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Cittadino o suddito?

Nel 1549 fu pubblicato un saggio in cui si studiava la disponibilità degli esseri umani a essere servi: Etienne De La Boétie “Discorso sulla servitù volontaria” (Chiarelettere). E’ utile la lettura di un testo del cinquecento per pensare il presente di una società liberaldemocratica? La mia risposta è sì. Del resto un classico è tale proprio perché propone riflessioni che travalicano le epoche e avanza domande che non hanno ancora ricevuto risposte. Certamente oggi, nella società di massa a suffragio universale e retta da un regime democratico tutto si è fatto più complicato. In estrema sintesi, si può delineare una specie di ‘antropologia della libertà’? Proviamo a configurarla mettendo in evidenza i tipi umani ‘negativi’ che alimentano la crescita della ‘servitù volontaria’.
1- Il conformista. E’ colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma che cosa gli altri si aspettano da lui. E’ “l’uomo-massa” che annulla la propria individualità nel ‘far parte’ di qualcosa (movimento, partito….). La sua ossessione è sentirsi a posto, accettato.
2- L’opportunista. E’ il carrierista che non ha scrupoli nel prodigarsi a favore del potente del momento per ingraziarselo ai fini della propria promozione (professionale, politica…). Piaggeria e fedeltà sono i suoi distintivi.
3- L’uomo gretto. E’ quello descritto da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro (“Democrazia in America”, 1835: altro classico….): “Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri….Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica di assicurare il godimento dei loro piccoli desideri. Ama che i cittadini siano contenti, purchè non pensino che a stare contenti.” Un tale potere (che Tocqueville definiva ‘dispotismo democratico’) richiede non dei cittadini adulti, ma degli eterni bambini.
4- L’uomo che ha paura della libertà. Al di là della facile retorica da comizio, l’esercizio della libertà fa paura. Non a caso I. Kant, nel settecento, invitava gli uomini ad uscire dallo stato di minorità e ad avere il coraggio di essere liberi.

Conformismo, opportunismo, grettezza, paura: ecco gli ingredienti della ‘servitù volontaria’. Al contrario. Autonomia, coraggio, solidarietà, compongono la cifra dell’ “homo democraticus” adulto e maturo: insomma il cittadino, non il suddito.

Ascolta il commento musicale: Giorgio Gaber, Il conformista

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In biblioteca Ariostea “l’informazione verticale” di ferraraitalia

Un faccia a faccia con la città e un’opportunità di incontro e conoscenza con i lettori. Giovedì 30 gennaio alle 17 ferraraitalia sarà ospite della biblioteca Ariostea per una presentazione pubblica. L’occasione consentirà di illustrare quel modello di “informazione verticale” al quale il nostro quotidiano online si ispira. Attraverso opinioni, inchieste, interviste e il racconto di vicende emblematiche cerchiamo infatti l’approfondimento dei fatti, per proporre chiavi di comprensione e strumenti di interpretazione utili a decifrare la realtà in cui viviamo.

Ci definiamo osservatorio giornalistico glocal poiché la prospettiva in cui ci collochiamo considera l’inscindibile interazione e l’assoluta complementarietà fra micro e macrocosmo. E siamo indipendenti nella misura in cui, pur marcando un preciso punto di vista, abbiamo come riferimento la nostra coscienza e nessun “padrone” cui dover rendere conto. L’intento di ferraraitalia è quello di proporre stimoli e animare un confronto libero e civile.

In biblioteca, giovedì 30, ci saranno collaboratori e opinionisti. Insieme cercheremo di rendere piacevole l’incontro miscelando parole, musica e immagini.

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L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.
Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.
L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.
Cosa c’è di così tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?
Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.
Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama Lilliput.
Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.
Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.
Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:
“Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.
Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.
E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.
Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.
Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (Ue 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada dei progetti europei, in particolare del progetto Tels (Towards a European Learning Society)
Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?
E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city”?
Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?
James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.
Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento, che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.
La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

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Un distretto rurale per rilanciare il “made in Ferrara”

“Ripartire dal territorio per un nuovo modello di sviluppo” è la sintesi di una lettura apparsa su l’Aratro, il mensile della Coldiretti di Ferrara.
Si parte dal made in Italy, dalla qualità delle produzioni, dal turismo con un nostro brand, poi le direttrici dello sviluppo sostenibile e le reti delle piccole imprese, per concludere che “da diversi anni nella nostra provincia – secondo Sergio Gulinelli – non si riesce ad essere partecipi dei grandi momenti che stanno ridisegnando il sistema… per tentare di valorizzare il made in Ferrara”.
Provo a soffermarmi su questi brevi appunti anche pensando a quanto è stato fatto nel grossetano, nella maremma toscana, nelle politiche agricole di quel territorio con l’elaborazione, nel lontano 2003 del professor Pacciani, della costruzione di un distretto rurale.
Oggi quella felice intuizione ed esperienza ha dato ampi e proficui risultati, basta andare sul posto, muovere alcuni passi e percorrere qualche itinerario, anche, se si vuole, navigando sul portale web.
Importanti, quindi, sono gli elementi costitutivi di un distretto: un quadro coerente di assi strategici, il sistema territoriale di qualità, il substrato della struttura sociale ed economica e, soprattutto, creazione di relazioni stabili con l’ispessimento dei rapporti per fare sistema.
Si parte con un “Tavolo verde” con tutti gli attori diretti e alcuni stakeholder, poi una cabina di regia, una governance, il dare metodo al progetto, l’attuazione di un patto territoriale generalista e con specializzazioni in agricoltura, pesca e turismo, le varie versioni dei programmi leader, i contratti di programma per l’agro-alimentare e i piani locali di sviluppo rurale.
Appare allora evidente che in questo modello di sviluppo si profila un nuovo soggetto protagonista, il sistema territoriale, che ha come collante una radicata identità culturale e una memoria storica assai viva.
Il Distretto, quindi, riannoda i fili dell’economia esistente per inserirli in modo sistemico in un modello di sviluppo in grado di potenziare l’economia di tutto il territorio: in questo senso si qualifica come modello di sviluppo endogeno, intersettoriale, sostenibile e integrato. Ma soprattutto, in quanto distretto, si caratterizza per la sua visione strategica che mette a sistema tutte le articolazioni del tessuto economico, civile, culturale.
All’interno del distretto, grazie all’uso di strumenti di concertazione, programmazione bottom up e alla promozione delle relazioni pubblico-privato, si riesce a creare una relazione sistemica tra progetti privati e pubblici e tra risorse private e pubbliche, e questo è l’avvio di un processo virtuoso capace di generare risorse aggiuntive per le imprese e per il sistema territoriale locale nel suo complesso.

Ho, volutamente, richiamato questo punto di vista – espresso in un convegno promosso da Accademia dei Georgofili e Studi Sviluppo Rurale – perché ben si attaglia anche quello spazio che la Coldiretti indica, nel made in Ferrara, e che trova difficoltà di apprezzamento negli interlocutori, nella politica e nelle istituzioni.

Che più di qualcuno pensi, ancora, che sia un sogno, una utopia irraggiungibile forse è nelle cose ferraresi, in una conservazione impossibile da schiodare, in una statica condizione sociale senza fine, anche se ci sono alcuni segni che fanno ben sperare.
Proviamo a pensare: le pere, le mele di pianura, le carote, l’aglio, i cereali, le produzioni ittiche di valle e di sacca, le singolarità dei nostri terreni, l’ambiente pedo-climatico.
E poi: l’agro-alimentare delle cooperative e dei grandi gruppi privati, i mercati contadini e le fattorie didattiche, la strada dei vini e dei sapori, la cultura e la civiltà contadina,
Ancora: i turismi della costa e il parco del delta, gli itinerari dei beni artistici e culturali del rinascimento, la destra Po, i tratti del Volano e l’idrovia, i piccoli milieu culturali e le tradizioni locali, i life natura e gli ambienti dell’agenda ventuno.
Un distretto quindi si può fare, ci sono i presupposti, le condizioni e le risorse, anche europee.
Basta uno sforzo ed una volontà.

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Sateriale e Marattin, ricette anticrisi per rilanciare lavoro e occupazione [audio integrale]

“Siete venuti per ascoltarci o per veder litigare me e Marattin?” Con questa battuta d’esordio, Gaetano Sateriale ha strappato il primo sorriso al numeroso pubblico presente al centro sociale di corso Isonzo per sentire l’ex sindaco e l’attuale assessore comunale al bilancio discutere del Piano del lavoro messo a punto dalla Cgil, della quale Sateriale è coordinatore nazionale di segreteria. Qualcuno era forse anche animato dalla speranza che i toni del confronto si accendessero. Invece gli interventi sono risultati stimolanti, ma pacati.

Sateriale è partito dalla constatazione che “c’è poco lavoro e quel poco è lavoro povero”. All’emergenza, ha spiegato, si fa fronte “non con sgravi che non creano occupazione perché il mercato è fermo, ma creando nuovi posti di lavoro di qualità”. Questo significa, per l’ex sindaco, valorizzare le tecnologie e i saperi specialistici e operare in un’ottica di innovazione del Paese, anche attuando azioni di prevenzione rispetto, per esempio, alle sempre incombenti disastrose conseguenze del dissesto idro-geologico o al rischio sismico. Anziché spendere “a posteriori”, ha detto in sostanza, per rimediare ai disastri, spendiamo prima per evitarli. Otterremo un saldo a somma zero, che garantirà però i famosi nuovi posti di lavoro e maggiore sicurezza alla comunità.

Gli elementi di dissenso, però non sono mancati. Luigi Marattin, intervenendo dopo Sateriale, ha infatti voluto marcare due punti di contrasto rispetto alle premesse del ragionamento svolto dall’interlocutore, affermando che il problema nodale non è la domanda, ma la qualità dell’offerta e affrettandosi a sostenere che riconoscerlo non significa non essere di sinistra.
La responsabilità è stata attribuita alla totale inadeguatezza del sistema di formazione professionale “che sarebbe da abbattere, cospargere di sale e rifondare completamente”.

L’altro parziale punto di discordia è stato riscontrato nella valutazione relativa al costo del lavoro. Mentre Sateriale aveva segnalato come i lavoratori italiani, a pari livello e mansioni, siano mediamente meno pagati dei loro colleghi europei, Marattin ha riconosciuto la disparità, evidenziando però come il costo sopportato dalle imprese sia comunque più elevato: effetto, ha chiarito, o di un eccessivo peso degli oneri contributivi oppure di un carico fiscale abnorme: storture da correggere.

A beneficio dei nostri lettori riportiamo qua l’audio integrale degli interventi di Sateriale e Marattin, preceduti dalla presentazione di Roberto Cassoli, coordinatore del tavolo di confronto promosso dall’Istituto Gramsci di Ferrara in collaborazione con Cgil Ferrara.

Ascolta l’introduzione di Roberto Cassoli e l’intervento di Gaetano Sateriale

Ascolta l’intervento di Luigi Marattin

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A Ferrara un ponte tra Italia e Cina per iniziare insieme l’anno lunare

