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Memofilm, il cinema che fa bene alla salute. Cortometraggi contro l’Alzheimer

Il cinema fa bene alla salute. Non è un modo di dire, ma il risultato di una ricerca scientifica documentata con un volume e un dvd in uscita mercoledì 15 gennaio. L’opera che documenta questa esperienza si intitola “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”, edizioni Mimesis, ed è il frutto del lavoro portato avanti sul campo con persone malate di demenza. Cinque anni di sperimentazione dimostrano che le emozioni non solo ci fanno sentire vivi, ma sono fondamentali per combattere lo stato di apatia, distacco e perdita di identità tipico delle malattie degenerative. Ricordi, passioni, turbamenti tengono aperto il flusso vitale, fermano il tempo e allontanano l’avanzata e il peggioramento dell’Alzheimer. Quel senso di benessere che ci lega alle persone che amiamo insieme con la forza dei ricordi affettivi ed emozionanti si rivelano capaci di tenere a bada il male di cui soffrono 5 persone anziane su 100 e contro il quale non esiste alcuna terapia farmacologica.
L’idea nasce dall’esperienza personale di Eugenio Melloni, sceneggiatore che vive a Ferrara dove ha ambientato La vita come viene diretto da Stefano Incerti con protagonisti Valeria Bruni Tedeschi e Alessandro Haber e che ha firmato la sceneggiatura del primo cortometraggio in 3D girato da Wim Wenders, Il volo, del 2010.
A fare accendere la lampadina che dà il via a questo lavoro, per Melloni è il dramma di un’esperienza personale. “Mio padre – dice – era ammalato e non riusciva a ricordare neanche che mia madre era morta. Dopo averglielo ripetuto giorno dopo giorno, abbiamo deciso di fare un film. E abbiamo scoperto che funzionava. Oltre ad avere una maggiore consapevolezza della realtà che lo circondava, per lui sono diminuiti anche i disturbi di comportamento”.
L’uso del film come terapia conquista Giuseppe Bertolucci, regista e sceneggiatore in tante opere anche al fianco del fratello Bernardo, nonché direttore della Cineteca di Bologna. E’ così che il lavoro diventa un progetto con un’équipe, capitanata da Eugenio Melloni affiancato da Luisa Grosso con il patrocinio della Cineteca, la collaborazione della Fondazione Giovanni XXIII e il supporto finanziario di Unipol.
Le persone anziane afflitte da forme di demenza hanno il problema della memoria che svanisce, piombano nell’impossibilità di ricordare cose che riguardano il loro quotidiano, ma anche i fatti salienti della loro vita, nomi e identità di familiari e persino di se stessi. Il Memofilm è un cortometraggio di circa venti minuti dentro al quale sono raccolti i ricordi legati alla persona malata, brevi interventi di familiari, fotografie che documentano momenti importanti della sua vita, musica e passioni legati alla sua identità. Il film serve al malato di Alzheimer per ricordare chi è, per continuare a dare un senso ai luoghi e alle persone intorno a lui. La visione quotidiana di quel breve filmato punta a far questo; e ci riesce. “Netti miglioramenti nella patologia sono stati riscontrati in 9 casi su 13”, dice con orgoglio Melloni.
E ora volume e dvd in arrivo in libreria serviranno a estendere l’esperienza. Una sorta di manuale per l’uso per riprodurre questa terapia cinematografica su misura per ciascuna persona. Spezzoni di vita, immagini del passato, interviste al malato e ai parenti che servono a stare meglio e a combattere la degenerazione. Magari con il coinvolgimento di associazioni, enti locali, istituzioni che potrebbero fare loro il progetto e introdurlo anche sul territorio. “La nostra équipe – assicura Melloni – è pronta ad affiancare chiunque voglia realizzare un cortometraggio personalizzato per una persona che soffre di questo male”. In fondo al libro l’indicazione: “Si consiglia di somministrare il Memofilm ogni giorno, anche più volte al giorno. Il Memofilm non ha controindicazioni, ma è raccomandato il coinvolgimento di almeno un professionista”.

I film a tema: “50 volte il primo bacio”, “Risvegli”

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Tornando a casa

Da qualche tempo, chi si trova ad attraversare il settore arrivi e partenze della stazione ferroviaria di Roma Termini, nel pomeriggio di un giorno feriale, incontra un gran numero di persone in attesa di fronte alla testa dei binari centrali. Sono i pendolari, che aspettano di sapere da dove partirà il treno regionale che li riporterà a casa. I loro sguardi scrutano con un misto di impazienza e rassegnazione i tabelloni elettronici, fino al momento in cui alla destinazione e all’orario (spesso indicativo), si aggiunge finalmente il numero del binario. Allora, con una manovra fulminea, degna di uno squadrone di cavalleria napoleonica, i viaggiatori che hanno ricevuto la rivelazione si staccano dalla massa e muovono verso il proprio treno, sperando di trovare un posto a sedere.

Spesso bisogna raggiungere uno dei lontani binari esiliati in fondo a quelli “normali” per far posto alle “frecce”. Cinquecento metri da percorrere a passo molto svelto, anche perché non è infrequente che il tempo a disposizione, tra l’“apparizione” del binario e la partenza del treno non superi i venti minuti. Eppure abbiamo visto persone solidali e dignitose, che raramente perdono la pazienza nonostante la stanchezza e i disagi; nemmeno quando i convogli sono – e accade spesso – molto o troppo affollati. Trenitalia, dal canto suo, vive da tempo una sorta di fascinazione futurista per l’alta velocità e sembra interessata soprattutto a stabilire nuovi record “casello-casello”. Poco si cura, la nostra “compagnia di bandiera” del trasporto locale, delle cui inefficienze accusa, non sempre a torto, le regioni. Resta il fatto che lo stato delle cose peggiora ogni anno come testimonia il recente rapporto di Legambiente “Pendolaria 2013” (vedi). Nel nostro Paese si invoca spesso la certezza del diritto; per i pendolari di Roma Termini non c’è più nemmeno quella del binario.

Ascolta il commento musicale: Bruce Springsteen, “Downbound train”

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Tecnologie da indossare, ma la ciber-mamma no!

Tecnologie intelligenti da indossare come capi di abbigliamento: reggiseni che ci informano se mangiamo troppo; bracciali che ci dicono quanto abbiamo camminato e se abbiamo dormito abbastanza, auricolari che ascoltano il battito cardiaco, astine nel colletto che segnalano se la postura è corretta, fascia che registra i parametri biomedici, guanto con sensori a ultrasuoni per vedere all’interno del corpo. Una serie di dispositivi promette di migliorare l’efficienza, come gli occhiali per controllare le mail e connettersi alle app; i servizi, come le lenti a contatto in cui vengono proiettate le informazioni richieste e le mail, previsioni del tempo, mappe stradali, e altro; le prestazioni, come il dispositivo Golfsense che migliora lo swing registrando velocità e direzione; il tempo libero, come la felpa Kinect, una piattaforma di gioco indossabile e lavabile; il benessere, come la biancheria intelligente che consente di monitorare il sudore; la forma fisica, come l’occhiale da piscina che registra il battito e invia il feed back sulle lenti; la sicurezza, come la bici che avverte il pronto soccorso in caso di caduta. Le tecnologie rispondono soprattutto all’esigenza di ridurre l’ansia, ad esempio il vestito Mimo, per neonati, analizza le attività vitali del bambino durante le ore di riposo e non solo.
L’elenco degli oggetti è già molto ricco: il mercato delle tecnologie indossabili passerà da 1.4 miliardi di dollari nel 2014 ai 19 miliardi del 2018: saranno 50 milioni gli aggeggi connessi a internet nel 2020. Gli strumenti per il fitness negli Stati uniti hanno raggiunto 854 milioni di dollari nel 2013 e arriveranno a 1 miliardo questo anno.
Dal bioritmo alla gestione degli appuntamenti, dal gioco, ai servizi: il nostro corpo diventerà la piattaforma digitale in grado di scambiare dati, di raccogliere e distribuire informazione nelle più diverse direzioni. Alcune di queste tecnologie diventeranno presto irrinunciabili per tutti, o quasi.
Migliorano il benessere o condizionano ogni nostra azione? Sono in grado di indirizzarci verso le migliori azioni o eliminano ogni libero arbitrio? Ovviamente nessuna delle due cose. Certo, si apre un nuovo scenario per la vita quotidiana.
Una cosa mi ha lasciata davvero sgomenta: Mother, una sorta di Barbapapà in plastica bianca, con un claim che recita “la mamma sa tutto” ed è venduto a 199 dollari. L’aggeggio, connesso a un sensore, controlla la temperatura della camera del bambino, se ha dormito abbastanza, se qualcuno è entrato in casa. Ma l’apparecchio, in realtà, è rivolto ad adulti; vede tutto: se abbiamo preso le pillole, perfino quanto tempo abbiamo impiegato a lavarci i denti. Rafi Haladjian, l’ideatore, presenta Mother come una mamma 2.0, come una mamma vi conosce e sa tutto di voi, senza avere bisogno di domandarvelo, ha le proprietà di una mamma reale, ma è programmabile e non può sbagliare!
Aiuto! Per tanta intrusione, non bastava la mamma vera?

Ascolta il commento musicale: Alberto Camerini, Rock’n roll robot

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma)
Laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

maura.franchi@unipr.it

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L’originale e prodigo Tebaldi: scrittore, maestro degli zingari e dei detenuti

DINO TEBALDI
(decennale della morte)

Redattore della “Gazzetta Padana” e poi del settimanale “Voce di Ferrara”, insegnante elementare, maestro per zingari (dei quali ha studiato la lingua), insegnante di alfabetizzazione alla lingua italiana per detenuti stranieri nelle carceri di Ferrara e redattore di “Arginone”: bimestrale riservato ai detenuti e frequentatori della biblioteca carceraria, Dino Tebaldi (1935-2004) è stato un originale esemplare (così come molte delle sue pubblicazioni) di testimone del “tempo” ferrarese. La caratteristica, quasi la vocazione, sociopopolare dei suoi testi e del suo impegno umano e professionale non può che distinguerlo da coloro che sanno solo, affermava Tebaldi: «sbraitare, inseguire effimeri allori, per poi stringere tra le mani, alla fin fine, un pugno di mosche».
I suoi numerosissimi libri, apparsi talvolta per conto di editori locali e altre volte “tirati” in rare edizioni numerate fuori commercio, spaziano fra la critica e cronaca storico-letteraria e di costume, la narrativa e la didattica. La sua scrittura, pervasa di sottile ironia e di garbo descrittivo, rispecchia quell’entusiasmo conoscitivo e quella serenità interiore di cui solo gli uomini saggi sono depositari. Dino Tebaldi era una sorta di Diogene contemporaneo munito di computer portatile, che utilizzava la sua premeditata “distanza” dal caos quotidiano per osservare meglio la realtà che lo accoglieva e che archetipicamente gli apparteneva.
Una delle sue pubblicazioni fondamentali è il corposo tomo Ferrara. Le strade del silenzio. Lo splendido volume di 320 pagine, con 250 fotografie e 75 piante urbane, è suddiviso in due parti, la prima: Storia urbana, indaga sulla evoluzione urbanistica e architettonica (dalle “radici” passando attraverso le celebri “addizioni” e, scherza l’autore, le deprecabili “sottrazioni”) della città, la seconda: Strade del silenzio, percorre le vie e le piazze raccontandone vicende e atmosfere. Commenta Carlo Bassi in una delle prefazioni: «È la forma irripetibile del loro spazio delimitato da quelle cortine edilizie; è il loro rapportarsi con altre strade mediante incroci disegnati e segnati e dimensionati in modo particolare e rivelatore; è il loro collegarsi con altri spazi viari analoghi a formare sequenze di luoghi; […] è l’odore che essi possiedono e trasmettono, il quale, insieme al colore proprio delle loro parti, dei loro intonachi, dei loro marciapiedi, tende a coinvolgere in modo più sottile e sofisticato aspetti della nostra sensibilità […]; è l’aria che circola in essi e fa bianco l’azzurro del cielo che li copre; è il suono delle voci e dei rumori e dei silenzi che in essi si rincorrono, turbandoci e acquetandoci».
La sterminata produzione di Dino Tebaldi (oltre cinquanta pubblicazioni fra volumi, volumetti e plaquettes) annovera fra i tanti i seguenti titoli: Omaggio a Corrado Govoni (1973), G. Ungaretti. Nel paese delle acque (1976), Ferrara 1920. Una stagione poetica (1980), Il dialetto ferrarese nella scuola elementare (1982), Amori impossibili (1984), Morire a Carlopago (1985), Pronto, ma chi è? (1986), Una didattica per alunni che viaggiano (1989), Ferrara. Le strade del silenzio (1991), Il Palio di Ferrara (1992), La cerchia intorno (1993), Il Cardinale non volle (1996), Dietro le sbarre (1998).

