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Il ‘Castello’ dell’ospedale di Cona ovvero le avventure dell’utente V.

Mi avvio a portare i referti al nuovo ospedale Sant’Anna di Cona, una strana sensazione m’invade mentre dalla superstrada si staglia l’ormai nota sagoma dell’immensa costruzione. La memoria involontaria immediatamente mi fa scattare il ricordo di letture lontane e fondamentali. Penso tra me e me che devo rileggere le pagine iniziali del Castello, il grande romanzo di Franz Kafka. E così faccio: “Nel complesso, il Castello, come appariva da lontano, corrispondeva all’aspettazione di K. Non era un vecchio maniero feudale né un palazzo nuovo e sontuoso, ma una vasta costruzione, composta da pochi edifici a due piani [….] Chi non avesse saputo che era un Castello, l’avrebbe scambiato per una piccola città”.
La vicenda dell’agrimensore K. a questo punto si confonde con quella dell’utente V. Speravo in cuor mio di non fare la fine del povero K. che teme di essere risucchiato dagli incomprensibili ordini che gli vengono imposti dl misterioso padrone del Castello fino a farlo sentire responsabile di colpe non commesse e di cui ignora il senso. Ma ero ben munito. Una chiarissima mappa consegnatami con solennità dalla clinica privata da cui provenivo con spiegazione di cosa dovevo fare e le tappe da seguire mi rende relativamente tranquillo. Così -secondo indicazione- all’ingresso 2 entro nella sala dove si pagano i ticket e per prima cosa sbaglio il biglietto per la fila: non la C dedicata alle visite private, ma l’A era quella da prendersi.

Mi accorgo che ho 45 ‘utenti’ davanti a me. Solo due sportelli su sei svolgono quel servizio. E attendo sempre più immedesimandomi nell’agrimensore K con rovellìo di pensieri: “Ho portato tutto? Pago in contanti o col bancomat ?” mentre bruscamente mi risveglio sentendo un diffuso lamento che secondo la più straordinaria invenzione dantesca dei dannati che vengono battuti da Caron dimonio dagli occhi di bragia si diffonde per la sala. “La macchina del bancomat si è inceppata! Bisogna attendere il tennico” E la signora a me vicina balbetta “E ora come faccio a dirlo a mia figlia?”. Mi sento invaso da un eroico senso del dovere: trovo la figlia, la informo, consolo la signora che con gesto meccanico e tenerissimo per nascondere l’agitazione si aggiusta il fazzoletto di seta artificiale sul capo. Mi offro di andare a prendere una carrozzella, ma lei schermendosi vuole solo che le porga il braccio per alzarsi. Che dignità! E mi risiedo invaso da cupi pensieri.
S’avvicina una guardia giurata e a voce alta confida a una infermiera presente come gli avessero sbagliato tutto; che era entrato nelle stanze secrete e minacciato di denunciare gli ufficiali del Castello. Ahimè! Non so trattenermi e a una gentilissima addetta domando quanto tempo presume visto che entro le 13 dovevo andare lassù nell’inviolabile regno dell’anatomo-patologia dove si spegne ogni furore umano e di lotta. Un “Mah” sussurrato mi riabbatte al mio posto.

Infine a un’ora e 25 minuti dal mio ingresso mi siedo davanti allo sportello 6. Una signora ancor disponibilissima sebbene recasse i segni della precedente utente a cui aveva dovuto risolvere intricati problemi di appuntamenti mi accoglie con un pallido sorriso e a lei, trepidando, porgo ‘l’impegnativa’. Si srotola da quel momento un’allucinante sequenza di interrogativi fra me, la signora e il computer che ci gettano nella disperazione. Quale codice bisogna inserire? Rientro nella categoria degli aventi diritto all’esenzione oppure no? La macchina, carogna, non dà risposte. Telefonata convulsa alla clinica privata con esito negativo e dopo esserci guardati negli occhi la signora si ribella e decide di mettere sulla mia pratica (come poi si rivelerà giusto) esentato. Sono passati 22 minuti 18 secondi.
La fila si è notevolmente ingrossata facendomi provare un senso di colpa immotivata come al protagonista del Castello; occhi rancorosi mi guardano di sottecchi mentre la povera signora mi mostra una triste mela mangiucchiata a metà e mi rivela in confidenza che ancora deve recarsi al bagno; ma le leggi del Castello non permettono questi diversivi. Stressato ma orgoglioso d’aver vinto il potere ottuso della macchina infine, come spiega la mappa, prendo l’ascensore di sinistra allo snodo (1 o 2? Boh!). E’ solo quello che porta direttamente al sancta sanctorum della patologia ovvero al terzo piano. Passi vellutati, sussurri e non grida, officianti assorti nel loro compito.

Consegno a una deliziosa signora (ma i maschi dove sono finiti?) le boccette e alla sua domanda “Viene lei a ritirarli?” Rispondo con un atterrito no! E doverosamente riferisco a quale reparto a quali medici vada mandata la risposta: naturalmente sbagliando tutto. Dopo quattro telefonate ci si accorda, mostrando pazienza quasi superiore a quella provocata dalla più comune e invasiva domanda del Castello di Cona: “Dov’è l’uscita? Rientro nell’ansimante caos del reparto.
Esce lei l’amatissima primario che mi sostiene e m’incoraggia da anni. Ci baciamo come accade da anni tra sguardi cupi e labbra strette degli altri “utenti”, m’infilo nella stanza sgabuzzino della giovane medico che deve segnare sulla mia cartella gli ultimi dati. E’ ancora allegra nonostante la massa di lavoro svolto da parecchie ore (sono le 13 meno otto minuti. Il mio ingresso è stato alle 9 e 25) le consiglio il film ‘Grand Budapest Hotel’ per risollevarsi. E mentre un affettuosissimo giovane portantino con un’immensa cresta in testa, degna del copricapo dei soldati greci, coccola una signora sofferente stesa sul lettino, m’avvio, sollevato a mia volta, verso la macchina.
Ma è la fila 6 o la fila 9 dove l’ho lasciata? Non importa: prima o poi ci arriverò.

Il virtuoso Ferraresi, emulo di Paganini e interprete dei suoi Capricci

“MUSICI” FERRARESI DEL PRIMO NOVECENTO
ALDO FERRARESI E MAFALDA FAVERO

Aldo Ferraresi – Nato a Ferrara, Aldo Ferraresi (1902-1978) imparò i primi rudimenti del violino all’età di appena sei anni, nel 1914 entrò al Conservatorio di Parma e conseguì quindicenne il diploma al “Santa Cecilia” di Roma.
È stato a lungo il solo esecutore in grado di cimentarsi con il IV concerto di Paganini, dei cui Capricci divenne più tardi uno fra i maggiori interpreti in assoluto.
La sua straordinaria carriera lo ha portato sui più prestigiosi palcoscenici d’Italia e di Europa, strappando entusiastiche recensioni sulle pagine di importanti testate giornalistiche quali: “Il Tempo”, “La Liberté”, “Times”, “Listener” e altre ancora.
Definito da qualche critico «uno dei più grandi violinisti viventi», Ferraresi ebbe come primissimo maestro il padre sottufficiale dell’esercito ed è, con ogni probabilità, nella propria famiglia ferrarese che scaturì in lui la scintilla del suo innato talento.

Mafalda Favero – Nata a Portomaggiore (FE), Mafalda Favero (1903-1981) ha compiuto gli studi musicali a Bologna e ha debuttato come cantante lirica con Turandot nel 1927 a Parma, quello stesso anno si è presentata alla Scala nei Maestri Cantori sotto la direzione di Arturo Toscanini.
Soprano lirico dotato di straordinario timbro vocale e di grande presenza scenica, si è in specie distinta come appassionata interprete di opere quali Madama Butterfly, Bohème, Manon, ma è stata unanimemente apprezzata anche come soprano leggero (Elisir d’amore, Don Pasquale, Don Giovanni) e lirico-spinto (Adriana Lecouvrer, Zazà).
Ha partecipato a molte prime esecuzioni di Mascagni, Zandonai, Wolf-Ferrari e Milhaud. Ritiratasi (ancora giovane) all’apice della carriera, Mafalda Favero ha calcato le scene dei più prestigiosi palcoscenici d’Italia, d’Europa e del mondo.
Oltre ai succitati capolavori operistici, altri suoi indiscussi cavalli di battaglia furono: Lohengrin, Cavalleria rusticana, Cantori di Norimberga.

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Lettera aperta a Riccardo Calimani, presidente della Fondazione Meis

Gentile Presidente, ho atteso la conclusione della V edizione della Festa del libro ebraico per sottoporle una domanda che non penso sia solo mia: perché continua ad escludere Piero Stefani da ogni tipo di coinvolgimento che riguarda l’attività pubblica del Meis, fra le quali lo svolgimento dell’importante evento che si sta tenendo con successo da cinque anni?

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Piero Stefani

Non ho bisogno di ricordare a Lei, né tanto meno alla città chi è Piero Stefani: uno dei più autorevoli e stimati studiosi e conoscitori della cultura ebraica sul piano nazionale e internazionale. Chi lo desidera può constatare attraverso il sito di Piero Stefani come le sue settimane siano piene di impegni in giro per l’Italia chiamato da associazioni, circoli culturali, enti pubblici, ecc. Ma Ferrara, sede del Meis, ha deciso di ignorarlo. E’ una vergogna di cui chiamo Lei, come Presidente del Meis, a rendere conto alla città.
Non so immaginare un motivo plausibile per una tale discriminazione, se non riandando all’evento delle dimissioni di Piero Stefani da direttore del Meis nel maggio del 2010 per incompatibilità con il suo stile di direzione. Ricordo un passaggio della lettera di dimissioni di Stefani, là dove faceva riferimento “ad una gestione padronale e impaziente del suo Presidente”. Ecco, questo è il punto: Lei continua a considerarsi ‘padrone’ del Meis, continuando ad usare il suo ruolo prestigioso per consumare una meschina ritorsione nei confronti di una persona apprezzata e stimata, non solo a Ferrara, per le sue eccellenti qualità culturali e per la sua dirittura morale.
Non sarei sincero fino in fondo se non accennassi ad una sorta di complicità e omertà di cui Lei può godere nell’uso ‘personale’ che fa del suo ruolo da parte di chi è componente del comitato che decide programmi e attività del Meis. Inoltre, anche la stampa e l’informazione potrebbero essere più attivi nel segnalare evidenti assenze e censure quando queste riguardano le persone migliori della città e che godono di alta reputazione ben oltre le sue mura.
Per chi mi conosce e, soprattutto, per chi conosce Piero Stefani non c’è bisogno di precisare che egli non è a conoscenza di questa iniziativa di cui mi assumo totalmente la responsabilità personale.
Se Lei, presidente Calimani, riterrà di rispondere, sappia che è una risposta che è dovuta alla città e non a me personalmente. Ma, soprattutto, mi auguro che Lei e chi collabora con Lei nella costruzione dei programmi del Meis tenga conto di quanto Le scrivo per il futuro.

La ringrazio per l’attenzione,
Fiorenzo Baratelli

Rododendri o azalee

La fioritura spettacolare delle Azalee nel giardino della mia amica MariaSilvia merita una serie di considerazioni su questa pianta. Innanzitutto cosa sono le azalee? Il genere Azalea fu battezzato ufficialmente da Linneo nel 1753, separandolo dal genere Rododendro. I due generi furono poi di nuovo mescolati creando non poche difficoltà e molta confusione nel campo orticolo. La differenza fondamentale fra i due generi, con alcune eccezioni, consiste nel fatto che le Azalee perdono le foglie durante l’inverno, i Rododendri invece, sono sempreverdi. Un’altra differenza riguarda il numero degli stami (gli organi maschili del fiore): 5 per le Azalee, 10 per i Rododendri. Le varietà coltivate nei giardini sono spesso ibridi moderni, creati da piante che originariamente vivevano spontaneamente in Cina e Giappone, nei casi peggiori, cioè nei bancali dei grandi magazzini o delle fiere, si trovano delle varietà selezionate per fare occhio (grandi fiori doppi) e durare poco. Anche in Italia abbiamo dei Rododendri selvatici, chi va a passeggio sulle Alpi avrà sicuramente ammirato e amato i fiori del Rhododendron ferrugineum e del R. hirsutum. Il fatto che crescano spontanei solo ad una certa altezza, dovrebbe far riflettere i giardinieri di pianura, ma la cosa che dovrebbe accendere dei lampadari interi è la famiglia a cui appartengono queste piante: la famiglia delle Ericaceae. Cosa significa? L’erica è la pianta che contraddistingue i terreni acidi e torbosi, quindi, tutte quelle che accennano alle eriche hanno la stessa necessità. Di conseguenza, i giardinieri che volessero coltivarle in piena terra, devono avere a disposizione un terreno naturalmente acido. Con il terreno adatto e un clima temperato, le azalee e rododendri sono piante da effetti speciali. L’abbondanza della fioritura e l’intensità dei colori è qualcosa di veramente spettacolare. In Italia le più belle collezioni e gli esemplari più antichi, si trovano nei giardini del Lago di Como e del Lago Maggiore. Nel mese di maggio le macchie fiorite si possono ammirare da una sponda all’altra del lago, le coste sembrano un’immensa opera astratta lineare, quindi si può solo immaginare la sensazione di averle a pochi metri: è come stare dentro a un gigantesco secchio di colore puro.
A questo punto la domanda legittima è: come fa MariaSilvia ad avere delle azalee così belle da anni, anche se abita in una pianura assolata dal terreno calcareo? Non sono piante difficili, ma come le definisce Ippolito Pizzetti (“Enciclopedia dei Fiori e del Giardino” Garzanti, pag. 709): “ I Rododendri non sono piante del pressappoco: o prosperano magnificamente, là dove le regole vengono rispettate, o non vivono affatto.” Le regole sono sempre le stesse: terreno, ambiente, umidità. Il terreno deve essere privo di calcare, quindi bisogna coltivarle in vaso, meglio, in vasi isolati dalla terra come quelli appoggiati su una pavimentazione. In vaso è possibile mantenere un livello di acidità accettabile, rinvasando ogni anno con terricci preparati per piante acidofile e conservandolo con prodotti che si possono diluire nell’acqua. Anche l’acqua delle innaffiature non dovrebbe contenere calcare, quindi, acqua piovana o acqua lasciata riposare. Il terreno deve essere aiutato periodicamente con sostanza organica, in mancanza di letame o stallatico, si può usare il fogliame sano decomposto. Non amano avere le radici a mollo, sono piante che crescono in pendenza dove l’acqua scorre, quindi assicurare ai vasi un buon drenaggio, ma nello stesso tempo mantenerle in un ambiente umido, e l’umidità atmosferica in pianura non manca. L’esposizione ideale è quella a mezza ombra, quindi sole al mattino e ombra da mezzogiorno in poi. Una buona potatura dopo la fioritura le mantiene ad una dimensione proporzionata con la quantità di terra del contenitore.
I Rododendri delle Alpi sono legati ad una leggenda che racconta di una mamma-Regina che per aiutare il figlio a coronare un sogno d’amore, camminò fino a farsi sanguinare i piedi e da questo gesto nacquero questi fiori così splendidi. Non so se questa leggenda abbia determinato l’usanza commerciale di regalare azalee per la Festa della Mamma, a me piace l’idea che questi fiori crescano così bene nel giardino di una vera Mamma.

