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L’INCHIESTA
Idrovia, per il bypass di Ferrara
servirebbero 40 milioni di euro

SEGUE – Il fatto che l’idrovia possa restare una bella incompiuta com’è nell’auspicio di molti, può andare bene sino a che l’Europa non chiederà conto delle inadempienze, ossia del fatto di avere riqualificato l’asta del Po rendendola navigabile senza però garantire la possibilità di transito ai natanti addetti al trasporto merce di classe quinta.
Per capire meglio il tema, vediamo un po’ di dati sull’opera, valutando quel che era previsto, quel che è stato fatto e i prossimi passi da compiere.

La vicenda dell’idrovia nasce nel ’99 quando le quattro regioni lambite dal Po (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) decidono di farne una via d’acqua e siglano un patto per dar corpo all’ipotesi caldeggiata dall’allora ministro Bersani. Ci sono voluti nove anni prima che gli intenti diventassero progetti esecutivi.
Il tratto ferrarese è costituito da un percorso di 70 chilometri compresi fra la conca di Pontelagoscuro e Porto Garibaldi. Per quanto riguarda la città, il disegno originario prevedeva un canale circondariale da scavare attorno al nucleo abitato, per consentire alle imbarcazioni di immettersi nel Po di Volano senza transitare per il centro storico. Ma la Provincia, capofila del progetto, ha deciso di agire diversamente, senza in realtà trovare alcuna opposizione da parte degli altri soggetti coinvolti. Neppure di coloro che oggi polemizzano, senza però all’epoca avere mai alzato un dito per opporsi, pur avendo avuto i titoli per farlo.

Il nuovo canale, lungo circa 7,5 chilometri, si sarebbe staccato dal Po all’altezza di Sabbioni per raggiungere da qui il Volano. Il costo stimato per l’opera sfiorava i 39 milioni di euro. Ma il bypass non è stato realizzato e attualmente il collegamento avviene tramite il canale Boicelli che attraversa la zona industriale lambendo il petrolchimico sino all’immissione del canale Burana, il quale poco più a valle assume la denominazione di Po di Volano.
Le ragioni che hanno fatto propendere per il riadattamento dell’idrovia esistente (Boicelli-Burana), al di là dei costi ingenti per realizzare gli oltre 7 chilometri della nuova tratta, come ha ricordato a ferraraitalia l’ex presidente della Provincia Pier Giorgio Dall’Acqua, sono il forte impatto paesaggistico dell’opera e i rischi connessi ad eventuali fenomeni alluvionali connessi al Po.

Il problema è che l’attuale passante non consente il transito delle imbarcazione di quinta classe europea come previsto da progetto. Un impedimento virtuale se nessuno ne chiederà conto; e ‘virtuoso’ nel senso che preserva la navigazione a scopo turistico da una commistione con mezzi commerciali che sarebbe di disturbo…
La realizzazione comunque si avvia al completamento, previsto per la fine del prossimo anno. Stefano Capatti, ricercatore del Centro documentazioni e studi di Ferrara, proiettando lo sguardo in avanti, nel febbraio scorso ha sostenuto, proprio su questo giornale, che “la sostenibilità di un’opera così imponente richiede una gestione efficiente ed efficace nel connettere l’asta navigabile a porti, ferrovie, strade. I criteri di scelta del porto da scalare per una nave sono molti e, a loro volta, i soggetti che a diverso titolo ne determinano le priorità, sono una moltitudine, non solo armatori o personale di bordo. Nell’ottica auspicata dall’Unione europea (partecipazione dei privati) – ha aggiunto il ricercatore del Cds – si può ipotizzare il coinvolgimento anche finanziario di una società logistica (o di un gruppo di privati) che offra un ‘global service’, compresa la gestione dell’idrovia per quanto concernono i trasporti interni (e i rapporti con le altre idrovie) e la localizzazione e gestione dei nodi integrati (fiume-ferrovia-aereo-mare), per rilanciare il trasporto locale via mare. Si tratterebbe del primo e più moderno servizio presente in Italia, dove semplificazione e fluidità garantirebbero alle nostre imprese un servizio innovativo”.

2. CONTINUA

Leggi la prima parte

Guarda il video-promo dell’idrovia realizzato da Regione Emilia Romagna e Provincia di Ferrara

“TASS – Storia di Stefano Tassinari” alla Sala Boldini

da: Arci Ferrara

Mercoledì 10 settembre, alle ore 20:30, la Sala Boldini ricorda la figura di Stefano Tassinari con la proiezione di “TASS” il documentario di Stefano Massari presentato in anteprima all’ultima edizione dei Biografilm Festival di Bologna.

Stefano Tassinari è stato scrittore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, autore teatrale, operatore culturale, militante politico. Muore a 56 anni, nel maggio del 2012 dopo una lunga malattia. Il film racconta, intrecciando i ricordi di molti tra i tantissimi amici e compagni di strada, la sua vicenda umana, politica e culturale: dalle origini ferraresi agli anni romani nel cuore della contestazione degli anni 70’, al ritorno a Ferrara con la prosecuzione dell’attività politica, contestualmente all’inarrestabile creazione e condivisione di esperienze musicali, teatrali, oltre che di riviste e rassegne letterarie; dagli inizi della sua carriera letteraria all’approdo a Bologna, che è divenuta la sua città d’elezione, il suo definitivo punto di riferimento operativo.

Il film è il racconto corale di artisti, intellettuali, scrittori, uomini politici che gli sono stati accanto in tantissime vicende culturali: Pino Cacucci, Mauro Pagani, Mario Dondero, Marcello Fois, Alberto Bertoni, Carlo Lucarelli, Bruno Arpaia, Marco Baliani, Claudio Lolli, Fausto Bertinotti, Filippo Vendemmiati, Luca Gavagna, Andrea Satta, Pier Damiano Ori, Concetto Pozzati e molti, molti altri.
Stefano Tassinari è stato un inesauribile “motore di cultura”. Un uomo governato da una coerenza radicale ma capace di orizzonti capillari e vastissimi. Un uomo di grande rigore e di generosità autentica, senza compromessi, diventato nel corso degli anni un punto di riferimento, un interlocutore cruciale per tantissimi protagonisti del mondo culturale e politico.

Prima della proiezione interverranno:
– il regista Stefano Massari,
– l’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Massimo Maisto,
e gli amici e collaboratori Roberto Formignani, Luca Gavagna, Laura Magni, Roberto Manuzzi, Marco Caselli Nirmal e Giorgio Rimondi.

L’ingresso alla serata è libero.

L’ultimo scatto di Andrey Stenin

Da MOSCA – Venerdì 5 Settembre, Mosca. Un collega mi avverte del suo arrivo in ritardo in ufficio per la presenza di traffico intenso in una zona a pochi passi da noi. Il traffico e la presenza di tante persone, colleghi giornalisti o gente comune non rimasta indifferente, sono la reale causa di un rallentamento all’altezza dell’agenzia russa di stampa internazionale Rossiya Segodnya, sul larghissimo Zubovsky Bulvar. Fiori rossi ovunque, tristezza e lacrime, qui si sta svolgendo la cerimonia commemorativa del fotoreporter di guerra Andrey Stenin, ucciso nell’est dell’Ucraina, le cui ultime notizie risalivano allo scorso 5 agosto.

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Mosca, davanti all’agenzia stampa, foto di Simonetta Sandri

Da allora, la stampa russa e internazionale si erano mobilitate, sfilando per le strade del mondo con il suo giovane ritratto, accompagnato dallo slogan “Liberate Andrey”. Si sarebbe scoperto solo qualche giorno fa che Andrey era stato ucciso, poco dopo la sua scomparsa, nel corso di un bombardamento contro un convoglio di mezzi che trasportavano centinaia di rifugiati, scortato dalle milizie, nella zona di Donetsk. Stenin è il quarto giornalista russo che muore lavorando, seguendo i fatti di guerra in Ucraina, come era avvenuto anche, ricordiamo, al fotografo italiano Andrea Rocchelli, nel mese di maggio. Oltre ad Andrey, altri tre giornalisti russi sono periti nel conflitto, il corrispondente Igor Kornelyuk, l’ingegnere video Anton Voloshin e il cameraman Anatoly Klyan. I suoi colleghi dicevano che Andrey “non poteva mai stare fermo”, che viveva sotto il fuoco delle artiglierie e che era estremamente appassionato e coinvolto dal suo mestiere di fotoreporter, che aveva intrapreso dal 2003.

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Andrey Stenin a lavoro, foto RIA Novosti

Voleva immortalare gli eventi, sempre, lasciare traccia di quanto di terribile l’uomo poteva essere capace di fare. Era stato in Siria, nella striscia di Gaza, in Crimea durante il referendum, in Egitto, in Libia, in Kirghizistan e in Turchia. L’unico pezzo scritto da lui, ad accompagnare le fotografie, è quello di Libia, intitolato “Come abbiamo lottato per Ras Lanuf e la Libia libera”: ha sempre voluto parlare solo per immagini e con le immagini.
Insignito del premio “Camera d’Argento” nel 2010 e nel 2013, Stenin, dal 2003, aveva lavorato nel giornale Rossiyskaya Gazeta, con il portale Gazeta.ru e, nel 2008, aveva iniziato ad occuparsi esclusivamente di fotografia, lasciando bruscamente il giornalismo classico (che non amava come la fotocamera), operando come freelance per Itar-Tass, Ria Novosti, Kommersant, Reuters, Associated Press, France Press. Collaborava con Ria Novosti dal 2009 (chiusa il 9 dicembre 2013 e sostituita dall’agenzia russa di stampa internazionale Rossiya Segodnya) e, dal 2014, era diventato l’inviato speciale di Rossiya Segodnya.

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Ritratto di Andrey Stenin, foto RIA Novosti

Andrey è stato insignito post mortem dell’Ordine del Coraggio, con decreto firmato dal presidente Vladimir Putin, proprio lo stesso scorso venerdì. Di lui restano centinaia di coraggiosi e intensi scatti, molti dei quali esposti davanti alla sede moscovita dell’agenzia stampa e l’annuncio recente della creazione di un premio internazionale annuale di fotogiornalismo in sua memoria. Riposa ora nel cimitero Troyekurovskoye di Mosca. Amaramente e tristemente, se ne va un altro giovane reporter trentatreenne, talentuoso e visionario, che ha sacrificato la propria vita perché la gente sappia la verità, per il diritto di tutti gli uomini di avere un’informazione obiettiva, chiara e multilaterale.

IL FATTO
Google celebra Ariosto, un bel regalo per Ferrara

Oggi gli utenti italiani di Google, mentre digitavano le loro ricerche sul motore più utilizzato al mondo, si sono trovati di fronte ad un doodle molto caro ai ferraresi: quello che ricorda il 540° della nascita di Ludovico Ariosto, l’illustre poeta reggiano di nascita, ma ferrarese d’adozione.
L’Ariosto è nato infatti a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474, primo di dieci fratelli.
Si è poi trasferito a Ferrara in giovane età per frequentare l’università, prima gli studi di legge, presto abbandonati, poi quelli umanistici, da cui il suo amore per la poesia in volgare, che lo porterà a comporre il suo più celebre poema: L’Orlando Furioso (una stesura durata anni, dal 1505 al 1532).
“Vari sono gli elementi del doodle – scrive Roberto Russo su Books Blog, il primo ad aver commentato la notizia – vediamo il drago (che forma la scritta Google), l’ippogrifo, la lancia, la donzella sull’isola. I riferimenti sono vari e appartengono tutti all’opera dell’Ariosto. È proprio a Ludovico Ariosto, infatti, che abbiamo la prima descrizione dell’ippogrifo, questa creatura alata che rappresenta un cavallo alato. Scrive Ariosto nel canto VI dell’Orlando furioso:

Non è finto il destrier, ma naturale,
ch’una giumenta generò d’un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l’ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l’altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,
molto di là dagli aghiacciati mari.

Quivi per forza lo tirò d’incanto;
e poi che l’ebbe, ad altro non attese,
e con studio e fatica operò tanto,
ch’a sella e briglia il cavalcò in un mese:
così ch’in terra e in aria e in ogni canto
lo facea volteggiar senza contese.
Non finzion d’incanto, come il resto,
ma vero e natural si vedea questo.

Al canto IX troviamo invece la fanciulla e il drago. Leggiamo:
Voi dovete saper ch’oltre l’Irlanda,
fra molte che vi son, l’isola giace
nomata Ebuda, che per legge manda
rubando intorno il suo popul rapace;
e quante donne può pigliar, vivanda
tutte destina a un animal vorace,
che viene ogni dì al lito, e sempre nuova
donna o donzella, onde si pasca, truova;

Nello specifico del doodle odierno, comunque, troviamo una delle scene più celebri dell’Orlando furioso. C’è Ruggiero che cavalca l’ippogrifo salva Angelica dal mostro marino. Però Angelica, una volta messa in salvo, non sposerà Ruggiero ma preferirà Medoro, provocando l’ira dei cavalieri che le facevano la corte e la follia di Orlando”.

