Eravamo in 14: dieci bibliotecariə, io volontaria e due operatrici di EQUILIBRI accompagnate da una collaboratrice. EQUILIBRIdi Modena è una cooperativa sociale con una lunga storia che parte dal 1984 grazie ad alcuni pionieri nel campo della promozione – anzi incitamento – alla lettura, oggi praticata nella forma di numerosi progetti proposti alle scuole, alle biblioteche e alla gente, cui si aggiunge il settore della editoria giovanile (libri da leggere), nonché della produzione di profondi, agili e utilissimi ‘manuali’ (libri per far leggere).
WE NEED BOOKS è uno spazio contemporaneo pionieristico che offre servizi culturali alla comunità, permettendo di accrescere il desiderio di leggere, fornendo strumenti di miglioramento delle proprie abilità e competenze a utenti di ogni età ed estrazione sociale, greci e stranieri.
A novembre 2019, nel vibrante e diversificato quartiere Kypseli, è stata aperta la prima biblioteca multilingue, con l’importante obiettivo di creare una società libera dalle discriminazioni, offrendo libero accesso alla conoscenza entro uno spazio che incoraggiasse alla comunicazione, alla immaginazione e alla gioia.
Qui si opera per favorire l’uguaglianza, la solidarietà e la difesa dei diritti umani. Si promuovono il multiculturalismo e l’empatia nelle vite quotidiane degli Ateniesi. Gli obiettivi belli e profondi e la ‘mission’ dell’associazione, nata principalmente con l’attenzione rivolta ai rifugiati politici, ci sono stati appassionatamente illustrati dalle due operatrici Johanna e Emma e dalla volontaria Margherita.
Il ricco programma dei quattro giorni di corso ha visto un accorto alternarsi di presentazioni teoriche e osservazioni sul campo, giochi di ruolo e discussioni e confronti. Ci è piaciuta molto la scelta di non chiudere al pubblico la biblioteca mentre noi eravamo là, sedutə attorno al lungo tavolo, ad ascoltare, parlare, leggere… e vedere in tal modo intorno a noi alcuni bambini aggirarsi tra gli scaffali, giocare, fermarsi a leggere.
Abbiamo desiderato entrare a far parte di questo colorato universo, per cui ci siamo associatə e, secondo una modalità bella che ci ha ricordato l’usanza napoletana del “caffè sospeso”, abbiamo lasciato le nostre “tessere sospese” …
Mi è sembrata particolarmente efficace, nella prima mattinata, la proposta di ‘gioco’ utile ad autopresentarci: siamo statə invitatə a scegliere, girovagando fra gli scaffali ricchissimi di ben 14.000 libri in 60 lingue differenti, uno o più di uno che ci ‘parlasse’ o che ‘parlasse di noi’, favorendo così lo scambio e la reciproca conoscenza.
Anche i momenti conviviali sono stati opportunamente collocati nel programma con scopi sensati ed efficaci: i break a metà mattinata, le passeggiate nel quartiere e i pranzi insieme alle operatrici. Ci sono stati forniti materiali di studio, bibliografie, suggerimenti che porteremo con noi e arricchiranno il nostro lavoro in biblioteca.
Il percorso svolto ha anche contribuito a creare e/o a rafforzare relazioni stimolanti, certo favorite dal comune interesse verso gli argomenti che via via venivano trattati, ma anche dal clima positivo, leggero, sorridente e appassionato che si è venuto a creare.
È bello poter constatare come, anche in pochi giorni, si possa verificare la trasformazione di quello che era nato come “gruppo destino” in un ben assortito “gruppo progetto”, cui si è aggiunto e perfettamente integrato, il giovane John-Mark, professore scozzese presso la UEA (University of East Anglia a Norwich) appassionato di biblioteche multiculturali.
La città di Atene ha fatto da cornice speciale e di riguardo alla nostra fantastica avventura. Già la sera del nostro arrivo si è rivelata palese l’attitudine del nostro bel gruppo alle camminate – ed è proprio così, come curiosi flaneurs, che si scoprono e si gustano le città.
Atene dalla Collina del Licabetto
La meta scelta, il Lofos Lykavittos (Collina del Licabetto) ci ha regalato, dopo un bel tratto a piedi e quello conclusivo in una pittoresca funicolare, un panorama a 360°, che abbiamo dovuto conquistare passo dopo passo, praticamente sgomitando tra la folla di turisti per lo più impegnati a cercare le inquadrature più efficaci per i loro selfie (e vi risparmio le mie tirate sul turismo di massa…).
La mattina seguente il tragitto da compiere per andare dall’hotel alla sede di WE NEED BOOKS ci ha fatto conoscere ed attraversare il Pedio Areos (Parco di Ares), il più grande parco di Atene (XIX secolo), dai larghi viali costellati delle statue degli eroi della guerra d’indipendenza (1821-1832) dall’Impero Ottomano.
Quello stesso giorno, il primo del corso, Iohanna e Margherita ci accompagnano, a ora di pranzo, in giro per il quartiere Kypseli, “multietnico e popolare ma anche alternativo il giusto…rappresenta l’Atene vera per i veri Ateniesi”, come scopro curiosando nei siti turistici che offrono tour ‘al di fuori dei soliti tracciati’.
Il quartiere Kypseli – Atene
Il quartiere Kypseli – Atene
Anche le strade intorno al nostro hotel, in zona Viale Alexandras, ci appaiono animate e vivaci, con il loro alternarsi di edifici ristrutturati e altri purtroppo abbastanza cadenti, se non addirittura fatiscenti, ma resi pittoreschi dai numerosi graffiti intensi e coloratissimi… Percorrendole mi è venuto da pensare, che sembra di stare in un ‘Centro Sociale a cielo aperto’…
L’Acropoli di notte – Atene
Naturalmente, non potevano mancare, nelle nostre peregrinazioni durante i momenti liberi dal corso, i ‘pezzi forti’: l’Acropoli, ammirata in notturna da lontano e in successive passeggiate in avvicinamento prima della necessaria visita pomeridiana, sotto il sole cocente mitigato da un vento piacevolissimo.
Non posso aggiungere nulla se non condividere le emozioni davanti al Teatro di Erode Attico, pronto per ospitare concerti e spettacoli serali, o durante la salita dei Propilei, o al passaggio accanto all’Eretteo con le bianche Cariatidi e la sosta alla base del Partenone, il più grande amore della mia vita, ma anche la Fondazione Stavros Niarchos con il Centro Culturale, la Biblioteca Nazionale ‘nuova’ e l’Opera Nazionale Greca progettata da Renzo Piano.
Di quest’ultima recupero una affascinante descrizione in un articolo comparso su Donna di Repubblica nel novembre 2017: viene intervistato Costas Voyatzis che con il suo sito Yatzer, fondato nel 2007 è considerato uno degli influencer globali più apprezzati e che usa, per descrivere la ‘nuova’ Atene, aggettivi come energica, creativa, travolgente.
Centro culturale Stavros Niarchos – Atene
Per lui “Atene è la città perfetta per chi ama passeggiare, divertirsi e fare il pieno di storia sotto un cielo sempre incredibilmente blu”. E suggerisce una visita proprio allo “Stavros Niarchos Foundation Cultural center a Kallithea, appena ultimato: lo splendido, gigantesco parco, dice, collega l’edificio di Renzo Piano con il mare da un lato e la città dall’altro. La vista, grazie alla collinetta artificiale, è mozzafiato”.
Tutto vero anche per noi, che ci estasiamo nella terrazza coi divanetti bianchi e grigi, gustandoci la vista strabiliante che ci ripaga da impressioni non positive vissute, da alcunə più, altrə meno, vedendo tante, troppe guardie giurate (volute dalla Fondazione, ci dice la gentilissima direttrice) nelle sale della Biblioteca, a fronte di una frequentazione di utenti e visitatori che ci colpisce, perché davvero bassa.
Biblioteca Nazionale – Atene
Il che ci porterà la mattina seguente ad affrontare la questione con le nostre amiche di WE NEED BOOKS e a discutere sulla efficacia della creazione di simili “cattedrali nel deserto” in una zona così lontana dalla gente e, come da noi stessə sperimentato, non facilmente raggiungibile.
Io sono un po’ di parte, perché adoro Renzo Piano e difendo la sua scelta e sostengo che la bellezza deve essere portata nelle periferie, a patto che poi ci si adoperi per far sì che anche la gente, i giovani, i bambini, gli anziani, vengano portati a godere della bellezza e stimolati a frequentare Biblioteca, Centro Culturale e Opera Nazionale.
Come si evince, questa volta la parte ‘turistica’ del mio reportage, non è condita, come altre volte, con riferimenti a romanzi letti: non ho avuto, prima di partire, il tempo di arricchire il panorama delle mie letture dei libri di Petros Màrkaris, che ambienta i racconti delle indagini del commissario Charitos prevalentemente ad Atene, con indicazione dettagliata di strade e piazze ed edifici salienti.
Però non ho resistito alla tentazione di fare una ricerca su cosa di nuovo avrei potuto leggere e ho scoperto due volumi che sicuramente acquisterò e li vivrò come un prolungamento della visita a posteriori, in attesa di nuove possibilità di recarmi in Grecia. Si tratta di Ad Atene con Markaris, di Patrizio Nassirio e di Atene nel metrò, di Petros Màrkaris stesso.
Bibliografia:
Cartoville Atene, Touring Editore, 2019
DCASA, novembre 2017
Patrizio Nassirio, Ad Atene con Màrkaris, Giulio Perrone Editore 2023
Petros Màrkaris, Atene nel metrò, La nave di Teseo 2023
Le foto della cover e nel testo sono di Maria Calabrese
Per leggere gli articoli diMaria Calabresesu Periscopio clicca sul nome dell’autrice
Diario in pubblico. La postura del Graal (non santo)
Dal mio osservatorio-balcone, che dà nella ormai non via Zanella, scruto con interesse come viene tenuto il nuovo Graal naturalmente laico e incapace di suscitare meditazioni di carattere etico, spirituale o normalmente abitudinario.
Si sarà capito che parlo delcellulare.
Partiamo dai giovani, che inventano posture originali e diversissime. Le ragazze – o chi si pone come loro – vezzosamente lo fanno scorrere tra i capelli, lo avvicinano e allontanano dal seno con lenta circumnavigazione e infine delicatamente lo appoggiano sotto l’ombelico. Le più abili riescono con contorcimento impeccabile ad avvicinarlo ai glutei, rimanendo come un foglio di carta attorcigliato. L’età media non supera la ventina.
Altro discorso per le più giovani di solito pettinate a treccioline e con ombra di rossetto sulle labbruzze. Se ne intuisce il rispetto che portano all’oggetto perché il passo si fa solenne, la vestaglietta si ricompone, l’andatura si fa decisa e il Graal è posto come un panino che si sta per addentare.
Meno fortunati (senza distinzione di sesso) chi sta in carrozzino. Il desiderio da loro espresso sarebbe quello di usarlo a mo’ di ciuccio, ma viene impedito loro da inflessibili madri che glielo allontanano dalla bocca, mentre con l’altra rispondono alle chiamate perentorie del loro apparecchio.
La solennità dell’uso è però speciale nelle signore di mezza età che sanno di poter dominare le fila sparse della condizione, come quando è il momento di distribuire lo spaghetto casereccio. Di solito molto serie e mai eccessivamente magre lo tengono costantemente appoggiato all’orecchio destro, mentre il lato sinistro del corpo si attiva nell’esercizio del potere. Il sorriso non è contemplato.
È come ritornare ai miei tempi infantili, quando si udiva il “Via! March!” delle assistenti scolastiche. Una amica mi racconta che, quando le suddette signore indossano i pantaloni, pongono il Graal nella tasca posteriore e se necessità le costringe alla minzione, l’oggetto inevitabilmente finisce “in water”.
Non parlo delle anziane -la mia categoria preferita- che con sorriso angelico biascicano un “non sento”, quando vien loro avvicinato il Graal all’orecchio. Allora s’alza potente la ripresa orale dell’accompagnatore e loro felicemente giocherellano col nuovo aggeggio.
Sportivamente consapevole delle possibilità concesse, come in una partita del cuore, ma non diretta da ‘Gnazio’, il giovanetto maschio lo usa a mo’ di pallone, addirittura stringendolo fra i denti mentre caracolla in bicicletta o addirittura s’erge sulle spalle del compagno che pedala. Il grido è imponente: risveglia gabbiani, colombacci, cicale che accolgono con un entusiastico consenso il nuovo compagno animale.
Di solito le maggiori esibizioni si svolgono tra le due-tre di nottefino alle sei, quando il mostro di ferro che sbarra la via comincia a prepararsi per il suo urlo unico e il rimbombo copre ogni altro tentativo d’imitazione. Più riflessiva l’età media dei maschi che, fingendosi cronisti di qualche importante rete televisiva, tengono aperto un giornale e borbottano preziosi consigli non si sa rivolti a chi.
Ciò è stato controllato di persona ad un caffè del Laido che si chiama “dall’alba al tramonto”. Accanto a loro l’enorme sacca del corredo da spiaggia dove i radiocronisti si recano solo al bar per prendere un aperitivo, mentre implacabile l’urlo di chi gioca a tennis da spiaggia rimanda i risultati delle partite a chi ascolta con il Graal in mano.
Mi si potrebbe giustamente chiedere quale sia la mia condotta, a cui rispondo con una punta di timore, in quanto tutto ciò che sa di innovativo è per me fonte di mistero e di preoccupazione. Lo tengo nel borsello quando esco di casa e il suono mi risveglia timori nascosti.
Premo il tasto e, quando non riesco a capire nulla, il mio lamento si espande e coinvolge chi mi sta attorno. Lo afferro poi con due dita e di nuovo lo nascondo alla vista, salvo per poi esibirlo a mo’ di giocattolo quando i passanti rivolgono gli occhi al balcone,dove soggiorno quasi tutto il tempoper non affrontare il Laido, la sua spiaggia e soprattutto i ricordi.
Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturiclicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Del resto il Governo Meloni dovrà far fronte nei prossimi anni ad un taglio sulle spese, imposto dalle misure di austerità dell’Unione Europea, di 12 miliardi all’anno (nei prossimi 7 anni fanno 84 miliardi), oltre a finanziare 1,7 miliardi di nuove armi da inviare all’Ucraina nel 2025. Inoltre incombe sempre l’ordine di aumentare di 10 miliardi il budget delle spese militari per arrivare a quel famoso 2% sul Pil richiesto dalla Nato.
Così si fa “cassa”: tagliando sui poveri. Il Reddito di Cittadinanza, il sussidio introdotto nel 2019 su spinta del Movimento 5 Stelle, non c’è più. Quella misura costava 8,8 miliardi all’anno (prima di alcuni tagli) e poneva fine allo scandalo di un’ Italia che, con la Grecia, era l’unico paese europeo a dedicare pochissimi aiuti alla popolazione più indigente.