Cina… una parola che evoca l’idea di Oriente e mistero, a cui pensiamo con un misto di diffidenza e curiosità. Eppure gli abitanti di quel mondo – lontano sia geograficamente sia culturalmente – sono diventati una presenza sempre più diffusa. Lineamenti asiatici che incrociamo dietro molte vetrine di negozi, banchi del mercato e tavoli di ristorante. In città ogni giorno vediamo persone cinesi, ma di loro non sappiamo quasi nulla, difficilmente ci chiacchieriamo, a mala pena condividiamo parole che non siano buongiorno, buonasera, quanto costa.Italia-Cina
Una piccola insegna ora però si è accesa, come una torcia che può fare un po’ di luce su questa realtà. Non è l’insegna di un negozio e tanto meno quella di un ristorante. Sopra c’è scritto “Centro interculturale italo-cinese di Ferrara”. Un luogo che trovi online: nel sito che ha questo nome e sull’omonimo profilo facebook. Ma è anche una sede fisica, al numero civico 90 di via Goretti. Suoni il campanello e una voce maschile dall’accento nostrano ti invita a salire. In cima alle scale la voce ha un volto sorridente con gli occhi a mandorla sotto una frangia liscia di capelli corvini: è Cai Jin, 24 anni, presidente dell’associazione italo-ferrarese, nata nel 2012 come affiliata Arci.
Cai incarna la riuscita dell’incontro tra la Cina e l’Italia. A Ferrara arriva ancora bambino per ricongiungersi con la mamma e il papà emigrati da una zona rurale dello Zejiang. Qui Cai frequenta scuole elementari, medie e liceo; ora, è all’ultimo anno di Giurisprudenza all’università di Bologna con una specializzazione in diritto dei Paesi asiatici. Benché molto estroverso e curioso, Cai ricorda la difficoltà di trovarsi all’improvviso in un posto che non conosci, dove si parla una lingua incomprensibile e dove crollano tutti i tuoi punti di riferimento. Il suo carattere lo aiuta a superare gli ostacoli, una maestra appassionata come Annalisa Stabellini lo accoglie all’Alda Costa accompagnandolo nella conoscenza di lingua e cultura italiana, ma anche nella scoperta dei luoghi fisici e artistici che ci circondano. L’entusiasmo e la vitalità di Cai fanno il resto. Appena può, si tuffa nelle attività organizzate intorno a lui, fa il volontario per il Festivaletteratura di Mantova così come per la cooperativa Camelot di Ferrara che si occupa di mediazione culturale per gli stranieri nelle scuole e in ospedale. Studia, si confronta, gira. Abbastanza naturale quindi, per lui, pensare di creare un’associazione che sia un ponte tra la comunità cinese e quella ferrarese, punto di riferimento per partecipare e condividere. Le tre stanze del centro interculturale sono adibite a ufficio e redazione, aula scolastica dove si tengono lezioni di cinese e saletta con proiettore e seggiole per iniziative come la rassegna CinaForum, organizzata l’anno scorso. “I corsi di lingua – racconta Cai – sono iniziati all’interno del liceo Roiti, dove ho studiato e dove per primi ci hanno dato la possibilità di usare le aule”. Gli iscritti e l’interesse aumentano e così il Centro italo-cinese di Ferrara diventa anche un luogo fisico, aperto due pomeriggi alla settimana (mercoledì e venerdì) con Cai che ha anche la carica di presidente regionale di AssoCina per l’Emilia-Romagna.Italia-Cina
L’associazione unisce utile e dilettevole: fornisce servizi di traduzione, sbroglio di burocrazia varia e doposcuola, ma organizza anche gite nelle Chinatown italiane, proiezioni cinematografiche, conferenze, corsi di lingua, cucina, cultura, arte, tradizione orientale. “Il nostro obiettivo – dice – è quello di favorire l’incontro. Qui un cinese può trovare un connazionale che lo introduca a tematiche ferraresi, e un ferrarese può avvicinarsi a temi legati alla Cina”. Una cinquantina gli associati e un direttivo formato da cinque cinesi e quattro italiani. Jin Cai è il presidente. Wu Qifa, maestro di lingua e cultura cinese, è vice-presidente insieme con Yao Yi, studente di Ingegneria che viene dal Gansu. Lu Xian è una studentessa di Architettura cresciuta ad Hong Kong, che nel centro si occupa di rapporti con l’estero; la studentessa di Economia Jiang Yan viene dalla costa est ed è la responsabile degli Affari interni. Ferraresi sono il responsabile della comunicazione, Stefano Droghetti, che è un informatico; il segretario Vincenzo Spinelli, studente di giurisprudenza e poliglotta; responsabile per lo sviluppo Riccardo Pacchioni, esperto di consulenza strategica per le imprese che ha già fatto convenzioni con attività commerciali, come ristoranti e negozi, che riconoscono sconti e facilitazioni ai soci.Italia-Cina-puzzle
Tra pochi giorni una delle iniziative più importanti per tutta la comunità: il 31 gennaio si celebra il Capodanno del calendario lunare cinese. Una grande festa sarà organizzata in un ristorante della provincia con musica e piatti che Cai assicura essere davvero quelli tipici, diversi dai soliti menù. Un’altra occasione di incontro per tutti, con un desiderio che ogni ferrarese e cinese potrà affidare a una lanterna volante. Per sognare insieme l’anno che verrà.

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La capitale dei lidi senza pronto soccorso, Comacchio si ribella

Non c’è tregua per la sanità del Delta. Il braccio di ferro tra istituzioni e popolazione prosegue tra partecipazione civile e denunce. Sono cinque gli esposti di Consulta Popolare del San Camillo, Comune e Uil Sanità a Prefettura, Procura e Regione per fare luce sul metodo e la regolarità del blitz con cui l’Ausl ha chiuso in un batter d’occhio il punto di primo soccorso dell’ospedale San Camillo di Comacchio.
Sabato il sindaco 5stelle di Comacchio, Marco Fabbri ha rivelato di essere stato minacciato di denuncia dal direttore sanitario Paolo Saltari per aver offuscato l’immagine dell’azienda. E’ guerra con tanto di botti. Del resto era già tutto previsto, si potrebbe canticchiare infischiandosene della bordata con cui è stato affondato il pronto soccorso comacchiese. Impossibile, a meno di non soffrire d’indifferenza perniciosa.
La prova sta nella ritrovata partecipazione civile delle tante persone e associazioni – fatta eccezione per quelle di categoria forse intenzionate ad aspettare la bella stagione per esprimere la disapprovazione di un’assenza di servizio utile al turismo – raccolte in corteo sabato pomeriggio. Hanno sfilato dall’ospedale comacchiese fino a via Folegatti, dove si è tenuto un lungo comizio con gli interventi di Giovanni Gelli e Manrico Mezzogori della battagliera Consulta del San Camillo, Mirella Boschetti della Fials e Nicola Zagatti del Comitato Salvaguardia del Delta. Un biscione umano, civile e determinato, formato da persone calate a Comacchio da diversi paesi della provincia di Ferrara per unirsi alla popolazione lagunare e gridare il proprio ‘no’ al ‘sacco’ della sanità deltizia. Perché di questo si tratta, hanno insistito gli organizzatori della protesta e il sindaco 5Stelle, in testa al corteo insieme ai suoi assessori, ai consiglieri d’opposizione della giunta e ad alcuni sindacalisti.

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Cortei di protesta a Comacchio, rimasta senza pronto soccorso

Il primo cittadino, l’unico della provincia, ha rivendicato l’importanza di una battaglia senza campanili né bandiera, per una sanità di qualità, organizzata secondo le esigenze delle popolazioni e rispettosa di chi lavora nelle strutture colpite dai tagli della dirigenza dell’azienda sanitaria, braccio esecutivo di un progetto politico deciso in Regione e sposato dalla nostra Provincia.
Tutto per favorire il Polo di Cona, denunciano dalla Consulta del San Camillo, ‘un ospedale sovradimensionato, che per assorbire le proprie spese dovrebbe servire dalle 600mila al milione di unità’. Sono in molti a pensarla nello stesso modo, contribuenti e non, ma tutti pazienti potenziali degli ospedali in declino. Tutti sfiancati dallo spettacolo di un invocato risparmio di denaro pubblico giocato sulla loro pelle piuttosto che su scelte razionali di riorganizzazione sanitaria a misura d’uomo. Lo ha ricordato il sindaco Fabbri, specificando che ‘se in Romagna hanno un’unica amministrazione dell’azienda sanitaria, noi ne abbiamo due’.
Tutto sommato usare le forbici per tagliare i duplicati è una soluzione migliore rispetto alla cancellazione di specialistiche e allo svuotamento di reparti. Come successo a Valle Oppio, dove nonostante le promesse, un pediatra solitario manda avanti la baracca, emodinamica è stata smantellata e psichiatria è in via di smobilitazione. Come dargli torto? In fondo l’economia del buon senso, molto simile a quella di ogni famiglia, è la più funzionale e funzionante. E’ ispirata dalla logica. Flessibile e rigida a seconda delle necessità. Il teorema è inattaccabile con buona pace di strategie politiche sulle quali è diventato impossibile abbozzare, specie se c’è la salute di mezzo. E se ci sono documentate soluzioni dai costi sostenibili con cui rendere produttivi e integrati gli ospedali del Delta e San Camillo. Lo ha specificato ancora una volta la Consulta.
Allora perché snobbare le proposte invece di esaminarle, fosse anche per respingerle? Perché ignorare la voce di una terra, dove in estate raddoppia popolazione e dunque la richiesta di sanità? Perché utilizzare strutture convenzionate pagando compensazioni milionarie ogni anno invece di fornirle in casa propria e risparmiare davvero sui costi? Qualcosa non torna. Lo ha gridato il lungo corteo venuto a chiedere rispetto per gli abitanti dei Comuni troppo lontani da Cona per affidare la propria salute al maxiospedale. Soprattutto in caso di emergenze. In piazza per chiedere la revisione del piano sanitario e la rinegoziazione di accordi sulla sanità comacchiese firmati dal governatore Errani e finiti giù per le scale di cantina in nome della spending review. La cosa non sorprende, ma neppure rinsalda il rapporto di fiducia tra i vertici della politica emiliano-romagnola, provinciale e la popolazione. E intanto la battaglia continua. In difesa del diritto alla salute e di un ruolo attivo nella partita sulla sanità pubblica.

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Lavoro: rassegnata anche Ferrara, molti hanno smesso di cercare

È uscito un prezioso volumetto scritto dal sociologo Emilio Reyneri, in collaborazione con Federica Pintaldi, ricercatrice Istat. Il libro “10 domande su un mercato del lavoro in crisi” (il Mulino) ha il merito di rispondere con chiarezza, ma con rigore, alle domande che di frequenti ritornano quando tentiamo di ragionare sul tema del lavoro (e della mancanza di lavoro) oggi.
Emilio Reyneri, che il tema del mercato del lavoro lo studia da anni, si propone di sfatare alcuni luoghi comuni diffusi, mettendo in evidenza, tra l’altro, che i dati medi nascondono valori diversi per classi di età, genere e area geografica. Il quadro che emerge dall’analisi è quello di un Paese la cui economia da tempo ha smesso di crescere. La situazione attuale è molto negativa, ancor più di quanto sembri dai dati sul tasso di disoccupazione.
Il problema è la qualità del lavoro e il fatto che in Italia la quota di buoni lavori, tra questi quelli creati dal web, sia più bassa rispetto ad altri paesi Europei. Per questo, la competizione tra i giovani laureati per i pochi posti buoni è molto più forte e una quota rischia di trovarsi imbottigliata in un’area di occupazioni dequalificate. Questa è la differenza più rilevante rispetto a qualche anno fa, quando i percorsi di ingresso dei laureati erano caratterizzati da una trafila, pure lenta e tortuosa, che però consentiva di approdare ad un porto stabile.
Il punto grave è che la fascia dei cattivi lavori è oggi relativamente più ampia, ed è all’interno di questa fascia che si registra la maggiore turbolenza, vale a dire il maggior numero di lavori a termine di basso profilo e di brevissima durata. La fascia dei soggetti più a rischio è quella dei cinquantenni: troppo giovani per proiettarsi verso la pensione e troppo vecchi per ritrovare lavoro nel caso lo perdano per crisi aziendali.
Nessuna ricetta facile, se non un investimento di lungo periodo sulla qualità dell’istruzione, affinché aumenti la produttività del lavoro. Ma non sarebbe poco, semmai ne vedessimo l’avvio.
Rispetto a questi temi come si colloca Ferrara?
Da anni gli indicatori di occupazione e disoccupazione indicano un tessuto più fragile. I dati recenti confermano un numero di inattivi più alto, un calo delle occupazioni a tempo indeterminato e un aumento di quelle a tempo determinato, un’occupazione a bassa produttività, derivante dalla qualità del tessuto produttivo, da servizi di basso livello.
A Ferrara la percentuale di persone in cerca di impiego registra il dato di gran lunga più alto della Regione, supera l’11 contro una media regionale di poco superiore al 7%. Tra le persone in cerca di occupazione che si rivolgono ai Centri per l’Impiego il 57% ha un titolo di studio dell’obbligo o inferiore. E una quota pari a circa la metà ha più di 40 anni.
Anche a Ferrara, quindi, il punto preoccupante, in prospettiva, è la qualità dell’occupazione e, insieme a questo, l’effetto di scoraggiamento nella ricerca, che si riflette nella tendenza a non compiere azioni di ricerca attiva nella convinzione che non esistano opportunità. La crisi accentua le debolezze strutturali e per questo occorrono investimenti di lunga durata nella qualità delle risorse umane.
Ciò che sgomenta, dopo anni di enfasi sull’orientamento, è l’assenza, tra molti giovani, di una capacità di costruire un progetto realistico e razionale, di indirizzare azioni verso un obiettivo e di perseguirlo con tenacia.
Ci sono compiti per tutti. Anche per l’Università. Perché non investire, in accordo con le associazioni imprenditoriali, in Master realmente professionalizzanti per occupati e non, per migliorare la qualità delle competenze e per un utilizzo avanzato delle nuove tecnologie del web?
Il tema del lavoro è troppo serio perché sia ricondotto a facili semplificazioni. Per questo il contributo alla riflessione che deriva dalla lettura del libro di Reyneri è particolarmente utile.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma)
Laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali e alle nuove tecnologie, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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Il filo spinato della prevaricazione in un romanzo che mette a confronto due generazioni

Stare a contatto con gli adolescenti fa parte del suo lavoro, cercare di comunicare con loro anche oltre la didattica, è ciò che Patrizia Marzocchi fa nei i suoi libri. La recente pubblicazione Ricordare Mauthausen (edizioni Il mulino a vento) è un romanzo che tocca il tema della Shoah, è ambientato ai giorni nostri, ma guarda a un pezzo di storia del Novecento e intreccia argomenti di sensibilità sociale, come bullismo e razzismo, esistenziale e storica.
Patrizia Marzocchi è un professoressa di lettere delle scuole medie, vive a Bologna e di romanzi per ragazzi ne ha già scritti parecchi. Ricordare Mauthausen è la storia di Mariangela che ha appena terminato con successo il primo anno di liceo, ha una famiglia benestante, frequenta una compagnia esclusiva, ha un’amica del cuore cui è molto legata. Improvvisamente, tutto il suo mondo crolla: la fabbrica del padre fallisce e la sua famiglia, ridotta in povertà, deve trasferirsi presso i parenti che vivono in campagna. Mariangela non trova il coraggio di confidarsi con gli amici e sparisce senza lasciare tracce. La presenza del nonno, reduce del campo di concentramento di Mauthausen, la spinge alla ricerca delle radici ebraiche della sua famiglia. E’ però tutto molto difficile perché il nonno non vuole parlare del passato. Emerge inoltre l’esistenza di un rancore profondo tra la famiglia di Mariangela e quella di uno strano ragazzo del paese, che lotta, insieme alle sorelle, contro un gruppo di bulletti razzisti. Lotta contro la prevaricazione, amicizia, amore concorrono a disegnare una rete che unisce il presente al passato e delinea un nuovo futuro.

