Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


ebraismo-mosca

A Mosca il museo dell’Ebraismo e della Tolleranza interattivo e in 4D

La tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri. (Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763)

DA MOSCA – Quando ho scoperto che Mosca ospitava il più grande museo ebraico al mondo, ho prenotato il mio consueto compagno di passeggiate e di scoperte per una domenica di fine Novembre, stazione della metro Marina Roshcha, Ulitsa Obraztsova numero 11, quartiere nord della Capitale. Dopo aver camminato per una quindicina di minuti, ci troviamo di fronte all’ex deposito di autobus che oggi ospita il museo e costituisce un interessante esempio di architettura industriale costruttivista.
Il museo occupa gli 8.500 metri quadrati dell’ex Garage Bakhmetievski, costruito nel 1926-1927 dall’architetto Konstantin Melnikov e che, fino al 2011, era una delle gallerie d’arte più frequentate della città, gestita da “Dasha” Alexandrovna Zhukova, compagna del magnate Roman Abramovich (famoso per essere il proprietario del Chelsea Football Club, ma anche per i suoi contributi alle comunità ebraiche in Israele e nel resto del mondo, che riflettono le sue radici ebraiche).
L’intero intervento è costato oltre 60 milioni di dollari, tutti finanziamenti privati, il museo più caro di Russia: i nomi dei benefattori esposti all’ingresso vanno da quello Putin, che ha donato un mese del proprio stipendio al museo, a quelli dell’amministratore delegato di Gazprom, Aleksej Borisovič Miller, dell’uomo più ricco di Russia secondo Forbes 2013, fino a quello di Ronald Lauder, erede dell’impero di cosmetici o dell’imprenditore Victor Feliksovič Veksel’berg.
Creatore di questa spettacolare struttura è il guru mondiale dell’edutainment (o intrattenimento educativo), il famoso ebreo americano Ralph Appelbaum che, con la sua società basata a Soho, ha firmato l’Holocaust Memorial Museum di Washington. Inaugurato l’8 novembre 2012 alla presenza di Shimon Peres, nato, peraltro, a Višneva oggi villaggio bielorusso, il nuovo museo ripercorre i due secoli della storia tumultuosa degli ebrei in terra russa, dalla diaspora all’epoca degli zar, al periodo dell’U.R.S.S. fino a oggi, passando per le repressioni staliniane e l’Olocausto. Interattivo, interattivissimo. Al punto che qualche malevolo lo ha definito “Disneyland in salsa yiddish”. Personalmente non l’ho affatto trovato così, anzi questa interattività è, al contrario, in grado di attirare un pubblico giovane e moderno, quello che deve conoscere, che deve sapere, per mostrargli la cultura ebraica in forma accessibile, un pubblico al quale costruire una memoria.
Così, dopo che mi sono stati consegnati appositi occhialini viola, mi ritrovo seduta in un piccolo cinema che proietta in 4D la creazione del mondo e l’esodo dell’Egitto, travolta da pioggia, vento, onde, terremoto e cavallette. Ho i capelli bagnati, sento le gocce del Diluvio Universale e il vento del mare sui vestiti, animaletti repellenti mi arrivano sul viso. Mentre le poltrone tremano e Dio crea il cielo e la terra, le parole e la musica ti penetrano i pensieri. Si esce dalla saletta un po’ frastornati ma stupiti e sorpresi e si continua, anzi si inizia, la visita, passando da un’epoca all’altra velocemente, senza vincoli di sale numerate o spazi delineati. Tutto è libero, salvo la cronologia, tutto interattivo e quindi guidato da te, come vuoi e dove vuoi. Basta la curiosità a condurre verso oggetti, poster, fotografie, filmati. Sono subito attratta da un’enorme “carta dell’emigrazione” sferica, che riporta la distribuzione geografica degli ebrei. Alcuni plastici a grandezza naturale ricreano, insieme a ologrammi, filmati e sculture, gli interni delle abitazioni ebraiche negli shtetl dell’800, i villaggi dove oltre un milione di ebrei vissero confinati per decreto zarista dopo la spartizione della Polonia. Si è attirati poi dalla parte relativa all’esodo degli ebrei verso le grandi città della fine del XIX secolo, ricostruito con l’esempio di Odessa, città aperta. Grandi fotografie in bianco e nero, panchine di legno che fanno pensare a viaggiatori intirizziti accoccolati ad aspettare un treno che li porterà chissà dove. In una sala è possibile sedersi con lo scrittore Sholem Aleichem (Sholem Naumovich Rabinovič, il primo autore a scrivere libri per bambini in lingua yiddish) e con altre personalità ebree locali. Ci si siede intorno a tavolini rotondi di fronte a queste sculture bianche lattee e si muovono le dita su alcuni libri virtuali proiettati dall’alto sullo stesso tavolino, pagine che magicamente si aprono e proiettano brevi filmati storici, in formato touch come su un iPad. Utile e divertente. User friendly e davvero molto smart come direbbero i giovani.
Al centro del museo vi è un immenso schermo panoramico sul quale sono proiettate le immagini che documentano le fasi più tragiche della Seconda Guerra Mondiale: il massacro di Babi Yar del settembre 1941, le esecuzioni in massa da parte dei nazisti, l’assedio di Leningrado, la battaglia di Stalingrado e infine la vittoria. Sfilano date e numeri. Davanti allo schermo c’è una trincea innevata, elmetti di soldati trapassati da pallottole. Quando per la sala risuonano le scariche di mitragliatrice delle brigate di fucilazione degli hitleriani che hanno sterminato ebrei in Bielorussia, Ucraina e Lituania, ti viene un tremito, hai le mani fredde, le guance arrossate, le lacrime scendono inconsapevolmente, rapide. Vicino, si osserva, poi, un monumento funebre piramidale dove i visitatori possono accendere una candela in ricordo dei milioni di vittime i cui nomi compaiono uno dopo l’altro su un grande schermo scuro. La luce fioca e triste di quelle candele ti porta lontano.
In mezzo a tutta questa solida documentazione storica vi sono anche scene di vita quotidiana, lo shabbat è un invito in famiglia un venerdì sera di cento anni fa, a tavola coi bambini come in un’installazione di Bill Viola, il grande rappresentante della videoarte. La e-Torah diventa un libro magico che si apre anch’esso col touch screen. In un mare azzurro, profondo, illuminato dal sole e sterminato si aprono fotografie e nomi ad esse associate. I ricordi paiono voler annegare qui.
L’esposizione è suddivisa negli stessi periodi storici della storia dello Stato russo. Si tratta, quindi, di uno sguardo sulla storia del Paese da un’altra angolazione. Proprio sulla base dei racconti di anziani ebrei e di storici si costruiscono film sulla rivoluzione, sui pogrom di ebrei, sulla guerra, sull’Olocausto in territorio sovietico, immagini che girano sugli schermi dal pavimento al soffitto.
Abile l’uso delle luci e dell’illuminazione che ti fanno concentrare attentamente su fotografie, documenti, libri, oggetti ricamati e colorati, bianche sculture di spalle che, con la testa coperta e piegata, leggono sommessamente e discretamente, forse sognando di scappare lontano.
La visita si chiude con il passaggio al Centro della Tolleranza dove si proiettano film che invitano alla tolleranza non solo etnica e religiosa, ma anche, per esempio, verso persone con possibilità limitate. Il museo ha già un accordo con il dipartimento dell’istruzione per ospitare classi scolastiche a parlare dell’importanza di essere tolleranti verso le altre persone, che non sono simili a te.
Se siete a Mosca, dovete andare. In questi giorni che ci ricordano quanto è importante la Memoria non si può omettere questo luogo. A costo di non visitarne qualcuno più noto.

crisi-euro-zona

Al voto, al voto: l’Europa, le banche e noi

Fra il 22 e il 25 maggio si voterà per rinnovare il Parlamento europeo. Sono 73 in tutto i deputati che gli italiani sono chiamati ad eleggere, su un’assemblea che in totale ne conta 751, rappresentativi dei 28 Stati membri.
Dopo aver dato i numeri, sarebbe bello se si cominciasse a farsi un’idea di cosa, e soprattutto chi, votare. Tenuto conto che in campagna elettorale non mancherà chi sbraita di uscire dall’euro e comunque sentiremo poco e niente parlare di Europa da una classe politica che, spesso, ha visto quelle poltrone poco più che una gita all’estero.
Dico subito che chi volesse trovare qualche barlume di chiarezza in queste righe temo rimarrà deluso.
Parto dalla seconda parte del titolo del libro di Luciano Gallino (2013), di cui ho raccontato l’ultima volta: “L’attacco alla democrazia in Europa”.

Abbiamo sentito in questi anni da Bruxelles un disco sempre uguale: si esce dalla crisi solo se si diminuiscono deficit e debiti pubblici. E l’unico modo, questa la medicina amara ripetuta fino allo sfinimento, è fare tagli alla spesa sociale che, ormai, non possiamo più permetterci.
Significa usare le forbici su pensioni, sanità, scuola e mercato del lavoro.
Per questo all’Italia è stato detto e ridetto che bisogna fare i compiti a casa per mettersi in ordine, altrimenti non ne usciamo. E non c’è destra, sinistra e persino governi tecnici che tengano: tutti allineati nel ripetere il mantra del riordino dei conti pubblici.

Ma è proprio così? Oddio, su burocrazia e sprechi ben pochi darebbero il sangue, ma secondo Gallino le cose non stanno così.
L’analisi prende spunto dalle due cause della grande crisi globale (Gcg): un eccesso di credito concesso dal sistema bancario, e trasferito fuori bilancio nel labirinto della finanza ombra, e un eccesso di debito contratto dalle famiglie, spinte a comprare da un colossale programma tipo “a me gli occhi”, volto a sostenere gli acquisti per ovviare al problema strutturale della stagnazione, tendenziale esito del ciclo produttivo capitalistico. Un ceto medio, occorre aggiungere, nel frattempo lasciato in modo miope con le tasche vuote a causa di un colossale trasferimento di redditi e ricchezza dal basso verso l’alto.

Il risultato è un’enorme bolla finanziaria, e cioè denaro creato dal nulla e senza alcun riferimento all’economia reale, tanto che ancora oggi questa montagna di capitali fittizi varrebbe cinque volte il prodotto dell’economia mondiale.

La traduzione di questo disastro è stato un debito ciclopico accumulato dalle banche, che per non farle fallire, e ridurre sul lastrico milioni di risparmiatori, gli Stati si sono offerti a coprire. È accaduto negli Usa, in Irlanda, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna e anche in Italia, nonostante ci abbiano sempre detto che il nostro sistema bancario è solido e sostanzialmente immune dall’infezione finanziaria.

Secondo il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, in una dichiarazione resa nel 2011, il totale della spesa pubblica in Ue per coprire i buchi del sistema bancario è stato di 4,6 trilioni di euro. Un Everest di soldi che equivale a oltre il 32 per cento del Pil dell’intera Ue.

Così negli anni della crisi i deficit dei bilanci pubblici sono effettivamente cresciuti in media di dieci volte, mentre i debiti pubblici sono lievitati di una ventina di punti passando da una media del 60 all’80 per cento del Pil.
Sia chiaro che qui non è il caso di alzare le mani in aria in segno di vittoria, se in Italia siamo attorno al 130 per cento.

Parallelamente, però, la media della spesa sociale durante gli stessi anni si è mantenuta costantemente attorno al 25 per cento della ricchezza prodotta in Europa.
“Ne consegue – scrive Gallino – che è del tutto scorretto imputare alla spesa sociale l’aumento del debito pubblico”.
Quindi ci troveremmo di fronte ad una colossale menzogna detta e ridetta come in una seduta di ipnosi, per convincerci che la colpa è nostra e che in questi anni abbiamo vissuto – altra formula magica – al di sopra delle nostre possibilità.
Omettendo, tra l’altro, di dire che un capitolo della spesa sociale, e cioè quella previdenziale e parte degli ammortizzatori sociali, sono il frutto di contributi di lavoratori e imprese e non spesa pubblica.