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‘Italiani brutta gente’, noir di provincia fra le ombre della Ferrara bene

Comincia da Ferrara la serie di presentazioni del nuovo romanzo di Lorenzo Mazzoni Italiani brutta gente che ha per protagonista Pietro Malatesta, lo sbirro anarchico.
Domenica 4 maggio, alle 18,20, nei locali del centro sociale La Resistenza (via della Resistenza 32-34), Lorenzo Mazzoni con Andrea Amaducci e Licia Vignotto parlerà dell’indagine, ancora una volta ambientata a Ferrara.
Mazzoni, la sua città a dare l’imprimatur al nuovo Maltesta… un caso?
“Una scelta voluta, Malatesta si muove da sempre in questo contesto urbano di cui, tra l’altro, parlerò anche il 6 maggio con gli studenti del dipartimento di studi umanistici. Il noir di una città di provincia si presta bene a riflettere sul territorio e sulle sue dinamiche, con gli studenti affronterò alcuni problemi della città come la morte del centro storico, il cinestar, il grattacielo e altre strutture architettoniche cittadine”.
Ma veniamo a Italiani brutta gente, qualche anticipazione sulla trama?
“E’ un romanzo corale in cui Malatesta è alle prese con il rapimento di una nota esponente politica, a sequestrarla tre sbandati disoccupati, di cui uno invaghito della donna. Altri tre uomini della Ferrara ‘bene’ cercheranno di ritrovarla”.
Sembra chiaro il messaggio di chi sia la brutta gente…
“Esatto, è proprio questo il messaggio che ho voluto mandare. Troppo facilmente schieriamo i buoni e i cattivi e, tra questi, mettiamo gli stranieri identificandoli con il male. Dobbiamo ribaltare questo senso comune perchè non è vero”.
Malatesta è, sin dall’inizio, legato al caso Aldrovandi di cui, proprio in questi giorni, l’Italia sta parlando. Che direbbe Malatesta di quell’applauso all’assemblea del Sap a Rimini?
“Mi vergogno di fare questo mestiere, direbbe. È una cosa ripugnante, disgustosa, aggiungo io. Certi sgherri delle dittature sudamericane avrebbero avuto più dignità, una roba da ultras della domenica. La legge li ha condannati e c’è chi li applaude”.
Dopo Ferrara, dove saranno le altre presentazioni?
“Sarò al salone del libro di Torino il 9 maggio, poi varie date in Lombardia e al Festival della letteratura di Milano dove il tema della serata sarà malapolizia”.
Malatesta quando lo ritroveremo?
“Presto. È in lavorazione un romanzo di Malatesta e la Spal, un omaggio, anzi un atto d’amore”.

Appuntamento, quindi, in città con Lorenzo Mazzoni, domenica 4 maggio, alle 18,20, nei locali del centro sociale La Resistenza (via della Resistenza 32-34) e martedì 6 maggio, alle 14, in via Adelardi 33 con gli studenti del dipartimento di studi umanistici.

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La meditazione: una tecnica per andare ‘oltre’

L’obiettivo della meditazione è quello di mettere a fuoco e calmare la mente, raggiungendo alla fine un più elevato livello di consapevolezza e calma interiore. Può essere sorprendente accorgersi che si può meditare ovunque e in qualsiasi momento, permettendo di accedere a un senso di tranquillità e di pace, non importa quello che succede intorno. La meditazione è l’arte di concentrarsi al 100%. Meditare non significa costringere la mente al silenzio: è trovare la quiete che esiste già. Infatti, esaminando cosa sta dietro a sensi di colpa, ansie, risentimenti, illusioni, fantasie, speranze non realizzate e vaghi sogni della mente, risulta chiaro che siamo dominati dal nostro dialogo interiore. Migliaia di anni fa i maestri indiani hanno sentenziato che ognuno di noi è vittima della memoria.

Meditazione e benessere emotivo
Quando si medita, si cancella il sovraccarico di informazioni che si accumula ogni giorno e che contribuisce a creare stress.

I benefici emotivi della meditazione includono:

• ottenere una nuova prospettiva su situazioni di stress;
• costruire le competenze per gestire lo stress;
• aumentare la consapevolezza di sé;
• concentrandosi sul presente;
• ridurre le emozioni negative.

Meditazione e malattia
La meditazione può anche essere utile in caso di disturbi, in particolare se aggravati da stress. Alcune ricerche suggeriscono che la meditazione può aiutare a migliorare le seguenti condizioni:

• allergie
• disturbi d’ansia
• asma
• depressione
• stanchezza
• malattia cardiaca
• alta pressione sanguigna
• dolore
• problemi del sonno
• abuso di sostanze

Tipi di meditazione
Ci sono molti tipi di meditazione e tecniche di rilassamento con componenti di meditazione, ma tutti condividono lo stesso obiettivo, ossia raggiungere la pace interiore:

meditazione guidata o visualizzazione guidata: con questo metodo di meditazione si tende a formare immagini mentali di luoghi o situazioni che trovate rilassanti;
meditazione mantra: il silenzioso ripetere una parola o una frase calmante, permette di evitare pensieri distraenti;
meditazione di consapevolezza: tipo di meditazione basata sulla memoria, permette di acquisire una maggiore consapevolezza e accettazione di ciò che si sta vivendo in quel preciso momento, come per esempio concentrarsi sul flusso del proprio respiro. È possibile osservare i propri pensieri e le proprie emozioni, ma lasciarli passare senza giudizio;
qi gong: pratica che combina generalmente meditazione, rilassamento, movimento fisico ed esercizi di respirazione, per ripristinare e mantenere l’equilibrio. Il qi gong (chee-gung) fa parte della medicina tradizionale cinese;
tai chi: forma di dolci arti marziali cinesi. Nel tai chi (tie-chee) si eseguono una serie di posture o movimenti in modo lento e aggraziato, praticando la respirazione profonda;
meditazione trascendentale: si ripete più volte un mantra (una parola, un suono o una frase) ma in silenzio. Questa pratica aiuta a restringere la propria consapevolezza cosciente ed eliminare tutti i pensieri dalla propria mente. Ci si concentra esclusivamente sul mantra per raggiungere uno stato di perfetta quiete e coscienza.
yoga: si eseguono una serie di posture ed esercizi di respirazione controllata per promuovere un corpo più flessibile e una mente calma. Lo spostarsi attraverso pose che richiedono equilibrio e concentrazione, aiuta a concentrarsi meno sulla propria giornata e di portarsi con la mente al momento.

Come praticare la meditazione

Scegliere un ambiente tranquillo
• E’ consigliato trovare un posto in cui la meditazione non venga interrotta per tutta la sua durata, che si tratti di cinque minuti o mezz’ora. Lo spazio non deve essere molto grande, anche un ufficio può andare bene.
• Per evitare distrazioni esterne, è particolarmente importante spegnere televisori, telefoni cellulari o altri apparecchi rumorosi. Se si mette su un po’ di musica, scegliere una musica calma, melodie dolci, in modo da non rompere la concentrazione. Un’altra opzione è quella di accendere una piccola fontana d’acqua, il suono dell’acqua corrente può essere estremamente rilassante.
• Non è necessario che lo spazio sia completamente silenzioso. Il suono di una tosaerba o un cane che abbaia accanto non dovrebbero impedire la meditazione efficace. Infatti, essendo rumori conosciuti, è facile e utile imparare a dominarli. Questa è una componente importante per una meditazione di successo. Ma se aiuta, soprattutto in un primo momento, è possibile ricorrere a dei tappi per le orecchie.

Decidere per quanto tempo si desidera meditare

• Prima di iniziare, si dovrebbe decidere per quanto tempo si vuole meditare. I meditatori esperti consigliano venti minuti, due volte al giorno; i principianti possono iniziare con un minimo di cinque minuti, una volta al giorno.
• Si dovrebbe anche cercare di meditare per lo stesso tempo, ogni giorno – che si tratti di 15 minuti appena svegli o 5 minuti durante la pausa pranzo. Qualunque tempo si scelga, provare a fare meditazione nella propria routine quotidiana.
• Una volta deciso un lasso di tempo, cercare di attenersi ad esso.

Occhi aperti od occhi chiusi?
La meditazione può essere eseguita in entrambi i modi, con gli occhi aperti o chiusi. Tuttavia, per un principiante può essere meglio provare prima con gli occhi chiusi. Questo bloccherà qualsiasi stimolo visivo esterno e impedirà ad evitare distrazioni e a concentrarsi a calmare la mente. Una volta che ci si è abituati alla meditazione, si può provare a praticare con gli occhi aperti. Se si tengono gli occhi aperti, è necessario tenerli “soft”.

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Oggi si recita: Molière in bicicletta

Io riscontro dovunque solo vili lusinghe
Ingiustizia, interesse, scaltrezza, tradimento;
Non posso contenermi, mi adiro, e mi propongo
Di mandare all’inferno tutto il genere umano

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locandina del film

Dopo il successo ottenuto con Le donne del 6º piano, Philippe Le Guay ci stupisce ancora con un film molto originale che ci presenta una vera e propria rilettura del Il Misantropo di Molière.
Il regista ha dichiarato, in alcune interviste, che l’idea è nata discutendo con l’attore Fabrice Luchini, qui grande interprete, che gli parlava in continuazione dell’opera del celebre commediografo francese e del contrasto tra i personaggi di Filinte e Alceste. Da qui lo spunto.
Il celebre (ex) attore teatrale Serge Tanneur (un bravissimo Luchini), ritiratosi dalle scene, conduce una vita solitaria sull’Île de Ré, nel nord-ovest della Francia, collegata con la città di La Rochelle tramite un ponte lungo tre km. Qui, vive come un eremita, in una vecchia casa fatiscente che ha ereditato da un lontano parente, godendo solo di lunghe e spensierate passeggiate in bicicletta.
Quando arriva la richiesta del collega, Gauthier Valence (noto attore di fiction) di tornare a recitare ne Il Misantropo di Molière, Serge si trova di fronte a una difficile decisione: da una parte, non vorrebbe tornare sui suoi passi, ma dall’altra, sente che la solitudine lo ha reso molto (troppo) simile al personaggio che deve interpretare…

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una scena del film, le prove de Il Misantropo di Molière

Tanneur potrebbe essere disposto a tornare a recitare solo se avrà il difficile ruolo di Alceste, a suo avviso, il più difficile e sfidante di tutto il teatro francese, ma Valance vorrebbe che interpretasse invece Filinte, che però “ha solo cinque scene”. I due decidono così di alternarsi ogni volta nel ruolo, e così faranno anche durante le prove della prima scena, che proveranno in modi diversi per svariate volte, quasi interrottamente per cinque giorni. E intanto, noi godremo nell’ascoltare le parole e le riflessioni sui versi alessandrini di dodici sillabe di un Alceste misantropo, insopportabile, a volte antipatico e saccente, ma sempre integerrimo, leale a un proprio ideale di purezza senza compromessi, per nulla incline alle smancerie e alla piaggeria di chi vuol farsi benvolere a ogni costo; un uomo che odia la frivolezza, i cuori volatili, fedele in amore, fortemente devoto.
Filinto, suo amico, è uomo di mondo, conosce le debolezze altrui e l’intima fibra del cuore umano e sa che questo volge inesorabile all’accomodamento, alla via di mezzo, al perdono complice.
I due amici-colleghi-rivali-antagonisti rispecchiano le psicologie dei personaggi che interpretano con grande intensità e passione: Serge/Alceste è ombroso, scontroso e lunatico; Gauthier/Filinto è piacente, amabile viveur; Serge/Alceste è un devoto del grande attore teatrale Louis Jouvet e perfezionista, allo stremo, nella recitazione; Gauthier/Filinto non si interessa affatto della dizione; Serge/Alceste è spiantato; Gauthier/Filinto è benestante; Serge/Alceste crede ancora fortemente nei princìpi; Gauthier/Filinto no.

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Una scena del film, con Celimene arriva l’amore

Tutto pare filare liscio finché arriva la bella e affascinante italiana Francesca/Celimene. E l’incantesimo si rompe. L’amore che sembra rivitalizzare e far rinascere, almeno per un momento, Serge/Alceste, alla fine però incrina tutto. Rimette in gioco un equilibrio che già era precario, facendo cadere l’instabile castello di carte.

 

 

 

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una scena del film, le scorribande in bicicletta

Bellissime sono le scorribande in bicicletta. Le sequenze su due ruote sono tra i momenti più divertenti e spensierati della commedia. Le pedalate di Serge e Gauthier sono occasione di confidenze, chiacchiere e scherzi, con la complicità di una malmessa bicicletta, senza freni, che gioca brutti scherzi alternativamente a uno e all’altro. E la pedalata a tre con Francesca è un momento liberatorio e felice che ricorda quella di Jules e Jim, di Truffaut.
La colonna sonora del film comprende musiche realizzate da Jorge Arriagada, la canzone italiana Il mondo, di Jimmy Fontana, e quella francese La bicyclette, di Yves Montand.
Ma tornando ai nostri personaggi, non possiamo non notare come il rigore di Serge sia, in fondo, egoista, invidioso e meschino, mentre Gauthier ci appare indulgente, tollerante, con una vitalità imperfetta, che però lo rende più simpatico e piacevole oltre che migliore e meno narcisista.
In una delle scene finali, Serge, che si reca alla festa in suo onore, in bicicletta, vestito in abiti seicenteschi, con un bel cappello piumato, riaffermerà la sua rigorosa psicologia. Davanti a tutti, reciterà il disinganno di Alceste che, ora, è anche il suo, un disinganno davvero terribile:

Troppe perversità troppo malanimo
Io chiuderò i rapporti con il prossimo
Troppo dolore le disgrazie portano
Tirandosi da parte più si sopportano
Poiché gli umani azzannan come lupi
Traditori! Non morirò nei vostri antri cupi

Mentre Gauthier avrà la sua rappresentazione teatrale, nel ruolo di Alceste, ora finalmente suo, Serge finirà solo, davanti a un tramonto sull’Atlantico, a declamare gli ultimi versi definitivi:

Ormai detestate l’umana natura…
Sì, per me è una spaventosa sciagura.

di Philippe Le Guay, Francia 2012, commedia 104 mn; con Fabrice Luchini, Lambert Wilson, Maya Sansa, Laurie Bordesoules, Camille Japy, Annie Mercier, Ged Marlon, Stéphan Wojtowicz, Christine Murillo, Josiane Stoléru, Edith Le Merdy.

