando la pittura prese a scrostarsi e i muri ad ammuffirsi, per tornare ad essere ciò che furono e ciò che attualmente sono. Eppure basterebbe davvero poco per renderli attraenti: un imbianchino e – già che è stata inventata la luce elettrica – magari pure un elettricista: illuminati, la sera donerebbero un tocco di suggestione in più alla piazza e forse dissuaderebbero pure le incursioni degli incontinenti.

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Cattani: “Investire per superare la crisi. Carife? Un fallimento politico”

“Dalla crisi si esce se rilanciamo il volano degli investimenti”. Così Luigi Cattani, una vita nel sindacato, immagina la fine del tunnel che ci attraversa: “La soluzione – spiega – non sta certo in una maggiore flessibilità contrattuale, da 15 anni battiamo questa strada e i risultati… si vedono! C’è a monte certamente un problema di ambiguità del quadro di riferimento, 47 normative che disciplinano il mercato del lavoro dentro le quali ci sta tutto e il suo contrario. Ma un conto è semplificare e razionalizzare, altro è avere mano libera come pretenderebbero gli imprenditori per cancellare ogni forma di regolamentazione e seppellire una volta per tutte i contratti collettivi”.
Gli imprenditori però sostengono che la flessibilità favorirebbe una maggiore fluidità anche in ingresso nel mercato del lavoro…
“E infatti la disoccupazione ha raggiunto punte record, specie quella giovanile! Certo, molta parte di responsabilità va ascritta alla crisi. Ma c’è anche una chiave di interpretazione diversa: nonostante l’introduzione di numerose forme di contratti atipici la realtà documenta un aumento medio dell’orario settimanale di lavoro a 47/48 ore. Il lavoro si concentra sugli occupati. Questo significa che la medicina della flessibilità ha fallito clamorosamente il suo obiettivo”.
Resta il fatto che per investire servono i capitali. E le banche nicchiano.
Qui la situazione è al limite della legalità. Gli istituti ricevono denaro con un tasso di interesse dello 0,25% e prestano normalmente al 7/8%. Quando prestano…”
C’è chi immagina che la soluzione sia uscire dall’Euro così, svalutando, si recupera competitività e al contempo, in un regime di autarchia, ci si affranca dai rigidi vincoli alla spesa imposti dall’Unione europea.
“La storia dell’Euro è il solito modo per non affrontare i problemi: l’Italia deve sì rivendicare una maggiore elasticità nei vincoli di spesa dai quali rischia di rimanere strangolata, ma non risolverà i suoi guai isolandosi. Penso piuttosto che la Banca centrale europea, oltre che stampare moneta per il circuito bancario il quale poi la gestisce con le storture indicate, dovrebbe anche stampare moneta immediatamente trasferibile ai cittadini tramite lo Stato”.
In che maniera?
“Per esempio attraverso forme dirette di sostegno o di finanziamento agevolato a progetti. E un pool di banche, debitamente disciplinate, dovrebbero accantonare la propensione commerciale per recuperare quella di servizio e di supporto all’impresa e ai cittadini”.
Come del resto sarebbe nella natura delle banche popolari e delle casse di risparmio, tipo Carife…
“Già, la Carife però, ormai da decenni, ha smesso di fare ciò che lo statuto le imporrebbe. Ha puntato tutto sulle sulle grandi imprese benevise dal potere politico trascurando le piccole e medie”.
E a proposito di Carife, quali sono le ragioni del tracollo?
“Alla base c’è il fallimento di una strategia sbagliata, quella di puntare sull’industria del mattone, indotta dalle intrusioni di una classe politica miope. I crolli della Coop Costruttori e poi della Cir di Mascellani si sono tirati dietro anche la Cassa di risparmio. Paradossalmente, a doversi fare carico del problema in primis sono i lavoratori, con licenziamenti e riduzione dei salari. E poi ci sono gli azionisti, spesso piccoli risparmiatori che hanno investito parte dei loro risparmi in quote che oggi hanno perso gran parte del loro valore”.

1 – SEGUE

Leggi la seconda parte

Unicità della rosa nella natura morta che passa per Ferrara

Bicchiere con acqua e una rosa su un piattino di metallo. E’ una natura morta dipinta da Francisco de Zurbarán in mostra a Palazzo dei Diamanti, Ferrara, fino al 6 gennaio 2014. Un olio su tela piccolino, prezioso e luminoso, che riallaccia i fili della pittura – e in questo caso, in particolare, della natura morta – in una triangolazione internazionale che vola sopra i confini di spazio e tempo.

