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Un inverno nel Medioevo russo

da MOSCA – Inizialmente pensavo di parlarvi di alcuni testi che rappresentano una sorta di disobbedienza naturalista, un percorso dell’energia, dall’energia, con l’energia, attraverso e verso l’energia, ossia di raccontarvi del Piccolo trattato sull’immensità del mondo, Elogio dell’energia vagabonda di Sylvain Tesson o del suo più recente Nelle foreste siberiane.

Questo perché lui, che ha percorso il mondo a piedi, a cavallo, in bicicletta, in canoa e ha camminato e cavalcato nelle steppe di Asia Centrale o Tibet, conosce e ama la Russia da sempre.

Questo perché Tesson ci regala e insegna un nuovo nomadismo, un vagabondaggio gioioso, leggiadro e libero, rivolgendosi a tutti quelli che almeno una volta nella propria vita hanno sentito la necessità di evadere dalla città, dal suo caos e dall’asfalto, lontano da ogni tipo di modernità.

Questo perché lui ha cercato l’ispirazione, prima dei fatidici 40 anni, nella foresta siberiana, sul lago Bajkal, meraviglia naturale lunga settecento chilometri e larga ottanta, dove, da eremita, ha vissuto per sei lunghi e rigidi mesi. Un uomo coraggioso rimasto di fronte a spazi smisurati, abbandonati a sé stessi e con sé stessi, dove ci vogliono la forza e il coraggio che solo i solitari possono avere.

Questo perché volevo condividere con voi il senso di libertà di respirare ossigeno libero e puro, di cogliere il ritmo dei passi in armonia con quello del cuore, alla scoperta di un mondo senza limiti da parte di uno spirito senza limiti, lo stesso che potreste aver percepito leggendo Into The Wild.

Questo perché volevo sentire con voi, vivo, il tocco della natura, la bellezza di accarezzarla dolcemente e teneramente con la punta delle agili dita quasi vellutate di rosa, di toccarla dopo una lunga e forzata assenza, lo stesso tepore che si assapora quando si sfiora la persona amata che non si vede da lungo tempo perché distante nello spazio ma non nel tempo e nella mente.

Il nostro scrittore la mattina legge, pensa, fuma, disegna, spacca la legna, spala la neve, scrive. E poi magari si riserva di pattinare sul ghiaccio, di pagaiare in kayak, di provare la sauna (la sua versione slava, la banya), di camminare in mezzo alla candida neve.

Ma poi siamo incappati in Pavel Sapozhnikiv, ventiquattrenne di Mosca, che sta affrontando un’esperienza analoga nelle foreste russe, ma per motivazioni diverse. Anche qui ricorre l’idea di eremita, un giovane che si cimenta nell’ esperimento di vivere 8 mesi dimenticato dal mondo e avvolto solo da neve e freddo, come se fosse nel Medioevo. Nessun contatto con l’esterno, niente elettricità o internet. Solo la sua fattoria, lui e le sue forze fisiche e mentali, un pozzo e gli animali.

Sembrerebbe un reality ma si tratta, invece, del progetto psico-sociologico, concepito da Alexei Ovcharenko dell’agenzia di eventi Ratobor, denominato “Eroe” (vivere intorno all’anno 1100), che vuole mettere a confronto la nuova società con le difficoltà di un tempo, analizzando le differenti reazioni della psicologia umana. Il tutto è iniziato lo scorso settembre e terminerà a fine maggio.
La teoria dietro l’esperimento è quella di “tracciare i cambiamenti sociali e psicologici nelle personalità e di studiare quanto sia importante il supporto degli altri esseri umani”.
Pavel può solo cacciare, allontanarsi da casa per cercare cibo, bagno e fienile rigorosamente esterni. Deve seguire regole strettissime: nutrirsi solo di alimenti pescati, cacciati o raccolti da lui, scaldarsi avvolgendo le gambe in panni spessi, spaccare la legna, mangiare uova (vietati grano, patate e pomodori che allora non c’erano), prelevare l’acqua dal pozzo. L’obiettivo è ripercorrere il quotidiano dei suoi antenati russi che vivevano nel Medioevo in tale area, e comprenderne l’evoluzione, vivendo “da solo, nel passato”.

I luoghi sono stati interamente ricostruiti secondo i libri di storia (con il supporto dell’archeologo Alexander Fetisov, la fattoria è stata costruita usando solo materiali e tecniche che sarebbero stati utilizzati all’epoca) e, in caso di malattia che non lo metta in pericolo di vita, l’eremita deve sbrigarsela da solo come facevano i suoi antenati. Anche gli strumenti sono di quel periodo, basici. Al centro del villaggio vi è un’abitazione con tre stanze: una sorta di sala al centro con un piccolo riscaldamento a legna – focolare, un giaciglio ricoperto di pelli di animali al posto del letto, pesce essiccato e funghi appesi al soffitto, mirtilli rossi e grasso di maiale in un angolo.

Sarà interessante osservare come un uomo può sopravvivere oggi in e alla solitudine. Sommersi e circondati da informazioni e comunicazioni di ogni tipo, è difficile immaginarsi isolati. Arrivare a riuscire a restare da soli potrebbe magari farci avvicinare maggiormente a una reale decrescita felice, dove basta davvero poco, per dirla con Serge Latouche.

Resta il fatto che questo esperimento mi ricorda i libri di Mauro Corona e la sua incredibile Fine del Mondo Storto, dove scompaiono l’energia, il benessere, la modernità; dove non vi sono altri mezzi che le forze fisiche, la manualità e le conoscenze che ciascuno di noi ha della terra, della sua vita, della sopravvivenza che essa sola ci può garantire. Quasi un umile ritorno alla semplicità e alle nostre origini, dove rimarranno solo i più forti, capaci di fronteggiare la natura e la sua grandezza. Confrontandosi da pari. E altrettanto da pari rispettandosi.

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Ti amo da morire

Nella settimana di San Valentino vorrei porre l’attenzione sui sempre più frequenti fatti di cronaca che vedono come protagoniste donne che per amore si fanno maltrattare fisicamente e psicologicamente, fino ad essere letteralmente uccise.

Quando ci si ritrova all’interno di un rapporto malato, fatto di controlli, limitazioni e tendenze alla fusione, non è sempre facile accorgersene in tempo e, soprattutto, trovare il coraggio di uscirne. Un misto tra paura, senso di colpa e dipendenza affettiva caratterizza in genere queste relazioni.

Una mia paziente riferisce: “Pensavo di essere responsabile di ciò che mi accadeva, lui mi ripeteva “se perdo le staffe è per colpa tua!”. Spesso si inizia da una violenza psicologica in cui il partner umilia e sminuisce la compagna facendole credere e convincendola che non vale nulla. Poi dalle offese verbali, che si fanno sempre più veementi, si può passare alle mani. In breve tempo ci si può ritrovare in una gabbia da cui si ha il terrore di uscire. La vergogna di raccontare ciò che si subisce prevale.

La dipendenza affettiva è oggi sempre più diffusa: essa si sviluppa più facilmente in soggetti con scarsa autostima e che hanno vissuto situazioni di abbandono, maltrattamenti di vario genere, violenze fisiche e psichiche solitamente subite nell’infanzia. Sono persone di solito molto dipendenti dal giudizio degli altri e dalle valutazioni altrui: al fine di star bene con se stessi, cercano negli altri chi può dar loro quel senso di autostima che a loro manca; e che, di conseguenza, possono diventare veri e propri ostaggi nelle mani di chi dimostrerà loro affetto o approvazione. Per questo possono incontrare la violenza travestita d’amore.

Quando ci si muove nel territorio dell’amore è difficile orientarsi e individuare luoghi sicuri da cui guardare l’orizzonte. Questo perché, lo sappiamo tutti, è davvero complesso dare una definizione di ciò che è l’amore. Tuttavia, dinnanzi alle ormai innumerevoli tragedie cui assistiamo e che terminano con la morte o il ferimento di una donna, più raramente di un uomo, e il cui movente viene individuato come “passionale”, non possiamo fare a meno di chiederci di che passione si tratti e che cosa essa abbia a che fare con l’amore. Sicuramente, un sentimento che conduce all’annientamento psicologico o fisico dell’altro, se assume il nome di amore, lo fa in modo malinteso, oscuro,  usurpando uno spazio che non gli spetta. Possiamo parlare di un amore “malato”, che spinge ad agire in modo ossessivo e violento, fino al punto, in troppe occasioni, di annullare quello che si ritiene l’oggetto dell’investimento amoroso, togliendogli la vita o impedendogli di vivere.

C’è qualcosa nell’amore che concerne l’eccesso,  la perdita di confine, lo smarrimento. C’è qualcosa di malato nell’amore umano che sembra inestirpabile. L’amore è lo scavalcamento di un limite. L’amore non è un’esperienza di controllo e di padronanza, anzi è esperienza della rottura di un ordine, di un equilibrio, fino allo smarrimento e al disorientamento. Nell’amore malato la spinta appropriativa travalica il limite e la vita può diventare impossibile a causa delle persecuzioni messe in atto dall’altro. Ciò che solitamente spinge ad uccidere è il senso di abbandono conseguente alla separazione dall’altro o alla minaccia di tale separazione. È la non accettazione di tale separazione e l’irrinunciabile senso del possesso dell’altro, che fa dire a un mio paziente: “Ti uccido e poi mi uccido così ti porto con me per sempre!”. È l’idea che senza l’altro non si possa stare né, quindi, esistere. Per questo, spesso, molti uomini dopo aver ucciso si tolgono la vita. “Se tu non ci sei più, io non sono più niente!”.

Il paradosso fondamentale dell’amore umano è che io voglio che l’altro sia solo mio; tutti vogliamo questo quando siamo innamorati: io voglio che tu sia mia perché tu lo desideri, voglio che tu rinunci liberamente alla tua libertà. Ogni amore umano vuole essere per sempre e vuole trasformare un incontro contingente e imprevedibile in un amore per sempre. L’incontro è casuale, ma gli amanti pensano che era già scritto da qualche parte, per questo consultano gli astrologi per avere conferma che nelle stelle era già scritto.

Per combattere il fenomeno della violenza contro le donne, perché la violenza non rimanga soffocata entro le mura domestiche come se fosse normale, le riforme giuridiche, sono necessarie ma non sufficienti. E’ necessario un cambiamento culturale e valoriale. Non basta qualificare un comportamento come illegale per sradicarlo dalla vita quotidiana e dalla mentalità comune. Occorre, invece, modificare abitudini e convinzioni radicate, eliminare stereotipi e immagini degradanti del genere femminile. Occorre imparare a riconoscere l’altro come diverso da sé, assolutamente separato e sopportare la nostra solitudine.

Chiara Baratelli  è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

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Terre di mezzo: territori e tipicità del Copparese

Territori e tipicità: il gusto autentico dell’accoglienza delle Terre di mezzo è un progetto che mi è stato postato nel settembre del 2012 dall’Unione dei Comuni del Copparese e che ho riletto oggi, dopo una scrematura dei tanti file che riempiono il mio computer.
Un progetto che parla delle Terre di mezzo, un vasto territorio incastonato tra la città e la costa, che comprende i Comuni di Copparo, Berra, Ro, Jolanda, Formignana e Tresigallo, e che simula il soggiorno di un visitatore, un escursionista, un turista attento a muoversi in un ambiente naturale ricco ed interessante, ma ancora in molti tratti inesplorato e non adeguatamente conosciuto ed apprezzato.
Il testo recita, tra l’altro: “….è adatto a quel turista che vuole stare all’aria aperta a contatto
con la natura. Il paesaggio è fatto di terra ed acque, scolpito e forgiato dall’uomo nell’immensa pianura, tanto che vi sono disseminati nelle campagne capolavorid’arte inestimabili (riconosciuti dall’Unesco). Negli itinerari si incontrano antichi e sinuosi percorsi fluviali, argini delle bonifiche, monumenti, chiaviche e manufatti idraulici, palazzi e ville, chiese e pievi e, se ti fermi un po’ puoi assaporare il gusto e il profumo della natura e dell’enogastronomia e non solo. Il tutto in uno “Scrigno delle Sensazioni”, una sorta di cofanetto che il visitatore, potrà riempire viaggiando nel territorio.”

Fa piacere, leggendo, scoprire una grande attenzione agli aspetti più alti della nostra cultura contadina, che bene si coniuga con i tempi nuovi di questo inizio secolo. Allo stesso tempo non si può sottacere lo sforzo profuso, da molti anni, in tante altre lodevoli iniziative proposte allo scopo per valorizzare e promuovere angoli, rioni e borghi di pezzi del nostro localismo.
Ci piace citare, tra l’altro: i manifesti d’immagini di foto di ville, palazzi, chiese; i dvd di una geografia di territori d’ambiente; i percorsi ciclabili, l’incoming turistico e di accoglienza, le narrazioni web, e, per concludere, le parole invitanti che descrivono le bellezze delle Terre di mezzo: “Ti emozioni tra spazi lunghi e tempi lenti; odori e sapori, terre, acque e nebbie dorate; estensi e legati, ville e parchi, eventi e accoglienza”.

Progetti generosi da parte di chi è vocato al turismo e alla sua accoglienza che, però, sono sempre stati sostanzialmente cassati dalle istituzioni locali, anche per un conflitto di competenze e recepimento di funzioni, messe insieme da una burocrazia ancora borbonica che stenta a sciogliersi per dare corso ad azioni concrete.
Ora, proviamo a fare un’operazione di realtà, e a chiedere a chi di dovere se questo progetto dell’Unione dei Comuni è dormiente nei tanti cassetti nei noti palazzi, oppure se sta avanzando e se
lo potremo vedere realizzato a breve.
In una precedente nota ho illustrato i caratteri di un distretto rurale, qui ne abbiamo un esempio; ora aspettiamo che qualcuno non ricada nel sonno.

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La menzogna come nuova categoria politica. Intanto nel Paese cresce la disperazione e monta la rabbia

Sono mesi che Enrico Letta e Matteo Renzi si incontrano, in segreto o in pubblico,da soli o in compagnia, a Firenze, a Roma o da qualche altra parte. Tutte le volte i comunicati ufficiali e le immagini hanno parlato di colloqui proficui, di ampie collaborazioni, dell’impegno di ciascuno dei due nel proprio campo, il primo al governo del Paese, il secondo a fare il sindaco di Firenze e il segretario del Pd.
Oggi siamo, pare, al redde rationem: Letta se ne va (se ne dovrebbe andare) ed al governo, come premier, entra (dovrebbe entrare) Renzi. Mettiamo un doveroso condizionale, non si sa mai. Intorno a quello che Antonio Polito ha definito oggi sul Corriere della Sera “il congresso infinito”, ecco il solito agitarsi, il totoministri, chi va e chi viene, i favorevoli, i contrari, i battaglieri, i prudenti, i vendicativi e così via.
Dunque, alle categorie della (bassa) politica dobbiamo aggiungere sistematicamente la menzogna come fattore costitutivo? La valutazione della politica, comunque, ormai si deve compiere solo sugli atti concreti: i discorsi stanno (quasi) a zero, perché figli di uno Zeitgeist (spirito del tempo) dal respiro e dalle visioni mediocri.
Nel Paese reale, intanto, la gente è sempre più povera, i giovani non lavorano, ci si suicida, si ammazzano le donne e i figli, l’Italia frana, la ‘ndrangheta è la più potente mafia del mondo dopo la scoperta della connection con Cosa Nostra per il traffico di eroina, eccetera. In giro c’è rassegnazione, rabbia, impotenza.
Ha ragione Fiorenzo Baratelli: i detentori del potere politico stiano attenti. E stiamo attenti anche noi. Non solo perchè un demiurgo potrebbe portare l’Italia nel baratro, ma anche perchè la disperazione può generare odio e violenza generalizzati e incontrollabili.

Pavel 183 o la Street Art russa

Da MOSCA – Domenica pomeriggio. Stiamo passeggiando sulla Stari Arbat (o vecchia Arbat), una delle vie culturali più vive di Mosca, distratti da musicisti e pittori, quando al numero 37/2, angolo Krivoarbatsky Lane, notiamo un muro coloratissimo di graffiti che, poco dopo, scopriremo essere dedicato a Victor Tsoy, fondatore del gruppo russo Kino. Qui, nel 1990, e precisamente il 15 Agosto, apparve la prima scritta “Tsoy è morto oggi”. Poco dopo qualcuno replicò “Tsoy è vivo”. Seguirono altre scritte e commenti, il luogo diventò il riferimento dei fan del cantante fino ad arrivare a diventare, oggi, il luogo dove si lascia un biglietto per un amico o si fissa un appuntamento. Si tratta di un importante luogo di scambi e di incontri, punto di riferimento per molti,  nonostante i tentativi, nel 2006, di cancellare i graffiti ad opera dell’Art Destroy Project, falliti per il riapparire di scritte e disegni. Questo muro divenne presto simbolo di libertà.

Rientrata a casa, un po’ stupita ma piacevolmente, mi metto, quindi, a cercare informazioni sulla street art a Mosca, tema che da sempre mi appassiona. Non pensavo di poter trovare anche qui questa forma di espressione, forse perché siamo legati ad un’immagine di un Paese molto chiuso. Ma, anche se la resistenza rimane, non è così. Scopro che pure le scale dell’edificio in cui si trovava l’appartamento di Mikhail Bulgakov erano quasi un “ufficio postale”: le pareti erano completamente ricoperte di illustrazioni e di citazioni tratte dal suo “Il Maestro e Margherita“. Proprio questi due luoghi divennero i primi veri epicentri della street art. I giovani artisti vi disegnavano ciò che maggiormente li preoccupava e che li spingeva a creare.

