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L’eredità della Achmatowa e la responsabilità dei giornalisti

Nella prefazione di una lunga Requiem per le vittime dello stalinismo, la poetessa russa Anna Achmatowa (Bol’soj Fontan, 1889 – Mosca, 1966) ricordava un incontro durante la coda davanti alla prigione di Leningrado/Pietroburgo. “In un modo o in un altro qualcuno mi aveva riconosciuto. Allora si destò la donna con le labbra livide che era in piedi dietro di me, che naturalmente non aveva mai sentito il mio nome, e mi domandò, sussurrandomi all’orecchio: “E lei sarebbe in grado di descrivere tutto questo?”. E io dissi: “Sì”. Allora qualcosa come un sorriso sdrucciolò su quello che era stato il suo viso”.

Grazie a Dio, oggi lo stalinismo, almeno quello di una volta, non esiste più, ma ci sono altri modi di combattere e di perseguire la libertà di stampa e d’opinione in tutto il mondo, anche in Europa, anche in Germania, anche in Italia. Ma nonostante il degrado di una democrazia vera ed ideale, non si può paragonare il grado di terrore politico che si ebbe durante lo stalinismo degli anni dei Gulag a quello che oggi abita la freddissima Corea del Nord, la Cina dei comunisti capitalisti o la Russia di Putin, degli oligarchi ricchissimi con l’incavatura della democrazia occidentale. Ma il ricordo di Anna Achmatowa, dell’episodio davanti al carcere staliniano, resta utile per il giornalista che non voglia disperare davanti a eventi drammatici.

Ogni giornalista ha l’enorme opportunità, ma anche la responsabilità, di tradurre con la scrittura quello che altri, le vittime inermi e ammutolite, non riescono o non possono più esprimere. Sembrano parole patetiche ma il giornalista le deve sempre riprendere nelle situazioni drammatiche, quando si imbatte nei limiti della sua professione. Oggi, si parla molto e sempre di più di una rivoluzione nel mondo mediatico attraverso la comunicazione online e sui social network. Davvero l’attuale cambiamento del nostro modo di comunicare con gli altri, con i più vicini e in tutto il mondo, è radicale. Sopratutto per le generazioni più vecchie, talvolta ha effetti anche sconvolgenti, quasi come un terremoto delle loro abitudini. Perciò, noi come giornalisti off e online abbiamo quasi come un precetto, quello che le persone in coda davanti alla prigione staliniana hanno domandato alla Achmatova: “Lei sarebbe in grado di descrivere la nostra crescente precarietà nei tempi di crisi?” “Si”, diceva la Achmatowa. E qualcosa come un sorriso sdrucciolò su quello che era stato il suo viso.”

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Anche Hulk è verde

Nelle pagine di un quotidiano ferrarese di qualche giorno fa, ho letto un articolo su un gruppo di ragazzi che hanno deciso di abbellire un viale del Lido degli Estensi, piantando un vecchio olivo in una fioriera. Questa azione veniva riportata come un gesto da “Guerilla gardeners” che aveva come obiettivo, portare bellezza sulle strade, anche attraverso azioni non convenzionali o autorizzate. Il tutto sponsorizzato dal vivaio “tal dei tali” che aveva fornito mezzi e piante. Tutto giusto, ma c’è qualche inesattezza che va chiarita. “Guerrilla Garden” è un termine che circola da decenni, probabilmente fu usato per la prima volta negli anni ’70 a New York, per indicare l’azione di un gruppo di ambientalisti che avevano creato un giardino, con mezzi di fortuna e senza permessi, in una piccola area abbandonata in un quartiere degradato. Il giardino di Bowery Houston esiste ancora ed è mantenuto e conservato da giardinieri volontari del quartiere, realizzando l’idea dei suoi fondatori di creare un luogo di aggregazione attraverso un giardino. I gruppi che praticano questo tipo di azioni, sono sparsi nel mondo, alcuni sono piuttosto goliardici, ma in generale si tratta di gente seria e motivata, che cerca di riqualificare quartieri problematici, migliorandone la qualità di vita attraverso giardini, pianificati e curati in modo spontaneo. Questi possono avere vita brevissima, perché non hanno nessun tipo di autorizzazione, ma a volte succede che la volontà degli abitanti di un quartiere sia in grado di trasformare qualcosa di effimero in qualcosa di stabile, come nel caso del Jardin d’Éole a Parigi, dove una vasta area abbandonata, colonizzata spontaneamente con piante e arredi, invece di essere spianata ed edificata con un nuovo isolato, sia stata mantenuta e riprogettata come un vero parco urbano.
I veri giardinieri corsari si muovono in modo semi clandestino, usando in modo creativo materiale di recupero, riciclando quello che si trova e per quello che riguarda le piante, facendo affidamento su tutto ciò che può crescere spontaneamente in un sito, perché in questi progetti la riqualificazione ambientale e sociale ha più importanza dell’estetica e delle mode. Rispetto all’azione dei Lidi, sponsorizzata chiaramente da un vivaio, che giustamente si è fatto pubblicità in questo modo, sono molto più corsare certe appropriazioni di suolo pubblico da parte di privati, per esempio, quando vediamo risulte e spartitraffico trasformate in aiuole fiorite a prolungamento di giardini condominiali.
Posso anche sbagliarmi, ma la nota stonata della faccenda del Lido non è lo sponsor o l’uso del termine “Guerrilla Garden”, quanto l’idea che si possa diffondere la bellezza piantando un olivo su una torta di cemento. La moda degli olivi è dura a morire e ormai, come tante altre cose brutte, ci sembra normale. Gli olivi sono bellissimi nel loro contesto rurale, nei loro campi assolati, dove sono stati coltivati e cresciuti, trapiantarli è un danno per tutti: impoverisce un paesaggio mediterraneo e impoverisce il nostro. Ci lasciamo affascinare dalla esuberanza delle piante e dei fiori, soprattutto quando andiamo in vacanza, e ci illudiamo, che per una qualche proprietà transitiva, la bellezza di un luogo si possa semplicemente trapiantare nel nostro giardino attraverso la bellezza di una singola pianta. Posso capire chi pianta un piccolo ulivo in terra e cerca di abituarlo, anno dopo anno, a convivere con l’umidità e con un cielo che non gli appartiene, ma spostare un vecchio albero dal suo terreno per il semplice gusto modaiolo di averlo in giardino o ancora peggio, innalzarlo come un triste monumento dentro una fioriera, continua a sembrarmi una schifezza. Forse qualcuno dovrebbe insegnare ai ragazzi che abitano ai Lidi quanto sia bella la loro Pineta e la varietà straordinaria del suo ecosistema, oppure fargli capire che anche Hulk è verde, ma non basta il colore per migliorare un ambiente urbano.

Ida: un velo, e poi ?

Rigorosamente in bianco e nero, ambientato nella Polonia del 1962, il film racconta la storia di una ventenne orfana, l’austera Ida, senza identità né radici, cresciuta in un isolato, anonimo e buio convento. Alla ricerca di un passato ignoto, la giovane, che sta per prendere i voti, scopre di avere una lontana parente ancora in vita, la zia Wanda, sorella della madre defunta mai conosciuta. L’incontro con la donna segna l’inizio di un viaggio alla scoperta del proprio passato comune, oltre che di se stesse, un vero racconto on the road, dove s’intrecciamo segreti, voglia di conoscere e di assaporare-spremere la vita, tristezza, fede e curiosità di dimensioni esistenziali mai nemmeno lontanamente immaginate.

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La locandina del film

In un vero racconto di formazione, Ida apprenderà delle sue origini ebree, cercherà di conoscere una zia magistrato rigida, una donna concreta, piena di rabbia e disillusione, impaziente, superficiale, misteriosa, libertina, fumatrice e bevitrice, con un cuore inaridito dagli eventi, dal cipiglio poco amorevole, severa ma tenace e allo stesso tempo fragile, che la metterà inevitabilmente e crudamente di fronte a se stessa.
Il film ci racconta di una Polonia non ancora del tutto riconciliata con la sua storia, invasa dalla Germania nazista, liberata dall’Armata Rossa, entrata, poi, a far parte del Blocco sovietico; ci parla di un paese martoriato, dalle oscure memorie, alla ricerca di un luogo di sepoltura per i genitori di Ida (il cimitero ebraico abbandonato di Lublino), uccisi dal cattolico perbene, loro vicino, principalmente per paura e, quasi sicuramente, per appropriarsi della loro modesta casa di legno.
Le scene ci raccontano della suora ebrea dai lunghi e setosi capelli nascosti (Anna, che scoprirà di chiamarsi Ida Lebestein).

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Una scena del film

Una storia intensa, straziante, dolorosa, reale, avvincente e carica di umanità, in soli 80 minuti di durata complessiva.

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In preghiera

Il formato scelto dal regista è interessante e insolito, dalle proporzioni vicine al 4/3 (il rapporto d’aspetto è 1.37:1, utilizzato tra il 1932 e il 1953), retaggio di un cinema del passato ma anche funzionale alla relazione fra le due protagoniste: l’ampiezza ridotta del fotogramma incentiva una sensazione di prossimità a esse. Ed è proprio la compattezza delle dimensioni spaziali a suggerire il tema sotteso all’intera pellicola, ossia la mancata conciliazione tra l’orizzontale e il verticale, l’alto e il basso, la realtà terrena e la fede, il presente, sfuggente, e il passato storico, tutto da riportare alla luce.

Le fotografie in bianco e nero, vere immagini pittoriche, firmate da Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal, riflettono l’austerità dell’epoca, le cicatrici non rimarginate, l’oscurità del non conoscere la vita e il mondo da parte di una giovane e bella Ida, che “non sa l’effetto che fa”.
Il sottofondo musicale è interessante, ritmico, malinconico e romantico. Ascoltiamo brani jazz, suonati dal gruppo del sassofonista-autostoppista incontrato lungo il pellegrinaggio di Wanda e Ida, di John Coltrane e canzoni di Adriano Celentano.

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Scene dal film ‘Ida’

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Ida risponderà come può alla domanda di Wanda: come fai a conoscere l’entità del tuo sacrificio nel prendere i voti se non hai mai sperimentato la vita reale? Dove sta la nobiltà del tuo sacrificio? Ida proverà la vita, il ballo, l’amore. Per sapere.
“E poi?”. Appena Ida pronuncia questa domanda, più volte scandita e ripetuta, non si hanno dubbi: da qui passa la forza della sua storia. Con quelle due semplici parole, pesanti come un macigno, la giovane non interroga soltanto il bel sassofonista “zingaro”, suo diretto interlocutore che le parla di futuro, ma per la prima volta, chiama in causa direttamente lo spettatore. Ida sarà pronta per tornare al convento, conscia ora di quello cui davvero, alla fine, rinuncerà.
Una scelta controcorrente, resa evidente dalla giovane, candida come la neve, che cammina, nella stessa neve, verso il convento in senso contrario al flusso delle auto.

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‘Ida’ di Pawel Pawlikowski

Un film sorprendente, sulla Shoah, sulla Polonia, sull’identità e sulle scelte esistenziali delle persone. Un piccolo gioiello, dagli echi polanskiani e tarkovskijani.

di Pawel Pawlikowski, Danimarca/Polonia 2013, 80 mn. con Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik, Adam Szyszkowski, Jerzy Trela e Halina Skoczynska.

I valori dell’amicizia

“Ci sono parole” come ha scritto una volta il filosofo tedesco Siegfried Kracauer, “che passano di bocca in bocca attraverso i secoli senza che il loro contenuto concettuale assuma mai nella nostra mente contorni chiari e definiti.” Una di queste parole è ‘amicizia’. Un termine talmente utilizzato fra di noi, che spesso se ne dimentica il significato. Con chi si manifesta? Con i compagni di scuola, con i colleghi, con i vicini di casa, con persone vicine oppure lontane? E chi sono i nostri ‘amici’? L’amicizia è quella che si coltiva da ragazzi, oppure è un sentimento che ci accompagna tutta la vita e che si rafforza solo in età adulta? Oggi, nell’epoca di Facebook e di una vita che passa giorno per giorno come un lampo, esiste ancora l’amicizia profonda e resistente d’una volta?