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“Bicchiere con acqua” di Zurbaran, 1630

In questa tela di dimensioni minute, come in altre nature morte del “Caravaggio spagnolo” , persino il clamore classico e quello barocco che caratterizzano la sua arte sembrano mettersi un po’ in disparte. La lezione di realtà della pittura caravaggesca, fatta di luci e ombre, diventa strumento per dar voce a un linguaggio moderno. L’opera lascia parlare gli oggetti, tanto più significativi quanto più comuni, veri. Per evidenziare l’attualità di Zurbarán ci vengono in aiuto alcune opere, sempre legate in qualche modo alla città estense. Ecco allora Jean Siméon Chardin, protagonista qualche anno fa di un’altra grande mostra di Palazzo dei Diamanti. Anche in quel caso un autore non particolarmente noto, che anziché rappresentare l’atteggiata aristocrazia della Francia del ’700, si dedica a soggetti un po’ marginali, con scene di vita minore e con quelle nature morte piene di umiltà e sentimento cui deve la fama.

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“Il cestino di fragole selvatiche” di Chardin, 1761

A mettere insieme queste opere e questa poetica artistica arrivate dalla Francia del ’700 e dal Spagna del ’600 dà un contributo decisivo Giorgio Morandi, che dalla confinante Bologna raccoglie l’eredità di questa poetica e la rilancia facendo apprezzare questo genere nel mondo.

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“Vaso di fiori” di Giorgio Morandi, 1950

I quadri morandiani pieni di bottiglie, vasi o paesaggi ci dicono perché quelle nature morte sono ancora attuali. Per farlo basta uno dei vasi con i fiori di Morandi. Zurbarán trasfigura la rosa alludendo alla Madonna, bianca e virginea come il bicchiere, pura come l’acqua, splendente come lo specchio. Morandi, che ama molto l’opera di Zurbarán, quello stesso messaggio raccoglie e riscrive in una chiave laica, novecentesca, usando una gamma ridotta di colori che rende il fiore scabro, intimo, poetico. Una rosa irrinunciabile non più come regina floreale o divina, ma come quella del Piccolo Principe, unica perché annaffiata, protetta e curata da lui: la rosa addomesticata, la rosa del cuore, che ti emoziona perché è proprio quella lì. Staccata dal giardino del re o oltre un umile muro con in cima cocci di bottiglia poco importa, è la sola per noi, ora, davanti al quadro.

Economia? Poca. Luci accese anche di notte

Sarà uno spreco piccolino, ma è pur sempre uno spreco del tutto ingiustificato. Le luci dell’androne centrale della facoltà di Economia restano accese tutta la notte, tutte le notti. Peraltro lo storico palazzo Bentivoglio di via Voltapaletto, nel quale la facoltà ha sede, è stato dotato pure di un impianto anti-piccione, il cui effetto è dubbio (abbiamo osservato piccioni accovacciati sui rumorosi dissuasori, evidentemente sordi o del tutto incuranti del disturbo sonoro), mentre certi sono il costo di acquisto, di installazione e di mantenimento. Bene, il fastidioso ciak ciak che dovrebbe mettere in fuga i volatili, ha forse come unico risultato un effetto collaterale, quello di vivacizzare le conversazioni di chi fa capannello davanti all’ingresso, rallegrando le chiacchiere con il ritmo di maracas che sortisce dal dispositivo. Davanti a Economia
In ogni caso va apprezzata la coerenza: anche l’impianto antipiccione, al pari di quello di illuminazione, resta in funzione pure la notte. Vien da pensare che un banale temporizzatore potrebbe disattivare l’uno e l’altro. Ma forse non lo si fa, perché magari si va a caccia del mitologico piccionpistrello o si sta sperimentando l’effetto sulla zanzara doc, attratta dalla luce e poi stordita dal fastidioso antipiccione…