Trovo, allora, disegni di un certo Pavel, o meglio di Pavel 183. E leggo anche che quando questo giovane vide, a 14 anni, per la prima volta, il muro di Tsoy, che mi aveva tanto attirato, aveva deciso che non avrebbe più smesso di disegnare. Scopro pure, con tristezza, che Pavel, in arte Pasha 183 (o P183), che aveva scelto Mosca come tela per i suoi graffiti, era da poco morto a soli 29 anni, il 1° Aprile 2013, in circostanze, peraltro, ancora non chiarite. Di lui si dice che fosse nato l’11 Agosto 1983, Pavel Pukhov. Perché di lui si sapeva poco, se ne ignorava l’identità. Le poche interviste rilasciate erano state concesse all’ombra di un passamontagna. Anche per questo si era conquistato la fama di “Banksy russo”, diventando famoso perché capace di coniugare arte e denuncia sociale. Scriveva e disegnava sui ponti, sui muri, sulle piazze, lanciava messaggi, apriva dibattiti, faceva riflettere, circolare idee e opinioni, stimolava lo scambio e il dialogo, creando giochi visuali e visivi negli ambienti cittadini più vari. O almeno cercava. Era stato paragonato al writer inglese Banksy, dicevamo, ma anche a Keith Haring.

Pavel riteneva che la sua fosse un’attività creativa, si definiva un ascetico ma non un “artista politico”, amava San Pietroburgo, considerandola la città più europea e aperta della Russia. Si ispirava al grande poeta Vladimir Majakovskij e al suo “Coloriamo la nostra città con vernici multicolore”; d’altra parte anche Sergej Aleksandrovič Esenin componeva i suoi versi per strada. La strada, questa grande fonte di ispirazione. Ne sono stata sempre convinta. Scavando e approfondendo ancora un po’, si può notare (e ricordare) che, qui, nel 1919, dopo la Rivoluzione, i vagoni merci su cui venivano trasportate le truppe venivano spesso decorati da artisti rivoluzionari. E, per questo, Pavel diceva che la street art era figlia del situazionismo, ossia dell’arte della rivoluzione per le strade, definendosi, in sostanza, un “autore satirico di strada”. Concordiamo in pieno. L’arte deve criticare la società ma non fare / essere politica.

Nel 2005, l’artista aveva girato il film Skazka pro Alënku – 2005 (La favola di Aljonka 2005), in cui la bambina raffigurata sulla confezione del cioccolato Aljonka diventava una sorta di emblema dei bambini contemporanei. Secondo l’autore, ognuno è costretto a vendere sé stesso fin dall’infanzia. Così è la vita nel mondo contemporaneo: ciascuno di noi, come un’anonima e perduta Aljonka, viene venduto e comprato contro la propria volontà. Di cui riflettere. Fra i tanti graffiti, Pavel aveva dipinto, nell’agosto 2011, poliziotti in tenuta antisommossa che calciavano passeggeri in uscita dalla metropolitana, un paio di occhiali neri (il più famoso), sul suolo ricoperto di neve, con un lampione al posto di una stanghetta, una mitraglietta nera e minacciosa a fianco di una telecamera, barrette di cioccolato dipinte sul cemento, simbolo, a suo dire, della commercializzazione dell’arte e della vita. Tavolette in cemento che, proprio perché fatte di un materiale resistente e pesantissimo, non possono essere acquistate da nessuno.
Con l’arte cercava di attirare l’attenzione dei suoi compatrioti sulla politica di Putin e i problemi della società russa. Si definiva come un “anarchista”, per il quale disegnare era vivere. Alla domanda su che cos’è la cultura, rispondeva “un sistema di divieti”…
Peccato che non potremo vedere la continuazione della storia.

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I dati regionali sui rifiuti, Ferrara attardata sulla via della raccolta differenziata

Prendiamo qualche spunto dal recente rapporto regionale, Report Rifiuti 2013, decima edizione del monitoraggio annuale prodotto dalla Regione Emilia-Romagna e da Arpa Emilia-Romagna.

Se da una parte a Parma e Reggio Emilia si raccolgono in modo differenziato più del 60% dei rifiuti urbani, Piacenza, Modena, Ravenna e Rimini hanno già superato il 50% di raccolta differenziata, mentre le province di Ferrara, Forlì-Cesena e Bologna registrano valori compresi tra il 40 e il 50%. Il dato della raccolta differenziata varia significativamente anche a livello di singoli Comuni con 75 realtà che nel 2012 hanno raggiunto e superato l’obiettivo di legge del 65%. I valori rilevati confermano le difficoltà dei piccoli Comuni dell’Appennino e dei grandi centri abitati come Bologna a raggiungere elevati standard di raccolta differenziata.

Più interessanti sono i dati del sistema impiantistico regionale. Quanto raccolto in maniera differenziata viene avviato ai 20 impianti di compostaggio e agli oltre 200 impianti per il recupero delle frazioni secche presenti sul territorio regionale. I valori dell’indice di avvio a recupero, calcolati sui dati 2011, forniscono indicazioni sulla qualità della raccolta differenziata. Essi variano da un minimo del 74% per la plastica a valori superiori al 90% per umido, carta, vetro metalli e legno, confermando che, per le principali frazioni differenziate la quasi totalità del raccolto è reimmesso nel ciclo produttivo.
I rifiuti indifferenziati residui, oltre 1.334.000 tonnellate, hanno trovato collocazione in un articolato sistema di impianti costituito da 8 inceneritori con recupero energetico, 8 impianti di trattamento meccanico-biologico e 19 discariche per rifiuti non pericolosi. In linea con le indicazioni delle politiche europee, negli ultimi 3 anni in regione si è registrato una diminuzione dell’utilizzo delle discariche ed un aumento dell’avvio a recupero energetico per lo smaltimento dei rifiuti indifferenziati.

Il tema fondamentale è il riciclo. Su questi dati propongo qualche riflessione. La credibilità del sistema di raccolta differenziata è fondamentalmente basata sulla necessità di offrire garanzie circa il rispetto degli obiettivi non solo in termini di percentuali di rifiuti raccolti in modo differenziato, ma anche in termini di qualità del differenziato stesso. Maggiore trasparenza deve essere posta ad esempio sui criteri con cui raggiungere dette percentuali, smascherando in alcuni casi risultati apparentemente positivi, ma ambientalmente discutibili. Confondere ancora tra raccolto e riciclato non conviene a nessuno, né utilizzare differenti criteri per definire le percentuali dei quantitativi raccolti.

Rimane allora da valutare quale sia la migliore soluzione possibile e, per fare questo, serve un’analisi di dettaglio sia del materiale immesso sia della capacità di raccolta differenziata e della possibilità di reale riciclo. A questo proposito vale la pena ricordare che per “raccolta differenziata” si intende quanto separato alla raccolta in base al tipo e alla natura dei rifiuti (anche al fine di facilitarne il trattamento), mentre per “recupero” si intende ogni operazione utile all’utilizzo di materiale in sostituzione di altri. Si ritiene importante citare a tale proposito un articolo (di sei anni fa) della direttiva 2008/89/CE fondamentale per il futuro del riciclaggio, Art. 11, comma 2: “Al fine di rispettare gli obbiettivi della presente direttiva e tendere verso una società europea del riciclaggio con un alto livello di efficienza delle risorse, gli Stati membri adottano le misure necessarie per conseguire entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti quali, come minimo, carta, metalli, plastica e vetro provenienti dai nuclei domestici, e possibilmente di altra origine, nella misura in cui tali flussi sono simili a quelli domestici, sarà aumentata complessivamente almeno al 50% in termini di peso.”

Lo spirito guida della programmazione deve tendere allora alla ricerca del massimo riciclo (non della massima raccolta differenziata), indipendentemente, o comunque senza limitarlo, dal raggiungimento di uno specifico obiettivo generale che potrebbe essere non il massimo raggiungibile. E’ importante dunque definire con criteri innovativi le raccolte differenziate con obiettivi di riciclo per materiale, calcolato sulla base dell’immesso. Argomento di grande importanza poi è la realizzazione di concrete forme di incentivazione o di premio ai cittadini particolarmente virtuosi, e dunque solo per chi supera con il proprio contributo la media ottenuta sul territorio.

Per quanto attiene più in generale le raccolte differenziate, si ritiene inoltre che possa essere utile richiedere l’obbligo di certificazione di avvenuto riciclaggio. L’analisi della destinazione dei materiali derivanti dalle operazioni di raccolta differenziata è diventato un elemento fondamentale per la trasparenza del servizio prestato e per la garanzia di rispettarne le regole. I cittadini talvolta, infatti, sono scarsamente motivati alla collaborazione perché temono che poi il risultato finale non corrisponda a quello dichiarato; in troppi permane ancora il dubbio che “tutto poi finisca in discarica”. Abbiamo dunque il dovere di certificare l’avvenuto riciclaggio con procedure e regole chiare, meglio se controllate e appunto certificate da terzi autorizzati per tale attività (vedi tracciabilità).

Anche la qualità del materiale raccolto legato ai concetti di impurità e scarto è un tema che richiederebbe maggiore attenzione. Deve crescere la consapevolezza che il materiale pulito da impurità (altri materiali) ha una migliore possibilità di riciclo e dunque un valore maggiore. Vanno poi anche favorite maggiori indagini di soddisfazione del cliente mirate a capire i disagi e le difficoltà degli utenti nel favorire lo sviluppo delle raccolte differenziate. Spesso una scarsa informazione produce scarsa partecipazione. Indagini autoproclamanti e talvolta promozionali mal si conciliano con il bisogno di conoscere e capire come poter migliorare il servizio. Frequenti, metodiche e costanti informazioni sui livelli raggiunti, sul grado di impegno e sui risultati ottenuti per sub-ambiti o ancor meglio per aree (circoscrizioni, strade, condomini, etc.) aiuterebbero quel sano confronto che favorisce la partecipazione e il coinvolgimento.

Istruzioni per l’uso del nuovo sistema elettorale (con traduzione in italiano)

È stato chiamato Italicum e poi ci ha pensato Giovanni Sartori a battezzarlo Bastardellum, dopo che egli stesso etichettò il Mattarellum e, in seguito, il Porcellum.
Se non si fosse capito si parla di legge elettorale. È la quadra che Matteo Renzi ha distillato dopo l’incontro con Silvio Berlusconi. Un quarto modello rispetto agli iniziali tre che il segretario nazionale Pd ha lanciato, nel tentativo di sbloccare un estenuante stallo politico, nonostante i ripetuti appelli del Capo dello stato e, soprattutto, dopo che la Corte costituzionale ha gambizzato la Porcata di Calderoli.
È facile immaginare che da fuori qualcuno spalanchi gli occhi a sentire tale lessico, ma questa è la politica italiana.

L’estensore della proposta renziana è Roberto D’Alimonte, che preferisce chiamarla Italicum e confessa sul Sole 24 Ore (31 gennaio) che, sì, avrebbe preferito un modello alla francese. Un conto però sono i desideri e altra cosa la realtà. Lo scrive chiaro e tondo sullo stesso quotidiano in un botta e risposta con Sartori, in cui i due si danno, senza esclusione di colpi, dell’idealista e del realista.
Da una parte D’Alimonte avrebbe al fine scelto di fare il “consigliere del Principe”, mentre quest’ultimo si difende dicendo che nell’impossibilità di perseguire le “soluzioni esatte” occorre mettersi sulla strada del possibile.

Intanto, un’altra questione che ha sollevato polvere e scintille è l’accordo cercato con il Cavaliere.
Da una parte, chi rileva l’errore commesso da Renzi di avere rimesso in gioco, addirittura come padre costituente in petcore, il leader di Forza Italia, nel frattempo messo game over da una sentenza definitiva della magistratura. Dall’altra, chi ribatte che se da quella parte tutti riconoscono Berlusconi come leader indiscusso, è inutile parlare con dei portatori d’acqua quando chi decide è il capo della cisterna.

Ma vediamo come il nuovo sistema di voto, salvo ulteriori modifiche, dovrebbe funzionare.
L’idea è un sistema proporzionale con collegi piccoli, dovrebbero essere in tutto 148, e un numero di candidati dai tre ai sei in ognuno. Le liste per collegio sono bloccate, cioè non è possibile esprimere preferenze sulla scheda elettorale. C’è poi una soglia di sbarramento per accedere alla Camera (a seguito infatti della riforma costituzionale, data per prossima, il Senato non sarà più elettivo), che in un primo tempo era del 5 per cento, poi ridotta al 4,5, per i partiti che si presentano in coalizione, mentre sale all’8 se corrono da soli. Chi raggiunge il 37 per cento dei voti (in origine il 35) si aggiudica un premio del 15 per cento, raggiungendo la maggioranza assoluta.
Se nessuno ce la fa, i due più votati – partiti o coalizioni – ricorrono ad un secondo turno (ballottaggio) e chi vince governa.

Prima ancora di giudicare se sia cosa buona e giusta, forse non sarebbe male tentare di comprendere meglio la questione con la chiave di lettura del classico “a chi giova”, visto che pare assodato che le leggi elettorali siano complicate partite a scacchi fra chi si guarda in cagnesco, mentre l’interesse generale è ormai argomento da libri.

Innanzitutto quella soglia di sbarramento, quasi tedesca, eliminerebbe i piccoli, salvo un meccanismo detto “salva Lega”, secondo il quale per chi si presenta in non più di 7 regioni basta raggiungere il 9 per cento dei voti in sole tre circoscrizioni.
Uno a zero per la destra, si direbbe, visto che la Lega è prevedibile che continuerà ad abbaiare, ma poi finirà per tornare alla mangiatoia.

Il secondo turno sembra invece un punto a favore per Renzi strappato al Cavaliere, consapevole che il proprio elettorato va convinto, si dice, a recarsi a votare anche al primo.

Le liste bloccate, tutto sommato, potrebbero fare comodo ad entrambi, visto che un Parlamento di nominati significa, tendenzialmente, gruppi parlamentari più docili.

Più intricato il trittico soglia di sbarramento, candidature in più collegi, ipotesi scartata in un primo tempo e poi ammessa con un tetto di 3-4 collegi, e le recenti aperture di Berlusconi sulle preferenze.
Qui è curioso che dopo i referendum di Segni nei primi anni ’90 per eliminarle, perché piaga endemica di mercato elettorale e mafie, si ritorni a gridare per reintrodurle in nome della trasparenza.
Da allora corruzione e criminalità organizzata in Italia non risulta siano state debellate.

Comunque sia, parrebbe di capire che le preferenze, pensando alla composita coalizione di destra e con il recente ritorno del figliol prodigo Casini, autentico flaneur della politica italica, possano fare buon gioco da quella parte (specie se qualcuno arrivasse a fatica al 4,5), per quanto non è esclusa una partita aperta pure in casa Pd sui nomi.
Se uno come Cuperlo le vuole, un motivo ci sarà.

Mentre sulle pluricandidature, anche se non illimitate, il nome Silvio continua a fare la differenza soprattutto a destra, come insegnano le elezioni del febbraio 2013.

In conclusione, se si vuol dare senso alle parole che girano, si potrebbe dire che Berlusconi ha tutto l’interesse a mettere insieme da quella parte capre e cavoli, diavoli e acque sante, pur di arrivare al fatidico 37 per cento al primo round e beccarsi il premio che lo porterebbe al 52.
Poi governare con gente che continua a mandarsi a quel paese è tutto da vedere, ma intanto quel che conta è vincere.

Per Renzi, invece, a sinistra del Pd è rimasto poco più che il deserto e, magari pensa di giocarsela al doppio turno, specie con le truppe grilline rimaste fuori partita e orfane delle loro stelle. Lo stesso ritocco dal 35 al 37 come soglia del premio al primo turno, secondo questa ipotesi potrebbe complicare le cose proprio in casa Arcore.

Sempre che la Corte costituzionale non riaccenda il semaforo rosso, perché liste bloccate e premio di maggioranza sono, sì, meno ingombranti, ma ci sono ancora.

In ogni caso, molto potranno dire le prossime elezioni europee di maggio, ancora una volta un test importante per scrutare più il cortile di casa piuttosto che rafforzare il sogno di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

Un giorno (qualunque) nella metropolitana di Mosca

Da MOSCA – Fuori fa freddo, nevica, tutto si sta imbiancando velocemente mentre i taxi fanno lo slalom fra gli immensi spazzaneve che cercano spazio per fare altro spazio. Le luci del Natale e del Capodanno sono ancora accese, è quasi buio e i tronchi d’albero ai lati delle strade affollate sono ancora avvolti, quasi abbracciati, da fili di illuminazioni azzurro-cielo e bianco-diamante. I raggi di luce si proiettano sugli infiniti passaggi pedonali e sul tuo volto intirizzito; tutto scintilla, tutto sfavilla, tutto è animato. Anche gli edifici sono decorati allo stesso modo. Quasi avessero la testa adornata di coroncine luccicanti, a volte intermittenti, a volte fisse. E fisso è il tuo sguardo all’insù, sempre stupito da quei bagliori che sembrano non volersi mai spegnere, da cartelloni pubblicitari che lampeggiano, da palazzi abbelliti da luci di ogni tipo, da stelline e fiorellini che non lasciano spazio a brutti pensieri. Avvolto da un’atmosfera quasi magica, pensi che forse sia meglio ripararsi dai quei fiocchi a dire il vero un po’ prepotenti, rifugiandoti nel caldo ventre della metropolitana moscovita. Pronta ad accoglierti, per alcuni a divorarti. Ma noi vogliamo coglierne lo spirito materno che ci protegge da intemperie e avversità cittadine. E poi è un giorno lavorativo, stiamo rientrando da una corsa al supermercato e, con la neve che incombe, ci pare la soluzione migliore.