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Un viaggio in precario equilibrio sul bordo delle cose

Un viaggio che inizia come una spinta e finisce ritrovando un senso, da cui ripartire nuovamente. Il romanzo di Gianrico Carofiglio Il bordo vertiginoso delle cose (Rizzoli) è un viaggio alla ricerca di contatti che hanno fatto parte del passato del protagonista, Enrico Vallesi, uno scrittore che non ha più un presente, tanto meno un futuro. C’è stato un passato di successo e di fama, di passioni e persone che, in qualche modo, Enrico riuscirà a recuperare: l’amica Stefania molto diversa perché cambiata dalla vita, la professoressa Celeste intatta nella stessa bellezza di un tempo, il fratello Angelo non così lontano come può essere un fratello che non si vede da anni, il compagno di scuola e di lotta Salavatore andato per sempre.
Ogni passo di questo viaggio di ritorno alla terra d’origine è solo apparentemente un vagare: i luoghi e gli uomini, anche quelli senza nome, servono a racimolare frammenti di un io piuttosto a pezzi. La direzione imboccata è una traiettoria che nasce dal ricordo molto vivido – anche per il lettore – e cosciente e dalla volontà inquieta di riappropriarsi della vita. I passi procedono, ma i pensieri li precedono, l’ansia è spesso compagna di viaggio.
Molti nodi sofferti di Enrico vengono affrontati e sciolti nella Bari che da tempo non frequenta più e che contiene radici, ricordi, adolescenza, violenza, lotta politica, primo amore. Enrico cerca e incontra, non tutto è per caso e ciascun incontro va verso quel senso. “Ci sono momenti nella vita di una persona in cui certe condizioni maturano. A quel punto basta un incontro casuale, come il nostro. A volte, poi, parlare con uno sconosciuto è più semplice, hai meno spiegazioni da dare”. Sono le parole di un professore con cui Enrico passa qualche ora e con cui si trova a raccontarsi, ad ammettere il proprio stallo, le scorciatoie del fallimento. Di fronte a tale autocommiserazione e a alla costante proiezione nel passato, il professore lo invita a immaginarsi fra vent’anni, a immaginare il rischio di non sopportare le parole che quel vecchio potrà dire a se stesso. Gli occhi di Enrico, allora, diventano umidi “senza preavviso” e di altre parole non c’è bisogno. Il professore è l’esempio di come le parole inutili debbano lasciare il posto a risposte precise e dirette, quelle di cui Enrico è alla ricerca.
Enrico cammina, si sposta, fa domande agli altri, vuole capire, ricostruire, scoprire e ritrovare, anche l’amore. Ritrova Stefania, un cara amica il cui ricordo aveva filtrato un’immagine che non combacia più con la donna che ha di fronte. Enrico ci prova a indossare con lei la maschera della cordialità, dell’apparenza, della “posizione stazionaria” su cui sembra non si abbia nulla di particolare da dire. Ma con Stefania non funziona, lei sa fare le domande giuste e arriva là dove Enrico si è nascosto, dove lo tiene inchiodato il blocco con la scrittura. La ragazzina che Enrico ricordava spontanea, è una donna sopravvissuta a una malattia devastante, è una donna che sa parlare di sè con l’immediatezza di chi ha imparato a sfrondare molto, forse tutto per diventare “meno prudente” e “meno dogmatica”. È la sua conquista, oggi può permettersi di dirlo.
Il viaggio non è ancora finito. Di Celeste Enrico si era invaghito al liceo, era la supplente di filosofia. Grande fu l’attrazione per quella giovane professoressa così bella e poco ortodossa che faceva volare in alto la mente. Fu per lei un amore quasi primitivo, fortissimo e doloroso per ciò che Enrico in seguito scoprì di lei, per il distacco e le sue conseguenze.
Sono passati tanti anni e, nella Bari che Enrico sta attraversando, Celeste è una docente universitaria, non è difficile individuarla. I pezzi stanno andando al loro posto, quasi da soli, se non fosse per quella sensazione fisica, “una vera tensione schizofrenica dei muscoli” che ancora trattiene Enrico, un ultimo impedimento che lo spinge di qua e di là in direzioni opposte, quella del passato e quella del presente, la retromarcia contro lo scatto in avanti verso Celeste. Anche quando la scelta è così vicina e la vediamo lì che basta poco, una direzione contraria si mette di mezzo e fa ombra. Il viaggio di Enrico è approdato alle porte dell’università dove Celeste è impegnata in una sessione di esami, Enrico è nei corridoi, può ancora andare via o andare avanti. Prima di incontrarla, lo sguardo si posa su un biglietto letto per caso in una bacheca: a noi preme soltanto il bordo vertiginoso delle cose, quel limitare di equilibrio, quella vertigine che ancora ti permette di scegliere se buttarti o no.

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Limerick e la decrescita infelice

DUBLINO – Happy new year Ireland. Giornate grigie che finiscono in un attimo, nuvole basse, pioggia e flooding alerts. Tempo per starsene a casa, annoiarsi su internet, al limite chiacchierare davanti alla stufa in un pub, una buona stout in mano. I banshee e il loro lamento sono solo leggende ma non si sai mai, e fuori dalla città sai che ti aspetta l’inverno irlandese. Panorami da cartolina in questa stagione cambiano faccia, diventano colline sassose e campi battuti dal vento. Il verde dell’isola di smeraldo assume toni scuri. Foschia e vegetazione che non cresce oltre il metro, as nature intended.
Giornata ideale per una gita fuori porta quindi, e la N20 che da Cork ti porta a Limerick a gennaio più che una promessa sembra una minaccia: 98km che tagliano l’Irlanda rurale, la food valley locale del burro, del latte, dei salumi e formaggi. Strada a “scorrimento veloce” che collega i grossi centri agricoli di Mallow e Charleville, in altri punti si restinge su una corsia. Sterpaglie e cottages a bordo strada. Tempo di percorrenza indefinito. Dipende dal traffico ed anche un po’ dal culo: se ti trovi davanti un trattore o un calessino stile tris condotto da un paio di ragazzini – si entra nelle midlands, le zone dei Tinkers, i gitani Irelandesi, e tutto e possibile – sit back and relax. Potresti averne per un po’.

La voce di Dolores O’Riordan, cantante dei Cranberries, è la musica ideale per accompagnarti in questo viaggio. Ode to my family il pezzo forte (ascolta). Le immagini quelle di Angela Ashes, per chi ha visto il film, tratto dal romanzo autobiografico di Frank McCourt. Entrambi di Limerick. Più o meno. Sicuramente più attuali che mai.
Perché non si arriva in un posto facile facile. Sei nelle Midlands, e qui la crisi ha colpito pesante. Ne vedi gli effetti reali. Limerick, terza citta’ della repubblica, 90.000 anime circa sulle sponde del fiume Shannon, si ritrova una percentale di disoccupazione attorno al 23%, il tasso di abbandono scolastico più alto d’Irlanda e quartieri popolari realmente degradati e no-go come la nota area di Moyross.

Come se tutto ciò non bastasse il colpo di grazia alla città ha provato a darlo Dell Computer nel 2008. E ci sono quasi riusciti. Riorganizzazione e trasferimento della produzione, 1900 dipendenti a casa. Goodbye and Good luck. L’indotto locale che viene giù come un domino. Non pochi negozi del centro abbassano le saracinesche. Tutto un fiorire di cartelli for rent e for sale. Tiene botta la grande distribuzione anonima. Grandi magazzini tra angoli di città che ricordano l’America delle grande depressione. Alberghi di lusso per americani e beggars per la strada. Il settore edilizio che si ferma, con esso I progetti di rinnovo della città. Decrescita decisamente infelice.
Uno spaccato di Irlanda contemporanea, ed una città che nonostante tutto mantiene una bellezza dura, un rapporto inscindibile col fiume Shannon. Proprio su un isolotto dell’estuario nasce e si sviluppa attorno all’800 il primo nucleo urbano di origine vichinga, successivamente passato sotto controllo Inglese , dove sorge l’imponente King Johns Castle fatto costruire nel 1200 da Giovanni Senzaterra. Non a caso l’area viene chimata Englishtown. A cento metri di distanza l’altrettanto grande ed antica St. Mary Cathedral. Il diavolo e l’acqua santa fianco a fianco. Sull’altro lato del fiume Georges quay. Ristorantini e bars, tavolini all’aperto, le poche vie del centro rinnovate con negozi e attività salvatesi dal disastro economico (l’area di Irishtown). Nemmeno 10 minuti a piedi e ti ritrovi nelle zona di Newtown Pery – che assieme a Englishtown e Irishtown forma il centro cittadino – tra quello che rimane degli imponenti edifici georgiani che caratterizzavano la città ad inizio ‘800. Le strade sono quelle di Mallow street, O’Connell street, Pery street, The Crescent. Specchio di una grandezza passata, di quando il porto sullo Shannon era tra i piu importanti dell’Isola, commercio febbrile e navi che esportavano senza sosta i prodotti della food valley.

Come nel romanzo di Frank McCourt, dove la lista dei debitori della strozzina viene gettata e cancellata nelle acque dello Shannon, mi piace vedere il lato positivo di questa città. In particolare il panorama artistico vibrante e sempre in evoluzione, Limerick rimane sede dell’Irish Chamber Orchestra, dell’Irish World Music Centre, dell’Hunt Museum e Belltable Arts Centre. Nominata City of Culture per il 2014 vi è un calendario ricco di attività ed eventi (vedi). Ed accanto a spazi istituzionali non è raro vedere sottoscala di palazzi che diventano spazi espositivi per designer e giovani artisti. Voglia di sfidare la crisi e riemergere, come e dove si può. Chissà, forse senza troppe polemiche su permessi ed autorizzazioni varie.
A gennaio fa buio presto. E ora di rientrare. Un gruppo di ragazzi in tuta ti chiede una Fag (sigaretta). Meglio dargliene due con un sorriso in faccia, cosi tanto per non correre rischi. Dall’aeroporto internazionale di Shannon arriverà l’ennesima comitiva di yankees in cerca delle loro radici. Per loro percorso differente: Hilton Hotel, Bunratty Castle e ricostruzioni storiche con uomini in calzamaglia 365 giorni all’anno, gita ai laghetti di Killarney. Atmosfere alla Walt Disney. Le luci della città si accendono, riflettono nel fiume i nuovi palazzi di vetro venuti su come I funghi negli anni del boom. Guai a farsi mancare il proprio Palazzo degli Specchi, anche qui competizione tra città per vedere chi c’e l’ha più lungo. Luci che promettono una notte tipicamente Irish di birre e danze, mentre lo Shannon ti scompare alle spalle e torni a casa sulle note dei Cranberries.

Ascolta il commento musicale 

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Viaggio in Irlanda. Ho sentito battere il cuore irish

Potrei dire soltanto terra, pascoli verdi, rocce, vento e mare. Sole, anche, e acqua che rispecchia alberi e cielo. Ma il viaggio non finisce qui, l’Irlanda è tutto questo e anche di più, è la semioscurità di un pub, la fila degli studenti in divisa all’uscita dalla scuola, la prateria con la luce cangiante, il sole nel fiordo, l’odore pungente e acre degli allevamenti nelle fattorie dietro la main street a Moate, è la pinta di Guinness, il salmone affumicato e il pane scuro, il whistle e il bodhran, le pietre dei recinti nell’isola di Aran, le scogliere a Cliff’s Moher…
Ho sentito battere il cuore irish nella solitudine delle valli rocciose del parco del Burren, nella pioggia a Sligo, sulle rive dello Shannon a Clonmacnoise. Un battito che proviene da fattorie isolate dove non si vedono quasi mai gli umani, che si moltiplica in milioni di pulsazioni fra la gente che affolla Dublino in una serata tiepida e rarissima, che risuona all’unisono col respiro dell’Atlantico nella baia di Galway il mattino presto.
Per me in Irlanda va più volentieri chi sa entrare in intimo contatto con la natura nella sua forma ancora non contaminata dalle follie turistiche, chi si fa conquistare dalla sua bellezza fiera e non ostentata, semplice.
Meglio se si è un po’ malinconici, di quella malinconia sottile che fa pensare, che fa vivere gli istanti, che riporta indietro nel tempo, come può accadere davanti ai resti del castello di Kinvarra. Io sono così, e il mio viaggio l’ho vissuto ascoltando il cuore irish.

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“La finestra sul cortile” e i “commenti musicali”, novità di ferraraitalia

La “finestra sul cortile” e i “commenti musicali” sono le due novità che ferraraitalia propone ai propri lettori in questo primo scorcio di 2014.

La finestra sul cortile è una nuova sezione, alla quale si accede dalla colonna di destra (accanto alla vetrina degli articoli principali), nella quale trovano spazio due rassegne. Quella dei comunicati stampa è la vera innovazione: da qualche giorno (i più attenti lo avranno già notato) pubblichiamo tutti i dispacci che gli uffici stampa accreditati (quelli di istituzioni, enti, associazioni) quotidianamente ci inviano. Lettere e interventi dei lettori erano già presenti da qualche settimana, e ora trovano qui la loro nuova collocazione.