Il Pd di Gentiloni nel 2017 aveva introdotto il Reddito di Inclusione (RdI) con molte meno risorse (2 miliardi ma a regime) che era però meglio disegnato, in quanto era gestito a livello locale – quindi i poveri si conoscevano bene e questo diminuiva il rischio di frodi – e consentiva a chi trovava un lavoro (spesso temporaneo) di mantenere il 60% del sussidio, favorendo la ricollocazione al lavoro. Il M5S ha più che quadruplicato le risorse, ma ha alzato troppo il sussidio individuale (dal pochissimo che era col RdI -187 euro al mese – a 550 euro) e insieme ha deciso di toglierlo a chi trovava lavoro, disincentivando il lavoro regolare soprattutto al Sud, dove in molti settori il salario in nero è attorno ai 700-800 euro al mese. In tal modo, oltre a esporsi alle frodi, era iniquo per le famiglie numerose e per i poveri del Nord Italia il cui costo della vita è di un terzo superiore al Sud.
La proposta M5S rispondeva però a un’esigenza reale, in un’Italia che per 20 anni era stato il solo Paese europeo a non avere alcuna forma di sostegno ai poveri assoluti, mentre questi triplicavano negli ultimi 20 anni fino a 5,7 milioni (i poveri relativi sono invece 11,5 milioni).
Il Governo Meloni ha sostituito il Reddito di Cittadinanza con due misure: 1 “Assegno d’inclusione ADI” (da gennaio 2024) e 2.”Supporto per la Formazione e il Lavoro SFL” (da settembre 2023).
L’Inps ha diffuso il 9 luglio l’ammontare dei sussidi erogati nei primi 6 mesi del 2024 per l’”Assegno di inclusione”, che costano allo Stato appena un miliardo e 39 milioni di euro (i calcoli sono miei), quando nel primo semestre dell’ultimo anno di funzionamento pieno, il 2022, il Reddito di cittadinanza aveva erogato circa 4,4 miliardi, comprensivi però delle spese SFL che sono state pari a 81 milioni nei primi 6 mesi del 2024. I sussidi ADI sono relativi a 698.000 domande accolte, pari a 1,7 milioni di cittadini e a un importo medio di mensile di 618 euro.
Non si sa però quante siano le domande fatte (pare 1,2 milioni) e rifiutate in base a parametri molto più restrittivi di ADI rispetto a RdC. Anche le famiglie numerose beneficiarie, che il Governo Meloni aveva promesso di privilegiare rispetto ai single, sono calate (118mila con importo medio di 706 euro contro le 130mila per 741 euro di RdC) . In realtà il taglio dei sussidi è enorme e riguarda tutti, famiglie numerose incluse. I sussidi ai non italiani sono solo il 10%.
Quanto al “Supporto formazione e lavoro (SFL)”, cioè il percorso offerto agli adulti ritenuti in grado di lavorare, ha riguardato solo 96.000 persone nei primi 6 mesi del 2024 (su 250.000 potenziali). Il bonus da 350 euro mensili pagato per una media di 3,7 mensilità, mostra come i corsi di formazione necessari per ottenerlo sono pochi e intermittenti. I beneficiari (e stiamo parlando di corsi di formazione, non di lavoro vero) sono molti meno di quanto previsto dallo stesso governo.
Sussidi ADI nei primi 6 mesi e beneficiari SFL da settembre a giungo 2024 per regione (fonte: Inps)
In sostanza, l’Italia dal 2024 ha fatto un taglio netto degli aiuti ai 5,7 milioni di poveri assoluti italiani di circa il 70%, molto di più di quanto messo a bilancio dallo stesso Governo Meloni (7,1 miliardi l’anno -5,3 di ADI+1,3 di SFL, contro gli 8,8 miliardi del Reddito di Cittadinanza), nonostante il numero dei poveri sia salito anche nel 2023 (+78.000 e +435.000 dal 2021, dati di fonte Istat, basati sulle rilevazioni sui consumi o le domande di assistenza sociale ai Comuni).
I risparmi riguardano anche il Sussidio Formazione e Lavoro: doveva costare 1,3 miliardi, è costato nei primi 6 mesi dell’anno 81,4 milioni. Era ovvio che molti poveri non avrebbero avuto occasioni vere di lavoro tramite improbabili corsi di formazione, in quanto l’80% dei possibili beneficiari ha al massimo la licenza media e circa la metà dei disoccupati lo è da oltre 5 anni. Quasi impossibili da ricollocare. Infatti nel 2023, anche se si sono visti quasi mezzo milione di occupati in più, la povertà in Italia è aumentata.
Alla fine il governo risparmierà sui poveri 6 miliardi all’anno (2/3 del budget RdC), confermando le bugie della Meloni – quella che fa la lotta alle élites e difende la povera gente.
Del resto lo avevano già scritto tre economisti della Banca d’Italia – Giulia Bovini, Emanuele Dicarlo, Antonella Tomasi – con uno studio (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2023-0820/index.html) del dicembre 2023 sulla «revisione delle misure di contrasto alla povertà», da cui risulta che il decimo dei residenti in Italia con il reddito familiare più basso subisce un taglio dell’11% (da circa 11.800 euro all’anno a 10.500 circa), mentre per gli altri cittadini non ci sono vantaggi significativi, in quanto i pochi soldi tolti ai poveri non danno alcun vantaggio al restante 90% dei cittadini. Ma per un terzo di quel 10% dei più poveri, i più poveri di tutti, la perdita è una mazzata enorme, in quanto il loro reddito scende di circa 4.000-4.630 euro, pari ad un terzo delle loro entrate: cioè, vengono nuovamente sbattuti in una condizione feroce.
Dove finiranno i 6 miliardi risparmiati sui poveri? Probabilmente a finanziare la conferma degli sgravi ai contributi dei lavoratori fino a 35.000 euro di reddito (che costano 20 miliardi per anno) e alle spese militari per l’Ucraina, spostando gli aiuti dai poveri ai ceti medio-bassi e verso le spese militari.
Nel complesso quindi la manovra delle destre è la seguente:
a chi evade il fisco viene offerto, con il concordato biennale preventivo, il diritto legale di pagare solo una quota ridotta delle tasse dovute;
ai titolari delle concessioni balneari viene offerta una difesa a oltranza dei privilegi acquisiti, ben oltre il senso comune e non solo oltre la legge europea.
ai concessionari auto viene offerto l’uso del miliardo di euro destinato alla ristrutturazione dello stesso settore auto integralmente in incentivi all’acquisto di vetture nuove; in questo modo i fondi pubblici andranno tutti a case produttrici estere (cinesi) e ai proprietari italiani dei saloni di rivendita, invece che a imprese produttrici della filiera perché investano e diventino più competitive;
i Comuni subiscono un taglio di 250 milioni;
la scorsa legge di bilancio prevede 20 miliardi di euro di privatizzazioni in tre anni, anche nella forma di vendita ai privati di quote azionarie di grandi imprese pubbliche (Eni, Enel, Poste, FFSS,…);
nella sanità, sempre più privatizzata, si confermano i tagli già decisi dal precedente Governo Draghi; diventa sempre più una sanità per chi se lo potrà permettere;
ai poveri che non hanno una lobby (era il M5S) e non sono in grado di comprare beni e servizi essenziali, un taglio netto degli aiuti (nonostante crescano in Italia);
alla Nato il favore di aumentare le spese militari.
Poiché l’Europa impone all’Italia un taglio di bilancio di 12 miliardi all’anno nei prossimi 7 anni e la Nato pretende più spese militari, non sarà semplice rilanciare i servizi senza tassare i ricchi (il ceto medio è già tartassato). Si tratta di un problema aperto anche in Gran Bretagna e in Francia, con le destre (Farage in GB è cresciuto dal 2% al 14,3%) pronte a cogliere l’occasione tra 5 anni, se poco si farà per ridurre l’enorme malumore del 70% dei cittadini europei, che si stanno impoverendo anche in paesi più forti dell’Italia.
Alcuni ricorderanno l’allarme di Peter Glotz per la società dei 2/3. Il socialdemocratico tedesco era preoccupato che il “sistema” producesse vantaggi (era il 1989) solo per 2/3 dei cittadini. Che dire oggi che il sistema ne produce solo per 1/3?
LA STORIA DELL’ARTE IN BREVE RACCONTATA DA GENNARO SANGIULIANO
(con il tacito consenso di E. H. Gombrich)
Tutto cominciò con Giotto da Vinci che, volendo disegnare una pecora sopra ad un masso, fece in realtà una gigantesca mela verde con bombetta. Il suo maestro Magritte, a cui venivano solo manghi e papaye, lo riempì talmente di legnate che il povero Giotto divenne cubista e, assieme al Punturicchio, inventò l’iniezione antidolorifica.
Poi fu il turno di Raffello Carrà che, sulla base delle teorie di Galilei, inventò il Tuca-Tuca ed i gessetti colorati alla frutta, che si potevano anche mangiare tra un affresco e l’altro, nelle Stanze vaticane. Nello stesso periodo, Giorgio Morandi, ubriaco perso, si schiantò contro un platano, andando a cento allora, perché aveva fuso il Bronzino, inventando così la natura morta con bottiglie vuote. Ricoverato in manicomio, assieme al grande capo indiano e scrittore Torquato Pazzo, autore del romanzo di fantascienza: La striscia di Gaza liberata, conobbe il Giorgione, un infermiere gigantesco dal peso di duecentocinquanta chili, che puzzava come un Goya.
Assieme al Tintoretto, i quattro aprirono una lavanderia a gettoni, dove Jackson Pollon fece le sue prime esperienze di Action Painting, decolorando con la candeggina, al grido di: “sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria!”, la Dama con la civetta di Leonardo Sciascia. Ma non finisce qui. Botero, stufo di disegnare ciccioni, divenne un agente Herbalife, mentre Botticelli dipinse La Primavera, in versione Soft Porn, per il paginone centrale di Playboy, di cui era divenuto direttore il Beato Angelico. Vittore Carpaccio illustrò il ciclo de Le storie di Sant’Ursula, per la sala del Parlamento europeo e per arrotondare, aprì un ristorante con il Pollaiolo.
Si arriva così ai giorni nostri, dove Salvini Dalì dipinge Giorgia delle sfere, ispirandosi alla vivacità dei discorsi della Meloni, e Michelangelo partecipa a Temptation’s Island, sbaragliando la concorrenza. Per forza, il programma è un’assoluta Pietà.
Cover: Arte parodiata
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Il giorno della liberazione Io lo chiamo dell’oppressione Afferma l’uomo della malga Guardo i suoi occhi Lo ascolto Se non fosse stato Per i cosacchi E i tedeschi Ci avrebbero fatto Tutti slavi Qui i partigiani
A guardarlo Si vede L’aquila Carnica Che Volteggia In una Selva d’azzurro
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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L’armonica, eh, ci vuole l’armonica. E anche la voce, per cantare come Van Morrison, Robert Plant, Freddie Mercury, Eric Clapton e tutti gli altri. L’importante è stare in scena.
Lui viveva proprio per questo. Per che cosa, se no? Da una vita porca bisogna pur uscire in qualche modo. Con le serate. Con le donne. Con le birre e il whisky. Con le canne, la coca, l’ecstasy. Soprattutto con il casino, che più ne fai, più ti diverti. Anche se hai cinquant’anni. Perché bisogna essere beyond the barrier, oltre l’ostacolo. Andare al di là del bla-bla di tutti i giorni, dei legami, delle convenzioni, oltre la forma che l’esistenza t’impone schiacciandoti, riducendoti a un niente.
E così suonava con una compagnia di svitati come lui alle serate nei dintorni, a qualche rave in capannoni dismessi delle periferie, a feste di compleanno in cui tutti bevevano come spugne, alle fiere grandi e piccole dove per spendere poco gli organizzatori si affidavano a chiunque mettesse insieme quattro note in modo decente. Quella era la sua vita vera, l’altra era un’abitudine biologica, un tempo per campare facendo lavoretti.
Un giorno lo chiamarono per un concerto, in sostituzione di un cantante rock degli anni Sessanta che all’ultimo momento aveva dato forfait. Si preparò con cura maniacale, litigando aspramente con quelli del suo gruppo perché secondo lui sbagliavano troppo. Provò decine di volte davanti a uno specchio per studiare tutti i movimenti per il palco. Studiò e ristudiò le canzoni del suo repertorio. Trovò un vestito che avrebbe potuto indossare Mick Jagger. Trascorse ore e ore a suonare la chitarra, l’armonica e a cantare.
Giunse finalmente la sera tanto attesa. La sala era grande, rumorosa, piena di gente. Lui e la band arrivarono un po’ tardi per creare aspettativa. Salirono sul palco e cominciarono a suonare. Dopo qualche brano lui iniziò a correre sul palco come un ossesso, cercando il feeling con il pubblico.
Corse e saltò fino a quando, dopo aver tentato un volo alla Nureyev lanciandosi dalla batteria di amplificatori, cadde rovinosamente sull’assito, battendo il capo e restando immobile, come un burattino senza fili. In sala calò un silenzio assoluto che durò lunghi attimi. Poi dal fondo partì un coro: Forever young, I want to be forever young…
Padre Marcello (Carlo Zucchetti), carmelitano scalzo nasce a Vighignolo, frazione di Settimo Milanese (Mi) il 29 Novembre 1914, muore a Ferrara il 13 luglio 1984. Sono passati 40 anni, ma in coloro che custodiscono la sua memoria, per dirla con il salmista «appena un turno di veglia nella notte».
Nel libro della Cronaca del convento di S. Girolamo dei Padri Carmelitani Scalzi di Ferrara si legge: «P. Marcello è morto all’Arcispedale S. Anna il 13 luglio 1984 dopo sessantacinque giorni di malattia. I funerali si sono svolti il giorno della Madonna del Carmine con larga partecipazione di fedeli e sacerdoti e di due arcivescovi, mons. Luigi Maverna, Ordinario della Diocesi e mons. Mosconi, emerito arcivescovo di Ferrara. I sacerdoti presenti concelebranti erano 82».
Padre Marcello, o dell’essenziale
«Si potrebbe dire: p. Marcello o dell’essenziale.
Non diceva una parola di più di quanto occorreva, né in confessionale né fuori. Come un novizio di altri tempi, sapeva sorridere senza ridere. Camminava a passi brevi, ma senza affrettarsi.
A questo tratto esteriore corrispondeva la sua immagine interiore. Era disponibile nell’intrattenersi senza tirare in lungo e senza dare corda a conversazioni non indispensabili.
Ascoltava con interesse, senza mostrarsi curioso. Era attento al prossimo quanto bastava per servirlo, senza lasciarsi distrarre dal suo dialogo interiore.
