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Ferrara film corto festival

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Pci-Ds

L’oro del Pci, Lodi: il futuro dipende dal Pd, se sarà partito ‘pesante’ avrà il patrimonio

L’incontro con Bracciano Lodi si rivela una tappa fondamentale del nostro viaggio alla ricerca dell’oro del Pci. Lodi è da un anno amministratore delegato della fondazione L’Approdo che gestisce il patrimonio dei Ds, congelato al momento della nascita del Pd. La sua carica è a scadenza triennale, a differenza di quelle dei cinque componenti del comitato di indirizzo della fondazione (il presidente Cusinatti e i membri …) che invece sono a vita, e di quella di Attilio Torri che, al di fuori della fondazione, opera come liquidatore dei Ds (per la partita contabile, sostanzialmente i debiti del vecchio partito) e ricoprirà quel ruolo sino a esaurimento del compito.

Lodi, che ha ancora due anni di mandato, ci riceve nella nuova sede dalla fondazione, in piazzetta Righi, poco distante dallo storico stabilimento Moccia. Ha ovviamente letto tutte le puntate dell’inchiesta e gli interventi che ne sono scaturiti. E’ affabile e ci propone un’organica ricostruzione dell’intera vicenda, fino dalle sue origine. E’ evidentemente animato dalla volontà di fare chiarezza e riconosce che intorno alla questione ci sono stati in passato troppi silenzi che qualcuno può avere scambiato per reticenza. Invece, dice, non c’è nulla da nascondere. “Poi il giudizio naturalmente spetta ad altri, non a me”. Ecco allora la sua versione dei fatti, cadenzata dai nostri interrogativi posti a scandagliare il senso dei passaggi più delicati.

“Parto dall’inizio, come è doveroso – annuncia con voce piana – La fondazione L’Approdo nasce nel luglio 2007, all’epoca segretario dei Ds provinciali è l’indimenticabile Mauro Cavallini, tesoriere Attilio Torri. La vicenda locale è conseguenza di quella nazionale, ricordo che allora il segretario era Fassino e il tesoriere Sposetti, che tuttora preside la fondazione nazionale. Si decise di non trasferire al Pd il patrimonio e la liquidità dei Ds e si individuò nella fondazione privata lo strumento giuridico più corretto per la gestione. C’era diffidenza rispetto agli esiti di quell’operazione politica che metteva insieme due formazioni espressione di mondi diversi”.

A Ferrara come fu vissuto il passaggio?
“Da principio ci fu una grande consultazione per dire cosa sarebbe successo…”.
Se fu per dire cosa sarebbe successo la definirei un’informativa più che una consultazione…
“No! Perché come è successo altrove gli iscritti avrebbero anche potuto decidere di disporre diversamente del patrimonio locale. Quindi ci fu dibattito e si votò. La proposta passò a maggioranza in tutte le sezioni provinciali, con l’eccezione di Filo che, capeggiata dall’ex presidente di Lega Coop Egidio Checcoli, scelse di non confluire nell’Approdo e costituì una propria autonoma fondazione”.
Allora ha ragione lei, fu una consultazione. E cosa si decise programmaticamente?
“Triplice obiettivo. Concorrere alla costruzione del Partito democratico, dare vita alla fondazione che prese il nome L’Approdo, dare un po’ di soldi al Pd (circa 70mila euro ci ha riferito in una precedente intervista Attilio Torri che della fondazione fu il primo presidente, ndr) e donare al nuovo partito le attrezzature per fare le feste dell’Unità (stand, stufe, tavoli, frigo) depositati nell’enorme centro feste di Vigarano – settemila metri quadrati – lasciato in comodato d’uso gratuito al Pd di Ferrara”.

La prima pietra della ricostruzione è solidamente posata e Lodi sorride compiaciuto. Quella del “Pd poverino” – riprende – è una storiella che non regge: un po’ di soldini, le attrezzature, i capannoni, gli affitti delle sedi ai circoli a costi irrisori, come poi dirò meglio… Non li abbiamo mica fatti nascere in miseria!”.

Nel frattempo che succede? – si interroga il presidente del CdA e riprende il filo della sua ricostruzione – Nel frattempo il nuovo partito, dopo discussioni pesanti, decide di non riconfermare Cavallini e sceglie Marcella Zappaterra come segretario. L’ex tesoriere Attilio Torri diventa presidente della fondazione e nomina un consiglio di tesoreria con l’impegno di gestire la liquidazione dei Ds, che giuridicamente restano attivi anche dopo la cessazione dell’attività politica e lo sono tuttora”.

“La designazione delle persone che dovevano fare parte della fondazione e del Cda fu basata su due criteri: provata capacità e appartenenza territoriale; la decisione fu presa dai dirigenti ds dopo consultazioni interne. Furono equamente rappresentate città e territorio. Si può quindi affermare che la scelta del gruppo dirigente dell’Approdo fu fatta democraticamente. Le persone individuate erano oneste, competenti e rappresentative. Per il loro operato non sono stati corrisposti né compensi né rimborsi spesa. Anch’io nel corso di quest’anno sono stato più volte a Roma ma non ho mai chiesto il rimborso che pure per statuto sarebbe previsto. Per noi questo impegno costituisce un prosieguo volontario dell’attività politica”.

E anche il secondo mattone è posato. A questo punto Lodi affronta direttamente il nodo del patrimonio. “Gli immobili che costituiscono il patrimonio erano esclusiva proprietà dei Ds. Il problema si pose la prima volta nel 1991 a Rimini come giustamente ricorda Alfredo Valente nell’intervista che vi ha rilasciato. In quella sede infatti si decise che tutto ciò che era del Pci andasse ai Pds. Il successivo passaggio, fra Pds e Ds, fu cosa tutta interna e non creò problemi.
Nel 2007 le perplessità in ordine al futuro del Partito democratico indussero a mettere in sicurezza nelle fondazioni il patrimonio. Oggi però quella diffidenza è superata”.
E’ dunque tempo che le fondazioni si sciolgano?
“Il tema dello scioglimento non è attualmente all’ordine del giorno né a Roma né a Ferrara”.
Qual è il problema, oggi?
“Capire come sarà gestito il Pd, che tipo di struttura organizzativa vorrà assumere, se deciderà di essere partito liquido, pesante o leggero…”.
E a voi che cambia, scusi?
“E’ fondamentale per valutare le necessità. Un partito pesante ha bisogno di sedi, un partito leggero no. Ma prima lasci che le dica un’altra cosa”. A questo punto il presidente Lodi ci porge un foglio con l’elenco dettagliato dei trenta immobili di proprietà dell’Approdo con la specifica per ciascuno della destinazione d’uso.
“Quel che vorrei risultasse chiaro è che noi già ora siamo quasi esclusivamente al servizio del Pd, loro sono il nostro punto di riferimento, il nostro interlocutore privilegiato: gli affitti ai circoli sono calmierati, calibrati sui costi di mantenimento; calcoliamo in sostanza le tasse e quel minimo di manutenzione necessaria e su questa base determiniamo il canone. Ecco perché un patrimonio stimato in circa sei milioni di euro rende solo 170mila euro l’anno, appena il 3 per cento. E ricordo il comodato gratuito del centro di Vigarano, che da solo rappresenta quasi la metà del valore dei nostri immobili. Appena tre immobili sono affittati a privati e dunque a prezzi di mercato”. Ora, però, – facciamo notare – con il trasloco della federazione si sono liberati i locali di viale Krasnodar… “Già vedremo cosa fare, sono tempi difficili anche per il settore immobiliare.”
Qualcuno però adombra (lo ha fatto anche Enzo Barboni intervenendo su ferraraitalia) che in questo modo le fondazioni esercitino un potere di condizionamento, svolgano attività di lobby.
“Trattiamo il patrimonio immobiliare che abbiamo in consegna con più rispetto che se fosse nostro. E non vogliamo abusare di nessuna rendita di posizione, non esercitiamo alcuna pressione né pratichiamo alcuna forma di ingerenza”, afferma con decisione Bracciano Lodi.

Dunque par di capire che l’approdo… dell’Approdo sia il Pd: però non mollate! Date l’impressione di rapportarvi al partito come un genitore con un figlio scapestrato: gli offrite un tetto ma non gli consegnate le chiavi di casa. Lodi ride. “In effetti il Pd ha solo sei anni, eppure è già riuscito a fare fuori quattro segretari e ha appena eletto il quinto!”. Quindi aspettate che maturi e si dimostri assennato? “Aspettiamo di capire – e qui Lodi si ricompone e assume il tono austero – se vorrà gestire il patrimonio in proprio o se come la Spd o il Labur party si doterà di una fondazione.” E in quel caso eccovi a disposizione, giusto? Sorriso e ammiccamento.
“D’altra parte – riprende Lodi – il problema non è stato posto neppure da parte del Pd, evidentemente anche loro hanno bisogno di fare chiarezza e decidere in che direzione andare. Ma prima o poi a Roma il nostro tesoriere Sposetti e i dirigenti del Pd si siederanno attorno a un tavolo e decideranno il da farsi. Questa è una scelta che maturerà e dovrà essere compiuta a livello nazionale. Intanto a Ferrara noi proseguiamo la nostra attività. Lo statuto ci impone due obiettivi: tutela e valorizzazione del patrimonio, e promozione dei valori della sinistra. Devo riconoscere che il primo obiettivo è quello sul quale abbiamo lavorato di più. Alla promozione riserviamo gli utili di gestione, circa 20mila euro annui. Dovremo fare di più, anche a livello di idee. L’anno prossimo attiveremo finalmente il sito (che ora è poco significativo) rendendolo un’autentica vetrina, con i dati di gestione, l’elenco del patrimonio, le iniziative. Abbiamo già avviato e porteremo avanti con l’Istituto di storia contemporanea un progetto di valorizzazione della storia del Pci ferrarese, che si avvarrà anche di un supporto online accessibile a tutti. Poi se qualcuno vorrà contribuire, lo statuto prevede la possibilità di integrare nuovi soci e di ricevere donazioni”.

Me ne vado con una convinzione: leggero o pesante che il Pd scelga di essere, le fondazioni resteranno comunque. Se il Pd sarà partito pesante è probabile che mantenga le fondazioni come strumento gestionale. Quelle attuali magari cambieranno statuto (gli uomini chissà) ma resteranno nella funzione. Viceversa se il Pd sarà leggero o liquido come si usa dire, quindi non necessiterà di una struttura organizzativa capillarmente diffusa, è probabile che le fondazioni ritengano di dover preservare il proprio ruolo di promozione dei valori della sinistra e per questo trattengano il patrimonio (che è fatto di immobili) per impiegarlo a supporto della propria attività, continuando a sviluppare, come già ora in parte capita (o dovrebbe capitare), un autonomo progetto culturale. E continuando a elargire al proprio figlioccio le caramelle.

6 – CONTINUA

Sarah-Dunant

Il best seller di Sarah Dunant illumina Ferrara, inattesa perla d’Italia

Piccola, segreta città che finisce tra le pagine del best-seller di un’autrice inglese. Succede a Ferrara, città ispiratrice del libro di Sarah Dunant “Sacred Hearts”, tradotto in italiano con “Le notti di Santa Caterina” per l’editore Neri Pozza. Anziché l’invito terribile a bruciare i libri uscito nei giorni scorsi dalla manifestazione di protesta dei forconi, un libro illumina il centro storico alla libreria Ibs di piazza Trento Trieste in collaborazione con Wall Street Institute . E l’inquietudine di quella notizia si dilegua nel racconto che la scrittrice fa della sua avventura ferrarese. Perché, come il libro, è un modo di leggere la città dal di fuori, un modo che rende per incanto degne di essere raccontate storie antiche, ma anche dettagli di tutti i giorni, stra-noti, eppure all’improvviso interessanti come se fossero pettegolezzi su gente che conosci. Strade, palazzi e fatti sono riletti attraverso la storia, ma con una confidenza che gli dà la forma di aneddoti accattivanti.
Intanto, con la tipica ironia britannica, la scrittrice racconta come il suo primo problema – una volta che si è decisa ad ambientare qui il romanzo – ce l’abbia avuto con il correttore ortografico del suo computer. Perché continuava a modificarle il nome del la città in quello di un’auto. Come dire che il mondo anglofono, più che Ferrara, ha in mente la Ferrari. E così l’autrice si è resa conto – ha dichiarato pure a un’autorevole testata come “The Observer” – che tra i tesori nascosti d’Italia c’è proprio “questa città, ricca di storia, che si trova sulle rive del Po”.
Sarah Dunant vive tra Londra e Firenze. E quando arriva qui dal capoluogo toscano, per prima cosa viene colpita dal fatto di trovarsi in quella che definisce “una città medievale e rinascimentale perfettamente conservata”, dove però “a fatica si vede un turista” e dove la colonna sonora che ti accoglie è prevalentemente scandita da campane e campanelle: quelle dal suono grave provengono dalle chiese e quelle con un registro più squillante tintinnano sui manubri delle centinaia di biciclette, “linfa vitale del trasporto” per i ferraresi di oggi. Il contrasto tra la capitale del turismo e la città dai tesori segreti è ancora più grande, perché lei arriva dalla stazione di Firenze Santa Maria Novella dopo una corsa ad ostacoli tra comitive di turisti “talmente intenti ad aggiustarsi nelle orecchie gli auricolari delle loro audio-guide, da riuscire a malapena ad alzare gli occhi per vedere i capolavori del Rinascimento che la voce registrata cerca di far loro apprezzare”.
Secondo la Dunant il nord-est italiano è una miniera d’oro per chi abbia voglia di uscire dal percorso turistico obbligato di Roma-Firenze-Venezia. Ma Ferrara, per lei, ha qualcosa in più. La descrive come “una città-stato vivace fino all’avvento del potere pontificio che la inghiotte nel 1597”. Per secoli alla guida della città padana gli Estensi, che si presenterebbero “inizialmente come un clan di teppisti appena malcelati, per trasformarsi poi in sofisticati mecenati rinascimentali, con un occhio per l’urbanistica e un orecchio fine per la musica”.
Il castello – dice Sarah Dunant – divide il quartiere medievale dal lato cittadino rinascimentale e “nasconde storie di potere cruento”. Qui, nel 1425 Niccolò d’Este fece eliminare la sua seconda e giovane moglie e il suo pressoché coetaneo figlio illegittimo Ugo – per vendicarsi di una presunta relazione tra i due. Uno sfogo che l’autrice di romanzi storici definisce “comprensibile forse per l’irascibilità medievale, fino a quando non si apprende come Niccolò si vantasse di andare a letto con ottocento donne e come i cronisti del tempo lo considerassero il padre di bambini disseminati ovunque, tra la sponda sinistra e quella destra del Po” .
Alloggiata in una camera in corso Porta Reno con vista sulla facciata del Duomo, la Dunant ricorda di essersi svegliata trovando “il mercato in pieno svolgimento , come è successo per secoli” e di come si sia sorpresa a scoprire tutti i negozi costruiti sul fianco della grande cattedrale. Per lei la maggior parte dei vestiti a buon mercato in vendita “ora può venire dalla Cina, ma verdure , salumi e formaggi rotolano ancora qui dalla campagna circostante”.
Ma brava Sarah Dunant, che al posto dei forconi brandisce penna e tablet tra chiostri e chiese, ciclisti e bancarelle.

listone-mag

‘Listone magazine’ racconta ‘ferraraitalia’

Listone magazine”, giornale online ferrarese di raffinato profilo, con un’attenzione particolare al costume, alla cultura e allo spettacolo, ha dedicato a ferraraitalia un articolo, firmato da Licia Vignotto, con intervista al nostro direttore, Sergio Gessi. Ringraziamo i colleghi per l’interesse e la sensibilità dimostrate, affatto scontate fra media potenzialmente concorrenti. Per questo stesso motivo, a pochi giorni dalla nostra ‘nascita’, avevamo espresso gratitudine a Telestense, che ci aveva regalato un gradito augurio.