E invece pare sia ormai assodato che sul banco degli imputati debba stabilmente starci non chi ha causato questo crac planetario, ma un intero sistema di protezione sociale che costituisce uno dei pilastri fondamentali dello stare insieme e della qualità civile dell’Europa.

Una delle travi portanti della casa europea, volutamente issata da chi ha a lungo sognato questo edificio, al di là delle sue traduzioni nei rispettivi modelli scandinavo, cristiano-sociale tedesco, francese e catto-socialdemocristiano italico.
Un sistema, tra l’altro, i cui primi vagiti risalgono alla Gran Bretagna di Churchill e alla Germania di Bismarck, e cioè a quel medesimo mondo liberale che oggi vorrebbe usare il bisturi e rinnegare se stesso e le proprie radici.

Da qui l’attacco alla democrazia in Europa che sarebbe in atto e pure i pericoli irresponsabilmente non calcolati di una tensione sociale che può finire nelle braccia di nuovi populismi sempre dietro l’angolo.
Irresponsabilmente non calcolati, si badi, specie da chi ha usato modelli matematici come se piovesse, e con l’aiuto di pezzi importanti del mondo accademico, per produrre questo disastro.
E adesso sono gli stessi che avrebbero deciso di mettere le mani sull’ultimo, forse, diaframma che distingue ancora un continente democratico dal pianeta delle scimmie.
Ma allora che si fa il maggio prossimo davanti all’urna?
Ve l’avevo detto di non aspettarvi granché da queste righe.
Eppure, se si iniziasse a riflettere e discutere, innanzitutto se questo ragionamento tiene, forse non sarebbe tempo perso.

apprendimento

Il Festival dell’Apprendimento

Oggi parlare di città della conoscenza, di learning city, significa operare per realizzare il nostro desiderio di vivere in una società, a partire dalla nostra città, più uguale, più democratica, più stimolante, dove si cresce insieme, dove la crescita di ognuno è interesse di tutti, perché ognuno è valore in sé, è una preziosa risorsa del e per il territorio.
La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono la nostra libertà. Si nasce che è tutto un darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E quello è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale.
La stupenda avventura della crescita come cammino nel mondo è storicamente imbrigliata e mortificata dalle culture, dai costumi sociali, da un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio per poter essere accolti nell’alveo degli adulti.
L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.
La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.
L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente, sullo sviluppo del potenziale individuale, su sistemi formativi fondati sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché, come ancora accade nelle nostre scuole, sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.
In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi dell’apprendimento.
In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo collettivo che avviene in modo quasi esclusivo all’interno delle istituzioni scolastiche.
Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione, crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.
Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.
Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono composte da rappresentanti di scuole, università, imprese, enti locali e regionali, centri di formazione per gli adulti e associazioni di volontariato.
La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.
La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono. L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole. Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento. Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.
Nello stesso tempo, l’apprendimento diventa un servizio alla comunità perché i futuri cittadini vengono coinvolti nella comunità locale. L’educazione concerne l’apprendimento, e non la ricezione passiva dell’insegnamento.
Un apprendimento che procede dal basso e non promana dall’alto, quasi per concessione o calcolo politico. Un apprendimento il cui focus è contenuto nel concetto di realizzazione del potenziale umano di tutti, dello sviluppo del capitale umano come risorsa per la crescita del capitale sociale della propria città.
Ci sono i festival della letteratura, della filosofia e ancora altri, perché non unire in una rete, in un disegno coerente le tante opportunità offerte dalla nostra città per celebrare il Festival dell’Apprendimento capace di far incontrare e dialogare la scuola, la città, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione, di interesse comune.
Questo vuol dire confrontarsi in concreto con l’idea di città della conoscenza.

agricoltura

Ministro che va, ministro che viene. Ma l’agricoltura non può restare merce di scambio

Le dimissioni del ministro Nunzia De Girolamo hanno nuovamente privato il Ministero delle Politiche agricole del massimo responsabile politico. Senza entrare nel merito delle vicende che hanno portato alla scelta della titolare del dicastero di via XX Settembre, mette conto osservare che tutto ciò accade nel momento in cui si devono assumere decisioni importanti per il settore agricolo ed agroalimentare, in primo luogo l’applicazione della nuova Politica agricola comune, che comporta interessi vitali per le imprese italiane del settore. Per questo motivo il presidente del Consiglio Enrico Letta dovrebbe nominare rapidamente un nuovo titolare.
In cinque anni si sono cambiati cinque ministri delle Politiche agricole. Il che da un’idea della precarietà nella quale si governa l’agricoltura in Italia. La carica di ministro è storicamente merce di scambio, e nel caso specifico di scambio residuale: se nella formazione della compagine di governo i conti non tornano per questa o quella parte politica, zac! Ecco l’agricoltura come materia di compensazione degli squilibri.
Non parliamo poi dell’efficacia e del peso delle nostre rappresentanze governative a Bruxelles, dove si decidono i destini delle agricolture dei 28 Paesi membri. Si racconta – ma mancano i riscontri – che uno dei ministri italiani del recente passato, Giancarlo Galan, all’inizio del proprio mandato fu scambiato per un dirigente ministeriale, perché le trattative, da tempo, venivano seguite da un alto funzionario (poi divenuto esso stesso ministro), Mario Catania. Ma tant’è: a Bruxelles abbiamo contato sempre poco, e solo negli ultimi anni, con l’accrescimento del peso politico dell’Europarlamento in seguito al trattato di Lisbona, si è potuto vedere un ruolo attivo dell’Italia nel varo dell’ultima Pac, attraverso la Commissione Agricoltura presieduta da Paolo De Castro.
Al di là dei problemi di rappresentanza – che contano però, eccome, quando si prendono le decisioni – è sconsolante vedere che un settore vitale per l’economia sia continuamente messo in tensione e privato di orientamenti strategici. Nel 2013 il valore delle esportazioni di prodotti agroalimentari italiani ha raggiunto il massimo di sempre, con quasi 33 miliardi di euro (+6% rispetto al 2012): vino, ortofrutta, olio e pasta le “voci”trainanti. Il bisogno non è soltanto di strategie economiche per rafforzare queste performance (in primis, la difesa del made in Italy e l’internazionalizzazione delle imprese) ma anche le misure per affrontare e prevenire i disastri generati dagli eventi climatici estremi (frane, alluvioni e così via) e difendere il territorio dal consumo di suolo, mettendo in efficienza le strutture idrauliche e di bonifica per limitare o evitare il dissesto.
Non c’è bisogno di un ministro a tempo, quali che siano le vicende politiche. E nemmeno di un governo che relega l’agricoltura a materia di scambio o di trattativa, isolandola dal contesto generale, come da troppo tempo sta avvenendo. E, poiché è di moda parlare di tecnici, un check-up alla struttura di via XX Settembre sarebbe proprio necessario.

portico-Ottavia-ghetto

I giorni bui delle vite rapite

DA MOSCA – Sono a Roma con una cara amica, passeggiamo per il ghetto. Ci siamo riviste dopo tanti anni, appuntamento in un Campo dei Fiori illuminato dal sole del tramonto, bellissima piazza come sempre, fiorita, immersa nei colori dei tulipani e delle rose che fanno capolino dai chioschi che da lungo tempo la accarezzano. Maria mi aveva parlato di questo libro coinvolgente della Foa, e avevo, come al solito, dovuto attendere il mio rientro in Italia per acquistarlo. Dopo chiacchiere e cena, con lei varco il portone antico di Portico d’Ottavia 13. La mia amica abita lì ora, avrei visto quel luogo prima di leggere le parole impresse sul fuoco di quella professoressa che mi avrebbe tenuta incollata alle pagine intrise di storie nelle fredde serate moscovite. Sono scorsi fiumi d’inchiostro sulle deportazioni degli ebrei, sulle loro tragedie, le razzie che li hanno portati lontano, le loro anime vendute, rapite, violentate, rovistate, scucite, strappate, rovesciate, sballottate, sviscerate, trafugate, cancellate. Abbiamo visto molte immagini di quelle anime, fotografie, mostre, musei, film. Ma ora abbiamo una sensazione diversa, forte e intensa, quella di vederli per davvero, nella corte rinascimentale, per le scale, persi fra le belle logge, davanti alle porte dalle quali sono usciti per l’ultima volta il 16 ottobre 1943. Di quel giorno autunnale piovoso non ci sono foto, qualcuno dice per le esitazioni dei tedeschi di Dannecker di fronte a deportazioni degli ebrei romani effettuate proprio “sotto le finestre del Papa”, qualcuno pensa ad un caso, qualcun altro alla loro possibile esistenza in un archivio ancora inesplorato. Leggendo le pagine della Foa, che ha lungo abitato in quell’immobile, non si percepisce violenza ma solo fretta, povera gente che non comprende, che cerca di scappare, di rifugiarsi in case vicine ma che proprio per la fretta e i calci dei fucili che spingono violentemente e velocemente all’esterno, non riesce a sfuggire alla presa di tenaglia di rapitori di vite. Osservo le scale dal sapore antico: la casa si trova vicino all’omonimo portico del II secolo a.C., costruito in sostituzione del più antico Portico di Metello, e sulle cui rovine, nel medioevo, furono edificati un mercato del pesce e una chiesa. Dicevo, guardo quelle scale e le ricorderò bene quando leggerò che gli abitanti della Casa, quel funesto giorno di Ottobre, furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi di quel Portico-mercato. Le persone più umili della comunità ebraica che vivevano nella Casa, ambulanti, sarti, falegnami con mogli, figli, cognate, venivano trascinati via, senza distinzione di sesso ed età; le liste erano stilate con precisione, i nomi chiari e impressi sulle pagine insanguinate che i reparti speciali avevano fra le mani. Leggiamo nomi e cognomi, storie di vite perdute, vediamo cantine buie e polverose dove qualche giorno dopo la razzia qualcuno avrebbe dato alla luce una bambina. Sono stata tentata di riportare il nome di questa madre, ma preferisco non farlo per non dimenticare tutti gli altri citati nel libro ma che io non ho elencato. Gradino dopo gradino, passo dopo passo, scala dopo scala, antro dopo antro, anfratto dopo anfratto, piano dopo piano, finestra dopo finestra, porta dopo porta, i ricordi si affacciano alla nostra immaginazione incredula e ferita. Ricordo che non abbiamo, per età ed esperienza di vita. Il merito di queste pagine è proprio quello di creare una memoria a chi non c’era, di farlo riflettere a lungo, di fargli sentire l’odore acre della paura, di chi, senza far rumore, era scomparso nel nulla.

riferimento bibliografico
Anna Foa, Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, Laterza, 2013

