In vista delle prossime elezioni l’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio Luigi Negri ha rivolto ai «carissimi figli e figlie» della sua diocesi un messaggio. Monsignor Negri, in quanto vescovo, afferma che sua missione inderogabile è comunicare il Vangelo. Parte integrante di questo annuncio è trasmettere una precisa concezione dell’uomo espressa nei principi fondamentali dalla dottrina sociale della Chiesa, da essa sempre proclamati e testimoniati. Questa visione è contenuta in «principi non negoziabili» che sono «inscritti nella coscienza di ciascuno». Il primo da cui tutti gli altri discendono è «la dignità della persona umana, costituita a immagine e somiglianza di Dio». Segue il consueto elenco esteso dalla sacralità della vita umana dal concepimento alla morte naturale, alla famiglia naturale fondata sul matrimonio e ai diritti e alle libertà fondamentali della persona e così via.
Che la Chiesa abbia sempre proclamato e testimoniato i diritti e le libertà fondamentali della persona è un palese falso storico su cui non vale la pena soffermarsi. Più interessante è chiedersi chi sono coloro a cui Negri si rivolge con l’appellativo di «figli e figlie»: sono solo i credenti praticanti? Se fosse così sarebbe coerente richiamarsi ai diritti della persona creata a immagine e somiglianza di Dio; se invece quella qualifica si estende a ogni residente nella sua diocesi bisognerebbe far riferimento ai diritti umani che hanno un’altra base fondativa (qualunque essa sia) e non già a quelli della persona (per questa capitale differenza vedi D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012).
L’uso dell’ormai anacronistica espressione di «principio (o valori) non negoziabili» (da cui ha preso apertamente le distanze papa Francesco) lascia presupporre che monsignor Negri compia un’indebita sovrapposizione tra i diritti umani e quelli della persona. È evidente che anche il cattolico impegnato in politica crede che la persona umana sia stata creata a immagine e somiglianza di Dio; ma ciò non intacca il fatto che questo suo convincimento non vada direttamente assunto come un argomento a sostegno di decisioni pubbliche che riguardano pure individui o gruppi che non condividono la sua fede ma vivono, al pari di lui, in una società pluralista. In un contesto pubblico le argomentazioni devono essere di altra natura e vanno articolate, pur all’interno di una varietà di opzioni, facendo appello a un linguaggio condiviso (per esempio i principi della Costituzione italiana, testo che non nomina mai Dio).
Nessuno dei futuri candidati sindaco, a cominciare da Tagliani, interpellati dalla Nuova Ferrara a proposito del messaggio vescovile ha messo in rilievo questa capitale differenza. Per questo motivo ho ritenuto opportuno sottolineare la non sovrapponibilità pubblica tra diritti umani e quelli della persona.
Mentre adolescenti e adulti hanno ormai assunto i social network come uno dei luoghi della vita, si moltiplicano le domande sugli effetti dei cambiamenti nelle relazioni e nei modi di comunicare. Stiamo costruendo legami fragili, connotati da un tepore uniforme e diventiamo incapaci di cercare un rapporto profondo? Sta crescendo una generazione di giovani che non sanno fronteggiare le emozioni, né esprimerle e metterle alla prova nella realtà? Forse, ma per ragioni che è improprio ricondurre all’uso degli smartphone e dei social network.
Internet ha trasformato l’antropologia dell’amore? Nella rete, come nella vita, convivono diverse declinazioni dell’amore. Troviamo una larga varietà di siti dedicati ad incontri sentimentali: dai siti per la ricerca dell’anima gemella, a quelli finalizzati ad incontri sessuali nell’arco di poche ore, ai vari social network che consentono di allargare la cerchia di amici e, certo, anche di sperimentare nuovi contatti.
La grammatica dell’amore è profondamente influenzata dalla rete, ma la rete non è l’unico fattore del cambiamento. La vita sentimentale è sempre stata segnata da un insieme di valori, istituzioni e quadri culturali che va oltre le storie degli individui. Le traduzioni istituzionali dell’amore hanno conosciuto rilevanti differenze nella storia e nei diversi contesti culturali. Tutto contribuisce oggi a ridisegnare il linguaggio dell’amore: tecnologie, economia, valori, rapporto tra i generi e stili di vita.
In Facebook i rituali amorosi si svolgono sotto lo sguardo degli altri. Ma l’amore non è mai stato un fatto esclusivamente privato. Tantomeno lo era in passato, quando la famiglia e la comunità avevano il compito di legittimare la relazione. A questo sguardo si è sostituito oggi quello degli amici.
Le reti sociali influenzano le relazioni sentimentali. Hanno cambiato le modalità di corteggiamento e di incontro, la gestione della relazione, le cause di gelosia, i vissuti che accompagnano il gioco amoroso. E’ facile mettere l’accento sui rischi di delusioni, sul pericolo di fraintendimenti, sulla caduta di investimenti impegnativi. E’ possibile commentare il rischio di virtualità di contatti mediati da uno schermo. Certo, relazioni che restano solo sullo schermo sono espressione di serie difficoltà di relazione. Ma non è così che accade nella gran parte dei casi.
L’amore resta, anche nel tempo di Internet, la ricerca di un altro che ci consenta di riconoscerci e su cui proiettare il nostro bisogno di radicamento, la nostra ricerca esistenziale di casa e di sicurezza.
Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it
E’ stato un incontro vero tra due interlocutori che esprimevano valutazioni divergenti sulle politiche educative che hanno caratterizzato l’agire recente dell’amministrazione comunale. Su una sponda il sindaco Tiziano Tagliani sull’altra il professor Giovanni Fioravanti. L’incontro che si è tenuto venerdì alla sala dell’Arengo è stato interessante e utile per vari motivi. La premessa era un intervento di Fioravanti sulle pagine di Ferraraitalia che aveva segnalato l’inadeguatezza di quanto fatto: “La città di Ferrara da anni ha rinunciato ad avere un assessorato all’istruzione, quasi che su questo terreno non ci fossero più politiche da realizzare, ma solo servizi da fornire”, invitando a prendere esempio da altre città d’Europa che hanno messo l’idea della conoscenza diffusa al centro delle loro politiche per migliorare la qualità della vita di tutti.
Tagliani ha replicato con calore enunciando i presupposti (centralità dell’investimento educativo, raccordo fra mondo della scuola e mondo della cultura) ed elencando le numerose e diverse iniziative che il Comune ha realizzato (laboratori di educazione all’arte, urbanistica partecipata, educazione civica, sicurezza urbana, educazione ambientale, sperimentazione teatrale) sostenendo che non erano state certamente inferiori a quelle delle precedenti amministrazioni, pur essendo peggiorate le condizioni al contorno. Sembravano due posizioni abbastanza distanti, ma soprattutto sembravano scorrere su binari divergenti, l’uno a difendere la concretezza e la fatica della gestione del quotidiano, l’altro a lanciare lo sguardo oltre l’ambito territoriale, a guardare l’Europa e le nuove sfide educative che pone un mondo sempre più complesso.
Un appassionato confronto, organizzato da ferraraitalia, su educazione, istruzione, apprendimento e formazione nella prospettiva della learning city. Hanno animato il dibattito il sindaco Tagliani, il prof. Fioravanti e un nutrito gruppo di insegnanti e operatori culturali
Il pubblico, composto in gran parte da operatori scolastici, ha stemperato i toni e gli interventi hanno riconosciuto la ricchezza delle iniziative che sono state messe in campo, molte delle quali si apprendevano in quel momento. Si suggeriva quindi di farle venire alla luce, di ricollocarle in un quadro che esprimesse l’intenzionalitàformativa dell’Amministrazione, che insomma rendesse esplicito l’indirizzo culturale che stava alla base delle scelte e le orientava.
L’incontro si è rivelato interessante anche per l’approfondimento che ha favorito sui temi dell’istruzione e della conoscenza, nella prospettiva di una dimensione più ampia di fronte alla quale dobbiamo confrontarci: quella di una cittadinanza europea. E’ forse questa una chiave che potrebbe aiutarci a sviluppare le nuove politiche municipali nel campo della formazione. Tali politiche potrebbero avere due campi di riferimento: le scuole da un lato e la comunità dall’altro.
Le scuole si trovano in una condizione abbastanza difficile per realizzare gli obiettivi europei, causa politiche nazionali dissennate che hanno penalizzato i curricoli e moltiplicato gli inciampi, per cui il riferimento a una municipalità accogliente e interattiva potrebbe aiutare a far entrare i giovani nelle maglie complesse della società, per esercitare direttamente le proprie competenze di cittadinanza.
Fioravanti dice che la città deve far sentire l’amore per le proprie scuole e io penso che sarebbe una buona cosa, nello stesso tempo penso sia necessario costruire esperienze in cui i giovani siano messi in grado di ‘prendere in mano’ la città, assumerne la responsabilità. E’ questa la cittadinanza attiva, non può essere agita se si rimane legati ai banchi di scuola.
Il secondo campo di azione delle politiche municipali è la comunità cittadina. Anche qui gli interventi hanno sottolineato la necessità di operare connessioni e di far emergere quanto si fa per migliorare la conoscenza dei meccanismi di funzionamento della città, per diffondere l’informazione in modo più capillare, per creare forme di aggregazione, per dare più potere di scelta a ciascun cittadino. Diventa quindi sempre più importante la conoscenza diffusa per esercitare una cittadinanza autentica, per poter scegliere e in sintesi per poter agire in una prospettiva di libertà per tutti.
Ferrara, secondo Fioravanti potrebbe diventare un luogo di riflessione e di raccordo delle buone pratiche su questi temi, o con un festival del tipo di quelli che si fanno in diverse città d’Italia, o con incontri cittadini: insomma tutto da inventare.
Il sindaco ha accolto con favore tutti i suggerimenti e si è detto disponibile a progettare assieme a coloro che saranno disponibili.
In conclusione può essere utile riflettere sulle parole di Martha C. Nussbaum, che ci ricorda come la democrazia non sia una realtà compiuta ma un processo in continuo divenire che va curato e sostenuto: “Dove va oggi l’istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale… Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è un cavallo nobile ma indolente. Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l’autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento”.
“MUSICI” FERRARESI DEL PRIMO NOVECENTO
RICCARDO NIELSEN E ANGELO MERCURIALI
Riccardo Nielsen – Nato a Bologna ma ferrarese di adozione, Riccardo Nielsen (1908-1982) studiò pianoforte, violino e composizione al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna, dove si diplomò nel 1931. Inizialmente attratto dalla corrente neoclassica, si interessò in seguito al linguaggio dodecafonico, rielaborandone i canoni con originalissima vena creativa.
Attingendo alla propria smisurata conoscenza delle opere dei compositori italiani del XVI, XVII e XVIII secolo, ne trascrisse mirabilmente larga parte, revisionando in specie pagine notevoli del teatro musicale secentesco: Dafne di Marco da Gagliano, Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, La catena d’Adone di Domenico Mazzocchi, Didone ed Ercole amanti di Francesco Cavalli, Arianna di Benedetto Marcello, La conversione di San Guglielmo d’Aquitania di Giambattista Pergolesi e inoltre brani di Frescobaldi, Croce, Gabrieli, Scarlatti, ecc.
Durante la seconda metà degli anni Quaranta, Nielsen fu sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna e, dal 1952 in poi, assunse e tenne per oltre un ventennio la direzione dell’Istituto musicale “Frescobaldi” a Ferrara, che sotto la sua guida raggiunse il grado di Conservatorio Statale. Stimato compositore di portata europea, è collocabile a pieno diritto nell’ambito più significativo della musica italiana del secondo dopoguerra.
Angelo Mercuriali – Il cantante lirico ferrarese Angelo Mercuriali (1909-1999) è stato per trent’anni direttore del teatro La Scala di Milano, durante la sua carriera si è esibito in ben 197 opere, in 26 delle quali come primo tenore, interpretando complessivamente 228 ruoli. La sua straordinaria versatilità, la grande padronanza scenica e la facilità con cui apprendeva i copioni, gli hanno consentito di impersonare con disinvoltura, nella stessa opera (e talvolta nella stessa serata), i panni di innumerevoli personaggi.
Le sue performances non si contano: Rigoletto, Traviata, Macbeth, Falstaff, Turandot, Lucia di Lammermoor (con cui esordì, nel 1932, al teatro Verdi di Ferrara), I pagliacci, Madama Butterfly, Cyrano de Bergerac e altro ancora. Ha lavorato con artisti come Beniamino Gigli, Tito Schipa e Magda Olivero. Mercuriali è sepolto nella Certosa di Ferrara.
Dal greco meteoros (alto nell’aria) e pathos (malattia), la meteoropatia è una malattia che sta ad indicare qualsiasi condizione psicologica connessa in qualche modo con le condizioni meteorologiche che ci circondano. Considerata in passato una malattia immaginaria, la meteoropatia è oggigiorno riconosciuta dai medici come una vera e propria patologia. Stando alle statistiche più recenti, un italiano su tre è sensibile alle variazioni climatiche, tanto da riuscire a percepire un temporale in arrivo quando il cielo è ancora sereno e assolato.
Le stagioni Primaverile e autunnale sono caratterizzati da disturbi e instabilità climatiche che si riflettono sull’intero corpo provocando spesso una vera e propria sindrome che si traduce in effetti su tutta la colonna vertebrale e precisamente si potranno avere … dolori alle ossa.. stanchezza ..mal di testa, irritabilità, depressione, insonnia, disturbi influenzali, tachicardia. Quando cambia il tempo, in particolare quando piove, c’è vento o caldo gli effetti meteoropatici influenzano i muscoli e le articolazioni. Esistono molti studi in campo mondiale che dimostrano l’influenza del cambiamento di tempo (in particolare associato ad una perturbazione atmosferica in arrivo) proprio sulle ossa, le articolazioni, i muscoli, i nervi e i tendini. Le condizioni meteo, specie nei cambi di stagione, si ripercuotono sui dolori reumatici, di cui soffrono milioni di persone in tutto il mondo, viene da studiosi argentini che hanno seguito, per un anno, un centinaio di pazienti affetti da osteo-artrite, artrite reumatoide e fibromialgia, confrontando le loro reazioni alle variazioni di temperatura, umidità e pressione con quelle di persone sane. Il rapporto fra tempo e dolori reumatici è stato così confermato, pur avendo registrato che l’effetto meteo varia a seconda della patologia del paziente e della sensibilità individuale al clima, ad esempio:
– la fibromialgia è correlata con bassa temperatura e alta pressione atmosferica,
– l’artrite reumatoide con bassa temperatura, alta pressione ed elevata umidità,
– l’osteoartrite è influenzata da freddo e umidità. L’altalena climatica, invece, non ha influito sui soggetti sani. Sono proprio tendini, guaine e borse a soffrire maggiormente della variazione termica e climatica, provocando fastidio in particolare all’inizio del movimento “a freddo” e causando un rallentamento dell’attività motoria, che in alcuni casi può raggiungere livelli anche notevoli. Un fenomeno che aggrava, soprattutto nei più anziani, uno stato di salute articolare magari già compromesso dall’artrosi, favorendo una tendenza all’immobilità.