Crediamo in questo modo di rendere un utile servizio pubblico. I comunicati stampa vengono riportati integralmente, senza modifiche redazionali, secondo la formula del “riceviamo e pubblichiamo” e corredati dal materiale fotografico che li accompagna. In questa maniera diamo visibilità all’attività di Comune, Provincia, Regione, rappresentanze di categoria, enti vari, associazioni, fornendo al contempo a voi lettori informazioni significative e la possibilità di valutare in che maniera tali soggetti rappresentano se stessi, attraverso la loro autonoma produzione comunicativa, senza alcun filtro né intermediazione.

Ferraraitalia, nel confermare la propria preminente vocazione al commento e alla riflessione, apre idealmente questa “finestra sul cortile” e crea un ambito ad hoc per recepire anche le autonome elaborazioni di punti di vista esterni e offrire un libero spazio di intervento ai cittadini e alle loro rappresentanze collettive.

I “commenti musicali” sono, al contrario, una modalità parallela di espressione del nostro punto di vista. Accompagneremo, come per esempio già abbiamo fatto con la riflessione su Coop Estense, ad alcuni articoli un brano a tema intonato all’argomento affrontato o al taglio critico proposto, confidando così di offrire un ulteriore stimolo ai lettori: un modo per creare un doppio livello di lettura attraverso la suggestione aggiuntiva di testi e note.

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Le belle parole della brutta politica

Lo svarione sul recupero degli scatti di anzianità al personale della scuola è un ennesimo esempio a conferma che l’Italia è ormai un caso serio. Almeno politica e istituzioni lo sono di sicuro.
Il problema pare sempre lo stesso: un groviglio talmente attorcigliato di questioni su ogni tema, da sembrare l’esito premeditato di uffici complicazioni affari semplici che paiono al lavoro, indisturbati, da sempre.

Come si legge sui giornali, la questione “scatti” risalirebbe a quando il governo Berlusconi volle congelare gli aumenti 2010, 2011 e 2012, nell’ambito del perenne problema del taglio alla spesa.
Una complicata trattativa governo-sindacati trovò un accordo: una quota dei risparmi ottenuti con la riduzione degli organici della scuola andava destinata al personale, nel nome della valorizzazione bla bla.

In questo modo nel 2010 le risorse sono finite nelle tasche degli insegnanti.
L’anno successivo, con decorrenza 2012, i soldi non sono bastati e per coprire la spesa si è dovuto ricorrere al fondo per gli istituti.
Intanto a palazzo Chigi c’era Mario Monti perché, si sa, in Italia i governi si succedono alla velocità di una staffetta quattro per cento su una pista di atletica.
Per il 2012, decorrenza 2013, il testimone passa al frazionista Enrico Letta, il quale, a trattativa in corso, decide di prorogare il congelamento delle anzianità per un altro anno.
Così le somme pagate nel frattempo da aprile 2013, un centinaio di euro al mese, in una situazione di vuoto normativo hanno trasformato gli insegnanti in debitori verso lo Stato.

Da qui la decisione, nel novembre dell’anno appena terminato, di trattenere i 150 euro dalle buste paga.
Non proprio un campionato mondiale di eleganza, quindi.
Poi, come noto, lo scambio negli ultimi giorni delle dichiarazioni fra i ministri Maria Chiara Carrozza e Fabrizio Saccomanni.
E qui non c’è bisogno di scomodare il galateo istituzionale per ricordare che frasi come: “Se i soldi li trovi nei risparmi di spesa nel tuo ministero bene, altrimenti non venire a chiederli a me”, di solito non si addicono ad un governo-squadra, innanzitutto legato da reciproca stima.

Comunque, al prezzo di un’ennesima figuraccia, è stata messa la solita pezza e i prof avranno le loro buste paga immacolate, anche se qualche dubbio, secondo alcuni, permane per il personale ata.
Nessuno, a quanto pare, che a questione chiusa si faccia una domanda.
Scatti di anzianità?
Possibile che con tanto vociare al vento di merito e di società meritocratica, stiamo ancora parlando di aumenti di stipendio solo perché, come cantava Luigi Tenco, “Un anno dopo l’altro, il tempo se ne va”?

Probabilmente non si contano più le dimostrazioni di power point di esperti e studiosi, per sostenere che se si vuole riformare davvero la pubblica amministrazione in questo paese scassato, bisogna correlare i premi con i risultati. Invece noi continuiamo imperterriti nel 2014 dopo cristo, a mortificare talenti, intelligenze e impegno, con parametri feudali come parentele, amicizie, raccomandazioni e carte d’identità.

Perché a noi il record mondiale della burocrazia più complicata, stupida e anche utile muro di gomma, non ce lo toglie nessuno.
In Italia, politica e, pure, sindacato, hanno storicamente sulla propria coscienza il problema di una pubblica amministrazione che invece di essere un servizio è un’enorme tengo famiglia e noi siamo ancora qui che parliamo di scatti di anzianità.

Tra l’altro in un settore, la Scuola, che tutti sbraitano strategico per il paese, i giovani, la competitività, la sfida globale della conoscenza.
Vengono in mente le parole di quel tale che si congratulò col prete per l’omelia: “Belle parole padre. Non che io creda ad una sola cosa che lei ha detto, ma belle parole padre”.

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Il motto del ‘silentium’ e l’elogio della ‘pavonite’

Pentito ma non confuso vorrei chiudere il tormentone del “Fassina chi?” appellandomi all’ottimo articolo di Filippo Ceccarelli su ‘la Repubblica’ di ieri, dal titolo assai indicativo: “Di Battista chi? La battuta è un virus e lo sberleffo dilaga tra Twitter e vignette”. A mia parziale scusa nell’aver insistito tanto sull’argomento è che intendevo forse ingenuamente aprire perlomeno una discussione con l’assessore Marattin e/o almeno con l’amico Simone Merli che so renziani della prim’ora. Purtroppo solo il monastico “silentium” è stata la risposta alle mie sempre rispettose provocazioni. Vabbè! Si vede è quello che si merita in politica il “Venturi chi?” Che per fortuna non si applica al campo culturale… Almeno per ora secondo la strategia del Palazzo.
Tuttavia mi pento (ma lo rifarei) proprio appellandomi all’analisi lucidissima di Ceccarelli che rifacendo la storia dell’insulto-provocazione ne traccia i risultati: “… si è portati a ritenere che il motore e neanche troppo segreto del ‘Chi?’ è il fastidio. Ma per essere innescato al meglio, tale stato d’animo deve combinarsi con una grande considerazione di sé, leggi pure narcisistica e carburarsi con una spontanea vocazione al dileggio, sia pure del genere affabile-autoritario in voga nel XXI secolo”. Trovo l’analisi perfetta e coinvolgente. Il narcisismo (che anch’io frequento nella mia produzione critica e da me denunciato come “pavonite” che se dichiarata è senz’altro meno ipocrita della falsa umiltà). Quello che trovo -come ho detto sin dal primo intervento- poco eticamente (da vecchia scuola) riprovevole è il dileggio: atteggiamento di cui sono immune. E di questo chiedevo ragione ‘in dialogo’. Perché allora il ‘silentium’ secondo la più praticata esperienza dell’Accademia? Perciò dichiarando chiusa la vicenda che una carissima amica renziana e a cui voglio molto bene, Maria Grazia Bertaso, vorrebbe concludere come una “questione di lana caprina” faccio mie le parole di Ceccarelli che si rifanno anche alla bella analisi di Ilvo Diamanti di cui ho dato ragione: “… il ‘giochino’, motto superbamente matteiano, colpisce, ha successo, e si propaga perché va diritto al cuore di quest’epoca post-ideologica che, fertilizzata a colpi di talk-show e di reality, consuma, digerisce e volge in scarti comunicativi e bulleschi qualunque opinione, sentimento e virtù. In altre parole: chi si sente ormai arrivato, popolare, superiore, ha il diritto non solo e non tanto di maltrattare gli avversari, ma li dichiara del tutto sconosciuti, quindi inesistenti, e per taluni addirittura morti”. E su tutto calerà il silentium!

pomodori

Lo spread al pomodoro

Sotto le ultime luci azzurrine di Natale, mentre sto recandomi all’agenzia di viaggi per predisporre la partenza verso l’amata Siberia, dove conterei di stabilirmi definitivamente lontano dal rumore e dal cicaleccio fastidioso della politica italiana, incontro un vecchio amico, comunista d’antan quando ancora i comunisti non si vergognavano di mostrare la loro tessera, ormai sgualcita, con la falce e il martello, il quale tempo addietro ebbe a dirmi, felice, finalmente siamo al governo. Come?, gli avevo chiesto, e lui, convinto, siamo al governo. Gli risposi che forse non aveva capito, ché, al governo, c’era gente che si diceva di sinistra ma che a una politica veramente di sinistra non aveva mai pensato, oltretutto impegnata com’era a cercare nuovi pateracchi con gli ex avversari, tutte persone ideologizzate che mai avrebbero abdicato alla educazione e alla cultura ricevute, e poi – gli avevo detto – sono tutte persone anticomuniste nel profondo dell’animo, con gente come te si pulisce… Poi l’amico non l’ho più visto per parecchio tempo, fino ad alcuni giorni fa.

Lo guardo e mi accorgo che ha un’aria avvilita. Che cos’hai? Gli chiedo. E lui: avevi ragione tu, pensavo che avessimo finalmente battuto Berlusconi, invece il dittatorello, che dovrebbe essere o in carcere, o agli arresti domiciliari, o a spazzare i cessi della città, è sempre lì che condiziona, comanda, strapazza gli avversari di governo, umilia gli italiani. Non soltanto Berlusconi, sono avvilito per quello che sta facendo lo strano esecutivo nazionale, che non rappresenta più alcuna forza politica, eppure ha la forza e il coraggio, nello stesso momento in cui annuncia di averle tagliate, di aumentare le tasse, basta Imu ha detto Letta, mentre ordinava di raddoppiarla, e poi ha permesso che aumentassero il prezzo dei trasporti, delle poste, delle sigarette, del pane, sì del pane, delle autostrade, dei giornali, del carburante, con una spinta d’autoritarismo di destra reazionaria, è riuscito a far pagare l’aumento del costo della vita, giunto a limiti insopportabili…

Lo interrompo: però, gli dico, lo spread è sceso al minimo storico. E’ vero, fa lui, domani mi faccio preparare un bel piatto di spread al pomodoro, sì, vado subito, hai ragione, corro da mia moglie! Lo vedo fuggire veloce. Povero ex comunista, mi viene da piangere pensando a quanti sacrifici ha fatto nella sua vita rincorrendo il sogno di una società più giusta. Gli sta bene, penso, così impara ad avere dei sogni.

Non è un Paese per insegnanti

Solo Joel e Ethan Coen riuscirebbero a cogliere tutto il paradosso desolante, la trama fumettistica, il teatrino assurdo e anche la violenza gratuita che sta caratterizzando la vicenda riguardante la restituzione di 150 euro mensili imposta agli insegnanti.
Solo i fratelli Coen riuscirebbero a trasformarla in una fra le loro sceneggiature più incredibili per un film che immagino avrebbe un titolo memorabile: “Non è un paese per insegnanti”.
Il provvedimento che blocca, ancora una volta, gli scatti di anzianità del personale della scuola si conosceva da settembre; la nota del Ministero che anticipa la restituzione in busta paga è del 27 dicembre ma solo ieri, 8 gennaio, i principali quotidiani hanno lasciato un po’ di spazio per la notizia.
Guarda caso, dopo poche ore, il problema sembrava risolto magicamente da un incontro tra Letta, Carrozza e Saccomanni.
E poi tutti a cinguettare tranquillamente, a far dichiarazioni in pompa magna, a farsi intervistare sulla rete nazionale, a far proclami sulla Costituente.
Francamente non condivido le dichiarazioni e nemmeno le rassicurazioni.
Sinceramente non capisco i toni soddisfatti ed i contrasti artefatti.
Onestamente non comprendo i falsi litigi ma neppure i finti prodigi.
“Il merito è del Pd”, fa capire Davide Faraone responsabile del settore scuola del partito.
Caro Davide, aiutami a capire… il Pd del segretario Renzi sarebbe riuscito a cambiare quello che il Pd del presidente Letta aveva deciso e anche quello che il Pd del ministro Carrozza conosceva bene.
Ci vuole del coraggio a prendersi il merito di tutto questo; prima bisognerebbe prendersi tutta la responsabilità, che vuol dire prendersi la colpa di una vicenda semplicemente indecente.
Premesso che dobbiamo ancora sapere dove prenderanno i soldi per l’operazione e che non sappiamo ancora se questa vicenda riguarderà anche il personale che avrebbe dovuto vedersi riconosciuti gli scatti nel 2012 e nel 2013, vorrei chiarire che lo scorso anno il ministero, per pagare in ritardo i legittimi scatti di anzianità riconosciuti a parte del personale della scuola, ha sottratto i soldi alla scuola stessa, riducendo drasticamente in tal modo il Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa.
Non sarà che magari adesso qualcuno si aspetta che gli insegnanti debbano ringraziare per l’interessamento?
…dopo che si sono sentiti chiedere indietro i soldi percepiti in ritardo ed in malo modo?
…dopo che si sono visti riconosciuto in ritardo qualcosa che non sembra essere più un diritto?
…dopo qualche euforico cinguettio di smentita?
Conosco una sola parola che mi aiuta a sintetizzare un consiglio ai responsabili di questa squallida vicenda: “Vergognatevi!”