Una sorpresa bella e inspettata quella di Google, che coglie impreparata la città in cui l’Ariosto ha scelto di vivere fino alla fine dei suoi giorni e che oggi non gli tributa nessun particolare evento.
E’ auspicabile che questo insperato ritorno di immagine per il poeta e, indirettamente, per Ferrara, possa stimolare tanti a riprendere in mano le sue opere e, perché no, a vistare i suoi luoghi.

I gelati sono buoni (ma costano milioni)

La scorsa settimana il premier Matteo Renzi, dopo il Consiglio dei Ministri in cui ha presentato il piano per le grandi opere, si è proposto alla stampa nel cortile di Palazzo Chigi con un cono gelato per replicare al settimanale inglese The Economist che nell’ultimo numero lo “fotomontava”, con un gelato in mano, insieme a Francois Hollande, Angela Merkel e Mario Draghi su una barchetta che affonda fatta con una banconota da 20 euro.

Ha dimostrato un buona capacità di usare la propria ironia (dal gelato usato come sbeffeggio al gelato usato come simbolo di orgoglio nazionale) ed un ottima competenza nell’arte di vendere quello che non ha (in questo caso i soldi per finanziare le promesse fatte sulle grandi opere).

Pochi giorni fa il premier Matteo Renzi, dopo il Consiglio dei Ministri, si è presentato alla stampa con un volumetto rosso in mano (dalla grafica caratterizzata da uno stile che sta fra quello del “Mulino Bianco” e quello dei “Looney Tunes”) per presentare la sua “rivoluzione” scolastica che ha chiamato: “Una buona scuola”.

Fra le altre cose il premier ha detto: “A voi chiedo di essere protagonisti e non spettatori”, “Vi propongo un patto, un patto educativo, non l’ennesima riforma, non il solito discorso che propongono tutti i politici”, “Ci sarà una grande campagna d’ascolto fatta attraverso Internet, per una rivoluzione”.

Anche in questo caso ha dimostrato un buona capacità di usare la propria ironia (dalla strizzatina d’occhio ammiccante che vuol dire: “Io non sono un politico come tutti gli altri perché siete voi i protagonisti” alla presunzione di pensare che sia ascolto quello fatto contando i click del mouse dei “mi piace/non mi piace” su una pagina di Internet) ed un ottima competenza nell’arte di vendere quello che non ha (anche in questo caso i soldi per finanziare le promesse fatte sulla scuola).

In primis, mi chiedo se questo stile del Presidente del Consiglio debba considerarsi un esempio di meritocrazia anche per gli insegnanti: dimostrare una buona capacità di usare la propria ironia per attirare l’attenzione ed un ottima competenza di vendere quello che non si ha per formare nuovi speculatori.

Viene da chiedersi anche:

1) se nel Patto del Nazareno siano comprese lezioni di “affabulazione mediatica” da parte del socio più anziano e marpione verso il socio più giovane ed ambizioso;

2) in quanti crederanno ad una serie di belle intenzioni e di progetti interessanti senza preoccuparsi delle ricadute che i pericolosi stravolgimenti democratici inseriti in altri punti avranno sulla dignità degli insegnanti e sul ruolo della scuola, intesa come organo costituzionale;

3) se ci sarà più attenzione a quello che sembra esserci o più a quello che manca (ad esempio un piano di investimenti condiviso con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, la restituzione degli oltre 8 miliardi di euro sottratti negli anni scorsi, un’idea complessiva della scuola che formi cittadini consapevoli, un impegno all’integrazione e ai nuovi saperi, il rinnovo del contratto di lavoro per il personale);

4) se, sapendo che la lingua inglese e l’educazione motoria già si insegnano nelle nostre scuole, la proposta di aumentare le ore per queste materie obblighi la scuola a diminuire le ore di altre materie (quali?) oppure accresca l’orario settimanale di frequenza scolastica per gli studenti;

5) se la scarsa originalità mostrata dal premier nella scelta di definire la sua proposta: “buona scuola” (lui è di certo al corrente che il 31 luglio scorso è stato presentato al Senato il disegno di legge “Norme generali sul sistema educativo d’istruzione statale nella scuola di base e nella scuola superiore. Definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di nidi d’infanzia” che ripropone la Legge di Iniziativa Popolare per una “Buona Scuola” per la Repubblica già presentata nel 2006) denoti un calo di inventiva o sia invece frutto del tentativo di sostituire il “Buona Scuola” del 2006, frutto di un percorso partecipato con il “Buona Scuola” di Matteo Renzi, frutto di un protagonismo confermato.

Il primo “Buona Scuola” infatti “presenta l’esito di un dibattito e di un percorso che ha coinvolto in modo democratico migliaia di genitori, docenti e studenti di varie parti d’Italia, che hanno avuto così l’opportunità di riflettere e condividere un’idea di scuola composita e complessa. Un percorso articolato, lungo, onesto e sofferto che ha visto ciascuno fare i conti con le idee e i bisogni dell’altro, nella ricerca della migliore mediazione possibile e che è scaturito nella raccolta di oltre centomila firme”, il secondo “Buona Scuola” invece si presenta come uno spot commerciale dalla grafica patinata e dalle evocazioni suggestive, che invita calorosamente ad acquistare a scatola chiusa un prodotto non ancora sperimentabile per la mancanza di finanziamenti, senza nemmeno il diritto di recesso da parte del consumatore.

Alla fine viene da rispondersi che, quella presentata in conferenza stampa dal premier Matteo Renzi, più che una “buona scuola” appare più come una “buona suola”.

That’s all folks!

Skiantos – I gelati sono buoni (ma costano milioni)

LA STORIA
Un giorno in Italia, i protagonisti siamo noi

di Alessandro Oliva

E’ forse incredibile pensare che 44.197 video girati come contributo e materiale fondante di un bizzarro progetto audiovisivo possano venire scremati e assemblati da una esperta squadra di selezionatori e montatori coordinati da un regista premio Oscar per poi venire dotati di una colonna sonora, di movimento ed intenzionalità narrativa ed infine costituire un film di grande impatto visivo ed emotivo?
Istintivamente verrebbe da dire che è impossibile o troppo difficile, ma è proprio da questo processo che è nato Italy in a day, documentario realizzato su iniziativa di Gabriele Salvatores e presentato pochi giorni fa fuori concorso alla 71esima Mostra di Venezia.

Il film, diretto discendente di Life in a day, documentario diretto da Kevin Mcdonald e prodotto da Ridley Scott, realizzato grazie al monumentale lavoro di selezione e montaggio di oltre 80.000 video, è una forma audiovisiva totalmente innovativa, generata dagli utenti e per questo acclamata come democratica e descritta come Social Movie. In questo nuovo modello di film si palesa un obiettivo tanto semplice quanto ambizioso: regalare una panoramica dell’ Italia, dei suoi abitanti e della loro vita in un giorno qualsiasi, il 26 ottobre 2013, grazie a riprese, spezzoni, corti realizzati dagli italiani stessi.

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Il logo di ‘Italy in a day’, progetto sviluppato sotto la regia di Gabriele Salvatores

Non si può prevedere il risultato di un simile esperimento e io, che sono in sala durante l’anteprima veneziana, non so cosa aspettarmi. Da un lato credo che sarà inevitabile ritrovarsi di fronte a scene grezze e volgari, dall’altro provo una sorta di oblio, mi sento come un foglio bianco su cui il film è pronto a scrivere e dipingere. Non si capisce se per uno scherzo del destino o se intenzionalmente, ma prima della proiezione viene consegnato il Leone d’Oro a Thelma Schoolmaker, storica montatrice di Martin Scorsese, quasi a ribadire l’importanza di questo specifico momento dell’arte filmica.

Infine le luci si spengono e tutti attendiamo di vedere un giorno italiano in 75 minuti.
Quello a cui assistiamo è strabiliante: piccoli frammenti si legano l’uno all’altro secondo una suddivisione temporale e tematica che ci porta dall’alba al tramonto, dalle prime luci al buio. In essi gli italiani si raccontano e mostrano: alcuni sono abbracciati ai loro cani o gatti, altri sotto le coperte, alcuni si ritraggono in sport estremi, molti si baciano. Ci sono astronauti, medici, testimoni di giustizia, pensionati, anziani, barboni e molti giovani, alcuni disoccupati, altri oramai fuori dall’Italia. I sentimenti si alternano: gioia, umorismo, divertimento, cupezza, perplessità, determinazione, rimorso, amarezza e riflessività travolgono lo spettatore, in un caleidoscopio emozionale. Il film ha una vita sua, va avanti a ritmo serrato e poi ti lascia respirare, ti porta nell’intimità più profonda e poi ti fa sfrecciare nelle strade, nelle montagne e nei fiumi. Le immagini colpiscono, si susseguono una dopo l’altra sul sentiero tracciato dalla musica. La sala ride, piange e applaude.
Al termine della proiezione siamo tutti storditi, gli spettatori se ne vanno barcollanti, tra di loro ci sono anche alcuni dei realizzatori dei video.

Uscito, non posso fare a meno di chiedermi che cosa abbiamo visto. Certo, un trionfo dell’internet culture e un nuovo genere di film, ma è un puzzle di piccole realtà o un ritratto illusorio? La risposta probabilmente è entrambe. Sicuramente non è stato mostrato tutto, mancano molti tasselli come la mafia, la corruzione, altre cose di cui ci dovremmo vergognare e altre di cui dovremmo andare fieri. L’ onnicomprensività in un film forse non può esistere, e per varie ragioni: contributi non poi così numerosi, necessità selettive da sposarsi a un formato fruibile, quindi la semplice impossibilità di riprendere o fare riferimento a tutto. Un film, proprio per la sua costituzione, non può rivelarci il reale, perché è orientato, perché è un racconto che subisce l’influsso dei suoi autori, sempre e comunque. Il quadro, nella sua interezza, difficilmente è realistico, ma, gli spiragli di realtà sono molti perché, nonostante tutto, Italy in a day ritrae un paese con persone semplici, modeste, dignitose, desiderose di condividere senza quell’esibizionismo piaga dei social network e per questo, a mio modo di vedere, vere. L’Italia che ho visto rappresentata allora non è veritiera, né magari quella di tutti i giorni, ma è di certo un’ Italia umana, che mi ha emozionato e che mi ha reso fiero, che dovrebbe renderci tutti fieri.

doppi-incarichi

L’OPINIONE
Doppi incarichi: il silenzio degli ‘innocenti’

Non si capisce fino in fondo del perché alcune suonerie, che da un po’ di tempo suonano con fragore nelle stanze dei palazzi romani ed in alcune Regioni del nostro Paese, stiano producendo in alcuni territori, ferrarese compreso, uno sconquasso della politica.
Anche da questa testata, in alcune circostanze, fu sollevato il problema, non nuovo, del cachet dei manager, degli amministratori unici, dei doppi e tripli incarichi pubblici, di anomali rimborsi spese, e anche per aggiornamento dei dossier aperti per danno erariale e per dissipazione del patrimonio pubblico.
Sono cose minute, piccoli errori, ci siamo sbagliati, è poca cosa, incidono marginalmente sui bilanci, rivedremo le singole posizioni, sono tutte le considerazioni che si sentono, tra le righe e a bassa voce, nei corridoi della politica e relativi collegamenti.
Tutto sembra scoppiato dopo le dimissioni del presidente Errani e a seguito delle mezze richieste di candidature, dalle presidenze agli assessori, dai consiglieri al listino, aspettando che da lassù qualcuno decida liste, organigrammi e altro che lasciamo alla fantasia del lettore.
Niente premi, prima si è detto di sì e poi di no, con qualche ni; stipendi troppo alti e vergognosi, bonus senza senso, troppi Comuni, e senza la Provincia ci sarà il caos, le Camere di commercio che si debbono fondere, sgonfiare le Regioni, le municipalizzate, almeno un terzo in rosso da tre anni, in un numero pazzesco, impensabile il proliferare delle aziende partecipate, dettano il quadro, dove sindaci, amministratori, candidati di ogni sorta, segretari di partito, capigruppo, consiglieri la sparano grossa per essere ancora più renziani.
Che sia un modo per rafforzare le candidature è ormai opinione diffusa, ma si sappia, però, che sono gli stessi che alcuni anni fa osannavano lo smacchiatore del giaguaro e, prima ancora, i capi delle tante sigle partitiche che hanno attraversato questi ultimi anni della Seconda Repubblica.
Ma ci sono ancora le primarie, o forse non ci sono più, una sana competizione tra concorrenti a tutti i livelli non aiuta a scegliere senza però fare telefonate o costituire piccole cordate tra segreterie, circoli e feste di partito.
Il programma, quale programma, quali risorse, quali priorità, quale sviluppo, quale welfare, quali territori, non dovrebbero essere il riferimento per gli elettori che debbono conoscere, per scegliere veramente in libertà?
Come andrà a finire non si sa, certamente non dovrà stare nelle cose della vecchia politica. Quel cambiare verso, finalmente, anche se può sembrare un po’ abusato e sfilacciato. Presto si capirà se è un’illusione, se è solo un sogno, se la speranza comincerà a farsi strada oppure no.
Per poter voltare pagina, questi atteggiamenti di certo non aiutano e non vorremo che con le solite indifferenze tutto restasse nella conservazione.
Il silenzio ancora una tattica, la politica lo spazio dei pochi, le fragilità di un territorio, come il nostro, ancora per continuare a soffrire.
Aspettiamo…

I giochi on line che passione

In questa estate piovosa mi sono ritrovata, per caso, a scaricare sull’iPhone un gioco ora molto in voga: a dire il vero mi ha spinto la curiosità piuttosto della noia. Avevo sempre resistito alle offerte di partecipazione alle diverse pratiche ludiche a cui qualche amico di rete mi aveva invitato. Ma questa volta ho deciso di provare, forse perché nessuno mi aveva invitato a farlo.
Non ho pratica di altri giochi tranne questo: BubbleWitch Saga2. Guardando in rete ho visto che il gioco esiste da tempo; ho visto, inoltre, che in rete è possibile leggere istruzioni per superare i diversi step senza ricevere blocchi e riducendo costi. Questo perché, se i tentativi di superare un livello falliscono, BubbleWitch impedisce per un po’ di giocare a meno che non si voglia comprare un’ulteriore possibilità.
L’obiettivo del gioco è quello di sparare delle bolle colorate cercando di accoppiarne tre o più dello stesso colore. La scena è composta da una sorta di percorso in cui Stella e i suoi gatti hanno bisogno d’aiuto per scacciare gli spiriti malvagi che stanno affliggendo il regno. Superando i livelli, riusciamo a liberare il Paese delle streghe! Si può giocare soli o con gli amici per vedere chi ottiene il punteggio più alto.