Anche la riduzione della pressione atmosferica può contribuire a far sentire maggiormente i dolori. Nelle giornate instabili, più fredde o umide, il risveglio può essere veramente “pesante”.Quindi ..Un clima malsano è una forza malsana che agisce sulla nostra forza vitale alterandola. La forza vitale così alterata è la causa dei sintomi della meteoropatia. E’ anche vero che un clima molto favorevole può essere curativo e questo è noto sin dall’antichità. Per la medicina convenzionale, solo di recente la meteoropatia è stata considerata un problema di salute. Attraverso la termoregolazione la pelle percepisce sensazioni di freddo intenso e di calore eccessivo o al contrario di dilatarsi con conseguenti brividi o un’eccessiva attivazione abnorme delle cellule sudoripare e perdita di liquidi, sali minerali e oligoelementi, ecco perché le persone che tendono a soffrire di più di metereopatia sono le persone anziane e quelle con delle malattie pregresse, come cardiopatici ed infermi che vedono spesso il peggioramento della propria malattia.
Come possiamo comportarci?
– Un rimedio semplice ed efficace è quello di fare un bagno o una doccia molto calda al mattino, per “sciogliere” i muscoli.
– Inoltre è consigliabile essere ben protetti con indumenti caldi, che evitino durante il giorno il raffreddamento degli arti, del collo e della zona lombare.
Alcuni consigli per contrastare i disturbi del “mal di tempo”:
– E’ importante contenere lo stress ed imparare a gestirlo con tecniche yoga, di meditazione e tecniche cranio-sacrali…
– Uno degli accorgimenti più importanti è quello di mantenersi in moto il più possibile. Non solo passeggiate prolungate nelle ore più calde, ma anche ginnastica leggera, consigliata soprattutto ai più anziani. Oggi sono disponibili molte medicine per combattere il dolore, ma è sempre preferibile mantenere un corretto stile di vita e praticare regolarmente attività sportiva, per consentire la massima efficacia di ogni azione terapeutica.
– Anche i rimedi naturali possono rappresentare un valido sostegno; l’idroterapia, per esempio, è in grado di stimolare i meccanismi di termoregolazione. Rimedi casalinghi come l’idromassaggio e l’alternanza di caldo e freddo sotto la doccia, le spugnature fredde sono di sicuro giovamento.
-Coloro che tendono a soffrire di meteoropatia possono compiere delle regolari passeggiate all’aria aperta per attivare la produzione di serotonina ed endorfine riabituando così l’organismo a vivere all’aria aperta per chi è troppo abituato agli ambienti climatizzati.
“Il 29 maggio avevo detto che avremmo regolarmente cominciato l’anno scolastico il 17 settembre, e quando l’ho detto stavo piangendo. A due anni di distanza, devo dire che è andata bene”. Patrizio Bianchi, ferrarese, assessore regionale a Scuola, formazione, università, non ha dubbi: la ricostruzione del tessuto scolastico, messo in ginocchio dalle scosse che il 20 e il 29 maggio 2012 hanno colpito la Bassa emiliana, merita una promozione a pieni voti. “Il nostro punto di forza è stato l’averlo fatto insieme. Il commissario non era inviato dall’esterno ma era un rappresentante della comunità (Errani, ndr), i sindaci sono stati fantastici e lo è stata la struttura tecnica inviata dalle altre Regioni. E anche le imprese ci hanno aiutati, sia materialmente sia mostrando di volere restare”. Dopo ventiquattro mesi e oltre quattrocento scuole rimesse in piedi, l’assessore regionale alla scuola è convinto che questo terremoto sia stato, per l’edilizia scolastica, una lezione da ricordare per il futuro: “Basta edifici storici, dobbiamo ripensare il nostro patrimonio scolastico. Il sisma ci ha insegnato come devono essere costruiti gli edifici: su un piano, con materiali leggeri e antisismici, predisposti al fotovoltaico e in grado di consumare meno energia di quella che producono”.
Il ferrarese Patrizio Bianchi, ex rettore di Unife, è assessore regionale a Scuola, formazione, università e ricerca, lavoro
Assessore, due anni fa il terremoto danneggiava 450 edifici scolastici, colpendo 70 mila studenti. A due anni di distanza, qual è il bilancio?
Quando abbiamo fatto la prima verifica, il 28 maggio, gli edifici danneggiati erano 100. Il giorno dopo, con la seconda, siamo arrivati a 450. L’area coinvolgevacirca 70 mila studenti, e 18 mila avevano le scuole del tutto inagibili. Fin da subito abbiamo fatto una verifica in tutti gli edifici: entro luglio avevamo verificato gli oltre 600 nel cratere, entro settembre abbiamo controllato tutti quelli della Regione. I ragazzi hanno iniziato tutti la scuola il 17 settembre. A fine anno erano tutti al caldo, dentro edifici temporanei di lunga durata o dentro i moduli. Abbiamo deciso di fare una trentina di moduli temporanei dove le scuole erano state danneggiate ma potevano essere recuperate. Dove abbiamo fatto quelli di lunga durata, abbiamo quasi dappertutto ampliato le strutture con biblioteche, palestre, territori. Abbiamo tenuto i moduli temporanei del Calvi-Morandi di Finale e del Galilei di Mirandola, perché nel frattempo la Provincia stava ristrutturando le scuole originarie, che sono in cemento armato e richiedevano più tempo delle altre per essere messe a posto. In ogni caso, il ripristino dovrebbe avvenire entro il 30 settembre. A Finale abbiamo costruito anche dei laboratori, dove stiamo sviluppando dei progetti di creazione d’impresa. Tutte le scuole sono state cablate, quindi abbiamo messo lavagne multimediali in tutte le aule.
Un asilo riattrezzato dopo il sisma
Quante scuole sono quelle in cui bisogna intervenire?
Tolti i casi di Finale e Mirandola, che sono di competenza della Provincia, noi abbiamo finito le scuole l’anno scorso. Nell’ultimo anno, abbiamo fatto solo lavori di ampliamento. Dato che all’inizio dell’anno scolastico avevamo fatto solo le aule, abbiamo aggiunto le biblioteche, le palestre, i laboratori e le mense. Avendo costruito le scuole per moduli, abbiamo solo dovuto aggiungere i “pezzi” di cui c’era bisogno.
Il 29 maggio alle due avrebbe mai detto che tre mesi e mezzo dopo sareste riusciti a far ripartire l’anno scolastico ovunque?
Io l’avevo già detto. Il 20 maggio avevamo detto che saremmo ripartiti il 17 settembre, e c’è voluta una bella incoscienza per fare una dichiarazione del genere. Il 29 maggio l’ho ripetuto, e stavolta piangevo. L’ho detto più per volontà che per altro. L’ho detto perché ci contavo. Devo dire che ci è andata bene. Sono stati fantastici i sindaci, è stata fantastica la struttura tecnica che le altre Regioni ci hanno dato. Perché sono stati in tanti ad aiutarci.
Qual è stato il vostro punto di forza?
L’averlo fatto insieme. Non c’era il commissario esterno. Io ho confrontato la nostra situazione con quella che c’era, purtroppo, in Abruzzo. Quando ci sono i terremoti, generalmente viene nominato un commissario esterno e viene sospesa la struttura di rappresentanza civile. Noi abbiamo fatto il contrario: pensavamo che il commissario dovesse essere il presidente della Regione e che il vice, in ogni territorio, dovesse essere il sindaco. Questo ha rafforzato ancor più la comunità. Quando viene un terremoto non si spaccano solo le pietre, si spacca soprattutto la comunità. Quando è venuto il terremoto all’Aquila hanno spostato la gente in posti anonimi, e dopo cinque anni le persone sono rimaste lì. Noi abbiamo deciso di tenere la gente nel suo territorio, in modo che ciascuno avesse come referente il suo sindaco piuttosto che il suo parroco. E poi siamo stati equi: per noi tutte le scuole erano uguali, le abbiamo trattate tutte allo stesso modo. A Mirabello c’erano una scuola parrocchiale e una statale, le abbiamo rifatte insieme e questo ha ricompattato la gente.
Qual è stata la scommessa più grossa che avete vinto?
La cosa più difficile è stata proprio questa, dare a tutte le persone l’idea che stavamo ricominciando, che eravamo sul pezzo, che avevamo appuntamenti fissi e che non potevamo mancarli. Non abbiamo detto “adesso l’emergenza e poi la ricostruzione”, abbiamo fatto vedere che partivamo subito con la ricostruzione.
Cosa non ha funzionato, invece?
Sulla struttura delle scuole, io credo il rapporto continuo con tutta la filiera, dalle autorità statali a quelle locali e alle imprese, abbia funzionato. Temevamo che ci potesse essere una forte pressione della malavita, ma lavorando sulla comunità siamo riusciti a tenerla fuori. Certo, so che ci sono ancora dei problemi con le case e con le imprese, ma noi ci siamo concentrati sulle scuole. Avendo avuto un mandato così preciso su qualcosa che tutti sentivano comune, ci siamo concentrati su quello. Forse l’unico neo è stato il falso allarme di inizio giugno, che però ci ha permesso di mettere in azione tutte le strutture di allarme e di tenere la macchina “in tiro”.
Ultimamente si è parlato molto di collaborazione fra sistema scolastico e impresa. Quanto vi hanno aiutato, se vi hanno aiutato, le imprese nella ricostruzione delle scuole?
Al di là dell’aiuto materiale che molte ci hanno dato donando denaro, strumenti e laboratori, le imprese ci hanno aiutato perché hanno rafforzato la comunità. Hanno fatto vedere che non se ne andavano via. Se dopo il terremoto le multinazionali di Mirandola fossero andate via, sarebbe stato preoccupante. Invece sono rimaste tutte e l’hanno fatto vedere. Tutte dicevano di ripartire dalla scuola, che era il riferimento. E così l’intera comunità ha sentito che nessuno scappava.
Cosa resta da fare?
Stiamo continuando nell’opera di rafforzamento e consolidamento di tutto il patrimonio scolastico della Regione. Stiamo inducendo Comuni e Province a ripensare il loro patrimonio scolastico sulla base di quello che abbiamo imparato in quei giorni. Stiamo trasferendo al governo nazionale tutto quello che abbiamo imparato su come ci si muove in questa fase, come si può costruire.
In pratica, questo terremoto vi è servito per capire come si devono costruire le scuole nuove?
Sì. Noi siamo arrivati con un patrimonio che spesso era fatto di edifici storici. Ora sappiamo che le scuole devono essere fatte con materiali leggeri, assorbenti del rumore, antisismici, in grado – spesso – di consumare meno energia di quella che producono. Sappiamo che gli edifici devono essere predisposti al fotovoltaico, che devono essere cablati, che devono essere su un unico piano con un’uscita sul corridoio e una esterna. Stiamo inducendo i Comuni a tenere gli edifici storici che erano usati come scuole per altri utilizzi, come biblioteche o sedi civiche, e ricostruire il polo scolastico con metodi nuovi. Stiamo aiutando i Comuni a costruire gli altri edifici pubblici danneggiati in quel modo, e stiamo inducendo tutta la Regione a ripensare il proprio patrimonio. Dato che ora c’è un fondo nazionale rivolto ai Comuni, stiamo parlando col sottosegretario Reggi e con le amministrazioni locali per dir loro di fare delle progettazioni tenendo conto di ciò che abbiamo imparato.
Perchè secondo me l’unico motivo per cui due si possono lasciare dopo un anno e otto mesi è che non si amano più”. Così gli risponde lei quando si sente dire “sto meglio senza di te”, pur amandoti, forse amandoti per sempre. Valeria Parrella compie un viaggio fino a Buenos Aires nei luoghi di Borges, deve stare con Michele, vuole stare con Michele prima che tutto finisca.
Ma quale amore (Einaudi, 2014) è un conto alla rovescia verso quel momento che era stato annunciato da mille avvisaglie, rimaste lì a ricordare che qualcosa non va, perché un amore non finisce mai per caso.
Lei lo sa che per due “malati di tossico indipendenza” come sono loro, la distanza può diventare un abisso. Michele vuole spazio, lontano, sempre di più, è lo spazio che, in una storia, confina l’altro altrove senza possibilità di accesso, se non a singhiozzo. Una libertà vigilata al contrario, un domani che diventa sempre più spesso dopodomani. Lei non la vuole questa libertà, vuole lui, che fugge verso il suo spazio in più. Chissà se Michele l’ha capito che condividere qualcosa, quando si sta insieme, non toglie nulla, ma aggiunge.
Si sente intrappolata nel suo non amore, nella propensione di lui a farne a meno, a volersi bene anche da lontano, come in un anno sabbatico, quando si sceglie di partire e provare, tanto prima o poi si tornerà.
È la sera giusta per andare da Michele e lasciarlo. Ma un sms la anticipa, anzi la liquida. Pochi caratteri, che altro serve per mettere fine a una storia, a un amore? Ma quale amore.
È chiaro che si va avanti, si cancella il numero, si mette da parte tutto ciò che lo può anche solo lontanamente ricordare, guai a nominarlo, si normalizza il più possibile ciò che prima era parso speciale, si smette di dare valore simbolico a quelle cose che avevano unito, che avevano fatto sentire una coppia. Che saranno mai un compleanno, un natale e un capodanno senza quell’amore, basta non pensarci, dimenticare un po’ e considerare il viaggio concluso.
Poi arriva il colpo di coda. Forse non è tutto finito. Michele che stava bene anche da solo, Michele del “magari ci serve stare separati”, si fa vivo, rivediamoci. Ma allora non era il capolinea quello, c’è dell’altro. C’è tutto quello che da sepolto e rintuzzato che era, torna a galla in un attimo, prepotente: il viaggio a Buenos Aires, le sue vie monumentali, le madres di Plaza de Mayo,loro due che hanno saputo sentirsi vicini e sono stati capaci di amarsi.
Non è solo il ricordo di quell’uomo e di quell’amore a essere smosso, è un nuovo desiderio di bellezza, almeno un po’: “lucidare le ossa per riporle in una teca, oppure lasciarsi sorprendere da una fenice araba”.
Michele chiede scusa, ma non serve, si chiede scusa se si pesta un piede, non se si è tranciato un rapporto. Scusa fa fare pace a chi lo dice, è come mettere l’errore da parte, passarci sopra.
E dopo trecento notti, Michele non le fa più lo stesso effetto, Michele non fa più nulla, quella distanza è finalmente servita.
Ormai lo scenario dei nuovi assetti istituzionali, dalla nuova legge elettorale ad un probabile diverso ruolo del Senato con le autonomie, dalla modifica del titolo V del dettato costituzionale all’Anci che chiede meno Comuni ma più corposi, anche nelle funzioni, non può che coinvolgere il sistema delle aziende municipalizzate, da quelle quotate in borsa a quelle piccolissime, favorendo, così, oltre ad una pubblica amministrazione più leggera e snella, servizi di utilità compresi, il percorso della “spending review”.
Perché il nuovo scenario diventi concretezza, accompagnato da altre novità del nuovo governo Renzi, anche le realtà dei territori debbono fare la loro parte, affatto irrilevante nel disegno innovatore appena tratteggiato.
A tale proposito, vale la pena di soffermarci a parlare dei servizi di pubblica utilità del ferrarese, fuori dalle mura cittadine, per fare il focus su tutta una serie di argomenti di grande importanza: catena di controllo con le governance, management e presidenze, piani industriali incrociati, grandezze disaggregate, poste articolate e indici dei bilanci, struttura dei costi, tariffe e tutti quegli elementi e fattori che sono in grado di dare risposte aziendali e di pubblica utilità ai clienti-cittadini.
Se poi ci impegniamo, coinvolgendo esperti indipendenti, a comparare (anche se le aziende operano in monopoli) i servizi e le cifre delle bollette, anche semplificandole, non solo in nome della trasparenza ma anche per capirle (gas, energia, ciclo delle acque e depurazioni, nettezza urbana e sistema della raccolta, reti di telecomunicazioni e banda larga, inceneritori e discariche, farmacie e piccole aziende per le infrastrutture e altro), le sorprese non saranno poche, anzi ci diranno che così non è più possibile procedere con queste gestioni amministrative locali.