A corredo consiglio la lettura di “Insegnanti scattanti” (vai) di Massimo Gramellini e di “Governo cialtrone con la scuola” (vai) di Piergiorgio Odifreddi.

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“Tagliani, sindaco del cambiamento, deve accelerare il passo”

In via Montebello, angolo Giovecca, tanti anni fa, partecipai ad un incontro del professor Luigi Pedrazzi del Mulino di Bologna ed un amico presente mi indicò: “E’ Tiziano, quello dell’Azione cattolica”.
Ero curioso, soprattutto del pubblico, una ventina di persone, cattolici in politica, dal dissenso gentile e quasi democristiani.
Poi seguii Tagliani nei luoghi dei non brevi percorsi istituzionali fino a Sindaco della Città, incontrandolo e parlandoci più volte, ultimamente, messaggiandoci in ore del suo breve tempo libero.
Penso che si possa dire che le sue azioni abbiano prodotto e lasciato più di un segno, sia nell’amministrazione municipale che anche, per quel suo pellegrinare insistente, nei rivoli che contano attorno ai palazzi e nei linguaggi comuni della gente, scendendo dallo scalone e, anche in bicicletta.
Bisogna risalire al lontano Roberto I d’Este per trovare un cambio di passo, anche se il Duca aveva il Pci e il Rinascimento e, sapeva farci, anche per la genialità politica di quel “patto per lo sviluppo”.

Parto da questi rapidi passi, guardando indietro, perché solo con il miglior antico, pur recente, si può stare nel futuro di una comunità e di un paese.
Ora che il primo cittadino ha messo in ordine alcune poste delle entrate e del debito, ma anche l’avvio di un primo inizio di un welfare community avanzato, non può più sottrarsi a guidare la città provincia su nuovi sentieri, anche se il compito non sarà facile ma spetta, comunque, alla politica farlo.
L’avvocato sa bene come e dove muoversi, conosce anche nei particolari come “schiodare” la città, stenta però a percorrere i sentieri necessari, anche perché complicati, per evitare, crudamente, la rotture di schemi estensi e marxiani.
Sappiamo anche che la contemporaneità prevede un cambio ulteriore di passo, lo sa, sicuramente, Ferrara, le sue vie medioevali, l’addizionale erculea, anche la parte ancora addormentata del passato che resiste al cambiamento.
Ci vuole un passo che, partendo dalle prossime elezioni amministrative di maggio, dovrà farsi impronta, serve una impronta profonda per la città.
Serve una visione lunga per andare oltre il perimetro delle mura, guardando più fuori che dentro; la città scende e volge lo sguardo dalla prospettiva di corso della Giovecca all’orizzonte per farsi sistema, luogo largo di più luoghi.
Una idea, quindi, dove la somma faccia il totale, osservando così:
l’entroterra, la costa, la destra Po, le terre del Volano, il mare e le spiagge, le valli e le oasi, il delta, una ruralità diffusa e di qualità, i turismi e viale Carducci, il life del naturalismo d’ambiente, innovazione e tecnologia, arte e cultura e i tanti diffusi saperi.
Inoltre, è necessario si aprano gli attori e gli stakeholder delle periferie e comincino a guardare dentro le mura , anche con le loro Delizie e bellezze, per costruire quel lontano “cono“ d’ombra del Censis.
Una rete, tante maglie e altrettanti nodi perché insieme, città e periferie, possano pescare nell’alveo di un nuovo sviluppo, un benessere diffuso, essere costruttori di una area vasta per stare tra la via Emilia e la dorsale centrale veneta.
Tagliani sa che ci sono risorse, strumenti, capacità da spendere per poter fare un ulteriore passo in avanti; sa anche che bisogna correre e ricostruire forti relazioni, farsi capofila e creare governance, e attivare significativi rapporti esterni.
Bisogna partire, anche rischiando, anche sconvolgendo, anche con un di più, perché questo è il tempo giusto, anche se la legislatura potrà non essere sufficiente.
Serve non solo vincere con un ampio consenso, serve una direzione di marcia ed alcuni obiettivi, anche se i sentieri saranno stretti ed irti.
Signor Sindaco, ci pensi bene, faccia uno sforzo, tanti auguri e buon anno.

inquinamento

I media americani riscoprono l’emergenza ambientale. Quelli italiani seguiranno

Secondo una ricerca del Daily Climate, sito giornalistico americano indipendente che si occupa di ambiente, le notizie ambientali e sul cambiamento climatico sui media mondiali nel 2013 sono aumentate del 30% rispetto al 2012. Se nel 2012 gli articoli su temi green erano stati 18.546, nel 2013 erano saliti a 24.000, ma sempre sotto la media del 2007-2009 di 29.000 articoli all’anno.
Douglas Fischer, il giornalista del Daily Climate che ha svolto l’indagine, ha rilevato che i temi topici trattati sono stati fracking (tecniche estrattive di gas e petrolio), oleodotti, sabbie bituminose ed eventi meteorologici estremi. Alcuni tra i maggiori quotidiani internazionali nell’anno passato hanno visto crescere lo spazio concesso a questo genere di notizie; da segnalare Bloomberg News (+133%), USA Today (+48%), Wall Street Journal (+40%), mentre il New York Times ha registrato un calo del 10% con solo 883 articoli. Tra le grandi agenzie di stampa il primo posto tocca alla Reuters, che ha raggiunto le 1.100 notizie legate al clima. Anche su Internet, a livello globale, si registra una crescita dei siti specializzati in notizie ambientali.
Ma a che cosa è dovuto questo aumento di interesse nei confronti dei dati sull’ambiente? Ce lo spiega in poche parole David Sassoon, editor di Inside Climate News, sito che ha vinto il Premio Pulitzer: “La questione climatica non è più vista come qualcosa che vive dentro una bolla verde”, ma è sempre più “connessa a tutte le principali fonti di energia e alla storia dei fenomeni meteorologici estremi che ci curiamo di osservare”. La sicurezza energetica è diventata una questione prioritaria per la sopravvivenza delle economie più avanzate e per la crescita di quelle di recente industrializzazione, tanto che i temi che riguardano le infrastrutture petrolifere, i percorsi di gasdotti e oleodotti e la loro sicurezza sono divenuti la chiave di lettura della storia del clima negli ultimi anni, spinti dal dibattito sul fracking negli Stati Uniti e in Europa, dallo sfruttamento di vasti depositi di sabbie bituminose in Canada, dalla spinta della Russia verso l’Artico, dal controllo delle emissioni tossiche delle centrali a carbone e dalla crescente domanda di nuovi gasdotti.
Questioni ambientali quindi, e strategie geopolitiche. Un incrocio di temi che però non è piaciuto al sociologo Robert Brulle e ai media watcher dell’università del Colorado, che hanno rilevato come nella ricerca condotta dal Daily Climate si sia tenuto conto, in maniera troppo rilevante, di tematiche legate all’energia e al suo approvvigionamento. Secondo i ricercatori del Colorado, che hanno registrato solamente le storie che contenevano le espressioni “riscaldamento globale” o “mutamento climatico”, l’allargamento ad altre parole-chiave ha fatto lievitare la copertura mediatica delle notizie ambientali in maniera impropria.
Una diatriba su cosa è clima e su cosa non lo è ci fa forse un po’ allontanare dalla questione più importante, che riguarda l’accresciuta attenzione dei mezzi di comunicazione verso tematiche che non possono più essere trascurate o messe in secondo piano.
Un tipo di sensibilità che in Italia fatica però a imporsi, come registra Greenreport, quotidiano online che si occupa di ambiente, che sottolinea come sia “difficile capire quanto l’aumento della copertura delle notizie ambientali abbia davvero cambiato la percezione dell’opinione pubblica e della politica dei rischi del global warming”.
Ma essendo culturalmente noi figli dell’America a scoppio ritardato, non è difficile prevedere che fra qualche tempo la tendenza attecchisca anche in Italia.

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La tassa sulla casa: in principio era l’Isi, poi fu il delirio

In principio era l’Isi. E l’Isi si fece carne e diventò Ici. Non passò tanto tempo che si trasformò in Imu.
Il bello è che poi la sfrenata fantasia figlia pure, dando alla luce Tasi, Tari e Trise.
Tutto questo ben di dio per finanziare i Comuni, anche se il presidente dell’Anci, Piero Fassino, ostenta somaticamente l’anemia di cui continuano a soffrire le casse comunali nonostante questo diluvio di scioglilingua.
Curiosa, in effetti, è l’impressione che dopo ogni virata tributaria da un lato si aprono nuovi buchi nei bilanci comunali, mentre si fa più pesante il salasso dai portafogli dei contribuenti.
Per non parlare della Tarsu, cioè la tassa sui rifiuti solidi urbani, in parte sostituita dalla Tares, ossia la tariffa comunale su rifiuti e servizi. L’obiettivo è di far pagare anche quelli cosiddetti indivisibili, come illuminazione pubblica e manutenzione strade.
Ma la Tares ha dovuto lasciare il posto al Trise, alias tributo sui servizi comunali, a sua volta erede di Imu e Tares.
Vi siete persi? Tranquilli anche io, ma andiamo avanti.
Inizialmente chiamata service tax il Trise servirebbe a finanziare sempre i Comuni per i servizi erogati. Solo che nel breve volgere di una notte è stata chiamata Taser e poi Trise, a sua volta articolazione di Tasi e Tari. Quest’ultima è la parte di Trise che copre il costo dei rifiuti, mentre la Tasi (sorvolo sul vernacolo) è la componente servizi indivisibili.
Se uno volesse fare lo spiritoso potrebbe aggiungere la Tesi per chi si sta laureando, o la Quasi per chi sta realizzando un sogno nella vita, la Tisi per gli ammalati e poi la Stasi che starebbe a pennello sulla situazione italiana.
Immaginiamo però che coloro al ministero che devono fare e rifare i conti una decina di volte al giorno abbiano poco da ridere. Senza contare che sarebbe pure comprensibile se a qualcuno venisse voglia di tirare una scarpa al politico di turno, mettiamo Razzi?, che gli venisse in mente di fare un’interrogazione per sapere se c’è copertura nei conti pubblici.
Infine, l’irrequieta politica italiana partorisce il Tuc, che vorrebbe sostituire Trise, destinato a sua volta a divenire Iuc, davvero curiosa sigla di: imposta unica comunale.
In fondo fa tenerezza questo slancio inesausto verso la semplificazione che, come nei sogni, è meta che si allontana ogni volta che si sta per raggiungere.
A dire il vero un timido tentativo di discussione si è affacciato nel breve volgere di una mattinata per stabilire se Tuc fosse femminile o maschile, cioè tassa o tributo unico comunale. Ma qualcuno con la testa sulle spalle deve avere dissuaso i temerari a non sfidare oltre il popolo italiano, in buona parte non seduto comodamente al tavolo da bridge, ma alle prese con l’incubo di arrivare a fine mese e con uno Stato le cui mani entrano ed escono dalle sue tasche che è una meraviglia. Almeno in alcune e con una precisione svizzera.
Nel frattempo, nelle scorse settimane è stata recapitata nelle case la Tares: una tassa comunale, su modulo dell’Agenzia delle entrate, della cui riscossione si cura un’azienda Multiutility.
Come esempio di semplificazione e trasparenza non c’è male.
In ogni caso, come direbbe Nanni Moretti, continuiamo così, facciamoci del male.