“Troppe cose si perdono del mondo che scompare”, ha scritto una volta lo storico Arturo Carlo Jemolo, “si nota spesso lo svanire del pudore, non solo quello del corpo, ma l’altro delle parole, dello scoprire la propria anima: ma io temo assai che scompaia anche l’amicizia”. Fra gli amici di Paolo Ravenna c’era anche Arturo Carlo Jemolo, professore di Diritto ecclesiastico a Roma. Cattolico fervente ma anche difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa. Paolo Ravenna ha sempre parlato molto bene di Jemolo perché durante la persecuzione degli ebrei, negli anni dopo le leggi razziali del 1938, ha salvato clandestinamente una famiglia ebrea. Senza una clamorosa retorica antifascista, senza ogni forma di esibizionismo patetico. L’ha fatto per amicizia, per autentica amicizia umana: per un’amicizia che non conosce solo una fede o un’ideologia comune. Perché alla fine, ciò che veramente conta per vivere e dimostrare l’amicizia sono le cose concrete. Salvare la vita degli altri ma anche salvare e proteggere una città o un paesaggio intero è un atto d’amicizia, senza nominarla. Questo si poteva imparare dai tanti amici di Paolo Ravenna come Jemolo o Giorgio Bassani o Tullia Zevi, per citare solo tre nomi. Per l’avvocato l’amicizia contava moltissimo. Ma l’amicizia significa anche dover differenziare fra la colpa dei tanti, dei pochi o di un uomo solo. Alla sinagoga in via Mazzini è stata posta una lapide. Vi si leggono scolpiti i nomi degli ebrei ferraresi uccisi nei campi di concentramento nazisti. Il cognome Ravenna appare frequentemente, quasi come nessun altro. Tutti quei Ravenna sulla lapide sono stati deportati e non sono mai più ritornati a Ferrara. Leggere i nomi su una lapide per un tedesco non è mai facile, perché sempre accompagnato da un ricordo amaro della storia recente della Germania. Paolo Ravenna avrebbe avuto non pochi motivi per essere scettico e sospettoso dei tedeschi. Ma per lui c’era sempre una differenza fra le colpe della gente di ieri e l’innocenza delle nuove generazioni. La prima volta in cui avemmo l’occasione di conoscerci, mi pregò immediatamente di essergli d’aiuto nella ricerca dell’identità di un soldato tedesco della Wehrmacht che durante l’occupazione nazista si recava giornalmente alla biblioteca comunale, mostrando molto interesse per i classici italiani. Questo maggiore, istruito e cosciente, avrebbe fatto l’impossibile per proteggere la biblioteca dagli atti vandalici dei militari tedeschi, come confermano testimoni dell’epoca. Soprattutto si sarebbe particolarmente adoperato per salvaguardare il materiale archiviato concernente il “comune ebreo” di Ferrara. Paolo Ravenna voleva sapere da me chi era quel soldato buono e civile della Wehrmacht nazista. Le responsabilità delle truppe tedesche sul territorio italiano le conoscono tutti, ma per Ravenna era più importante sapere qualcosa sulla vita di un soldato dissidente e rispettoso delle persone e della loro cultura. Una memoria civile e matura sui crimini perpetrati dai fascisti italiani e dai nazionalsocialisti tedeschi non si deve limitare al perdono, ma deve condurre ad una ricerca consapevole che abbia il grande coraggio dell’analisi obiettiva e quindi della differenziazione: l’avvocato Ravenna aveva questo coraggio. Per me Paolo Ravenna, con la sua serietà e il suo decennale impegno per Italia Nostra, il suo amore per Ferrara, alla quale pur non risparmiava critiche talvolta anche dure ed impazienti, e la sua estrema affidabilità, ha rappresentato quei valori di una volta e fra questi anche l’amicizia, oltre i limiti della simpatia e della superficiale cordialità. Il senso di responsabilità per la ‘polis’, la città in cui viviamo, era per loro una cosa ovvia. La ‘città nostra’ o il ‘Paese nostro’ non erano per quella generazione bandiere da sventolare ma da vivere, da difendere e da costruire. Un amore tutto particolare Paolo Ravenna l’aveva per esempio per il Delta: quando ci recavamo nei dintorni di Ferrara, nelle cittadine e nei piccoli paesi, i suoi racconti erano interminabili: battaglie, nomi, progetti, ricordi senza fine. E ciò che è oggi il delta del Po è merito di uomini come l’avvocato Ravenna e, come egli stesso ha sempre sottolineato, del suo grande insegnante-amico Giorgio Bassani. Al centro del suo rapporto di amicizia con il famoso scrittore c’erano, paradossalmente, meno poesia e letteratura e più impegno civile per la protezione e la difesa del tesoro culturale italiano, della ‘Nostra Italia’, come ripeteva sempre con chiarezza a tutti quelli che erano capaci solo di lamentarsi della decadenza del Paese. Quando si vuole ricordare Paolo Ravenna, non si può fare a meno di menzionare la sua passione per la fotografia. Il cimitero ebraico di via delle Vigna, cui ha dedicato anche un bellissimo saggio fotografico “L’antico orto degli ebrei“, era uno dei suoi luoghi preferiti. Sebbene non sia mai stato un acceso sostenitore del culto dei morti, questo luogo, dove sono sepolti anche i genitori, i parenti e tantissimi amici, ha significato per lui davvero molto. Non solo come luogo per ricordare i tempi passati e gli amici che non ci sono più, ma anche per progettare qualcosa di nuovo per il futuro, in memoria dei defunti. Poco prima del suo riposo eterno, mi ha dato in mano un foglio un po‘ stropicciato con una poesia che mi parve avesse un grandissimo valore per lui:

Agli amici
da Primo Levi

Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso.
Che l’autunno sia lungo e mite.

Ravenna sognava di realizzare un nuovo progetto: voleva pubblicare un libro sui suoi amici più cari, ne aveva tanti. Avrebbe dovuto ricordare un mondo, come ha scritto Jemolo, “in cui la parola amico aveva un significato profondo”. E’ come un’eredità per i giovani d’oggi.

Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.

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Sul baratro di un’inutile scuola

di Jaime Enrique Amaducci*

In notturna, seguo le note seducenti e malinconiche del piano di J. W. Pollack che mi rapisce con My Funny Valentine, mentre la mente e il cuore sono scossi dall’attualità delle parole di Mario Lodi… e dal risentimento di chi sostiene, convinto, che la deriva della scuola italiana sia il “prevedibile esito di decenni nei quali le chiavi della scuola sono state consegnate alla pedagogia, che l’ha portata fin sull’orlo del baratro di una completa inutilità” (F. Lavezzi, “Oppressa da genitori e scartoffie un’inutile scuola sull’orlo di una crisi di nervi”, in www.ferraraitalia.it).

Come si può cogliere da numerosi documenti elaborati a livello internazionale (nemo propheta in patria…) Mario e tanti altri pedagogisti italiani hanno scrollato dalla polvere ultradecennale e ispirato la ricerca a livello nazionale ed internazionale. L’idea che sta alla base di una scuola inclusiva è uno dei tanti esempi del valore dell’italica pedagogia che, nella maggior parte dei casi, è stata lasciata fuori dalle porte delle scuole… tenuta ben lontana dalle aule, conservata nelle pagine di libri al massimo utilizzati per superare concorsi, per riempirsi la bocca durante gli aulici discorsi celebrativi o per imbastire strumentali campagne elettorali.
“Una scuola inclusiva deve fornire possibilità e opportunità di applicare diversi metodi di lavoro e il trattamento individuale è realizzato in modo che nessun bambino sia escluso dalla comunione e partecipazione a scuola. Questo comporta la creazione di scuole a misura di bambino e si basa sui diritti fondamentali. Un’educazione basata sui diritti fondamentali, aiuta i bambini a esercitare i loro diritti. Non solo efficiente da un punto di vista accademico, ma è anche comprensiva, sana e protettiva per tutti i bambini, tenendo conto delle disparità tra uomini e donne e incoraggia la partecipazione degli studenti stessi, le loro famiglie e le loro comunità”. (Policy Guidelines on inclusion in education, Unesco, Paris, 2009, p.16)
Una scuola inclusiva è una “[…] scuola decisa a partire dai bambini, in cui tutti i ragazzi rappresentano casi particolari: tutti hanno le proprie esigenze, la propria storia, insomma la propria diversità”. (M. Lodi, 1982, p. 84). Una scuola “trasmissiva” è fondata sulla esclusiva trasmissione delle conoscenze “da chi sa a chi non sa”, in cui “gli scrutini finali di ogni anno e gli esami sono la verifica del livello raggiunto e dei contenuti imparati e memorizzati (p. 85)”. In ogni ordine e grado è ben radicato questo tipo di scuola in cui, a tutti gli effetti, non c’è posto per il diverso poiché “vi è entrato come eccezione, è stato accettato per spirito umanitario e non, come dovrebbe essere, per una precisa scelta professionale e pedagogica (p. 88)”.
Nella vision della scuola trasmissiva, il diverso che esplicita bisogni educativi speciali “fa perdere tempo […] causa una rottura, una violazione delle regole […] sottrae tempo agli altri ragazzi. […] “Una complicazione di questa scuola è la presenza di ogni tipo di diversità. […] Questa è una scuola di uguali per uguali che parte da livelli ipotizzati uguali e tende a livelli ipotizzati uguali. Chi non ce la fa si ferma, anzi è fermato”. Ma di fronte ai bisogni educativi degli alunni, all’insegna di quanto previsto dall’art. 3 della Costituzione, cosa è stato fatto “per rimuovere gli ostacoli che esistono, per fare della scuola il luogo di promozione di tutte le capacità di un popolo a progettare e realizzare la sua crescita e il suo destino? (p. 89)”.

Lungi da ogni ipocrisia gattopardesca, in Italia è possibile realizzare un tipo di scuola che tenga conto del processo evolutivo degli alunni e che “cerchi di adeguarsi alla diversità non come eccezione, ma come norma e valore?” (Mario Lodi, Guida la mestiere di maestro, Editori Riuniti, Roma, 1982)
… Un grazie a Mario, un grazie alla pedagogia inclusiva che apre nuovi orizzonti per risalire dal baratro della regressione…

* Dirigente Scolastico, scuola media “Anna Frank”, Cesena

Lettera al signor Renzi

Ill.mo presidente Renzi signor Matteo,
La vedo in ogni telegiornale sgambettare sorridente da un capo all’altro dello schermo, La vedo stringere mani di cittadini i quali credono di salutare il rinnovatore della politica e della società italiane. E’ il primo equivoco, mi sembra che Lei abbia fin qui semplicemente sostituito alcune persone con altre, ma senza mutare nulla del quadro disarmante in cui siamo costretti a vivere. Sono tanti gli equivoci: gli italiani della prima e della seconda (mai inaugurata), della terza o della quarta, repubblica vivono di equivoci, il primo fu quello di Garibaldi e del giocoliere Cavour, il quale approfittò della rivoluzione nel meridione per dire “alé, l’Italia è fatta, consegniamola a chi di diritto”, cioè ai Savoia e così il Paese, con la benedizione europea, fu regalato alla destra economica: oh, Signor Renzi, non ci siamo mai spostati da lì, di governo in governo, il potere rimase sempre nelle stesse mai.
Quando le cose stavano per cambiare, Da Gasperi rimise tutto a posto, fuori la sinistra dal governo, che è di proprietà della destra e dei suoi alleati, e via andare con la politica non dei diritti ma dell’elemosina quando si può. Per ultimo è arrivato Berlusconi, destra che più destra non si può. E, quando è salito al potere Lei, signor Renzi Matteo, abbiamo sperato che rottamasse almeno l’ex cavaliere. Macché! Berlusconi è stato il primo con cui, Lei, signor Renzi Matteo, ha dialogato e stretto un patto di ferro, tanto da far dire al condannato per evasione fiscale, cioè il più grave dei delitti che un uomo pubblico possa commettere, che il nuovo governo, al cui interno si era collocato come quinta colonna Alfano, stava eseguendo i suoi ordini, di Berlusconi naturalmente. Quindi Lei, signor Renzi Matteo è a capo di un governo di centrodestra: mica male per un uomo che ha ereditato quel poco che restava dell’antica vera sinistra (Pci), quella che con maggior forza si era esposta durante la Resistenza.
Lei, signor Renzi Matteo, ha rottamato praticamente il solo Bersani al quale è venuto un mezzo coccolone. Era l’ultimo “rosso“ (metto tra virgolette) ormai sfumato in rosa, della nostra politica. Lei, signor Renzi Matteo, afferma che la sua è la politica del fare, gli ottanta euro in busta paga sono lì a dimostrarlo, ma non ha cambiato nulla di quello che si deve cambiare: noi, signor Renzi Matteo, vorremmo che al governo ci fosse una forza in grado di sbattere fuori dalla società chi frega i suoi lavoratori, chi li mette in cassa integrazione, chi non paga le tasse, chi ne paga troppo poche rispetto ai suoi guadagni, infine che sbattesse in galera chi è stato condannato e non i poveri profughi affamati che giungono d’oltre mare con un carico insopportabile di sofferenza.
Non dia ascolto, signor Renzi Matteo, alla Lega, non dia ascolto alla destra che si nasconde sotto la bandiera tricolore inneggiando sempre meno sommessamente a chi il fascismo ha inventato. Signor Renzi Matteo, anche se Lei dice che le ideologie sono morte, non creda a quello che afferma, prima di parlare, lo dico a Lei che parla tanto, pensi a ciò che deve dire, abbiamo avuto già troppi venditori di pere cotte. Per favore, signor Renzi Matteo, stia attento.

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Sagre dalla A alla Z, a Ferrara il salone delle specialità

Sagre dalla A di Astrogastro – che è la gastronomia da gustare alla luce delle stelle con gli astrofili di Bondeno – alla Z di Zucca e del suo cappellaccio, che si celebra a San Carlo di Ferrara: sono un centinaio le feste di città, paesi e borgate all’insegna di specialità da mangiare per una volta presenti tutte in un colpo solo durante un unico fine settimana. Ferrara ospita infatti una fiera molto particolare, che è il Salone nazionale delle sagre, da venerdì 25 a domenica 27 aprile.

Partiti quattro anni fa con quest’idea, Ferrara Fiere Congressi e l’Associazione turistica sagre e dintorni sono riusciti a creare un evento, unico in Italia, che vuole celebrare una delle feste più diffuse e più variegate, che contraddistingue le specialità culinarie legate a tradizioni locali e spesso poco conosciute fuori dai piccoli confini del territorio dove vengono preparate. Ecco allora, la “panissa”, un particolare risotto che si prepara a Vercelli con una base di fagioli, battuto di lardo e salame con la cipolla e al quale è dedicata una sagra durante il mese di agosto. Ma ci sono anche le sagre dedicate al “fagiolo zolfino” (a Terranuova Bracciolini in provincia di Arezzo), alla “cicerchia” (un legume che viene preparato in forma di zuppa in novembre a Serra de’ Conti in provincia di Ancona), al “crostolo” (sorta di piadina a base di uova e strutto di maiale al centro di una festa settembina a Urbania, venti chilometri da Urbino), al “riso co’ le nose” (un risotto con le noci che si preparara a Nogara in provincia di Verona), alle lumache tipiche di Casumaro di Ferrara, al somarino che si prepara a Runzi di Rovigo e all’ortica usata per fare pasta fresca, ma anche ciambella e pane a Malalbergo di Bologna.

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“Salone delle Sagre” a Ferrara dal 25 al 27 aprile 2014

Assaggiare per credere, le cucine delle Sagre accendono forni e fornelli negli stand ferraresi dalle 12 alle 15 e poi dopo le 19 di venerdì, sabato e domenica per distribuire migliaia di assaggi di piatti tipici, dal tortellone al cotechino, dal bollito al salame alla brace. Quest’anno uno spazio particolare viene dedicato a pera, mela, pesche e a tutta la frutta che viene prodotta nel territorio emiliano, spiega Paolo Bruni, presidente del Centro servizi ortofrutticoli, che con il progetto “Sfrutta la sagra” punta a promuovere l’inserimento della frutta italiana di stagione nel circuito delle sagre.