Il dato sul quale dobbiamo riflettere è che in molte regioni del nord e parte del centro del nostro Paese, le cosiddette municipalizzate hanno fatto, da tempo, un salto di qualità non indifferente, anche per competere con una concorrenza europea agguerrita e rivolta ad una sana politica aziendale che punta sui servizi, i costi e i prezzi delle tariffe, andando oltre la logica dei monopoli. Nel ferrarese le moltiplicazioni delle aziende pubbliche locali (e non solo), a volte anche nel nanismo d’impresa e con fatturati da bar-pasticceria-tavola calda, manifestano vecchie logiche di un tempo ormai superato, a volte spannometriche, più per continuare a soddisfare gli ultimi giapponesi degli apicali, lasciando però frequentemente la struttura e l’organizzazione dei servizi nel marasma dell’inefficienza, abbandonando i necessari caratteri dell’economicità e dell’efficacia e, spesso, nel caos, la formazione dei prezzi, delle tariffe e delle bollette.
Ora diventa necessario quindi rafforzare il sistema delle utilities modificandolo, perché a Bondeno, ad Argenta, a Pontelagoscuro, a Codigoro, a Copparo, le differenze non siano troppo evidenti (ad oggi anche con scarti oltre il 20%) sulle tariffe per le bollette da pagare.
Si chiede, non solo un approccio metodologico di revisione della spesa, di riordino della stessa e del suo necessario riposizionamento, ma, soprattutto, un recupero corposo di risorse finanziarie (oltre a risparmi per i cittadini) che potremo riorientare e utilizzare, insieme ad altre, alle imprese, al lavoro, all’occupazione, ai giovani e fare crescita dei nostri territori.
Noi da soli, però, non possiamo farcela, anche producendo il dovuto sforzo aziendale, ed allora proviamo a guardare se oltre il nostro perimetro troviamo disponibilità ed attenzioni.
Sappiamo, infine, che i soci delle municipalizzate sono i Comuni, che i sindaci sono chiamati a rispondere, che a breve ci saranno in molti Comuni le elezioni amministrative e che qualche candidato non potrà sottrarsi a dire come la pensa al riguardo.
Non possiamo chiedere ad altri di “cambiare verso” se non cominciamo da noi, dai territori, dai cittadini e dagli amministratori locali tutti.
Una delle domande più frequenti che mi rivolgono riguardo al mio giardino è questa: “Come fai ad avere tante rose e così pochi pidocchi?” La domanda contiene la risposta: “Ho tante rose”. Se avessi un’invasione di afidi proporzionata al numero di fiori che a maggio riempiono il mio giardino, non avrei altra scelta che il lanciafiamme. Quasi tutte le mie rose sono grandi arbusti maritati ad alberi, siepi e altre piante, quindi gli afidi, di fronte a tanta scelta, si distribuiscono o si attaccano a qualche ramo, quasi sempre dei succhioni, così mi basta eliminare i rami più infestati per contenere questi ospiti. Gli altri insetti fanno il resto. A questa domanda segue quasi sempre l’osservazione: “… per te è facile, hai un giardino grande!”. Queste parole mi irritano tantissimo perché le dimensioni di un giardino o di un balcone, non sono assolutamente un ostacolo per creare un insieme ricco di forme e di biodiversità. Nella prima casa in cui ho abitato da sposata, avevo un balcone di 1 metro per 5, coperto ed esposto a nord-est; in pochi anni sono riuscita ad accumulare una settantina di vasi in cui coltivavo di tutto, non avevo criterio e sono riuscita ad allevare anche un fico, un paio di rosai e altre varietà che si erano adattate ad una vita-bonsai, con poca luce e niente pioggia. Nonostante le dimensioni e la pessima esposizione, quel balcone era un microcosmo in salute, frequentato da insetti e farfalle e, nel suo piccolo, era un vero intruso nel prospetto uniforme del condominio, le cui uniche presenze vegetali erano le batterie di gerani e/o petunie nei mesi estivi. Quelle piante, castigate in gioventù, sono state premiate e adesso vivono in tutto il loro splendore nella terra del mio giardino. Potrei citare tantissimi esempi in cui piccolo è diventato sinonimo di vario, esagerato, bio-diverso, grazie alla volontà e al desiderio dei giardinieri che lo hanno coltivato, scegliendo l’ordine o il disordine, lo stile e le piante. Chi preferisce averne poche o di un solo tipo, deve averne molta cura, trattarle con attenzione, difenderle, non può mai distrarsi. Le rose sono piante molto robuste, ma hanno bisogno di terra grassa, sole, aria, compagnia e libertà di movimento. Se vogliamo coltivarle in vaso, dobbiamo cercare di rendergli la vita accettabile, altrimenti si indeboliscono, si stressano e di conseguenza si ammalano e subiscono più facilmente gli attacchi dei parassiti. Se proprio non si resiste all’acquisto di un ammiccante rosaio mignon, tra uno yogurt e un pacchetto di biscotti sui bancali della coop, è bene trattarlo come un onesto centro tavola da cucina e, quando si affloscia, lo si getta nel bidone. Non è cinismo, ma un’onesta valutazione dello scopo per cui sono stati creati e selezionati questi vegetali. Un buon rimedio naturale contro gli attacchi dei pidocchi delle rose, è il macerato d’ortica (costa meno di quello fatto con gli scarti delle sigarette). Si prepara con le foglie dell’ortica comune, raccolta in qualsiasi momento, tranne quando la pianta va a seme. Il macerato elimina gli afidi e nutre le piante con calcio, potassio e azoto, immediatamente assimilabili dalle foglie.
Ricetta: un chilogrammo di pianta fresca (oppure 200 grammi di pianta essiccata) per ogni litro di acqua, fredda e possibilmente piovana, piogge acide permettendo. Sarebbe preferibile un contenitore di coccio o di legno, altrimenti si usa una pentola smaltata o una catinella di plastica, ma non di metallo. Il macerato va mescolato una volta al giorno e quando si mescola puzza. Per facilitare l’operazione di filtraggio, si può immergere della tela di iuta nella catinella. Il macerato prima di essere usato e distribuito con un erogatore a pompa o con uno spruzzino, deve essere filtrato per bene. L’efficacia del macerato dipende dalla concentrazione e dal tempo di macerazione. Il macerato di 12 ore, si usa concentrato e si spruzza direttamente sulle piante infestate dagli afidi. Il macerato di 4 giorni, si usa diluito in acqua: una parte di acqua, mezza di macerato, per concimare e combattere gli afidi; con l’aggiunta di un decotto di equiseto è ottimo anche per combattere in modo naturale gli attacchi di ragnetto rosso. Si può fare anche il macerato maturo di 15 giorni, ma diventa piuttosto impegnativo da gestire per chi ha un terrazzo o un piccolo giardino da trattare.
Poesia, musica araba amorosamente nostalgica, dolcezza e buoni sentimenti, sguardi teneri, persi e complici, sono gli ingredienti ben amalgamati di questa pellicola, di qualche anno fa, del giovane regista israeliano Eran Kolirin.
la locandina del film
Accompagniamo, allora, silenziosamente, la simpatica banda musicale, impeccabilmente vestita di azzurro, della polizia di Alessandria d’Egitto che, invitata ufficialmente all’inaugurazione del centro culturale arabo della città israeliana di Petah Tikva, si ritrova, per un malinteso, nel villaggio sperduto desertico di Bet Hatikva. Il giovane Khaled, distratto dalle belle donne, dunque un po’ dongiovanni, mal comprende le indicazioni per arrivare a destinazione e la banda arriva nel posto sbagliato. O meglio, in quello sbagliato che poi, per altri versi, si rivelerà davvero quello giusto. Qui, dove sia gli uomini che Dio paiono essersi dimenticati di tutto, di luoghi e abitanti, i componenti della banda verranno ospitati nelle case di vari israeliani amici della padrona del bar dove sono stati generosamente accolti, ossia dalla bella e sensuale Dina, dai lunghi capelli neri.
Senza mezzi di trasporto fino al mattino successivo, giorno del fatidico concerto, l’incomunicabilità iniziale verrà presto trasformata in tenerezza e condivisione di vite, passati, confidenze e sentimenti. Il colonnello-direttore della banda, l’arabo Tewfik, segue amorosamente, ma con forza, i suoi ragazzi, li dirige, amando profondamente la musica e l’energia che essa emana e diffonde, quasi miracolosamente. Personaggio curioso e particolare, lui.
scena del film
Il film è carico di poesia, lo è particolarmente quando le vite dei vari personaggi si mescolano, quando si comprende che non importa essere arabi o israeliani, per essere uguali, per provare gli stessi sentimenti, le stesse paure. Non contano luoghi, lingue, razze, etnie, culture, origini e religioni per attendere ogni notte, di fronte alla cabina telefonica, la chiamata del proprio amore, per essere seduttori che amano Chet Baker, per essere un ragazzo imbranato, timoroso e impacciato con le donne, per vedere, come Dina, nel direttore-colonnello, l’Omar Sharif che ha dolcemente sedotto i propri pomeriggi di giovane ragazza, per essere come il vice direttore, eterno secondo, che non riesce a terminare la sua opera prima composta per il suo fedele clarinetto.
Tutti abbiamo le stesse capacità di sognare, di piangere e di ridere, indipendentemente da chi siamo e da dove veniamo, di vedere un grande parco alberato in uno squallido e grigio parcheggio di cemento, di respirarne aria pura solo immaginando.
I bagliori di speranza ci sono sempre, anche sul ciglio polveroso della strada che tutti percorriamo, a volte con fatica e disperazione, a volte, invece, con immensa gioia, spensieratezza e gratitudine.
Tutti possiamo sentire, in ugual misura, la musica e, quando Dina chiede a Tewfik: “Che bisogno ha, la polizia, di Oum Kalthoum?” (famosa cantante e musicista egiziana di inizio secolo) e lui risponde: “È come chiedere ad un uomo perché ha bisogno dell’anima”, capiamo che la nostra anima è qui con noi, che c’è amore, indipendentemente da chi siamo e da come siamo stati cresciuti. Il film è una vera e propria fiaba dello straordinario nell’ordinario. L’idioma utilizzato è quello dell’amore, che va oltre le barriere, ed ecco allora che, improvvisamente, si comunica. Tutti.
Di Eran Kolirin, con Sasson Gabai, Ronit Elkabetz, Saleh Bakri, Khalifa Natour, Shlomi Avraham, Israele, Francia 2007, 90 mn.
La improvvisa proliferazione dei bulbi piliferi nelle gote e nelle teste degli italiani non è probabilmente solo dovuta alla moda ma diventa un segno di riconoscimento che la politica ha entusiasticamente adottato. Aver barba possibilmente incolta è segno di auctoritas e distinzione così come, almeno fino all’anno scorso, l’uso smodato degli sciarponi al collo a cui è rimasto fedele unicamente Brunetta. Più complessa la postazione della cresta in testa a cui si abbandonano con ebbrezza straordinaria i calciatori e i divi di mezza tacca e a cui s’ispirano, tra gli altri, portantini e infermieri. Il vento della libertà vestiaria scuote dunque le severe stanze del Castello ovvero dell’ospedale Sant’Anna di Cona che sembra riservarmi sempre più sorprese che mi spiazzano ma che ancora una volta rendono sopportabile il luogo destinato ad alleviare il dolore. E’ stata l’urgenza a portarmi al Pronto soccorso a causa di un male davvero atroce che mi lancinava il palato dove stava crescendo una bolla enorme. Approdato al Triage – nome assai suggestivo che ti assegna un codice attraverso il quale sarai chiamato e non con il tuo cognome per rispettare la “praivasy” – vedo scritto con pennarello e a caratteri enormi una freccia e un’ indicazione: “adulti” . Penso dunque che i bambini abbiano libero accesso. Ma dove?
Vengo accolto dall’addetto provvisto da rigorosa barba incolta che mi chiede tesserino sanitario e sintomi del male. Un po’ balbetto. Ancora risento della mia immedesimazione con l’agrimensore K.[vedi puntata precedente] e infine mi vien consegnato il verdetto: codice verde! Dal male che provavo mi sarei aspettato più generosità nel definire l’urgenza ma la barbetta con un sorriso paterno (avrebbe potuto essere mio pronipote) commenta: “ poi perché sono stato buono!”. Il che significa che generosamente mi aveva evitato di essere cacciato nel codice bianco, praticamente l’infima postazione dove sono catalogati mali, sembra, inventati dal paziente. Così entro nelle sale d’attesa. Tutta una cromìa di verde il colore che domina e che fa grazioso contrasto con le divise gialle degli addetti e col rosso fuoco delle t-shirt degli infermieri.
Un lamento diffuso e contenuto quasi un sospiro proviene dagli occupanti le barelle e le sedie del luogo. L’antica consuetudine con Lui, Dante, sommo poeta, mi riporta alla mente questi versi: “Ora incomincian le dolenti note/a farmisi sentire¸ or son venuto/ là dove molto pianto mi percuote”. Non era un lamento reale ma un’atmosfera impregnata di una sofferenza nascosta, un dolore contenuto e paziente. Infine un’allegra ragazza con la maglietta rosso acceso chiama il mio numero e m’introduce dal medico, una deliziosa giovane che mi affascina ulteriormente perché ha le unghie laccate in giallo limone. Improvvisamente mi ritorna la contentezza che questa maledetta bolla m’aveva bloccato.
Nel pomeriggio, invitato dall’amico Mauro Presini collaboratore di questo giornale, ero andato a chiacchierare con due classi di bimbi: una di terza e una di quarta elementare. A parlare di segreti che mi aveva confidato la mia cagnetta Lilla e che parlavano di maghi che avevano una bacchetta magica chiamata arte e che rendevano eterno ciò che toccavano: questi maghi potenti si chiamano Omero, Dante Michelangelo e per non farci mancare niente per dessert abbiamo commentato anche le figure fatte di frutta fiori e verdure di Arcimboldo. Quando ripenso all’innocenza di quei visi, all’entusiasmo che mettevano nel porre le domande, un che di dolce rende meno amara la costatazione dello stato presente funestato da mostri come Genny ‘a carogna o “Gastone”, il romanista chiuso nel suo covo nazista fino agli intoccabili raggiunti da condanne si chiamino Scajola o Greganti. Questi bambinetti meravigliosi che sgranano gli occhi a sentire le imprese di Achille o a vedere il David di Michelangelo e che per ringraziarmi vogliono posare un bacio sulla pelata del Gianni, narratore di magie.
Una contentezza che fa brillare di luce nuova lo splendido giallo limone delle unghie della dottoressa. E nemmeno l’invito a tornare il giorno dopo per una visita più completa mi fa diminuire la fiducia nel suo potere taumaturgico. I miei occhi assumono l’espressione tipica della mia Lilla quando vuole il cibo e commuovono l’infermiera fasciata di maglietta rossa. Così mi si fissa un appuntamento con lo specialista e trionfalmente il mio cognome viene declamato ad alta voce invece del numero. Altro che “praivasy”! Così si agisce: non sono più un nome ma un cognome: V. Il resto è solo dolore acutissimo. La bolla viene strizzata, sondata, svuotata senza anestesia. Capisco cosa possano essere le pene narrate nell’Inferno dantesco. Eppure davanti a me ho la pazienza e l’incoraggiamento fatti persona. Dolcissima la dottoressa capisce, incoraggia, partecipa e, alla fine, il dolore lentamente svanisce e esco dal verde Pronto soccorso grato di un aiuto che rende il Castello finalmente una Casa. Dove si può soffrire ma dove trovi aiuto e umana comprensione.
