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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Parole a capo /
Pier Luigi Guerrini: “Terra tradita” e poesie vecchie e nuove

Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.
(Ennio Flaiano)


Terra tradita

giugno s’è disunito
per cercare di raccogliere i desideri
della campagna abbandonata.

Zolle zuccherose si parlano addosso
all’ombra di una croce di fosso.

Aratro coperto, erpice infogliato
il dolce e duro impasto della natura s’è fermato

i calci spessi delle scarpe piene di grilli
hanno il cuore duro di chi guarda cascinali
ormai muti, e non vi può entrare.

Dietro,
la pancia dell’orizzonte
è riempita di tante immagini industriali.
Hanno licenziato i giusti desideri.
(giugno ’80)

 

Cambio della guardia

Il programma democratico prevede
severità compiuta
all’ombra stimmatica d’un balcone.

la libertà che si può descrivere:
tante penombre affratellate
in difficile compenetranza;
immagine neoclassica
d’un futuro dal corpo rammaricato.

La superbia dei piccoli atti
la prevaricazione sui vinti
la gloria smodata
di chi diserta l’alba
per il tramonto.

Ma se questo è toccare
se questo è bagnare
chissà cos’è, dov’è il parlare
(giugno 1980)


Tredici maschere/1

volto nascosto
volto mostrato
volto recitato
volto rivoltato
volto da sera
volto comunicativo
volto studiato
volto di testa
volto in attesa
volto festivo
volto feriale
volto innamorato

spicchio d’infinite guance
specchio d’antiche bilance.

volto pagina.

Tredici maschere/2

volto ascosto
volto strato
volto re citato
volto (della) rivolta
volto d’aseità
volto d’iato
volto inatteso

volto in lista della spesa
volto e rivolto
volto e sorrido
volto fra non molto
volto colto
volto tra cespugli d’orto.
(gennaio 1981)


Un’idea, un pensiero.
Ormai, è tardi verbo remoto!

levigare, concordare, migrare, esaudire,
forgiare, progredire, tramontare, immergere,
scorgere, celare, sopraggiungere, appartenere,
sfrecciare, ap -pallottola – re, influenzare,
intravvedere, acquistare, estrarre, cospargere,
iniettare, decorare, deridere, schiudere.

cancellare. io tu egli essa esso noi voi essi
esse costui costoro costei quello quella quelli
quelle.
cancellare.
(maggio 1981)

 

Amaretto sociale

Il permesso di buongiorno
è andato perduto
nella cattiveria quotidiana

il reddito di buona creanza
ha cambiato stanza
si è fatto un parlamento a sé

il premierato alla crema
è la novità dei dolci a tema
a bignè
pieno di tanta pressapochezza
e un goccio d’anice d’Aci Trezza.
(2023)

 

Anche adesso

Anche adesso
in questa disperazione
resta il compito di capire,
capire perché è successo
qual è la soluzione
che cancelli la parola morire
dalla bocca del cannone.

Una chirurgia d’accatto
che distrugge ospedali
una fattoria politica
dove comandano maiali
invece di grappoli d’uva
bombe a grappolo
che fanno vino
dal sapor di sangue.

La geografia, la storia
hanno confuso la memoria
hanno spine conficcate
hanno vite martoriate.

La pace, la pace langue
la vita impone nuovo sangue.
(2023)

 

Tra dialogo e silenzio

Il suono del silenzio
il saluto del silenzio
il riflesso
il riflusso.

Uomo, piccolo spazio di rumore.
(2023)

Pier Luigi Guerrini (1954, Ferrara). Ha fondato, con Roberto Guerra e Lamberto. Donegà, la rivista Poeticamente (1980). Ha pubblicato Il fenomeno scomposto, Ed. Ottantagiorni, Reggio Emilia, 1984 e l’e-book In prosa per la foto, ISNC Edizioni, 2014. Ha pubblicato in numerose antologie, riviste in cartaceo e online. Dal 2020 cura su Periscopio la rubrica di poesia “Parole a capo”. In questa rubrica sono uscite alcune sue poesie il 25 giugno 2020 e il 4 marzo 2021.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque:
Carrara, 16 e 17 dicembre 2023

Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque: appuntamento a Carrara, 16 e 17 dicembre 2023

Alpi Apuane: il 16 dicembre 2023 Manifestazione nazionale per la tutela della montagna, contro la devastazione causata dalle attività estrattive

Tra i promotori della manifestazione “Le montagne non ricrescono – Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque” ci sono CAI Toscana, Arci Toscana, Athamanta, Coordinamento Ambientalista Apuoversiliese, Comitato Civico della Cappella.

Le Alpi Apuane al centro di una manifestazione nazionale per sensibilizzare le istituzioni e tutta la comunità al problema dell’escavazione del marmo che sta facendo scomparire intere montagne.

Il 16 dicembre 2023 Carrara ospiterà la manifestazione “Le montagne non ricrescono – Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque” che vedrà l’unione di molte realtà nazionali e locali di tutela del territorio per denunciare e aprire i riflettori su quanto sta accadendo sul territorio apuano.

Le sezioni CAI e le associazioni ambientaliste riunite nell’Assemblea per l’Accesso alla Montagna hanno indetto un’iniziativa pubblica di sensibilizzazione poiché “Nei mesi passati le Alpi Apuane sono state scenario di diversi atti ostili da parte degli industriali del marmo e delle istituzioni che hanno tentato più volte di impedire l’accesso ad alcuni sentieri montani. A tutto ciò si accompagna l’insoddisfacente tutela ambientale e la dubbia legalità nella gestione complessiva dell’escavazione sulle Apuane, che il Gruppo Regionale toscano del CAI ha esposto nel “Dossier Apuane”.

Le realtà promotrici dichiarano inoltre che “In quattro anni è aumentato del 30% il materiale estratto, negli ultimi 30 anni è stato estratto più marmo dalle Apuane che negli ultimi 2000 anni a un ritmo non più sostenibile. L’80% del materiale estratto dalle Alpi Apuane è detrito, in gran parte polverizzato per produrre carbonato di calcio e meno dell’1% è usato per fini artistici. A fronte di questi dati riteniamo che sia naturale partecipare per sensibilizzare istituzioni e cittadinanza sul destino del nostro futuro e di quello delle future generazioni”.

E concludono: “ll caso delle Alpi Apuane è dunque emblematico nel mostrare le aberrazioni dell’estrattivismo, ovvero un sistema di sfruttamento del territorio in cui le aspettative del mondo imprenditoriale piegano le esigenze sociali, ambientali ed economiche delle comunità che vivono il territorio stesso. Un principio che, una volta affermato e reso sistemcaico, produce la privatizzazione dei profitti in pochissime mani e la socializzazione dei costi sulla popolazione e sugli ecosistemi. Non a caso Carrara è uno dei comuni più indebitati d’Italia, la cui provincia vanta tristemente un tasso di disoccupazione altissimo rispetto alla media dell’Italia centrale, ma che ospita al contempo società dagli utili favolosi”.

Contatti ufficio stampa
16dicembrecarrara@gmail.com

IL MOSTRUOSO CORTOCIRCUITO ISRAELIANO

IL MOSTRUOSO CORTOCIRCUITO ISRAELIANO
“Gli orrori degli uomini producono altri orrori”

Quello israeliano è un dramma frutto di un mostruoso cortocircuito: genti in fuga dai campi di concentramento nazisti, motivate da principi socialisti e spinte da una propaganda che prometteva pace, lavoro e giustizia in “una terra senza popolo per un popolo senza terra”… si macchiano degli stessi crimini da loro subiti durante l’Olocausto; genti appartenenti a un popolo umiliato, perseguitato e oppresso… ora perseguitano e opprimono un altro popolo, colpevole solo di esserlo.

Foto Franco Ferioli

Quello palestinese è un dramma frutto di una spaventosa forma di violenza che rimorde la coscienza dell’umanità: un simbolo della negazione dei diritti universali alla permanenza, all’esistenza e alla sopravvivenza di un popolo sulla propria terra; la quintessenza della negazione del diritto dell’umanità di esistere in quanto tale;
il plateale esempio di un genocidio – anche se pervicacemente negato – contro un popolo “fantasma”.

A proposito, in una celebre intervista del 1969 dove l’allora  Primo Ministro Israeliano Golda Meir si esprime in questi termini: “I palestinesi, molto semplicemente, non esistono”,  e non avrebbero mai dovuto esistere.
Come scrisse il saggista statunitense di origine palestinese, docente alla Columbia University,  Edward Said: “la Questione Palestinese costituisce da oltre settanta anni un tragico errore della storia, sorto nell’ambito del “Conflitto Israelo-Palestinese”. Un errore  proseguito nel contesto mediorientale delle “Guerre Arabo-Israeliane” e aggravatosi sino alle estreme conseguenze attuali della cosiddetta “guerra contro il terrorismo di Hamas” nella Striscia di Gaza.

Ciò che sta per onda in questi giorni, “La Soluzione Finale di Israele per i Palestinesi”, affonda le proprie radici nella storia di ieri, ed è una storia che non è mai cambiata.

La “Guerra del 1948”, chiamata in Israele “Guerra di Indipendenza”, ha comportato la nascita dello Stato di Israele e ha significato lo sgretolamento territoriale, economico e sociale del popolo palestinese, che ricorda il 1948 come l’anno di inizio della propria “Nakba”, la Catastrofe.

La Dichiarazione di Indipendenza Israeliana ha comportato la distruzione della Palestina.

Quando gli Ebrei sono diventati cittadini, i Palestinesi sono diventati profughi.

524 città e interi villaggi rasi al suolo; su una popolazione complessiva di 1.300.000 individui, 780.000 palestinesi vennero costretti ad un esodo di massa forzato da una ondata di violenza e di terrore scatenata contro civili inermi.

Mappa dei villaggi palestinesi distrutti da Israele nel 1948.

Chi ha comandato, diretto e attuato stragi  – come quella più tristemente nota del villaggio palestinese di Deir Yassin, dove sono stati massacrati a sangue freddo centinaia di donne e bambini innocenti – è poi stato eletto Primo Ministro di Israele e Premio Nobel per la Pace, e nel suo libro intitolato “The Revolt -Story of the Irgun”, Monachem Begin descrive le azioni terroristiche condotte sotto il suo comando con una minuziosa profusione di particolari agghiaccianti, ammettendo di essere il responsabile di questo eccidio, avvenuto il 9 aprile del 1948 e sostenendo che “Se non avessimo vinto a Deir Yassin lo Stato di Israele non esisterebbe”.

Subito dopo, per rappresaglia, i palestinesi uccisero settantasette medici ebrei sulla strada per Gerusalemme. Haganah, trasformato da gruppo paramilitare in nucleo originario dell’esercito nazionale, rispose minacciando altri massacri se gli arabi non se ne fossero andati.

L’ex capo di stato maggiore Moshe Dayan , rivolgendosi al Technion di Haifa (Israel Institute of Technology, citato in Ha’Aretz, 4 aprile 1969), ammise:
«Arrivammo in questo paese che era già popolato dagli arabi e vi stiamo consolidando uno stato ebraico, uno stato per gli ebrei. In alcune zone comprammo la terra agli arabi. Villaggi ebraici furono costruiti al posto di quelli arabi. Oggi voi ignorate persino il nome di quegli antichi insediamenti e non è colpa vostra, poiché non esistono più libri di geografia che ne parlino. E anzi, non solo non esistono più quei libri, ma neppure quei villaggi. Nahlal sorse al posto di Mahlul; Kibbutz Gvat al posto di Jibta; Kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tel al-Shuman. Non c’è un solo posto in questo paese che non fosse stato prima abitato da popolazioni arabe».

Un docente Israeliano, il professor Israel Sahahak, ha calcolato che circa quattrocento centri abitati arabi ”Furono completamente distrutti ed in maniera così accurata che delle case, giardini, cimiteri e perfino delle tombe, non resta neanche una pietra ed ai visitatori che passano viene detto che lì “prima c’era il deserto”. (Israel Shahak, The Zionist Plan for the Middle East (“A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties or the Yinon Plan), Association of Arab-American University Graduates,1982.

Nel breve volgere di una generazione, gli ebrei israeliani erano riusciti a trasformarsi da perseguitati in aguzzini, da Davide in Golia.

Israele è nato da un trauma e le genti ebraiche traumatizzate, in fuga, giunte clandestinamente a grandi ondate emigratorie in Terra d’Israele, che contribuirono al suo rapido sviluppo, hanno a lungo mantenuto la convinzione di avere costruito Israele dal nulla, senza porsi la domanda se e chi fossero coloro che prima ci vivevano.

Chi ha fatto affidamento sulla narrazione israeliana imposta dall’ideologia sionista è stato ingannato non solo riguardo ai crimini di guerra commessi dall’Esercito Israeliano, ma anche sulla natura, sull’origine e sui metodi di applicazione del concetto stesso di terrorismo.

Nei villaggi occupati, gli abitanti venivano radunati nella piazza e lasciati a soffrire sotto il sole per ore, poi i ragazzi più sani e belli venivano uccisi a sangue freddo davanti a tutti, per convincere gli altri ad andarsene e per fare in modo che la notizia del massacro terrorizzasse e svuotasse i restanti villaggi palestinesi.

La mentalità terrorista attraverso la quale Israele è stato concepito, costruito e sostenuto, è stata un fallimento fin dall’inizio, eppure Israele ancora si rifiuta di accettare ciò che risulta ovvio: fintanto che la sua esistenza sarà imposta con l’uso delle armi, non vi sarà pace e si continueranno a subire le conseguenze indotte dalla violenza.

Nel 1937 David Ben Gurion, leader del movimento sionista in Palestina e futuro primo Primo Ministro Israeliano scrisse: “Gli arabi se ne devono andare. Ma c’è bisogno del momento opportuno affinchè ciò accada. Qualcosa come una guerra”.

Dieci anni dopo, la leadership sionista elaborò il Piano Dalet, o Piano D, per rendere sicuri i confini di Israele attraverso la distruzione di città, quartieri urbani e villaggi palestinesi. Appena il piano venne messo in atto, la stragrande maggioranza dei palestinesi fu costretta a fuggire dalle proprie case, dopo aver subito ondate di violenza terroristica analoghe a quella provocata dal massacro esemplare di Deir Yassin.

Per rappresaglia, i palestinesi, attaccarono un convoglio ebreo di medici e infermieri che faceva la spola tra Gerusalemme e il monte Scopus e vennero uccise 77 persone.

L’Haganah, fu trasformata da forza clandestina paramilitare in nucleo originario dell’esercito regolare nazionale, e rispose minacciando altri massacri se gli arabi palestinesi non se ne fossero andati.

Yitzhak Shamir, prima di divenire anch’egli un grande statista, era al comando di un gruppo definito terrorista dagli stessi israeliani, la Stern Gang, un’organizzazione paramilitare che commise orrori su popolazioni civili.

Tra il 30 marzo 1947 e il 15 maggio 1948, 200 villaggi palestinesi furono occupati e i loro abitanti espulsi. Nei villaggi di Ein al Zeitun, Tantura, Hula, Saliah e Bassa, furono perpetrati atroci massacri. Dalle città di Lidda e Ramla vennero espulsi 50.000 abitanti in un solo giorno, 426 uomini, donne e bambini furono uccisi. Il generale al comando dell’occupazione e delle espulsioni da Lidda e Ramla, Yitzhak Rabin, diventerà  primo ministro di Israele per due mandati.

Nel 1948 il Chicago Sunday Times scriveva a proposito delle tattiche israeliane: “Praticamente qualsiasi cosa sulla loro strada è morta. Corpi crivellati giacevano ai lati delle strade”. Scrisse il New York Herald Tribune: “I corpi di uomini, donne e anche bambini erano sparsi in giro nella scia di una spietata e brutale offensiva”. Il London Economist riportò:” I profughi arabi furono sistematicamente ripuliti di tutti i loro averi…e poi spediti sul loro cammino verso la frontiera”.

Dal dicembre 1947 al gennaio 1949 il numero dei rifugiati palestinesi salì a circa un milione e la dispersione divenne vera e propria diaspora in Libano, Giordania, Egitto, Siria, Iraq. Da allora anche la storia moderna della Palestina e del suo popolo è stata totalmente cancellata.

Il raggiungimento dell’obiettivo del movimento sionista, quello di convertire la Palestina in uno stato ebraico, rendendo impossibile che venissero ascoltate o legittimate le proteste dei suoi abitanti originari, ha fornito fondamento e giustificazione per un’ulteriore criminale impresa colonialista, costringendoci ad ascoltare una narrazione della storia che, molto semplicemente, non è vera.
L’insensata propaganda della versione sionista della storia, tesa a convincere che non ci sarebbe stato nessun genocidio dei palestinesi, è già crollata sotto il peso degli studi condotti dal movimento della Nuova Storiografia Israeliana, un gruppo di storici, ricercatori e docenti israeliani che ha sfidato le versioni tradizionali sul reale ruolo assunto dal proprio Paese nell’esodo palestinese del 1948, e oggi, quella propagandistica visione sionista, rischia di disintegrarsi sotto il peso della guerra di Gaza contro i terroristi di Hamas.

Ciò che sta accadendo in queste settimane e in questi giorni, non rappresenta sicuramente la nascita del “Nuovo Medio Oriente” profetizzato a New York da Benjamin Netanyahu nel suo discorso di metà settembre alla 78esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite e questo non è certamente il modo con cui “Israele può diventare un ponte di pace e prosperità tra Africa, Asia ed Europa”.
Dalla metà di ottobre, l’UNRWA, l’Agenzia dell’Onu per l’Assistenza ai Profughi Palestinesi, ha iniziato a denunciare che a Gaza in media ogni dieci minuti i bombardamenti israeliani uccidono un bambino palestinese e due restano feriti.

I capi di 18  agenzie delle Nazioni Unite hanno lanciato disperati allarmi sull’imminenza di una catastrofe umanitaria senza precedenti, chiedendo a Israele un cessate il fuoco umanitario immediato:“Un’intera popolazione è assediata e sotto attacco, negata l’accesso ai beni essenziali per la sopravvivenza, bombardata nelle proprie case, rifugi, ospedali e luoghi di culto. Ciò è inaccettabile”, hanno affermato, invitando entrambe le parti a “rispettare tutti gli obblighi derivanti da diritto internazionale umanitario”.

Tra i firmatari figurano i capi dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), Save the Children, UN Women e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Craig Mokhiber, un avvocato che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, nel presentare le proprie dimissioni di fronte all’amara sconfitta del proprio compito e al fallimento della missione delle Nazioni Unite in Palestina, le ha così motivate: “Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina”. [Leggi su Periscopio il testo integrale della lettera di dimissioni di Crsig Mokhiber]

L’unico valore di chi vive sotto occupazione militare è il grado di resistenza all’occupante.
Nella città di Gaza e nel resto della Striscia, l’ultima morte rimasta da celebrare è la morte dell’ideologia sionista.

Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini e le denunce delle violazioni dei diritti umani non sono antisemite  Anzi, occorrerebbe chiedersi: in qual misura e in qual modo Israele rappresenta oggi il popolo ebraico? E in quale forma il popolo ebraico dovrebbe vedersi rappresentato dall’Israele di oggi?

Le  risposte sono giunte dalle strade e dalle piazze delle città di tutto il mondo dove una marea di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di fermi, denunce, arresti e percosse.
I difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “not in my name”, si sono espresse in coro.

Nella società israeliana e nel resto del mondo chiunque ponga l’attenzione sulle durissime condizioni di vita imposte da Israele ai suoi propri cittadini e cittadine, soldati e soldatesse, e chiunque analizzi la catastrofe che il sionismo ha provocato ai palestinesi, viene ostracizzato, ridotto al silenzio, definito antisemita o, se ebreo, un ebreo che odia sè stesso e gli altri ebrei.

E’ per questo che amare Israele consiste oggi nel denunciarlo.

Ed è per questo -da quando il 13 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha sottoposto i palestinesi di Gaza al più intenso e indiscriminato bombardamento israeliano di sempre, distruggendo case, ospedali, asili, scuole, università, moschee, mercati, centrali elettriche, pozzi, panetterie, edifici pubblici e infrastrutture civili e provocando oltre 18mila morti, 7mila dispersi, 35mila feriti,1,7 milioni di sfollati– che amare la Palestina consiste nel lanciare allarmi su una catastrofe umanitaria senza precedenti, e nel denunciare il pieno sostegno, finanziamento e armamento degli Stati Uniti e dei governi dei principali paesi europei, Repubblica Italiana inclusa, poiché risulta ormai chiaro, evidente e dichiarato che il Governo dello Stato Israeliano, applicando fino in fondo la sua ideologia di matrice sionista, non si fermerà finché l’ultimo individuo palestinese che vive in Palestina non sarà o epurato, o espulso, o ucciso.

I governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi derivanti dai trattati per garantire il rispetto della Convenzione di Ginevra, ma in realtà stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Di pari passo, i media mainstream occidentali violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando i palestinesi e trasmettendo propaganda di guerra e incitamento all’odio nazionale, razziale, religioso, alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza.

Facendo eco al sit-in della settimana precedente al Capitol Hill di Washington, durante l’ora di punta serale di venerdì 24 novembre, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di difensori dei diritti umani ebrei di Jewish Voice for Peace e IfNotNowche si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana cantando slogan e sventolando striscioni che chiedevano il cessate il fuoco mentre Israele intensificava il bombardamento della Striscia di Gaza.

Così facendo, rischiando e accettando pacificamente gli oltre 200 arresti operati dagli agenti del Dipartimento di Polizia di New York con le mani legate dietro la schiena, hanno azzerato il massimo punto di forza raggiunto dalla propaganda israeliana, secondo la quale Israele esprime la tradizione, la religione e la cultura del popolo ebraico.
Non è così. Non è più così. E aumenta la certezza che così non sia mai stato.

Naji al Ali. “Chi ha vinto”. .

Cover: Bambini palestinesi orfani i cui genitori furono uccisi nel massacro del villaggio di Deir Yassin, 9 aprile 1948 (IDF archive).

Per leggere tutti gli articoli, i saggi e gli interventi di Franco Ferioli su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

UN PAPA DI NOME FRANCESCO: DAL PALAZZO ALLA TENDA – I parte

 L’OPERAZIONE BERGOGLIO: DAL PALAZZO ALLA TENDA 

Sono trascorsi dieci anni dall’elezione di papa Francesco (13 marzo 2013).

Scrive Alberto Melloni che “non bastano per fare il bilancio di un papato” (QN, 12 marzo 2023), perché la conclusione dei pontificati spesso si caratterizza per alcuni finali colpi di reni. È accaduto, per esempio, con la Pacem in terris di Giovanni XXIII (aprile 1963) e la Declaratio di rinuncia di Benedetto XVI (febbraio 2013).

Due avvenimenti che, per importanza, portano a condividere la tesi secondo la quale per tentare un bilancio occorre attendere la fine di un pontificato.

Eppure, continua lo storico, un decennio è sufficiente per disegnare “nitide le parole-chiave di papa Bergoglio”.

Ma ancor prima, può essere utile comprendere il significato di quella scelta compiuta dal conclave nel marzo di dieci anni fa, e proprio alla luce della “operazione Bergoglio”, potrebbero risultare maggiormente contestualizzate le sue parole-chiave, ossia la sua direzione di marcia.

Per farlo occorre risalire all’uscita di scena del suo predecessore, Benedetto XVI.

Come è noto, il nome del cardinale gesuita argentino, arcivescovo di Buenos Aires, compare come candidato nel conclave del 2005, ma risulta ben presto chiaro che l’unica vera candidatura è quella del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, strettissimo collaboratore del suo predecessore, papa Wojtyla.

Come scrive ancora Melloni “il disordine che ha travolto Ratzinger è stato uno dei mandati del conclave”. Lo storico che insegna all’Università di Modena-Reggio Emilia, nel breve spazio di un articolo di giornale non ha modo di argomentare quel “disordine”, eppure paiono chiari i riferimenti, innanzitutto, all’ondata di scandali e fallimenti che hanno investito la chiesa durante il suo pontificato (abusi sessuali, le finanze, gli intrighi di curia compresa la fuga di carte dalle stanze vaticane, il tentativo di riavvicinare i lefebvriani …).

Numerosi osservatori vedono però molto altro e di molto più profondo in quelle clamorose dimissioni. Ci sarebbe, cioè, la fragilità e l’obsolescenza di una strategia ecclesiale e di un paradigma pastorale complessivi giunti inesorabilmente al loro capolinea, di cui Ratzinger è stato, forse, l’ultimo e più autorevole, oltreché integerrimo interprete.

Fra queste analisi, trovo particolarmente convincente quella che fa lo storico Daniele Menozzi (Il papato di Francesco in prospettiva storica, 2023).

Provo a farne sintesi.

Il punto di partenza cruciale da cui prende le mosse questa analisi risiede nel significato del termine “aggiornamento”, chiesto da papa Giovanni XXIII (“balzo in avanti”), con la convocazione del concilio Vaticano II e con il suo famoso discorso di apertura di quell’assise; Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1961).

Innanzitutto occorre chiedersi il perché di una richiesta tanto esigente, specie se si pensa che Roncalli venne eletto come un papa di transizione.

L’urgenza avvertita dal pontefice bergamasco era che la chiesa doveva ritrovare la capacità di rendere comprensibile all’uomo contemporaneo il messaggio cristiano.

C’era, in sostanza, la consapevolezza di una distanza, una progressiva incomprensione, nel rapporto tra la chiesa e il mondo.

Le ragioni di fondo di questo solco venivano individuate nella lunga egemonia della cultura intransigente sospinta per secoli, sorretta da una corposa sponda teologica e da una incontestata postura pastorale, che però stava rivelando i segni inequivocabili di un sostanziale fallimento.

Credo che per capire la portata di questo tema sia utile ripercorrere brevemente le parole della teologa Marinella Perroni in una relazione svolta nel settembre 2021 su invito del vescovo della diocesi calabrese di Cassano allo Jonio, mons. Francesco Savino (Una chiesa sinodale: “c’è un tempo per demolire e un tempo per costruire” (Qo 3,3). Un discernimento generativo).

«L’ultima grande riforma della chiesa, che ne ha definito la forma identitaria ad intra come ad extra, cioè il suo impianto istituzionale nonché il suo modo di rapportarsi al mondo, risale all’epoca medievale, più precisamente all’XI secolo. (…) Con la riforma gregoriana, voluta da papa Gregorio VII (1073-1085), la chiesa latina a partire da una concezione teocratica del potere e dalla conseguente convinzione della superiorità del papato su ogni autorità temporale, non soltanto si lancia in uno scontro permanente con re e imperatori, ma rafforza sé stessa grazie all’affermazione di un ferreo centralismo romano e di una rigida struttura clericale.

Da allora la chiesa latina non ha più saputo riformare sé stessa. (…) Quando diciamo che la chiesa deve liberarsi dal clericalismo, affermiamo di fatto che (…) deve trovare la forza di una riforma che la faccia finalmente uscire da mille anni di storia che l’hanno vincolata a modelli ideologici e istituzionali del tutto incompatibili con il mondo degli uomini e delle donne del nostro tempo, figli della cultura democratica e delle lotte per i diritti umani, attenti alle esigenze e alle spinte tecnologiche, aperti ai richiami della spiritualità, ma allergici a riconoscersi in enclaves militanti o devozionali (p. 3-4).»

Del tutto analoga alla lettura della biblista Perroni è quella dell’ecclesiologo Severino Dianich, che nella riflessione La Chiesa dopo la Chiesa (Il Regno 14/2013), scrive:

«Mentre si sviluppava l’assetto liberale della società e cresceva l’aspirazione dei popoli a essere governati democraticamente (aspirazione che diventerà drammatica sotto le dittature del Novecento) e mentre si diffondeva  una cultura protesa all’esaltazione della dignità della persona umana e della sua libertà, nella Chiesa persisteva il rifiuto della laicità dello stato e il sogno di poter restaurare dovunque lo stato confessionale, che le avrebbe assicurato l’esercizio di un vero potere, anche se indiretto, sullo stato e i suoi organi legislativi.

(…) Le frequenti condanne da parte del magistero di tesi filosofiche, di progetti politici, di tante espressioni delle arti e del costume non sono riuscite, di fatto, a scalzare neanche di poco l’affermarsi di una cultura che, pur portatrice di molti valori evangelici (corsivo mio), veniva contrapponendosi alla predicazione e alla politica ecclesiastica della Chiesa cattolica. Questa posizione perennemente antagonista ha allargato, invece, sempre più il fossato fra i non credenti e la comunità cristiana (p. 466).»

Con il suo discorso di apertura del concilio Vaticano II papa Roncalli – per tornare all’analisi di Menozzi – “forniva una diagnosi della situazione e proponeva una soluzione”:

Erano i “profeti di sventura”, che nei tempi moderni vedevano solo disastri e rovine, ad aver allontanato i contemporanei dalla fede cattolica. In effetti, lanciando anatemi contro diverse conquiste di un uomo moderno che, sottraendosi alla guida ecclesiastica, rivendicava la capacità di costruire in piena autonomia una convivenza più prospera e felice, essi mitizzavano i tempi della cristianità rispetto a un presente connotato negativamente.

Stigmatizzando il rimpianto del passato – un monito in cui si può facilmente leggere un implicito riferimento al medievalismo della cultura intransigente -, Giovanni XXIII mirava a ovviare al pericolo di una Chiesa che, separandosi dalla società moderna, rischiava di ridursi alle dimensioni di una setta (p. 19-20).

Vale la pena, qui, aprire un inciso che aiuta a darci la cifra della posta in gioco che si apriva con l’invito di Roncalli a compiere quel balzo in avanti, rappresentato dalla formula dell’aggiornamento.

Era invitabile che, non essendo questa lettura patrimonio dell’intera ecclesia, si sarebbero ben presto espresse le resistenze a queste aperture e, soprattutto, alle conseguenze che esse implicavano. Resistenze che si manifestarono durante tutte le quattro sessioni del Vaticano II, che animarono successivamente il dibattito postconciliare e che tuttora danno voce a posizioni anche di aperto dissenso ecclesiale, fino a posizioni di aperta opposizione all’attuale pontefice come non si sono mai viste nella storia recente.

Esprime bene questo passaggio lo storico Andrea Riccardi (La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo, 2021):

«Quando ci si concentra sul presente, il confronto corre al passato prossimo, quando la situazione era migliore, più folto il numero dei fedeli e di ecclesiastici. Chi è fisso sul presente è spinto a confrontarsi con ieri e a restare immobile, quasi che la sfida del futuro sia troppo ardua per le proprie forze e ci si deve accontentare di tenere sull’oggi. Questo è scivolare nell’ ‘irrilevanza’ (p. 225).»

A proposito della persistenza di tali posizioni e segnatamente delle più recenti e vivaci contestazioni, si possono ricordare quelle provenienti dagli ambienti più tradizionalisti con l’applicazione dello stesso schema interpretativo riservato a tutti i papi del postconcilio: l’allontanamento dall’ortodossia cattolica.

La pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris Letitia (2016), ossia il documento di sintesi dei due sinodi sulla famiglia (2014 e 2015), fu l’occasione della famosa lettera che quattro cardinali (Raymond Burke, Carlo Caffarra, Walter Brandmüller e Joachim Meisner) indirizzarono al pontefice e alla Congregazione per la dottrina della fede, per metterne sotto accusa l’impianto dottrinale.

Un secondo esempio fu, nel 2017, una “correzione filiale” sottoscritta da esponenti della galassia anticonciliare, che individuava sette posizioni eretiche nell’insegnamento del papa.

Su questi episodi lo storico Menozzi è ancor più netto nell’analisi, classificandoli come:

«l’occasione per mettere in mostra l’inconsistenza culturale di simili posizioni. In effetti ben più che alla millenaria tradizione cattolica i circoli tradizionalisti si richiamano alla riformulazione dell’eredità della Controriforma che ha compiuto l’intransigentismo cattolico otto-novecentesco. L’identificazione di queste recenti elaborazioni teologiche con la millenaria tradizione della Chiesa ne rileva tutta la fragilità intellettuale (p. 6).»

Tale repertorio di rilievi critici sarebbe tuttavia parziale se non si comprendessero anche quelli provenienti dagli ambienti progressisti. Sulla scorta delle resistenze della Santa sede a riconoscere alcune istanze delle chiese locali (l’ordinazione di diaconi permanenti sposati, la revisione del celibato per il sacerdozio, l’apertura alle donne di ruoli ministeriali)

«qualche commentatore ha caratterizzato come immobilistica la linea di Francesco. (…) Altri hanno sostenuto che la curia romana ha architettato (…) la costruzione della fittizia immagine di un papa rivoluzionario, per ottenere, con la complicità di alcuni organi d’informazione e dello stesso Francesco, il vero obiettivo cui mirava il conclave che nel marzo 2013 lo ha eletto: impedire ogni reale riforma del cattolicesimo. (…) non meno pungente la polemica di quanti scorgono nel governo di Bergoglio un disinteresse per la modernità occidentale (p.7).»

Tornando nel solco della svolta impressa da papa Roncalli con l’apertura del concilio che si svolse tra il 1962 e il 1965, è risaputo che il Vaticano II nel corpo complessivo dei documenti (quattro Costituzioni, nove Decreti e tre Dichiarazioni), non è riuscito a tradurre quell’impulso che evocava una nuova pentecoste in un indirizzo unitario all’aggiornamento ecclesiale auspicato.

Paolo VI, subentrato a Giovanni XXIII (morto nel giugno 1963):

«preoccupato di assicurare la più larga adesione possibile alle decisioni conciliari, ha favorito soluzioni di compromesso che, se hanno consentito di rendere evidente l’unanimità morale della Chiesa attorno alle deliberazioni conciliari, non hanno però contribuito alla chiara indicazione delle strade su cui doveva incamminarsi il cambiamento (Menozzi, p. 20).»

Per rendersi conto del travaglio che hanno attraversato i documenti conciliari, dagli schemi iniziali fino alla loro approvazione conclusiva, passando par le fasi ugualmente sofferte degli emendamenti, basta percorrere i cinque volumi della Storia del concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo (1995).

Seguendo l’efficace sintesi di Menozzi

«si può dire che nei documenti del Vaticano II si sono delineati in ordine al cruciale tema del rapporto con il mondo moderno due diversi orientamenti. Da un lato si è prospettata una linea di apertura ai contemporanei caratterizzata dal criterio di una rilettura del Vangelo alla luce dei segni dei tempi. Secondo quest’ottica la Chiesa restituiva efficacia alla sua azione pastorale nella misura in cui imparava (corsivo mio) dalla storia quali erano gli elementi del messaggio evangelico capaci di intercettare le istanze del presente e i bisogni profondi dell’uomo moderno. Dall’altro (…) una prospettiva di aggiornamento della dottrina cattolica basata sull’inquadramento al suo interno di alcuni principi e valori della modernità (p. 21).»

Anche la seconda strada di questo bivio, si badi bene, non era esente da elementi di novità, dal momento che fu a lungo osteggiata dall’autorità ecclesiastica durante la stagione di Pio XII.

La base teologica e filosofica di questa opzione risale a Jacques Maritain, che la elaborò in chiave neo-tomista tra le due guerre mondiali.

«Il filosofo francese affidava ai cattolici il compito di costruire un retto ordine della vita collettiva: si basava sulla conformazione del consorzio civile a una legge naturale (corsivo mio) valida per tutti, sempre e ovunque, di cui la Chiesa era proclamata interprete e depositaria. Tale progetto restava dunque all’interno di una logica di cristianità. Ma nella legge naturale (ecco il passaggio cruciale) Maritain e i suoi seguaci facevano ora rientrare alcuni prodotti politico-culturali della storia moderna – ad esempio il diritto alla libertà religiosa e, più in generale, i diritti umani – che erano stati a lungo da essa esclusi (pp. 21-22).»

Il punto focale di questa analisi è che il papato post-conciliare avrebbe scelto proprio questa seconda via, per tradurre la spinta roncalliana dell’aggiornamento nella concreta azione di governo e come strategia pastorale complessiva.

Lo stesso Paolo VI nello spazio compromissorio dei documenti conciliari ha cercato un punto di equilibrio, il più avanzato possibile, “ma alla fine – scrive Menozzi – ha compiuto una chiara opzione”.

Esempio emblematico di questo passaggio decisivo, secondo il docente emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è dato dall’emanazione della famosa enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968), nella quale papa Montini scrisse: “Nessun fedele vorrà negare che al magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale” (n. 4).

Un principio autoritativo che veniva fatto risalire al mandato cristologico affidato a Pietro e agli apostoli che “li costituiva anche custodi ed interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale”.

Sarebbe stato questo, dunque, il timbro ultimamente identificativo successivamente sviluppato dall’intero pontificato post-conciliare, con il conseguente mandato ai cattolici di contraddistinguere e qualificare loro presenza nel mondo sulla base dell’affermazione nel consorzio civile e politico della dottrina della legge naturale custodita in via esclusiva dalla chiesa.

Una strategia ecclesiale che avrebbe conosciuto il suo “più ampio dispiegamento durante il governo di Benedetto XVI” (p. 23).

«Ratzinger ha prospettato non solo la tesi che gli ordinamenti pubblici, per essere moralmente leciti, anzi per essere autenticamente umani, devono prevedere soltanto la tutela di quei diritti umani che l’autorità ecclesiastica iscrive nella legge naturale. Ha anche richiesto che l’impegno politico e sociale dei fedeli venga indirizzato allo scopo di far sì che le legislazioni positive degli Stati siano conformi alla dottrina cattolica, che sola è in grado di garantire la reale dignità dell’uomo (p. 23).»

L’inadeguatezza di questa linea – “non a caso qualificata come progetto di neo-cristianità” – si manifesta nella difficoltà di consentire un dialogo con la modernità, dal momento che la stessa autorità ecclesiastica la individua nella “rivendicazione – scrive Menozzi – dell’emancipazione dalla tutela ecclesiastica nella definizione degli istituti fondamentali della vita collettiva”.

Difficoltà che cresce di evidenza nella cosiddetta post-modernità «caratterizzata dalla rivendicazione della facoltà per ogni individuo di autodeterminare le forme dell’esistenza non solo in relazione agli assetti politici, sociali e culturali della vita collettiva, ma anche in rapporto alle più profonde strutture antropologiche del soggetto (il corpo, la nascita e la morte, l’identità sessuale, ecc.) (p. 24).»

Avrebbe così origine in questa sfasatura la situazione paradossale secondo la quale la declinazione dell’aggiornamento conciliare, impostato e perseguito per ricondurre il mondo contemporaneo alla chiesa, avrebbe finito per apparire obsoleto e provocare un ulteriore allontanamento.

La stessa idea di una chiesa minoranza creativa di fronte alla complessità globale e all’estrema secolarizzazione da contrastare, che Joseph Ratzinger propose a Subiaco (2005) poco prima del conclave che lo elesse papa, era una proposta che implicava il portato consequenziale dei valori non negoziabili (Andrea Riccardi, La Chiesa tra centri e periferie in Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, 2018, p. 8).

Una linea che avrebbe avuto, come una sorta di coerente linea parallela, la cosiddetta Benedict option, ossia l’opzione del ritiro polemico del cristianesimo dalla sfera pubblica in seguito alle sconfitte patite nelle culture wars degli ultimi decenni, come avvenuto nel contesto laicale nordamericano (Massimo Faggioli, I laici nella Chiesa di Francesco in Il cristianesimo al tempo …, p. 233), per realizzare un cattolicesimo dei pochi ma buoni.

L’obsolescenza di una tale strategia ecclesiale sarebbe all’origine della “crisi del paradigma di aggiornamento adottato dal papato post-conciliare” (Menozzi, p. 24).

In questa luce andrebbero rilette le clamorose dimissioni di Benedetto XVI (2013), ben oltre, quindi, il problema degli scandali nella chiesa, ossia nella presa d’atto che quella strada dell’aggiornamento, scelta e percorsa fino all’estremo tentativo, non è stata in grado di stabilire un vero ponte tra fede e storia.

Una strada che, a posteriori, è definibile più un ammodernamento che un vero e proprio aggiornamento.

Il problema è stato, e rimane, come ha scritto Giovanni Miccoli (La Chiesa dell’anticoncilio, 2011), il rapporto con la storia:

«La questione centrale sta ancora una volta nel tipo di rapporto che la Chiesa di Roma intende stabilire con la storia; (…) riconosce di farne interamente parte (…) o se ne sottrae, perché portatrice, intangibile dalle contingenze umane, di un messaggio che ha saputo mantenere inviolato e inalterato nel corso di duemila anni? (p. 401).»

È in questo quadro teologico-pastorale complessivo che trova spiegazione più profonda l’operazione Bergoglio, vale a dire nella ripresa di quella linea del rinnovamento conciliare attenuata o abbandonata dai suoi predecessori e basata sulla convinzione “che la Chiesa non solo non è al di fuori e al di sopra della storia (…); ma soprattutto dalla storia impara le vie più idonee per annunciare il Vangelo” (Menozzi, p. 26).