I giochi on line sono molto diffusi e sono una faccenda da adulti – altro che adolescenti svogliati – un’abitudine che occupa i viaggi in treno, le pause ai semafori, le file alla posta, l’attesa nelle code degli uffici e persino al ristorante. La ripetitività, la velocità e anche la musica creano una sorta di dipendenza, per cui è difficile smettere di giocare finché se ne ha la possibilità. Inoltre, una volta scaricata l’App, un avviso sull’iPhone e sull’IPad ricorda di giocare.
Internet assorbe una quota crescente di tempo. Alcune ricerche hanno tentato di calcolare il numero di ore sottratte da Internet per mandare mail, cercare informazioni, gestire social network, scaricare e vedere video, ecc. ad altre attività. Il tempo non sembra essere sottratto alle relazioni sociali dirette, come molti avevano paventato agli esordi dei social network, bensì al tempo di lavoro. Per ogni minuto che l’americano medio impiega per divertirsi on line vengono spesi circa 16 secondi di lavoro, 9 di tv e 7 secondi di sonno. Spendiamo meno tempo a guardare la tv, a riposarci e a pensare, dunque. Non è corretto parlare di ore sottratte (l’allocazione del tempo è necessariamente mutevole nel tempo), piuttosto di un tempo maggiormente saturato, senza pause.

Per gli adulti questo tipo di giochi è attrattivo perché consente di mettere alla prova qualche tipo di abilità, ma soprattutto di impegnare tempo senza fatica, senza neppure dovere cercare qualcuno con cui parlare. Niente di male potremmo dire.
Ma mi preoccupa la tendenza a cercare in modo ossessivo un antidoto alla noia, a saturare ogni momento vuoto con un’attività che consenta di passare il tempo, mi preoccupa l’incalzare dell’impazienza, l’incapacità di attendere semplicemente che un’idea arrivi con i tempi suoi o che un cuoco in cucina finisca di preparare il nostro piatto. Non ci arrabbieremo più per le code alle poste (ma perché dovremmo poi in futuro andare alle poste, visto che tutto viaggia on line?), non cercheremo più un’amica a cui telefonare per fare due chiacchiere, non ci preoccuperemo di fare l’abbonamento a Sky o di comperare dvd per trascorrere una buona serata davanti alla tv evitandone i programmi.
Ma la domanda più inquietante riguarda l’inevitabile proliferare di individui annoiati in un tempo in cui il lavoro resterà poco, saltuario e, per molti, poco motivante. Tutto questo tempo libero che dovrà convivere con una limitazione di risorse culturali ed economiche, proporrà l’esigenza di inventare altri modi per impiegarlo, magari con la terza edizione della Saga di Bubble Witch.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Opere eccelse e valorizzazioni intelligenti, ‘Great’ Britain!

UN DIARIO INGLESE-SCOZZESE

C’è sempre un ritorno, purtroppo, agli usi e costumi che per un breve
tempo ti sei lasciato alle spalle, in questo caso funestato dagli
indegni accoglienza e trasporto delle compagnie low cost. Ma così è:
ora viaggiare significa spostarsi da un punto all’altro. E’ come un
trasloco più che un’esperienza. Tuttavia ad Edimburgo ci sarebbero state
“loro” ad aspettarmi! Le Grazie che nella loro pudicissima nudità
ispirarono Foscolo a scrivere i versi più belli del suo poemetto. “Loro”
sono state create in due versioni. La prima e più famosa per Josephine
Bonaparte che, alla sua morte, venne acquistata dallo zar di Russia ed
esposta all’Ermitage. La seconda, per adornare la residenza del duca di
Bedford a Woburn Abbey, dove Foscolo le vide e le descrisse.
Qualche anno fa la proprietà di Woburn Abbey venne messa in vendita e le
Grazie stavano per prendere il volo se non che, di fronte alle proteste
degli inglesi e degli scozzesi, si decise di comprarle (ah Mibact,
prendi esempio…) così ora trionfalmente sono locate per sette anni alla
National Gallery di Edimburgo e per altri sette al British Museum di Londra.
“Loro” sono mie amiche da sempre. Passeggiando sulla collina di
Bellosguardo dove ho abitato 25 anni, colloquiavo con le belle dee
nell’esatto punto in cui Foscolo alzò il grido di gioia e di
riconoscenza a Firenze: “Te beata gridai…” ; poi divenni responsabile
dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e “loro”, sempre
fedeli, mi allietavano con l’intreccio perfetto e musicale delle braccia
intrallacciate (lo so, è un neologismo e non lo ripudio!).
Arrivo dunque alla National Gallery di Edimburgo ma “loro” avevano
cambiato casa e si erano spostate a Londra. Altro che i viaggi dei
Bronzi di Riace per l’Expo milanese! Le Grazie viaggiano con passo lento
sfiorando il suolo a passo di danza e si lasciano ammirare proprio per
dimostrare la loro gratitudine a chi, un popolo, le ha volute per sé e
con sé. Ho ritrovato comunque altri amici del cuore nella casa della
bellezza edimburghese, appesi come le antiche collezioni su più livelli
in una stordente e fantastica provocazione da sindrome di Stendhal che
ti rende ubriaco per troppa bellezza. In una parete tanti piccoli
ferraresi, poi Guercino e Domenichino a volontà e un favoloso Tiziano che
ancora una volta è stato acquistato con il contributo pubblico e
privato. Rembrandt e Vermeer, Claude e Poussin ti ammiccano dalle pareti
e tu pensi che tutto questo è a tua disposizione senza spendere una lira,
o meglio una sterlina, così entusiasticamente dai il tuo obolo per
ringraziare di tanta munificenza e liberalità. Altro che togliere la
gratuità agli over 65! E fosse solo questo. Come mi ha insegnato una
cara amica che lavorava alla Bbc, per mangiare bene e a prezzo giusto
occorre frequentare i ristoranti dei musei, quasi sempre ottimi e a
prezzi sopportabili (a proposito di ciò che si potrebbe fare anche a
“Ferara”). Tra i migliori, quello della National Gallery di Londra dove,
I remember, gli amici mi festeggiarono dopo la conferenza ariostesca che
Marco Dorigatti ed io tenemmo proprio in quella sede (400 persone
nell’Auditorium della Gallery). Lì, tra uno scone e l’altro, ho
parlato con i giovani camerieri quasi tutti italiani che corrono a
Londra a rimediare un boccon di pane per proseguire gli studi e riuscire
a sostenersi; cosa che in patria è ormai a loro preclusa. Una
meravigliosa generazione che espia i nostri errori e le nostre
debolezze. Che vergogna e che rimorso. Ad Edimburgo il ristorante del
museo si chiama Contini e va da sé quanto sia stato affascinato da quel
nome. Lì una bellissima ragazza mi confidò che non sarebbe più voluta
ritornare a casa. Programmava un passaggio negli Usa per cercarsi quella
conoscenza e consapevolezza del mondo nuovo che le si spalancava
davanti e che noi non siamo riusciti ad offrirle. Nell’altro Contini,
quello del Castello, per un’influenza astrale la ragazza che ci accolse
era una mia antica allieva di filosofia a Firenze. Gli occhi le
brillavano a ricordare i suoi maestri e lo strappo che le è costato
lasciare gli studi per farsi una vita decente. Ora che ha finito i
corsi di fotografia, pensa anche lei di trasferirsi negli Usa. “Cosi è se
vi pare”, avrebbe commentato chi ne sapeva tanto di straniamento e
ingiustizia. Pirandello.
E la commozione a sentire alla Royal Albert Hall di Londra una
meravigliosa esecuzione della seconda sinfonia di Rachmaninov nei
concerti Proms che la Bbc offre per più di un mese (ogni sera un
concerto diverso) a prezzi irrisori. Addirittura la platea dell’immenso
teatro era vuota di sedili e giovani e anziani seduti per terra
ascoltavano senza pagare il concerto. E questo anche per quaranta volte
di seguito. Non voglio con questo dire che l’erba del vicino è sempre
più verde; voglio solo ricordare che ci sono modalità e interventi
diversi dai nostri, spesso irrigiditi e mal governati da antichi
pregiudizi o da soluzioni ormai obsolete. Non voglio ancora sostenere
che le soluzioni vincenti siano quelle straniere, ma trovo assai
condivisibile quanto un turismo intelligente possa giovare alla causa
dell’arte. Edimburgo non è più grande di Firenze per numero di abitanti, anche se
il suo territorio è molto più vasto. Le sue memorie sono
paesaggisticamente perfette ma non sempre all’altezza della qualità
architettonica. Eppure il Castello attira folle mai viste in un misto
di cose banali e straordinarie. I bus a due piani incessantemente
portano migliaia di visitatori a vedere la residenza reale e il panfilo
Britannia e i cannoni del Castello. Certo! Un kitsch intelligente e che
mai scende a livelli indecorosi. E da noi? Possibile che non si trovi il
mezzo di rendere la casa dell’Ariosto un luogo vivo e frequentabile? O
la cella del Tasso? O la Magna domus? E via elencando. Manca una capacità
organizzativa che si scontra con la diffidenza e l’indifferenza
ferrarese. Basta programmare gli “eventi”: il resto vada come vada. Si
è tentato nel tempo, ma la continuità è esclusa in chi poi trova che è
più facile chiamare turisti con buskers e baloons che valorizzare con un
piano intelligente uno dei più bei musei del mondo: quello della
cattedrale, umiliato e negletto da una sbagliatissima esposizione.
Sognare che la Pinacoteca nazionale venga frequentata indipendentemente
dalle mostre rimarrà ancora un sogno irrealizzato? E che il Castello
trovi finalmente una sua “originalità” esponendo se stesso è troppo a
chiedere e a esigere per “Ferara, stazione di Ferara”?

Della conservazione post-mortem

Per la prima volta in Italia, sarà l’Università di Ferrara ad ospitare il Congresso Internazionale Taphos 2014, che si terrà da mercoledì 10 a sabato 13 settembre nell’Aula Magna del Dipartimento di Economia e Management (via Voltapaletto, 11), organizzato dal gruppo di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra e dal gruppo di scienze preistoriche ed antropologiche del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Ateneo estense.

Tema del congresso è la tafonomia, cioè tutti quei processi fisico-chimici che intercorrono dalla morte di un organismo al suo rinvenimento come fossile. Queste ricerche mirano essenzialmente ad identificare gli ambienti del passato attraverso la ricostruzione della “scena del crimine”. Le ricerche tafonomiche non sono limitate alla Paleontologia, ma riguardano anche altre discipline come la Geologia, la Preistoria e l’Archeologia.

taphos-ferraraAl congresso, che si articola in due giornate scientifiche (11 e 12 settembre), parteciperanno esperti provenienti da 15 paesi, e le comunicazioni saranno pubblicate all’interno di un volume speciale degli Annali di Unife, sezione Fisica e Scienze della Terra. Le due giornate scientifiche saranno affiancate da tre escursioni (10 e 13 settembre), una alla Pesciara di Bolca (Verona), tra le più importanti località fossilifere del mondo, a Tonezza del Cimone (Vicenza), con la visita a successioni sedimentarie del Giurassico Inferiore, al Deposito pleistocenico della Grotta di Fumane (Verona) e al Museo di Preistoria e Paleontologia di S. Anna d’Alfaedo.

“La Tafonomia ha vari obiettivi – spiegano Davide Bassi e Renato Posenato paleontologi del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra ed organizzatori del congresso – tra i quali i modi diversi di preservazione della materia organica e degli scheletri, la durata ed il riconoscimento dell’eventuale rielaborazione post-mortem, la descrizione di tutti i processi che hanno influenzato le associazioni fossili (ad esempio la predazione e l’attività umana) e l’interpretazione degli ecosistemi marini e continentali del passato. Lo scopo delle nostre ricerche è quindi ricostruire gli ambienti del passato con il massimo dettaglio decifrando ed interpretando le informazioni preservate nel registro fossile”.