L’esecuzione di Clayton Lockett, avvenuta nello stato americano dell’Oklahoma il 29 aprile scorso, ha riportato ancora una volta le nostre coscienze a fare i conti la violenza di una pena contraria a qualsiasi idea di umanità, che lede uno dei principi fondamentali su cui si basa la nostra società, il rispetto della vita umana.
Clayton Lockett, un trentottenne afroamericano condannato alla pena capitale nel 1999 per aver sparato a una ragazza di 19 anni e averla poi seppellita viva, è morto dopo un’agonia durata 43 minuti. Il cocktail di farmaci che avrebbe dovuto condurlo alla morte in modo veloce e indolore non ha funzionato, probabilmente a causa della rottura di una vena, e l’uomo è deceduto per arresto cardiaco tra atroci dolori.
Questo evento ha suscitato polemiche nell’opinione pubblica americana e ha riacceso un dibattito che dura da anni, ma che non ha ancora portato a una revisione dei metodi brutali della pena di morte, né della pena di morte stessa.
Nonostante lo stesso presidente Obama abbia definito “disumano” il modo in cui è morto Lockett, e la Casa Bianca abbia sentenziato che l’esecuzione non è stata “all’altezza degli standard del rispetto dei diritti umani”, la pena di morte negli Stati Uniti è sostenuta dalla maggioranza della popolazione e dai leader politici, che si appellano alla volontà popolare. Tuttavia questa maggioranza si sta restringendo, ed è passata dall’80% del 1994 al 60% del 2013. I giovani americani sono meno favorevoli degli anziani alla pena capitale, e i non-bianchi (ispanici, afroamericani e asiatici), che un giorno costituiranno la maggioranza della popolazione, sono solidi oppositori. Sei Stati hanno abolito la pena di morte dal 2007, portando il totale degli abolizionisti a 18 su 50. Il numero delle esecuzioni è comunque in calo: dal 1999, anno in cui sono state effettuate 98 esecuzioni, si è arrivati a 39 nel 2013.
Gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali – considerate tali non solo per il sistema politico del Paese, ma anche per l’attenzione ai diritti umani, e per il rispetto dei diritti civili e politici e delle libertà economiche – che continuano ad applicare la pena di morte, insieme a Giappone, Botswana, Taiwan, India, Mongolia e Indonesia.
In tutti il mondo, i Paesi mantenitori della pena capitale sono 40. Di questi, 33 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. Secondo gli ultimi dati disponibili, forniti dal rapporto del 2013 sulla pena di morte di Nessuno tocchi Caino, organizzazione non governativa italiana che ha come obiettivo l’attuazione della moratoria universale della pena di morte, e, più in generale, la lotta contro la tortura, nel 2012, in 17 di questi paesi sono state compiute almeno 3.909 esecuzioni, il 98,5% del totale mondiale. L’Asia si conferma il continente dove si pratica la quasi totalità delle esecuzioni nel mondo. Cina, Iran e Iraq mantengono il triste primato di “paesi boia” del 2012, rispettivamente con 3.000 (76% del totale mondiale), 580 e 129 esecuzioni.
L’Europa è un continente libero dalla pena di morte. Solo la Bielorussia continua ad applicarla: nel 2012 tre uomini sono stati giustiziati con l’accusa di omicidio. In questo Paese, che si presenta nominalmente come una repubblica, ma che di fatto è una dittatura, le informazioni sulla pena di morte sono considerate segreto di Stato. I prigionieri sono informati della loro esecuzione solo un momento prima che venga effettuata, e i condannati sono giustiziati con un colpo alla nuca. I corpi sono sepolti in tombe senza nome, in luoghi tenuti segreti alla famiglia e agli amici.
Nel 2013, l’organizzazione non governativa Penal Reform International ha realizzato un sondaggio sulla pena di morte in Bielorussia, dal quale è emerso che l’opinione pubblica è per la maggior parte favorevole alla pena capitale (64%), e che la preoccupazione circa la sicurezza personale sembra essere uno dei motivi principali a sostegno di questa pena; tuttavia, tre quarti degli intervistati ritengono che la condanna di un innocente sia più grave dell’impunità di un colpevole.
Le autorità bielorusse, nonostante abbiano in passato dichiarato che la questione dell’abolizione della pena di morte “rimane aperta”, e che si tratta di una misura “temporanea ed eccezionale”, non hanno intrapreso nessuna azione decisiva volta ad abolire la pena di morte o a stabilire una moratoria legale. Il dibattito, all’interno del governo, ruota esclusivamente intorno alle prospettive di adesione della Bielorussia al Consiglio d’Europa, che pone come condizione l’abolizione della pena capitale.
Di fatto, secondo stime non ufficiali, a partire dal 1991 circa 400 persone sono state giustiziate nello stato ex sovietico.
La strada verso la democrazia, in un Paese chiuso nei confronti dell’Occidente, caratterizzato da una totale subordinazione di tutta la società e dalla mancanza di libertà di parola, appare impervia.
E’ del dicembre 2013 l’approvazione delle “Linee guida sugli interventi assistiti con gli animali”. Anche l’Emilia Romagna si allinea alle Regioni più avanzate in materia, come Veneto e Toscana, dotandosi di una legge che intende promuovere la conoscenza, lo studio e l’utilizzo di nuovi trattamenti di supporto e integrazione alle terapie mediche tradizionali nella cura delle disabilità.
L’ippoterapia è nata in Italia più di trent’anni fa e ha avuto un enorme sviluppo nel tempo, pur sempre rimanendo un’attività non riconosciuta dal Servizio sanitario nazionale come terapia riabilitativa. Ad oggi infatti manca ancora una legge nazionale di riferimento. La sua diffusione e il riconoscimento come co-terapia hanno avuto quindi uno sviluppo locale, a livello di singole Regioni e di enti istituzionali. Oggi finalmente si sta parlando di proposte di legge-quadro (vedi proposta di legge dell’onorevole Maria Vittoria Brambilla del marzo 2013) che vanno verso il riconoscimento della pet therapy come co-terapia, ossia come cura che va intrapresa assieme a quelle mediche, e che definiscono chiaramente gli ambiti di intervento riprendendo le definizioni proposte da Delta Society, ad oggi la principale organizzazione mondiale che si occupa di pet therapy: gli interventi assistiti con gli animali si suddividono in Terapia assistita con gli animali (TAA), Educazione assistita con gli animali (EAA) e Attività assistita dagli animali (AAA).
Ne parliamo con le responsabili di due centri di ippoterapia di Bologna e Argenta. Abbiamo già scritto in un nostro recente articolo dell’Associazione Il Paddock di Bologna [leggi] che grazie ad un lavoro trentennale è diventata un punto di riferimento insostituibile per l’ippoterapia a Bologna e provincia. Nel ferrarese, ad Argenta, è attivo dal 2004 il Circolo ippico argentano, condotto da Monica Poluzzi e Paolo Donigaglia.
In assenza di una normativa ad hoc, entrambe le realtà si sono dovute finora sempre organizzare autonomamente e ricercare faticosamente le collaborazioni con i privati, con le residenze, le cliniche o altro. Questo ha avuto di positivo che sono riusciti negli anni a costruirsi una buona rete di relazioni basate tutte sul passaparola: molti dei bambini disabili ai quali fanno terapia vengono mandati dai loro insegnanti di scuola, da psicologi che portano i figli al maneggio, da neuropsichiatri che vengono a sapere di quel singolo caso. Lavorano moltissimo e con enormi risultati, ma l’entrata in vigore della legge regionale potrebbe essere un passo importante nella direzione di sgravare le famiglie dai costi delle prestazioni, valorizzare il lavoro degli operatori e puntare sulla formazione di équipe specializzate.
Angela Ravaioli del Paddock con la sua Ombra, cavallo specializzato in riabilitazione equestre
Abbiamo chiesto ad Angela Ravaioli del Paddock (psicopedagogista specializzata, istruttore Fise) di raccontarci come vanno le cose da loro e di spiegarci cosa si aspetta da questa legge: “Nonostante l’efficacia comprovata, ad oggi l’ippoterapia non è ancora inserita nel Servizio sanitario nazionale che quindi non ne rimborsa i costi, spesso molto elevati. Siamo però molto contenti perché da circa un anno le neuropsichiatrie ci inviano loro pazienti. Inoltre, molti bimbi arrivano privatamente ma dietro consiglio delle Asl, delle scuole e delle neuropsichiatrie che ora si stanno aprendo a queste “nuove” co-terapie. Cosa ci aspettiamo dalla nuova legge? Sappiamo che in attuazione delle linee guida si avvierà un iter formativo e, data la nostra esperienza, ci piacerebbe contribuire alla realizzazione di eventuali percorsi formativi di specializzazione, dei quali siamo tutti in grande attesa. In questi anni abbiamo lavorato per creare il nostro gruppo di lavoro con l’idea di formare una buona équipe multifunzionale. Abbiamo tirocinanti bravissimi e appassionati, operatori qualificati che si sono formati qui con noi, ma troppo spesso capita che non riusciamo a tenerceli a Bologna, si vanno a specializzare a Milano o a Firenze, gli unici due enti riconosciuti.”
Abbiamo contattato il Servizio veterinario della Regione per capirne di più e ci hanno spiegato che grazie alla nuova legge vorrebbero avviare una formazione di base specifica riconosciuta, che abbia valenza come ente Regione Emilia-Romagna. L’intento è di formare gruppi omogenei di specialisti medici, veterinari, istruttori, perché per fare pet-therapy occorre lavorare in équipe. Alla domanda se cambierà qualcosa anche a livello di assistenza, ci hanno risposto che purtroppo in quel senso non cambierà nulla finché una legge nazionale non riconoscerà la pet therapy come co-terapia, includendola nei Lea (livelli essenziali di assistenza gratuiti eroga a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket).
Circolo ippico argentano, una disabile a cavallo guidata da Monica Poluzzi
Il Centro ippico argentano si trova in un luogo strategico, crocevia tra Ferrara, Bologna, Romagna e Veneto, interessante punto di osservazione, quindi, per capire quanto l’ippoterapia sia diffusa e utilizzata in queste aree. Abbiamo intervistato Monica Poluzzi (istruttore Fise e Cip) del Centro ippico argentano, chiedendole qual è il loro bacino d’utenza, se hanno ragazzi disabili provenienti da Ferrara, e cosa ne pensano della nuova normativa: “Noi lavoriamo molto con il Veneto, con Ravenna, Lugo e Bologna. Per quanto riguarda il ferrarese, abbiamo persone che vengono da Portomaggiore. Noi collaboriamo per esempio con lo Smria (Salute mentale Riabilitazione infanzia adolescenza) di Portomaggiore, e abbiamo avviato da un anno una bellissima collaborazione con il Centro iperbarico di Ravenna. Purtroppo con Ferrara città non siamo mai riusciti ad avviare collaborazioni, ma sappiamo che in questo campo tutto funziona ancora molto con il passaparola. Speriamo che con la nuova legge si creino maggiori opportunità anche in questo senso.”
Martina e la sua istruttrice Mary Ann al Circolo ippico argentano
Ci piace concludere questo approfondimento sull’ippoterapia, chiedendo a Mary Ann Rust di raccontarci di questo interessantissimo progetto avviato con l’Iperbarica di Ravenna. Mary Ann è ippoterapista da vent’anni e collabora con il Centro ippico argentano dal 2004: “Il Centro iperbarico di Ravenna è una struttura sanitaria all’avanguardia, specializzata nella cura con la somministrazione di ossigeno in camera iperbarica. Da alcuni anni, sta portando avanti un progetto che si occupa di associare la terapia in camera iperbarica ad altre co-terapie riabilitative come l’ippoterapia, la fisioterapia, la logopedia, per la cura di persone cerebrolese. Questo progetto si basa su studi che dimostrano che, se nelle tre ore successive al trattamento in camera iperbarica, il cervello viene iperstimolato, tende a creare delle nuove connessioni che possono ripristinare qualche attività cerebrale. Al momento sono cinque i bambini dell’Iperbarica che praticano ippoterapia al Centro argentano, e tutti hanno avuto dei grossissimi risultati, acquisendo movimenti che prima non avevano.
Nonostante lavori molto e duramente, Martina è felice di fare le sue ore di ippoterapia con Mary
Ma tutto è cominciato grazie alla nonna di Martina, che ha creduto nel progetto e ha fatto di tutto per diffonderne la validità e realizzando anche un sito in cui si possono seguire i progressi della sua nipotina [vedi]. Martina è una bambina di Argenta, ha dieci anni e una diagnosi di paralisi cerebrale infantile. Dal 2008 segue un percorso di terapia iperbarica associata all’ippoterapia e altri tipi di riabilitazione. Grazie a queste terapie è migliorata tantissimo, oltre ogni aspettativa: Martina non aveva quasi nessun controllo del tronco, oggi riesce a scendere le scale, anche se a suo modo, mangia da sola e va in bicicletta. La nonna e i genitori sono felicissimi, per Natale ci hanno scritto una lettera che ci ha profondamente commosso:
“Martina e la sua famiglia ringraziano il Circolo ippico argentano per aver averci dato la possibilità, accompagnandoci con serenità, decisione e amore, di fare ippoterapia […] terapia molto importante per questi nostri bambini speciali. Siate fieri e orgogliosi di quello che fate verso i più deboli […] Non ci viene offerto nulla in alternativa da chi si dovrebbe occupare di questi bambini, nemmeno la possibilità di sperare, per una vita migliore. […] Ma in questo cammino così complicato e difficile, si incontrano persone che risvegliano le tue energie, la tua anima, trasmettendoci forza, coraggio e speranza.”
“Non c’è bisogno di andare a Nardò per trovare il caporalato”, basta fare un giro lungo le strade che costeggiano le campagne ferraresi. Ad affermarlo Dario Alba di Flai Cgil, che il 6 maggio ha partecipato all’incontro I nuovi schiavi. In cammino contro la tratta degli esseri umani, organizzato alla sala polivalente del grattacielo dal coordinamento provinciale di Libera in occasione della tappa ferrarese della Carovana internazionale antimafie. Insieme ad Alba, che ha presentato il secondo rapporto ‘Agromafie e caporalato’ dell’Osservatorio Placido Rizzotto, c’erano Raffaele Rinaldi, che ha portato la testimonianza dell’Associazione Viale K e dello sportello Avvocato di Strada, e Franco Mosca, che ha lavorato all’Osservatorio sull’immigrazione della Provincia di Ferrara fino alla sua chiusura due anni fa.
Ad aprire la serata una video testimonianza di Yvan Sagnet, ragazzo camerunense venuto in Italia per studiare ingegneria al politecnico di Torino e finito nelle campagne salentine, alla Masseria Boncuri, a raccogliere i pomodori perché il denaro della sua borsa di studio non bastava. Yvan e i suoi compagni hanno dovuto imparare in fretta le leggi del caporalato. I caporali requisiscono i documenti e li usano per procurarsi altri immigrati clandestini, con il rischio che vadano persi, esponendo così al ricatto anche chi è regolare. “Ai lavoratori non è permesso raggiungere i luoghi di lavoro con mezzi propri, devono usare i pulmini dei caporali pagando il trasporto 5 euro”. Se vuoi bere devi pagare 1,50 per l’acqua, se vuoi mangiare il panino costa 3,50 euro, quanto a loro viene pagato un cassone di pomodori da 3 quintali. Non conviene avere problemi di salute, il prezzo del trasporto in ospedale è di 20 euro. Un giorno però qualcosa è cambiato, servivano pomodori per le insalate: significava selezionarli uno a uno, raddoppiando la fatica, ma allo stesso prezzo. Yvan e gli altri braccianti non ci stanno: è l’inizio di una protesta che per settimane blocca la raccolta dei pomodori nel Salento. Le istituzioni sono costrette ad ammettere che il problema caporalato esiste: abbiamo dovuto aspettare uno sciopero di lavoratori migranti perché finalmente nell’agosto 2011 venisse approvata in Italia una legge contro il caporalato (articolo 603bis del codice penale).
