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Ferrara film corto festival

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lente

La carica dei 101 per il primo mese di ferraraitalia

Ferraritalia festeggia il suo primo mese di vita con una vetrina ricca di 101 articoli di primo piano, una trentina di aforismi raccolti quotidianamente nella sezione Germogli e altrettanti Accordi, brani che hanno fatto da colonna sonora alle nostre giornate. Dal 26 novembre, data in cui ferraraitalia è online, abbiamo collezionato anche una prima serie di gallerie fotografiche a tema (fra le quali quelle aree sulla città, apprezzatissime, frutto di scatti realizzati con il drone) e immagini evocative a illustrare l’incedere del calendario.
Abbiamo raccolto, tra i tanti che ci sono stati manifestati, gli apprezzamenti e l’incoraggiamento di Massimo Gramellini. I lettori hanno esternato le loro opinioni con interventi (ospitati nell’apposita sezione) o commenti a specifici scritti, riportati sotto ciascuno di essi. Ha destato particolare attenzione e suscitato interesse l’inchiesta a puntate sull’ “oro del Pci”.
Per ferraraitalia nel corso di questo mese hanno scritto Fiorenzo Baratelli, Loredana Bondi, Francesca Carpanelli, Andrea Cirelli, Riccarda Dalbuoni, Barbara Diolati, Monica Forti, Maura Franchi, Sergio Gessi, Camilla Ghedini, Giuliano Guietti, Francesco Lavezzi, Virginia Malucelli, Giorgia Mazzotti, Alessandro Oliva, Silvia Poletti, Andrea Poli, Valentina Preti, Mauro Presini, Riccardo Roversi, Vittorio Sandri, Giuliano Sansonetti, Valentina Scabbia, Franco Stefani, Gian Pietro Testa, Gianni Venturi; sono inoltre intervenuti Enzo Barboni, Giorgio Bottoni, Leonardo Fiorentini, Giuseppe Fornaro, Lanfranco Viola. Hanno fotografato per noi: Aldo Gessi, Roberto Fontanelli, Luca Pasqualini. Alcuni fra i nostri opinionisti tengono rubriche settimanali. Sono cinque, per ora: Elogio del presente (di Maura Franchi), “Pepito Sbazzeguti” (di Francesco Lavezzi), Dalla parte del torto (di Fiorenzo Baratelli), Il villaggio della nuova vita (di Gian Pietro Testa), Memorabile (di Riccardo Roversi).
I lettori hanno la possibilità di consultare l’archivio attraverso una ricerca per parola chiave, utilizzando la finestrella in alto a destra nella home. Oppure per autore (cliccando sulla firma), per data (utilizzando il calendario nella barra laterale di destra), per genere (avvalendosi del menu a tendina posto sotto al calendario o cliccando sulle voci dell’elenco riportate in fondo alla home a sinistra, o ancora selezionando la relativa indicazione presente in testa a ogni articolo).
Cliccando qua si possono visualizzare e scorrere le 101 riflessioni di primo piano (dalle quali sono escluse solamente Aforismi, Germogli, Immaginario e interventi dei lettori).

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Il Tebaldeo, precettore di Lucrezia e virtuoso della “maniera cortigiana”

TEBALDEO
a 550 anni dalla nascita

Antonio Tebaldi (1463-1537), detto il Tebaldeo, entrò alla corte ferrarese nel 1488, fu precettore di Isabella d’Este e segretario prima del cardinale Ippolito e poi della bella Lucrezia Borgia. Successivamente si trasferì a Roma, dove godette dell’amicizia di insigni letterati quali Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione e di grandi pittori come Raffaello Sanzio, il quale fra l’altro lo ritrasse nel suo celebre affresco del Parnaso. Durante il “sacco” di Roma, nel 1527, perse tutti i suoi beni e averi e trascorse in povertà gli ultimi anni di vita.
Il Tebaldeo raggiunse la notorietà grazie alle proprie opere giovanili in volgare, quantunque presso i critici più tardi, fra cui Giosue Carducci, questa parte della sua produzione non abbia mai colto consensi veramente positivi. Tuttavia, nel 1499 a Milano apparvero i Soneti, capituli, due ecloghe del prestantissimo M.A. Tebaldeo, ripubblicati a Venezia tre anni prima della morte dell’autore con il titolo L’opere d’amore, che lo consacrarono come uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “maniera cortigiana”: una sorta di ingegnosa concettosità, di leziose divagazioni e compiaciute metafore, definibile quasi come una specie di manierismo ante litteram.
Comunque, Antonio Tebaldeo conseguì i suoi esiti più felici nella poesia latina. «Nel Tebaldeo ci sembra di ravvisare l’artista che affila il suo strumento dell’arte, – osserva il filologo Silvio Pasquazi – rivestendo di altri panni e forme il suo mondo interiore. In fondo egli assisteva non indifferente alla lotta tra il volgare e il latino, una lotta beninteso, non tra due rivali inconciliabili. La lima migliore del Tebaldeo consisteva nel sentire se tra un modo e un altro, tra una struttura sintattica più complessa e una più semplice, con un’aggettivazione più sobria e rara o più larga e distesa, la sua composizione si avvicinasse al “pathos” di un testo antico, come sapore e natura linguistica, e se potesse reggere nel confronto con gli altri testi, elaborati dagli amici suoi ferraresi».
Dalle risonanze e dalle aperte imitazioni che talvolta si riscontrano nei Carmina latini del Tebaldeo, si desume che egli ebbe in specie a maestri Ovidio, Virgilio, Tibullo, Catullo e Orazio, né gli furono estranei il modello greco di Pindaro e i modelli suoi contemporanei rappresentati dal Pontano, dal Panormita, dal Poliziano, da Pico della Mirandola, dal Boiardo. «A ragione, il Tebaldeo può ritenersi il più versatile dei poeti ferraresi, – afferma ancora Silvio Pasquazi – e se ha in comune con essi la predilezione per alcuni temi, in lui si avverte una rispondenza maggiore e uno stile più ricco e sostenuto, che rivela una conoscenza sicura e talora squisita dei modelli classici. Anch’egli pecca di ampollosità e di gonfiezza, ma è stato giustamente osservato che raramente cade nella sdolcinatura, e quel tanto di stanchezza che a momenti ingenera si deve alla ripetizione e alla vacuità di alcuni soggetti».

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Il centro storico di Ferrara è un parcheggio incontrollato

Troppe auto circolano nella zona monumentale della città e troppe sostano a ridosso dei principali monumenti cittadini. Che ci sia un problema relativo ai parcheggi è stato riconosciuta anche dal sindaco della città, Tiziano Tagliani, interpellato in proposto da ferraraitalia a conclusione della tradizionale conferenza stampa che si è svolta come in municipio come di consueto nell’imminenza del natale. Pubblichiamo qua una serie di scatti effettuati in mattinata: le foto documentano incontrovertibilmente una situazione fuori controllo, non più tollerabile. Tanti veicoli nelle aree di maggior pregio rappresentano un sfregio alla bellezza di Ferrara.

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Piazza Savonarola invasa da auto e taxi
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Piazza Savonarola invasa da auto e taxi

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Piazza castello presa d’assalto dai veicoli

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Piazza Repubblica cinta dalle automobili

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In via Cairoli un’ininterrotta fila di auto in sosta

 

 

 

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Analfabetismo di ritorno e abbandono scolastico nuove piaghe d’Italia

Secondo gli ultimi dati pubblicati da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, l’Italia è tra i primi paesi europei per abbandono scolastico: il 17% dei nostri alunni lascia presto la scuola, con punte del 25% al Sud. Il tasso di abbandono scolastico è definito come la percentuale della popolazione di età compresa tra i 18 e i 24 anni che ha terminato soltanto l’istruzione secondaria inferiore o possiede un livello di istruzione ancora più basso, e non partecipa più al sistema di istruzione o formazione.
I nostri livelli sono molto lontani dalla media europea, scesa quest’anno al 12,7%. Secondo gli obbiettivi che la Commissione Europea ha dichiarato di voler raggiungere entro il 2020 nell’ambito dell’istruzione, il tasso di abbandono scolastico deve scendere al di sotto del 10% e il tasso di giovani laureati deve salire al di sopra del 40%. Dodici stati membri (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Svezia) hanno ormai tassi di abbandono scolastico inferiori all’obiettivo fissato dalla strategia europea, mentre l’Irlanda ha raggiunto per la prima volta questo traguardo. Nella graduatoria europea l’Italia si trova in fondo alla classifica, quart’ultima dopo Spagna (24,9%), Malta (22,6%) e Portogallo (20,8%).
Nel nostro paese il Molise è l’unica regione che ha raggiunto gli obiettivi europei, con un valore del 9,9%. L’Emilia-Romagna si trova al 15,3%. Le regioni con le performance peggiori sono la Sardegna (25,8%), la Sicilia (25%) e la Campania (21,8), dove sono più diffuse situazioni di disagio economico e sociale.
Il maggior numero di studenti che abbandona la scuola si registra negli istituti professionali, tecnici e artistici. L’abbandono minore si ha invece nei licei, soprattutto al classico. Passando a una distinzione di genere, la percentuale di maschi che esce dal percorso formativo è superiore a quella delle femmine, nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Anche questo fenomeno si verifica prevalentemente nel Mezzogiorno.
Tra gli stranieri che frequentano le scuole in Italia, la percentuale di abbandono rispetto agli italiani è di circa il doppio. Le difficoltà maggiori riguardano più gli studenti nati all’estero che quelli nati in Italia, che mostrano una migliore padronanza della lingua e un maggiore livello di integrazione.
L’Anief, l’associazione che riunisce gli insegnanti italiani, sostiene che “l’allontanamento dall’Europa in merito alla dispersione scolastica non è un dato casuale, ma è legato a doppio filo ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni”, che negli ultimi 6 anni hanno cancellato 200mila posti, sottratto 8 miliardi di euro e dissolto 400 istituti a seguito del cosiddetto dimensionamento.
Anche in ambito universitario i dati non sono incoraggianti: le immatricolazioni sono scese al 30% dei neo diplomati. Anche in questo caso l’Anief sottolinea i danni prodotti dalla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea e dalla fuga dei ricercatori all’estero.
Per concludere, secondo alcune statistiche, non solo l’Italia è ultima su 32 paesi Ocse per la spesa per l’istruzione in percentuale della spesa pubblica, ma è anche fanalino di coda tra le nazioni europee. Sul fronte dei tagli all’istruzione in rapporto al Pil, l’Italia è il secondo paese che ha effettuato i tagli più pesanti dopo l’Ungheria. Non sarà un caso se l’analfabetismo di ritorno, che riguarda coloro che hanno posseduto le cognizioni elementari della lettura e della scrittura, ma poi le hanno poi perdute, nella nostra Penisola è in crescita. Il linguista Tullio De Mauro ha rilevato che più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta e molti anche quella parlata. Se l’analfabetismo totale in Italia si aggira intorno all’1%, l’analfabetismo di ritorno raggiunge punte del 28% per competenze nella lettura. Quando si passa a operazioni un po’ più complesse, come l’interpretazione di dati, grafici o tabelle, la percentuale sale al 32%.
Sempre secondo Tullio de Mauro, in una società de-alfabetizzata c’è un rischio per la tenuta della democrazia che “vive se c’è un buon livello di cultura diffusa. Se questo non c’è, le istituzioni democratiche – pur sempre migliori dei totalitarismi e dei fascismi – sono forme vuote”.