Queste attestazioni di considerazione, che ricambiamo, ci confortano in una idea di giornalismo fatto di confronto, collaborazione e lealtá, nel rispetto delle reciproche prerogative e autonomie.

In bocca al lupo anche agli amici-colleghi di Listone magazine, al suo direttore Eugenio Ciccone e al valido gruppo di giovani redattori.

Un grazie sincero.
La redazione

Leggi su Listone magazine: “Dal locale al globale le sollecitazioni di Ferraraitalia.it” di Licia Vignotto

luttazzi

Le contraddizioni d’Italia in mostra al ritmo di swing

‘Voglio morire abbronzato’, due verbi e un aggettivo tra ironia e cinismo, una battuta del triestino Lelio Luttazzi, artista eclettico, musicista, attore e regista a cui è dedicata la mostra ‘Lelioswing 50 anni di storia italiana’, allestita fino al 2 febbraio al museo dei Fori Imperiali a Roma. Ci sono le foto, le lettere, gli articoli, le copertine dei dischi, dei libri, un salottino con tanto di televisione vintage e filmati d’epoca. E musica, tanta musica. Luttazzi suona e i telegiornali delle teche della Rai riferiscono di scontri tra studenti e polizia, Lelio spiega dal teleschermo cos’è lo scat nel vocal jazz, conduce in tivù, in radio, scrive, recita, tiene concerti sul filo dello swing mentre Neil Armstrong mette piede sulla luna. Sono godibili dalla poltrona i fantastici i duetti della trasmissione ‘Doppia Coppia’ con Sylvie Vartan: Luttazi al pianoforte, canta con l’artista francesce, il sogno erotico di tutti gli italiani. Lui nel suo impeccabile smoking, lei in minigonna, insieme si prendono gioco dei tanti vecchi ‘adolescenti’ in cerca di amori acerbi dalle carni sode. Niente di strano nell’Italia mai tramontata delle amanti bambine, ma certo una novità per gran parte dei figli del boom economico, ipnotizzati dal rock e dalle ideologie. Si è snobbata la tivù in bianco e nero, la migliore, ignorando i suoi protagonisti, persino i più geniali come Luttazzi epurato dalla Rai per un errore giudiziario. Nel ’70 suo arresto insieme all’amico Walter Chiari riempì le pagine dei giornali e gli fruttò 27 giorni di carcere per presunta detenzione e spaccio di cocaina. Era all’apice della carriera. Ed era innocente. Ne rimase travolto, colpito al cuore. Luttazzi, anima della prima ora della fortunatissima ‘Hit Parade’, pagò un prezzo molto più alto dell’ingiustizia stessa. Riassunse l’esperienza della galera con poche parole ‘una cella fetida, col cesso così piccolo che dovevo prendere la mira’ e scrisse ‘Operazione Montecristo’, il libro cui si ispirò Alberto Sordi per il film ‘Detenuto in attesa di giudizio’. E’ la faccia triste di Lelio, celebrato oggi con grande affetto e un allestimento bello, semplice e completo, nella mostra promossa da Roma capitale, dalla Fondazione che porta il suo nome, curata da Cesare Bastelli, Silvia Colombini e Zètema Progetto Cultura. All’esposizione, alla cui realizzazione ha contribuito la Regione Friuli Venezia Giulia, hanno collaborato di nomi di primo piano del mondo dello spettacolo, l’autore televisivo e scrittore Enrico Vaime, il regista Pupi Avati, il direttore di Ciak Piera Detassis e lo scenografo Leonardo Scarpa. Lelio è pur sempre Lelio. Un ‘portatore sano di smoking’ come lo definisce Vaime, un insegnante sui generis di storia del costume. I suoi messaggi garbati riempiono uno spicchio del vuoto culturale in cui si naviga a vista, come recita uno dei suoi pezzi di successo, Luttazzi è un ‘giovanotto matto’, ma pieno di buonsenso, un narratore inconsapevole dell’italianissimo passaggio dal ‘giazzo’ al jazz. Ha raccontato con eleganza uno stile, un modo di vivere. Dalla lo sapeva meglio di qualunque altro artista, tanto da scrivergli ‘Che swing, Lelio, la vita, che swing!’.

(Info mostra: Roma, Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali, via IV novembre 94 – Orari: 9 – 19 chiuso il lunedì. La biglietteria alle 18, un’ora prima del museo. Biglietto intero 9,50 – ridotto 7,50)

bici

Il lato buono della crisi, si vendono più bici che auto

Nel 2012, in Europa, la vendita delle biciclette ha sorpassato quella delle automobili. Un dato considerato storico, registrato già lo scorso anno in Italia, che fa ben sperare non solo gli amanti delle due ruote, ma molti cittadini, stanchi del rumore, del traffico e dell’inquinamento prodotto dalle auto.
Nell’Unione Europea nel 2012 sono state vendute ben 20 milioni di bici contro 12 milioni di vetture. Guida la classifica delle vendite la Germania, con quasi 4 milioni, seguita da Regno Unito (3,6 milioni), Francia (2,8 milioni) e Italia, con 1,6 milioni di cicli contro 1,4 milioni di auto. Tra i 28 Paesi dell’UE solo in Belgio e in Lussemburgo le auto continuano a mantenere il primato delle vendite.
Si può notare però come questa tendenza sia in parte riconducibile alla flessione delle vendite delle auto causata dalla crisi economica: non a caso le vendite maggiori di biciclette sono state registrate nei Paesi dell’Unione con un Pil più basso, come alcuni Stati dell’Est Europa e la Grecia. Inoltre, nonostante i molti simpatizzanti della mobilità sostenibile, in Italia si continua a privilegiare il trasporto su quattro ruote, sia per gli spostamenti commerciali, sia per quelli di routine dentro le mura cittadine: almeno 10 milioni di famiglie ogni giorno compiono il tragitto casa-scuola in automobile, col risultato di aumentare l’emissione di sostanze inquinanti e trasmettere ai propri figli l’abitudine allo spostamento motorizzato.

bici-statistiche
Classifica dei primi cinque Paesi dell’Unione europea per vendita di auto e biciclette nel 2012

Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare sul fronte dell’ecotrasporto, anche se le amministrazioni locali da tempo si stanno attrezzando nel portare avanti una politica a favore delle biciclette. Ne sa qualcosa Ferrara, dove gli spostamenti quotidiani in bicicletta oscillano tra il 20 e il 30%. La nostra città è particolarmente virtuosa in fatto di ciclabilità e, con i suoi oltre 80 chilometri di piste protette, mostra fiera a chi entra nel centro urbano il suo titolo di “città delle biciclette”, accanto al cartello che ci include nei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco. E di recente, a Ferrara, è approdato il servizio di bike sharing, letteralmente “condivisione della bicicletta”, che permette di prendere a noleggio a prezzi modici bici messe a disposizione dal Comune.
Se per i paesi sviluppati l’uso delle due ruote a pedali evidenzia un’identità legata al rispetto dell’ambiente, altrove, come nel lontano Afghanistan, c’è chi della bicicletta fa un uso rivoluzionario: qui un gruppo di donne ha fondato la prima squadra di ciclismo femminile, e usa questo mezzo per sfidare la mentalità repressiva e rompere con coraggio un tabù che considera questo sport praticato dalle donne immorale.

integrazione

Scuola, noi pionieri dell’inclusione a rischio dis-integrazione

Il nostro paese è fra i pochissimi ad attuare l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità nelle scuole pubbliche; sicuramente siamo stati dei “pionieri” in questo campo e chi ha definito addirittura “selvaggi” i primi inserimenti a scuola non ricorda quasi mai che, dalla parte di “frontiera” che ci si è lasciati alle spalle, c’era una “riserva” fatta anche di scuole speciali e di classi differenziali.
“Pionieri, selvaggi, riserva e frontiera” sono termini propri di un vocabolario da colonizzatori del Far West che normalmente non userei se non fossi convinto che il percorso dell’integrazione è stato insolito proprio perché si è scelto di conquistare nuovi spazi per poter accogliere nuovi diritti dentro il panorama della scuola pubblica.
Dal punto di vista normativo sono quasi 43 anni che questa esperienza caratterizza il nostro sistema scolastico, dal punto di vista pratico pochi di meno; quindi è trascorso ormai un lasso di tempo significativo: molti libri sono stati scritti, molti studi sono stati pubblicati, molte ricerche sono state svolte, anche se sono scarse le indagini conoscitive del Parlamento e ancora pochi i testi sull’efficacia delle strategie dell’integrazione.
Siamo stati sicuramente un paese all’avanguardia ma oggi, che il contesto socioculturale è totalmente diverso da quello degli anni settanta, oggi che il mercato sta colonizzando anche il territorio scolastico, oggi che si danno i voti per fare le classifiche, oggi dobbiamo chiederci cosa fare per mantenere alta la tensione ideale su questo che può essere definito “il maggior processo di trasformazione della scuola italiana”.
A volte ho la sensazione che, nel campo dell’integrazione, tra il dire e il fare ci sia di mezzo il “norMare”, cioè una vastità liquida di norme (circolari, ordinanze, note, leggi, legge-quadro), limpide e trasparenti, che purtroppo si raggiungono solo occasionalmente, rimanendo in tal modo distante dal nostro fare quotidiano.
Insomma abbiamo una normativa molto attenta che ha creato un orizzonte ideale di riferimento ma oggi credo valga la pena chiedersi se la scuola sia cambiata adeguatamente o meglio, come canterebbe Gaber, se la scuola che “ha mangiato l’idea” dell’integrazione abbia compiuto completamente la sua “rivoluzione”.
Eppure pedagogisti, insegnanti, ricercatori ed amministratori stranieri vengono nel nostro paese per capire ed imparare come facciamo.
La nostra scuola, di fatto, è vista come un faro per tutti coloro che vogliono navigare nel mare dell’inclusione.
Il motivo è evidente: il processo di integrazione è stato ed è un arricchimento per la società, è un opportunità incredibile di scoperta, di conoscenza, di confronto, di civiltà, di crescita, di maturazione che migliora il clima educativo e che favorisce la ricerca di nuove tecniche didattiche.
Tutti coloro che lavorano faticosamente nella scuola si accorgono ogni giorno dei vantaggi che l’integrazione offre a tutti gli studenti in termini di opportunità formative, di approfondimenti culturali, di strategie individualizzate, di relazioni umane: questi miglioramenti si vedono, si osservano, si documentano, si verificano, insomma si respirano durante il percorso.
Tutti coloro che credono nell’integrazione a scuola sanno che per affrontare il tema della diversità non serve negare il conflitto emotivo e cognitivo che si genera inevitabilmente nella classe; al contrario solo accogliendolo, accettandone le contraddizioni ed analizzandole insieme, si può educare davvero all’accettazione delle diversità, senza inutili pietismi ed ipocriti buonismi.
Tutti coloro che si impegnano per una scuola da vivere come un luogo accogliente sanno che la gestione cooperativa della classe, la relazione di aiuto, lo sfondo integratore, la didattica che adatta i materiali e sceglie i suoi strumenti, l’individualizzazione dei percorsi sono strategie efficaci ed utili non solo per motivare gli studenti ma per migliorare lo stile dell’insegnamento e gli effetti dell’apprendimento.
Noi lo sappiamo.
Tutta questa ricchezza invece non interessa a chi, usando i test per valutare gli apprendimenti, in nome di una presunta oggettività, intende stilare la classifica fra scuole e dentro le scuole fra le classi e dentro le classi fra alunni.
Questo patrimonio non interessa affatto a chi pensa che il problema della complessa valutazione dei ragazzi con disabilità si risolva escludendoli dalle prove nazionali.
Per molti di noi è chiaro che i test, così strutturati, così somministrati e così analizzati, sono uno strumento diagnostico improprio, usato da un guaritore imperfetto, per imporre una terapia d’urto scorretta che fa della sottrazione l’operazione aritmetica preferita per togliere personale, risorse, spazi, diritti e democrazia.
In poche parole al fenomeno dell’integrazione non viene attribuito “valore” in alcun modo, nonostante esso sia un elemento da indagare proprio perché potrebbe restituire il grande sforzo di attenzione della scuola ai sogni e ai bisogni di tutti e di ciascuno.
Noi che ci crediamo dobbiamo proporre una valutazione di sistema che valorizzi tale aspetto, che sia da affidare ad un ente indipendente, che coinvolga gli organi collegiali, che svolga i suoi compiti in una logica di ricerca inclusiva, che presti la dovuta attenzione alle caratteristiche del sistema nel suo insieme, che divenga strumento di lavoro condiviso ed efficace per una trasformazione positiva, che si preoccupi di facilitare la cooperazione e non la competizione, che eviti di scrivere sulla lavagna le scuole buone e dall’altra quelle cattive ma che metta a disposizione gli esiti per il miglioramento di tutte le scuole.
In tale logica, il processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, se lo si considera davvero “un punto di forza del nostro sistema educativo”, meriterebbe di essere considerato coerentemente.
Noi che ci crediamo dobbiamo riuscire ad inserire, all’interno di una valutazione seria del sistema Scuola, la qualità dell’integrazione come elemento fondamentale; dobbiamo riuscire ad individuare dei buoni indicatori di qualità per arrivare poi a definire dei Livelli Essenziali di Qualità dell’Integrazione.
Indicatori che facciano riferimento ad esempio alla disponibilità di risorse strutturali, all’assegnazione e alla formazione del personale, alla loro collegialità nel progettare e alla corresponsabilità nell’agire, alla continuità e alla stabilità del personale, alla differenziazione dei percorsi, alla qualità del tempo scuola e all’organizzazione scolastica in generale.
Inoltre dovremo riuscire a dimostrare quanto il contesto socioculturale abbia influito negativamente in questi ultimi anni e quanto possa essere deleterio il ritorno ad istituzioni speciali o differenziate, non solo dal punto di vista socioculturale ma anche “spudoratamente” economico.
Se infatti consideriamo il panorama culturale e politico che sottrae la dignità al lavoro dei docenti, che “taglia e toglie” risorse, che svaluta le scuole pubbliche e privilegia quelle private, che favorisce la competizione fra scuole considerandole mercati di opportunità formative, che consente l’ingresso dei privati per inopportune sponsorizzazioni, che impone di raggiungere determinati standard, si avverte forte il rischio che anche le scuole, condizionate dal clima, ostacolino le politiche di inclusione poiché potrebbero abbassare il loro rendimento e la loro prestazione complessiva.
Se poi esaminiamo le osservazioni riferite alla Camera nel 1998, durante l’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Cultura coordinata dall’onorevole Sbarbati, si nota che sono stati segnalati problemi reali (nei rapporti con i Servizi Sanitari, le difficoltà nel rispettare Accordi di programma, la scarsa formazione degli insegnanti curricolari, la propensione alla delega all’insegnante di sostegno) ma anche che viene indicata la strada per la creazione di scuole particolarmente attrezzate per i casi “gravi”.
Possiamo concludere quindi che il rischio di una “disintegrazione” dell’esperienza maturata è ben presente.
Se infine prendessimo alcuni indicatori (ad esempio l’emanazione di norme, le occasioni di studio e di ricerca, le attività dei gruppi di lavoro e dell’Osservatorio Permanente) potremo concludere tranquillamente che dal giugno 2001 ad oggi (cinque anni di Moratti, due di Fioroni, tre anni e mezzo di Gelmini ed uno e mezzo di Profumo) l’attenzione dei governi all’integrazione è stata davvero molto bassa ed il silenzio esplicito e fastidioso.
C’è quindi il pericolo di farsi condurre verso un futuro di esclusione attraverso il ritorno ad un passato di separazione.
Può essere di sicura utilità far tesoro delle esperienze precedenti cercando di migliorarle.
Ad esempio qualche anno fa, tra il 2005 e il 2006, ho partecipato ad un Gruppo di Lavoro misto (MIUR, Invalsi, Associazioni delle Famiglie) nato dall’esigenza dell’Osservatorio Permanente per l’Integrazione Scolastica di monitorare la situazione.
Il gruppo ha discusso a partire da un’ipotesi di indicatori e descrittori per la qualità dell’integrazione scolastica.
Le indicazioni di lavoro del gruppo non sono però state raccolte pienamente (anzi a tratti sono state stravolte dall’Invalsi e dal Ministero).
È stato realizzato un questionario di rilevazione dell’integrazione scolastica che aveva lo scopo di: rilevare informazioni sullo stato dell’integrazione; dare ulteriore impulso all’integrazione di qualità; fornire alle scuole strumenti per l’autoanalisi; esplorare indicatori idonei alla rilevazione della qualità dell’integrazione.
Tale questionario era strutturato in: Dati generali (relativi all’Istituto); Elementi di struttura (la formazione delle classi, l’assegnazione di ore dei sostegni, la collaborazione fra docenti e dei docenti con i non docenti, la costituzione ed il funzionamento dei gruppi di lavoro, l’erogazione di risorse, la disponibilità di tecnologie e di sussidi, la presenza di barriere architettoniche e percettive); Elementi di processo (la continuità, l’accoglienza, la chiarezza e la condivisione con le famiglie delle certificazioni e dei documenti, l’articolazione degli spazi, l’utilizzo del personale di sostegno e non, la socializzazione e le relazioni con i compagni di classe); Elementi di risultato (la modalità di valutazione degli apprendimenti, dell’autonomia, della comunicazione, della socializzazione, delle relazioni, dell’integrazione).
Le scuole hanno avuto modo di rispondere sia on-line che off-line alla fine dell’anno scolastico 2005/2006.
La ricerca è stata effettuata su un campione non rappresentativo, in quanto il questionario è stato compilato su base volontaria.
Ha risposto quindi solo il 62% delle scuole e la percentuale di quelle Secondarie di Secondo grado è stata bassissima.
Sono emersi comunque dati preoccupanti sull’affollamento delle classi, sulla inadeguatezza nella formazione dei docenti curricolari, sulla mancanza del titolo di specializzazione per molti insegnanti di sostegno, sui ritardi nella nomina di questi ultimi, sulla scarsa formazione specifica dei Dirigenti Scolastici, sulla discontinuità didattica, sulla presenza di barriere architettoniche e sulla scarsa chiarezza delle diagnosi funzionali.
Sono tutti presupposti fondamentali dell’integrazione che segnalano un basso livello qualitativo.
Se però si analizzano attentamente i dati, ci si accorge che la maggior parte di questi aspetti critici è dovuta a quel contesto di “disintegrazione” che è conseguenza delle politiche messe in atto dai governi degli ultimi 12 anni (aumento del numero minimo di alunni per classe e del numero di alunni con disabilità per classe, nomina in ritardo degli insegnanti di sostegno e loro ricambio dopo qualche settimana, mancata assegnazione del giusto numero di ore di sostegno, discontinuità del personale come conseguenza della precarietà, frammentarietà dei docenti come risultato di assurde classi di concorso nella scuola secondaria di secondo grado).
In questi casi quindi chi deve ricevere una valutazione molto bassa è il Ministero che non applicando le norme vigenti, elude ed evade l’impegno nei confronti dell’integrazione condizionandone il buon esito.
In questi casi gli insegnanti ed il personale Ata sono acrobati di un circo di periferia che camminando su un filo sottile e senza rete, riescono comunque a provocare grandi suggestioni.
In pratica la scuola pubblica, nonostante le mille difficoltà create da un contesto ostile, riesce a resistere con tenacia.
In una valutazione di sistema che coinvolga l’integrazione andrebbero approfonditi anche altri aspetti: ad esempio l’adeguatezza o meno dell’assegnazione di risorse, l’uso proprio ed improprio degli insegnanti di sostegno, la dotazione dei collaboratori scolastici per l’assistenza di base; l’eventuale coinvolgimento degli insegnanti curricolari nella presa in carico, la partecipazione delle famiglie; l’inserimento nel Piano dell’Offerta Formativa di un protocollo di accoglienza; la documentazione del percorso educativo; la presenza di centri di consulenza per le scuole; la presenza ed il funzionamento dei gruppi di lavoro ed il loro eventuale coordinamento regionale.
Sarebbe da indagare con più profondità anche il mondo delle scuole private; non solo negli aspetti sopra citati ma anche per ciò che riguarda elementi molto più materiali come la ripartizione della spesa per l’insegnante di sostegno (giungono molte segnalazioni che spesso venga fatto ricadere quasi totalmente sulla famiglia).
Io penso che in questi “anni di frontiera” noi dobbiamo provare a “tenere alta l’attenzione” sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità portando idee, contributi, esperienze affinché non sia accettato passivamente e acriticamente il dogma di uno standard da raggiungere, tarato su una normalità decisa da altri e totalmente incurante di ciò che avviene nel percorso insegnamento/apprendimento.
Con un gioco di parole, ricordo che l’anagramma della parola: “valutazione” è “violenza tua”; sono consapevole del fatto che sia soltanto un divertimento linguistico, suggerisco però di ragionare attorno al fatto che quello dell’insegnante è davvero un mestiere potente; per questo tutto ciò che riguarda l’educazione, in futuro, andrebbe trattato con estrema cura, con delicatezza, pazienza e rispetto, con competenza e professionalità.
Noi che, anche nel paesaggio scolastico di oggi, abbiamo scelto di percorrere “La strada giusta”, dobbiamo cercare i mezzi capaci di accogliere nuovi compagni di viaggio, dobbiamo produrre l’energia pulita e ricaricabile necessaria per muoversi e poi dobbiamo anche riuscire a non perdere l’orientamento che, per me, vuol dire “tenere la sinistra” cioè procedere verso una scuola che educhi ai saperi e alle libertà, che non insegni a crepare ma a creare, che aiuti ad imparare e non a separare, che si preoccupi delle relazioni e non metta in atto delle discriminazioni, che parta dall’integrazione scolastica e che porti all’inclusione sociale.