La memoria è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell’oscurità, schiacciati dal “terribile potere di annientamento” della Storia universale, come la chiamava Nietzsche. La memoria è resistenza a questa violenza; essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e cancellati, di quella “pietra rifiutata dai costruttori”, di cui il Signore farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e rispetto. (Claudio Magris)

la-pimpa

La Pimpa: una costruttrice di mondi possibili

Mi capita di guardare la Pimpa, talvolta, insieme a Gioia, la meravigliosa creatura che da quindici mesi allieta la mia vita e quella di tutta la famiglia.
Pimpa è una cagnolina a pois rossi, creata nel 1975 dal geniale estro di Altan. Noi adulti abbiamo conosciuto Altan soprattutto per la straordinaria capacità di sintesi sociologica sui mutamenti sociali in corso dagli anni settanta. Francamente non avevo mai prestato attenzione ai suoi cartoni per bambini. La Pimpa esce la mattina salutando Armando – che ricambia mentre, seduto nella sua poltrona, legge il giornale – e va nel mondo, pronta a sempre nuovi incontri. Armando è un uomo quieto, la saluta benevolo e resta seduto ad aspettare il suo ritorno. Il refrain della musica recita “perché la Pimpa, ecco chi è!” Vale la pena cercare su youtube uno di questi video di pochi minuti, per ricevere una piccola carica di buon umore.
Racconto una storia, una delle tante, paradigmatica. Una giornata di neve, la Pimpa incontra un Bob a due, rosso fiammante, e dice (più o meno): “mi porti a fare una discesa sulla neve?” E il Bob risponde: “non si può, sono a due posti!”. La Pimpa replica: “aspetta un momento” e si mette all’opera: raccogliendo neve fresca, costruisce un pupazzo di neve. Dopo avere disegnato al pupazzo la bocca, gli chiede: “vuoi venire a fare una discesa con me? E il pupazzo risponde lieto: “Volentieri!”. Lei lo prende e lo carica sul Bob che immediatamente dice: “Ora possiamo andare!” e la Pimpa e il pupazzo si godono sorridenti la spericolata discesa.
Al ritorno, ogni sera, la Pimpa racconta ad Armando l’avventura della giornata. Talvolta Armando replica con obiezioni come: “non è possibile, perché …”, ma noi sappiamo che ciò che racconta la Pimpa è accaduto davvero e anche Armando prende atto, con un laconico e accondiscendente: “ma certo!”.
Gioia guarda attentissima e assorta, come cercando di capire il messaggio sotterraneo. Ma forse, più semplicemente, le piacciono i disegni colorati e i pallini sul manto, che ogni tanto si staccano quando la corsa si fa veloce.
Ma chi è la Pimpa? La Pimpa è l’alter ego di Armando, ciò che gli consente di sognare, di andare con la mente in luoghi in cui non sa o non vuole andare nella vita quotidiana. È colei che gli consente di sperimentare mondi possibili, di rivisitare con occhi della meraviglia e dello stupore lo spazio angusto che sta intorno alla poltrona della sua stanza. È uno sguardo sul mondo, la conquista di uno spazio di libertà sempre possibile.
Mi chiedo perché non avessi capito prima il grande insegnamento della Pimpa. Altan, anche in questo caso, in modo più diretto dei miei riferimenti di scuola, di sociologi straordinari come Berger e Luckman, che hanno formato il mio orientamento di ricerca, ci insegna che il mondo della vita quotidiana è una realtà ordinata da routine e consuetudini che perpetuiamo e riproduciamo in modo acritico. Ma la realtà è il frutto della rappresentazione che ce ne facciamo e, quindi, possiamo costruirla, almeno in parte.
La Pimpa ci ricorda che cercare ed esplorare i mondi possibili è un esercizio per trasformare il mondo e che la fantasia è la condizione per creare una realtà migliore.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma)
Laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

giorgio-bassani

L’europeismo di Bassani

“Anche la migliore delle tradizioni si serve solo rinnovandola” (Vittorio Foa)

DA MONACO DI BAVIERA – Non viviamo più nel periodo del fascismo e, né in Germania né in Italia, incombe la minaccia di un ‘nuovo fascismo’. Gli avvertimenti antifascisti di Bassani perdono quindi oggi il loro significato più stretto. Il contesto attuale è, infatti, completamente diverso da quello del periodo dal dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso. Esistono tuttavia molti nuovi pericoli al giorno d’oggi, dai quali Giorgio Bassani ci ha messo in guardia già a suo tempo: per esempio la “depoliticizzazione della democrazia”, le forme di una nuova oligarchizzazione all’interno della democrazia, il crescere di un “regionalismo provinciale”, la commercializzazione estrema dello sviluppo urbano e del territorio ecc.

Nella lotta contro questo degrado di politica e democrazia, in breve della “società civile”, può essere utile imparare dalle esperienze di chi ci ha preceduto e confrontarle con le nuove realtà di oggi. È tuttavia possibile parlare della “eredità spirituale, politica e civile nella tradizione di Giorgio Bassani” nel contesto attuale, solo se non ci si lascia andare a qualsiasi nostalgia. A questo proposito alcune osservazioni.

“Italia Nostra” sta a cuore all’Europa intera. Il 65 % del patrimonio artistico europeo è custodito in Italia. Per questo è importante per Italia Nostra, laddove possibile, superare i confini nazionali. Per Bassani, in particolar modo negli ultimi anni del suo fervido impegno politico ed intellettuale, questo “orientamento europeo” era estremamente importante.

In una conversazione con Paolo Bonetti, pubblicata nel 1984 nella rivista politica “La Voce Repubblicana”, Bassani ha parlato a lungo della “sua Europa”. Quella conversazione, dal titolo “L’Europa della cultura e della ragione”, è stata a malapena presa in considerazione dall’opinione pubblica italiana di allora. Si tratta di una sorta di testamento civile ricco di spunti di riflessione, formulati a volte con un’idealizzazione del pensiero europeo che oggi può apparire inconsueta, ma che contiene alcuni pensieri che sembrano essere profetici:
“L’Europa è concepibile solo come un’Europa dei cittadini, nel significato storico e culturale della parola ‘cittadini’… Dobbiamo unire la cultura tecnica europea con quella umanistica e civile”.
E poi in merito al rapporto Europa – America: “Dobbiamo vedere l’America come un esempio da correggere – è più avanti di noi sulla strada dell’industrializzazione totale, anche perché è un paese semplice, meno ricco delle infinite complessità europee. Ma è il frutto nostro, l’erede della nostra cultura e della nostra tradizione… Tutti, americani ed europei, siamo nati qua, da questa parte dell’Atlantico, ma noi siamo più vicini alle radici, che sono anche loro. Difendere queste radici dalla barbarie di un mondo che considera l’uomo come un semplice oggetto da consumare, è il nostro compito comune”.

Anche se Bassani si è sempre distanziato dalla cultura del ’68, c’è sempre stata una certa vicinanza con alcuni dei pensatori di questo movimento di protesta, per esempio con Herbert Marcuse, la cui opera principale si intitola L’uomo a una dimensione.

Bassani rappresentava un “regionalismo estremamente moderno, ovvero un regionalismo civile e non popolare” (Pasolini). I suoi romanzi, ma anche le sue posizioni civili, sono fortemente radicate a livello regionale (“nel Ferrarese”), ma non sono mai solo “regionalistiche”, o “localistiche”. “Volevo essere realista ma non provinciale”. Sin dall’inizio Bassani si considerava anche un “cittadino di cultura europea”, se non addirittura “un cittadino del mondo”. Bassani, forse inconsapevolmente, ha anticipato l’epoca odierna della globalizzazione. Naturalmente non ne poteva prevedere le conseguenze sociali e culturali, soprattutto i movimenti migratori di massa, ma sicuramente non si sarebbe mai schierato dalla parte del regionalismo aggressivo, provinciale e nostalgico, sostenuto oggi per esempio dalla Lega Nord, ma anche in numerosi paesi europei. Giorgio Bassani ha potuto sostenere la sua opinione in maniera molto chiara, non cadendo tuttavia mai in eccessi populistici. “Civiltà e Cultura” erano i valori centrali nella corrispondenza fra Thomas Mann e Benedetto Croce. Questi restano un leitmotiv anche nell’opera di Bassani che era un grande ammiratore sia di Mann che di Croce.

“Fare della politica ma non farla”. Bassani ha così descritto una volta il suo rapporto con l’impegno politico: “Si deve fare della politica ma non farla”. Oggi si parla molto della crisi dei partiti e della democrazia rappresentativa. Allo stesso tempo però si riscontra, soprattutto tra alcuni esponenti delle generazioni più giovani, un maggiore interesse per l’impegno civile e la responsabilità globale al di fuori di partiti e associazioni tradizionali. Paul Valery a sua volta ha detto che “la politica è l’arte di impedire che la gente si interessi di ciò che li riguarda”. Sia in Italia che anche in Germania vige oggi una forte “disaffezione nei confronti dei partiti politici”, ma questo non equivale a una “stanchezza nei confronti della politica”. Non si può parlare di “antipolitica”, ma di ricerca di altre forme di partecipazione a processi decisionali, le cui conseguenze oggi non hanno più dimensioni solo locali, bensì quasi sempre anche regionali o addirittura globali. Volendo esprimere lo stesso concetto in maniera più accorata: per molti “Italia Nostra” non è più sufficiente. Per loro sarebbe più corretto parlare de “Il Mondo Nostro”, pensiamo ad esempio al grande interesse suscitato da un festival come l’Internazionale a Ferrara. “Si deve fare della politica ma non farla” potrebbe essere il leitmotiv di questo nuovo interesse politico freddo e scettico verso i vecchi partiti ma curioso verso un nuovo modo di trovare concetti e strutture di una nuova vita sociale e contro la “indifferenza globale” (Papa Francesco ).

Per far comprendere veramente ciò che lo ha mosso, sia nelle sue opere letterarie che nel suo impegno civile, Giorgio Bassani, nella conversazione con Paolo Bonetti sull’Europa, invita chiaramente e senza alcuna retorica alla lettura delle sue Storie Ferraresi: “Lo spirito insieme ebraico e cristiano è ben presente nel mio Romanzo di Ferrara… In questo libro c’è il mio messaggio all’Europa, il senso profondo del mio impegno morale e civile”.

Questa tradizione “di impegno morale e civile” viene poi ripresa dall’olandese Rob Riemen nel suo libro, pubblicato da Rizzoli, Nobiltà di spirito. Elogio di una virtù perduta. A fare da introduzione una citazione dai Giardini dei Finzi-Contini: “Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare”.

L’istituto Nexus (con sede a Tilburg, nei Paesi Bassi) cerca da anni, così come fecero Thomas Mann e Giorgio Bassani, di dare una nuova voce alla “nobiltà dello spirito” (attraverso conferenze, network internazionali di intellettuali ecc.). Gli ideali per cui hanno combattuto Thomas Mann e Giorgio Bassani, Hannah Arendt e Norberto Bobbio, vanno però sempre adattati alle nuove realtà. “Se si vuole rimanere fedeli ai propri ideali”, scrive Rob Riemen, “si deve essere aperti al cambiamento delle forme”. Una dichiarazione che sicuramente anche Giorgio Bassani avrebbe sottoscritto.

In Europa ‘Jolanda’ primeggiava con Grazia Deledda e Matilde Serao

MARIA MAJOCCHI PLATTIS (JOLANDA)
(a 150 anni dalla nascita)

Maria Majocchi Plattis in arte Jolanda (1864-1917), essendo vissuta relativamente isolata rispetto al mondo accademico/letterario del proprio tempo e «per giunta donna e addirittura autodidatta, – scrive Giancarlo Mandrioli nell’introduzione al profilo pubblicato nel 1997 da Maria Gioia Tavoni – non raggiunse in Italia il credito di valore dovutole; l’ampia fama era circoscrivibile alla letteratura minore, rosa, della belle époque. Diverso il riconoscimento riservatole in sede europea, a livello di traduzione di opere, non inferiore a quello tributato a Grazia Deledda [premio Nobel nel 1926] e a Matilde Serao».
In effetti Jolanda «si rivolgeva a un pubblico ben preciso: donne, ma in prevalenza appartenenti alla borghesia benestante e alla nobiltà; – commenta Maria Gioia Tavoni – gentil sesso, sì, ma armato di tradizione e in possesso di una buona formazione culturale nell’accezione più lata, che è la caratteristica educativa di un certo ceto sociale subito dopo la metà del secolo XIX. […] Se si percorre sia pur frettolosamente la Bibliografia approntata da Mariateresa Alberti per gli Atti del Convegno, si rileva innanzi tutto che l’editore di Jolanda fu principalmente Cappelli. Egli stampava dapprima a Rocca San Casciano. Ebbe fra le mani più di una ventina di opere della scrittrice centese, riedite nell’arco di pochi anni e anche dopo la morte dell’autrice, in un convulso susseguirsi di tirature. […] Il romanzo Le tre Marie sforò le centomila copie e le dodici edizioni; eccezionali furono altresì le otto edizioni di Suor Immacolata e non c’è comunque opera stampata dall’editore romagnolo che non superi almeno, entro il 1928, le tre edizioni».
Il romanzo più conosciuto di Maria Majocchi Plattis è Eva regina, altre sue opere sono: Il fior della ventura, Natale, Le donne nei poemi di Wagner, Sotto il paralume color di rosa, Fiori secchi, Le indimenticabili, Crisantemo rosa, La maggiorana, Le tre Marie, Suor Immacolata, Alle soglie d’eternità, Le ignote, Accanto all’amore, La perla.
Jolanda era nipote del celebre filologo centese Gaetano Majocchi, nato nel 1796 e morto appena quarantunenne. Il quale fu inoltre poeta, latinista, musicologo ed epigrafista. Tra i suoi innumerevoli testi in lingua e in latino, bisogna almeno ricordare i componimenti scritti in occasione delle nozze Carandini-Trivulzio, dove traspare sensibilmente l’influenza di Ugo Foscolo, le Postille del Tasso in Dante e la Volgarizzazione intorno all’Imitazione di Cristo (completata dopo la sua prematura scomparsa da Marcantonio Parenti). Ma il Majocchi è oggi soprattutto ricordato per avere collaborato alla stesura del famoso Vocabolario della lingua italiana voluto dall’abate Manuzzi, una sorta di rifacimento con migliorie di quello dell’Accademia della Crusca, a cui contribuì autorevolmente con un discreto numero di schede anche Giacomo Leopardi.