Patrizia, perchè l’argomento della Shoah in un libro per giovanissimi?
“Ho visto i ragazzi interessati a capire quel particolare momento storico e così, evitando toni didascalici, ho voluto narrarlo parlando anche di presente e di emozioni. Il fulcro è la prevaricazione, ho cercato di immedesimarmi in chi subisce, nella difficoltà a reagire a certa violenza”.
Il tema del bullismo è affrontato nelle scuole in vari modi, eppure il fenomeno è tutt’altro che debellato, quali strumenti servono per fare passi in avanti?
“Io credo servano chiavi di lettura, i ragazzi devono trovare modelli di comportamento per uscirne, sappiamo quanto l’influenza del gruppo sia forte a questa età. La giovane protagonista si pone queste domande e combatte una sua piccola battaglia. A fare procedere la vicenda anche mistero, amore, amicizia e interazione di Mariangela con altre figure della storia”.
Nel romanzo, il valore delle relazioni e del silenzio sono fondamentali per la crescita della protagonista.
“La vita di Mariangela si intreccia a quella del nonno che ha vissuto nel campo di concentramento di Mauthausen e non intende parlare del passato. Entrambi vivono una sofferenza, il silenzio è una forma di comunicazione fra i due che poi si infrange diventando contatto, dialogo, compassione, sensibilità”.
Il silenzio rimane, però, qualcosa da difendere.
“Eccome, ci sono cose che non amano la luce del sole, verrà detto a un certo punto. Credo che tutta la visibilità che i ragazzi hanno a disposizione in questa società distrugga un loro mondo più intimo e segreto che va salvaguardato. La privacy ha un valore e il rischio per i giovani è restare senza protezione”.

Patrizia Marzocchi, il prossimo 17 febbraio alla biblioteca Ariostea, incontrerà due classi delle scuole medie con cui dialogherà di due suoi precedenti romanzi Il viaggio della speranza e Il bullo, la secchia e gli altri. Il dialogo continua…

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La necessità del ricordo

Ripensare nei giorni della memoria come deve essere necessario salvare il ricordo come bene prezioso e inestimabile che potrebbe spegnersi con la scomparsa dei testimoni mi sembra il compito etico che tutti dovrebbero proporsi per non dar luogo non al “bestiale” ma all’“inumano”. Ecco allora la funzione salvifica affidata alla scrittura e alle arti come il bene prezioso non solo di testimonianza ma soprattutto di memoria imperitura: “aere perennius”, come scriveva Orazio che il carissimo amico Claudio Cazzola mi suggerisce di interpretare così: “più duratura di ogni opera umana”, ovvero, come afferma Tucidide, “un possesso per sempre”.
Leggere sotto questa prospettiva l’articolo di Carl Macke “Il buon soldato. Una storia ferrarese” apparso su questo giornale rafforza e convince che sempre di più il ricordo deve essere “un possesso per sempre”.
Mi si riaffacciano alla memoria dunque i classici a cui il ricordo si affida: da Primo Levi ad Anna Frank, da Hanna Arendt a Elie Wiesel, da Hans Jonas a quello che sento più vicino, Jean Améry di Intellettuale a Auschwitz. E la cui funzione per me dovrebbe essere – e nel mio piccolo è – quella di chi difende la cultura come bene primario contro gli attacchi disumani del pensare comune, quello che produce i deliri razzistici testimoniati dalla Padania e dai suoi sostenitori (compreso il “patto d’acciaio” siglato dai leghisti con Marine Le Pen): l’accorato appello a non dimenticare si fa sempre più urgente e necessario.
Ricordare ad esempio un titolo che sembra affievolirsi nella memoria comune: La Storia di Elsa Morante con l’elegia tragica della povera Iduzza Ramundo vittima di uno stupro da parte del giovane soldato tedesco da cui nascerà Useppe, inconsapevole eroe di una storia di stragi. Useppe inventato dalla scrittura ma così reale grazie alla verità che ogni opera d’arte porta con sé. Fratello di Anna Frank, il cui ricordo si sarebbe perso nella strage della Storia se non fosse stato salvato da quel diario a cui viene affidato il ricordo “possesso per sempre”. Fratello di Piccolo a cui Primo Levi recita i versi “fatti non foste a viver come bruti” dell’Ulisse dantesco nel momento più angoscioso e terribile della distruzione dell’umano. Perché non prevalga la memoria grigia dei Sommersi e salvati, ché alla fine, se trionfasse quella, porterebbe a rinunciare al peso del ricordo, come purtroppo è accaduto col suicidio di Primo Levi o di Jean Améry.
L’arte e la scrittura rimeditati da un saggio terribile ma denso di significato come quello esposto nella meditazione filosofica di Hans Jonas che ripensa il valore della responsabilità umana in Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Ma soprattutto perché non si ripeta il rogo dei libri della perversa idea nazista che poteva illudersi che basta un fuoco per distruggere il pensiero. I libri vanno portati dentro. Sono la fodera dello spirito, senza di loro – cartacei o e-book – non potremmo pensare e ricordare. Ricordare che se questo è un uomo mai dovrebbe essere più scritta e quindi divenuta “possesso per sempre” la più terrificante testimonianza dell’inumano: “Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza per ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno”. MAI PIU’ che vi sia qualcuno che non ha “più forza di ricordare”.

Gianni Venturi è docente universitario a riposo di Letteratura italiana, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e dell’Istituto di ricerca su Canova e il Neoclassicismo di Bassano del Grappa, ma soprattutto (è la cosa a cui tiene di più) presidente dell’Associazione Amici dei Musei e Monumenti ferraresi. Nonostante queste attività è critico letterario specialista in Dante e nella letteratura contemporanea, Bassani in primis.

Giovanelli_poeta

Franco Giovanelli, il poeta schivo che amava Sbarbaro

FRANCO GIOVANELLI
(ventennale della morte)

Riluttante a ogni forma di esibizionismo pubblico e cronicamente schivo nel fornire chiavi interpretative della sua opera, incline a occultare gli elementi di cronaca privata e collocando invece in primo piano i suoi scritti nella loro integra nudità, Franco Giovanelli (1916-1994) ha attraversato con il proprio lavoro culturale le fasi salienti di buona parte di questo secolo. Suoi testi sono apparsi, nel tempo, su “Paragone”, “Nuovi argomenti”, “Poeti d’oggi”, “Botteghe Oscure”, “Nuova Civiltà”, “Palatina”, “Emilia-Romagna”. E scrive il critico Antonio Caggiano, in un suo affettuoso ricordo, che Giovanelli «emanò il senso profondo di una didattica interdisciplinare che ebbe in lui una continua presenza come protagonista, stabilendo intorno a sé – per chi lo conosceva a fondo – una sorta di monumento della cultura».
La maggior parte delle poesie di Franco Giovanelli sono riunite in L’arrivo al Borgo, una silloge che raccoglie e riassume, insieme alle liriche, le esperienze intellettuali ed esistenziali dello scrittore. Il volume si articola in quattro sezioni, distribuite nello spazio di un centinaio di pagine. Il primo settore: “La partenza”, rievoca il silenzioso e soffocato tormento che pervade Pianissimo di Camillo Sbarbaro, poeta a cui l’autore dedica un delicato e struggente sonetto alla memoria. Nella seconda parte: “L’arrivo al borgo”, affiora il Giovanelli “civico”, che richiama alla mente il canto epico del Quasimodo di Giorno dopo giorno. Le ultime due sezioni: “Il vivere” e “La ricchezza che cresce”, perseguono alternativamente la discorsività della versificazione in prosa e il rientro nell’ordine della struttura metrica.
Libro fondamentale di Giovanelli è l’antologia La ricchezza che cresce, volumetto prefato da Giorgio Bassani e Lanfranco Caretti e illustrato dal pittore Roberto Rebecchi. Dove appaiono alcuni interessantissimi inediti, in particolare due lettere poetiche: la prima idealmente indirizzata dallo scrittore ad Attilio Bertolucci e la seconda in risposta da questi all’amico ferrarese (testo incluso dal poeta parmense in Viaggio d’inverno, del 1971). «Se poi penso ai classici italiani, – scrive Lanfranco Caretti nella plaquette – direi che Giovanelli si tiene più vicino a Foscolo che a Leopardi, più a Dante che a Petrarca. L’endecasillabo è non a caso il verso che gli è più congeniale, anche se non esclusivo; ed egli lo sa variare dall’interno con grande sapienza ritmica ricorrendo ad abili spezzature o a sagaci legami, pervenendo così ad una dizione ovunque sostenuta, la quale conferisce un tono di vibrante intensità anche al quotidiano e al famigliare, anche al dimesso, cioè realizzando sovente quel “sublime d’en bas” di cui parlava Flaubert».
Fra i molti libri da lui curati, tradotti e prefati, sono almeno da ricordare: Poesie di J. Donne (1944), Sonetti sacri e poesie profane di J. Donne (1963), Poesie di P.B. Shelley (1983), Avventure di Don Giovanni di G.G. Byron (1991) e Satire di G.G. Byron (1993). Ha inoltre pubblicato: Le stagioni (1937), Poesie (1978), L’arrivo al Borgo (1984), Govoni nella critica contemporanea (atti del convegno “Corrado Govoni e l’ambiente letterario ferrarese del primo Novecento”, Ferrara 1984, 1985), Tullio Didero: poeta e narratore (con P. Vanelli, 1988), La ricchezza che cresce (antologia con inediti, prefazione di G. Bassani e L. Caretti, illustrazioni di R. Rebecchi, 1993) e altro ancora. Preziosa è la sua nota alla cartella d’arte illustrata dal pittore Gianni Vallieri (1971).

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Il buon soldato. Una storia ferrarese

“È nell’apparentemente banale che sta il grande valore” (Giuseppe Pontiggia)

MONACO DI BAVIERA – Una storia forse banale, ma una lezione importante. Tutto cominciò da una lettera apparsa all’inizio del 1997 nella rubrica “Lettere dei lettori” nel quotidiano italiano “La Nuova Ferrara”. Un lettore rispondeva polemicamente alla lettera di un altro lettore, si discuteva della politica di Israele e del rapporto tra israeliani e palestinesi, fascismo contro antifascismo. Nulla di straordinario quindi: in Italia come nel resto d’Europa queste polemiche sono all’ordine del giorno.
In un punto della sua lettera Franco Badiali ricorda tuttavia un ‘piccolo’ episodio capitatogli 50 anni prima, quando suo padre aveva salvato, nel 1944, dei documenti della Comunità Ebraica di Ferrara dalle azioni vandaliche dei fascisti e li aveva nascosti nella Biblioteca Ariostea, della quale il padre era custode.
Questa annotazione marginale colpisce l’avvocato Paolo Ravenna, che da anni cerca di ricostruire la complessa storia della Comunità Ebraica di Ferrara. In questi anni Ravenna sta cercando di ricostruire i fatti precisi in cui avvennero le devastazioni della Sinagoga da parte dei fascisti, tra il 1943 e il 1945. Leggendo la lettera del quotidiano ritorna con la memoria alla sua storia personale mai dimenticata.
Nel 1949, tornato a casa dall’esilio in Svizzera, si era recato alla Biblioteca Ariostea per cercare alcuni libri. A pochi anni dalla fine della guerra la biblioteca non era ancora ben assortita e funzionante, tuttavia Ravenna scoprì, non senza stupore, alcuni volumi dell’epoca napoleonica, che appartenevano alla antica collezione ‘Elia Minerbi’. Questi libri avrebbero dovuto essere nell’Archivio della Comunità Ebraica, come erano arrivati qui? Per molti decenni l’avvocato ebreo Ravenna non pensò più a quell’episodio finché non lesse la lettera di Franco Badiali. Ravenna, il cui padre era stato podestà di Ferrara fino alle leggi razziali del 1938 (ma questa è un’altra importante e non banale storia), si mette in contatto subito con il Badiali. Lo prega di raccontargli dettagliatamente le circostanze in cui quei documenti ebraici furono salvati.
Badiali racconta all’avvocato la storia già descritta nella lettera, ma aggiunge un dettaglio interessante: padre e figlio non erano soli quando avevano messo in salvo i libri con loro c’era un soldato tedesco della Wehrmacht, che li aveva aiutati. Aveva portato alcuni libri dalla sede della Comunità Ebraica di via Mazzini alla vicina Biblioteca Ariostea. In un italiano stentato aveva detto al padre di Badiali che voleva proteggere i libri dai “soldati stupidi”.
Ravenna chiese se Badiali aveva ricordi precisi di questo soldato. Sì, egli ricordava alcune cose: era un uomo gentile dai capelli scuri e portava dei guanti bianchi. Insomma un soldato molto corretto mentalmente un ‘prussiano classico’, ma senza l’aspetto tipico del tedesco. Lo si incontrava spesso in biblioteca, aveva un grande amore e rispetto per i libri e si era sempre presentato dicendo gentilmente il proprio nome. L’avvocato chiese se ricordava questo nome. Doveva chiamarsi Schapf o Scharf o Scharpf, precisamente non ricordava, ma suonava più o meno così.