Per gli amanti di filetti e braciole, ma anche di bignè e cannoncini il pomeriggio in fiera con il “Laboratorio didattico di pasticceria salata e preparati di carne in abbinamento”: in cattedra il maestro macellaio Lorenzo Rizzieri dell’Istituto italiano assaggiatori carne De gustibus carnis e Cristiano Pirani della pasticceria “Chocolat” di Ferrara. Non può mancare uno spazio riservato a un insaccato tipico di Ferrara: alla sera (ore 21) nell’area concorsi, il “Gran galà della Salama”: una sfida del gusto che venerdì vedrà protagoniste le salamine prodotte da privati, sabato quelle di laboratori e salumerie, e domenica per le migliori in assoluto tra le prime tre di ogni categoria.

Salone-delle-sagre-Ferrara-2014-Alluvione-1951-Rovigo-Il-Giornale-del-PoUn’area del salone sarà, poi, riservata a “Lungo il Po”, il progetto di valorizzazione enogastronomica e turistica dei territori lambiti dal grande fiume’, ideato da Ferrara Fiere Congressi, in collaborazione con le province attraversate dal Po e con le belle immagini di un fotografo come Mario Rebeschini che la bellezza di questi argini, canneti e cavalli selvaggi ha iniziato a immortalare negli anni ’70 contribuendo a rendere popolare un’area che all’epoca era poco conosciuta e valorizzata. Al Po è dedicato un percorso espositivo scandito dalle tipicità legate a paesaggio, cucina e arte che rendono uniche le terre bagnate dal fiume più lungo d’Italia. «Una grande festa popolare per tutta la famiglia – assicura Nicola Zanardi, presidente di Ferrara Fiere – dove si possono gustare sapori particolari; così localismo e microcomunità possono diventare motori di sviluppo di un intero territorio».

Il Salone delle sagre è alla Fiera di Ferrara, via della Fiera 11, venerdì e sabato, ore 10-23.30; domenica, ore 10-22.

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“L’Emilia e il Cile: io, marchiato da due terremoti”

di Antonio Martella

Da CHIMBOTE – Così imprevedibile e implacabile, la natura; così  impotente e impaurito, l’essere umano. Talvolta la frenesia della vita quotidiana impedisce di fermare lo scorrere del nostro pensare e capire i piccoli grandi avvenimenti che ogni giorno sua maestà Natura pone davanti al nostro filtro oculare.
Il terremoto che ha colpito il Cile il primo aprile scorso è solo una delle tante circostanze che ogni giorno invadono l’irrazionale umano.
L’entità del terremoto, con una magnitudo di 8.3, fortunatamente non ha causato così tanti danni quanti se ne potrebbero attendere da un scossa di questo livello.
Sei morti, diverse abitazioni distrutte, qualche frana che ha bloccato la normale viabilità, migliaia di persone rimaste senza corrente elettrica e tanta tanta paura, quello sgomento che chi ha passato il terremoto in Emilia conosce bene, quella pietrificazione e impotenza che sono archetipiche nell’uomo.
E’ un legame arcaico che ci unisce a madre natura; e il sentimento che ci governa ci dovrebbe, a volte, far riflettere su cosa affrontiamo, produciamo e creiamo nel nostro quotidiano.
L’uomo è l’ineffabile impotenza, la natura e la sorprendente  devastazione. In che misura oggigiorno l’uomo può resistere e opporsi nei confronti della sorprendente e imprevedibile natura? E’ il mio interrogativo, dopo gli eventi sismici emiliani e cileni che mi hanno coinvolto in prima persona.
Sono state delle lunghe e travagliati notti quelle vissute  tanto dalle popolazioni emiliane come dai loro compagni di sventura della costa del pacifico settentrionale. 1 aprile 2014  e 20 maggio 2012 sono due date che indelebilmente rimarranno incise nella mia memoria.
Sono quegli interminabili istanti che fanno partire la mia riflessione per cercare di afferrare cosa l’uomo sia arrivato effettivamente a comprendere, nonostante tutti gli studi e le grandi scoperte in ambito scientifico, della scienza sismologica: quel poco o quel nulla.
Sicuramente l’evoluzione della scienza ci ha concesso una qualità di vita straordinariamente migliore rispetto ai nostri antenati, la vita media  dell’uomo nel mondo è intorno ai 70 anni, la malnutrizione e le epidemie sembrano quasi essere un retaggio del passato, o è questo che cercano di propinarci respingendo in un angolo remoto le sofferenze di una consistente parte della popolazione del pianeta, e con una buona dose di fortuna noi ‘occidentali’ riusciamo a vivere gli ultimi anni della nostra vita godendo i frutti del nostro stremante lavoro.
Ma nel momento in cui si presentano eventi simili , tutta l’evoluzione si ferma, la grande scienza si trasforma in un piccolo bambino impaurito e tutti gli sforzi di una vita sembrano scomparire in poche frazioni di secondo.
Siamo risucchiati dalla spirale della vita che non lascia tempo alla razionalizzazione di circostanze come terremoti, tsunami, le eruzioni vulcaniche, insomma le famose calamità naturali, ma nel momento in cui accadono, proprio in quell’attimo riecheggiano in noi quei sentimenti ancestrali, come dei segnali di una straordinaria forza, risvegliando quella collettiva emotività primoridiale .
Bene, la sismologia avrà pure fatto dei passi da gigante negli ultimi anni, ma non penso che riuscirà mai a prevedere per tempo l’inopinabile e sorprendente natura. Componente emotiva e memoria hanno il ruolo di attaccante e portiere per chi ha già avuto l’onore di confrontarsi con sua altezza il Sisma.
L’irrazionalità della natura governata dalle più razionali delle leggi, la matematica, una strana dualità intrinseca nella natura, come altrettanto nell’uomo: ecco l’azzardo e il paradosso che non trovano composizione.
Ed è qui che mi interrogo su come l’uomo, nell’illusione di governare questi eventi e nell’inaccettabile consapevolezza di non poterci riuscire si comporta: come se tutto fosse scontato, nell’epoca dell’incertezza.
La scelleratezza e l’irresponsabilità di chi osa tanto non sempre porta buoni frutti, le trivellazioni che provocano subsidenza ne sono l’esempio palese. Basti ricordare che in Cile, uno dei Paesi più colpiti dal punto di vista sismico, il terremoto di Valdivia del 22 maggio 1960, conosciuto anche come Grande terremoto cileno, il più potente dei terremoti mai registrati nella storia mondiale della sismologia, con una magnitudo momento di 9,5, fu innescato proprio da una sorta di subsidenza, in quel caso naturale: in termini scientifici si parla di subduzione della placca terrestre. Il suo epicentro fu localizzato nei pressi di Canete, circa 900 chilometri a sud di Santiago, ma la città più colpita fu Valdivia. Dopo la scossa principale, una serie di fenomeni tellurici continuò a sconvolgere il sud del paese sino al 6 luglio.
Il sisma fu avvertito in differenti parti del pianeta e produsse uno tsunami, con onde alte fino a 25 metri, che colpì diversi stati fino alla sponda opposta dell’oceano Pacifico: Hawaii (devastando Hilo), Giappone, Filippine, Nuova Zelanda, Australia e Alaska. Lo stesso fenomeno fu inoltre causa dell’eruzione del Vulcano Puyehue. Le cifre esatte sulle perdite umane e materiali sono sconosciute, ma le stime più credibili parlano di tremila morti, più di due milioni di sfollati, e danni tra 400 e 800 milioni di dollari Usa (tra i 2,9 e i 5,8 miliardi del 2011), dati comunque piuttosto contenuti in confronto all’entità del terremoto, anche a causa della bassa densità della popolazione e degli edifici costruiti principalmente in legno.
Sono questo genere di calamità che ci fanno intendere la fragilità dell’uomo di fronte a tanta forza distruttiva, la raggiante forza della natura e l’impotenza dell’essere umano, uno dei temi più discussi nella storia del pensiero; che ci attraversa e ci scuote ad ogni nuova catastrofe.

Metropolitana d’arte: Napoli-Toledo batte Mosca-Komsomolskaya

Da MOSCA – Durante una domenica pomeriggio moscovita di questo aprile ancora grigio e uggioso, mi decido ad andare al Multimedia Art Museum Moscow (Mamm), a visitare la Biennale di fotografia 2014. Per la capitale russa è un evento artistico e mondano importante, qui s’incontrano persone di ogni età e nazionalità e si percorrono i sei piani del museo avveniristico che ospitano fotografie in bianco e nero dei maggiori fotografi dell’Agenzia Magnum, da Cartier Bresson a Erwitt, oltre che immagini di Erwin Blumenfeld e, addirittura, di Jessica Lange.
Entro ed assisto ad un interessante scorrere d’immagini, da lontano, e m’imbatto subito in un’impressionante e coinvolgente opera. Mi avvicino alle didascalie e leggo il titolo: Il teatro è vita. La vita è teatro – Don’t ask where the love is gone, di Shirin Neshat. Con mia grande sorpresa, mi ritrovo nel mio Paese, e, precisamente, a Napoli. Mi siedo di fronte a quelle fotografie, le osservo con curiosità e stupore.

Shirin Neshat
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Nel 2012, l’artista e regista cinematografica di origine iraniana, Shirin Neshat, è stata incaricata di creare uno spazio “visivo” per la stazione Toledo della metropolitana di Napoli. L’invito faceva parte di un ambizioso progetto artistico e di design che coinvolgeva una “star-architetto” (il catalano Oscar Tusquets Blanca) e numerosi artisti internazionali, ognuno incaricato di una diversa stazione, ognuno impegnato a creare esperienze interessanti, uniche e accattivanti per i passeggeri. Il progetto è stato attentamente curato dal critico d’arte Achille Bonito Oliva. Fra gli altri, le stazioni ospitano lavori di Shirin Neshat, Robert Wilson, Ilya ed Emilia Kabakov, Francesco Clemente e William Kentridge.

 

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Shirin Neshat, famosa per i suoi ritratti di donne coperti da scritte in calligrafia persiana

Vogliamo soffermarci con voi sul lavoro della Neshat, incrociato, appunto, al MAMM. Dopo aver passato alcuni giorni a Napoli, Shirin Neshat (artista conosciuta per il suo lavoro nella fotografia, nei video e nel cinema – si ricordi il suo vincitore del Leone d’Argento Donne senza uomini del 2009) è rimasta inevitabilmente attratta dalla vitalità e teatralità napoletane e, con il fotografo italiano Luciano Romano, ha deciso di immortalare alcuni ritratti di una serie di vari attori locali di teatro sperimentale napoletano (Teatro nuovo e Teatro Instabile)  tra i quali le attrici Cristina Donadio, Antonella Morea, Giovanna Giuliani e il direttore artistico dell’Instabile Michele Del Grosso. Con questo lavoro Neshat ha scelto per la prima volta nella sua carriera soggetti occidentali.
L’opera, intensa e drammatica, s’ispira esplicitamente al rapporto di corrispondenza fra finzione teatrale e vita reale, e esprime la volontà di rappresentare, attraverso diverse e intense espressioni del corpo, il sentimento della perdita e della separazione.

I nove ritratti in bianco e nero esposti a Mosca, sfilano ora sui muri della stazione Toledo della linea 1 della metropolitana partenopea. Come prigionieri che tentano di scappare, queste figure sembrano emergere dalle neri e fosche ceneri di una lontana Pompei bruciata. Apparendo dall’oscurità e avanzando verso la luce, i movimenti rallentati danno l’impressione di una sorta di sfida, ma, allo stesso tempo, del dolore della condizione umana e della lotta speranzosa per un nuovo inizio. Qualche critico si è domandato se non si trattasse di una metafora dell’eterna “elasticità” e “capacità di recupero” della città di Napoli…

Ma perché “Don’t Ask Where the Love Is Gone”? Si tratta della canzone dell’egiziana Oum Kalthoum, la cui voce aveva emozionato migliaia di persone. «Cerco l’universalità, qualcosa che possa essere valido per chiunque», aveva detto la Neshat. «La bellezza deve sempre essere accompagnata dal sentimento e dall’impegno sociale e politico. Perseguire la bellezza di per sé rimane un estetico sforzo superficiale e la lotta politica solo un grido rumoroso. Solo quando le combiniamo allora esse diventano arte».

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Metropolitana di Napoli, stazione Toledo

Nel 2013, l’azzurra Toledo è stata considerata dal britannico The Daily Telegraph la fermata più affascinante d’Europa, battendo la bellissima e famosa fermata Komsomolskaya di Mosca, con i suoi mosaici, e quella della stazione di Stoccolma che ha per tema la natura.

Fra l’altro, il corridoio che collega l’uscita Montecalvario è decorato con le fotografie di Oliviero Toscani in vari punti del centro storico della città per la sua iniziativa Razza Umana/Italia. Le fotografie raffigurano i volti dei napoletani che hanno voluto partecipare all’iniziativa.

 

 

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Mosca, stazione di Komsomolskaya

Va ricordato che la stazione fa parte del grande e ambizioso progetto Stazioni dell’Arte, promosso dall’amministrazione comunale di Napoli per rendere i luoghi della mobilità più attraenti e offrire a tutti la possibilità di un incontro con l’arte contemporanea, costituendo uno degli esempi più interessanti di museo decentrato e distribuito sull’intera area urbana, un museo che non è spazio chiuso, luogo di concentrazione delle opere d’arte, ma un percorso espositivo aperto, per una fruizione dinamica del manufatto artistico.

(Nella foto in evidenza: opera di Shirin Neshat Don’t ask where the love is gone fotografata da Simonetta Sandri al Mamm di Mosca).

Quei kit dell’Abi e di Bankitalia

Mettendo ordine nella mia affollata libreria, ho colto l’occasione per rileggere alcuni libri sull’euro e i tre kit che l’Associazione bancaria pubblicò (con il supporto della Banca d’Italia) per i corsisti bancari, per formarli come euro tutor. Non ho trovato sorprese nella lettura, dopo i tanti anni trascorsi con questa valuta, anzi molte conferme e non poche indicazioni sulle cose da fare a livello di impianto e le non poche riforme da realizzare in tempi ben precisi.