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

ragazza-fisarmonica

Esther, la donna che visse due volte grazie alla musica

Suona, canta, fa concerti e ha 89 anni. Esther Béjarano è una signora tedesca di origine ebraica, abita ad Amburgo e ha vissuto la deportazione. Una reduce che, attraverso la musica, ancora oggi racconta la sua storia di artista, quella di una famiglia e di un popolo. Esther Béjarano sarà ospite mercoledì 29 gennaio alle 21 al teatro Comunale per un incontro, La ragazza con la fisarmonica, che sarà anche concerto, dialogo, film, libro. Con la partecipazione del fisarmonicista jazz Gianni Coscia e del figlio Joram Béjarano al basso, Esther canterà canzoni della resistenza, della deportazione ebraica e canti nati nei campi di concentramento. Uno spazio verrà dedicato alla presentazione del libro La ragazza con la fisarmonica (edizioni Seb27, Torino 2013) curato dalla giornalista Antonella Romeo.
Il libro è tratto da un manoscritto autobiografico che la Béjarano compose alla fine degli anni settanta, volle raccogliere i ricordi di una vita a partire dall’infanzia a cui seguì l’inizio delle persecuzioni razziali. La musica la salvò, lei suonava il piano, ma con la fisarmonica riuscì a entrare nell’orchestra femminile del campo dove la musica aveva ben poco di ludico perché accompagnava i prigionieri diretti alle camere a gas.

Abbiamo chiesto ad Antonella Romeo, curatrice del volume, chi è Esther Béjarano.
“E’ una signora di straordinaria forza sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, al lavoro coatto devastante di Ravensbrück e che è riuscita a rinascere. È emigrata in Palestina, ma ha trovato un’altra guerra e così, nel 1960, si è allontanata per tornare in Germania con marito e figli”.
La sua storia personale è diventata un libro, un documentario, ma è soprattutto musica con cui Esther riesce a comunicare anche ai più giovani.
“Esther è da sempre un’attivista molto impegnata a parlare di diritti e a sensibilizzare il pubblico per una cultura della pace e della libertà. La musica è stato il mezzo che l’ha aiutata a sopravvivere e l’ha accompagnata negli anni fino ad avvicinarsi alla musica rap con cui vuole raggiungere i più giovani e preservarli dalle derive razziste e xenofobe dell’estremismo di destra, diffuso non solo in Germania”.
La giornata della memoria diventa allora attualità e attualizzazione di una testimonianza che ha molto da dire anche sul presente.
“Dopo gli anni in Palestina, il ritorno in Germania fu traumatico, era la terra dei suoi persecutori e dei carnefici dei suoi genitori e di una delle sue sorelle. Fu un periodo di intenso lavoro e di isolamento dalla popolazione tedesca, abbandonò la musica per fare umili lavori da immigrata, solo negli anni ottanta tornò a cantare e iniziò il nuovo coinvolgimento di artista e testimone che Esther Béjarano non ha ancora smesso”
Il repertorio è stato, infatti, reinterpretato in una modernissima chiave rap, una contaminazione di stili che il pubblico sta apprezzando.
“Dal 2009, Esther canta soprattutto assieme al gruppo rap hip hop Microphone Mafia, composto da lei, dal figlio Joram e dai due rappers Kutlu Yurtseven e Rosario Pennino, figli di immigrati turchi e italiani. Con il suo canto, Esther parla di resistenza ebraica, lotta per la libertà dei giovani partigiani, amore per la pace dei disertori, nostalgia per la patria degli esiliati, desiderio di appartenenza degli immigrati. Ma conversando con lei, si riflette anche su religione, responsabilità delle nuove generazioni riguardo al passato, riunificazione tedesca, politica di Israele, affetti e di quel che conta davvero nella vita”.

L’incontro al Comunale del 29 gennaio, a ingresso gratuito, prevede una prima parte dedicata alla proiezione di scene tratte dal documentario Esther che suonava la fisarmonica nell’orchestra di Auschwitz della regista Elena Valsania sui concerti e le interviste di Esther, una conversazione tra l’artista e Antonella Romeo e, nel finale, un concerto con l’accompagnamento di Joram Béjarano e Gianni Coscia.
L’evento si svolge in collaborazione con Comune di Ferrara, Provincia, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Goethe Institut, Feliz, edizioni Seb 27.

La ragazza con la fisarmonica (edizioni Seb27, Torino 2013) è un libro, a cura di Antonella Romeo, che nasce da un manoscritto autobiografico di Esther Béjarano e che, nella seconda parte, propone un testo scritto da Antonella Romeo intrecciato alle riflessioni di Esther Béjarano. Il libro è arricchito da un’introduzione dello storico Bruno Maida, dell’università degli studi di Torino e ha in allegato il documentario della regista Elena Valsania Esther che suonava la fisarmonica nell’orchestra di Auschwitz.

alluvione-secchia

Alluvione, nessun allarme. Ma anche a Ferrara il rischio esiste

Al momento è un passaggio tranquillo quello delle acque dell’alluvione modenese attraverso il nostro territorio.
La rete idrica ferrarese è ben preparata a ricevere le masse d’acqua che stanno defluendo dal Secchia e dalle campagne allagate. Il flusso viene convogliato negli impianti idrovori di Santa Bianca, Pilastresi e Botte Napoleonica, che a loro volta scaricano nel Panaro, che arriva al Po, e nel Po di Volano, che arriva al mare.
I livelli dei fiumi sono alti ma al di sotto della soglia di attenzione, e sono in diminuzione, come confermano dall’Ufficio difesa del suolo e protezione civile della Provincia di Ferrara.
E anche in merito al timore di un ritorno di pioggia e neve a monte e a valle, arriva la rassicurazione di Stefano Calderoni, Assessore provinciale con delega alla protezione civile. “Se anche la situazione dovesse peggiorare da un punto di vista meteorologico – spiega – a Ferrara siamo pronti ad utilizzare tutti i canali della nostra rete interna, che d’inverno vengono messi in asciutta anche per ricevere eventuali acque in eccesso”.
“Il timore che l’onda dell’alluvione potesse arrivare a Ferrara è ormai scongiurato” afferma Andrea Peretti, responsabile del Servizio tecnico di bacino del Po di Volano e della Costa. “La falla nell’argine del Secchia è stata riparata, e si sta procedendo a liberare i terreni sommersi”.
Mentre a Modena ancora si contano i danni e si cerca a denti stretti di rialzarsi da questa seconda batosta, arrivata a meno di due anni dal tragico terremoto, rimane da capire come tutto questo sia potuto accadere.
Secondo Giambattista Vai, geologo e direttore del Museo geologico Capellini di Bologna, le tane scavate nell’argine dalle nutrie, individuate ora come principali responsabili, potrebbero essere una concausa, ma è riduttivo focalizzarsi su questo.
“Non dobbiamo dimenticare che gli argini sono stati costruiti a mano dagli scariolanti all’epoca della bonifica, quindi non sono eterni. Vanno costantemente manutenuti e controllati, è questo quello che è mancato. Non si può perdere la memoria della frequenza delle rotte che ci sono sempre state nel nostro territorio, è un fatto normale, a volte inevitabile. In Emilia – Romagna, dove questi fenomeni sono frequenti non dovrebbe esserci un solo argine, ma due, con in mezzo una zona di espansione capace di contenere le acque in caso di piena. E lì non bisogna costruire, si può al massimo coltivare, sapendo che si può perdere tutto. In passato c’era la consapevolezza del naturale divagare dei fiumi, ora si è persa”.
Viene allora da chiedersi se quel che è accaduto al Secchia potrebbe succedere anche ai nostri argini. “Si, certo – conferma Vai – le istituzioni non devono dimenticarsi che questi sono fenomeni ciclici, per cui bisogna investire nella prevenzione e nella programmazione, che costa comunque meno dei danni conseguenti al disastro”.
In questo senso va anche l’intervento di Massimo Gargano presidente dell’Associazione nazionale delle bonifiche delle irrigazioni.
“La rabbia di chi subisce un’alluvione è comprensibile, ma vorremmo si trasformasse nella richiesta pressante dei finanziamenti necessari a quegli interventi, che da anni chiediamo e che, ancora una volta, riassumeremo nel Piano per la Riduzione del Rischio Idrogeologico, che presenteremo a febbraio. Di fronte ad eventi eccezionali, la cui violenza è conseguenza di cambiamenti climatici ormai acclarati, servono quegli interventi strutturali, che chiediamo da tempo e che in Emilia Romagna necessitano di finanziamenti per quasi un miliardo. In assenza di un piano pluriennale di interventi il territorio modenese, come il resto d’Italia, accentua la propria fragilità, aumentando il rischio per le comunità e le loro attività economiche”.