Gli elementi raccolti sembravano troppo generici, perché la ricerca potesse avere successo. Ravenna tuttavia non si scoraggiò, perché voleva trovare quel soldato tedesco onesto e gentile. Non era interessato ai molti che avevano aderito al fascismo e nemmeno a quelli che avevano preso parte allo sterminio, i responsabili si conoscono, sono stati giudicati o lo saranno a Monaco e a Stoccarda, come stabilito. Forse doveva rivolgere le sue ricerche ai mandanti e alle vittime degli assassini del periodo fascista invece di sprecare le sue forze per cercare un soldato tedesco, che aveva salvato alcuni documenti della comunità ebraica di Ferrara.

E con la ricerca del “buon” soldato tedesco non si relativizzava forse il comportamento segreto ed ingiusto di parti dell’esercito tedesco durante la guerra ?
Al di là dei massacri e al di là dell’individuazione dei responsabili di tali azioni rimane la storia di questo ebreo ferrarese, la cui famiglia dovette fugire nel 1943 in Svizzera, che aveva perso parenti ed amici ad Auschwitz. Nell’epitaffio della Sinagoga di via Mazzini ci sono i nomi dei 96 ebrei ferraresi che morirono nei campi di concentramento nazisti: 14 portano il cognome Ravenna. Non tutti appartenevano alla famiglia dell’avvocato Ravenna, ma questo può essere importante?

Egli vuole conoscere quel soldato che ha avuto un comportamento così diverso dagli altri nei confronti degli ebrei e della loro storia, scritta in quei libri che ha salvato. Un amico tedesco, un giornalista, gli viene in aiuto. Il giornalista comincia la ricerca negli archivi tedeschi non senza dubbi sugli esiti, le tracce sono poche, è probabile un insuccesso. In molti casi non si ottengono risposte, in altri si sconsiglia la ricerca visti i pochi elementi a disposizione. Ma si continua pazientemente, si aspetta…. Dopo due anni una notizia che insieme a molte delusioni lascia sperare. Si trovano infatti due soldati dal cognome Scharpf che rispondono alle caratteristiche richieste. Di uno non si sa se sia stato impiegato in Croazia e in Italia. La descrizione dell’altro potrebbe coincidere con il soldato cercato. Il suo nome è Paul Scharpf, nato il 13 giugno 1914 a Stoccarda. E’ stato attivo in un reggimento che ha operato nel ’44 nell’Italia del nord nei pressi del Po. Questi dati incuriosiscono. Purtroppo è morto nel ’95 a Stoccarda, con lui quindi non è più possibile parlare, ma forse si può farlo con i famigliari. Si devono cercare. Si prendono contatti con loro e ci si conosce non senza un certo timore.

Si mettono a confronto i dati posseduti, i ricordi dei testimoni ferraresi, sembra che i familiari non sappiano molto di quel periodo in Italia, ma molti dettagli combaciano. Perché ci si ricorda così bene del male e si dimentica il bene così in fretta? Nella primavera e nell’estate 1944 Paul Scharpf era effettivamente stato nel nord Italia. Dove precisamente non si era in grado di ricostruire in base ai ricordi dei famigliari. La moglie però si ricorda molto bene delle cartoline che lui inviava da una città “vicina a Bologna”. Le cartoline non ci sono più. Si mostrano documenti della vita di Paul Scharpf che permettono di ricomporre il mosaico per l’identificazione di questo “buon” soldato. Scharpf non ha mai lasciato, a parte il periodo della guerra ed in occasione di alcune vacanze, la sua città natale Stoccarda. Là è nato e là è morto. Suo padre era un maestro-pittore benestante. Dalla sua fanciullezza e giovinezza non emergono fatti particolari. E’ stato un uomo onesto e riservato. La moglie ricorda che il marito quand’era soldato era solito portare guanti bianchi. Anche dopo la guerra ha frequentato con continuità la Biblioteca Comunale di Stoccarda, ha sempre letto molto e il figlio aggiunge che il padre gli ha trasmesso questo suo amore per i libri. Il suo ricordo è simile a quello di Franco Badiali, quel suo toccare il dorso dei libri quasi li accarezzasse. Il padre diceva anche qualche parola in italiano, ma al figlio sembra improbabile che il padre conoscesse il contenuto dei libri che aveva salvato. Sebbene soldato aveva odiato la guerra. I nazisti non li sopportava. Ma poi era stato richiamato e aveva fatto il suo dovere. Dopo, a differenza di molti amici e conoscenti, non aveva mai parlato delle sue esperienze in guerra: “Non voleva né sapere né sentire più nulla della guerra”. Così non aveva raccontato a nessuno, nemmeno ai suoi famigliari, di quel periodo in Italia. E nessuno gli aveva chiesto nulla. Nell’autunno del ’44 era nato suo figlio. Di quel periodo non aveva più parlato, solo questa ultima data era per lui significativa e del resto non aveva più detto nulla.

Dal dopoguerra fino alla pensione aveva lavorato come ingegnere alla Bosch, cosa abbastanza normale a Stoccarda. Durante questa ricerca ci si imbatte apparentemente solo in banalità e normalità, materia per una storia eroica non se ne trova. Nelle foto mostrate all’avvocato Ravenna si vede un uomo in divisa militare, ma non imponente. In chi lo guarda da l’idea di un uomo ritroso , semplice, in un certo qual modo cortese, un uomo da conoscere e con il quale parlare per quei tratti del carattere ricordati dal figlio e da Badiali, che avevano commosso l’avvocato ferrarese… Non c’era niente di straordinario in quest’uomo, colpito anche negli ultimi anni della sua vita dal morbo di Alzheimer, o forse qualcosa di straordinario c’era, come ha scritto Hannah Arendt nel suo saggio ” Eichmann a Gerusalemme”: “Oggi sarebbe tutto diverso in Germania, in Europa, forse in tutti i paesi del mondo, se ci fossero più storie come questa da raccontare”. Storie come quella del soldato tedesco Paul Scharpf, che ha mostrato rispetto per i libri che non gli appartenevano, ma che potevano rappresentare per altri un valore inestimabile. In un momento storico cosi drammatico e importantissimo ha dimostrato con un solo gesto la sua umanità e la sua coscienza storica.

Franco Badiali fu sorpreso da questo racconto, soprattutto dal fatto che Scharpf non si fosse reso conto di aver fatto qualcosa di straordinario e dopo l’incontro con il giornalista e l’avvocato se ne tornò al suo lavoro abituale di portiere di notte di un albergo ferrarese. Anche questo rientra nella norma. E una storia come questa, che parla di cose straordinarie, può in fondo apparire banale.

Ma certamente molte cose sarebbero andate diversamente in Germania e in Europa, se tra il 1933 e il 1945 ci fossero state un po’ di più di queste storie normali.

(Traduzione di Claudia Tumaini)

Scuola, nn ci sn tt i sold

Nel Consiglio dei Ministri di ieri si doveva fare chiarezza sulla paradossale vicenda degli scatti di anzianità che ha coinvolto il personale della scuola.
Sto parlando del caso dei pochi spiccioli finalmente assegnati con anni di ritardo solo a una parte di persone, soldi sottratti però dal fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa, successivamente trattenuti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi provvisoriamente restituiti in busta paga (domani… chissàchilosa, ma oggi per l’opinione pubblica il problema è risolto grazie all’intervento del segretario diffeRENZIato).
Il comunicato stampa che dovrebbe spiegarci nel dettaglio la decisione del Governo (cinguettata qualche giorno fa con gran entusiasmo sia dal Presidente del Consiglio che dai Ministri Carrozza e Saccomanni) non assomiglia per niente ad un canto di usignolo.
Al contrario è un esempio di politichese contorto che anche Raymond Queneau avrebbe definito: “Esercizio di CaricaScaricaBarile”.
Ecco il comunicato stampa del Ministero copiato dal sito del Governo:
“Il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Presidente, Enrico Letta, e dei ministri dell’Istruzione università e ricerca, Maria Chiara Carrozza, dell’Economia e Finanze, Fabrizio Saccomanni, e della Pubblica amministrazione e Semplificazione, Gianpiero D’Alia, un decreto legge in materia di retribuzioni per il personale della Scuola che demanda ad un’apposita Sessione negoziale avviata dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il riconoscimento dell’anno 2012 ai fini della progressione stipendiale del personale della Scuola (docente, educativo ed ATA). Nelle more della conclusione della sessione al personale interessato verrà mantenuto il trattamento economico corrisposto nell’anno 2013. La procedura negoziale per il recupero dei mancati scatti è stata già utilizzata per gli anni precedenti al 2012 e viene finanziata con risparmi e risorse rinvenienti dal settore scolastico senza alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato. Il decreto prevede altresì, come già annunciato, che non venga comunque effettuata alcuna azione di recupero delle somme attribuite al personale della Scuola per progressioni stipendiali nell’anno 2013. Viene inoltre prevista, per l’anno 2014, la non applicazione al personale della Scuola, con riferimento alle progressioni stipendiali correlate all’anzianità di servizio, del limite ai trattamenti economici individuali introdotto dall’art. 9, comma 1, del decreto legge n. 78 del 2010, nella considerazione che, a legislazione vigente, la predetta annualità per il comparto scuola è già utile ai fini delle progressioni stipendiali.”
Dopo anni di abitudine a letture così contorte mi sembra di aver capito il contenuto del comunicato.
Ho sempre pensato che quelli bravi potrebbero riuscire a scrivere le cose in maniera semplice, se solo lo volessero.
Evidentemente, certi politici o non sono bravi o non desiderano la chiarezza.
È “chiaro” che anche la scelta di “non essere chiari” ha il suo bel motivo che, per il mio modo di vedere, ha a che fare con la coerenza.
Infatti più si è chiari, più individui potranno capire. Ma se più cervelli possono capire ci saranno più coscienze che potranno osservare. E se molti soggetti possono osservare allora tante persone potranno giudicare… giudicare anche la coerenza tra il dire, il fare e il “normare“.
Per esempio, lo scrittore e filosofo francese Albert Camus scriveva: “Quelli che scrivono con chiarezza hanno dei lettori, quelli che scrivono in modo ambiguo hanno dei commentatori“.
Mi aspetto quindi che il Ministro dell’Istruzione, nella prossima pubblicazione, per essere più vicino ai gggiovani e per avere più commentatori, potrebbe addirittura optare per questo tipo di linguaggio:
“X te ke aspttv 1 cmbiamnt nll skuola, scordatl!!!
Nn ci sn tt i sold xke li spndiam x F35; cmq i $ ke ti diam, li prndiam anke qll dll vstr task e da $ dl Fnd x Mglrmnt Offrt Frmtv dll skuole.
T.V.B. anz T.V.1.B.3mendo.
Kiara Krrzz”

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“Le vie del Sacro” nella Roma di Francesco

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Una nomade tibetana

Il matrimonio tra il Centro di Produzione culturale la Pelanda del Testaccio e la fotografia non solo è ben riuscito, ma è un trionfo, quando di mezzo ci si mette la religione. Anzi le religioni. La mostra ‘Le vie del Sacro’ di Kazuyoky Nomachi, in programma fino al 4 maggio, è una delle proposte più azzeccate nella Roma di Francesco, il papa ‘pigliatutto’. E’ un piacere camminare lungo i corridoi, dove da rastrelliere semicurve di metallo e legno pendono gli scatti del fotografo documentarista giapponese, 68 anni, protagonista di una lunga avventura professionale intorno al mondo durante la quale è rimasto affascinato dai riti di preghiera delle popolazioni incontrate lungo il viaggio. L’occhio di Nomachi rimane prigioniero e cattura la spiritualità degli uomini fotografati in Africa, Asia, America del Sud, nel Sahara, in Etiopia. Lungo il Nilo e sulle rive del Gange, in Tibet, alla Mecca e sulle Ande. Le immagini restituiscono miriadi di fedeli inchinati per osannare Allah, giovani guerrieri dipinti di bianco in omaggio agli dei, donne velate e commosse, visi rapiti dall’estasi, che offrono occhi offuscati dalle lacrime sullo sfondo di paesaggi fumosi, antri biblici, illuminati dai falò o da una luna gigante, impossibile da addomesticare. Così tanto da intimorire. Chi guarda, con occhi e cuore, si addentra in altri mondi. Apre lo sguardo su paesaggi primordiali, tasta il polso al rapporto tra uomo e la natura, solo i pazzi, i presuntuosi e gli ignoranti non cadono sulle ginocchia di fronte a madre terra, mancandole di rispetto. Ecco il ‘sacro’. Anche l’uomo più moderno, recalcitrante verso la religione e i suoi dogmi, è costretto a cedere a ‘geo’, ai suoi capricci e alle sue rivendicazioni. Perlopiù giustissime. E’ lei la più forte. Nell’offesa, nelle sue conseguenze e nel suo imbizzarrirsi.