Leggi la 2° parte su Periscopio

NOTA:
Questo saggio di Francesco Lavezzi, insieme ad altre Cronache Ecclesiali del medesimo autore  è stato recentemente pubblicato in “Quaderni Cedoc SFR 49” a cura di Andrea Zerbini 

Per leggere gli articoli di Francesco Lavezzi su Periscopio clicca sul nome dell’autore

ECCO PERCHE’ CHIEDIAMO LA SOSPENSIONE DEI LAVORI E LA CANCELLAZIONE DEL PROGETTO.
Il 19 dicembre il TAR Toscana si pronuncerà sul ricorso al progetto eolico industriale “Monte Giogo di Villore”

ECCO PERCHE’ CHIEDIAMO LA SOSPENSIONE DEI LAVORI E LA CANCELLAZIONE DEL PROGETTO
Il 19 dicembre il TAR Toscana si pronuncerà sul ricorso al progetto eolico industriale “Monte Giogo di Villore” che prevede l’installazione di 7 areogeneratori sui crinali appenninici mugellani fra i Comuni di Vicchio e Dicomano (Firenze).

In particolare : il TAR, riunito in plenaria, si dovrà pronunciare sulla richiesta di sospensiva dei lavori, già inoltrata dai ricorrenti, Italia Nostra e C.A.I. di Firenze, alla fine del mese di luglio 2023 e rimandata a giudizio una prima volta da parte del giudice monocratico, e una seconda volta dalla corte del TAR per approfondimenti. Tra le motivazioni della richiesta di sospensione spiccano per gravità la mancanza, al momento della comunicazione d’inizio lavori, di un vero e proprio progetto esecutivo completo dei rilievi geologici e geotecnici e della relazione sismica, documento imprescindibile per il rilascio dell’autorizzazione ai lavori e l’apertura dei cantieri.

Nonostante le carenze evidenti del progetto nelle sue varie edizioni, la pratica adottata da AGSM-AIM è stata quella di presentare il progetto suddiviso per lotti e carente di relazioni indispensabili come la Sismica, ma, in barba alla normativa, procedere comunque con i lavori. Anche le Amministrazioni pubbliche preposte a rilasciare pareri e autorizzazioni (leggi PAUR) hanno adottato la pratica utilizzata generalmente nell’approvazione delle Grandi Opere: non ostacolare con nessun mezzo i proponenti e non accorgersi di quanto carenti siano i progetti, ottenere via via a piccoli passi, a seguito di osservazioni, esposti ed eventuali contestazioni, tramite integrazioni e/o varianti tutta la documentazione necessaria e sufficiente per proseguire con l’avanzamento delle autorizzazioni e dei lavori.

Anche questa volta il proponente non sarebbe mai stato in grado di presentare tutta la documentazione in una unica volta senza venir meno a quanto prevede e richiede la normativa e lo stesso buon senso, ma utilizza, come spesso accade, il metodo del fatto compiuto davanti al quale le amministrazioni chiudono gli occhi, il naso e le orecchie finché non arriva una multa, una sanzione o…un tribunale.

Purtroppo, come si può ben immaginare, il fatto compiuto prevede il compimento di illeciti quali: inquinamenti, disastri ecologici, distruzione di boschi e fauna selvatica protetta. E pensare che siamo ancora solo ad un primissimo inizio di quello che il progetto impianto eolico Monte Giogo di Villore” prevede per i crinali Mugellani.

Febbraio 2022

La Regione Toscana approva il progetto dell’impianto eolico industriale denominato “Monte Giogo di Villore” proposto dalla ditta AGSM-AIM, nonostante la lunga e discussa Conferenza dei Servizi, le numerosissime osservazioni poste da cittadini, da enti locali e associazioni ambientaliste, che hanno messo in evidenza i problemi ambientali che ne deriveranno e le falle tecniche del progetto:

  • mancanza della relazione anti-sismica

  • mancanza della relazione idrogeologica

  • non sono pervenute le indagine stratigrafiche dei suoli

  • rischio intercettazione della linea del metanodotto

  • difficoltà di interventi anti-incendio

  • intercettazione dei corridoi ecologici del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi

  • sovrapposizione e contrasto con gli elementi paesaggistici e culturali

  • danni ambientali non ripristinabili

Così da sollecitare il parere negativo dei seguenti enti:

  • Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi

  • Soprintendenza del Paesaggio e dei Beni Culturali di Firenze-Prato-Pistoia

  • Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo

  • Comune di San Godenzo

Per superare i pareri negativi e vincolanti della Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Prato e Pistoia e del Ministero della cultura interviene il Consiglio dei Ministri del Governo Draghi che approva il progetto con un colpo di mano e d’autorità.

Aprile 2022

Grazie al contributo finanziario di numerosi cittadini e associazioni mugellane, Italia Nostra e CAI Firenze, presentano un dei ricorsi al TAR Toscana, in cui vengono esposte le ragioni tecniche per i quali tale impianto risulta non idoneo, anzi fortemente dannoso alla natura idrogeologica, alla biodiversità, alla vegetazione forestale e al paesaggio del Mugello e quindi impraticabile.

Giugno 2023

Agsm-Aim comunica alle amministrazioni coinvolte nel progetto l’inizio dei lavori, nonostante il buon senso e la prassi vorrebbero che, quando su un progetto, benchè autorizzato, pende un ricorso al tribunale amministrativo, non si proceda ad aprire i cantieri finoa quando il contezioso non sia stato superato.

Vengono subito al pettine i primi problemi.

Sul crinale iniziano i carotaggi geologici e gli spianamenti necessari senza che siano stati richiesti i dovuti permessi, con le inevitabili conseguenze:

  • escavazione illecita del corso del torrente Solstretto, intubamento e spianamento per il passaggio di mezzi pesanti

  • prelievo illecito d’acqua già in uso all’acquedotto pubblico della popolazione di Vicchio, con metodologie invasive

  • spianamento delle aree di carotaggio

  • inquinamento del terreno per spargimento dei residui dei carotaggi, contenitori di plastica e di metallo.

Apertura di cantieri con segnaletica impropria e ostacolo alla viabilità in strade vicinali e sentieri:

  • chiusura al transito di strade e sentieri senza concessione

  • nessuna delimitazione dei cantieri con incremento del rischio incidenti per abitanti ed escursionisti

  • segnaletica carente e/o illecita – mancanza delle informazioni generali e dei riferimenti quali nomi e contatti dei ‘capocantieri’ e dei responsabili dei cantieri e del progetto.

In seguito alle segnalazioni dei cittadini, il prelievo dell’acqua del torrente Solstretto si interrompe, i carabinieri forestali comunicano verbali e multe alle ditte che eseguono i lavori senza permessi, la cartellonistica che chiude i sentieri al libero passaggio è rimossa.

Agosto 2023

Oltre alle numerose segnalazioni e denunce ai carabinieri forestali viene presentata al TAR una richiesta di sospensione dei lavori, che il giudice monocratico non prende in considerazione rimandando a settembre la decisione in occasione delludienza del TAR riunito. Nel frattempo i lavori proseguono con i relativi danni ambientali:

  • taglio dei boschi, tra cui castagni secolari in produzione per l’allargamento della strada d’accesso al crinale

  • sbancamenti dei fianchi rocciosi della strada

  • abbandono illecito dei materiale di escavazione lungo i lati della strada senza che sia stata prevista nel progetto alcuna modalità di smaltimento corretto delle terre e rocce di scavo.

    A seguito di ripetute segnalazioni l’autorità ambientale sanziona l’impresa di escavazione e la obbliga a trasportare le terre e rocce escavate nella discarica di Cavriglia come rifiuto speciale, rallentando i devastanti lavori e aumentandone i costi.

Nel frattempo AGSM-AIM richiede ai Carabinieri Forestali l’accesso agli atti per conoscere i nomi di chi ha fatto le segnalazioni degli illeciti, col probabile intento di incutere timore.

Settembre 2023

Nell’udienza d’inizio settembre il TAR nuovamente rimanda la decisione sulla sospensione dei lavori, prendendosi il tempo di approfondire le carte e le motivazioni esposte, e si arriva così alla data del 19 dicembre prossimo.

Nel frattempo proseguono i tagli delle piante nei boschi che salgono verso il crinale per fare ulteriori saggi geologici e per far largo alla strada verso le aree di posizionamento delle 2 prime pale.

Le intimidazioni da parte di AGSM-AIM non hanno esito e così, grazie di nuovo alle segnalazioni scattano ulteriori controlli dei carabinieri forestali con le commutazioni in multe per aree di taglio esuberanti dal quelle autorizzate.

A seguito di tutto questo, per far conoscere a tutti cosa significa e cosa c’è veramente dietro l’autorizzazione del progetto di impianto eolico industriale sul crinale appenninico del Monte Giogo di Villore, Il Comitato per la Tutela dei Crinali Mugellani (CTCM) – Crinali Liberi propone per il giorno 18 Dicembre una veglia dalle ore 16.30 in Piazza Santissima Annunziata – Firenze sino al giorno 19, giorno del presidio davanti al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) in contemporanea al pronunciamento della sentenza relativa al ricorso.

Durante la veglia è prevista musica, interventi teatrali, banchini informativi e mostre fotografiche, cibo e vino, e interventi aperti delle realtà associative e dei comitati che aderiscono all’iniziativa.

Adesso è arrivato il momento di essere presenti tutti quanti! Adesso è arrivato il momento di mettersi insieme per difendere i crinali.

Venite. Venite. Venite! Ci vediamo lì.

“Quando Ferrara sarà Gentile”.
Concorso creativo senza premi ma per una buona ragione

“Quando Ferrara sarà Gentile”
Concorso creativo senza premi ma per una buona ragione

Prima di tutto quello che non è: non è una proposta buonista, un invito al “volemose bene”.  Partiamo dall’esatto contrario, dall’orrore per un pianeta morente, per gli agnelli innocenti sgozzati in tutte le guerre, per le donne violentate e uccise, per i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Siamo pieni di rabbia verso Capi di Stato e di Governo corrotti, imbelli, irresponsabili.
La gentilezza, la convivenza civile, la nonviolenza,  l’ascolto, il dialogo sembrano essere spariti dalla superfice della terra e dalle nostre giornate. Per sempre? Non possiamo fare qualcosa, anche di minuscolo, per cambiare le cose? E da dove cominciare? Abbiamo pensato che di cominciare da ognuno di noi, e di cominciare dalla nostra città.

Oggi Ferrara è tutt’altro che gentile. Sempre meno gentile. “Quando Ferrara sarà Gentile” è una proposta rivolta a chi conserva un grammo di speranza e crede nella fantasia e nella creatività“Creare” infatti è il verbo più antico e più potente del mondo.
L’iniziativa è dedicata a Daniele Lugli, un carissimo amico che ci ha lasciato, “maestro gentile” di pace e nonviolenza.

Ai concorrenti (che, come avete letto, non vinceranno niente di niente) chiediamo di creare un’opera che illustri la propria “Ferrara Gentile”, vicina o lontana nel tempo. Ci rivolgiamo a Grandi e Piccoli, Liberi e Ristretti,  professionisti e principianti, artisti di fama e pittori in erba, grafici, illustratori, disegnatori… compresi quelli che, condividendo la nostra “buona ragione”, sognano la propria “Ferrara Felice” e ci manderanno il primo disegno della loro vita.

Per partecipare al concorso creativo:

Le opere possono essere realizzate su qualsiasi supporto (carta, cartoncino, tela, vetro, plexi ecc. ) e con qualsiasi tecnica e materiali diversi (comprese la fotografia e la computer grafica). L’unico limite è quello del formato che dovrà essere orizzontale; il classico foglio A4 (ma anche più grande: A2 o A3, o più piccolo: A5).

E’ necessario inserire il proprio nome e cognome, indirizzo di residenza, numero di cellulare ed email personale per essere ricontattati.

Concentratevi e mettetevi al lavoro. Le opere dovranno essere inviate entro il 31.01.2024 a : redazione@periscopionline.it, specificando nell’oggetto: “Quando Ferrara sarà Gentile”.
Le opere verranno pubblicate su Periscopio in un’apposita sezione del quotidiano online. E dopo? Una grande mostra, un enorme striscione collettivo… lo decideremo insieme.

(Da un’idea di Elena Buccoliero, Miriam Cariani e Francesco Monini)

Cover: Miriam Cariani, “Quando nel 2030 ho incontrato il mio amico Leone” (acquerello)

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

IL PIÙ DEBOLE, IL PIÙ POVERO HA I NOSTRI STESSI DIRITTI.
La grande assemblea di Ferrara per dire NO a TUTTI i CPR

IL PIÙ DEBOLE, IL PIÙ POVERO HA I NOSTRI STESSI DIRITTI
La grande assemblea di Ferrara per dire NO a TUTTI i CPR

“È il piacere della punizione del più debole, cui sono negati tutti i diritti”. Così Andrea Ronchi, avvocato difensore di migranti descrive lo stato e l’immagine degli stranieri contenuti nei Centri per il rimpatrio in attesa di espulsione. “Nelle prigioni – spiega il legale – lo stato dei detenuti è regolato da diritti: nei CPR invece non ci sono diritti da esigere perché si tratta solo di un transito verso il rimpatrio”. Devi stare lì ad aspettare e basta. Se protesti, se pretendi cura e assistenza, se insisti, ci sono gli psicofarmaci e i manganelli della polizia.

Sabato scorso, in serata, al cinema Apollo la visione del documentario “Sulla loro pelle” (2022, di Marika Ikonomu) e le testimonianze di avvocati e attivisti ha rappresentato un doloroso e dettagliato bagno di realtà: in questo momento in Italia migliaia di persone, senza risorse e senza futuro, stanno rinchiusi fino ad un anno e mezzo in ambienti di tipo carcerario gestiti al massimo risparmio su tutto, come sta dimostrando la recentissima iniziativa della procura di Milano. A totale discrezione di un sistema amministrativo labirintico e inattaccabile cui non è possibile appellarsi: sono detenuti perché privi di un documento. “In Italia un automobilista senza patente viene multato, ma non perde i diritti civili”, chiosano con efficacia i legali dal palco.

La serata, che si è svolta di fronte a circa trecento persone, tra le quali il vescovo Giancarlo Perego, è stata introdotta da Adam Atik e Hajar Sahbaoui dell’associazione Cittadini del Mondo e organizzata con l’adesione di oltre quaranta associazione e gruppi cittadini.

Federica Borlizzi è attivista della Coalizione Italiana per Libertà e Diritti Civili, conosce da anni quello che succede nei Centri, conferma il delirio della gestione della detenzione per “reato amministrativo”: “È un affare per compagnie private che tengono alla larga le associazioni e gli avvocati che faticano a provare le continue violazioni elementari vitali dei migranti, tenendoli in situazioni di pericolo e abbandono ”.
“Le Prefetture sanno tutto, effettuano controlli inefficaci, conoscono le situazioni di sofferenze psichiatrica non curata, sanno delle donne vittime di tratta destinate a rimpatriare in Nigeria da dove sono partite già vittime della tratta stessa.”
, conferma l’avvocato Massimo Cipolla. È un uso spregiudicato di burocrazia, assenza di regole, vaporizzazione delle responsabilità. Dalla legge Turco–Napolitano del 1998, si sono succeduti peggioramenti normativi, fino ai più recenti del governo Meloni, in una alternanza tra governi che non hanno mai smentito la necessità di generare una immagine nemica del migrante da offrire alla pancia del cittadino italiano impaurito, depauperato dei servizi, delle opportunità, della pratica democratica in nome dell’austerità.

Il numero delle strutture di contenzione dei migranti sono destinate ad aumentare: ecco che Ferrara diventa un “sito” vocato alla bisogna, che inizia a vagare per la provincia, dopo che il centrodestra cittadino, smentiti gli iniziali entusiasmi, ha capito che la costruzione di un CPR in città costerebbe un bel numero di voti alle prossime elezioni amministrative.

“Cosa si può fare in concreto perché questo CPR non venga costruito?”. Alla richiesta del pubblico rispondono le esperienze di protesta che hanno avuto successo in Italia: bisogna moltiplicare gli spazi di dissenso aperto. Ad esempio, la strategia di costruire i Centri di detenzione temporanea in zone isolate (come conferma la rassicurazione del senatore Balboni di un sito nel basso ferrarese), li toglie dall’attenzione visiva della popolazione, che li può ignorare.

La proposta di Giulia Sezzi, dell’Associazione Ya Basta di Bologna è di costituire una rete regionale di associazioni e movimenti per garantire il rispetto del diritto basilare di presentare la domanda d’asilo e la capacità di opporsi ad una militarizzazione senza controllo del sistema di respingimento dei migranti.

Uscendo dalla affollatissima iniziativa di ieri sera, non vedi nessuna faccia rassegnata. tutti i convenuti hanno presente la stessa cosa: contro l’orrore dei CPR – a Ferrara e ovunque – e per affermare i diritti civili e costituzionali la lotta continua.

IMRALI, L’ISOLA BALENA.
Una poesia per Abdullah Öcalan

Questa poesia di Sara Ferraglia è stata letta il 10 dicembre a Parma in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti Umani.
La manifestazione, che aveva per titolo: “Pensieri che spezzano le sbarre. Non si possono imprigionare le idee!“, è stata organizzata da Rete Kurdistan Parma, Ciac Onlus, Casa delle Donne, Coro dei Malfattori, Donne in Nero, ANPI Provinciale Parma, Unione Popolare.
Durante la manifestazione, sono stati letti alcuni brani del leader curdo Abdullah Öcalan [Qui un suo intervento del 2020] per la costruzione di un sistema sociale basato su tre pilastri: liberazione delle donne, ecologia, democrazia radicale. Il modello di riferimento è quanto viene praticato nel territorio autogovernato e nelle città libere del Rojava nell’Est della Siria.
(Pier Luigi Guerrini)

Imrali, l’Isola Balena 

Nel ventre di quest’isola balena
che un giorno m’inghiottì senza pietà
io sto, con un macigno sulla schiena,
scrivo del tempo nuovo che verrà.
Sul mare, fra due stretti prigioniero,
soffia da giorni con violenza il vento.
Tremano le interiora di cemento,
si fa più chiaro e forte il mio pensiero.
Laggiù Istanbul sfolgorante di vita,
qui nel silenzio il mondo mi è distante.
Afona voce sono, quasi muta
che si trasforma in urlo roboante
se il mio nome scandisce nella lotta
un popolo che chiede libertà.
Libere donne, liberi confini,
libero sguardo oltre queste sbarre.
Giustizia per un popolo smembrato
dall’isola balena sorgerà.

Sara Ferraglia

Îmralî, girava welê

Di zikê vê giravê de kelek heye
ku rojekê ez bê rehm daqurtandim
Ez radiwestim, bi kevirek li ser pişta min,
Ez li ser dema nû ya ku dê were dinivîsim.
Li ser deryayê, di navbera du tenganan de girtiyê,
Bayê bi rojan bi tundî tê.
Hundirê beton dilerize,
ramanên min zelal û bihêztir dibin.
Li wir Stenbol ji jiyanê dişewite,
li vir di bêdengiyê de dinya ji min dûr e.
Ez bê deng im, hema bê deng im
ku vediguhere qîrîneke birûskê
ger navê min di şer de bê bihîstin
gelê ku daxwaza azadiyê dike.
Jinên azad, sînorên azad,
belaş binêre li derveyî van bars.
Edalet ji bo gelê perçebûyî
ji girava welê wê rabe,
Traduzione in lingua curda di Hisam Allawi, poeta curdo

Parole e figure /
La baceria di Felice – Strenne Natalizie

Regalare baci, questo il regalo più bello, a Natale e non solo. Cristiana Soriano con “La baceria di Felice”, della casa editrice vicentina Sassi Junior, ci conduce, con grande delicatezza, nel meraviglioso mondo dei baci.

Curiosando per gli stand della dell’edizione appena conclusa di “Più libri, più liberi”, alla Nuvola dell’Eur, mi sono imbattuta in una casa editrice vicentina di lunga tradizione ma a me non molto nota: Sassi, per la precisione Sassi Junior. Con la sorridente e cordiale Ester abbiamo iniziato a sfogliare volumi appena usciti ma anche alcuni di qualche anno fa, altrettanto attuali, accattivanti e originali.

Per Natale, nulla meglio di tanti baci, mi son detta, colpita dalla delicata copertina a colori tenui di “La baceria di Felice”, di Cristiana Soriano. Sulla stessa, ad attirare la mia attenzione una bicicletta azzurra sotto una vetrina e tante farfalle gialle e lilla, la farfalla è da sempre il mio animale preferito, la libertà cui da sempre anelo. Non poteva che essere lui, il libro delle feste prescelto. E poi, romanticismo oblige.

Una storia nata in un periodo in cui l’affetto era vietato e la distanza di sicurezza ci costringeva a conservare i nostri baci per un momento migliore, un momento che ha impiegato oltre due anni per arrivare. Il tempo di capire l’inestimabile e immenso valore dei baci (e degli abbracci). Quanto mi (ci) sono mancati! Sotto il segno del rosa.