Ammetto che la profondità di questa metropolitana non mi piace, mi spaventa da sempre, anche perché soffro di claustrofobia, ma va anche detto che lo spettacolo merita uno sforzo. Si tratta, infatti, di una delle maggiori attrazioni turistiche della capitale. Difficile da immaginare, solitamente la vediamo come un semplice mezzo di trasporto spesso noioso e fastidioso, ma entrare qui ha un altro sapore, perché siamo in un museo a cielo aperto. E poi ci sono storia e storie dietro, alcune reali altre di fantasia. E non solo della mia. Una penna non basterebbe.

La mia stazione preferita è sicuramente quella del Park Kultury (Parco della Cultura), inaugurata insieme alle altre della prima tratta della metropolitana moscovita il 15 maggio 1935. Mi piace, non solo perché vicino casa, ma per il suo nome e il suo colore. In essa predomina, infatti, il bianco, un bianco candido, latte, luminoso e pulito. E a me piace questo colore. La stazione è a due piani e gli architetti Krutikov e Popov, che la disegnarono, scelsero, per essa, decorazioni ispirate all’antica Grecia: lungo le banchine vi sono 22 pilastri ricoperti in marmo crimeano Kadykovka, sormontate da capitelli, lungo le mura altri pilastri ma decorati a mosaico. I sovrappassi pedonali, che conducono agli ingressi, sono ricoperti di piastrelle metallo-plastiche, balaustre bianche con eleganti corrimano in marmo. Le mura dei corridoi che portano agli ingressi sono in marmo degli Urali. In questi giorni in cui si parla tanto di atleti, questo luogo è un vero inno allo sport e all’armonia del corpo. La stazione è una delle poche della rete che è rimasta quasi immutata sin dalla sua costruzione, ad eccezione della ripavimentazione in granito della banchina e del rinnovo dell’illuminazione. Quest’ultima consisteva di bellissimi lampadari al centro, corredati da lampade semicircolari alle pareti; con l’introduzione delle lampade a luminescenza, lampadari e lampade furono sostituiti. All’inaugurazione, la stazione aveva un nome ben più lungo: Central’nji Park Kul’tury i Otdycha imeni Gorkovo (Parco Centrale della Cultura e dell’Agiatezza Maksim Gorkij). Nel 1980, con i Giochi Olimpici a Mosca, il nome fu abbreviato. Se entrate qui, rimarrete colpiti dalle sculture, dalle statue, da come un luogo di cultura di colore bianco possa improvvisamente apparire sotto terra, ad illuminare la giornata, i passi e i pensieri di tutti, quando in posti come questi ci si aspetta solo buio, grigio e mancanza di aria e di luce.

Ma questo posto è uno dei tanti. Le stazioni della metro sono numerose e molte di queste sono bellissime, soprattutto quelle dell’area centrale della città. E hanno anche cambiato nome, spesso. La stazione della metropolitana Giardino di Alessandro, Aleksandrovskiy Sad, quella che si affaccia sui bellissimi e curati giardini vicino al Cremlino, per intenderci, venne aperta al pubblico nel maggio 1935. All’epoca si chiamava Via Komintern, dal nome della strada sotto la quale fu costruita e dove si trovava la sede del comitato esecutivo del Komintern (l’organizzazione internazionale del proletariato rivoluzionario che riuniva i partiti comunisti dei vari paesi). Nel 1946, la strada cambiò nome e venne chiamata via Kalinin, in omaggio a un importante uomo di stato sovietico, il cui un busto in granito venne installato all’interno della stazione. Nel 1990, alla via venne restituito il suo nome originario, via Vozdviženka e, pertanto, anche il nome della stazione cambiò e venne ribattezzata dall’omonimo giardino di Alessandro situato vicino alla sua uscita. Essa segue lo schema di una stazione ferroviaria e ha un soffitto sorretto da tre file di colonne ottagonali. La fila in mezzo ai due binari non ha un rivestimento particolare, mentre le colonne delle due file laterali sono rivestite di marmo bianco. L’illuminazione è affidata a plafoniere semisferiche al centro di cassettoni quadrati che decorano il soffitto. Le pareti della stazione sono ricoperte di mattonelle azzurre. Bella e incantevole anche questa.

Se si vuole, invece, scendere alla fermata che porta direttamente alla Piazza Rossa, usciremo, allora, alla stazione di Ohotnyj Rjad, quella che più di tutte le altre ha cambiato nome da quando è stata costruita. Il suo primo nome è stato Ohotnyj Rjad, nome che ha tutt’oggi dopo vari cambiamenti. Ohotnji Rjad significa Via della Caccia, ma rjad vuol dire fila, riferendosi alle file di chioschi in legno situati, dal XVII secolo al XIX, in una via limitrofa, adibiti alla vendita della cacciagione. Ma già nel 1955 si decise di ribattezzare questa stazione, dandole il nome di Lazar Kaganovič, incaricato di attuare il progetto di costruzione della metropolitana di Mosca. Così dal 1955 al 1957 la stazione portò il nome di questo importante uomo di stato dell’epoca staliniana. Dopo la morte di Stalin, Kaganovič si oppose alla destalinizzazione e, accusato di aver cospirato contro Chruščëv, venne destituito da ogni carica politica e espulso dal partito. Alla stazione venne, quindi, restituito il suo vecchio nome, ma per poco. Nel 1961 fu ribattezzata Prospekt Marksa, in onore di Carlo Marx. Solo nel 1990 tornò a chiamarsi Ohotnij Rjad. Essa è costituita da una sala centrale sormontata da tre grandi volte a cassettoni alle quali vennero appesi lampadari sferici. Le volte poggiano su pilastri rivestiti di marmo bianco e grigio. Le pareti sono ricoperte con piastrelle in ceramica bianca e il pavimento è in granito grigio. Fra le decorazioni c’è ancora il ritratto di Marx, realizzato in mosaico negli anni ‘60, mentre è stata rimossa la statua di Stalin che si trovava all’uscita nord.

Molti altri nomi di stazioni sono stati cambiati nel tempo, in particolare dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando i nomi sovietici furono sostituiti con i nomi originari. Qualcuno vi ha ambientato romanzi e storie; si potrebbe, in effetti, scrivere molto su di essa o stando in essa, esplorandola con curiosità e attenzione per qualche giorno. Oltre ai luoghi, essa è viva e pulsante per le persone e le storie che queste portano con sé, lì dentro, là fuori. Nel mondo. Tutto cambia, almeno un po’.

Così, ancora, l’antica Dzerzhinskaya è diventata Lubjanka (Feliks Edmundovič Dzeržinskij era il capo della polizia segreta Čeka, precedente al KGB, nome da cambiare…). Sopra di essa si trova la famosa Lubjanka, il quartier generale dei servizi segreti. Nel 1990, dopo aver rinominato piazza Dzerzhinskij con il suo nome storico, ossia piazza Lubjanka, anche alla stazione della metropolitana venne assegnato questo nome.

La stazione di Kirovskaya è divenuta quella di Čistye Prudy. Sergej Kirov era un protetto di Stalin e membro del Comitato Centrale, poi vittima della stessa caduta di Stalin. Nel 1990, il nome della stazione venne sostituito con quello di uno stagno nelle vicinanze, lo stesso che Alexander Menshikov, il favorito di Pietro il Grande, aveva fatto ripulire, denominandolo appunto Čistye Prudy (“Stagno pulito”).

C’è poi Novoslobodskaya, famosissima per le 32 vetrate colorate opera degli artisti lettoni E. Veylandan, E. Krests, e M. Ryskin. Ogni pannello, circondato da un bordo elaborato, è posto in uno dei piloni della stazione, illuminato dall’interno. Ci si può specchiare o immaginarsi un personaggio di una delle storie ricamate sui vetri. Piloni e archi tra di essi sono ricoperti di marmo rosa degli Urali. Alla fine della banchina vi è un mosaico di Pavel Korin intitolato “Pace nel Mondo”.

Con questa immagine vi vogliamo lasciare, le stazioni sono tante e molte altre meriterebbero un commento. Se pur spiacenti, vi lasciamo allora, in attesa di percorrere ancora insieme le strade di Mosca, alla scoperta di nuovi posti e di tante curiosità. C’è davvero tanto da raccontare…

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Piccolo viaggio tra le seguaci della Ragazza con l’orecchino di perla

Una ragazza che fa scuola. E’ quella “con l’orecchino di perla” di Jan Vermeer in mostra a Bologna, palazzo Fava, fino al 25 maggio. Un capolavoro di uno dei pittori fiamminghi più conosciuti e riconoscibili. Un’occasione per vedere a distanza ravvicinata questa tela così nota. E anche un’occasione – per chi ama gli accostamenti, le divagazioni e i rimandi – per un piccolo viaggio tra le seguaci di questa fanciulla dipinta o, per usare un linguaggio più attuale, tra le sue follower…

Locandina del film "La ragazza con orecchino perla"
Locandina del film “Girl with pearl earring” in versione originale con Scarlett Johansson e Colin Firth

Come tutte le opere che riescono a raggiungere una fama e una popolarità così vasta, la “Ragazza” diventa icona, prototipo sul quale esercitare fantasia, sogno, indagine e magari anche gioco. Sul suo viso non è arrivato il pennello dadaista di Marcel Duchamp a dissacrare il mito trasformandolo nel simbolo di un movimento artistico di rottura, come è successo con i baffi sulla Gioconda. Ma ci sono tanti lavori e citazioni interessanti, che fanno spaziare i nostri occhi e la nostra immaginazione.

Primo fra tutti i rimandi di questa lista che sarà di per sé parziale e soggettiva è quello doveroso che porta al film intitolato come il quadro, con Scarlett Johansson che incarna la ragazza stessa a distanza di 338 anni (dal 1665 al 2003) impressionando con le sue fattezze la pellicola di Peter Webber. Certamente una ripresa – quella cinematografica, basata sul romanzo omonimo di Tracy Chevalier – che è stata anche fonte di divulgazione tra un pubblico più ampio, che ha esteso il fascino di quel quadro tra tanti spettatori non necessariamente appassionati d’arte e con la capacità di coinvolgimento di massa che solo il cinema sa trasmettere grazie alla sua commistione di immagine, musica, narrazione.

Anomala nella sua forma espressiva e proprio per questo notevole, è la versione commestibile della “Ragazza”, resa dalla blogger norvegese Ida Skivenes. Attraverso Instagram e il suo blog, IdaFrosk si fa conoscere per la sua passione: raccontare i quadri utilizzando il cibo tagliato ad arte sopra una fetta di pane.

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La “Ragazza con l’orecchino di perla” in uno dei panini ad arte della norvegese Ida Skiveness

Ecco quindi il turbante reso con una striscia di formaggio con le tartine usate come se fossero tele, dove gli asparagi possono diventare alberi di Van Gogh e i filetti di peperone rosso, giallo e verde le pennellate dell’Urlo di Munch.

Un’artista-fotografa che parte dai capolavori pittorici per fare una riflessione sugli stereotipi legati alla differenze etniche è invece Elizabeth Kleinveld, che la “Ragazza con l’orecchino” ha voluto re-immaginarla con i lineamenti di una giovane asiatica. Sotto a turbante e velluti assolutamente simili a quelli dell’epoca, il ritratto mostra spiazzanti occhi a mandorla. Questa e altre tele fotografiche sono state esposte in novembre dall’artista statunitense nella galleria Rizzoli di Bologna, quindi a poca distanza dal palazzo che ora ospita la sua illustre antenata.

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La versione fotografica della “Ragazza con l’orecchino di perla” dell’artista statunitense Elizabeth Kleinveld

Da non tralasciare per l’originalità della materia espressiva è infine il lavoro di Marco Sodano, che utilizzando i mattoncini Lego ha fatto ricomparire quella “Ragazza” con una tecnica che esplicita le modalità descrittive del digitale usando le tessere del gioco come macroscopici pixel. Il famoso quadro si riconosce per le forme, ma ovviamente i particolari si perdono nei pezzettini da costruzione. Un lavoro apprezzabile anche per il messaggio che lancia, che è quello che dietro al gioco si nasconde l’anima dell’arte. Perché il divertimento può essere il motore della creatività, la passione e il sogno piccole tessere che danno senso al mosaico della vita.

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La Corte dei Conti apre gli occhi: il patrimonio artistico italiano “vale”!

Da qualche giorno ci viene proposta, sbandierata  sui media con clamore e clangori, la decisione della Corte dei Conti che, tramite un suo membro, pensa di richiedere una cifra enorme alle agenzie di rating le quali, dal 2011, hanno penalizzato l’Italia declassandola e classificandola tra le nazioni  “pig”, quindi responsabile con altre di quelle economie-spazzatura che s’identificano come una delle cause determinanti del tracollo dell’economia europea e globale. Sembrerebbe che il ricorso abbia come input iniziale una grave dimenticanza delle agenzie, quella cioè di non contare nelle ragioni addotte quanto “vale” economicamente l’immenso patrimonio artistico di proprietà della Nazione. Mi si perdoni l’uso del virgolettato per esprimere concetti a me particolarmente ostici e quindi da lasciare agli esperti di questo settore, ma soprattutto per non incorrere nelle severe e giuste reprimende dell’assessore ferrarese Marattin.

Ho cercato quindi di avvalermi nella riflessione di un bell’articolo di Francesco Erbani apparso su “La Repubblica” del 6 febbraio, delle considerazioni di Salvatore Settis sul medesimo giornale e nella stessa data, e del parere dell’amico Fabio Donato espresso nell’Introduzione al suo recentissimo libro La crisi sprecata, Aracne editrice in uscita in questi giorni. Ma partiamo da Marattin che così delinea la figura del procuratore che ha promosso l’azione contro le agenzie e che si può leggere nel suo diario di Facebook: “Angelo De Dominicis, il procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio che ha chiesto 351 miliardi di danni alle agenzie di rating. Al suo attivo un libro di poesie e un saggio che intreccia le vite di Andreotti, Paolo Conte e Tinto Brass. E voi c’avete paura della Troika.” Un giudizio pesante che però rende bene conto di quella intricatissima vicenda che progressivamente sta minando le ancor sempre più fragili resistenze del patrimonio culturale italiano. Cominciando dall’ignobile vicenda dei tagli all’insegnamento della Storia dell’arte nelle scuole secondarie (o almeno in parte da esse) di cui responsabile prima è stata la mai deprecata gestione Gelmini ex Ministra della Cultura e la debole e confusa difesa della attuale Ministra Carozza, vicenda che c’entra eccome perché potenzialmente, ma non solo, toglie alle giovani generazioni la possibilità di rendersi conto di che cos’è il patrimonio artistico, poetico, paesaggistico di cui l’Italia è la massima detentrice mondiale. Un’efficacissima immagine che mi è arrivata su fb, mostra la Dama con l’ermellino di Leonardo con questa dicitura “Milano 2020. La sciura con il cane in braccio”, evidente ironia sulla probabile incapacità delle generazioni future di non sapere riconoscere i grandi capolavori della nostra arte. E per finire in gloria, la “riorganizzazione” della gestione dei Beni Culturali di cui riferisce con chiarezza degna di tutta condivisione Vittorio Emiliani nell’ “Unità” del 7 febbraio scorso. Problemi enormi che potrebbero portare alla paralisi della gestione di quello che sciaguratamente in vena di compiacimenti elettorali venne chiamato “giacimento” o “riserva” del patrimonio culturale d’Italia di cui ci si riempie la bocca, che si teme possa cadere nelle mani dei privati ma dei quali nello stesso tempo s’invoca la presenza. Da qui un tentativo di riorganizzazione delle funzioni ministeriali proposto dal Ministro Bray che sembra sia assai debole e non sposti di molto il macigno della gestione dei Beni Culturali.

Francesco Erbani propone un esempio ferrarese per rendere conto del significato che si deve dare al termine valore. Erbani ben conosce la realtà ferrarese, avendo collaborato per molto tempo con Paolo Ravenna e con Italia Nostra, e in quell’occasione ho potuto rendermi personalmente conto della capacità di affrontare questi problemi da parte del valente giornalista. La sua riflessione prende spunto dal giudizio di Paolo Leon, autore del discusso ma stimolante Economia della cultura (Il Mulino editore) che asserisce: “E’ che alle agenzie di rating non interessa tanto il contributo della cultura al valore del patrimonio, quanto il valore di mercato della fruibilità del bene.” Un discorso assai interessante se si pensa che, anche affidando a 10 in una scala di valori che vada dall’1 al 10 e dando un plus valore oltre al 10 al verso dantesco “patrimonio” italiano “la bocca mi baciò tutto tremante”, non potrò mai spenderlo quel verso o monetizzarlo. Così Erbani ripropone l’esempio ferrarese analizzato da Leon che indaga il valore delle Mura ferraresi: “Abbiamo calcolato quanto spazio quelle mura hanno sottratto ad una potenziale espansione della città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di speculazione edilizia è il valore di quelle mura”. Ma, analizzando l’affermazione di Leon, Erbani propone d’individuare che cosa sia quel valore ipotetico “che indicizzato nei secoli, serve ai cittadini di Ferrara, insieme alla sua bellezza intrinseca, per capire che importanza ha la cinta muraria e quanto conviene tutelarla al meglio”. Per concludere – con mia piena condivisione –  che “non essendoci compratori possibili, quel valore serve per aumentare la consapevolezza civica”. Sarebbe il risultato più eticamente nobile che si possa dare al valore dell’opera d’arte o del monumento!