“Abbiamo ancora tanto da fare”, ha concluso Yvan, prima di tutto perché quella legge è incompleta, “non c’è nulla che punisca le aziende: sono le aziende che danno i soldi ai caporali per sfruttarci”. Nelle campagne ferraresi certo la situazione non è così grave, il caporalato assume per lo più la forma dell’intermediazione: i lavoratori stranieri si rivolgono cioè a un loro connazionale che parla la loro stessa lingua e che diventa l’intermediario con il datore di lavoro. Tuttavia emergono episodi di grave sfruttamento, tanto che Alba parla di “paraschiavitù”: dai pakistani che lavorano per 15-25 euro al giorno ai rumeni che d’estate vivono stipati dentro container roventi. Inoltre Mosca ha parlato di una pericolosa “frattura fra i lavoratori”, che contrappone italiani e stranieri, con i primi che attribuiscono ai secondi la mancanza e il peggioramento delle condizioni di lavoro.
Forse la soluzione, o parte della soluzione, passa dalla consapevolezza. La consapevolezza, per esempio, che non possiamo più nasconderci dietro questa sorta di “schizofrenia”, come l’ha chiamata Raffaele Rinaldi, “per cui ci indigniamo delle situazioni di sfruttamento e di disperazione quando sono lontane da noi, mentre quando queste realtà cominciano a lambire la porta di casa l’uomo diventa il clandestino”, oppure “ci si scaglia contro gli immigrati e poi li si va a cercare per lavorare” nelle campagne o nei cantieri. Oppure la consapevolezza che anche noi, nel nostro piccolo, quando facciamo la spesa siamo potenti, perché abbiamo il potere di scegliere. In altre parole la consapevolezza di un legame inscindibile fra diritti, legalità, responsabilità e solidarietà.
E’ assolutamente imperdibile l’incontro in programma sabato in castello. Risponde a uno dei quesiti fondamentali dell’esistenza umana, un interrogativo che ciascuno di noi ha angosciosamente posto a se stesso almeno una volta in quest’epoca di crisi: “Come diventare marchesa ed esserlo in tutte le occasioni della vita”. E’ un tema nodale dei giorni nostri, qualcosa che ci appassiona e ci scuote nel profondo dell’animo.
A proporre una così ghiotta occasione di crescita umana e intellettuale è Forza Italia, sempre attenta a intercettare i reali bisogni delle persone. Talchè, nel vortice della sua campagna elettorale, ha pensato giustamente di elevare il tono del dibattito generale, invitando nella nostra città un’esperta assoluta della materia, Daniela del Secco D’Aragona, che saprà con sapienza erudirci e illuminarci. Accanto a lei poseranno nobilmente tutti i candidati forzitalici, quelli delle amministrative e quelli delle europee.
La benemerita iniziativa è stata propiziata dal praticante avvocato Francesco Carità con il supporto dei club ‘La nuova Forza Italia Ferrara’ e ‘Forza Italia città estense’. Grati della caritatevole attenzione che schiude persino a noi plebei uno spiraglio all’anelito del marchesato, eleviamo il nostro canto: meno male che Francesco c’è.
P.S. Non è uno scherzo come inizialmente avevamo creduto, è tutto drammaticamente vero
La caffettiera rivestita di pelliccia. Una provocazione degna di una sfilata di alta moda. Si presenta così il sito internet dell’Associazione italiana pellicce. Oltre 150 mila animali allevati e abbattuti per produrre il simbolo per eccellenza del lusso femminile. Che allarga i confini e si adatta alla creatività tipica del Made in Italy. Così la pelliccia può rivestire una radio, una lampada da tavolo e persino una Vespa.
Contro questo mercato, in Parlamento ci sono tre proposte di legge, promosse da tre donne. Due alla Camera (Michela Brambilla e Chiara Gagnarli) e una al Senato (Silvana Amati). A queste, potrebbe presto aggiungersi l’azione delle Regioni italiane. Umbria, Sicilia e soprattutto l’Emilia-Romagna, che con cinque allevamenti mantiene una posizione di rilievo nella produzione nazionale di pelli di visone. Così l’Emilia-Romagna potrebbe essere la prima Regione italiana a proibire gli allevamenti da pelliccia sul proprio territorio. Una legge però che difficilmente potrà diventare operativa, perché creerebbe problemi costituzionali di uniformità legislativa nazionale. Lo ammette persino la Lav, Lega antivivisezione, la principale protagonista della lotta animalista. L’obiettivo reale è fare pressione sul Parlamento perché possa approvare nei prossimi mesi la messa a bando degli allevamenti su tutto il territorio italiano.
Una soluzione che non piace a Giovanni Boccù, rappresentante dell’associazione italiana allevatori di visone (Aiav). Il visone resta di fatto l’unica specie di animale da pelliccia ancora allevata in Italia. Poche decine di allevamenti, contro i 170 del 1980; un settore che sembrerebbe in via di estinzione. Il numero degli animali abbattuti in Italia, tuttavia, fa ancora impressione: oltre 150 mila, appunto.
Presidente, cosa sta accadendo agli allevamenti di visone in Italia? Tutta colpa di una legge del 2001, che avrebbe dovuto recepire correttamente la direttiva europea in materia di protezione degli animali negli allevamenti. Invece ci obbligavano ad allevare i visoni a terra e a costruire piscine per loro. Non ci sono prove che dimostrino che l’allevamento a terra garantisca un maggiore benessere degli animali, anzi, i visoni si ammalano facilmente, con danni alla produzione. Nel mio allevamento avrei dovuto spendere cinque milioni di euro, senza aumentare i ricavi futuri. Ma abbiamo fatto cambiare l’articolo e ora gli impianti stanno nuovamente aumentando, nonostante la burocrazia fatta di decine di carte prima di ottenere un permesso. A Cella di Noceto, in Emilia Romagna, il Comune aveva legiferato per impedire l’allevamento di visoni. Il governo lo ha obbligato a rettificare. Io sto cercando di ampliare i miei impianti, ma ancora senza risultati. In queste condizioni molti allevatori rinunciano.
Dove stanno aprendo i nuovi impianti? Non glielo posso dire. Contro di noi si stanno verificando atti di terrorismo. Gli ambientalisti distruggono gli impianti ancora prima che inizi il ciclo produttivo, ostacolano l’approvazione dei permessi dei Comuni facendo pressione sui sindaci, con migliaia di email ogni giorno. In alcuni impianti hanno avvelenato i cani, hanno buttato acido sulle macchine. Abbiamo già diverse denunce ai Carabinieri. Si firmano con la sigla Alf, Animal liberation front.
Vi accusano di torturare gli animali… Se così fosse, dovremmo andare in galera e con noi l’Asl che verifica la conformità dei nostri impianti alle norme di legge. Noi invece rispettiamo le leggi. Contro di noi ci sono solo falsità. Ho invitato il presidente della Lav a visitare il mio impianto ma non ha mai accettato. Noi facciamo gli open day, chiunque può venire a visitare gli impianti. Il benessere degli animali è al top.
Visoni nella gabbia di un allevamento
Le sembra etico uccidere un animale per produrre pelliccia? L’etica è una opinione. Se tengo un animale in casa, invece che lasciarlo libero, forse non è etico. Se uno dice che costruire una Ferrari non è giusto perché costa troppo e perché ci sono persone che non arrivano a fine mese, oppure che mangiare la carne di animali è scorretto perché possiamo mangiare la verdura, che facciamo? Magari blocchiamo tutto solo perché lo vuole la maggioranza. Dunque se è possibile allevare animali da pelliccia, il problema è il trattamento degli animali e su questo noi non abbiamo nulla da nascondere, anzi, se hanno qualcosa da proporci, noi siamo pronti a discuterne per migliorare la salute degli animali.
Noi accetteremmo anche di essere messi al bando, ma non sulla base di falsità. In Europa la Lav ha raccolto le firme per mettere al bando gli allevamenti. Ma hanno dovuto ritirarle perché abbiamo dimostrato che dicevano falsità e l’Europa ha rigettato la richiesta.
Se la questione è etica, si faccia la legge. Noi ci adegueremo, ma finché non c’è la legge, non possono dire che noi siamo illegali e scorretti facendo danno alle nostre strutture, con atti di vandalismo
Ci sono sondaggi che dimostrano che l’opinione pubblica è contraria alle pellicce… La gente non è contraria, è indifferente e spesso non sa di cosa parla. Non ha mai visitato gli allevamenti. Le garantisco che chi è entrato da noi, esce convinto che gli allevamenti di animali da pelliccia siano identici a tanti altri allevamenti. Agli italiani interessa portare lo stipendio a fine mese, non mandare a casa altre famiglie. Chiudere i nostri impianti significherebbe un doppio costo. A noi dovrebbero darci un indennizzo per la perdita dello stipendio e degli impianti. Inoltre il mercato dovrebbe acquistare le pelli dall’estero, dove non ci sono le stesse norme di tutela della salute degli animali. Un doppio danno per il paese.
In Europa però molti paesi hanno già abolito gli allevamenti da pelliccia… Sono paesi che non hanno allevamenti, così è troppo facile. In Inghilterra, una generazione di allevatori anziani ha preferito chiudere piuttosto che rinnovare gli impianti. Hanno incassato i soldi per la chiusura degli impianti, hanno preso altri fondi dall’Unione Europea e hanno investito nuovamente in Grecia. L’Olanda ha messo al bando gli allevamenti per questioni etiche, non per maltrattamento degli animali. Il governo olandese ha dato 23 milioni di euro agli allevatori, ma i danni al settore supera il miliardo e mezzo di euro e ora stanno ricalcolando gli indennizzi. Se i governi pagano, gli allevatori chiuderanno.
In Parlamento ci sono tre proposte di legge per l’abolizione in Italia, si sente minacciato? In un paese civile la maggioranza decide, ma fin quando ci sono leggi che stabiliscono che la nostra attività è legittima, noi abbiamo il diritto a produrre senza ostacoli. Quando le proposte di legge saranno discusse in aula ne riparleremo. D’altronde, dall’estero vogliono comprare il nostro know-how e qui c’è chi prova a chiuderci e mandarci via
Ma in Italia siete poche decine, potrebbe essere facile chiudevi… Se una famiglia guadagna poco che fanno la mettono sul lastrico solo perché agli altri non interessa il suo lavoro? Se un Parlamento vuole può chiudere anche un settore ricchissimo e fiorente.
C’è chi scuoia gli animali vivi, ha mai visto le immagini? Sono cose che mi fanno venire i brividi. In Europa queste cose non possono avvenire, perché ci sono le leggi più ferree per il benessere degli animali. Abbiamo studiato con il supporto di università i migliori sistemi per garantire il benessere degli animali e tra poco arriverà anche una certificazione esterna che si aggiungerà ai controlli delle Asl. Se sbaglio qualcosa mi fanno il verbale. E’ nostro interesse certificarci, perché più alta è la qualità più il nostro prodotto è garantito sul mercato. Siamo i primi interessati al benessere degli animali, gli ambientalisti non vogliono capirlo. Il pelo viene bello se un animale sta bene, non se viene maltrattato.
Al Parlamento europeo, abbiamo fatto un’esposizione per presentare il nostro lavoro, anche agli animalisti. C’erano anche foto di animali feriti. Può succedere che un animale si possa ferire. Se uno mettesse una foto di un uomo andato in ospedale e dicesse: “questo è il genere umano”, direbbe una falsità. Così per noi l’importante è che venga curato e rimesso in produzione. Noi non abbiamo nulla da nascondere, ma cercano di accomunarci ad allevamenti lager. Noi abbiamo i controlli di ufficiali pubblici della Asl, anche sette volte l’anno. Se faccio male qualcosa, mi fanno il verbale. Se qualcosa non fosse corretta, dovremmo essere accusati tutti, compresi i controllori.
Che tempi ci sono per la certificazione? Entro l’anno prossimo in tutta Europa. È attualmente in prova in alcuni allevamenti. All’asta di Helsinki, già ora chi vende pelli da allevamenti certificati prende un extra prezzo.
Che fine fanno i corpi degli animali scuoiati? In Europa, gli allevatori riciclano un milione e mezzo di tonnellate di carne. Nel Nord Europa con la carne degli animali da pelliccia si produce biogas. È possibile farne farine proteiche e bocconcini per l’alimentazione di altri animali. Tutto il prodotto è utilizzabile. Noi comunque non ci occupiamo dei corpi degli animali, perché fanno parte del ciclo successivo, di cui si occupano le aziende autorizzate dalla Asl. Pensi che 30 anni fa, alcuni allevatori si riempivano la cella frigorifera e mangiavano quella carne tutto l’anno.
Come va il mercato delle pellicce? Benissimo, il prodotto viene venduto. Il mercato è mondiale, non è solo quello italiano. In Italia, abbiamo la MiFur che è una delle principali Fiere del mondo. La pelliccia è utilizzata ovunque ed è più che mai di moda.
Ma il prezzo sta calando, troppa concorrenza? Negli ultimi mesi c’è stato finalmente un calo, dopo un aumento del 168% registrato negli ultimi cinque anni. Per noi è meglio, perché certi mercati erano tagliati fuori, mentre ora stanno tornando a comprare.
Non c’è stato un cambiamento culturale con le pellicce ecologiche? Sono pellicce di plastica prodotte dal petrolio, che non è possibile definire ecologiche. È indistruttibile e prodotta in modo inquinante. Anzi, più le persone comprano pellicce di plastica, più si rendono conto della qualità del nostro prodotto. Sappiamo quanto distrugge il petrolio, con danni alla vita degli animali. Quello è un bene non rinnovabile, finirà. Noi produciamo quanto vuole il mercato.
Come vi tutelate dai colleghi che non rispettano le norme?
Quando è successo siamo stati i primi a denunciarli. Purtroppo chi passa con il semaforo rosso ci sarà sempre, ma questo non vuole dire che gli allevamenti torturino gli animali. Noi non diciamo alla gente che debba portare la pelliccia, ma nessuno dica che non possiamo produrla.
Come si riconosce sul mercato una pelliccia prodotta senza il rispetto delle norme europee? Il prezzo, sensibilmente più basso. Noi dobbiamo seguire cicli dietetici. Tutto deve essere bilanciato. Noi possiamo mancare di attenzione verso gli animali. Poi paghiamo le tasse. Certo in alcuni paesi, dove vivono con le galline in casa, se offrissimo cinquanta euro per farla scuoiare viva, sono sicuro che me lo farebbe anche con i denti. Se qualcuno dovesse dire che in Italia ci sono atteggiamenti simili io mi costituisco parte civile. Se gli ambientalisti fanno vedere filmati così violenti lasciando credere che succeda anche in Italia, vuol dire che hanno la coscienza sporca. Perché dovevano denunciare quelle persone, non possono metterci a paragone. L’istituto zooprofilattico di Brescia ha messo le telecamere per vedere la reazione degli animali al gas con cui vengono uccisi. Non agonizzano, muoiono in pochi secondi. Quando la concentrazione di ossido di carbonio è giusta, noi mettiamo gli animali. Poi li deponiamo sulle rastrelliere e aspettiamo il giorno dopo. Solo a quel punto noi interveniamo.