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I voltini rinascono in primavera, forse illuminati. Parola dell’assessore Nardini

Sembra avviata a buon esito anche la vicenda dei voltini che congiungono piazza Savonarola e piazza Castello e collegano internamente, tramite la soprastante via Coperta, il palazzo comunale con la rocca estense. L’assessore ai Lavori pubblici della Provincia, Davide Nardini, rispondendo alla segnalazione di ferraraitalia e alle sollecitazioni di commercianti e turisti, ha annunciato che entro la prossima primavera sarà realizzato un adeguato intervento di manutenzione. “E’ anche allo studio – ha precisato Nardini – la possibilità di illuminare i volti”. Il tutto ovviamente con il benestare della soprintendenza ai beni architettonici.
Frattanto abbiamo riscontrato con soddisfazione che l’impegno recentemente assunto dalla direzione amministrativa di Economia di spegnere le luci durante la notte e i giorni di chiusura della facoltà è già stato attuato.

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Oro del Pci, Calvano: “Sulle fondazioni dibattito tardivo ma utile, ora decidiamo che fare”

Sulla vicenda fondazioni abbiamo sentito il parere il Paolo Calvano, attuale segretario provinciale del Partito democratico di Ferrara, in odore di promozione al regionale. A lui, che ha letto con attenzione tutte le puntate della nostra inchiesta sull’ “oro del Pci”, abbiamo chiesto innanzitutto se la “messa in sicurezza” del patrimonio dei Ds, decisa nel 2007, oggi, a sei anni dalla nascita del Pd, abbia ancora un senso.
“La scelta è stata fatta, al momento della creazione del nuovo soggetto, dai due partiti che l’hanno costituito: i Democratici di sinistra e La margherita. Entrambi hanno deciso di non conferire il loro patrimonio. Io su questo non esprimo giudizi”.
Non ritiene ragionevole che un’unione politica fra gli eredi della tradizione comunista e di quella democristiana suggerisse qualche cautela? Non era proprio scontato che le cose funzionassero…
“Spero che la scelta non sia dipesa da timori circa la capacità del Pd di decollare, perché questo avrebbe significato avere coltivato riserve mentali insidiose. Ma io guardo al presente e dico che ora il Pd ha una sua chiara fisionomia. In questa logica sarebbe sensata la cessione del patrimonio al Partito democratico”.
Il presidente della fondazione L’Approdo, Cusinatti, però ha insistito su un punto previsto dallo statuto: la continuità con i valori propri della sinistra…
“In questo senso, per quanto riguarda la collocazione del Pd, mi pare che i dubbi siano già stati sciolti e la recente volontà di iscrivere i nostri rappresentanti in Europa al gruppo parlamentare socialista sono la conferma della vocazione di una forza che è espressione di una sinistra moderna e riformista”.
Altri, più o meno velatamente, ritengono invece che le fondazioni intendano perpetrare se stesse per operare un potere di condizionamento esterno, agendo alla stregua di lobby.
“E’ l’idea del vecchio che vuole influenzare il nuovo, certo. Ma per quanto ci riguarda devo dire che il rapporto è molto chiaro: la fondazione affitta, a condizioni privilegiate, direttamente ai circoli i locali dei quali è in possesso; inoltre assieme a loro condividiamo alcuni progetti dei quali loro si prestano ad essere partner o sponsor, come è accaduto di recente con la scuola di formazione politica o in altre simili circostanze”.
La fondazione peraltro si regge su uno statuto che prevede cariche a vite e non impone specifici obblighi di informazione, tant’è che sino ad ora i responsabili si sono limitati agli adempimenti di legge, ma di quel che è stato fatto e speso, in precedenza, s’era saputo poco. Le che ne pensa?
“Credo che questi caratteri siano scarsamente compatibili con le nuove forme che la politica sta cercando di assumere e penso che la sussistenza di cariche a vita sia espressione e retaggio di una stagione precedente. Una cosa del genere è paradossale quando, in parallelo, ci si interroga sulla possibilità di svolgere più di due mandati politici”.
E’ quindi una situazione anomala che va affrontata.
“Certo, avendo però chiarezza su cosa si vuole fare. Anch’io mi domando se sia opportuno che il partito gestisca direttamente il proprio patrimonio. Ma questa è una decisione che esula dall’ambito locale”.
E a livello nazionale ne state parlando?
“Renzi è appena arrivato, il nuovo tesoriere si è insediato adesso anche lui. Il tema va affrontato tenendo conto delle modalità di finanziamento dei partiti, profondamente modificate dal governo Letta, e dovrà considerare le capacità di autofinanziamento dei soggetti politici”.
Ma in passato ne avevate discusso?
“A mia personale memoria, nel corso degli ultimi quattro anni no”.
Che idea si è fatto leggendo l’inchiesta di ferraraitalia?
“Ho l’impressione che si sia sviluppato un dibattito che si sarebbe dovuto fare prima, quando quelle decisioni sono state prese. Ma io ora devo guardare avanti e pensare al partito che vogliamo”.

7 – CONTINUA

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In provincia di Ferrara oltre 80mila persone vivono con meno di 750 euro al mese

Sono 53.694 i ferraresi che percepiscono meno di 499 euro al mese di assegno pensionistico, e poco più di 30 mila hanno una pensione da 500 a 749 euro. Sommando, sono circa i due terzi della popolazione anziana. Con una media tra i 700 e i 750 euro, Ferrara è con Rimini la provincia a più basso reddito pensionistico dell’Emilia-Romagna,: le donne sono le più penalizzate, per numero di trattamenti erogati e per gli importi, più bassi rispetto a quelli degli uomini.
I dati, di fonte Inps, sono stati diffusi negli scorsi giorni dallo Spi, il sindacato pensionati della Cgil, che sta entrando nella campagna congressuale in preparazione del congresso provinciale previsto il 27 e 28 febbraio 2014.
Come si vive con queste pensioni? È chiaro: male. Un dramma soprattutto per chi è solo e non può contare sull’aiuto dei famigliari o di una badante (se non ci fossero le badanti …).
Ferma restando la sacrosanta battaglia per vedersi riconosciuti trattamenti più equi dopo aver lavorato una vita, per pagare meno tasse e per correggere le storture di chi pretende di mandarci in pensione tutti a settant’anni (negando posti di lavoro ai giovani), bisogna cominciare a rispondere a qualche altra domanda.
Ad una su tutte: reggerà, e come, una società che invecchia? E che cosa questa società che cambia sarà capace di offrire agli anziani?
Lo sappiamo, sull’argomento si sono scritte intere biblioteche. Nello scenario centrale delle stime Istat, in Italia l’età media aumenta da 43,5 anni nel 2011 fino ad un massimo di 49,8 anni nel 2059. Dopo tale anno l’età media si stabilizza sul valore di 49,7 anni, ad indicare una presumibile conclusione del processo di invecchiamento della popolazione. Particolarmente accentuato è l’aumento del numero di anziani: gli ultra 65enni, oggi tra il 20 e il 21% del totale, nello scenario centrale aumentano fino al 2043, anno in cui oltrepassano il 32%, per poi consolidarsi su questa percentuale.
Questa è una delle rivoluzioni culturali del futuro. Né più ne’ meno. Si tratta di scegliere: o l’anziano è cosa da buttare – scusate la crudezza – o è un essere umano che ha diritto a vivere fino alla fine un’esistenza dignitosa. Se vale, come si spera, questa seconda ipotesi, allora bisogna davvero rimboccarsi le maniche. Cominciando a vedere come modificare il funzionamento dei servizi, dai trasporti alla sanità, dalle strutture di socializzazione alle iniziative in cui l’anziano possa essere attivo e interagire con il resto della popolazione, in primis con i giovani. Pubblico e privato possono collaborare. Ci sono esempi a bizzeffe.
Si deve avere il coraggio di sperimentare rapidamente nuove soluzioni, senza pretendere di risolvere tutto e subito, ma anche senza smettere per un minuto l’impegno. Anche in provincia di Ferrara, dove più di 80 mila anziani faticano a vivere. Senza contare gli altri.

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Il futuro in tempi di incertezza

Alla decima edizione della Web Conference di Parigi (10-12 dicembre) imprenditori e start up hanno cercato d’indovinare quali saranno le ulteriori trasformazioni di internet. Scott Huffman, dice: “Stiamo lavorando all’idea di una interazione con Google passando dalla tastiera all’uso della voce naturale con cui chiedere, per esempio, come va il tempo a Parigi e ottenere una risposta vocale”. Loic Le Meur aggiunge:“ Adesso c‘è la voce, digitare diventa una cosa superata e i giovani possono anche non imparare a digitare perché adoperano i loro iPads o i tablet. Il futuro è la voce”.
Sono tutti certi sul fatto che le tecnologie sapranno parlarci e che aumenteranno ancora la loro importanza nella nostra vita. James Siminoff afferma: “Ci aspettiamo questo: il telefono portatile sarà sempre più il nostro compagno quotidiano. Credo che l’internet ad alta velocità sarà come l’elettricità e l’acqua corrente nelle case”.
Il capo di Apple, Guy Kawasaki, propone una questione di prospettiva rilevante, affermando: “Vogliamo vedere le cose veramente di rottura e sapere quello che cambierà, come sarà il prossimo Google, il prossimo youtube. La risposta è: non lo so, so che investirò in questo settore”.
Questo il punto che mi interessa sottolineare: non si può aspettare la garanzia del ritorno per investire nel futuro. Si tratta di abbandonare l’idea delle previsioni, una gabbia inutile che spesso giustifica la pigrizia, soprattutto un’illusione infondata, in un mondo complesso come il nostro.
Investire nel futuro significa investire nella ricerca, investire nello studio, avviare nuovi progetti e sperimentare. Certo, è giusto sostenere che il Governo italiano dovrebbe investire una quota del PIL ben superiore al misero attuale 1,25%. Ma ciò non toglie che dovremmo trasmettere ai giovani il gusto per la scommessa. Investire nello studio è responsabilità di ognuno. Questo è l’unico messaggio possibile: non ci sono certezze (se mai ci sono state), viviamo in un tempo durissimo e abbiamo, però, la possibilità di coltivare la nostra intelligenza, con una quantità di stimoli in passato inimmaginabili. Gli esperti di mercato del lavoro argomentano, dati alla mano, che investire nello studio paga ancora, in termini di opportunità e di qualità del lavoro. Ma, a parte questo, studiare, è in sé gratificante e fa bene.