siccita

Vittime dell’acqua: un miliardo senza la potabile, cinque milioni i morti

L’acqua è un problema di tutti ed è una risorsa delicata e strategica per il nostro futuro. E’ proprio di quest’ultimo periodo infatti il frequente richiamo istituzionale e dell’opinione pubblica sull’emergenza idrica. Sono più di un miliardo le persone nel mondo che non hanno acqua potabile e dunque grave è la mancanza di condizioni igieniche di base. Le malattie determinate dall’acqua sono cresciute in questi ultimi tempi e si calcola che abbia causato oltre 5 milioni di vittime. La crisi idrica mondiale già oggi rappresenta una delle minacce maggiori e una della principali cause di conflitto. Purtroppo fa spesso notizia l’accesso idrico come fonte di controversie internazionali (che a volte sfociano addirittura in guerre; ad es: conflitto tra Giordania, Siria, Palestina ed Israele; tensioni tra Egitto e Sudan; le dighe in Turchia sul Tigri e sull’Eufrate che ridurranno notevolmente l’afflusso di acqua di tali fiumi in Iraq e in Siria; purtroppo tanti altri casi, spesso non dichiarati, ma pesantemente perseguiti).
Le minacce per l’ambiente e le dichiarazioni di difficoltà si susseguono in molti forum e si è impegnati a dimezzare il numero di persone che non hanno acqua potabile e soprattutto di accelerare i piani di efficienza idrica in tutti i Paesi. Talvolta consideriamo lontane da noi queste problematiche e ne prendiamo coscienza solo quando ci toccano da vicino; questo succede sempre più spesso.

Al centro dell’attenzione vanno tutti i corsi d’acqua; gli ecosistemi di acqua dolce forniscono infatti servizi fondamentali alla biodiversità, al ciclo idrogeologico e alla capacità di autodepurazione. Bisogna allora fare delle valutazioni globali sulla crisi idrica e sulla sostenibilità della risorse naturali, analizzando anche l’impatto dei cambiamenti climatici sul ciclo idrogeologico.
In verità in Italia l’allarme è ormai esteso ad un terzo dei Comuni italiani a forte rischio idrogeologico; molte riserve idriche, soprattutto al centro-sud sono a secco e si stimano danni all’agricoltura per alcuni miliardi di euro.
La necessità di avviare iniziative per ridurre i prelievi di acqua e di incentivarne il riutilizzo è ormai improcrastinabile; diventa dunque obiettivo fondamentale limitare il prelievo di acque superficiali e sotterranee, la riduzione dell’impatto degli scarichi sui corpi idrici ricettori, il risparmio attraverso l’utilizzo multiplo delle acque reflue.
L’Italia è tra i maggiori utilizzatori di risorse idriche e dunque bisogna in particolare proprio incentivare il risparmio della risorsa acqua in settori, come quello agricolo che oggi ne assorbe circa il 60% (mentre l’attuale fabbisogno irriguo del comparto agricolo potrebbe essere coperto potenzialmente da acque reflue recuperate).

teatrocomunale

Ecco biblioteca e archivio, un atto d’amore per il teatro

È festa. Festa perché è nata: piccola, ma capace di sorprenderci. E c’è da sorprendersi per il solo fatto che sia nata. In questa temperie, alla fine del 2013, in Italia, a Ferrara, è nata una biblioteca. E per giunta pubblica. C’è di più: una biblioteca-archivio teatrale. Da far svenire non solo ex-ministri dell’economia, ma anche giovani amministratori sparsi per la penisola che all’occorrenza “cultura” associano il solo termine di “produttività” senza invece collegarla a quella galassia concettuale che riveste all’interno di un’unica pellicola “patrimonio”, “cittadinanza”, “saperi condivisi”, “creatività”, “socialità” e anche “benessere” e “redditività”.
A Ferrara dunque, all’interno del teatro Comunale, si aprono una biblioteca e un archivio, fotografico e multimediale, dedicati a quella che è l’arte più effimera, il teatro, un’arte che si consuma nel momento stesso in cui si produce, ma che è capace di mantenere un deposito attivo nell’esistenza di un essere umano perché è di esperienza, e di esperienza umana che si tratta. Una biblioteca di un’arte effimera assume un valore doppio: alla memoria storica, per studio o per diletto (i due termini non sono in contrasto), si accompagna il re-incontro con un’emozione stavolta non più immediata, ma riflessa. Le centinaia di migliaia di scatti fotografici di uno dei grandi maestri della fotografia di scena quale è Marco Caselli Nirmal, che da sempre collabora con il Teatro Comunale di Ferrara, colgono frazioni di vita che va ricostruita e, al tempo stesso, evocano segmenti di emozione. La mediateca conduce nella visione dello spettacolo nella sua integralità e finitezza; l’archivio fa entrare nei meandri dei materiali di scena, quelli conosciuti dal pubblico (i programmi di sala, per esempio) ricomponendo anche le fasi dell’evoluzione del gusto e dell’esperienza estetica così come di quelli al pubblico nascosti, i ferri del mestiere (taccuini, note, appunti).