Altrettanto significativo, e per me risolutivo, l’intervento di Salvatore Settis di cui nessuno può mettere in dubbio la capacità e la perizia che si assommano alla sua indubitabile e affascinante storia scientifica. Come si sa, a seguito di non sempre piacevoli polemiche, lo studioso si è dimesso dal suo ruolo di consulenza al ministero per assumerne uno dirigenziale al Louvre, dalla cui esperienza trae alcune preziose considerazioni. A cominciare dalla monetizzazione dei beni storico-culturali e del paesaggio che altro non si può definire come un falso problema (e secondo Costituzione!), perché i beni culturali altro non possono e non devono  essere “ciò che la memoria e l’anima sono per ognuno di noi” per cui va rilevata l’inutilità, o meglio la stupidità e la pericolosità, di monetizzare l’opera d’arte o il paesaggio o un verso di Dante. Al prezzo si deve opporre il valore. E da qui partire per quell’ “économie de l’immatériel” che è diventata l’arma risolutiva della Francia di questo particolare problema: “C’è una ricchezza inesauribile, fonte di sviluppo e di prosperità: il talento e la passione delle donne e degli uomini”. Una splendida (e posso aggiungere commovente) dichiarazione di principi e, per dirla con Settis, “Talento e passione innescati, alimentati, sorretti dalla memoria culturale”. E questo grande intellettuale prestato alla Francia, perché qui è guardato con sospetto o appare troppo rigoroso per le nostre menti di “itagliani”, perché non può o non deve diventare ministro dei Beni culturali? I valori immateriali possono produrre economia come ben si evince dall’esempio francese; ma in Italia tutto questo rimane (e non si sa per quanto) lettera morta. Ne abbiamo esempi anche nostrani quando la presidente della Provincia di Ferrara, inaugurando il convegno dell’Arci, sostiene che quella associazione fa politica culturale attiva (e non si sa cosa cosa facciano le altre meno fortunate associazioni culturali storiche della città, poverette) perché – testuale – “noi non abbiamo mai disinvestito in cultura ma questa consapevolezza non è così diffusa oltre il nostro territorio” in quanto qui non c’è come altrove “un atteggiamento eccessivamente rivendicativo e polemico”. Alla grazia! Con quello che a Ferrara è accaduto riguardo alle politiche culturali, andrei un po’ più con i piedi di piombo, evitando trionfalismi che mi sembrano perlomeno un po’ fuori tono. Ma soprattutto rimanendo misterioso quell’altrove.

A questo punto ben sovviene l’analisi di Fabio Donato che nella sua Introduzione a La crisi sprecata invoca un radicale cambiamento dei modelli di governance “che si basi sulle logiche di network, su criteri di apertura e trasparenza e su forme di partenariato con i soggetti privati” (p.8).  Ciò che Donato ritiene necesario è passare dal modello manageriale “micro” a quello “meso“, quest’ultimo “riferito ad aree territoriali omogenee sotto il profilo culturale, che sia coerente con le caratteristiche del nostro patrimonio culturale”. La proposta che prosegue attraverso un’analisi economica assai stringente ha i suoi vantaggi e tenta la risoluzione della crisi attraverso una puntuale analisi. Ma in città, di questo, mi pare non se ne sia ancora tenuto conto.

Come del resto, a proposito della scambio e dell’interazione tra pubblico e privato, mi pare importante accogliere le parole di Settis che domanda se sia possibile in Italia “distinguere chi entra in un museo con lo spirito del donatore da chi vi entra solo per far profitti?” E si veda la vicenda dell’ esibizione del secolo a Bologna: la Ragazza dall’orecchino di perla di Vermeer, un’operazione altamente di profitto che poco dà alla città se non una monetizzazione priva di valore. Eppure, proprio in questo periodo di crisi economica, il valore della cultura sembra attrarre le persone. E probabilmente, sulla scia della mostra evento, ecco che un numero che sembra fantascientifico di più di mille persone si reca alla Pinacoteca Nazionale di Bologna per assistere a una conferenza. Il valore del Museo dunque resiste in epoca di crisi, e lo costatiamo giornalmente nella programmazione delle attività delle associazioni culturali che inducono a riferirsi all’économie de l’immatériel. E penso alle sale piene per i cicli dell’Istituto Gramsci alla Biblioteca Ariostea o alle conferenze del Garden o degli Amici dei Musei o degli Amici della Biblioteca alla Pinacoteca o al Museo di Spina o all’Ariostea, che diffondono cultura immateriale ma nello stesso tempo promuovono acquisto di libri o visite alle mostre. Ecco perché rimango spesso perplesso di fronte all’esigenza, che sembra diventata assolutamente e sconsideratamente prioritaria, del rendimento economico che le mostre o gli eventi dovrebbero produrre, proprio perché non supportati da queste premesse che l’improbabile decisione della Corte dei Conti ha provocato e che nasce da pura ignoranza (nel termine benigno di non conoscenza). Sentire la lista delle priorità di un’economia in sfacelo mette sicuramente in ombra le esigenze del valore della cultura ma, nonostante e in opposizione alla crisi, quest’ultimo deve essere riproposto come priorità, per non allevare generazioni future di un paese che non ha talento né anima o ha talento senza anima.

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L’educazione del capitale umano e la fabbrica del consumo

La stragrande maggioranza delle nazioni mondiali ancora individua nella scuola e nei suoi curricoli il mezzo per fornire ai giovani ciò che si ritiene sia necessario per poter competere nel mercato globalizzato del lavoro e nel mondo dell’economia globale.
Nello stesso tempo però le pratiche educative fondate sulla teoria del capitale umano (a cui per primo fece riferimento l’economista Adam Smith nel 1776) sono oggi sempre più oggetto di critica per i loro effetti negativi sulla qualità della vita delle persone. Il Nobel dell’economia Amartya Sen poco più di un decennio fa esprimeva le sue preoccupazioni circa lo sviluppo di politiche incentrate solamente sulla crescita economica. Nel suo Development as Freedom egli individua nel tasso di longevità di una popolazione l’indicatore della qualità della vita umana. Sen sottolinea che, poiché le variazioni della speranza di vita dipendono da una gamma di opportunità sociali che sono fondamentali per lo sviluppo (comprese le politiche epidemiologiche, l’assistenza sanitaria, le strutture scolastiche e così via), una visione esclusivamente centrata sul reddito ha bisogno oggi di essere rivisitata o quanto meno integrata, se si vuole giungere a una piena comprensione dei processi di sviluppo.
Inoltre gli studi internazionali di economisti e di psicologi sociali hanno da tempo individuato i fattori sociali che influenzano la percezione soggettiva del benessere e la longevità delle persone. È davvero significativo che tra questi nel nostro mondo globalizzato non ci sia l’istruzione nella sua forma attuale, se non solo quando consente di accedere a un lavoro ben retribuito.
Ma il valore dell’istruzione e dei sistemi formativi può essere oggi ridotto unicamente alla preparazione degli studenti per il mercato del lavoro?

Gli stessi indicatori internazionali sembrano suggerire che la percezione individuale del diritto all’istruzione coinvolge in modo sempre più consapevole ed esteso il diritto soggettivo delle persone ad avere non solo un futuro di lavoro ma un progetto di vita da realizzare, e soprattutto un progetto di vita che sia di qualità, che investe la felicità individuale, la salute e la tutela dell’ambiente.
A tale proposito, la scoperta del contributo che l’istruzione può dare alla felicità delle persone e alla loro longevità dovrebbe essere considerata come una chiamata alle armi per cambiare profondamente le politiche dell’istruzione, sostiene Joel Spring, professore alla City University di New York e maggiore esperto dei sistemi educativi nel mondo.
I modelli educativi del capitale umano hanno assunto come paradigma la positività della crescita economica e hanno chiarito che il benessere consiste nell’accrescere la propria capacità di consumo di sempre nuovi prodotti. In questo sistema di industria e di consumi l’uguaglianza delle opportunità educative significa fornire a ciascuno un’eguale possibilità di essere formato per divenire partecipe dell’economia globale attraverso il lavoro e il consumo. L’uguaglianza delle opportunità consiste nel disporre di uguali chance di guadagno e di reddito per l’acquisto di un flusso infinito di prodotti fabbricati dall’ impresa globale.

Le scuole del capitale umano finiscono così con l’assomigliare a fabbriche per la lavorazione della materia prima umana, testata e certificata per diventare forza di lavoro e di consumo globale.
In questo quadro la fruizione del diritto all’istruzione per l’integrazione sociale non può più essere considerata una finalità sufficiente. Istruzione e cultura sono sempre più gli elementi indispensabili ad ogni singolo individuo, bambina e bambino, ragazza e ragazzo per poter concretamente esercitare il proprio diritto alla salute, alla felicità, che non sono il diritto a consumare, ma bensì a costruire e realizzare il proprio progetto di vita.

Istruzione, formazione, educazione non sono solo mezzo, strumento, occasione, sono invece parte determinante della qualità del progetto di vita di ciascun giovane. In questa dimensione ci rendiamo conto che lo strumentario delle classi, dei voti, della didattica ex cathedra, degli edifici scolastici riciclati da conventi e caserme, eccetera dovrebbe appartenere da tempo ad un’epoca ormai distante e che l’istruzione amica, esperienza ottimale per ciascuno, appagante richiede di essere vissuta e partecipata con mezzi, spazi, relazioni, strumenti che sono tutti da ripensare con creatività e lena.
Lo stesso sistema di valutazione delle competenze imposto dalla Banca Mondiale alle scuole dell’educazione globalizzata, l’Ocse Pisa, ci deve vedere capaci di valutazioni e considerazioni largamente autonome, avendo l’occhio rivolto alla crescita delle persone, alle competenze necessarie alla realizzazione del loro progetto di vita, più che agli interessi della crescita economica e sociale del mondo globalizzato. E’ davvero tempo di nuovi paradigmi per la politica scolastica soprattutto per il nostro Paese che più di altri ha necessità di recuperare sulle numerose stagioni perdute e sui ritardi fin qui accumulati.

Si può e si deve pensare a un sistema scolastico che sia luogo, non della retorica di star bene a scuola, ma di benessere che è ben altra cosa, ad un sistema scolastico che nella organizzazione della sua struttura, nei suoi curricoli, nei suoi metodi di istruzione e di studio contribuisca ad accrescere il benessere e la felicità delle persone, assumendo le persone, prese singolarmente, ognuna per se stessa come il prezioso capitale umano, come valore su cui il nostro Paese, attraverso l’istruzione e il suo sistema, investe per il proprio futuro e soprattutto per prospettare alle nuove generazioni un avvenire più felice, per il quale vale la pena davvero impegnarsi e investire gli anni preziosi della propria crescita.

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Avventure, confessioni e retroscena di quattro amiche con il posto vuoto nell’armadio

Un libro da sfogliare, l’ultima delle librerie vecchio stile e un giornalista-scrittore che le storie d’Italia e i loro risvolti li ha raccontati andando a cercare di persona i luoghi e i protagonisti. E poi lettori e lettrici, amici e conoscenti seduti fianco a fianco in quel negozio salotto che è, appunto, la libreria Sognalibro, nel cuore medievale di Ferrara, in via Saraceno 43. Sono questi gli ingredienti della presentazione di ieri del romanzo d’esordio di Riccarda Dalbuoni, Il posto nell’armadio, edizioni ilmiolibro.it. A parlare con la scrittrice Gian Pietro Testa, autore – tra le altre cose – dell’inchiesta sulla Strage di Peteano, che questo libro avrebbe intitolato anche “Amiche mie”, in quanto sorta di evoluzione femminile del celeberrimo film di Monicelli con Ugo Tognazzi e Philippe Noiret.

Riccarda Dalbuoni mette in scena il sodalizio di quattro inseparabili amiche che, come i celebri personaggi cinematografici, condividono il senso dell’avventura e quello dell’ironia, la voglia di divertirsi e la vocazione al mutuo soccorso. Una presentazione azzeccata che si conclude con un buffet fatto in casa, come avviene tanto spesso negli incontri descritti nel libro della 38enne addetta stampa di Occhiobello. E’ bello – dice Gian Pietro Testa – uscire un po’ dai commenti virtuali condivisi sui monitor di pc e smartphone per ritrovare il piacere di un faccia a faccia concreto. Una rete di scambio che spicca il volo dal connubio online di FerraraItalia e dall’evento divulgato su facebook per trasformarsi in una piacevole chiacchierata tra persone in carne e ossa e pile concrete di libri.

Padrona di casa Serenella Crivellari, che gestisce il suo negozio come uno spazio per accogliere gli amici suoi e, più in generale, quelli dei libri, disseminati tra tavoli, mappamondi e scaffalature che sembrano quelle di una casa e non certo di un asettico store. La maggior parte dei volumi, proprio come quello di Riccarda, parlano di ciò che vive intorno: una distesa orizzontale raggruppa la mistica, la cucina e la letteratura ebraica legate al ghetto ferrarese, a pochi passi da via Saraceno; poco più in là l’arte e i retroscena della famiglia estense; ovunque classici, chicche, curiosità dotte o leggere delle case editrici grandi e di quelle più piccole, che sarebbero introvabili in una catena commerciale. Perché il Sognalibro nasce ormai più di dieci anni fa anche per cercare realizzare il motto di Arthur Schopenhauer: “La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare”. A lettori, amici e passanti la possibilità di scelta.

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Anni di deriva e il futuro resta un’ipotesi

Di fronte alla natura che sta ribellandosi ad anni di incuria, a volte riprendendosi quella parte del territorio che l’uomo aveva a lei rapinato, di fronte all’inettitudine di chi dovrebbe tutelare il nostro territorio, di fronte alla cecità di chi tacciava gli ambientalisti dicendo che denunciare il pericoloso innalzamento della temperatura del globo era inutile e dannoso, di fronte al l’incapacità di sapere programmare politiche ambientali e creare pezzi di economia sul rispetto dell’ambiente, di fronte a popolazioni inermi e terrorizzate,  cosa si può dire della politica italiana e del suo bieco provincialismo?
Cosa si può dire di un governo che mischia in un unico decreto l’annullamento della seconda rata dell’Imu con un sostanziale e cospicuo regalo al sistema bancario italiano, già in parte colpevole, per inefficienza, della crisi, cosa dire dell’incapacità di gestire l’ostruzionismo parlamentare, cosa dire della reazione scomposta ed eversiva dei parlamentari del M5S, cosa dire dell’occupazione degli stessi della commissione che doveva studiare la riforma elettorale, impedendo di fatto i lavori, cosa dire delle offese sessiste alla Boldrini e alle parlamentari del Pd, cosa dire della deriva autoritaria che sta prendendo la nostra democrazia, infine, cosa dire del tycon di Arcore che subodorando odore di vittoria ha già lanciato le sue truppe mediatiche in campagna elettorale, come se il nostro paese non fosse in campagna elettorale permanente. Su tutto ciò poche righe, scritte da un semplice cittadino come me, non sono sufficienti, ma basterebbe fare una profonda riflessione sugli anni che stiamo vivendo, basterebbe pensare alla deriva populista della politica, fatta di immagine e non di sostanza, basterebbe pensare agli equilibrismi volti a mantenere lo “status quo” e non al miglioramento, basterebbe pensare a quella sorta di “mutazione antropologica” in senso berlusconiano che ha preso tutti noi, ormai incapaci di avere una “visione” del futuro.
Sarebbe necessario spendere fiumi di inchiostro per illustrare la situazione ma credo, concludendo i miei pensieri, che, per ora sia sufficiente alzare il nostro sistema di allarme, aumentare le nostre sensibilità e cominciare da noi a pensare al futuro e ad analizzare davvero quali siano le istanze politiche che possano portare il nostro paese a diventare un moderno paese occidentale.