Le bonifiche come fenomeno di proto-industrializzazione

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (PRIMA PARTE)

L’inizio della grande stagione delle bonifiche e delle trasformazioni fondiarie del territorio ferrarese ha coinciso con l’Unità d’Italia, allorché quasi tutte le maggiori bonifiche di epoca rinascimentale erano ormai ricadute in balia di valli e paludi. Dopo alcuni sfortunati tentativi, prima da parte dell’ingegner Cesare de Lotto per conto del Consorzio del 1° Circondario scoli di Ferrara e, poco più tardi, da parte del conte Francesco Aventi sulle sue valli Gualenga e Burina in località Tresigallo e Formignana, il momento cruciale della bonifica giunse nel 1871, quando fu costituita a Londra la Ferrarese land reclamation company limited, finanziata da uomini d’affari inglesi e da banchieri italiani.
«Partì così la nuova Grande Bonificazione Ferrarese, dopo che la nuova società concessionaria, la Società Bonifica Terreni Ferraresi, aveva acquistato in proprietà ben 15.182 ettari di valli. Sul piano tecnico d’impresa consistette nel convogliare fino a Codigoro tutte le acque di scolo del comprensorio, tanto quelle “alte” quanto quelle “basse”, che affluirono unite al gigantesco impianto di sollevamento a vapore sorto in riva al Volano ed entrato subito in funzione nel 1874. […] Agli inizi del Novecento il territorio della Grande Bonificazione era ormai una delle aree cerealicole più produttive del Paese. Le grandi aziende di bonifica che cominciarono ad operare nella parte orientale della provincia di Ferrara tra Po e Volano erano destinate a segnare in profondità la storia economica e sociale dell’intera provincia»*.

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*F. Cazzola, La bonifica, in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

Senza la paura d’essere felici

Patrick cerca Raquel, lei è scomparsa dalla sua vita e dalla tela che stava dipingendo. Com’è possibile che un quadro perda un’immagine e una vita perda quella persona che ci stava dentro?
Il quadro mai dipinto di Massimo Bisotti (Mondadori, 2014) è un romanzo di ricerca dell’altro con cui ci si aiuta a ritrovare anche se stessi, smarriti ma con un obiettivo davanti.
Patrick lascia la sua città, Roma, e insegue, lucido e confuso, le deboli tracce che ha per ritrovare Raquel. Approda a Venezia, al Punto Feliz, un posto che diventerà il suo nuovo baricentro di affetti, è il punto felice perchè è questo ciò che Patrick sta cercando: “Quello che scopri allora nella tua anima è il punto felice. Una quiete insolita che sovrasta il tutto senza prevaricare niente e nessuno. Sovrasta te stesso e le tue preoccupazioni. Sospende i vecchi battiti per regalartene di nuovi”.
Il quadro mai dipinto è una storia sulla forza dei desideri, quelli scomodi da raccontare agli altri, quelli che si mettono giù in fondo abbastanza inascoltati finché non si impongono cambiando il corso delle cose.
Raquel è scappata e Patrick non sa ancora perchè, arriverà alla verità solo dopo altri smarrimenti e nuove consapevolezze. I luoghi che Patrick visita parlano di lei, di Raquel, le coincidenze sono fatali e determinanti per capire che le occasioni che la vita porge, senza una libera scelta che successivamente le confermi, sono nulla e resteranno per sempre alle spalle fino a scomparire.
Raquel è quell’amore che capita e che poi continui a scegliere con una meraviglia rinnovata, è il diritto alla felicità che – e Patrick lo scoprirà – , è “coesistere”, ricerca senza affanno, arresto e nuovo inizio, è centrare la vita in divenire mettendola in equilibrio come la bolla di una livella.
Ma dalla felicità spesso le persone fuggono per paura di non saperla cercare, perchè è più facile incrociare le braccia e preferire la penombra e allora si fa resistenza alla felicità, come verso una cosa che costa fatica e troppa incertezza, come se accontentarsi ed essere contenti fossero stessa cosa.
Il viaggio di Patrick è una partenza che se ne frega delle previsioni del tempo, è un dare per essere, ben al di là del dare per avere, è una scelta che non mette la gioia da una parte e la paura dall’altra, ma ne fa una pasta unica, è un rimestare anche il brutto e il pericolo, è avere la vertigine di fronte a un sentimento, ma poi riuscire a guardarlo.
Patrick ha scelto per il tutto, perchè, alla fine, l’amore che si affaccia solo a metà non è amore.

IL FATTO
Marattin nello staff di Renzi a Palazzo Chigi, al sindaco Tagliani la delega al Bilancio

Negli ambienti comunali ormai si dà per certo che l’assessore Luigi Marattin accetterà l’invito di Renzi di entrare a far parte della sua ristretta squadra di consulenti economici.
Ma al momento non è prevista la nomina di un sostituto. La novità di queste ore, infatti, è che la delega al bilancio sarebbe assunta direttamente dal sindaco Tiziano Tagliani. Non è quindi ipotizzabile, al momento, alcun rimpasto nella compagine di giunta.
Questo, almeno, sino a quando non sarà chiaro che la scelta di Marattin sia definitiva e davvero incompatibile con il suo attuale incarico di amministratore comunale. Tagliani ha, infatti, molta fiducia nelle capacità e nelle competenze del suo collaboratore. E prima di accettare l’idea di doversene privare definitivamente, vuole essere certo che da Roma fra qualche settimana o qualche mese non parta un treno di ritorno. Pur di riportarlo in squadra, il sindaco sarebbe probabimente pronto a riavere il suo assessore anche solo part-time.

L’EVENTO
Naufraghi della vita alla ricerca di un brandello di felicità

Sventolano la bandiera palestinese, abbracciandosi, sorridendo, con gli occhi lucidi, emozionati, felici. Tra gli applausi. Quindici minuti di standing ovation per Io sto con la sposa joint venture di tre registi Gabriele Del Grande, Antonio Augugliano e Khaled Soliman, presentata giovedì al Festival del Cinema di Venezia. E’ un storia vera, di libertà e speranza. Una sfida di squadra, una scommessa, ma soprattutto è meglio di una denuncia giornalistica destinata restare confinata nel clamore temporaneo dei media. Proprio così la pensa il giornalista e regista Gabriele Del Grande, cronista dal fronte siriano, che ha incontrato a Milano i profughi-attori della fuga da conflitti e miseria.

Il film, sostenuto con 100 mila euro raccolti grazie al crowdfounding, al contrario di un articolo “usa e getta” tocca i cuori. Resta nella memoria quanto l’escamotage dei cinque fuggitivi, palestinesi e siriani, che grazie a un’idea maturata dai registi sono riusciti ad arrivare in Svezia sfruttando il matrimonio e il suo corteo quale passepartout per varcare le frontiere senza attirare l’attenzione. Ce la fanno. E noi con loro.

Nella sala silenziosa, ogni tappa, ogni passaggio, ogni risata, ogni brindisi, canzone e ricordo hanno intessuto tra i cinque protagonisti e il pubblico un legame d’affetto. Perché la vita è più forte della ragione di Stato e dell’ipocrisia di cui è infarcita a discapito dell’essere umano.
Io sto con la sposa – divenuto in un solo pomeriggio il caso del festival veneziano, accompagnato dall’apparizione di tante giovani donne in abito bianco – è una storia contro la legge. E’una vicenda carica di disperata attualità, all’apparenza inadatta per il red carpet di Venezia, che gli ha riservato a sorpresa un’accoglienza inattesa, soprattutto alla luce dello strisciante razzismo innescato dagli effetti della crisi economica e dall’ignoranza di chi si sente derubato dei propri diritti e servizi.

Poeta lo sposo, scampato al naufragio costato la vita a 500 persone al largo di Lampedusa, rapper il ragazzino che ha attraversato il mare insieme al padre, dissidenti marito e moglie decisi a dare una cittadinanza e una possibilità di futuro ai propri figli, palestinese con cittadinanza italiana uno dei registi, giovane donna bella, forte e istruita la sposa, che cercava di dimenticare il fischio delle bombe ascoltando la musica in cuffia. Sono loro il cast, sono loro ad approdare a Milano per poi intraprendere il viaggio verso nord con una manciata di auto e i vestiti da cerimonia.

Il corteo prende la via dei contrabbandieri tra Italia e Francia, la stessa strada tra i monti percorsa in passato dagli italiani diretti oltralpe in cerca di lavoro. Camminano, in abito lungo e doppio petto, lasciandosi alle spalle il nostro Paese, prima tappa verso il grande nord dove il clima è freddo ma il domani sembra meno grigio. E’ la via della clandestinità, raccontata dal muro di una casa diroccata sul quale, insieme agli altri messaggi, lo sposo scrive i nomi di uomini, donne e bambini conosciuti e annegati nell’attraversata. Una lapide improvvisata per tanti fantasmi di cui le istituzioni non conoscono il nome ma ai quali i profughi non negano la memoria, anzi. Il loro ricordo è forza. Nel film c’è voglia di vivere, di lottare e ridere, i dialoghi ne sono la testimonianza più immediata e, come ovvio, sono lo spunto di tante domande. Cielo e mare, due vie di fuga, accolgono in modo silenzioso le riflessioni della sposa: “il cielo e il mare sono di tutti”. Sono vie da percorrere in libertà, ma se si nasce nella parte sbagliata del mondo ciò che è normale diventa l’eccezione.

Il bicchiere di vino in mano, il più anziano dei protagonisti, si chiede perché mai deve dare le impronte digitali come un delinquente, perché una famiglia di 13 persone deve pagare 13 mila euro e morire inghiottita dalle onde per rincorrere nuove opportunità di vita. Per la verità ce lo chiediamo anche noi, consapevoli del fatto che se si sta male in un posto se ne cerca un altro dove campare meglio. Lo abbiamo fatto e lo facciamo quotidianamente, scappando all’estero con lauree e specializzazioni inutilizzabili nel nostro Paese.

Qualcuno crede davvero di poter fermare la fuga? Un po’ di pubblica sincerità e di reale impegno politico europeo non guasterebbe. E allora “Io sto con la sposa”, con gli abbracci trionfanti di chi ce l’ha fatta, dimenticandosi persino della macchina da presa che per un attimo, quasi a voler tradurre un’emozione, si fissa sul tetto del treno. E’ tempo di festa, è come essere andati in meta. Ed è subito Svezia.

La Natura che ci meritiamo

La vicenda dell’orsa e del raccoglitore di funghi è una di quelle storie che mi fanno arrabbiare a prescindere. Vogliamo la Natura con la N maiuscola, ma non abbiamo il coraggio e l’umiltà per viverla. Portiamo i nostri bambini nelle fattorie didattiche per vedere gli animaletti, ma se i nostri adorati pargoli si sporcano le scarpine di cacca facciamo una tragedia, se poi si beccano un morso o si piantano una spina in un ditino, facciamo causa all’azienda. L’educazione alla Natura e all’Ambiente dovrebbe essere qualcosa di quotidiano che parte dal rispetto e dalla conoscenza del nostro ambiente di vita. La parola ecologia indica fondamentalmente la scienza che studia gli equilibri. Ragionare in termini ecologici significa fare un sforzo per cercare di vivere rispettando l’ambiente che ci circonda, che non è un jungla inesplorata, ma un contesto antropizzato da secoli di storia, che ne hanno alterato completamente l’assetto originario, quindi, per fare un esempio, mettere delle fioriere in piazza Duomo non è ecologico, ma solo stupido e costoso, le piazze sono fatte di pietra e architetture , non hanno bisogno di fiorellini e piantine asfittiche per diventare più belle e più “ecologiche”. Le piazze devono respirare, accogliere, insegnare convivenza e civiltà, chiuderle con paletti e fioriere trascurate, è un modo per tradire la loro storia, non capire il loro equilibrio. Le città sono organismi complessi e non mi stancherò mai di ripeterlo, ci sono tantissimi posti fuori dalle piazze per piantare alberi. Se perdiamo di vista chi siamo e qual è il nostro ambiente, diventa facile illudersi di trovare la Natura ogni tanto tanto, magari andando per boschi, a rompere le scatole a plantigradi con uno sviluppato senso materno.
Viviamo tutti situazioni prive di buon senso, troppo facilmente ci lamentiamo del troppo sole o della troppa pioggia come se fosse possibile una Natura a comando con un pulsante per regolare sole, vento, neve e pioggia in funzione delle ferie. Cercare un equilibrio non è facile per nessuno, ma provo un’ammirazione enorme per chi ci riesce in modo onesto e senza fare proclami. Ammiro in modo particolare le persone che scelgono di vivere in un ambiente dove la Natura ha ancora il sopravvento e non per fare una vacanza o per fare dello spettacolo, ma come scelta di vita e lavoro, la loro è una fatica senza scorciatoie. A volte succede che la tua strada incroci una di queste persone eccezionali e la vita ti fa un regalo. Raccontare come ho conosciuto il signor Ruggero non è importante, quello che conta è la vita di quest’uomo, che da trentacinque anni porta ogni anno le sue pecore dalle Alpi del Lusia alla pianura friulana, fin quasi al mare, seguendo le strade della transumanza. La sua esperienza è raccontata in un libro magnifico curato da Valentina Musmeci, intitolato Un anno col baio. Il baio è il termine generico che indica il pastore. Ruggero è il baio: un armadio di uomo, scarpe pesanti, occhi vispi che brillano in mezzo a capelli e barba grigia, una voce sorprendentemente gentile in un fisico da troll che ti conquista all’istante con la sua ironia. Scoprire per caso il suo lavoro di pastore e avere in mano il libro che lo racconta, è stato sorprendente. Man mano che leggo le pagine e guardo le splendide fotografie, mi accorgo di un mondo parallelo, un mondo che sta davanti ai miei occhi eppure è nascosto. Tanti si alzano prima dell’alba per andare al lavoro, ma un conto è farlo passando dal letto all’automobile, un altro è scrollarsi l’umidità dal sacco a pelo e andare a piedi, prima che il sole sorga, per poter attraversare le strade senza dare troppo fastidio a chi sta in automobile. In questo gesto c’è una grande lezione. Ruggero non è un nostalgico, sa benissimo che se non ci fossero gli extracomunitari a mangiare carne di pecora avrebbe già chiuso bottega, lui non porta le bestie a spasso per fare della retorica del “bel tempo che fu”, fa il suo mestiere, un mestiere scelto per passione e in totale libertà, un lavoro con gli uomini, pecore, asini e cani, rispettati dal primo all’ultimo. Il baio cerca l’equilibrio, senza far troppi danni, con il suo mondo che è fatto soprattutto di animali, pioggia, sole, vento, gelo, merda, vita e morte, ma anche di vite altrui, automobili, orti, campi coltivati, strade asfaltate. Senza rispetto non c’è storia, non c’è equilibrio, non c’è conoscenza, non c’è la vera meraviglia, quella che si merita chi accetta la Natura per quello che è: dura e pura. Grazie Ruggero, e grazie a Valentina Musmeci per averlo raccontato.