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La mostra “Le vie del Sacro” resta aperta sino al 24 maggio

A questo proposito l’obiettivo di Nomachi, che ha la sua prima antologica in Occidente, si fissa su tre giovani dal volto color caffè tostato, sorridenti e dal naso camuso, quasi la ‘raza’, tutti e tre vestono un copricapo a tamburello nero e giacche scure dalle maniche cucite con motivi tali da farle sembrare ali di condor. Un uccello leggendario. Ragazzi e credenze, riti e leggende si riversano nell’ex mattatoio, trasformato da luogo di sangue in casa della cultura, dove hanno sede anche una parte del Macro, il museo di arte contemporanea di Roma, la scuola di Musica Popolare e parte delle aule della facoltà di Architettura di Roma Tre. L’architettura industriale incontra le arti, diventa bella, tranquilla e alternativa in una città, attraversata da masse di disperati, homeless e disoccupati che dormono nella sporcizia, in angoli nascosti e impensabili di una metropoli storicamente irripetibile, schizofrenica, sporca e in caduta libera.

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Entra la Corte

Stavamo in pensiero.
Una volta uscite nella serata di lunedì 13 gennaio le motivazioni della Corte Costituzionale che ha cassato, in parte, il Porcellum, quali sono le onde sulla politica e, in particolare, sulle tre proposte di legge elettorale di Renzi?
Se lo è chiesto Roberto D’Alimonte sulle colonne del Sole 24 Ore (martedì 14 gennaio).
Seguiamo il ragionamento, perché il professore non è mica un patacca qualsiasi.
La Corte avrebbe bocciato “quel” premio di maggioranza, frutto della fantasia sfrenata di un odontoiatra sposatosi con rito celtico, non qualsiasi premio.
Così non sarebbero, sulla carta, fuori luogo la proposta del segretario Pd del Mattarellum modificato, ribattezzato “Matteum” dal maestro Sartori, e quella sul modello dell’elezione dei sindaci.
Nel primo caso la vecchia legge in vigore prima dell’era Calderoli, attribuiva il 75% dei seggi con sistema maggioritario in collegi uninominali: il più votato si prendeva il seggio e tutti gli altri a guardare.
Ora la proposta del sindaco di Firenze prevede che la rimanente quota del 25% dei seggi, prima aggiudicata con metodo proporzionale, sia trasformata in premio di maggioranza da aggiudicare a chi vince fra i primi due.
Sarebbe salva anche la disproporzionalità contenuta nel doppio turno di lista (il modello sindaci), perché il premio che garantisce il 55% dei seggi in Parlamento va a chi al primo turno di aggiudica il 50% più uno dei voti. Quindi non un premio concepito sul modello dell’Asso che fa scopa.
In sostanza i giudici della Corte avrebbero voluto semplicemente circoscrivere le distorsioni fra voti e seggi, senza arrivare a fissare dei veri e propri paletti.
E così rimarrebbe sul tavolo pure la terza proposta, cucita sul modello spagnolo: un sistema proporzionale, sì, ma su collegi talmente piccoli da assegnare i seggi in palio ai vincitori e pochissimi altri. Proporzionale con effetti maggioritari.
L’altro tema è quello delle liste bloccate. Si poteva pensare che l’istituzione a guardia della Costituzione le avesse proibite tout court. E invece così non è stato, perché “il divieto – scrive D’Alimonte – è limitato alle liste bloccate lunghe”.
Perciò, anche da questo punto di vista, resterebbero in gioco tutte e tre le proposte renziane: vanno bene collegi uninominali, alla Mattarella o altri, e va bene il modello spagnolo basato su collegi piccoli.
A questo punto il tema non sarebbe più giuridico ma politico, anche se non manca chi ha fatto notare che il modello sindaci, se tale e quale, implicherebbe la bazzecola del cambio della Costituzione, perché i primi cittadini sono ad elezione diretta, mentre se lo sguardo è rivolto a Madrid andrebbero completamente ridisegnati tutti i collegi elettorali dello Stivale, che non è operazione che si fa in due e due quattro.
In ogni caso, Renzi ha detto che per lui questo o quello pari sono, purché si faccia presto (ma guai a chi pensa che abbia Letta nel mirino).
A Berlusconi piace quello spagnolo, almeno per il prossimo quarto d’ora, mentre ad Alfano veste di più il modello sindaci.
Una cosa la dice chiara e tonda il professor D’Alimonte, in un contesto diventato nel frattempo tripolare (Pd, Forza Italia più Ncd e Cinque Stelle fino a prova contraria si equivalgono): “occorrono sistemi di voto che trasformino la minoranza relativa dei voti in maggioranza assoluta”. Altrimenti, si potrebbe continuare, il paese non lo governa più neanche il mago Otelma in persona.
Anche se Gianroberto Casaleggio (chi?) ha già fatto sapere che a lui andrebbe bene il suino macellato dalla Corte e cioè un proporzionale puro che, tra l’altro, sarebbe già pronto.
È la sortita di uno che prima di tutto avrebbe bisogno di un barbiere, come avrebbe sentenziato mia madre, o un campanello d’allarme?

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La natura come modello per il nostro benessere

Vuoi innovare? Chiedi alla natura! La risposta a molte domande la fornisce la biomimetica, studio consapevole dei processi biologici e biomeccanici della natura, come fonte di ispirazione per il miglioramento delle attività e tecnologie umane.

La natura viene vista come modello, misura e guida alla progettazione degli artefatti tecnici. Un’esempio concreto? Il velcro è uno straordinario frutto della biomimetica. Fu inventato nel 1941 dall’ingegnere svizzero George de Mestral, ispiratosi ai piccoli fiori che si attaccavano saldamente al pelo del suo cane ogni volta che lo portava a passeggio. Analizzandoli al microscopio, de Mestral notò che ogni petalo presentava alla sommità un microscopico uncino, capace di incastrarsi praticamente ovunque trovasse una appiglio naturale. Fu così che dall’osservazione di questo fenomeno nacquero le strisce di velcro che tutti noi conosciamo: semplici strisce in nylon combinate, una in tessuto peloso e una munita di tanti piccoli uncini che si attaccano saldamente all’asola, riproponendo il meccanismo di “cattura” osservato in natura.

Il termine biomimicry, entrato nel dizionario solo nel 1974, indica il trasferimento di processi biologici dal mondo naturale a quello artificiale: “mimando” i meccanismi che governano la natura, l’uomo può infatti trovare la soluzione ad innumerevoli problemi.

Le applicazioni di questo principio (vedi) sono molte ed affascinanti. Si può in un certo senso affermare che il primo ad applicare la biomimetica fu Leonardo, che nei suoi studi sulle macchine volanti prendeva ad esempio il volo degli uccelli.
La prima vera applicazione della biomimetica fu il tetto del Crystal Palace di Londra, costruito su progetto dell’architetto e botanico Joseph Paxton a metà del XIX secolo ed ispirato ad una pianta appartenente alla famiglia delle meravigliose ninfee, la Victoria Amazonica. L’edificio, purtroppo distrutto da un incendio negli anni Trenta, venne dotato di una struttura estremamente leggera, che massimizzava l’esposizione al sole proprio grazie all’esempio delle foglie di ninfea.
Un gran numero di applicazioni ispirate alla natura è già stato tradotto in applicazioni tecniche ed è commercialmente disponibile, come il velcro, le superfici autopulenti ispirate alle foglie di loto (Nelumbo nucifera) e gli adesivi strutturali, sviluppati a partire dal geco e dalle valve di alcuni molluschi.

L’assunto base della biomimetica è che tutti i sistemi naturali rispettano alcuni principi fondamentali: funzionano secondo cicli chiusi: non esiste il concetto di rifiuto; si fondano su interdipendenza, interconnessione, cooperazione, processi che sono alla base di tutti i sistemi viventi; funzionano ad energia solare; rispettano e moltiplicano la diversità.

Online, all’indirizzo www.asknature.org, si trova un sito davvero innovativo, coinvolgente, creativo che, in un inglese divulgativo (e in italiano grazie al traduttore automatico di Google), si rivolge alla comunità di biologi, studiosi, imprenditori e navigatori tout court, curiosi di saperne di più su questa disciplina.

L’ideatrice di www.asknature.com, sito no profit che si sostiene grazie al contributo di sponsor privati, è la studiosa Janine Benyus, che ha approfondito e divulgato efficacemente questi temi.
In pratica i biomedici sono degli imitatori della natura che, come afferma la Benyus, ricordano che quello che noi uomini abbiamo bisogno di disegnare, costruire, realizzare viene fatto quotidianamente e con grazia da tanti organismi viventi. Un esempio? Nelle Galapagos esiste uno squalo che riesce a tenere lontani i batteri grazie a una particolare disposizione architettonica di dentelli sulla sua superficie esterna. Ebbene, l’architettura di questi dentelli è stata riprodotta per rivestire le pareti degli ospedali e tutelare i pazienti.
Sul sito è possibile trovare un repertorio di strategie per prodotti bioispirati a quanto fanno serpenti, farfalle, piante, cellule, batteri con immagini e una grafica che sorprende, cattura e spinge a saperne di più. Un modo diverso per tuffarsi nell’Ambiente in cui viviamo.

scilipoti

Viva Scilipoti

Confesso pubblicamente: mi manca Scilipoti, mi manca il suo agile fisico, alla Berlusconi per intenderci, mi mancano le sue battute argute e profonde, il suo incedere elegante, la sottile intelligenza politica che esaltava ogni passaggio da un partito all’altro, la sua fermezza ideale, l’incorruttibile e pertinace rigore nell’allontanare, novello Ulisse, qualsiasi sirena incantatrice: Scilipoti era l’Uomo. D’accordo, adesso lo hanno sostituito con Brunetta, ma volete mettere Scilipoti con Brunetta? E’ vero: entrambi sono stati e sono, due alti – in senso metaforico, s’intende – sostenitori del cavaliere, il quale dovrebbe essere agli arresti domiciliari oppure a pulire i cessi cittadini, ma rimane libero, il presidente della Repubblica gli ha concesso un’amnistia ad personam, istituto giuridico introdotto dallo stesso Berlusconi, per il quale ognuno si fa le leggi che gli servono (questa, afferma, è la vera democrazia). Ma torniamo al duo Scilipoti-Brunetta. Dicevo: volete mettere Brunetta con Scilipoti? Può fare qualsiasi cosa lo zazzeruto Brunetta, qualsiasi cose ma non arriverà mai all’altezza di Scilipoti. Il lettore stia attento, nell’autore non esiste la minima ironia quando usa l’aggettivo “alto” o il sostantivo “altezza” riferiti ai due grandi uomini politici, la cui statura morale è ben maggiore della loro prestanza fisica. Oh che! Non abbiamo forse avuto un re, il quale fece abbassare il minimo di statura dei soldati italiani, portandolo alla sua altezza? In un passaggio di “Addìo alle armi” Hemingway racconta che quando al fronte della prima guerra mondiale passava una grande auto vuota, tutti sapevano che dentro c’era Vittorio Emanuele III. Ora accade la stessa cosa: quando vedete giungere a Montecitorio o a Palazzo Grazioli una grande auto blu vuota non si abbiano dubbi, dentro c’ è l’incomparabile Brunetta, ma noi che non perdiamo mai le speranze attendiamo di vedere uscire dalla macchina ufficiale blu o nera l’amato amabile Scilipoti, che Dio lo benedica!

panchine-semicircolari

Le panchine dell’indifferenza

C’è una recente espressione dell’atomizzazione e dello sfrangiamento del tessuto del nostro vivere comunitario. Mi riferisco a quel curioso modello di panchine semicircolari, peraltro esteticamente gradevoli, che da un po’ di tempo popolano alcuni parchi o stazioni ferroviarie.
Il restyling non pare il frutto di un semplice capriccio di design, ma sembra studiato apposta per assecondare quella pulsione alla parcellizzazione che accompagna le nostre esistenze.
Eppure le panchine sono luogo topico. Pensiamo a quanti letterari e reali incontri hanno ospitato, fungendo da inatteso e imprevisto strumento di incontro, socializzazione, magari innamoramento…
Ma le nuove panchine arquate non sono concepite per la convivialità e consentono ai frettolosi occupanti di sedersi senza quasi osservarsi, sfuggendo gli uni allo sguardo degli altri, garantendo persino su un emblema della promiscuità – quale è la panchina – il rispetto della privacy. E anche ai più inclini alla socialità, esemplari ormai rari in via di estinzione, impongono ugualmente un altero distacco.
Peraltro l’efficacia del nuovo design delle panchine si sublima in un coerente effetto collaterale: rendere impossibile – o quantomeno disagevole – l’improprio utilizzo della panca da parte di chi volesse farne giaciglio. O forse l’effetto dissuasivo più che collaterale è voluto e del tutto intenzionale.
Di certo c’è che in queste sedute a semicerchio si può stare gli uni accanto agli ignorandosi. E farlo senza neppure lo sforzo di distogliere l’attenzione, perché un previdente progettista ha provveduto a regalarci una soluzione che evita l’imbarazzo avvertito quando si è forzati a ostentare indifferenza. Così tutto fluisce in una ‘spontanea’ non considerazione di chi ci sta accanto, come usualmente avviene fra moderni dirimpettai.
Insomma un bel ritrovato della modernità in perfetta sintonia con le nostre solitudini.