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“Save the Dogs”, da pubblicitaria di successo ad ‘angelo custode dei cani’

Un’ex pubblicitaria al servizio dei cani randagi rumeni. E’ capitato per amore e per sconforto. Dopo un viaggio in Romania, dopo aver visto bestiole, grandi e piccole, adulte, cucciole, anziane travolte dalle auto senza nemmeno un tentativo di frenata, avvelenate, maltrattate, catturate con la cattiveria dell’ignoranza e tanti altri orrori figli della miseria di una società meno progredita. “Sono andata come volontaria per portare aiuto, quel che ho visto era molto peggio di quanto mi avevano raccontato”, spiega Sara Turetta, fondatrice e presidente di Save the Dogs, associazione onlus impegnata da anni in un progetto integrato che va dalla sterilizzazione dei randagi alla loro adozione all’estero all’assistenza veterinaria fino a un programma di educazione nelle scuole di due città Cernavoda e Medgidia, due roccaforti dell’impegno animalista.

La Turretta è ospite dell’iniziativa “Quattro zampe nell’oasi” in programma domenica 4 maggio dalle 11 alle vallette di Ostellato, dove il sindaco Andrea Marchi aprirà la giornata pensata per dare una mano, in questo caso una zampa, ai randagi della Romania. La giornata prevede un percorso di agility dog e per chi lo desidera il pranzo, anche vegetariano, da prenotare obbligatoriamente al numero 0533 680983. Parte degli incassi, rende noto la cooperativa Atlantide che ha collaborato con il Comune e il ristorante dell’oasi alla realizzazione di Quattro zampe nell’oasi, saranno devoluti a Save the Dogs per sostenerne il lavoro, chi poi è sensibile al tema può sempre versare all’associazione il suo 5 per mille (CF. 97394230151). “E’ un’iniziativa che apprezziamo moltissimo”, dice la Turretta nel raccontare un’esperienza in continuo divenire. “Il mio primo contatto con la realtà rumena ha ridisegnato le priorità della mia vita e così da ambiziosa pubblicitaria mi ci sono trasferita per quattro anni in Romania ”, racconta.

Tutto è cominciato con la sterilizzazione a tappeto nell’ambito di un fenomeno di randagismo endemico. In Romania, dove sono ricominciate le mattanze di animali tra le proteste europee e delle associazioni animaliste locali, si stima la presenza di 2 milioni di randagi. E’ il peggior caso del vecchio continente. In anni di impegno, sostenendo un costo annuale di 670 mila euro l’anno provenienti da donazioni, Save the dogs, fondata nel 2005, ha sterilizzato 24 mila cani e gatti, ne ha fatti adottare 6mila soprattutto in Italia e nel nord Europa, ha aperto un canile a Medgida e un rifugio modello a Cernavoda “Footprint of joy”, dove si accolgono anche gli asini ‘in età da pensione’ che come i cavalli attempati farebbero una brutta fine. “Il contesto socio-culturale è dominato dal degrado e dove il welfare non funziona per gli umani, gli animali sono meno di niente. Sono un lusso che in pochi si permettono, anche chi ha padrone viene abbandonato per la strada – racconta – faccio un esempio, a estate finita, quando il raccolto non ha più bisogno di essere protetto dalla guardia di un cane, gli animali vengono lasciati al loro destino, alla strada, alla fame, lo vediamo dal segno del collare”. E alla doppietta di chi considera i cani alla stregua di ratti infestanti.

“Eliminarli non serve a nulla – continua – Si libera spazio per altri randagi”. I superstiti hanno maggiori risorse alimentari da reperire nelle discariche e meno antagonisti, come ovvio la riproduzione è garantita, sarebbe meglio puntare sulla sterilizzazione, ma il concetto è ancora lontano dall’essere assimilato. “Qualcosa si sta muovendo nelle grandi città, nel resto del paese però c’è ancora molto da fare – spiega – Proprio per questo puntiamo su un progetto educativo, i bimbi vengono a visitare il rifugio, noi andiamo nelle scuole. Lavoriamo in due piccole realtà, ma fortunatamente la nostra credibilità è cresciuta negli anni, godiamo di un certo credito presso le istituzioni, il che significa spingere per far rispettare la legge, brutta quanto si vuole, ma meno selvaggia di quanto non fosse prima. Siamo un po’ come sentinelle della legalità”.

Purtroppo, insiste, dietro la gestione del randagismo ci sono interessi economici di cui i cani fanno le spese lasciandoci la pelle nella maggior parte dei casi. E anche se la Romania ha ratificato nel 2004 la Convenzione dei diritti degli animali da compagnia di Strasburgo, la sua applicazione fa acqua da tutte le parti. Cambiare le cose non è semplice e nemmeno veloce. Ma Sara è determinata. “La Ue non ha competenze sugli animali da compagnia, ma solo su quelli da reddito. E’ questo il motivo per il quale non può intervenire sulle cruente mattanze rumene – conclude – nonostante la complessità della materia bisogna ampliare lo standard delle sue mansioni, bisogna cercare di fare lobbie perché accada”.

La luce tenue della pianura Padana affascina ancora

Niente è più come prima. O meglio, non è più come ce la siamo sempre immaginata, la tipica Emilia Romagna. Bisogna chiedere agli anziani com’era negli anni cinquanta e sessanta, quando non si riusciva a vedere a un palmo dal naso per la nebbia, che in autunno dalla mattina alla sera tuffava le città e i paesini alle sponde del Po in spesse matasse di cotone, come dalla poesia di Attilio Bertolucci Nebbia e nebbia per giorni. Cosa sarebbero stati i primi film di Michelangelo Antonioni, i romanzi di Riccardo Bacchelli o di Giorgio Bassani, le fotografie di Luigi Ghirri senza l’eterna nebbia? Ci sono ancora quelle giornate piene di foschia e di nebbia, ma bisogna soltanto guardare le ciminiere dell’industria chimica all’orizzonte di Ferrara per capire da dove provengono queste serate d’autunno, appiccicaticce e impenetrabili. Da nessun’altra parte d’Italia si vedono così tante biciclette nelle stradine di campagna o in città, come in Emilia. Appena si lasciano, però, queste stradine fuori mano, un tir dopo l’altro passa rombante su quelle strade ricche di storia come la via Emilia o la via Romea. Ci sono ancora anche le bandiere rosse ad ornare molti giardini, ma non ci abitano più i comunisti di una volta, fieri di mostrare le proprie convinzioni politiche. L’Emilia è rimasta “terra rossa”, anche se non si vedono più la falce e il martello, ma l’emblema della Ferrari con la sede principale a Maranello, nei pressi di Modena. La maggior parte dei comuni emiliani sono tuttora gestiti da partiti che sicuramente non sono di destra. Ma anche questa egemonia della sinistra politica va svanendo ad ogni votazione. A parte i vecchi compagni d’una volta, qui nessuno vuol esser chiamato “comunista”. Peppone, il funzionario del partito comunista dall’atteggiamento stalinista e di fede cattolica, creato da Giovanni Guareschi, è da tempo divenuto una “figura da cartolina”, come anche la sua astuta controparte cattolica, Don Camillo. Se poi è sempre vero che c’è ancora un prete in ogni paesino, allora al giorno d’oggi spesso è di origine polacca o africana. Ci sono addirittura chiese sconsacrate che ospitano pezzi di antiquariato o che sono diventate cinema a luci rosse. In alcune cittadine vivono ormai tanti musulmani quanti cristiani. Mentre le commemorazioni della Resistenza antifascista sbiadiscono sempre di più, diventando semplici riti di dovere delle autorità politiche locali, i negozianti di souvenir attorno alla tomba del Duce a Predappio non hanno di che lamentarsi perché gli affari non vanno male. Nessuno ha descritto così attentamente, in modo laconico ma allo stesso tempo poetico, lo smantellamento della cultura ebraica in Italia e le deportazioni degli ebrei italiani nei campi di sterminio tedeschi, come il ferrarese Giorgio Bassani. Deportazioni di ebrei, di cui però non pochi erano stati fedeli seguaci di Mussolini fino alle leggi razziali del 1938!
Attorno a città come Bologna, Parma, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Ferrara, Ravenna o Rimini, con le loro splendide piazze e i loro palazzi rinascimentali, si sono formate spesse croste di supermercati, outlet, autolavaggi e discoteche che si possono trovare dappertutto in Europa. Forse però, le periferie italiane sono ancora più noiose, ancora più commercializzate e brutte che nel resto d’Europa. Forse qui la distruzione dei paesaggi da parte dell’edilizia selvaggia è così deprimente e dolorosa, perché le immagini nelle nostre menti sono ingenue e idilliache. Ma nonostante l’evidente uniformazione di tante città e di tanti paesini sul Po, qui è ancora possibile scoprire favolosi misteri. Per la fantasia degli scrittori e degli artisti, questa è ancora una terra molto fertile. E l’orgoglio della popolazione locale per la “bella pasta”, il prosciutto di Parma o la piadina romagnola è tuttora imbattuto. In ogni piccolo paesino c’è una trattoria con un menù che al di là delle Alpi si può soltanto sognare. E anche se le feste dell’Unità, tradizionalmente feste comuniste, hanno perso il loro nome e ogni significato politico, a queste feste, che possono durare anche settimane intere, si cucina ancora come ai tempi delle vecchie cooperative comuniste.
E si è anche orgogliosi della letteratura dell’Emilia Romagna, che ha donato alla cultura italiana opere immortali e scrittori indimenticabili. I libri di scuola sonno pieni di autori nati, cresciuti e morti proprio qui, o che qui hanno ambientato i loro romanzi o i loro racconti. Ariosto, Pascoli, Bassani, Baccelli, Guareschi, Malerba provengono da questi luoghi. Pier Paolo Pasolini è nato nel Friuli, a Casarsa delle Delizie, e lì è stato anche sepolto assieme a sua madre, ma ha vissuto per anni a Bologna. Neanche Umberto Eco è emiliano (è nato in Piemonte, ad Alessandria), vive però da decenni a Bologna e a San Marino, quel minuscolo Stato autonomo in mezzo alla Romagna. Anche Mario Soldati era piemontese, ma amava i paesaggi della pianura Padana e così le dedicò alcuni dei suoi più bei racconti di viaggio. Gianni Celati è di Sondrio, in Lombardia, ma come nessun altro scrittore italiano ha dedicato racconti meravigliosamente affettuosi ai “matti padani”, una razza di civette che si trova nei pressi del Po. Le figure letterarie di Ermanno Cavazzoni, nativo di Reggio Emilia, forse sono ancora più bizzarre, più stravaganti e ancor più fantasiose. Chi non ha ancora letto i suoi racconti non riuscirà mai a comprendere le particolarità dei Padani, le loro stranezze, il loro modo di fare spesso un po’ i ribelli. Importanti giornalisti italiani come Enzo Biagi, Gianni Brera e Sergio Zavoli sono nati qui. Lo sfortunatamente già deceduto Lucio Dalla e Francesco Guccini, due dei grandi cantautori degli anni settanta e ottanta, sono di Bologna e di Modena. E a Zocca, un paese vicino a Bologna, è nato Vasco Rossi, una delle rock star più grandi degli ultimi decenni. Per non dimenticare naturalmente due veri giganti del cinema italiano: Federico Fellini di Rimini e Michelangelo Antonioni di Ferrara. Cesare Zavattini, forse conosciuto all’estero soltanto dai cineasti come geniale sceneggiatore (“Umberto D”) e “impresario di cultura”, è di Luzzara, vicino a Parma. Tonino Guerra, sceneggiatore del film forse più popolare di Fellini Amarcord e collaboratore di registi come Angelopoulus, è di Sant’Arcangelo nelle vicinanze di Rimini.
Nei testi di autori più giovani, come Ugo Cornia, Daniele Benati, Giulia Niccolai o Simona Vinci invece, si sente fortemente che la velocissima industrializzazione ha lasciato un segno su questa regione e ne ha distrutto il paesaggio. Ma così come la tenue luce della pianura Padana riesce ancora a donarle un aspetto magico, nei testi letterari, più o meno vecchi, si riesce ancora a trovare un’Italia che forse non esiste più. O almeno non esiste in questa forma, nella realtà, ma che qui in Emilia Romagna riesce ancora ad emanare un fascino particolare, grazie all’atmosfera malinconica e nebbiosa della pianura e grazie alla comicità surreale che guizza in tanti discorsi. E se non la si trova più nella realtà, sicuramente si trova nella letteratura che questa regione ha dato.

[Traduzione dal Tedesco all’Italiano a cura di Thomas Lietfien]

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La guerra

Dopo aver vagabondato per una vita, ormai lunga vita ahimè, per gli impervi sentieri del pensiero umano, aver ascoltato la suadente voce di religiosi per i quali tutto è miracolo di Dio, dopo essere stato attraversato dal panteismo più ingenuo, abbracciato le idee più dure di rivoluzionari spesso pronti a cambiar bandiera, aver accettato di lottare per la salvezza dei più umili, essermi fatto violentare dai pensieri degli uomini armati per cui tutto si risolve con una sciabolata o una raffica di mitra, aver guardato sbigottito la facilità con cui i padri uccidono i figli o i figli uccidono i padri, aver scansato per non calpestarli i cadaveri di decine e decine di morti ammazzati, ecco, dopo tutto questo e altro ancora, sono arrivato a una sola conclusione possibile. La società umana ha un solo collante: l’odio. Pensavo sconsolato a queste mie deduzioni mentre, turbato, commosso, emozionato, passavo da un quadro all’altro della più bella mostra vista negli ultimi anni. Ero a Lucca nella bellissima sede della Fondazione Banca del Monte di Lucca, dov’è stata allestita quest’ultima esposizione dei quadri di uno dei più grandi pittori italiani contemporanei (non esagero): Paolo Baratella ferrarese errante. Scrive di lui la “Garzantina” dell’arte: “Il tema della condizione umana ha continuato a essere al centro della sua pittura caratterizzata da un realismo visionario carico di simbologie e citazioni”. In questa mostra Paolo Baratella ha tirato fuori dal suo stomaco lo sconvolgente massacro a cui furono destinati seicentomila ragazzi italiani, gettati come riso per le galline nelle trincee della Grande Guerra 15-18, sui campi oltrepiave, sulle cime contraddistinte nelle carte topografiche da un numero, Cima Dieci – Cima Dodici e via contando, gettati, questi bambini dal viso ancora glabro, con il loro fucilino imbaionettato contro le mitragliatrici nemiche. Eroi, dicevano gli alti ufficiali acquattati dietro le prime linee, dove il proiettile del mortaio non arrivava, eroi. Eroi come il protagonista della mostra di Baratella, un soldatino, un fantaccino come li chiamavano allora, ripreso con la mantellina nell’ultima fotografia da mandare alla famiglia prima di morire. Era suo zio il fantaccino e, nella mostra, è diventato l’immobile accusatore di un potere omicida, gestito dagli uomini coperti di gradi e di inutili medaglie, uomini codardi, stupidi, violenti, i loro nomi sono sulle enciclopedie trattati con reverenza, simpatia, ossequio. Baratella chiude il catalogo con una lunga, bellissima poesia-pensiero: “Paura, terrore, ansia, angoscia, nevrosi/ trincea della guerra sorella,/ infinito labirinto/ scavato nel fango, nella dura terra, nella roccia, nel ghiaccio…” Quadri enormi, che vorrebbero essere ancora più grandi, come grande è l’insolenza dei potenti che vendono e comprano terribili macchine da guerra, sempre più terribili, le comprano con i soldi della povera gente, per “difenderla”, dicono, e non (com’è la verità) per fare dell’uomo la bestia più crudele del creato.
(Il prossimo anno sarà il centenario delle prima guerra mondiale. Sappiamo già di quali crudeli fanfaronate demagogiche sarà capace la nostra società tristanzuola. Gli italiani saranno eroi, santi no, non ce ne stanno più in Paradiso).