L’idea del racconto è fantastica. Felice vende baci in barattolo, fanno parte della sua unica collezione da quando è bambino. La sua famiglia è sempre stata molto affettuosa, ma non per tutti è così, nella vita: molti bambini e adulti non hanno questa fortuna. Tanti individui sono parsimoniosi d’affetto (non sanno cosa si perdono…), molti ne sono addirittura incapaci. Felice aveva quindi deciso di mettere i baci a disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno nella sua Baceria: la Baceria di Felice, in via Cuor Leggero numero 5. Una via, un destino.

I più richiesti sono i ‘Baci delle Buonanotte’. Molti ne andavano perduti perché spesso le mamme si addormentavano prima di finire le ninne nanne e allora lui li raccoglieva. Felice, poi, ne aveva ricevuti dalla sua mamma ben 3626, uno ogni sera per 10 anni, tranne le 26 sere in cui era andato a dormire dal suo amico Baldo.

Molti papà chiedevano, invece, il ‘Bacio centogrado’, quello che solo le mamme hanno, perché solo loro sanno misurare la febbre con il semplice tocco delle labbra sulla fronte.

Ogni venerdì c’erano i saldi: il ‘Baciamano’, il ‘Bacio al vento’, ‘Bacini’ e ‘Bacioni’. Ma il ‘Bua-bacio’, accompagnato da una scatola di cerotti omaggio, quello no, era troppo prezioso per finire a metà prezzo. Quanti ‘bua-baci’ hanno fatto sparire dolori e sofferenze di bambini caduti dal monopattino, dallo scivolo o dal cavallino a dondolo!

Il meno venduto è il ‘Bacio al rossetto rosso di zia Guendalina’, è appiccicoso e lascia sulla guancia una traccia rossa quasi indelebile. Il ‘Rimbombacio’ è disponibile, invece, in edizione limitata e numerata, solo 1000 esemplari. Sono gli indimenticabili baci della nonna e sono ormai fuori produzione. Producono uno schiocco che può rimbombare nelle orecchie per dieci minuti.

Non mancano, nella collezione, il ‘Bacio del buongiorno’, lo ‘Sbaciucchio’, i ‘Baci rubati’. Alcuni Felice li conserva, gelosamente, tutti per sé, sotto il letto.

Spesso ha la fila davanti al suo negozio, soprattutto dopo le notti piovose che fanno sentire tutti un po’ più soli. Anche i ‘Baci d’asporto’ possono aiutare, come quelli che Felice consegna a domicilio alla signora Nerina che ha figli e nipoti lontano.

Ma un barattolo resta vuoto, sempre. Quello de ‘Il Primo Bacio’: nemmeno Felice lo ha ancora ricevuto e lo aspetta con trepidazione. L’unico pezzo che manca alla sua nutrita collezione. Finché un giorno, nella Baceria, entra Gioia, la sorella dell’amico Baldo. Quale bacio regalarle? Sarà lei a sorprendere, con un pezzo unico…

Cristiana Soriano, La baceria di Felice, Sassi Junior, 2022, 34 p.

La casa editrice SASSI, nata nel 2006 con pubblicazioni d’arte e di fotografia di livello internazionale, dal 2010 ha sviluppato un originale programma editoriale rivolto ai bambini. Ispirata da sempre alla sostenibilità dei materiali, ha iniziato già nel 2010 a stampare con inchiostri alla soia su carta riciclata e oggi pubblica tutti i volumi su carta certificata FSC, fa un uso minimo di plastica e punta all’uso quasi esclusivo di materiali eco-sostenibili.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

 

IL MODELLO PANOPTICON ISPIRA I MODERNI CPR.
Territori Serviti e Territori Serventi: il CPR tra Ferrara e il Delta

IL MODELLO PANOPTICON ISPIRA I MODERNI CPR.
Territori Serviti e Territori Serventi, il CPR tra Ferrara e il Delta.

La storia ci insegna che ci sono stati, e ci sono ancora, dei territori serviti e dei territori serventi. Di norma i primi sono territori dove si decide la ricchezza mentre i secondi sono quelli dove si collocano le produzioni e le scorie generate dai processi che generano il benessere dei primi. Tutte le attività che le città non volevano, perché inquinanti, sporche, maleodoranti o che attiravano miserabili, si cercava sempre di spostarle fuori, studiando dei dispositivi segregativi, ai quali appartiene anche la logica dei CPR.

I territori serventi hanno di norma problemi di crescita, di benessere, di sviluppo, di identità, di spopolamento.
Sono considerati marginali, oggi spesso sono aree interne, a basso sviluppo; quindi, perché non utilizzarli per localizzare ciò che da fastidio alle città più grandi e più prestigiose? Dove la qualità del commercio e della vita quotidiana potrebbe essere messa in crisi dalla localizzazione di una attività sgradita ai più, quindi elettoralmente pericolosa, come è un CPR?

La proposta di alcuni politici di area governativa di collocare nel delta ferrarese il CPR rivela un’attitudine coloniale. Non è in fondo molto dissimile dalla volontà del nostro Primo Ministro di esportare i migranti e il modello CPR in Albania che, in una scala comparativa nazionale, assume lo stesso significato della vicenda locale che interessa Ferrara e il delta.
L’ Albania diventa il territorio servente dell’Italia che dovrà in qualche modo rendere il favore. Tutto questo ha un costo salato che sulla stampa è stato quantificato, ma è il prezzo da pagare per tenere il conflitto fuori dalla porta, di Ferrara, in un caso, dell’Italia, nell’altro, ma la logica è la stessa.

Panopticon di Bentham, progetto 1791

Il dispositivo CPR è ripugnante nella sua essenza e nell’idea che sta alla base della sua concezione. Lo è a Ferrara, nel Delta, a Milano. Una concezione che ci rammenta le storie di segregazione delle carceri costruite sul modello del panopticon. Per chi ha studiato i sistemi segregativi moderni questa parola ci riporta immediatamente a Michel Foucault e, prima di lui, a Jeremy Bentham, l’inventore di questo dispositivo studiato per innovare le forme del carcere. Su questa tipologia, articolata secondo un modello radiale che prevede un edificio centrale nel quale convergono tutti gli altri, si è parlato molto ed in particolare della centralizzazione del modello di controllo.
Molti critici parlano di una prigione per poveri che presuppone una sorveglianza asimmetrica, come sostiene il filosofo francese: il controllore può vedere ma il controllato no. Tale concetto viene introdotto nel sistema penale ed ha un grande successo in quanto meccanismo di controllo delle componenti della società moderna e Foucault riprende tale metafora associandola alla propensione delle società autoritarie al controllo dei propri cittadini.
Il “panoptismo”, trasformato in figura architettonica da Bentham, è una componente di una utopia, o di una illusione: quella della società perfettamente governata. I prodromi di tale illusione li ritroviamo già alla fine del diciassettesimo secolo, nelle ordinanze che regolano la gestione delle pestilenze urbane attraverso l’esercizio di un potere disciplinare che ribadisce l’importanza di un ordine che colloca tutti nel posto loro assegnato. Se la lebbra nei secoli precedenti si controllava attraverso “rituali di esclusione” la peste richiede al contrario “schemi disciplinari”.
Tale è il senso del panopticon, ripreso come modello distributivo dei CPR che l’Italia vorrebbe costruire. Quindi una pratica segregativa controllata: sia esso un carcere o una residenza per poveri e indigenti

Nella Londra vittoriana di metà Ottocento questo modello trova una sua formalizzazione anche nelle workhouse, che erano, per l’appunto, ospizi abitativi per poveri, criticati anche da Charles Dickens in Oliver Twist. Le famiglie nelle workhouse venivano separate: i genitori dai figli; i mariti dalle mogli mentre il cibo era volutamente economico e al limite della decenza.
Le medesime condizioni le ritroviamo nella maison des esclaves africana dove nei sottofondi i colonizzatori europei stivavano i futuri schiavi neri in attesa di essere imbarcati per le colonie e dove vigeva il principio della segregazione e della separazione di uomini, donne e bambini: una volta entrate le famiglie non si sarebbero mai più riunite.
Il comune denominatore di questi dispositivi è comunque quello non di pensare a luoghi dove fornire assistenza in una prospettiva inclusiva, ma isolare il male, il diverso, ciò che turba la nostra quotidianità, per poi allontanarlo.

Al fondo vi è un modello che sottende un’idea di città e di governo autoritario che la vicenda del CPR, fin dalla sua emersione, evidenzia. A fronte di scelte che implicano connotazioni anche etiche, in contrasto con alcune scelte di politica pubblica emergono atteggiamenti di fastidio e di progressiva squalificazione delle osservazioni e critiche, al limite dell’ingiuria o della ridicolizzazione di chi le pone, come se si trattasse di lesa maestà verso le autorità di governo.

Da tempo per il delta ferrarese manca una riflessione politico-ecologica-strategica all’altezza delle sue potenzialità, in grado di andare oltre gli approcci settoriali. È un territorio sottovalutato quindi adatto ad ospitare un dispositivo che sarebbe degradante per l’immagine di una città di arte e cultura come Ferrara.

L’attenzione oggi alle dinamiche del delta ferrarese è esclusivamente concentrata o sulle eccellenze identificabili nel Parco, o sul litorale turistico inteso come bene esclusivamente economico e inevitabilmente sui problemi del rischio idraulico e costiero, ma affrontati esclusivamente in un’ottica settoriale e non di rigenerazione territoriale e paesaggistica.
Temi certamente importanti e strutturali ma una visione complessa ci chiede di allargare lo sguardo e lanciare un grande progetto di territorio per il delta e per tutto il ferrarese, dicendo chiaramente che non bisogna più consumare suolo con nuove urbanizzazioni costiere, che il modello turistico-balneare va ripensato e riqualificato, che i paesaggi rurali delle bonifiche vanno valorizzati intrecciando storia, paesaggi e forme di agricoltura sostenibile, lavorando anche sull’idea di servizi ecosistemici, che l’acqua nelle sue varie forme costituisce un principio di identificazione di questo paesaggio culturale.

Anche per questi motivi il CPR non trova posto in una visione di futuro ecologica, inclusiva e democratica, qui e altrove.

Cover: Panopticon di Bentham, ricostruzione. Fu descritto come “un dispositivo di tale mostruosa efficienza da non lasciare spazio all’umanità”. Il “dispositivo” di cui si parlava era un edificio istituzionale e un sistema di controllo progettato nel XVIII secolo dal filosofo e teorico sociale inglese Jeremy Bentham. Il cosiddetto Panopticon, dalla parola greca che significa “tutto vedere”.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore.

LE MONTAGNE NON RICRESCONO
(Appuntamento a Carrara il 16 dicembre)

LE MONTAGNE NON RICRESCONO

Il destino delle Alpi Apuane sembrerebbe segnato, condannato dalle politiche estrattiviste a diventare nient’altro che un distretto minerario. Per farsi un’idea, basti pensare che negli ultimi venti anni si è estratto più che nei duemila anni precedenti. Non si tratta certo solo di una faccenda locale, è una delle questioni cruciali del nostro tempo. Il 16 e il 17 dicembre 2023 si terranno due giornate di iniziative (un convegno, un corteo, una serie di workshop e tavoli tematici), promosse da diversi gruppi, comitati, associazioni, locali e nazionali. In questo articolo il collettivo Athamanta – tra i promotori dell’iniziativa – racconta come siamo arrivati sin qui e cosa sta succedendo nelle Alpi Apuane.

Articolo di Athamanta, ripreso da Periscopio
vedi anche:
“Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque:  Carrara, 16 dicembre: ore 9,00 Convegno, ore 14,00 Corteo” (Periscopio, 10 dicembre 2023)
Carlo Perazzo, DAL MARMO ALLA MONTAGNA. Stregoneria capitalista ed ecologia nelle Alpi Apuane”(Periscopio, 21 marzo 2022)

È il 23 aprile 2023: escursione di “A•traverso” – progetto di escursioni collettive nei territori devastati. Percorriamo il sentiero CAI 31 fino al Picco di Falcovaia, uno dei simboli della devastazione in Apuane. Una vetta capitozzata, tagliata, e venduta sul mercato del marmo alcuni decenni fa. Qualche giorno prima dell’escursione, riceviamo intimidazioni da parte di Henraux tramite comunicazioni ufficiali. L’azienda di estrazione e lavorazione del marmo, che opera sul monte Altissimo, ci diffida dal sostare in aree estrattive senza autorizzazione e dal violare la loro “proprietà privata”. Nonostante le intimidazioni, decidiamo comunque di intraprendere l’escursione.
Già dal punto di incontro al mattino veniamo seguiti dalle forze dell’ordine e dal personale dell’azienda in tutti i tratti percorribili con i fuoristrada. La camminata si trasforma ben presto in un’esperienza surreale, con la presenza delle forze dell’ordine nel paesaggio lunare che circonda il sentiero. Nonostante l’intimidazione, procediamo, appendendo uno striscione con la scritta «le industrie parlano di proprietà, le montagne sono della collettività» all’accesso illegittimamente sbarrato del sentiero. La situazione si complica ulteriormente quando ci rendiamo conto che il sentiero per il Picco di Falcovaia è bloccato da dei blocchi di marmo e da un fuoristrada della polizia.

Questa situazione paradossale è solo un esempio delle sfide quotidiane affrontate in Apuane e in molti territori montani, dove si combatte contro la privatizzazione delle montagne a favore delle proprietà collettive. Da questa esperienza nasce l’Assemblea di Accesso alla Montagna, con l’obiettivo di affrontare e contrastare l’escalation repressiva subita durante le escursioni e di difendere il diritto di accesso ai territori montani.

A metà settembre 2023 decidiamo di annunciare una nuova escursione di “A•traverso”, tracciando un percorso che assume un significato simbolico e strategico, poiché attraversa il martoriato sentiero 174, situato nelle cave del Monte Borla in concessione alla ditta Walton.
Per anni l’espansione delle cave ha “mangiato” parte del sentiero, trasformandolo in una strada di cava, nonostante questo risultasse ufficialmente aperto e accessibile. Tuttavia, negli ultimi mesi, la Walton ha intensificato la pressione per la chiusura del sentiero 174 per ragioni di sicurezza.
Contemporaneamente, l’annuncio di autorizzazioni per l’espansione dell’estrazione nella zona ha portato a un aumento dei mezzi pesanti e a un ulteriore peggioramento dell’impatto ambientale. La situazione risulta ancora più paradossale dal momento che il sentiero 174 e le cave Walton, si trovano all’interno del Parco Regionale delle Alpi Apuane, in una zona di protezione speciale B. Le cave, a dispetto di questa designazione, sono ammesse nel parco, un fatto che rivela la collusione tra l’industria estrattiva e la politica.

La comunità di escursioniste e appassionati di montagna si mobilitano quando emerge la minaccia di chiusura del sentiero 174. Nel CAI locale, si sviluppa un dibattito intenso sul da farsi. In risposta a questo contesto, programmiamo un escursione per il 1 ottobre 2023. Tuttavia, la sera del 29 settembre, sfruttando l’ultimo momento utile, il sindaco di Fivizzano emana un’ordinanza di chiusura immediata del sentiero 174 per motivi di sicurezza, ignorando persino la discussione pubblica sulla possibile variante al sentiero. La mattina del 1 ottobre, decine di persone rispondono all’appello e si radunano per partecipare all’escursione. Ci troviamo di nuovo di fronte a una sbarra chiusa e a due veicoli delle forze dell’ordine, pronti a presidiare la cava. Con determinazione, procediamo oltre la sbarra su ciò che, fino a 36 ore prima, era un sentiero, ora improvvisamente trasformato in una strada di cava accessibile solo agli addetti ai lavori. La pubblica indignazione si manifesta nuovamente, la stampa dà risalto alla notizia, le associazioni locali esprimono solidarietà e rabbia, mentre il sindaco, di fronte alle domande dei giornalisti, si rifugia dietro questioni di pubblica sicurezza. Nel frattempo, la ditta Walton rimane in silenzio.

Questi spaccati raccontano la realtà di un territorio prostrato all’estrattivismo*, in una forma che riteniamo emblematica di questo modello di saccheggio dei territori. 
Mentre nel resto d’Italia le miniere e le cave venivano gradualmente abbandonate per ragioni ambientali, sociali e di mercato, in Apuane il settore estrattivo ha continuato a prosperare, trainato dal prestigioso brand del marmo bianco di Carrara. Tre fattori fondamentali hanno contribuito in modo significativo al boom del settore: lo sviluppo tecnologico, la globalizzazione della domanda di marmo nel mercato del lusso e l’industria del carbonato di calcio.
Durante la prima rivoluzione industriale, l’estrazione di marmo ha avuto una prima impennata, ma è stato il successivo sviluppo tecnologico a permettere un’enorme espansione della capacità estrattiva. Le nuove tecnologie hanno ridotto drasticamente la necessità di manodopera umana, portando a un radicale miglioramento delle condizioni di lavoro. Negli ultimi vent’anni si è estratto di più che nei duemila anni precedenti, e negli ultimi quattro anni l’escavato è aumentato del 30% parallelamente alla perdita di duecento posti di lavoro in cava. Dai circa ventimila cavatori di inizio ’900 oggi se ne contano circa seicento.

La crescente domanda internazionale di marmo nel mercato del lusso ha creato una costante richiesta da parte dei grandi acquirenti, garantendo margini di profitto stellari al settore estrattivo apuano.
Contemporaneamente l’emergere dell’industria del carbonato di calcio ha rappresentato un punto di svolta nella gestione degli scarti estrattivi. Trasformando gli scarti in risorse commercializzabili, questa industria ha contribuito a trasformare le Apuane da un tradizionale distretto lapideo a un attivo distretto minerario.
Questa fase espansiva ha avuto profonde conseguenze sulla produzione di marmo, tradizionalmente caratterizzata dalla sua destinazione come prodotto di lusso. Le Alpi Apuane, composte principalmente da marmo bianco, sono diventate fonte di materia prima per il carbonato di calcio purissimo. Questo cambio di prospettiva è emerso negli anni Ottanta con l’avvento dell’“economia circolare” e l’inizio delle attività di Omya in Italia, che ha acquisito lo stabilimento di Avenza nel 1988.
L’ampia diffusione del materiale estratto, utilizzato non solo per opere di lusso, ma anche in prodotti di uso quotidiano come dentifrici, prodotti per l’edilizia, sbiancanti creme e generi alimentari, ha comportato una significativa riduzione dei costi di estrazione. Questo processo di recupero dei detriti ha generato un nuovo e redditizio mercato, portando alla riapertura di cave inattive da decenni.
Nel 2020, il regolamento comunale di Carrara ha addirittura normato la quantità di detrito/scarto che ogni cava può produrre, riconoscendo come detrito medio concesso a tutti l’80%, con la possibilità, in alcuni casi, di poter estrarre anche solo il 10% in blocchi, e produrre fino al 90% di detrito.
Parallelamente a queste trasformazioni, la provincia di Massa Carrara ha sperimentato un aumento del tasso di disoccupazione giovanile, e un declino nei servizi e nelle offerte culturali.

In questo scenario complesso, precario, e frammentato, si è sviluppata una narrativa mainstream che associa strettamente Carrara al marmo. La paura e il ricatto affliggono una popolazione spesso confinata nel precariato e nel lavoro stagionale sottopagato. Analizzare le mitologie che permeano la regione diventa cruciale, evidenziando la natura predatoria ed estrattivista attuata dal comparto del lapideo apuo-versiliese negli ultimi 30-40 anni. La privatizzazione e concentrazione dei profitti da un lato e la socializzazione dei costi ambientali, sociali ed economici dall’altro, sono diventati tratti distintivi di un’economia locale che, dopo essere stata profondamente dipendente dall’estrazione e dalla lavorazione del marmo, ha subìto un cambiamento radicale con la globalizzazione della filiera.
Allo stesso tempo la socializzazione dei costi estrattivi si è espressa in svariate alluvioni causate anche dal dissesto idrogeologico derivante dalle cave, dall’indebitamento da record dei comuni che si sono fatti carico di opere a uso esclusivo dell’industria, dal conseguente venir meno della spesa pubblica nei servizi alla cittadinanza, e da un sempre più ingente danno ambientale che pesa soprattutto sul reticolo idrico apuano, tra i più importanti d’Italia.