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Giraldi Cinzio, l’ispiratore dell’Otello di Shakespeare

GIAMBATTISTA GIRALDI CINZIO
a 440 anni dalla morte

Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573) fu un convinto aristotelico, cioè fautore del metodo analitico nella critica d’arte, si dedicò prevalentemente al teatro sia come autore che come critico e precisò il proprio pensiero al riguardo nel suo fondamentale Discorso intorno al comporre de i romanzi, delle commedie, delle tragedie e di altre maniere di poesia (1554). In particolare, le tragedie composte fra il 1541 e il 1562: Orbecche, Didone, Cleopatra, Antivalomeni, Eufimia, Epitia, Selene e Arrenopia, influirono in modo determinante sugli orientamenti letterari del tempo, infrangendo lo stile armonioso dell’umanesimo rinascimentale e instaurando un nuovo e più rigido classicismo. Basti pensare al sensibile influsso, nell’Orbecche e in altre tragedie, delle truculente atmosfere senechiane, dalle quali derivano il gusto dell’orrore e la predilezione per gli argomenti di sangue e di vendetta.
Giraldi Cinzio si cimentò inoltre con altri generi letterari, scrisse ad esempio una (ancor oggi) studiatissima favola drammatica, la famosa Egle (1545), nonché un poema: L’Ercole (1557), sfortunatamente non molto ben riuscito. Particolare successo ebbero gli Ecatommiti (1565), una silloge di centotredici novelle o racconti, in cui risultano evidenti il moralismo controriformistico dell’autore, il suo afflato neoclassico e la sua tendenza al “grandioso” e allo “smisurato”, quantunque non manchino qua e là pagine di sobria ma al contempo penetrante narrazione.
L’Orbecche, del 1541, è la più conosciuta tragedia di Giambattista Giraldi Cinzio. Composta in endecasillabi sciolti, è considerato il primo dramma moderno, di ispirazione classica, che si configuri suddiviso in atti e scene. La spaventosa vicenda, che attinge alla tipologia senechiana, è ambientata in Persia, dove la protagonista: la principessa Orbecche figlia del re Sulmone, sposa segretamente Oronte. Dall’unione nascono due bambini, però il matrimonio viene scoperto allorché il sovrano dispone che la figlia si sposi, scatenando la terribile ira di questi. Al cospetto di Orbecche vengono portate le membra straziate dei figli e la testa decapitata del marito Oronte, allora la donna si vendica uccidendo il padre Sulmone e poi espia il proprio delitto togliendosi la vita.
«La commedia pastorale nasce – scrive lo storico del teatro Giovanni Antonucci – quando la commedia rusticale mostra tutti i suoi limiti e le sue ambiguità di spettacolo “misto” e non ben definito. Ancora una volta è Ferrara a vedere la nascita del nuovo genere con la Egle di Giambattista Giraldi Cinzio, che rappresenta una vera e propria svolta con il suo recupero del dramma satiresco euripideo». Infine, forse non tutti sanno che l’Otello di Shakespeare «deriva da Giraldi Cinthio, – scrive l’esperto di teatro anglosassone Masolino d’Amico – il cui racconto per ragioni di ritmo drammatico è stato compresso in una sequenza serrata di pochi giorni».

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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“Winter Wonderland”, a natale in Fiera il parco divertimenti al coperto più grande d’Italia

La magia del Natale, tradizionale festa dei più piccoli, si sposa quest’anno con il fascino del divertimento delle giostre, che i bambini potranno godere al caldo e al riparo dalle intemperie. Per la prima volta infatti a Ferrara il luna park sarà ospitato all’interno dei padiglioni della fiera, aperti da oggi sino al 6 gennaio, per tutto il periodo delle festività.
A “Winter Wonderland – Natale in Giostra”, il parco divertimenti al coperto più grande d’Italia, c’è tutto ciò che appartiene alla tradizione e che è impresso nei ricordi d’infanzia di ciascuno: nella casa di Babbo Natale – informano gli organizzatori – i bambini potranno farsi fare una foto ricordo con il vecchio Santa Claus e soprattutto consegnarli la famigerata letterina. Negli oltre ventimila metri quadrati della kermesse saranno funzionanti tutte le attrazioni: dal truccabimbo alla babydance, dalle montagne russe alla nave dei pirati dei caraibi, dall’autoscontro al brucomela, dal tagadà al castello incantato, dalla piovra allo shuttle e allo space star, fino al trenino del far eest e al cinema 5D.
Tra i numerosissimi appuntamenti in programma si segnalano la maxi tombola da 5mila euro in calendario a santo Stefano, il veglione di capodanno, che il pubblico potrà trascorrere in fiera tra musica, cucina e divertimento, e i voli in mongolfiera che, con la collaborazione del Ferrara balloons festival, sarà possibile effettuare decollando dal piazzale adiacente al quartiere fieristico.
Ci sarà spazio per la comicità di Andrea Poltronieri, che si esibirà del “Poltro Show” sabato 4 gennaio, mentre la grande festa di chiusura sarà coronata da un emozionante spettacolo pirotecnico. Ma non finisce qui: nel ricco programma di Winter Wonderland troveranno spazio anche spettacoli di burattini e di magia, concerti, feste a sorpresa, il circo, i personaggi dei cartoni animati, senza contare le animazioni quotidiane all’insegna della baby dance e del face painting.
Nell’area ristorazione il pubblico potrà scegliere tra un’ampia gamma di stand e specialità, comprese le bancarelle con i dolci tipici di Natale. “Winter Wonderland – Natale in Giostra” sarà aperto tutti i giorni festivi e prefestivi dalle 11 alle 24; dalle 15 alle 22 nei giorni feriali; a Natale dalle 15 alle 24 e a Capodanno dalle 11 alle 3. Il biglietto giornaliero intero costa 4 euro, mentre quello ridotto consente di entrare in Fiera a soli 3 euro e dà diritto a un buono di 2 euro da spendere nelle varie attrazioni presenti.

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Troppe auto in sosta nella ztl? Colpa di Musa [audiointervista al sindaco]

La zona a traffico limitato sembra negli ultimi tempi sempre più permeabile a veicoli d’ogni tipo: quelli dei residenti, quelli degli artigiani e dei manutentori, quelli dei commercianti e di coloro che svolgono attività nelle aree precluse al transito, quelli dei disabili, quelli di addetti al carico-scarico merce… Insomma, ognuno con la propria giustificazione transita indisturbato nelle arterie del centro storico, persino quando c’è mercato. Non solo, ma nella zona monumentale sono troppe pure le auto in sosta in piazza Savonarola, dove i taxisti sono tornati a stallo in doppia fila, dopo che anni fa l’Amministrazione ne aveva contingentato la presenza, inoltre, specie nelle ore serali, in corso Martiri quando ci sono spettacoli al teatro e in via Cairoli.
Abbiamo approfittato della tradizionale conferenza stampa di fine anno per porgere al sindaco, al termine dell’incontro con i giornalisti, un interrogativo circa le sue intenzioni in merito. Tiziano Tagliani ha riconosciuto che c’è un problema legato alla sosta, affermando che, paradossalmente è conseguenza dell’introduzione del sistema di sorveglianza automatica Musa: “Avendo posto i varchi sotto il controllo delle telecamere, abbiamo progressivamente ridotto la presenza di vigili nell’area pedonale. Questo probabilmente ha indotto qualcuno ad approfittarne per fermare l’auto di notte anche dove non è consentito”.
La risposta integrale del sindaco è nel file audio “sindaco-ztl” caricato qua sotto.

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A teatro l’abominio del fascismo e il tragico silenzio degli indifferenti

Le parole dei conniventi, il silenzio degli indifferenti. Per entrambe il medesimo biasimo e un’uguale condanna. Fabrizio Gifuni ha portato sul palco le nefandezze del fascismo e la sua deriva razzista. L’opera è scandita da cinque emblematici momenti di rappresentazione racchiusi fra prologo ed epilogo: gli anni del manganello, arte e religione, questione di razza, gli anni dell’impero, l’abominio.
A far da filo conduttore a “Gli indifferenti, parole e musiche da un ventennio”, in scena al Teatro comunale di Ferrara sino a domani (sabato 21), sono appunto testi scritti da epigoni del regime, con il contrappunto delle parole degli oppositori. L’incipit è di Raffaello Ramat, critico letterario che nell’agosto del 1943, all’indomani del Gran Consiglio del fascismo che esautorò Benito Mussolini ma prima del tragico 8 settembre, riferisce di una situazione “non so più se tragica o grottesca in cui milioni di uomini acconsentirono di obbedire ad un branco di ladri e di avventurieri sapendo che essi erano avventurieri e ladri, e non riuscivano a sperarne la liberazione se non da forze esterne a loro. Bisogna dire chiaramente che di questo avvilimento generale una classe sopra a tutte è responsabile: quella degli scrittori. Invito i giovani a rileggere i giornali degli anni scorsi e a fare raccolta di pagine di viltà: ma non per riderci, si per piangerci sopra”.
Il servilismo richiamato da Ramat è demolito da un incisivo epitaffio coniato da Arturo Toscanini (costretto all’esilio per avere rifiutato di eseguire uni degli inni fascisti, Giovinezza) per spiegare che “la schiena curva è conseguenza di un’anima curva”. La viltà dell’indifferenza è stigmatizzata con disprezzo da Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti”.
Fra il prologo di Ramat e l’epilogo di Gramsci è contenuto l’atto di accusa del fascismo, basato principalmente su un collage di parole pronunciate dai suoi compiacenti servitori, complici del regime e perciò colpevoli dei suoi abomini: intellettuali, docenti universitari, musicisti, artisti, magnificamente interpretati da Gifuni che dello spettacolo è anche regista. Ed ecco idealmente sfilare in parata, evocati dalle letture dal palco e accompagnati dalla musica del pianoforte di Luisa Prayer e dalla voce del mezzosoprano Monica Bacelli, il maestro d’opera Pietro Mascagni, il pedagogista Giovanni Gentile (per il quale parole e manganello sono strumenti egualmente validi per persuadere le coscienze della bontà d’un concetto), Guido Visconti di Modrone, un giovane e sprezzante Indro Montanelli e una moltitudine d’altre tristi anime curve.

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Quando i bambini non fanno “oh”

Osteoporsi: è una condizione per cui lo scheletro, a seguito di una significativa perdita di massa ossea causata da fattori nutrizionali e/o metabolici, è più fragile e poroso e quindi più soggetto al rischio di fratture.
Calcio: è il sale minerale più rappresentato nel corpo umano, soprattutto nello scheletro. È anche un gioco fra due squadre di undici giocatori che cercano di calciare un pallone dentro la porta avversaria.
Non mi pare esistano ricerche scientifiche che finora abbiano messo in relazione l’osteoporosi, o altre malattie a carico delle ossa, con la scarsa assunzione di calcio da parte degli esseri umani… almeno di quel calcio, inteso come gioco di squadra.
Sto cominciando a credere però che un apporto quotidiano sovrabbondante di “quel” calcio possa creare, in molti soggetti, vari tipi di dipendenze e manifestazioni patologiche; ad esempio: infiammazione del linguaggio, incontinenza dei toni, ipertensione emotiva, insufficienza cronica del rispetto, pigrizia critica volgare fino ad arrivare alla frattura dei freni inibitori, all’arresto dell’oggettività e alla conseguenza dell’ultimo “stadio”: la stupidità congenita.