Psiko-SkaFest

Ferrara museo a cielo aperto con i muri di Psiko, Don Bro, Mambo e gli altri writer

Dietro i murales batte un cuore, anzi, tanti cuori votati all’arte. Disegni, scritte e colori che aprono squarci di fantasia su molti muri di Ferrara sono realizzati da un gruppo di ragazzi della città che anno dopo anno sono stati affiancati da writer e artisti affermati, provenienti da tutt’Italia.
A raccontarlo è Psiko, nome d’arte di Paolo Garola, che a Ferrara da diversi anni collabora con il Comune, Area giovani, per portare avanti un’idea: quella che dipingere in strada non è un crimine, ma può anzi diventare un’occasione di esprimersi cercando nello stesso tempo di dare un tocco di bellezza in più alla città. Gli angoli più anonimi e le pareti grigie, secondo lui, possono diventare quasi un’istigazione allo sfregio. E allora murales, graffito, lettering o disegno che sia e che ci va sopra – quando è bello – diventa una forma di piacere per gli occhi e, nello stesso tempo, qualcosa che spinge a non imbrattare.
Psiko è nato e cresciuto a Torino, ma dopo i vent’anni arriva a Ferrara, dove ha i nonni materni. “Fin da bambino – racconta – mi piaceva disegnare. Per me è un bisogno, più ancora che una passione”. Così la sua esperienza di writer nel capoluogo piemontese se la porta tutta qui, conosce i referenti di Area giovani che gestiscono attività e spazi del Comune e insieme a loro parte il progetto “Graffi a Fe”. E’ il 2007 e l’iniziativa coinvolge i ragazzi che hanno questa voglia di disegnare e scrivere sui muri, mette a loro disposizione vernici, ma soprattutto pareti pubbliche fuori dal centro storico, dove fare arte senza sfregiare monumenti o palazzi privati.
Adesso Psiko ha 32 anni e fare arte è diventato un po’ un mestiere. Insieme ad altri ragazzi del gruppo di Area giovani ha fondato l’associazione culturale Articiok, parola in dialetto ferrarese (= carciofo) e che richiama il concetto di arte con un suono scoppiettante. Psiko è il presidente di Articiok, il vicepresidente è Elvis ‘Mambo’ Pregnolato, classe 1973, e segretario è Don Bro, coetaneo di Psiko. “L’associazione – spiega il presidente – in realtà non ha scopo di lucro e ci serve per partecipare a iniziative collettive, concorrere a progetti o bandi in modo da coprire almeno le spese vive, mentre portiamo in giro l’attività che amiamo”.
Ognuno di loro, poi, la vita se la guadagna cercando di farci stare dentro il proprio talento artistico. Mambo, ad esempio, dipinge scenografie per un’azienda di Modena che allestisce parchi di divertimento; Don Bro fa tatuaggi con una tecnica molto particolare e curata; Psiko dipinge opere su commissione, fa scenografie e quando ha un po’ di tempo mette a frutto l’altra sua passione, che è quella della cucina.
Oltre a questo gruppetto storico, Articiok mette insieme altri nomi di writer ferraresi: il più giovane è Mendez, studente 19 enne del Dosso Dossi; poi ci sono Esc, 23enne di Portomaggiore appena uscito dall’Accademia di belle arti di Bologna; Andrea Amaducci, che è vicepresidente dell’associazione culturale non profit Grisù di Ferrara.
Graffiti, disegni sui muri e firme personalizzate (lettering) per Psiko sono il collante di generazioni, stili e persone diverse che diventano parte di un progetto ambizioso: fare della città un museo a cielo aperto. Ecco allora che si può girare per Ferrara, rimanendo ai margini della zona monumentale e storica, per scoprire una piccola antologia di arte contemporanea. C’è Cristiano ‘SirTwo’ Luparia, classe 1972 di Milano, specializzato in lettere tridimensionali che ha lasciato una sua opera su un edificio del parco dell’Itis Carpeggiani; i Tdk che a Milano fanno writing dagli anni ’80 e che hanno contribuito al murales con i pugili del Palapalestre di Ferrara insieme a Mambo; il ferrarese Don Bro che sul Palapalestre firma la gigantografia dell’arbitro e all’Itis Carpeggiani il volto di Cavour; Psiko pittore dei bambini affacciati sule pareti della scuola elementare Don Milani; Made Ead, classe 1972 di Padova, autore del ritratto di Garibaldi sull’edificio visibile sul retro dell’Itis Carpeggiani; sempre all’Itis ci sono Psiko per il lettering sotto a Mazzini, Erik per quello sotto a Cavour e Mendez sotto a Garibaldi; Esc che sul Palapalestre ha fatto i podisti e Macs il giocatore di basket; Andrea Amaducci che firma la striscia con l’incontro tra una ragazza e un ragazzo sul retro del Palapalestre; Mambo il personaggio di Doc tra il sottomura e il parcheggio ex Mof in Rampari di San Paolo; sempre vicino all’ex Mof i bambini dark sul retro sono dell’Incubatore, Calinda l’artefice del personaggio con il volto che si disfa e un diamante tra le mani, mentre è di Esc il totem con il rubinetto aperto.
Il museo a cielo aperto non si ferma qui. Spray e creatività sono pronti a ripartire in primavera per dare colore e forme ai muri della palestra del liceo Ariosto, via Arianuova 19, mentre a marzo ci sarà una collettiva al teatro Concordia di Portomaggiore con arte, musica, proiezioni. Perché quello che conta è l’unione delle diverse forme di creatività, tanti talenti da tirare fuori e mettere in piazza.

Il simbolico in frantumi e il vuoto che abbiamo dentro

Viviamo in un tempo in cui, come diceva Sartre, il cielo sopra le nostre teste è vuoto.
Un vuoto lasciato da Dio, dal padre e dall’Ideale, un vuoto che si situa come fondamento dei nuovi sintomi contemporanei, in cui spesso gli oggetti come cibo, droga, alcool o gioco cercano di colmarne illusoriamente l’effetto della mancanza.
Assistiamo oggi ad una caduta dell’ordine simbolico che si manifesta in diversi ambiti: dalla scuola alla famiglia, alla società civile. Le giovani generazioni faticano in tal modo a trovare punti di riferimento solidi e facilmente identificabili.
Anche i social network, tra cui Facebook è il più conosciuto, contribuiscono ad una sorta di svuotamento dell’aura mitica che era presente attorno a certe figure che potevano essere assunte dai giovani come modelli di identificazione.
Molti personaggi dello spettacolo, che un tempo potevano assolvere tale scopo, ora scrivendo su Facebook della loro vita quotidiana si rendono umani, troppo umani e come tali non appetibili come modelli, svuotati del loro significato.
Persino l’ordine del Sacro è investito da un generale processo di de-sacralizzazione, anche se questo processo si presenta nella forma di avvicinamento alle persone. Lo stesso Papa possiede una pagina su Facebook che raccoglie commenti di migliaia di persone che in questo modo possono lasciare una loro traccia e avere l’illusione di dialogare con un’istituzione un tempo irraggiungibile. Tutto ciò produce un appiattimento, una riduzione della distanza, invece necessaria per strutturare il soggetto.
Alla tv la pubblicità del libro con le figure di Papa Francesco da colorare riflette proprio questa assenza di distanza e caduta del simbolico. Tutto è, in qualche modo ridotto ad oggetto da commercializzare e da comunicare con efficacia. L’efficacia della comunicazione sembra essere il criterio principale.
In un’epoca in cui si perde la dimensione dell’ordine simbolico e la funzione normativa del grande Altro, termine con cui Lacan si riferiva al ruolo della dimensione simbolica, il soggetto appare disorientato, spaesato, confuso, alla ricerca continua di paletti a cui appigliarsi.
In tale orizzonte anche la strutturazione del proprio desiderio risulta difficile, ragione per cui i giovani faticano a trovare la “propria strada” e, prima ancora, si perdono nella incapacità di cercarla.

Ascolta il commento musicale: Giorgio Gaber, I padri miei (i padri tuoi)

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.

baratellichiara@gmail.com

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L’energia va dove tira il vento. Futuro nelle rinnovabili, presente nel fossile

Tira buon vento dalla Spagna. Secondo il rapporto preliminare della Red eléctrica de España (Ree), compagnia che opera nel settore dell’elettricità nello stato iberico, nel 2013 l’eolico è risultato per la prima volta la principale fonte di energia elettrica. “Durante il 2013 sono stati superati i massimi storici di produzione di energia eolica”, afferma il rapporto. “A gennaio, febbraio, marzo e novembre l’energia del vento è stata la tecnologia che ha reso il più grande contributo nella produzione totale di energia del paese”. E che ha superato anche il nucleare, coprendo il 21,1% della domanda energetica. Anche se l’energia fornita dal nucleare si assesta di pochissimo più in basso, al 21%, è il tasso di crescita delle rinnovabili che aumenta, mentre l’atomo cala: nel 2012 il rapporto era del 18,1% dell’energia totale prodotta dall’eolico e del 22,1% dal nucleare.
Altra buona notizia riguarda le emissioni di gas serra in Spagna, calate del 23,1%. Il merito di questa svolta verde è da attribuire anche alle altre energie rinnovabili, come il solare, il fotovoltaico e il termico, che arrivano a coprire ben il 49,1% della capacità installata nel paese.
A livello territoriale, a trainare è la comunità autonoma della Navarra, che nella produzione di energia elettrica di origine eolica è passata dallo 0% del 1996 all’oltre 70% del 2013.
La produzione di elettricità da fonti fossili è invece in forte declino. Rispetto al 2012, il contributo dalle centrali a gas è sceso del 34,2%, quello dalle centrali a carbone del 27,3% e quello dell’energia nucleare dell’8,3%.
Se la situazione della Spagna fa sperare in un futuro meno inquinato, a che punto siamo con le energie cosiddette pulite in Italia? Secondo i dati finora disponibili, nei primi sette mesi del 2013 le rinnovabili hanno coperto il 35,9% della richiesta elettrica e il 40,5% dell’offerta. In calo il termoelettrico, mentre il fotovoltaico, con quasi il 20% in più di produzione sul 2012, ha soddisfatto il 7,4% della domanda. Per quanto riguarda l’eolico, questo ha garantito il 5,9% della produzione elettrica italiana, consentendo di soddisfare i fabbisogni di oltre 5,2 milioni di famiglie, e facendo registrare un incremento di oltre il 31,1% rispetto allo stesso periodo del 2012.
Il nuovo regime di incentivazione per le energie rinnovabili messo a punto dal governo nel 2012 si propone di superare gli obiettivi comunitari di produzione elettrica verde fissati al 26% e di portarli al 35% entro il 2020. Tuttavia le strategie energetiche dei nostri parlamentari non convincono gli operatori del settore, che lamentando tagli ai sussidi significativi, soprattutto riguardo all’eolico, e considerano il provvedimento “assolutamente penalizzante per la fonte eolica ritenuta una grande opportunità a livello mondiale”.
Anche se su più fronti si sostiene che il futuro del mondo sia nelle rinnovabili, la fonte di energia che è cresciuta di più nel mondo nel 2012 è stata il carbone, che è il combustibile fossile più pericoloso da estrarre e più dannoso per l’ambiente, con il 43% delle emissioni totali. Con una stima di crescita dei bisogni energetici mondiali entro il 2030 di oltre il 60%, la sfida tra energie pulite e combustibili fossili si prospetta sempre più accesa.