“Non si dovrebbe sottovalutare la noia come fonte di meditazione e fantasticherie, le centinaia di ore della tua prima infanzia in cui ti sei trovato solo, privo di stimoli, senza niente da fare, troppo svogliato o distrutto per voler giocare con i tuoi camion o le tue automobiline, per prenderti la briga di schierare i tuoi cowboy e indiani in miniatura… E siccome fuori pioveva o faceva troppo freddo per uscire di casa, languivi in un torpore ombroso e depresso, ancora troppo giovane per leggere, per telefonare a qualcuno, sognando un amico o un compagno di giochi che ti facesse compagnia… Temutissime ore di noia, lunghe ore solitarie di vuoto e silenzio, intere mattine e pomeriggi in cui il mondo smetteva di girare intorno a te, eppure quel terreno sterile si rivelò più importante di tanti giardini in cui avevi giocato, perché è li che ti sei addestrato a stare da solo, e una persona può lasciare libera la mente solo quando è sola”. (P. Auster, 2013, Notizie dall’interno, p. 37).
Questo affascinante brano tratto da un romanzo in forma autobiografica dello scrittore americano Paul Auster, mi serve come spunto per riflettere su un’esigenza che questo tempo nega: consentire lo spazio per la noia. Lasciare che emerga un tempo vuoto nella scansione delle proprie giornate è la condizione per riflettere sul senso di ciò che stiamo facendo, per ascoltare i propri desideri e sviluppare un pensiero creativo. Esigenza primaria che contrasta con un’attitudine diffusa a gestire il tempo libero con l’impegno ossessivo a chiudere ogni possibile spazio di tempo vuoto.
Anche nel rapporto con i bambini si commette, per lo più, l’errore di non lasciare spazio alla noia. I bambini sono sommersi e soffocati di proposte. I genitori occupano tutto il tempo dei bambini con le più varie attività e riempiono ogni spazio. Crescono bambini che non sanno fare i conti con la noia e con un tempo vuoto, non sanno giocare da soli e baloccarsi con i propri pensieri, magari inventando storie immaginarie a partire da semplici oggetti quotidiani.
La tendenza a riempire ogni momento talvolta risponde al senso di colpa per non dedicare ai figli abbastanza tempo e attenzione, spesso è una proiezione degli adulti che propongono ai figli cose che loro stessi avrebbero voluto fare e vivendo in tal modo i bambini come un prolungamento narcisistico di sé.
La saturazione di ogni spazio è anche un dato culturale di questo tempo: l’idea che ogni spazio debba essere indirizzato a qualche utilità, ad apprendere una specifica capacità. Un’idea di utilità che riduce lo spazio del gioco, lo spazio dell’astrazione e del pensiero simbolico, in nome di un precoce apprendimento di abilità. Vince così la concezione dell’apprendimento come performance da raggiungere ad ogni costo. In questa esasperata ricerca di formazione di competenze si esprime anche una delega agli esperti dell’apprendimenti: si preferisce pagare il corso piuttosto che condividere attività da fare insieme.
Nel futuro questo mancato apprendimento ad assecondare i propri ritmi e vocazioni, può provocare la tendenza a riempire il tempo con oggetti che anche in quel caso sono sostituti del desiderio, oggetti di consumo, cibo, fino alla droga. Imparare a non otturare ogni mancanza è la condizione necessaria per accedere al desiderio. Così da adolescenti i ragazzi che non sono abituati a fare i conti con la mancanza, faticano a dire cosa vogliono.
La condizione per desiderare è la mancanza, se questa viene tappata con oggetti, cose o progetti costruiti da altri, non solo viene impedito l’accesso al desiderio, ma non ci si abitua a fare i conti con la frustrazione.
Bambini abituati a stare solo con adulti, che non sanno giocare da soli, saranno adulti che non sapranno fare i conti con le inevitabili frustrazioni della vita: quando queste si presenteranno li troveranno impreparati a fronteggiarle.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com
Confesso che il calcio mi interessa poco da quando, nella stagione di serie A 2001-2002, il Chievo arrivò al quinto posto.
Non fu certo il campo da solo a stilare quella classifica finale. Non era infatti concepibile che una squadra parrocchiale potesse umiliare le corazzate del calcio italiano. Specie quando un solo giocatore di queste tuttora costa come l’intero bilancio del Chievo, spinzini compresi.
Quello che, però, è successo sabato 3 maggio per la sfida conclusiva della Coppa Italia ha dello stupefacente e non nel senso che darebbe Giovanardi al termine.
Tutto, ma proprio tutto, in questa faccenda è fuori binario.
Le squadre finaliste erano Napoli e Fiorentina, ma ad aprire addirittura il fuoco con una pistola (una pistola!) sarebbe stato un tifoso della Roma, tal Daniele De Santis detto Gastone.
Ad oggi quello che si sa è che il bilancio è di dieci feriti, di cui uno gravissimo. Il suo nome è Ciro Esposito, ancora ricoverato al Gemelli dopo due interventi chirurgici in pochi giorni.
A stupire è che il presunto pistolero e il ferito più grave sono entrambi in stato di fermo.
La madre del tifoso partenopeo ha subito urlato la propria indignazione.
Va bene che i figli sono sempre “Piezz ‘e core”, ma mai un genitore col dubbio che se il sangue del proprio sangue è piantonato in ospedale può essere (dico, può essere) che prima non abbia preso parte a degli esercizi spirituali.
A proposito di polizia e carabinieri, dovrà pur finire prima o poi l’inconcludente, e talvolta cinico, ondeggiare da mal di mare di un’opinione pubblica che, a seconda dei casi, si scaglia contro gli uomini in divisa se calpestano dissenso e diritti con una brutalità inaccettabile per un Paese civile, salvo poi reclamare tolleranza zero di fronte a fatti come quelli di sabato scorso.
Sarà pure possibile tutto in un Paese abituato a tenere insieme diavolo e acqua santa, ma pretendere dalle stesse persone che siano, a piacimento, dei dottor Jekyll e dei mister Hyde, ha tutte le sembianze di una tiritera destinata, se tirata ancora per le lunghe, a presentare un conto finale assai poco piacevole.
Come siano andate veramente le cose è ancora in buona parte un punto interrogativo. È stato scritto che un veicolo di tifosi azzurri, non trovando parcheggio, avrebbe sfondato il cancello di un vivaio di fiori. Se così fosse, saremmo oltre l’iperuranio della sosta selvaggia.
Altri hanno detto che se qualcuno ha sparato è perché dall’altra parte sono partite le provocazioni. Marco Tardelli, quello dell’urlo del tre a uno in Italia Germania dell’82, ha addirittura insinuato che potrebbe essere stato un regolamento di conti.
L’impressione è che se si prosegue lungo la linea di queste congetture, si arriva prima o poi all’identità di Jack lo Squartatore.
Se poi si considera che tutte queste cose riguardano fatti accaduti prima di entrare nello stadio, e che gli scontri si sono estesi nella capitale a Ponte Milvio, Ponte della Musica e ponte Duca d’Aosta, non si sa davvero quale aggettivo cercare sul vocabolario.
Già, perché dentro l’Olimpico abbiamo tutti fatto la spiacevolissima conoscenza di tal Gennaro De Tommaso, meglio noto come “Gennaro la carogna”. Il capo della tifoseria partenopea lo abbiamo visto in cima ad una cancellata che indossava una maglietta con sopra scritto: “Speziale libero”. È il cognome dell’ultrà del Catania in carcere, che nel febbraio 2007 uccise l’ispettore di polizia Filippo Raciti, tirandogli addosso un lavandino (un lavandino!).
‘Gennaro la carogna’
Ebbene, con uno che ha questa idea conclamata della giustizia ha preso accordi il capitano del Napoli, Marek Hamsik, per dare inizio alla partita.
Immaginiamo il tono dell’amabile conversazione, alla presenza di dirigenti e forze dell’ordine: “Che ne dice dottor Carogna di dare inizio alle ostilità?”.
Immaginiamo anche lo stato d’animo dei familiari del poliziotto ucciso durante un’ennesima mattanza, mentre lo Stato anziché rendersi conto in quale scantinato si è cacciato non vede niente di meglio da fare che umiliare una volta ancora chi ci ha rimesso la pelle per una partita di calcio.
Successivamente è stata cronaca di bombe carta (una delle quali ha mandato un vigile del fuoco all’ospedale), petardi e fischi all’inno d’Italia. Mentre in tribuna sedevano tra le più alte cariche dello Stato.
Straordinarie le dichiarazioni a caldo di alcuni papaveri. Due a caso.
Maurizio Beretta, presidente della Lega: “Questi episodi di violenza sono gravi e colpiscono lo spirito dello sport”.
Pietro Grasso, presidente del Senato: “Una partita di calcio non si può trasformare in una guerra tra bande con episodi di violenza. Questo è gravissimo”.
Gravissimo, semmai, è che uno il cui padre risulterebbe affiliato alla camorra e che indossa una maglietta che è l’esatto capovolgimento della gerarchia di principi che regge una società civile, sia l’esempio di un’interlocuzione privilegiata delle squadre di calcio e delle stesse istituzioni che dovrebbero garantire la sicurezza.
Gravissimo è che i più alti rappresentanti dello Stato non sentano il dovere di abbandonare uno spettacolo indecente che rappresenta lo sbracamento di un intero paese nel quale, come dicono le streghe nel Macbeth di Shakespeare, nessuno sembra più distinguere il giusto dal marcio.
Gravissimo è che “the show must go on” e che alla fine si assegni la Coppa Italia, perché il nome di una delle due squadre sia inciso nell’albo d’oro della competizione.
Gravissimo è che nel 2014 l’Italia continui a dare spettacolo di sé sulla scena internazionale come di un paese dai problemi volutamente ed eternamente insoluti, colpevolmente e superficialmente trascurati, inondati da sequenze interminabili di pareri di esperti ed opinionisti che continuano a girare all’infinito intorno al tema come fosse una rotatoria. Mentre molti dei nostri vicini di casa li hanno da tempo risolti e, perciò, sono più avanti di noi.
Gravissimo è che ogni santa domenica si continui a tenere impegnate schiere di agenti in assetto antisommossa, e a spendere soldi dei contribuenti, nel tentativo di scongiurare devastazioni di treni, stazioni, stadi e chissà cos’altro, per una partita e senza che mai nessuno paghi per i danni provocati.
Gravissimo è che la sera di sabato tre maggio sul campo dello stadio Olimpico di Roma sia stata l’Italia ad essere presa a calci.
E qualcuno avrebbe dovuto avere il criterio di andarsene con la Coppa sotto braccio, perché ammettendo che abbia avuto senso disputare la partita, alla fine non c’era alcun trofeo da alzare al cielo.
Perché tutti quella sera hanno, abbiamo, perso.
In prima linea per curare le ferite di “corpi” resi immortali dalla storia, ma fragili dal tempo, feriti dalle guerre e dalle calamità naturali o, semplicemente, minacciati dall’abbandono e dall’incuria.
Dopo Medici Senza Frontiere, ecco scendere in campo anche in professionisti dell’arte, pronti a fornire un “primo soccorso” a musei, monumenti e siti a rischio in Italia e nel mondo, come veri “medici” del patrimonio culturale. Il paragone è d’obbligo per questi starter innovativi.
La recente creazione del network italiano di Restauratori Senza Frontiere (Rsf), onlus dedicata alla conservazione e al restauro del patrimonio artistico in Italia e nel mondo, sta sfruttando il potente ruolo della rete nell’identificare il possibile contributo di singoli esperti, organizzazioni, associazioni attive e interessate all’etica della tutela, nel promuovere divulgazione culturale e aggregazione fra professionisti di un settore. L’associazione riserva, anche, uno spazio ai giovani, che potranno avere una vetrina aperta su questo mondo, con occasioni reali di partecipazione.
Uno dei primi obiettivi dell’associazione sarà quello di monitorare lo stato di conservazione di monumenti e opere d’arte italiane, mappando sia le eccellenzeche le emergenze, e di creare una rete di professionisti – tutti volontari – in grado di intervenire sulle priorità. A valutarle e curare i progetti specifici sarà un comitato scientifico presieduto da M.L. Tabasso, specialista in chimica dei materiali, con una lunga esperienza all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr) e all’Iccrom (il Centro internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali creato dall’Unesco); al progetto hanno già aderito, molti esperti di rinomanza internazionale (per citare alcuni, si pensi a Stefano De Caro, direttore dell’Iccrom, a Friedrich Von Hase, direttore del Museo di Magonza, all’egittologo Francesco Tiradritti e a storici dell’arte come Claudio Strinati e Marcello Fagiolo Dell’Arco).
L’Organizzazione gestirà, poi, la progettazione, il finanziamento e la realizzazione di iniziative in ambito nazionale e internazionale finalizzate alla protezione e alla conservazione del patrimonio artistico mondiale, dei monumenti storici e di tutti i segni tangibili delle civiltà del passato, beni inestimabili per le nazioni di oggi. Il Fund raising sarà parte fondamentale delle attività di Rsf e permetterà di supportare progetti a cui anche i giovani professionisti potranno aderire per imparare e entrare nel mondo della conservazione. Una sorta di talent scout-job hunter.
A fine gennaio 2014, è partita la campagna d’iscrizioni per creare un database in cui ciascun volontario può inserire il proprio curriculum. Attraverso la rete sarà realizzata una mappa geo-localizzata delle specializzazioni per intervenire in modo rapido ed efficace sul territorio in caso di emergenze, con nuclei operativi formati da esperti di diversi settori, dai geologi ai fisici, dagli architetti ai restauratori. Fra gli obiettivi, c’è anche la formazione di personale in loco durante le missioni. L’associazione si propone di agire in collaborazione con le organizzazioni internazionali umanitarie e di protezione civile, stipulando convenzioni in Italia e all’estero, e conta di essere operativa sul campo già dall’estate.
Le parole d’ordine saranno quindi: salvaguardia, restauro, manutenzione, competenza, volontariato, solidarietà, partecipazione, dialogo, etica.
Tra le attività ne risalta una di estrema importanza, ossia il coinvolgimento delle popolazioni locali e quindi dei cittadini, attraverso varie iniziative che porteranno a donazioni, cooperazioni e azioni di volontariato in un modo del tutto libero e consapevole. La cultura e la sua salvaguardia sono in rete, tutti possono partecipare.
L’associazione farà rete dunque attraverso la rete.
L’emergenza immigrazione non lambisce solo le coste di Lampedusa. Nei prossimi mesi in Emilia Romagna è previsto l’arrivo di 400 profughi.
È quanto prospettato dal piano di smistamento del ministero degli Interni, che in questi giorni ha chiesto aiuto alle Prefetture di tutta Italia per gestire i nuovi sbarchi. Il piano di riparto non è ancora stato definito, ma l’idea di fondo è quella di allestire strutture d’accoglienza temporanee.
Le strutture dello Sprar, il Sistema di protezione per chi chiede Asilo politico o chi l’ha già ottenuto, infatti, sono già al completo, nonostante nel 2014 sia stata aggiunta una struttura alle 3 già esistenti. “Il trend presso i nostri centri è di 30/40 nuovi utenti al mese presi in carico nei nostri centri – racconta Antonio Maura, coordinatore dei centri Sprar Emilia Romagna – e il progetto è al completo fin dal primo giorno di avvio. Rispetto al passato però c’è un dato significativo: per la prima volta i beneficiari di protezione internazionale già riconosciuti (ovvero che hanno già avviato le procedure per ottenere lo status di rifugiato politico) che si rivolgono ai nostri sportelli sono aumentati rispetto ai richiedenti puri”. Questo vuol dire che sono in corso, in Italia, fenomeni di migrazione interna: chi ha ricevuto la protezione internazionale in altre città e Prefetture “si è messo in movimento e ha raggiunto la nostra regione. Una tendenza che conferma il carattere di ospitalità proprio dell’Emilia Romagna nel panorama nazionale”.