Dire l’essenziale non significa dire poco. E cosa ci sarà da dire di un religioso che ha diviso i suoi quasi quarant’anni di vita ferrarese tra il confessionale e l’ospedale dei bambini?
L’eccezionale nel quotidiano: era il sospetto che si imponeva a chi incontrava p. Marcello. La prova è venuta dopo. Dopo la morte, quando tanti hanno dovuto dire: «Non ardeva forse il nostro cuore mentre ci parlava lungo la strada?».
Quest’uomo, inspiegabilmente ricercato in vita, viene comprensibilmente ricordato in morte. Tutti ricordano, in fondo, cose molto semplici, ma per loro così importanti, cosi ricche.
Essenziale in vita; essenziale in morte. P. Marcello, prima di chiudersi nel silenzio e nell’assenza, in cui rimase per tante settimane, ha avuto l’opportunità di lasciarci il suo testamento, anch’esso naturalmente essenziale: «Vado in paradiso, vogliatevi bene». Come dire: “nada” e “todo”, tradotti per noi «duri di cuore e lenti a capire» (Dalla presentazione di Giulio Zerbini, a D. Libanori, Padre Marcello dell’Immacolata o.c.d. Un ritratto, Gabriele Corba Editore, Ferrara, 1997, 5,-6).
Una porta di speranza (omelia alla messa in S. Maria in Vado)
Cosa cercava chi andava da padre Marcello? Andava cercando speranza, una parola di speranza, il dono della speranza: Come è detto nel salmo 81 del Dio che libera il suo popolo dal giogo della schiavitù egiziana: «Un linguaggio mai inteso io sento: Ho liberato dal peso la sua spalla, le sue mani hanno deposto la cesta». Anche padre Marcello ha preso in mano la cesta pesante delle nostre umanità mortificate liberando dal peso che impediva il cammino della speranza.
Ci ha ricordato la preghiera di colletta all’inizio della messa che “Nell’umiliazione e abbassamento del suo Figlio unigenito il Padre ha risollevato in noi la speranza è venuto liberandoci dalla schiavitù del peccato e ha ridonato la gioia di sperare in lui”.
Ma anche le letture della liturgia di oggi aprono uno squarcio di speranza: Os 14,2-10; dal Sal 50 (51); Mt 10,16-23. Il profeta Osea è profeta del Dio sposo che conduce con sé nel deserto e parla al cuore del suo popolo come l’amato parla all’amata e dice “Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza”. È la valle vicino a Gerico il cui nome significa ‘valle di afflizione e tormento’.
Ecco padre Marcello è stato una porta di speranza nelle nostre afflizioni e turbamenti. Anche in lui sono risuonate per noi le parole profetiche di Osea nella prima lettura:
“Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente,
Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio
e metterà radici come un albero del Libano,
si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo
e la fragranza del Libano.
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano,
fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano.”
La speranza: «è come la rugiada del monte Ermon che scende sui monti di Sion, là il Signore manda la sua benedizione, la sua vita per sempre» (Sal 133, 3)
La rugiada sulla terra è simbolo della speranza che viene dall’alto, dal cielo. Così pure la rugiada è paragonata al pane disceso dal cielo; pane è speranza. Rugiada feconda è l’eucaristia, pegno dato per nutrire la nostra speranza.
È molto carmelitano questo, non foss’altro perché la parola rugiada ritorna cinquanta volte sotto la penna di Teresa di Gesù Bambino del Volto santo, ed ella fa certamente un’associazione d’idee tra la rugiada (rosée, in francese), la rosa (il suo fiore) e il sangue, senza dimenticare le lacrime (cfr. Ms A, 71r°).
Il sangue di Cristo è rugiada, che nutre la vita come nella simbologia dell’inno gregorianoPie Pellicane Iesu Domine. E racconta la piccola Teresa che la prima parola che scrisse era cielo, perché una sera, rientrando con il padre, gli indicò alcune stelle a forma di T dicendo che il suo posto era la. Ma al cielo non era anche sempre rivolto lo sguardo di padre Marcello quando guardava sulla terra, non attingeva alla speranza in alto per irrorarla sulle nostre disperanze?
Il salmo penitenziale di Davide è invito alla lode: “La mia bocca Proclami la tua lode”, è invocazione allo Spirito il quale è come rugiada; l’epiclesi del canone secondo non afferma forse questo “Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”? Lo spirito è colui che guida e porta a compimento la speranza che riapre sempre il cammino verso di essa.
Triplice sorgente della speranza è per noi la stessa Trinità nascosta in questo salmo 50; fu il vescovo Luigi Maverna a farmi comprendere questo significato mistico riportando l’esegesi di Origene:
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. (Non è forse lo Spirito del Padre? Fonte di speranza) Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. (Non è forse lo Spirito santo? Cammino di speranza) Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. (Non è forse lo Spirito del Figlio? Grazia Dono di speranza?)
Nel Vangelo di oggi poi ci viene ricordato che anche nella persecuzione e nelle tribolazioni davanti ai giudici nei tribunali, anche in quelli della quotidianità, nei contrasti, nei rifiuti di non disperare: «non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi le parole della speranza».
Come sentinella alla porta di Acor
La profezia di Padre Marcello è stata quella di annunciarci e ricordarci che Dio riapre sempre a noi la porta della valle di Acor, quella della speranza, che lui teneva sempre aperta.
Padre Macello ha abitato la soglia della porta della speranza come custode, come insonne sentinella. Lì la sua dimora angusta, la soglia e il confessionale e l’incontro con le persone: non sono luoghi comodi. E tuttavia, siccome a quella porta arrivavano trafelati, come i prigionieri di Sion ricondotti dal Signore, egli per incoraggiarne il transito, sorrideva loro, dischiudendo anche la porta gioiosa e profetica dalla sua bocca con l’espressione: “Avanti, avanti”, senza timore, il Signora cammina con voi.
Suo è allora il salmo 125 che traduce l’esperienza della speranza per lui e per noi ora e per il futuro. “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni”.
Fu questa pure l’esperienza, davvero indicibile, di Charles Peguy, il quale fa dire a Dio, nell’opera poetica Il portico della seconda virtù: «La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza. Ma la speranza, dice Dio, questa sì che mi stupisce. Me stesso. Mi stupisce. Che dei poveri figlioli vedano come tutto avviene credano che domani andrà meglio. Che vedano quel che accade oggi e credano che andrà meglio domani mattina. Questo stupisce, ed è la più grande meraviglia della nostra grazia».
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
I TERRITORI SONO DI CHI LI VIVE DAL DON BOSCO AL RESTO D’ITALIA, FERMIAMO LA COLATA DI CEMENTO Bologna, Parco Don Bosco, 26 e 27 luglio 2024
Le mani sulle città: da nord a sud, nelle aree urbane, assistiamo all’assalto alle ultime aree verdi con i progetti più vari, dai supermercati alle scuole ai tram; perfino le piste ciclabili diventano un ottimo pretesto per spargere cemento e soldi. Le aree verdi sono considerate “vuote”, zone inutilizzate da “valorizzare”.
Le mani sulle montagne: dall’arco alpino a tutta la dorsale appenninica è un continuo susseguirsi di impattanti progetti di nuovi impianti di risalita,strade e strutture turistiche dove la neve è solo un ricordo del passato.
Le mani sui mari e sui porti: gassificatori, sbancamento dei porti e dei litorali per accogliere mostruose navi da crociera.
Ovunque in Italia i/le cittadin3 si stanno organizzando per decidere sulla gestione dei territori dove vivono: a Bologna, la difesa del minuscolo parco Don Bosco è diventata un simbolo di questa nuova presa di coscienza e di attivismo contro la speculazione e il consumo di suolo; le conseguenti violenze poliziesche dell’ultimo assalto mostrano anche come il neoliberismo, incarnato a Bologna nel PD, detesti e tema questa nuova lotta.
Nella temuta imminenza di un nuovo tentativo di sgombero, il Don Bosco chiama a raccolta solidali, comitati civici, realtà ambientaliste e tutti i movimenti per la difesa del territorio di Bologna e del resto del paese per il 26 e 27 luglio, per un incontro di coordinamento, scambio, mobilitazione e convivialità. Per affermare che i problemi del territorio si devono affrontare a livello politico e non con i manganelli.
SIAMO PURTROPPO AI PRIMI POSTI IN ITALIA PER CONSUMO DI SUOLO (L’ALLUVIONE DEL MAGGIO 2023 CE LO HA RICORDATO), attraverso lo scambio di pratiche ed esperienze, vorremmo che anche da qui passi la costruzione di una rete di realtà ecologiste ed ambientaliste, che rilanci future mobilitazioni.
Se il famoso libero mercato dell’energia costa di più di quello pubblico
Uno dei progetti più interessanti del Labour di Keir Starmer è la creazione di una Agenzia Nazionale pubblica dell’Energia che agevoli la transizione green verso energie sostenibili.
E pensare che in Italia abbiamo i giganti Eni ed Enel fondati da Enrico Mattei (a dispetto delle sette sorelle del petrolio anglosassone) ancora pubblici che potrebbero farlo, anche se agiscono, purtroppo oggi, con logiche privatistiche da spache il Governo Meloni vuole ulteriormente accentuare con la vendita di quote azionarie nei prossimi 3 anni (è scritto sulla legge di bilancio del 2023) per fare “cassa”, non volendo in alternativa tassare i veri ricchi e continuando a favorire sia l’evasione fiscale sia l’elusione fiscale (agevolazioni per legge).
Intanto procede lo smantellamento nel settore gas ed energia elettrica della presenza del “pubblico” con lo sviluppo del “libero mercato” (si fa per dire) con le 700 utility create in Italia, tanto il prezzo del gas e dell’elettricità lo pagano i cittadini, mica lo Stato. Un prezzo, quello dell’energia elettrica che è per i 30,1 milioni di consumatori domestici e le 7 milioni di imprese il più alto d’Europa (vedi l’ultima Relazione annuale di Arera) pari per i clienti domestici a 38,6 cent per kWh nel 2023(+6,1% in più del 2022) che è superato tra i 27 paesi europei solo dalla Germana (42 cent) e Belgio (40 cent), i quali hanno però un potere d’acquisto quasi doppio del nostro e con salari reali doppi e in crescita da anni mentre i nostri sono la metà e in calo del 6,9% dal 2019 come certificato anche dall’ultimo report OCSE. In Spagna si pagano 26 cent, in Francia ancora meno 23,6 cent, in Finlandia 22, Svezia 20, Olanda 32, Norvegia 12,8 senza arrivare agli 11 cent di Bulgaria e Ungheria che comprano ancora il gas dalla Russia.
In Italia si pagano 7,7 cent solo di oneri e tasse, essendo venuta meno la fiscalizzazione dei Governi precedenti. I clienti industriali italiani hanno pagato meno (28,9 c€/kWh), ma anche qui in media più dei partner europei, anche se le cose vanno meglio nel 2023 rispetto al 2022 in termini di confronto.
Nel 2022 il prezzo totale del gas per i consumatori domestici (cioè comprensivo di imposte e oneri) era superiore in Italia del 13% rispetto alla media UE, mentre nel 2023 è sceso a 11,36 c€/kWh e si è collocato nella fascia intermedia. Il prezzo 2023 più elevato si è registrato in Svezia (25,2 c€/kWh) e nei Paesi Bassi (20,5 c€/kWh), mentre i prezzi più bassi si sono osservati in Romania (5,6 c€/kWh), Croazia (4,5 c€/kWh) e in Ungheria (3,3 c€/kWh). Nel 2023 la differenza tra il prezzo medio corrisposto dai clienti non domestici italiani (8,2 c€/kWh) e il prezzo medio pagato nell’Area euro (8,0 c€/kWh) si è molto assottigliata rispetto al 2022, quando era dell’11,8%, ma è rimasta positiva e pari al 2,7%.
Nella sua relazione annuale (luglio 2024) Stefano Besseghini, presidente diArera, l’Authority pubblica con 238 dipendenti che controlla il mercato delle 700 utility, ha dichiarato che i 3,6 milioni di clienti che sono ancora nel sistema pubblico della “maggior tutela” (over 75, vulnerabili malati, disabili,…)hanno prezzi di luce e gas inferiori di quelli (14,7 milioni) che sono migrati nel libero mercato, nonostante i forti sconti che quelli che sono passati di recente avranno nei prossimi 3 anni, fatti per prendersi i clienti ai quali con ogni probabilità verranno aumentati i prezzi dal 2027 per rifarsi di questi sconti.
Besseghini ammette anche che è vero che ci sono alcuni (come il sottoscritto) che pagano meno pur essendo nel “libero mercato”, ma si tratta di pochi clienti in quanto “la comprensione delle dinamiche di mercato è patrimonio soltanto di un insieme ristretto di consumatori”. Detto in parole semplici (parla come mangi) significa che quelli che si possono permettere di perdere ore di tempo a confrontare le offerte e capirci bene avendo tutte le conoscenze sono davvero pochi.
Del resto non è così per tutte le altre offerte che ti arrivano (banche e finanziarie incluse) scritte in corpo illeggibile e formate da 20-30 pagine che tutti firmiamo e nessuno legge?. Anche questo è un modo “democratico” per ridurre le tutele sostanziali, favorendo chi ha potere verso chi non lo ha.
Per quanto poi riguarda i rigassificatori (Piombino, Ravenna…) che trasformano il gas liquefatto che arriva dagli Stati Uniti ci sarà, sempre Besseghini: “un rimarchevole incremento dei costi”, come era prevedibile in una narrazione che ci vuole fare tutti fessi.
E’ una bella soddisfazione sentire per noi queste parole perché sosteniamo da anni (pur non essendo affatto contrari al libero mercato purché sorvegliato) che in alcuni settori (sanità, energia,…) un grande operatore pubblico fornisce prezzi e servizi migliori di quelli di tanti operatori in concorrenza nel libero mercato (ma lo stesso Adam Smith lo ammetteva).
Ciò vale a maggior ragione per l’Italia che non ha materie prime energetiche e che avrebbe bisogno di un grande operatore pubblico, controllato da una Authority, che già c’è (si chiama Arera), in grado di acquistare sul mercato internazionale enormi volumi di gas ed energia e così offrire prezzi più bassi ai 30 milioni di clienti domestici italiani e ai 7 milioni di imprese e servizi che invece devono da un lato subire prezzi mediamente più alti e dall’altro impazzire perdendo ore di tempo a confrontare tra le offerte di 700 utility private. Lo ha capito anche il moderato nuovo ministro britannico Starmer del Labour che vuole appunto istituire un’Agenzia pubblica Nazionale per l’Energia.
Quella cosa chiamata città. IL BRASILE, LA FORESTA E LA CITTÀ DEI COLONIZZATORI
Ailton Krenak sostiene che il mito della sostenibilità è ormai una narrazione creata dalle aziende capitaliste (o di cui se ne sono appropriate) per conquistare i consumatori con l’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia.