idea-realta

Ferrara e la storia recente

Mi accorgo che la mia storia a Ferrara procede a balzi: a volte accelerata, altre in rallenty, così le cose, gli avvenimenti sembrano astrarsi e non trovare quel giusto rapporto tra il ricordare e l’accadere. La notizia di una borsa di studio che i figli dedicano alla memoria di Maria Teresa Ronchi mi riporta alla memoria momenti che sembravano cancellati e che ritornano con il lampo del ricordo che tuttavia non ha la forza di ritessere la trama.
Era mia consuetudine per rimpolpare il magro budget di un assistente di ruolo appena nominato a Firenze dove ero stato costretto a prender residenza (e così non poter giovare all’avvicinamento di mia moglie dalle lande deltizie dove insegnava), far domanda di presidente di commissione agli esami di stato. Fui destinato per due o tre anni nella commissione di Maria Teresa e s’instaurò una solida amicizia basata sul rispetto e sulla reciproca condivisione di temi politici e culturali assieme. E ancora oggi con l’aspetto fisico del vecchietto ma ancora con la mente forse troppo giovanile incontro rispettabili signori che mi ricordano quella prova di maturità come una delle esperienze più gratificanti della loro non sempre quieta giovinezza.
C’era stato il ’68, erano gli anni di piombo eppure in questa città si respirava un’aria diversa così differente da quella che respiravo a Firenze centro codificato con Milano della protesta giovanile. Eppure gli studenti ferraresi non erano digiuni dalla conoscenza di quel che avveniva in Italia e non solo lì.
Un altro caro amico troppo presto scomparso che insegnava all’Istituto Industriale: Giuseppe Corticelli, finissimo studioso, allievo di Ezio Raimondi, fece portare “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini (era il 1971) all’esame di maturità nell’anno in cui presiedevo la commissione. C’era un rispetto per la cultura associata alla passione politica ammirabile. Non a caso nell’ultimo anno d’insegnamento prima di essere chiamato al Firenze nella mia classe c’erano Fiorenzo Baratelli, Roberto Cassoli, Marcello Folletti che tanto hanno dato alla città notoriamente dimentica dei propri figli migliori.
Di Maria Teresa ricordo il suo breve passaggio all’assessorato: anche lì riannodammo fili culturali solidi e tenaci. Ma ripeto il ricordo ha buchi neri. E allora mi domando: è la mia memoria che è lacerata o è stata la città ad avere smemoratezze e oblivioni? Era il mio essere pendolare tra due città dove ogni settimana vivevo in una situazione sociale e storica completamente diversa oppure quei buchi esistevano veramente?
Ormai a quasi cinquant’anni di distanza sarebbe tempo di tentare un primo risultato storico e un giudizio. Ma la città sembra distratta da altri pensieri. I giovani non certo migliori o peggiori di quelli che furono i nostri allievi, con insegnanti quasi sempre appassionati del proprio lavoro e con in più l’umiliazione costante che proviene dalle infime condizioni economiche a cui sono costretti, con disastrose riforme scolastiche che hanno coinvolto tutto lo schieramento politico culminato in questi giorni con l’abolizione dell’insegnamento di storia dell’arte voluto dalla meno degna ministra che abbia ricoperto quel ruolo, Maria Stella Gelmini, del cui operato tacere è bello, non paiono solleciti a ricostruire una memoria che li renda in fondo consapevoli di quel recente passato di cui furono protagonisti loro genitori o i loro nonni.
Sembra quasi che nel lungo governo della sinistra in città esista come una necessità se non una volontà di non fare i conti con la storia recente o recentissima. La mancanza di una solida controparte politica che in qualche modo avesse avuto i numeri e la capacità di un’alternanza, la progressiva sparizione di quella borghesia intellettuale che rappresentava l’aspetto migliore del conservatorismo di una città per tanti anni governata dalla sinistra ma il cui potere economico era saldamente in mano agli agricoltori e industriali (pochi) hanno fatto sì che si trovasse comodo rifugiarsi in una specie di non belligeranza d’idee sotto l’ala protrettrice della banca di riferimento. Questo ha forse prodotto l’“oblivione” di cui ancora non si vede la fine.
E ricordando i nomi di valorosi insegnanti che hanno educato l’odierna classe dirigente come quelli di Maria Teresa o di Corticelli, o di Giovannelli , o di Modestino o di Elettra Testi o di Luciano Chiappini o di Roseda Tumiati e del maestro Franceschini o di Don Patruno o di Franco Farina e di tanti altri straordinari insegnanti, mi pare -e sarebbe urgente- che alla fine si cominciasse a ricostruire la storia recente di Ferrara; di vederne i progressi ma anche i regressi e quindi la capacità e la necessità di non arretrare di fronte a una volontà ormai impellente di non lasciare buchi nella trama del nostro recente passato. Ne saremo capaci?

teatro-verdi

Fortini: sulle ali delle idee Ferrara può tornare a volare

2. CONTINUA – “Il Verdi ha avuto una storia vissuta e tormentata. E’ stato il vero teatro popolare. Là si è ‘consumato’ ogni genere di spettacolo: la lirica, il cabaret, lo spogliarello, gli orchestrali, il cinema per famiglie e il porno, nell’Ottocento addirittura mangiatori di spade o di fuoco, alternati alle opere liriche… Il teatro popolare, appunto. E curiosamente uno dei pochi in Italia con la particolarità di avere l’ultimo ordine dei palchi affacciato direttamente sul palcoscenico”. A dirlo è l’architetto Sergio Fortini, fautore (con Centro studi ‘Dante Bighi’, Gianfranco Franz e Luca Lanzoni) della sua riapertura autunnale.
Nei pochi giorni in cui le porte si sono spalancate alla città, all’inizio dello scorso ottobre, c’è stata una continua processione di pubblico, per annusare sentori di storia e vedere cosa fosse rimasto di quello spazio: solo volumi e scheletri di memoria. “La temporanea riapertura del teatro Verdi – spiega – ci porta a parlare del capitale narrativo custodito in molti luoghi ferraresi. E’ stato un segnale culturale d’eccezione, nonostante la sua episodicità. L’evento ha mostrato capacità suggestiva, tale da lasciare sospesa la sua dimensione temporale. Ha catturato interesse in maniera trasversale. E in me ha generato una crasi fra Austin e Piranesi, facendomi sentire in uno stato di ‘orgoglio e precipizio’”.

Già, perché ora la scommessa è dare continuità alla suggestione e rendere l’ipotesi una realtà. “Faremo di tutto perché questo accada. Con l’Associazione ‘Città della cultura / Cultura della città’ abbiamo superato la prima selezione del concorso ‘Che fare 2’, bandito dal Sole24ore: di 600 progetti presentati solo 40 sono stati ammessi e noi ci siamo. Questo contribuisce, parallelamente, alla visibilità del progetto e all’avvio del processo di raccolta fondi”. E la Regione che ha finanziato la prima parte degli interventi è disposta a intervenire ancora? “Il cancello non è chiuso e si sta valutando se quello possa essere il canale per ottenere finanziamenti europei. Ciò a cui puntiamo non è la semplice riqualificazione di un luogo, ma la rivitalizzazione di un comparto urbano affinché possa attrarre nuove economie e generare socialità”. Ma concretamente quanti soldi servono? “Sono convinto che si possa realizzare un progetto a bassa risoluzione per il layout degli spazi, ispirato a logiche da loft quindi secondo la tipologia di recupero industriale, con accorgimenti minimali e senza l’impiego di materiali e dettagli costosi si possa realizzare un netto risparmio rispetto ai 10 milioni a suo tempo ipotizzati”. Tradotto significa “meno della metà della cifra prefigurata”.

Dal contesto del teatro Verdi, la riflessione sul capitale narrativo di Ferrara si amplia. E, quasi per prossimità fisica, il ragionamento sulla riqualificazione di ambiti urbani di particolare rilievo si indirizza verso la vicina via delle Volte. “C’è un recupero di immagine e di sostanza che si potrà realizzare nel momento in cui si dispiegherà il progetto del Meis, perché il Museo ebraico rappresenterà l’approdo turistico e la nuova testata di penetrazione della città – osserva Fortini – E via delle Volte è l’asse di attraversamento del nucleo medievale. Ma non c’è ancora una riflessione in atto. Eppure lo stimolo è potente. Una città è fatta da linee e percorsi, si gioca suoi vuoti, non sui pieni. La nostra ha una natura conformista, in ossequio alla quale ha abdicato alla cultura architettonica della contemporaneità, al punto che negli ultimi tre decenni non sono stati realizzati edifici degni di menzione, se non qualche abitazione privata frutto di brillanti ma estemporanee intese fra committente e progettista”.

“Però si è completamente rinunciato a ricercare equilibri e armonie fra antico e contemporaneo come se, da un certo momento in poi, qui come in tante altre parti d’Italia si fosse avvertito il bisogno di rifugiarsi nel classico stilema architettonico della casetta o della villetta a schiera, rassicurante perché banale. E’ una deriva determinata anche dall’incompetenza di chi gestisce il mercato, che ha imposto il modello dell’uni o bifamilare di cui si è riempita la fascia periurbana, impoverendo il paesaggio”.

Il salto dalla presente ‘villettopoli’ alla ‘smart city’ indicata da ‘Cultura della città’  come desiderabile approdo per il futuro di Ferrara ed evocata dall’ex sindaco Sateriale – nell’intervista a ferraraitalia – come potente opportunità di sviluppo e benessere per la comunità, appare dunque un vorticoso viaggio nel tempo, un vertiginoso affacciarsi oltre gli steccati della pigrizia.

“Su questi temi, già da un anno, abbiamo avviato incontri definiti ‘tavole quadrate’, a significare la volontà di smussare gli spigoli esistenti, metafora delle scarse capacità relazionali di attori pubblici e privati chiamati a rendersi protagonisti della trasformazione”. L’indifferibile necessità di un confronto, dunque. “Noi riteniamo che la condizione base da cui partire per impostare una programmazione strategica orientata alla realizzazione di una città ‘smart’ stia nella simultanea e simmetrica condivisione delle informazioni fra tutti gli attori sociali. Se due istituzioni per prime non si parlano e non sono in grado di socializzare conoscenze, competenze, dati, risorse non possono pensare di costruire un ambiente ‘smart’ il cui presupposto è la messa in comune”.

Chi non mastica questi temi come deve figurarsi questo modello di vita comunitaria? “Come un ambiente con un’alta qualità della vita, intriso di una socialità capace di generare opportunità economiche e condizioni di diffuso benessere perché le risorse vengono condivise e dunque ottimizzate a vantaggio di tutti”.
In questo senso il ritardo di sviluppo, oggi, può rivelarsi una risorsa. “Ferrara ha qualità intrinseche che discendono dalla sua storia e che ha saputo mantenere. La sua resistenza al cambiamento ha determinato una sospensione lirica e quasi metafisica. C’è in noi connaturata una lentezza nel vivere che non è quieto vivere, ma vivere quieto”. E tutto questo come si traduce in un progetto di nuova urbanità? “Abbiamo un quadrante intero di campagna dentro la città, regalato al verde dal Rinascimento e conservato sino ai giorni nostri, quello attorno alla Certosa. Siamo una città patrimonio Unesco inserita in un territorio Unesco che si estende sino a Comacchio e al mare. Sono valori aggiunti che pochi posso vantare. In questo senso l’essere rimasta avulsa dalla contemporaneità ha certo significato non avere lanciato al mondo alcun significativo segnale, ad eccezione del Nobel a Giulio Natta per l’invenzione del moplen o delle lungimirante intuizione della videoarte di Franco Farina e Lola Bonora. Ma questo oggi conferisce appunto ‘il valore aggiunto’: la città avulsa dal fluire del tempo, si è sostanzialmente sottratta ai conflitti, ai contrasti, agli attriti, alle contraddizioni della modernità. E si presenta vergine all’alba del 2014. L’isolamento di Ferrara, il freno al suo sviluppo, oggi si traduce in un vantaggio”. In opportunità… “Sì, in opportunità. Per tradurre questa carta in in un asso dovremo avere la capacità di mettere a valore il paesaggio artificiale di città nobilitato dalla storia e il paesaggio naturale incontaminato del forese. Questa è la sfida, questo è il terreno su cui lavorare”.