Il 25 di maggio si voterà per eleggere i parlamentari europei e i successivi organismi di governo, quindi penso sia utile riprendere quei lontani suggerimenti, per contribuire ad un voto più consapevole.
Di seguito alcuni dei punti forti su cui si basava l’introduzione della moneta unica, pensata come strumento unificante. Alcuni dei passi che le Nazioni e gli Stati avrebbero dovuto compiere, anche a tappe, ma comunque compiere, per raggiungere uno sviluppo armonico e una crescita sostenibile, per misurarsi con il resto del mondo, ridimensionando il signoraggio.
Bilanci convergenti, armonia dei welfare sociali, politiche economiche e di crescita in rete e coerenti, fiscalità diretta ed indiretta in linea, politiche di difesa ed estera comune, governance a maggioranza e senza diritti di veto, politiche dei prezzi conformi, uniformità di diritti sindacali, politiche monetarie e strumenti unici a sostegno dello sviluppo per le nazioni aderenti, erano i suggerimenti forti che venivano segnalati per avere l’Europa che vogliamo.

Se si pensa al libro bianco di Delors nel 1986 e poi a quella bellissima pagina della storia che ci ha offerto la caduta del muro di Berlino tre anni dopo; Maastricht con i suoi tre pilastri; e ora, a dieci anni e più dall’introduzione dell’euro, non possiamo nasconderci i tanti sconvolgimenti in cui, in questi lontani e recenti anni, siamo stati tutti un po’ tutti coinvolti.
Coinvolti anche come singoli, nei comportamenti familiari, a livello locale e globale, come singole nazioni, come democrazie; coinvolti, forse nostro malgrado, dalle guerre vicine, dentro e fuori dai perimetri europei sempre più allargati.

Di questa lunga storia e della geopolitica ci scordiamo spesso, non riusciamo a rifocalizzarla. Ci piace solo, egoisticamente e cinicamente, soffermarci sull’oggi, sul nostro piccolo giardino e sulle responsabilità degli altri, della politica soprattutto.
Quelle note di Bankitalia, però, ci avvertivano dei benefici, dei costi e dei rischi che qui richiamo, non solo per bucare la memoria ma perché la verità è quello che conta, anche per capire il nostro domani.
I benefici: una moneta unica all’interno di un enorme mercato di 400 milioni di persone, significa meno costi di transazione e di incertezze derivanti dalla flessibilità e volatilità dei cambi, trasparenza, compatibilità dei prezzi e massima concorrenza, maggior peso dell’Europa nel contesto internazionale, e quindi vantaggi economici e politici.
I costi: la perdita dell’autonomia monetaria e dell’uso del tasso di cambio in presenza di rigidità nominali.
I rischi: ulteriori ampliamenti dei divari regionali esistenti, gli effetti della maggior specializzazione produttiva e della maggior concentrazione geografica indotta dall’unificazione monetaria, gli attacchi speculativi delle monete “outs” (specialmente contro valute di economia ad alto debito), possibilità di ritorsioni commerciali e rischio di disintegrazione del mercato unico.

Ecco, in sintesi, una lettura dello scenario che, nel processo di integrazione europea e nei meandri dello shock mondiale, ci ha visto trascinarci da almeno un ventennio.
E guai a fare un’analisi dei nostri guai partendo solo dal 2007, dall’inizio della crisi che attraversa noi come Italia e comunque tutta l’Europa, anche con diverse articolazioni.
Se poi andiamo a rileggerci, Le 33 false verità sull’Europa, un intelligente e convincente libro di Lorenzo Bini Smaghi, sicuramente comprenderemo quale pazzia sarebbe uscire dall’Europa, sia a livello politico che monetario.
Sarebbe bene saperne di più su quel 1.936,27. Sul come e perché di quella cifra. La nostra mente allora vedrebbe, nella sua composizione, nei suoi componenti, nei totali parziali e nella somma, dove il tutto non sono numeri ma una condizione, un vissuto, un sentimento, una storia, un popolo.
Una cifra che, col suo criterio di formazione, cioè il tasso di conversione, si articola di ogni valuta del paniere ecu per ritrovare stabilità in parità bilaterale, fissando i valori discreti, poi il rapporto con il dollaro, poi ancora ecu/valute ue, ancora $/ecu, ancora valute /$ e, concludendo il percorso, si ha il tasso di conversione Euro in valute area euro per ogni paese aderente.
La complessità matematica ci porta a dire che tutti questi passaggi (una sorta di vecchia catenaria) sono i tempi di un vissuto sociale, economico, civile, di libertà, del lavoro e dell’impresa, ben quantificati e ponderati in un paniere che ha subito diverse sue composizioni al crescere di un Paese e di una nazione ma, soprattutto, ci piace sottolineare che quella cifra aggiuntiva ed integrativa (sostanziale) è fatta di fatiche, di sudore, di sacrifici, dei pianti e dei dolori delle persone, delle famiglie, delle comunità, di tutti gli italiani.

C’è chi pensa che quella cifra sia troppo alta, c’è chi pensa che occorra tornare indietro, anche correndo il rischio vero di una nuova miseria e di una nuova povertà, mettendo in pericolo anche una storia. C’è chi gioca per un’ideologia e per populismo, c’è chi pensa di raccogliere qualche migliaia di voti in più. Ma può un Paese con una responsabilità così grande e storica essere lasciato cadere nel baratro? Penso proprio di no. E allora attenti a quelle 33 false verità.

Difendere i bambini dalla paura

La paura è un’esperienza naturale dell’uomo. Ha una funzione di protezione, anche nelle specie animali svolge primariamente una funzione di allarme, di difesa e garantisce la sopravvivenza. Ci consente di prepararci psicologicamente ad affrontare una situazione pericolosa, esorta alla prudenza, aiuta a valutare un rischio. Le paure, però, chiedono di essere superate per poter agire e vivere nel quotidiano, anzi l’elaborazione di una propria paura rafforza la stima in se stessi.
Le paure cambiano col tempo e sono condizionate dall’ambiente: il contesto sociale influenza il contenuto della paura. Le paure sociali sono quei timori condizionati dall’educazione e, quindi, frutto della relazione con i genitori e con gli educatori.
Diverse situazioni possono spingere i bambini ad avere paure, a partire da un atteggiamento di disinteresse da parte degli adulti, disinteresse che crea nei bambini sensazioni di solitudine e vuoto emotivo. Le paure possono essere correlate anche ad un atteggiamento educativo permissivo, che il bambino può vivere come indifferenza o ad uno stile educativo basato su minacce e punizioni, con particolare ricorso alla minaccia di non voler più bene; ad un’aspettativa esagerata sul piano intellettivo che può lasciare inappagate le necessità affettive del bambino, ad uno stile educativo iperprotettivo che non riconosce autonomia al bambino, lo rende dipendente e limita il suo sviluppo.
Viviamo in un tempo in cui vecchie e nuove paure si mescolano. Restano, ad esempio, le minacce della natura che hanno da sempre accompagnato l’umanità: le vecchie paure di temporali e calamità naturali si traducono nella paura di catastrofi, amplificata dai media. Molte paure possono coinvolgere i bambini: la paura di essere rapiti, la paura di punizioni (senza cena o senza videogiochi, ad esempio), la paura di andare male a scuola, di risultare “impopolare” o di apparire come un “perdente”, paura enfatizzata da un contesto che esalta risultati e successi.
Le paure si trattano trasmettendo il messaggio ai bambini che non bisogna avere paura di avere paura, facendo attenzione alle immagini trasmesse dai media e insegnando ad affrontare i pericoli reali. Quando la paura è trasmessa dai media, ha un impatto diverso a seconda dello sviluppo emotivo ed intellettivo raggiunto dal bambino. Il suo stato psichico generale e la sua capacità di confrontarsi con le sue paure costituiscono fattori importanti per poter gestire le emozioni suscitate da  un film o da un telegiornale. È di fondamentale importanza il ruolo dell’adulto che accompagna il bambino in questo confronto, che può aiutarlo a decodificare e gestire le emozioni, dando più spazio all’ascolto piuttosto che ai consigli.
È consigliabile che i genitori, per quanto possibile, possano monitorare i programmi televisivi che guardano i loro figli (guardandoli con loro) o facendo da filtro. E’ importante che gli adulti si pongano come figure di riferimento sia dal punto di vista cognitivo, sia da quello emozionale: aiutare i bambini a decodificare le immagini ed i contenuti, cercare di contenere e comprendere le loro emozioni, condividerne le preoccupazioni, rappresentano occasioni per rafforzare la relazione tra genitori e figli, insegnanti e studenti.
La tutela dei bambini dalla violenza delle immagini e dei contenuti da esse veicolati deve rappresentare un valore da perseguire quotidianamente. La paura è contagiosa e ha il potere peculiare di trasmettersi. Si tratta di un chiaro esempio dell’effetto profondo che tale emozione esercita sulle funzioni corporali, ma è anche una dimostrazione della facilità con cui si è indotti ad avere paura senza ragione. La paura paralizza il sistema nervoso, causa stanchezza ed affaticamento.
Infine, ricordiamo che, come scriveva Sartre: “Tutti gli uomini hanno paura. Tutti. Chi non ha paura è un anormale. E tutto questo non ha niente a che vedere con il coraggio”.

Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

La formazione professionale, strumento indispensabile per la crescita del territorio

Ogni tanto colgo l’occasione di fare due chiacchere con chi spende la sua esperienza nella formazione professionale contribuendo ad arricchire questa branca del sapere, importantissima soprattutto in tempi di crisi come questi, che sembra non finiscano mai.
I dati di presenze ai corsi Cfp di Cesta di Copparo (remoto angolo della provincia di Ferrara) sono esaltanti, nell’anno accademico 2012-13 oltre 2.400 allievi di tutte le età, dal primo livello del dopo medie inferiori alle specializzazioni, dagli aggiornamenti aziendali ai cinquantenni in difficoltà, dalle riconversioni per i processi industriali alle nuove discipline e ai nuovi mestieri.
La notorietà del Cfp travalica i confini regionali, è arrivato in Sicilia, in Calabria, in America latina e ci fermiamo qui.
Abbiamo parlato delle strategie dei fondi strutturali di “Europa 2020”, di uno scambio di informazioni e di idee percorribili, di una insopportabile disoccupazione e di come approcciarsi per non stare più seduti nel tunnel, quel tunnel che è stato già più volte richiamato su questa testata e in cui si trova anche e a tutti gli effetti il territorio del ferrarese.
Il presidente della Fondazione San Giuseppe di Cesta mi allunga uno scritto: “lo leggerò sicuramente”, gli dico, “e potrei anche proporlo ai lettori di ferraraitalia.it”-
Ecco dunque il testo, un messaggio che merita di essere divulgato e che in questo “cambia verso” vale la pena di prendere in considerazione.

Formazione professionale: strumento indispensabile per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva del territorio.
La crisi economica e finanziaria in atto nel paese coinvolge pesantemente anche il territorio, pertanto il programma si dovrà caratterizzare per il dinamismo che saprà dimostrare nel mettere al centro la “formazione professionale”, contribuendo a concertare con le istituzioni preposte, strumenti e misure capaci di favorire il rilancio occupazionale e promuovere lo sviluppo del territorio. Lo sviluppo e il consolidamento della formazione professionale assumerà sul territorio quello snodo strategico per porre in sinergia le politiche attive del lavoro e di inclusione sociale con le politiche a sostegno delle imprese e della loro competitività. La grande sfida che abbiamo dinanzi intendiamo affrontarla in partnership con tutte le organizzazione – in primis la Fondazione –  che hanno responsabilità e sono coinvolte in processi di formazione. L’azione di ‘governo’ si caratterizzerà in piena coerenza con la strategia “Europa 2020”, attribuendo attenzione da un lato alle categorie più vulnerabili, i giovani e le donne disoccupate, evitando il depauperamento intellettuale, dall’altro sostenendo il processi di innovazione tecnologica ritenuti indispensabili per la crescita e la competitività delle aziende.

Obiettivi / attività principali del programma:

  • Potenziare gli strumenti di programmazione negoziata (forum) con lo scopo di anticipare i cambiamenti socio-economici, intercettare i bisogni formativo-occupazionali ed individuare misure formative coerenti.
  • Contrastare la dispersione scolastica, garantendo uno spettro di opportunità formative (corsi di formazione professionale, tirocini, percorsi in alternanza scuola-lavoro) finalizzate al successo formativo dei giovani in obbligo scolastico-formativo.
  • Innalzare il livello di qualificazione professionale di quanti (giovani e adulti) sono esclusi dal mondo del lavoro, attraverso percorsi di formazione coerenti con i settori vocazionali del territorio e le esigenze del mondo del lavoro.
  • Promuovere processi di riqualificazione, aggiornamento e specializzazione per lavoratori finalizzati al mantenimento del posto di lavoro e allo sviluppo della crescita/carriera professionali.
  • Supportare e accompagnare processi di ristrutturazione e riposizionamento strategico di singole imprese affrontando in modo mirato l’emergenza occupazionale con azioni di ricollocazione dei lavoratori che rischiano di essere espulsi dal mercato del lavoro o che hanno già perso un’occupazione.
  • Consolidare la relazione fra la rete dei servizi per il lavoro (centri per l’impiego, agenzie interinali, ecc.) con la formazione professionale al fine di rendere virtuoso il legame fra domanda e offerta.
    Implementare le azioni di alfabetizzazione informatica e l’uso delle nuove tecnologie verso tutte le persone escluse da qualsiasi contesto scolastico e formativo (over 65) al fine di evitare l’emarginazione digitale e favorire la qualità della vita.

I soggetti istituzionali in partnership debbono, infine, mettere in atto le capacità necessarie per poter cogliere tutte le opportunità finanziarie previste in ambito europeo dalla strategia “Europa 2020” attraverso i fondi strutturali; serve un team di risorse umane qualificato per rispondere adeguatamente agli avvisi europei.

Ci pare un bel contributo, leggerlo in un quadro più vasto sarà la sfida da raccogliere per poter uscire dalle nostre criticità. Speriamo bene.