L’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che è sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?
L’idea della ancestralidade introdotto da Krenak (filosofo brasiliano di origine amazzonica) è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità, e si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile, al contrario di un uccello che quando vola in cielo, un istante dopo, del suo passaggio non rimane traccia.
Hisilicon Balong
Krenak quando parla di “vita selvaggia” pone l’attenzione sulle condizioni di esistenza di culture altre, di poetiche dimenticate dai processi di globalizzazione e di sviluppo, che hanno sempre favorito il pensare che non potessero esistere delle forme di civilizzazione al di fuori dai modelli della razionalità occidentale.
Un corollario di questa affermazione ci porta a pensare che tutto ciò che è dentro le città rappresenta una forma di progresso civile, controllata da regole non sempre condivise, mentre il resto è barbarie, è vita primitiva. In ciò che rimane delle foreste del mondo vi sono comunità portatrici di altre forme di razionalità e di adattamento al contesto e all’ecosistema. Circa 1,6 miliardi di persone tra cui oltre 2.000 culture indigene vivono delle foreste, a cui è legata la loro economia e il loro benessere. Non si tratta dei disboscatori.
Una laguna di fiume al bordo dell’Amazzonia
La “vita selvaggia” riguarda quelle che Philippe Descola definisce le tribu-espèce che in Amazzonia stabiliscono nel loro ambiente di vita un rapporto con le comunità “non umane” non diverso da quello stabilito con le comunità umane. Quelle comunità che noi definiamo selvagge e povere, e che Descola definisce “animiste”.
Per noi europei “razionalisti”, gli umani sono una specie che esprime una conscience reflexive, che ci porta a distinguerci dalle altre specie naturali, mentre per i popoli “animisti” è il contrario e quindi anche le specie animali, non umane, hanno una loro interiorità, ma si distinguono per la loro fisicità che li porta a stabilire rapporti particolari e distintivi con l’ambiente naturale nel quale vivono.
L’ipotesi è verosimile perché ogni specie, quindi anche quelle umane, intrattengono un rapporto particolare con la natura: di integrazione e adattamento per le tribù animiste, in quanto si considerano parte della foresta, di sfruttamento da parte nostra perché ci consideriamo portatori di una civiltà superiore e dominante.
I modelli urbani che il capitalismo neoliberista cerca di imporre oggi nel global south, si basano su stili di vita occidentali, dove emerge il divario tra poveri e ricchi. Ma spesso l’idea che noi abbiamo della povertà è conseguenza della nostra parziale (ma potente) visione del mondo, come ci rammenta la giornalista brasiliana Eliane Brum.
Noi “bianchi” abbiamo l’ossessione di ritenere che tutte le storie inizino con il nostro arrivo. La giornalista brasiliana racconta, in un libro dedicato all’Amazzonia, del suo dialogo con i nativi (popoli-foresta) di una zona della grande foresta, che furono espropriati della loro terra, dove vivevano da secoli, per costruirvi delle centrali idroelettriche.
La città foresta
Queste persone che vivevano in interazione diretta con la loro madre terra, di cui erano una delle componenti naturali, non si erano mai sentiti poveri, ma hanno scoperto di esserlo, quando di forza sono stati prelevati dalle loro terre e messi negli alloggi precari costruiti ai margini nella nuova “città” fondata per sfruttare economicamente la foresta.
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“Certe volte questa stanza è l’unico posto dove voglia stare. Eppure mi alzo, e mi sento un guscio vuoto.”
(Charles Bukowski)
Il mondo è una foglia verde tremante
e tutto sembra improvvisamente immobile
racchiuso in una goccia d’ambra
come gli insetti
e i fiori di un tempo lontano.
A volte mi sembra di vivere
in una cartolina illustrata
osservo per ore intere
la città distesa
fino al limitare del cielo
coperto di fiori di ghiaccio.
*
Stanco e triste
penso alle case in cui ho abitato
alle poesie che ho pensato
per una certa idea di estate in città
che lasciano posto solo a un desiderio sfinito
poesie che hanno una temperatura cerebrale
che arrivano dritte allo stomaco e al cervello.
Vorrei non avere ricordi
vorrei che certe cose non fossero mai successe
per il semplice fatto che io non riesco a gestirle
l’alba si fa strada attraverso l’erba
le rocce
la polvere
le foglie
riscaldate al sole
è allora che bisogna provare
a non essere più infelici
perché il corpo si stanca ad essere triste sempre.
*
Il pensiero che fuori non esiste più nulla
ci atterrisce e ci conforta
riscaldati dall’ultimo sole dell’intero universo
ovvero una vecchia lampadina di un abat jour
appoggiata su case strade volti
me ne sto con una coperta addosso steso sul letto
e ho comunque freddo
guardo fuori
il cielo è tutto pieno di stelle.
C’è tanta luce al mattino
e nel tardo pomeriggio
quando il sole inclina a occidente
lo spazio circostante si tinge di viola
sembra di assistere a un film strano
dai colori spenti
che parla di storie concluse e di porte chiuse
con tutto il loro carico di umanità
il senso di perdita
lo scorrere del tempo
o anche solo il ricordo di conversazioni
sotto il cielo.
*
Nel buio notturno
nel nero assoluto
le stelle navigano nel vuoto
il cielo viene giù pezzo per pezzo
frammenti di verità portate a riva
come i rami che la risacca del mare
lascia sulla spiaggia.
Una luce cinerea
la luce dei giorni in cui la luna
si interpone tra il sole e la terra
rende fantasmatiche le immagini tremolanti
dietro il buio che rende specchi
i finestrini di un treno.
*
Un fiammifero non bruciato
non porta luce nelle ossa
nella mia testa mi sento enormemente distante
seduto sul pavimento della stanza
mentre le tenebre si fanno strada
nel mondo fuori dalla finestra
non riesco a trovare la forza di alzarmi
e accendere quella luce.
Non ho abbandonato le mie paure
ma non le ho neanche superate.
*
La poesia è una trascrizione di una visione
e di una sensazione nel momento presente.
A volte basta solo cambiare il racconto
per migliorare la storia
magari rispolvererò il libro
che non ho mai pubblicato
imparando che voltare pagina
e cercare nuovi sogni
non è un fallimento
oggi i miei desideri
sono diversi dalle aspirazioni di un tempo
vorrei essere il tipo di uomo
che passeggia sul lungo mare
che continua a scrivere
che è felice
e di quella serenità ne conserva i semi
ancora non ci sono arrivato
e adesso sono qui
giusto qualche gradino indietro.
(Queste poesie fanno parte della silloge “Il poeta che non aveva scritto ancora una riga”, Attraverso Edizioni, 2023)
Daniele Cargnino è nato e vive a Torino. Ha pubblicato tre raccolte poetiche con la casa editrice Ensemble dal titolo La sposa nella pioggia (2018), Blu oltremare (2019) e I depressi odiano l’estate (2021). Del 2022 sono le sillogi Fallimentare urgenza creativa (Il Leggio) e Anoressia sentimentale (Porto Seguro). Alcuni suoi componimenti sono apparsi sul quotidiano “La Repubblica“. Partecipa e organizza reading e presentazioni librarie, festival di letteratura e poesie e circoli letterari.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
In questi giorni sto leggendo un bel libro intitolato “Dietro le sbarre”. Lo aveva scritto un bravissimo maestro, un giornalista preparato, un ottimo ricercatore, una persona meravigliosa: Dino Tebaldi. Il volumetto, un’autoedizione non in commercio con prefazione dell’allora Provveditore agli Studi: Giuseppe Inzerillo, racconta delle sue prime esperienze di insegnamento nella Casa Circondariale di Ferrara nell’anno scolastico 1995-1996. È mia intenzione farlo conoscere anche a chi non possiede una delle 400 copie del libro perché esprime la stupenda umanità di una persona di cultura, umile e generosa, convinta che l’istruzione possa rendere l’uomo più libero e consapevole. In questo post, il primo capitolo intitolato “A scuola dietro le sbarre”. P.S. La foto della biblioteca del carcere è del sottoscritto. (Mauro Presini)
Il maestro Dino Tebaldi (1935-2004)
Le voci da dentro. A scuola oltre le sbarre
di Dino Tebaldi (1998)
Alla “block house” – con un disarmato sorriso ed un amichevole gesto della mano destra – mi faccio aprire il cancello; saluto ruffianamente l’agente che mi spiana davanti la mitraglietta; consegno il documento d’identità al capo posto.
Alla fine, mi sottopongo all’ispezione.
Le tante paure di ieri oggi sono scomparse del tutto: così presto, non me l’aspettavo.
Sono riconosciuto come l’insegnante del corso di alfabetizzazione, e mi vien dato il “pass” da mettere al bavero.
Posso andare dove mi aspettano, seguendo l’agente che fa da guida e da scorta.
Traverso un vastissimo, disadorno, lunare cortile.
Spontanea la riminescenza dei versi danteschi: “Per me si va tra la perduta gente…”
Ho l’impressione d’esser tenuto d’occhio da un legittimo, diffidente, nascosto… guardone TV.
In lontananza sento uno sferragliare ritmico e ripetitivo, come in nessun altro luogo prima d’ora ho avvertito.
Qui dev’esser la regola.
Gli agenti ispezionano le celle e battono le inferriate con un corpo metallico.
Qualche voce incompleta rimbalza – provocatoriamente – da una finestra a quell’altra.
Non alzo lo sguardo; faccio finta di niente; rivolgo domande soltanto a me stesso.
E cerco da solo – impegnando un poco di logica – le più elementari risposte, per dare un senso a questa nuova esperienza scolastica.
Mi vien da pregare: “Signore, qui dentro – per me – sia fatta la tua volontà…”
Per arrivare all’ “area pedagogica”, attraverso altre cinque o sei porte blindate o cancelli, e passo davanti ad una dozzina di agenti, nessuno armato, se non di chiavi d’ottone che debbono pesare mezzo chilo ciascuna.
Anche questi giovani – a fine giornata – con giusta ragione citeranno Pavese: “Lavorare stanca“.
Saluto tutti, e tutti mi salutano con immediata compitezza: questi…arruolati angeli custodi – con divisa, ma senza sorriso – inchiodati per un turno davanti alle sbarre, han forse voglia – alla buon’ora – di vedere in faccia un… povero diavolo, che viene spontaneamente dal mondo delle cosiddette persone perbene.
Nei lunghi luminosi corridoi senza finestre, qualche uomo si muove come un rassegnato, mite e muto fantasma: o lustra i pavimenti che nessuno ha sporcato; o trascina neri sacchi di plastica gonfi d’impensabili rifiuti domestici; o spinge – da un inferriato cancello ad un altro – un carrello dalle ruote felpate di gomma.
Sono detenuti che han meritato “fiducia”, adesso mobilitati per lavori da poco, in cambio d’una somma non scandalosa, che loro chiamano “la spesetta” perché basta per comperare non tante cose.
Sono i primi a salutare – con un breve gesto del capo – chi arriva: e – ricevendo in risposta il saluto – guardano con occhi sorpresi.
Vedono bene che io non sono in divisa, porto il “pass” al petto della giacca borghese, e qui non resterò per gran tempo.
Pare che mi chiedano, senza sprecar le parole: “Tu, perché vieni qui dentro?“.
Nell’area pedagogica – finalmente – dovrei sentirmi come in casa od a scuola.
Però questa è una scuola “sui generis“, e gli scolari hanno dei “precedenti“.
Li accompagna nell’aula – pochi alla volta – l’agente di turno, che per me dovrebbe fungere da “bidello” e da “guardia del corpo“. L’impatto è corretto fin dal primissimo istante: dopo pochi minuti – appena la guardia lascia che ce la sbrighiamo da soli – par d’essere una sola, collaudata, confidente famiglia… unisex, inquadrata da una telecamera immobile e vigile, a tre-quattro metri d’altezza, che guarda freddamente ogni gesto e forse registra anche ogni voce.
Con il lavoro, l’ascolto, le chiacchiere, le ore cominciano a passare in fretta, qui più che in tutte le altre scuole in cui ho insegnato.
Quand’è ora di far l’intervallo, avviso l’agente: “Gli alunni possono andare nella saletta d’aspetto, per fumare una sigaretta, se l’hanno”.
Vanno in gruppo, tranne il turco, il colombiano, ed il più giovane dei marocchini, che restano a scrivere.
L’ultimo dei tre citati – diciannove anni soltanto – mi guarda come ad un babbo o ad un nonno: confida che, da qualche giorno, tanti fanno totale o parziale astinenza dal fumo: non è arrivata la “spesetta”, ed il tabacco scarseggia o manca del tutto, a tutti ed a lui.
Io non fumo e non posso aiutarlo come vorrei fare per un figlio, un amico, un nipote.
Gli alunni tornano in aula appena io batto le mani.
Sono contenti della pausa goduta, e riprendono – senza fiatare – il lavoro interrotto.
Dopo, faccio trascrivere e completare una “scheda”, che ho preparato per una classe di soli adulti stranieri.
Sono io a dire quand’è ora – per loro – d’andare a mangiare; ma loro prima di uscire chiedono il compito: cioè pagine da copiare in cella, nel pomeriggio.
L’ozio l’han già conosciuto, e adesso vogliono vincerlo.
Io sono venuto qui apposta per aiutarli, e loro già l’hanno capito.
Con l’altro insegnante, esco quand’è l’ora precisa.
In una scuola del genere, non si sgarra per ritardi od anticipi.
Gli agenti si dànno la voce: “Collega!“; oppure “Cancelli!”; od anche: “Alla terza!”, ecc.
I cancelli, uno ad uno, vengono aperti con sincronismo perfetto, senza nemmeno che io chieda, o dica, o piagnucoli che ho ii diritto e la voglia d’andarmene a casa.
Mi sono sentito – stando dentro – d’essere un “signor detenuto”; ma quando esco, mi sento un poveretto cui sarà lasciato un gran privilegio: andare e venire ogni giorno, secondo il calendario scolastico.
Varcato l’ultimo tunnel, guardo il cielo, respiro a pieni polmoni, e ritrovo – dentro di me – i versi di Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle“.
Non è una “commedia divina“, ma – per tanti – una umana tragedia.
Io la condivido per quattro ore ogni giorno, e mi sembra che ciò possa fare bene a chi ha avuto ed ha – dalla vita – molto meno delle mie poche reali fortune.
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Presentato al festival di Taormina e in uscita il 18 luglio, “Madame Luna” è un film del regista svedese di origine cilena Daniel Espinosa. Tratto da vicende realmente accadute, narra di un gruppo di migranti appena sbarcati in Calabria e mostra la realtà complessa e le insidie nelle quali vengono a trovarsi. Una volta lasciato l’inferno libico, essi tornano a essere preda entro i nostri confini di chi approfitta della loro vulnerabilità. Protagonista è Almaz, una donna eritrea intraprendente e colta, la quale parla italiano, inglese, francese e alcune lingue africane, tanto da trovare modo di farsi strada tra gli italiani entrando nelle grazie della criminalità organizzata, quella che si appropria dei fondi statali destinati agli immigrati e sfrutta il loro lavoro nei campi.