Le antiche liturgie dei quarantenni al potere

Mentre gli italiani soffrono assieme al loro amato paese della crisi economica più pesante degli ultimi 50 anni, mentre operai, impiegati e precari vedono ridurre pesantemente il loro potere d’acquisto se non addirittura le certezze di avere ancora un impiego, mentre i piccoli imprenditori e lavoratori autonomi si barcamenano tra mille difficoltà per tentare di tenere aperta la propria azienda e mantenere i posti di lavoro, mentre persino gli insegnanti si vedono ridurre le indennità per errori non loro ma di conteggi governativi, mentre la stessa parola speranza sta diventando un vocabolo antico e che perde significato di giorno in giorno… Mentre accade tutto ciò cosa succede nei piani nobili della politica italiana ?
Nulla o meglio ancora si celebrano antiche liturgie da prima Repubblica trasformate dai quarantenni, ora al potere, non nella sostanza ma nelle definizioni, la vecchia “verifica” diventa oggi più modernamente “patto di coalizione” o “contratto di governo”, il termine antico “rimpasto di governo” fa inorridire il nuovo segretario del Pd, ma poi come lo definirà quando, forse, verranno sostituiti dei ministri tecnici con esponenti della sua “ex” mozione congressuale?
Il nuovo segretario del Pd sta cercando con tutte le forze, almeno apparentemente, di dare una nuova propulsione alla politica italiana, ma si scontra giornalmente con le sue idee, a volte un po’ confuse, a volte demo cristianamente aperte ad ogni possibilità, si scontra con i veti incrociati degli alleati di governo o degli ex alleati, che, spinti dal desiderio del Tycoon di Arcore di andare in breve tempo ad elezioni, continuano a giocare con i limiti di questa strana nuova maggioranza, si scontra con i diktat “grillini” che resisi conto di aver illuso l’elettorato italiano che tante speranze aveva riposto in essi, si buttano a capofitto su quello che sanno fare meglio, ovverosia la negazione di ogni proposta, infine si scontra con i veti incrociati del suo stesso partito, all’interno del quale, non dimentichiamolo, ci sono ancora in carica i “famosi 101” che tanto scompiglio hanno creato non eleggendo Prodi presidente della Repubblica e portando, dopo la rielezione di Napolitano verso le larghe intese.
In questo quadro desolante si cerca di trovare un accordo per fare la nuova legge elettorale utilizzando, come detto, metodi da prima Repubblica, i famosi incontri bilaterali, che poco o nulla fino ad ora hanno portato nel senso di vera innovazione.
Le domande semplici da semplice cittadino sono poche ma determinanti per comprendere la situazione.
Riusciranno i “nostri eroi” a fare una buona legge elettorale?
Riusciranno ad uscire dal pantano in cui sono entrati per ricatto berlusconiano sull’Imu ?
Riusciranno finalmente a prendere provvedimenti di vera equità in cui a pagare di più sono i più ricchi ridistribuendo reddito alle fasce meno abbienti?
Riuscirà il nuovo Pd a reggere l’impatto del pantano in cui la politica italiana è finita?
Non sappiamo se vi sono risposte a queste domande, sappiamo solo che i tempi si riducono sempre più e che diventa di giorno in giorno sempre più urgente provare a risolvere i mali endemici del nostro Paese.

scuola-pubblica

È la scuola diffeRenziata, baby

Di solito non canticchio quasi mai per caso ma non riuscivo proprio a spiegarmi perché, alla vigilia dell’Epifania, mi venisse in mente il ritornello di “Oh well” (un bel brano scritto da Peter Green nel 1969) che dice così:
But don’t ask me what I think of you
I might not give the answer that you want me to
(Ma non chiedermi cosa penso di te
Potrei non dare la risposta che vuoi)

Poi mi sono ricordato di aver letto che il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza ha annunciato l’intenzione di voler “aprire un dibattito in tutto il paese su questo bene primario che è la scuola” per “fare insieme agli italiani la grande e giusta riforma della scuola italiana” e allora ho capito il perché del ritornello.

In che modo il Ministro vorrebbe aprire un dibattito? Sottoponendoci un questionario on-line su dieci temi. Con quali scadenze? Si potrà rispondere anonimamente sul sito del Ministero fino a maggio, poi a giugno loro ci penseranno e a settembre ci diranno quali indicazioni hanno recepito.

Spenderò poche righe per dire che considero questa iniziativa come una proposta di poco senso, di metodo sbagliato e di nessuna efficacia; in definitiva, pur non essendo renziano, mi permetto di considerarla un’idea da “rottamare”.
Se il Ministro usa l’espressione “aprire un dibattito” con l’intenzione di “somministrare un questionario on-line” vuol dire che esiste un grave problema di comunicazione.
Se il Ministro ha bisogno di capire come la pensiamo sui problemi principali della scuola vuol dire che finora non ha ascoltato le Associazioni, i Coordinamenti, le Assemblee, le Reti, i Sindacati, i pedagogisti, il personale della scuola e gli studenti.

Se il Ministro vuole “fare insieme agli italiani la grande e giusta riforma della scuola italiana” organizzando prima una specie di referendum sul web vuol dire che ha intenzione di dedicarsi al teatro e sta tentando di mettere in scena: “Molto rumore per nulla” di Shakespeare… purtroppo per noi, in maniera maldestra.

Vuoi vedere che questi sono già i primi effetti della democrazia diffe-Renzi-ata proposta dal nuovo segretario del Partito Democratico: attirare l’attenzione con dichiarazioni altisonanti propinate in modo ambiguo, proporre modalità di pseudocoinvolgimento virtuale sull’esempio campestre del “grillo iracondo” e lanciare promesse talmente enormi da non poter passare inosservate.

Spero che in una delle prossime interviste, alla domanda: “Cosa intende fare per la scuola?”, il Ministro non risponda renzianamente: “La scuola… quale?”

Ho avuto un incubo la notte scorsa sognando che il quesito, di un eventuale referendum sulla scuola, potrebbe essere questo:
“Volete voi che sia rottamato l’articolo 34 della Costituzione che recita:
La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi,
per sostituirlo con il seguente nuovo articolo:
Tutti possono aprire una scuola.
L’istruzione gratuita, impartita per almeno otto anni, è obbligatorio che sia inferiore.
I capaci e meritevoli, se privi di mezzi, hanno anche il diritto di raggiungere i gradini più alti degli stadi.”

Silvia-Giambrone

Dalla Cina al Mar passando per Biennale donna, le artiste emergenti di Silvia Cirelli

Critica e curatrice di mostre d’arte, è partita da Ferrara, ha vissuto per anni a Pechino e ora – ritornata in Europa – ha portato al Museo d’arte della città di Ravenna (Mar) le opere di una giovane artista. Lei è Silvia Cirelli, ferrarese, classe 1980, una laurea alla Ca’ Foscari di Venezia in Lingue e civiltà orientali, indirizzo artistico. La mostra di Ravenna si intitola “Critica in arte”, è aperta fino a domenica 12 gennaio e accende i riflettori sulle espressioni artistiche di alcuni esponenti delle ultime generazioni alle quali Silvia Cirelli, attualmente attiva in Italia, specificatamente è dedita.
Coordinata da Claudio Spadoni, direttore del Mar, la critica ferrarese è stata invitata a partecipare al progetto insieme con Ilaria Bignotti, storica dell’arte e curatrice indipendente, che presenta l’artista Francesca Pasquali, e a Davide Caroli, curatore del Mar, che propone Eron, nome d’arte di uno dei primi graffitisti italiani, cresciuto nell’undergound bolognese e che si esprime con la tecnica dello spray anche sulle tele.
Nella sezione curata da Silvia Cirelli, espone Silvia Giambrone la quale utilizza la performance e l’installazione, evocando un dialogo indispensabile fra linguaggio, corpo e messaggio artistico. Come nella performance “Teatro anatomico” del 2012, realizzata al Macro e appena premiata alla Biennale di Kaunas, in Lituania. A Ravenna l’artista si presenta, per usare la definizione della curatrice, come una “artista-attrice-donna, che silenziosamente si fa cucire addosso un colletto di merletti offrendo non solo il suo corpo, ma anche la sua pelle all’azione performativa”. E’ questo che accade, ad esempio, nell’opera “Il Pizzo” con merletto ricamato su stampa fotografica (courtesy l’artista e Galleria Doppelgaenger, Bari, 2012).
A Ferrara Silvia Cirelli ha già rivelato le sue doti di curatrice indipendente, particolarmente attenta a promuovere l’arte orientale e medio orientale. Nel padiglione contemporaneo di Palazzo Massari ha curato la Biennale Donna del 2010, organizzando una collettiva di sei artiste iraniane. La collaborazione con il Comitato Biennale Donna è andata così bene che le hanno proposto di curare insieme a Lola Bonora anche l’edizione successiva: “Violence, l’arte interpreta la violenza”. Tra il 4 e il 27 ottobre scorso un’altra iniziativa artistica curata dalla Cirelli: “Now! Giovani artiste italiane” in mostra nell’ex Refettorio nel complesso di San Paolo come evento collaterale del Festival Internazionale.
Il frutto della ricerca e dell’attenzione riservata alla giovane arte italiana da Silvia Cirelli tornerà a Ferrara in occasione della prossima Biennale Donna, prevista per settembre 2014, che la vedrà ancora una volta nei panni di curatrice al fianco di Lola Bonora.
La mostra al Mar di Ravenna è aperta fino a domenica 12 a ingresso libero tutti i giorni dalle 9 alle 13.30; giovedì e venerdì anche 15-18 e domenica solo 15 alle 18.

mario-zucchelli

Coop Estense, oilì oilì oilà il padrone c’è anche qua

Il presidente di Coop Estense, Mario Zucchelli, all’indomani dello sciopero del 23 dicembre ha mandato una lettera personale ai dipendenti che non hanno scioperato per ringraziarli. Come definire questo atto? Una caduta di stile? Un atto di arroganza? Un gesto di intimidazione? A me pare un comportamento grave e offensivo verso la dignità delle persone che hanno deciso di scioperare non certo a cuor leggero e a costo di un pesante sacrificio personale. Ma vorrei allargare il campo della riflessione ponendo alcune domande. Non hanno niente da dire i soci di Coop Estense a fronte di un atto che anche un imprenditore privato avrebbe il pudore di non compiere? E la Lega? E le forze politiche di riferimento (innanzitutto il Pd…) di tanta parte dei soci e di chi ha sempre sostenuto la cooperazione come una realtà imprenditoriale ‘diversa’ non hanno nulla da commentare? A me pare che sul piano delle relazioni tra dirigenza-sindacati-dipendenti-soci la lettera del presidente Zucchelli sia lesiva di alcuni principi a cui dovrebbe tenere la cultura democratica del mondo cooperativo. O dobbiamo registrare un altro pozzo avvelenato dalla cultura di questi ultimi decenni di assoluta noncuranza del rispetto per ogni lavoratore nell’esercizio dei suoi diritti sindacali?

Ascolta il commento musicale

federico-aldrovandi

‘Presa diretta’ ripropone luci ed ombre del caso Aldrovandi e degli organi di informazione

Il giorno dopo la messa in onda della toccante puntata di Presa Diretta dedicata alle “Morti di Stato”, abbiamo deciso di ripubblicare per intero la prima pagina del Blog che Patrizia Moretti ha dedicato a suo figlio e alla ricerca della verità (vedi). Era il 2 gennaio 2006 e fu proprio questo post a destare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale sulla morte di Federico Aldrovandi.

E’ un modo per ricordare e un’occasione per riflettere, non solo sulla tragica morte di un ragazzo di 18 anni e su una inquietante pagina della storia italiana, ma anche sul ruolo e le responsabilità della polizia, della magistratura e anche della stampa. E’ doveroso, infatti, ricordare che i giornali locali, prima delle accorate parole che riproduciamo qua, sembravano indifferenti alla vicenda, frettolosamente archiviata come ordinario caso di cronaca. Le luci furono riaccese proprio grazie al blog e al conseguente prodigarsi dei quotidiani nazionali, primi fra tutti Liberazione e il manifesto, e di giornalisti, come  Checchino Antonini, che con il loro rigore e la loro passione rendono onore alla categoria e danno un senso a parole come ‘impegno civile’.

 

Federico (dal blog di Patrizia Moretti)

2 gennaio 2006

Scrivo la storia di quel che è successo a Federico, mio figlio. Non scriverò tutto di lui, non si può raccontare una vita, anche se di soli 18 anni appena compiuti.

È morto il 25 settembre, il giorno di natale sono stati tre mesi…

Ho sempre pensato che sopravvivere ad un figlio fosse un dolore insostenibile. Ora mi rendo conto che in realtà non si sopravvive. Non lo dico in senso figurato. È proprio così. Una parte di me non ha più respiro. Non ha più luce, futuro…

Perché il respiro, la luce e il futuro sono stati tolti a lui.

Sabato 24 settembre è stato un giorno sereno, allegro…

Dopo la scuola il pranzo insieme, chiacchiere, risate. Era ancora estate, faceva caldo. Ha portato a spasso il suo amico cane. Non lo faceva spesso, ma quel giorno è andato con la musica in cuffia. Tutto in quel giorno aveva un’aura speciale.

Pensandoci ora è come se avesse voluto salutare tutti noi. Ha avuto sorrisi per tutti… la gioia era lui.

Ha incontrato la compagnia, ha fatto il suo lavoretto di consegna pizza.

Il programma della sera prevedeva un concerto a Bologna.

Prima di partire è passato da casa per cambiarsi le scarpe, rotte giocando a pallone…

È stata l’ultima volta che l’ho visto vivo.

Ha salutato tutti, compreso il fratello che dormiva già, chiedendomi perché Stefano non avesse risposto al suo saluto.

Anche una sua amica mi ha confermato che quella sera era sereno, che l’ha salutata sorridente con la solita pacca sulla spalla e l’appuntamento al giorno dopo…

Non è mai esistito il giorno dopo.

Al Link il concerto era stato annullato. Quindi la serata è trascorsa lì dentro.