Per far fronte alle nuove ondate di migranti, dunque, si farà ricorso, come già in occasione dell’emergenza nordafrica del 2011, ad alcune strutture temporanee “in cui i migranti resteranno per tutto il tempo necessario all’ottenimento di un riconoscimento” dicono dalla prefettura.
Nella sola giornata di oggi, a Palermo, gli arrivi sono stati 887. La metà di loro sarà trasferita nel nord Italia. La distribuzione dei migranti sul territorio nazionale avverrà in base al numero dei residenti regione per regione. Dall’inizio dell’anno gli sbarchi sono stati quasi 26mila, 13 volte in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
“Negli ultimi giorni – conferma Maura – le province si stanno trasformando in luoghi di frontiera. E’ li che avviene l’identificazione dei migranti, raccolti in mare e fatti salire subito in aereo verso il Nord”. Direzione aeroporto Marconi.
Spesso la scuola rende un brutto servizio ai classici della letteratura e della cultura. Non è stata la mia sorte perché incontrai, ragazzo, un eccellente professore che fece da guida rigorosa alla comprensione dei grandi. Poi, per uno dei miracoli che nella vita accadono, quella relazione tra docente e alunno si trasformò in una bella amicizia che continua tuttora. Tornando al tema di questa nota, consideriamo Giacomo Leopardi. Rispetto all’immagine del poeta di Recanati che uno studente medio porta con sé dopo la scuola (uomo lamentoso, misantropo, pessimista nichilista), metterei in fila alcune caratteristiche del suo pensiero che sbriciolano molti luoghi comuni.
La sua opera si è manifestata in una ricca varietà di modi espressivi: poesia, prosa, pensieri, lettere. Leopardi è, insieme a Dante, il nostro più grande poeta, ma è anche un grande filosofo. Lo “Zibaldone” (più di quattromila pagine) è l’officina del suo pensiero problematizzante e interrogante. Ma vi è una costante che tiene insieme questo universo plurale di un pensiero poetante: una continua interrogazione sulla condizione umana. Espressione che gli piaceva e che ricorre spesso nei pensieri dello “Zibaldone” e che, probabilmente, è di origine francese rinascimentale (Montaigne) e illuminista.
Un’altra costante è il rapporto con il suo presente che smentisce l’idea di un ripiegamento vittimistico sui propri mali fisici! E qui inserirei la prima sorpresa contro i pregiudizi che circondano il cosiddetto moralismo leopardiano, che riguarda la sua concezione del rapporto tra morale e politica. “La morale è una scienza astratta se è separata dalla politica. La pratica della morale dipende dalla natura delle istituzioni sociali e dal governo della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato e non accadrà niente, perché la morale è una parola, la politica un fatto.” (“Zibaldone di pensieri”, Garzanti). Si può essere più chiari e precisi? Quindi la morale sta sopra, ma è astratta, è una scienza morta se è fuori dal legame con la politica che deve praticarne i principi mediante il ricorso ai suoi strumenti: progetto, azione, mediazione, compromesso.
Un altro tema leopardiano presente nella sua antropologia filosofica è la triangolazione del rapporto tra desiderio-immaginazione-illusione. Tre parole sepolte sotto strati secolari di pregiudizi e semplificazioni. In questa sede si può solo rilevare che è l’immaginazione a fare la differenza tra l’uomo e l’animale, poiché agendo sui desideri, li movimenta e inventa continuamente, impedendo che restino chiusi nei confini di una animalità ripetitiva. E anche le illusioni (che nel linguaggio di oggi chiamiamo ideali) traggono continuo alimento dall’immaginazione che promuove creatività, progettualità, capacità di pensare ciò che ancora non esiste. Ecco da dove scaturisce il tema dell’infinito leopardiano! Il desiderio umano è al fondo un desiderio senza oggetto definito, se non appunto quel senso di illimitatezza o immensità che è presente anche nei versi famosi di Ungaretti: “m’illumino di immenso…”. Questa immensità verso una immaginazione e una illusione incomprimibili spingono il pensiero; scuotono e mettono in crisi un’idea fissa e arida di razionalità. E i versi de “L’infinito” (“tra questa immensità s’annega il pensier mio…”) sono la cifra di questo rimescolamento del rapporto tra passioni e ragioni. “Le illusioni per quanto siano illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza, o certezza acquistata.” (“Zibaldone”). Riusciamo a comprendere ciò che ci sta dicendo il grande pessimista Leopardi? Che la ragione (e la filosofia) distruggono le illusioni, ma le illusioni (o gli ideali, le utopie…) non muoiono mai perché, finchè dura la vita, tornano sempre a rifiorire.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
“Sì probabilmente mi offriranno un contratto a tempo indeterminato, ma se mi danno mille euro al mese non mi conviene accettare. Con quello che ho lavorato quest’anno infatti posso vivere quasi un altro anno con la disoccupazione”. Così risponde Giovanni quando gli chiedo se pensa che gli rinnoveranno il contratto di lavoro in scadenza.
Sgrano gli occhi e gli chiedo di spiegarsi meglio.
Perdita involontaria dell’occupazione, due anni di iscrizione all’Inps e almeno 52 settimane lavorate nei due anni precedenti la richiesta. Questi sono i requisiti necessari per fare domanda dell’indennità di disoccupazione Aspi che dal 1 gennaio 2013 sostituisce il vecchio sussidio di disoccupazione ordinario.
Nulla viene detto sul fatto di aver già fruito di una precedente indennità di disoccupazione, anche negli stessi due anni a cui si fa riferimento per i requisiti.
E così è possibile che Giovanni Villa, della provincia di Ferrara, 37 anni, elettricista che ha precedentemente lavorato per una decina d’anni come dipendente, da dieci anni a questa parte viva di lavoretti a termine e indennità di disoccupazione: un anno di lavoro, anche a intervalli, e 8 mesi di indennità di disoccupazione.
Accettare un lavoro a tempo indeterminato per lui vorrebbe dire legarsi a un datore di lavoro e a uno stipendio senza più la possibilità, alla scadenza del contratto, di decidere se lavorare ancora e quindi accettare un altro contratto a termine, o godere dell’indennità dell’Inps per qualche mese.
Perché mentre la scadenza di un contratto di lavoro a termine rientra nella “perdita involontaria dell’occupazione”, e costituisce quindi un requisito per ottenere l’indennità, le dimissioni volontarie da un contratto a tempo indeterminato, nel caso Giovanni si stanchi del tipo di lavoro o non si trovi più bene sul posto di lavoro, non danno questa possibilità.
E’ vero, l’indennità di disoccupazione non è molto alta, non può superare 1192,98 euro al mese per il 2014, ma Giovanni vive con i suoi genitori, “vuoi mettere quasi ottocento euro al mese per non fare niente, contro mille per dover andare a lavorare tutte le mattine?!” mi dice. “E quando finiscono gli 8 mesi dell’indennità, se non trovo niente, c’è mio cugino in campagna che ha sempre bisogno di una mano e un contratto a termine per qualche mese me lo fa di sicuro”, aggiunge.
Anche Chiara Salvini, della provincia di Milano, 34 anni, ragioniere diplomata, vive così da sei anni: qualche lavoro interinale e qualche mese di indennità di disoccupazione. Chiara convive con Paolo, il suo ragazzo, che ha un lavoro a tempo indeterminato e una casa di proprietà, ma chiarisce che non si fa mantenere: dividono tutte le spese a metà.
A differenza di Giovanni lei ci ha provato a ottenere un contratto a tempo indeterminato, ma dopo i primi anni di mancati rinnovi nonostante gli apprezzamenti delle sue capacità da parte dei suoi superiori, si è rassegnata. Forse un contratto per lei ci sarebbe, ma vorrebbe dire una vita da pendolare, un viaggio di più di un’ora per raggiungere Milano, senza contare il traffico, mentre un contratto interinale si trova quasi sempre in qualche ditta vicino a casa. “Questo contratto mi scade a settembre”, mi dice, “con i risparmi tiro fino a Natale e poi farò partire la disoccupazione da gennaio, così fin dopo l’estate sono a posto e mi faccio le vacanze tranquilla”.
Come Chiara e Giovanni molti altri giovani si sono rassegnati a questa vita da precari, non avranno mai accesso a un mutuo, non potranno mai contare su una stabilità economica nel caso in cui decidano di costruirsi una famiglia, vivono con i genitori o con qualcuno che possa tamponare gli inevitabili “buchi” tra un contratto e l’altro, ma intanto gli anni passano, un contratto interinale dopo l’altro, un’indennità di disoccupazione dopo l’altra.
Poi c’è Marco Landi, 35 anni della provincia di Varese, che ha lavorato come informatico per 15 anni, dipendente di una ditta chiusa a causa della crisi. Durante i mesi dell’indennità di disoccupazione Marco si è dato davvero da fare per cercare un lavoro, a lui l’idea di essere disoccupato non piaceva per niente. Due mesi prima della scadenza del periodo di indennità ha deciso di aprire partita Iva per fare il venditore porta a porta. Si è presentato allo sportello dell’Inps per fare regolare comunicazione di questa sua intenzione, con la conseguente sospensione del sussidio, e si è sentito rispondere: “complimenti, lei è una delle poche persone oneste che fa questa comunicazione, sa, tutti se ne fregano e prendono lo stesso il sussidio per tutto il periodo”.
Sia chiaro, non si vuole qui discutere l’importanza dell’esistenza di un aiuto sociale fondamentale come l’indennità di disoccupazione.
Ma le attuali regole per la richiesta dell’Aspi equiparano un lavoratore, che ha lavorato come dipendente per decenni e si ritrova disoccupato suo malgrado, a chi nei due anni precedenti ha avuto due contratti a termine di sei mesi ciascuno e prima non ha mai lavorato, o ha tenuto un comportamento simile. La durata dell’indennità è la stessa per entrambi e anche l’entità del sussidio potrebbe essere simile, se le retribuzioni fossero paragonabili.
Tutti i Giovanni e Chiara di questo Paese si trovano quindi davanti alla scelta tra un lavoro cosiddetto “fisso”, almeno finché la ditta non chiude o non decide tagli, e una vita di lavoro precario alternati a lunghe “vacanze” a spese dell’Inps. Giovanni e Chiara non sono evasori o lavoratori in nero, rispettano in tutto le regole della legge Fornero, ma hanno trovato un modo di sopravvivere sfruttando un sistema che consente loro di farlo.
Viene da chiedersi come sia possibile che i contributi dei lavoratori a tempo indeterminato, con uno stipendio medio di poco più di mille euro al mese, possano coprire le indennità di disoccupazione ripetute di tutti i giovani che hanno fatto una scelta di vita e di lavoro di questo tipo.
Quando quattro anni fa diedi le dimissioni da direttore scientifico del Meis ero convinto di essermi messo nella condizione impotente che fu, per un evento di ben altra portata, dei socialisti italiani allorché nel 1915, in riferimento all’entrata in guerra del nostro Paese, lanciarono lo slogan «né aderire, né sabotare». A questa linea mi sono comunque attenuto, anche quando ho preso parte ad attività che coinvolgevano temi propri anche del Meis. Colgo l’occasione per ringraziare l’Accademia Corale Veneziani che da tre anni mi invita a collaborare al concerto della memoria.
Mi accorgo ora, grazie all’iniziativa dell’amico Baratelli, a cui va la mia riconoscenza, che il presidente Calimani avrebbe desiderato da parte mia una linea di condotta più interventista. Lo ringrazio e mi scuso con lui di non averlo capito nel corso degli scambi informali e privi di risentimenti personali che abbia avuto modo di avere in questi anni. Preso atto della sua disponibilità ne approfitto per lanciare due piccole proposte.
Come dimostrano tanti musei italiani, last but not least quello delle scienze di Trento, una percentuale ragguardevole dei visitatori è costituita da scolaresche. Il futuro museo Meis ha fin da ora un bisogno strutturale di farsi conoscere a livello nazionale nel mondo della scuola. Stante la non esaltante situazione scolastica attuale, la via più percorribile è quella dei concorsi. Perché il Meis non bandisce, in collaborazione con il Miur, un concorso nazionale su temi che gli sono propri? La cerimonia di premiazione potrebbe diventare un momento qualificante della Festa.
Ho da poco appreso che, in virtù di una notevole continuità istituzionale, la scrivania ufficiale del sindaco di Ferrara è la stessa che fu di Renzo Ravenna, il quale, come è noto, fu l’unico podestà ebreo d’Italia. Perché il Comune non delibera di dare, a tempo debito, la scrivania in dotazione al futuro museo? Collocata in un ambiente adatto e con distese sopra una copia del Corriere padano e di un quotidiano nazionale che annunciano le leggi antiebraiche del 1938 costituirebbe una efficace maniera museale per introdurre il discorso sugli ambivalenti rapporti tra ebrei italiani e fascismo.
Ormai abbiamo familiarizzato anche con gli spot televisivi di Save the Children, di ActionAid o di altre organizzazioni non governative che ci invitano, non tanto ad assumerci la nostra responsabilità nel combattere contro le iniquità del mondo, quanto a diventare clienti della solidarietà con versamenti bancari o donazioni al prezzo di un messaggino dal cellulare. È la logica del benestante, per cui è più facile fare la carità o del volontariato che mettere in discussione il sistema del proprio benessere e dei propri privilegi.
E allora affacciarsi alla finestra del mondo aiuta a comprendere cosa continua a non andare in questa campagna di buonismo in pantofole.
Iniziamo con dare dei numeri nel campo dell’istruzione, per restare in argomento con la nostra rubrica. Dieci paesi: India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Etiopia, Egitto, Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo detengono i tre quarti dei 770 milioni di adulti analfabeti nel mondo. 175 milioni di giovani non possiedono le competenze base nell’alfabetizzazione e in aritmetica, 250 milioni di bambini non stanno imparando né a leggere né a fare di conto, anche se la metà di loro ha frequentato la scuola per almeno quattro anni.
Questa “crisi dell’apprendimento globale” costa miliardi di dollari all’anno in finanziamenti all’istruzione sprecati, tra i quali i nostri contributi di solidarietà.
A livello mondiale, quasi i due terzi degli adulti analfabeti sono donne, una cifra che è rimasta pressoché invariata dal 1990. Se le tendenze attuali si mantengono, le ragazze più povere nei paesi in via di sviluppo si prevede che non raggiungeranno un livello di alfabetizzazione fino al 2072. Mentre i ragazzi più ricchi dell’Africa subsahariana porteranno a completamento l’istruzione primaria solo nel 2021, le ragazze più povere dovranno aspettare fino al 2086.
Sono i dati del Rapporto “Education for All”, Istruzione per Tutti, che l’Unesco ha pubblicato nel gennaio di quest’anno. Eppure al Forum mondiale dell’istruzione, tenuto a Dakar, in Senegal, nel 2000, si era convenuto di realizzare l’apprendimento per tutti i bambini, i giovani e gli adulti entro il 2015. Secondo il rapporto dell’Unesco questo obiettivo non sarà raggiunto.