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L’oro del Pci, il tesoriere Sposetti: soldi al Pd? Con noi c’entra nulla

Finite le feste e traguardato il nuovo anno, abbiamo ripreso il nostro viaggio all’interno delle fondazioni, alla ricerca dell’oro del Pci. E siamo riusciti a intervistare il potente senatore Ugo Sposetti, tesoriere dei Democratici di sinistra, partito in liquidazione dal 2007, nonché presidente nazionale della fondazione che ancora ha in pancia il patrimonio che originariamente fu del Pci. A palazzo Madama, nel 2013, Sposetti è stato eletto nelle liste del Pd.

Senta Sposetti, ci aiuti a capire la ‘ratio’ delle fondazioni. Nel 2007, quando sono state costituite, c’era l’esigenza di mettere in sicurezza il patrimonio dei Ds…
La interrompo subito. Il problema non era la messa in sicurezza. Ma mi faccia fare un passo indietro, così la storia parte dall’inizio. Quando sono diventato tesoriere nazionale dei Ds, nel 2001, mi sono messo le mani nei capelli per la quantità di debiti accumulati. Superata la prima fase di stordimento abbiamo cominciato a ragionare su un modello di gestione della politica che tenesse finanza e patrimonio fuori dal partito. Il sistema tedesco ci è sembrato quello adatto: separazione dal partito del transito di denaro e della formazione politica. Poi c’è stata una fase confusa, coincisa con l’elezione di Prodi a palazzo Chigi. E mentre si sviluppa la riflessione arriviamo al 2007…
E nasce il Pd…
No, il proprietario muore.
Diciamo che c’è la fusione fra Ds e Margherita…
La fusione non c’è mai stata: se ci fosse stata la fusione ci sarebbe stato anche il passaggio del patrimonio. Il Pd è un soggetto nuovo.
Formalmente, ma di fatto è l’unione dei due partiti.
Le proprietà sono regolate dal codice civilistico. Quel che è successo è che i Ds sono scomparsi senza lasciare eredi. Così le persone nominate curatrici dei beni si sono dotate dello strumento della fondazione per gestirli. Intendiamoci, non s’è inventato niente di nuovo: è il modello adottato e praticato dalla Chiesa…
Insomma, lei parla di proprietario; ma quei beni erano il frutto del lavoro, dei contributi, delle sottoscrizioni di migliaia e migliaia di militanti, un’eredità che risale sino ai tempi del Pci, frutto dell’impegno di generazioni…
Ma il Pd è un’altra cosa.
Sarà anche un’altra cosa, ma la maggior parte dei militanti dei Ds ha continuato a sviluppare la propria opera all’interno di questa formazione politica e oggi credo abbia qualche titolo per rivendicare quel patrimonio.
Nessuno rivendica nulla, sono solo i giornali a fare rivendicazioni.
A me risulta altro: si avverte un diffuso malcontento. In ogni caso nei passaggi fra Pci e Pds e poi fra Pds e Ds ci si era regolati diversamente…
Quelli erano passaggi interni, mutazioni nell’ambito dello stesso partito.
Quindi lei non avverte alcun debito morale nei confronti di quei militanti?
Io in debito? Assolutamente! Anzi, vanto un credito per tutto quello che ho fatto. Oltretutto il Pd ha 1.800 sedi, mi pare possa essere soddisfatto.
Sedi per le quali paga gli affitti, peraltro, sia pure a canoni calmierati…
Giusto per garantirci le spese di manutenzione, la copertura degli oneri tributari, i costi di messa a norma…
Provo a seguirla nel suo ragionamento e di conseguenza le domando: se la nascita delle fondazioni non era funzionale a una temporanea messa in sicurezza del patrimonio degli ex Ds, qual è lo scopo?
Lei vada a vedere sui siti delle fondazioni la ricchezza delle iniziative culturali e l’articolazione dei programmi svolti.
Per la verità a Ferrara, decisamente, non è così.
Non è mica colpa mia se a Ferrara non fanno iniziative.
E lei non può fare nulla in casi come questo? Non ha un potere di indirizzo sulle fondazioni che derogano degli obiettivi statutari?
Proverò con una moral suasion…
Comunque lei ci sta dicendo che lo scopo delle fondazioni è svolgere attività culturale per la diffusione dei valori politici della sinistra, come è scritto anche negli statuti. Giusto?
Esattamente.
E di quel che fate, di come impiegate i fondi, di come gestite il patrimonio a chi rendete conto?
Sui siti delle fondazioni pubblichiamo regolarmente i bilanci.
Sarà così ma non ovunque, non a Ferrara quantomento.
Lei è incappato in Ferrara, che ci posso fare? Ma guardi un po’ in giro la situazione.
Verificherò. Comunque dare visibilità ai conti economici è doveroso, ma la rendicontazione dovrebbe essere più ampia e complessiva, in termini di bilancio sociale come si usa dire ora…
Lei ha ragione. Queste cose funzionano se c’è trasparenza e partecipazione.
E comunque lei conferma che il tema dello scioglimento delle fondazioni non è all’esame…
Per lasciare il patrimonio al Pd? Non c’entra nulla.
Quindi lei esclude la possibilità che un giorno le attuali fondazioni possano diventare lo strumento che gestisce, esternamente al partito, il patrimonio del Pd, così come a suo tempo avevate immaginato per i Ds?
Qual è la formula gestionale che ha in testa Renzi? Lei lo sa?
Io no. Ma lei potrebbe chiederlo direttamente a Renzi.
La saluto…
Qualcuno sostiene che siate il vecchio che vuole condizionare il nuovo…
Ma Sposetti non risponde. Ormai è già lontano. Lontano come il giorno in cui al Corriere della Sera manifestava propositi opposti a quelli attuali: «La prossima settimana – asseriva rispondendo all’intervistatrice il 16 dicembre 2007 (leggi) – manderemo una circolare a tutte le sezioni e federazioni per spiegare come archiviare, nel momento in cui passerà al Pd, il nostro patrimonio. E scatterà la fase operativa». Una fase operativa mai scattata e ora rinviata ‘sine die’, con una formula che lascia intendere un’archiviazione senza possibilità di appello.

8 – CONTINUA

nunzia-de-girolamo

Nunzia vobis, gaudio magnum

Quando si accendono i riflettori su fatti di corruzione e di cattiva politica scatta immediata l’accusa nei confronti dei magistrati e di chi si scandalizza per l’ennesima vergogna pubblica: giustizialisti, moralisti! E’ un radicato e diffuso ‘carattere nazionale’ reagire in questo modo. Anziché guardare la luna dello scandalo, si concentra il fuoco sul dito che la indica… Un altro tassello di questo ‘carattere nazionale’ è la (voluta e interessata….) confusione tra etica politica e reato penale. Tutti i partiti, a fronte di un loro dirigente coinvolto in qualche inchiesta evitano di esprimere una posizione nascondendosi dietro la frase: aspettiamo l’esito delle decisioni della magistratura.
Bisogna però riconoscere che esiste una differenza importante tra la destra berlusconiana e il Pd. Quest’ultimo non reggerebbe la presenza di un segretario condannato in modo definitivo per un reato gravissimo (e in attesa di processi per reati altrettanto gravi….) come, invece, succede per Forza Italia (ma anche per i ‘diversamente’ berlusconiani del Ncd). E, va ricordato, che alcuni personaggi del Pd furono costretti alle dimissioni da ruoli importanti prima della conclusione delle inchieste giudiziarie: Delbono, Marrazzo e altri. Ma, proprio per questo, non si giustifica la permanenza al governo di ministri implicati in vicende che hanno a che fare con un corretto e normale comportamento etico. Mi riferisco alle ‘relazioni pericolose’ del ministro Cancellieri; alle responsabilità del vice presidente Alfano sul ‘caso Shalabayeva’, confermate dall’ex prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto e unico capro espiatorio della vicenda. In quest’ultimo caso, siamo di fronte ad un ministro che ha detto il falso in Parlamento: un atto che in America costerebbe la fine di una carriera politica.
Ora è venuta alla ribalta la spregiudicata gestione del proprio potere personale del ministro Nunzia De Girolamo. Non c’è bisogno di attendere la fine dell’inchiesta o dire che non è (ancora…) indagata ufficialmente. Materiale per chiedere le sue dimissioni ne esiste a volontà. E non riguarda solo il turpiloquio (a conferma, però, di come la gestione di un potere senza etica annulli in fretta la differenza tra il ‘maschile e il femminile’….), ma bastano le testimonianze registrate dei suoi ‘protetti’ e ‘promossi’. Per esempio, rileggiamo queste frasi di Michele Rossi, l’attuale direttore generale dell’Asl di Benevento, in cui assicura in ginocchio la propria fedeltà all’allora deputata De Girolamo: “Non resterei qui all’Asl un secondo in più se non per te e con te. La nomina l’ho chiesta a te, tu me l’hai data ed è giusto che ci sia un riscontro”. Intanto, emerge dall’inchiesta un favore da un milione di euro che Rossi avrebbe elargito ad un amico (imprenditore) vicino al Pdl.
Conclusione. Per la politica il giudizio etico (che riguarda la probità sostanziale dei comportamenti e non la loro legittimità formale) deve venire prima di una sentenza penale. Inoltre, la si smetta di giustificare sempre l’ultimo scandalo con l’altra frase tipica del nostro ‘carattere nazionale’: così fan tutti!

Ascolta il commento musicale: Gianni Morandi, In ginocchio da te

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara. Passioni: filosofia, letteratura, storia e… la ‘bella politica’!

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Storia di ordinaria disperazione

Francesco per 15 anni aveva fatto il funzionario in un’associazione di categoria, ogni giorno si recava nei in ufficio ed ogni sera, o quasi, presenziava alle riunioni cercando di convincere gli associati delle iniziative in corso. Ogni giorno era alla costante ricerca di elementi che gli permettessero di fare un lavoro e di credere in ciò che faceva. Poi un giorno accadde una cosa imprevista, nella sua città furono evidenziate risorse energetiche di grande rilevanza, “finalmente potrò mettere in atto le mie competenze”, pensò Francesco e si mise all’opera da subito… Non sapeva il giovane funzionario che questa era l’occasione che attendevano alcuni suoi colleghi per metterlo in difficoltà, forse era gelosia delle sue presunte capacità, forse semplicemente era l’incomprensione per un modo nuovo di lavorare, l’unica certezza fu che il giovane decise di dimettersi e di abbandonare il buon lavoro ben retribuito. Si prese un periodo di riflessione per valutare le nuove opportunità che gli si potevano presentare, alla fine decise che poteva avere la propensione per diventare un piccolo imprenditore, cosi di fretta e furia si recò dal commercialista e si mise all’opera per aprire una nuova attività imprenditoriale dove la sua fantasia e le sue conoscenze tecniche potevano creare ottime opportunità di guadagno.
Fu cosi che Francesco divenne un imprenditore di successo, i suoi fatturati crescevano di anno in anno, finalmente libero da condizionamenti della “politica” poteva fare le scelte che più si addicevano alle strategie aziendali, finalmente poteva togliersi quelle soddisfazioni che il precedente lavoro gli aveva negato, al bar con gli amici nel giustificare le sue scelte amava dire con passione “cari miei la libertà non ha prezzo e i fatti mi stanno dando ragione”.

Poi, improvvisamente, ad un età in cui si dovrebbe pensare alla pensione e con essa immaginare una vita serena fatta di tempo da passare con la famiglia e con gli amici, improvvisamente e pericolosamente negata da una parte della politica, è sopraggiunta la peggior crisi che il nostro paese ricordi. A causa di questa situazione Francesco ha perso alcuni clienti ed alcune commesse importanti, giorno per giorno le sue capacità finanziarie venivano erose da tasse, imposte, impegni bancari e recupero crediti, ma non si è arreso, ha accettato di lavorare in nero per un’altra azienda nella speranza di ricominciare una volta che le nebbie della crisi si fossero diradate, ma, purtroppo, l’azienda per cui lavorava è entrata in difficoltà e non è riuscita a pagare le sue spettanze, allora ha dovuto rivolgersi a finanziarie ed ha iniziato un percorso di indebitamento, non erano pesanti i suoi debiti, corrispondevano all’incirca a quanto avrebbe dovuto incassare dal suo datore di lavoro, i mesi passavano e la luce in fondo al tunnel invece di avvicinarsi si allontanava sempre più. Giovanna era la moglie di Francesco, aveva 65 anni, era stata una brava dipendente pubblica (di quelle che con il sudore quotidiano mandano avanti la scassata macchina dello stato) ed aveva (si direbbe fortunata lei) raggiunto una misera pensione di circa 850 euro che, fin quando Francesco aveva mantenuto il suo lavoro, consentiva ai due una vita dignitosa, ma che ora non bastava più. Di dignità, però i due coniugi, ne avevano persino troppa, al punto che per vergogna o per riservo avevano deciso di non avvalersi degli ausili che i servizi sociali potevano loro offrire. Giorno dopo giorno l’angoscia si impossessava delle loro menti, non riuscivano a pagare l’affitto di casa e i contributi e faticavano a comprarsi il minimo per sopravvivere, forse non se ne rendevano conto ma stavano scendendo inesorabilmente verso gli inferi di una vita a cui non si riesce a dare una spiegazione. Fino a quella brutta mattina, quando, forse si sono guardati in faccia, forse hanno pianto un po’ sulle loro disgrazie e poi hanno preso una decisione, hanno scritto un biglietto di scuse per il gesto che si accingevano a fare, si sono recati nel loro garage e, nell’illusione o nella certezza di porre fine alle loro sofferenze si sono impiccati. Poche ore dopo Massimo (fratello di Giovanna) dopo essere stato avvisato dell’accadimento, si è recato nell’appartamento dei due congiunti e dopo averli visti ha iniziato a fuggire verso la campagna con il preciso intento di raggiungere la sorella tra i disperati che si sono tolti la vita, cosi dopo una lunga corsa in auto si è fermato in quello che riteneva fosse il posto giusto e si è sparato nella tempia.