La signora dell’Aktion T4, una storia che sa di buono

Le cose belle nascono sempre dall’intelligenza e dal buon senso delle persone. E c’è un tempo per ogni cosa.
Ero andata all’inaugurazione della mostra senza sapere nulla di lei, un po’ all’ultimo momento, senza documentarmi. Ascoltandola parlare del “Programma di eutanasia delle persone disabili” messo in atto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale [leggi l’articolo], mi ero fatta l’idea che fosse una studiosa, una specialista, una storica. Ho seguito l’incontro con attenzione, ho preso appunti, registrato gli interventi e, come una bambina con gli occhioni spalancati, mi sono fatta guidare per tutta la mostra da quella signora esperta e appassionata ma allo stesso tempo dolce e coinvolgente. Solo alla fine del percorso, mi sono avvicinata mentre lei, Virginia Reggi, stava facendo due chiacchiere informali e l’ho sentita dire una frase che mi ha colpito: “La cosa più bella è che io non ho mai voluto né leggere libri né vedere film sulla Shoah perché non ci riuscivo, era troppo angosciante per me… non avevo mai letto nemmeno Primo Levi!”. Ops! E mentre leggevo sul volto di alcuni dei presenti un misto di smarrimento e incredulità, le ho domandato:

E come nasce questo progetto?
Lei mi guarda e, con il suo simpatico accento di Lugo, comincia a raccontare: “E’ una storia stranissima. E’ stato nel 2004. Io a quei tempi scrivevo degli articoli per il Notiziario regionale dell’Anffas. Era un bimensile e ogni volta bisognava tirar fuori un argomento interessante di cui parlare. Quella volta doveva uscire il numero di gennaio, c’era la Giornata della memoria e pensai “se ci si potesse legare a quei temi”, io sapevo che erano morti anche dei malati mentali ma pensavo nei campi di sterminio, come han sempre pensato tutti. Allora cercando su internet, mio marito scoprì che c’era un giornalista della Rai che aveva fatto una ricerca sull’uccisione dei disabili. Vidi il programma e mi piacque perché non si addentrava in quelle cose macabre che mi avevano sempre angosciato e che ti fan star male. Del programma Aktion T4 mi colpì in particolare l’organizzazione, come fosse tutto pensato nei minimi dettagli. Scrissi l’articolo, lo pubblicai in due volte. Poi non ci pensai più. Ma nel 2009, cinque anni dopo, mi arrivò una telefonata dall’Arci di un paesino in Toscana in cui mi dicevano che avevano letto i miei articoli su internet e che mi invitavano a parlarne nelle scuole superiori, in occasione della Giornata della memoria. Mi misi a rileggere i miei articoli e andai. Sentii un tale interesse da parte dei ragazzi, che ho cominciato sul serio a leggere e ad approfondire. Ho letto il libro di Alice Ricciardi Von Platen Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, il libricino era piccolo e mi son detta, ma sì dai, si può fare! E’ un libro meraviglioso, da lì sono partita e non mi sono più fermata. Ho letto finalmente tutto Primo Levi, poi mi sono andata a studiare l’eugenetica, il darwinismo sociale, la biopolitica e così via. Dopo è venuto lo spettacolo di Paolini che ha rotto gli argini.”

E la mostra, come si inserisce?
“E’ successo così: l’associazione che gestiva il giornale non stava più in piedi, eravamo rimasti in due, io e un signore di Parma. Io nel frattempo ero diventata nonna di una serie di nipotini, e non riuscivo a seguire come prima. Quindi abbiamo chiuso. Però c’era rimasta in cassa una bella quota, 40.000 euro. E ho pensato, invece di distribuirli a pioggia a tutte e 14 le associazioni dell’Anffas della regione, se facessimo una bella iniziativa culturale, valida non solo per l’Anffas dell’Emilia-Romagna ma anche per le altre, valida per le scuole; qualcosa di diverso, anche perché di solito le nostre iniziative sono per andare a chiedere, per una volta, ho pensato, facciamo che siamo noi ad offrire qualcosa! Il comitato ha approvato, abbiamo deciso di investire in questo progetto e di realizzare la mostra. Poi i testi me li sono scritti tutti io, come anche il libretto.”

Fatti benissimo tra l’altro, sia il libretto che i pannelli. Ma lei ha una formazione storica?
“No, assolutamente no. Io di formazione sono maestra elementare, non ho nemmeno finito l’università perché sono entrata di ruolo, mi sono sposata e dovevo aiutare mio fratello che aveva avuto una figlia disabile.”

E così, oltre ad aver visitato una mostra interessante e ben curata, ho ascoltato la storia ordinaria di una donna straordinaria. Come me, come noi, come tante.

Ambiente, salute, lavoro: i ‘Valori di sinistra’ di Giuseppe Fornaro, candidato che non t’aspetti

Un passato da giornalista, un presente da presidente provinciale della Fiab, la federazione degli amici della bicicletta, e un impiego nel comparto farmaceutico, lontano da partiti e politica. La candidatura a sindaco di Giuseppe Fornaro, sotto il simbolo “Valori di sinistra”, è stata fra le sorprese di questa tornata elettorale.
Quali priorità di intervento individua per Ferrara?
Lavoro, salute (non solo cura ma anche prevenzione), ambiente, mobilità, sostegno alle famiglie in difficoltà.
Sul lavoro cosa pensa potrebbe fare concretamente il Comune?
Non c’è una competenza diretta e io non voglio fare demagogia. Però un Comune può stimolare gli investimenti e i problemi che derivano dalla spending review si possono aggirare.
In che modo?
Sfruttando i finanziamenti europei. In fondo è l’uovo di colombo, ma non dobbiamo dimenticare che ogni anno viene sprecata la disponibilità di ingenti risorse comunitarie solo perché nessuno sa che esistono. Basterebbe un ufficio con due persone e il compito di scandagliare sistematicamente i bandi di finanziamento. Si potrebbero così immettere risorse importanti e generare un meccanismo virtuoso.
Parlava prima di aiuti alle famiglie. In che maniera ritiene di intervenire?
Ad esempio assicurando trasporti pubblici gratuiti. Questa crisi finirà per costringere le persone meno abbienti a chiudersi in casa, perché anche muoversi è un costo che rischia di divenire insostenibile.
Però attualmente il servizio dei trasporti non è gestito direttamente dal Comune ma da un’azienda che opera secondo criteri di mercato…
Quello dell’aziendalizzazione è un paradigma che va cambiato, non è certo l’unico sistema possibile. E questo vale anche per la sanità.
In che senso?
I sindaci devono riprendersi il ruolo di indirizzo sulle politiche sanitarie regionali. Questa crisi va affrontata con logiche nuove, non si può seguire la strada che ci ha portato sul baratro. Siamo alla macelleria sociale.
Ma come pensa di recuperare risorse, al di là dei finanziamenti europei?
Facendo delle scelte. Anziché rifare piazza Trento e Trieste per esempio si possono mettere quelle somme a disposizione delle famiglie meno abbienti. La logiche è quella di stornare risorse dalle poste di bilancio.
Fra le priorità indicava l’ambiente. Come giudica l’operazione geotermia?
Se fosse vera sarebbe ottima, ma siccome il progetto richiede tre centrali per mantenere l’acqua in temperatura dico che non va. C’è il rischio oltretutto di legare i ferraresi mani e piedi all’inceneritore che sarebbe essenziale perché si sfrutterebbe il calore generato dall’impianto appunto per scaldare l’acqua della geotermia. Io dico che o c’è la possibilità naturale di portare l’acqua calda a casa dalla gente, oppure è una presa per i fondelli.
A proposito: e l’inceneritore?
Nel corso della legislatura andrà gradualmente ridotto l’utilizzo fino a renderlo non indispensabile. Questo è possibile incrementando la raccolta differenziata dei rifiuti.
E come si fa?
Si copia dalle esperienze positive e si mette in pratica.
Se è così semplice perché non si è fatto finora?
Perché le politiche economiche sono dettate dalle lobby, in Emilia Romagna da Hera per quanto riguarda l’ambiente.
E negli altri settori quali sono i condizionamenti? Nei giorni scorsi il sociologo Federico Varese da noi intervistato ha messo in guardia gli amministratori locali dal rischio di infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti…
Il problema è la logica del massimo ribasso sulla base della quale sono assegnati i lavori. E’ un sistema da rivedere profondamente. Ma c’è anche un altro problema.
Quale?
Quello dell’edilizia privata che ha fatto scempio del territorio. In questi anni si sono costruite molte cose inutile e di nessun pregio. Evidentemente si è accontento qualche imprenditore…
E invece cosa bisognerebbe fare?
Recuperare l’esistente. L’offerta abitativa ormai è satura, non serve più costruire, però si può ristrutturare con intelligenza.
Bene. E la sanità, che pure ha indicato come terreno prioritario di impegno?
Ferrara ha un alto tasso di tumori, purtroppo. Viviamo in pianura padana, l’area più inquinata d’Europa, c’è un’alta densità di stabilimenti produttivi e una motorizzazione spinta.
Che fare?
Spegnere l’inceneritore, con gradualità ma senza incertezze. Chiudere davvero la Ztl. Al riguardo segnalo che troppe auto circolano ora in centro. Ogni amministrazione lascia alla città una propria traccia. Quella attuale ci consegna una bella piazza messa a nuovo. Sarebbe il caso che rimanesse patrimonio dei pedoni e non colonizzata dalle auto. Quella precedente invece ci ha regalato la turbogas, doveva servire a rilanciare gli investimenti industriali ma non è arrivato nessuno…
Beh, diciamo però che in mezzo c’è stata anche la crisi…
E andrà sempre peggio in questo senso: l’energia prodotta con combustibili fossili costerà sempre di più perché è in via di esaurimento. Ma attenzione, l’alternativa non sono le trivellazioni che Tagliani ci vuole riproporre…
In questi giorni se n’è parlato molto in relazione al rischio sismico. Qual è il suo pensiero a riguardo?
Che se c’è anche un solo dubbio di correlazione non si devono fare. Ma al di là di questo basta considerare il problema della subsidenza del suolo: le falde si abbassano e aumenta la salinità dell’acqua. Insomma, non c’è discussione: le trivellazioni non si devono fare.
Veniamo all’orizzonte più propriamente politico. Lei è sostenuto da una coalizione di cui sono parte Rifondazione comunista, Italia dei valori, alcuni fuoriusciti da Sel (che non hanno condiviso la linea in appoggio al sindaco uscente Tagliani) e il Pdci. Fra i massimi dirigenti di quest’ultimo c’è Roberto Soffritti, sindaco di Ferrara per 16 e antesignano delle larghe intese, che all’epoca si consumavano però in pizzeria, fuori dai riflettori: un consociativismo non dichiarato ma praticato. Qual’è il suo giudizio su quella fase politica?
Quelli facevano il consociativismo delle pizzerie, questi fanno le larghe intese. Nella sostanza non è cambiato nulla. Soffritti a me non crea alcun imbarazzo. Il modello soffrittiano non è il mio, io non faccio accordi in pizzeria con nessuno, piaccia o non piaccia dico sempre chiaramente ciò che penso, sono una persona leale.
Fra chi la sostiene c’è una buona dose di dogmatismo e ortodossia.
Il nostro capolista è un ragazzo di 26 anni che arriva da Sel, è un chiaro segnale alla città e anche una risposta alla sua domanda. Io porto le mie idee e non mi sono proposto, mi sono venuti a cercare per offrirmi la candidatura. Se mi vogliono io sono così, lontano da slogan e demagogia, aperto al confronto e disposto a cambiare opinione di fronte ad argomentazioni convincenti. Dall’altra parte invece vedo il ritorno della Dc.
In questi anni gran parte del suo impegno civico è stato speso a favore della mobilità ciclabile. Progetti da realizzare come sindaco?
Non esiste un percorso ciclabile per raggiungere Cona né dalla città nei dalle frazioni limitrofe. Va realizzato, ne abbiamo già individuato i tratti, lo si può fare quasi a costo zero sfruttando strade di campagna. Ma poi ho un’altra idea per rendere vivibile la città ed esaltarne la bellezza…
Dica.
Ci sono due gioielli, il castello e il palazzo dei Diamanti, soffocati dal traffico. Vanno liberati. Vorrei eliminare tutto il traffico di attraversamento dall’asse Cavour – Giovecca e da quello Porta Mare – Porta Po. Deve essere valorizzata l’idea geniale e visionaria di Biagio Rossetti. Ferrara è stata capitale europea del Rinascimento. Dovremmo istituire periodicamente un “Biagio Rossetti day” per ricordarlo. Non dico che la totale chiusura al traffico di questi due assi urbani possa essere digerita da un momento all’altro, ma come Bologna ha istituito giornate ricorrenti di chiusura al traffico così potremmo fare noi nei fine settimana, ad esempio, liberando lo splendore di tutto il comparto monumentale connesso al magnifico corso Ercole d’Este. Provi a immaginare cosa significherebbe riappropriarci dei nostri monumenti, girare serenamente a piedi fra il parco Massari, la piazza Ariostea e il palazzo dei Diamanti. Facciamolo gradualmente e diamo il tempo alla città di gustarselo e abituarsi.

Tutta la modernità di Enrico Berlinguer

Casa per casa, strada per strada. La passione, il coraggio, le idee: è il titolo dell’antologia degli scritti e degli interventi di Enrico Berlinguer curata dal giovane Pierpaolo Farina – studente, blogger e fondatore nel 2009 del sito web enricoberlinguer.it – e presentata venerdì pomeriggio alla biblioteca Ariostea. Ma sono anche le ultime parole pubbliche pronunciate dal leader politico durante quel comizio in piazza dei Frutteti a Padova il 7 giugno 1984: “Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada”.
Azzardo l’ipotesi che Pierpaolo Farina non le abbia scelte a caso e non a caso le abbia accostate ad altri tre vocaboli: passione, coraggio e idee. È racchiusa tutta qui, anche se non è cosa proprio di poco conto, la distanza che separa Enrico Berlinguer dalla classe politica, per non dire dirigente, dell’Italia di oggi.
Ascoltando soprattutto gli interventi dello stesso Pierpaolo e di Federico Varese, entrambi incentrati sulla modernità delle formulazioni e delle tesi del segretario del Pci, ho provato due sensazioni del tutto contrastanti fra loro. Una è la speranza che un’altra politica sia possibile, in antitesi a tutto ciò che la mia generazione ha vissuto e sta vivendo (sono nata proprio in quel 1984), una politica intesa come sacrificio, abnegazione, servizio, fino all’ultimo istante della sua vita, come dimostra il fatto che quell’ultimo comizio lo ha voluto finire. L’altra è lo sconforto per il fatto che, come ha detto Pierpaolo, “volenti o nolenti negli ultimi trent’anni l’unico progetto di società alternativa a quella esistente, in cui fossero presenti tutte le libertà tranne quella dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è proprio quello di Enrico Berlinguer”. Intendo dire che quest’attualità diventa quasi drammatica perché forse significa che in trent’anni ben poco è cambiato.
“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti”: sono parole famosissime pronunciate da Berlinguer in un’intervista a Eugenio Scalfari del 1981.