biblioarchivio teatro
biblioteca teatro Comunale

Il teatro è un atto d’amore e di testardaggine e una biblioteca ha bisogno di amore e testardaggine per nascere. Piene di amore per questo progetto lo sono sempre state le sue animatrici, prima Bruna Grasso, poi Alessandra Taddia e Francesca Castagnoli coadiuvate e sostenute dall’Istituto beni culturali e dalla Regione Emilia-Romagna così come da tutto il personale del Teatro Comunale e dalle dirigenze che si sono succedute negli ultimi dieci anni oltre che dalla fondazione Cassa di risparmio che oltre dieci anni fa credette nel progetto.
E’ festa, a Ferrara è aperta la Biblioteca-Archivio del Teatro Comunale.

grecia

Per sopravvivere si condannano a morire. Ma l’Ocse smentisce se stessa

La notizia è sconvolgente. Al punto da apparire incredibile. Ma la fonte è autorevolissima – l’Organizzazione mondiale della sanità – quindi degna del massimo credito. In Grecia uomini e donne rimasti senza lavoro, disperati per gli effetti della crisi, si iniettano il virus del Hiv per ottenere il sussidio statale di 700 euro. Per sopravvivere si condannano a morire. Agghiacciante. In Grecia, a due passi da noi. Nella culla della civiltà. Questo è il mondo in cui viviamo.

A seguito del clamore assunto dalla notizia, l’Ocse si è affrettata a ridimensionarne la portata, precisando che i dati, contenuti nel rapporto che ha originato l’interesse di tanti organi di informazione, fra i quali “La stampa” e “Il mondo”, sono in realtà stati sovrastimati dagli estensori della relazione dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico “a causa di un errore di editing”: in realtà sono riferibili “a un numero aneddotico” di casi. Ne prendiamo atto con sollievo, domandandoci peraltro l’esatto significato di “numero aneddotico”…
In effetti, prima di commentare questo allucinante episodio, fiutando profumo di bufala, avevamo atteso eventuali smentite o precisazioni. Che, tardive, sono poi arrivate. Ma ormai la notizia ha invaso il web e occupa oltre sette pagine degli indici di Google.

sondaggio centrodx

Ex pidiellini alla ricerca di un buon partito

Si contorcono, si interrogano, si domandano: e non sciolgono la riserva. Tanti, anche nel Pdl ferrarese, devono ancora decidere che strada intraprendere, da che parte andare. Ma possibile che gente così navigata, con tanta esperienza in politica, sempre così pronta a sentenziare, possa nutrire tanti dubbi circa la propria fisionomia ideologica? O magari invece stanno solo soppesando il negozio elettoralmente più propizio…