Pci-Ds

I soldi delle fondazioni di partito? Usiamoli a sostegno del disagio sociale in Italia

Alcuni giorni fa su facebook ho lanciato una idea e cioè: “Messa in liquidazione di tutte le fondazioni legate ai partiti politici e contestuale costituzione di un fondo finanziario a sostegno della povertà e del disagio sociale in Italia”.
Il perché è frutto di un ragionamento, non solo di superficie, ma attento a fatti, comportamenti, storie dei partiti politici, condizionamenti, denaro e organizzazione, ma anche di scelte politiche nel passaggio, con evidenti resistenze e con chiare riserve, dai vecchi ai nuovi partiti.
Su questa testata online si sono lette, sul tema dell’oro delle fondazioni del Pci e non solo, anche alcune riflessioni su l’Approdo, cioè quella del Pci-Pds-Ds del Pci ferrarese, dove anche alcuni attori ed amministratori locali si sono lanciati a parlare, a volte liberamente o quasi, a volte tra i denti a volte con imbarazzo.
Un comportamento accettabile se si considera che la legge approvata dal Parlamento italiano regola le fondazioni dei vecchi partiti e/o organismi assimilabili con una normativa a dir poco singolare, dove un patrimonio collettivo del passato viene veicolato in una sorta di blind trust, con amministratori a vita privati e con bilanci non molto trasparenti nei dettagli analitici, salvo le macro poste del dare/avere.
Quello che oggi, a distanza di almeno 5 anni, si può dire è che in queste fondazioni “passa di tutto”: dagli organici del personale e loro stipendi, al Tfr, alle proprietà immobiliari, alle strutture delle feste, alle royalties, alle rendite/affitti, ai contributi volontari, alle partecipazioni, a sostegni in alcune gestioni e, anche e non da poco, un forte condizionamento politico, sia di linea politica nel nuovo partito da parte del vecchio (Margherita, Forza Italia/Pdl, Ccd/Udc, Popolari, Msi/An, Pds/Ds, eccetera…), ma anche i rapporti con le cosi dette collaterali.
Se, poi, si vanno ad esaminare le ricollocazioni degli ex e già Amministratori, Sindaci, Presidenti ed Assessori di Provincia/Comuni capoluoghi e Aziende pubbliche e municipalizzate, il cerchio si chiude con una struttura complessiva ben radicata e di difficile rimozione, anzi aiuta l’immobilismo della politica e non solo.
Se quel “cambia verso” ha un senso sarebbe opportuno mettere in liquidazione, con una legge del Parlamento, le attuali fondazioni intitolate a partiti che sono estinti politicamente; e poiché le loro funzioni ed articolazioni sono di intoppo, di intoppo al cambiamento e alla discontinuità, meglio confluire l’intero involucro in un fondo finanziario, come in premessa, affidando il tutto in una normativa trasparente e con governance di una autority.
Ma sappiamo che non sarà facile, soprattutto sulle territorialità, anche per l’abolizione in corso del finanziamento pubblico ai partiti e allora si faccia una legge per le nuove fondazioni ma con uno spirito del “cambia verso”.
Ora che sembra che ci saranno nuovi sentieri per la politica, attendiamo di vedere se i giovani renziani, anche quelli indigeni, post ed ante litteram, raccoglieranno la sfida, la spinta e le sollecitazioni di ben duemilioniottocentomila elettori alle primarie dell’otto di dicembre.

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Sogni ad occhi aperti con l’utopia di Bloch fra libri, filosofia, musica e arte

di Giuliano Sansonetti

“Sogni ad occhi aperti, la speranza tra filosofia, letteratura, musica e arte” è il titolo stimolante di un’originale iniziativa in programma questa sera (venerdì 13 dicembre) alle 20.30 nella sala San Francesco di via Savonarola 3. Gli organizzatori (Progetto Ernst Bloch e Dialogo in collaborazione con l’Università degli studi di Ferrara) annunciano “una serata inedita”.
Ospite d’onore sarà il poeta e scrittore ferrarese Roberto Pazzi, che darà voce alle pagine di Ernst Bloch. Tommaso La Rocca condurrà il pubblico verso “un Buon-Luogo dove scrivere libri” e Nicola Alessandrini “parlerà di utopie, un vecchio artigianato a rischio di estinzione”. La serata terminerà con un concerto della band Dia-Logo, diretta dal maestro Sergio Ross Rossoni che percorrerà le note della speranza in un itinerario musicale italiano e internazionale rivisitato in chiave jazz.
Mentre l’installazione artistica di Cinzia Carantoni avrà idealmente la stessa materia dei sogni.
Al professor Giuliano Sansonetti, docente di Filosofia del nostro ateneo e presentatore d’eccezione dell’evento, abbiamo chiesto una riflessione in anteprima.

Per chi come me si è affacciato alla filosofia nella prima metà degli anni Sessanta e ha avuto dei maestri che lo stavano introducendo in Italia, Ernest Bloch, filosofo tedesco nato nel 1885 e morto nel 1977, è in certo senso una figura mitica, quasi monumentale, come in qualche modo lo era nell’aspetto fisico, imponente e dal viso come scolpito nella pietra. Così mi è rimasto impresso per averlo potuto vedere e ascoltare in un memorabile convegno sul pensiero di Hegel, tenutosi a Urbino nel settembre 1965, che vide la partecipazione della migliore filosofia europea e internazionale. Ma tra i grandi presenti a quel convegno, lui era il più grande, il filosofo per eccellenza, l’autore di due opere magne, Lo spirito dell’utopia del 1917, Il principio speranza del 1959, quest’ultima immensa anche per la sua mole, entrambe testimonianze dirette della grande cultura europea e tedesca della prima metà del secolo, segnata tuttavia dalla catastrofe. Filosofia, letteratura e arte in tutte le sue forme, tradizionali e d’avanguardia, vi sono strettamente intrecciate, fuse come in un crogiuolo, cosa che fa dell’opera di Bloch un che di unico e difficilmente comparabile. Questo spiega le passioni che ha sollecitato, ma anche i decisi rifiuti anche da chi, in teoria, era dalla sua stessa parte. A Bloch, militante marxista fin dalla prima ora, si deve la famosa distinzione tra la “corrente calda” e la “corrente fredda” del marxismo, ovvero tra un marxismo creativo, utopico, antidogmatico e un marxismo scolastico, falsamento scientifico e dogmatico; inutile dire che Bloch era schierato con la corrente calda, e questo – Stalin imperante – non gli poteva essere perdonato, pure da chi, come il grande filosofo ungherese Gyorgy Lukacs – spirito per molti versi affine – aveva fatto con lui un lungo tratto di strada, per farsi poi autorevole portavoce del marxismo della III Internazionale. Per questo Bloch ha saputo sollecitare e affascinare anche chi non faceva parte di quel mondo, per la sua ricerca inquieta e appassionata, sol che si pensi a quanto il suo Principio speranza abbia segnato profondamente il pensiero cristiano, di cui è rimasta espressione quella Teologia della speranza di Jürgen Moltmann che, nel lontano 1964, fece irruzione come una vera e propria rivoluzione teologica. L’utopia e la speranza, queste le parole che compendiano il cammino di pensiero di Ernest Bloch; utopia come “utopia concreta”, speranza come speranza nell’al di qua, e tuttavia tali da mantenere costantemente il pensiero nell’apertura al novum, al non-ancora. “Come? Io sono. Ma non mi possiedo. Per questo innanzitutto diveniamo”. Questa frase, posta ad epigrafe di uno dei suoi libri più singolari, Tracce, esprime come meglio non si potrebbe il senso della vita come inquietudine e ricerca. Per questo il suo pensiero continua a esercitare una forte suggestione, anche fuori dal contesto in cui è sorto e dai dibattiti che lo hanno caratterizzato.
È bello quindi che studiosi della più giovane generazione, come Nicola Alessandrini, siano impegnati a riscoprire il suo pensiero e a farlo conoscere anche nei modi e nelle forme che sono di questo tempo, cosa che sicuramente Bloch non avrebbe disdegnato.