Mal di vodka: in Russia ancora la maggiore causa di morte maschile

Da MOSCA – Secondo uno studio pubblicato il 31 gennaio scorso dalla rivista medica inglese The Lancet, in Russia un maschio su quattro muore prima dei 55 anni a causa di assunzione d’alcol eccessiva, risse, suicidi e incidenti stradali provocati direttamente o indirettamente da tale abuso.
Lo studio e la ricerca, coordinati dal professor David Zaridze, sono stati condotti tra il 1999 e il 2008, su un campione di 151.000 russi delle città di Barnaul, Byisk e Tomsk, in Siberia. Il tutto finanziato dall’UK Medical Research Council, dal British Heart Foundation, dal Cancer Research UK, dall’Unione Europea e dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Interviste a bevitori e a familiari di parenti deceduti a causa dell’alcol hanno portato ai risultati presentati nello studio.
La ricerca ha isolato l’impatto della vodka sui suoi intervistati da altri fattori quali fumo, educazione, luogo di residenza. La scelta della Siberia è stata motivata dal fatto che qui i tassi di mortalità sono simili a quelli nazionali.
Dallo studio è emerso che fra 57 361 uomini fumatori senza malattie pregresse, il rischio di decesso all’età di 35-54 anni è del 16% per coloro che consumano meno di una bottiglia di vodka a settimana, del 20% per coloro che ne consumano 1-2 a settimana e del 35% per chi ne consuma tre o più a settimana. Il corrispondente rischio di morte all’età di 55-74 anni è stato indicato nel 50% per coloro che consumano meno di una bottiglia di vodka a settimana, del 54% per coloro che ne consumano 1-2 a settimana e del 64% per chi ne consuma tre o più a settimana. In generale, è anche emersa la maggior pericolosità della vodka rispetto alle altre bevande alcoliche, per la presenza di etanolo in quantità superiori.
L’aspettativa di vita in Russia è di 64 anni, una fra le cinquanta più basse del mondo, e la correlazione con l’abuso di alcol sembra essere un dato di fatto comprovato e incisivo.
La lotta a questa piaga è ormai storica, in un Paese dove il consumo di sostanze alcoliche ha tipicamente accompagnato celebrazioni e significato ospitalità. Un Paese in cui l’alcol costituiva un enorme fonte di guadagno per lo Stato sovietico, che vi esercitava un monopolio.
La relazione fra leggi “proibizioniste” e il calo della mortalità legata all’abuso di alcol sarebbe stata dimostrata negli ultimi trent’anni. Quando Michail Sergeevič Gorbačëv, nel 1985, proibì la vendita di vodka prima dell’ora di pranzo e ne limitò la vendita ad alcuni negozi, tale restrizione portò, negli anni successivi, a una riduzione di un quarto nel consumo e nella mortalità prematura. Per tali misure, Gorbačëv divenne noto come il mineral’nyi sekretar (Segretario che beve acqua minerale) piuttosto che come un general’nyi sekretar (Segretario Generale).
Nel 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, le restrizioni caddero (anche perché avevano comportato l’aumento del crimine organizzato che prosperava intorno al business clandestino) e sotto la presidenza del “Corvo Bianco”, Boris Nikolaevich Eltsin (leader che, peraltro, ebbe non pochi problemi di salute dovuti all’abuso di alcolici), il tasso di mortalità giovanile raddoppiò.
Nel 2006, Vladimir Putin impose una nuova stretta sulla vendita, innalzando le tasse sugli alcolici, e facendo scendere, negli ultimi otto anni, il consumo di circa un terzo. Anche la percentuale di uomini deceduti prima dei 55 anni è scesa dal 37 al 25%. La percentuale resta ancora alta se comparata al 7% del Regno Unito.
A gennaio 2013, è entrata in vigore la normativa che ha aumentato il prezzo (+36%) della bevanda alcolica nazionale russa, che non potrà costare meno di 170 rubli (circa 4 euro). La decisione è stata presa dal servizio federale per la regolamentazione del mercato degli alcolici, nel tentativo di combattere la diffusione di vodka e di alcolici adulterati. Il provvedimento riguarda, infatti, non solo la vodka, ma tutte le bevande con tasso alcolico superiore al 28%.
Una leggenda russa narra che i cavalieri cosacchi durante un attacco, si trovarono di fronte ad un lago che ostacolava loro il passaggio. Il nemico avanzava e non vi era il tempo di costruire un ponte. Il pope che accompagnava il reggimento cosacco, benedisse allora l’acqua del lago trasformandola in vodka, cosìcche cavalli e cavalieri potessero berla e passare dall’altra sponda.
Ma questa è tutta un’altra storia.

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Fermare la costruzione della Orte-Mestre si può

di Barbara Diolaiti

Nel 1957 iniziò quella che fu definita “la grande bonifica della Valle del Mezzano”, durata una decina di anni, al termine della quale solo pochi lembi vallivi, i più occidentali, non vennero toccati dal prosciugamento. Nello stesso periodo numerosi Paesi e organizzazioni stavano invece già ragionando sulla necessità di proteggere le aree umide; una riflessione che condusse alla firma della Convenzione di Ramsar, il 2 febbraio 1971. “Le parti contraenti, riconoscendo l’interdipendenza tra l’uomo ed il suo ambiente, (…) convinti che le zone umide costituiscono una risorsa di grande valore economico, culturale, scientifico e ricreativo, la cui perdita sarebbe irreparabile; desiderando arrestare ora e per l’avvenire la progressiva invasione da parte dell’uomo e la scomparsa delle zone umide…”

La Convenzione di Ramsar venne ratificata e resa esecutiva dall’Italia col DPR n. 448 del 13 marzo 1976 e con il successivo DPR n. 184 dell’11 febbraio 1987. Ma il Mezzano era ormai trasformato in terreni agricoli.

Ora si sta rischiando un nuovo pericoloso anacronismo: quest’area agricola, una delle più grandi non urbanizzate in Europa, è interessata dal progetto di una nuova autostrada, che la spezzerebbe a metà. Della Orte – Mestre si discute almeno dagli anni ’90, del tracciato, della necessità o meno di quest’opera, osteggiata fin da allora da associazioni ambientaliste e Verdi.

A inizio novembre 2013 il Cipe ha dato il via libera alla realizzazione della Orte – Mestre. Quattrocento km di autostrada che correrebbero attraverso terreni agricoli.

L’art. 9, comma 2 della Costituzione italiana recita: “La repubblica Italiana tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

“Un articolo con ogni evidenza non attuato – spiega Luca Martinelli di Altreconomia, invitato a discuterne in un incontro pubblico organizzato venerdì 7 febbraio dal comitato provinciale di Ferrara, costola del coordinamento nazionale contro la Orte – Mestre, nato poco più di un mese fa – In Italia i terreni agricoli vengono considerati territorio libero, pronto per essere coperto da nuovo cemento.”

Nonostante la costante emergenza idrogeologica mostri che di nuovo cemento questo Paese non ha alcun bisogno.

Il costo stimato per la Orte – Mestre si aggira tra i 7 e i 10 miliardi di euro. La più costosa tra le grandi opere previste. Almeno 4  miliardi dovrebbero venire coperti dal prestito delle banche, con rientro nel 2040, e con conseguente aumento del debito dello Stato.

“E se le banche dovessero sfilarsi – prosegue Luca Martinelli – è molto probabile un intervento di Cassa Depositi e Prestiti il che significherebbe finanziare un’opera inutile con i risparmi postali dei cittadini e, di nuovo, tradire la natura stessa di Cassa Depositi e Prestiti. E in ogni caso il rischio di un inizio lavori senza la certezza di riuscire ad avere la copertura economica è reale. Tutta l’opera si basa sulla stima di un aumento di traffico tra il 2022 (data presunta di termine dei lavori) al 2040 del 25% rispetto ad oggi. Un’assurdità considerando che già oggi tutti i concessionari di autostrade chiedono, e ottengono, la possibilità di aumentare le tariffe causa la diminuzione di traffico.”

Le nuove autostrade progettate in Italia sono oggi 32, ben 20 delle quali insistono sul territorio della Pianura padana.

Perché ancora grandi opere anziché la cura e la messa in sicurezza del territorio? A questa domanda aveva risposto non molto tempo fa a Ferrara Ivan Cicconi nel corso di uno degli incontri di “Invertire la rotta” organizzati dal Comitato locale per l’acqua pubblica: “L’impresa post-fordista non produce nulla in proprio, ma parcellizza, appalta e subappalta. Per funzionare, per fare profitti, questa impresa ha bisogno di grandi opere come la Tav o la Orte- Mestre: grandi opere per le quali non ci sono soldi sufficienti stanziati; così entra in gioco la finanza producendo un aumento di debito occulto dei Paesi. L’impresa post-fordista deve avere traguardi a breve e una politica in sintonia. Così viene eliminata l’utopia, ogni ipotesi di cambiamento e la politica diviene adeguamento all’oggi.”

“La Orte – Mestre non è considerata strategica dall’Europa – conclude Martinelli – e l’alleanza tra cittadini e amministrazioni è elemento fondamentale per evitare follie di questo genere, ma anche nel caso di istituzioni miopi, la battaglia è ancora aperta, appena iniziata.”

E se oggi fermare la Orte – Mestre può sembrare un’impresa titanica, il Comitato non dimentica che il Ponte di Messina non si farà più.

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La passione per le cattive notizie

E’ noto che le cattive notizie attraggono l’attenzione di più di quelle buone. Ogni giornalista lo sa: le cattive notizie aumentano le tirature dei quotidiani e alzano gli ascolti alla tv. Persino le previsioni di drammatiche nevicate a bassa quota, piogge torrenziali, freddo polare e così via (che tra qualche mese saranno rimpiazzate dalle previsioni sulla siccità) sembrano produrre un certo “godimento”. Si intuisce che in questi annunci non è in gioco il servizio, ma lo spettacolo della paura.
I telegiornali fanno quotidianamente simili operazioni, alzando la voce prima di tutto e creando un clima di emergenza, anche con il concitato incedere del discorso. L’apertura del Tg5 ne è un esempio, ma i talk show non sono da meno! Certo, mi si dirà, la situazione non è rasserenante e basta un po’ di maltempo perché si verifichino frane disastrose. Ma c’è anche altro.
Se mi interrogo sulle ragioni trovo molte risposte, nessuna da sola completamente convincente. Innanzitutto, paga l’attenzione per ciò che è sensazionale, fuori dalla norma, straordinario, si tratti di un fenomeno naturale, di un atto di follia umana, di una disgrazia imprevedibile. Inoltre, il dolore muove sentimenti di empatia e, in un certo senso, mette in prospettiva e ridimensiona le fatiche e i guai quotidiani.
La commozione per le disgrazie altrui ci fa sentire buoni a poco prezzo. È noto che i video diventano più facilmente virali quando suscitano commozione: si sa che siamo più solidali con il dolore altrui, in cui specchiamo una nostra eventuale sofferenza, che con la felicità dei nostri simili, che sollecita emozioni di invidia.
Gli eventi drammatici hanno un effetto simile a quello di un thriller: ci immergiamo nel film con emozione, avvertiamo realmente paura, come se fossimo dentro lo schermo, ma al termine della visione riusciamo a prendere le distanze e ci ritroviamo nella nostra realtà quotidiana, che a quel punto ci appare rassicurante e, persino, molto meno noiosa di quanto la pensassimo poco prima.
La paura è un’emozione che paralizza e lascia impietriti. È un’emozione ben diversa da quella correlata all’incertezza, alla difficoltà di valutare e prevedere le conseguenze di diversi corsi di azione. La paura, in un certo senso, ci deresponsabilizza. In un tempo in cui sentiamo crescere l’incertezza, la paura può diventare rassicurante, perché toglie la responsabilità di agire, di scegliere il corso di azione da intraprendere, nella vita privata come in quella pubblica.
La preferenza per le cattive notizie si declina su molti piani. Ad esempio, provate ad affermare che i tassi di criminalità comune sono in Italia molto inferiori a quelli di molti Paesi europei, provate a smentire, con dati alla mano, la convinzione che negli ultimi anni sia aumentata la criminalità diffusa; provate a dire a genitori di preadolescenti che la probabilità di stalking on line è di gran lunga più remota di quella che si verifica nella scuola o nei gruppi di pari; provate a dire agli insegnanti che non vi è alcuna ragione di avere paura che le tecnologie siano dannose per i minori, se loro stessi sono in grado di alimentare buone relazioni e capacità riflessiva. In tutti questi casi riceverete risposte ostili, in quanto contrarie ad una consolidata, quanto infondata, certezza.
La paura è una risposta pigra all’incertezza, una scorciatoia facile di fronte alla difficoltà di comprendere e fronteggiare le questioni del proprio tempo.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma)

Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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Contro la mediocrità degli uomini ragionevoli e obbedienti

Due tipologie umane si contrappongono nell’agone politico: gli estremisti fondamentalisti e i cosiddetti uomini ragionevoli. Nella precedente rubrica ho parlato dei primi, ora vorrei dedicarmi ai secondi. Sgombriamo il campo da un equivoco: il bersaglio non è la razionalità che, ovviamente, è un bene prezioso nella vita privata e pubblica. Ma, come recita il titolo di questa rubrica, esistono diversi tipi di ragioni.
Il mio obbiettivo polemico è ben descritto da Ernesto Rossi: “Se gli uomini ragionevoli avessero avuto la prevalenza in passato, vivremmo ancora in tribù, facendo sacrifici umani per placare le divinità infernali, e facendo lavorare gli schiavi come animali.” E’ il gruppo raccolto attorno a Mario Pannunzio che, sulle colonne del Mondo negli anni cinquanta, chiedeva all’anemico mondo liberale italiano: “Date ai liberali un leader insofferente della mediocre ragionevolezza borghese!”.

Se meditiamo sulle conquiste fondamentali della moderna democrazia, si può constatare che la separazione dei poteri, il suffragio universale, le Costituzioni, lo Stato di diritto, la libertà di coscienza, la tolleranza, il pluralismo, lo stato sociale, la parità di genere, i diritti di ultima generazione, cosa sono state se non tutte pazzie per la maggioranza delle persone ragionevoli di quei tempi? Mentre oggi sono accettate dai molti e da ciascuno…

In questo tempo, fra gli elementi che paralizzano la volontà di innovazione nel campo della politica e della vita pubblica vi è l’abdicazione delle classi dirigenti rispetto alla loro funzione di pensare in grande e di realizzare nel concreto la svolta necessaria. E’ prevalsa la sciagurata cultura dell’emergenza che costringe ogni ragionamento nella prigione del dilemma: o si fa così, oppure salta tutto! Ci si rende conto che questa logica sta spegnendo la creatività della grande politica, in Italia e in Europa? Quella che mette una barriera fra interesse privato e impegno per il bene comune?
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi da troppi anni: cadono le regole (il Parlamento ridotto come un saloon del Far West) e dilaga la corruzione; incerti i diritti di ciascuno; potenti le lobby di ogni tipo; forti le mafie, dichiarate ed occulte; invaso il mondo politico da politici senza vocazione; annullata quell’etica della responsabilità che richiama ciascuno alla fedeltà ad un progetto e non ad un capo bastone; dissipata l’idea stessa di interesse generale e di giustizia. La vera emergenza è fare penetrare dentro questo mondo una vigorosa lotta culturale e ideale che ridia valore e concretezza ad un possibile e radicale cambiamento.

Stia attento, quindi, il potere politico, alle conseguenze dei propri atti. Non è detto che essi siano tutti prevedibili o previsti: la corda è tesa al massimo. E’ in corso da tempo un logoramento di quella coscienza generale cui è affidata la conservazione dello spirito di libertà e del patto su cui si fonda il legame sociale. Quando il potere prevarica o è impotente di fronte alle ingiustizie; quando la propria immagine si svincola da ogni controllo e rispetto delle regole fino allo scandalo di un pregiudicato che dirige un partito, o ad un responsabile organizzativo che fa suoi 25 milioni di euro del finanziamento pubblico…. può accadere che qualcosa muti nel profondo dell’ethos pubblico. E tra la persona ragionevole che si piega all’obbedienza e il potere distante, può farsi largo l’individuo disperato che non faticherà a trovare il demiurgo pronto a guidare lui e il Paese verso l’abisso.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

splendore

‘Splendore’ di un amore vietato, diverso e lontano

Un libro che occupa uno spazio, lo spazio della densità che c’è nelle righe e tra le righe di Splendore (Mondadori, 2013), l’ultimo romanzo di Margaret Mazzantini, una scrittura che si fa posto e rimane lì a fare da riferimento, soprattutto dopo avere finito di leggerlo.
Splendore, con quella copertina dai colori un po’ sfumati di un’alba rosata, è potente come la vita quando ne incontra un’altra che non lascerà mai più. È un romanzo che pone un orizzonte di domande, sospensioni, tentativi, fughe e ricerche attorno a un amore che è splendore. Costantino e Guido si amano e lo fanno per tutta la vita, anche quando altri, o meglio altre, dovrebbero essere le destinatarie dell’amore di coppia, quello coniugale e riconosciuto. Costantino e Guido si amano nonostante, soprattutto, sempre, benché la vita spesso glielo neghi. Si amano nella distanza che c’è tra Londra e Roma, nel silenzio di quelle parentesi mute di lontananza, “la nostra relazione si era edificata sui divieti, all’estrema periferia delle nostre identità. Ma aveva retto a tutto, come quelle piante che crescono sui burroni e non vogliono saperne di cedere”.
Costantino e Guido lottano tra di loro e contro quella vita interiore così dolorosa, con il bisogno così urgente di ricomporre se stessi. E l’unità la raggiungono insieme, in quei momenti di pienezza in cui è possibile sentirsi completamente liberi di essere.
È davanti al mare, fermo come il loro coraggio, che si impone il momento della volontà che non ha dubbi e non deve più nascondersi. Costantino e Guido si sono finalmente raggiunti, si sono congiunti in un unico sogno che non avrà neanche il tempo di essere assaporato nella dolcezza di un’attesa perché tutto si spezza, arriva il branco, la violenza di gruppo, il buio.
Nulla è più come prima, la vita di Guido si trascina, arranca, rimane zoppa e rinsecchita. A sorreggerlo ora, come un tempo, Izumi, sua moglie, l’altra vita, l’altra storia, l’altro bene, lei che con quelle tende di seta selvatica dai riflessi porpora, ha insegnato a Guido a guardare oltre la finestra di casa, ad accogliere il giorno con le sfumature di una luce filtrata calda e rosata.
Splendore è una storia di segreti, ciascuno custodisce il suo e quello di qualcun altro, ma la rivelazione prima o poi si mostra. Giunge, a un certo momento, la verità di Costantino, cercato dopo un lungo viaggio che è anabasi e catabasi insieme, discesa dall’Inghilterra all’Italia, risalita verso un obiettivo, l’amore. La verità che sta venendo incontro a Guido è scritta al contrario, è una scoperta che ne contiene un’altra, più antica, più larga e allora “ciao onitnatsoC”.
Così il mare che li aveva accolti in quella notte di amore e dolore è una nuova meta, un porto da cui guardare un nuovo sogno.