farmacia

Farmaci generici, consumatori incerti fra risparmio e prudenza

Costano meno, a volte anche la metà dei loro più blasonati concorrenti, e hanno teoricamente le stesse proprietà curative poiché impiegano i medesimi principi attivi. Ma sull’utilizzo dei farmaci generici grava ancora la zavorra della diffidenza. Così, nonostante la crisi, la gente in maggioranza preferisce indirizzarsi sui medicinali di marca, tant’è che l’Italia, secondo i dati dell’Ocse, risulta agli ultimi posti in Europa nell’utilizzo degli “equivalenti”, con un uso limitato appena all’otto per cento del totale (in termini tecnici si parla di “volumi”). I dati ufficiali sono però in parte sovvertiti da quel che emerge a Ferrara.
Carol Peretti titolare della (quasi omonima) centralissima farmacia “Perelli” che ha sede in corso Martiri sotto il palazzo comunale puntualizza: “Da noi si vendono bene, direi che almeno un 20 percento dei nostri clienti li sceglie, forse anche più. E il trend è in aumento, la crisi si fa sentire. Però non sono proprio la stessa cosa come qualcuno un po’ sbrigativamente afferma: il principio attivo è il medesimo, gli eccipienti no, quindi è differente la formulazione e questo può influire sull’assunzione e l’efficacia del farmaco”. Di ciò sembrano avere coscienza i consumatori, tant’è che per alcune patologie mostrano particolare cautela. “Quando si tratta di malattie cardiache o ipertensive in genere tutti quanti preferiscono affidarsi ai farmaci più noti e conosciuti. La delicatezza del problema suggerisce la massima prudenza”. Ed emerge anche una curiosità, relativa al Viagra. “Il brevetto è scaduto un paio di mesi fa e subito sono stati messi in commercio una serie di prodotti che costano circa il 20 per cento in meno e hanno conquistato il favore degli utilizzatori, in maggioranza individui della fascia 35-50 anni. Ma poi ne è arrivato uno che rispetto ai circa 90 euro dell’originale ne costa 22 e ha letteralmente sbaragliato il mercato…”.
Decisamente differente è la situazione se dal centro ci si sposta verso la periferia. “Qui la maggioranza dei nostri clienti sceglie i ‘generici’, parlo del sessanta, settanta per cento del totale”, afferma con convinzione Elisa Eleopra, titolare della farmacia Jublin di via Bologna, nel cuore del denso quartiere popolare della città. “La tendenza è in netto aumento in questi ultimi anni. Prima gli acquirenti erano soprattutto giovani, ora anche gli anziani hanno superato la diffidenza e arrivano qui con la ricetta o il foglietto in cui il medico ha già scritto il nome del prodotto ‘equivalente’. E’ una scelta principalmente economica, la crisi sta mettendo tutti in grande difficoltà”.
Alla luce di questa testimonianza appare in parte sorprendente il dato aggregato di vendita che ci ha comunicato la direzione di Afm, l’azienda che gestisce le farmacie comunali: si tratta del 15 per cento, pur sempre quasi il doppio della media nazionale, ma decisamente meno di quanto ci saremmo attesi.
Il ricorso ai farmaci “non griffati” resta dunque un fatto minoritario. Eppure l’uso dei “generici” nel nostro Paese è stato introdotto quasi 20 anni fa, nel 1995, ed in seguito la denominazione è stata mutata in “equivalenti” proprio per evitare che il termine “generico” potesse indurre il consumatore a ritenere che si trattasse di un medicinale meno efficace del suo più noto corrispettivo. Apparentemente l’unica differenza è che “l’originale” ha potuto giovarsi dell’assenza di concorrenza per il periodo di durata del brevetto, durante il quale è riuscito ad affermare il proprio marchio come elemento di riconoscibilità. In seguito, scaduto quel vincolo, anche i concorrenti (gli “equivalenti”) hanno potuto commercializzare i loro prodotti, formalmente analoghi. Su questa presunta analogia però non tutti concordano.
Il dottor Bruno Di Lascio, presidente dell’Ordine dei medici, precisa: “Più che di diffidenza parlerei di doverosa prudenza. Ci riferiamo a medicinali simili ma non uguali, ciascuno quindi con le proprie specificità. Siccome le peculiarità non sono evidenziate, la scelta del consumatore tende a orientarsi esclusivamente in base al prezzo. C’è un problema però. I nostri farmaci, parlo specificamente di quelli europei e di quelli italiani in maniera particolare, sono sottoposti a verifiche minuziose e controlli persino assillanti, ma utili, poiché garantiscono la qualità del prodotto. Chi mi assicura che lo stesso scrupolo sia osservato nella produzione di prodotti che arrivano per esempio dall’India, dalla Cina o da altri Paesi? Ciò che la legge prescrive è la bioequivalenza, ma qui si ferma. Quello dei controlli dunque è un aspetto rilevante. Pensi solo che di ipertensivi equivalenti attualmente ce ne sono in commercio 31 tipi: come fa il malato a districarsi se non consulta il medico? Dire che sono tutti uguali è una pericolosa forzatura. Sarebbe utile piuttosto presentare i risultati delle comparazioni anche fra i generici come già avviene in altri Paesi”.
Il risparmio per il consumatore è considerevole, si va dal 20 per cento (minimo previsto per legge) al 50 per cento, in alcuni casi anche più. Per le casse pubbliche invece nulla cambia. Lo Stato rimborsa una quota fissa per ciascun principio attivo senza discriminare fra generico e griffato.
Ma il dottor Di Lascio amplia i termini di considerazione del problema. “Al centro di tutto c’è il rapporto medico-paziente e il patto di cura che stipulano fra loro. Il primo dovere del medico è l’ascolto, quello del paziente è l’osservanza delle prescrizioni terapeutiche. Di base dunque ci devono essere il rispetto e la fiducia, se vengono meno si dissolve la loro alleanza contro la malattia. E questo capita anche quando il paziente sceglie di sua iniziativa farmaci ‘equivalenti’ senza informare il medico, perché come detto si tratta di sostanze simili ma non identiche che possono dunque alterare l’effetto terapeutico. Non c’è alcun preconcetto nei confronti di questi farmaci e rispettiamo la libertà dei nostri assistiti, però ci deve essere trasparenza e le decisioni devono essere condivise”. Al riguardo il presidente dell’Ordine non sfugge neppure allo scabroso interrogativo circa il ruolo degli informatori farmaceutici e la capacità di quelli fra loro più zelanti di orientare le scelte dei medici. “Se qualcuno mette a disposizione la marmellata e qualcun altro ci mette le dita dentro non possiamo per questo demonizzare due categorie. Ognuno fa il proprio mestiere, gli informatori con l’occhio giustamente rivolto agli aspetti commerciali, i medici con esclusivo riguardo per i malati. Ma non ci nascondiamo dietro a un dito. Chi fra noi infrange la deontologia va bastonato severamente, tanto più poi se, come purtroppo talvolta capita, oltre a privilegiare il farmaco x rispetto al farmaco y decide magari di curare una patologia di cui il paziente non soffre neppure”. E, attenzione, mette opportunamente in guardia Di Lascio, non tutto si esaurisce nel rispetto delle normative: “Ci sono anche comportamenti leciti ma moralmente riprovevoli sui quali l’Ordine non può certo soprassedere”.
Però, deviazioni a parte (“presenti in ogni ambito di vita quotidiana e in ogni categoria professionale”), il tema fondamentale resta quello della relazione fra gli individui e il rispetto delle esigenze e competenze di ciascuno. “Tornando alla buona prassi – conclude Di Lascio – il punto nodale è l’ascolto. Perché il medico che non ascolta non sarà neppure in grado di fornire risposte”.