L’estrattivismo non è però un problema che riguarda solo le Alpi Apuane, quanto piuttosto di una delle questioni cruciali del nostro tempo. La domanda delle cosiddette MPC (Materie Prime Critiche) e il loro valore finanziario sono in costante crescita: le previsioni di crescita si moltiplicano e gareggiano al rialzo, si stima però che da qui al 2030 la domanda di materie prime dovrebbe nel complesso aumentare di sei-sette volte. Stiamo parlando di una crescita epocale che cambierà inevitabilmente tanto i mercati quanto i territori. Questa crescita nella domanda viene generalmente associata alla transizione ecologica, le cui infrastrutture e tecnologie presentano un fabbisogno di MPC esponenzialmente maggiore rispetto alle corrispettive basate sul fossile. Il quadro intero però è ben più complesso e non riguarda solo pannelli fotovoltaici, auto elettriche o pale eoliche. Stiamo assistendo alla trasformazione della società secondo le linee dell’informatizzazione della vita: internet of things, smart cities, agricoltura e industria 4.0; l’elenco potrebbe andare avanti a lungo. Il principio alla base di questi concetti è comune: informatizzare i vari settori della produzione e della riproduzione attraverso l’uso di sensori, di interconnessione in rete e di intelligenze artificiali con l’obiettivo di automatizzare ed efficientare (massimizzazione del profitto) i vari comparti. La caratteristica comune a tutte queste tecnologie è proprio l’alto tasso di MPC che richiedono.

Se dunque da un lato nessuna persona dotata di senno negherebbe la necessità di abbandonare i combustibili fossili, dall’altro emerge l’impossibilità di una semplice transizione all’elettrico a parità di consumi e di modello di crescita infinita imposto dal capitalismo estrattivista. Al di là di ogni valutazione etica o politica sui pro e i contro di questo processo, ciò che vorremmo evidenziare qui è la sua dimensione materiale: l’enorme fabbisogno di materie prime.
Nel complesso la stima di un aumento di 6-7 volte nel totale delle estrazioni da qui al 2030 è la più citata e condivisa, nello specifico delle singole materie prime troviamo però dati ben più allarmanti. Secondo il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, nel 2030 l’Unione Europea avrà un fabbisogno di cobalto 5 volte superiore all’attuale, di litio 18 volte superiore, e di neodimio, (già dal 2025) di 120 volte superiore. Questi sono solo alcuni esempi, le MPC sono molte e vivono tutte dinamiche simili.
A complicare questo scenario si aggiunge il contesto internazionale in trasformazione, ed in particolare il ruolo della Cina che nel tempo ha solidificato le sue basi estrattive, in particolare con l’investimento in terra africana. Oggi la Cina ha una posizione egemonica per quanto riguarda il controllo di moltissime MPC, in particolare per le cosiddette Terre Rare delle quali controlla percentuali oltre il 70% che salgono tra 80% e 90% se si considerano i comparti della trasformazione e del recupero. Questo significa che l’Europa in particolare, ma il mondo intero in generale, risulta oggi soggetto alle scelte cinesi in un settore che è e sarà tra i più strategici per il prossimo futuro.

Tutti questi ragionamenti diversi e interconnessi, sono alla base del Regolamento europeo per le Risorse Critiche e Strategiche presentato a marzo scorso e attualmente in corso di approvazione a Bruxelles. In questo documento si indicano 36 materie prime critiche, di cui 16 considerate strategiche per il futuro europeo, per le quali si richiede: 1) di diversificare le fonti di approvvigionamento esterne all’Europa; 2) investire su riciclo e recupero; 3) investire per riattivare l’estrazione interna dei Paesi europei.
In Italia, a detta del ministro Urso, che ha recepito con gioia l’invito a tornare a estrarre all’interno dei confini europei, sono presenti 16 di queste materie prime critiche o strategiche. La maggior parte dei siti estrattivi sono però stati chiusi da più di trent’anni, per ragioni ambientali e di mercato, e progettarne la riapertura non è semplice. Entro fine anno il governo dovrebbe presentare una mappatura aggiornata dei siti e una roadmap pluriennale che comprenda riaperture, nuovi permessi di ricerca e individuazione di soggetti privati in grado di fornire competenze e strumentazioni necessarie.
Quel che sappiamo finora, è che la mappatura attualmente disponibile ci indica con forza la centralità dei territori montani in questa nuova corsa alle MPC: la stragrande maggioranza dei siti indicati si trovano nell’arco Alpino e lungo gli Appennini, con alcune importanti eccezioni per la Sardegna e la Toscana.

Il fragile ecosistema montano appare dunque, almeno per il nostro paese, al centro di questa trasformazione/devastazione epocale. Le montagne non sono però soltanto le nuove frontiere estrattive, esse sono prima di ogni altra cosa la frontiera complessa e multiforme della vita. Lottare per la loro difesa è lottare per la vita. Per la nostra come esseri umani ma soprattutto per quella degli ecosistemi da cui dipendiamo e di cui siamo parte.
Potremmo spendere molte parole su questo punto ma pensiamo sia sufficiente fare riferimento alla più importante tra tutte le risorse: l’acqua.
Come afferma Daniel Viviroli del Dipartimento di Geografia presso l’Università di Zurigo: «Il consumo mondiale di acqua è quasi quadruplicato negli ultimi 100 anni e molte aree possono soddisfare la domanda d’acqua solo grazie all’afflusso acqueo derivante dalle regioni montane».
Nel contesto italiano assumono grande importanza i ghiacciai alpini, dati per spacciati fino a qualche anno fa entro il 2100, previsione che ora pare spostarsi al 2050 visti gli scioglimenti record degli ultimi anni che hanno battuto ogni modello.
A questi si aggiungono le tante sorgenti montane che garantiscono acqua a milioni di persone nel nostro paese.
L’estrattivismo è una minaccia concreta all’approvvigionamento idrico, sia per i consumi idrici che richiede il suo funzionamento, sia per l’inquinamento delle acque che produce nella maggioranza dei casi.

A questo dato cruciale si aggiunge l’impatto sugli habitat, la devastazione prodotta non solo dai siti estrattivi ma anche da tutto l’apparato logistico necessario al loro funzionamento. Come se non bastasse, le ricadute sociali ed economiche sono devastanti e andranno a incidere in territori già di per sé spopolati e vocati ormai al turismo di massa o al puro e semplice abbandono.

Dunque, che fare?

Per non incorrere nell’errore di condannare l’estrazione tout court, consce che da tale attività dipendiamo in un modo o nell’altro da sempre, dovremmo concentrarci nel contrastare la sua aberrazione: l’estrattivismo. Per farlo, la domanda che oggi ci pare ancor più cruciale è sempre la stessa: chi decide?
Chi decide cosa si estrae, a quale fine, in quali quantità, e per quali bisogni?

Sentiamo la necessità di conquistare spazi decisionali per la gestione delle risorse e delle materie prime: alla ricerca di un equilibrio estrattivo che garantisca la soddisfazione delle necessità essenziali per tuttə e che contrasti la speculazione estrattiva per consumi inutili e dannosi. Dobbiamo innanzi tutto disinnescare la retorica della necessità di materie prime per la “transizione green”: quante materie prime servono per la transizione energetica/ecologica e quante invece ne verrebbero usate per alimentare internet of things, smart cities, o banalmente armi?

E, soprattutto, la transizione non può essere transizione a parità di consumi crescenti. Su questo ormai gli studi sono chiari: non è possibile disaccoppiare (decoupling**) la crescita economica infinita dal disastro ecologico, climatico e sociale. Questo significa che non esiste soluzione meramente tecnologica alla crisi planetaria, che il modello della crescita infinita è incompatibile con la riproduzione della vita in un pianeta dalle risorse limitate.
Insomma, se vogliamo “salvarci”, qualsiasi cosa significhi, dobbiamo mettere in discussione una volta per tutte i sistemi di dominio planetario che ci sono stati presentati come unica possibilità: capitalismo, colonialismo, razzismo ed eteropatriarcato sono le facce di una sola crisi, quella planetaria, alla quale non esistono risposte interne.

Athamanta

* Estrattivismo: sistema di governo del territorio che comprende dispositivi culturali, politici, economici e militari. Nelle Apuane questo modello comincia a manifestarsi negli anni ‘80 (fonte: Athamanta – radiondadurto.org “L’industria estrattiva sulle Apuane”).

** Decoupling: termine connesso al concetto di “crescita sostenibile”; in ambito ambientale si intende la scissione del collegamento tra crescita economica e danni/pressioni sull’ecosistema. In riferimento alla crisi climatica, si intende solitamente una situazione in cui si ha una crescita del PIL e una crescita minore (decoupling relativo) o addirittura una diminuzione delle emissioni di gas serra. è un concetto intrinsecamente vago, in quanto applicabile a parametri specifici (i.e. emissioni CO2) o, più raramente, ad ambiti più ampi (biodiversità, consumo di risorse e suolo ecc.). Il termine fu adottato per la prima volta come obiettivo dal OECD nel 2001, ed è stato incluso nella roadmap dell’EU nel 2011 (EU Roadmap to a Resource-Efficient Europe) [ndr].

Alcune fonti utilizzate nell’articolo:

Il nuovo estrattivismo europeo e la centralità delle montagne 

Regolamento europeo per le materie prime critiche e strategiche 

L’accoglienza del governo italiano al regolamento europeo sulle MPC e la mappa delle MPC in Italia

Materie prime critiche in UE: a che punto siamo?

Le materie prime critiche Europa e Italia tra nodi da sciogliere e prospettive future

How will demand for critical materials change in the future?

Le montagne: frontiere della vita, frontiere della speculazione

«Il consumo mondiale di acqua è quasi quadruplicato negli ultimi 100 anni e molte aree possono soddisfare la domanda d’acqua solo grazie all’afflusso acqueo derivante dalle regioni montane», afferma Daniel Viviroli del Dipartimento di Geografia presso l’Università di Zurigo.

 

Atamana cretensis -Credit: Photo by Renzo Salvo.

Athamanta è un percorso nato nel 2020 a Massa-Carrara, uno spazio di discussione, autorganizzazione e sperimentazione politica intorno al tema delle Alpi Apuane.
Nato dalla collaborazione di Casa Rossa Occupata e Friday for Future Carrara, ad oggi vede partecipare diverse realtà, soggetti, individui che hanno interesse nell’elaborare un discorso comune sul tema dell’estrattivismo nelle Alpi Apuane.
Il nome Athamanta richiama una specie endemica della flora apuana. Il fiore Athamanta è a rischio di estinzione a causa delle attività estrattive nelle Alpi Apuane e del cambiamento climatico.
L’obiettivo di Athamanta diffondere è coscienza critica sui temi connessi al problema dello sfruttamento estrattivo del marmo bianco. Passaggio sull’estrattivismo come chiave di lettura dei fenomeni). Athamanta ha come pratiche l’autoformazione, l’inchiesta, l’informazione e l’azione.
Athamanta sta lavorando su 3 macrotemi strettamente connessi alle pratiche estrattive intese come meccanismo di messa a valore di un territorio in funzione delle sue risorse con particolare focus sui conflitti ambientali che ne derivano e le pratiche che è possibile mettere in campo in quanto attivisti per contrastarne le ricadute negative. Solo il totale smarrimento dello storico legame tra gli agri marmiferi e le comunità locali rende comprensibile come possa essersi così malamente sviluppata l’attività estrattiva.

Per contatti: athamanta.ms@gmail.com

Per certi versi /
Neve

Neve

È tornata
Sulla pianura
Accaldata
Trucioli
Di nuvole
Precipitano
In scie
Cadenti
Archetti
Di violini
Sbilenchi
Nel buio acceso
Le vecchie stufe
Raccontano
Strane storie
Del vento
fanciullo
Nel candore
Solleva strenne
Di luce
Esterrefatta
Tu non credi al nulla
Non puoi credere
Al cieco finire
Sì impasta
Dentro
questa magia
Del fioccare
Ti avvolge
Ti sorprende
Da ore
A sognare

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

“Per Amore del Mio Popolo”.
Incontro su Don Minzoni: Casa Cini, 12 dicembre, ore 18

“Per Amore del Mio Popolo”.
Incontro su Don Minzoni: a Casa Cini, martedì 12 dicembre, alle ore 18

Poco più di 3 anni fa, il 23 agosto 2020, le tre Associazioni scout Agesci, Masci e Fse hanno inviato al Vescovo di Ravenna la richiesta di avviare il Processo Diocesano per la beatificazione di don Giovanni Minzoni, per risconoscerne la testimonianza esemplare di vita cristiana, di coraggio e coerenza, da presentare in particolare alle giovani generazioni. Nella richiesta veniva sottolineato che fin dal giorno del suo barbaro assassinio, per l’effetto del suo impegno di sacerdote, gli Scout italiani ne hanno custodito la memoria in modo ininterrotto. Una testimonianza che supera i confini della realtà scout e assume grande importanza per richiamare, specialmente i giovani, ai valori della fede cristiana, della libertà e della tolleranza tra i popoli.

E’ quindi iniziato a febbraio 2022 il percorso per la beatificazione di don Giovanni Minzoni in quanto la richiesta delle Associazioni scout e della Parrocchia di Argenta è stata condivisa dalla Diocesi di Ravenna-Cervia. Nei mesi scorsi il Comune di Argenta ha istituito il Comitato per il Centenario della morte di don Minzoni e molte iniziative sono state messe in campo in collaborazione con realtà culturali e associative: convegni storici, concerti, film e altro ancora. Sono stati molti i gruppi Agesci, FSE e Masci che in tutta Italia hanno realizzato iniziative anche in collaborazione con altre associazioni (ad esempio ANPI, CNGEI, cooperative …) per ricordare don Minzoni e per rendere attuale la sua testimonianza.

A Ferrara le Associazioni scout hanno fortemente collaborato con l’Ufficio diocesano per la pastorale sociale e del lavoro e con ConfCooperative per promuovere un incontro che si svolgerà il 12 dicembre alle 18 a Casa Cini. L’iniziativa, con il patrocinio della Provincia di Ferrara, del Comune di Argenta e del Comune di Ferrara, affronterà il tema dell’opera svolta da don Minzoni per promuovere la cultura cooperativa.

Sono previsti gli interventi di don Francesco Viali, che traccerà una breve biografia di don Giovanni Minzoni, del prof. Stefano Zamagni, che parlerà dell’attualità della cooperazione, di Giuseppe Tagliavia della segreteria provinciale CISL, che porterà un contributo a nome dei sindacati confederali, e la testimonianza di due cooperative ferraresi, “Il Germoglio” e “Azioni”. Le conclusioni saranno affidate al Vescovo di Ferrara mons. Giancarlo Perego.

Rendere vivo il ricordo di don Minzoni anche sotto questi aspetti potrà contribuire a far conoscere, apprezzare e attualizzare la sua testimonianza.

Chiara Sapigni
Masci (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani) – comunità di Ferrara a nome degli organizzatori

NOI NON SIAMO UN TEMA

NOI NON SIAMO UN TEMA

Vorrei approfondire alcune osservazioni emerse nel bellissimo articolo di Francesca Marcellan del 7 dicembre ”Se il femminicidio è un tabù linguistico [Vedi qui].

Ovviamente non è solo un tabù a livello linguistico, come abbiamo potuto notare nelle omelie dei funerali in diretta televisiva, sostituito dalle più accettabili ed edulcorate espressioni “negazione della vita” e “immane tragedia”, ma lo è a livello di legittimazione esistenziale.
A buon ragione perché il termine é stato coniato negli anni ’90 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, per indicare la manifestazione estrema della violenza di genere, cioè la soppressione fisica violenta di una femmina da parte di un maschio. Termine dal connotato semantico orribile, difficilmente accettabile, in quanto prerogativa quasi esclusiva dell’homo sapiens contemporaneo, dato che le specie animali non ammazzano le femmine, se non in casi rarissimi.
Questo tipo di violenza , per rientrare nella categoria “femminicidio” deve proprio essere l’omicidio di una donna, in quanto donna, da parte di un maschio, mentre la morti femminili per altri motivi (rapina, mafia ecc.) rientrano nelle categorie più generiche della criminalità.

Il monitoraggio del fenomeno – a partire dalla Convenzione europea di Istanbul dell’11 maggio 2011, a cui l’Italia ha subito aderito – ha dato risultati estremamente preoccupanti, in quanto stabili nella ripetitività, spingendo le istituzioni a definirlo un elemento strutturale della nostra società e, dopo 179 femminicidi del 2013, a varare la legge n. 93 del 2013, che prevede alcune misure di prevenzione (centri antiviolenza , codice rosso, case protette, ecc,).

La parola femminicidio è quindi un relativo neologismo, mai del tutto accettato a livello semantico, o considerato un fenomeno marginale, calcolando in percentuale il numero di maschi che uccidono le femmine rispetto alla popolazione italiana globale. Il ragionamento contiene un evidente errore di valutazione della gravità della situazione, perché è come sostenere che le morti sul lavoro sono poche rispetto al numero dei lavoratori attivi.

Negazione della parola che corrisponde quindi alla negazione di un fenomeno esistente, stabile e aberrante.

Esistono i femminismi, non il femminismo.

Anche la parola femminismo subisce la stessa sorte di disconoscimento, occultamento, generalizzazione superficiale.
Anche il femminismo è un tabù quindi?  In parte direi di sì.  Si riferisce a qualcosa di inesistente al singolare, in quanto il pensiero teorico femminista si è autodefinito un movimento plurale, dinamico, contestualizzato storicamente.
Esistono i femminismi, non il femminismo. Diacronicamente e sincronicamene possiamo citare il femminismo emancipazionista, il femminismo della differenza, il femminismo LGBT, il femminismo queer, solo per dirne alcuni.

Quindi se devo dare una definizione personale del femminismo sono costretta ad utilizzare quella che in campo teologico è definita la “teologia negativa”. Come di Dio si può dire solo quello che non è, rispetto agli stereotipi dell’immaginario maschile posso solo indicare quello che non siamo: le femministe non sono tutte brutte, non sono tutte lesbiche, non sono tutte arriviste, non sono tutte aggressive.

Ma specialmente. non siamo un TEMA, da inserire nei programmi di partito, nelle commissioni di partiti e movimenti, nella associazioni, nelle trasmissioni televisive. Magari vicino agli ambientalisti, agli animalisti, ai salutisti, ai negazionisti…
Non siamo un tema , siamo uno sguardo sul mondo, un parola che taglia, un corpo che conta.

Per leggere gli articoli e gli interventi di Eleonora Graziani clicca sul nome dell’autrice.

Achille Funi, l’artista operaio che amava i classici:
fino al 25 febbraio al Palazzo dei Diamanti di Ferrara

Achille Funi, l’artista operaio che amava i classici

Achille Funi, affermato e originale artista del primo Novecento, nasce nel 1890 e muore nel 1972, con una carriera che culmina negli anni Trenta. Ma che non va associato al pensiero politico dominante dell’epoca. È questo che ha voluto prima di tutto sottolineare lo studioso e critico d’arte Lucio Scardino nell’appuntamento di giovedì 30 novembre 2023, inserito all’interno del ciclo di incontri che proseguirà fino al 25 gennaio per approfondire la grande retrospettiva “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito” visitabile sino al 25 febbraio a Palazzo dei Diamanti di Ferrara.

Conferenza su Funi a Palazzo dei Diamanti
Lucio Scardino con Pietro Di Natale

“Funi – ha rimarcato Scardino – aveva un ideale classico e ha tentato di far diventare classico il quotidiano. Citava a memoria Dante e Omero e tutti lo ricordano per la sua cultura. Perciò è rimasto sempre al di sopra delle parti, se ne è infischiato della politica. Per lui la fruttivendola di Brera poteva diventare Saffo”.

“Lettura domenicale”, di Funi, olio su tavola 1926

E ha spiegato come il padre, attivista del partito socialista, aveva a cuore la cultura e quando Achille aveva 10 anni lo portava a studiare gli affreschi di Schifanoia. “Lo indirizza subito a una visione classica, ma votata al popolo e ai valori democratici anche in termini culturali”, ha detto il critico ferrarese.

Genealogia o La mia famiglia di Funi, 1918-1919

Tant’è che, per consentire lo sviluppo del talento artistico che il ragazzo mostra, il padre decide di lasciare il suo lavoro di fornaio. Per Achille trasferisce tutta la famiglia a Milano, dove lavorerà come operaio e la moglie come portinaia. “Questo – dice il critico – affinché il giovane si potesse aprire a una visione dell’arte svincolata dalle pastoie della borghesia di provincia”. Un influsso percepito come limite dell’ambiente ferrarese, dove Achille rivela le sue doti già negli anni di studio al liceo Dosso Dossi.

Autoritratto giovanile, 1908

“Funi – ha ricordato Scardino – non abbandonerà mai questo amore per i classici che il padre gli aveva trasmesso e nemmeno per i valori dei lavoratori”. Un amore che “l’enfant prodige del socialismo ferrarese” esprime con i suoi dipinti e i suoi affreschi. Gli stilemi della scuola del Rinascimento, li inserisce come sfondi dei ritratti che traspongono in versione moderna gli squarci di paesaggio delle Madonne delle gran dame del ’500.