2. FINE
Leggi la prima parte della conversazione con Sergio Fortini

patto-scellerato

Il patto scellerato

“Bestia!”, penso di pensare mentre mi scorrono davanti agli occhi le immagini della conferenza stampa del potente sciocco di turno, il quale annuncia, con il sorriso beota dei bambini che si ciucciano il dito, di avere sottoscritto un patto di alleanza con Berlusconi. Del potente sciocco mi rifiuto di ricordare il nome, vedo soltanto i suoi occhi sempre sorpresi come di chi non ha capito nulla di quel che gli si dice, di lui ricordo il modo di parlare bleso, con la lingua che s’infila pettegola tra i denti incisivi e obbliga il ragazzo a inzizolarsi per cui il suo alleato diventa Berlutzconi. “O tosco! – direbbe Alighieri mettendolo all’inferno – che per la città del foco vivo ten vai parlando non proprio onesto…” Non mi permetterei mai di mettere un infante alla berlina per il solo gusto dello sfottò, ma qui, in questo momento, in questo paese che sta sprofondando in mare grazie anche (o soprattutto) alla noncurante cupidigia dei palazzinari sui quali la Democrazia Cristiana nell’immediato dopoguerra fondò il suo malinconico impero, dicevo che non mi permetterei mai uno sfottò fine a se stesso se il nostro paese non fosse giunto ormai, con termine caro agli scrittori di calcio, in zona Cesarini. Ma non soltanto economicamente, peggio: moralmente. Ogni popolo, ogni nazione, in qualsiasi regione del mondo, possiede una propria morale su cui ha costruito le sue leggi, le quali, in linea generale, e almeno sui principi fondanti, appaiono abbastanza simili: omicidio, furto, violenza, raggiro, truffa, evasione della tasse, eccetera, sono reati comuni a ogni codice, sottolineando l’unicità della coscienza umana sotto qualsiasi cielo, persino sotto il cielo italiano, dove, se qualcuno l’ha dimenticato, quei valori generali hanno preso forma, nel diritto romano, di regole, di leggi, o semplicemente di broccardi, nel senso che Burchard di Worms, al nome del quale rimanda il termine, diede alle nozioni della più semplice grammatica giuridica. Ora, se dal punto di vista puramente politico il patto tra sinistra, o pseudo tale, e destra è scorretto (ma può essere anche scellerato), perché corrisponde a una truffetta ai danni degli elettori di ambedue le parti, ci sono ben altre considerazioni che condannano le alchimie arzigogolate di tanti politicanti e commentatori, ora così indaffarati a dare senso civico all’accordo del toscano con Berlusconi. La prima è di ordine morale, semplice semplice: non ci si può accordare con un uomo che la giustizia ha condannato in via definitiva e che dovrebbe essere agli arresti domiciliari oppure a eseguire lavori socialmente utili . Non si può, infatti, pensare di costruire una società giusta sulla base di scorrettezze, di sotterfugi (che possono essere tali anche se fatti alla luce del sole), di falsità e di immoralità: la nostra vita deve pur avere un senso morale, se lo eliminiamo azzeriamo d’un colpo tutti quei valori fondanti non tanto del villaggio della nuova vita a cui tutti diciamo di aspirare, ma di una società minimamente legittima. La seconda considerazione è di carattere politico: un solo uomo – se amiamo la democrazia – non può permettersi di vendere non si sa per che cosa la causa a cui credono milioni di cittadini: la sinistra, per tradizione, aspira a una società in cui la povera gente (detta con termine cristiano) abbia i diritti dei privilegiati e addirittura tenda a eliminare il privilegio e, allora, non deve mai, la sinistra, accordarsi con chi è maestro del privilegio e su di esso ha edificato fortune colossali. La politica avrà pure una sostanza, oppure è soltanto forma? Se lo è chiudiamo qui, è inutile fare altri discorsi, lasciamo lavorare chi pensa che la vita sia soltanto una questione di danaro e, sulla base di questo principio elementare, commette reati ai danni di chi crede ancora in qualche sia pur minimo valore.

Sharbat-Gula

Che colore ha la dignità?

“Quando ripenso a tutte le stronzate che ho imparato alla scuola superiore, è un miracolo che io possa ancora pensare…”.
No, non mi riferisco alla mia esperienza scolastica; l’autore di questa frase è il cantautore Paul Simon che introduce così una sua canzone, scritta nel 1972.
In questa prima strofa mi sembra abbastanza chiara la sua dura critica al sistema educativo statunitense di quel periodo.
Non me ne intendo abbastanza per scriverne nel merito ma se quella scuola era impregnata di puritanesimo come ha dimostrato qualche insegnante con cui abbiamo corrisposto via mail ai primi degli anni novanta per una ricerca sulle filastrocche per fare la conta (leggi), allora canto anche io la stessa canzone condividendone il contenuto.
Infatti ricordo con immutato stupore che diversi docenti americani si erano molto scandalizzati e avevano giudicato male la nostra scuola quando avevano saputo che i bambini italiani, per scegliere chi di loro doveva star sotto in un gioco, andavano a raccontare ai quattro venti che la figlia di un medico aveva una relazione sentimentale con tre civette, con le quali compiva addirittura peripezie a carattere sessuale su un mobile di legno; in più trovavano drammatico che tale rapporto avesse fatto aggravare le condizioni di salute del padre della ragazza!!!
Chissà cosa avrebbero pensato quegli insegnanti se solo avessero saputo che anche un certo signor Cecchino, di professione cacciatore, era destinatario privilegiato delle attenzioni amorose di una cornacchia extracomunitaria!
Condivido il fatto che la scuola italiana abbia qualche problema ma questi non dipendono sicuramente da una cornacchia del Canadà e neanche da tre civette sul comò.
Kodachrome è il titolo della canzone di Paul Simon ma prima di allora era soprattutto il marchio di una pellicola fotografica prodotta dalla Kodak.
La canzone di Paul Simon fa riferimento ad una pellicola unica e straordinaria per diversi motivi: aveva una sensibilità incredibile, riusciva ad esaltare i particolari, offriva una durata nel tempo notevole, forniva un’immagine estremamente nitida della realtà; in pratica celebrava i singoli colori armonizzandoli in un insieme cromatico unico.
In cambio però richiedeva un trattamento di sviluppo lungo e complesso.
Infatti il Kodachrome era una pellicola che nasceva originariamente in bianco e nero e solo dopo, in fase di sviluppo, venivano aggiunti i copulanti cromogeni, che in parole semplici sono le sostanze che, reagendo, sviluppano i colori.
In pratica, a differenza di tutte le altre pellicole che  già avevano nell’emulsione i copulanti del colore, al Kodachrome i colori venivano aggiunti dopo.
Se a Paul Simon la presa di posizione canora sulla scuola gli ha impedito una maggiore diffusione del suo brano, a me quella canzone fa venire in mente che anche nella nostra scuola c’è bisogno di metterci i colori perché, come canta lui, “Everything looks worse in black and white” (ogni cosa sembra peggiore in bianco e nero).
Ho già scritto e detto più volte sul perché ci sia assoluto bisogno di investire culturalmente ed economicamente sulla nostra scuola e sul come farlo.
Nonostante tutto continuo a credere che nella scuola, per un’efficace trasformazione cromatica, ci sia bisogno dapprima di prendersi cura di “coloro che possono aggiungere colore in fase di sviluppo”: sto parlando di tutte le persone che vivono la scuola.
Persone” ancor prima che “personale” della scuola: studenti, personale docente e ata, dirigenti.
Potrei elencare una serie di azioni che si riferiscono al prendersi cura, fra le quali: prestare attenzione, ascoltare attivamente, accogliere, coinvolgere, sostenere, valorizzare, rispondere.
In questo momento però se chi governa la scuola fosse intenzionato a dimostrare interesse, l’elemento irrinunciabile da cui partire dovrebbe essere la restituzione della dignità di cui le “Persone della scuola” sono state derubate in questi anni.
Basterebbe che i politici iniziassero da alcune piccole/grandi cose come il riconoscimento del ruolo sociale della scuola, il rispetto delle reciproche competenze, la chiarezza nelle comunicazioni, la correttezza nelle decisioni, la coerenza fra le dichiarazioni di intenti e gli impegni poi assunti.
Abbiamo un bisogno vitale che si crei una scuola “dalla sensibilità incredibile, che riesca ad esaltare i particolari, che offra una durata nel tempo notevole, che fornisca un’immagine estremamente nitida della realtà; in pratica una scuola che, celebrando i singoli, riesca ad armonizzarli in un insieme unico“.
Il trattamento di sviluppo potrebbe essere lungo e complesso ma, dopo i lunghi anni nei quali la scuola italiana è stata rabbuiata da una Stella che continua ad essere portata in Carrozza, con Letizia, attraverso un prato di Fioroni che fanno poco Profumo, abbiamo la necessità di iniziare ad illuminarla a partire dal colore vivace e deciso della dignità.
P.S. Quella in apertura è forse la foto più famosa della storia della rivista National Geographic. La ragazza afgana ritratta si chiama Sharbat Gula; dopo un attacco che uccise i suoi genitori fu costretta a scappare scalando le montagne fino ad arrivare al campo rifugiati di Nasir Bagh, in Pakistan, con i suoi fratelli e la nonna.
Fu lì che Steve McCurry scattò questa fotografia ormai famosissima… usando pellicola Kodachrome.
Sharbat, all’epoca, aveva 12 anni e non sapeva che, attraverso quella foto, il suo sguardo dignitoso sarebbe diventato un simbolo per il dramma dei rifugiati in tutto il mondo.
Il Kodachrome non si produce più e la Eastman Kodak concesse proprio al fotoreporter Steve McCurry l’onore di utilizzare l’ultima pellicola.

Ascolta il commento musicale: Paul Simone, Kodachrome

Giovani-Associazioni-premiate

Listone e quartiere Giardino diventeranno set di teatro, cultura e memoria

Due luoghi di Ferrara che si trasformeranno in spazi culturali: la piazza accanto al Duomo e un intero quartiere tra maggio e giugno diventeranno il set per spettacoli teatrali, incontri, rassegne di fotografia, memoria storica e racconti. Sono i due progetti che andranno in porto grazie al bando “Giovani per il territorio” indetto dall’Ibc (Istituto beni culturali) della Regione Emilia-Romagna con il Comune di Ferrara. A vincere il concorso rivolto ad associazioni giovanili per progetti innovativi di gestione e valorizzazione dei beni culturali della città sono due associazioni cittadine che mettono insieme ragazzi under 35: l’associazione culturale Listone che da aprile scorso cura il magazine online Listonemag.it e l’associazione di promozione sociale Alpha Centauri, attiva dal 2007 con manifestazioni e attività teatrali che portano la loro azione in carcere, nei gruppi di salute mentale, ma anche in attività europee legate al terzo settore.
Il bando dell’Ibc, alla sua terza edizione, ha scelto Ferrara come città dove cercare iniziative giovanili creative e inedite da selezionare e finanziare con un premio di 6mila euro ciascuna. Una decina i progetti presentati, tra i quali sono stati scelti l’evento di Listone intitolato “Backup di una piazza” che in maggio trasformerà il listone in una redazione a cielo aperto e quello di Alpha Centauri intitolato “Il giardino dei destini incrociati” che nei fine settimana di giugno produrrà una serie di spettacoli teatrali da mettere in scena in cinque diversi spazi del quartiere Giardino, area dentro le mura cittadine tra via Cavour e corso Isonzo che include la stazione ferroviaria e l’Acquedotto monumentale.
“Già da febbraio – spiega Licia Vignotto dell’associazione Listone – ‘backup di una piazza‘ partirà con il lavoro di redattori, videomaker e fotografi per raccogliere informazioni e materiali che raccontino passato e presente di piazza Trento Trieste come luogo privilegiato di incontro, aggregazione, scambio”. In maggio, poi, questo luogo nel cuore della vita cittadina si trasformerà in redazione a cielo aperto con una postazione allestita nella piazza per raccontare in presa diretta quello che succede e per mostrare i risultati di una ricerca storica che coinvolge Istituto di storia contemporanea, Archivio comunale, biblioteche cittadine, liceo Roiti, centro municipale Area Giovani, comitato Commercianti del centro storico, alunni e docenti del corso di alfabetizzazione informatica Pane e Internet. La partecipazione è comunque aperta, e chi vuole potrà dare il suo ulteriore contributo inviando foto, racconti, aneddoti, video che raccontano il proprio listone all’indirizzo e-mail backup@listonemag.it. L’iniziativa finirà poi sulle pagine di un libro di carta e di un e-book in pubblicazione in settembre.
Le rappresentazioni del “Giardino dei destini incrociati” saranno invece il frutto di un laboratorio teatrale partito a inizio gennaio e che coinvolge oltre una ventina di ragazzi. “Insieme creeremo uno spettacolo – spiega Davide Della Chiara dell’associazione Alpha Centauri – che verrà messo in scena in più sequenze negli spazi del quartiere Giardino, come la stazione ferroviaria e i giardini di via Nazario Sauro”. Trame e spunti saranno legati alle ricerche storiche e urbanistiche dell’associazione di architetti Basso Profilo, che raccontano questo quartiere nato nella seconda metà dell’800 con l’intento di creare un pezzo di città-giardino accogliente. Tra i protagonisti coinvolti – fanno notare Natasha Czertok e Dora Fanelli – ci saranno anche bambini della scuola Poledrelli, ex detenuti che hanno seguito laboratori teatrali della Casa circondariale, iscritti al centro sociale e centro anziani Ancescao.
I vincitori e i loro progetti sono stati presentati in residenza municipale dal vice sindaco e assessore alla cultura del Comune di Ferrara Massimo Maisto e dalla responsabile dell’educazione al patrimonio culturale dell’Ibc Valentina Galloni, che ha spiegato la volontà dell’istituto regionale di coinvolgere i giovani “perché offrono punti di vista inconsueti, modalità comunicative nuove e in questo caso capaci di coinvolgere diversi partner e l’intera comunità locale”.