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Caso Aldrovandi, le ‘tricoteuses’ ovvero il mal riposto senso dell’onore

Nei vecchi film la cattiveria delle tricoteuses che, insediate sotto la ghigliottina sferruzzavano in attesa che la lama calasse sul collo dei nobili francesi lasciando solo un momento il lavoro a maglia per applaudire freneticamente, erano un classico dei film di genere fatti per soddisfare la “pancia” (e termine più giusto e più volgare non si potrebbe inventare) di chi crede che solo al sopruso si possa rispondere con la violenza e la derisione. Questo è stato il primo pensiero che mi è venuto in mente alla notizia dei cinque minuti di applausi ai tre agenti implicati nella morte di Federico Aldrovandi.

Non ho mai volontariamente preso posizione pubblica nella vicenda Aldrovandi per rispetto al dolore della famiglia e per una concessione d’appello etico verso quelle forze dell’ordine che, come ben aveva identificato il pensiero di Pasolini, rappresentano mediamente la classe sociale più umile. Ma è ora chiaro che qualsiasi forma di giustificazione cede di fronte alla violenza cieca di quell’applauso che uccide per un malinteso concetto del “servizio d’ordine”, per una malvagia idea di giustizia che plaude alla violenza e alla soppressione della vita umana. Una violenza moralmente condannabile quanto la riprovazione per la morte stessa provocata al giovane Aldrovandi proprio perché nata da una falsa giustificazione morale, da una violenza ideologica ed etica. A sua volta resa più bieca dalle parole terribili espresse dal vertice del Sap, il sindacato autonomo di polizia, e delle sempre più inaccettabili dichiarazioni dell’onorevole Giovanardi. Penso alla voce untuosa di un capo del Sap che parla di “ossequioso” rispetto del dolore della famiglia. Ma sa l’illetterato signore cosa significa l’aggettivo “ossequioso” e il suo sostantivo “ossequio”?
Siamo nella più bieca tradizione di un formalismo per cui la retorica si fa strumento di falsità. Si pensi alla frase un tempo così usata dalla piccola borghesia: “porga i miei ossequi alla sua signora” che diventa un modo terribilmente retorico per significare un concetto così semplice come “mi saluti sua moglie”. Tutta la retorica di cui si ammantava un tempo nella sua vacuità chi si credeva deputato all’uso di parole inutili. Si risponde così a un atto eticamente rivoltante con il formalismo di piccoli funzionari, per fortuna pochi, dal pensiero miserevolmente pericoloso.

Del resto, a esclusione dei soliti noti presenti al congresso del Sap, o al commento del già citato Giovanardi, lo scatto morale dei vertici politici e istituzionali è stato unanime e questo consola: da Napolitano, alla Boldrini a Grasso, a Renzi, ad Alfano fino a Pansa capo della Polizia e per li rami fino al sindaco di Ferrara Tizano Tagliani. Una quasi unanimità che almeno conforta nella tenuta di certi valori non commerciabili con il risentimento e la protesta di chi si crede offeso nei propri diritti nonostante l’inequivocabile giudizio della magistratura e del comune senso etico. Non si possono applaudire coloro che hanno applicato la violenza sia pure – lo si conceda pur non condividendolo – per un travisato senso del proprio compito. La mancanza di un dignitoso silenzio, l’insistita reiterazione di un pensiero eticamente non condivisibile fanno regredire coloro che hanno applaudito e che purtroppo fanno parte delle forze dell’ordine a tempi bui di cui ancora il nostro tempo non sembra essere immune. Ho ammirato e ammiro l’indomito coraggio della mamma di Federico Aldrovandi ma anche la dignità silenziosa del padre e mi commuove la stanchezza di una madre coraggio che vorrebbe ritornare nella vita di ogni giorno e non viverla come un evento ogni giorno eccezionale.

Eppure da questa tristissima vicenda una luce di speranza si è accesa. E quella proviene proprio dalla condanna dei politici e delle istituzioni a un atto tanto inaudito quanto non necessario. Questa è la vittoria più clamorosa della famiglia Aldrovandi.

Spagna-Italia solo andata, Alvaro e Javier in direzione ostinata e contraria

di Barbara Diolaiti

Alvaro Gàmez Martinez e Javier Esteban Carbonell. Ventisette anni l’uno, ventotto l’altro. Spagnoli entrambi.
Il primo, laureando in Giurisprudenza all’Università di Ferrara, è di Huelva in Andalusia, la città delle fragole e da cui partì il viaggio iniziale di Cristoforo Colombo; il secondo, con doppia laurea (Archeologia in Italia, Storia in Spagna) e Specialistica in Archeologia Preistorica ottenuta alla Facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Ferrara, è di Saragozza, in Aragona.

S’incontrano per la prima volta nella città estense nel 2009, all’Ostello della Gioventù di corso Biagio Rossetti, e si osservano diffidenti. Alvaro è appena arrivato, Javier andato e tornato, a partire dal 2005. Nessuno dei due vuol fare “vita da spagnolo”, nessuno dei due frequenta gli altri Erasmus per i quali, mi spiegano, “quell’anno in Italia è, in genere, poco più di una vacanza”.
Per questi due ragazzi, invece, è il primo passo verso il sogno di una vita. Non è la nazionalità ad avvicinarli, anzi, ma la comune, irrinunciabile, non negoziabile decisione di vivere per sempre in Italia, “di diventare italiano”, precisa Alvaro. Una scelta che non può essere scalfita da alcuna delle tetre riflessioni alle quali siamo abituati parlando di ragazzi e di futuro in questo Paese. Alvaro e Javier ti ribaltano la prospettiva: la decisione di vivere in Italia è priva di “nonostante”, è un’altra prospettiva. Trovare un lavoro coerente con il percorso di studio è per loro marginale, centrale è appunto l’Italia; Ferrara per Alvaro, il Chianti per Javier.

Ho conosciuto Alvaro e Javier alcuni mesi fa, grazie ad amici comuni; colpita da tutta questa allegria, serenità e determinazione, ho chiesto loro di ricostruire le vicende e le riflessioni che li hanno condotti in una direzione apparentemente “ostinata e contraria”. La nostra chiacchierata, alla fine, è lunga quattro ore.

“Ho sempre desiderato vivere in Italia – racconta Javier – ma quando mi iscrissi a Storia, a Saragozza, nemmeno sapevo cosa fosse l’Erasmus; per caso scoprii che un amico era in partenza e feci anch’io domanda”.
All’inizio del terzo anno accademico viene indirizzato a Siena. “Scelsi di non assumere alcuna informazione sulla città, di non guardare nessuna foto per potermi stupire come un bambino”.
Il 16 settembre 2005 Javier arriva a Siena e resta folgorato da piazza del Campo. Un colpo di fulmine, un anno meraviglioso, ricorda, al termine del quale è però costretto a tornare in Spagna: “E’ stato come tornare in gabbia”. Non si rassegna e alla fine trova un bando per una borsa di studio dell’Unione Europea destinata ai territorio svantaggiati a causa della cessazione dell’attività mineraria.
“Una borsa di studio seria, che non esiste più – spiega – copriva le tasse universitarie, due viaggi andata e ritorno dalla Spagna all’Italia e prevedeva 800 euro al mese per nove mesi”.
Uno strumento essenziale per Javier, la cui famiglia (padre metalmeccanico, madre casalinga, due figli) non avrebbe certo potuto permettersi di mantenerlo agli studi all’estero. E così Javier può finalmente iscriversi ad Archeologia all’Università di Siena, anno accademico 2007/2008, dove si laureerà il 16 settembre 2009.
Anche per Alvaro, dopo l’anno di Erasmus, arriva la decisione di trasferirsi all’Università in Italia, a Ferrara.

E’ stato complicato trasferire gli studi?
“L’ iter burocratico per il trasferimento da un’università all’altra di Paesi comunque dell’Unione Europea – spiegano all’unisono – è veramente sconcertante, ti rendi conto che l’Unione Europea non esiste, esiste solo un progetto economicista che nulla ha a che vedere con le persone. L’unica differenza con un trasferimento da Università extra UE è che non devi sostenere un test di italiano, ma tutto il resto è uguale: devi recuperare ogni documento, produrre l’intera documentazione del tuo percorso scolastico in traduzione con costi elevati (circa 2.000 euro), compresi i contenuti dei corsi, la programmazione dalle elementari in poi. E a questo aggiungi la mancanza di informazioni, l’incapacità del personale dei consolati e delle ambasciate. Sono stati necessari circa sei mesi”.

Quando Alvaro e Javier s’incontrano, il primo sta iniziando l’Erasmus mentre il secondo è iscritto alla Specialistica di Archeologia Preistorica. Nel 2011 Javier sarà costretto a rientrare all’improvviso in Spagna a causa di due diverse gravi malattie, poi felicemente risolte, che avevano colpito entrambi i genitori. La sua casa ferrarese passa ad Alvaro, iscritto a Giurisprudenza.

E’ allo zio che Alvaro deve questo amore assoluto per l’Italia; uno zio spagnolo che parla però l’italiano e “anche un po’ di napoletano”.
” Il mio – chiarisce Alvaro – è un grande amore per l’arte e la cultura del passato. Non ero mai stato in Italia prima del 2009. Tutto quello che sapevo l’avevo letto e fin da bambino ascoltavo praticamente solo musica italiana, Modugno, Carosone. Volevo vivere qui e nessuna delle mie aspettative è stata delusa. L’Università stessa è diversa: in Spagna di fatto ti limiti a consumare l’Università più o meno come accadeva alle scuole superiori; in Italia, invece, l’Università è un mondo a parte, una realtà ancora viva e stimolante”.

Eppure noi italiani tendiamo a vedere la Spagna, specie negli ultimi anni dopo la nascita del movimento degli Indignados, come un Paese molto più vivace e avanzato…
“Credo che la riflessione sulla possibilità di trasformazione della società sia invece molto più consapevole in Italia – interviene Javier – Per me il vero punto di svolta è stata l’uscita dall’ambito esclusivamente studentesco, conoscere persone più grandi e con interessi simili ai miei: il movimento degli orti condivisi, della decrescita. E sono proprio questi amici che mi hanno convinto a riprendere gli studi dopo la malattia dei miei, a giungere alla Laurea specialistica”.

” Il movimento spagnolo del 15 maggio ha certo rappresentato una piccola speranza – incalza Alvaro – e all’inizio era davvero forte e spontaneo, poi il tentativo di strumentalizzazione da parte dei politici ha allontanato moltissime persone e ora si è frantumato in una miriade di iniziative e movimenti legati alle specificità come quello contro i pignoramenti o per la sanità pubblica o per il diritto alla casa, il che va comunque bene, ma credo che manchi una riflessione complessiva e approfondita. Diciamo che in Spagna ci sono poche idee ma molto sangue, mentre in Italia è il contrario”.

E voi preferite l’Italia anche se qui sarà ancora più difficile trovare un lavoro coerente con i vostri studi…
“Non è importante – chiarisce deciso Javier – Mi è molto chiaro che il mio lavoro non potrà essere quello di archeologo della preistoria. Intendo continuare a studiare, a ricercare, ma senza assegnare a tutto questo un valore economico. A più riprese negli ultimi anni ho lavorato nel Chianti in aziende agricole ed è lì che vedo il mio futuro, credo che l’agricoltura biologica offra possibilità reali. Preferisco vivere in un luogo che amo anziché impazzire nel tentativo di ottenere, che ne so, un qualche dottorato in una qualsiasi Università in una lotta, una competizione continua. Non avrebbe alcun senso, non sarebbe positivo per la mia vita”.

Anche per te, Alvaro, un futuro da agricoltore dopo la laurea in Giurisprudenza?
“No no – ride – ma nemmeno un futuro da avvocato, che ce ne sono fin troppi e con sempre meno lavoro. Ho la fortuna di parlare la seconda lingua più diffusa al mondo e penso ad un lavoro di consulenza legale per aziende che abbiano rapporti con la Spagna o con il Sud America. Sono comunque in grado di adattarmi. L’aspetto fondamentale è trovare un lavoro che mi consenta di restare in Italia e, meglio ancora, a Ferrara. Amo questa città e la vita del mio quartiere. E’ davvero una città a misura d’uomo ed è questo che cercavo, assieme alla bellezza, e qui ho trovato anche quella. L’idea di Biagio Rossetti di unire città e natura è per me straordinaria. Inoltre mi piace lo stile di vita italiano; probabilmente sono affezionato a un’Italia che non c’è più, eppure riesco ancora a trovarne traccia. Huelva non mi manca anche perché la mia famiglia è di origine galiziana e in Andalusia non ho mai sentito di avere radici”.

Avete scelto l’Italia, siete fidanzati con ragazze italiane e non intendete tornare in Spagna. Le vostre famiglie come l’hanno presa?
“Mio padre – risponde Javier – era molto perplesso e quando partii per l’anno di Erasmus mi disse: ‘vedi almeno di imparare la lingua’. Ora hanno capito che non cambierò idea e hanno accettato la mia scelta”.