“Ritratto di Annita Balconi”, 1922

Con la differenza che i paesaggi che occhieggiano dai dipinti funiani alternano scenari collinari di stampo leonardesco a una prevalenza di scorci di periferia urbana industrializzata. Il mondo contemporaneo entra così nell’opera moderna, ripreso con forme classiche.

“Maternità” di Achille Funi, 1921

Analogamente i soggetti che dominano la tela non sono figure religiose o aristocratiche. Nei ritratti – come pure negli affreschi – come modelli ci sono uomini e donne comuni, spesso parenti o conoscenti e committenti, in una visione comunitaria e democratica della rappresentazione.

Gerusalemme Liberata, sala Arengo, Ferrara

I volti, nei dipinti di Funi, riprendono infatti quasi sempre personaggi familiari (la sorella Margherita super ritratta, i genitori, i fratelli) e poi gli amici, gli artisti, gli intellettuali e le persone che frequenta negli anni. Ma i corpi dei suoi soggetti sono quelli di muratori e operai.

Cartoni per figure mitologiche di sala Arengo, Ferrara

È Folco Quilici a ricordarlo in un intervento raccolto nel volume “Il Mito di Ferrara. Omaggio ad Achille Funi e alle sue fonti” curato da Lucio Scardino e Filippo Manvuller per l’edizione del marzo 2023 del Comune di Ferrara. Nella sala dell’Arengo del palazzo municipale ferrarese Folco – alla pagina 102 del volume – rivela che “gli erculei corpi degli eroi e degli Dei dell’Olimpo erano in realtà ispirati a membra e muscoli (a proporzionati atletici arti, insomma) di contadini e operai”.

San Giorgio tra Ercole e Marte, sala Arengo, Ferrara

All’epoca bambino, Folco è il medio dei tre figli del direttore del Corriere Padano, Nello Quilici, che ospitò l’artista tornato a Ferrara per realizzare i cartoni dell’affresco per la sala comunale di Ferrara. Perciò gli mise a disposizione come laboratorio gli spazi del granaio della casa dove viveva insieme alla moglie Mimì Buzzacchi Quilici e ai figli Vanni, Folco e Vieri, in corso Cavour 40 a Ferrara.

Achille Funi – Autoritratto con brocca blu, 1920
Marlon Brando, “Un tram chiamato desiderio”, Usa 1951

Il rispetto dell’attività manuale spicca nella maggior parte degli autoritratti che Funi ci ha lasciato e che questa mostra raccoglie. Achille pittore si mostra sempre in abiti da lavoro: in canottiera o maglietta bianca sopra a pantaloni di tela, con gli addominali scolpiti dell’affrescatore di pareti che era.

“Autoritratto” di Funi, olio su tavola 1921
Videocassetta con l’immagine di Marlon Brando

Un’immagine di sé che anticipa quell’estetica che Marlon Brando renderà globale con il suo ruolo di protagonista di “Un tram chiamato desiderio” oltre trent’anni dopo, in analoga T-shirt bianca, e che ritroveremo in Paul Newman e James Dean.

Mostra “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito”, visitabile sino al 25 febbraio 2024, tutti i giorni orari 9-19.30, Palazzo dei Diamanti di Ferrara, corso Ercole I d’Este 21, Ferrara.
Info sul sito web www.palazzodiamanti.it.

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Le storie di Costanza /
Dicembre 2062 – Il Natale di Dylan

Le storie di Costanza. Dicembre 2062 – Il Natale di Dylan

Il 2062 sta finendo. Questo dicembre si addormenta nel freddo e si risveglia con la nebbia.  Le goccioline appiccicate ai vetri dalle finestre camminano lentamente verso il davanzale e le luci si accendono in fretta, tanto quanto tramonta il sole.

Nel buio vivono tante sorprese e anche tanti incubi. Una delle mie paure è proprio legata alla notte. Ho paura che il nero non finisca, che i miei occhi a un certo punto non ritrovino più la luce e non possano rivedere con piacere il mattino bianco e azzurro.

Si potrebbe pensare che io abbia qualche malattia visiva, ma non è così, ho semplicemente paura della cecità. Non so se riuscirei a riadattarmi a questa vita senza vederci, io amo i colori e quando vedo qualche pittore dipingere, mi incanto a guardare la tela che da bianca diventa variopinta e viva. È uno spettacolo incredibile, una materia anonima che prende forma e diventa arte.

Anche io a volte dipingo un po’. Mi piace usare i colori a olio su tavole trattate con la sabbia. La preparazione a sabbia rende irregolare la superficie da dipingere aumentando il senso di profondità e di movimento già tipici dei quadri dipinti ad olio.

Io sono Dylan, sono un amico di Axy e forse anche qualcosa in più. Quando mi sarò laureato in medicina forse mi fidanzerò con lei, ma non so … manca ancora molto tempo. Avevo iniziato Giurisprudenza, ma poi ho smesso e mi sono iscritto alla facoltà attuale e i tempi, tra il presente e la laurea, si sono ulteriormente allungati.

Mia madre voleva che io facessi medicina ma io, per dimostrarle autonomia di pensiero e conoscenza del mondo, mi sono iscritto a giurisprudenza, per poi accorgermi che aveva ragione lei. Voglio curare la gente dalle malattie, non mandarla fuori o dentro dalla prigione.

Così ho cambiato facoltà e mi sono messo a studiare a più non posso, con mia madre che ogni tanto mi borbotta nelle orecchie ‘Io te l’avevo detto! sei un testone, una zucca come quelle che coltiva Annarita.’ Annarita è la zia di mia madre, la sorella della nonna. Vive in campagna e, davanti a casa, ha un campo dove coltiva di tutto. Le zucche americane sono una delle sue passioni.

Non lavorando non ho soldi e senza soldi non c’è molto futuro da progettare. Ma prima o poi riuscirò a laurearmi, a fare il medico e ad essere autonomo economicamente. Allora vorrei trovare una casa per me in Via Santoni Rosa e poi chiedere ad Axy se le piacerebbe venirci a stare.

In quella via abitano i suoi parenti e tutti i loro animali (veri e meccatronici), quel gruppo simpatico che costituisce la grande famiglia dei ‘Santoniani’. Là c’è la vecchia casa di Costanza e Cecilia, la prozia e la nonna di Axy. Ascoltare Cecilia e Costanza che raccontano le storie di famiglie è uno dei miei passatempi invernali preferiti. Nel grande soggiorno dai divani gialli dove viene acceso il camino, Zeus-t abbrustolisce le castagne e le offre agli ospiti con molta eleganza.

Io e Axy ci sediamo a volte sul divanetto d’Adelina, non so esattamente perché tutti lo chiamino così, e a volte in terra sul tappeto che copre la sezione di pavimento circondato da due divani, due poltrone e un tavolino su cui ci sono riviste e ‘occorippi’.

Là seduti ascoltiamo i racconti di nonna e zia e il tempo vola sulle ali dei ricordi. Sono ali che possono essere leggere o pesanti, corte o lunghe, ma mai banali. Quei pomeriggi passati seduto sul tappeto mi aiutano a prendere le distanze dalla vita frenetica che mi caratterizza spesso. Tra corsi universitari, libroni da leggere più volte, cliniche in corsia e volontariato alla Croce Rossa, passo da un accidente all’altro, oscillando come le palline del moto perpetuo.

Penso che mi specializzerò in pronto soccorso, niente di semplice e tranquillo, ma che porta appresso la consapevolezza di molta utilità. Anche un po’ di spirito caritatevole e anche un po’ di masochismo, la mia quotidianità è tutta lì.

Poi c’è Axy con i suoi occhi scuri, i capelli ricci e quella sua passione per l’informatica e per la Formula 1. Una ragazza bella e brava, anche cocciuta e taciturna. Molto brillante e sorprendente. Ama vestirsi di bianco, nero e grigio. Ha uno zaino nero e una felpa verde militare con scritto: ‘Non buttate la plastica, gli aironi la potrebbero mangiare’.

Lungo il Lungone vivono tanti aironi cenerini e Valeria, la mamma di Axy, va spesso a osservarli, portandosi appresso Cosmo-111.  Il robot ogni tanto li fotografa, ci sono a casa loro delle immagini magnifiche di quegli uccelli fluviali dalle grandi ali.

Io vivo con mia madre Alessia, mio padre è morto in un incidente quando avevo tre anni. Di lui mi ricordo molto poco, la mamma dice che era uno psicologo molto bravo. Un suo paziente l’ha accoltellato mentre usciva dallo studio. È morto il giorno seguente in ospedale a Trescia, dopo che invano i chirurghi avevano tentato un intervento per salvarlo.

Ho raccolto tutti i ritagli di giornale che ho trovato su quell’avvenimento e ogni tanto li rileggo per non dimenticare nemmeno una parola di quello che c’è scritto su quei pezzi di carta. La mamma non sa che io li ho, è il mio segreto. Un segreto buono, non gliene ho mai parlato per non farla soffrire e per non tornare a specchiarmi in quegli occhi lucidi e senza fondo con cui mi guardava quando mi accompagnava a scuola e vedeva i miei coetanei con i loro padri.

Sono cresciuto con mia madre, con il cane Bambù-senior prima, con Bambù-junior poi e con il fantasma di mio padre. Tutto sommato un fantasma discreto, che ci ha lasciato molto vuoto, ma nessun brutto ricordo. Credo che anche quello sia molto importante. Non lasciare dietro di noi amarezze di alcun tipo.

Questo è ciò che mi resta di mio padre, una assenza senza rancore, un vuoto che non si riempie mai, ma che non si colma di brutti ricordi, sta semplicemente lì, sedimentato come una stalagmite senza punte.

Mia madre mi ha raccontato che il paziente che ha ucciso mio padre è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico, non sa attualmente dove sia, non sa nemmeno se sia ancora vivo.  Forse anche per tutto questo voglio fare il medico, voglio che gli psicologi si salvino e i loro figli crescano senza pericolosi cristalli di roccia sul loro cammino.

Ad Axy ho raccontato questa triste vicenda e le ho anche fatto vedere i ritagli di giornale. Lei li ha letti tutti e poi ha promesso di mantenere il segreto sulla loro presenza a casa mia. Condividere un segreto accumuna molto due persone. Le rende complici nei confronti di tutti coloro a cui il segreto non è stato svelato.

So che Axy non ha raccontato niente a nessuno, nemmeno alla prozia Costanza, con cui parla sempre. Una volta mi ha chiesto se potesse rendere partecipe Costanza del nostro segreto e io le ho detto di no. Dopo quella volta non ha più fatto menzione agli articoli e io le sono grato per questo. Un po’ perché non voglio che mia madre sappia dei ritagli e si senta tradita dalla mia mancanza di confidenza e un po’ perché il segreto che c’è tra di noi mi fa sentire Axy più vicina, una complice buona e muta sulla quale posso contare.

Da quando ho raccontano tutto a Axy la mia vita è migliorata, mi sento meno solo, con un fardello meno pesante sulle spalle. Il dolore condiviso è meno cattivo, si addomestica più facilmente. Credo che se ogni persona sofferente potesse trovare un complice che capisce e condivide il suo dolore, soffrirebbe di meno, troverebbe con più facilità una strada per riappacificarsi con il mondo e con le sue malvagità.

Ad Axy non è ancora morto nessun parente particolarmente caro, però si ricorda Albertino Canali, il bizzarro vicino di casa di Costanza che è morto qualche anno fa. Quel signore era pettegolo e un po’ rude, aveva passato la vita a fare il trebbiatore, ma era anche intelligente e buono.

Tutti i Santoniani erano molto affezionati ad Albertino e la sua dipartita ha suscitato in loro grande tristezza. Sono contento che Axy non si sia ancora confrontata con qualche vero dramma che può succedere nella vita, è meglio così, le resta maggiore energia per guardare al futuro con positività, per pensare che domani sarà migliore di oggi e non viceversa, per credere che potrà realizzare tutti suoi sogni e per non farsi attanagliare dalla preoccupazione.

Lei non pensa che uno dei suoi cari potrebbe morire da un momento all’altro nelle accidentalità più dolorose che si possono immaginare, lo penso io. Axy è molto forte e libera, per questo ha potuto condividere il mio segreto e farsene in parte carico, aveva sufficienti risorse emotive per sopportarlo. Sono molto contento di questo e mi chiedo se anch’io riesco, con la mia presenza, a renderle migliori le giornate. Spero proprio di sì.

Fra un po’ è Natale, tempo di buoni sentimenti, di pensieri sull’anno che sta chiudendo, di programmi per quello nuovo. È anche tempo per fermarsi e godere la presenza dei parenti che, nel nostro caso, non sono né serpenti né invadenti.

Vorrei farle un regalo e vorrei essere sicuro che sia unico. Ho così pensato che le regalerò un quadro fatto da me. Sto aspettando un’alba colorata. Sono due settimane che metto la sveglia alle cinque, apro la finestra e guardo il cielo per vedere com’è. Non ho ancora trovato un’alba abbastanza bella per essere dipinta sulla tela sabbiata già pronta. La voglio rosa, azzurra e bianca, con anche la luna. Un’alba così bella che solo il giorno di Natale la può meritare.

Così potrei fare ad Axy un regalo fatto con le mie mani, che rappresenta un fenomeno naturale ammirevole. Un quadro che raffigura l’alba a Pontalba per lei, per i Santoniani e per tutta la gente che vive a Pontalba. Vorrei che potesse servire ad augurare un buon Natale anche a chi da Pontalba passa solo qualche volta e si ferma per un po’ a guardare gli abitanti di questo paese di pianura, dove il fiume scorre insieme al tempo e si ferma quando vuole per augurare a tutti la felicità.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Numeri /
Bugie sul salario minimo, ad esempio quelle di Bruno Vespa in Tv.

Le bugie sul salario minimo (Vespa in tv) hanno le gambe corte

La querelle sul salario minimo è comica. Quasi tutti i paesi al mondo (e in Europa) ce l’hanno. I pochi che non l’hanno (come i paesi nordici e Austria) hanno sistemi contrattuali e un welfare che aiuta moltissimo i lavoratori più poveri dei propri paesi.
Non sto qui a ribadire le ragioni di un salario minimo (vedi il mio articolo“Salario Minimo Legale: perché conviene” su Periscopio del 28 luglio) se non per aggiungere che c’è ampio consenso, anche tra gli economisti liberali, su come il salario minimo sia uno strumento efficace in quei paesi dove i lavori malpagati sono un problema persistente (come appunto in Italia). Un tempo molti erano contrari pensando che salari minimi avrebbero scoraggiato le imprese ad assumere, ma l’opinione prevalente è cambiata perché i dati di molti mercati del lavoro hanno dimostrato che l’introduzione di un salario minimo moderato non riduce affatto l’occupazione. Riducono invece le disuguaglianze perché migliorano le entrate di quel 25% di lavoratori poveri.

La cosa comica è che quando era al Governo il M5S e il PD non l’hanno introdotto (mentre la Meloni e la Lega lo volevano), ora che la destra è al Governo non vuole introdurlo ma lo vogliono le opposizioni.

In un talk show Bruno Vespa ha concluso dicendo che in Europa è vero che solo pochissimi paesi non hanno il salario minimo, ma è anche vero che solo 6 paesi hanno un salario minimo superiore ai 9 euro all’ora, come propone oggi l’opposizione.
Caro Vespa i conti non si fanno così! 
Il salario minimo esistente in un paese va riferito al salario medio di quello specifico paese, per cui è evidente che in Germania dove il salario medio lordo è di 2.890 euro, 12 euro all’ora lordi significa avere un salario minimo pari a circa il 66%, mentre in Polonia dove il salario medio è 900 euro avere un salario minimo di 4,9 euro all’ora significa che è il 77% del salario medio, molto più alto di quello che sarebbe in Italia (69%) se venisse introdotto a 9 euro all’ora (come nell’ipotesi della figura allegata).

 

Per leggere tutti gli articoli di Andrea Gandini pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Storie in pellicola /
“Bookciak legge” torna a Roma a “Più libri più liberi”

Nella Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria “Più libri più liberi” che si tiene alla Nuvola di Roma dal 6 al 10 dicembre, è tornato, il 7 dicembre, “Bookciak legge”: novità per il 2024 e visione dei corti vincitori presentati alla 80° Mostra del Cinema di Venezia ispirati a racconti, poesie e graphic novel

Il 7 dicembre, un pomeriggio cine-letterario ospite del Centro del libro e la lettura (stand Cepell – piano Forum-P20) per annunciare le novità della III edizione di “Bookciak Legge”, ideato e diretto dalla giornalista Gabriella Gallozzi, e presentare i corti vincitori di “Bookciak, Azione!” 2023.

La pace quotidiana, non soltanto l’assenza di guerre, ma quella necessaria come il pane per poter vivere tutti i giorni: è questo il tema, della III edizione di “Bookciak Legge”, il concorso letterario che, attraverso il premio “Bookciak, Azione!”, trasforma in corti i libri, premiandoli alle Giornate degli Autori, in collaborazione con SNGCI, nell’ambito della Mostra del cinema di Venezia.

Novità di “Bookciak Legge” 2024 è “La casa editrice dell’anno”, ovvero la nascita di una nuova iniziativa che, a partire da quest’anno, vedrà per ogni nuova edizione del premio, una casa editrice ospite con cui mettere in piedi una sinergia per declinare in modo nuovo il rapporto tra letteratura e cinema.

Ad inaugurare il nuovo percorso è La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi con l’ultimo libro di Tahar Ben JellounL’urlo. Israele e Palestina. La necessità del dialogo al tempo della guerrain libreria dal 21 novembre. Una lezione di pace in tempi di guerra. Un pamphlet lucido su cosa sta accadendo in Medio Oriente e le possibili soluzioni per mettere fine al conflitto. A partire dal dialogo urgente tra i due popoli. Un libro che ben si presta al tema scelto da Bookciak Legge per quest’anno e che vuole essere una proposta e uno spunto per una riflessione sulla pace e sulla necessità del dialogo come antidoto alla guerra in un momento cruciale come il nostro.

Sarannogli studenti dell’Istituto cinematografico Michelangelo Antonioni di Busto Arsizio a realizzare un bookciak, un corto sperimentale di massimo tre minuti, a partire da questo titolo che sarà presentato alla prossima edizione delle Giornate degli Autori a Venezia nell’ambito del premio “Bookciak, Azione!” 2024 e accompagnato in tour insieme agli altri corti vincitori del Premio nel corso del 2024.

 

Annunciata, inoltre, la giuria di Bookciak Legge 2024, capitanata da Marino Sinibaldi, è composta da Laura Luchetti regista e sceneggiatrice (“Fiore gemello”, “La bella estate” da Cesare Pavese, “Il gattopardo” Netflix) e Roberto Scarpetti, drammaturgo e sceneggiatore.

Gli editori indipendenti presenti a Più libri più liberi sono invitati a partecipare alla III edizione di “Bookciak Legge” inviando le loro proposte per le seguenti categorie: romanzi brevi (entro 100 pagine); graphic novel, racconti e poesie inerenti al tema La pace quotidiana. I libri dovranno essere inviati in formato elettronico a info@bookciak.it entro il 27 dicembre. I tre titoli vincitori, uno per categoria, saranno annunciati ai primi di febbraio dalla giuria di “Bookciak Legge”, mentre la premiazione si svolgerà a Roma ad aprile 2024.

Per l’occasione, sempre nel pomeriggio del 7 dicembre, sono stati presentati i video vincitori dell’ultima edizione del premio e in tour tutto l’anno, ispirati ai tre libri vincitori di Bookciak Legge 2022, e premiati a Venezia. Si tratta di:

Fino alla fine dellestate”, di Greta Amadeo, liberamente ispirato a “La mia amica scavezzacollo” di Micol Beltramini (Hacca edizioni) vincitrice per la sezione romanzi;

Fino alla fine dell’estate
Fino alla fine dell’estate

Pozzanghere” di Veronica Pellegrinet, liberamente ispirato a “Sacro e urbano”, di Isabella Capurso (Gattomerlino), sul podio per la categoria poesie;

Pozzanghere
Pozzanghere

Reso Numero 0051 di Matteo Papetti, liberamente ispirato a “Isometria della memoria”, di Davide Passoni (Miraggi, per la sezione graphic novel), realizzato dai 24 studenti del corso di Drammaturgia Multimediale 2022/2023 coordinato da Alessandra Pescetta per l’Accademia di belle arti (LABA) di Brescia;

Presentato anche “El Chuño Los Andes a Rebibbia”, realizzato dalle studentesse-detenute della Sezione R del Liceo Artistico Statale Enzo Rossi, coordinate da Claudio Fioramanti Lucia Lo Buono.