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Il Gran Ballo Russo a Roma: costumi dell’Ottocento e magia

da MOSCA – Anno incrociato del Turismo italo-russo, il 2014. Bella fortuna per noi, avremo di che scrivere e sbizzarrirci. Potremo spaziare, incuriosirci e incuriosire, sognare, volare, insomma raccontare.
Per chi poi ama particolarmente la Russia, la sua storia, la sua cultura e la sua dimensione di favola e d’incanto, sarà un vero piacere scoprire o riscoprire la musica e la magia del legame autentico che da sempre c’è con il nostro Paese. Ripartiamo quindi dalla nostra capitale. Certo, perché qui, lo scorso 11 gennaio, negli incantevoli saloni dell’Hotel St. Regis si è svolto il Gran Ballo Russo. Questo posto, degno del ballo di Cenerentola con il suo bel principe azzurro, o meglio la catena che esso rappresenta, ha già di sé origine degna di un mito: la New York dell’età dell’oro, quando spiccavano nomi e peripezie delle aristocratiche famiglie Carnegie, Vanderbilt e Rockefeller. Alla guida di questa nuova alta borghesia vi era Caroline, della famiglia Astor, che selezionava personalmente e attentamente le persone di cui circondarsi, diventate subito note come le “400”. Da lei al figlio, il colonnello John Jacob Astor IV, la creazione di una visione avrebbe presto portato alla nascita del punto di riferimento newyorchese per le Belle Arti, The St. Regis New York, inaugurato nel 1904. Serate sontuose e nomi importanti, che col tempo personificarono lusso e stile, diedero il via e la luce a un’epoca.

Da quel periodo lontano partiamo per immergerci nel fascino dell’omonimo albergo a Roma.
Entriamo, allora, nelle sale sfavillanti e luccicanti, ovviamente con la fantasia perché, purtroppo, non c’eravamo. Tuttavia, siamo ormai abituati a questo tipo d’incursioni. Dicevamo, entriamo, sentiamo le note, vediamo belle coppie innamorate che sfilano a braccetto nei costumi dell’epoca ottocentesca. I ventagli, le corone, i guanti, le ciprie, i gioielli, tutto luccica e profuma.
E’ gennaio, fuori non fa freddissimo, almeno non a Roma, a Mosca ci sono dieci gradi sotto lo zero. Il salone da ballo è il Ritz, dalle colonne corinzie in marmo che sostengono il soffitto a volte arricchito dagli affreschi del ritrattista Mario Spinetto. Vi sono ambasciatori, diplomatici, artisti, giornalisti e intellettuali, ma soprattutto c’è La Compagnia Nazionale di Danza Storica diretta da Nino Graziano Luca. Presto si balleranno valzer, mazurche, polche, galop.
Si intravedranno Nataša Rostova di Guerra e Pace (e con essa l’elegante Audrey Hepburn che l’ha interpretata nel 1956), innamorata del principe Boris, e Anna Karenina, la perla dell’alta società di San Pietroburgo. Al centro vi sono i racconti di Aleksandr Sergeevič Puškin, Lev Tolstoj e le musiche di Aleksandr Konstantinovič Glazunov, Aleksandr Porfir’evič Borodin, Pëtr Il’ič Čajkovskij. La violinista Diana Arshakian suona i famosi e imponenti brani dei maggiori compositori russi e la nota e splendida ballerina russa Natalia Titova interpreta il ruolo di Anna Karenina. Fra i costumi dei partecipanti al Ballo, alcuni sono originali, altri sono realizzati da sartorie artigianali, richiamandosi ai quadri ottocenteschi, alle illustrazioni di altri tempi, alle descrizioni dei romanzi di Lev Tolstoj, Charles Dickens, Honoré de Balzac, e prendendo spunti dalla rivista Teatri, arti e letteratura, che proponeva, intorno al 1830, abiti da ballo in crespella liscia, rifiniti e decorati con raso, fiori e bottoni d’oro e completati da una collana d’oro e un pettinino sui capelli, intarsiato di piccole pietre preziose. I colori? Bianco, verde, giallo e oro. Anche questa è arte, un’arte che contraddistingue la grande abilità manuale e sartoriale italiana. Se si partecipa (l’evento è aperto al pubblico), ci si sente sicuramente protagonisti, un po’ eleganti e aristocratici, un po’ principi e principesse, un po’ sognatori e sognatrici.

Ci piace immaginare di essere a uno dei balli della Russia imperiale, quando la stagione iniziava in autunno e si estendeva fino alla primavera. Essi diventavano festosi e chiassosi in prossimità dei festeggiamenti della Maslenitsa (o Settimana del Formaggio), il Carnevale russo, quando i bliny riempiti di uova sode sminuzzate fanno da padroni. Anche in estate, la gente amava andare ai balli. Il successo di una stagione danzante non si stabiliva solo sulla base dello sfarzo delle feste, delle sue luci e dei vestiti, ma anche in base al numero di nuove coppie di fidanzati che nascevano durante quei festeggiamenti. D’animo romantico, vogliamo pensare che anche qui a Roma qualcuno si sia incontrato o ritrovato dopo lunga attesa.
San Pietroburgo era la località prediletta per lo svolgimento dei balli di corte. Nella sala Nikolaevsky del Palazzo d’Inverno, si celebrava il “Gran Ballo”, che apriva la stagione. Seguivano i “piccoli” e “medi” balli dell’Ermitage e del Palazzo Anichkov. Prima di ogni ballo, gli invitati ricevevano dei raffinati inviti, spesso disegnati dagli artisti più noti, che si occupavano anche delle locandine colorate. Ci piace pensare che i ventagli di piume, che notiamo anche al St. Regis di Roma, abbiano anche qui il loro linguaggio, quello dei secoli scorsi. Un ventaglio aperto agitato dalla bella dama per farsi aria significa “sono sposata”; un ventaglio chiuso tuona un severo “non sono interessata”; con l’apertura di una sola piega del ventaglio, la prima, ella vuole dire “restiamo amici”. Un bel ventaglio completamento aperto significa “sei il mio idolo”, e qui qualcuno è ben aperto… un modo gentile e discreto di attirare l’attenzione dei cavalieri, di sedurre con leggerezza, di svelare a poco a poco il proprio volto, di sfiorare i capelli lucidi illuminati da cerchietti di diamanti.
La preparazione all’evento era la stessa di oggi: si sfogliavano le riviste di moda dell’epoca, principalmente francesi. I fiori adornavano gli abiti, impreziosivano i gesti. Allora come ora.
Se poi si aveva un piccolo carnet du bal, ci si appuntava discretamente nomi e piccoli simboli.
L’ultimo grande ballo imperiale russo si svolse il 23 febbraio 1913, nelle sale dell’Assemblea della Nobiltà a Mosca, in occasione del 300˚ anniversario della dinastia Romanov. Dopo la rivoluzione, balli e tradizioni della vecchia Russia furono tutti relegati al passato. Il mito si mantenne comunque vivo grazie all’arte, la cinematografia, la musica e il teatro. E grazie a eventi come quello di Roma. Qui sogno e passato ancora si abbracciano delicatamente e si sorridono teneramente. Dietro un’aura di romanticismo che ci piace davvero.

Il Ballo descritto è stato patrocinato dall’Ambasciata della Federazione Russa, dal Foro di Dialogo Italo – Russo delle società civili, dal Centro Russo della Scienza e della Cultura, dalla Fondazione “Centro per lo sviluppo dei rapporti Italia Russia”, dall`Enit, dal Comune di Roma, dall`assessorato alla Cultura, creatività e promozione artistica del Comune di Roma.
Se pur già passato da circa un mese, desideravamo parlarvi dell’evento al fine di annotarlo per l’anno prossimo e perché ha inaugurato il citato anno del turismo.

Torquato_Tasso

Genio e follia di Torquato Tasso, cantore maledetto di dame e cavalieri

TORQUATO TASSO
(a 470 anni dalla nascita)

Torquato Tasso (1544-1595) nacque a Sorrento da madre napoletana e da padre bergamasco: Bernardo Tasso, anch’egli letterato e poeta, autore di un poema cavalleresco, l’Amadigi, assai celebre all’epoca. All’età di otto anni dovette abbandonare la madre, accompagnando in esilio il padre, per non rivederla mai più. Nel 1565 si stabilì presso la corte ferrarese, al servizio del cardinale Luigi d’Este, nel 1572 passò al servizio del duca Alfonso II e tre anni più tardi cominciò a manifestarsi in lui la grave forma di nevrastenia responsabile di quei gesti irrazionali e clamorosi che gli procurarono l’arresto e l’internamento come folle nell’ospedale Sant’Anna, dove rimase segregato per sette lunghi anni.
Le opere fondamentali di Torquato Tasso sono: il Rinaldo (1562), l’Aminta (1573), la Gerusalemme liberata (1575), Re Torrismondo (1587), le Rime (1591 e 1593), la Gerusalemme conquistata (1593), i Discorsi (1594), i Dialoghi (1595), oltre a un Epistolario di circa 1.700 lettere, che accompagnano tutta la sua travagliata esistenza, ne illustrano le vicissitudini e l’attività artistica.
La genesi del capolavoro del Tasso: la Gerusalemme liberata, è abbastanza complessa. Nel 1559 il giovane Torquato, mentre si trovava a Venezia al seguito del padre, iniziò la stesura di un poema sulla prima crociata, intitolato provvisoriamente Del Gierusalemme e interrotto un paio d’anni più tardi dopo un centinaio di ottave. «Il primitivo abbozzo – precisa lo studioso Mario Pazzaglia – venne ripreso a partire dal 1564 e condotto a termine, con attività intensissima e quasi febbrile, nell’ultimo triennio, nel 1575, col titolo Il Goffredo (il titolo Gerusalemme liberata compare nelle prime edizioni del poema, uscite, mentre il Tasso era in Sant’Anna, contro la sua volontà); nel ’76 ebbe inizio la tormentosa vicenda della revisione del poema, che tante preoccupazioni e angosce apportò al poeta, fino al rifacimento compiuto negli ultimi anni col titolo di Gerusalemme conquistata, espressione di una profonda crisi spirituale e letteraria».
Commossi ammiratori di Torquato Tasso furono, fra i tanti, Goethe, Leopardi, Baudelaire. Nel 1800 i romantici videro in lui il genio incompreso, il poeta “maledetto”, perseguitato dalla società meschina incapace di comprenderne la grandezza, i positivisti cercarono invece di interpretarne la personalità mediante lo studio “clinico” della sua follia. «A pochi scrittori è stato concesso, come lo fu al Tasso, – scrive il critico Marziano Guglielminetti – di vivere e rappresentare le aspirazioni e le frustrazioni del proprio tempo in maniera che può ben dirsi emblematica. L’esistere e lo scrivere, pur intrattenendo in lui relazioni difficili e complesse, non tendono mai a dissociarsi e a procedere separatamente; e non solo perché la poesia nasce con difficoltà dall’esperienza della vita concreta e quotidiana, ma perché di tale esperienza è talvolta origine e spesso redenzione».

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

Il bigodino della Pinca e le profezie dell’Altea

Pronto Ada, hai tempo? Sì? Allora siediti che ti racconto. L’altra mattina alla Conad incontro la signora Pinca, te la ricordi la Pinca, quella bassina, gamba corta, polpaccio poderoso ma tanto a modino, sempre con la sua volpe al collo, sempre col ricciolo fresco di bigodino… insomma, mentre una lattuga e due peperoni planavano nel carrello (ci si deve pure procurare da vivere anche senza servitù) mi sorprendo a raccontare alla bassina le mie preoccupazioni finanziarie, con la pensione che non aumenta di un centesimo, con le banche commissariate, come andremo a finire? Quel sant’uomo di mio marito s’arrabbia se gli parlo dei nostri risparmi in pericolo… Non finisco la frase che la signora Pinca, a carrello accostato e voce insinuante, sentenzia “C’è solo una cosa da fare: andare dall’Altea” e mi spiega che l’Altea è una ragazza, ragazza si fa per dire perché non ha mai avuto marito, ragazza sui cinquant’anni che per colpa di una scoliosi mal curata è rimasta leggermente gibbosa, sa come Leopardi, non era mica gobbo Leopardi, soltanto un po’ gibboso.
Insomma, la signora Pinca conclude che la gobba è bravissima a leggere le carte e che lei ci va spesso e ha intenzione di ritornarci presto per chiedere all’arcano, tra l’altro, che fine farà quel bel giovanotto di Casini, moderato che non sa più chi moderare. La virata democristiana mi convince, detto fatto andiamo dall’Altea. Nell’anticamera dello studio stagna un certo odorino che non è proprio cattivo odore, ma quella puzzina gialla di colonie da poco prezzo, non un soffio di Caleche, non un’idea di Arpege, pazienza.
Le convenute, tutte donne, raccontano i fatti dell’Altea: “A mio marito aveva predetto che sarebbe morto, invece l’operazione è andata bene, poi è sopraggiunta una complicazione: è mo’ morto!”, conclude la vedova con saporita voce di stomaco. Non è da meno la sua vicina: “ Glielo aveva tanto detto a mia cognata di non comperare la casa a Mirabello lei no, ostinata a dire che era un affare: la casa di Mirabello è crollata col terremoto, tale e quale come aveva previsto l’Altea”.
La puzzina gialla era diventata più consistente o, forse, ero io che stavo cedendo, fatto sta che alla terza morte e al quarto infarto divinati nelle stelle mi sono fatta coraggio e ho salutato la compagni, adducendo un improvviso malore.
Mentre galoppo verso la macchina mi viene in mente un altro rimedio infallibile consigliato questa volta dalla badessa del collegio dove ho studiato. Giovane sposa, rivelo alla monaca il mio desiderio di un figlio e lei sentenzia, proprio come la signora Pinca: “Per avere un figlio bisogna fare una cosa sola: pregare”. Al sant’uomo non piace pregare.

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Il freddo va di moda

Da MOSCA – La neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve. (Maxence Fermine, Neve)

In parallelo alle Olimpiadi Invernali di Sochi, da un osservatorio privilegiato come può essere ora quello di Mosca e quando tutti i giornali parlano della Russia, delle sue posizioni intransigenti su numerose tematiche, è difficile non percepirne il freddo, il ghiaccio, la neve, le temperature polari.
L’inverno russo è un’idea di questo immenso Paese, parte integrante della sua forte identità, e, oggi, ne è forse anche diventato un vero e proprio brand. Questo freddo diventa sinonimo di tante cose insieme, di bellezza, di spensieratezza, di gioco, di salute – vigore, freschezza, fantasia, vivacità, colore, guance rosse che si osservano sui volti dei pattinatori delle piste del Gorky Park – e, non da ultimo, di moda. Qui si è davvero imparato a vendere il freddo, un’arte e un business.
Neve russa, foreste russe, montagne russe (non nel senso di ottovolanti, ovviamente, che, peraltro, i russi chiamano amerikànskije gòrki, ovvero “colline americane”…), giochi d’inverno russi, colbacchi russi, stivali russi, vodka ghiacciata russa. Dobbiamo correre ai ripari. Fa davvero freddissimo.
A meno ventisette gradi sotto lo zero, ci avventuriamo, allora, alla ricerca del colbacco perduto, perché qui senza uno di essi non si può reggere davvero l’inverno… Ne scopriamo una varietà incredibile, un copricapo con una sua storia. Da ragazzini, quando “militavamo” nelle Giovani Marmotte, legavamo questo copricapo a quello di Davy Crockett. Eravamo orgogliosi di possederne uno quando, con gli scout, correvamo su e giù per le montagne. Ma questo cappello di pelliccia con una specie di codina è un’altra cosa, qualcuno di noi si avvicinava maggiormente al copricapo russo se indossava una sorta di berretto da aviatore con i paraorecchie (in russo, ushanka). Il suo progenitore, il treukh, divenne popolare già nel XVII secolo. Questo colbacco di pelliccia, solitamente di pecora, sul davanti era adornato da un ampio orlo di pelo, sulla nuca si allungava in una falda che arrivava fino alle spalle e le orecchie erano protette da due paraorecchie, legati sotto il mento per proteggere la gola dal vento e dal gelo. L’ushanka è in uso ancora oggi in diversi colori (grigio per la polizia, nero per la marina). I soldati che devono stare di guardia in piedi al gelo, con i paraorecchie sollevati, risolvono il problema indossando un cappello di una misura maggiore, che scende sulle orecchie e in tal modo impedisce loro di congelarsi. Lo notiamo quando passiamo, intirizziti, nella Piazza Rossa e osserviamo queste guardie immobili non solo per ruolo e funzione ma anche forse un po’ per il freddo… Dal guardaroba militare l’ushanka era passato presto in quello civile. Durante il periodo dell’Unione Sovietica, questi cappelli di pelliccia, di pelo di renna, di castoro, di topo muschiato e di altri animali erano indossati dalla maggioranza della popolazione maschile. Non meno amato era ed è il colbacco del Kuban (kubanka). Giunta dal Caucaso, la kubanka o papakha era un attributo dei Cosacchi del Kuban (da cui prende il nome). La papakha classica è un copricapo di forma cilindrica dalla sommità piatta, di astrakan.