Presto Almaz è riconosciuta da Eli, una sua giovanissima connazionale, come la terribile “madame Luna”, colei che in Libia aveva in mano le vite dei disperati che volevano raggiungere l’Europa. Malgrado sia stata inflessibile e crudele Madame Luna ora condivide la sorte degli scampati alla traversata del Mediterraneo. Eli la detesta, ma non può fare a mano di affidarsi ad Almaz, così abile, per farsi aiutare. Daniel Espinosa ci conduce pian piano alle vicende che hanno portato l’istruita Almaz, ex donna di potere, a sbarcare sulle nostre coste e, nella nuova condizione, alla maturazione dell’empatia verso i compagni e al desiderio di cambiare vita. Ci riuscirà?
Vedendo “Madame Luna” torna in mente l’orribile fine di Satnam Singh, il bracciante indiano che, dopo aver perso un braccio in un incidente sul lavoro a Latina, era stato abbandonato dal padrone davanti alla porta di casa con l’arto tagliato. Chi guarda, attraverso le esperienze vissute in Calabria da Almaz ed Eli, conosce la parte più odiosa della nostra cosiddetta “civiltà”: i trafficanti di esseri umani non sono solo in Libia, ma anche qui. Con un film ben fatto, che scorre come un thriller – senza far dimenticare le radici che affondano nella realtà – grazie a bravi attori, Espinosa ci mostra come la violenza non abbia confine e come la possibilità di arrivare a una vita degna passi attraverso una traiettoria impervia, nella quale le condizioni di partenza sono, salvo miracoli, decisive.
Madame Luna
Un film di Daniel Espinosa con Meninet Abraha, Hilyam Weldemichael, Claudia Potenza, Luca Massaro, Emanuele Vicorito.
Genere: Drammatico
Durata: 110 minuti.
Produzione: Svezia 2024.
Uscita nelle sale: giovedì 18 luglio 2024
In copertina: (Foto di Juan Sarmiento, Ufficio stampa Echo Group)
Riceviamo dal nostro più giovane collaboratore, il tredicenne Luca Guzzinati in vacanza al Lido degli Estensi, un intelligente e spassoso racconto sull’ultimo insulto urbanistico dei lidi ferraresi. La Redazione)
Le casette di via Zanella e il nuovo arrivato
di Luca Guzzinati
Luglio 2023.
Iniziarono misteriosi, degli smantellamenti riguardo la piscina del vecchio Hotel 3 stelle, ormai chiuso da tanto tempo. Il proprietario aveva cercato di vendere la struttura, ma nessuno era interessato all’acquisto di un palazzo popolato da barboni che lì trovavano un comodo letto dove dormire.
Lentamente i muri della putrida piscina si trasformavano in pannelli di compensato dotati di cartelloni che illustravano il progetto della costruzione e la famosa azienda edilizia Old Effe. Successivamente demolirono l’intero palazzone vecchio e marcio.
Quello sarebbe stato l’inizio di lavori lunghissimi e rumorosi, con tanto di bestemmie e ogni tipo di parolaccia in albanese o in italiano.
Sarebbe stato l’inizio anche di una serie di imprecazioni da parte degli abitanti delle casette che si sarebbero trovati un mostro di 14 piani che impediva alla luce di raggiungere quest’ultime.
Voi penserete: “poveri residenti!”.
Ma perché per una volta non pensate anche a noi povere casette?!?
Cavolo! Ci ritroveremo quel mostro altissimo che ci impedirà di vedere l’alba! Non ci vogliamo nemmeno pensare.
“Ehi Gialla io per la verità mi ero rotta le scatole del sole. La mia vernice è rovinata grazie a lui…Parla per te!”.
Ed è fortunata che ci sono ancora le impalcature.
Questa che ha parlato è Bianca, la mia vicina di… casa? E mi sta molto simpatica a dir la verità. La casa davanti a me si chiama Arancia ed è molto gentile perché tutto l’anno scorso s’è offerta di ospitare una intera famiglia di gabbiani.
E poi c’è Bianco, il mio fidanzato, che ha ospitato Paolino per 3 anni e tutt’ora lo accoglie sul suo bel tetto piatto.
Paolino è un gabbiano che tutte le case di Via Zanella conoscono. Alcune per amicizia altre per inimicizia, dato che è stato sfrattato almeno tre volte, non capiva che non doveva fare i bisogni proprio sulla loro testa!
Ah dimenticavo, ci sono io, mi chiamo Gialla e sto cercando di interrompere i lavori in corso.
“Ehi Bianco, stavo pensando se era una buona idea fare una riunione per trovare un piano per interrompere i lavori… ci stai?”.
“Si, magari! Non ne posso più di quest’ombra”. “Raga stavo pensando alle formiche alate che sono capaci di mangiare un intero palazzo.”
“E quindi Bianco?”
“Potremmo chiedere a Paolino se chiama la sua amica formica alata.”
“Aó Bianco, me sembra ‘na bonissima idea, tu che dici Gialla?”
“Sì, okay, ma come?”
“Beh, potremmo chiedere a Paolino di dire alla formica di formare un esercito intero”.
“Sì sì come no, sono stra antipatiche e diciamo che non sono in buoni rapporti con loro; penseranno come minimo che sono abbastanza idiota a chiederle aiuto.”
“Aspettate, noi abbiamo il controllo dell’elettricità della casa e quindi anche di tutti i dispositivi elettronici al nostro interno. Possiamo scrivere al comune di avere un incontro urgente per dire di placare l’attività”.
“Già così ci auto sradichiamo e andiamo in comune?”
“Ma vaffanmuro va….’”
Alla fine non abbiamo raggiunto nessun piano o tipo di ragionamento. Sarà un’impresa impossibile.
Ormai sono già pronta a passare tutte le estati senza intravvedere un singolo filo di luce.
Me ne sto qui e direi per forza, dato che sono una casa, però in questo momento non lo vorrei essere, vorrei avere le gambe, per scappare e godermi il caldo sole. Peccato che non sia possibile. Una casa è un qualcosa di fermo, che resta lì tutta la sua vita e deve accettare anche dove l’hanno posizionata, in che quartiere, in quale posto del mondo.
Paolino è venuto sul mio tetto a salutarmi e a consolarmi e dice che agli abitanti un po’ di ombra può piacere.
Mi ha detto che non era neanche finito il “mostro” e che magari mi facevo troppi pregiudizi. Forse può essere simpatico. Non ci avevo pensato. Poi ho accettato tutto quanto e forse eravamo state un po’ scontrose con la Old Effe.
Alla fine ho capito che devi accettare anche le cose che non ti piacciono.
Rapporto Invalsi 2024; a che punto siamo con gli apprendimenti negli studenti italiani?
Invalsi ha distribuito i risultati delle prove del 2024 in Italiano, Matematica e Inglese degli studenti italiani. Nel rapporto nazionale ci sono anche i dati per regioni e alcune cartine per provincia [Vedi qui il Rapporto Invalsi 2024]
I risultati sono in lieve miglioramento rispetto all’anno scorso (specie per Inglese che migliora in modo costante da vari anni) ma, escluso Inglese, sono ancora peggiori di quelli pre-pandemia del 2019 sia per Italiano che Matematica. La lunga chiusura delle scuole nel 2020 (di cui l’Italia ha il record mondiale) e il passaggio alla DAD (Didattica A Distanza) ha inciso in modo devastante, per cui ancora nel 2024 non si è riusciti a raggiungere i livelli di apprendimento del 2019 per Italiano e Matematica. In Inglese si migliora ma potrebbe incidere la quota sempre più numerosa degli immigrati che hanno maggiori difficoltà in Italiano e Matematica, mentre, come dice lo stesso Rapporto Invalsi 2024 “sono maggiormente predisposti ad apprendere le lingue straniere poiché già esposti ad almeno due lingue (quella d’insegnamento e quella parlata a casa)”.
Sta di fatto che i nostri studenti hanno livelli di apprendimento ancora inferiori a quelli del 2019, a conferma (se c’era bisogno) che la DAD e l’assenza prolungata da scuola ha inciso in modo rilevante sugli apprendimenti, in particolare, degli adolescenti. Risultati poi pessimi al Sud, inteso come Campania, Basilicata, Calabria e Isole, che ha vistose differenze con il Nord, anche se la spesa per alunno è quasi simile (-9%) a quella del Nord.
La dispersione “esplicita”(cioè chi non raggiunge il diploma) cala: dal 25% del 2001 al 10,5% del 2024 e si potrebbe quindi raggiungere l’obiettivo del PNRR (9% al 2026). Si tratta però di un dato più formale che sostanziale in quanto il diploma non garantisce che si siano raggiunti gli apprendimenti di base minimi. Il Rapporto infatti menziona che gli studenti “fragili” sia in Italiano che in Matematica dopo 13 anni di studi a scuola (al 5° anno delle superiori), che sono ancora ad un livello 1 e 2 (cioè non raggiungono la sufficienza) sono il 32,7%, cioè un terzo degli alunni, anche se in calo sul 2023, ma molti di più del 2019 quando erano “solo” il 25,4% (+7,3 punti). Meno peggio va alle elementari (+3,9 punti sul 2019) e alle medie (+6,6 punti) ma, nel complesso, si potrà notare la situazione di grave degrado avvenuta nel post-Covid che permane dopo 3 anni. Gli adolescenti delle superiori sono quelli che hanno subito i maggiori danni: nel 2023 i “fragili” erano saliti al livello “monstre” di 37,1% (+11,7 punti sul 2019).
Un dato che conferma quanti danni abbia fatto la DAD e la prolungata chiusura. Lo conferma anche la dispersone “implicita” (chi esce col diploma ma di fatto ha una competenza da 3^ media inferiore): 6,6% la media nazionale (era 8,7% nel 2023) che in Campania vola al 15,7% degli alunni rispetto a 1,2% del Trentino. [Vedi Qui]
Il Rapporto segnala anche che le differenze tra scuola e scuola dello stesso tipo (anche nella stessa provincia), alle elementari sono di oltre il 15%, che viene considerata la “soglia fisiologica”. Ciò significa che si apprende in modo molto diverso secondo la scuola elementare dove vai, a conferma di quanto sarebbe importante una Authority pubblica che sappia indicare scuola per scuola i livelli (di tutti i parametri) in modo da responsabilizzare docenti, dirigenti, famiglie e Istituzioni locali su come migliorare scuola per scuola. Si naviga invece nella nebbia (che sta bene a tutti), in quanto i dati, disponibili quando va bene per provincia (ma li puoi avere solo se sei un docente universitario), non consentono alcuna vera analisi e quindi rimedio.
Al Sud in 3^ media solo il 50% dei 14enni raggiunge la sufficienza di Italiano contro il 64% dei settentrionali e in Matematica va pure peggio: 40% contro 63% del Nord. Alla fine delle Superiori al 5° anno i sufficienti in Italia sono 56% in Italiano (64% nel 2019) e 50% in Matematica (61% nel 2019).
Le ragazze vanno meglio in Italiano (+6 punti) ma peggio in Matematica (-8 punti). Un quadro deludente su cui si fa poco e nulla (del resto mancano i soldi) se non vietare (e va bene) i telefonini dal prossimo anno alle elementari e medie.
Qualche giorno fa La Repubblica ha scritto un articolo demenziale in cui si diceva che “la didattica a distanza ha migliorato gli apprendimenti…e che i giovani si trovano bene nella loro cameretta al sicuro…”, uno dei tanti articoli sponsorizzati, questa volta probabilmente dalla piattaforma gostudentche vende attività on line di tutorig e ripetizioni delle lezioni.
E’ davvero incredibile che dopo tanti studi scientifici in cui si è dimostrato quanto la DAD abbia contribuito al crollo negli apprendimenti si dicano corbellerie del genere. Mentre La Repubblica esalta le magnifiche sorti e progressive della DAD, segnalo che il gruppoEuCARE continua a studiare e mostrare cosa stia capitando ai ragazzi a causa delle scelte sbagliate fatte nella gestione della pandemia.
Nel mio articolo su un primo consuntivo della gestione del Covid apparso su queste colonne [vedi Qui] ho evidenziato (a mio modesto parere) gli aspetti positivi e negativi della strategia italiana. Tra quelli negativi ricordavo l’eccessiva chiusura delle scuole e l’uso massiccio della DAD che ha portato (oggi lo sappiamo) a enormi perdite di apprendimento. In Svezia non c’è stata nessuna chiusura delle scuole e, pertanto, nessuna perdita di apprendimento per gli studenti nel 2020 e 2021 e nessun danno per studenti provenienti da contesti svantaggiati, a differenza di quanto avvenuto negli altri paesi (dall’Italia agli stessi paesi nordici come Olanda, etc.) dove la perdita di apprendimento è stata generalizzata e maggiore nelle classi sociali più basse, con crescita del divario sociale. Fortissimi sono stati i disagi psicologici in bambini e adolescenti (in particolare maschi, scuola infanzia ed elementare, chi non aveva spazi all’aperto, nelle classi sociali più basse, chi non ha fatto attività fisica, chi usava più spesso dispositivi mobili). Raddoppiati negli adolescenti i decessi per droga, suicidi e incidenti stradali correlati ad alcol e depressione.
Fa piacere leggere su Il Corriere della Sera un articolo di Gloria Saccani Jotti (13.7.2024) che manifesta allarme sulla crescita dell’antibiotico-resistenza nel mondo e cita il premio Nobel per la medicina Domagk che aveva detto nel 1939 che “non c’è nessuna distruzione di batteri senza la collaborazione dell’organismo” per cui oggi per contrastare i patogeni si fa sempre più uso dell’immunità naturale come coadiuvante di farmaci e vaccini…quello che ha appunto fatto la Svezia.
Il Congresso ICAR 2024 ha mostrato che la perdita di apprendimento è stata più marcata negli studenti italiani con un basso livello socio-economico e tra quelli con genitori meno istruiti, in particolare le madri. La didattica a distanza è stata vissuta male dagli studenti più bravi in matematica, mentre coloro che avevano difficoltà a socializzare hanno mostrato i peggiori risultati in italiano. Il contesto socio-economico ha influenzato non solo le prestazioni scolastiche, ma anche la condizione psicologica degli studenti. Nell’anno scolastico lo studio EuCARE, il 2022/2023, ha infatti osservato che gli studenti provenienti da contesti socio-economici più svantaggiati hanno mostrato maggiori problemi emotivi, di iperattività e difficoltà nelle relazioni con i pari. Francesca Incardonaè stata la coordinatrice dello studio.