Devo premettere ancora una volta un mio limite: osservo le questioni di sport da un retroterra rugbistico e quelle di calcio, in particolare, da un punto di vista “Internazionale”.
I fatti a cui intendo riferirmi sono questi: la Federazione Italiana Gioco Calcio ha deciso di far chiudere le curve degli stadi i cui tifosi si siano resi responsabili di cori offensivi o razzisti ai danni dei giocatori o dei tifosi avversari.
È successo a varie squadre ed ultimamente anche alla Juventus.
La blasonata società bianconera ha pensato bene di rimediare a tale danno invitando i bambini a riempire le curve, lasciate libere dai tifosi.
I bambini, come sanno bene coloro che si occupano di pubblicità, suggeriscono tenerezza, rimandano un’idea di candore, di spontanea ingenuità, di bellobuonogiustopulito.

Ebbene la prima partita con oltre dodicimila bambini in curva nord è stata Juventus Udinese del primo dicembre 2013.
Riporto un breve articolo dal giornale del giorno dopo:
“Ammenda di 5 mila euro alla Juventus per i cori dei giovani tifosi di domenica nel corso del match contro l’Udinese. Lo ha deciso il Giudice sportivo esaminando le gare dell’ultimo turno. La società bianconera paga «per avere suoi (giovanissimi…) sostenitori rivolto ripetutamente ad un calciatore della squadra avversaria un coro ingiurioso». I bambini hanno più volte urlato «Merda!» all’indirizzo del portiere dell’Udinese Brkic.”

La cosa non sembra aver interessato molto né i giornali sportivi e nemmeno la società bianconera che ci ha riprovato domenica scorsa, 15 dicembre, insistendo sui bambini.
Riporto uno stralcio dal giornale del giorno dopo:
“I 5000 euro di multa dopo Juventus-Udinese non sono serviti: anche contro il Sassuolo non sono mancati i cori “Oh… Mer-da” dei baby-tifosi juventini all’indirizzo del portiere avversario. Al primo rilancio dal fondo di Gianluca Pegolo, dalla curva nord (quella degli adulti) si è levato il coro. Al suo secondo rilancio si sono uniti anche i bambini, dalla sud. E così si è continuato, sebbene il clima non sia stato teso, quasi ad ogni rilancio, anche dopo il gol di Tevez”.
Massimo Gramellini su La Stampa all’indomani di Juventus Udinese si chiedeva ironicamente: “Ma da chi mai avranno imparato, le creature innocenti, a irridere il rivale anziché applaudirlo calorosamente? ”
Non voglio usare il mio punto di vista “Internazionale” e credo che ciò che è successo a Torino avrebbe potuto succedere anche ad altre società (ma è ovvio che chi vuol far crescere una sana cultura sportiva, deve cominciare a coltivare bene certi Campus).
Non voglio neanche entrare nel merito delle decisioni della giustizia sportiva che sceglie di chiudere le curve degli stadi per cori offensivi o razzisti dei tifosi…. anche se mi scappa da immaginare che, se la stessa sanzione venisse applicata in Parlamento, i banchi della Lega Nord sarebbero spesso vuoti e senza dubbio quello del deputato Gianluca Buonanno sarebbe perennemente deserto.

Visto che anche lo sport è veicolo di valori mi interesserebbe conoscere, da chi si occupa di calcio, la propria opinione sulla frase del pedagogista Bruno Ciari: “È assolutamente superfluo dire che la formazione di attitudini e di valori etici non può derivare dal verbalismo predicatorio, dai racconti edificanti, dalle chiacchiere. Le attitudini, i valori etici, in quanto di natura pratica, non possono che nascere da un modo di operare e di vivere”.
Ho contribuito alla intitolazione della scuola in cui lavoro a Bruno Ciari pertanto conosco e mi riconosco nel suo pensiero.
Vorrei sapere però se, ed in che modo, le società calcistiche si pongano il problema della trasmissione di certi valori sapendo che stiamo vivendo in una società spietatamente competitiva e ciecamente egoista; come affrontano il tema del tifo (per la propria squadra e basta o anche contro l’altra?), della correttezza (solo in campo o anche fuori?), del rispetto (dei propri compagni o anche dell’avversario, dell’arbitro, degli spettatori), della competizione (il sano agonismo o le simulazioni e le furbizie?), del modello sociale che lo stereotipo del calciatore professionista rappresenta (veline, fuoristrada, creste e tatuaggi oppure serietà, impegno e solidarietà?).

Di ciò che è successo a Torino ne abbiamo parlato in classe e, dopo una lunga discussione comune, gli alunni di quarta elementare pensano che quei bambini in curva a Torino abbiano usato le “parolacce”: perché si credevano più forti se le dicevano in tanti, per infastidire il portiere avversario, perché erano “gasati” e volevano vincere, per far perdere la concentrazione al portiere, perché erano arrabbiati, per far arrabbiare gli altri, perché gli altri imbrogliavano, perché gli altri facevano i falli, perché le sentivano dai grandi, per sfogarsi, perché avevano finito la pazienza, perché erano arrabbiati per altri motivi, per fare “scena”.

I bambini poi pensano che una parolaccia sia: una brutta parola, una parola che offende, un modo volgare di parlare, un insulto, un modo per prendere in giro gli altri, un’offesa contro gli altri per qualcosa che hanno detto, fatto o che rappresentano, una protesta, una parola non piacevole, una parola per far arrabbiare, una parola che vuole ferire, una cosa brutta sugli altri per farli piangere, un pensiero che fa dispiacere.

In conclusione, a loro sarebbe piaciuto molto giocare in quello stadio ma non avrebbero affatto gradito quel coro offensivo.
Nonostante la mia età, non sono così demodè da non ricordare che il bisogno di emulare i grandi c’è sempre stato e sempre ci sarà (anche se non ricordo che quando giocavano a pallone da piccoli, per le strade o nei campetti, qualcuno di noi indossasse il sospensorio sopra alla maglia per assomigliare a Jair); quello che però è cambiato nel tempo è il contesto sociale di riferimento.
In questo contesto, io penso che certi valori, se ci si crede, occorre praticarli con pazienza, lentezza, dedizione e convinzione.

Non bisognerebbe invitare appositamente i bambini allo stadio per far sembrare pulito quell’ambiente se, in realtà, si chiede loro di esserci per nascondere lo sporco sotto al tappeto.
Non bisognerebbe farlo perché altrimenti gli si insegna l’ipocrisia.
Non bisognerebbe farlo perché poi i bambini, imparando quello che vivono, non mentono.
Solo con un ottimo impegno ed un buon investimento in istruzione ed in educazione, da parte di tutti coloro che ci credono e che si ritengono interessati, si possono cominciare a fare davvero certi tipi di pulizia.

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L’elogio all’utopia di uno scomodo comunista libertario

Andrei Platonov è stato uno dei più grandi, e misconosciuti, scrittori russi del Novecento: odiato da Stalin, venne imprigionato, ma era un comunista vero e alla cultura destrorsa dell’occidente non serviva per propagandare l’anticomunismo viscerale di tipo maccartista che dominava il mondo al di qua della cortina di ferro. Era un comunista libertario, una specie da evitare come la peste. Il suo capolavoro, “Il villaggio della nuova vita”, pur tradotto in italiano ed editato da Mondadori e, se non ricordo male, da Rizzoli, morì dimenticato sulle scansie delle librerie, sepolto sotto le macerie di una letteratura molto spesso d’accatto. Non doveva essere letto e amato dagli italiani, non si sa mai. Ma il suo fantastico racconto è sempre più inesorabilmente attuale. Narra di un uomo, il quale non accetta la fine della rivoluzione d’ottobre e parte alla ricerca di quella che chiama la sua fidanzata, Rosa Luxemburg, morta – secondo questo matto protagonista- soltanto per la propaganda capitalista. Parte in groppa al suo cavallo dal nome emblematico di Forza proletaria: non arriverà mai a trovare la Luxemburg, ma giungerà in un paese anarchico ai confini delle Russie, dove la gente, in barba alla stupida burocrazia, ogni giorno cambia posto alla propria casa ambulante: qui, in questo nuovo mondo, nuovo e libero, si fermerà. E’ chiara la matrice utopistica del romanzo, ma senza utopie l’uomo dove finirà? Ho ripensato a Platonov leggendo di quella povera donna polacca morta di freddo qui a Ferrara, sotto un ponte, anche lei era arrivata nel nostro paese, non in groppa a Forza proletaria, ma in pullman, alla ricerca di un nuovo mondo, giusto e libero, l’utopia non ha confini: l’Italia giusta e libera? Per carità. Il nostro paese è un concentrato di ingiustizie spesso imbecilli, in mano a coloro che strillano più forte, agli imbonitori da fiera: per favore, si guardino i nostri uomini politici, coloro i quali dovrebbero cambiare il Paese, non hanno programmi, nemmeno sogni, hanno molta voce, strillano come dei pazzi uno contro l’altro. E’ uno scenario grigio quello in cui viviamo. C’è qualcuno che vuole cambiare sistema, che non vuole più essere servo di interessi economici misteriosi e quasi sempre sballati, che voglia crescere delle generazioni solidali, che voglia la giustizia sociale? Utopia? Utopia, meglio che queste urla volgari che sentiamo ogni giorno. Martin Luther King aveva un sogno, i nostri linguacciuti baroni no, non corrono il rischio di essere uccisi, nemmeno – purtroppo – di andare in galera se hanno rubato.

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Sprechi, ora a Economia promettono che di notte spegneranno le luci

Dopo la segnalazione di ferraraitalia di un paio di settimane fa, c’è una buona notizia in tema di lotta agli sprechi: le luci della facoltà di Economia, ospitata a palazzo Bevilacqua Costabili di via Voltapaletto, che da anni restano accese anche di notte e nei giorni di chiusura, fra qualche giorno saranno quotidianamente spente al termine delle attività e riaccese alla ripresa.
Si tratta di un segnale incoraggiante e della conferma che, volendo, anche a partire da piccole avvertenze, c’è la possibilità di risparmiare senza necessariamente tagliare servizi e personale. A ben vedere in termini percentuali la riduzione dei costi sarà significativa: visto che tutte le luci finora restavano accese ininterrottamente negli spazi comuni, in futuro per quegli ambienti si spenderà la metà.

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L’ingresso della facoltà di Economia in via Voltapaletto

In fondo era sufficiente un po’ di perizia. Dopo una verifica condotta fra segreteria amministrativa e addetti alla portineria, infatti, è emerso che di notte anziché accendere regolarmente il sistema di luci di emergenza a ridotto consumo veniva lasciato in funzione l’impianto di illuminazione ordinario per presunte “ragioni di vigilanza”. La direzione del comparto Manutenzione dell’Università, da noi interpellato, ha quindi comunicato che darà disposizione di spegnere tutte le luci nell’orario e nei giorni di chiusura della facoltà, lasciando in futuro attive solo quelle di sicurezza. Nei prossimi giorni verificheremo se alle parole seguiranno i fatti.