L’hanno detto i compagni che erano con lui, non posso definirli amici, e le analisi lo hanno confermato. Uno dei ragazzi gli ha venduto una sostanza, una pasticca o simili.

Lo definiscono lo sballo del sabato sera. È sbagliato si. Ma non si muore di questo…

Federico lo sapeva bene. Era stato partecipe di un progetto scolastico di ricerca e informazione promosso dalla provincia. So che la sua era una conoscenza approfondita con ricerche sui siti delle asl, conosceva le sostanze e gli effetti. Ed era a suo modo un igienista. Aveva grande cura del suo corpo, di quel che mangiava. Era uno sportivo. Una ragazzo splendido pieno di salute.

E di progetti: pensava alla musica, al suo futuro, lo studio serviva a costruire il futuro.

Nell’immediato c’erano le cose semplici: la patente dopo pochi giorni, il karate, un band musicale da organizzare con gli amici, e la vita di tutti i giorni cercando di stare bene…

Trascorsa la serata il gruppo era rientrato a Ferrara, tornati al punto di incontro dove i più avevano lasciato le macchine o i motorini.

Federico era a piedi. Era partito da casa in macchina con Michy, che poi non era andato a Bologna.

Erano ormai le cinque del mattino. I ragazzi hanno raccontato che gli hanno offerto un passaggio ma Federico non aveva voglia di rientrare subito. Sarebbe tornato a piedi. Era vicino a casa…

Dal suo cellulare si vede che ha chiamato diversi altri amici. Specialmente i suoi migliori amici, un paio di volte ciascuno. Forse per chiedergli se erano ancora fuori… sembra che nessuno gli abbia risposto. I ragazzi che conosco mi hanno detto che avevano già spento il cellulare per dormire.

E poi non so cosa sia successo esattamente. A quell’ora mi sono svegliata, forse non del tutto, chiedendomi se Federico fosse rientrato. Avevo una stanchezza invincibile non riuscivo a muovermi. Poi ho sentito un rumore nella sua stanza ed ero sicura che fosse lì…

Mi sono risvegliata che erano quasi le otto.

Ho cominciato a chiamarlo e ad inviare messaggi. Nulla…

Non era possibile che non rispondesse. Se tardava mi avvisava sempre. Diceva che lo stressavo ma non voleva farmi stare in pensiero. Mi aggrappavo all’idea che avesse solo perso il cellulare…

Poi l’ha chiamato anche suo padre. Sul cellulare di Federico il padre è memorizzato col solo nome, Lino.

Una voce ha risposto.

Ha imperiosamente chiesto chi fosse al telefono, ed ha chiesto di descrivere Federico.

Poi si è qualificato come agente di polizia, ed alle nostre domande ha risposto che avevano trovato il cellulare su una panchina dalle parti dell’ippodromo e che stavano facendo accertamenti. Ed ha riattaccato.

Immediatamente ho cercato in Questura, e ho cercato anche ripetutamente un amico che ci lavora.

Nulla.

Il centralinista rispondeva: c’è il cambio di turno… non sono informato…, appena avremo notizie chiameremo noi…

Niente per altre tre ore!!!! Passate nell’angoscia e nelle telefonate frenetiche agli ospedali, ai suoi amici e di nuovo ripetutamente alla questura.

Nel frattempo Stefano è accorso in bicicletta alla ricerca del fratello. Ringrazio il cielo che non sia andato nel posto giusto.

La polizia è venuta ad avvisarci solo verso le 11. dopo che lo avevano portato via.

Il suo corpo è rimasto sulla strada dalle 6 alle 11.

E non mi hanno chiamata. Era mio figlio. Nessuno ha il diritto di tenere una mamma lontana da suo figlio!

E mi hanno detto che lo hanno fatto per me… perché era meglio che non vedessi.

In quel momento gli ho creduto.

La polizia ha detto che un’abitante della zona aveva chiamato perché sentiva delle urla.

Dicevano anche che si era ferito sbattendo da solo la testa contro i muri.

Questo si è rivelato falso. Smentito dalle verifiche. Federico era sfigurato dalle percosse.

Molto tempo dopo ho riavuto i suoi abiti. Portava maglietta, una felpa col cappuccio e il giubbotto jens. Sono completamente imbevuti di sangue.

Hanno detto che non voleva farsi prendere. Che ha lottato ed è salito anche in piedi sulla macchina della polizia. I medici hanno riferito che aveva lo scroto schiacciato, una ferita lacero-contusa alla testa e numerosi segni di percosse in tutto il corpo. Ho potuto vedere solo quella sul viso, dalla tempia sinistra all’occhio e giù fino allo zigomo, e i segni neri delle manette ai polsi. L’ho visto nella bara. Il suo corpo non sembrava più allineato e simmetrico. Il mio bambino era perfetto, e stupendo. L’hanno distrutto…

E la polizia mi raccontava che era drogato. Che si era fatto male da solo. Che tutto questo era successo perché era un povero tossico e noi sfortunati…

Lo vogliono uccidere due volte. Le analisi hanno confermato che quel che aveva preso era irrilevante. Non certo causa di morte né di comportamenti aggressivi. Semmai il contrario.

Quel che penso è che Federico fosse terrorizzato in quel momento. Gli stava crollando il mondo addosso. La vergogna di essere fermato dalla polizia, la patente allontanata perché aveva preso una pasticca. E aveva dimenticato la carta di identità.

Quella mattina nel vicinato dicevano che era morto un albanese. Nessuno si preoccupava più di tanto…

Ha certo cercato di scappare. Di non farsi prendere. Visto com’era ridotto si capisce come lo abbiano fermato. Quando lo hanno immobilizzato, ammanettato a pancia in giù non ha più avuto la forza di respirare.

Chissà quando se ne sono accorti?

L’ambulanza è stata chiamata quando ormai non c’era più niente da fare. E nemmeno allora lo hanno portato all’ospedale per provare un intervento estremo. Lo hanno lasciato lì sulla strada. Cinque ore. Poi lo hanno portato all’obitorio. E solo allora sono venuti ad avvisarci.

Perché?

Se fosse vero che dava in escandescenze da solo perché non è stata chiamata subito l’ambulanza?

Perché atterrarlo in modo tanto violento e cruento? Era solo. Non c’era nessuno. Era disarmato. Non era una minaccia per nessuno.

Perché aspettare tanto prima di avvisare la famiglia? Chiaro. Per non farcelo vedere…

Se lo avessimo visto così cosa sarebbe successo? Che risonanza avrebbe avuto?

Sul giornale del giorno dopo un articolo che dichiarava che era morto per un malore… tratto dal mattinale della questura.

Il giorno dopo sull’altra testata cittadina “Federico sfigurato”. Immediate controdeduzioni del Capo Procura: “non è morto per le percosse”… questa è stata la prima ammissione di quanto successo.

Ad oggi ancora non sono stati depositati ufficialmente gli esiti degli esami medici. Sono emersi solo alcuni dettagli che ho citato prima.

Quel che non mi da pace è il pensiero del terrore e del dolore che ha vissuto Federico nei suoi ultimi minuti di vita. Non ha mai fatto male a nessuno. Credeva nell’amicizia che dava a piene mani. Era un semplice ragazzo come tanti. Come tutti i ragazzi di quell’età si credeva grande ma dentro non lo era ancora. Aveva tutte le possibilità di una vita davanti, e una gran voglia di viverla…”

Patrizia Moretti

scuola

Una barzelLetta oscena

Ci sono un italiano, un italiano e un italiano che stanno parlando del più e del meno.
I primi due sono dipendenti pubblici e lavorano nella scuola; il terzo invece… non mi ricordo più se è democratico o democristiano, se è un giovane già vecchio o un vecchio ancora giovane, se è consigliere di un presidente o se è presidente del consiglio… Mi confondo sempre.

Il primo italiano, che dopo anni di lavoro e di attesa aveva percepito i suoi legittimi scatti di anzianità, dice: “Bisogna investire nella scuola pubblica. Occorre pagare gli scatti di anzianità ai lavoratori ma senza tagliare il Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa”.
“Bravo!” dice il secondo italiano “Anche io, fra qualche mese, dovrei ricevere gli arretrati dei miei scatti di anzianità”.
Poi anche lui ripete con enfasi la frase del primo italiano: “Bisogna investire nella scuola pubblica. Occorre pagare gli scatti di anzianità ai lavoratori ma senza tagliare il Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa“.
Il terzo italiano, dopo averli ascoltati, dice: “Bravi!”
Poi anche lui prova a ripetere la frase degli altri due ma quello che gli esce dalla bocca è:
“L’art. 1, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 122 del 4 settembre 2013 dispone la proroga fino al 31 dicembre 2013 dell’art. 9, comma 23, D.L. 78/2010, relativo al blocco degli automatismi stipendiali per il personale del Comparto Scuola. Per il personale che prima dell’applicazione risultava con maturazione della progressione economica nel corso dell’anno 2013 sono stati accertati crediti erariali che verranno recuperati con rate di importo fisso lordo di € 150,00 fino a concorrenza del debito”.
Gli altri due italiani, esterrefatti, gli chiedono di ripetere: “L’hai presa troppo alla larga e noi non l’abbiamo intesa. Dillo con le parole che conosciamo“.
Stavolta il terzo italiano dice così: “Bisogna tagliare nella scuola pubblica. Occorre che i lavoratori paghino per scattare di anzianità ma senza investire sul Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa“.

Morale n° 1: La barzelLetta non fa ridere tutti: solo il terzo italiano (de)ride di gusto; gli altri due invece provano disgusto.
Morale n° 2: se i “conti”  non tornano, per andarli a… riprendere chiamano sempre i lavoratori.
Morale n° 3: la proprietà commutativa non si applica al linguaggio politico.
Morale n° 4: mentre un italiano e un italiano parlano del più, c’è un altro italiano che decide per il meno.

La barzelLetta oscena, che non fa ridere, si riferisce alla sorpresa di fine anno che il ministero dell’Economia e delle Finanze ha regalato ai lavoratori della scuola che hanno maturato gli scatti di anzianità nell’anno 2013: una trattenuta mensile di 150 euro a partire da gennaio 2014 fino a riprendersi tutto l’importo già assegnato al personale.
La disposizione fa riferimento alla nota n° 157 del 27 dicembre 2013 che applica il DPR 122 del 2013, il quale ha bloccato ulteriormente sia il rinnovo del Contratto di Lavoro sia gli automatismi stipendiali.

Per approfondimenti, leggi la nota-mef-157-del-27-dicembre-2013-noipa.

Riga-Lettonia

L’emergente Lettonia adotta la moneta unica. L’effetto euro alla prova dei fatti

Dalla mezzanotte del 1° gennaio la Lettonia è diventata il 18° paese europeo ad adottare l’euro. Secondo un’indagine della Commissione Europea, al quarto giorno dell’entrata in vigore dell’euro già due terzi dei pagamenti in contanti sono effettuati nella nuova valuta. Mentre molti paesi chiedono di uscire dalla moneta unica, lo stato baltico sta affrontando bene il passaggio alla nuova moneta, poiché ben il 95% dei cittadini riceve il resto in euro al momento del pagamento.
Ma se da un lato il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso ha voluto sottolineare l’importanza dell’evento, “non solo per la Lettonia, ma per la stessa area dell’euro, che rimane stabile, interessante e aperta a nuove adesioni”, quasi il 60% dei lettoni si dichiara contrario all’euro, e ben l’80% teme un aumento incontrollato dei prezzi e della disoccupazione. Nonostante il governo baltico si sia impegnato a vigilare attentamente sui movimenti nelle due valute – l’euro e il lats, la valuta entrata in vigore nel 1991 con l’indipendenza dall’Unione Sovietica – non sono state previste sanzioni per chi alzerà i prezzi, il che spinge i cittadini a un ulteriore scetticismo e a timori più che giustificati, tenendo conto di quello che è successo in altri paesi al momento dell’adozione dell’euro.
Tuttavia la Lettonia, dopo la profonda crisi economica del 2008, risulta oggi lo stato dell’UE con la più forte crescita economica – che si prevede supererà il 4% nel 2014 –, un’inflazione nei parametri europei e livelli di disoccupazione sotto controllo.
Considerando il generale euroscetticismo si può ben immaginare che i cittadini lettoni stiano in queste ore facendo debiti scongiuri. Ma, battute a parte, sarà interessante nei fatti verificare come un’economia in trend positivo reagirà alla prova della moneta unica: l’effetto reale, in caso di rallentamento, potrebbe rafforzare la diffidenza e l’ostilità nei confronti dell’euro o viceversa attenuare la diffusa avversione. In Italia e in Europa si guarda dunque con curiosità e interesse a quel che accadrà nei prossimi mesi nel piccolo stato baltico.