Pci-Ds

Oro del Pci, Bottoni precisa: “Sono rimasto nei Ds ma ho detto no alla fondazione”

di Giorgio Bottoni

Egregio direttore,
mentre riconosco la correttezza usata nei miei confronti nel chiedermi il consenso alla pubblicazione della lettera che ho inviato il 14 ottobre 2013 all’Unità e dalla stessa non pubblicata, il preambolo con il quale la mia lettera viene preceduta contiene un passaggio non proprio fedele che potrebbe portare ad una lettura non corrispondente al mio agire nei confronti del partito. Tale passaggio consiste, parlando del mio comportamento “che lo avevano indotto a lasciare i Democratici di Sinistra”. Le cose non sono andate in questo modo. Ero stato relatore, alla Direzione provinciale dei DS il 4 febbraio della proposta di costituzione della fondazione, indicandone anche la sua attuale denominazione, appunto “L’Approdo”. Se lo potessi fare ora lo integrerei con TEMPORANEO, ma quando mi resi conto che questo doveva avvenire su uno statuto standard, così voluto dal Nazionale del partito e che gli amministratori dovevano essere nominati a vita, mi rendevo conto della potenziale espropriazione delle proprietà immobiliari che dal partito andavano ad assumere una configurazione privatistica. Ho messo per iscritto a chi di competenza la mia contrarietà, ed ho chiesto ai primi del mese di aprile del 2007 a chi dare le consegne del lavoro svolto e che mi apprestavo ad interrompere, non avendone risposta, alla fine del mese ho cessato un rapporto di attività continuativa prestata per tanti anni presso la federazione provinciale. Non ho partecipato alla riunione del 4 maggio 2007 dell’organismo dirigente e di controllo, per la decisione sospesa a febbraio, per non essere coinvolto in quella scelta che proprio non condividevo e chi presiedeva tale riunione era in possesso della lettera poc’anzi citata contenente il mio disaccordo.
No, non ho lasciato i Democratici di Sinistra, ma rinunciando all’incarico di responsabile del patrimonio immobiliare, non potevo più, come avrei potuto e voluto fare, partecipare alle apposite riunioni che la federazione doveva promuovere, ne andare nelle località che me l’hanno chiesto e dire come la pensavo a proposito della scelta della fondazione. Tra questi compagni ero molto benvoluto perché per tanti anni, mi avevano trovato sempre disponibile e impegnato con serietà nella soluzioni dei tanti problemi che si prospettavano e l’ho fatto sempre in prima persona. Quando la scelta che a norma di regolamento (un regolamento che ci eravamo dati col passaggio della titolarità degli immobili alla federazione del partito. Questo richiedeva il parere espresso in forma scritta, di quella determinata organizzazione, quando la misura riguardava l’immobile di quella determinata località). Quindi, quando la decisione doveva essere presa nella organizzazione di mia appartenenza, la sezione Putinati e l’Unione Circoscrizionale di via Bologna, ho dato battaglia. Non sto a descrivere le numerose riunioni che si sono rese necessarie. Incontri coi vertici in federazione. Per ragioni di brevità non sto a descriverli, ma conservo una copiosa documentazione. Puntavo alla prescrizione dei termini che il partito fondatore dettava alla fondazione. Una sorta di “patto parasociale” che le articolazioni territoriali parietarie sostanziali degli immobili e la federazione che ne deteneva la formale proprietà prescrivevano nell’atto costitutivo che peraltro, lo si è saputo dopo, era già stato compiuto. Stavamo discutendo ad agosto e settembre e dagli atti notarili la fondazione risultata già istituita a luglio. Né è sortito, come conclusione,una lettera del segretario della federazione abbastanza blanda.
La soluzione non fu per niente soddisfacente e mi ha portato per non rovinarmi ulteriormente la salute ad evitare di partecipare alla parte che ha sottratto tutte le disponibilità finanziarie delle organizzazioni territoriali, versate al tesoriere della federazione, perché col cambio dei denominazione, vuoi cessate e se mantenete qualcosa diventa sottrazione. Una operazione del genere non l’avrei fatta neanche sotto tortura. Era tanto sbagliato andare a pretendere da organizzazioni statutariamente autonome che avevano già versato i loro contributi, dato alla federazione la quota fissata negli obbiettivi annuali, il frutto del loro lavoro, delle loro iniziative, dei risparmi realizzati con tanto attaccamento e passione. Altra cosa sarebbe sta presentarsi con umiltà e dichiarare uno stato di necessità e cercare motivato aiuto, per non lasciare in sospeso delle pendenze. Misi in una lettera tutta la mia contrarietà, portata alla segretaria provinciale del PD, da poco nominata, dopo avergli consigliato in una affollata assemblea di fermare quella sciagurata operazione. Per la gestione del fondo ho saputo che è stato costituito un comitato di tesoreria, uno strumento previsto dallo statuto e che prima non si era mai voluto. Quindi, in buona sostanza, costituivamo una nuova forza politica, il partito democratico, in questo riponevamo le tutte le nostre speranze. ma Il nuovo ha dovuto nascere dal niente e doveva per mettersi all’opera, indebitarsi col vecchio. Chi aveva versato tutte le sue disponibilità, da ora in poi per promuovere qualsiasi iniziativa che comportasse una spesa doveva richiedere un prestito al vecchio. Diveniva un incredibile e inaudito potenziale condizionamento.
Nelle organizzazioni della provincia di Ferrara la discussione deve essere stata abbastanza intensa e tuttavia si è svolta nella riservatezza. L’unica notizia che ho trovato sulla stampa locale l’ho letta sul Resto del Carlino- Ferrara, nella pagina di cronaca Argenta Porto Maggiore il 7 dicembre 2007, in poche righe dal titolo, ANITA “Patrimonio ex DS passa di mano”. Il testo integrale: “Passa di mano il patrimonio degli ex Democratici di sinistra relativo al parco delle feste 7 Aprile di Anita. Infatti, terreno, immobili ed attrezzature sono confluiti nella Fondazione che fa capo al nuovo Partito Democratico. Una soluzione questa, già adottata da altre realtà e conseguente ai nuovi assetti politici. Ad Anita, il trasferimento è avvenuto al termine di una accesa assemblea cittadina, che ha avuto non pochi strascichi polemici.” Qualora fosse stato proprio così ma, o ha capito male il giornalista o l’illustrazione non è stata per niente veritiera.
La sto facendo troppo lunga e quindi concludo con una precisa esortazione: una sorta di testamento: gli immobili che ora sono confluiti nella fondazione denominata “L’approdo” per ragioni di buona politica, moralità, coerenza con gli impegni assunti devono restare nella piena e totale disponibilità delle organizzazioni territoriali del Partito Democratico, e per essere ancora più preciso, di Anita, Porto Maggiore, S.M. Codifiume, Poggiorenatico, Bondeno, Via Bologna, Via Ortigara, Quacchio, ecc. fino a completare l’elenco. Buon lavoro.

Pci-Ds

L’oro del Pci, Torri: “Rendere conto pubblicamente? Mai pensato, ma si può fare”

Nel nostro viaggio sulle tracce del tesoro del Pci (e dei suoi eredi: Pds-Ds) c’è stato un piccolo colpo di scena. Dal confronto con Secondo Cusinatti, presidente della fondazione L’Approdo che gestisce il patrimonio immobiliare, era emerso come il denaro contante fosse stato in massima parte conferito al Pd. Altre fonti hanno però provveduto a farci sapere che le cose stanno diversamente e che la cassa è tuttora gestita da un organismo che fa capo all’ultimo amministratore dei Ds, Attilio Torri, sulle cui tracce ci siamo immediatamente lanciati.
L’incontro di questa mattina è stata preceduto da un vivace colloquio telefonico nel quale Torri ha cercato in ogni modo di chiamarsi fuori. Prima affermando di “non c’entrare più nulla”, poi di “non essere interessato a parlare” menando vanto di non avere mai rilasciato interviste nei 16 anni in cui è stato sindaco di Lagosanto, e infine capitolando di fronte alla nostra insistenza, “visto che non riesco a scrollarmela di dosso”.

Perché la liquidità non è stata conferita alla fondazione?
“I Ds in quanto azienda avevano dipendenti e debiti da gestire. Per la fondazione sarebbe stato complicato”
E’ stato fatto così ovunque?
“Secondo me sì”
Ma non vi siete consultati a livello nazionale?
“Sì, ma solo per la gestione del patrimonio immobiliare”
A quanto ammontava la somma avuta in consegna nel 2007?
“Non ne ho la più pallida idea”
Strano, lei amministra un fondo da sei anni e non ha idea di quale sia l’importo?
“Non so, non ricordo. Mah, oggi saranno 200/250mila euro. Ma nel 2007 erano di più”
Quanti di più e come avete speso quelli che mancano?
“Abbiamo pagato i debiti”
E quindi quanti ne avevate in cassa? Almeno a spanne lo saprà?
“Non si arrivava al milione, diciamo 6/700mila”
Dove sono depositati e quali sono gli impieghi?
“Sono in un conto della filiale Unipol Banca di via Bologna, una piccola parte in liquidità il resto in titoli”
E una volta saldati tutti i debiti cosa farete del residuo?
“Non ne ho la più pallida idea”
Ma non considera doveroso rendere pubblico ciò che fate?
“Se i Ds avessero finanziamenti pubblici sarebbe un conto. Ma così…”
A me per la verità risulta che sino al 2011 i contributi pubblici siano stati percepiti…
“A Ferrara non sono mai arrivati”
A parte questo, sono comunque soldi derivanti da sottoscrizioni, lavoro volontario, non denari vostri…
“Se un iscritto vuol saperlo può domandarcelo, basta che mi telefoni e glielo dico”
Ma voi non avvertite il dovere di rendere conto?
“Non ci è mai venuto in mente”
Quindi per lei non sussiste un problema di trasparenza? Potreste cominciare a pubblicare quantomeno i bilanci annuali…
“Non l’abbiamo mai fatto, ma in effetti si potrebbe benissimo anche fare. Io sono disponibile. E’ una cosa che potrei anche proporre al Consiglio di tesoreria”
A proposito, quante persone la compongono?
“Quattordici, tutta la provincia è rappresentata. Fra gli altri ci sono Franca Vandelli di Bosco Mesola, Giovanni Nardini di Bondeno, Rodolfo Spanazza, Alberto Bovinelli e Maurizio Benvenuti di Ferrara… Ci riuniamo almeno una volta l’anno per il bilancio e poi quando c’è un problema da affrontare. Il compito è quello di sistemare crediti e debiti e liquidare il partito che ancora giuridicamente esiste anche se non svolge più attività politica”
Siete pagati per questo?
“Nessuno di noi percepisce un soldo, né gettoni né rimborsi. Né il presidente, né i consiglieri, né la segretaria di amministrazione che ci dà una mano a titolo volontario”
Lei è stato il primo presidente della fondazione L’Approdo, poi si è dimesso. Perché?
“Io ero presidente e tesorieri insieme. Una volta costituita la fondazione ho esaurito il mio compito”
Era previsto quindi?
“No, ma è andata così”
Con Cusinatti che è subentrato nel ruolo vi sentite regolarmente?
“Ci sentiamo quando c’è bisogno”
L’ultima volta quando è stato?
“Quando i Ds hanno deciso di liberare la sede di viale Krasnodar perché c’è stata la necessità di trasferire al centro feste di Vigarano l’archivio dei Ds che appartiene alla tesoreria. I documenti saranno visionati e selezionati da Anna Quarzi dell’Istituto di storia contemporanea al quale a suo tempo già abbiamo donato l’archivio del Pci. Ho imballato io il materiale e il trasloco l’ho fatto con la mia macchina ottenendo eccezionalmente un rimborso di 20 centesimi a chilometro, inferiore alla tariffa Aci”
Avete dato soldi alla fondazione?
“Solo all’inizio, circa 50mila euro per le minute spese necessarie alla manutenzione del patrimonio immobiliare che è in loro possesso”
E al Pd?
“Sì, ma non ricordo quanto”
Più o meno di quanto è andato alla fondazione?
“Saranno stati 70/80 mila euro”
E’ stato giusto nel 2007 impedire che liquidità e patrimonio passassero al Pd?
“Non ne ho idea”
Ma come? Lei era un dirigente del partito!
“E’ stato deciso a livello nazionale…”
E quindi va bene così. Ma ora, ciò che resterà una volta liquidati i Ds, a suo parere, è più sensato che vada alla fondazione o al Pd?
“Per adesso giuridicamente ci sono ancora i Ds”
Ma per quanto? C’è una data per la liquidazione?
“No, ne abbiamo discusso in tesoreria ma non abbiamo deciso. Ci occupiamo ormai solo delle passività e i debiti li abbiamo onorati tutti, ma a quanto mi hanno spiegato c’è il rischio di rivalse da parte dell’Inps entro un termine di circa dieci anni dalla data ci cessata attività”
Quindi c’è la possibilità che questa situazione si trascini per altri quattro anni?
“Sì, è possibile”

Ci salutiamo dandoci un nuovo appuntamento, con l’impegno di Torri di produrre bilanci e documenti contabili.

5 – CONTINUA

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Emergenza rifiuti, riprogrammare il ciclo integrato

Il settore dei rifiuti cresce costantemente di importanza, di dimensione e di complessità, ma rimane ancora molto lontano da una soluzione di sistema, continuando a vivere su emergenze e contrasti. La criticità è ormai cronica in molti territori si sta allargando anziché trovare soluzioni condivise. E se ripensassimo le regole del sistema integrato dei rifiuti?
Analizzando il ciclo integrato dei rifiuti si rileva infatti come, a seconda del ruolo e della dimensione del gestore ne discendono comportamenti aziendali e strategie imprenditoriali che in alcuni casi distorcano il valore dei principi di base del sistema. Il punto di fondo è far coincidere o meglio convivere differenti strategie di riferimento che da una parte permettano la migliore ricerca di qualità e di sostenibilità a difesa dei cittadini e dall’altro che sia comunque avviato un concreto processo di industrializzazione e di modernizzazione del settore. Si tratta di soluzioni divergenti ma si può (anzi si deve) trovare un corretto sistema di regolazione che sappia valorizzare entrambe le posizioni. A questo proposito si propone una analisi disgiunta del sistema che potrebbe avere utili ritorni sia in termini di efficacia gestionale sia di regolazione e dunque di risposta più efficiente di sistema. Attuare una riforma dei servizi di interesse pubblico-economico significa soprattutto porsi come obiettivo il miglioramento della qualità ambientale per l’utente, la generazione delle risorse per lo sviluppo dei servizi, il contenimento dei prezzi, la tutela dell’ambiente, l’introduzione di meccanismi di qualità nei servizi, la sicurezza e la sopportabilità per il cittadino. Proviamo allora a vedere se sia possibile individuare delle aree separate di riferimento in cui poter meglio definire le priorità e le responsabilità di una politica economica ambientale.
In una prima analisi pare possibile separare il ciclo integrato in tre grandi macroaree:
– il comparto dell’igiene urbana e dunque della pulizia del suolo, ovvero i servizi di pulizia del suolo e la manutenzione del verde pubblico, insomma la gestione del territorio pubblico che tanto qualifica i centri urbani e la qualità della vita dei cittadini
– l’importante comparto dei servizi di gestione e di raccolta dei rifiuti (anche allargando il concetto ai non assimilati ed alcuni speciali) con il grande obbiettivo delle raccolte differenziate ed in particolare dell’incremento del riciclo ad obiettivi significativi
– il delicato settore degli smaltimenti e dei trattamenti e dunque la gestione degli impianti, la crescita delle tecnologie e l’attenzione all’inquinamento del suolo e dell’aria.
E’ evidente come queste tre aree siano tra loro fortemente integrate e complementari, ma nello stesso tempo emergono specificità e peculiarità che potrebbero trovare maggiori fattori di sviluppo se non si ritrovassero spesso ad “ostacolarsi” tra loro. Senza dunque mettere in discussione l’importanza del ciclo integrato, si invita solo a fare anche valutazioni sull’opportunità di prevedere alcune regolazioni separate basate sulle priorità economiche, ambientali e di gestione del settore. La dimensione modesta degli ambiti provinciali e la presenza diffusa di piccoli e medi impianti (ampliati gradualmente) potrebbe poi essere sostituita da una programmazione strategica di sistema in cui impianti maggiori, a tecnologia evoluta, spesso più economici ed anche più affidabili, oltrecchè meno inquinanti, possano rispondere alle esigenze di un territorio più ampio. In Emilia Romagna ci si sta provando, ma con che tempi? E altrove?