Voto segreto, l’eccesso di riservatezza del sindaco Mucchi

Sabina Mucchi, sindaco pd di Migliarino, vota il proprio candidato alla segreteria del partito ma, richiesta dal collega Stefano Ciervo della Nuova Ferrara di dichiarare a chi ha dato la propria preferenza, testualmente risponde “non mi va di dirlo”. Ora, tutto è possibile, ma è sensato che un politico si appelli a un principio di riservatezza e rifiuti di rendere noto il proprio orientamento, oltretutto in un caso come questo, relativo alla scelta del leader del proprio partito, di colui cioè che in maniera determinante concorrerà a definire le linee programmatiche e le scelte – politiche appunto – che condizioneranno il percorso di quel movimento, dei suoi militanti e dei suoi dirigenti, fra i quali il sindaco di Migliarino? Mi domando: che idea ha della politica la signora Mucchi? Sarei felice se – fuor di riservatezza – “le andasse di dircelo”!

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La “Misericordina” e il messaggio autentico di papa Francesco

Papa Francesco mi piace molto. Moltissimo. Non mi volevo e non mi voglio far persuaso che le sue azioni, come qualcuno maliziosamente insinua, siano dettate dall’ufficio marketing. Credo alla sua sincera ispirazione.
Però devo ammettere che questa della Misericordina sa proprio di trovata pubblicitaria: un rosario racchiuso in una confezione simil-farmaceutica con sopra impresso un “corazon espinado” (potrebbe essere il gingle musicale, Santana permettendo!): 29 granelli di bontà da assumere quotidianamente…
Insomma, geniale trovata, ma operazione forse troppo smaccata che rischia di gettare sotto una differente luce i gesti quotidiani che questo papa compie e le cose importanti che dice. Che, intendiamoci, restano significative a prescindere. Significative e preziose, perché Francesco non solo predica, ma fa: dà personale e viva testimonianza del suo vangelo e impone a tutti, credenti e non credenti, una riflessione.
Per questo, Misericordina a parte, mi accontenterei che il anche nostro vescovo ogni tanto si ricordasse di papa Francesco. E ogni tanto, prima di parlare, senza necessità di consultare alcuno stratega del marketing, semplicemente pensasse a lui.