Valentina Musmeci, Un anno col baio. Dalle Dolomiti all’Adriatico con un pastore errante e duemila pecore, Ediciclo editore, Portogruaro (VE), 2014

Una giornata perfetta pensando alt(r)o

RACCONTI LIDESCHI (TERZO) ovvero I DIARI VENTURI

Arrivo in spiaggia presto portandomi dietro un succulento Maigret d’antan Maigret e l’affare strip-tease, Mondadori 1967. Senza carta scrivo queste ultime note lidesche tra le pagine del libro.
L’ombrellone confina a destra con la passerella così, offrendomi al sole per la prima volta in tre anni, ho una perfetta visuale di “gente che va, gente che viene… che va… tutto senza scopo”: come recita una battuta nel famoso film del 1932, Grand Hotel, un capolavoro della commedia hollywoodiana con la sublime Greta Garbo. Alle orecchie metto le cuffie e tra l’ombra rosata delle palpebre chiuse risuona monumentale il tocco di Glen Gould che esegue L’arte della fuga. Condizione perfetta, se non fosse per uno scalpiccio insistente che mi scuote dalla meditazione musicale. Sono le casalinghe (non solo quelle di Voghera immortalate da Arbasino) tutte munite di permanentina fresca, che s’affrettano all’appuntamento quotidiano presso gli allettanti banchetti dei “vu cumprà” in fase di saldo come un gigantesco outlet che copre la linea del mare. Richiudo gli occhi e Bach come afferma Ramin Baharami mi placa e mi conforta. Una bambinetta arriva di corsa: “buongiorno!” esclama tutta eccitata occhieggiando le cuffie. Accetto la sfida e gliele metto alle orecchie, ma il risultato – ahimè! – è una smorfia disgustata. Così, rotto l’incanto, mi dedico all’osservazione del passeggio. Due signore discutono sul com’è difficile andare in villeggiatura a causa delle badanti che si prendono le ferie proprio in agosto e rendono così la vita impossibile. Proprio ieri Guido Ceronetti scrive un impagabile inno alle preziose badanti, vestali di difficili vecchiaie e custodi integerrime di una lingua italiana destinata al declino. Ma “gente che va” lascia il posto ad altre visioni e altri commenti: villeggianti che percorrono la passerella atteggiando il viso a quel disgusto che aleggia sui visi delle modelle come quelle di oggi che esibiscono la loro noia sponsorizzata riempiendo le pagine dei quotidiani per offrire borse e pellicciotti. E nel passaggio la “ggente” si offre non solo nel lato A ma anche in quello B malamente coperto da strisce minuscole di stoffa che a malapena s’inseriscono tra imponenti chiappe che sobbalzano per l’almodovariana “carne tremula”.
Il gentilissimo signore tedesco che occupa l’ombrellone alla mia sinistra e che parla un perfetto italiano s’interroga e m’interroga sulla situazione italiana che non riesce a capire. Tagli alle pensioni? “Mah!” anche se oggi ci si affretta a smentire qualsiasi intervento. I Bronzi di Riace all’Expo? “Mah!” anche se ci si chiede se fosse il caso, prima di “spedirli”, di elaborare una legge accettabile sulla sicurezza e la necessità dei viaggi delle opere d’arte. La grandezza di Verdi? “Non ci sono dubbi”.
Le vacanze(?) stanno per finire e la natura lentamente sta riappropriandosi dei suoi ritmi; così alla fine immagino l’imminente e prossimo viaggio.
Qualcuno mi chiede dei Buskers. Di fronte al terrore palese espresso dal mio viso, desiste mentre fugacemente mi passano davanti antiche ossessioni di musica da strada suonata sotto le mie finestre (allora abitavo proprio sotto il campanile del Duomo) che m’indussero a fuggire in campagna.
All’imminente ritorno in città m’attendono Dosso a Trento, le collezioni Cini a Venezia da preparare per gli Amici dei musei e poi Boldini a Forlì, il bimillenario di Augusto, il Barocco a Roma. Tutte meravigliose storie che gli amici organizzatori mi promettono di presentare a Ferrara.
E così il Lido degli Estensi non più Laido mi saluta con una giornata perfetta, dandomi appuntamento ad un altro anno e ad altre considerazioni.

L’EVENTO
Cracking Art, la plastica creativa che fa bene
all’ambiente e alla vista

Ad Orio (Bergamo) è possibile visitare fino a novembre una spettacolare expo organizzata dal Cracking Art Group, dove settemila animali realizzati in plastica riciclata danno vita ad un’Arca di Noè multicolore.

C’è tempo fino alla prima settimana di novembre per visitare la mostra “Il sesto continente”, organizzata dal centro commerciale Oriocenter in collaborazione con Cracking Art Group.

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Sculture in plastica riciclata di pesci

Oltre settemila sculture in plastica di grandi dimensioni che riproducono sei specie di animali, chiocciole, rane, suricati, lupi, rondini e pesci angelo, e che creano all’interno dello shopping center un momento di intrattenimento di grande impatto visivo ma anche di forte sensibilizzazione per il pubblico, come nella tradizione di questo movimento artistico.
Due sono gli obiettivi dell’evento espositivo: favorire la diffusione delle tematiche legate all’ambiente e all’ecosostenibilità, proteggendo la specie animale dai mutamenti climatici e dalle attività inquinanti dell’uomo, nonché di contribuire con la vendita delle opere alla salvaguardia del patrimonio storico e paesaggistico, finanziando con il ricavato il restauro di monumenti ed opere d’arte del nostro Paese.
Lo strumento ideato per comunicare il messaggio a favore dell’ambiente è originale: i visitatori di Oriocenter sono invitati a firmare una simpatica petizione sul sito www.ilsestocontinente.it per chiedere di non allontanare gli animali dalla galleria, dove si sarebbero rifugiati perché il loro habitat è minacciato.

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Rane multicolore

Il Cracking Art Group è composto da Renzo Nucara, Marco Veronese, Carlo Rizzetti, Alex Angi, Kicco e William Sweetlove, sei artisti internazionali che, sin dalla nascita del movimento artistico nel 1993, sottolineano l’intenzione di cambiare la storia dell’arte attraverso un forte impegno sociale e ambientale, unito ad un rivoluzionario uso di materiali plastici che evocano una stretta relazione tra naturale e artificiale.
La derivazione del termine “Cracking Art” deriva dal verbo inglese to crack ossia schioccare, scricchiolare, spaccarsi, spezzarsi, incrinarsi, cedere, crollare…
Per gli artisti appartenenti a questa corrente, Cracking è quel processo che trasforma il naturale in artificiale, l’organico in sintetico. Un procedimento drammatico se non controllato con coscienza. E’ proprio per evitare scenari disastrosi che hanno puntato sulla scelta di quel tipo di materiali (plastica riciclabile e rigenerata), scelta che si riflette nell’impegno sociale e ambientale del movimento.

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Banner con lumache giganti

Riciclare la plastica significa sottrarla alla distruzione tossica e devastante per l’ambiente, farne delle opere d’arte significa comunicare attraverso un linguaggio estetico innovativo ed esprimere una particolare sensibilità nei confronti della natura.
Negli ultimi anni, il Cracking Art Group ha realizzato diverse installazioni di Regeneration in piazze, monumenti, musei e centri commerciali, portando l’arte contemporanea a confronto con l’arte antica e monumentale [vedi].
Così lo storico dell’arte Philippe Daverio, che ha tenuto a battesimo la mostra di Orio, parla di questa particolare forma d’arte: “Il mio primo incontro con gli artisti della Cracking Art è avvenuto nel lontano 1995, quando ero assessore alla cultura del comune di Milano. La Cracking Art rappresenta un modo di offrire una seconda vita ai materiali che sono diventati rifiuti. Il primo modo di fare raccolta differenziata, attraverso un intervento etico che diventa un gioco ludico. Il centro commerciale di Orio Center evoca un mercato del ‘500 dove alla vita commerciale si aggiunge la vita sociale che diventa vita estetica, perché gli artisti della Cracking Art l’hanno vestito, donando ad ogni luogo un linguaggio immediato e colorato. Animali che trasformano l’edificio in un totem della comunicazione e un centro commerciale in una galleria d’arte dove ogni angolo racconta una storia”.
“Il sesto continente” è un’occasione davvero unica per vivere un’esperienza che emozionerà sia gli amanti dell’arte contemporanea che i visitatori di tutte le età, con un forte messaggio di speranza per il futuro del nostro pianeta.

Per saperne di più visita il sito [vedi]

IL FATTO
Bambini del mondo,
l’infanzia negata

Bambini, questi sconosciuti, questi ignorati-cannibalizzati-feriti-uccisi-dimenticati.
Proprio i bambini, che nulla possono contro la cattiveria dei grandi, che nulla sanno dei mali del mondo, che vogliono solo giocare, scherzare, divertirsi, correre e ridere.
Proprio i bambini che invece si trovano, loro malgrado, in mezzo a tanto nero. Il nero del fumo, della paura, del terrore, delle armi, del pianto, del dolore, della morte.
Così, a Gaza, la tregua appare ancora incerta e fragile. E mentre si stimano in oltre 370mila i bambini che hanno bisogno di sostegno psicologico ed emotivo urgente, le organizzazioni umanitarie non riescono più a rispondere a questa situazione catastrofica, almeno finché non ci sarà un cessate il fuoco permanente. L’allarme è di ‘Save the children’, che stima in più di 450 i bambini uccisi finora a Gaza. In mezzo a tanta distruzione, i bambini non hanno alcun senso di normalità e la continua violenza potrà solo aggravare e approfondire la loro paura e il trauma. Le ferite non potranno essere così facilmente sanate e l’impatto a lungo termine di questa violenza sui più piccoli sarà terribile. In Ucraina, in un asilo colpito dai bombardamenti, sono volati in cielo dieci bambini. In Iraq, molti altri, per non parlare della Siria. Una vera contabilità dell’orrore. Ma il problema non è dato dai numeri, 450, 100, 200 o 1000. Anche un solo bambino ucciso dalla guerra è già troppo.