“FINANZIAMENTI PER IL SOSTEGNO DI PROGETTI DI RILEVANZA LOCALE PROMOSSI DA ORGANIZZAZIONI DI VOLONTARIATO, ASSOCIAZIONI DI PROMOZIONE SOCIALE E FONDAZIONI DEL TERZO SETTORE, ACCORDO DI PROGRAMMA SOTTOSCRITTO TRA IL MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI E LA REGIONE EMILIA-ROMAGNA AI SENSI DEGLI ARTICOLI 72 E 73 DEL D.LGS. N. 117/2017 RECEPITO CON DGR. N. 1596/2022 – ANNUALITÀ 2024 – 2026”
DGR 903/2024
Il Centro Servizi Terre Estensi informa dell’uscita del Bando in oggetto e qui allegato, i cui beneficiari delle risorse, in rete con altri soggetti pubblici e privati, sono:
Organizzazioni Di Volontariato
Associazioni Di Promozione Sociale
iscritte nel Registro unico nazionale del Terzo settore (RUNTS) alla data di approvazione del presente bando e aventi la sede legale nel territorio della Regione Emilia-Romagna.
Fondazioni Del Terzo Settore
iscritte all’anagrafe di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460 (Anagrafe Onlus) alla data di approvazione del presente Bando se non ancora iscritte al RUNTS ed aventi sede nel territorio della Regione Emilia-Romagna.
Si comunica inoltre che il CSV Terre Estensi, secondo quanto definito con apposita procedura dalla Regione Emilia-Romagna e in raccordo con gli Uffici di Piano di tutti i distretti della provincia, è incaricato di gestire il percorso progettuale e favorire la creazione di partnership inter-associative a livello distrettuale candidabili ai finanziamenti previsti dal bando di cui sopra.
Si specifica che l’adesione al suddetto percorso da parte dei soggetti interessati non è obbligatoria, ma costituirà oggetto di premialità in fase di valutazione delle proposte.
Obiettivi, criteri, budget e modalità di presentazione dei progetti sono disponibili nel documento in allegato.
Le domande e la relativa documentazione dovranno essere trasmesse esclusivamente per via telematica, tramite l’applicativo SIBERentro e non oltre le ore 13 del 31.07.2024. Si segnala che per accedere a tale piattaforma è necessario lo SPID di livello 2 di persona fisica, CIE o CNS.
Per presentare il bando e avviare il percorso di costruzione delle reti progettuali, che dovrà comunque tenere conto delle indicazioni e delle aree tematiche definite insieme agli Uffici di Piano dei singoli distretti, sono previsti i seguenti incontri territoriali a cui tutte le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale iscritte nel registro regionale sono invitate a partecipare.
Vi ricordiamo i contatti utili per richieste in merito al bando:
Sempre più spesso penso che l’al di là ci riguardi, o almeno che ci guardi. L’idea che mi regge credo sia infantile ed è questa: c’è persistenza fuori dalla vita che respira, un prima e un dopo ai quali diamo il nostro contributo nel tempo in cui siamo vivi. Quando non lo siamo più, tuttavia, altri ripetono lo stesso paradigma dell’esistenza e in questo ci rinnovano.
Se poi lasciamouna traccia di quello che abbiamo respirato, pensato e comunicato, ci rinnovano ancora di più, dialogando con noi attraverso una distanza temporale che non è più una barriera. Già in vita, dalla rivoluzione telematica in poi, non ci sbarra il passo nemmeno la distanza nello spazio, qualunque essa sia.
Detto questo, faccio intanto accomodare Saba e Pasolini e chiedo loro un commento sulla finale dei Campionati Europei di calcio che domenica sera, 14 luglio 2024, ha incoronato come vincitrice la squadra spagnola.
Libreria antiquaria Umberto Saba – Trieste
Di Umberto Saba sappiamo che il suo amore per il calcio arrivò in età matura, forse sulla scia della passione per la squadra della Triestina che aveva Carletto, il suo storico socio alla libreria antiquaria di Via San Nicolò, che al secolo faceva Carlo Cerne.
Nelle Cinque poesie per il gioco del calcio con sensibilità autentica di poeta Saba osserva i giocatori, specie i portieri delle due squadre avversarie, distingue quelli “superbi” dai giovani “acerbi” che hanno voce stridula da “galletto”.
Nella finale vista iersera il chiccirichi di Lamine Yamal si è sentito meno che in altre gare: la festa del diciassettesimo compleanno appena passata, l’emozione straordinaria per la partita decisiva possono avergli tolto un po’ di voce.
Certo, non gli sono mancati quel vigore fisico, quella energia da vita intensa che tanto piacque a Giacomo Leopardi quando la riconobbe in Carlo Didimi e gli dedicò nel 1821 la canzone A un vincitore nel pallone.
Yamal non viene da un paese vicino a Recanati, Treia, bensì dalla provincia di Barcellona, ma abbiamo detto che oggi lo spazio non è più una barriera, o almeno non dovrebbe esserlo, e dunque la lode di Leopardi, in qualità di terzo Commissario Tecnico, si attaglia perfettamente sulla performance di Lamine.
I due portieri: ben visibili nella loro divisa spuria, gialla per l’inglese e nera per lo spagnolo, hanno occupato i bordi dello schermo, facendosi vedere spesso in movimento, stando fermi solo per brevi tratti a controllare il gioco.
Poi, come ha commentato Fabio Capello – un altro C.T. che essendo ancora in vita a fine gara ha potuto dire la sua in uno studio televisivo – il portiere inglese si è trovato a parare cinque magnifiche azioni da gol degli attaccanti spagnoli e ne ha fermate tre. Bravo: le altre due, tuttavia, hanno dato la vittoria agli avversari.
Tre in tutto, le reti: segna la Spagna con gol di Williams al 47′, pareggia l’inglese Palmer al 73′ e poi a pochi minuti dalla fine Oyarzabal manda sul podio dei campioni la sua Spagna. Lo stadio esplode di entusiasmo, vengono inquadrati variopinti tifosi di ogni età e di uguale sentire: tra loro non stonerebbe la figurina incollata di Saba, preso nel vortice del comune entusiasmo con la sua sensibilità spendibile ma anche defilata, “dagli altri diversamente – ugualmente commosso” direbbe lui.
Dal canto suo Pasolini parlerebbe bene del fraseggio espresso dalle due squadre. Avrebbe parole di ammirazione per la sintassi complessiva del gioco, concentrata a centro campo per quasi tutto il primo tempo e più spesso in area nel secondo. Che frasi poetiche quelle cinque che hanno espresso gli spagnoli facendosi i passaggi giusti sotto la rete inglese. Che efficacia il tiro di Palmer, appena entrato in campo e subito in gol in una specie di assolo espressivo.
Sì, perché Pier Paolo Pasolini nel corso di una intervista apparsa su Il Giorno il 3 gennaio 1971 assegnò alcalcio lo statuto di vero e proprio linguaggio, i cui segni chiamò podemi. Nelle azioni di gioco di volta in volta diverse i podemi si combinano liberamente, dando vita a momenti di gioco ora prosaici, ora invece carichi di estro.
Pier Paolo Pasolini
Direbbe perciò che alla prosa del primo tempo, giocato con sfoggio di tecnica calcistica, un tempo di studiata strategia corale, è subentrato il secondo tempo con la sua rappresentazione scenica allargata alle aree da gol e con le azioni vincenti piene di inventiva poetica.
Per quello che so dei codici linguistici e della poesia, credo che a Pasolini potesse piacere l’intreccio tra il gioco di squadra e gli assoli, vere parole-chiave in una armonia di vocaboli, un intreccioefficace e di grande bellezza tra sintassi e lessico del calcio.
Note bibliografiche:
Umberto Saba, Cinque poesie per il gioco del calcio, in Canzoniere, volume terzo, sezione Parole (1933-19349, Mondadori, 1994
Giacomo Leopardi, Canti, Loescher, 1974
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
Et voilà! L’ultima bestemmia conclude il lavoro giornaliero del mostro in costruzione. Il silenzio stupefatto viene interrotto dall’urlo dei gabbiani “stercorari” e dei colombacci in attesa. Nel giro di pochi minuti si ricopre di (pardon) cacca, mentre cicale furibonde riprendono il loro verso, direbbe Montale, non lasciando spazio ad altro lamento.
Il “generale in capo” della via chiamata Zanella misura i centimetri nei quali appoggiare cose e – orrore! – parcheggiare. Si odono, perfettamente intonati ad una voce stentorea, gli Editti che indicano dove e anche se depositare l’immondizia, mentre un pallonecon ritmo funebre viene lanciato contro un muro.
Dal mio osservatorio (il balcone di casa), come gli altri vecchietti-giovanetti, osservo cosa potrà succedere nella via
violentata. Frattanto transitano parenti ed amici che vogliono sapere del mio incontro col Maestro Mutinel meraviglioso concerto tenuto a Ravenna e replicato a Lampedusa delle Vie dell’Amicizia, di cui ho scritto ampio resoconto.
Nell’alternanza del tempo del ricordo e di quello del presente si consolida la via del ritorno al Laido, mentre come un mantra mi ripeto Che fare? Che dire? Con Riccardo e Cristina Muti quella sera ci si ripeteva che da quartetto siamo diventati un trio e il vuoto diventa abissale.
Ma il Laido, costruendo il muro di ferro che toglierà alla strada la sua ragione d’essere, proprio quel Laido mai amato, è diventato fonte di verità, di ricordo, di attesa.
Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturiclicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
I soldi di Ferrara vengono prestati altrove: desertificazione bancaria e contrazione del credito, le alternative possibili al declino
C’era una volta: chiudeva un esercizio commerciale, in quegli stessi locali apriva una filiale. Sembrano anni lontanissimi. Un’ inchiesta sugli sportelli bancari di Fisac-CGIL, pubblicata qualche giorno fa sui principali quotidiani di cronaca nazionale e locale (se ne può leggere compiutamente qui), ci fornisce lo spunto per affrontare il tema della cosiddetta “desertificazione bancaria”. L’indagine infatti inquadra a livello nazionale il fenomeno dell’abbandono progressivo dei territori ad opera delle banche, realizzato attraverso la “razionalizzazione”(alias chiusura) delle filiali, cui corrisponde un nuovo modello di business sempre più basato sul digitale. All’interno di un quadro generale preoccupante, spicca per gravità la situazione della provincia di Ferrara. Cito dalla ricerca: “il dato medio dal 2015 al 2023 segna un calo complessivo quasi del 40% nel ferrarese, ben superiore sia alla media regionale (-30,9%), sia a quella nazionale (-30,6%). …Il Comune di Ferrara ha il dato di chiusure maggiore in termini assoluti: -36 sportelli in città e soprattutto nelle frazioni (le frazioni del comune di Ferrara ormai sono sostanzialmente prive di uno sportello bancario). Peraltro questo dato è ancor più preoccupante in quanto è proprio sul capoluogo che si concentra la maggior ricchezza in termini di risparmio e, di converso, la maggiore esigenza di credito su imprese o privati.” Il dato ferrarese è influenzato con evidenza dalla scomparsa di fatto, dal 2017 ad oggi, delle due principali banche (e aziende) provinciali: Cassa Risparmio di Ferrara e Cassa Risparmio di Cento, incorporate rispettivamente in Bper e Credem. Nel caso di Carife la scomparsa ha provocato un autentico terremoto economico e sociale, per Cento si può parlare di un passaggio più soft ma non esente da traumi. In aderenza alla originaria vocazione glocal di Periscopio, abbiamo voluto approfondire la dimensione locale del fenomeno, facendo alcune domande a Samuel Paganini, segretario provinciale di Fisac CGIL Ferrara.
Periscopio: Samuel, un’ informazione saliente che si trae dalla ricerca è questa: “ad oggi il differenziale fra prestiti e risparmi è di 3,4 miliardi di risparmi di ferraresi che vengono prestati dalle banche fuori provincia”. Dipende solo dal fatto che a Ferrara storicamente si risparmia più di quanto si investe, oppure la contrazione del credito è proprio uno dei motivi principali della grande fragilità del nostro tessuto economico?
Samuel Paganini: non è sempre stato così. In passato si prestava e si raccoglieva denaro in proporzioni ben migliori a Ferrara. Nel 2011 c’erano 7,3 mld di impieghi (prestiti e fidi dati alla clientela) e 6,8 mld di raccolta (risparmi dei clienti depositati in banca), quindi c’era un differenziale a favore di Ferrara, in termini di credito concesso, di 500 milioni! Poi gradualmente questi dati si sono completamente rovesciati, fino ad arrivare alla fotografia di oggi. Certo, la fragilità economica di Ferrara non è una novità, che però si è fortemente aggravata in questi anni anche a causa della minor presenza bancaria.
P: appare evidente che le banche investono energie e risorse nei territori che ritengono più profittevoli in termini di ricavi, quindi relativamente “ricchi”. Perché mai un banchiere dovrebbe trovare redditizio mantenere un adeguato presidio anche in province “povere”? In fondo l’economista Milton Friedman, che venne anche insignito del Nobel per l’economia, diceva che un amministratore delegato deve rispondere solo ai suoi azionisti…
SP: ti rispondo citando un altro premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, professore di economia nell’Università di New York: “le banche sono conservatrici del capitale, ma devono anche essere disposte ad assumersi rischi calcolati”. Peraltro il credito è un valore “costituzionale”(art.47: La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito). Quindi bisognerebbe rammentare alle banche che hanno anche dei doveri “creditizi”. E che a Ferrara le banche non hanno mai perso soldi. Ricordo che Carife andò in risoluzione solo quando prestò ingenti somme, senza adeguato frazionamento del rischio, in territori lontani da Ferrara.
P: il destino finanziario dei territori come il nostro, in particolare per la popolazione più fragile, è ineluttabilmente consegnato alle Poste – nella migliore delle ipotesi – e all’usura – nella peggiore? O esiste la possibilità di sollecitare energie diverse, pure all’interno di un mondo bancario percepito spesso come un monolite?
SP: certo che ci sono soluzioni. Ma vanno ricercate e coltivate con l’aiuto delle istituzioni e delle associazioni imprenditoriali, sindacali e dei consumatori. Energie diverse ci sono: tutta la galassia delle BCC (Banche di Credito Cooperativo) territoriali e delle banche che hanno finalità etiche e sociali esiste già, ed è un riferimento da valorizzare.
P: cosa diresti ad un cittadino di Ferrara – che magari è rimasto scottato dal crac Carife e ha visto andare assolti, nella sostanza, tutti i dirigenti dell’epoca – per restituirgli un barlume di fiducia nel sistema finanziario?
SP: gli direi che fidarsi è bene, ma è ancora meglio farsi un po’ di cultura di base per sapere bene come investire i propri soldi e capire bene i rischi che si corrono. E fare scelte consapevoli. Non bisogna avere timore di fare domande se non si capisce una cosa. Diffondere e acquisire una cultura finanziaria dovrebbe essere una priorità, sia per le banche e le istituzioni, sia per il singolo risparmiatore.