Masterchef-Alì Hadraoui

Masterchef, da Cento Alì racconta il talent-show che tiene insieme pane e coraggio

Cucinare, mangiare. Sono attività che accompagnano ogni nostra giornata e occasioni di stare insieme con familiari, amici, colleghi. Roba normale, insomma, che riguarda bene o male tutti, soprattutto in un Paese come questo, dove – per fortuna – il cibo è qualcosa che si prepara con cura, che è memoria del passato, ma che può essere anche scoperta e ricerca. Poi c’è la tv, momento di relax per chi la guarda e grande vetrina per chi ci finisce dentro. A unire il tema del cibo con il piccolo schermo è Masterchef Italia. Il programma televisivo ora in onda il giovedì sera su Sky, poi anche su Cielo per chi ha l’antenna digitale.
Il bello di Masterchef è che prende queste due cose, cibo e tv, e riesce a farle stare insieme con successo, capacità di intrattenimento e coinvolgimento degli spettatori. L’abbinamento del cibo e della televisione rimanda a un altro accostamento, quello tra “pane e coraggio” reso poetico dalla canzone di Ivano Fossati. Perché il pane è il cibo, appunto, e il coraggio può essere anche quello della ribalta che ti fa andare lì, al vaglio dei riflettori, degli sguardi e dei giudizi severi dei tre ormai celeberrimi giudici Carlo Cracco, Bruno Barbieri e Joe Bastianich. I concorrenti sono uomini e donne, giovani e anziani, con culture e origini diverse. E in un mondo in crisi economica e di emergenza lavoro, come quello che stiamo vivendo, diventa più che mai di attualità l’accostamento tra pane e coraggio e, quindi, il tema cruciale che sta sotto a Masterchef.
In questa nuova, terza edizione partita da poche settimane c’è una componente locale che rende il programma ancora più vicino: il giovane concorrente di Cento, provincia di Ferrara. Si chiama Alì Hadraoui, 18 anni, studente, T-shirt mimetica, capelli tagliati con la cresta morbida al centro, occhi scuri e voglia di farcela sotto al grembiule. Alì è nato a Cento come la sua mamma; il suo papà viene da Medicina; tutti i suoi bisnonni dal Marocco. Un connubio perfetto di locale e globale, con Alì che racconta come da bambino in cucina si divertisse a impastare pizza e pane fino a specializzarsi in uno dei piatti forti della cucina emiliana: pasta fresca in forma di tagliatelle, lasagne, cappellacci di zucca. Una volta terminate le scuole medie Hadraoui, questa passione, decide metterla a frutto per il suo futuro. Si iscrive all’istituto alberghiero Vergani di Ferrara e poi passa all’alberghiero Bartolomeo Scappi, sede di Casalecchio. “Lì – spiega – insegnava anche Bruno Barbieri; come professore ho avuto proprio un suo collega e amico”. Alla prima prova selettiva, che in tv non si vede, il giovane centese porta un piatto di salmone grigliato con un accompagnamento di olive verdi e pane profumato, impastato a casa con prezzemolo, salvia, basilico e origano e che poi in studio lui grattugia nel piatto.
Partito insieme ad altri 15mila, Alì arriva in tv con i 100 migliori ed entra nel gruppo dei primi 50. Passa la prova successiva, in parte ripresa dalle telecamere, grazie a un altro piatto, che è un omaggio alle origini della famiglia, la “bastella”.Una sorta di torta salata marocchina che lui descrive come una “cocotte di pasta fillo con mandorle, acqua di rose, sale, zucchero, pollo e uova”. Barbieri lo loda come “mago delle spezie” per la sua capacità di equilibrare gli aromi e tira fuori ad Alì un’esultanza che non esprimeva più da quando era bambino e che gli fa improvvisare un’ acrobatica ruota in mezzo allo studio.
Le selezioni successive lasciano Hadraoui fuori dalla master-class, ma ormai il sogno è innescato. Adesso Alì è tutto preso dall’organizzazione di una cena di beneficenza a Casumaro, paese ferrarese a pochi chilometri da Finale Emilia (Modena), che ha sentito molto le scosse di terremoto del 2012. “La cena – dice Alì – verrà fatta a fine febbraio e il ricavato servirà per la ricostruzione dell’asilo del paese di Mirabello”.
Barbieri dice: “Non dimenticate mai di mettere in ogni piatto la personalità, il coraggio e il buon gusto che vi hanno portato fin qui”. E con pane e coraggio Alì prende in mano la sua vita, mentre noi tifiamo la forza del sogno. E mettiamo su Fossati in sottofondo a ricordarci che “pane e coraggio ci vogliono ancora/che questo mondo non è cambiato”.

verde-acquedotto-ferrara

Servono 50 miliardi per modernizzare i 13 mila acquedotti italiani

La situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua è fortemente critica da tempo; per tentare un superamento di questa cronica debolezza strutturale si calcola siano necessari almeno cinquanta miliardi di euro per interventi urgenti. Vediamo nel dettaglio:
gli acquedotti in Italia sono oltre 13 mila, per un volume complessivo di acqua addotta pari a circa 8 miliardi di metri cubi annui, e solo un terzo è dotato di impianti di potabilizzazione;
per l’addduzione e la distribuzione prevale la dimensione comunale: bassissimo livello di interconnessione e basso livello di automazione, cattivo stato di manutenzione, sistemi di accumulo insufficienti, tubature al piombo nei centri storici e negli edifici più vecchi;
per le fognature pessimo stato di manutenzione, in gran parte di tipo misto (due terzi) con conseguente mancata depurazione in caso di piogge forti, inefficienza del sistema di drenaggio urbano (causa di allagamenti etc.), carenza dei sistemi di controllo e monitoraggio degli scarichi; il 94% della popolazione risiede in aree che dispongono del servizio fognatura, ma il 23% non è allacciato a reti fognarie; gli impianti di depurazione esistenti sono circa 9.800 (73,1 milioni di abitanti equivalenti), di questi, il 13% non risulta in esercizio, ma la capacità di depurazione complessiva, considerando l’apporto del nuovo grande depuratore di Milano, è potenzialmente quantificabile in 88 milioni di abitanti equivalenti;
molti piccoli impianti, con problemi di dimensionamento e di costo, altri impianti sovradimensionati, da cui risultano alti costi unitari di gestione, basso livello di efficienza, gestione limitata, cattivo stato di manutenzione e rapido degrado delle infrastrutture, alti costi di smaltimento dei fanghi a causa della presenza di sostanze inquinanti.

Con riferimento al solo settore acquedottistico, si evince un fabbisogno in termini di aumento della sicurezza del rifornimento e di contributo alla tutela quantitativa degli acquiferi, che a loro volta comportano una serie di nuovi investimenti per conseguire:
il raggiungimento e mantenimento nel tempo di un livello appropriato di riserva di potenzialità degli impianti di produzione rispetto ai valori attuali e a quelli previsti di domanda;
la differenziazione delle fonti primarie utilizzate, mediante la valorizzazione delle risorse disponibili localmente, lo sviluppo di nuove fonti di rifornimento da acque superficiali, una maggiore integrazione delle diverse reti di adduzione principale;  una tutela più rigorosa della qualità degli acquiferi mediante la gestione controllata degli emungimenti e delle aree di salvaguardia.
Per quanto attiene invece gli investimenti prioritari in fognatura e depurazione si rendono necessari notevoli investimenti infrastrutturali sugli impianti di depurazione e sulla razionalizzazione delle fognature, privilegiando sistemi di collegamento sovracomunali.
Tra le priorità se ne indicano alcune più urgenti: interventi per razionalizzare, potenziare e migliorare la qualità della rete acquedottistica; interventi di sistema per razionalizzare ed adeguare il sistema depurativo; interventi di adeguamento degli scarichi; estendimenti di reti acquedottistiche e fognarie per migliorare l’efficacia del servizio; esecuzione di lavori urgenti di mantenimento ed emergenza, con particolare riguardo alle opere fognarie e depurative e alla riduzione delle perdite negli acquedotti.

Per approfondimenti: acqua.info

sabbioncello

Le nostre radici e un tesoretto da poter spendere

Con l’auto ci arrivi in pochi minuti, ecco Fossalta con le poche anime, un piazzale, Chiesa, campanile, canonica ed entri.
Ti vengono incontro con un sorriso, se vuoi c’è un caffè, trovi la beneficenza elettronica, ti accompagnano al Presepe e ti fanno da guida; in un giorno del 31 dicembre nel primo pomeriggio ho trovato una ventina di persone.
La Natività è tutta nel presepe, ti ritrovi in uno stanzone grande e basso, lungo i lati e su tre piani scorci ed immagini di vita familiare, viuzze, case d’epoca, animali, una trattoria, il gioco delle carte, balconi in ferro battuto, una cascata d’acqua, piazze di mercato, botteghe e vecchi arnesi, bancarelle, scuole ed, in lontananza, la Chiesa di San Venanzio e Villa la Mensa.
Trascinato da musica, canti, contrasti di colori e luci ti senti coinvolto in una singolare architettura d’ambiente ed è bellissimo, sì questo presepe di Fossalta e Viconovo è bellissimo.
Non è solo visione, è sentimenti e passioni, dietro stanno piccole comunità, le storie di vissuti, in una geografia di luoghi nello scorrere del fiume.
Se ti muovi, tra Denore ed Albarea di là, tra Sabbioncellino e Fossalta di qua e, poi, a Villanova e Sabbioncello fino alla chiusa, con il gommone prima e, dopo, con la bicicletta, in un fine settimana, nell’inizio di primavera e d’autunno, cogli tutto il portato di queste terre.
In quest’angolo di campagna, di qua e di là dalla riva del Volano a pochi chilometri da Ferrara vedi e assapori un piccolo pezzo del Trentino, un angolo di milieu sociale e culturale, uno scorcio di distretto rurale e ti pare impossibile riviverlo.
Qui ci sono ancora le processioni, i preti di Francesco, la spesa la portano a casa, c’è un emporio di abbigliamento, l’asilo e la materna, ancora le elementari, cene comunitarie, alcune eccellenze, i comitati dei genitori, le firme per i due ponti, le parrocchie, feste paesane, l’enogastronomia, il carnevale e i centri sportivi per bambini e ragazzi.
Ancora: la farmacia, alcuni bar per il tresette, due ristoranti tipici, uno sportello bancario, lunghi filari di alberi da frutta, un magazzeno della vecchia cooperativa, il lavoro alla Berco, mostre di pittura e scultura.
Le analisi del Censis troverebbero riscontro in questa raffinata ruralità, ancora la cultura contadina, umanità solidali ovunque, un forte cattolicesimo sociale, tanto sudore, tanto lavoro, tanta famiglia, molte radici e quei valori che sembravano persi.

Peccato che le Istituzioni locali restino un po’ in sordina e disattente pur avendo nelle mani un patrimonio, una ricchezza, un tesoretto da poter spendere, uno spazio rurale gentile, enormi potenzialità.
Forse quel Presepe può aiutarci ad uscire dalla profonda crisi che attraversiamo.
Abbiamo lanciato il sasso, pensando, con il nuovo progetto dell’idrovia del Volano, che ci possa essere una nuova attenzione a questo angolo di bellezze.

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Imparare/disimparare

Di life long learning si è molto parlato in questi anni, per segnalare l’importanza di aggiornare le competenze e le capacità professionali in un mercato del lavoro in continuo mutamento. Non si è parlato abbastanza di life long learning come condizione per la cittadinanza, come premessa della capacità di comprendere il tempo presente e di abitarlo con gli strumenti adeguati.
Ci capita di interpretare gli accadimenti misurandone la distanza da ciò che abbiamo conosciuto in passato e così siamo tentati di riportarlo sempre alla “degenerazione” del tempo presente. Il senso di smarrimento che talvolta proviamo di fronte a fatti che non riusciamo a comprendere segnala un difetto delle nostre categorie di giudizio. Non è facile cambiare gli occhiali con cui abbiamo guardato il mondo, soprattutto quando la scena diventa così complessa.
Sarebbe importante pensare al life long learning come qualcosa che riguarda tutti noi e il rapporto con il nostro tempo. È ciò che suggerisce un bel libro curato da Laura Balbo, Imparare, sbagliare, vivere (Franco Angeli), che Laura ha presentato a Milano, in occasione della festa per i suoi ottanta anni. Non conosco un modo migliore per onorare un compleanno importante.
Il libro ospita contributi di donne che hanno condiviso l’approccio al life long learning come esercizio di riflessività, per pensare sociologicamente esperienze personali e comuni: donne impegnate nella doppia presenza, intellettuali e madri, insegnanti, persone, cittadine impegnate nelle istituzioni.
Cito alcuni titoli di paragrafi scelti a caso: aggiramenti, linguaggi e significati, esercizi di traduzione, esperienze comuni, andare oltre, ospitare l’altro. Il libro è un prezioso scrigno di riflessioni (evito volutamente la parola insegnamenti che dovremmo usare con maggiore parsimonia) che emergono da storie raccontate in prima persona.
Ne interpreto alcuni importanti per me. Imparare è un processo che si snoda nell’arco di tutta la vita, che coinvolge noi adulti, un processo che ci cambia e che presuppone la capacità di metterci in gioco. E poi: si impara nei rapporti personali, nelle esperienze, anche in quelle traumatiche, che impongono discontinuità e svolte dolorose; si impara ripercorrendole con la memoria cercandone la comprensione, andando avanti e prendendosi delle pause, sperimentando, piuttosto che ripetendo copioni e tentando strade note. Si impara lasciandosi coinvolgere da persone e cose, sospendendo il giudizio, accettando, prima di giudicare, la realtà e indagandone il senso, cercando un punto di vista personale ed assumendone la responsabilità.
Laura Balbo parla di un life long learning che ci consenta di confrontarci con pezzi di mondo in movimento, con altre culture che si mescolano, con i tempi della nostra vita, che ci fanno essere adulti in modi sempre diversi. Un apprendimento che sappia inglobare strumenti interpretativi nuovi, che consenta di abbandonare certezze radicate, di tenere insieme aperura e rigore.
Per me è stato l’occasione per ripercorrere una storia in parte comune e per ripensarne il senso. Che cosa ho portato a casa, in una frase? Si impara, sottoponendosi allo sforzo più grande, quello di disimparare, vale a dire quello di allontanarsi da tutte le certezze dietro alle quali nascondiamo la nostra pigrizia.