È inutile negare che la ragione di un simile fallimento sta nell’assenza di politiche volte alla ridistribuzione della ricchezza sul pianeta, che rendano permanente il diritto dei bambini e delle bambine dei paesi più poveri di studiare nelle stesse condizioni dei loro coetanei che vivono nel benessere.
Ma non è questa la strategia considerata “win win”, vantaggiosa dalla Banca Mondiale che sostiene “Education for All”. Per la World Bank il metro di misura delle persone e dei popoli è solo l’economia. Il capitale è finanziario o umano. Entrambi devono servire il mercato. Neppure il superamento del grande divario economico tra le nazioni ricche e le nazioni povere può sfuggire a questa logica. Tutto ciò è descritto in modo convincente nel documento pubblicato dalla banca a sostegno dell’istruzione per tutti: “Raggiungere l’istruzione primaria universale entro il 2015: una opportunità per ogni bambino”.
Si sostiene che solo sane politiche macroeconomiche, combinate con l’istruzione, producono economie competitive a livello mondiale. L’istruzione è la chiave per la creazione, l’applicazione e la diffusione di nuove idee e tecnologie, che a loro volta sono fondamentali per sostenere la crescita; essa aumenta le capacità cognitive e le altre abilità necessarie ad incrementare la produttività del lavoro.
Ma questa concezione mercantile del sapere, come dimostra il rapporto dell’Unesco, non riesce ad implementare l’istruzione, perché i paesi ricchi continuano ad essere Achille e quelli poveri la tartaruga, per cui ogni cambiamento di stato permane un’illusione come quella di Zenone.
La Banca Mondiale è pienamente consapevole che l’unica strategia “win-win” per se stessa è soprattutto quella di operare in tutti i modi per evitare di affrontare la questione di fondo che è, e resta, la ridistribuzione di risorse e di beni a livello mondiale.
I dati pubblicati dall’Unesco dimostrano indiscutibilmente che maggiori “opportunità educative” in questo contesto non sono affatto oggi la “strategy win win” per i poveri della Terra. Così potremmo dire della solidarietà che, come i numeri segnalano, non rappresenta l’intervento vincente, anzi, rischia di prestarsi ad un uso strumentale, per sviare l’attenzione e la consapevolezza delle persone dalle questioni più vere. Con questo non voglio mettere in discussione il carattere indispensabile del nostro aiuto. Ciò che critico è la solidarietà da poltrona, la solidarietà digitale del telefonino o del bybank.
Non si può negare che “Education for All” rappresenta il più importante sforzo mondiale per ridurre le diseguaglianze nell’istruzione tra le nazioni. Ma il rapporto dell’Unesco e il mancato raggiungimento degli obiettivi programmati per il 2015, ripropongono con forza il tema centrale della povertà e della sua sconfitta, senza la quale non sarà mai possibile ridurre le iniquità sociali e culturali, consentire alle persone di massimizzare le loro capacità per raggiungere un’esistenza lunga e felice.
Inoltre una delle principali fonti di disuguaglianza sociale tra le nazioni è il massiccio consumo di risorse naturali da parte delle nazioni ricche e l’inquinamento delle nazioni più povere. Nei paesi in via di sviluppo, quindi, l’istruzione per tutti e l’educazione ambientale non possono che essere strettamente connesse, perché sono gli strumenti indispensabili a combattere la miseria, difendendo la salute propria e del proprio ambiente. Ma neppure questo avviene.
Mentre tutti i documenti internazionali a parole pongono in rilievo l’importanza dello sviluppo sostenibile, nessuno dei programmi di “Education for All” prevede o menziona alcuna forma di educazione ambientale e neppure sfiora lontanamente la questione dell’uso diseguale tra le nazioni delle risorse naturali.
Per il premio Nobel Amartya Sen compito dell’istruzione è quello di fornire alle persone le capacità, le possibilità fondamentali e individuali di riflettere, di compiere scelte critiche, di avere voce nella società e di godere di una vita sempre migliore.
Allora dobbiamo concludere che il fallimento di “Education for All”, declinato dall’asetticità dei numeri del rapporto dell’Unesco, è destinato a ripetersi fino a quando le persone non saranno il vero cuore dei suoi programmi. Fino a quando ogni bambino e ogni bambina, ragazza e ragazzo, ogni adulto e il loro ambiente di vita saranno annullati, nell’interesse dei paesi più ricchi, nella massa indistinta del capitale umano, che la World Bank pensa di formare al servizio della crescita economica e del suo paradigma industria-consumo. È così che anche la nostra solidarietà finisce per andare al mercato.
All’intervento di Fiorenzo Baratelli, ospitato sabato 3 maggio da ferraraitalia [leggi], relativo all’esclusione del biblista e apprezzato studioso di ebraismo Piero Stefani, ha fatto seguito la risposta di Riccardo Calimani, presidente della Fondazione Meis, che pubblichiamo di seguito. Più sotto, la replica di Baratelli.
Gentile Fiorenzo Baratelli,
la sua lettera mi permette di ribadire pubblicamente quanto dissi a Stefani: la porta è sempre aperta alla collaborazione.
Quanto al resto delle sue insinuazioni, sono del tutto frutto di malevolenza gratuita. Ai seguaci che hanno commentato la sua lettera dico che ho colto uno spirito di gruppo acritico, di parte e fazioso. Cordialità Riccardo Calimani
—- La replica di Baratelli:
Francamente non sono sorpreso per il tono risentito del Presidente del Meis, ma per la conferma della sua ottusa insensibilità nel non prendere atto che quattro anni fa si è consumata una rottura che ha provocato una ferita che resta aperta. Nella risposta del Presidente è presente un dosaggio tra ipocrisia e denigrazione. L’ipocrisia riguarda la spiegazione (si fa per dire…) circa l’assenza di Piero Stefani da ogni tipo di attività che riguarda il Meis.
Scrive Calimani: “La porta è sempre aperta alla collaborazione…”. Come se spettasse a Stefani bussare alla sua porta per chiedere di essere utilizzato. Per esempio, nel preparare il programma della Festa del Libro Ebraico ha aspettato, forse, che Gad Lerner o Enrico Mentana gli chiedessero di essere presenti?
Per una volta, presidente Calimani, rinunci all’orgoglio personale (legittimo, ma improprio nell’esercizio di un ruolo delicato quale è il suo…) e inserisca Piero Stefani nella programmazione futura delle attività del Meis. In ogni caso, questo è ciò che mi sono permesso di chiedere anche agli altri importanti interlocutori che concorrono a qualificare l’attività pubblica del Museo.
La denigrazione riguarda, invece, la parte in cui liquida con tono sprezzante gli interventi che si sono succeduti a sostegno della lettera aperta. Con amarezza devo constatare che lei non ha ancora preso conoscenza delle personalità eccellenti di questa città verso cui si permette definizioni offensive.
Forse il sindaco Tiziano Tagliani (che conosce molto meglio di lei la nostra città…) potrà spiegarle chi sono e cosa rappresentano le persone che lei ha liquidato come seguaci faziosi e di parte…
In conclusione, al di là delle asprezze, mi auguro che questo scambio possa rappresentare l’avvio di una ricucitura tra il Meis e il contributo che ad esso può recare uno dei figli migliori di questa città. Questo, in ultima analisi, è stato lo scopo della mia iniziativa e di chi l’ha sostenuta. Cordialmente, Fiorenzo Baratelli
A Ferrara si va “alla Spal”, così come si va in stazione o in piazza. “Alla Spal”, non “allo stadio”. La Spal come luogo fisico, dunque; punto di incontro, spazio della città ben riconoscibile fra gli altri spazi pubblici. La Spal come entità imprescindibile, patrimonio di tutti, pure di chi non si occupa di sport.
L’eredità di Paolo Mazza è anche questa. L’eredità di una squadra nella quale la città si specchia e si culla. Per lunghi anni la Spal è stata più di Ferrara. Negli anni della serie A, quando i biancoazzurri duellavano da pari a pari con Inter, Milan e Juventus, quando aleggiava la favola dell’armata corsara biancoazzurra, in Italia e persino all’estero Ferrara – più che il castello, il duomo e i musei – era la Spal, la creatura di Mazza divenuta simbolo e orgoglio cittadino.
Ferrara negli anni Cinquanta e Sessanta non era ancora città d’arte e Abbado non era ancora Ferrara. Ma c’era la Spal. Nel cuore della Ferrara ferita dalla guerra s’è radicato, così, un grande amore. La grandezza della Spal riscattava la povertà degli anni della ricostruzione, mitigava la durezza del vivere quotidiano e rendeva i tanti emigrati – a Sesto San Giovanni, a Torino o altrove – orgogliosi di essere ferraresi.
Appartenenza e identità. Per questo Ferrara ha sedimentato e conservato nei confronti della propria squadra un sentimento di gratitudine che gli anni, i fallimenti e le delusioni non hanno scalfito. Perché questa è una città che non dimentica. Una città dove la scarsità delle risorse ha reso più preziose le rare ricchezze, patrimoni da amministrare con saggezza. Ciò che è stato fonte di gioia, ciò che ha dato lustro non si scorda, resiste nella corrente dei sentimenti. La Spal è stata miniera di pietre preziose. E così ha continuato a essere percepita anche quando lo splendore si è offuscato.
Questo spiega l’amore di Ferrara per la Spal. E spiega i cinquemila di ieri allo stadio e i duemila che hanno continuato a seguire e incitare la squadra anche il serie D, il gradino più basso della storia calcistica, toccato appena un anno fa. Il tifoso sa essere paziente e fiducioso, certo che passione e dedizione possano propiziare il riscatto.
La scintilla innescata dal commendator Mazza è lontanissima nel tempo. Ma viva resta la memoria della Spal dei Massei, dei Bozzao, dei Corelli, dei Picchi: quella che ha fatto innamorare la città. La prima provinciale di lusso che fece tremare gli squadroni.
Le delusioni di questi anni, al di là delle tribolazioni, un effetto positivo forse lo hanno avuto: quello di cancellare la spocchia con cui gran parte del pubblico ha spesso, in passato, affrontato sfide con squadre ritenute per blasone inferiori, considerando un’onta per la Spal doversi misurare con esse. E non penso solo alla Centese (un derby che faceva arrossire di vergogna gli spallini) o a squadre un tempo calcisticamente sconosciute come Lanciano, Castel di Sangro, Alzano, Cittadella, tutte poi felicemente approdate alla serie B. Con analoga supponenza e fastidio ci si misurava anche con sodalizi di città prestigiose: con il Siena, persino con il Parma nei primi anni Ottanta. Risultato: Siena e Parma hanno conosciuto gli onori della Seria A (certo: Monte Paschi e Tanzi non sono estranei alle loro fortune!), ma ai ferraresi, nobili decaduti del pianeta calcio, dava l’orticaria incontrarle. E la Spal è scivolata sempre più in basso, a causa certamente di sciagurate gestioni societarie, ma forse anche per questo atteggiamento spocchioso che ha zavorrato la squadra ben prima delle disavventure dirigenziali, già negli anni Ottanta e Novanta.
La promozione conquistata ieri sul campo è stata sospirata per ben 16 anni. Questa lunga astinenza sembra aver fatto maturare uno spirito nuovo, con il quale affrontare con umiltà e determinazione le prossime sfide. Siamo la Spal, certo. Ma i titoli contano zero. Nel calcio come nella vita i traguardi si centrano con sacrificio e abnegazione.
L’apertura di alcuni negozi il Primo maggio ha sollevato una quantità di discussioni che hanno posto al centro, spesso, la difficoltà del personale – per lo più giovani donne – di conciliare lavoro e famiglia. Nessuno, ovviamente, ha trovato disdicevole che il Primo maggio circolassero treni e autobus, ci fossero ristoranti aperti, si trovassero farmacie aperte, medici di guardia e personale efficiente negli ospedali (anche lì in grande parte si tratta di giovanissime donne).
Ma il consumo continua ad essere vissuto come questione che attiene al mercato, non alla vita, come luogo dello sfruttamento perpetuato ai danni di vittime inconsapevoli (tutti noi) dalle infernali tecniche del marketing. Dovrebbe essere ormai chiaro che il consumo non è solo un volano della crescita, ma è parte della vita quotidiana, espressione di identità, veicolo di relazioni e, da sempre, una componente del processo di inclusione sociale.
Siamo, da tempo, oltre la società di massa, in cui tutti facevamo le stesse cose allo stesso momento. Le nostre vite sono diventate flessibili, i nostri tempi di lavoro e di svago sono sempre meno standardizzati, i ritmi delle nostre giornate sono diversi per ognuno e assecondano esigenze sempre più individuali. Non da ultimo, in una società multietnica è davvero impossibile decidere per tutti quali giorni obbligano al riposo e quali Feste devono essere santificate.
Gli orari della distribuzione assecondano progressivamente questa diversificazione dei ritmi della vita. In sostanza, il consumo diventa un servizio, come lo sono gli autobus, i treni, i taxi, i presidi sanitari, le farmacie e così via. Quindi, non possiamo contrastare tendenze inesorabili e, peraltro, legittime. Non abbiamo il diritto di definire in astratto quali consumi siano importanti e quali non lo siano.
I discorsi sulla difesa degli spazi di vita delle persone che lavorano nella distribuzione, posti in una logica vincolistica, sono inesorabilmente destinati al fallimento. Sarebbe piuttosto utile cercare soluzioni organizzative, ad esempio, praticando turni di apertura dei punti vendita. Una pianificazione sull’arco annuo, all’interno di un’area urbana, penalizzerebbe meno il personale: i consumatori sarebbero garantiti e i dipendenti avrebbero minore disagio. Ma questo comporta capacità di collaborazione da parte dei privati e capacità di coordinamento da parte degli attori istituzionali e sociali. L’organizzazione della società cambia più lentamente delle tecnologie, l’intelligenza sociale è più lenta e non vede soluzioni che invece potrebbero essere praticabili.
Ma anche le ipotesi accennate potranno apparire anacronistiche a breve. La tecnologia consente già ora meccanismi distributivi flessibili: l’e-commerce è in rapidissimo sviluppo. Faremo la spesa con il nostro smartphone, quindi la questione della distribuzione si porrà in modi diversi. Anche in questo caso, ci sarà qualcuno che ci consegnerà a casa la spesa che abbiamo ordinato, magari a Natale o a Ferragosto. Nel complesso si verificherà una forte riduzione dell’occupazione.
In ogni caso non si può tornare alla società del passato. Il punto è, piuttosto, un altro e riguarda il senso che ognuno dà al proprio lavoro. Mio padre era capostazione e quando capitava che lavorasse a Natale, il Primo maggio, a Ferragosto o in altre festività, si sentiva un eroe nazionale, perché sapeva di svolgere un servizio indispensabile!
Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com
Si ragionerà di educazione e di istruzione, di apprendimento e formazione permanente, di scuola e di società basata sulla conoscenza nella prospettiva della ‘learning city’. Tutto questovenerdì 9 maggio alle 17,30 nella sala dell’Arengo, in municipio nel dibattito promosso da ferraraitalia. A confrontarsi saranno il sindaco Tiziano Tagliani e il professor Giovanni Fioravanti, opinionista del nostro quotidiano online – già artefici di un ‘botta e risposta’ proprio sul nostro giornale. [leggi qui l’intervento di Fioravanti, leggi qui la replica del sindaco] – che avranno così l’opportunità di approfondire in pubblico il dialogo.
I temi in discussionesono tanti e stimolanti e anche i presenti potranno contribuire con i loro interventi. Il dibattito verterà su strategie e politiche educative e sui servizi scolastici, ma anche sull’istruzione come fondamentale investimento per l’intera collettività.