Sprechi in Regione, Bertelli: “Ci siamo sbagliati”

“Eravamo così, ci siamo sbagliati”. Ma come “sbagliati”??? Alfredo Bertelli, sottosegretario alla presidenza della Giunta regionale dell’Emilia Romagna, intervistato sul Carlino Ferrara da Stefano Lolli a proposito dell’inchiesta sulle note spesa degli amministratori, se ne esce con una infelicissima conclusione. Si parla di sprechi, di gente che si fa rimborsare la gita, il pranzo con la fidanzata e magari le caramelle. E lui dice “ci siamo sbagliati”. Sbagliati? Ma in che senso? Pensavano fosse corretto mangiare, bere e andare a spasso per i fatti propri a carico della finanza pubblica? Che idea avevano del loro ruolo di pubblici amministratori e della maniera di gestire i soldi dei contribuenti? Non bastasse, c’è pure un’ammissione che fa cadere… le braccia: “Eravamo così!”. E adesso allora che vi è successo? Siete d’incanto rinsaviti. O avete semplicemente “capito”?

straccivendolo

L’importante è rottamare, lo stracciaio fa proseliti

Una volta passava quasi ogni mattina al strazar, lo stracciaio (a Bologna era chiamato, chissà perché, al sulfaner, il solfanaio) e il suo grido riempiva tutta la strada: “a gh’è al strazar donn!” , che traduceva subito “stracciaio!”: è una delle tante figure scomparse, sostituite da aziende più organizzate, ma quel richiamo, ricordo rauco, assieme a quello dell’uomo che vendeva il ghiaccio, “ghiaccio” urlava in tono perentorio, sono rimaste infisse indelebilmente nella memoria di chi un giorno fu giovane: e, tuttavia, il mestiere è rimasto, anzi è diventato una categoria sociale, o, meglio, politica. Oggi c’è chi si definisce “rottamatore”, ma io preferirei chiamarlo ancora stracciaio. Bisogna cambiare, dicono tanti e lasciano tutto così com’è, è più comodo urlare e non far nulla.
Per capire che cosa sia rimasto dell’antico mestiere sono andato in una laterale di via Bologna a cercare tracce di ciò che è stato buttato via: è uno degli ultimi rottamatori, non solo di auto, ma pure di altri oggetti, che la gente non vuole più, anni fa qui trovai un bellissimo cancelletto di ferro battuto per la villetta a schiera che avevo comprato ai lidi. Posso guardare? Ho chiesto al titolare, un signore molto cortese. Faccia pure, ha risposto e così ho cominciato a rovistare tra vecchi mobili ormai macerati dalla pioggia, testate in ferro di letti dei nostri nonni, valige, borsoni e tutta una cianfrusaglia di roba inservibile finché il mio sguardo si è posato su un mucchio di libri buttati lì e ho preso a scartabellare. I primi volumi che mi sono capitati in mano un “Sandokan alla riscossa” di Emilio Salgari, un libro “rosa” per attempate signorine in perenne attesa dell’amore, un romanzo della Deledda e, infine, sotto il mucchio, “Il capitale” di Marx e poi le “lettere dal carcere” di Gramsci, lo storico numero uno di “Ordine Nuovo”, firmato dallo stesso Gramsci con Terracini ,Tasca e Togliatti, i “Canti orfici” di Dino Campana, altre raccolte poetiche di scrittori anche recenti ma dimenticati: guardai stupefatto: “Ah – mi spiegò il titolare che seguiva con attenzione la mia ricerca – tutta roba ormai obliterata”, dimostrando una sapiente conoscenza della lingua. Perché obliterata?, chiesi: “roba dimenticata – rispose – cancellata. Devo sempre portare questa carta inutile al macero ma non ho mai tempo”. Ma perché?, insistei: “la gente vuole cose nuove, ma non ha idee e così butta via tutto, oblitera. Guardi qua, questo sacco contiene le idee da gettare, da rottamare”. Presi in mano il sacco nero della spazzatura, era pesantissimo. E dove le butta?, mi informai. “non so ancora – rispose noncurante – l’importante è rottamare”.