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Quel 12 dicembre… Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi

“Ore 16.37. Un boato enorme seguito da una altissima fiammata sconvolge la sede centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana 4, in pieno centro di Milano: i vetri dell’edificio, squassato dall’esplosione, vanno in frantumi, decine di clienti vengono buttati all’aria come fuscelli, i corpi dilaniati; altre decine di impiegati vengono scaraventate a terra, pur protette dal grande bancone dietro il quale lavorano. In un attimo è il finimondo, il panico… Ma fin dal primo momento una cosa è certa: è un massacro. Il bilancio verrà dopo, spaventoso: tredici morti (saliranno a sedici), novantun feriti. Sul primo momento nessuno capisce che cosa sia avvenuto, qualcuno dice che sono saltate le caldaie giù in cantina, ma le caldaie sono intatte, continuano a funzionare regolarmente. La certezza viene poco dopo: l’esplosione è stata provocata da una bomba ad altissimo potenziale. Non si tratta di un tragico destino, ma di una fredda, determinata, folle azione. Un’infame provocazione”.
Rileggo queste righe, da me scritte tre ore dopo la strage, sull’enciclopedia del “XX Secolo” della Mondadori, che, per rappresentare l’evento, riprese l’incipit del mio articolo in prima pagina del “Giorno”, il cui titolo a otto colonne, era “Infame provocazione“. Non era la prima provocazione: l’attacco al paese che voleva una sana e moderna democrazia antifascista, era stato preceduto dalla strage di Portella delle Ginestre, dalle condanne agli scioperanti degli anni dal ’50 al ’54, dagli eccidi di Reggio Emilia – cinque morti, 1960 – dove la polizia, appostata sui tetti delle case, sparò a mitraglia sui dimostranti in corteo, dai vari tentativi di colpi di stato, nel ’60, appunto, con il governo democristiano di Tambroni allargato ai fascisti, e nel ’64 con il golpe quasi riuscito del servizio segreto Sifar: la stagione del terrore durava dall’immediato dopo-guerra. E il terrorismo continuò a mietere vittime: da piazza Fontana (1969) al Natale del 1984, i morti assassinati dai neofascisti, con la vigile complicità dei servizi segreti al soldo delle forze reazionarie governative, furono 149 e i feriti 688. Quale il fine di tanto sangue di poveri cittadini incolpevoli? Certamente abbassare la forza della protesta popolare e indebolire la presa di coscienza dei giovani, assicurando al potere, costituito e no, la licenza di lavorare per interessi non sempre leciti e, comunque, incomprensibili per il cittadino lavoratore. Banche, grandi finanziarie, multinazionali, politiche vessatorie attraverso una tassazione che non colpisce gli evasori: il nodo, ancora oggi, è sempre quello, la politica di destra e il neocapitalismo ne hanno tratto vantaggio e tuttora affliggono professionisti, commercianti, artigiani, operai, cioè il popolo attivo che ha mantenuto i privilegiati italiani, figli indegni della democrazia. Se qualcuno, quando parla di terrorismo, confonde la matrice addossando ai “rossi” il peso di tutte le responsabilità, quel qualcuno è non soltanto male informato, ma in malafede. Oggi paghiamo le spese di una situazione creatasi anche attraverso un attacco massiccio propagandistico del danaro, creando una generalizzata disinformazione e aiutando un paradossale ritorno a una disarmante povertà culturale, oltre sei milioni sono gli analfabeti, siamo un paese sottosviluppato. Questi ultimi vent’anni berlusconiani hanno raccolto il testimone da quel progetto golpistico che ha insanguinato le nostre strade. E il prossimo futuro rimane pieno di inquietanti interrogativi

Pci-Ds

Oro del Pci, la lettera di Bottoni censurata dall’Unità

Due mesi fa Giorgio Bottoni, storico amministratore del Pci e poi tesoriere della federazione provinciale, scrive all’Unità per spiegare le ragioni che nel 2007 lo avevano indotto a lasciare i Democratici di sinistra. Nella lettera racconta che ciò avvenne prima che il patrimonio del partito nel quale aveva militato per tutta la vita fosse congelato all’interno di una fondazione privata, per impedirne il passaggio all’allora nascente Partito democratico. Egli definisce quell’atto una “sottrazione al legittimo proprietario”, aggravata “dal capestro delle nomine a vita degli amministratori”.
La sua lettera, datata 14 ottobre 2013, non viene pubblicata. Noi l’abbiamo recuperata e la riproduciamo integralmente qua sotto.

“Cara Unità,

Ritorno a chiederti un po’ di spazio che normalmente mi stai negando, almeno nelle ultime occasioni, per aiutare Emanuele Macaluso, i cui scritti leggo sempre con molto interesse, ad individuare, stando alla sua metafora la vera rete, altrimenti quando scrive “a proposito di autogol” rischia di buttare la palla in tribuna. Nello scritto odierno, mentre racconta della sua” esperienza eccezionale” ad un certo punto scrive “Mi chiedo: perché il Pd che voleva unire queste storie, ha mollato le Case del popolo…?”

Da diretto testimone a Ferrara, ultimo amministratore e primo tesoriere della Federazione provinciale del partito (il cambio della denominazione per la stessa funzione è stata decisa dal congresso nazionale del 1989), per venti anni mi sono occupato dei patrimoni immobiliari del partito, curandone i passaggi dal Pci al Pds ai Ds senza perderne neppure un mattone, ma accrescendone quantità e qualità d’uso.
Quando si è posto il problema di fare il Pd, una scelta da me condivisa e sostenuta, diversamente anche da Macaluso, invece di ripetere quanto fatto nei precedenti passaggi, la direttiva che veniva dalla tesoreria nazionale dei Ds è stata di non attuare il passaggio delle sedi al Pd, ma di dare vita a delle fondazioni, per valutare come si affermava la nuova formazione politica. Una sorta di attesa di giudizio, inoltre nello statuto-tipo da attuare in tutte le fondazioni – credo siano diventate 93, una per ciascuna Federazione – a modifica della proposta iniziale di confluire in un unica fondazione nazionale, vi era il capestro: la nomina a vita degli amministratori delle fondazioni stesse. Decisioni che mi hanno portato a dissentire, rompendo un rapporto quotidiano, durato una vita, perché quella scelta diventava di fatto una separazione con sottrazione al legittimo proprietario, il partito per il quale erano stati compiuti sacrifici, giustamente ricordati, da parte dei militanti e dei nostri elettori. Il PD non ha mollato proprio niente, eventualmente gli è stato sottratta la titolarità delle sedi, Case del Popolo comprese, prima ancora che il Pd nascesse.
Sarebbe apprezzabile se l’iniziativa della “Notte Rossa” (promossa il 12 ottobre, particolarmente a Bologna e provincia) tra le finalità indicasse non una generica sinistra, ma un Pd che ne rappresenta l’autentica prospettiva e che legittimamente ne potrebbe rivendicare e utilizzare la titolarità.

Quanto ai temi che il congresso giustamente deve affrontare che significa discutere, mettere a confronto le posizioni, riflettere sulle esperienze: il dramma degli immigrati, chi fugge dalla miseria, la condizione vergognosa delle nostre carceri. Di tutto ciò dobbiamo attribuirci le colpe? Dobbiamo scordarci chi ha governato, promesso e non fatto? Dobbiamo tenerci la Bossi Fini, perché Alfano ritiene la soppressione di quella legge sarebbe un atto demagogico? Dobbiamo tenerci la Giovanardi che mette in galera i drogati? Dobbiamo scordarci dei costi pagati politicamente quando il condono è stato attuato dal governo Prodi? Dobbiamo prendere o lasciare? Sarà meglio entrare nel merito, come lo stesso Epifani ha già detto, con gradualità, il condono e amministra, alla fine, o come ad eventuali ultime misure.
Attribuire la scelta di Renzi come frutto dei sondaggi, o il dire che ragiona come Grillo, mi sembra che si commetta un errore e facciamo un torto alla nostra intelligenza e a quella delle persone che dovrebbero esprimerci il proprio consenso”.

Giorgio Bottoni

Ferrara, li 14.10.2013

4 – CONTINUA

museo-valli-argenta

Nasce “Consumiamo il consumabile”: una mappa per la sostenibilità

E’ di fine novembre la presentazione del nuovo progetto a respiro provinciale Consumiamo il Consumabile: la prima mappa per il consumo sostenibile.
Il suo obiettivo? Segnalare ai cittadini tutti gli esercizi o le realtà che sul territorio si attengono e lavorano secondo i principi del rispetto ambientale. Un sito web e una App gratuita per poterli individuare.

Un’iniziativa ampia e strutturata che interessa realtà che si inscrivono in categorie quali Ristorazione e Ospitalità, Acquisti Sostenibili, Mercati Contadini, G.A.S (Gruppi di acquisto sostenibile) e Fontane Pubbliche.

Chiare e imprescindibili poi le regole per tutti gli esercizi commerciali e non che vorranno aderire, tra di esse: la riduzione nell’uso di packaging e imballaggi, l’adozione di prodotti locali, freschi e di stagione, mercati a km 0, rivendite di oggetti usati e di recupero o l’utilizzo di energie rinnovabili.

A titolo completamente gratuito, le realtà che si attengono a tali principi potranno essere inserite sulla mappa di Consumiamo il consumabile (contattando il Ceas Museo delle Valli) e individuate così dai consumatori che operano scelte consapevoli ed attente a temi green ed ambientali.

Promosso da Ceas Museo delle Valli di Argenta, Ceas Centro Idea Ferrara, Ceas Giardino delle Capinere Ferrara, Ceas Mesola, dai Comuni di Argenta e Mesola, nonché da Soelia Spa e con il contributo della Regione Emilia Romagna, il progetto in fase di start-up promette di segnare un nuovo importante passo per la coscienza ambientale del nostro territorio.

Pci-Ds

L’oro del Pci, Valente: “Io col Pd non c’entro, ma quei soldi spettano a loro…”

“Quelli della fondazione sono compagni di specchiata moralità, li conosco da anni. Ma questo non sposta il problema: c’è una stortura che va affrontata e risolta”. Alfredo Valente, oggi ai vertici del Prc a Ferrara, ripercorre la sua vicenda. “Sono stato iscritto al Pci dal 1976 fino al 1992. Sono uscito un anno dopo il congresso di Rimini che decretò la fine del Partito comunista italiano e la nascita del Partito democratico della sinistra. Rimasi disorientato e mi servì tempo per capire cosa fare. Da una parte c’era la neonata Rifondazione comunista con a capo Cossutta, un uomo con il quale non mi identificavo. Io, come Rossi e Zappaterra, ero dall’area ingraiana e Ingrao, pur in dissenso era rimasto nel Pds. Ma dopo un anno capii che non potevo più restare e approdai a Rifondazione, nel frattempo arricchita dall’apporto di compagni di Dp e altri soggetti. Allora ritenevo che al nuovo soggetto che si era staccato dal Pds fosse dovuto un risarcimento, una parte del patrimonio. Ma la scelta fu diversa e tutto rimase al Pds e successivamente passò ai Ds. Per logica e per coerenza ritengo che ora quel patrimonio spetti al Pd, c’è un’indiscutibile continuità del gruppo dirigente. Negarlo equivarrebbe a un’espropriazione nei confronti di chi è confluito dai Ds al Pd. Non ho alcun interesse a sostenere questa tesi. Io faccio ancora parte di Rifondazione. Paradossalmente se fosse riconosciuto il diritto della fondazione di trattenere il patrimonio potremmo avanzare delle rivendicazioni anche noi: se la storia è finita ognuno si riprende la sua parte. A questo punto potremmo anche intraprendere un’azione collettiva, una class action come si usa dire. Ma ripeto, per logica quel che c’è spetta al Pd”.

3 – CONTINUA

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Il diritto di tutti i bambini e le bambine a una scuola d’infanzia di qualità

di Loredana Bondi

Ricorre in questi giorni l’anniversario della legge (la 1044 del 2 dicembre 1971) dello Stato italiano che ha istituito il servizio educativo dei Nidi sulla base di intenti davvero edificanti dal punto di vista sociale e culturale. E’ stata la prima forma di disciplina normativa e di fatto è rimasta per decenni pura enunciazione di principio causa finanziamenti assolutamente inadeguati per realizzare l’obiettivo originario.
Da allora, tante promesse e impegni di Governi e Parlamento si sono udite, ma non si è mai concretizzato l’impegno reale di investire nell’educazione e cura dei cittadini più piccoli. Perché questo obiettivo costa “troppo” per la comunità e, ad eccezione di qualche stanziamento all’interno della finanziaria di qualche anno fa con il Governo Prodi, non se ne è più parlato.
L’attuale Legge di stabilità non stanzia un euro per i servizi per la prima infanzia, mentre in altri paesi dell’Unione Europea, ad esempio la Francia, il finanziamento è pari al 50% dell’investimento. Gli Enti locali hanno tentato di arginare le grandi difficoltà finanziarie in cui si trovano, taluni aumentando le rette, altri esternalizzando (o addirittura chiudendo alcune sezioni di Nido), mettendo ancor più in crisi le famiglie che, già colpite dalla situazione economico-sociale, sono spesso costrette a ritirare i propri figli da scuola. La crisi prolungata produce un welfare incapace di difendere i diritti dei bambini e i servizi per l’infanzia; aumentano così le difficoltà dei Comuni e dei gestori privati a mantenere il sistema esistente.
Ecco perché il Gruppo nazionale Nidi e Infanzia, associazione di promozione sociale che opera a livello nazionale per la diffusione della cultura dell’infanzia e dei suoi servizi, ha organizzato anche quest’anno una serie di eventi pubblici che coinvolgono cittadini, genitori, bambini e operatori con incontri e un flash mob in tante piazze di città e paesi d’Italia per richiamare l’attenzione di tutti su questo grosso tema della vita della nostra comunità, proprio in occasione della ricorrenza della Legge 1044 del dicembre 1971 di istituzione dei Nidi e della Legge 444 del 1968 della Scuola statale dell’infanzia.
E’ l’occasione per ribadire la necessità di garantire ai bambini e alle loro famiglie un percorso educativo di qualità che richiede di essere consolidato e riaffermato con forza, perché rappresenta un patrimonio di risorse culturali, umane e professionali che sta correndo grossi rischi. Si chiede, quindi, ai Consigli Regionali e Comunali di pretendere dal Governo e dal Parlamento, in sintonia con le politiche europee, con i documenti della Commissione Europea e con l’esperienza consolidata dell’Ocse una serie di interventi:
primo, una nuova legge che garantisca il diritto all’educazione fin dai primi anni di vita e sancisca la continuità educativa 0-6 anni con il sostegno e potenziamento dei servizi per l’infanzia di qualità;
secondo, un welfare capace di salvaguardare i diritti di tutti i bambini, ricordando che là dove sta bene un bambino, stanno bene tutti;
terzo, la salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio di servizi, di idealità, di cultura e concretezza che la crisi prolungata sta mettendo a rischio e con essa lo sviluppo dell’intero Paese.
La capacità di sviluppo, intelligenza e personalità dei propri cittadini è la ricchezza di un Paese. Iniziare dai più piccoli significa investire nel presente e nel futuro. Credo davvero che in Italia il percorso formativo non debba finire dopo, ma debba cominciare prima con Nidi e scuola dell’infanzia di qualità per tutti.