abbado-pace-ferrara

Abbado, lo sguardo oltre il palco: passione civile e attenzione verso i giovani

Di Claudio Abbado mi piace ricordare due aspetti singolari del suo essere un grande direttore e un grande artista. Due modi di intendere il proprio ruolo che ne fanno una personalità rara se non unica nel grande panorama culturale italiano ed europeo.
La sua attenzione verso i giovani, la sua costante passione civile.
Sono caratteristiche che ho avuto il privilegio di toccare con mano più volte, negli anni in cui Abbado aveva scelto, per generosità, Ferrara come una delle sedi della sua poliedrica attività musicale e culturale nel mondo.

abbado-pace-ferrara
Claudio Abbado nel marzo 2003 per protesta contro la guerra in Iraq espone la bandiera della pace sul palco

Verso i giovani talenti il Maestro aveva non solo una particolare sensibilità ma la volontà costante di creare sempre nuove occasioni per impegnarli e valorizzarne le esperienze.
Basti pensare che a Ferrara o da Ferrara Abbado ha dato vita a due orchestre giovanili che hanno suonato e continuano a suonare nei più importanti teatri e sale da concerto d’Europa. Al fatto che Daniel Harding considera Ferrara come il luogo della sua maturazione come direttore d’orchestra. Alla promozione che Claudio Abbado ha fatto della Simòn Bolìvar Youth Orchestra del Venezuela e del suo giovane direttore Gustavo Dudamel, all’aiuto che ha sempre voluto fornire alla Scuola di Musica di Fiesole.
Ma il personale rapporto che Abbado aveva con i giovani musicisti delle sue orchestre si apprezzava soprattutto sul campo, potendo assistere alle prove per l’esecuzione dei concerti e delle opere liriche che decideva di eseguire.
Questa, una delle esperienze più belle e istruttive che si possano ricordare, per l’atmosfera del tutto originale, impegnata e spontanea insieme, allegra, quasi giocosa a volte, e nello stesso tempo serissima come meritava una lezione di altissimo livello. Ma più che un professore, Claudio (come era obbligo chiamarlo), sembrava un fratello maggiore prodigo di consigli, un compagno di corso più anziano pronto a suggerire ed aiutare i colleghi meno esperti. Instancabile nello spiegare, sempre amabilmente, cosa c’era davvero scritto dietro le note. Ma fermissimo nelle sue posizioni e convinzioni che si percepivano essere sempre frutto di riflessioni profonde.
Claudio Abbado sul palco del direttore era autorevole in maniera assoluta, senza dover mai alzare la voce, incisivo senza fare nessun gesto men che armonioso. In grado di ricavare il suono che voleva sorridendo ai musicisti. Severo con chi non era all’altezza. Con la sua esperienza e lettura profonda della musica educava e conquistava, orientava, suggeriva, sottolineava fino a ottenere dall’orchestra l’interpretazione che voleva . Un’interpretazione sempre nuova e ricca di sfumature, senza indulgere alle mode ma scavando in profondità nella partitura e nel suo significato. Basti ricordare le recenti esibizioni mahleriane a Lucerna o il ciclo di concerti a Roma con i Berliner dei primi anni 2000.

La passione civile di Abbado si esercitava soprattutto nella fermissima determinazione di fare qualcosa di concreto per migliorare le condizioni ambientali dei luoghi in cui viveva e lavorava.
A me pareva fosse non solo frutto di una ferma convinzione circa le conseguenze nefaste di un certo sviluppo urbano e industriale, ma anche l’idea che fosse suo dovere restituire qualcosa di permanente alle città che lo ospitavano. Magari il piacere di lasciare qualcosa di bello anche ai cittadini che non avevano potuto ascoltarlo. Di qui i progetti delle fioriere, dell’alberazione dei viali, dei parcheggi interrati, delle auto a idrogeno, dell’uso intensivo della bicicletta e delle ciclabili. Non tutti i suoi progetti erano immediatamente realizzabili, ma la sua richiesta era puntuale e studiata nel dettaglio: “Vengo a suonare da voi se voi vi impegnate a fare questo”. Si vedeva dal suo sguardo quando le risposte dell’amministratore di turno non erano all’altezza delle sua aspettative. Chi gli prospettava buona volontà malgrado le difficoltà delle decisioni e della burocrazia, veniva messo alla prova. Chi provava a imbrogliarlo lo perdeva.
Ambiente soprattutto, ma non solo.
Credo sia un ricordo importante per tutta la comunità ferrarese, una di quelle testimonianze che restano per sempre, come simbolo di un’epoca, l’occasione in cui diresse uno splendido Re Lear di Shostakovic con la bandiera della pace distesa sul palco davanti al podio. Era il marzo del 2003, stava scoppiando la guerra in Iraq e Claudio accettò volentieri di dare rappresentazione visiva al sentimento di contrarietà che dominava fra la gente di Ferrara e non solo.
Le sue capacità di far conoscere i significati meno ovvi della musica e il suo impegno per il progresso civile ci mancheranno molto.

tassa-tariffa

Fra tassa e tariffa sconfitto è il cittadino

Come è a tutti noto permane un preoccupante ritardo nell’applicazione del passaggio a tariffa, anzi ormai ancora una volta ha vinto la tassa. La modernizzazione del settore si ottiene invece con l’adozione di sistemi economici di gestione integrata e l’integrazione richiede condivisione, partecipazione e soprattutto determinazione. In questa logica diventa importante la corretta applicazione di equilibrati strumenti tariffari e dunque forti critiche si continuano a muovere all’attuale sistema di tassazione.
La tassa è impropria, ma è anche applicata con criteri spesso personalizzati tra le varie realtà territoriali e con ancora forti elementi critici (modesti gradi di copertura, disomogenei regolamenti di applicazione del tributo, forte evasione e naturalmente permangono in generale forti problemi di gestione in molti Comuni). L’applicazione della tariffa al contrario avrebbe potuto portare importanti miglioramenti: dalla valorizzazione di un corretto sistema economico alla comprensione dettagliata dei costi, al controllo della gestione del settore e soprattutto per garantire una maggiore equità di contribuzione per i cittadini. Il passaggio a tariffa risponde infatti a tre principi di base che si possono riassumere in:
1) sostenibilità ambientale (perché si auspica la crescita di comportamenti virtuosi),
2) sostenibilità economica (e dunque l’equilibrio reale tra entrate e costi del servizio ),
3) equità contributiva (pagare per un servizio reale) ed effettivamente erogato.
Affrontare il tema delle tariffe significa approfondire quei temi economici che spesso sfuggono al controllo del sistema e che comunque è complesso analizzare. Spesso infatti si hanno forti difficoltà di collegamento tra bilancio economico e decisionale per misurare l’efficacia della gestione ambientale (analisi dei benefici), mentre in una attenta analisi tra bilancio economico e bilancio d’impresa dovrebbe trovare spazio anche l’approfondimento tra valori e gestione (responsabilità sociale).

L’economia ambientale pone dunque in generale questioni di diritto collettivo (quindi di etica delle azioni) e l’economia ecologica richiede di considerare il singolo sia come cittadino che come consumatore dunque mosso sia da desideri individuali sia da argomentazioni sociali e motivazioni pubbliche. Bisogna trovare la migliore combinazione tra obiettivi apparentemente divergenti quali la soddisfazione delle persone e la produttività ed efficienza nei cicli produttivi.
Il percorso teorico è noto: possono essere più agevolmente perseguiti e utilizzati strumenti economici che valorizzano i comportamenti virtuosi degli utenti, stimolando l’innovazione e la competitività, promuovendo nel contempo un più corretto e trasparente sistema di controllo di gestione del ciclo dei rifiuti urbani. E forse per questo è noto perché non si applica.

Il primo problema in genere è relativo al grado di copertura. L’obiettivo finale deve essere quello della copertura integrale del costo “motivato dal fine di trasferire sulla tariffa l’onere di finanziare il costo pieno del servizio compresi gli investimenti”, ma sono comunque ammissibili, anzi consigliati percorsi di graduale avvicinamento nel tempo. Questo aspetto è elemento caratteristico di chiarezza amministrativa e trasparenza nell’impostazione delle spese per i servizi previsti .
L’altro tema critico generale è relativo alla forte evasione (ed elusione) e all’importanza del relativo controllo. L’attività di recupero si ritiene sia stata comunque intensificata negli ultimi anni per una maggiore attenzione delle amministrazioni basandosi sull’aggiornamento dell’elenco degli utenti iscritti a ruolo. Si deve invece mantenere la trasparenza degli indici e favorire il coinvolgimento e la consapevolezza della propria produzione di rifiuti da parte degli utenti in modo distinto a seconda delle diverse categorie di applicazione; solo così potrà maturare una maggiore sensibilizzazione sul problema della produzione crescente di rifiuti.
Aspettiamo ancora con la speranza che tutto questo aiuti a cambiare le regole.

sergio-fortini

Fortini: il futuro è nel tecno-artigianato, sogno l’Italia dei fablab

Un paio di settimane fa il quotidiano Estense.com ha invitato i propri lettori a votare l’evento ferrarese dell’anno. Alle spalle del festival Internazionale, di ormai consolidata fama, i due avvenimenti culturali più significativi sono risultati la temporanea riapertura del teatro Verdi e la rassegna di designer MeMe exposed.
Particolare significativo, nella cabina di regia di queste due apprezzate proposte locali ha avuto un ruolo chiave l’architetto e docente universitario Sergio Fortini, eclettica figura di operatore culturale che concepisce la propria competenza professionale come un valore versatile, spendibile al servizio della città in ambiti non necessariamente riconducibili in senso stretto a quelli propri dell’architettura. “E’ stata una bella soddisfazione, anche se si è trattato di coriandoli di fine anno – afferma -. La verità è che Ferrara vanta un panorama culturale straordinario in termini di qualità e varietà dell’offerta e di ricchezza potenziale ancora in parte inespressa. In questa fase si avverte come la città stia cercando di reinventarsi, rielaborando idee sul sedime di manifestazioni già radicate; così crescono e fioriscono nuove attività come quelle che stiamo organizzando noi. Certo, è bellissimo entrare da outsider in una scenario tanto prestigioso”.

Quando Fortini dice “noi” si riferisce all’associazione Cultura della città che nel 2013, oltre alla riapertura del teatro Verdi, ha promosso, nei locali dismessi del mercato coperto di via Santo Stefano, l’iniziativa di Heritage market: interventi che hanno stimolato il confronto sul tema della gestione e valorizzazione del patrimonio storico e culturale. Ma parla anche di quanto è avvenuto nel medesimo spazio, fra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, con la rassegna MeMe, nata dalla collaborazione tra lo studio Sigfrida (principali ideatori del festival), Kuva Comunicazione, Uxa architettura, Canapè cantieri aperti e Ferrara Fiera e Congressi: un evento, questo, che ha orientato lo sguardo verso direzioni innovative per promuovere la giovane imprenditoria. “Preparare il futuro – recita il manifesto dell’iniziativa – facendo emergere la creatività giovanile ancora sommersa”.
“MeMe è il festival dei ‘maker’, i moderni artigiani che riescono a coniugare tradizione e innovazione, incorporando creatività e idee negli oggetti che realizzano: saperi antichi che vengono rielaborati con l’ausilio delle innovazioni tecnologiche – spiega Fortini -. Sono prodotti che potremmo definire di ‘nicchia larga’, realizzati attraverso dinamiche di processo standardizzate, ma adattabili progettualmente alle esigenze del singolo individuo, “customizzabili” come si usa dire. E questo vale anche per il delta dei prezzi, che possono oscillare fra pochi euro e alcune migliaia. Non è il prodotto seriale di bassa qualità, né l’extralusso esclusivo per benestanti”.
Il tema appassiona il nostro interlocutore. E la ragione ce la esplicita con chiarezza. “Quella dei maker non è una moda ma un’intrapresa che delinea un preciso filone economico sulla base del quale si può risollevare il destino di un’intera nazione”. Può apparire un’iperbole, ma Fortini argomenta: “Si attiva una duplice economia di scala, quella generata dai maker e dalle loro produzioni (accessibili a una larga fascia di pubblico e conformabili alle loro specifiche esigenze); e quella dei fablab, centri di servizio ai maker che consentono di tradurre idee e progetti in prototipi riproducibili in scala”.
A Reggio Emilia si trova il fablab più prossimo a Ferrara, uno dei primi e dei meglio strutturati, “un esempio brillante e lungimirante di spazio di lavoro e socialità”.
“Ogni maker – spiega – è portatore sano di un capitale narrativo: ha una storia da raccontare e un’idea da realizzare, e su questi presupposti si generano i fondamenti della relazione che lega il maker alle persone che concretamente lo aiutano a realizzare il suo progetto”.
E’ una visione, dunque, non è una semplice bolla, questa che si delinea: e prefigura un nuovo modello di sviluppo. “L’Italia della cento città, se fossimo nel migliore dei mondi possibili, avrebbe in ciascuna di esse un suo fablab, realizzato in osmosi fra pubblico e privato, come centro nevralgico di incontro di socialità e lavoro”.