Rebibbia
Rebibbia

Il tema della passata edizione di Bookciak Legge era dedicato alle “storie per restare umani”; la premiazione si è svolta in Campidoglio lo scorso aprile, in compagnia dei giurati Silvia ScolaCarola Susani e Mimmo Calopresti.


Più libri più liberi, 6 – 10 dicembre, La Nuvola – Roma, Nomi Cose Città Animali

La fiera Nazionale interamente dedicata alla Piccola e Media Editoria è promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori (AIE), come ogni anno si terrà nello scenografico edificio de La Nuvola dell’Eur. Quest’anno 594 espositori, provenienti da tutto il Paese, presenteranno al pubblico le novità e il proprio catalogo. Cinque giorni e più di 600 appuntamenti in cui ascoltare autori, assistere a letture, confronti, dibattiti e incontrare gli operatori professionali. Piu libri più liberi è promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori, con il sostegno del Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura, Regione Lazio, Roma Capitale, Camera di Commercio di Roma e ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con il contributo di SIAE. È realizzata in collaborazione con Istituzione Biblioteche di Roma, ATAC azienda per i trasporti capitolina, EUR Spa, Dior e si avvale della Main Media Partnership di Rai con il Giornale della Libreria. La manifestazione partecipa ad Aldus Up, la rete europea delle fiere del libro cofinanziata dall’Unione Europea nell’ambito del programma Europa Creativa, è presieduta da Annamaria Malato e diretta da Fabio Del Giudice. Il programma è a cura di Chiara Valerio.

48MILA TITOLI L’ANNO

La piccola e media editoria in Italia nel 2022 ha pubblicato 47.850 novità, in lieve calo rispetto all’anno precedente (-0,6%) e pari al 59,3% dell’offerta editoriale complessiva. Le case editrici attive, micro, piccole e medie, sono 5.022, -0,9% rispetto al 2021. La quota di mercato nelle librerie fisiche e online e nei supermercati nel 2022 è stata pari al 49,2%.

IL TEMA: NOMI COSE CITTÀ ANIMALI

Il tema della 22° edizione è il titolo di un gioco per bambini. E, come nel gioco, ogni autore potrà comporre la propria categoria lessicale, perché giocando si comprenda che per essere liberi in una comunità è necessario stabilire, e cambiare quando serve, alcune regole. Giorgio Manganelli diceva “Ma non è la meta di tutte le nostre disperazioni sciogliersi nel gioco?”. Da bambini giochiamo e impariamo a leggere e scrivere. Da adulti dimentichiamo quanto sia importante vivere con il gioco – ma mai per gioco.

Foto in evidenza Ufficio stampa Più libri più liberi 

SE NON ORA, QUANDO? CHIAMATA ALL’AZIONE:
La Comune di Ferrara promuove una Grande Lista Popolare.

SE NON ORA, QUANDO? CHIAMATA ALL’AZIONE.

AAA  CERCASI CON URGENZA LA TUA COMPETENZA, LA TUA PASSIONE E IL TUO IMPEGNO PER BATTERE LA DESTRA

Caro amico, cara amica,
Fra meno di 6 mesi a Ferrara si vota e la coalizione di destra appare sempre più favorita.

I Partiti e le forze di opposizione sono ancora divise sul nome del candidato/a e incapaci di presentare agli elettori un programma serio e concreto per il futuro di Ferrara. Tutti sembrano aspettare non si sa bene cosa: un’idea “geniale”, una mediazione al ribasso, uno strano ticket, un altro garbuglio… Purtroppo, questo atteggiamento poco comprensibile dal punto di vista dei cittadini, avrà come probabile risultato quello di facilitare la rielezione della Giunta Fabbri ed aumentare il popolo dei non votanti.

Scriviamo a te personalmente, perché crediamo che non abbia senso aspettare le trattative tra i partiti, o un salvatore/salvatrice della patria, magari telecomandato/a da Roma. Se vogliamo innescare un processo virtuoso che scuota l’apatia politica occorre scendere in campo già ora con una Grande Lista Popolare. E occorre che ognuno e ognuna di noi faccia un passo avanti e si assuma un impegno personale, offrendo la propria competenza, le propria passione, il proprio senso civico e anche un po’ del proprio tempo. Nessuno lo farà al posto nostro!

In questi mesi, lavorando insieme e partendo dal basso, sono emersi tanti problemi e tante idee. Abbiamo individuato alcuni punti fondamentali (i cardini del futuro programma  elettorale) per realizzare una vera e propria svolta nei contenuti e nei metodi del governo cittadino: la decarbonizzazione e il contrasto alla emergenza climatica, lo sviluppo del welfare di comunità e l’attenzione verso le nuove povertà e le fasce sociali fragili; lo stop alla privatizzazione e l.’ipegno concreto per la pubblicizzazione del servizio rifiuti e il servizio idrico, la costruzione di un sistema di democrazia partecipata e la messa a disposizione di strutture gratuite in tutti i quartieri e le frazioni.

La Ferrara che vogliamo è una città governata direttamente dagli stessi cittadini.

Il prossimo 16 dicembre ci ritroveremo insieme per la 2 tappa promossa da “La Comune di Ferrara”. Come sempre sarà un percorso dal basso, aperto a tutte e a tutti: singoli cittadini, gruppi spontanei, comitati, associazioni, partiti di opposizione. Ma questa volta vorremmo incominciare a presentare persone disposte a dare il proprio contributo, in campagna elettorale e quindi nel futuro governo della città.

Non cerchiamo candidati a sindaco o a questo o quell’assessorato. Cerchiamo invece 10, 20, 30… ferraresi disposti a lavorare e ad occuparsi di un particolare campo, settore, problema: grande o piccolo che sia. Perché i problemi della città sono veramente tanti, ma in città ci sono altrettante competenze (spesso inespresse) capaci di affrontarli..

Sappiamo che ti stiamo chiedendo tanto: il tempo è prezioso ed è sempre scarso, per tutti. Ma prova a rispondere: ti rassegni a questa Ferrara sofferente e in declino?  Vuoi continuare a delegare? Oppure vuoi dare un contributo per liberare Ferrara dalla mediocrità e dalla volgarità degli ultimi anni?

Se non ora quando?

Il cammino di una GRANDE LISTA POPOLARE comincia oggi. I futuri passi, a partire dall’incontro del 16 dicembre, li decideremo assieme.

Se confermi la tua disponibilità, se vuoi dare una mano, ti chiediamo di contattarci subito per un colloquio: info@lacomunediferrara.it

La Comune di Ferrara
www.lacomunediferrara.it

Quella cosa chiamata città /
Grattacieli londinesi: iconici, potenti e introversi

Grattacieli londinesi: iconici, potenti e introversi

Sono a Londra per l’ennesima volta. Ogni volta che torno ho sempre l’impressione di trovare una città diversa. La sensazione è reale perché l’anno scorso ho pensato la stessa cosa, vedendo, come oggi, tanti cantieri aperti. Ci sono alcuni momenti che segnano i cambiamenti delle città, in particolare delle grandi città. Londra ne ha avuti diversi.

“Lord, have mercy on London”, 1665, xilografia (particolare)

Nel 1666, il Great Fire distrugge la gran parte di una città che stava cercando di risollevarsi dalla pestilenza che aveva ucciso circa centomila persone. Una pestilenza arrivata dall’Olanda ma partita dal Levante come ci descrive minuziosamente nel suo romanzo Daniel Defoe.
Allora Londra non andava oltre il Tower Bridge e l’architetto Christopher Wren progetta una Londra barocca che non si realizza.

Un secondo momento, certamente il più importante, anche per l’immaginario della città, riguarda la rivoluzione industriale e la Regina Vittoria.
Prende forma la Londra ricca e miserabile, fumosa e sporca, attiva e oziosa che letteratura ci ha raccontato e che arriva fino agli anni ’50 del Novecento.

Le distruzioni della II guerra mondiale costituiscono il terzo dei grandi momenti di trasformazione della città.
Sono gli anni del modernismo e del brutalismo dei complessi residenziali Robin Hood Gardens o del Barbican Center. La città diviene una piattaforma trasformabile e anche decentrabile attraverso le new town, la cui costruzione inizia in realtà agli inizi del Novecento.

Fino a questo momento Londra è una città piatta, con la riqualificazione dei bacini portuali (i docks) arriva a Londra la verticalità del grattacielo. L’Est London povero e misero raccontato dalla levatrice Jennifer Worth si trasforma in una città finanziaria, il potere capitalista deve rendere evidente il suo dominio sul mondo e il grattacielo ne rappresenta l’icona.
La visione neoliberista del futuro e dei rapporti umani, incarnato dalla Signora Margaret Thatcher, primo ministro, fa da sfondo a una delle prime grandi operazione di riqualificazione urbana dove il ruolo del potere pubblico è di asservimento agli appetiti privati, molto rilevanti in questo caso.

Oggi Londra brulica di grattacieli talmente vicini da rasentare il disordine.

Londra e i grattacieli visti da Whitechapel (ph. Romeo Farinella)

Ma il grattacielo è un edificio introverso, pensa solo e sé stesso. All’esterno, con la sua altezza, segnala il potere di chi l’ha voluto costruire ma la sua attenzione è tutta rivolta all’interno e alle dinamiche che si indentificano nella folla che lo attraversa, in tutte le direzioni, per dare concretezza ai fatti. Il grattacielo non crea fronte urbano, la strada gli serve solo per l’accesso.
L’idea o l’utopia urbana del Rockfeller Center di New York che cerca di creare un luogo urbano attraverso la composizione ordinata di una serie di grattacieli, con i giardini sul tetto e le piazze alla base, è rimasta tale, non è diventata una regola.

Quindi potremmo dire che il grattacielo come icona trasmette potenza e introversione. Non crea spazio pubblico, mette caso mai a disposizione spazi collettivi mercificati: nella hall se diventa un centro commerciale o nei giardini e ristoranti del rooftop. Whitechapel e Southwark pullulano oggi di iconici grattacieli dalle forme falliche, strambe, frammentate come The Shard di Renzo Piano, il più alto di Londra e d’Europa. (vedi immagine di copertina)

Tutti questi grattacieli londinesi non si sforzano nemmeno di inventare un nuovo spazio pubblico, presi come sono dalla necessità di spremere il più possibile il valore del suolo. Quanto meno Mies van der Rohe, costruendo il Seagram Building a New York, il tema della soglia tra lo spazio delle grattacelo e della strada se lo era posto.

Londra, fantasmagorie dell’imbrunire (ph. Romeo Farinella)(

Non capisco perché si continui a interrogare, sulla stampa che conta, Renzo Piano sulle grandi questioni urbane del futuro. Dopo decenni di ricerca su come riprogettare le periferie cresciute male abbiamo scoperto, grazie a lui (Sic!), che dobbiamo ricucirle (che intuizione!). In epoca di Covid abbiamo scoperto, sempre grazie a lui, che l’opposizione alla città non è la campagna ma il deserto, dimenticando che nel deserto sono prosperate straordinarie civiltà urbane che avrebbero molto da insegnarci in termini di resilienza e adattamento climatico. Renzo Piano è un grande costruttore di oggetti architettonici, grattacieli compresi, spesso per gente ricca, si limiti a quello e lasci stare il futuro delle città, perché quello che molte sue architetture prefigurano è distopico.

In copertina: Londra, the Shard di Renzo Piano (ph. Romeo Farinella).

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella, clicca sul nome dell’autore.

 

Se il femminicidio è un tabù linguistico

Se il femminicidio è un tabù linguistico

Articolo originale sul sito Volere la luna il 7 dicembre 2023

Quest’anno abbiamo forse assistito alla nascita di un nuovo genere letterario, quello delle omelie dei funerali in diretta televisiva. La loro analisi linguistica potrebbe diventare un nuovo genere di critica letterario-sociologica, visto che ci racconta cose molto interessanti riguardo alla cultura che le produce e poi addirittura le diffonde in forma integrale a mezzo stampa. Ad esempio, qualche mese fa, ai funerali di Stato di Silvio Berlusconi abbiamo assistito al trionfo dell’anfibologia, figura retorica dell’ambiguità, utilizzata in modo così sapiente che c’è chi ha potuto interpretare l’omelia come una celebrazione del defunto e chi, al contrario, come una severa reprimenda.

Invece nei giorni scorsi, ai funerali di Giulia violenzav, ha prevalso nettamente l’eufemismo, «che consiste nel sostituire, per scrupolo morale, per riguardi sociali o altro, l’espressione propria e usuale con altra di significato attenuato» (Enciclopedia Treccani).

Infatti, non solo la parola “femminicidio” non è mai stata pronunciata, ma neppure la più generica “omicidio” e i suoi sinonimi.
Al loro posto una serie di giri di parole, talvolta almeno connotati negativamente («l’immane tragedia», «negazione della vita»), anche se a volte smorzati dall’uso della metafora («il tronco ferito e spezzato della nostra umanità», che tra l’altro si allontana dal caso singolo, generalizzando attraverso quel “nostra”). Invece nella frase «il volto di Giulia è stato sottratto alla nostra vista», l’eufemismo non è solo nella scelta del verbo “sottrarre”, ma anche nella forma passiva, che permette di eludere l’esplicitazione del soggetto che ha compiuto quest’azione.
Quasi altrettanto spesso, inoltre, viene addirittura scelto un termine neutro, che potrebbe essere riferito tanto a un evento negativo quanto a uno positivo: «quello che abbiamo appreso»; «la conclusione di questa storia»; «quanto abbiamo visto».
Infine, solo una volta compare l’espressione più semplice e diretta, «la morte di Giulia», che però, priva di un aggettivo che ne connoti la natura violenta, è anch’essa un’espressione eufemistica, che viene ulteriormente annacquata dal suo inserimento in un insieme più ampio e indifferenziato (comprendendo anche gli uomini come vittime, fra l’altro): «di fronte alla morte di Giulia ma anche a quella di tante donne, bambini e uomini sopraffatti dalla violenza e dalle guerre».

Anche l’espressione “violenza sulle donne” è un tabù, ma quello che stupisce è che lo è anche la parola “donna”, che, oltre all’esempio appena citato, appare solo due volte e, per l’appunto, mai da sola, ma sempre in coppia con la parola “uomo”: «una società e un mondo migliori, che abbiano al centro il rispetto della persona (donna o uomo che sia)»; «insegnaci, Signore, la pace tra generi, tra maschio e femmina, tra uomo e donna».
Quest’ultima frase mette bene in luce come questo abbinamento uomo-donna sia finalizzato a leggere in modo eufemistico la violenza come semplice contrasto, la cui responsabilità, quindi, implicitamente ricade su entrambi gli attori in gioco.
Al posto della parola “donna”, poi, altrove viene usata l’espressione “i più deboli”, che da una parte riprende lo stereotipo del sesso debole, e dall’altra, ancora una volta, annacqua il concetto, utilizzando una categoria più ampia: «le piazze, le aule universitarie, i palazzi, le nostre case possono certo diventare quei luoghi dove poter difendere i diritti dei più deboli».
Sulla stessa linea, l’uso del neutro “persona”, già visto anche in un precedente esempio: «acquisire strumenti che nobilitano la vita delle persone, soprattutto delle più deboli e fragili»; «quei contesti sociali e quelle reti in cui le persone siano valorizzate in quanto soggetti».

Senza addentrarsi nei contenuti dell’omelia, anche solo le scelte lessicali rivelano quindi una ostinata e capillare volontà minimizzante, di fronte alla quale mi viene in mente una sola osservazione. È una citazione tratta dalla Passione di santa Giustina, la santa titolare della basilica padovana dove questo funerale si è svolto.
Nel racconto agiografico Giustina è una ragazza giovanissima, pugnalata al petto per aver osato affermare la sua volontà contro quella di un uomo, l’imperatore romano Massimiano. Nella sua Passione sta scritto, riprendendo un passo evangelico: «Se voi tacerete, le pietre grideranno». In questa occasione, di fronte all’eufemismo che è, di fatto, una forma di silenzio, per chi ha saputo ascoltare ha invece parlato non una pietra ma un tela: l’enorme pala di Paolo Veronese che si trova presso l’altare della basilica, e che raffigura proprio, in tutta la sua scandalosa ingiustizia, la morte violenta della giovane e innocente Giustina.

Francesca Marcellan
Vive a Padova, lavora presso il Ministero della Cultura e scrive di arte, soprattutto nei suoi aspetti iconologici. Sulla scorta di Morando Morandini, va al cinema “per essere invasa dai film, non per evadere grazie ai film”. E quando queste invasioni sono particolarmente proficue, le condivide scrivendone.

Cover: Paolo Caliari detto Veronese, Martirio di Santa Giustina.

Germogli /
Un altro miracolo italiano: San Giuliano ha salvato Venezia

Un altro miracolo italiano: San Giuliano ha salvato Venezia.

San Giuliano chi? Vuoi dire Sangiuliano? Il ministro della cultura? Il cacciaballe? Quello che Dante sarebbe il campione della cultura della Destra?
Proprio lui, che guarda a caso è nato a Napoli e di nome fa Gennaro. Ma San Giuliano non si limita a sciogliere un’ampolla di sangue secco, lui lavora in grande. Il suo ultimo miracolo ci ha lasciati “commossi e attoniti”. Un uomo, un uomo solo, è riuscito a salvare Venezia; quella Venezia che credevamo moribonda, afflitta da un male incurabile, assediata dalle maree che un Mose costato miliardi non riesce a domare.

Il Ministro, visibilmente soddisfatto per l’impresa appena portata a termine

Ora, grazie a lui, Venezia non è più in pericolo. Ecco le parole di San Giuliano: “Il Comitato del Patrimonio Mondiale riunito a Riad in Arabia Saudita, per la sua 45esima sessione, ha deciso di non iscrivere il sito ‘Venezia e la sua laguna’ nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO in pericolo”.

Merito di chi?

Continua il Ministro e Santo: “Il lavoro di squadra svolto in questi mesi dal Ministero della Cultura insieme al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, alla Regione Veneto, al Comune di Venezia e alle istituzioni che compongono localmente il Comitato di Pilotaggio del sito, ha fermato un’indebita manovra puramente politica e priva di un ancoraggio su dati oggettivi”, E aggiunge: “Venezia, quindi, non è in pericolo. Negli ultimi mesi il Comune ha adottato provvedimenti coraggiosi per gestire il turismo e garantire la tutela dello straordinario patrimonio culturale della città. Il Ministero della Cultura è al suo fianco e proseguiremo insieme il complesso percorso di salvaguardia e valorizzazione di un simbolo dell’Italia che è patrimonio dell’umanità. “.

San Giuliano quindi, in un solo anno al governo,  ha salvato Venezia dall’acqua alta. Prendete nota. Peccato che nei mesi scorsi non avesse ancora coscienza dei suoi poteri taumaturgici. Ci saremmo risparmiati morti e disastri dell’alluvione in Romagna e in Toscana, ma sono sicuro che se il santo ministro si fosse impegnato un po’ di più, ci salvava anche noi, in fondo gli bastava dire due parole: “Ma quale alluvione, era solo un acquazzone”.

Venezia, quindi, non è in pericolo.”
Gennaro Sangiuliano, Ministro della Cultura

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole a capo
Francesco Papallo: “Incoscienza” e altre poesie

Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.”
(Ennio Flaiano)

SCRIVENDO

Guarda più da vicino la parola.
Lei non ti riconcilia con il mondo,
è un ponte raso al suolo,
una bestiola ferma sulla riva,
tigre di carta che non serve
a traghettare l’anima sull’altra.
Scrivendo a capo chino,
ti credi inoffensivo ma sta lì,
nelle tue mani, la furia
che devasta e sparge sale
sulle pagine a rischio di estinzione
che brucerai per fedeltà al segreto.
Parola in nerofumo d’olocausto,
azione a specchio col grido e il singhiozzo.
Solo il suo corpo dilaniato vive
come altra linfa vive nella cenere.

 

INCOSCIENZA

Fuoco incrociato a letto sul cuscino,
esclamazioni opposte nella mente.
Tutto si fa più piccolo a quest’ora,
gli uccelli muti ai trespoli,
il cielo illune che si rannicchia
nell’orma del boato.
Pieghi la schiena e chiudi le tue ali
sotto una pioggia di pietrisco
ma gli occhi indugiano nelle pozzanghere
al macero di brevi arcobaleni.
Sorride all’inaudito
il tuo respiro corto.
Non sente le sirene né gli aerei,
non vede la cortina
che ci cancella il volto.

 

ETERNI RITORNI

Mi legge dentro il bosco ammutolito,
strappa dagli occhi pagine di nebbia.
Cado in ginocchio e bevo
il languore di un cervo
che si allontana verso la torbiera.
Quello era il luogo dove ti sfidavo
all’amore del rischio; lì lasciammo
che avvizzissero al sole
ranocchie e salamandre. Lì, nel punto
in cui disobbedienza e furia
non ci insegnarono a spogliarci,
disperdo oggi con la tua leggerezza
le ceneri assetate del mio corpo.