Fin dal periodo sovietico, fu straordinariamente popolare la versione femminile della kubanka, fatta di pelliccia a pelo lungo o di volpe bruna. Questo accessorio divenne di moda grazie ai costumisti della Mosfilm, storico studio cinematografico nato a Mosca nel 1923: lo indossava infatti la protagonista di un film molto amato da tutti i russi, Ironia del destino. Io ricordo anche quello della bella Lara del Dottor Zivago. Oggi questo tipo di kubanka è tornato di grande attualità: si può tranquillamente tirare fuori dall’armadio quella di volpe bruna della nonna, della vecchia zia o della mamma, toglierla dalla sua scatola di latta (che si dice sia il modo migliore per conservarla, per non sciuparne forma e pelo) e indossarla con un cappotti classici o mantelle stile anni ’60. Anche l’ushanka ritorna. Celebri marchi come Bally e Ralph Lauren invitano a completare il proprio look invernale con i cappelli paraorecchie. Anche alcune creazioni di Chanel ricordano questo copricapo.
Ci sono, poi, gli stivali di feltro, qualcuno ha scritto, simpaticamente, Valenki alla riscossa. Perché questi stivali si chiamano, appunto, Valenki, le tradizionali calzature russe che tornano di moda, nei loro più svariati colori. Se ne trovano di finemente ricamati, decorati con stampe o rifiniti con pelliccia. Non solo tengono i piedi caldi e comodi durante l’inverno (sono fatti di feltro di lana di pecora e massaggiano leggermente i piedi camminando), ma sono anche considerati delle opere d’arte folkloristiche, di moda e facilmente personalizzabili, perché alti, bassi, larghi, stretti, sotto o sopra il ginocchio. Diffusi fra tutte le classi sociali, stanno aumentando in popolarità, tanto da fare ormai seria concorrenza ai modaioli Ugg australiani. E poi sono spettacolari, perché uguali, non vi è un destro e un sinistro e, credetemi, che quando siete impacchettati per uscire al freddo non dover scegliere quale stivale va indossato per primo è davvero comodo. Acquistatelo, tuttavia, in una taglia più grande se volete indossare calze pesanti… con galosce di gomma sopra se piove. Li potete trovare nei mercatini di souvenir, come quello di Ismailovo a Mosca, o in alcuni negozi del centro. Se vi interessa capire la loro origine e storia e come sono prodotti potete anche visitare il museo dei Valenki, vicino alla stazione dei treni Paveletskaya. Se, infine, siete particolarmente curiosi, vi sono anche canzoni russe dedicate ad essi (di Alexandra Strelchenko o di Efrosinia).
Perché il freddo, che va sempre più di moda, si compra e… si ve(n)de.

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A Ferrara il bestiario fantastico di un maestro vetraio che fa scuola anche all’estero

Un artista del vetro, che vive e lavora a Ferrara, ha sviluppato una tecnica e uno stile di lavorazione tanto particolari da essere chiamato nelle scuole di arte e design in Italia e all’estero per insegnare come plasmare questo materiale. E’ Alberto Gambale, diplomato all’Accademia di belle arti di Bologna, con oltre vent’anni di esperienza artigiana e artistica che lo rendono uno tra i maggiori esperti della lavorazione del vetro. Gambale, infatti, è docente alla scuola Vetroricerca di Bolzano – unico ente nazionale di formazione artistica in questo campo – e tiene annualmente corsi al Centro nacional del vidrio di La Granja, vicino a Madrid, in Spagna. La sua tecnica spazia dalla più moderna vetrofusione, che porta a creazioni di effetto molto contemporaneo, fino alla classica rilegatura a piombo delle antiche vetrate.

Un’occasione per vedere le realizzazioni di Gambale è la mostra, a Porta degli angeli fino a martedì 11 febbraio. Un bestiario fantastico, che unisce creatività e pulizia stilistica. Un missile con le squame di pesce e le ali di uccello accoglie il visitatore. Il mostro colorato è come un richiamo a entrare in questo fortilizio dalle ampie porte-finestre che si affacciano sul verde delle mura di Ferrara. Gambale rivela qui la sua capacità di dare un’anima giocosa a vetro, legno e acciaio. Il manufatto di grandi dimensioni, oltre 4 metri di lunghezza per un paio di metri d’altezza, apre la rassegna dedicata alla serie di creature immaginarie. All’interno altre opere trasformano in un percorso ricco di magia stanze, anfratti e scale a chiocciola di questa torretta civica. Ogni scultura diventa elemento narrativo capace di sfruttare gli spazi dell’edificio storico. Il filo conduttore è evocato dal titolo della mostra: “Il volo dei senza nome”.

Un viaggio che continua dopo il debutto, ormai una decina di anni fa, all’interno del castello del Verginese, vicino a Portomaggiore di Ferrara. La Delizia è stata la residenza di Laura Dianti, compagna del duca di Ferrara Alfonso d’Este dopo la morte della moglie Lucrezia Borgia. Una leggenda vuole che lo spirito della Dianti aleggi ancora in quella dimora ferrarese. E partendo da questo spunto suggestivo, legato alla storia estense, Gambale crea il percorso scultoreo che vede l’antica dama nei panni immaginifici di donna-albero, amica e guardiana degli strani animali approdati in sua compagnia con il comune desiderio di spiccare il volo. Una favola che prende le sembianze traslucide, attuali e suggestive del vetro colorato e delle forme giocose di strani animali, dove ogni creatura si può indovinare per il tipo di maculazione e forma di zampe, dorsi e creste. La primadonna di corte è presentata in sembianze arboree, mentre zebra, toro e camaleonte sono accomunati dalla presenza di un becco di uccello, che simboleggia l’inizio della metamorfosi in atto per esaudire il sogno di staccarsi da terra.

Numerose le esposizioni e le opere pubbliche realizzate dall’artista. Sue opere sono conservate in collezioni museali e private. Da alcuni anni affianca alla propria produzione la collaborazione con artisti e studi di progettazione architettonica.

La mostra “Il volo dei senza nome” dentro a Porta degli angeli, in Rampari di Belfiore 1 a Ferrara, è a cura di Alberto Squarcia e Vincenzo Biavati dell’associazione Stileitalico in collaborazione con la Circoscrizione 1. Orari: fino all’11 febbraio tutti i giorni 15-17. Sabato e domenica 10,30-12,30 e 14,30-18 con musica e laboratorio per bambini e ragazzi.

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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Claudio Fava al liceo Ariosto parla di mafia e dittatura. E dell’antidoto del coraggio [audio]

La forza di lottare contro ogni forma di oppressione per una vita libera e dignitosa. Davanti a un pubblico di ragazzi attenti e curiosi, Claudio Fava è intervenuto questa mattina al liceo Ariosto di Ferrara per parlare del suo ultimo libro (“Mar del Plata”) che racconta in forma romanzata una vicenda vera ispirata alle gesta di una squadra di rugby negli anni della dittatura argentina. Il colloquio con gli studenti si è poi ampliato a riflessioni sulla mafia e la legalità.

Giornalista, scrittore, sceneggiatore del film “I cento passi”, deputato di Sinistra Ecologia e Libertà, vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Claudio Fava è figlio di Giuseppe Fava, fondatore de “I Siciliani”, giornalista, scrittore, drammaturgo assassinato dalla mafia a Catania nel 1984.

In apertura, Fava ha raccontato il libro “galeotto” che gli ha fatto desiderare di diventare scrittore, “Uomini e topi” di Steinbeck e ha poi risposto alle domande degli studenti suo romanzo “Mar del Plata” (Add edizioni, 2013).
L’incontro è stato organizzato dalla scuola avvalendosi dell’apporto dei docenti referenti del progetto “Galeotto fu il libro”, in collaborazione con l’associazione Libera.

[Audio 1] I cento passi, il rifiuto di piegarsi, la forza di resistere (23 minuti)
[Audio 2] Borsellino, Rostagno e i rischi dell’indifferenza (20 minuti)


Questa la sinossi del libro che merita certamente la lettura.

Immaginate un giocatore di rugby.
Teso, attento, pronto allo scatto e a resistere alle cariche, ai placcaggi, a tutto. Solo che quest’uomo non è un giocatore di rugby come gli altri: lo si capisce quando comincia a raccontare quella partita, e le altre cento che l’hanno preceduta.
Si chiama Raul, è argentino e la squadra per cui sta giocando non esiste più. Morti, tutti, durante gli anni della dittatura. Lui è l’unico sopravvissuto. Una squadra di fantasmi. Che un tempo era la squadra più forte d’Argentina.
Un tempo funesto, il 1978. Qualcuno si illude che lo sport sia un terreno neutrale e che altrove, lontani dal campo di rugby, stiano anche i generali e la repressione di un regime che in pochi anni farà ventimila morti.
Che c’entriamo noi con la dittatura? Noi che diamo l’anima sul campo?
Poi uno di quei ragazzi, uno che di mestiere fa l’operaio e in fabbrica parla e pensa ad alta voce, scompare. La domenica successiva i suoi compagni chiedono un minuto di silenzio prima della partita.
Invece di minuti ne passano dieci. Dal giorno dopo cambia tutto. Mentre l’Argentina si prepara a trasformare i campionati del mondo di calcio del 1978 nella vetrina del regime, tra la giunta militare e quei ragazzi si accende una sfida che non prevede armistizi. Uno dopo l’altro i giocatori spariscono: ma per ogni giocatore ucciso, un ragazzino del vivaio viene promosso titolare. E così, mentre il mondo celebra l’Argentina campione del mondo di calcio fingendo di non sapere cosa stia accadendo, i ragazzi del Rugby La Plata continuano a giocare, a vincere, a parlare ad alta voce. E a morire. Dei titolari ne resta in vita solo uno: Raul. L’ultima di campionato si porta in campo una squadra di ragazzi. Giocano, e vincono. Per la giunta militare, che assiste con le divise tirate a lucido dal palco d’onore, sarà l’inizio della fine. Una storia vera, raccontata con la passione, l’amore e il rispetto che meritano i grandi eventi della Storia.
Alla fine di “Mar Del Plata”, Claudio Fava, avanza una tesi interessante: le dinamiche applicate dalla dittatura argentina sono le stesse messe in atto dalla mafia siciliana.

(Ha collaborato Mauro Presini)

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Il rugby, i desaparecidos e il bisogno di lottare. Libertà e dittatura in Argentina

Andrea De Rossi, terza linea della squadra italiana di rugby che partecipò da capitano alla Coppa del Mondo del 2003, una volta disse: “Nel rugby la fortuna non conta. Contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di lottare.”
Forse i dittatori militari, in Argentina a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, hanno deciso di ammazzare diciassette giocatori della squadra di rugby de La Plata proprio perché quei ragazzi sapevano resistere lottando con il fisico, il cuore e l’intelligenza.
L’unico sopravvissuto, Raul Barandiaran Tombolini, capitano di quella squadra, racconta: “Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’Università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi e fare politica fu una scelta naturale.»
O forse li hanno assassinati perché quei ragazzi sapevano osservare la realtà, dentro e fuori dal campo di rugby e, avendo frequentato la scuola e l’Università pubblica, non avevano imparato le lezioni di remissività incluse nel pacchetto degli istituti privati religiosi.
Oppure li hanno eliminati perché il regime pensava che, essendo Ernesto Che Guevara il rugbista argentino più famoso, quella squadra non potesse essere altro che un covo di rivoluzionari che si ispirava a lui.

Era il 24 marzo 1976 quando il controllo dell’Argentina fu assunto da una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti.
Controllo significò, tra le altre cose, lo scioglimento dei partiti politici e del Parlamento, l’annullamento di tutte le attività politiche e sindacali, il controllo della Corte di Giustizia, la censura, l’abolizione della libertà di stampa e di espressione.
La dittatura militare avviò il cosiddetto “Proceso de reorganización nacional” che prevedeva l’instaurazione di un sistema economico neoliberista e l’allontanamento della “minaccia comunista” anche attraverso il rapimento e l’uccisione di tutti gli oppositori politici.
Fu il maggior genocidio nella storia del Paese: 30 mila desaparecidos e 500 bambini rubati, secondo le madri di Plaza de Mayo, circa 8 mila morti ammazzati secondo lo stesso Videla.
Dopo il fallimento della dittatura e la rovinosa guerra delle Falkland, il 15 dicembre 1983 il nuovo presidente Raul Alfonsin istituì la Comisiòn Nacional sobre la Desapariciòn de Personas che aveva come obiettivo quello di chiarire i fatti successi durante il regime militare.

Le conclusioni a cui giunse la Commissione, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, possono essere riassunte con queste parole riportate nel capitolo conclusioni del Nunca Mas: “È possibile affermare che – contrariamente a quanto sostenuto dagli esecutori di questo piano sinistro – non si perseguì solamente i membri di organizzazioni terroriste, ma si contano a migliaia le vittime che non ebbero mai alcun rapporto con tale attività e che tuttavia furono oggetto di orrendi supplizi per la loro ferma opposizione alla dittatura, per le loro lotte sindacali o studentesche, per essere intellettuali che criticavano il terrorismo di stato, o, semplicemente, per essere familiari o amici di qualcuno considerato sovversivo.“

Era un venerdì santo quando il gruppo paramilitare della Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina) rapì Hernan Francisco Roca detto “Mono“, il mediano di mischia, mentre era a casa del padre.
Lo avevano confuso con Marcelo, suo fratello che era militante tra i Montoneros.
Dopo qualche giorno il corpo di Hernan fu trovato con le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati e ventuno colpi di arma da fuoco nel corpo che gli avevano sbriciolato le ossa.
La domenica successiva al ritrovamento del cadavere di “Mono” era prevista una partita; i giocatori dello Champagnat, per solidarietà, proposero un rinvio ma i compagni del “Mono” vollero giocare ugualmente.
Il capitano del La Plata Rugby Club chiese ed ottenne un minuto di silenzio in memoria del mediano ucciso.
Scrive Claudio Fava nel suo libro “Mar del Plata“, in cui narra la storia della squadra “desaparecida“:
“… perché un minuto passa lento come la vita, come la morte è lento, avanza piano, segna il passo, canta strofe tutte uguali, un minuto è un rumore di secondi che non s’incontrano mai. Invece finiscono, l’arbitro fischia e allora succede quello che nessuno immagina, però succede che in campo nessuno si muove, in tribuna nessuno si siede, restano tutti immobili, rigidi, le braccia lungo i fianchi, la palla dimenticata a terra, tutti ad aspettare che il tempo cammini ancora un po’ perché un minuto è poco, poco per il Mono, poco per quella morte di merda, filo di ferro attorno ai polsi, la canna di una pistola che spinge sulla nuca […]
No, un minuto non basta, ne serve un altro, e un altro ancora, e intanto tutti fermi, incatenati, impegnati a dilatare quel tempo, a renderlo lungo come la vita che toccava al Mono e che invece gli hanno strappato, aveva 17 anni, figli di puttana, 17 anni, pensate che ci basti un minuto?
Ne passano cinque. Poi sei.
Tanto nessuno ha fretta di fare, nessuno ha fretta di dimenticare.
Otto minuti. Nove. Dieci. Dieci minuti durò quel silenzio”.
Ma dieci minuti di silenzio furono un affronto troppo grande per la dittatura e i militari non perdonarono quel gesto di sfida.
Lo cita alla lettera Ernesto Sabato, scrivendo che il fatto era stato definito dal regime: “di grave provocazione da tenere nella considerazione dovuta“.

Da quel momento l’accanimento sui “canarios” (i ragazzi di La Plata avevano la maglia gialla) fu minuzioso, anche per la fama con cui la squadra veniva chiamata: “Escuela de guerrilleros”.
Gli stessi giocatori di La Plata si presero beffa anche di quella definizione e la trasformarono in “Eserjito revolucionario del cisne”, cioè “Esercito rivoluzionario della burla”.
Dopo Hernan Roca detto “Mono” toccò al mediano d’apertura Otilio Pascua che venne trovato mesi dopo in un fiume, con i segni delle torture e mani e piedi legati.
La lista dei giocatori del La Plata Rugby Club ammazzati o scomparsi diventò via via tragicamente lunga: Santiago Sánchez Viamonte, Mariano Montequín, Pablo Balut, Jorge Moura, Rodolfo Axat,Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Marcelo Bettini, Abel Vigo Comas, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo del Rivero, Enrique Sierra, Julio Álvarez, Hugo Lavalle.
A dispetto di tutto ciò, la squadra guidata dal burbero allenatore Hugo Passarella, continuava a vincere nonostante mettesse in campo i giocatori provenienti dalle squadre giovanili.
Continuava a vincere di fronte allo sguardo nero dei generali schierati in tribuna perché nel rugby, come nella vita, contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di resistere lottando.