Il virtuoso Errani, l’ambizioso Calvano

Scandalo sperperi in Regione, capitolo auto blu. Paolo Calvano, attuale segretario provinciale pd di Ferrara, si prende la briga (non richiesta) di assumere la difesa del presidente della Regione Vasco Errani. Lo fa attraverso Facebook e cita, a conferma della probità del capo, il caso virtuoso di “quella volta” che il presidente, dopo una nottata di trattative a Roma in difesa dei lavoratori della Berco, rientrò con il veicolo di servizio a Bologna per poter essere puntualmente al mattino a svolgere i suoi compiti istituzionali. Cosa prova questo deamicisiano episodio spot? Nulla sulla moralità di Errani al di là dello specifico episodio; molto sulle ambizioni di Calvano che da tempo punta alla poltrona di segretario regionale del partito (ed Errani è un ottimo sponsor).

vescovo Negri

Rischio oblio per la vicenda di Erik Zattoni

Erik Zattoni è una persona coraggiosa che sta sostenendo una battaglia non ‘privata’, perché la vicenda drammatica che ha deciso di denunciare pubblicamente riguarda il senso di giustizia e il rispetto della dignità di ogni individuo. I fatti li conosciamo, perché la stampa quotidiana ne ha parlato in modo esauriente. Riassumiamo l’essenziale. Nel settembre del 1980 don Pietro Tosi (54 anni) parroco di una frazione di Migliarino, abusa sessualmente di una ragazzina di 14 anni. La ragazza rimane incinta e da quel momento comincia il suo calvario: il prete che nega; le autorità ecclesiastiche che coprono e proteggono; la comunità locale che non crede alla verità della ragazza… Sono stati necessari la volontà, il coraggio e l’intelligenza di Erik perché la verità venisse a galla: una sentenza del Tribunale sulla base del test del dna ha provato in modo inequivocabile la paternità di don Tosi. Ma, nonostante ciò, il silenzio, le calunnie, le coperture, le omertà continuavano. E’ a questo punto che Erik ricorre ad una trasmissione televisiva popolare per imporre all’attenzione dell’opinione pubblica la storia drammatica di cui era stata vittima la sua famiglia. E così scoppia il ‘caso’! Nessuno può più far finta di niente: neanche la Curia ferrarese. Dopo un primo comunicato dell’attuale vescovo, Monsignor Negri, vergognosamente inadeguato rispetto alla gravità dell’evento; poi ha posto rimedio sia incontrando Erik, sia promettendo di fare da intermediario con il Vaticano per farlo ricevere dal Papa. L’altra richiesta che ha sempre formulato Erik è di ridurre allo stato laicale don Tosi. A che punto siamo? Monsignor Negri ha dichiarato: “Ho compiuto tutti i passi e anche di più. Bisogna poi vedere se questo colloquio con il Papa si farà”. Poiché, come ho precisato all’inizio, non si tratta di una partita a due (tra Erik e le gerarchie ecclesiastiche); non è opera di invadenza impropria in una vicenda privata se l’opinione pubblica ne segue gli sviluppi e formula le sue domande. Ecco le mie personali.
Sì, è vero, la risposta del Papa si sta facendo attendere troppo… Eppure papa Francesco si è presentato con l’immagine e il fare di una grande novità per apertura e sensibilità verso i drammi delle persone. Perché questo ritardo nel dare una risposta alla richiesta di Erik sostenuta anche dal Vescovo di Ferrara? Ma la Curia ferrarese non può nascondersi dietro al Papa. Cosa potrebbe fare (e che finora non ha fatto) per ridurre allo stato laicale un sacerdote che si è mostrato indegno nell’assolvere alla propria importante e delicata missione? E la comunità dei sacerdoti della diocesi ferrarese non ha niente da dire al riguardo? Non si rende conto quanto sia importante un atto di (parziale) risarcimento verso l’ingiustizia subita per trent’anni da una madre e da suo figlio? E non ne risulterebbe un vantaggio ‘morale’ e religioso per la stragrande maggioranza dei sacerdoti perbene ed onesti che svolgono con rettitudine e carità la loro missione? E non diventerebbe più credibile il discorso sulla famiglia che è centrale nell’operato della Chiesa? E la comunità dei credenti, perché non si fa promotrice di una pressione verso le proprie autorità religiose affinché prendano delle misure che simbolicamente rappresentino una svolta rispetto ai decenni di colpevole omertà che hanno alle spalle? E non sarebbe importante per l’intera Chiesa cattolica dimostrare che un sacerdote che si macchia di un così terribile reato non può farla franca impunemente dopo decenni di negazione delle proprie responsabilità? O si pensa di far leva su uno dei ‘caratteri nazionali’ equamente presente sia fra i credenti e i non credenti: l’oblio?