“Sono figlio unico – spiega Alvaro – e questo avrebbe potuto complicare le cose, ma ho sempre pensato che ciascuno abbia il diritto di trovare un proprio percorso. I miei hanno accettato la mia scelta”.
Mentre trascrivo questa nostra conversazione, Javier è già alla ricerca di lavoro nel Chianti e Alvaro ha imparato a condurre una gondola e a fare i cappellacci alla zucca alla ferrarese.

Javier e Alvaro (a destra) in direzione ostinata e contraria (foto di Nicolò Ferrara)

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Nostra signora (social) tv

Cosa significa televisione oggi? L’interrogativo è alla base di una recente ricerca commissionata dalla fondazione Rosselli. Emerge che ciascuno mediamente trascorre davanti alla tv ben quattro ore al giorno. Un consumo costante, reso possibile anche dall’utilizzo di ‘schermi’ alternativi al classico televisore: supporti e dispositivi mobili attraverso i quali seguiamo i programmi. Seguiamo e commentiamo. E’ proprio questa la novità segnalata dallo studio di Monica Sardelli e Federico Tarquini: l’interattività estesa alla tv, la possibilità dell’utente di trasformarsi da semplice spettatore a interlocutore, a dialogante. L’interazione si realizza attraverso semplici sistemi di accesso che consentono di formulare opinioni, domande, esprimere pareri, scegliere fra opzioni alternative. Succede ogni volta che attraverso il nostro smartphone o ipad o grazie ai nuovi televisori dotati di connessione web rispondiamo al sondaggio del tg di Sky o esprimiamo una preferenza per il cantante di X factor…

I media confermano ancora una volta la loro capacità di integrarsi, scrive al riguardo Alberto Marinelli. “E’ una cialtronata – ha ribadito, intervenendo a Perugia al festival internazionale del giornalismo – affermare che l’ultimo nato uccida il predecessore. La storia ha sempre dimostrato il contrario. Sono i gusti e le preferenze del pubblico a suggerire le trasformazioni e indurre il riadattamento dei mezzi”. Così, mentre tv e social communication si ibridano fra loro, stratificando il livello del messaggio, l’utente assorbe la modalità operativa del multitasking fino al punto da replicarla. Multitasking di fatto diventiamo anche noi quando laviamo i piatti mentre guardiamo Ballarò o chattiamo per scambiarci commenti sulla partita alla quale stiamo assistendo davanti allo schermo.

Il bisogno di socializzare e condividere invade e trasforma, dunque, anche il modo di fare e di fruire la televisione la quale, riadattandosi, ripropone il proprio ruolo di prioritario e pervasivo mezzo di intrattenimento. Contemporaneamente però il pubblico si sottrae all’inesorabile e incessante fluire dei palinsesti ed esercita ora, in virtù della tecnologia, la propria facoltà di scelta non solo sul ‘cosa’, ma anche sul ‘quando’, potendo recuperare e gestire i contenuti secondo le proprie priorità.
C’è quindi un tratto polimorfo nella nuova televisione che si accompagna a un maggiore potere di controllo e di scelta dell’utente, che proprio per questo oggi può pienamente definirsi tale.

Dalla parte di chi fa e produce tv resta il problema della misurazione, dell’ascolto. La discussa Auditel ormai può fornire solo una fotografia parziale. L’attenzione si sposta progressivamente sempre più sui riscontri offerti dalla ‘rete’. Questo apre un nuovo problema e prefigura un rischio: che pochi attivi divengano rappresentativi. Quel che sta accadendo è evidente nella dinamica innescata dai vari forum online, dai tweet, dai commenti resi attraverso Facebook che accompagnano le vicende quotidiane: l’espressione pubblica di gruppi pur minoritari, nel silenzio dei più, viene normalmente assunta come ‘sentire comune e diffuso’. E questo non solo nella loro forzata rappresentazione da parte dei media; spesso – in assenza di contraltare – anche ciascuno di noi emotivamente subisce la medesima suggestione.

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Guerre e violenza in Sud Sudan: 20 anni dopo le foto del Pulitzer restano ancora attuali

Il 14 aprile, a New York, sono stati annunciati i vincitori del premio Pulitzer 2014, il più prestigioso premio giornalistico statunitense. Tyler Hicks ha vinto il Pulitzer 2014 Breaking News Photography, con la sua immagine di una madre che protegge i propri figli sul pavimento di un caffè, durante un attacco terroristico al centro commerciale Westgate Mall di Nairobi, il 21 Settembre 2013.

Vent’anni prima, nell’aprile 1994, due immagini, altrettanto forti, avevano ottenuto il premio Pulitzer per la fotografia: quella del canadese Paul Watson per il giornale Toronto Star (miglior fotografia d’attualità) e quella del professionista indipendente sudafricano Kevin Carter (miglior fotografia giornalistica).

Watson era stato premiato per un’istantanea di un corpo di un soldato americano trascinato da una folle ostile lungo le vie di Mogadiscio. La sua diffusione televisiva aveva sbalordito l’America che, la sera della proiezione, probabilmente, si era interrogata se la presenza militare-umanitaria delle proprie truppe in Somalia valesse una tale umiliazione mondiale. Cosciente dell’impatto politico della scena e della sua possibile influenza su un eventuale ritiro anticipato delle truppe americane dalla Somalia, il settimanale Time decise di pubblicare l’integralità della documentazione.

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1994 Pulitzer Prize, Spot News Photography, Paul Watson, Toronto Star

Il secondo premio, quello attribuito a Carter, rappresentava, invece, una scena costruita, per quanto involontariamente. Scattata nel villaggio di Ayod, nel Sud Sudan, la fotografia mostrava una bambina famelica, raggomitolata con la faccia a terra, spiata da un avvoltoio appostato dietro di lei, molto vicino. La similitudine fra la posizione della piccola sudanese e quella dell’animale rafforzava la drammaturgia della scena: la preda e il predatore si osservavano in una stessa figura, come se la stanchezza della vittima avesse ricalcato la sua forma sull’attesa del rapace. Ci s’immagina il fotografo, appostato su un fianco, con il dubbio che sia lui stesso un “avvoltoio” che opera nel campo prediletto dell’azione fotografica dato da carestie, guerre e catastrofi. Il fotoreporter, quando non è accusato di “voyeurismo”, è, quanto meno, sospettato di freddezza verso l’orrore che svela (e a volte, pure, di duplicità se non, addirittura, di complicità. Ma Carter raccontava allora: “a circa 300 m dal centro di Ayod, ho incrociato una bambina al limite dell’inedia che tentava di raggiungere il centro di alimentazione. Ella era così debole che non poteva fare più di due passi alla volta, cadeva regolarmente all’indietro, cercando disperatamente di proteggersi dal sole coprendosi la testa con le sue mani scheletriche. Poi si rimetteva in piedi, difficilmente, con una piccola voce acuta. Sconvolto, mi ritiravo ancora una volta di poi dietro la meccanica del mio lavoro, assalito dalla polvere. Essendo il mio campo di visione limitato a quello del mio teleobiettivo, non ho notato il volo degli avvoltoi che si avvicinavano intorno, fino a quando uno di essi si è posato, apparendo nel mio campo visivo. Ho scattato, poi ho scacciato il rapace con un piede. Un grido saliva in me. Ho percorso 1 o 2 chilometri dal villaggio prima di scoppiare in lacrime”.

Annunciando il premio al telegiornale di France 2, giovedì 4 aprile 1994, la voce off del commentatore aveva esclamato: “come dire tutto in una foto!”

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1994, Pulitzer Prize, Feature Photography, Kevin Carter

La foto dell’avvoltoio che osserva la bambina, quasi ne aspetti la morte, fece il giro del mondo e, allo stesso tempo, dette vita a una serie di polemiche sul ruolo del fotografo nello scatto. La gente cominciò ad interrogarsi sul destino di quella creatura e sulla moralità della fotografia. Carter non fu mai chiaro su quello che successe al momento dello scatto e raccontò diverse versioni della vicenda. Certo è che lo scandalo mediatico che si creò turbò profondamente il fotografo che, tormentato dall’immagine della bambina che gli ricordava la figlia piccola che riusciva a vedere solo raramente, cadde in profonda depressione. Il fotografo, che aveva anche gravi problemi di droga, si suicidò nel luglio dello stesso anno.

Carver aveva voluto dimostrare, forse, che di fronte all’oppressione, alla violenza e ai crimini, nulla è peggio dell’assenza d’inchiesta e di testimonianze. Contro le atrocità è meglio un’immagine, indipendentemente dalla sua ambiguità, dalle motivazioni del suo autore e dal suo impegno, che nessuna.

Con una sola potente, scandalosa e forte immagine, che fa il giro del mondo, a volte, si può dire molto di più che con mille parole.

Il messaggio umanitario di questo Premio Pulitzer magari voleva essere unico e semplice: possiamo abbandonare le popolazioni del Sud Sudan agli avvoltoi ?

Nulla di più attuale.

Nella foto in evidenza: 2014, Pulitzer Prize, Breaking News Photography, Tyler Hicks, The New York Times

[L’articolo è anche su http://www.omero.it/omero-magazine/fotografia/a-ventanni-dal-premio-pulitzer-per-la-fotografia-guerre-violenza-e-sud-sudan-sono-ancora-tristemente-attuali/]

E il bancario lotta insieme a noi

Interessa molti, credo, il fatto che i lavoratori bancari, nella piattaforma per rinnovare il loro contratto nazionale, abbiano inserito le rivendicazioni specifiche dentro la proposta di un nuovo modello di banca, in grado di accompagnare la crescita economica del Paese.
In sostanza, tutti i sindacati di settore – la piattaforma è unitaria – chiedono di cambiare radicalmente orientamento: gli istituti di credito debbono passare dalla predominanza di erogazione di servizi finanziari, che li ha caratterizzati in questi ultimi anni, ad una politica di servizi avanzati per le famiglie, le imprese, il territorio. Il denaro, insomma, deve andare all’economia reale, e non fluire in quella virtuale dei prodotti più o meno sofisticati, non di rado pericolosi, che vengono scaricati sull’inconsapevole cliente.
In questo senso, e per raggiungere nuovi standard di qualità delle banche, vanno utilizzati sia i nuovi strumenti tecnologici, sia il personale delle banche che va formato e valorizzato, dando opportunità ai giovani, il tutto per instaurare un rapporto di fiducia con il cliente.
Il contratto, secondo alcune fonti (soprattutto la Fabi, il maggior sindacato di categoria) sarebbe in dirittura d’arrivo. Vedremo se l’Abi, l’associazione delle banche italiane, saprà dare risposte credibili: a lungo ha opposto soltanto la necessità di ridurre i costi per via delle crisi, tagliando gli organici.
Va rilevato comunque che in questa posizione del sindacato c’è una forte responsabilità, che ha cancellato molti pregiudizi sulla realtà del settore. Chiamare il mondo del credito ad impegnarsi per fuoriuscire dalla crisi è un atto importante, e il sindacato ha dimostrato in questo caso di saper proporre soluzioni concrete, valide per la collettività, non corporative.
Dovrebbe succedere sempre più spesso anche in altri settori, a cominciare da quello della pubblica amministrazione, dove numerosi sono i problemi ancora irrisolti, per primo quello della burocrazia e dell’inefficienza. In tal modo il sindacato sarebbe spinto a fuoriuscire da una crisi di identità e di ruolo neanche tanto velata. Ma questa è un’altra storia.

Liberare le parole da una scorza vecchia

E’ utile un lavoro sulle parole-chiave che danno senso alla nostra esistenza per sottrarle ad un uso corrente che le ha banalizzate, o per liberarle da una scorza vecchia che le ha fossilizzate.
Prendiamo in considerazione due parole importanti: valori e persona. Al termine tradizionale valori affiancherei valorazione. La valorazione è azione per un valore; è il richiamo al processo che crea di continuo valori. Valori, invece, evoca qualcosa di fisso, rigido, definito come una specie di catechismo o prontuario preciso e dato una volta per tutte da applicare e in cui credere. La modernità ha messo in crisi la nozione di valore come essenza immutabile e ha evidenziato la pluralità dei valori in continua formazione. La mancanza di valori è nell’indifferenza, non nella pluralità. Se l’altro vive secondo valori diversi dai miei, non vuol dire che non ci sia nessun valore, ma che ci sono più valori. Permane qualcosa di primitivo del clan nel profondo della modernità quando si tende a considerare valori esclusivamente quelli in cui si crede. Anche l’uomo più progredito conserva nel suo profondo un desiderio di assoluto come istintiva necessità di difesa e sicurezza. Ma, nel tempo della pluralità, trasformare i valori in tavole della legge immutabili per metterli al riparo dalla crisi è progetto destinato a fallire. Per questo non comprendo la dottrina della Chiesa cattolica quando parla di valori non negoziabili. In fondo in che cosa consiste l’etica se non in un lavoro continuo di formazione e aggiornamento dei valori? Quindi, attenzione a non insistere solo sulla scelta dei valori in cui credere, trascurando il lavoro di valorazione che ciascuno deve fare. Il valore implica questa sequenza continua: costruzione-scelta-esperienza-dialogo; per cui la decisione non è un semplice decidere tra opzioni, ma un processo continuo che porta al decidersi. E l’impegno etico autentico è sia dominato dalla situazione in cui il soggetto si trova ad operare, quanto teso a dominare la situazione medesima. Dentro questa dialettica ognuno di noi sperimenta un conflitto di doveri che è la vera scuola in cui si forma l’io morale. L’assenza di risposte risolutive deve costituire l’energia per tenere aperta la ricerca e non essere vissuta come una diminuzione o un ostacolo fastidioso. Solo in questa ottica il relativismo dei valori ci appare non un nichilismo disperato, ma come relazione tra valori diversi.
Il medesimo approccio andrebbe usato verso la parola persona. Persona ha un significato nobile ma statico, perché evoca qualcosa di compiuto che, invece, va spiegato. Personalità è la persona colta nella sua mancanza in cui trova giustificazione il suo faticoso formarsi. Dire personalità significa vedere la persona in movimento che mediante un’energia unificatrice costruisce equilibri instabili passando attraverso prove ed esperienze. Si potrebbe paragonare il percorso esistenziale ad un vero e proprio viaggio di Gulliver.
Conclusione. Come diceva Schopenhauer l’etica deve liberarsi dal complesso del Sinai, cioè essere concepita come un decalogo. Che qualcosa sia un valore non lo decide una tavola della legge, ma lo dice la sua qualità che deve tendere ad un’espansione della vita di tutti. La morale è esperienza sempre sottoposta a verifica con gli altri. Se esisto devo coesistere: questa è la radice di ogni morale. L’etica della responsabilità trasforma il fatto normale di coesistere nell’impegno consapevole del coesistere. Il passaggio a questo dovere è opera della personalità che è la persona cosciente del suo farsi continuo mediante l’educazione e l’autoriflessione. Di un commosso e intenso necrologio di Sartre scritto per la morte di Andrè Gide (marzo 1951) riporto la conclusione che sintetizza bene il senso di questa nota: “Ogni verità è divenuta. Ce ne dimentichiamo troppo spesso. Guardiamo il risultato e non la via percorsa. Consideriamo l’idea come un prodotto finito e non ci accorgiamo invece che è una lenta maturazione, un seguito di errori necessari che si vanno correggendo, di visioni particolari che si completano e si ampliano.”