Claudio Fava, in uno dei suoi viaggi in Argentina, ha letto gli articoli di Gustavo Veiga, giornalista del periodico Pagina 12, ed il capitolo del libro “Deporte, desaparecidos e dictatura” dedicato a quei giocatori di rugby che hanno pagato un prezzo altissimo,  rispetto a sportivi di altre discipline.
Così ha scelto di dare un’anima a quegli articoli e di scrivere “Mar Del Plata” in cui racconta, in maniera semplice ma appassionante, la storia di quella squadra di rugby “desaparecida”, riuscendo inoltre, anche attraverso scene epiche, a renderla poeticamente potente. Ne ha tratto un libro di cui consiglio calorosamente la lettura.

terracini

Utopisti

Senza nostalgie o sonnolente malinconie ripenso a ciò che ho lasciato alle mie spalle, il Paese canagliesco, le tante città nelle quali ho lavorato, gioito, anche sofferto, ma, soprattutto ai molti amici che, lungo la strada della mia vita mi hanno lasciato, piccoli preziosi uomini e donne, o grandi personaggi, che mi hanno accompagnato, mi hanno sorretto, mi hanno fatto piangere a volte, mi hanno dato tanto in termini di affetto e di stima.
Li ho perduti, la vita non attende niente e nessuno, va avanti, ci sputa addosso il suo tempo senza pietà, se ne infischia di amori, legami, impegni, la vita spazza via tutto.

Alcuni, di questi amici li ricordo con tenerezza, altri con grande rimpianto, tra noi, mi accorgo ora, in questo silenzio che mi avvolge teneramente, sono rimaste in sospeso tante parole, troppi ragionamenti non hanno avuto termine e ora, mi chiedo, come faccio a trovare le risposte che mi attendevo? Niente da fare, faccio perfino fatica a ricordare le cento voci lasciate nel vuoto, cerco di ricostruirle, o di immaginarle, quella di Umberto per esempio, Umberto Terracini, quando gli chiesi “Umberto, come hai fatto a resistere per oltre vent’anni in galera ed essere ancora qui a sperare che la società cambi?”. E lui, sereno, davanti a un piatto di tagliatelle in una trattoria di Ancona, tagliatelle che la padrona, vecchia comunista emozionata per aver ospite un personaggio tanto importante, aveva tirato col mattarello – tagliatelle squisite – lui sereno, con il suo sorriso dolce, rispose semplice semplice: “Facendo un riposino dopo mangiato, nevvero!”.

Faceva parte, Terracini, di quel gruppo di uomini che avevano veramente cambiato l’Italia senza mai chiedere qualcosa in cambio, senza ottenere nulla che non fosse galera ed esilio. Proprio come i potenti di oggi, penso. Potenti! Si fa per dire, meglio chiamarli venditori di pere cotte. Ma gli uomini che avevano sofferto la tortura, l’umiliazione, la disperazione della prigionia, la lontananza dai propri cari, vendevano, o meglio: ci regalavano, ideali sui quali costruire le nostre convinzioni, tutta gente che credeva nel confronto e mai si sarebbe abbassata a offendere gli avversari, quella era prassi fascista, pensavamo di averla sconfitta. Una volta di più avevamo sbagliato.

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Sochi e le sue mascotte

Da MOSCA – Arrivano i Giochi Olimpici Invernali di Sochi, la XXII edizione, si parla di Russia un po’ ovunque, dei suoi atleti, degli investimenti faraonici (sono stati spesi oltre 50 miliardi di dollari, i giochi invernali più costosi della storia), delle imponenti misure di sicurezza, del rischio terrorismo e di tanti altri argomenti a corollario di questo evento importante per il Paese, la sua economia e, soprattutto, la sua immagine. E’ la prima volta che il Paese fa da padrone di casa a tale tipo di evento, anche se nel 1980, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica, aveva ospitato le Olimpiadi estive (curioso ma, anche in quel caso, si trattava della XXII edizione).

Fin da subito, ha stupito la scelta del posto, ma, si sa, i russi ultimamente sono fatti per stupire. Sochi non è un luogo di villeggiatura sciistica, non è luogo di neve e piste, la città, infatti, si affaccia sul tiepido Mar Nero. Gli impianti saranno, quindi, nella vicina Krasnaya Polyana e lo stesso villaggio olimpico è situato a circa 20 chilometri dalla città. Oltre 30.000 uomini, tra soldati, poliziotti e membri delle forze speciali, sorveglieranno città e luoghi sensibili.
Si starà, quindi, a guardare, tutto si fermerà almeno un po’, cosi come avveniva nell’antichità, quando i Giochi Olimpici erano un evento sacro e perfino le guerre venivano sospese per permettere ai più grandi atleti di parteciparvi per lodare gli Dei. Gli appassionati seguiranno il Cigno Biondo, Evgeni Plushenko, e la squadra di hockey sul ghiaccio di Aleksandr Ovečkin.
I bambini saranno incuriositi e attirati dalle mascotte dei Giochi. Come sempre.
Ci sono voluti sei anni per sceglierle, ma ora le si vedono sorridenti in tutti i grandi magazzini di Mosca, nei negozi di sport e di souvenir, all’aeroporto, nei centri commerciali, negli stand degli ambulanti leggermente ricoperti di ghiaccio. Gli abitanti di Sochi avevano votato, nel 2008, per i primi schizzi preparati per i giochi. Allora aveva vinto il delfino sugli sci ma il comitato organizzatore delle Olimpiadi aveva deciso di rimandare la scelta del simbolo, indicendo, nel 2010, un concorso nazionale, aperto a tutti e al quale hanno partecipato professionisti e dilettanti. Erano arrivati in finale Ded Moroz (Babbo Natale), un orso bruno e uno bianco, un leopardo, una lepre, il sole, il ragazzo di fuoco, la ragazza di neve, una matrioska e un delfino. Prima della votazione la giuria aveva eliminato dalla competizione Ded Moroz, simbolo principale del capodanno russo, i cui diritti non potevano certo essere ceduti al Comitato Internazionale Olimpico. Babbo Natale, o Nonno Gelo, vive nel piccolo villaggio di Veliky Ustyug, a oltre 1000 chilometri a Nordest di Mosca, in mezzo a foreste di abeti, su un’altura che si affaccia sul fiume Sukhona. Yuri Luzkhov, ex-sindaco di Mosca, dichiarò, 12 anni fa, che la piccola cittadina era la dimora ufficiale russa di Babbo Natale. Impensabile, dunque, farlo diventare il simbolo di un’Olimpiade, visto il suo ruolo fondamentale nella tradizione russa.mascotte-sochi
Nel febbraio 2011, con una votazione televisiva, sono state scelte le mascotte. Al primo posto si era piazzato il Leopardo, che godeva dell’appoggio del Presidente Vladimir Putin; al secondo, l’orso polare, favorito dal premier Dmitri Medvedev; e al terzo il leprotto. Per i giochi paralimpici le prescelte sono stati i due omini Lučik (raggio di sole) e Snežinka (fiocco di neve).
Si è trattato del primo caso nella storia delle Olimpiadi in cui le mascotte sono state scelte attraverso una votazione popolare. Prima d’ora, la confermare delle scelte ufficiali era sempre stata prerogativa dei comitati organizzativi.
Già nel 1980, un orsetto era stato il simbolo portafortuna delle Olimpiadi estive, il tenero Mishka, considerato ancora oggi uno dei migliori della storia dei Giochi, alla luce dell’impatto emotivo e dei ricordi positivi che aveva impresso nelle persone. Se prima di allora l’orso russo era associato a qualcosa di negativo, Mishka aveva cambiato questa percezione. D’altra parte, per noi, l’orsetto è sinonimo di tenerezza e gioco. Quanti ne abbiamo ricevuti da bambini.
Per ciascuna mascotte è stata creata una piccola favola, che evidenzia le loro caratteristiche migliori. L’orso polare proviene dal Grande Nord, ama la neve e rappresenta lo sci, il bob, lo slittino, il pattinaggio e il curling; il leopardo vive tra le vallate del Caucaso e con le sue doti di arrampicatore aiuta chi si trova in difficoltà in montagna, personificando il soccorritore, l’alpinista montano e l’amante dello snowboard; la lepre, durante l’inverno, è la creatura più operosa del bosco ed è esuberante, giocosa e ama ciò che fa. Tutti amano gli sport invernali.
I tre animaletti entreranno presto nella storia delle Olimpiadi, nel frattempo sono già diventati oggetti da collezione: classici peluche, portachiavi, cuscini, tazze, felpe, magneti. Alcuni mesi fa la Banca di Russia ha persino emesso una moneta commemorativa da 25 rubli che le ritrae.
Al termine dei Giochi, l’orso polare, il leopardo e la lepre lasceranno il posto ad altre due mascotte. Durante la Paralimpiade, in programma a Sochi da oggi al 16 marzo, toccherà, infatti, a un raggio di sole e a un fiocco di neve illuminare le scene. Secondo il comitato organizzatore sono la personificazione dell’armonia nel contrasto e insieme mostrano che tutto è possibile.
Il bello della scelta dei tre simboli di Sochi sta senza dubbio nel fatto che si tratta di animali con tratti emozionali, quasi con espressioni umane e sentimenti. Anche se qualcuno li ha considerati troppo fiabeschi e patinati e privi di autoironia. Vedremo dove ci porteranno.

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Tempi moderni: la guerra di Resistenza al centro sociale è per la musica alta

C’è un angolo del centro storico, che a dispetto della sua aria tranquilla, ultimamente è animato da alcune tensioni.
C’è un signore che è molto arrabbiato perché la casa dove si è da poco trasferito è vicina ad un centro sociale in cui ci sono dei ragazzi che fanno rumore. E siccome non gli danno pace, ha deciso di far loro la guerra, mandando ogni tipo di controllo, dalle forze dell’ordine all’Asl. Una sera che per l’ennesima volta gli hanno rovinato la cena con le prove dei loro concerti, si è anche presentato là dentro, tirando fuori tutta la sua disperazione, urlando “zecche di merda, vi mando Forza Nuova”. Visto che là dentro sono tutti “rossi”, gli è sembrata la minaccia più appropriata. Loro poi hanno annullato il concerto, e ora lui sta meditando le prossime mosse, perché non è finita qui.
Poco distante da lui vive Mariella, una signora che trent’anni fa ha preso casa in questa che è una delle zone più belle di Ferrara, via della Resistenza, abbracciata dalle storiche via Mortara e via Montebello. Un quartiere tranquillo di gente rispettosa e perbene. Di fianco a casa sua c’è sempre stato un centro anziani, di cui si percepiva la presenza solo quando qualcuno esultava per una tombola.

Poi tre anni fa la musica è cambiata. “Da quando al centro sono arrivati quei ragazzi che fanno i concerti, d’estate i miei amici non mi vengono più a trovare perché tanto in casa non si riesce a parlare per il rumore. E poi finito quello, quando vorremmo dormire, non possiamo perché la gente rimane sotto le nostre finestre a parlare. Non ne faccio un discorso politico, ma di regole civili”.
E mentre Mariella è sul pianerottolo che parla, esce anche Roberta. L’ha sentita e vuole dire la sua. “Io sono giovane come quei ragazzi, e capisco le loro necessità, sono contenta che facciano dei concerti, anche io suono, e non ho mai chiamato la polizia, né sono mai scesa a litigare, ma certe volte esagerano con il rumore, e poi una volta ero in salotto con le coinquiline e ci hanno lanciato un uovo, proprio a noi che li avevamo sempre difesi! Un episodio isolato, però ci siamo rimaste male”. Intanto dal portone entra Sandra, che sorride sconsolata perché ha già capito di cosa si sta parlando. “Si può essere d’accordo con le iniziative – dice – ma non con il rumore, d’inverno con le finestre chiuse non ci sono problemi, ma d’estate vien voglia di andare via. Io non voglio che questo diventi un quartiere morto, ma ormai l’unica che resiste è mia madre che è sorda!”.
L’argomento nel condominio è molto sentito e Stefania interviene dal citofono. “A noi non danno fastidio – afferma cercando di quietare gli animi – hanno abbassato la musica e i concerti finiscono prima, non ho lamentele da fare!”. Ma poco dopo un signore apre la finestra. “Non se ne può più di quelli là! Se sono mai andato a parlare con loro? Non ci penso neanche! Gli mando i carabinieri e basta”. E richiude la finestra.
C’è questo signore esasperato, c’è l’altro molto arrabbiato, ci sono Mariella, Roberta, Sandra, Stefania, e probabilmente ci sono altri vicini che avrebbero da dire la loro.

E poi c’è il centro sociale la Resistenza, al numero 34 dell’omonima via.
E’ ormai sera e sul viale d’ingresso gli anziani che hanno trascorso lì il pomeriggio se ne vanno incerti sulle loro biciclette mentre un gruppo di ragazzi arriva per l’aperitivo.
Lo stesso ricambio generazionale è avvenuto anche nel centro sociale tre anni fa, quando un gruppo di giovani volontari è subentrato nella gestione del posto, che rischiava di rimanere deserto.
Pur mantenendo l’affiliazione Ancescao e garantendo le aperture mattutine e pomeridiane del bar e delle sale ricreative per gli storici frequentatori, i nuovi arrivati hanno affiancato alle partite a trionfo e biliardo, anche altre attività.

Al piano di sotto si stanno radunando i primi arrivati per l’assemblea pubblica sulla gestione del centro che si tiene ogni mercoledì alle 20. Intanto al piano di sopra è in corso una diretta radiofonica nella sede di Radio Strike, emittente indipendente on line nata proprio nel centro. I conduttori, due insegnanti, stanno parlando dei problemi della scuola in un programma settimanale che si chiama Conflitti di Classe. Nella stanza accanto un gruppo di ambientalisti sta discutendo di come contrastare la realizzazione della Orte-Mestre. Attorno ci sono ancora i giochi utilizzati nel laboratorio teatrale per bambini che l’associazione Camaleonte ha tenuto nel pomeriggio.
In ogni angolo accade qualcosa.

“Sono ancora tante le attività che vorremmo avviare – dice Maria Lodi, presidentessa del centro – per esempio un corso per dj che si terrà il lunedì pomeriggio, o la biblioteca di quartiere intitolata a Stefano Tassinari, che inaugurerà sabato 15 febbraio dopo la manifestazione Via la Divisa, con la presentazione dell’Associazione contro gli abusi in divisa. Chiunque voglia venire per partecipare e darci una mano è bene accetto”.

Nessuno percepisce una ricompensa per il lavoro, ma tutto viene reinvestito nel centro.
“La gestione della Resistenza è un modello che viene studiato da diverse città italiane, perché non esiste una cosa del genere da altre parti” afferma Federico, una delle anime del posto.
“E poi – prosegue Maria – ci sono la ciclofficina dove si può imparare a riparare la bicicletta, il mercato contadino che si tiene due sabati al mese, le riunioni dell’Unione degli studenti, quelle dei migranti, i corsi di giocoleria e hip-hop. Questo posto è diventato un punto di riferimento per centinaia di persone, come ha dimostrato la partecipazione all’assemblea convocata d’urgenza dopo le minacce del nostro vicino”.

E poi ci sono anche i concerti del lunedì e del giovedì, che tanto fanno arrabbiare gli abitanti del quartiere.
Gli stessi organizzatori riconoscono che ci sono momenti, soprattutto d’estate, in cui la musica è alta, e diverse decine di persone si raccolgono all’esterno del locale.
“Siamo consapevoli di stare in mezzo alle case – dice Maria – quindi abbiamo abbassato i volumi e anticipato gli orari di chiusura a mezzanotte, abbiamo chiuso uno degli ingressi per non far sostare le persone sotto le case, ci stiamo dotando di materiali insonorizzanti per l’interno.
Ci hanno mandato un controllo dell’Asl e abbiamo chiuso la cucina perché non era conforme e per noi è stato grave perché era un’attività a cui tenevamo molto. Però ci stiamo adeguando a tutto quel che ci chiedono”.

Allora probabilmente la sfida più grande della Resistenza, accanto ai tanti temi di cui si occupa, è risolvere la questione più prossima a sé, ovvero quella della convivenza col vicinato, dell’integrazione col quartiere. Il rischio è la chiusura, e l’obiettivo di un centro che si definisca sociale diventa allora mediare tra le proprie necessità e il luogo in cui si trova ad operare.
La mediazione però, è un punto di incontro, al quale non si arriva né con le minacce né arroccandosi in difesa, ma con un’unica strategia: il dialogo.
Forse varrebbe la pena immaginare una riunione di quartiere con i ragazzi del centro e i vicini, o meglio ancora un pranzo, dove iniziare a condividere altro che non sia la tensione. I ragazzi ci avevano già provato, ma la riunione era andata deserta. E’ probabile che prossimamente sarà la stessa circoscrizione a proporre un’assemblea per cercare di far incontrare le due parti, in modo da garantire la tranquillità dei residenti, ma anche l’apertura del centro.

(La foto che correda l’articolo è di Luca D’Andria)