Ma, e qui ritorna la speranza, la modernità di Enrico Berlinguer nasce soprattutto dalla forza e dalla lungimiranza delle sue idee, come per esempio quelle sulle “forme di governo mondiale dell’economia” citate da Varese, che prefiguravano nuove forme di contrasto su scala globale a un capitale anch’esso mondiale. Oppure ancora quelle espresse sul progresso tecnologico nell’intervista Orwell, il computer, il futuro della democrazia a Ferdinando Adornato nel 1983: “io vedo oggi la possibilità di due processi contemporanei: da una parte l’uso della microelettronica per rafforzare il potere dei gruppi economici dominanti […] Dall’altra però vedo una grande diffusione di nuove conoscenze che può portare ad un arricchimento di tutta la civiltà”.

Partecipando all’incontro, da cui è emersa tutta la carica innovatrice di questa figura cardine della politica italiana del secondo dopoguerra, mi è tornato alla mente uno spettacolo cui ho assistito all’inizio del dicembre scorso al teatro Comunale di Occhiobello: ‘Berlinguer. I pensieri lunghi’, di Giorgio Gallione, interpretato da Eugenio Allegri. I pensieri di Berlinguer erano lunghi non solo perché è stato sorprendentemente lungimirante nel prefigurare scenari politici futuri, ma soprattutto perché – come si dice all’inizio dello spettacolo – l’utopia serve “a camminare” e rimane “sempre all’orizzonte”.

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Migliora la tua vita cambiando la postura

Quando ti guardi allo specchio cosa vedi? Una persona in posizione verticale con una perfetta postura o un individuo curvo con le spalle cadenti, mento che sembra anni più vecchio della sua età.
E c’è di peggio, quando ci mettiamo a lavoro sulle nostre scrivanie o affondiamo nei nostri divani, non ci rendiamo conto delle posizioni sbagliate che assumiamo e a cosa potrebbero portare nel futuro.
E’ interessante osservare che i problemi come il mal di schiena e la cervicale hanno raggiunto proporzioni epidemiche in tutti i paesi in cui lavorare da seduti è diventato la norma. Sedie e scrivanie sono i fattori ergonomici che più influiscono su una cattiva postura. Molti di noi trascorrono fino al 75% della propria vita di veglia seduti sulle sedie.
La nostra postura influisce direttamente sul funzionamento generale del nostro corpo, ed ha anche una grande influenza sul nostro modo di pensare e di sentire.

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Aree di dolore più comuni

Una buona postura consente processi di guarigione del corpo che permettono di lavorare in modo più efficiente ed efficace, aiutando a prevenire le malattie future. Allineare il corpo aiuta i muscoli, le articolazioni e i legamenti a lavorare come natura vuole. Migliorare la postura riduce l’affaticamento, la tensione muscolare e il dolore. Una buona postura contribuisce ad ottenere un buon equilibrio a livello fisico, mentale ed emotivo. Una persona che ha una buona postura tende a proiettare all’esterno equilibrio, fiducia, integrità e dignità. Alcune persone soffrono di varie disfunzioni come i problemi all’anca, alla schiena o al collo, mentre altri hanno l’asma, stress o vari tipi di lesioni da sforzo ripetitivo. Alcuni semplicemente vogliono migliorare la loro autostima.
Come fare allora per cominciare a curare un po’ la nostra postura? Un primo passo può essere semplicemente quello di osservarsi quando si è di fretta. Si noti la posizione della testa e delle spalle, sono storte? C’è tensione in altre parti del corpo, per esempio, la schiena, le gambe, le braccia e persino la mascella? Attenzione, non c’è niente di sbagliato nel fare le cose in fretta, è la fretta costante che può farci del male.
La chiave per una buona postura è davvero prendersi un momento durante le proprie attività quotidiane e mettersi in pausa per riflettere su come si sta eseguendo un determinato compito, anche se semplice e svolto in piedi o da seduti. Basta provare per un giorno per accorgersi che questo giova non solo alla postura, ma anche al vostro modo di vivere.

Se questo è un politico

di Roberto Dall’Olio

Se non ora
Quando? Scrivere
Al deturpatore
Del sacro silenzio
Dei morti e dei salvati
Della Shoah
Chiedere a lui
Se questa sua
È politica
Forse meglio sarebbe
Rinnegare l’etimologia
Se costui Grillo
Sia un politico
Non c’è polis
Né agorà
Lui non si scusa
Come pretenderlo?
Da un buffone?
Nel Re Lear
Il giullare tutto può
Perché è un giullare
Ma un buffone non è
Un giullare…
Se costui è un politico
Se questo è un politico
Fino a che livello
Animale dello Spirito
La politica abbasserà?
Dovremmo fare
Come le mosche
Ricordo Primo Levi
Trasformare
I suoi escrementi
In alternativa di volo

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Buona giornata della Terra

Oggi è la Giornata mondiale della terra. Una ricorrenza dedicata all’ambiente e alla salvaguardia del pianeta, istituita nel 1970, ma che in questi anni sta diventando davvero popolare. Su Google per l’occasione è stato creato un apposito “doodle”: piccola sequenza di immagini animate, dedicate a un tema. La scritta del motore di ricerca oggi sfodera due fiori rotondeggianti, che prendono il posto delle due lettere “o” del logo con un colibrì rosso che muove le ali in continuazione per succhiarne il nettare mantenendosi in volo.

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Il “doodle” del motore di ricerca online Google

Quando ci clicchi su, torna la scritta Google, ma con le “o” trasformate nei musi di due scimmie macaco con il pelo imbiancato dalle nevi giapponesi; ci clicchi ancora e ti appare una rotondeggiante medusa quadrifoglio; poi la lettera “o” diventa il corpo di un pesce palla; un altro clic e uno scarabeo cammina via dalla rotondità di una “o” di terra marrone, per prendere la forma di un camaleonte velato che si sovrappone a tutta la scritta.

La scelta di sottolineare l’evento da parte di un colosso dell’informazione online come Google è l’ennesima dimostrazione che i tempi sono maturi per la nostra sensibilità ambientalista e animalista. Siamo pronti per apprezzare la bellezza di creature piccole e grandi, con un aspetto che non rientra necessariamente nello stereotipo di un’estetica consolidata. La natura ci appare bella nelle sue manifestazioni, è il messaggio di vita e vitalità che è bello, che ci conquista, commuove, incuriosisce.

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Fiori di Mustafa Sabbagh

Nel saggio dedicato alla Storia della bellezza, Umberto Eco cita una frase di Guglielmo di Conches, che dice: “La bellezza del mondo è tutto ciò che appare nei suoi singoli elementi, come le stelle in cielo, gli uccelli nell’aria, i pesci in acqua, gli uomini sulla terra”. Insomma, non è bella sola la rosa perfetta, ma ciò che palpita e dà emozione; lo scorrere della vita è bello.

Per il fotografo e artista contemporaneo Mustafa Sabbagh [leggi relativo articolo] un mazzo di fiori acquisisce il massimo fascino nel momento del suo sfiorire. Charles Baudelaire diceva: “Il bello è sempre bizzarro. Non voglio dire che sia volontariamente, freddamente bizzarro, perché in tal caso sarebbe un mostro che esce dai binari della vita. Dico che contiene sempre un poco di bizzarria, che lo fa essere il bello in particolare”. A ben  pensarci, già cinquecento anni fa la forza dirompente dei quadri di Caravaggio viene anche dalla sua capacità di andare oltre la perfezione per cogliere la caducità di una mela che ha un piccolo baco e di una foglia di vite che si accartoccia un po’.

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“Canestra di frutta” di Caravaggio

Ecco, piano piano prevale questo tipo di estetica, la commozione per la vita che palpita e lotta, per la fogliolina che si fa strada tra l’asfalto, per una coccinella inaspettata sul cruscotto. E ci piace – forse – vedere che il ciclo della vita è più forte della climatizzazione stabile di un ufficio, della lontananza asettica del mondo virtuale, della presenza in ogni mese dell’anno di fragole e lamponi sulla nostra tavola. Bella la terra e le sue zolle, bello uno scarabeo che ci vive dentro, bello un frutto imperfetto e saporito da cogliere dall’albero, belli i giardini selvaggi e un’erba ribelle. La terra si muove e con lei le foglie, le stagioni, le nostre emozioni. Nonostante tutto c’è gioia; “Smile, without a reason why”, cantava Noa in Life is beautiful that way, colonna sonora di La vita è bella.

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Festa del libro ebraico: storie, musica e sapori a Ferrara

Un candelabro a sette braccia diventa un libro aperto con ogni pagina che regge una fiammella. E’ il logo della Festa del libro ebraico in Italia, da sabato 26 aprile a giovedì 1 maggio a Ferrara per la quinta edizione. Il simbolo della cultura ebraica rielaborato in forma di volume presenta questo appuntamento, unico nel suo genere, che è un momento di condivisione dei testi, delle storie,ma anche dei disegni, dello humour e della creatività legati alla storia di una minoranza storicamente legata alla città estense come a tante altre zone del paese dove continua a dare un contributo fondamentale alla vita culturale, civile e sociale ed economica.
La narrazione è affidata a un programma scandito da dibattiti, convegni, tavole rotonde, concerti, spettacoli teatrali (anche per bambini), proiezioni di film, degustazioni, visite guidate, una mostra, un premio, senza dimenticare, naturalmente, i libri. Cuore pulsante della festa sono queste presenze di brani e di testi, sia nella loro veste cartacea e silenziosa di libri sia in quella di dialogo con gli autori, con sede centrale nel Chiostro di San Paolo, ingresso da piazzetta Schiatti.

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Mappa di Ferrara con i luoghi degli eventi per la Festa

Durante le conversazioni e gli incontri letterari con gli scrittori verranno presentate oltre trenta opere, mentre nella libreria tematica della festa – sempre nel chiostro – saranno disponibili più di cinquemila testi di autori ebrei o su temi della tradizione ebraica, editi da circa centocinquanta case editrici, con volumi difficili da trovare altrove, altri freschi di stampa e altri ancora che addirittura usciranno in concomitanza con l’evento, come gli atti del convegno internazionale di studi “Ebrei a Ferrara, ebrei di Ferrara”. La libreria resterà aperta al pubblico dalle 9.30 a mezzanotte per tutti i sei giorni della manifestazione.
Alla quarta “Notte bianca ebraica d’Italia” di sabato 26 il compito di inaugurare la festa. La Notte bianca, il cui titolo è tratto dal verso della Genesi “E fu sera… e fu mattina…”, quando tutto ebbe inizio, comincerà alle 21 al Chiostro di San Paolo e, dopo un concerto, uno spettacolo teatrale e una passeggiata tra i luoghi e le storie della Ferrara ebraica, si concluderà all’una con le degustazioni di sapori di ispirazione ebraico-ferrarese.

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Il Chiostro di San Paolo, a Ferrara, sede di molti eventi

Tra gli eventi clou in calendario, la mostra “Vita, colore, fiabe. Il mondo ebraico di Emanuele Luzzati”, a cura di Sergio Noberini (Museo Luzzati, Genova) e Michela Zanon (Comitato scientifico della Fondazione Meis). Il taglio del nastro alle 10 di domenica 27, nella sede del Museo ebraico, via Piangipane, 81. La rassegna, organizzata in collaborazione con il Museo Luzzati, rimarrà aperta fino al 27 luglio, ripercorrendo i temi ebraici cari a Emanuele Luzzati nei campi dell’illustrazione, dell’arte applicata e dei film d’animazione, dove l’artista genovese rappresenta con tinte energiche e vorticose, in una dimensione fiabesca, i momenti salienti della quotidianità ebraica, dai matrimoni alle feste in sukkah (la Festa delle capanne), fino alla cena di Pesach (la Pasqua ebraica).
Altro appuntamento di rilievo della Festa, la terza edizione del “Premio di cultura ebraica”: istituito dalla Fondazione Museo dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis) per valorizzare e diffondere la conoscenza della cultura e della tradizione ebraiche in Italia e in Europa, sarà assegnato domenica 27 aprile alla scrittrice israeliana Lizzie Doron per la sezione letteratura, al direttore del telegiornale di La7, Enrico Mentana, come riconoscimento alla carriera, e all’attore Gioele Dix per la saggistica. Proprio Doron e Dix saranno tra i protagonisti degli “Incontri con l’autore”, che vedranno avvicendarsi nel cortile del Chiostro di San Paolo personaggi come Piero Dorfles, Gad Lerner e Marco Tarquinio e autorevoli ebraisti.
Ogni giorno, alle 12.30 e alle 19, il pubblico della Festa potrà sperimentare i “Sapori di un aperitivo ebraico-ferrarese” e seguire la presentazione di saggi sulla normativa alimentare e la cucina tradizionale kasher. Cadenza fissa avranno pure le visite guidate nei suggestivi luoghi della comunità ebraica locale, la cui vita da nove secoli s’intreccia a quella della città: dal cimitero di via delle Vigne (“Pietre silenziose. Illustri cittadini nel cimitero ebraico di Ferrara”) alle “vie del silenzio” del Ghetto, fino al Museo ebraico (Meis).
I temi che verranno affrontati nel corso dei dialoghi spazieranno dalla riflessione sulla memoria del Yom Ha Shoah ai medici ebrei, dall’icona “Helena Rubinstein: la donna che inventò la bellezza” con la partecipazione della giornalista e scrittrice Michèle Fitoussi, all’antigiudaismo e all’antisemitismo cattolico, fino a “Io odio i talent show”, con il graffiante giornalista e critico musicale Mario Luzzato Fegiz.
Un bilancio sull’attività del Meis sarà dedicato l’incontro di domenica 27, alle 11.30, cui interverranno il sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani; Riccardo Calimani, presidente della Fondazione Meis; Carla Di Francesco, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna. Da segnalare, poi, il convegno di lunedì 28 e martedì 29 “Conversos, marrani e nuove comunità ebraiche nella prima età moderna”, che coinvolgerà esponenti di atenei, associazioni e Comunità ebraiche da Gerusalemme a Udine, da Roma a Lisbona.
Nei giorni della festa, le molte anime del patrimonio culturale ebraico troveranno, poi, espressione nella musica e nel teatro sempre nel Chiostro di San Paolo dalle 21. Ci saranno i concerti “Yiddish melodies in jazz”; la performance di Miriam Meghnagi, tra le principali interpreti vocali della tradizione ebraica; la session del Ben Goldberg Trio, in collaborazione con il Jazz club Ferrara; il reading-concerto klezmer del Pavel Zalud Quartet. Per il teatro, invece, quei fili della memoria che la Festa vuole riannodare porteranno al compianto Arnoldo Foà, cui Alberto Rossatti dedicherà un omaggio martedì 29 aprile nel Chiostro. Il programma della Festa è disponibile sul sito www.meisweb.it.