Tanti sono gli strumenti internazionali esistenti, dalla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, alla Carta africana sui diritti e il benessere del bambino del 1990, fino alle Risoluzioni 1539/2004 e 1612 /2005 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sui bambini e i conflitti armati, ma i principi in essi contenuti sono sistematicamente violati. Strumenti di tal tipo non servirebbero nemmeno, se solo ci si fermasse a riflettere sulla sacralità stessa dell’infanzia. Che uomini siamo mai diventati?
I bambini, con il loro candore e la purezza, sanno trasferire semplicemente le emozioni più profonde con facilità e spontaneità. E’ difficile insegnare ai nostri figli a sognare e a esprimere i propri sentimenti per migliorare il mondo davanti a tanta crudeltà, diretta proprio contro di loro. Le loro camerette colorate dovrebbero farci ribellare a tanta ingiustizia, spingerci a gridare, urlare, protestare, strappare promesse a chi deve e può agire. In molte parti del mondo questi bambini non giocano più, devono fare i conti con mine, spari, scoppi, bombe. Piccole pedine indifese, parte di un gioco sporco degli adulti, il loro cuore non ha spazio per pulsare, per i semplici sentimenti di ogni giorno, per scavalcare muri, arrampicarsi sugli alberi, giocare con la sabbia, con secchielli e palette, con biglie e palline, con vento e aquiloni, con bambole e macchinine, per trovare un nascondiglio diverso da quello necessario a scampare a una granata.
Piccoli e rosei burattini, molti bambini non possono più avere alcun entusiasmo, correre nei prati per inseguire un fiore. Li stiamo privando dell’infanzia, non è giusto, non è tollerabile, non è naturale, non è umano. E’ ora di fare qualcosa. Anche se è davvero difficile capire cosa, in un ingranaggio tanto complesso, misero e meschino…

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”,
Il piccolo principe, (Antoine de Saint-Exupéry)

“Un bambino risponde «grazie» perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo. Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui abbia bisogno di te. […] Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è «aiutami a fare da solo». Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti. Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose. Lui capirà. Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la letteratura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta. Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu. […] Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti. […] Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile, nella luce velata dei tuoi occhi. Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte. Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere. Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua. […] Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.” (Federica Morrone)

IL BRANO INTONATO: Non insegnate ai bambini, Giorgio Gaber

Lavori socialmente utili

La notizia che sarà l’esercito italiano a coltivare marijuana terapeutica ci riempie di soddisfazione. Finalmente i nostri soldati avranno qualcosa di utile da fare. E se poi ai più facinorosi verrà la nostalgia di giocare alla guerra hanno già in casa il rimedio: fuma che ti passa.

LA STORIA
Il sogno di Ezra Pound
eliminare il debito e l’usura

“L’usurocrazia (potere degli usurai, ndr) fa le guerre a serie. Le fa secondo un sistema prestabilito, con l’intenzione di creare debiti”. E’ sufficiente sostituire il termine “guerra” con “speculazione” o “deflazione programmata” e la frase è facilmente riconducibile alla situazione italiana attuale. Invece questa affermazione è stata concepita nel 1944. Bruciava ancora sulla pelle degli europei la catastrofe dalla Seconda Guerra mondiale e l’orrore nazifascista. Ma c’è chi, senza salire sul carro del vincitore, riesce ad analizzare il conflitto, lontano da retorica e ipocrisia. Uno dei pochi è Ezra Pound.

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Ezra Pound, una figura controversa

Ezra Weston Loomis Pound nasce ad Hailey nel 1885, compie i suoi studi alla Cheltenham High School, allo Hamilton College di Clinton e all’Università di Pennsylvania. Nel 1908 lascia gli Stati Uniti per raggiungere l’Europa e frequenta i circoli degli intellettuali di Gibilterra, Venezia, Londra. Nel 1920 abbandona la conservatrice Londra per raggiungere Parigi, palcoscenico per i movimenti di avanguardia culturale dove frequenta personalità del calibro di Francis Picabia, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Erik Satie e James Joyce. Nel 1924 si stabilisce definitivamente a Rapallo, in Italia, stanco dell’atmosfera urbana parigina. Ed è proprio in Italia che inizia la storia dolorosa e turbinosa del poeta americano. Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, a Londra, Pound aveva maturato una personale e complessa visione del mondo e della società, riconoscendo le forti criticità del sistema e della dottrina capitalista, così come quella marxista. Fu proprio questa sua convinzione che lo spinse a esprimere apprezzamento per i provvedimenti sociali del regime fascista di Mussolini in favore dei lavoratori, le opere pubbliche e la ricerca di una politica alternativa al liberismo, in cui Pound riconosceva la principale causa delle diseguaglianze sociali.
E proprio in Italia approfondisce lo studio di una nuova dottrina economica e sociale sintetizzata in saggi pubblicati sia in lingua italiana che inglese, come ‘Abc of Economics’, ‘What is Money for?’, ‘Lavoro e Usura’. Questi testi sottolineano lo spirito poliedrico di Ezra Pound, poeta, sociologo e attento osservatore della società. ‘Lavoro e Usura’, pubblicato nel 1954, viene scritto verso la fine della Seconda Guerra Mondiale e rappresenta una lucida analisi delle cause e dello svolgimento di uno dei conflitti più sanguinari della storia dell’uomo. E questa onestà costerà cara a Pound, come vedremo. ‘Oro e Lavoro’, primo dei tre saggi di ‘Lavoro e Usura’, si apre con la visione onirica della Repubblica dell’Utopia, raggiunta per caso da Pound nel corso di una passeggiata lungo la Via Salaria. E’ una Repubblica ridente, equilibrata e onesta grazie alle leggi vigenti e all’istruzione ricevuta sin dai primi anni di scuola. Gli abitanti di Utopia attribuiscono la propria prosperità ad un singolare modo di riscuotere l’unica tassa che hanno, che ricade sulla moneta stessa: su ogni biglietto del valore di cento il primo giorno di ogni mese viene imposta una marca del valore di uno e “il governo, pagando le sue spese con moneta nuova, non ha mai bisogno di imporre imposte, e nessuno può tesorizzare questa moneta perché dopo cento mesi essa non avrebbe alcun valore. E così è risolto il problema della circolazione”.

Nella Repubblica dell’Utopia, i cittadini “non adorano la moneta come un dio, e non leccano le scarpe dei panciuti della borsa e dei sifilitici del mercato” perché la moneta viene riconosciuta come mero mezzo di scambio, senza cadere nell’erronea distorsione di riconoscerla come merce. Pensando alla situazione europea attuale è evidente il perenne errore della dottrina economica neoclassica (o neofeudale?) con cui non si riesce a instaurare un sistema economico funzionale all’economia reale. Secondo Pound la Repubblica dell’Utopia è un paese sano, libero dall’attività criminale dell’usura e dalle iniquità di borsa e finanza; i cittadini hanno creato una propria economia, funzionale ai propri bisogni e in cui è difficile rimanere abbindolati dalle distorsioni della finanza. Segue all’arguta metafora la descrizione della “Precisione del reato” in atto Pound parte addirittura dal 1694: viene fondato il Banco d’Inghilterra e lo stesso fondatore Paterson dichiarò chiaramente il vantaggio della sua trovata: la banca trae beneficio dell’interesse su tutto il danaro che crea dal niente. Pound chiama questa istituzione un’ “associazione a delinquere”.
Paradossalmente è proprio nell’ultimo anno che la Banca d’Inghilterra ha ammesso che la moneta viene creata dal nulla. Così come allora, ciò succede oggi.

L’intellettuale americano ovviamente riconosce la funzione potenzialmente utile di banche e banchieri, essi forniscono una misura dei prezzi sul mercato e allo stesso tempo un mezzo di scambio utile alla nazione, “ma chi falsifica questa misura e questo mezzo è reo.” Quindi è proprio il concetto di sovranità popolare e nazionale che viene sottolineato, evidenziando l’importanza di avere diretto controllo sul proprio credito e su una Banca Centrale nazionale e pubblica per scongiurare i rischi che derivano dal lasciare il proprio portafoglio ad un istituzione straniera non controllabile. Si può trovare facilmente un parallelismo con la situazione attuale: l’Italia, come gli altri stati federati europei, non ha gli strumenti per controllare un organo come la Banca Centrale Europea, di fatto una banca privata che eroga prestiti a debito.
Pound arriva quindi a delineare l’immenso potere dato in mano all’Usurocrazia. E proprio a questo punto che il poeta arriva a parlare della guerra. Le guerre vengono scatenate dall’Usurocrazia per mettere sotto il giogo del debito le nazioni sotto attacco finanziario. L’obbiettivo della finanza è costringere i debitori a rilasciare le proprietà attraverso la contrazione della circolazione monetaria. Questo è ciò che successe nel 1750 in Pennsylvania dove la Corona Inglese soppresse la carta moneta per stroncare un’economia che poteva diventare pericolosa per gli interessi del Regno Unito.
Ezra Pound nel programma radiofonico «Europe calling, Ezra Pound speaking», durante la guerra, sostenne che le colpe dello scoppio del conflitto non erano da imputare solamente a Mussolini e a Hitler ma anche agli speculatori della grande finanza che aveva interesse a far indebitare Italia e Germania. Pound, che nel 1933 viene ricevuto da Mussolini per esporre il proprio pensiero economico, afferma che la finanza internazionale si è infuriata venendo a conoscenza della mire italiane di raggiungere la sovranità economica, l’autarchia e di volersi sottrarre al grande ricatto del debito. Il poeta scrive a chiare lettere che “una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai”.

Ma cosa è necessario affinché il ricatto dell’Usurocrazia vada in porto? Pound risponde che la colpa è da identificare nella nostra ignoranza. Un’ignoranza che deriva dalla disinformazione e dalla velleità della stampa, che è fondamentalmente controllata dalla stessa Usurocrazia. Viene citato l’odioso esempio degli advertisers, le grandi ditte e istituti finanziari che comprano pagine “pubblicitarie” nei giornali americani: “è idiota lasciare le fonti d’informazione della nazione nelle mani di privati irresponsabili, talvolta stranieri”. E quindi l’ignoranza e la velleità che permette la pratica dell’usura che altro non è che una tassa prelevata sul potere d’acquisto senza riguardo alla produttività e all’effettiva possibilità di produrre. Riguardo la pratica dell’usura Pound consiglia, ispirandosi al De Re Rustica di Catone, di avere la stessa opinione che potrebbe avere una vittima del suo assassino.

Per sottolineare il carattere di libero pensatore del poeta americano, egli si espresse anche duramente circa l’antisemitismo che caratterizzava il regime fascista e nazista. Egli dichiarava fosse inutile e ingenuo far ricadere le colpe sul popolo ebraico, e che si dovesse invece indirizzare la lotta contro l’Usurocrazia e la finanza, il vero nemico, che non ha mai avuto razza.
Ma Pound pagò cara questa sua onestà intellettuale da uomo e pensatore radicalmente libero. Il poeta fu prelevato dalla sua casa a Rapallo da un commando partigiano e consegnato agli Alleati.
La notte tra il 15 e 16 novembre 1945, all’uscita del campo di concentramento del Disciplinary Training Camp di Pisa, in una jeep scoperta americana veniva trasportato Pound, anziano e malconcio prigioniero ammanettato. Indebolito e stordito dai molti mesi di carcere duro, rinchiuso in una gabbia all’aperto, esposto al sole e alla pioggia, il poeta era atteso a Roma da un volo speciale che, dopo trenta ore di volo e un paio di scali, giunse a Washington. Qui l’aspettavano un processo per alto tradimento, il rischio della condanna a morte, la diffamazione, infine 13 lunghi anni di internamento nel manicomio criminale di St. Elisabeth.
Così finisce il sogno della Repubblica dell’Utopia di Ezra Pound; diffamato allora da chi per convenienza salì sul carro del vincitore e oggi da chi rimane accecato dall’ipocrisia ideologica.
Oggi le sue parole a noi suonano come la profezia del disastro a cui stiamo assistendo: “Con usura nessuno ha una solida casa di pietra squadrata e liscia”; lascia la sua pesante eredità intellettuale a noi, incapaci di scrivere sopra il portone del nostro Campidoglio “il tesoro di una nazione è la sua onestà”.

(Fonti: “Lavoro ed Usura”, Ezra Pound (1953) e “Canti Pisani”, Ezra Pound consultabili all’archivio Nello Quilici e alla Biblioteca Ariostea)

La mafia uccide solo d’estate

Il giovane Arturo, Palermola prima parola pronunciata alla nascita, “mafia” invece di “mamma”. La nostra storia, la nostra coscienza. Un film straordinario e commovente.

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la locandina

Ideato da un sorprendente “Pif”, classe 1972 – quella generazione che, come la mia, ricorda bene i terribili eventi di mafia del 1992 -, questo film è davvero profondo, toccante, un omaggio alle vittime della mafia, diverso e originale perché fa riflettere anche sorridendo, perché smaschera i segreti di un paese in una maniera e stile del tutto diversi da quelli a cui siamo abituati quando si scrive e si parla di malavita organizzata. Qui non ci sono eroi e antieroi, ma al centro vi è il piccolo Arturo, nato accanto alla figlia di Totò Riina, un bambino palermitano innamorato della piccola Flora, che fa di tutto per conquistarla, mentre omicidi e tappe importanti della nostra politica nazionale scorrono, inesorabili, sotto i suoi occhi giovani, increduli e impotenti.

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scena del film, Rocco Chinnici spiega ad Arturo la bontà degli iris alla ricotta

Arturo confessa il suo giovane amore solo a Rocco Chinnici, vicino di casa di Flora, vive tutta un’infanzia circondata da eventi di sangue, incrociando Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, che gli rivela la bontà degli iris ripieni di ricotta, e assistendo involontariamente alle morti dello stesso Chinnici, di Pio La Torre o del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Tutto è visto attraverso gli occhi di due bambini: ogni volta che le cose sembrano andare bene, ogni volta che Arturo sta per dichiararsi a Flora ecco che uccidono qualcuno, scoppia una bomba o bisogna stare incollati alla televisione per seguire qualche grande e conturbante avvenimento.
Arturo ha il mito di Giulio Andreotti
, che da un lontano schermo televisivo, confessando di essersi dichiarato alla futura moglie al cimitero, sembra volergli suggerire come conquistare la propria amata. Di lui colleziona immagini e articoli di giornale, ha poster appesi nella cameretta, ne indossa le vesti in abiti da carnevale per i quali viene anche premiato.