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Investire nell’infanzia, un dovere e un ottimo affare

di Loredana Bondi

I servizi educativi e scolastici per i bambini in Italia sono purtroppo un nervo dolente, perché quelli che ci sono (laddove esistono) sono assolutamente insufficienti. L’Europa da tempo ci sollecita l’adempimento dell’obbligo di garantire servizi diffusi e di qualità, invece siamo all’età della pietra in molte parti d’Italia. Solo in alcune regioni ci si è avvicinati ai dati richiesti dal trattato di Lisbona che chiedeva di arrivare almeno alla copertura del 30% (rapporto fra nidi e bambini nei primi tre anni di vita) entro il 2010, ma la nostra media nazionale sta ancora largamente sotto il 10% con regioni come la nostra che superano o si attestano sulla richiesta e un Sud che spaventosamente manca di ogni servizio e mediamente arriva al 3% gestito solo dal privato. Parlare della necessità di avere servizi educativi e scolastici fino a 6 anni è sempre attuale, se si pensa che lo Stato dovrebbe direttamente provvedere in fatto di scuola d’infanzia, perché così sta scritto negli ordinamenti scolastici nazionali della formazione. Perché parlarne e parlarne sempre? Perché l’educazione delle nuove generazioni (e non si tratta solo di cura) permette di investire in termini di crescita relazionale e razionale.
James Heckman, premio Nobel 2000 per l’economia, in uno studio recente ci dimostra che l’analisi dei costi e dei benefici dell’investimento in capitale umano in diverse fasce d’età mostra come l’investimento nei primi anni di vita abbia rendimenti più elevati rispetto a investimenti fatti più tardi, perché le capacità individuali sono più malleabili. Ormai tanti, troppi studi lo dimostrano. A parte questo, il vero dramma cui assistiamo in questo periodo di crisi tremenda da tutti i punti di vista è quello che non c’è un progetto scolastico educativo serio per il Paese, prova ne sia la mancanza assoluta di finanziamenti nell’ambito della legge finanziaria.

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L’anomalia di uno Stato che lascia solo chi lo onora

Nino Di Matteo è il pm di Palermo che Totò Riina vuole morto. Di Matteo è stato pm in molti processi in cui Riina era imputato: per le stragi di Capaci e di via D’Amelio; per gli assassinii dei giudici Chinnici e Saetta. Ma fin qui tutto torna: la mafia condanna a morte i suoi nemici. Ciò che, invece, fa problema sono le amare dichiarazioni di questo magistrato coraggioso e competente. “Per fortuna prevale la passione, che ha ancora la meglio sulla razionalità pura che consiglierebbe di mollare tutto. Fare il magistrato secondo la Costituzione ‘non paga’. Né in termini di serenità personale, né di apprezzamento da parte delle Istituzioni e degli uomini che le rappresentano. Ho la netta consapevolezza che, quando ti inoltri su certi crinali investigativi sui rapporti fra mafia e Istituzioni, senti – per usare un eufemismo – di non essere capito da chi rappresenta lo Stato e persino da vasti settori della Magistratura. Troppi pensano che le nostre indagini siano tempo perso, risorse sottratte alla ‘vera lotta alla mafia’, che consisterebbe soltanto nell’arrestare la manovalanza criminale, nel sequestrare carichi di droga. Invece, oggi più che mai, un contrasto serio alla criminalità organizzata deve recidere i suoi legami con Istituzioni, politica, banche, finanza, forze dell’ordine, apparati dello Stato. Ti senti additato al pubblico ludibrio come un ‘acchiappanuvole’, o peggio come un soggetto destabilizzante che rema contro le Istituzioni per scalfirne il prestigio… Ma non importa, andiamo avanti”.
“Le parole sono pietre” recita il titolo di un bel libro di Carlo Levi: e queste sono dei macigni! Fino a quando un servitore dello Stato democratico e costituzionale descrive il proprio ‘vissuto’ come espressione di una condizione di solitudine rispetto alle Istituzioni e alla politica che dovrebbero sostenerlo e valorizzarlo, non saremo mai un ‘Paese normale’… Lo Stato e la politica devono essere presenti ogni giorno a fianco di chi difende la legalità e la Costituzione, e non solo ‘post-mortem’ ai funerali… di Stato!

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Beni Comuni, Ambiente e Partecipazione buchi neri del bilancio di fine legislatura

di Leonardo Fiorentini

Quello che più salta agli occhi nella presentazione del Bilancio 2014 del Comune di Ferrara è l’indubbio processo di riequilibrio dello stesso, in particolare in termini di struttura della spesa. Da ragioniere non posso che salutarlo con piacere. Non starò neanche a discutere troppo su cosa si è venduto per arrivare a questo risultato. Perché ritengo, in modo laico e pragmatico, che vendere pezzi del patrimonio pubblico “marginale” (pensiamo alle azioni svincolate di Hera) per ridurre il debito sia infatti un’operazione ragionieristicamente corretta, patrimonialmente neutra, ma politicamente nulla. Perché la vera scelta che il Comune deve fare non è quando è meglio vendere sul mercato borsistico azioni di una società, bensì se abbia senso per una istituzione pubblica detenere pacchetti azionari di società quotate in Borsa. Le domande che il Pd (maggioranza assoluta in Consiglio Comunale) si dovrebbe porre oggi sono difficili, ma fondamentali: primo, ha senso rimanere in Hera? Secondo, con il ricavato della vendita si deve solo ridurre il debito, o si puo’ dare una risposta, di sinistra, al tema dei Beni Comuni? Chi scrive – ancora nella scorsa legislatura e con ben altri valori di mercato – aveva sostenuto la proposta dei Verdi di vendere tutte le partecipazioni in Hera con un duplice fine: affrancarsi da questo rapporto insano di proprietario che non conta nulla/controllore che non sa controllare e reinvestire il ricavato nella diminuzione del debito, nella costruzione di un nucleo di controllo reale sui contratti di servizio e soprattutto nella ripubblicizzazione del servizio idrico integrato come i cittadini hanno chiesto con un referendum. In quest’ottica vendere parti del patrimonio pubblico non “marginale”, come le azioni di Hera, tutte le azioni di Hera, sarebbe stata una scelta di “sinistra” e più rispettosa del Bene Comune rispetto a mantenere una partecipazione in una SPA quotata. Oggi, anche se i valori patrimoniali sono purtroppo ben diversi, quella riflessione politica credo resti ancora valida.

Ma quello che oggi abbiamo veramente in discussione è la destinazione dei risultati del riequilibro del Bilancio sulla spesa corrente. L’Assessore Marattin ha più volte ha rivendicato come “di sinistra” la scelta di restituire il denaro ai cittadini: “meno debito – meno spese – meno tasse” il refrain delle sue presentazioni del bilancio.

Io, pur non considerandola di per sé un’operazione di destra, la considero un’operazione inutilmente simbolica. Simbolica perché “restituire” 20 euro l’anno a testa ai cittadini non incide né sulla capacità di spesa delle famiglie, né sull’effettiva competitività delle imprese in termini di diminuzione di cuneo fiscale. Inutile perché si inserisce in un quadro complessivo talmente catastrofico per le finanze degli enti locali che rischia di vedere l’anno prossimo tornare indietro quei 20 euro sotto forma di qualche altra tassa inventata in vista del prossimo passaggio parlamentare di questa o della prossima manovra.

Sinceramente non ho neanche gli strumenti adeguati per poter dire oggi come avrei speso in modo efficiente quelle risorse. Forse era anche questo l’imbarazzo della Giunta: dopo anni di tagli e tanti “no, non ho un quattrino” distribuiti a destra e a manca, diventava difficile scegliere come e dove investire ben 2.000.000 di euro senza scontentare nessuno.

Ho però delle certezze che non posso dimenticare: il bilancio dell’assessorato all’Ambiente è passato in pochi anni da circa 700.000 a poco più di 100.000 euro. In una città che, nonostante tutto qualche problema ambientale ce l’ha, non è una questione politica da poco. Poi non ci si lamenti se la “vox populi” vuole che le politiche ambientali di questo Comune le faccia Hera. Ed infatti la raccolta differenziata (un dato a caso) ha subito un imbarazzante stop dopo un incremento a doppia cifra nelle due legislature precedenti. Nonostante la riduzione complessiva dei rifiuti, siamo oggi fermi al 52%: ben lontani quindi da quel 65% che era obiettivo di legge per il 2012 (Rovigo è al 66%). Ecco, io un po’ di fondi li avrei piazzati nelle politiche ambientali, ma forse qui mancavano proprio le idee. Come, pescando a caso fra le tante istanze venute alla luce in questi mesi, li avrei posti a sostegno dell’associazione che non riesce a tenere aperta la casa famiglia per madri in difficoltà, o nell’accoglienza dei senza tetto (anche quelli clandestini), nel trasporto pubblico locale (il bus per Cona è già rifinanziato?) o in politiche sul turismo innovative.

Siamo poi arrivati al termine dell’esperienza del Decentramento. E’ colpevole il mondo politico che ha sacrificato all’altare dell’antikastismo proprio (e solo) le Circoscrizioni, perdendo un enorme capitale umano, sociale e politico in cambio di ben magri risparmi sulla spesa. E’ colpevole chi non ha saputo opporsi a questo scempio democratico (mi ci metto anche io) ma è colpevole questo Comune che non ha saputo neanche ipotizzare una transizione verso forme di partecipazione alternative. Perché, mi spiace dirlo, non basta presentare il bilancio in sala estense o mettere le slide sul sito del comune per poter dire di aver fatto partecipazione.

Sia chiaro: non sto quindi mettendo in dubbio la bontà “contabile” del Bilancio di quest’anno. Mi pongo invece dei dubbi rispetto all’operato di una legislatura che è parsa più di gestione da buon padre di famiglia che di progetto e trasformazione della città. Forse c’era bisogno di un po’ di ragioneria, ma ci sono state occasioni che non costavano nulla dal punto di vista della spesa: il RUE e il POC, ad esempio, sembravano messi lì apposta per permettere di continuare un processo di alleggerimento della pressione edilizia sul territorio cominciato col PSC, e che poteva determinare una reale svolta verso la rigenerazione urbana della nostra città. Occasioni mancate insomma, soprattutto in questo momento di stallo del mercato immobiliare.

Di fronte alla crisi, di fronte all’incapacità politica di chi governa il paese, c’è anche bisogno di segnali che vadano oltre la buona amministrazione e che diano appunto uno sguardo verso un orizzonte più ampio. C’è bisogno di vera politica, come, perché no, c’è bisogno di sinistra.

Nel mio piccolo mi sento oggi orfano non solo di un partito ecologista serio, ma anche dello spirito dell’Ulivo (quello inclusivo e rispettoso delle identità del ‘96, non certo quello fagocitatore e leaderista del PD di oggi, sia chiaro). Oggi che non esiste più nessun Centro Sinistra (forse per fortuna), fatico anche a riconoscermi nell’azione di questa giunta che pure ho sostenuto ormai 5 anni fa. Da libero battitore resto in attesa di capire se si può ricostruire qualcosa a sinistra. Almeno dal basso.