 

CHIARALUCE

A nostra volta muti dalla nascita
delle domande ultime, scambiamo
l’impronta che precede
per l’unico sentiero ed orizzonte.
La verità che claudica e s’ingolfa
nessuno l’accompagna al suo destino,
lei che evapora dal giorno alla notte,
lei che resta confitta nella carne.

Dove un mattino fu raccolta
tra le costellazioni di rugiada
che imperlano le spighe,
come diserta ora
la parola
quella vertigine di chiaraluce,
come deraglia
lontano dal suo cuore.

 

MIGRANTI

Scheggia dai denti a sciabola,
una falesia in bilico
su un mare di mercurio e argento vivo:
questa la loro terra
che trovano incagliata fra le ossa.

La medicina è un viaggio
dove ingannare il tempo
contandosi le costole incrinate.

Resti di polveriera riporta la risacca,
figli della diaspora
che ovunque voli inseguono
lo sfarfallio radiato
dal luogo dell’addio.

(Testi tratti dalla raccolta inedita “La linfa della cenere“)

Francesco Papallo (1987, Napoli). Alcuni componimenti poetici sono stati pubblicati nella rivista di Elio Pecora “Poeti e Poesia”, nella rivista “La clessidra” all’interno di una rassegna dedicata ai poeti campani, e in altre riviste tra cui “Atelier”, “Inverso”, “Kairos”, “Mosse di Seppia”, sul blog “ItaliaMagazine” curato da Antonietta Gnerre, su “Transiti poetici” di Giuseppe Vetromile, su “Poetrydream” e nell’antologia “L’assedio della poesia 2020” curati da Antonio Spagnuolo. Selezionato tra i finalisti della IV edizione del Premio Poesia a Napoli. Alcuni suoi articoli e racconti brevi sono apparsi sul “Manifesto” e sul “Mattino”.

LO SCAFFALE POETICO

Segnalazioni editoriali interne (o contigue) al mondo della poesia.

  • Rossana Jemma, La strada verso il canto, RP Libri, 2023
  • Daniela Stasi, Il respiro del lombrico, Il Convivio Editore, 2023
  • Monica Buffagni, Piume di ghiaccio. Dell’amore e di altri accidenti, Kanaga Editore, 2019
  • Leonardo Sinisgalli, Dimenticatoio, Mondadori, 1978 

Cover: immagine di Stefan Keller

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

“Io prendo posizione per la pace e il rispetto dei diritti umani:
fermiamo i massacri, cessate il fuoco! ”
Firma l’appello del mondo della scuola per la Pace e la Giustizia

Il mondo della scuola per la Pace e la Giustizia.
Io prendo posizione per la pace e il rispetto dei diritti umani: cessate il fuoco!
Fermiamo i massacri in corso contro la popolazione civile!

Alle AUTORITÀ
All’OPINIONE PUBBLICA 

Quanto sta avvenendo in Medioriente tra Israele e Palestina, ma anche in Ucraina e in numerose altre parti del mondo, ci addolora e ci preoccupa.

Ci sono inoltre guerre troppo spesso dimenticate, (perché ritenute “lontane” da noi) soprattutto in Africa dove, da sempre, le potenze economiche mondiali attuano un politica neocolonialista e anziché favorirne lo sviluppo, tendono ad accaparrarsi terre, aziende, materie prime di cui è ricca la terra africana, e fomentano l’odio (di cui non c’è proprio bisogno dopo che ne abbiamo distribuito tanto noi nazioni “occidentali” ) tra le diverse fazioni e tribù.

Le conseguenze del terrorismo e delle guerre sono spaventose: le morti innumerevoli (tra cui quelle di moltissimi bambini e bambine), la distruzione di case e infrastrutture, anche ospedaliere e scolastiche, la separazione di famiglie e le popolazioni terrorizzate, senza cibo-acqua-elettricità.

Ci sentiamo smarriti e impotenti nel nostro ruolo di educatori ed operatori della scuola.

Nell’esperienza formativa dobbiamo educare ai valori costituzionali di democratica e pacifica convivenza dei popoli, di giustizia e libertà, di gestione attiva e non violenta del conflitto, ma i nostri allievi vedono ogni giorno immagini di violenze efferate, coetanei uccisi, mutilati, traumatizzati dalla guerra e sono immersi in una cultura di guerra, che impedisce il tentativo di comprensione delle ragioni dell’altro e riduce la complessità dei contesti allo scontro tra tifoserie: soprattutto i media semplificano le questioni, impoveriscono concetti e diffondono lessico improprio, inducendo polarizzazioni e dando risonanza alla propaganda di guerra delle parti in conflitto.

Come lavoratori e lavoratrici nel campo del sapere sappiamo bene che nessun conflitto armato risolve i problemi, anzi prepara ad altre guerre ancora più sanguinose, semina odio ed accresce desiderio di vendetta, ma rischiamo di essere inefficaci nell’affermarlo, perché i nostri allievi si rendono conto che una cosa è quello che imparano a scuola e un’altra è quello che avviene nella realtà.

Le guerre alimentano il mercato delle armi e delle lobby internazionali delle aziende produttrici di armi, che, avendo la “forza economica” per condizionare i parlamenti e soprattutto i governi, “fomentano” le guerre e tendono a  farle protrarre.

Non vogliamo assistere rassegnati allo svuotamento della nostra funzione educativa e culturale; in particolare in questo momento storico di recrudescenza della violenza e di indebolimento degli organismi internazionali per la pace, riteniamo che formare le nuove generazioni significhi anche assumere in prima persona l’impegno civico per la pace: israeliani, palestinesi, ucraini, e tutti i bambini e i ragazzi delle nazioni coinvolte in guerre, devono poter trovare sostegno e protezione da parte del mondo adulto, dei loro educatori, devono poterci vedere oggi come testimoni di rifiuto radicale della guerra e poter dire domani “so che tu allora hai preso posizione per la pace”! Non possiamo più tacere di fronte alle gravissime violazioni dei diritti dei bambini a cui assistiamo impotenti: è la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, sottoscritta da 193 Paesi nel mondo, che ci impegna a mettere al primo posto l’interesse superiore del bambino (art 3) e in particolare a rispettare il Diritto alla vita (art 6).

Per tutto questo, in coscienza e in coerenza con il nostro ruolo di lavoratrice/lavoratore della scuola, rendiamo pubblico questo

APPELLO PER LA PACE                

indirizzato:                                                             

Ø all’Onu, dove sono rappresentate tutte le Nazioni del mondo e che ha il compito di prevenire futuri conflitti, mantenere la pace e rispettare il Diritto Internazionale.

Ø al Governo Italiano che deve far rispettare la nostra Costituzione che, come recita l’art. 11 della Costituzione, ripudia il ricorso alla guerra per risolvere le controversie internazionali.

Ø al Parlamento Europeo    che rappresenta i cittadini di tutta Europa

Chiediamo alle suddette Istituzioni che facciano tutto quanto è in loro potere per far rispettare la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

Ci appelliamo ad esse perché si impegnino per far tacere le armi, affidando alle trattative diplomatiche la risoluzione dei conflitti in corso, la restituzione contestuale degli ostaggi e per l’accesso degli aiuti umanitari.

Chiediamo che si arrivi al cessate il fuoco immediato e allo stop al massacro a Gaza del popolo palestinese, per il rispetto del diritto umanitario internazionale.

Chiediamo che anche per il conflitto in Ucraina si organizzi una Conferenza di Pace dove venga rispettato il Diritto internazionale.

Da parte nostra continueremo quotidianamente ad impegnarci a scuola e nella società affinché progrediscano idee e pratiche di Pace e Nonviolenza.

Ci  dichiariamo disponibili per una mobilitazione della società civile che dia voce al rifiuto della guerra e del terrorismo che ponga al primo posto il valore supremo della pace, quale unico scenario in grado di perseguire umanità e giustizia.

Comitato Scuola Pace Costituzione

Per informazioni: scuolapacecostituzione@gmail.com

L’appello si può sottoscrivere  [Qui]

FLAMENCO: FARE MUSICA COL CORPO:
4 incontri al Musijam condotti da Rita Marchesini

PROPOSTA DI MASTERCLASS DI FLAMENCO A MUSIJAM

4 incontri al Musijam condotti da Rita Marchesini: sabato pomeriggio, dalle 14,45 alle 16,45: 9 dicembre 2023, 13 gennaio, 10 febbraio e 9 marzo 2024.

Evidentemente 18 è un buon numero per il Flamenco a Musijam, l’Associazione musicale e culturale che ha sede a Ferrara in Viale Alfonso I d’Este n° 13: lo scorso 18 giugno si è svolto un evento dal titolo Carmen Flamenca che ha previsto due momenti significativi, distinti ma strettamente collegati. Al mattino Rita Marchesini della Compagnia El Puerto Flamenco ha tenuto un laboratorio, aperto anche a chi non ha mai avuto nessuna esperienza di danza.
Alla sera la Compagnia si è esibita nello spettacolo omonimo, nel quale sono intervenuti anche, come quadro dei danzatori, i partecipanti al laboratorio. Da questa stimolante esperienza è nata una collaborazione tra l’Associazione e la docente Rita Marchesini, che si è concretizzata nel progetto, illustrato il 18 novembre scorso, di una Masterclass di Flamenco da tenere a partire da questo dicembre fino ad arrivare a Giugno del 2024.

Alla presentazione sono intervenute alcune delle partecipanti al laboratorio di giugno, desiderose di riprendere e ampliare quella esperienza, e altre persone interessate. L’idea, ha così illustrato Marco Ferrazzi coordinatore delle attività della Scuola di musica, è di formare una classe con incontri distanziati ma continuativi, in modo che si possa dar vita ad un percorso di base che abbia una sua completezza.

Si è già stabilito un primo pacchetto di quattro incontri programmati nelle seguenti date, tutte di sabato pomeriggio, dalle 14,45 alle 16,45: 9 dicembre 2023, 13 gennaio, 10 febbraio e 9 marzo 2024.
La docente Rita Marchesini ha quindi delineato gli aspetti salienti del percorso che offrirà alle/agli allieve/i.
Si partirà dalle tecniche di base del flamenco, il cui complesso linguaggio vede entrare in scena coordinazione corporea, ritmica e presenza scenica.  La ritmica, prodotta con il corpo attraverso i piedi, le mani, le braccia e i fianchi, si sposa alla gestualità e contribuisce all’attitudine alla fierezza che rappresenta la cifra caratteristica di questa danza che è anche una visione di sé stessi e la manifestazione della propria espressività.

Si fa musica col corpo e col volto. Il laboratorio prevede la realizzazione di semplici ma particolarmente attraenti e coinvolgenti coreografie dette Sevillanas che potranno anche essere proposte al pubblico.

Per info e iscrizioni al laboratorio:
Musijam aps  cell, 3204878109
musijamferrara.aps@gmail.com

 

Vite di carta /
“Almarina”, un nome di ragazza nel titolo del romanzo di Valeria Parrella.

Almarina, un nome di ragazza nel titolo del romanzo di Valeria Parrella.

A pagina otto del romanzo Almarina aspetta nel corridoio del tribunale; scopro così che il titolo del libro è un nome di adolescente. Non ne sapevo nulla, pensavo al nome di una località o ad altro elemento vaporoso, senza associare la parola così lieve a un corpo.

L’ingenuità che a volte mi concedo è finita: ora vorrò sapere tutto di questa storia, di chi l’ha scritta. Entrerò curiosa nelle pieghe del racconto.

Scopro già nel prologo che chi legge è portato a procedere lungo un sentiero ben tracciato: le parole della narratrice sono luci che fanno avanzare solo di pochi passi per volta. Dove siamo? Nell’edificio grigio del Tribunale dei minori di Napoli.

Elisabetta Maiorano, la protagonista che parla in prima persona, ha addosso il suo vestito migliore: la causa che si discute riguarda lei e la sua adozione di una ragazza rumena, fuggita in Italia insieme al fratellino dopo un’esperienza famigliare di violenza e finita nel carcere minorile di Nisida per un reato minore.

È lei quella che attende fuori dall’aula, Almarina. In carcere Elisabetta è stata la sua insegnante di matematica, si sono conosciute nella scuola, “l’unico spazio senza sbarre alle finestre”.

Durante la lezione capita che Almarina si addormenti sul banco, sapremo qualche pagina dopo che ha vegliato e pregato per tutta la notte. Almarina non ha mai freddo, ma per darle calore non bisogna toccarle il braccio, sennò si sente “un pezzo duro…come legno scanalato”, lo stigma delle botte che ha preso dal padre, qualcosa di non umano.

Elisabetta prende a proteggerla, a provare una predilezione da cui non sa e non vuole difendersi.

Elisabetta. Il libro è suo: la storia è raccontata da lei, in soggettiva. Almarina è la luce che la inonda nel prologo tra il grigiore del Tribunale, a lei brilla “la luce del futuro negli occhi“.

Dal momento in cui aspetta di sapere la sentenza dei giudici, tutte donne, relativa alla sua richiesta di adozione, la narratrice va all’indietro a raccontare la sua vita di prima, il suo lavoro di insegnante a Nisida e l’umanità speciale con la quale è in contatto ormai da anni.

Recupera il suo vissuto di moglie e in seguito di vedova, la soffocante famiglia del marito rappresentata dalle cognate, la vana aspirazione a diventare madre.

Si assicura di averci alle spalle, noi lettori, e ci fa strada nelle sue giornate piene di solitudine. La luce delle parole sempre accesa che ora proietta il cono di luce sui dettagli, ora si apre a ventaglio sull’orizzonte, quello della città, mentre guida al mattino presto verso Nisida, o che vede insieme agli alunni dalle finestre del carcere.

All’età di cinquant’anni, il suo sguardo è pieno di disincanto. Stando dietro di lei vediamo la bellezza di Napoli, una bellezza che si impone a oltranza in mezzo al dolore e alle fatiche di chi ci vive. Nisida è un’isola calata dentro quella stessa bellezza, eppure contiene un mondo così diverso, “che quando entro mi devo continuamente ricollocare, riposizionare, guardarmi le spalle e dentro”.

Succede ogni giorno da anni. Quanto tempo si può resistere in un posto così? A cinquant’anni la risposta si trova: “Dipende da quanto sai resistere alla frustrazione di essere inutile”. I ragazzi che sono a Nisida vengono e vanno, senza preannuncio né riti di commiato. Spesso se li riprende lo svantaggio sociale da cui sono venuti, spesso passano al carcere degli adulti.

Elisabetta ha incamerato tutto in questi anni, ha subito gli sguardi bassi dei suoi alunni, l’indifferenza con cui tollerano le spiegazioni di matematica, perfino il disprezzo non detto. Ma è come se dicessero: “Tu sei un insegnante e gli insegnanti sono senza sorte, gente che non arrischia nulla della propria pelle” e solo aspetta tredici volte all’anno lo stipendio dallo Stato.

Ad Almarina si lega, mentre guardano il mare. La protegge, mentre è in carcere, le fa vedere la vita di fuori, portandosela a casa in permesso nel giorno di Natale; la va a cercare nella parrocchia che l’ha accolta dopo il carcere. Ora in Tribunale aspetta che diventi sua figlia, e lei ne sia la madre. Anche Almarina oggi indossa il vestito più bello, è fucsia e viene dall’armadio di Elisabetta, che subito glielo ha donato, e come le segna bene i fianchi.

Vorrei citare molte più frasi dal libro. Nicola Lagioia, che l’ha presentato allo Strega nel 2020, riconosce questa “forza linguistica rara” che ha preso anche me, mentre procedevo tra le pagine alle spalle della narratrice.

Eppure quando il libro è finito ho provato la sensazione di essere  bruscamente stoppata. Ho sentito esatto esatto quel senso di non finito, di poco sviluppato, che mi aveva anticipato l’amica Sabina, un’altra vorace lettrice, che legge con desiderio e nel mentre vigila sulla efficacia dei racconti e sulla bellezza delle storie.

Sono tornata a rileggere il prologo, più volte, e ho riletto anche le righe finali col loro sapore di geometria applicata alla vita. Niente, mi sento abbandonata da Elisabetta. Che poteva avanzare di più nel suo futuro, dargli più luce. Fino a superare l’ostacolo, superare la paura di tornare nella solitudine di non-madre.

Nota bibliografica:

  • Valeria Parrella, Almarina, Einaudi, 2019

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Il rapper PUFULETI alla Officina Meca di Ferrara: sabato 9 dicembre alle ore 21.00

CATARSI AIWA MAXIBON è il secondo album di Giuseppe Licata qui PUFULETI, uomo dei pilastri dalla Dallas di Agrigento. Siciliano di origine emigra in Germania all’età di 4 anni. Impara l’italiano dalla mamma e dalla televisione. Giuseppe canta in tedesco per più di una decade per poi impadronirsi con Tumbulata, album d’esordio acclamato dalla critica, della lingua madre. A questa dona un fascino sgangherato e spigoloso rendendola un’arma affilata con cui tagliare basi e beat da un lato ecumenici per quanto rimandano alla vecchia scuola, dall’altro fortemente rappresentativi della New Weird Italia.

Supportato dalla direzione artistica di Lapo Sorride (Misto Mame), e dai beatmaker della crew C.O.T.A. (tra cui l’immancabile Wun Two), l’album si presenta con 10 brani lo-fi/hip hop in cui Pufuleti percorre nuove vie semantiche attraverso il dispiegamento di una matassa che diventa una vera e propria Catarsi in una continua ricerca di un assurdo capace di dar senso alle piccole cose. Mai leccare un Maxibon dalla parte sbagliata.

Chi lo ha visto dal vivo difficilmente lo dimenticherà. Chi non lo ha fatto dovrebbe proprio farlo.

Officina Meca APS – Ferrara

Ingresso riservato ai soci Arci

Associazione Difesa Ambientale Estense: Chi siamo e cosa facciamo

Associazione Difesa Ambientale Estense: Chi siamo e cosa facciamo.

Siamo una associazione di volontari, abbiamo l’obiettivo di pulire il nostro fiume, i canali cittadini e il nostro mare dai rifiuti, che vengono sversati purtroppo quotidianamente. Tra noi abbiamo giovani e anziani, studenti e lavoratori. Da più di un anno, operiamo anche nell’ambito di una convenzione stipulata tra la nostra amministrazione comunale e la casa circondariale: escono dal carcere alcuni detenuti e raccogliamo rifiuti insieme, tutti insieme.

Tutto ciò è molto formativo, a dire il vero lo è forse per noi ancor prima che per i carcerati: si lavora per l’ambiente, ci si parla e ci si confronta su molti temi.
Sono davvero valide le persone che il giudice ha ritenuto di poterci affiancare: l’iniziativa è per noi occasione di crescita e, perché no, una iniezione di nuova linfa.
Più volte, noi come gruppo e pure in collaborazione con i detenuti, siamo andati a pulire la zona di via della canapa, nelle immediate vicinanze della motorizzazione civile.
Abbiamo sempre tenuto traccia di queste bonifiche: è troppo bello il boschetto che si trova tra via della canapa e il quartiere barco, ci piace in modo particolare e vogliamo mantenerlo sempre in bella forma.
Se consultiamo gli archivi fotografici e la banca dati di difesa ambientale estense, vediamo come, negli anni, la quantità e la mole dei rifiuti si sia progressivamente ridotta.
Sicuramente noi volontari ce l’abbiamo messa tutta, e, nelle ultime due occasioni, erano in prima linea al nostro fianco le persone del carcere, che sono molto volenterose, ma vogliamo evidenziare una sempre maggiore consapevolezza e sensibilità dei nostri concittadini: ogni volta che i passanti ci vedono, si complimentano con noi: questo non può che far piacere, e non è tuttavia l’unica freccia al nostro arco.
Alla fine di ogni raccolta di rifiuti, noi lasciamo sempre un cartello, che ricorda che è vietato sversare e sensibilizziamo continuamente tutti: i bambini dalla scuola materna alla primaria, i ragazzi, gli adolescenti e gli universitari, gli autoctoni così come gli immigrati.
Teniamo traccia di ogni nostro passaggio, per poter capire come stiamo andando, e quali quartieri sono più virtuosi.
Alcuni di noi lavorano nel settore del disinquinamento, altri operano in qualità di volontari, ma, attenzione, trattasi di volontari esperti e competenti, che intendono dare a Ferrara un’aria e un’acqua più pulite.
In una parola: Difesa Ambientale Estense è un’associazione che si fa rispettare, provare per credere.
Vi aspettiamo nelle prossime raccolte: il 9 dicembre il ritrovo è al Darsena city
Associazione Difesa Ambientale Estense
Per informazioni e adesioni, visitate le ns pagine facebook e instagram