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Il piccolo Arturo con il giornale che annuncia l’omicidio di Dalla Chiesa

Arturo, da grande, vuole fare il giornalista, lo capisce quando vince il concorso indetto da un giornale palermitano e, per un mese, vi scrive articoli. Corre allora in prefettura a intervistare Dalla Chiesa, entrando di soppiatto, e gli chiede: «l’onorevole Andreotti dice che l’emergenza criminale è in Campania e in Calabria. Generale, ha forse sbagliato Regione?». Uscendo, nota l’assurdità di combattere una guerra quando fuori dall’ufficio del Generale vi sono solo due agenti. Non sa che Dalla Chiesa ha rinunciato alla scorta. E invano aspetterà Andreotti al funerale di Dalla Chiesa, non sapendo che il presidente del Consiglio ai funerali preferisce i battesimi, come dichiarerà a un giornalista che gli chiede conto di quell’assenza. Il nostro protagonista cresce e all’improvviso si ritrova sdraiato nel suo letto, ventenne, ora consapevole di quello che sta accadendo intorno a lui. Cade anche Dalla Chiesa, grande lo sconforto quando si comprende che Andreotti non era una buona fonte (…), quando il primo dovere di ogni giornalista è proprio quello di verificare le proprie fonti.

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Arturo e Flora

I filmati di repertorio scorrono, la coscienza rivive. Flora è lontana da Palermo, partita per la Svizzera, ma qui la guerra di mafia continua. Arturo decide che Andreotti non è più il suo mito. Il poster che aveva appeso alla parete è caduto insieme alle speranze nell’esplosione che ha travolto il giudice Chinnici, l’unico che, prima di uscire, aveva letto il messaggio d’amore disegnato sull’asfalto per Flora, un cuore che salta, un amore che ancora non viene confessato. Arturo ha capito cosa sta succedendo e con lui l’ha compreso anche Palermo. La scena che raffigura questa nuova consapevolezza è quella dei funerali di Paolo Borsellino, quando, il 24 luglio 1992, l’intera città si riversa davanti alla cattedrale della S. Vergine Maria Assunta per urlare ai politici intervenuti alle cerimonie: «Fuori la mafia dallo Stato!». Emblematica è, poi, la scena in cui un picciotto spiega a Riina come funziona il climatizzatore e la sua accensione. Il boss è così ignorante che il picciotto perde la pazienza. Ma quando Riina preme il pulsante del telecomando davanti alla tv dove si vedono Falcone e Borsellino, si sente un’esplosione: «qualche giorno dopo Totò Riina capì come funziona un telecomando», commenta la voce narrante del regista, la strage di Capaci.

Arturo adulto si divincola fra le difficoltà di trovare lavoro, segue pure la campagna di Salvo Lima, ma solo per amore di Flora, e l’omicidio del politico lo porterà definitivamente a stare dalla parte giusta e a conquistare la donna amata in modo definitivo. Al loro figlioletto cercherà di far capire, passeggiando per Palermo e sfilando davanti a tante lucide lapidi commemorative, chi sono stati gli uomini che hanno lottato contro la mafia, muovendosi tra il drammatico e il comico, con coraggio e grande senso civico ma con la sensibilità e l’incoscienza di un vero poeta.

“La Mafia uccide solo d’estate”, di Pierfrancesco Diliberto (“Pif”), con Pif, Cristiana Capotondi, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè, Italia 2013, 90 mn.

L’OPINIONE
E adesso anche la Bce vuole aumentare la moneta in circolazione

Alleluia. La Bce ha praticamente azzerato i tassi di riferimento portandoli allo 0,05%, ha alzato i tassi negativi sui depositi bancari da 0,1 a 0,2% e il board dei governatori delle banche Ue ha cominciato a discutere del quantitative easing, cioè del volume di denaro da riversare nell’economia reale, a famiglie e imprese, che si concretizzerà nei prossimi mesi. I mercati hanno esultato, lo spread Btp decennali – Bund tedeschi è finito a 138 punti base, mai così basso.
Anche se la decisione è stata giudicata “inaspettata” e “sorprendente” da diversi media finanziari internazionali, sorprendente non è affatto. Da diverse settimane il presidente della Bce Mario Draghi aveva lasciato capire che servivano misure stimolatrici dell’economia e per frenare la deflazione, favorendo politiche espansive nell’Eurozona. Ed è assai probabile che questa mossa sia stata al centro del meeting economico di Jackson Hole, negli Stati Uniti.

La Bce agisce quindi con una sua coerenza, seguendo l’esempio della Federal Reserve americana e della Banca centrale del Giappone. Ma le politiche monetarie non hanno effetti eterni, non agiscono sulla struttura delle economie. Queste manovre possono correggere i cicli economici per un breve periodo, ma se poi le economie non si riprendono, gli stimoli monetari perdono la loro efficacia. E non possono durare per sempre: negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha deciso di diminuire gradualmente il programma di erogazioni di risorse finanziarie al sistema economico (cominciato con 40 miliardi di dollari al mese nel settembre del 2012) per farlo terminare nel prossimo mese di ottobre. Significativamente, il sito internet del Washington Post del 13 luglio scorso commentava che il quantitative easing (Qe) non sarà affatto il quantitative eternity (Qe-ternity).

Il dibattito nell’Eurozona non ha finora chiarito se il rigore deve essere a senso unico, un credo assoluto, oppure no; se le deroghe al patto di stabilità chieste dall’Italia e da altri Paesi saranno approvate o meno e cosa produrranno. Sicuramente la sola Bce non potrà far molto, se non si aggrediscono nodi strutturali. Come farlo? Mario Draghi ha chiarito che l’elasticità è possibile, ma rispettando le regole che l’Eurozona si è data, ed evocando la necessità di riforme precise nei mercati del lavoro e del prodotto, e migliorando l’ambiente economico in cui si muovono le imprese.
Criteri generali, in cui ognuno può muoversi nel bene e nel male. Ma a ben vedere la parola chiave dell’economia è una sola, e vale ormai per tutta l’Eurozona: ricostruzione, su basi nuove e più eque , e rapporti tra gli Stati improntati alla cooperazione, non a logiche di primazia più o meno mascherate. Altrimenti, a che serve l’Europa?

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Fecondazione eterologa al via in Emilia-Romagna. Le linee guida presentate dall’assessore Lusenti

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

Politiche per la salute – Al via in Emilia-Romagna la fecondazione eterologa. Sarà gratuita nelle strutture pubbliche. L’assessore regionale Carlo Lusenti: “Norme che danno ordine, funzionamento e disciplina all’esercizio di un diritto riconosciuto dopo la sentenza della Corte Costituzionale”

Bologna – Al via in Emilia-Romagna la fecondazione eterologa, che sarà gratuita nelle strutture sanitarie pubbliche. La Regione ha predisposto le proprie linee guida, che definiscono le modalità di erogazione e i criteri di autorizzazione per le strutture sanitarie.
Il documento è stato presentato oggi in conferenza stampa dall’assessore alle Politiche per la salute Carlo Lusenti e, considerata la natura urgente del provvedimento, sarà adottato la prossima settimana con una delibera di Giunta. Il testo recepisce le linee guida nazionali, condivise e approvate ieri dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome.
“Con l’accordo raggiunto ieri – ha affermato Lusenti – le Regioni hanno assolto in modo molto tempestivo all’impegno preso a metà agosto: condividere regole comuni di funzionamento che rendano esigibile per le coppie un diritto riconosciuto dopo la sentenza della Corte Costituzionale”.
Già dalla prossima settimana, non appena entrerà in vigore la delibera regionale, le coppie potranno recarsi nei ventuno centri – pubblici e privati – di procreazione medicalmente assistita presenti in Emilia-Romagna, per effettuare i colloqui con i medici, ai quali compete la decisione di consigliare la tecnica più idonea per la coppia.
“Le linee guida – ha spiegato l’assessore – danno ordine e disciplinano l’esercizio di un diritto, e al tempo stesso garantiscono equità di accesso alle prestazioni e sicurezza per la salute dei cittadini che ricorrono alla fecondazione eterologa”.
Per quanto riguarda il tema economico, cioè l’incidenza che l’introduzione di questa tecnica avrà sul sistema sanitario nazionale, l’assessore ha affermato: “La differenza di costi tra la procreazione medicalmente assistita omologa ed eterologa è marginale – ha spiegato – e riguarda essenzialmente la spesa per la conservazione del registro e la crioconservazione dei gameti. In Emilia-Romagna ogni anno sono circa 4.500 le coppie che fanno ricorso alla fecondazione omologa e stimiamo che con l’eterologa aumenteranno circa del 10-15%”.

I contenuti del documento
Le linee guida definiscono i criteri di selezione dei donatori e dei riceventi, gli esami infettivologici e genetici da effettuare, il numero di donazioni che un donatore o donatrice può effettuare, le regole sull’anonimato dei donatori, i criteri di esecuzione della fecondazione eterologa, la tracciabilità delle donazioni.
Come per la fecondazione omologa, tutti gli esami, i controlli e la metodica sono a carico del Servizio sanitario nazionale, con il limite massimo di 43 anni per le donne riceventi e un numero massimo di 3 cicli da effettuare nelle strutture pubbliche. La compartecipazione alla spesa (il ticket) è prevista solo per gli esami diagnostici e di valutazione dell’idoneità per entrambi i componenti della coppia, precedenti all’avvio della procedura. Gratuita e volontaria è la donazione, così come gli esami e i controlli che devono effettuare donatori e donatrici. I donatori maschi devono avere un’età tra i 18 e i 40 anni, le donatrici tra i 20 e i 35 anni.

I centri di procreazione medicalmente assistita in Emilia-Romagna
In Emilia-Romagna sono 21 i centri autorizzati (10 pubblici e 11 privati) per le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Delle 10 strutture pubbliche, 4 sono di primo livello (effettuano l’inseminazione artificiale, a bassa complessità organizzativa e tecnico-professionale), mentre le altre (sempre pubbliche) sono autorizzate a utilizzare anche tecniche di secondo-terzo livello (fecondazione in vitro e fecondazione attraverso l’iniezione dello spermatozoo all’interno del citoplasma). Per il privato, su 11 centri, 4 sono di primo livello, gli altri di secondo-terzo.
Tutte le strutture che eseguono procedure di procreazione medicalmente assistita possono già effettuare la fecondazione eterologa, come previsto dal documento approvato dalla Conferenza delle Regioni. Rispetto ai nuovi ulteriori requisiti specifici di autorizzazione per la fecondazione eterologa, le linee regionali individuano un periodo di transizione entro il quale le strutture, sia pubbliche che private, devono adeguarsi (entro il 31 dicembre 2014).
In attesa di realizzare un registro nazionale dei donatori che possa consentire la tracciabilità dei dati tra donatore e nato, pur garantendo l’anonimato, ogni centro conserverà le proprie banche dati e non potrà, per motivi di sicurezza, scambiare i gameti con altri centri.
Nel 2013 i centri dell’Emilia-Romagna hanno trattato con tecniche di primo livello 794 pazienti (ultimo dato aggiornato del Registro nazionale), di cui 507 nelle strutture pubbliche e 287 nelle private. L’attività di secondo e terzo livello ha riguardato 3.820 pazienti, di cui 2.358 nei centri pubblici e 1.462 in quelli privati.

Consolazioni marine in un giorno di pioggia

RACCONTI LIDESCHI (SECONDO) ovvero I DIARI VENTURI

Niente di peggio di una noiosa giornata piovosa al mare, mentre come formiche impazzite i villeggianti percorrono su e giù il corso con fare febbrile e indaffarato, in attesa che il tempo passi tra interminabili code in farmacia o dal pasticcere. Frattanto internet procede a singhiozzo e non riesci a lavorare; le notizie minacciose sulla salute di un carissimo amico rendono ancora più cupa la prospettiva di arrivare a sera, nonostante che nell’unica libreria ricca di romanzi gialli e di evasione per pura pigrizia compri Doris Lessing, i racconti della Mansfield e quelli non ancora letti di Hesse che ritroverai intonsi l’anno prossimo. Pensi al prossimo viaggio e ti rappresenti una giornata simile tra Londra ed Edimburgo, sapendo già che per un giorno ti perderai la mostra su Virginia Woolf e ti trascinerai il ponderoso catalogo per tutto il viaggio. E al ritorno della passeggiata con la Lilla, tra un piovasco e l’altro ti abbatti sul divano e accendi la televisione: Rai 5. Le note del concerto per violino di Brahms entrano nella stanza e l’accendono di luci accecanti che si sperdono tra la chioma dei pini e si sommano al pigolìo dei giovani storni. Sullo schermo la camera è fissa sul viso del solista: un viso russo. Gli occhi serrati ogni tanto si socchiudono con un movimento d’approvazione e un misterioso sorriso aleggia sulle labbra sottili. Mani grassocce carezzano lo strumento e lo afferrano in stretta d’acciaio e finalmente capisci che la nobiltà dello spirito umano ha ragione delle giornate uggiose: dei problemi politici e culturali di “Ferara, stazione di Ferara”, della mediocrità della vita. Non t’importa più dei visi comuni e anonimi dei musicisti, né del gesto enfatico del direttore. Delle improbabili mises delle suonatrici. Né degli odori e puzze di umanità che qui tra la folla o là nella sala di concerto emanano i presenti e i gitanti.
T’importa solo del divino che è in quelle note.
E per raggiungere la pienezza della consolazione ritrovata t’affretti a rileggere i primi quattordici versi del Paradiso dantesco. E stai in pace.