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Il laboratorio, fiaba macabra di disordinaria burocrazia

Complici le festività che incombono, vorrei raccontarvi una delicata fiaba natalizia, dalla quale il lettore avveduto trarrà agevolmente una morale illuminante. Dunque, mica tanti giorni fa, in una città lontana lontana che chiameremo col nome di fantasia di Ferrara, c’era un giovane disoccupato che non riusciva a trovare lavoro perché il paese nel quale viveva era in crisi, le imprese chiudevano, molte famiglie faticavano ad arrivare a fine mese e perfino gli immigrati tornavano a casa loro perché là si stava meglio. Un giorno il giovane ebbe un’idea: metterò su un bel laboratorio di restauro mobili, si disse; il lavoro mi piace, sono bravo a farlo e potrei ricavare una stanzetta piccina piccina picciò dentro al magazzino che sta dietro la casa che al mercato mio padre (e anche mia madre) col sudore della fronte comprò, facendosi un coso che non si può dire nelle favole per via dei bambini che ascoltano, ma era un coso della madonna, e pagandoci sopra la Bucalossi, l’Ici, l’Imu, la Tares, la Tasi e tutte le altre tasse che gli uomini cattivi che governavano il paese avevano imposto alla popolazione, usando il denaro per comprare, tanto per dirne una, le mutande verdi di uno di loro, che intanto che si comprava le sue mutande coi soldi del mio papà e della mia mamma andava con altri come lui nelle piazze ad urlare lo slogan Roma ladrona, che se se ne stavano zitti tutti quanti ci facevano più bella figura. Così non sarò costretto a comprare un capannone, pensava il giovane ingenuo, che tanto i soldini non ce li ho e comunque la banca non mi darebbe nessun prestito visto che sono disoccupato e non posso darle garanzie.
Detto fatto, il giovane intraprendente si presentò baldanzoso agli uffici comunali della immaginaria città di Ferrara ed espose il suo progetto. Un comprensivo impiegato lo stette pazientemente ad ascoltare e poi gli disse dolcemente: giovanotto, nella stanzetta piccina piccina picciò che sta dentro al magazzino che hai dietro la casa che al mercato tuo padre (ma anche tua madre) col sudore della fronte comprò manca il bagno, e non puoi avviare un’attività se non sai dove andare a fare pipì. Poco male, rispose il giovane un po’ meno baldanzoso; ho la casa dove abito a dieci metri, se mi scappa vado nel bagno della mia abitazione che al mercato eccetera eccetera. Giovanotto, giovanotto, scosse la testa il comprensivo impiegato, così non va bene: se un domani tu dovessi cedere a qualcun altro l’attività di restauro che vorresti fare nella stanzetta piccina piccina picciò che sta dentro al magazzino e tutto quel che segue, questo qualcun altro dove andrebbe a fare pipì? Allora il giovane, molto meno baldanzoso, argomentò argutamente: basterebbe che mi deste un’autorizzazione ad personam, che tanto in questi anni c’è stato chi si è fatto le leggi, ad personam, e nessuno ha fatto una piega, anzi la gente continua a stravedere per questo tizio e alle ultime elezioni abbiamo dovuto chiudere a chiave in camera da letto la nonna che sennò andava a votare anche lei per quel soggetto lì. Se chiudo l’attività voi revocate l’autorizzazione e la stanzetta piccina piccina picciò con tutto quel che ci tiene dietro ritorna a far parte del magazzino. Non si può fare, replicò bonario ma severo l’impiegato comprensivo. E un’autorizzazione temporanea?, tentò il giovane molto ma molto meno, anzi quasi per nulla baldanzoso: mi date tempo tre anni per capire se il lavoro può andare o se mi tocca cercarmene un altro, poi se decido di continuare mi trovo un nuovo laboratorio, magari ci posso investire i soldini che ho guadagnato. Niente da fare, obiettò inflessibile l’impiegato comprensivo. Ma così non incentivate mica i giovani a trovarsi un lavoro e non favorite neanche tanto la nascita di nuove imprese, che con la crisi che c’è gli imprenditori si impiccano alle capriate per disperazione e gli operai aspettano che quelli delle pompe funebri liberino il posto dentro al cappio per risparmiare sulla corda e lo Stato spende un sacco di soldi in cassa integrazione e anche in autopsie, che non è neanche un bel vedere, disse il giovane ormai avvilito. Hai ragione figliolo, concesse magnanimo l’impiegato comprensivo, ma è la legge. Vedi? Oltretutto abiti in una zona di rispetto agricolo, e anche volendo non potremmo trasformare in laboratorio la stanzetta piccina piccina picciò e compagnia cantante. Quindi statti buono, non rompere l’anima alla gente che lavora e fanbrodo te e la tua stanzetta, che se ti schiodi col culo dalla sedia avrei anche delle cose più importanti da fare.
Fine della favolina di Natale, amico lettore. La morale è semplice semplice. Nelle favole si può fare tutto: cavare nonnette ancora vive dalla pancia di un lupo, sconfiggere orchi, fare la bella vita sposando principi azzurri bellissimi senza essere costrette a darla ogni tre per due a vecchiacci bavosi pieni di grinze come capita invece alle fanciulle in fiore nella vita di tutti i giorni, ma non si riesce a far fare alla burocrazia italiana qualcosa di sensato. Buone feste.

buskers

Crollano i turisti i città (-25% in 4 anni) ma il terremoto non c’entra

di Lanfranco Viola

Gentile Direttore,
come sempre accade, tutti cercano di infilare la parola “turisti” nei loro discorsi, poi nessuno riesce a fare “due più due uguale quattro”, quando esamina il tragico declino dell’industria dell’ospitalità a Ferrara.
Giovedì 12 dicembre è apparso su un quotidiano cittadino, a pagina 2, un articolo dal titolo “Spettatori e visitatori in calo. Crollano i musei e il Comunale”. Sottotitolo: “I dati dell’ufficio statistica del Comune disegnano un quadro allarmante”. Articolo con tanti numeri, ma senza nessuna analisi (come sempre), tanto per non esporsi troppo.
Di quei numeri ne riprendo qualcuno:
Nei musei i visitatori sono passati dai 199.846 del 2007 ai 147.091 del 2011 (prima del terremoto) cioè -52.751 pari a meno il 25% in soli 4 anni. Complimenti all’assessore ai musei.
Al castello Estense i visitatori sono passati dai 123.945 del 2007 ai 99.550 del 2011 (sempre prima del terremoto) cioè – 24.395 sempre meno circa il 25% in soli 4 anni. Complimenti ai funzionari (?) provinciali che gestiscono il castello.
Visto che tale calo di circa il 25% è analogo alla dimensione della disastrosa riduzione delle presenze turistiche in città, non credo che ci voglia un grande acume, per mettere in relazione i due fatti. Nessuno però lo fa, tanto meno l’estensore dell’articolo citato, anche perché se lo avesse fatto, avrebbe dovuto stabilire anche una seconda relazione tra tale drammatica riduzione e la inconsistente promozione svolta dagli enti locali negli anni in oggetto, a favore dell’industria turistica locale.
E’ stato proprio in questi anni che qualche Arci-esperto (ben retribuito) si è persino inventato la campagna pubblicitaria delle Emozioni Tipiche Garantite (vedi) che, costate oltre 250.000 euro, si sono rivelate un flop colossale.
Gli errori si pagano, prima o poi; peccato che a pagarne le conseguenze sia stata l’economia della città e sopratutto quella del suo centro storico.
Centinaia di migliaia di turisti in meno, nel corso degli anni, ha significato molte, molte centinaia di migliaia di acquisti in meno nei suoi negozi e ristoranti.
Desidero ricordare qui, se mai ce ne fosse bisogno, che i turisti, specialmente stranieri, non fanno acquisti ai supermercati delle Coop e non pranzano ai kebab.
Queste, fatte qui, sono (secondo me) le ovvie conclusioni a cui anche un giornalista non particolarmente ferrato sarebbe potuto giungere, con un po di onestà.
In presenza di tale grave lacuna, ho provato io a colmarla con queste brevi note, nella speranza che il suo nuovo quotidiano online voglia pubblicarle e vengano anche commentate.
Cordiali saluti
arch. Lanfranco Viola

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Per l’ambiente servono strategie e alleanze d’impresa su scala nazionale

Il sistema dei servizi pubblici locali, nonostante sia al centro dell’attenzione da molti anni sia sul piano delle riforme possibili sia sul suo ruolo, evidenzia posizioni contrastanti; manca una condivisione di politica industriale, di sviluppo sociale ed economico dei territori. Deve crescere la condivisione del servizio pubblico locale in una logica di trasparenza e di sviluppo della qualità. L’evoluzione del sistema in questi anni è stato costruito grazie all’intensa attività delle imprese di servizi pubblici ambientali che hanno sviluppato strategie aziendali e innovativa politica industriale, ma è mancato un quadro di regolazione e di vigilanza che ne potesse guidare gli sviluppi.
In alcune regioni, e sicuramente in Emilia Romagna, le concentrazioni d’imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita della imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica. L’obiettivo generale deve però essere quello di costruire a livello nazionale grandi imprese o alleanze tra imprese per favorire occupazione ed investimenti in un settore ambientale sempre più delicato per la tutela dell’interesse pubblico nel rispetto degli indirizzi comunitari. Si rileva come la definizione delle regole siano in palese ritardo nel sistema del ciclo idrico integrato, ma anche, ed è ancor più grave, per la gestione dei rifiuti.
Si ritiene si debba allora affrontare il tema non solo sul livello politico, ma debba crescere il confronto sul delicato e prioritario ruolo della impresa di servizi pubblici (indipendentemente dal fatto che si tratti di pubblica o privata). L’impresa di servizi pubblici, infatti, è una impresa che deve operare economicamente perseguendo fini collettivi e risultati sociali e quindi non è rappresentabile solo dall’efficienza e dal profitto, ma si deve valutare dal contributo al benessere della società. L’obiettivo prioritario è costruire grandi imprese o alleanze tra imprese che favoriscano occupazione ed investimenti in un settore ambientale sviluppato.

In alcuni territori (sicuramente in questa regione) le concentrazioni d’imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita della imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica. Le imprese con interessi collettivi (e dunque quelle che operano nei servizi pubblici) devono rispondere ad una utilità sociale e garantire la congruenza delle prestazioni, le condizioni di sviluppo tecnologico, la verifica continua della qualità attesa ed erogata, la sostenibilità ambientale.
Il bisogno di “governance” nei servizi pubblici ambientali ha dunque portato con sé anche elementi di conflitto tra interessi contrapposti in cui a finalità sociali e di miglioramento della qualità della vita si intersecano e talvolta si contrappongono esigenze economiche di tipo societario. La distinzione dei ruoli ed il sistema del controllo devono dunque essere questioni prioritarie e centrali. Il settore dei servizi pubblici ambientali in generale ed il ciclo dell’acqua in particolare richiedono che siano garantiti forti principi di regolazione per favorire la prevalenza del sistema integrato e della gestione unitaria. Si tratta allora di rivedere l’intero ciclo dei servizi in una logica complessiva e non di minor costo, orientata verso economie di scala e progetti integrati (quantità adeguata alla domanda e qualità compatibile con la economicità). Deve essere favorita la regolamentazione del mercato attraverso il ricorso agli strumenti di governo del territorio (pianificazione, programmazione, autorizzazioni, etc), con la predisposizione di accordi di programma, il supporto tecnico-informativo (analisi, ispezioni, controlli, etc) e la predisposizione di incentivi-disincentivi economici. In sintesi ben vengano le gare solo se il principio da perseguire sarà il miglior servizio per il cittadino ed il maggiore rispetto dell’ambiente (e della preziosa risorsa idrica bene di tutti).