Il mercato dei clerici vagantes e la sovranità delle nazioni

Non è affatto vero che con la cultura non si mangia. Emblematico è il caso del Dubai, che dal 2003 ha creato il “Knowledge Village” una zona franca nel mondo, dedicata alla gestione delle risorse umane e all’apprendimento d’eccellenza, con l’intento di promuovere i talenti della propria regione e di fare degli Emirati Arabi Uniti un’economia basata sulla conoscenza.
Le attività del Dubai sono esemplificative del commercio ormai globale dell’istruzione d’eccellenza, quella accademica e universitaria, delle multinazionali nel campo dell’apprendimento che aggiungono un’altra dimensione alla sovrastruttura mondiale delle pratiche e delle politiche educative.
L’Organizzazione mondiale del commercio, gli accordi sulla vendita di servizi, unitamente alle norme che tutelano i diritti di proprietà intellettuale, hanno spianato la strada alla mercificazione dell’istruzione e dei saperi.
La circolazione delle idee, della cultura e delle conoscenze, da che mondo è mondo, c’è sempre stata. Non è nuova. Data per lo meno da quando missionari e colonizzatori portavano le loro culture alla conquista di altre terre, da quando studiosi e studenti viaggiavano per il mondo e alcune scuole nazionali aprivano le loro succursali all’estero. È la storia passata dell’imperialismo culturale dell’Occidente. Non di meno, anche altri paesi al di fuori dell’Occidente hanno contribuito alla circolazione di beni immateriali come il sapere, basti pensare agli studiosi Cinesi in Giappone nel secolo diciannovesimo e ai secolari movimenti internazionali di studiosi e studenti islamici.
Sorprendentemente nuovo nella globalizzazione contemporanea è però il ruolo di produzione di reddito assunto dai novelli clerici vagantes, dalla commercializzazione dei servizi intellettuali, tanto da essere inclusi nella pianificazione finanziaria di nazioni, istituzioni educative e società multinazionali. È ancora il profitto, non altro, ad aver generato la globalizzazione dell’istruzione. Affari che sono stati favoriti dalla liberalizzazione degli scambi per effetto del General Agreement on Trade in Services del 1995, l’accordo generale sul commercio di servizi.
Da allora, in tutto il mondo reti di studiosi e di tecnologie informatiche rendono possibile l’apprendimento online, la circolazione rapida di banche dati, di conoscenze accademiche, oltre alla facilità di muoversi nel mondo per studiosi e studenti. Oggi lo scambio di servizi per la conoscenza coinvolge massicce transazioni finanziarie. Il mercato globale di servizi per l’istruzione è stimato dalla banca americana Merrill Lynch, al di fuori degli Stati Uniti, per 111 miliardi di dollari all’anno con un’utenza potenziale di 32 milioni di studenti.
Lo scambio internazionale dei servizi per l’istruzione è regolato dall’Agreement on Trade-Related Intellectual Property Rights che protegge la proprietà intellettuale delle opere vendute da singoli, università, associazioni e altre istituzioni. Stabilisce i requisiti che in questo campo le leggi dei paesi aderenti devono rispettare in materia di copyright, di indicazioni geografiche protette, di industrial design, di marchi di fabbrica registrati e di numerosi altri ambiti, dai software ai database, ai media, ai digital media e ai brevetti industriali, sanitari e delle tecnologie agricole.
Il libero scambio, sostenuto dalla Organizzazione mondiale del commercio, si fonda sulla teoria dei “vantaggi comparati” formulata dal Ricardo nel diciannovesimo secolo. In poche parole, l’assunto dell’economista inglese afferma che i paesi prosperano prima se approfittano delle loro attività concentrando tutte le risorse su quello che producono al meglio, scambiandoli poi con i prodotti che altri paesi realizzano in modo superiore.
Ma cosa succede se un paese è migliore degli altri nel produrre tutto?
L’Omc afferma che secondo il Riccardo non è possibile che questo accada, perché un paese non può essere migliore in ogni cosa, soprattutto perché dovrà scegliere di investire le sue risorse in ciò in cui eccelle, lasciando i campi di produzione rimanenti agli altri Paesi.
Molto probabilmente Ricardo non poteva sospettare che la sua teoria avrebbe dato luogo alla globalizzazione dei servizi per l’istruzione e alla massimizzazione degli scambi in questo campo.
Quali sono le conseguenze della crescita di queste multinazionali? Mentre l’impatto effettivo è difficile da misurare, se ne possono però intravedere le possibili minacce.
L’industria della conoscenza globale può condizionare la diffusione dei saperi nel mondo, creando standard di uniformità dell’istruzione globalizzata come risultato della commercializzazione internazionale di test, database e, soprattutto, la pubblicazione di libri di testo per il mercato mondiale.
In secondo luogo, le industrie della conoscenza globale potrebbero cercare di esercitare il controllo societario sui contenuti diffusi attraverso le scuole di tutto il mondo. Mentre è sempre possibile che i libri di testo riflettano diversi punti di vista, diverse concezioni, sembra improbabile che gli editori del mercato globale siano disposti a distribuire testi i cui contenuti possono minacciare il loro controllo sul mercato globale. In fine non è da sottovalutare come l’uniformizzazione del mercato del sapere, le società di informazione e di pubblicazione di tutto il mondo possono incidere sulla esistenza delle culture locali.
Si tratta al momento solo di ipotesi, ma Christopher Arup, studioso di diritto della Monash di Melbourne, nel suo The New World Trade lancia l’allarme. Scrive che i servizi, in particolare quelli con un contenuto intellettuale, hanno un’incidenza ben più profonda dei beni di consumo. Arup esprime una forte preoccupazione, perché lo scambio di servizi comprende una quota sempre più crescente del commercio internazionale in generale e il modo in cui vengono forniti i servizi intellettuali oggi può costituire il potenziale per minare la sufficienza economica, la sovranità politica e l’identità culturale delle nazioni.
Se l’Organizzazione mondiale per il commercio rimane una istituzione cruciale per il progresso e la globalizzazione, è però sempre più urgente che gli stati nazionali con le loro istituzioni siano capaci di controllare e di mediare circa gli effetti dell’economia globale, in particolare modo per quanto attiene all’attuale trend assunto dal commercio internazionale delle conoscenze.

L’umiliazione e la dignità

Nel rapporto sociale con gli altri chi esercita il mestiere di critico deve esulare dalle questioni private, pena confondersi nella marea dei facebookanti o dei twisteriani i quali sbattono in prima pagina i loro problemi ben sapendo che poco importa agli altri quante volte al giorno iterano le loro azioni. Ma quando il fatto privato si trasforma in esempio di una condizione generale allora diventa dovere morale superare quel limite.
La vicenda riguarda mia nipote Elisabetta, che mi autorizza a narrare ciò che le è capitato. Eli a diciannove anni vede chiudersi definitivamente una vita cosiddetta normale. Le si rompe un tacco, sbatte la testa, va in coma e letteralmente risuscita dopo quaranta giorni provata gravemente nel fisico ma conservando intatte le facoltà intellettive. Con l’aiuto degli amici, della famiglia e col suo radioso sorriso si laurea, trova un lavoro e accetta, pur dovendo essere seguita negli spostamenti, di condividere la vita degli altri, specie di coloro che sono stati colpiti nel fisico, quelli che un orrendo termine si definiscono i “diversamente abili”.
Eli diventa un esempio di un eroismo che non si piega alla crudeltà della condizione imposta: con fierezza, con determinazione, con consapevolezza. E per tutti noi che la conosciamo acquista l’autorevolezza di chi ha dato uno scopo preciso e intenso alla sua vita. Si riavvicina alla religione, la pratica con costanza e determinazione. Insomma non si è abbandonata al destino ma lo domina e lo conosce.
L’altra sera tornando dalla sua consueta visita all’Aias dove incontra i suoi amici in via Cassoli s’avvia per ritornare a casa con la sua carrozzina elettrica ed estrae il telefono cellulare per avvertire del suo ritorno. Gli si avvicina un ragazzino dall’apparente età di circa sedici anni che le chiede se ha bisogno. Eli col suo sorrisone e risponde “no grazie”. Fulmineo allora costui le strappa il telefono e inforcando la bicicletta sparisce nel traffico. La costernazione della mia amatissima nipote si esprime in una sola frase che si ripercuote come un’ossessione in tutti i suoi discorsi: “Mi sento umiliata”, “Sono stata ancora umiliata”. Ed è insopportabile per chi non solo condivide il suo destino ma per tutti coloro che hanno ancora rispetto per la dignità morale.
La costernazione autentica e sconsolata del maresciallo dei carabinieri che stende il verbale e trasforma in rapina il furto subito non basta a lenire l’umiliazione di Eli. Frattanto viene consigliato ai suoi amici dell’Aias di non recarsi da soli in sede e limitando così ancora di più la loro libertà.
Ma alla forza di Eli umiliata ma non scoraggiata si contrappone il destino di quel ragazzetto che forse ha compiuto quel gesto disgustoso per procurarsi droga o qualche altro piacere fuggitivo. Non extracomunitario come a molti verrebbe subito alla mente definirlo, ma con un chiaro e inequivocabile accento ferrarese come depone Elisabetta. E qui allora s’intreccia la responsabilità di tutti noi per prevenire, forse opporsi, a una deriva di valori etici che sembra sempre più lontana da quelle condizioni che il nostro tempo sembra dimenticare così velocemente.
Certo non siamo più al tempo di Dickens e Ferrara non è una metropoli dove accadono fatti sicuramente un tempo impensabili in una tranquilla e forse troppo addormentata città di provincia. Eppure la globalizzazione ha portato l’indifferenza del valore etico, anche qui nel luogo di una relativa sicurezza ormai tramontata perché nella tranquilla Ferrara come a New York o Londra o Roma si compiono atti simili forse ancora più efferati in quanto l’inconsapevolezza di ciò che si commette è ancora più profonda.
Che fare? Sarebbe il caso di invocare un inasprimento delle pene che tutt’al più farebbero trascorrere in carcere gli anni più formativi senza procurare una vera “redenzione”. E ancora possibile parlare di “redenzione” oppure il senso dell’eticità si sta profondamente tramutando? Sono domande a cui non so rispondere, ma la frase di Eli, l’umiliazione subita ma alla quale non si arrende dovrebbe e forse lo sarà esempio per tanta gioventù in cui ancora speriamo e che dal proprio interno saprà trovare quella soluzione che forse noi adulti non abbiamo saputo trovare (e forse nemmeno cercare).

Grazie ancora amata nipote per questa lezione che ci hai dato non arrendendoti, ma trovando quella parola che ci fa abbassare gli occhi riconoscendo la tua forza e il tuo coraggio.

Auguri

Abbiamo ricevuto e scambiato auguri. Tutti, laici e credenti, ci siamo salutati nei giorni scorsi con un Buona Pasqua! Un augurio che era, innanzitutto, un saluto per una pausa dal lavoro o una vacanza. Abbiamo agito un rituale di buon auspicio, lontano per i più dal riferimento religioso originario.
Ben lungi dall’avere perso ogni funzione, i riti sono tornati prepotentemente a segnare i momenti della nostra vita. La nostra era secolarizzata, senza santi e senza sacro, ha ancora bisogno di delimitare il fluire del tempo e condividere riti.
Viviamo tempi di incertezza o, forse, siamo solo più consapevoli che l’incertezza rappresenta una cifra costitutiva della vita, abbiamo realizzato che la scienza e la tecnologia hanno migliorato enormemente la nostra vita, ma non hanno reso più prevedibili le vicende individuali e sociali.
Ci scambiamo auguri in forme nuove, abbandonato da tempo l’uso ormai desueto delle mail (i biglietti chi se li ricorda più) e persino l’uso degli sms, postiamo e clicchiamo sulle bacheche di Facebook e di altri social network di tutto: uova di Pasqua, agnellini, prati, fiori e uccellini, segni della Primavera che avanza. I simboli della rinascita della natura rassicurano e appaiono di buon auspicio per una nuova stagione.
I riti mantengono un valore, non solo come elemento di un ordine superiore in grado di controllare il disordine della vita. sono oggi soprattutto dichiarazioni di amicizia, atti di socialità che attraversano i luoghi in cui viviamo, le nostre bacheche, innanzitutto.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Maria di Magdala del Bononi: una ‘cronista’ ai piedi del crocifisso

Il terremoto del 2012 in Emilia ha gravemente danneggiato chiese, musei e opere d’arte. Se si viaggia attraverso le zone colpite dal terremoto come i territori a sud di Ferrara, si vedono diverse chiese ancora sbarrate dai nastri rossi e bianchi della Protezione civile. Alcune, rimaste chiuse per molto tempo, sono di nuovo agibili (purtroppo non la chiesa di San Francesco, la mia preferita a Ferrara). E di continuo vengono riesposte al pubblico opere d’arte che sono state faticosamente restaurate per mesi, come è avvenuto al dipinto “Crocifissione con santa Maria Maddalena” di Carlo Bononi.