IL FATTO
Accanto al bel Listone
sul corso c’è l’effetto
di una colata di fango

Il nuovo Listone piace a tutti. La piazza Trento e Trieste, accanto al duomo, si presenta ora affascinante e suggestiva anche la sera, allorché il rinnovato impianto di illuminazione la inonda di magica luce. All’ineccepibile opera di riqualificazione della piazza, fa però da contrappunto il discutibile intervento effettuato sul contiguo, centralissimo, corso Martiri della Libertà.
Per necessità di parziale ripristino del manto in porfido, avvallato a causa del passaggio di bus e mezzi pesanti – così è stato spiegato – si è provveduto a posare un inserto di pavimentazione nuova in luogo di quella affossata. L’effetto ottenuto però – aldilà di curiosi inserti metallici a forma d’onda posti a intervalli regolari chissà perché – è quello tipico dei residui di fango lasciati da un temporale. I nuovi cubetti utilizzati, infatti, presentano toni cromatici nettamente più chiari rispetto a quelli a loro preesistenti, e con tonalità che virano al beige anziché al grigio.

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L’evidente differenza cromatica fra i vecchi e i nuovi sampietrini posati in corso Martiri a Ferrara

L’assessore ai Lavori pubblici, Aldo Modonesi, interpellato in proposito, assicura che si tratti di materiali prodotti dalla medesima cava dalla quale ci si era riforniti in passato. E spiega che che la differenza cromatica è dovuta semplicemente all’usura della pavimentazione. “Quella precedente, in cinque anni, ha subito l’effetto dello sfregamento delle gomme, causato dal transito dei mezzi veicolari e dei passanti, e del sedimentarsi dello sporco”. Si tratterebbe quindi di una semplice conseguenza dell’usura. Pertanto, per rivedere una pavimentazione gradevolmente uniforme, priva dell’attuale effetto patchwork, si tratta solo di aver pazienza: qualche anno e il tempo farà la sua parte…
Ma se questo è il problema, non era proprio possibile recuperare i vecchi sampietrini rimossi e riutilizzare quelli, anziché posarne di nuovi? Erano sprofondati, mica distrutti! Si sarebbe così evitato ogni inestetismo.

L’INCHIESTA
Partigiani oggi:
fra i nuovi interventi
Massimo Gramellini
e Daniele Civolani (Anpi)

2. SEGUE – Partigiani oggi: quali ideali sostenere e a cosa opporre resistenza. La sollecitazione di ferraraitalia sta inducendo tanti a intervenire. Anche Massimo Gramellini (vicedirettore della Stampa che non necessita certo di presentazioni) si è reso disponibile e ha risposto all’interrogativo. Sposta l’attenzione dal piano politico a quello morale e afferma con eloquente semplicità: “Il valore da difendere è l’entusiasmo. I nemici dell’entusiasmo sono il cinismo e le false promesse”.

Paolo Ferrandi, giornalista della Gazzetta di Parma e docente all’Università della città ducale, rivela di essere “sempre un po’ a disagio a indicare ‘imprescindibili capisaldi’ o ‘bussole dell’agire. Il fatto è che spesso nella vita si naviga a vista. Però della triade classica – liberté , egalité, fraternité – sono particolarmente affezionato all’uguaglianza. Un po’ perché l’utopia dell’uguaglianza sostanziale è passata di moda con il crollo dei paesi comunisti (e anche lì c’erano quelli più “uguali degli altri”); un po’ perché anche l’ideale regolativo dell’uguaglianza delle opportunità ormai è dimenticato anche dai partiti (e movimenti) di sinistra in nome dell’efficienza definita in termini economici. E poi la capacità di dire di no e di stare caparbiamente in minoranza, quando si pensa che sia giusto. Anche rischiando. Ma quello penso sia implicito nel concetto stesso di resistenza”.

“In questo momento il valore che credo debba essere difeso con maggior forza – sostiene Daniele Civolani, presidente dell’Anpi di Ferrara – è quello del lavoro, poiché il numero impressionante di persone che vengono private di questo diritto fa sì che si vada ad aprire una ferita grave nella dignità del nostro intero Paese”. E introduce una nota personale: “Se essere partigiano vuol dire essere apertamente e onestamente di parte e se ormai anche quelli che erano la mia parte sono andati da un’altra parte, che partigiano posso essere? Di me stesso? Di un ideale forse? Di pochi amici tutti ormai coi capelli grigi che non sanno rinunciare ai principi che li hanno sorretti una vita intera? Dico la verità, io mi sento partigiano, ma non mi sento più di combattere: mi piacerebbe tornare in piazza a protestare e vedere intorno a me centinaia di migliaia di persone affermare i propri diritti e la propria dignità, mi piacerebbe sentirmi parte di un grande e potente movimento popolare a difesa di tutti i diritti proclamati dalla Costituzione, a difesa dei deboli, degli ultimi, comunque e dovunque”.

Cinzia Carantoni, giovane laureata in filosofia all’Università di Ferrara, segnala “il valore della giustizia, il diritto: un tema che al di fuori della società non ha alcun senso, per dirla con Hobbes, perché in natura il diritto è potenza, ovvero vince sempre il più forte”. Quindi l’affermazione dell’umanità attraverso l’affrancamento dalla condizione di ferinità e l’accogliemento dei compromessi necessitati dalla socialità. Mentre il rischio segnalato è quello derivante dalla presente “epoca del transpolitico, che ci porta ad essere una società di spettatori passivi di quel meccanismo di rappresentanza che, invece, avevamo scelto come specchio di noi stessi. Con un totale sbilanciamento verso la forma più estrema di rappresentanza, siamo diventati osservatori attoniti, incollati allo schermo televisivo per subire una politica che va avanti senza di noi, una politica senza soggetto né contenuti”.

“Essere ‘partigiani’ ha per me il significato forte di portare avanti questioni di principio e valori come l’onestà, la serietà e la chiarezza nelle relazioni e nella professione – afferma Daniela Gambi, insegnante -. Da ‘partigiana’, ritengo sempre più vitale accrescere la mia capacità di ascolto e di condivisione e combattere l’ipocrisia, la furbizia, la malafede e l’arroganza”.

Francesco Ragusa, neolaureato, la pensa così: “Partigiano, oggi, è colui che non si lascia trascinare da un Paese in avaria e che non si adagia sullo stato delle cose. Ma quelle cose vuol cambiarle veramente. La Resistenza, ora come allora, significa non arrendersi. Non rassegnarsi, crederci ancora e non smettere di farlo. Il nemico non è più quello di un tempo, ma l’obiettivo finale rimane ancora una volta riprendere in mano le sorti dell’Italia. Per renderla più “normale”, pure un po’ più civile. Il partigiano nel 2014, ad esempio, lotta affinché il Paese continui a preservare e salvare i migranti, dal mare e dai fazzoletti verdi (che almeno, un tempo, detenevano l’esclusiva di un certo tipo di idee). Partigiano è il cittadino No-Muos così come il No-Tav, quello che non si arrende all’invasione del mostro elettromagnetico americano o dell’alta velocità nella valle. La Resistenza è anche la piccola o grande azione quotidiana in favore della legalità, per evitare che corruzione, malaffare, evasione fiscale o altri fantasmi possano fare ancora un altro passo in avanti in Italia. Agire da partigiano è mille altre cose, ma essenzialmente è alzarsi la mattina e pensare che di combattere quella sacrosanta battaglia, ancora un altro giorno, per rendere migliore il Paese, ne vale la pena. Nonostante tutto”.

2. CONTINUA

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L’OPINIONE
Note di realtà, a volte basta una canzone

di Alessandro Oliva

Strana quest’estate del 2014: fredda, eppure anche insopportabilmente calda. Per rendersene conto bastava accendere un televisore e aspettare l’arrivo di un telegiornale e il suo carico di opprimenti notizie: si parlava, di volta in volta, dei missili di Hamas e dei raid aerei di Israele; si mandavano spezzoni di attacchi continui, di popolazioni confinanti che si uccidono a vicenda, di fanatismi conditi da pretese di razionalità nel togliere la vita a delle persone; si vociferava di un Paese dell’Est non troppo lontano, dove è in corso una guerra fratricida e dove si combatte città per città, strada per strada.
E non è ancora finita, i conflitti proseguono. Sono sgomento e incredulo, perché le guerre scoppiano, vanno avanti e quando finiscono non sai nemmeno perché sono cominciate. Semplicemente esplodono e, se sei abbastanza fortunato, puoi assistere al loro cruento sviluppo attraverso uno schermo che ti regala la sensazione della vicinanza e il conforto della lontananza. Altrimenti, basta aprire la porta di casa, prima che la guerra stessa bussi.
Ad ogni modo essere distanti equivale spesso a sentirsi distaccati, eppure esiste sempre qualcosa, come un particolare caso di violenza bellica, una strage o la morte degli innocenti, in grado di riportarci al conflitto e a instillare il noi il desiderio, la preghiera che questo meccanismo infernale si fermi. Nel mio caso è stata una canzone. Si chiama “Civil War”, degli assai controversi Guns N’ Roses. Non lo ascoltavo da tempo, questo brano, realizzato da una band selvaggia, accusata di misoginia, omofobia e razzismo e che, con la sua furia, è stata capace di conquistare in un attimo il mondo intero. Chiunque si trovasse ad ascoltarla per la prima volta potrebbe partire prevenuto, nonostante il titolo: “tanto è il solito sesso, droga e rock n’ roll”. E’ uno stereotipo a volte azzeccato, ma che in questo caso non potrebbe risultare più sbagliato.

Si parte con un lamento agonizzante, poi una voce sommessa e tremolante fluttua su un arpeggio triste e malinconico, preceduto da un fischio che preannuncia solitudine, desolazione e abbandono.

“Look at your young men fighting
Look at your women crying
Look at your young men dying
The way they’ve always done before

Look at the hate we’re breeding
Look at the fear we’re feeding
Look at the lives we’re leading
The way we’ve always done before”
[Guns N’ Roses, Civil War, Use Your Illusion II, 1991, Geffen Records]

In un crescendo continuo l’atmosfera si carica di tensione fino ad esplodere in un furioso incedere: il canto sconsolato diventa un ruggito rabbioso, aspro e roco, le chitarre si affilano in un’eco distorto, i tamburi vengono picchiati con meccanica brutalità, e si arriva a quello che forse è il passaggio più intenso e coinvolgente dell’intero brano:

“My hands are tied!
The billions shift from side to side
And the wars go on with brainwashed pride
For the love of God and our human rights
And all these things are swept aside
By bloody hands time can’t deny
And are washed away by your genocide
And history hides the lies of our civil wars”

E’ una cruda realtà, quella che additano con note incendiarie i Guns N’ Roses, affrontandola di petto, schernendola e rinfacciandola anche nello stupendo verso un finale di commiato: “Ma poi cosa c’è di civile in una guerra?”. E’ la realtà delle guerre che hanno pretese di umanità, delle guerre che si nascondono dietro le religioni e i diritti umani, un meccanismo perverso che continua a ripetersi da tempo immemore. Data la situazione, sembra che una canzone non basti, che non possa esercitare alcun effetto. Forse però l’aspetto maggiormente positivo di questo pezzo e di tutte le canzoni non è l’intrinseca bellezza, ma il fatto che si inserisce in una scia, la segue e la crea.
In altri termini “Civil War” può condurci verso altre porte, verso altre canzoni che parlano della stessa cosa, di guerra, e di informarci, coinvolgerci, sensibilizzarci, assumendo ruoli che apparentemente sembrano estranei alla musica, ma che essa riesce ad assumere con forza travolgente. Personalmente, ne sono felice. Sì, perché anche se “sappiamo tutti dove soffia il vento oggi”, “quante volte un uomo può voltare la testa, fingendo di non vedere”? Ed è molto facile nel momento in cui “Odio e guerra sono le sole cose che abbiamo oggi” e “anche se chiudo i miei occhi non se ne andranno via, così che devo farci il callo, perché è così che vanno le cose”; “e non so più pregare, e nell’amore non so più sperare”. A volte realizzo che basta una canzone per dirci che “quando la violenza causa silenzio, dobbiamo aver sbagliato qualcosa”, e che dovremmo levare più spesso un inno al cielo: “date una possibilità alla pace”.

[Le citazioni in corsivo dell’ultimo capoverso fanno riferimento a testi dei seguenti brani: Bob Dylan, Blowin’ in the Wind, The Clash, Hate And War, U2, Brian Eno, Luciano Pavarotti, Miss Sarajevo, The Cranberries, Zombie, John Lennon – Plastic Ono Band, Give Peace a Chance]

Il brano intonato: Guns n’ Roses, Civil War [clic per ascoltare]