Pci-Ds

Panebianco sul Corriere della Sera cita “l’oro del Pci”

La questione, sollevata ieri da ferraraitalia, relativa al patrimonio ex Pci conservato da una rete di fondazioni private non ha solamente un significativo risvolto etico ma risulta nodale in questa fase della vita politica del nostro Paese. A segnalarne il rilievo è, nel suo editoriale di oggi sul Corriere della Sera, il noto politologo Angelo Panebianco, che scrive: “Sarà interessante soprattutto vedere come Renzi affronterà una questione per lui cruciale, quella dell’ ‘oro del Pci’ (il patrimonio immobiliare del vecchio partito). L’Italia è un curioso Paese nel quale può accadere che i beni di chi è stato dichiarato ufficialmente defunto non passino agli eredi, come ci si aspetterebbe, ma vengano invece messi ‘al sicuro’ in qualche Fondazione, in attesa di non si sa che cosa. Renzi ha due ottime ragioni per affrontare la questione. Se non ne viene a capo non potrà sconfiggere definitivamente il vecchio partito di apparato. E non potrà tenere fede all’impegno di abolizione (vera) del finanziamento pubblico ai partiti. Si ritroverebbe al verde o quasi. Le donazioni che affluirebbero dai suoi sostenitori probabilmente non gli basterebbero. E con pochi soldi è difficile fare politica”.

Su questo tema ferraraitalia intende sviluppare la propria riflessione e sollecita a intervenire, per arricchire il confronto, anche quanti abbiano argomentazioni da addurre o vogliano esporre il proprio punto di vista.
Al riguardo Gaetano Marani, autore del volume autobiografico “I miei 60 anni nel Pci”, prima tesoriere poi contabile del partito, da noi interpellato ricorda che “nel 2007 ero già fuori, ma pensavo che sarebbe stato opportuno fondere nel nuovo partito tutto quanto: debiti, crediti e patrimonio di Ds e Margherita. Invece si è deciso di congelare il patrimonio in attesa di vedere se l’unione funzionava. Questo è accaduto anche a causa di un atteggiamento ondivago dei dirigenti dei Ds, sempre incerti sulle decisioni da prendere”. E oggi come la vede quest’uomo che ha goduto nell’organizzazione e fra i militanti di incondizionata stima per le sue qualità morali? “Sono ancora della stessa opinione. La fase transitoria non si può trascinare all’infinito, altrimenti resta sempre un equivoco irrisolto. Se i due partiti si sono saldamente fusi tutto va ricondotto a unità e la restituzione del patrimonio è indispensabile per il suo consolidamento”.

2 – CONTINUA

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Renzi, il pericolo del revanscismo generazionale

di Giuseppe Fornaro

La scuola Mediaset ha lasciato il segno sulla comunicazione del neo segretario del Pd. A Renzi, infatti, va riconosciuta una grande capacità di comunicazione, un’attenzione a toccare le corde sensibili dell’uditorio, a porsi come il capitano di una squadra. “Sono orgoglioso di voi” ripetuto varie volte.
Devo confessare, però, che sentir parlare Renzi è stato un choc. Un discorso duro, dove non solo viene riaffermato il principio più volte ribadito della rottamazione, ma è stato lo sdoganamento, in più passaggi nei trentatre minuti di intervento, della contrapposizione generazionale, un principio pericoloso per la tenuta sociale. Anziani contro giovani, coloro che avrebbero fallito (a detta del neo segretario) contro coloro che hanno tutto da costruire e che finora sono stati esclusi dalla gestione del potere.
Di una verità oggettiva (l’esclusione dei giovani dal potere decisionale) Renzi ne fa un assioma per rivendicare l’indispensabilità di un ricambio generazionale. “Tocca a noi guidare la macchina. Tocca a noi che eravamo alle medie quando cadeva il muro di Berlino. Tocca noi che abbiamo scelto di iscriverci a giurisprudenza quando saltavano in aria Falcone e Borsellino. Tocca a noi che siamo cresciuti cittadini globali orfani della politica” (e cita i crimini di guerra del Ruanda e della ex Jugoslavia come simbolo dell’impotenza della politica). “Siamo cresciuti in un mondo orfano di politica”. Ora arriva Renzi e improvvisamente la politica, per una sorta di palingenesi, dovrebbe rinnovarsi attraverso il rinnovamento anagrafico.
E ancora, un altro passaggio ancora più duro per le implicazioni culturali oltre che politiche. “Noi stiamo cambiano i giocatori, non stiamo andando dall’altra parte del campo. Stiamo cambiando giocatori che hanno dato il meglio di se stessi, ma adesso hanno bisogno della sostituzione. Credo sia arrivato un momento in cui non possa bastare più continuare a sentirsi raccontare quanto è stata bella la loro storia, è arrivato il momento di scrivere la nostra storia e non solo sentirsi raccontare quanto è stata bella la storia degli altri”. Come se quella storia narrata non fosse anche la storia dell’emancipazione di intere generazioni dalla sottomissione, la fame, la negazione dei diritti, ma fossero una favola dal “lieto” fine. E qui potrebbe aprirsi un varco ai tanti relativismi storici di cui negli ultimi due-tre decenni se ne sono visti di tutti i colori. Dove vuole arrivare Renzi?

Ma c’è un passaggio che mi ha fatto saltare sulla sedia (oltre a quello, che non merita commento, sul sindacato la cui tessera sarebbe un viatico per la carriera, sic!) quando ha detto: “Talvolta abbiamo detto che era giusto privatizzare e abbiamo svenduto, non solo per colpa della sinistra, ma anche nostra”. Renzi, “nostra” di chi? Tu non ti senti parte della sinistra? O per te, in te, parlava qualcun altro?

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La sconfitta di Cuperlo figlia di una politica sciagurata e subalterna

Fra i commenti sulla sconfitta di Cuperlo prevale un leit motiv: è finita la storia degli eredi del Pci. Sono d’accordo. Con una avvertenza: quando si farà questa ‘storia’, si vedrà che il post-Pci è stato diretto in un modo sciagurato… Se siamo arrivati all’esito di questi mesi (un partito che deriva da una delle più grandi forze della sinistra europea, oggi nelle mani di due leader che non c’entrano niente con quella storia: Renzi e Letta…) più che merito dei ‘vincitori’ è demerito di un’intera classe dirigente che ne ha combinate di tutti i colori. E’ stata un disastro sul piano etico, progettuale, politico… Ha selezionato un personale dirigente (nazionale e locale…) all’insegna del tatticismo deteriore, opportunismo, carrierismo. E’ stata complice nella costruzione della ‘casta’ con tutti i privilegi e benefit approvati in questi decenni insieme alla destra berlusconiana in Parlamento e nelle Regioni. E’ stata subalterna a tutto e a tutti. Non ha mai avuto uno scatto di innovazione e combattività. Alla fine è stata percepita come una zavorra inaccettabile: di qui la vittoria di Renzi come frutto di una vera e propria repulsione verso costoro…
E adesso? Adesso la prova dei fatti e degli atti politici riguarda chi ha vinto. Infine, mi auguro che finisca il tempo della battute ‘grottesche’ (ieri Renzi: “ci manca Mike Bongiorno…”); e che si presti attenzione al ‘simbolico’ (la delirante telefonata di complimenti del delinquente Berlusconi, con accompagnamento di applausi delle signore presenti: “bravooo!”).

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Il potere del libro per educare alla bellezza del corpo e dei rapporti

Ventitré racconti per spiegare a bambini e adolescenti cos’è la violenza di genere, in tutte le sue declinazioni. Per fare capire loro che bisogna evitarla non per paura di essere ‘puniti’, ma perché è sbagliata, punto e basta. Perché è innaturale, punto e basta. Perché la nostra compagna di banco e di vita va rispettata, punto e basta. Li hanno scritti 23 autrici di favole e sono raccolti nel libro Chiamarlo Amore non si può, edito per i tipi Mammeonline. E se il nome della piccola casa editrice di Foggia rimanda alla cultura digitale, va detto invece che il testo è di carta, pronto per essere sottolineato, bistrattato con le pieghe agli angoli delle pagine, consumato. Perché la vera sensibilizzazione, come spiega Donatella Caione, responsabile della casa editrice, passa per la cultura. E attecchisce tanto di più se ad assimilarla sono i ragazzini di oggi, gli adulti di domani. Capovolgendo una prassi consolidata per cui gli adulti parlano agli adulti, Caione ha deciso che no, il futuro si cambia soltanto se a fare propri nuovi modelli comportamento sono i ‘grandi’ di domani. Presentato nei giorni scorsi alla Sala Conferenze della Camera dei Deputati, del testo (i cui proventi andranno all’Aidos, Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) si stanno occupando tutti i media nazionali. E in corso sono presentazioni nelle scuole dello Stivale perché l’argomento non va esaurito nelle settimane che precedono o seguono le iniziative relative alla Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne.
Racconti di fantasia o attinti dalla realtà?
Entrambe le cose, nel senso che ovviamente c’è la fantasia, che si snoda però su vicende forti, di stupri, di botte, di angherie psicologiche. Con un linguaggio ed esempi consoni. Si parla di storie d’amore tra adolescenti, di ‘pressioni’ fatte attraverso i social network per la rabbia causata dall’abbandono. Abbiamo tenuto in considerazione l’età e la sensibilità dei ragazzi, tenendo però in altrettanta considerazione che i nostri figli vengono bombardati ogni giorno dalla cronaca, dai programmi di cronaca nera. Non sono avulsi dalla realtà, al contrario ne conoscono le efferatezze. La narrazione mette in campo tanti fattori, tanti sentimenti, li aiuta a comprendere tanti passaggi. Ogni storia contiene un personaggio positivo, dunque uno spiraglio, una speranza da cui ricominciare.
L’obiettivo?
Le ragazzine debbono realizzare che si può dire no, i ragazzini che non possono pretendere. Bisogna educare i maschi al rispetto dell’altrui corpo, le femmine alla dignità. Bisogna uscire da un concetto di mercificazione per cui anche un prodotto per la pulizia della casa, oggi, viene pubblicizzato grazie a una ragazza seminuda. Il richiamo alla fisicità, alla sessualità, è ovunque. E’ necessario mettere uno stop.
Quindi bisogna ripartire dalla scuola?
Certo, formando anche gli insegnanti, diversamente si mettono in campo solo azioni ‘tampone’. Detto questo, vanno superati anche certi gli stereotipi che la scuola si porta dietro. Un esempio? Nelle immagini di famiglia viene rappresentata la mamma in cucina e il padre in poltrona.
In Italia si legge sempre meno. La sua è una bella sfida…
I libri sono un mezzo straordinario per parlare di ‘bene’, per affrontare argomenti delicati, hanno un grande potere. Basti pensare ai bimbi piccoli, cui la mamma legge le favole, magari sul divano, sotto una coperta. Ecco che il libro diventa l’estensione della mamma e lo si amerà per sempre.
Chiamarlo amore non si può, come va letto?
Anche soli o con i genitori vicini, affinché possano mediare, affinché alla fine i nostri figli non si sentano soli e possano fare domande.
Perché solo autrici donne?
Perché vogliamo divulgare un linguaggio di genere, per darci visibilità, perché si parla di emozioni. E perché quel che non si nomina, non esiste.

Info su casa editrice Mammeonline e possibilità di acquistare il testo per le scuole con una speciale scoutistica

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Scenari post-crisi, noio vulevam savuar l’indiriss

Confesso di essere un lettore distratto. Ma mi chiedo perché, nell’oceano di statistiche, grafici, dati e cifre che ogni giorno ci sommerge, non trovino quasi mai posto un ragionamento, un’indicazione, uno studio sul cosa fare per superare questa crisi.
La contrapposizione dottrinale e politica tra rigore e sviluppo tiene ancora banco in Europa, e non si sa ancora quale dei due orientamenti prevarrà. Nel frattempo chiudono imprese, saltano posti di lavoro, si riducono al lumicino le speranze di migliaia di giovani di avere un lavoro ed un futuro. Per l’Italia, il Rapporto Censis 2013 – non certo un bollettino rivoluzionario – punta il dito contro politici, imprenditori e banchieri, additandoli come responsabili primari della crisi. “È impossibile pensare ad un cambiamento – sostiene il Censis – perché la classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di drammatizzare la crisi per gestirla”. Terribile.
Tentiamo qualche ragionamento. Negli ultimi quindici – vent’anni il nostro Paese ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato tra i primi al mondo. Dapprima l’informatica e la chimica; poi l’elettronica di consumo, l’industria aeronautica, gli elettrodomestici e la siderurgia. O si sono perse posizioni, o si è restati marginali.
Rimane in piedi l’auto, con tutte le difficoltà ben note di un mercato maturo e dal futuro imprevedibile. Il fallimento della municipalità di Detroit, città dell’automotive per eccellenza schiacciata da 18 miliardi di dollari di debiti, è un campanello d’allarme preoccupante al riguardo.
Perché sono così in pochi ad indicare come uscire da questa situazione? Nessuno dice cosa si deve produrre in Italia, al posto di quello che non si produce più, e dove lo si deve vendere.
La verità è che il nostro Paese da anni non investe o investe poco nelle intelligenze e in settori nuovi. Quando lo fa, lo fa male. Nella produzione di energia alternative, ad esempio. Il fotovoltaico ha pesato troppo sulla bolletta elettrica e con il calo degli incentivi si è sgonfiato rapidamente. L’utilizzo delle biomasse, soprattutto nella Valle Padana, ha suscitato proteste più che consensi, probabilmente perché non ha utilizzato giuste ed avanzate tecnologie. Più in generale, la green economy – cavallo di battaglia di uno sviluppo alternativo – in Italia non è diventata sistema, nonostante molte e lodevoli iniziative imprenditoriali.
Intanto si aspettano idee per uscire dalla crisi. Dal governo, anzitutto, ma anche dagli imprenditori. Tempo fa il presidente di Confindustria Squinzi ha detto più o meno che, se incentivati da politiche pubbliche, gli industriali italiani ci avrebbero stupito. Aspettiamo fiduciosi, ma non tanto.

Pci-Ds

Il patrimonio ex Pci, sei milioni nelle mani di una fondazione privata

Dov’è finito il patrimonio dell’ex Pci, transitato nel 1991 nel Pds poi ereditato nel 1998 dai Ds ma mai conferito al Pd? La storia non è nuova, ma non sono in molti a conoscerla. Quel patrimonio, fatto essenzialmente di immobili, dall’autunno del 2007 è custodito da una rete di fondazioni private. Quella provinciale, che gestisce le ex case del popolo, i magazzini e gli stabili che un tempo furono del Partito comunista ferrarese e poi dei suoi eredi diretti, si chiama “L’approdo”. A governarla è un comitato di indirizzo, composto da cinque membri nominati a vita e presieduto da Secondo Cusinatti, storico dirigente del Pci copparese. Ne fanno parte Severino Franco, Riccardo Baricordi, Alberto Bovinelli e Daniele Zoli. C’è poi il consiglio di amministrazione, di cui fanno parte cinque persone: il presidente Bracciano Lodi e i consiglieri Maurizio Aguiari, Daniele Ravagnani, Alessandro Tedaldi e lo stesso Cusinatti. Poi ecco il collegio dei (tre) revisori dei conti. Tredici persone in tutto. Lo statuto prevede anche un comitato scientifico con relativo direttore generale ma di questi sino a oggi si è fatto a meno.
“Nessuno di noi percepisce un euro”, si affretta a chiarire Cusinatti, e fa bene a mettere le mani avanti perché di questi tempi il sospetto è legittimo. “Nemmeno i rimborsi spesa – aggiunge – se vado a Bologna mi pago la benzina”. Nessun gettone da 900 euro per la trasferta? Se la ride, ma non si sa quanto di gusto. Per uno che in certi valori crede davvero quel che sta accadendo non è facile da mandare giù.