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Alla ricerca del Proust perduto

Nella quasi incredibile presunzione umana non si può dire che i francesi siano secondi a nessuno. Come gli italiani, sono un popolo fatto di attrazione per i miserabilia e nello stesso tempo da questa loro naturale disposizione creano opere di una grandezza ineguagliata. Ritornare a Parigi con la ferma convinzione di vedere luoghi e monumenti da sempre accuratamente evitati quali la tomba di Napoleone o il Sacro Cuore (ah! La presunzione degli intellettuali d’antan…) non mi ha però impedito la decisione di andare a rendere omaggio alla tomba del Grande secondo l’antica esortazione foscoliana. Dopo avere l’anno scorso traversata mezza Francia per vedere la casa della “tante Leonie” e ammirare le madeleines ovvero il biscotto della memoria, dopo aver meditato sul cappotto di Marcel al musée Carnavalet, dopo essere entrato nella hall del Grand Hotel di Combray protetto dall’immagine delle jeunes filles en fleur, decido tra una mostra straordinaria sui gioielli di Cartier che sarebbe tanto piaciuta allo scrittore e la visita al Musée Rodin di attraversare Parigi per recarmi in commossa meditazione sulla tomba dello scrittore. Arrivo dunque al Père-Lachaise il cimitero monumentale di Parigi dove migliaia di giovani vanno in commosso e tribale pellegrinaggio alla tomba di Jim Morrison e mi avvicino al burbero guardiano che con fare sbrigativo mi dice di guardare sui tabelloni ma che comunque la tomba è molto lontana. Gambe in spalla consulto il cartellone e trovo che la tomba 90 (quella di Proust) è nell’appezzamento 85. Nulla. La tomba mi si rifiuta forse perché Marcel non sa che farsene di un vecchio suo lettore che ha per lui solo ammirazione e amore. Ai numerosi visitatori chiedo con fare umile se sapessero indicarmi la via: stupore e sconcerto. “Proust? Quoi? Poi deluso e irritato scendo ad un’uscita secondaria (tenete bene presente “uscita” e qui, fuori, trovo un addetto che ‘vende’ la mappa del cimitero… Pensate allora se a Ravenna non vi sapessero indicare la tomba di Dante o, a Milano, quella di Manzoni. Capisco che per un turista qualsiasi Proust è “un nome vano sanza soggetto” ma qui si rischia il ridicolo o meglio l’offesa e l’umiliazione a cui la cultura da sempre è soggetta e specialmente in questo momento storico. Se il nome di Proust anche nella cultura medio-bassa in Francia non significa più nulla o solo un ricordo cancellato sicuramente qualcosa non va. Come l’ennesimo scandalo che il 16 dicembre Adriano Prosperi denunciava su “La Repubblica” a proposito delle miserande condizioni in cui sono ridotte due tra le più importanti biblioteche d’Italia: quella della Sapienza di Pisa e quella storica di Modena. La stessa indifferenza per uno scrittore -che letteralmente ci ha obbligato a prendere coscienza di ciò che sta al di sotto di ciò che vogliamo ricordare- è la stessa che rende le case dei libri, patrimonio dell’intelligenza umana, luogo superfluo. Che dire allora dell’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria. Un gruppo sempre più ristretto di persone può comprare tutto e le vetrine di rue Saint-Honoré o degli Champs Elisées superbamente mettono in rilievo che la vera differenza tra gli “infelici molti” per usare una famosa distinzione di Elsa Morante (e qui ci si può riferire ai ricchi volgarotti che escono carichi di pacchi delle marche più famose) e i “felici pochi” (ch s’incantano di fronte a un libro antico o a una miniatura, a un quadro senza la necessità del possesso) sta nel lusso esibito e non in quello tanto più sottilmente élitario che è il lusso della mente a cui, purtroppo, ancor meno persone possono accedere. Perfino il lusso dei poveri diventa speciale allorché si trasformano i Campi Elisi in una fiera del mangiare e del comprare ignobili cianfrusaglie in linde casettine bianche che coprono sui due lati più di due chilometri della via tra lo sfavillio dei platani trasformati dai leds in bicchieri di champagne. E proprio in quel regno insopportabilmente volgare, il luogo del Lido o delle notti di Montmartre che non torneranno più perché hanno pero il fasto del proibito, ecco improvvisamente Proust che mi aveva negato la vista della sua tomba riapparire trasformato in un direttore d’orchestra, Ivo Pogorelich che in un concerto titanico mette in relazione e fa dialogare Chopin (nella mia giovinezza ricordato come un musicista per signorine!!!) con Liszt e il suo wagnerismo. Allora il Proust perduto mi viene incontro e mi fa capire che anche i miserabilia, specie della politica, sono il terreno su cui si fonda il genio umano. Dedicato quest’ultima riflessione a Grillo e a Forza Italia, negatori dei valori rappresentati dai senatori a vita. E una parola mi viene spontanea, tanto amata dai politici. Se credete che noi, popolo, paghiamo i rappresentanti della cultura, allora vergognatevi! Ma davvero.

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La realtà e il suo doppio nel nuovo romanzo di Gian Pietro Testa

“Quando non ci sono più la fantasia, l’immaginazione, l’utopia a guidare e a cercare di modificare il nostro cammino”, ha scritto il direttore su queste pagine qualche giorno fa, la conoscenza si sfarina, la curiosità si fa muta e, credo, si comincia un po’ a morire. Alla presentazione del romanzo Il rocchetto di Ruhmkorff di Gian Pietro Testa alla libreria Ibs, è avvenuto il contrario: ogni libro di Testa è, per la città, un guizzo dell’intelletto, il risveglio dei dormienti e una grande occasione per mettere insieme memoria e interrogazione.
L’autore, intervistato da Fabrizio Fiocchi, ha presentato la sua opera che non può essere riassunta in una trama qualunque, perché più che azione ci sono pensiero, immaginazione, fantasia a guidare i protagonisti. I personaggi principali sono tre, una donna e due uomini, in qualche modo intrecciati, ma potrebbero essere sei, nove, dodici. Chi non ha un suo doppio? Un altro ruolo che ogni tanto recita, una coscienza che interviene, un prima e un dopo, un sé manifesto e uno nascosto, un pensiero che consola e uno che spariglia? Michelangelo, che si rifugia nella pittura, quindi in un’altra dimensione, per esprimersi a pieno, ha poche altre compagnie se non Michelangelo due, ‘il suo fedele fantasma’, il suo doppio per nulla simile (altrimenti sarebbe inutile), ma saggio, sarcastico, caustico e lucidissimo.
Amico di Michelangelo è Giuseppe Garibaldi autonominato Fraschenor il muto, un uomo che ha scelto di non palrare più, o meglio, di interloquire solo a certe condizioni: con Dio, che tanto non risponde, con Idalgo Pistolini, manichino simbolo dell’uomo politico ‘buono per tutte le stagioni’ a cui rivolgere le contumelie peggiori e con Michelangelo, ma solo via e-mail. Il vantaggio del silenzio? “non si possono dire bugie” pensava Fraschenor.
Anche Fraschenor ha bisogno di rifugiarsi altrove, un luogo fisico che è anche una stanza della mente: la tundra, cioè il suo giardino, in cui immagina di essere in esilio volontario dando le dimissioni da italiano. Da qui scrive lettere a Michelangelo, suo unico contatto con il mondo.
E poi c’è Wanda, alla ricerca di un cambiamento, di un ruolo diverso, di una consolazione, di risposte dopo tante domande, soprattutto a se stessa. Wanda, a differenza di Michelangelo e Frachenor, è giovane, agisce e lavora. Non un lavoro qualsiasi, ma una specie di espiazione, una via per uscire dall’indifferenza in cui era caduta dopo un grande dolore che tutti gli altri, per primi i genitori, avevano trattato con pesantissima indifferenza.
Wanda viene assunta in una residenza per anziani, accudisce gli ospiti amandoli, cerca di alleviare le sofferenze altrui e anche un po’ la propria donandosi.
Una domenica mattina di giugno, la ragazza decide di andare al mare, così anche Michelangelo che intende dipingere in riva al mare, ha già abbozzato un quadro: l’ultima cena sull’ultima spiaggia. Quest’opera esiste davvero, perché Testa non entra nel romanzo soltanto attraverso i personaggi per esprimere una critica sociale e politica sempre molto esplicita, entra anche ‘iconicamente’ attraverso il quadro, mostrato durante la presentazione e di cui lui stesso è autore. Non solo, chi scrive entra nel romanzo rivolgendosi direttamente al lettore e facendosi personaggio a sua volta, testimone della vita di Fraschenor, suo interlocutore.
Tutto è doppio, anche il finale dove la morte sballotta la vita fra le acque del mare fino ad avere la meglio. E invece no, una svolta beffarda ribalta tutto, discolpa chi appariva colpevole di fronte alla legge e l’autore dichiara in prima persona la soluzione letteraria che, tuttavia, definitiva non è.

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A Ferrara è in pericolo il sistema industriale

La Camera di Commercio ha pubblicato nei giorni scorsi la quarta rilevazione congiunturale di quest’anno sull’andamento dell’economia provinciale, riferita al terzo trimestre 2013.
Non ci sono novità clamorose rispetto alla rilevazione precedente, effettuata a settembre, eppure forse vale la pena di tornarci su, perché alcuni dati meriterebbero a mio avviso un’attenzione – e una discussione – che finora non hanno avuto.
Si stima nel 2013 a Ferrara una caduta del valore aggiunto prodotto pari a – 1,5%, perfettamente in linea con la stima relativa all’economia nazionale, ma peggiore di quella regionale (-1,1%).
Ciò in cui però Ferrara si distingue di più è il dato relativo al valore aggiunto prodotto dall’industria, per il quale si stima un calo quest’anno del 4,2%, contro il 2,6% nazionale e il 2,2% regionale.
Questo significa che, in un quadro di difficoltà generale, il nostro sistema industriale sta soffrendo molto più della media.
Si potrebbe pensare che questo dipenda soprattutto dalla piccola dimensione delle imprese presenti sul nostro territorio, dove è quasi totalmente assente l’impresa industriale di medie grandezza, ma a ben vedere questo è vero solo in parte.
C’è un altro dato, infatti, per il quale Ferrara si distingue dalle medie regionali e nazionali, in maniera ancora più clamorosa: è quello che riguarda l’andamento delle esportazioni. Un calo del valore delle esportazioni del 7,5% nei primi nove mesi stride molto infatti con una media regionale in crescita del 2%, mentre quella nazionale è di poco sotto lo zero (-0,3%).
Se poi andiamo a vedere quali sono i settori maggiormente in difficoltà, ci accorgiamo che si tratta di quelli sui quali è concentrata la grande industria ferrarese: meccanica, automotive e chimica.
Insomma, quello che emerge è che la distruzione delle risorse industriali sta procedendo in provincia di Ferrara con un’accelerazione ben maggiore di quella osservata nel resto del Paese e anche in territori limitrofi e riguarda tutto l’apparato industriale, non solo quello tradizionalmente più fragile per dimensioni e per posizionamento di mercato.
Cercare di mettere in campo qualche contromisura dovrebbe diventare una priorità assoluta, attorno alla quale concentrare l’impegno di tutte le forze sociali e istituzionali, prima che sia troppo tardi.
Ma per il momento sembra non esserci neppure un’adeguata consapevolezza del problema.
A meno che non si pensi, irresponsabilmente, che Ferrara possa fare a meno di un sistema industriale.