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Istruiti per una cittadinanza planetaria

Studiare per il mercato? E se imparassimo a studiare per noi stessi, per difendere non solo i nostri diritti ma anche e prima di tutto la nostra vita? In realtà noi studiamo come consumare la vita, non come difenderla, preservarla, migliorarla. Dico la vita e non l’esistenza, perché per esistere si può fare in tanti modi. Ma il vivere è uno solo. Se lo studio è partecipazione alla cultura della specie cosa serve se domani la specie non c’è più, è destinata a scomparire? In questa frenesia a rendere tutto globale per l’interesse di pochi che arricchiscono fuori d’ogni misura, cosa c’è di più globale della qualità delle nostre vite personali, individuali, singole vite identiche di chi sta fianco a fianco nell’abitare questo mondo, al momento ancora glocale?
Tra le varie carte che noi umani scriviamo ce n’è una, visto che abbiamo appena celebrato la giornata mondiale della Terra, che è più Magna delle altre: la Earth Charter, la Carta della Terra. Ha la sua bella e accattivante origine proprio all’inizio di questo nuovo millennio, nel Palazzo della Pace all’Aia. È una carta etica, una proclamazione di intenti etici, un impegno morale che tutti quelli che condividono l’umana avventura dovrebbero onorare.
Per Joel Spring, pedagogista statunitense, docente al Queens College di New York, alcuni principi proclamati dalla Carta della Terra dovrebbero costituire il cuore di un curricolo scolastico di dimensione mondiale, il cui scopo non sia il mercato, bensì quello di perseguire un futuro di benessere per l’umanità. Del resto anche Edgar Morin, il filosofo sociologo francese, ha già da diversi anni lanciato questo appello con il suo Terre-Patrie.
Un curricolo scolastico urgente da realizzare, se prestiamo fede al preambolo della Carta. Ci avverte che stiamo attraversando un momento critico della storia della Terra, un tempo in cui l’umanità è chiamata a scegliere il suo futuro. Il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, riservando grandi pericoli, ma anche grandi promesse.
Partendo dai principi proclamati dalla Carta della Terra è possibile scrivere un curricolo comune a tutte le scuole del mondo, che istruisca le nuove generazioni ad esercitare una cittadinanza planetaria attiva e responsabile. Non si tratta di tracciare un percorso genericamente lastricato di buone intenzioni ecologiche, come è ancora nella pratica didattica delle nostre scuole, ma di scrivere un curricolo in grado di istruire generazioni di umanità nuova, di nuovi cittadini della Terra.
Istruire, perché i seguenti principi, proclamati dalle nazioni della Terra all’Aia nel 2000, non continuino a restare sulla carta, ma possano farci nutrire la speranza che un giorno si traducano in realtà:

1. Garantire l’accesso universale all’assistenza sanitaria in grado di promuovere la salute e la riproduzione responsabile.
2. Adottare stili di vita che enfatizzino la qualità della vita e un uso delle risorse adeguato a un mondo finito.
3. Promuovere la distribuzione equa della ricchezza tra le nazioni e al loro interno.
4. Sostenere il diritto di tutti a ricevere informazioni chiare e tempestive sulle questioni ambientali e su tutti i piani e le attività di sviluppo che possono incidere sulla vita di ciascuno.
5. Fornire a tutti, soprattutto ai bambini e ai giovani, le opportunità educative che li rendano capaci di contribuire attivamente allo sviluppo sostenibile.
6. Promuovere il contributo delle arti e delle scienze umane, nonché della scienza, all’ educazione alla sostenibilità.
7. Smilitarizzare i sistemi nazionali di sicurezza e convertire le risorse militari per scopi pacifici, tra cui il recupero ecologico.

Probabilmente il primo principio in materia di “riproduzione responsabile” solleva qualche reazione religiosa a causa delle implicazioni legate al controllo delle nascite. Tuttavia, l’effetto della riproduzione umana, in particolare l’aumento a spirale della popolazione mondiale, ha un impatto sulle questioni ambientali che va dalla disponibilità di risorse naturali fino al trattamento dei rifiuti. I contenuti dei nostri saperi si modificano, si arricchiscono, i cittadini della Terra di domani, che sono gli studenti d’oggi, hanno necessità d’ essere istruiti circa gli effetti prodotti dalla dimensione della popolazione umana sull’ambiente. Conoscere ciò che, se necessario, deve essere fatto per controllare la crescita della popolazione.
Il secondo punto, gli stili di vita. La felicità umana, la longevità sono le nostre aspirazioni, non i consumi di mercato. Occorre uscire dalle ambiguità. Almeno la scuola ha questo dovere in assoluto. Acquisire solide competenze su questo terreno è indispensabile, c’è un imperativo morale, fare in modo che le nostre ragazze e i nostri ragazzi apprendano attraverso la scuola gli strumenti per rivendicare e considerare imprescindibili gli stili di vita che sono indispensabili a proteggere la biosfera. Il terzo principio nella lista è il più importante perché le disuguaglianze uccidono ogni aspirazione individuale al benessere e alla felicità. Sebbene la realtà ogni giorno ci smentisca, dobbiamo affidare alle nuove generazioni il grande ideale umano di sconfiggere le iniquità. La questione della cattiva distribuzione della ricchezza fa sì che pochi speculino sull’uso delle risorse a danno di tutti gli altri e soprattutto del destino delle future generazioni. Il quarto principio è il cardine della conoscenza, l’ossigeno della consapevolezza, poiché è essenziale per qualsiasi cittadino, studente o insegnante avere un tempestivo accesso alle informazioni in materia ambientale. Il quinto principio elencato sostiene l’insegnamento della responsabilità etica, che devono condividere i cittadini della Terra, di proteggere la vita umana e la felicità di ognuno. Il sesto principio riflette l’approccio olistico alla conoscenza, l’idea di un curricolo integrato, dove i saperi volti a tutelare l’uomo, la sua vita, il suo ambiente siano fortemente interrelati in ogni percorso formativo. E, naturalmente, il soggetto dell’ultimo principio, la guerra. L’attività umana più distruttiva, che minaccia con la sola sua ombra la durata e la felicità di ogni vita individuale. Ce n’è abbastanza per scrivere un curricolo che ponga al centro l’uomo e il suo abitare la Terra, un curricolo le cui ragioni sarebbero state impensabili da John Dewey a Paulo Freire.

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Buon compleanno Cinecittà, Google celebra i suoi 77 anni

di Claudia Balbi

Sono tempi strani questi nostri. L’anniversario della nascita di Cinecittà, laddove negli anni sono stati girati migliaia di chilometri di celluloide che hanno fatto grande la storia del cinema italiano e non solo, oggi ce lo ricorda Google, motore di ricerca americano con un doodle, un disegno con i set di posa romani stilizzati, che riproduce la scritta del colosso di Mountain View.

Era il 28 aprile del 1937 quando Benito Mussolini fece il suo ingresso trionfante a Cinecittà nell’allora quartiere del Quadraro. Le riprese dell’Istituto Luce rimandano ad un clima di festa orgogliosa. L’apertura del complesso cinematografico romano infatti rispondeva al programma politico-culturale fascista. Un ottimo strumento di propaganda. “Il cinema è l’arma più forte” lo slogan mussoliniano.

La nascita di Cinecittà rappresentò inoltre un segnale di ripresa dell’industria cinematografica che, dopo la crisi degli anni Venti, dalla sua città natale, Torino, si spostò all’ombra del Colosseo dove iniziò una rapida ascesa, fino a che la Guerra non le mise un freno.

Danneggiato dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, il sito fu utilizzato come un campo per sfollati riuscendo ad accogliere fino a 3.000 rifugiati. Poi con il boom economico degli anni Cinquanta gli studi tornarono in piena attività e furono utilizzati come location di film d’eccezione come Quo vadis e Ben-Hur, che contribuirono a dare vita al mito della città del cinema.

Oggi, dopo una serie di vicende alterne, fatte di rilanci, privatizzazioni, tagli e proteste dei lavoratori, i teatri di posa funzionano ancora e dopo 77 anni Cinecittà è passato ad indicare l’intero quartiere che corre lungo Via Tuscolana.

[© www.lastefani.it]

Leggono in classe romanzo gay, denunciati i professori

di Irma Annaloro

Alcuni professori di uno degli storici istituti della capitale, il liceo Giulio Cesare, sono stati denunciati per aver fatto leggere in classe un passo tratto dal romanzo di Melania Mazzucco ‘Sei come sei’. Tutta colpa del contenuto di quel brano incentrato sul tema del sesso tra gay e che in particolare tratta di un rapporto orale consumato in uno spogliatoio. L’iniziativa che non deve essere piaciuta ai genitori degli studenti che hanno contattato l’Associazione Giuristi per la Vita e l’Associazione Pro Vita Onlus e hanno sporto denuncia presso la Procura di Roma. Nella segnalazione si legge che “gli allievi in questione hanno un’età compresa tra i 14 e i 16 anni”. Stando a quanto scritto, i reati ipotizzabili sarebbero corruzione di minore e divulgazione di materiale osceno.
Secondo i genitori che hanno segnalato il caso, gli alunni del ginnasio romano “sarebbero stati obbligati a leggere il romanzo a forte impronta omosessuale” sottolineando che “alcuni passi rivelano, in realtà, un chiaro contenuto pornografico”. Una vicenda finita sotto i riflettori dopo le polemiche che i giorni scorsi hanno colpito un altro istituto superiore di Reggio Emilia dove l’Arcigay aveva organizzato un corso che, secondo la denuncia del consigliere di Forza Italia, Fabio Filippi, doveva servire a “sensibilizzare gli studenti sul tema dell’omofobia, poi però la lezione si è trasformata in uno squallido corso di educazione al sesso fra gay, propaganda all’ideologia gender e del matrimonio omosessuale”. Il caso è stato sollevato dal quotidiano Libero che ha riportato i contenuti di un pieghevole, pieno di informazioni su diverse pratiche sessuali, distribuiti agli adolescenti della scuola.

Paolo Ravenna: quelle lezioni a casa Bassani dove si respirava cultura e libertà

In occasione della Festa del libro ebraico, proponiamo integralmente il discorso pronunciato da Paolo Ravenna nel maggio 2009 il giorno della posa della targa commemorativa dedicata a Giorgio Bassani, posta dinanzi alla sua abitazione di via Cisterna del Follo a Ferrara. Si tratta di un documento inedito proveniente dall’archivio privato.

Sono qui oggi, ma mi riporto col pensiero a 70 anni fa. Permettetemelo. Tanti ne sono passati, e forse sono l’ultimo allievo a poter rivivere quella realtà lontana in questo stesso luogo.
Qui, durante la guerra, venivo quasi tutti i giorni a lezione da Bassani con altri due amici, Jenny, sorella di Giorgio, e Roberto Ravenna (non mio parente). Facevamo la seconda liceo, privatamente, in quanto allontanati dalla scuola pubblica perché ebrei.

La lezione si teneva nello studio di Giorgio a piano terra ma tutt’attorno sentivamo il respiro della grande casa. Quella casa illuminata dalla presenza della signora Dora, madre di Bassani, del padre dottor Enrico e di Jenny. Suonavamo, e ci apriva il portone il vecchio custode, mi pare di nome Podetti, e subito incontro arrivava festosa Lulù, la vivace cagnetta amatissima anche da Giorgio.

Una casa ampia, dicevo, dal raffinato gusto borghese, silenziosamente accogliente, ove si respirava l’antica aria di una famiglia ebraica ferrarese benestante, una di quelle tanto presenti nell’opera di Bassani.

Ma per noi importante era quella porta, subito a destra nell’androne (ora muro cieco), da cui si entrava nello studio di Giorgio. Una stanza con libri, quadri, carte, tutto ordinato, come lo ricordo ancora oggi. Con l’ampia finestra dall’inferriata bombée che dava sulla strada. Qui ci siamo formati. Noi tre. Jenny, Roberto ed io. In un ambiente tutto particolare, ovattato, quasi isolato dal mondo. Immediatamente fuori gravava l’atmosfera della guerra, il fascismo, un clima per noi ostile, la lunga incognita del futuro… Eppure la cospirazione in quella stanza vi era, eccome, ma noi tre la intuivamo soltanto.

Ecco dove Bassani apriva a noi giovani – sin qui immersi negli slogan del regime – un mondo ignoto. Quello della libertà. Una nuova cultura laica, democratica, liberalsocialista che Giorgio ci spiegava accompagnandoci con passione alla scoperta dei valori della storia, dell’arte e delle lettere. Sarà il germe di quell’impegno civile che, a Italia liberata, coinvolgerà tanti di noi. Ma altri ne parleranno dopo di me.

Io desidero rimanere ancora qui. Entrare in questo portone, vedere oltre la vetrata, con lo sfondo del giardino, quella magnolia che ricordo appena piantata nel ‘39, avendo accanto a me Roberto, con il quale, quasi tutti i giorni, arrivavo in bicicletta dal centro della città. Diciassettenne anche lui, un’amicizia di due giovani che insieme scoprono la vita, con il privilegio di una guida sicura e illuminata che ci indica la lunga strada che avremmo dovuto ancora percorrere.

Con Roberto, intelligenza fervida, promettente poeta, incoraggiato nello scrivere proprio da Giorgio, ci siamo salutati l’ultima volta – ormai entrambi in fuga – nell’ottobre ’43. Io mi salvo, lui viene ucciso con il fratello ed il padre ad Aushwitz nel gennaio del ’45, pochi giorni prima della liberazione. La sua strada si è fermata lì.

Ecco, credo giusto che proprio qui, oggi, si ricordi anche il nome del giovane poeta sconosciuto ai più, accanto a quello del suo famoso insegnante. Sono sicuro che Giorgio assentirebbe. Con un semplice cenno, come faceva lui quando era toccato nel profondo.