Ma di cosa stiamo parlando in soldoni? Grossomodo di sei milioni di euro, il valore di una trentina di immobili proprietà dei Ds che non sono finiti nei forzieri del Pd, oltre a circa 170mila euro di rendita annua che deriva dal loro affitto. Cifre approssimate, ricavate dal presidente che al momento del nostro colloquio non ha sottomano i bilanci (“ma sono controllati, c’è la massima trasparenza”, afferma) e per soddisfare la nostra insistenza ci rimanda al sito della Regione dove – sostiene – sono pubblicati. Ma dalla Regione, dopo vane ricerche in rete e un lungo giro di contatti, apprendiamo che in realtà i bilanci delle fondazioni non sono online e per poterli consultare i tempi non sono brevi. C’è il solito iter… Così, sollecitato di nuovo, Cusinatti l’indomani ci richiama e dice di avere ritrovato un appunto al margine di una relazione e snocciola questi numeri. Altro non c’è, perché – spiega – la liquidità di cassa, a Ferrara come in tutta Italia, fu devoluta al nuovo partito ai tempi della fusione, sei anni fa. In ogni caso non è poco. Sei milioni di roba e 170mila euro di rendita annua sono un bel gruzzolo, benché un provento del 3 percento su un simile patrimonio non sia proprio da lustrarsi gli occhi.

A questo punto subentrano gli interrogativi. Il primo è capitale. Perché nel 2007, pur devolvendo la cassa, ci si tenne “l’argenteria”? Diffidenza reciproca, sostanzialmente – afferma in una sua recente memoria Giorgio Bottoni, allora tesoriere dei Ds, che non condivise però la soluzione delle fondazioni e non entrò a farne parte -. L’interpretazione appare convincente. D’altronde quello fra Democratici di sinistra e Margherita fu un matrimonio innaturale. Le due formazioni politiche ereditavano la tradizione di Pci e Dc, eterni rivali. Mettersi insieme, pur in un contesto storico radicalmente mutato, era una scommessa e per qualcuno forse un azzardo. Tanti non aderirono, non riconoscendosi nell’identità del nuovo soggetto. E coloro che comunque decisero di andare avanti lo fecero con riserva tutelandosi nel caso che… L’idea era che qualora il matrimonio fosse fallito ciascuno (mettendo preventivamente da parte i propri averi) poteva sempre tornare a casa propria. Sotto questa luce l’operazione appariva come un temporaneo accantonamento, in attesa che si dissipassero i dubbi sulla possibilità di convivere nel nuovo partito. In maniera analoga si regolò anche la Margherita.

Cusinatti però non la vede così. “Il problema era un altro: i partiti da sempre sono mangiasoldi. Quei beni sarebbero spariti in fretta. La volontà delle fondazioni nate a livello nazionale e messe in rete fra loro era quella di mantenere il patrimonio frutto del lavoro dei compagni delle feste dell’Unità, delle autotassazioni, delle sovvenzioni…. Dietro la facciata delle parole emerge però un retropensiero che l’interlocutore non esplicita ma lascia intendere: quello che il Pd non rappresentasse coerentemente il patrimonio ideale dei Ds, cioè della sinistra. E che quel patrimonio andasse preservato dalla deriva ideologica.
A questo punto però lo scenario si complica e divergenti appaiono le implicazioni.
Se il problema sono “i partiti mangiasoldi” – come dice Cusinatti – c’è da chiedersi sulla base di quale autorità morale fondazioni private, per sottrarre il patrimonio alla voragine, si siano di fatto impadronite di una ricchezza che era pur sempre maturata nell’alveo di una formazione politica, dunque collettiva.
Se di operazione di pura cautela si trattava – come invece pensava il tesoriere Bottoni – beh probabilmente dopo sei anni di sposalizio la reciproca diffidenza si potrebbe considerare superata e nulla più osterebbe al conferimento del patrimonio al suo legittimo erede, il Pd.
Ammenoché non prevalga la terza, implicita, riserva: quella politica. Il Pd è indegno erede e quindi tutto resta congelato in attesa della fine del mondo e di una palingenesi: la rinascita dalle ceneri di un erede finalmente degno. Uno scenario apocalittico, ma in fondo neppure troppo remoto visti i continui dissidi interni ai Democratici. Che però sono abbastanza trasversali alle vecchie appartenenze e quindi potrebbero un domani, qualora pure si giungesse a una scissione, non approdare alla formazione di un soggetto in grado di soddisfare la purezza di pedigree attesa dai depositari degli antichi ideali.

Tornando ai fatti, la realtà ferrarese parla, come anticipato, di sei milioni di patrimonio immobiliare (metà dei quali ascrivibili al centro feste di Vigarano). Cosa dovrebbe fare L’Approdo di questo bendidio? “Metterlo a disposizione della collettività”, afferma in maniera vaga Cusinatti. Per cosa concretamente? L’imperativo che viene esplicitato è “diffondere la conoscenza della storia e della cultura della sinistra”. Ottimo. Ma in concreto cosa è stato fatto? Gli anni sono già sei ma nel sito ufficiale (www.fondazionelapprodo.it) l’unica cosa segnalata alla voce “attività” è la pubblicazione del volume “E l’Unità faceva festa” a firma Sara Accorsi, realizzato e stampato in trentamila copia nel 2010 da Cirelli e Zanirato, al costo (precisa il presidente del comitato di indirizzo) di 30mila euro, “in vendita – è scritto nel sito – in tutte le migliori librerie al costo di soli 21 euro”.
Già questo lascia perplessi: in vendita, dunque. Ma – chiediamo a Cusinatti – non dovreste divulgare, mettere a disposizione? “Sì, infatti li abbiamo poi regalati, a parte un centinaio. Adesso stiamo vedendo cosa fare delle rimanenze. Quante? Un migliaio. Andranno ai circoli di partito e alle biblioteche”.
Va bé… E a parte il libro? “Beh stiamo sistemando i locali di piazzetta Righi, da viale Krasnodar trasferiremo lì la sede, stiamo anche attrezzando un archivio…”. Questo è l’oggi – puntualizziamo – ma in passato? “Ci siamo preoccupati della manutenzione degli immobili, della loro messa a norma…”. Già, ma che c’entra con la divulgazione dei valori della sinistra? “Abbiamo pubblicato un libro di Gaetano Marani e contribuito alla scuola di formazione del Pd”. E “tutto” questo fervore culturale quanto vi costa ogni anno? “Dai 15 ai 25mila euro”, sostiene l’interlocutore. Che aggiunge: “Abbiamo anche concorso con le fondazioni di tutta Italia alla realizzazione della mostra itinerante sul Pci”.

Onestamente ci pare poco. Da quanto ci viene riferito la fondazione sembra avere quale scopo primario quello di sopravvivere. Si fa manutenzione, appunto, ma manca la progettualità. Addentrandoci nelle scarne cifre di bilancio, guidati dal presidente Cusinatti e dai suoi appunti, scopriamo che nel 2012 dei 147mila euro di uscite circa la metà sono andati a copertura dei mutui che gravano su alcuni degli immobili, 20mila per opere di messa a norma, 11mila per il personale di segreteria e il rimanente in spese assicurative, tasse e tributi vari. Alle iniziative culturali sono finite solo le briciole. Eppure il bilancio si è chiuso con un attivo di 23mila euro. Dunque se si fa poco a livello di iniziative il motivo c’è: si spende poco o nulla. Ma lo scopo della fondazione, ribadiamo, non è galleggiare, bensì promuovere e diffondere la conoscenza dei valori della sinistra. E allora? Mancheranno mica le idee?
Già che ci siamo ne buttiamo lì una. Perché non vendere una parte cospicua del patrimonio e col ricavato creare, per esempio, un grande centro culturale multimediale che davvero dia impulso alla ricerca sui temi propri della sinistra, oltre che coltivarne la memoria? Cusinatti replica che non si può fare, poi si corregge e dice che sì, si potrebbe, ma è un’idea troppo ambiziosa, “mica siamo a Roma”.

Allora si torna al quesito iniziale. Una fondazione così ripiegata in se stessa a cosa serve? Ne comprenderemmo la ratio se la funzione (come sostiene Bottoni in una lettera scritta alla Nuova Ferrara nella primavera scorsa) fosse quella di cassa di sicurezza, in caso di divorzio nel Pd. A questa condizione la gestione meramente conservativa avrebbe un senso. Ma se la fondazione deve essere un motore di conoscenza, come viceversa reputa Cusinatti, non può semplicemente svivacchiare, tirare avanti ridipingendo le pareti di casa e togliendo la muffa. “Senza le fondazioni metà del patrimonio già oggi non ci sarebbe più”, ribadisce tosto il presidente. E io provoco: quindi la vostra è solo una funzione di tutela, un rifugio dagli spendaccioni di partito? “Da una cultura sbagliata che c’era anche dentro i partiti di sinistra”, chiarisce l’interlocutore. E si affretta a precisare (con un paradosso che dissipa possibili malevole interpretazioni): “Voler spedire quell’unica copia dell’Unità in Valle d’Aosta costava 500 euro, non era economicamente conveniente…”.

Bene, ma oggi che l’Unità non c’è più (per stare alla metafora) e siamo a fine anno, cosa si propone di fare L’Approdo per il 2014? Al dubbio che ci assale chiediamo soluzione a chi ha potere di decidere. “Ad aprile ci troveremo per stilare il bilancio consuntivo e approvare quello preventivo”. Ad aprile? Siamo a dicembre! E poi che c’entra il bilancio, stiamo parlando di programmi, di attività, progetti, non di contabilità… “Sistemeremo la nuova sede, l’archivio, ci sarà una saletta con 40/50 posti”. E per farne cosa? Chi siederà su quelle sedie? I dubbi persistono.

E poi c’è il problema delle cariche a vita. Sempre Giorgio Bottoni scrive che di questi compagni ci si può fidare (“sono brave persone, oneste, disinteressante”), ma domanda: una volta che non ci siano più loro che succede? Lo statuto prevede che se uno degli attuali componenti per qualsiasi motivo viene a mancare si sceglie un sostituito per cooptazione. Pratiche da “ancien regime” che credevamo superate. “Già – sorride – Cusinatti – però almeno noi siamo tutti gratis”, lasciando intendere che la carica è, in tutti i sensi, più un peso che un godimento.

Ci salutiamo e a me resta una convinzione. Se questi signori sono garanti di un patrimonio collettivo, come il presidente stesso ammette, non è giusto che decidano tutto da soli. Non sarebbe stato meglio, nel 2007, coinvolgere la totalità degli iscritti ai Ds di quell’anno come se fossero i soci di un azionariato diffuso, definire una forma associativa condivisa fra tutti i militanti e posta sotto il loro controllo assembleare anziché privatizzare la gestione? Non sarebbe stato più giusto, più “di sinistra”? “La scelta è stata nazionale, si è deciso così”, chiosa Cusinatti.

Mentre ci allontaniamo, ad accompagnarci è l’altro rovello: che senso ha mantenere in vita la fondazione in una condizione di sostanziale inerzia?
Se lo scopo era semplicemente quello di preservare il patrimonio nel caso di rottura nel Pd, ha ragione Bottoni quando dice che ora è tempo che quei soldi vadano al Partito democratico. Se invece, come ritiene Cusinatti, il Pd non rappresenta i valori della sinistra, e quindi la fondazione ha il dovere di sviluppare una propria autonomia azione per sostenere e diffondere quei valori, è tempo di rimboccarsi le maniche: in sei anni due libri, qualche contributo all’Istituto di storia contemporanea e il sostegno alla scuola di partito (del Pd peraltro, che in quest’ottica risulta un paradosso, ammenoché non si pensi di indottrinarne i dirigenti!) sono il nulla. Insomma, in qualsiasi caso, così non va.

1 – CONTINUA

L’allenatore di campioni al campetto del San Luca

Dei ragazzini che giocano a calcio in un campetto di Ferrara, un campione del Manchester City come Yaya Touré e un attaccante acclamato come Gervinho. Che cosa hanno in comune questi 13enni ferraresi, attaccanti, difensori e portieri dalla maglia rossoblù con il centrocampista di una delle più celebri e blasonate squadre inglesi e con uno dei nuovi idoli della Roma? In comune hanno un pezzetto di quella terra d’Africa, la Costa d’Avorio. Un paese martoriato da una guerra fratricida che, però, non è riuscita a uccidere la passione, la voglia di vivere, correre e lottare per qualcosa che va oltre ogni confine: lo sport e, in questo caso, precisamente il calcio.
Perché, a lanciare da un campetto delle giovanili africane Yaya Touré prima e poi Gervinho, è stato Traore Aboubakar, meglio conosciuto come Abu. Adesso Abu allena il gruppo Esordienti dell’associazione sportiva Acli San Luca-San Giorgio di Ferrara.
Abu è venuto via dalla Costa d’Avorio, come Yaya e Gervinho. Ognuno di loro, la cosa che sa fare bene, è il calcio. Alle spalle una storia personale segnata; nel cuore la voglia di non arrendersi mai. Nelle giovanili africane Abu ha conosciuto, scelto e allenato questi ex ragazzini, ne ha apprezzato la bravura, li ha spronati a superare se stessi. Nel luglio 2010 Yaya firma un contratto quinquennale con il Manchester City, nel 2011 e nel 2012 viene eletto miglior giocatore africano dell’anno. La carriera di Gervinho prende il volo in Francia, nel Lille, per poi passare all’Arsenal fino ad arrivare, quest’estate, alla Roma. Insieme con Didier Drogba, Touré e Gervinho sono tra i giocatori più rappresentativi della Nazionale ivoriana.
In Italia dal 2009, Abu ha ottenuto l’asilo politico e a Ferrara la possibilità di portare avanti il suo mestiere, che gli serve per mantenere i due bambini rimasti orfani della mamma e per non spegnere mai la passione che, insieme con il cibo e l’aria, è quella che tiene vivi dentro. A seguirlo e a fare tesoro della sua professionalità e della sua carica di umanità una quindicina di ragazzini, classe 2000 e 1999. Che corrono, sudano e esultano con Abu in via del Campo e nei prati dove li porta il campionato esordienti ferrarese.

tecnocrazia

Dittatura economica, i tecnocrati sottraggono la sovranità ai cittadini

di Barbara Diolaiti

Quando, leggendo il “Bill of Rights” del 1689, chiedo agli studenti di Quarta Itis di individuare quali affermazioni secondo loro confermino con maggiore chiarezza la vittoria del Parlamento inglese sul Re, sempre citano: “Che imporre tributi in favore o ad uso della Corona, per pretese prerogative, senza l’approvazione del Parlamento, per un periodo più lungo o in altra maniera che lo stesso Parlamento non ha e non avrà concesso, è illegale.” Il potere fiscale sottratto al Re.