calcino

Noi che…

Un video in rete, racconta la storia dei mitici anni sessanta. Il video, condito con un’accattivante colonna sonora, ricorda gli oggetti, i temi, i luoghi e i comportamenti che hanno caratterizzato una generazione. Il filo conduttore “noi che” precede una lunga serie di frasi che caratterizzano gusti, giochi, modi di vivere, sogni, ingenue esplorazioni di un mondo nuovo, fatto di joux box, di mangianastri, di beni alimentari industriali. E’ prima di tutto l’emergere di nuovi beni di consumo a segnare la percezione di un’era di libertà e di benessere e di un mondo nuovo. “Noi che i pattini avevano 4 ruote e si allungavano quando il piede cresceva. Noi che il Ciao si accendeva pedalando. Noi che sentivamo i 45 giri nel mangiadischi. Noi che le cassette se le mangiava il mangianastri, e ci toccava riavvolgere il nastro con la bic. Noi che c’era la Polaroid. Noi che si andava in cabina a telefonare”. Giochi semplici: “Noi che giocavamo a nomi, cose, animali, città e la città con la D era sempre Domodossola. Noi che ci mancavano sempre quattro figurine per finire l’album Panini. Noi che suonavamo ai campanelli e poi scappavamo”. Nuovi segni di benessere che oggi suscitano tenerezza: “Noi che ci sbucciavamo il ginocchio, ci mettevamo il mercurio cromo. Noi che la Barbie aveva le gambe rigide. Noi che quando a scuola c’era l’ora di ginnastica partivamo da casa in tuta. Noi che l’unica merendina era il Buondì Motta e mangiavamo solo i chicchi di zucchero sopra la glassa”.

Tempi di nuovi spazi di libertà intravisti piuttosto che conquistati: “Noi che ci emozionavamo per un bacio su una guancia”. Tempi in cui il senso della disciplina restava più solido di quanto al tempo potesse apparire agli adulti: “Noi che se a scuola la maestra ti dava un ceffone, la mamma te ne dava due. Noi che se a scuola la maestra ti metteva una nota sul diario, a casa era il terrore. Noi che le ricerche le facevamo in biblioteca, mica su Google. Noi che si poteva star fuori in bici il pomeriggio. Noi che se andavi in strada non era così pericoloso”.

Un filo velato di nostalgia si scorge dietro ogni frase-ricordo. Questo video tratta un tema universale: il bisogno di definire chi siamo, attraverso scelte che non siano solo nostre, ma che ci accomunino ad altri come noi. L’identità passa attraverso la possibilità di riconoscersi in tratti comuni, attraverso la ricerca di elementi che segnano differenze, caratteristiche peculiari, specificità presunte o reali.
Noi siamo ciò che narriamo di noi stessi. Attraverso il racconto delle nostre esperienze, troviamo ad esse un senso. Raccontare è un aspetto fondamentale della vita umana che accomuna tutte le culture. Per mezzo di storie, fin dalla tenera età riconosciamo dei modelli di comportamento. Attraverso le storie comprendiamo il mondo in cui viviamo e possiamo mettere in comune le esperienze; con le storie riusciamo a far emergere significati che molto spesso sono immersi in un “rumore di fondo” di difficile interpretazione.
Ogni generazione ha il proprio patrimonio di storie da raccontare. Le storie emergono attraverso la memoria e il confronto tra un ipotetico “noi” e “loro”. Evitiamo di pensare, quindi, che ora tutto è perduto e che non resta che il passato. Il problema è che il presente è sempre più difficile da interpretare rispetto a ciò da cui siamo usciti e che possiamo guardare a distanza.

 

Maura Franchi, laureata in sociologia e in scienze dell’educazione, vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Storytelling e social media marketing, Marketing del prodotto tipico.
Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, i processi della scelta e i comportamenti di consumo, con una particolare attenzione ai consumi alimentari, le forme di comunicazione del brand.

Tra le pubblicazioni recenti:
2013, “Social network: risorse per la collaborazione?”, La società degli individui, n. 45, gennaio
2012, “Le tecnologie delle relazioni: una via individuale alla socialità”, La società degli individui, n. 44, ottobre
2012, “The contents of typical food products: tradition, myth, memory. Some notes on nostalgia marketing”, in Ceccarelli G., Magagnoli S., Grandi A. (eds.), Typicality in History: Tradition, Innovation and Terroir, European Food Issues, P.I.E. Peter Lang – Bruxelles.
2011 (con Schianchi A.), Scegliere nel tempo di Facebook. Perché i social network influenzano le nostre preferenze, Carocci, Roma
2011, “Food Choice. Beyond the chemical content”, International Journal of Food Science and Nutrition, 1-12.
2009 (con Schianchi A.), Scelte economiche e neuroscienze. Razionalità, emozioni, relazioni, Carocci, Roma
2009, Il cibo flessibile. Nuovi comportamenti di consumo, Carocci, Roma.
2008, Raccontare il consumo. Strumenti per l’analisi, Franco Angeli, Milano.
2007, Il senso del consumo, Bruno Mondatori, Milano.

Contatti: maura.franchi@unipr.it

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Renzi senza portaborse trascina il suo trolley

Come era facilmente prevedibile il “modello papa Francesco” sta facendo proseliti. Ieri, al termine della direzione Pd che ha sancito l’insediamento di Matteo Renzi alla segreteria del partito, il neoeletto ha conversato con i giornalisti mentre lasciava la sala, trascinandosi dietro il proprio trolley senza l’aiuto di una figura che ha iconograficamente segnato decenni di vita politica italiana: il portaborse. Gli inviti alla sobrietà e alla semplicità del nuovo pontefice non solo fanno breccia fra le gente comune, ma in qualche modo impongono anche ai notabili (siano essi politici o dirigenti d’altro tipo) di rivedere i loro comportamenti. Per Renzi non è una novità assoluta, ma ora pure tanti suoi colleghi, per convinzione o per opportunità, si stanno adeguando. Ben vengano, dunque, quei gesti simbolici, fossero anche consapevolmente ostentati (la borsa, appunto, portata a mano; la vecchia auto in luogo dell’ammiraglia; lo scardinamento dei protocolli) se servono una buona causa: quella di ricondurre tutti a una dimensione di normalità e dunque, in un certo senso, di uguaglianza.

Ascanio Celestini riporta in scena l’operaio e la sua “Fabbrica”

Pochi elementi sul palco, per la precisione due: una scenografia minuta e un attore che lo è altrettanto. Tutto il resto è riempito dalle parole, un fiume in piena. Siamo al Teatro dei Fluttuanti di Argenta e le parole sono quelle che tessono il testo teatrale di Fabbrica, lo spettacolo datato 2002 che Ascanio Celestini oggi riporta nei teatri. Lo fa da solo e lo fa raccontando perché, come spiega lui stesso ai ragazzi di Share for Community e agli spettatori di un “aperitivo fluttuante” che anticipa la rappresentazione, “il ‘teatro di narrazione’ non è un genere a sé, tutti gli spettacoli narrano storie e non c’è tanta differenza tra quello che faccio io e chi porta in scena Molière. Quel che ci differenzia veramente è che nel mio spettacolo non c’è una compagnia di attori, ci sono io”.

Autore, regista e attore appunto, per un monologo della durata di un’ora e mezza, ma che scorre via in un battito di ciglia. Una fabbrica di inizio ‘900, di quelle storiche e stoiche, è la vera protagonista. Una “istituzione” vissuta attraverso la biografia quotidiana di tre generazioni di operai personificati nei tre Fausto di cui si narra: lo stesso nome per un nonno, un padre e un figlio, primi attori di vicende di vita bizzarre, che si intrecciano con la Storia, prima quella con la S maiuscola e poi quella della Fabbrica. La voce invece è di un narratore esterno che di quell’enorme edificio di produzione ha vissuto la decadenza e ascoltato gli aneddoti: è lui che dedica alla madre (e ai presenti) quell’unica lettera che non ha potuto scriverle il 17 marzo 1949. Lo spettatore è rapito nell’ascolto, tanta è l’autenticità trasmessa, perché “l’attore deve entrare nel proprio oggetto, deve avere esperienza di quello di cui sta parlando. Anche se il teatro è finto anche quando è vero” – afferma lo stesso Celestini.

Un teatro che mescola invenzione e realtà dunque, per un autore che, interrogato su una posizione politica che spesso gli viene attribuita, specifica: “Mi hanno sempre affibbiato una voce partitica, non è così. Sempre che oggi si possa parlare di ‘partiti’: negli anni ’50 si votava ad esempio quello Comunista, ma non si votava la persona, si votava un’idea, una visione del mondo. Ora non è più così”.

Riferimenti:
Teatro dei Fluttuanti di Argenta
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Voltini castello

I voltini del castello, “un’indecenza”. Ma la Provincia prende tempo

“Il problema è lampante. I voltini così come sono risultano indecenti”. Davide della birreria Giori non fa giri di parole. “Servirebbe un intervento urgente. E’ uno dei passaggi più centrali e caratteristici della nostra città, così conciati sono anche un cattivo biglietto da visita per i turisti”.
Della questione, ferraraitalia si è occupata nei giorni scorsi segnalando la stato di degrado dello storico attraversamento che mette in comunicazione piazza Savonarola con piazza Castello.
“Sono vergognosi” aggiunge un altro commerciante della zona che però preferisce mantenere l’anonimato, ma non manca di segnalare che le bici posteggiate lì sotto sono preda quotidiana dei ladri che, specialmente d’estate, prendono di mira preferibilmente quelle lussuose dei turisti, “roba da migliaia di euro in qualche caso: ho visto gente piangere per questo”, afferma.
“Personalmente sarei anche disposto a contribuire al risanamento e all’illuminazione, per un fatto di decoro e di amore per la città” assicura Ilario Milani della tabaccheria che ha la vetrina proprio sotto il voltino di sinistra, quella “della biscia”. “Qui accanto – ricorda il tabaccaio – un tempo c’era la vendita di trippa e di là il mercato del bestiame. E’ un patrimonio storico della nostra città, è un peccato che siano ridotti così”.

Voltini castello
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“In effetti è sorprendente tanta trascuratezza in pieno centro in una città così bella – dichiara il veronese Pierluigi Massagrande, di passaggio a Ferrara – devo ammettere che Verona è più curata, situazione del genere da noi c’erano forse 20 anni fa, ma ora sono state tutte risanate”.
“C’è pure il problema dell’illuminazione – conferma Simona Sivieri dell’Hostaria Savonarola – di sera è tutto buio, qualche luce rallegrerebbe la piazza rendendo suggestivo l’effetto architettonico”.
Al riguardo l’assessore Aldo Modonesi riconosce che il problema c’è e che l’Amministrazione comunale sarebbe disposta a contribuire, ma la competenza è della Provincia. Davide Nardini, che ne è l’assessore ai Lavori pubblici, da noi interpellato la scorsa settimana ha promesso una risposta. La città l’attende.

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