don-francesco-fuschini

Don Fuschini, il prete-scrittore amico degli anarchici

FRANCESCO FUSCHINI
(centenario della nascita)

Ancora giovanissimo, quando era seminarista, Francesco Fuschini (1914-2006) ha esordito con i suoi primi testi sulle pagine della prestigiosa rivista “Frontespizio”. Successivamente, ha dedicato quasi del tutto la propria attività letteraria alle colonne dell’“Osservatore Romano” e, soprattutto, del “Resto del Carlino”. Per molti anni, i suoi articoli e racconti sono rimasti patrimonio privilegiato dei lettori dei quotidiani, poi (a partire dal 1980) nell’arco di tre lustri sono apparse in libreria tutte le sue pubblicazioni. Il successo è stato immediato, sia di critica che di pubblico e il suo esordio in volume: il bellissimo L’ultimo anarchico, rimane probabilmente ancora oggi il suo capolavoro.
Don Fuschini, prete piuttosto “scomodo”: si pensi solo a titoli come Non vendo il papa, componeva con prosa ironica e accattivante, con la penna intinta nell’inchiostro dolce della saggezza popolare. Scrive di lui, nella antologia I Grandi di Ferrara, Uber Dondini: «Il “mondo piccolo” di Fuschini è racchiuso fra le valli di Comacchio dove il piccolo Francesco visse accanto al padre fiocinino e addestratore di cani da caccia e Porto Fuori, la più rossa parrocchia italiana. Seguito nelle pratiche di culto da uno sparuto gregge, Fuschini è stato però l’amico e il confidente di tutti gli abitanti del paese, fra i quali, i suoi anarchici, amatissimi per la loro fede disinteressata nell’uomo e per la loro intransigenza morale».
Con i suoi testi Francesco Fuschini ha creato, forse senza volerlo, una sorta di “mondo mitologico”, di habitat culturale e ambientale edificato sulle fondamenta al contempo fragili e profondissime dei valori veri, della povertà, della solidarietà e di una “storia” italiana, in specie delle genti emiliano/romagnole, che affonda le proprie radici in un paese di certo precario ma ancora a misura d’uomo. Il suo rapporto equo con la natura e con gli esseri si propone quale mentore verso un “parnaso” nostrano, abitato non però da semidei ma da uomini e donne sovrani solo della loro nobile quotidianità. Perfino il suo celebre cane Pirro è ormai entrato nella leggenda, così come accadde alla tenera Cunegonda: l’ultracentenaria tartaruga del cesenate Marino Moretti.
Vincitore di premi letterari quali il Guidarello e il Fiorino-Montefeltro, Fuschini è stato scrittore di delicata sensibilità. La sua prosa, densa di splendide contaminazioni dialettali, è preziosissima sia sotto il punto di vista del significante che del significato, tanto da poterla accostare a quella di uno dei capolavori assoluti del secondo Novecento: Libera nos a malo di Luigi Meneghello. Quantunque l’arte di Fuschini, pur letterariamente inquadrabile, non sarebbe tale senza la smisurata umanità che l’autore spontaneamente vi dissemina, senza la sua grande anima della quale rende partecipi i lettori. Le sue principali pubblicazioni sono: L’ultimo anarchico (1980), Porto franco (1983), Parole poverette (1984, poi riedito), Concertino romagnolo (1986), Mea culpa (1990, poi riedito), Vita da cani e da preti (1995).

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Sotto la pioggia battente di Birmingham, dalle micro attenzioni ferraresi alle macro dispersioni inglesi

BIRMINGHAM – Piove a Birmingham. Tante paia di scarpe, tra cui varie ballerine, finiscono noncuranti nelle pozzanghere. Chi le indossa cammina veloce, lo sguardo fisso nel vuoto: così gli inglesi si distinguono dall’altrettanto folta massa di residenti esteri. Non soffrono il freddo, un maglione è sufficiente a riscaldarli, mentre passano accanto a un albero di Natale, diretti a casa, per preparare un dolce con fragole e lamponi freschi di serra contenute in buste anonime di carta: l’Università di Birmingham è uno dei pochi punti della città dove si possono acquistare frutta e verdura appena colte, perlomeno questo si lascia intendere. Coloro che non hanno particolari pretese, e non necessitano di accontentare l’olfatto, per esempio, possono svoltare in uno dei tanti supermercati, dove si acquista il pane, rigorosamente a fette, appena sfornato dai panifici olandesi. Tra i piccoli market in città spiccano, inoltre, i Despar; la catena, anch’essa di origine olandese, dalla tinta verde e rossa, qui è una delle più presenti ed è ben nota pure a Ferrara dove, fra via Carlo Mayr e piazza Travaglio, ha avuto la vincente trovata di aprire un ristobar che utilizza in cucina tutti i prodotti a breve scadenza provenienti direttamente dai banchi. Dunque una maniera per abbattere gli sprechi della grande distribuzione.
Ma se a B’ham – inflazionata abbreviazione usata sugli stessi cartelli stradali di città – può risultare d’affronto comprare del pane da tagliare, può esserlo altrettanto usare delle padelle in cucina: è sufficiente porre un piatto nel forno a microonde, o al massimo togliere la pellicola protettiva dalle vaschette. Così, leggendo le note sulla confezione del riso, si scopre che anche questo, in pochi istanti, può essere cotto facendolo girare pigramente in un elettrodomestico, per non parlare, poi, del caffè. La fretta impèra sulla folla e indebolisce decennio dopo decennio le abitudini, qual è la pratica culinaria, che invece aggrega in Italia intorno ai fornelli.

birmingham
Un’antica chiesa nei pressi del centro commerciale

Anche avere il tempo di bere un caffè sembra essere un lusso nella piovosa patria della finanza, settore trainante dell’economia britannica: infatti, gli infiniti Starbucks e Costa – “made in Italy”, non a caso – alimentano un immenso viavai di clienti in cerca di un’enorme (solo, però, per noi “stranieri”) tazza da asporto di un qualche caffè aromatizzato, truccato oltre che nell’aspetto, pure nel sapore. Gli inglesi metropoliti, a ben vedere, in effetti preferiscono non fermarsi nei locali, né a bere né a mangiare, non hanno tempo per queste cose, soprattutto per pranzo. Amano consumare una baguette français, in barba a cent’anni di guerra e a una sempiterna ostilità, mentre tornano al lavoro, accompagnandola a un altro Frappuccino o a una bottiglia di Coca Cola: l’acqua non è tenuta in considerazione.
Il turno lavorativo giunge presto al termine, alle 17 in media. Presto solo per gli orari che seguiamo noi europei, poiché alle 18 è ora di sedersi a tavola, magari in fretta, per poter fare poco dopo un salto a teatro. Lo sfarzo, la bravura e l’eleganza mostrati da artisti e scenografi del balletto contrasteranno presto con il comportamento degli spettatori, anche agli occhi dell’osservatore più assonnato: birre, popcorn e patatine sono fedeli stuzzichini da assaporare comodamente avvolti in una tuta da ginnastica. Difatti la metropoli non possiede luoghi di ritrovo culturale e dai medesimi autoctoni è ritenuta una delle più disinteressate del Paese alla creatività: al di là di alcune compagnie stabili di recitazione che sopravvivono con i rispettivi palchi, un museo nel centro puntiforme primo-novecentesco, e qualche sporadica manifestazione di laboratorio artigianale dell’argento verso la periferia, non c’è altro. Giusto l’ennesima chicca universitaria, la galleria d’arte gestita dal The Barber Institute of Fine Arts di direzione italiana, la quale ospita temporaneamente collezioni pubbliche o private di levatura mondiale: ultimamente in mostra, da Veronese a Magritte, da Hiroshige a Botero, da Tiziano a Ingres.

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Birmingham

Il teatro è nel cuore di Birmingham, come pure il centro commerciale più vasto d’Europa. In effetti, il Bullring è una struttura che non passa inosservata. All’interno, scartati i ristoranti, noi europei facciamo poco shopping: tra magliette cortissime ed eccentrici pantaloni, la scelta ricade sui soliti brand di massa, noti a chicchessia, come H&M o Zara. A pochi passi dal Bullring, si impone con altrettanta – se non superiore – affluenza di consumatori, Primark, gigantesca catena di abbigliamento, che offre montagne disordinate di abiti a prezzi degni della migliore offerta. I tre piani di pareti e pavimenti bianchi illuminati da luci ugualmente fredde – che sfiancano i poco avvezzi allo shopping sfrenato – i flussi interminabili e vorticosi alle casse rapide creano un’impellente esigenza di aria fresca. Per dimenticare la vista dei maglioni dai colori improponibili e le maxi-tute da giraffa o da Hello Kitty, tendenza serale dei giovani estroversi, ci si fa strada tra i venditori ambulanti lungo la via principale del Centro, dove spicca un Casinò, auspicando che non capiti anche alle varie Milano, Roma, Torino, di pullulare di tali “attrazioni”. Gli ambulanti immersi nella folla sono i più variegati: chi offre riviste tutt’altro che ispiranti, chi molto ispirato recita passi della Bibbia, chi a gran voce vende a prezzi stracciati mazzi di crisantemi e rose insieme. C’è chi noterà che il venditore abbia fatto un errore simile a quello della «donzelletta che vien dalla campagna» di Leopardi, ad abbinare fiori di stagioni diverse e dai significati simbolici contrastanti, eppure gli inglesi abbinano i fiori quanto le ciliegie con gli alberi di Natale: lo testimonia in modo lampante la festosa parata fuori luogo e fuori misura che si è tenuta a metà novembre… con più di un mese di anticipo all’insegna del Kitsch, che banalizza ciò che tocca per renderlo subito merce comprensibile e appetibile.
A proposito di Leopardi, qui a Birmingham è quasi più noto di Dante dopo la recente traduzione dello Zibaldone in inglese da parte del Centro di studi di italianistica dell’Università: chissà che in libreria non ne abbiano già una copia. Ma dove trovare una libreria? All’appello c’è poca scelta, ce n’è una sola, “ma tanto là hanno qualsiasi libro, al massimo si ordina”, parola di coinquilino studente. E se si cercasse una libreria senza aria condizionata anche d’inverno, senza un bar all’interno, senza tutti quei piani uno sull’altro? Una libreria minuta e accogliente, dove potere parlare con la libraia che ne conosce i ripiani per filo e per segno? Niente da fare nel centro di Birmingham che, nella mentalità di un europeo, conserva una scarsa genealogia storica.
Nel periodo natalizio, seguendo il mercatino deutsch di Natale, definito “di tradizione” nonché il più esteso d’Europa, si va in direzione della nuova biblioteca comunale – mastodontica – anch’essa la più grande del continente e di recentissima apertura. I conservatori hanno lanciato ovvie polemiche sulla sopravvivenza delle biblioteche più piccole e decentrate, che stanno andando in crisi, ma risultano interessanti anche le polemiche riguardanti la funzionalità del nuovo complesso, il quale, pur di attrarre più visitatori, offre svariati servizi corollari, più o meno pertinenti.

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Birmingham

Birmingham è, quindi, una città megalomane? Una città che attira a tutti i costi solo perché offre le attrattive, gli incanti più grandi d’Europa? Il centro, di stampo industriale, è stipato di contrasti: è nato e ha continuato a svilupparsi velocemente, sebbene senza le cure necessarie, oltre le superfici di asfalto e di cemento; oggi si alternano fabbricati grigi, impersonali e decadenti, a sgargianti edifici di nuova costruzione: che sia la strada a caccia della rivalsa per competere in grandezza con il continente, laddove non si può con la storia? D’altronde, gli inglesi stanno dimostrando ferocemente di non volerne sapere di una Comunità Europea effettiva, unita sia nell’amministrazione sia nella moneta, un’entità che respiri collettivamente senza troppe differenze.