Penso a questo sabato 7 dicembre mentre ascolto Franco Russo, relatore del terzo appuntamento della scuola di formazione popolare “Invertire la rotta”, organizzata dal Comitato Acqua pubblica di Ferrara in collaborazione con Attac Italia e Insolvenzfest.

“I trattati dell’Unione Europea – spiega, infatti, Russo – sono basati sul criterio dell’efficienza e non della democrazia. L’obbligo degli Stati membri di approvare e inviare alla Ue le leggi di stabilità entro il 15 ottobre di ogni anno, leggi che devono uniformarsi alle indicazioni della Ue stessa, dimostra che il potere fiscale non è più nelle mani dei Parlamenti nazionali e nemmeno del Parlamento europeo, ma di organismi tecnocratici che, in pratica, svolgono il ruolo che era dei Re nelle monarchie assolute.”
L’incontro è dedicato al tema “Stati sovrani? Economia del debito e democrazia economica”; i due precedenti a “Finanziarizzazione dell’economia e dei servizi pubblici” (30 novembre, Roberto Errico e Ivan Cicconi) e a “l’Europa delle istituzioni, dei popoli, della finanza” (23 novembre, Stefano Risso e Claudio Gnesutta).
Cinquanta, settanta persone ad ogni incontro, molte domande e riflessioni.
Alessandro Somma, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, ha coordinato l’intero ciclo e con lui hanno dialogato i diversi relatori.
Somma ricostruisce la progressiva perdita di sovranità ricordando che già il fascismo si presentò come una soluzione sul piano prima di tutto economico: “La liberalizzazione del mercato era in profonda crisi e vi era il rischio che l’economia venisse presa in mano da un movimento operaio forte. Il fascismo rappresentò così la “terza via” per riformare il mercato e la politica divenne lo strumento per presidiare l’ordine economico attraverso l’applicazione dell’ordoliberalismo: lo Stato interveniva nell’economia difendendo la proprietà e l’iniziativa private, garantiva alcune misure di protezione sociale, ma lasciava il singolo individuo solo di fronte al potere politico ed economico.”
“Non è un caso – prosegue Somma – che le Costituzioni democratiche dei Paesi che, pur in momenti diversi, hanno vissuto la dittatura (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) siano fortemente caratterizzate da una reazione anche alla dittatura economica.”
Perché per difendersi da involuzioni autoritarie non è sufficiente garantire la democrazia politica, ma è indispensabile prevedere la socializzazione dei beni economici. E sono proprio questi, oggi, gli Stati sotto attacco costante della Troika europea, che impone – e ottiene – modifiche di quelle Costituzioni e delle Leggi conseguenti proprio nelle parti relative alla democrazia economica. Ecco allora il pareggio di bilancio in Costituzione o la modifica dell’art.18 che affievolisce la difesa del lavoratore e lo lascia più solo di fronte al potere politico ed economico.
“Per la Germania andò diversamente – chiarisce Somma – perché decisero gli Alleati, prevedendo già una Costituzione con l’obbligo di pareggio di Bilancio, ad esempio. L’Unione Europea nacque con l’obiettivo di realizzare un’ “economia sociale di mercato”, che di fatto reintroduceva il concetto di ordoliberalismo al quale ora si sta via via riconducendo l’economia dei singoli Stati membri.”
“Il federalismo europeo di marca liberale – riprende Russo – riteneva che si dovesse agire sul mercato per superare la volontà di potenza degli Stati sovrani, che, in effetti, era stato elemento determinante nello scoppio delle due guerre mondiali. L’idea era unificare i meccanismi economici per giungere anche all’unità politica. Ma quelle posizioni vennero velocemente eliminate e si costruì, invece, un’Unione funzionale all’economia capitalista, basata sul criterio dell’efficienza e non della democrazia economica. Oggi siamo in presenza di un ordine giuridico del mercato, che prescinde dai diritti delle persone.”

“Non è questione di difendere la sovranità dei singoli Stati o dell’Europa – incalza Somma – ma di difendere la sovranità dei cittadini ai quali questa sovranità è stata tolta. Ogni volta che si ristruttura il debito per adeguare un Paese ai parametri europei si compie una violenza sulla sovranità dei cittadini tagliando servizi, dismettendo il patrimonio pubblico. Per citare lo storico Marc Bloch, se tutti i debiti venissero saldati, il sistema capitalista crollerebbe. Non a caso ora nessuno permette ai Paesi di fallire: occorre mantenerli indifesi di fronte a cambiamenti strutturali. Eppure nella Storia sono numerosi gli esempi di Stati falliti. Gli Stati dovrebbero avere il diritto di fallire anche perché questo significherebbe avviare una rilettura di ciò che è accaduto, delle scelte compiute, assicurarsi la possibilità di cambiare rotta.”

Che fare, allora, per restituire a tutti noi quei diritti democratici che non possono prescindere dalla democrazia economica?
“Non è facile – riflette Somma – anche perché abbiamo introiettato il metro economico per valutare ogni cosa. Ma vi sembra normale che si pensi di eliminare le Province per risparmiare soldi? O di ridurre il numero di parlamentari sempre per risparmiare soldi? Nell’entusiasmo generale si sceglie di privarsi di strumenti democratici per risparmiare soldi e contemporaneamente si afferma però di rivolere la sovranità. Il tema dovrebbe essere il controllo democratico delle scelte, come recuperare spazi di democrazia e di conflitto.”

Franco Russo è chiaro: “Per contrastare questo disegno, per invertire davvero la rotta occorre prima di tutto mantenere un atteggiamento etico, essere consapevoli che alle ragioni dell’economia vanno contrapposte le ragioni delle persone. Smettiamola di pensare che coloro che decidono siano degli idioti inconsapevoli della realtà, che propongano ricette fallimentari poiché incapaci. Sanno perfettamente ciò che fanno e di certo operano consapevolmente contro noi cittadini.”

“La nostra alfabetizzazione – conclude Russo – è un passaggio ineludibile: basta con la superficialità. Dobbiamo studiare, approfondire, rifuggire dalle banalità e dalle scorciatoie. Troppo a lungo la Sinistra ha sottovalutato l’importanza dell’Unione Europea e la necessità di agire per modificarne la direzione. E poi il sindacato…i sindacati sono presenti in tutti i Paesi aderenti alla Ue eppure non lottano contro le scelte dell’Unione Europea; si accordano, sembra abbiano rinunciato a difendere i diritti dei lavoratori. Occorre aprire un confronto anche su questo.”

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Un presepe per sciogliere l’algido vescovo

E’ arrivato il presepe nel palazzo arcivescovile. Speriamo che l’immagine della natività riscaldi il cuore anche a monsignor Negri, che ancora ieri mattina ha spiegato al Carlino con algido distacco che a Erik Zattoni “la Chiesa italiana secondo le normative vigenti non è tenuta a fornire alcun risarcimento perché i preti non sono considerati impiegati della Curia”.
Peraltro, già mercoledì sera il vescovo era intervenuto in sala Estense al pubblico incontro dal titolo “La sfida della famiglia oggi. La responsabilità dei cattolici”, senza avvertire il dovere morale di fare cenno alla vicenda. Ma pur evitando di regolare i conti in casa propria si è erto a giudice dei comportamenti altrui. Per fortuna la parabola della trave e della pagliuzza è di Gesù, mica nostra.

meme

Gli artigiani di quarta generazione si incontrano in città

“MEme-Maker Exposed”, il festival internazionale dedicato agli “artigiani del futuro”, che ha scelto come teatro proprio la nostra città, prende il via domani alle 17 al mercato coperto di via Boccacanale di Santo Stefano. Dal 9 al 15 dicembre Ferrara si animerà dunque di conferenze, workshop e temporary shop in cui a farla da protagonisti saranno designer, creativi, nuovi talenti e progettisti: dall’abbigliamento all’oggettistica, sotto il comune denominatore di una qualità del fare tutta italiana.
Innovazione e tradizione si incontreranno nei luoghi ferraresi tra cui il mercato coperto, il circolo dei negozianti di palazzo Roverella, la Camera di commercio e la Sala dei Comuni del castello Estense, per discutere delle professioni del futuro, quelle capaci di concretizzare idee materializzandole in forme inedite, producendo valore e utilità sociale.
Tra gli appuntamenti di cui prender nota, sicuramente quello di sabato mattina in castello, ore 10 alla Sala dei Comuni: “Think Tank, Nuovi cambiamenti, buone politiche e nuova impresa”, a cui prenderanno parte Stefano Micelli, docente a Ca’ Foscari di Venezia; Stefano Maffei, del Politecnico di Milano, Francesco Bombardi, direttore del FabLab, il Digital fabrication laboratory FabLab Reggio Emilia, coordinati da Giampaolo Colletti, autore “Wwworkers” del Gruppo24Ore.

Consulta il programma di MEme

pecore

Perde la conoscenza chi non si pone più domande

Credo che la conoscenza sia insieme memoria e risposta alla domanda “perché”. Ritengo che la città senza conoscenza sia la città che più ancora che la mancanza di risposte sconta la mancanza di domande. La città non ha più conoscenza, gli uomini non hanno più conoscenza quando smettono di interrogarsi, di indignarsi, di sorprendersi, di meravigliarsi, di chiedersi ragione di ciò che gli scorre accanto. Quando considerano che tutto sia ovvio, inevitabile; quando non trovano più in loro la forza per rimettere in discussione l’ordine delle cose, quando subentra l’apatia, l’indifferenza, la resa alle condizioni date. Quando le vite di chi ci sta attorno e anche la nostra sembrano incanalate nell’alveo di un fiume, con un’unica direzione obbligata. Quando non ci sono più la fantasia, l’immaginazione, l’utopia a guidare e a cercare di modificare il nostro cammino. Quando smettiamo di chiederci perché: perché questo è possibile, perché quest’altro non potrebbe essere. Quando smettiamo di cercare di prefigurare un futuro non scontato, quando crediamo che le domande non abbiano più senso perché le risposte sono già tutte scritte, magari da altri. E’ proprio allora che perdiamo la conoscenza poiché rinunciamo al libero arbitrio e ci disponiamo a “viver come bruti”, rinneghiamo il sacro furore dell’intelletto che si interroga e non si rassegna, rigettiamo l’inventiva, il desiderio e l’ambizione di essere protagonisti e arbitri del nostro destino.

pensiero

L’offesa e la rivolta. La politica che giudica la cultura

Mentre le sciagurate vicende che stiamo vivendo mostrano caratteri specifici degli italiani – falso perbenismo, subornazione ai capi, machiavellismo d’accatto, profondo livore per chi considera la cultura un patrimonio della vita civile – mi domando poi come da queste caratteristiche nascano esempi fulgidi di una intelligenza delle cose e degli uomini che pongono questo popolo ai livelli più alti dello spirito umano. Trovo veramente triste considerare quanto perdano coloro che si compiacciono a insultare, disprezzare, temere, il prodotto dell’intelligenza che è appunto la cultura. E si capisce che solo in questo paese poteva nascere la mafia ovvero l’antistato. Andrea Camilleri ne lascia ora testimonianza in uno dei suoi migliori romanzi, La banda Sacco dove racconta le vicende storicamente vere di una famiglia che osò, negli anni Venti del secolo scorso, ribellarsi alla mafia che si stava consolidando e diffondendo nel mondo. Camilleri così commenta il suo lavoro nella nota finale: “Ho tentato di raccontare, attraverso questo ‘western di cose nostre’ per usare un titolo di Sciascia, come la mafia non solo ammazzi, ma laddove lo Stato è latitante, sia anche in grado di condizionare e di stravolgere irreparabilmente la vita delle persone” (pag. 181). E che la mafia tema la cultura è ormai un dato sicuro. Si veda almeno la vicenda emblematica di Saviano. Perciò tanto più rivoltante appare il dileggio a cui ogni forma di cultura viene sottoposta per fini esclusivamente di consenso politico. Un atteggiamento ora così di moda siglato dalle urla isteriche dei comici capi popolo e dai loro servi di scena che si scagliano contro i quattro senatori a vita, non solo ma dovunque la cultura li costringa a una riflessione sempre elusa o rifiutata. Solo la cultura, infatti, dimostra la povertà mentale dell’uomo medio che anche nelle terribili condizioni della crisi economica urla e chiama “vecchi rincoglioniti” i senatori a vita. Sono gli stessi che quando Crozza li condanna e li imita ridono perché non sanno cosa voglia dire ironia e disprezzo miscelati assieme. Sono gli stessi, purtroppo, che ben conoscono il peso della cultura come il premio Nobel Dario Fo che applaude alle convulsioni di Grillo e poi si adonta se lo stesso comico insulta i giornalisti a lui contrari su facebook. Sono coloro che hanno il loro orizzonte mentale talmente ristretto da vedere come i miopi di dantesca memoria solo il qui e il presente non progettando un futuro che nasca dalla riflessione di un passato. E questa situazione è astutamente cavalcata da tanta politica in un mix tremendo di larghe intese che non lasciano distinguere il buono dal malvagio, il vero dalla menzogna.
Una cara amica, Lina Bolzoni, italianista e magistra alla Scuola Normale di Pisa, ci raccontava qui a Ferrara come i libri nel lungo percorso della formazione e consapevolezza di una futura nazione fossero gli “amici” che, al di là del momento storico in cui i loro autori vissero, ci accompagnavano nelle nostre scelte e nelle nostre decisioni. Attraverso la lettura, i nostri “amici” diventano i libri e attraverso loro gli autori. Ci accompagnano nei momenti difficili, quando abbiamo bisogno di rappresentarci la realtà come verità, somma e divina prerogativa della poesia, della musica, dell’arte, della scienza tanto da indurci a sentire fisicamente vicine le ombre dei grandi. Addirittura tentiamo di dare loro un volto, un aspetto, una vita come al più grande di tutti, quell’Omero che, come indaga il suo commosso e acuto esegeta, Claudio Cazzola, forse è solo un insieme di versi, forse è la somma di tante culture e di tante espressioni poetiche. Ecco allora come appare pericolosa la violenza con cui certa politica tenta di cancellare quell’immagine e quella “corporeità” del libro divenuto amico. Ecco allora come ci appare e si rafforza quella nuova amicizia che si diffonde attraverso i media. Trasmissioni televisive che si chiamano “Amici” oppure una sigla attraverso la quale gli “amici” costruiscono un dialogo che può interrompersi dopo un minuto o restare l’espace d’un matin e che ci può portare qualcosa di nuovo o ribadire ovvietà e preconcetti. Stiamo vivendo, come si sa, questo passaggio epocale simile a quello che rivoluzionò il modo di leggere e pensare nel tempo, ad esempio nell’epoca moderna la tradizione del libro manoscritto, consegnato solo a coloro che lo potevano fruire e esserne proprietari privilegiati a cui si sostituisce quello a stampa così come ora la rivoluzione dell e-book cerca e tenta di sostituire la stampa. Ma quello che fa più male e più offende è che per ragioni bassamente politiche la cultura che produce libri, musica, architettura, scoperte scientifiche non sia trattata, come andrebbe fatto, riconoscendole gli altissimi meriti che la costituzione stabilisce ma come la infima possibilità di “mangiare a sbafo” secondo la credenza e la volgarità di quei seguaci di un pensiero tipicamente mafioso che vede nella cultura l’offesa alla politica.