Xavier Amin Dphrepaulezz è il vero nome di Fantastic Negrito e Fantastic Negrito è lo pseudonimo di un ottimo cantautore e musicista, nato a Oackland 56 anni fa.
Sono stato al suo concerto alla Delizia Estense di Benvignante, organizzato nell’ambito della rassegna Ferrara Sotto le Stelle, e mi sono proprio ricaricato. In una location davvero bella, lui e il suo gruppo hanno offerto uno spettacolo sorprendente, strepitoso, potentissimo, addirittura terapeutico.
Avevo ascoltato Fantastic Negrito l’anno scorso, per la prima volta, in apertura del concerto di Bruce Springsteen e mi aveva colpito molto per l’inesauribile energia musicale e l’emozionante intensità interpretativa. Da allora ho ascoltato tutti i suoi dischi, che ho trovato notevoli; fra l’altro, tre di questi [1] hanno vinto un importantissimo riconoscimento quale il Grammy Award come miglior album di blues contemporaneo.
Fantastic Negrito canta soprattutto del razzismo, della schiavitù, delle relazioni interrazziali, del capitalismo e dei danni che produce; riesce a farlo in modo originale trasformando la rabbia in ritmi coinvolgenti e travolgenti, contagiosi e luminosi, audaci e vivaci, liquidi e solidi.
Nell’album White Jesus Black Problems del 2022, interpretato in versione acustica nel recente Grandfather Courage, ha scelto di raccontare la storia dei suoi bisnonni: lui schiavo afroamericano e lei serva scozzese. A questo proposito, la rivista Rock n’ Load ha descritto i testi di questo disco come “un inno alla duratura resilienza della nostra umanità condivisa“.
L’originalissima valanga musicale generata da lui e dai quattro musicisti sul palco di Benvignante ha investito piacevolmente il pubblico presente con i suoi evidenti riferimenti alla black music: da Robert Johnson a George Clinton, da Leadbelly a James Brown, da Robert Johnson a Jimi Hendrix, da Marvin Gaye a Sly Stone.
Due ore di carica pazzesca intervallate da inviti alla libertà gridati forte: Break the chains (Spezzate le catene), Don’t let the computers handle men (Non lasciate che i computer gestiscano gli uomini) e Only the dreamers survive (Solo i sognatori sopravvivono).
Xavier, dopo aver interpretato brani del suo repertorio passato, ed anticipato alcuni del lavoro in uscita, ha concesso diversi bis senza assolutamente perdere di intensità. Infine ha ringraziato, in maniera sincera e sentita, il pubblico e il nostro “paese di grande cultura”, che lui dimostra di amare tornando spesso ad esibirsi in Italia.
“Per chi l’ha visto, per chi non c’era e per chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera” [2] c’è possibilità di recuperare, andandolo a vedere dal vivo: ci sono ancora alcune date italiane ed altre europee; altrimenti tocca aspettare di sentirlo a settembre quando uscirà il suo prossimo lavoro, anticipato da Undefeated eyes, il nuovo singolo con la partecipazione di Sting.
Di fronte a tutto il “rumore” assordante di questa “summer” ferrarese, allontanarsi un po’ dalla città per ascoltare, “sotto le stelle”, un bravo artista in continua evoluzione creativa come lui, non può che far bene al corpo, allo spirito e anche al morale.
Note:
[1] The Last Days of Oakland (2016), Please Don’t Be Dead (2018) e Have You Lost Your Mind Yet (2020).
[2] La mia banda suona il rock di Ivano Fossati
Cover e foto nel testo di Mauro Presini
Per leggere gli articoli di Mauro Presini su Periscopio clicca sul nome dell’autore
“I libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro”
(Carlos Ruiz Zafòn)
Per oltre quarant’anni, mio padre ha lavorato in una cartiera del gruppo Burgo a Ferrara. Si produceva cellulosa e si raccoglievano quintali di carta da macero che, tra le altre utilità, servivano a produrre le “anime” dei rotoli di carta. Ogni tanto, mio padre portava a casa dei libri che, spigolando, aveva trovato tra la carta straccia. Trovava di tutto. Vecchie edizioni dei romanzi di Salgari, qualche saggio di critica letteraria; Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno e altri.
Insomma, libri di ogni tipo, anche edizioni di pregio un po’ appassito ma ancora con un fascino antico.
Conservo gelosamente un volume del 1948 di Guido Errante “Marcabru e le fonti sacre dell’antica lirica romanza“, Ed. Sansoni, che mi tornò utile per la preparazione di due esami di filologia romanza all’Università.
Nel tempo, mi sono chiesto più volte il perché questi libri avessero fatto un percorso di distruzione anziché incontrare strade più fortunate andando, ad esempio, a collocarsi in una biblioteca pubblica o privata per porsi al servizio di studi di approfondimento o per fare sognare adolescenti di ogni età.
Il libro di Anna Maria Scocozza e Floriana Porta “Siamo fatte di carta” mi ha riportato alla memoria frammenti del mio passato familiare di gioventù.
Il sociologo della conoscenza e filosofo Franco Cassano, recentemente scomparso, in “Approssimazione” scriveva che “la memoria può attivare immagini o sensazioni che si sono avute una volta e destinate a ricomparire sulla base di un’associazione“.
Nella rivista “Morel – Voci dall’isola”, in una recensione attenta ed approfondita, Anna Rita Merico evidenzia che il libro in questione è “un insieme che rende leggerezze e pensieri filati al vento del desiderio“, composto da foto di manufatti con materiali riciclati di Anna Maria Scocozza “intrecciati” con haiku e baishu poetici di Floriana Porta.
“Le mie opere – scrive la Scocozza – sono visioni da indossare con l’anima, che prendono in prestito – e utilizzano come pretesto, come metafora – un “guardaroba poetico” tutto al femminile (abiti, lingerie, monili e altri indumenti) realizzati in carta riciclata”. Nella sua breve riflessione all’inizio del libro, Floriana Porta dice che “se la missione di Anna Maria è dare forma e corpo alla carta, la mia è di darle voce e respiro”.
*
Siamo fatte di carta,
di fili ritorti,
d’ali sospese,
di fragili corazze,
di lava rovente,
di luci visionarie,
di briciole d’assenza,
di gusci fossilizzati,
di respiri millenari.
Siamo fatte di carta,
di storie perse nel tempo,
di alberi capaci di sognare,
di narrazioni e di traguardi.
Pori, piume e radici:
ecco la nostra anima!
*
Un dialogo costante tra i progetti creativi delle due autrici che nel libro si sviluppano in cinque sezioni: Vestimenti poetici, Camminare la poesia, Opere libro, Eco-gioielli, Maschere di carta. Cinque sezioni in cui s’intrecciano continuamente pensiero poetico e il corpo femminile esplorato al femminile. Oggetti che cambiano forma, vita. Parole che “subiscono” nuove presenze materiali e si ritrovano nella catena del senso, che si/ci ridanno significato. Forme letterarie e sculture ritrovate, riconsegnate ad una nuova vita. C’è una restituzione in un nuovo corpo. Stabilizzazioni di senso che sono superati da nuovi percorsi identitari.
*
Ho imparato a rifiorire, a ricominciare da capo
e a prendermi cura di me stessa.
A rinnovarmi, a progredire e a progettare nuove avventure,
a cambiare pelle, a trasformarmi
e a farmi tutt’uno con il cielo.
Ho imparato a seguire le traiettorie della luce
e a vivere, con pienezza, ciò che merita
di essere salvato.
A non dissolvermi come un arcobaleno
ma a mettere radici per non sentirmi più impotente
e in balìa degli eventi
e a fare tesoro dei miei sogni.
A offrire alla mia vita, e alla mia anima,
un senso, un appiglio.
A non temere il tempo
e a sfidare ciò che mi è estraneo.
Ma soprattutto ho imparato ad avere nuovi occhi
capaci di stupirci, di lasciarsi urtare
e colpire dalla bellezza.
*
Sono accordi di sensazioni, per guardare la carta con altri occhi.
Non guardare un mondo sempre dalla stessa posizione. La capacità di aggirare le cose, di recuperarle sotto nuove forme. Calvino/Palomar dice che “se è un dialogo, ogni battuta arriva dopo una lunga riflessione“. Una specie di “intelligenza sentimentale”. Una ricerca per ridare cuore ad un corpo che si era smarrito.
La poesia traduce le ansie, le ferite e le lacerazioni. Libera la voce del cuore.
una timida luce
s’intreccia a ogni petalo
e a ogni intreccio
ha imparato a tacere
Amami nell’alveare delle labbra,
che cosa aspetti?
Perché in una bocca che sa di fuoco
brilla un rosa ciliegio.
Che cos’è la poesia? E’ un’esperienza di vita reale,
una pratica misteriosa che entra negli alveoli
dei nostri polmoni e si deposita – irresistibilmente
e irrimediabilmente – sui pori della nostra pelle,
sulle nostre mani e sulla retina dei nostri occhi.
E’ un atto di resistenza. E a cosa serve?
Serve per sopravvivere!
Tutti i testi e le opere riportate sono tratte dal testo “Siamo fatte di carta”.
Anna Maria Scocozza e Floriana Porta, Siamo fatte di carta, Ventura Edizioni, Senigallia, marzo 2024.
Floriana Porta è nata a Torino nel 1975, vive a Vinovo e fin da piccola ha avuto la necessità di scrivere, comporre, disegnare e fotografare. Si presenta con forme espressive di rara intensità e la sua opera – poetica e figurativa – si dispiega fra natura e bellezza, introspezione e sogno, elementi imprescindibili della sua riflessione esistenziale. Uno stile ermetico, il suo, lontano dalla retorica e dal sentimentalismo, caratterizzato da raffinatezza, contemplazione e armonia.
È esperta di poesia giapponese, in particolare di haiku, baishù e tanka. Si tratta di componimenti poetici che si caratterizzano per avere un forte collegamento di temi con l’ambiente naturale e che seguono regole metriche sillabiche molto ferree. Una poesia Zen molto riflessiva, di grande emotività, suggestione e incredibile brevità. Ha fatto parte per tanti anni della giuria del prestigioso Concorso Internazionale di Haiku di Cascina Macondo.
Ha pubblicato numerosi libri, ebook e plaquette di poesia ed è presente in molte importanti antologie poetiche. Titoli delle sue principali pubblicazioni: Verso altri cieli (Edizioni REI, 2013), Quando sorride il mare (AG Book Publishing Editore, 2014), Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, 2014), L’acqua non parla (Libreria Editrice Urso, 2015) Fin dentro il mattino (Fondazione Mario Luzi Editore, 2014), La mia non è poesia (Aljon Editrice, 2017), I nomi delle cose (Edizioni L’Arca Felice, 2017), In un batter d’ali (AG Book Publishing Editore, 2018), Offro respiro ai versi (La Ruota Edizioni, 2018), Il Giappone in controluce (AG Book Publishing Editore, 2020) L’infinito è in me (AG Book Publishing Editore, 2021) e Oltre gli orizzonti (Blurb, 2022).
Ha aperto recentemente un blog dove intervista grandi personaggi della cultura italiana legati alla poesia: artisti, scrittori, poeti e pensatori. Il blog si chiama “Le cetre dei poeti”.
In Parole a Capo sono state pubblicate poesie di Floriana Porta il 15 dicembre 2022 e il 29 giugno 2023.
Anna Maria Scocozza nasce a Roma nel 1965 dove vive e lavora. Diplomata in Costume e Moda, ha frequentato, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, la Scuola libera del nudo e moltissimi corsi di specializzazione di pittura e decorazione. Come attività lavorativa ha condotto numerosi Laboratori/Workshop artistici-creativi e corsi di tecniche pittoriche presso musei, scuole e centri di aggregazione giovanile per adolescenti, adulti e bambini.
Negli ultimi anni la sua ricerca artistica si è focalizzata sulla realizzazione del suo “Guardaroba poetico” e precedentemente sull’acquarello e sui libri d’artista.
Costruisce le sue cartose opere “Indumenti poetici” con ciò che viene rifiutato, inutilizzato: vecchi libri riciclati, destrutturati e ricreati, talvolta filati, a formare una stoffa di carta che utilizza come metafora poetica, visioni da indossare per descrivere la realtà, anche quella più dolorosa; simboli visivi e archetipi umani che ci accompagnano nel nostro difficile viaggio terreno e spirituale. Strappi come cicatrici, che diventano feritoie da dove la luce ci illumina e custodisce, preparandoci per nuove fioriture.
Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero e le sue opere si trovano presso Musei, Fondazioni e Collezioni italiane e straniere.
Ultime mostre
2023 – Triennale Internazionale du papier Musèe Charmey – Svizzera. Opere acquisite nella collezione del Museo Charmey.
2022 – Archivio di Stato di Roma. Sant’Ivo alla Sapienza. Mostra della carta d’Archivio alle carte d’Artista.
2022 – Mostra personale “L’anima si veste di carta”. Torretta di San Francesco – Repubblica di San Marino.
Inserita Smiaf San Marino International Arts Festival.
2021 – Finalista Concorso “Indoor” undicesima edizione della Lucca Biennale Cartasia-Villa Bottini-Lucca 2021 – Mostra personale “Vestimenti poetici in carta riciclata”, VII Edizione inserita nella Mostra Internazionale del Libro d’Artista, presso Museo Civico Ex Monastero Di Santa Chiara, Corso Vittorio Emanuele Noto (SR).
Il suo sito è http://www.annamariascocozzaartist.it
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
La città di Ferrara, già celebrata come patrimonio UNESCO e conosciuta come ‘Città del Cinema’, si prepara a diventare il fulcro del mondo del cortometraggio grazie a una straordinaria collaborazione appena annunciata tra Notorious Cinemas e il Ferrara Film Corto Festival (FFCF) “Ambiente è Musica”.
La partnership promette di portare innovazione e prestigio, trasformando Ferrara in un centro nevralgico per la celebrazione del cortometraggio.
Un’Iniziativa Innovativa e Prestigiosa
Il cuore di questa collaborazione batte forte in occasione della settima edizione del FFCF, in programma dal 23 al 26 ottobre 2024. Gli eventi si svolgeranno in due location di grande fascino e prestigio: la Sala Ex Refettorio del Chiostro di San Paolo e la rinnovata Sala Estense.
L’accordo continuerà ad animare la città nel corso del 2025, con una serie di iniziative ideate per avvicinare sempre di più il pubblico al mondo del cinema breve.
Eventi esclusivi e coinvolgenti
La collaborazione tra Notorious Cinemas e FFCF sarà inaugurata con un evento di anteprima del Festival presso le sale di Notorious Cinemas nel centro commerciale ‘La Nuova Darsena’.