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Carlo Bononi, Crocifissione con santa Maria Maddalena“ (1616 ca. ), Ferrara, Chiesa delle Sacre Stimmate

Ho avuto modo di scoprirlo di recente, in una piccola mostra di capolavori ferraresi restaurati dopo il terremoto. Mi ha colpito in particolare la figura di Maria Maddalena, completamente sola, ai piedi di Gesù crocifisso. In tante, forse nella maggioranza delle raffigurazioni della crocifissione, si vede un gruppo di persone in lutto ai piedi del crocifisso, e spesso tra di loro si trova, in un angolo, anche il committente del dipinto. In questo dipinto di Bononi invece vediamo soltanto Gesù e un’unica persona addolorata e in lutto. Forse questa scena della crocifissione è esteticamente fin troppo bella. Si vede un “bellissimo corpo del Cristo”, come scrive il curatore, il mantello di Maria Maddalena dall’eleganza e dai colori magnifici. La composizione dei colori è di un seducente calore mediterraneo che contrasta con il dolore di Maria Maddalena, mortalmente triste. Ma ancor più della forma estetica, forse non armonizzante con il motivo del dipinto, mi ha affascinato questo prototipo di scena di una persona abbandonata da Dio e dagli uomini. Maria, prostrata da una tristezza infinita ai piedi della croce, non può far altro che avvinghiarsi muta e piangente al palo di legno su cui Gesù, forse l’unica grande speranza della sua vita, rende l’anima a Dio e la abbandona definitivamente. In questo momento, nel suo infinito dolore, è completamente sola, infinitamente distante dal mondo là fuori, che Bononi ha accennato in lontananza, all’orizzonte dietro al crocifisso, con i contorni di un piccolo paesino.
Di Maria di Magdala si legge nei vangeli che fosse posseduta dal demonio, che fosse una peccatrice, una prostituta, ma allo stesso tempo fu anche colei che, insieme ad altre due donne, testimoniò che il giorno di Pasqua il sepolcro di Cristo era vuoto. Fu lei che, per usare parole moderne, assunse il ruolo di cronista di un grande evento per gli altri, coloro che non sapevano ancora del fatto del sepolcro vuoto e che forse non ci potevano o non ci volevano credere. Chi vuole può perfino collegare questo episodio ai doveri dei giornalisti di oggi in qualità di cronisti.

Secondo la tradizione cristiana però Maria di Magdala non è la patrona del giornalismo investigativo, bensì delle peccatrici penitenti e dei traviati, degli scolari e degli studenti, dei prigionieri, dei produttori di profumi e ciprie. Forse anche per questo Bononi ha rappresentato la sua versione di Maria Maddalena, ancora addolorata ai piedi di Cristo crocifisso, con tale eleganza.

Buona Pasqua con il meglio di ferraraitalia

Ferraraitalia è online da quasi cinque mesi. Un primo bilancio e qualche riflessione si possono abbozzare su questo quotidiano indipendente che propone un modello di “informazione verticale” che punta, cioè, all’approfondimento. Gli strumenti giornalistici scelti per comunicare sono principalmente inchiesta, intervista, opinione e racconto di vicende emblematiche. Il gradimento è risultato elevato.

Sono stati pubblicati duemila articoli, visualizzate 165mila pagine, registrati 73mila accessi. Ferraraitalia è diffuso sul web anche attraverso i social network [vedi la pagina Facebook, vedi la pagina Twitter]. Il quotidiano ha raggiunto punte giornaliere di 3.500 lettori unici ed ha una media ormai consolidata di 1.500 lettori al giorno. Il mese scorso è stato letto da circa 30mila differenti utenti.
Sulle nostre pagine si alternano una trentina di collaboratori. Ai lettori offriamo 14 rubriche periodiche, cinque sezioni informative che, nello spazio denominato “La finestra sul cortile”, integrano il primo piano del giornale (con la rassegna di tutti i comunicati stampa, le lettere e gli interventi dei lettori, le note ricevute dai partiti, il ‘Sestante’ con le sue ‘letture e narrazioni per orientarsi’, e poi i consigli per ‘Salute e benessere’). Infine, ma non certo per ultimi, ‘Accordi’, ‘Germogli’ e ‘Immaginario’, attraverso i quali suggeriamo ogni giorno brani intonati all’attualità, pillole di saggezza o perle di ironia evocate dagli aforismi di grandi pensatori, immagini emblematiche della città, degli accadimenti che la animano e dei suoi abitanti.

L’interesse ampio è diffuso che percepiamo in maniera tangibile è un forte incoraggiamento a proseguire sulla direzione intrapresa, migliorando ancora il prodotto. Già dalle prossime settimane ci saranno alcune significative novità che speriamo rendano ancora più significativa la lettura di ferraraitalia.

Per Pasqua, però, ci concediamo il lusso dei primi due giorni di stacco. Fermarsi a rifiatare e riflettere, anche se solo per un momento, è sempre salutare. Ai nostri lettori regaliamo una sorpresa: la rassegna di alcuni fra gli articoli più apprezzati. Li trovate nella sezione “vetrina”, alla quale potete accedere cliccando [qua]. Ce ne sono una cinquantina, pensiamo siano sufficienti per sopperire alla nostra temporanea assenza…

Questione morale e vita democratica. Attualità di Enrico Berlinguer [audio]

La ‘questione morale’ come cardine di trasformazione della vita pubblica e del sistema politico in Italia. Attorno a questo nodo cruciale si è sviluppata una riflessione su Enrico Berlinguer, di cui presentiamo gli audio integrali, proposta da Istituto Gramsci e Istituto di storia contemporanea. [leggi la presentazione]
L’occasione è stata offerta dalla presentazione dell’antologia di scritti “Casa per casa, strada per strada”, curata dal giovanissimo Pierpaolo Farina. Oltre all’autore sono intervenuti all’incontro, svolto in biblioteca Ariostea, Fiorenzo Baratelli, direttore dell’istituto Gramsci di Ferrara e il sociologo Federico Varese, docente a Oxford.

Ecco gli audio degli interventi [cliccare per ascoltare]
Fiorenzo Baratelli 29min, Federico Varese 22min, Pierpaolo Farina 25min

Chi semina non sempre raccoglie

Per anni ho pensato che le architetture di pietra fossero l’obiettivo della mia vita, ma poi, qualcosa che sonnecchiava nel mio Dna si è svegliato e, da quel momento, non ho più smesso di avere qualche pianta da curare. I miei primi esperimenti li ho fatti a casa dei miei genitori: avevamo una grande terrazza e mio padre trasformò un cassettone di un vecchio letto, in una specie di aiuola rettangolare, dove seminai i miei primi ravanelli e una diabolica bustina di semi di dragoncello. Il dragoncello, o estragone (Artemisia dracunculus) è una pianta aromatica molto comune nella cucina francese, ma io la ricordo come un’infestante insulsa e puzzolente. Avrei dovuto capire già da allora, che quello che sta scritto nel retro delle bustine o nelle etichette dei fiorai e ancora su libri e manuali, sono indicazioni generali basate su medie statistiche puramente indicative. Questo significa che, rispettando alla lettera le indicazioni, la pianta ha buone probabilità di svilupparsi con quelle caratteristiche di forma e misura, ma può succedere anche l’esatto contrario. Quella è stata la prima di una lunghissima serie di prove, fallimenti e successi che mi hanno insegnato ad accettare come unica regola il rispetto, nel senso che ho imparato ad accettare il mio modo di essere giardiniera e a rispettare quello che la terra può fare spontaneamente, senza troppe forzature.
Tutto chiaro, quasi banale, eppure, ancora oggi, persevero nei miei errori, cercando di fare cose sovradimensionate al mio tempo e alla mia attrezzatura. Il più frequente è il desiderio di cimentarmi con le semine. Sembra tutto così facile: controlli se la luna è quella giusta, apri la bustina, prepari i vasetti, li riempi con un buon terriccio fine, prepari i buchi proporzionati alla dimensione dei semi, copri con un velo di terra quelli piccoli o interri quelli più grossi, una spruzzata di acqua, proteggi i vasetti con un telo di plastica trasparente, forato e aspetti. Questa è la teoria. La pratica è diversa. Un anno acquistai da una rinomata ditta inglese una trentina di bustine costosissime. Mi preparai con cura e dopo qualche settimana di attesa, avevo dei vassoi pieni di terra e di piantine germogliate con successo. Quell’anno non feci bene i conti con le lumache e quando decisi di togliere il telo di protezione, mi dimenticai di spolverizzare il tutto con una dose generosa di veleno (non avevo ancora imparato ad usare la cenere come efficace deterrente naturale) e in una notte, tutte le mie piantine furono divorate dalle simpatiche bestiole. Per anni non seminai più nulla.
Negli ultimi anni ho fatto altri esperimenti, soprattutto dopo aver provato il sito della ‘Semeria’ [vedi] che mi ha permesso di sbagliare senza spendere delle follie. L’anno scorso, io e il marito, abbiamo costruito una seminiera riciclando cassettine da frutta, le abbiamo impilate e sostenute con una struttura di assi di legno, non è bella, ma è solida, funzionale e posso fissare il telo protettivo alla struttura stessa. Anche l’anno scorso però, ci sono stati degli imprevisti: parte delle piantine sono state schiacciate dalle gatte che sono andate a dormire in cima alle cassette; altre si sono seccate perché mi sono dimenticata di innaffiarle, altre ancora sono sparite perché ho avuto fretta di metterle in terra. In compenso ho avuto una buona fioritura di annuali come le ipomee e i piselli odorosi, ma quella che mi ha dato più soddisfazione è stata la Nicotiana alata, una pianta che desideravo da tempo. È una erbacea perenne, i suoi fiori si aprono di sera e profumano la notte. Ci sono varietà comuni a fiore bianco e altre dai colori pastello e come dice il nome, è una parente della pianta del tabacco. Di tutte quelle seminate alcune piantine sono finite in un grande vaso, sono fiorite a fine estate e poi, come spesso fanno le perenni, è sparita durante l’inverno. Pensavo fosse defunta, ma pochi giorni fa, ho visto delle promettenti foglioline che stanno spuntando dalla terra. Un’altra invece è già fiorita ed è bellissima, forte e piena di foglie larghe e pelosette. Avevo buttato il fondo di una bustina di semi in una crepa del marciapiede. Il colpo di genio era stato ispirato dal ricordo di alcune Nicotiane che avevo visto crescere benissimo lungo il muro di una vecchia villa. La posizione protetta ha conservato le prime foglie dell’anno scorso, la pianta è cresciuta durante l’inverno mite e adesso è alta 80 centimetri e i suoi fiori sono stati una sorpresa color tramonto. Certo, restringe il passaggio, ma quando la sfiori alla sera, profuma l’aria e ti regala un po’ di meraviglia. Buona Pasqua.

Al tempo della crisi anche per il bancario il lavoro è un’incognita

L’archetipo del posto fisso e delle sedici mensilità è crollato. Persino il bancario può finire la sua carriera da esodato. Alfio Leotta, bancario e vignettista, racconta per immagini dall’assunzione all’ultimo giorno di lavoro in Una vita da bancario, strisce comiche di vita creditizia, un ebook pubblicato da Festina Lente edizioni, 2014.
Alfio Leotta, che si firma Fleo, è marchigiano e dagli anni settanta coltiva la passione per il disegno umoristico partecipando a numerose rassegne sia in Italia sia all’estero e collaborando con Corrado Tedeschi editore.
Alfio Leotta, anzi Fleo, da un lavoro sicuro all’uscita di scena prima del tempo, tutto può cambiare…
“È amareggiante avere acquisito, in anni di lavoro, competenze e professionalità che ora non servono più. Ero un funzionario di banca, ma un bel giorno costavo troppo e ho dovuto lasciare. È cambiato tutto così velocemente che non ho potuto riprogrammare le cose”.
Una vita da bancario è il racconto di una vita al lavoro e di una trasformazione del modo di lavorare a seguito della meccanizzazione. Possiamo leggerci anche le trasformazioni sociali degli ultimi trent’anni?
“Certamente. La meccanizzazione è il contrario dell’umanizzazione e l’uomo si deve adattare a un approccio automatizzato. Il cambiamento tecnologico all’interno della banca è lo specchio di un cambiamento della nostra società dove ci siamo fatti più individualisti, egocentrici e sostituibili”.
Il sottotitolo di Una vita da bancario, è strisce comiche di vita creditizia. L’umorismo per salvarsi?
“Sì e ne sono convinto. Umoriosmo e autoironia servono sempre e, in particolare, quando ti capita qualcosa che ti cambia la vita. Una vita da bancario non è la storia di un uomo dentro una banca, è la storia, nata da contesti reali e battute scambiate fra colleghi e clienti, di chi lavora in quell’ambiente, qualsiasi istituto di credito, insomma”.
Le prime vignette raccontano l’entusiamo di entrare a fare parte di una grande famiglia, di un gruppo che, poi, a un certo punto ti chiede il contratto di solidarietà e, per ridurre i costi, di diventare un esodato.
“Chi, come me, ha lavorato tanti anni in banca, è stato messo da parte e si è sentito inutile pur essendo ancora giovane e disponibile a restare al proprio posto. Questo distacco forzato dal nostro ruolo, durato decenni, lo abbiamo umanamente sentito, eccome”.
Ma l’orologio d’oro che avrebbero dovuto regalarle a fine carriera, è arrivato?
“L’orologio d’oro non è mai arrivato, era una bufala d’altri tempi e la carriera è finita prima del tempo…”
Le vignette conclusive dell’ebook riferiscono la visione che i bancari hanno della nuova banca. Quale sarebbe?
“Una specie di robot che rassicura il cliente dicendogli che avrà l’attenzione che merita e il massimo del calore umano”.