In seguito, passata la bufera, la casa rimane per me il centro di una lunga amicizia per tutti gli anni successivi. Scompare la signora Dora, ormai lontani i figli, Giorgio torna spesso a Ferrara, in via Cisterna del Follo, e sottolineava 1, per respirare l’aria della famiglia, per seguire la “patria” come amava dire, per scrutare il suo mondo fino a quando potrà.
Non posso dimenticare il costante legame che lo univa a Beppe Minerbi. Il “creatore” di un’altra prestigiosa casa, idealmente legata a questa, quella in via Giuoco del Pallone 15. Via Cisterna del Follo-via Giuoco del Pallone, il fascino della toponomastica tanto sentito da Bassani.

Infine, tra i tanti, due veloci ricordi più vicini a noi:
Poche ore prima della Laurea ad H., Giorgio è qui nel piccolo appartamento riservatosi sul giardino, attorniato da vecchi amici che vuole vicini in quel momento. Vedo Claudio Varese, Franco Giovannelli, Mario Pinna e altri che dimentico. Altro ricordo degli anni ’90 quando, a conclusione di un giro per Ferrara alla scoperta dei luoghi inediti dell’ebraismo tanto bassaniani, egli saluta gli amici del FAI, venuti da Bologna e da Venezia, seduto sotto la magnolia e intreccia un dialogo (purtroppo non registrato) sull’ambiente che è suo, sul suo mondo.
Oggi quell’ambiente lo ricorda al passante la lapide, sobria come avrebbe voluto lui, scoperta in una calda giornata ferrarese, un segno definitivo come le sue pagine… assoluto, direbbe ancora il Nostro.

Paolo Ravenna
Ferrara, 26/05/2009

[Documento inedito proveniente dall’archivio privato]

Turismo per tutti, la sfida dell’accessibilità

Da invivibili ad accessibili. Sono le città per tutti, attente ai bisogni più diversi, alle forme di disabilità, ma anche alle esigenze di chi deve muoversi con un passeggino o una carrozzina per strada, in un albergo, in un agriturismo senza faticare più di tanto. In città, al mare e in montagna. Non a caso Roberto Vitali, presidente di Village4All il marchio turistico internazionale nato per certificare l’accessibilità delle strutture ricettive, ama ripetere che le necessità di una persona con bisogni diversi sono simili a quelle di un bambino. Negli anni l’idea illuminata di Vitali, il primo ad aprire a Ferrara l’Informa Handicap, si è trasformata da visione futuribile a idea vincente tanto da fruttare a V4A e all’applicazione omonima, arricchita dal termine inside, due riconoscimenti prestigiosi nell’ambito degli Untwo Awards promossi dall’Organizzazione mondiale del Turismo delle Nazioni Unite.

Innovazione, tecnologia ed etica del turismo sono alle base di entrambi gli oscar, ma c’è ancora molto da fare. “L’idea era condivisibile, lo testimoniano i premi, ma soprattutto le esigenze di un turismo globale che si sta muovendo in questa direzione – spiega Vitali – Il turismo accessibile è un tema sul quale sono chiamati a lavorare tutti i paesi. C’è chi sta muovendo i primi passi e chi, come noi, ha già fatto un pezzetto di strada”. Reduce da Gitando, il salone vicentino del turismo e delle vacanze, dove Vitali ha moderato la quarta edizione del Meeting Internazionale di Turismo Accessibile, ricorda come le vacanze per tutti siano da una parte sintomo di progresso e dall’altra fonte economica di grande importanza. Due facce della stessa medaglia, che nella tutela dell’ambiente e delle sue risorse, trovano la ragione di un nuovo e moderno impulso sponsorizzato dall’Europa.

Nel giorno del Tourism Day 2013, l’accessibilità turistica è stata assunta come un valore da promuovere nel segno della qualità. Se la svedese Gothenburg si è ritagliata il primo posto tra le città per tutti, le altre ne devono seguire l’esempio, magari allineandosi ai consigli europei pensati per imprenditori e operatori turistici. Il segreto, sostiene la Commissione europea, non sta solo nell’eliminazione delle barriere architettoniche ma nella capacità di cogliere il business e la sua utilità; di conciliare l’innovazione alle richieste di un mercato in espansione. “Nella sola Europa il turismo per tutti riguarda ben 127 milioni di persone, un giro d’affari che si attesta intorno ai 90 miliardi di euro – spiega Vitali – L’Italia ha 4 milioni di potenziali ospiti, un indotto di 5, 6 miliardi, si capisce bene l’importanza di mettere a punto una dimensione turistica accessibile il più ampia possibile. Il mercato del turismo accessibile vale fino al 20% del Pil turistico di ogni Paese della Ue”.

Numeri a nove zeri di cui tenere conto. “Il tema dell’accessibilità, anche a livello locale, è stato percepito come una necessità. I risultati ottenuti con Rimuoversi in Centro, l’iniziativa promossa da Ascom e Confcommercio per rendere il centro storico più amichevole e accessibile fin dai suoi arredi, ha visto una grande partecipazione”, continua Vitali, consigliere Ascom, del Consorzio Visit Ferrara e consulente. “Metterla in campo ci ha permesso di abbozzare le basi per una progettazione europea alla quale il Comune è interessato – spiega – In un certo senso la crisi ha spinto anche i commercianti a interrogarsi sulle modalità di affrontarla, molti si sono resi conto di quanto sia importante dare attenzione a tutti i clienti. Tutto questo, produce economia e inclusione”. A Ferrara, come in ogni altro luogo.

“Tutte le strutture garantite dal marchio V4A hanno generato una crescita del giro d’affari che va dal 10 al 20 per cento – conclude – Come è ovvio tutto dipende dall’impegno di chi ci lavora”. E anche dall’attenzione delle istituzioni, la Regione Veneto ha fatto dell’accessibilità un tema forte della propria strategia turistica. E’ la regione più visitata, 63 milioni di presenze, un primato tale da spingere l’assessore regionale Marino Finozzi a illustrare durante il Tourism Day 2013 l’impatto economico delle vacanze alla portata di tutti. E’ giusto e conviene assecondare le necessità imposte dallo stato fisico e dalla salute, comprese quelle alimentari. Un numero sempre maggiore di persone in tutto il mondo soffre di allergie e intolleranze, è il continuo insorgere dei casi a chiedere risposte. Per tutti.

Da Weisz a Pandolfini, quando il calcio fa scuola

di Andrea Piana

Cosa hanno in comune Arpad Weisz, Egisto Pandolfini, Roberto Luis La Paz e Jarbas Faustinho Cané? Sono i protagonisti di storie incredibili, storie di calcio e discriminazione, ma anche di integrazione e intercultura nel nostro Paese. Storie purtroppo spesso poco conosciute, ma che da oggi potranno uscire dall’anonimato, grazie al “Calciastorie”, il progetto nato dalla collaborazione tra Lega A, Uisp, Ministero del lavoro, Aic e Sky sport, che porterà nelle scuole racconti che avranno come filo conduttore il gioco più bello del mondo. Obiettivo, la promozione dei valori dell’integrazione e della tolleranza tra le nuove generazioni. Il progetto è stato presentato nel liceo sportivo San Vincenzo De’ Paoli.

Attraverso ricerche d’archivio, interviste e materiale multimediale verranno narrati singoli episodi o intere esistenze di calciatori, allenatori, club che hanno affrontato diverse forme di discriminazione. Le storie saranno alla base di percorsi di formazione e sensibilizzazione dei ragazzi delle scuole secondarie delle città della Serie A Tim e per la realizzazione del progetto saranno utilizzati i fondi derivanti dalle sanzioni irrogate dal giudice sportivo durante il massimo campionato.

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Arpad Weisz

E la prima storia del progetto non poteva essere che quella incredibile sulla vicenda di Arpad Weisz, l’allenatore ungherese di origini ebraiche, che guidò l’Inter di Giuseppe Meazza e il favoloso Bologna degli anni ’30, “lo squadrone che tremare il mondo fa”. La vicenda di Weisz, deportato ad Auschwitz, dove morirà nel 1944, è ormai conosciuta sotto le Due Torri grazie allo straordinario libro di Matteo Marani, direttore del Guerin Sportivo, che ha ricostruito davanti ai ragazzi del liceo S. Vincenzo, le incredibili (e purtroppo tragiche) disavventure di quello che è considerato l’inventore del calcio moderno.

Forse meno conosciuta è la storia di Egisto Pandolfini, nazionale italiano nei sfortunati mondiali del 1950 in Brasile e uno degli ultimi testimoni del viaggio che la nazionale italiana fece a bordo della Sises, la leggendaria nave che portava i migranti italiani in Sud America. Durante la traversata gli atleti erano rigidamente controllati dagli accompagnatori, anche per evitare contatti con i viaggiatori dei piani inferiori. E la testimonianza di Pandolfini, è uno straordinariato spaccato sull’emigrazione italiana degli anni ’50.

O la storia di Roberto Luis La Paz, uruguayano e primo calciatore nero della Serie A, che giocò per due anni nel Napoli, dal 1947 al ’49. Lo stile di vita sregolato influenzò il suo rendimento come calciatore, e La Paz, complice anche la retrocessione dei partenopei in serie B, non godette dei favori del pubblico e soprattutto della stampa. In un articolo della “Gazzetta dello sport” di quegli anni si leggono commenti del tipo “movenze da negretto”. Forse anche per questo La Paz decise di abbandonare l’Italia e, dopo una carriera scadente tra Olympique Marrsiglia , Montpellier e Monaco, l’uruguagio finì per fare lo scaricatore al porto di Marsiglia, facendo perdere le sue tracce. Ancora oggi di lui non si sa se sia ancora vivo.

Ma Napoli è stata anche la città che ha ospitato il primo allenatore di colore della serie A (molto tempo prima quindi, di Clarence Seedorf, con buona pace di Galliani…), guidando i partenopei nella stagione 1994/95, in coppia con il direttore tecnico Vujadin Boskov.

“Calciastorie è un progetto ancora in fase di messa in opera e si basa essenzialmente su due temi: la memoria e il racconto. Questo perché anche per lo sport e per i calcio vale il discorso che se non si conosce da dove si viene, si fa fatica a sapere dove si sta andando”, il commento Marco Brunelli, direttore generale della Lega Serie A. “Sono convinto che i comportamenti incivili che vediamo negli stadi, le scritte razziste, siano dettati principalmente dall’ignoranza: il recupero della storia, anche sportiva, può servire anche a combattere questi fenomeni”.

“Nei primi anni del terzo millennio sono venute in Italia 5 milioni di persone e nel nostro Paese – caso unico nel mondo- ci sono 142 comunità di stranieri. E perciò parlare di sport e integrazione in un periodo storico come questo è fondamentale”, chiarisce Natale Forlani, direttore generale del Ministero del lavoro. “É un dato di fatto che lo sport abbia sempre anticipato i percorsi storici, perché i valori che lo animano sono di appartenenza. Quando George Weah giocava nel Milan, i tifosi rossoneri non vedevano il suo colore della pelle, ma erano ammirati dalle sue prodezze”.

Nella videointervista, Matteo Marani, direttore del Guerin sportivo, parla di Arpad Weisz

[© www.lastefani.it]

ELOGIO DEL PRESENTE
Fidanzata psicopatica

Più di 80.000 fan su Facebook, più di 12.000 follower su Twitter, Fidanzata Psicopatica (così si intitola un profilo di Facebook) sembra uno dei personaggi più amati dalle giovani donne sui social network. Dietro la maschera della compagna più aggressiva del web si nasconde (neanche tanto, a dire il vero) una giovane stilista, Selene Maggistro, che ha trovato una formula efficace per fare self branding, come si dice con un’espressione ormai gergale.
Il personaggio affronta con ironia e aggressività questioni universali con cui le donne hanno fatto i conti in tutti i tempi: gelosia, competizione, desiderio di possesso e di trasgressione, libertà e subalternità a modelli di ruolo. Così Selene descrive le nuove armi della seduzione odierna: tacchi a spillo e coltello in borsa (termini suoi), intelligenza e make up (direi io). È questo mix di nuovo e di tradizionale che consente una così larga identificazione.
Ma perché questa pagina ha riscosso tanto successo sui social media? In un’intervista a Linkiesta (quotidiano online che approfondisce fatti e notizie su politica, economia, società e ha riscosso un ampio successo), Selene – un lavoro vero, ma scrittrice per passione – afferma: “ci sono donne che mi mandano dettagliati resoconti della loro vita intima pur di sapere cosa farei io”. Le domande riguardano, ovviamente, consigli su come fronteggiare le relazioni sentimentali. La gelosia sembra il sentimento più diffuso nel tempo della rete. Per molte ragioni: la libertà di esplorazione che sfugge ad ogni controllo, il confronto permanente con immagini idealizzate, il gioco di seduzione che si affida ad un’ostentata disponibilità fuori da ogni vincolo (e fatica) della vita quotidiana. La gelosia sembra essere il più universale sentimento con cui, paradossalmente, queste nuove meravigliose creature debbono fare i conti.
Le ragazze (ma non solo) sono alla ricerca di modelli di identificazione e di consigli adeguati a questo tempo di transizione. Li cercano in un presente in bilico tra passato e futuro, in comportamenti che è difficile ricondurre alle categorie con cui avevamo ragionato in passato di identità di genere. Modelli paradossali di donne libere nei comportamenti sessuali, nella possibilità di gestire la propria vita e il proprio tempo e così schiacciate sul rispetto di posizioni femminili per molti versi subalterne. Ma sarebbe un errore classificare questi modelli in termini regressivi: l’uso di armi di seduzione apparentemente tutte giocate sul corpo si associa ad una sostanziale aggressività verso i maschi, un senso di superiorità e di dominio. Molte donne blogger discutono di amore e lavoro, di rapporti tra i generi, di politica e cultura, mescolando temi e toni con ironia e scherno, arguzia e intelligenza.
Tutto ciò avviene in un contesto di comunicazione “pubblica”, con un gioco di reciproco specchio tra i propri comportamenti e quelli altrui. L’identità di queste giovani donne si costruisce attraverso un confronto interno alla loro generazione, il modello delle madri sembra non rappresentare né un riferimento né un problema. Scrivono sulle pagine di Facebook come un tempo le nonne (le loro mamme non avevano tempo) scrivevano sul diario. E che male c’è se la privacy, come l’amore, non è più quello di una volta? Il problema è un altro. L’accento sulla propria peculiare identità non è mai stato così forte e, nel contempo, non è mai stata così pressante la ricerca di modelli comuni a cui aderire e uniformarsi.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