Questa terribile storia è certamente frutto della fantasia di qualche malinconico narratore, ma è anche frutto della realtà che ci circonda, è frutto di un imbarbarimento dei costumi che ha portato questa società dapprima agli arricchimenti facili, e poi, una volta che il “gioco” non ha più retto, nel crollo ha rovinosamente travolto i deboli, ha impoverito pesantemente la classe media e non ha dato a tutti prospettive per un futuro nemmeno migliore ma quantomeno credibile e percorribile. Questa storia frutto di fantasia dovrebbe contribuire a farci riflettere sui modelli di società che vogliamo costruire, dobbiamo dapprima vergognarci e poi scusarci se il nostro egoismo ci fa volgere lo sguardo altrove quando ci scontriamo con i nostri fantasmi e impone di impegnarci per imparare dagli errori a costruire un futuro migliore.

fossadalbero

Turismo lento fuoriporta alla riscoperta delle tradizioni, un modello per fare rete

Sfogliando la rivista “Arcobaleno d’Italia” delle Proloco italiane sono stato indotto a riflettere su quello che mi è parso il cuore di questa associazione, con oltre seicentomila soci, che fa proprio un sentire radicato e diffuso nei tantissimi territori del nostro bellissimo Paese e cioè “il sentimento è l’unica grande risorsa per costruire il nostro futuro”.
Percorrendo alcuni itinerari nella nostra Regione abbiamo appreso che la nuova presidenza emiliano romagnola di Proloco, con un imprenditore centese, sta progettando due importantissime iniziative/evento.
La prima, con il modello di sistema a rete lungo il fiume Po, è inserita nell’Expò di Milano del 2015 e vede il coinvolgimento di un centinaio di Proloco (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna); la seconda, fa riferimento alla linea Gotica (Toscana, Romagna, Marche); entrambe hanno l’intendimento di unire in filiera le specificità delle terre italiane.
Un ruolo ed una funzione, quindi, di salvaguardia dei patrimoni culturali che l’Unesco ha attribuito anche come espressione viva di valori connessi al capitale antropologico.
Ed è proprio di questo nuovo contesto che anche nel ferrarese si sta sviluppando un cambio di passo delle Proloco con una attenzione al turismo lento dei “ fuori porta”, seguendo: i percorsi delle delizie estensi, del grande fiume Po e del suo delta, i premi letterari e i dialetti, i carnevalingiro e l’enogastronomia, gli ambienti rurali e le tradizioni storiche.
Nelle proloco estensi c’è, oggi, la volontà di fare rete fra di loro, con nodi forti su Mesola-Codigoro, Portomaggiore-Argenta, Cento, la destra Po, Copparo-Migliarino e il tratto del Volano, Bondeno, in un modulo a corona per dare capillarità e generare una catena di valore  per l’intero progetto.
Questo indirizzo è già stata intrapreso con convinzione nei territorio confinanti. Alcuni mesi fa, nel corso principale di Rovigo, negli oltre 30 gazebo allestiti albergavano le immagini di luoghi, borghi e angoli del Polesine.
Sindaci, presidenti di Proloco, imprese eccellenti, erano a rappresentare, a valorizzare e a promuovere pezzi di territorio facendo sistema. Abbiamo visto moltissima gente, e non solo polesani, anche qualcuno che parlava un altro dialetto e un’altra lingua; non è poco, anzi questo è marketing territoriale.

Ora anche da noi le istituzioni locali, le aziende di promozione turistica e gli uffici del turismo dovranno farsi interlocutori e co-attori con le tantissime proloco.
La nostra Regione ha compreso bene il ruolo e le funzioni di questa grande associazione di promozione sociale e, al riguardo, sta maturando la volontà di offrire una nuova legislazione e anche canali progettuali con l’Unione europea.
Siamo certi che anche altri sapranno cogliere questo opportunità, per dare la dovuta rilevanza a questi stakeholders dell’accoglienza, così ben organizzati, radicati e sempre di più sentinelle della nostra cultura.

rifiuti

Primo, ridurre la produzione dei rifiuti

Si sente forte l’esigenza di riferimenti strategici perché nei prossimi anni i principi di sussidiarietà, le necessarie politiche industriali di settore e soprattutto una chiara impostazione di sviluppo e di miglioramento ambientale sono esigenze inderogabili.
La prevenzione e la riduzione della produzione dei rifiuti, prima ancora del riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico, sono i temi su cui si ritiene doversi maggiormente impegnare, ma permane tuttavia ancora carenza di visione strategica e di chiara regolazione; così come i principi di autosufficienza, di responsabilità condivisa, di prossimità e di gestione integrata restano ancora indefiniti nella esigenza di una necessaria fase di ristrutturazione (sia normativa che gestionale).

E’ urgente la definizione di una nuova politica industriale nel settore dei rifiuti. In particolare:
1* la modifica delle produzioni nel senso della diminuzione dei rifiuti e dell’incremento della riciclabilità dei prodotti (in accordo con principi europei di “responsabilità allargata”) introducendo il concetto di “ciclo di vita LCA” nella politica in materia di rifiuti
2* la valorizzazione del tasso di recupero di materia (prima) e di energia (poi) incorporata nei rifiuti, mediante incentivazione e sviluppo delle raccolte separate, del mercato delle materie secondarie e integrazione dei sistemi di raccolta e gestione con le ulteriori forme di trattamento
3* le attività di ricerca tecnologica, sia nel settore industria che nell’agricoltura, in grado di produrre innovazioni positive, a favore della chiusura dei cicli; orientamento del sistema produttivo verso beni ad alto tasso di riutilizzabilità/recuperabilità e a bassa nocività di smaltimento, privilegiando l’adozione di tecnologie e materiali a ridotto consumo di risorse ed energia di trasformazione;
4* la creazione di interventi diversificati (come le filiere corte) ai vari livelli della distribuzione, dal produttore, al grossista, al negoziante, al singolo consumatore, in modo tale che siano possibili interventi efficaci a livello di città e di bacino provinciale.

In particolare è opportuno ricordare la ormai lontana direttiva europea 2008/98/CE del 19 Novembre 2008 che essendo stata pubblicata il 12 dicembre 2008 impegnava tutti gli Stati Membri che entro 24 mesi debbono recepirla (termine ultimo era il 12 dicembre 2010), in sintesi:
E’ confermato il principio del “chi inquina paga”:
introduce l’importante principio della “responsabilità estesa del produttore”,
viene posta enfasi sulla prevenzione dei rifiuti.
La gerarchia dei rifiuti viene rivista e ampliata. a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento.
Su questa fondamentale strategia di sostenibilità ambientale è richiesto da tempo un impegno delle istituzioni e della collettività verso una serie di obiettivi importanti e nello stesso tempo necessari; tra questi determinanti sono quelli che tutti (da chi produce, a chi consuma, a chi amministra, a chi gestisce) devono assumere per ottenere un sistema integrato (autosufficienza, responsabilità condivisa, prossimità, gestione integrata, etc).
Siamo in grave ritardo.

Volta la carta e la scuola riparte

Volta la carta” è una ballata tradizionale che il cantautore Fabrizio De Andrè ha provato ad adattare e ad orchestrare (in Rimini, 1978).
La scuola riparte” è uno slogan stagionale che il governo Letta ha provato ad inventare e a pubblicizzare (in Roma, 2013).
Volta la carta e la scuola riparte” è una filastrocca contemporanea che ho provato ad assemblare e a scribacchiare (in Ferrara, 2014).
“Un esempio di surrealismo popolare” è la definizione che Massimo Bubola, collaboratore di De André, ha provato a dare della canzone di Fabrizio.
Io prenderei a prestito la stessa definizione per attribuirla anche allo slogan di Enrico.
La filastrocca che segue può essere letta o cantata sulle note di “Volta la carta”; non sono pratico di accordi ma credo si possa musicare in “FA di più anche se poi ti DO di meno”.

C’è un governo di intese allargate 
dona milioni alle scuole private,
a noi toglie ma non restituisce
volta la carta, ci sono le bisce.
Centouno bisce che stanno nascoste
volta la carta ma non trovi risposte. 
Nella scuola, cammini, trascini anche se non ci riesci più 
docente, bidello od impiegato, a te nessuno considera più
docente, bidello od impiegato, a te nessuno considera più.
Quando ognuno fa la sua parte
volta la carta “la scuola riparte”,
“riparte”, è un modo di dire
volta la carta, c’è da investire.
A investire ci vuol del coraggio 
un po’ di più che in un atterraggio.
I precari, alle sei di mattina, sono già pronti e si tirano su
l’assunzione gli hanno promessa, volta la carta e non c’è più 
l’assunzione gli hanno promessa, volta la carta ma non c’è più.
Non tormentarti con i perché
ecco tieni un bel tablet per te,
per te che non fai molte domande
volta la carta, la scuola si espande.
Si espande se si dematerializza
Volta la carta c’è chi normalizza.
Il personale, messo in cantina che piange, che grida anche laggiù
se il questionario è la medicina vuol dir che non ascoltano proprio più
se il questionario è la medicina vuol dir che non ascoltano neanche più.
C’è meritocrazia su questa carrozza
attenti però questa cosa ci strozza,
ci strozza se non c’è l’uguaglianza
volta la carta, ho già mal di panza.
Mal di panza ché non siamo zerbini
riescono a pensarli questi bambini?
Il Ministro cinguetta leggero, si veste di buono, parla da Fazio 
chiama le leggi “La scuola riparte”, volta la carta e per noi non c’è spazio
chiama le leggi “La scuola riparte”, son sempre quelli che pagano il dazio.

transenne-natalizie

Transenne

Avendo trascorso per intero le ultime festività a trastullarmi in occupazioni propedeutiche all’insorgenza di malattie cardiovascolari, cioè a dire a mangiare come un ludro, non ho avuto occasione di frequentare il centro storico di Ferrara. Così, proprio ier l’altro ho portato i miei quattro chili in più a fare un giretto per la città. I quali quattro chili sono rimasti fortemente impressionati, devo dire, quando, proprio davanti al grifo in pietra rossa che osservava il tutto con l’aria paziente di chi ne ha visti di tutti i colori nella sua quasi millenaria vita, hanno intravisto l’abete che troneggiava ancora in un angoletto di piazza Duomo. Circondato tondo tondo di vezzose riproduzioni in chiave futurista della slitta di babbo Natale, affettuosamente soprannominate transenne zincate dalla popolazione autoctona, e graziosamente agghindate con festoni luminescenti bianchi e rossi, familiarmente detti catarifrangenti, vieppiù impreziositi dalle scritte criptiche “Comune di Ferrara – U.O. Mobilità e Infrastrutture”. Che, tradotte dal linguaggio babbonatalesco, costituiscono un caloroso messaggio di saluto ai tanti turisti in visita: ‘Benvenuti nel centro storico della città Patrimonio dell’Umanità, piaciuto l’ambaradan?’
I sofisti sempre a caccia del pelo nell’uovo potrebbero magari trovare stridente o, per dirla ancora più grossa, intollerabile il contrasto fra le superbe architetture rinascimentali della piazza e l’essenziale corona ferrea che rinserrava la sparuta pianta; ma le due cose ben rappresentano lo spirito pratico dei ferraresi, che sono gente che, venendo dalla campagna, è abituata a badare al sodo e non sta tanto lì a spaccare il capello in quattro: l’importante è che sotto le Feste ci sia il suo bell’albero di Natale a farci la sua porca figura in piazza, come tradizione comanda, il resto son puttanate. Filosofia di vita evidentemente apprezzata dal nuovo vescovo della città, che pure nel recente passato non aveva mancato di rimarcare con asprezza taluni aspetti di degrado presenti proprio davanti alla cattedrale, e che stavolta non ha invece avuto nulla a che ridire.
Il che significa che il presule si è già perfettamente integrato nel caloroso clima casereccio che si respira a Ferrara. Buon post-Natale ai lettori dai miei quattro chili in più, forse cinque.