Solo il primo di una lunga serie di appuntamenti che comprenderanno masterclass, incontri con autori e professionisti del settore, workshop e proiezioni speciali.
Particolare attenzione sarà poi dedicata alle scuole, con eventi specifici organizzati in collaborazione con la Ferrara Film Commission APS.
Una rassegna di eccellenza
Nel corso dell’anno, Ferrara ospiterà una rassegna dedicata ai cortometraggi vincitori del FFCF. Tali eventi saranno arricchiti dalla presenza dei cast e delle crew dei film, offrendo al pubblico l’opportunità unica di partecipare a incontri con autori ed esperti del settore.
Tale format innovativo mira a coinvolgere attivamente gli spettatori, dando vita ad un dialogo diretto tra creatori e pubblico. Occasioni di confronto e crescita, incontri di coscienze e conoscenze.
FFCF: un Festival di rilievo internazionale
Il Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” non è solo un festival internazionale, ma un vero e proprio punto di riferimento nel panorama nazionale del cortometraggio dedicato all’innovazione, al networking e alle produzioni indipendenti.
Organizzato dalla Ferrara Film Commission APS, si distingue per l’attenzione rivolta agli autori emergenti e alle professionalità spesso sommerse del mondo del cinema. Attraverso collaborazioni con festival di prestigio come la Biennale di Venezia e il Sondrio Festival, il FFCF esplora la relazione tra ambiente sonoro e naturale, sensibilizzando sulle problematiche ambientali.
Notorious Cinemas: un nuovo paradigma di intrattenimento
Andrea Stratta Amministratore Delegato Notorious
Notorious Cinemas, con sede legale a Roma e controllata al 100% da Notorious Pictures S.p.A., è sinonimo di innovazione nel settore cinematografico. Con il format proprietario Notorious Cinemas “The Experience”, l’azienda offre un nuovo modello di intrattenimento cinematografico esperienziale, puntando su comfort, qualità audio e video di altissimo livello, sostenibilità ambientale, servizi al consumatore e offerta di contenuti di qualità.
La nuova multisala di Ferrara, che aprirà a settembre 2024 dopo un completo restyling, sarà esempio di tale approccio, offrendo ampie poltrone comodissime di ultima generazione, in materiali eco compatibili, standard tecnici audio e video elevati e una programmazione varia e coinvolgente. Oltre a una sana e variegata offerta nel comparto food & beverage e alla creazione di aree relax dedicate e alla possibilità di ordinare e ricevere il cibo in sala comodamente alla propria poltrona.
Un futuro luminoso per Ferrara e il cortometraggio
La sinergia tra Notorious Cinemas e il Ferrara Film Corto Festival “Ambiente è Musica” rappresenta una straordinaria opportunità per Ferrara, consolidando il suo ruolo di polo culturale e cinematografico di rilievo internazionale. La collaborazione promette di attirare in città il meglio del mondo del cortometraggio, dalle realtà produttive a quelle distributive, coinvolgendo autori, maestranze e semplici appassionati. Unendo passione e innovazione.
Eugenio Squarcia direttore artistico FFCF
Ferrara è pronta a diventare il centro del cinema breve, un luogo dove innovazione e tradizione si incontrano per dare vita a esperienze cinematografiche indimenticabili.
Sul lavoro si continua a morire, mentre l’INAIL ha un tesoretto di oltre 3miliardi di €
“Desta perplessità che il bilancio Inail presenti un ingente ed improprio avanzo annuale (spesso superiore al miliardo), che poco si concilia con il perdurante fenomeno infortunistico; è urgente l’esigenza di una rivisitazione dei meccanismi di finanziamento della prevenzione in chiave di pieno utilizzo delle risorse disponibili, anche rivedendo le procedure, al fine di ottenere una significativa riduzione dei tempi di erogazione delle risorse, onde estendere il numero delle imprese e dei lavoratori beneficiari degli interventi prevenzionali”. Così il Procuratore generale della Corte dei Conti, Pio Silvestri, nella requisitoria sul Rendiconto generale dello Stato 2023.
Stiamo parlando, secondo il bilancio consolidato del 2023 di INAIL, di un avanzo di oltre 3 miliardi di €. Soldi fermi, che il Mef (il Ministero dell’Economia e delle Finanze) usa per blindare i conti, alimentando la Tesoreria e acquistando titoli di Stato, mentre l’Istituto è costretto a fare i conti con un sottodimensionamento d’organico di 1900 unità e con la presenza di soli 190 ispettori contro un fabbisogno di 300 unità.
Si tratta di un’evidente grave anomalia, ingiustificabile soprattutto di fronte agli infortuni su lavoro che continuano a crescere. Da gennaio a maggio 2024 le vittime sul lavoro in Italia sono state 369, di cui 286 mortali in occasione di lavoro e 83 in itinere, con una media di 74 decessi al mese. Rispetto allo stesso periodo del 2023, le vittime in totale sono 11 in più (da gennaio a maggio 2023 si contavano 358 vittime totali), con un aumento del 3,1%. Negli ultimi 10 anni la media è stata quasi di 1.200 vittime annue, come è stato amaramente sottolineato dallo studio curato dalla Uil e redatto da Devitalaw “Il lavoro che uccide, la strage impunita”.
E ad ogni “omicidio di lavoro” immancabilmente lo Stato si costerna, s’indigna, s’impegna, ma poi getta sistematicamente la spugna. Ma alla luce di questo “tesoretto” la spugna che getta è insanguinata. “Distrarre” 3 miliardi di € dall’obiettivo dell’Istituto, accumulare un tesoretto per altre finalità e continuare a non usarlo per assumere il personale (ispettori) che mancano e per misure in grado di contrastare l’insicurezza che accompagna il mondo del lavoro, significa contribuire a far sì che la “strage” continui e che resti impunita.
I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo. Tutto ciò che io conosco è ciò per cui ho delle parole.
(Ludwig Wittgenstein)
Schwa e cancel culture: quando il fanatismo fa male ai diritti civili
All’interno dell’organizzazione di sinistra di cui faccio parte, mi è capitato di assistere ad un’ aspra querelle tra donna e uomo sul linguaggio. Una delegata ha caldeggiato l’adozione di un linguaggio inclusivo nelle comunicazioni. La comunicazione presa ad esempio del contrario (cioè di un linguaggio escludente) conteneva in realtà un pressoché costante riferimento a “lavoratrici e lavoratori”, ma nonostante questo veniva accusata di essere scritta in un “maschile sovraesteso”.
Tralascio il dettaglio della polemica, innescata da un delegato che, scherzando sul tema, ha provocato una reazione piccata della delegata. Mi interessa il tono e il contesto. Il tono era scandalizzato, come se fosse stato infranto un tabù: non si poteva scherzare sul linguaggio inclusivo, in particolare sulla schwa (che, per inciso, con la mia tastiera windows è impossibile da riprodurre graficamente, se non scaricando un programma apposito). Il contesto era singolare: se c’era un comunicato che includeva costantemente il genere femminile oltre al maschile, era quello. Tuttavia adesso l’inclusione linguistica, secondo qualcuno, deve per forza comprendere una lettera (chiamata schwa) che non appartiene all’alfabeto italiano, e che convenzionalmente indicherebbe il genere non binario (le persone in transito, oppure che non si sentono solo maschio o solo femmina, o che non si riconoscono in nessuno dei due generi).
Già ho trovato faticoso pensare di scrivere così, ma quella può essere solo una questione di abitudine: la lingua non è statica, e si evolve all’evolversi del costume. La fatica di imparare una nuova lingua, ad esempio, è una fatica positiva. Quello che mi ha messo a disagio è l’idea che un modo di scrivere nemmeno tradizionalmente mascolino, anzi inclusivo, seppure con quella formulazione un po’ stucchevole (parere personale) del tutte e tutti, sia stato considerato discriminatorio perché non teneva conto di un genere che, nelle stesse percezioni dell’interessato, è un non-genere. Ma non sarebbe più semplice pensare che quando scrivo “tutti” intenda “tutti gli esseri umani” e quando scrivo “tutte” intenda “tutte le persone”? Sotto questo punto di vista, trovo più escludente salutare con un, ormai stereotipato, “buongiorno a tutte e tutti” invece che dire “buongiorno a tutti (gli umani)” o “buongiorno a tutte (le persone)”. Peraltro, il tono assertivo e accusatorio di chi rimprovera l’uso di un linguaggio che non comprende le minoranze costituisce, a mio avviso, il rovescio della medaglia di un Vannacci che ciancia di “dittatura delle minoranze”. In realtà non c’è alcuna dittatura nel non vietare, in alcuni casi nel tutelare, condotte che non fanno del male a nessuno e costituiscono una libera espressione della propria personale sessualità, sensibilità, cultura. E’ anche possibile che nuove parole o nuovi fonemi possano aiutare nella definizione più appropriata di un “nuovo” mondo, magari del mio nuovo mondo (per dirla alla Wittgenstein). Ma è proprio un atteggiamento che conduce verso l’imposizione o, viceversa, verso il divieto o il “boicottaggio” culturale, ciò che avvicina certi ragionamenti che provengono “da sinistra” alle stupidaggini del generale.
Il sapore sgradevole che sento in bocca al fioccare di questi assunti è lo stesso sapore di quando assisto alla proposta di HBO di cancellare dal catalogo “Via col vento” in quanto razzista. Di cancellare un seminario universitario su Dostoevskij perché russo come Putin. Di quando vedo la nuova Sirenetta di colore; come se, in un remake di Otello, lo stesso, per qualche ragione (in questo caso non politica ma commerciale), dovesse essere raffigurato coi tratti somatici di un coreano.
L’integralismo, per quanto “politically correct”, e il linguaggio, che è di per sé il prodotto dinamico di una contaminazione continua, non vanno d’accordo. Per non parlare del “politicamente corretto” e dell’ espressione artistica: lì siamo proprio agli antipodi. L’arte mostra, non fa didascalie: il messaggio dell’arte è l’arte, ammesso che un’ opera dell’ingegno arrivi ad avere un contenuto definibile come artistico. Sotto questo aspetto certi testi della trap non sono istigazione alla violenza, sono semplicemente schifezze, mentre un testo come “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi può essere considerato razzista solo da un fanatico. Dove si tenta di introdurre correttivi ispirati ad una presunta corrispondenza tra l’evoluzione del costume civile e l’arte, l’arte scompare. Provate a pensare ad un romanzo di Bukowski modificato con la matita rossa nei passaggi considerati maschilisti. Oppure a Lolita di Nabokov in cui la ninfetta diventa maggiorenne per evitare accuse di pedofilia. Arancia Meccanica secondo questa logica sarebbe un film da vietare, e infatti inizialmente conobbe la censura: peccato che la censura sia sempre stato attrezzo nelle mani di una destra bacchettona e perbenista, e adesso attraversi anche le menti di qualche fanatico della diversity and inclusion.
Cover: fotogramma della “rieducazione” di Alex nel film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Esce in libreria il 12 luglio, con Orecchio Acerbo editore, “Voi”, di Armin Greder: storia di una società a responsabilità illimitata
“Quando vedo qualcosa che mi fa arrabbiare, allora scrivo un libro!” Questo è il filo rosso che lega quasi tutte le ultime pubblicazioni di questo grande autore, lo svizzero cittadino del mondo Armin Greder, capace di guardare dritto negli occhi l’umanità intera. Con spietatezza, senza guardare in faccia nessuno, senza remore, senza, perdono alcuno.
E “Voi” è un albo davvero arrabbiato, pagine che raccontano, in toni e colorì scuri-oscuri-chiaroscuri, la storia e l’evoluzione di una società a responsabilità illimitata.
Non una voce sola, ma il coro di un intero continente che, nel tempo, l’Occidente strapotente ha sfruttato, bruciato, annientato, distrutto, conquistato: a partire dai primi colonizzatori che arrivarono in Africa con la Bibbia, imponendo il loro credo, seguiti da chi li rese schiavi e poi gli concesse un’indipendenza solo fittizia. La realtà è ben altra, dietro alcuni fantocci ella stessa specie. A cambiare, solo il colore della pelle dei nuovi padroni.
“Quando i missionari giunsero, gli africani avevano la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare a occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia” – Jomo Kenyatta
E poi ancora lo sfruttamento delle ricchezze, il finanziamento di bande, di guerre e armi, nascondendo le coscienze dietro la bandiera della cooperazione. Saccheggi per procura.
Catene, frontiere che si rinforzano, muri che si alzano, fili spinati che avvolgono anime senza futuro né speranza, lager in cui rinchiudere e tenere la pressione lontana e invisibile, nell’ipocrisia generale.
“Quanto a voi, impantanati nel comfort del vostro torpore conservatore, protetto da pattuglie di frontiera e funzionari dell’immigrazione, pensate a innaffiare il prato e alle vacanze al mare”
L’inferno come unica eredità, altro che miti, guerre combattute per altri, eccidi, promesse non mantenute di rimediare agli errori, bandiere altrui, bandiere vuote. Convegni, intorno a banchetti e cocktail, per parlare di riduzione del debito, con commoventi editti sui diritti umani e le ingiustizie.
E, superati i mille ostacoli, arriva lo sfruttamento del lavoro per il benessere: quello, sempre e solo, dell’Occidente. La fatica di tanti per la serenità di pochi.
Non avere nulla significa non poter perdere nulla e quelle voci lo diranno, sempre e comunque, finché c’è respiro. Anche se saranno cibo per pesci del mare di qualcuno.
“… mentre voi pubblicate selfie su Facebook e guardate reality su schermi da 55 pollici, la coscienza catatonica, ignari delle migliaia di noi che avete condannato a morte c h i u d e n d o o c c h i, o r e c c h i e e b o c c a”.
Armin Greder, Voi, Orecchio Acerbo editore, Roma, 2024, 48 p. – In libreria dal 12 luglio
Armin Greder
Graphic designer e illustratore, nato in Svizzera, emigrato in Australia, poi trasferitosi in Perù, oggi vive in Italia, a Mazara del Vallo. Dopo aver insegnato design e illustrazione per anni al Queensland College of Art, ha cominciato a illustrarli i libri, prima quelli di altri autori, poi i suoi. Al suo lavoro sono state dedicate numerose mostre personali e collettive, dalla Germania al Giappone. Nel 1996, ha ricevuto il Bologna Ragazzi Award e l’IBBY Honour List con “The Great Bear” di Libby Gleeson (Scholastic Press). Con Libby Gleeson ha pubblicato anche: “Big Dog” (1991), “Sleep Time” (1993), “The Princess and the Perfect Dish” (1995) e “An Ordinary Day” (2001). “Die Insel” (“L’isola” orecchio acerbo, 2008) pubblicato da Sauerlander nel 2002, è il libro di cui per la prima volta è anche autore dei testi. È tradotto in molte lingue e ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo, fra cui il Goldener Apfel/Golden alla Biennale di Illustrazione di Bratislava del 2003.