I sentieri irti della crescita

Ognuno di noi sa che deve percorrere duri sentieri per arrivare in vetta, e se fa anche della montagna non può che essere d’accordo.
Quando si partecipa a un master sull’Europa, sugli effetti che ha procurato la moneta unica da una decina d’anni e più, sente che il relatore utilizza la metafora della montagna, di una catena di montagne e di tante persone che, con lo zaino sulle spalle, si incamminano su per i sentieri, sapendo che, primo a poi, arriveranno in cima.
In quei corsi si diceva che il cammino poteva essere irto, con molti tornanti, alcuni rivoli d’acqua e belle cascate, un laghetto, un piccolo altopiano, un pendio ripido, tanto verde, alcune panchine, un contesto anche bello da vedere con il sole, un po’ meno con la pioggia, se poi c’è la neve il tutto si complica.
Bel discorso, anche interessante, ma non siamo al Cai, si replicava! Chi stava al gioco aggiungeva: “Ci sarà almeno una baita, uno strudel, una piccola sosta anche per ripararci”; da dietro al tavolo un sorriso e la lavagna luminosa proiettavano le Dolomiti.
Ma dopo le Dolomiti le slide illustravano un uomo, di mezza età, vestito in tricolore, con uno zaino consistente e abbastanza rumoroso al suo interno, dal quale ad un certo punto è uscito il nostro Paese con tutti i suoi problemi: la busta paga, la fattura, la catena di montaggio, una vanga, un libro, una giovane disoccupata, una bolletta, un paio di calze, una mela, un biglietto del bus e… tanto altro.
La vera difficoltà era rimettere il tutto in ordine, il vento non ci aiutava nella raccolta, dopo un po’ tutto rientrò nello zaino ma non mancarono alcuni rumori, uno sciopero, una dogana che ti controllava la commessa, il preziario contestato, una pratica edilizia ancora ferma, la pagella del figlio, il dépliant delle vacanze e altro.
Ma cosa centra tutto questo con l’Europa delle nazioni, con l’euro, con Bruxelles, con la Pac, con la fiscalità, con il debito ed il deficit?
Una parabola, una raffigurazione dinamica, non certo la montagna delle Scritture, sicuramente un approccio anche didattico e, soprattutto, indicazioni per come percorrere i sentieri, come l’Italia dovrà attrezzarsi per percorrere un cammino lieve, sereno, attento, interessato, fino ad arrivare lassù e vedere l’orizzonte sopra le nuvole. Poi, girandosi attorno, incontrare con la vista, le altre cime, la Francia, la Germania, il Portogallo, la Gran Bretagna.
E se mentre arrivi sopra, trovi che altri sono arrivati prima di te, altri stanno ancora salendo e li vedi affrontare il penultimo tornante, altri ancora riposarsi sull’altopiano sottostante, e gli ultimi a bere alla baita? Forse vuol dire che potevi fare meglio e che le turbolenze nello zaino (una certa contestazione, alcune ingiustizie, i diritti e le libertà, i privilegi e le burocrazie, il lavoro, ecc.) sono sempre ed ancora in atto.
La saletta del master, circa 26 corsisti, molti di qualità e con una buona formazione, sembrava fiduciosa e tutti avevano capito quale doveva essere la direzione di marcia.
Molto dipende da noi, si dicevano, dai nostri comportamenti, dalle nostre solidarietà, da come saremo governance dello zaino, dall’essere Paese e comunità più vasta.

Poi arrivavano le 10.30, l’ora del coffee break e, tra un sorso e l’altro, si commentava: “Questa è l’Europa che vogliamo, almeno in molti.”

Tassinari, il maestro flautista di Santa Cecilia che formò Gazzelloni

“MUSICI” FERRARESI DEL SECONDO OTTOCENTO
Arrigo Tassinari

Nato a Cento, Arrigo Tassinari (1889-1988) fu il flautista prediletto di Toscanini. Con il grande maestro egli suonò alla Scala fra il 1921 e il 1933, diventando uno dei suoi collaboratori più fidati ma non esitando a definirlo «buono e generoso quando non era sul podio; terribile e intrattabile quando impugnava la bacchetta».
Cominciò fin da ragazzino a cimentarsi con il flauto, si iscrisse all’età di quindici anni al Conservatorio di Bologna, a diciotto si diplomò e intraprese la sua ultrasessantenne attività di musicista in giro per il mondo.
Esordì a Cento nel Trovatore, quindi si spostò a Forlì, a Trento, a Rovereto, a Palermo. Ma la svolta della sua carriera avvenne nel 1910, allorché gli fu chiesto, dopo essersi mirabilmente esibito a Rovigo nel Mefistofele, di passare alla Scala di Milano. In seguito andò in tournée in Argentina con Enrico Caruso e Titta Ruffo, insieme ai quali eseguì una memorabile edizione de I pagliacci.
Trasferitosi a Bologna nel 1917, incontrò alla fine del primo conflitto mondiale il maestro Arturo Toscanini, del quale divenne primo flauto alla Scala. Nel 1933, lasciato Toscanini che, avverso al fascismo, si era trasferito negli Stati Uniti, Tassinari si dedicò alla musica concertistica e all’insegnamento, svolgendo quest’ultima attività in specie a Roma presso il Conservatorio di “Santa Cecilia”, dove rimase per ben venticinque anni. Dalla sua scuola uscirono i maggiori flautisti italiani, fra i quali il celebre Severino Gazzelloni.

La malattia e la cartella clinica della vita

Quando scrive, Albert Espinosa ti dà del tu. È talmente diretto e pratico che non può esserci troppo spazio in mezzo. Braccialetti rossi il mondo giallo (Salani, 2014) è un libro che ha l’obiettivo dichiarato di accompagnare il lettore nella ricerca dei gialli.

Albert, a partire dai quattordici anni, ha passato dieci anni fra ospedali e terapie, ha perso un polmone, un pezzo di fegato e una gamba per la quale ha organizzato una speciale festa d’addio. Sì, perchè le perdite, garantisce Espinosa, sono positive, vanno vissute, “sono conquiste” che aggiungono qualcos’altro.

Braccialetti rossi il mondo giallo è un altro modo di vedere le cose, una capacità di sbirciare dietro l’angolo senza paura e magari trovare una soluzione. La scoperta, infatti, è per Albert Espinosa una meraviglia continua che riguarda se stesso e gli altri. Avete mai provato a stare venti minuti immobili più o meno come si sta quando si fa una tac? Siccome di tac e radiografie Albert ne ha fatte un’infinità, ha imparato ad applicare quel modo di stare fermo e in silenzio anche in piena salute. Un giorno al mese, stacca il telefono, si sdraia, si ripete “non ti muovere, respira, non respirare” per venti minuti e si sottopone volontariamente a speciali raggi X, quelli che non hanno bisogno di macchinari perchè servono per leggersi dentro, trovare soluzioni, stare tranquilli.

Questa è solo una delle ventitrè scoperte che il libro propone, tutte nate da una vita che ha dominato la malattia, si è fatta contaminare da altre vite interiorizzandole al punto che la morte di un compagno di stanza donava altra vita a chi rimaneva, facendo vivere in tanti modi e per sempre chi se n’era andato.

Albert Espinosa è davvero riuscito a ribaltare tutto: la cartella clinica che in dieci anni ha contenuto le annotazioni di oltre venti medici specialisti, un giorno è stata chiusa e se n’è aperta un’altra, una cartella di vita, una specie di diario su cui annotare gioie e sofferenze. Come nella cartella clinica i medici rintracciavano le crisi e le soluzioni, così nella cartella di vita, ciascuno potrà ritrovare se stesso, i cicli in cui si è imbattuto e le vie d’uscita. Ma la cartella va arricchita di oggetti simbolici, frammenti positivi e di una felicità che dovrà restare. Anche per gli altri.

Circa a metà delle ventitrè scoperte, ce n’è una molto bella perchè fa scoprire la capacità di scoprire. Si chiama In cerca del sud e del nord ed è una frase che Albert, in terapia intensiva, ha sentito dire da un’infermiera: “i sogni sono il nord della nostra bussola, quando li hai realizzati, devi andare al sud”. In un viaggio di ricerca continuo da un polo all’altro, Albert Espinosa ha messo in pratica quelle parole e non ha mai smesso di cercare un altro sogno, un altro sud perchè, come cita anche il sottotitolo del libro, se credi nei sogni, i sogni si creeranno.

Unendo tutte le ventitrè scoperte, si è pronti per capire cos’è il mondo giallo e chi sono i gialli. Il giallo lo intuisci, ti attrae per qualche motivo, con lui instauri qualcosa di speciale e non importa quanto durerà quel legame. A metà tra l’amore e l’amicizia, con il giallo ti apri, parli e ti concedi quel contatto fisico fatto di abbracci e carezze abbastanza esclusivo. Il giallo ti dà forza, aiuta a conoscerti, porta bellezza e lascia un segno nell’esistenza.

Nel mondo giallo, dice Espinosa, c’è anche la morte a cui si deve imparare a pensare in termini opposti, cioè di vita a disposizione, di “dettagli concreti di quello che vuoi realizzare a questo mondo”. E allora perchè esprimere desideri e soffiare solo ai compleanni? Il soffio viene da dentro, libera qualcosa, come i desideri. Albert ha soffiato ogni volta che gli facevano un puntura (circa mille iniezioni) e anche dopo, almeno due o tre volte alla settimana, e continua a farlo, ma a una condizione: quei desideri bisogna vederli fino in fondo.

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Consigli per la vostra schiena

Milioni di persone oggi sono molto preoccupati di migliorare il loro aspetto e di conseguenza spendono una grande quantità di denaro sui loro vestiti, cosmetici e in saloni di parrucchieri. Eppure, la maggior parte delle persone sarebbe d’accordo che una delle qualità più interessanti per una persona è il loro modo di sedersi, stare in piedi e muoversi – o in altre parole, la loro postura. Da bambini molti di noi hanno una postura bella. Si è molto flessibili e si ha grazia nel movimento, ma come si invecchia, tuttavia, è una storia completamente diversa.
Fin dall’età di cinque o sei cominciamo le tensione dei nostri muscoli in risposta alle paure e alle preoccupazioni della vita, e di conseguenza la nostra postura ci logora, spesso molto seriamente. Le nostre spalle diventano curve; il nostro collo diventa rigido e inflessibile, e molti di noi cominciano a sedersi in un modo “insaccato”. Molte persone sanno descrivere la postura come ‘il modo in cui si mantiene diritto… In realtà la postura non è nulla del genere. La postura di una persona dovrebbe essere in continua evoluzione a seconda di quale attività svolgono. Posture innaturali, posture fisse invariabilmente possono arrecare problemi di salute in futuro.

Quello che molti non capiscono è che una buona postura avviene senza sforzo fisico o mentale, solamente l’inadeguata tensione muscolare, che si accumula progressivamente nel corso degli anni, che crea un’interferenza con i riflessi della statica e dinamica, conseguentemente ci si muove in modi da farci apparire goffi. Questo può dare origine a tutta una serie di disturbi comuni come l’artrosi, l’artrite, mal di collo e mal di schiena, sciatica o semplicemente rigidità generale e l’immobilità nella vita adulta. In realtà, molti dei problemi posturali che colpiscono gli adulti possono essere ricondotte ai muscoli tesi del collo che interferiscono con il libero movimento della testa e della colonna vertebrale. Se questa libertà non è presente sarà impossibile avere qualsiasi libertà su qualsiasi altra parte del corpo.

 

Per il mal di schiena è meglio andare dal vostro osteopata il più presto possibile
• Fare regolarmente gli esercizi, che il vostro osteopata saprà consigliarvi
• Stare nella stessa posizione per ore può causare problemi – evitate la gobba da computer
• Durante movimenti ripetitivi, variate il ritmo e fate frequenti pause
• Aggiustate correttamente il sedile dell’autovettura, e nei lunghi viaggi fate delle pause per fare dello stretching 5/10 min.
• Non esagerate con i lavori pesanti, tipo il giardinaggio, non rischiate i vostri dischi intervertebrali
• Osservate la postura dei vostri bambini – non dovrebbero portare borse su di una sola spalla o trascorrere troppo tempo davanti al computer senza fare pause
• Durante la gravidanza, l’osteopatia può aiutare il corpo ad adattarsi ai cambiamenti posturali
• Evitate stiramenti quando sollevate pesi, in special modo bambini e la spesa
• Il vostro letto potrebbe essere la causa del vostro mal di schiena, chiedete al vostro osteopata consigli a riguardo.

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L’eredità della Achmatowa e la responsabilità dei giornalisti

Nella prefazione di una lunga Requiem per le vittime dello stalinismo, la poetessa russa Anna Achmatowa (Bol’soj Fontan, 1889 – Mosca, 1966) ricordava un incontro durante la coda davanti alla prigione di Leningrado/Pietroburgo. “In un modo o in un altro qualcuno mi aveva riconosciuto. Allora si destò la donna con le labbra livide che era in piedi dietro di me, che naturalmente non aveva mai sentito il mio nome, e mi domandò, sussurrandomi all’orecchio: “E lei sarebbe in grado di descrivere tutto questo?”. E io dissi: “Sì”. Allora qualcosa come un sorriso sdrucciolò su quello che era stato il suo viso”.

Grazie a Dio, oggi lo stalinismo, almeno quello di una volta, non esiste più, ma ci sono altri modi di combattere e di perseguire la libertà di stampa e d’opinione in tutto il mondo, anche in Europa, anche in Germania, anche in Italia. Ma nonostante il degrado di una democrazia vera ed ideale, non si può paragonare il grado di terrore politico che si ebbe durante lo stalinismo degli anni dei Gulag a quello che oggi abita la freddissima Corea del Nord, la Cina dei comunisti capitalisti o la Russia di Putin, degli oligarchi ricchissimi con l’incavatura della democrazia occidentale. Ma il ricordo di Anna Achmatowa, dell’episodio davanti al carcere staliniano, resta utile per il giornalista che non voglia disperare davanti a eventi drammatici.

Ogni giornalista ha l’enorme opportunità, ma anche la responsabilità, di tradurre con la scrittura quello che altri, le vittime inermi e ammutolite, non riescono o non possono più esprimere. Sembrano parole patetiche ma il giornalista le deve sempre riprendere nelle situazioni drammatiche, quando si imbatte nei limiti della sua professione. Oggi, si parla molto e sempre di più di una rivoluzione nel mondo mediatico attraverso la comunicazione online e sui social network. Davvero l’attuale cambiamento del nostro modo di comunicare con gli altri, con i più vicini e in tutto il mondo, è radicale. Sopratutto per le generazioni più vecchie, talvolta ha effetti anche sconvolgenti, quasi come un terremoto delle loro abitudini. Perciò, noi come giornalisti off e online abbiamo quasi come un precetto, quello che le persone in coda davanti alla prigione staliniana hanno domandato alla Achmatova: “Lei sarebbe in grado di descrivere la nostra crescente precarietà nei tempi di crisi?” “Si”, diceva la Achmatowa. E qualcosa come un sorriso sdrucciolò su quello che era stato il suo viso.”