1. CONTINUA

Leggi la seconda parte della conversazione

piazza-savonarola-ferrara

Taxi da piazza Savonarola a Porta Reno? “Si fa fatica a fare manovra”

Piazza Savonarola, il salottino ferrarese accanto al castello, è soffocata da auto in sosta e da taxi. Un brutto vedere per la città Unesco. Qualcuno ha prefigurato una buona soluzione per ovviare al problema: trasferire i taxi in corso Porta Reno. Uno spostamento di 200 metri scarsi, sufficiente però a ricollocare i veicoli in una strada esterna alla zona monumentale. L’amministrazione comunale, per parte sua, non esclude affatto questa possibilità.
Ottimo. Se non fosse che i taxisti già mettono il freno a mano: “Piazza Savonarola è un punto di riferimento conosciuto da tutti i ferraresi”, dichiara, allarmato, il ‘tassinaro’ Massimo Milani alla Nuova Ferrara. Capirai! Si parla di Porta Reno, mica di Porta Mare. Milani però, così argomentando, spera forse di fare breccia nel cuore conservatore degli indigeni.
E aggiunge: “Poi in Porta Reno si fa fatica a fare manovra…”. Si fa fatica a fare manovra?!? Ma la carreggiata è larga 15 metri! Stesse parlando un ottuagenario si potrebbe anche capire. Ma il taxista no! Fa torto a se stesso. Sarebbe stato più onesto dichiarare “c’lé più bel far filò tacà a la màchina in faza al castèl…”.
Se queste sono le solide obiezioni, avanti così, sindaco! Non si lasci intenerire. E stesso trattamento per le auto private. Poi: sotto con piazza Castello. Liberiamo i monumenti dalla lamiera!

crisi

Ma cos’è questa crisi

Scoppiata nel 2008, è la crisi, secondo alcuni la più grave, che ha messo in ginocchio le economie occidentali. Con un tonfo del prodotto interno lordo (Pil) addirittura superiore a quello misurato dopo la prima guerra mondiale.
Ne spiega cause e conseguenze Luciano Gallino, pezzo da novanta della sociologia italiana, nel suo ultimo libro “Il colpo di stato di banche e governi” (2013).
Già il titolo mette i brividi, così come possono spaventare le oltre 330 pagine.
Eppure è una lettura da consigliare, anche se non so dire quanto la tesi sia condivisa.
Certo non c’è da aspettarsi applausi da parte dei discepoli di Milton Friedman e della scuola di Chicago.
Andando all’osso, Gallino dice che la crisi non è un momento passeggero, per quanto grave, ma una malattia che sta nel sistema capitalistico. È come un herpes che si ha dentro e di cui ci si accorge solo quanto scoppia su un labbro.
Si potrebbe dire marxianamente: la stagnazione genera la crisi, oppure keynesianamente: è la crisi che genera stagnazione, ma comunque si finisce sempre lì.
Il capitalismo sembra basarsi sul paradosso di Böckenförde, nel senso che poggia su presupposti che non è in grado di riprodurre.
Terminata una prima fase euforicamente espansiva, i decenni immediatamente postbellici, la produzione tende alla saturazione. Il sistema nel suo complesso matura un’eccedenza di capacità produttiva e non può sfogare questa potenzialità in nuove lavatrici, macchine o altro, perché non ce n’è più bisogno se non in misura più limitata.
Peraltro il tempo contemporaneo sta rendendo evidente il modello di uno sviluppo non più sostenibile.
Perciò servono complessivamente meno lavoratori, anche perché nel frattempo ci sono le macchine che li sostituiscono. Il problema è che in questo modo in giro c’è meno gente che può comprare e così il sistema tende all’avvitamento se lasciato a se stesso, checché ne dicano i liberisti duri e puri convinti del meccanismo autoregolante del mercato.
È la stagnazione che, quindi, è problema strutturale.
Proprio per ovviare a questo punto interrogativo, di là e di qua dell’Atlantico – prosegue Gallino – è stata messa a punto una duplice risposta.
Per fare in modo che la domanda del mercato continuasse a tirare, è stata data possibilità alle banche di creare denaro dal nulla e in quantità completamente sganciata dalle cose e dal capitale. Così facendo lo Stato, gli Stati, hanno rinunciato ad una delle proprie prerogative e cioè di stabilire la quantità di moneta circolante.
Si parla di quantità stratosferiche di denaro dal nulla, a partire dagli anni ’80. Montagne di trilioni di dollari. Se si pensa che un bilione sono mille miliardi e che un trilione sono mille bilioni, viene il mal di testa solo a pensarci.
Eppure è quello che è accaduto, per esempio, con la famosa bolla immobiliare. Sono stati concessi mutui ipotecari a cani e porci per comprare casa (con l’immobile stesso a garanzia appunto). In caso di insolvenza sono stati fatti mutui su mutui, basati sui valori nel frattempo sempre al rialzo delle case. Alla fine, quando è stato chiaro che qualsiasi appartamento non poteva valere come il castello di Windsor, la bolla è scoppiata e tutto è crollato. Il problema è che su quei mutui, cioè sul niente, è stata creata moneta, altrettanto vuota, che è stata sparata come un virus nei mercati finanziari e cioè comprata e venduta chissà quante volte oppure messa in cassaforte pensando di accumulare un tesoro.
Nel frattempo c’è stato un colossale trasferimento di redditi e ricchezza dal basso verso l’alto della scala sociale. Anche qui si parla di trilioni di dollari a livello planetario. Il che vuol dire che una minoranza di qualche decina di migliaia di persone in tutto, ha molto di più di quello che chiunque possa anche lontanamente immaginare e che la maggioranza della popolazione si deve dividere il resto.
Il problema è che anche un ricco sfondato ha bisogno di un solo cuscino per dormire e più di tanti non ne riesce a consumare, mentre sono costretti a fare senza, o quasi, tutti quelli ridotti a stringere la cinghia.
Sono però questi ultimi a fare numero e ad incidere su vendite e fatturati, cioè sulla tanto decantata crescita, non l’élite.
Quindi, da una parte il respiro velenoso di un’enorme bolla di debito e di denaro creato dal nulla, tuttora a quanto pare minacciosa sui destini del mondo, e dall’altra una pari dinamica suicida che produce e riproduce stagnazione. Peraltro, logica conseguenza di un capitalismo lasciato a briglia sciolta nel nome della libertà e dal verbo imperante della deregulation e della liberalizzazione senza limiti e con la complicità di legislazioni nel frattempo adottate – scrive Gallino – da Usa, stati europei e Ue.
Se quest’analisi regge, le politiche di austerità messe in atto da Stati e governi non farebbero che aumentare la spirale recessiva e favorire l’avvitamento di una crisi basata sull’insoluto problema della stagnazione sistemica.
E sullo sfondo ci sarebbe un vero e proprio attacco alla democrazia, che è poi la seconda parte del titolo del libro.

Nei giorni scorsi c’è stato in città un dibattito sulla riforma del mercato del lavoro cui hanno partecipato l’ex sindaco di Ferrara, ora tornato in Cgil, Gaetano Sateriale e l’assessore comunale Luigi Marattin.
A confronto la proposta del sindacato guidato da Susanna Camusso sul lavoro e il jobs act avanzato da Matteo Renzi.
In particolare, l’assessore dice che è il momento di superare steccati ideologici secondo i quali si è di sinistra se si guarda alla domanda e di destra se ci si concentra sull’offerta di lavoro.
Tenendo presente che se non c’è crescita il lavoro non si può inventare, secondo Marattin parecchio si può comunque fare sul fronte dell’offerta: contratto unico a tutele crescenti (sul modello Boeri-Garibaldi), rivedere il sistema scolastico e della formazione professionale, riforma della pubblica amministrazione a partire dall’eliminazione del dirigente di ruolo.
Del resto, dice, la storia dimostra che i cambiamenti sono stati fatti dal lato dell’offerta e non tanto della domanda.
E però se Gallino ha una qualche ragione, sempre al di là della gabbia destra-sinistra, anche il versante della domanda pare avere una responsabilità mica da poco e con ricadute sociali al limite del criminale. A tal punto da vanificare ogni pur lodevole tentativo di mea culpa dell’offerta se, almeno contemporaneamente, non si rimuovono le cause suicide e strutturali della stagnazione.
Il problema è chi può farlo oggi.

franco-vitali

Mare, valli, parco e città d’arte. Vitali: “Puntiamo sull’industria del turismo”

Nessuna ricetta né formule magiche ma un ingrediente unico, l’impegno. Su tutti i fronti. E’ la scommessa di Franco Vitali, presidente di Ascom Comacchio, ma soprattutto imprenditore turistico in cerca del giusto equilibrio per mantenere stabile l’azienda di famiglia e dare nuove prospettive di sviluppo a Comacchio e al suo litorale, ‘dove l’estate – dice – deve durare tutto l’anno e permetterci di crescere’. Una fiera dopo l’altra, l’ultima a Stoccarda, dove è stato presentato il brand Comacchio, Vitali legge, analizza, propone. Per lavoro e passione. Nella convinzione che la buona geografia economica debba allentare i limiti di quella amministrativa in nome del bene comune. E oggi, secondo la sua convinzione, l’interesse di Comacchio sta a nord più che a sud, dove la provincia di Ravenna vanta gli stessi problemi dei nostri lidi fatta eccezione per Milano Marittima e Cervia. ‘Siamo un’area strategica, di collegamento tra Veneto e Romagna, con caratteristiche ambientali uniche. Penso alle valli al Parco del Delta del Po, alle città d’arte vicino alle quali ci troviamo. A poche centinaia di chilometri ci sono cinque aeroporti raggiungibili in auto, nonostante tutto non riusciamo a comunicare al mercato il nostro valore ’, spiega. ‘Non è importante il nome della regione d’appartenenza, all’estero nemmeno lo conoscono – insiste – I turisti non vanno in Emilia-Romagna, ma a Venezia, a Riccione. E’ la località a essere attrattiva, a fare la differenza’. Nel marketing turistico sottolineare i confini regionali, sostiene, è un limite squisitamente italiano. ‘E’ difficile spiegare come mai il Parco del Delta del Po sia diviso in due, per il potenziale turista risulta incomprensibile – prosegue – gli interessa invece la reputazione di un luogo’. Il biglietto da visita di Comacchio è piuttosto stropicciato, pochi servizi, un parco appartamenti in larga parte da ristrutturare e un mare divenuto fonte di grattacapi per l’economia. ‘Il divieto di balneazione in piena stagione estiva non ha giovato, la cosa più preoccupante è che a tutt’oggi non c’è chiarezza sulle ragione dell’inquinamento – prosegue – Serve un’operazione seria, puntuale e trasparente per prevenire fatti devastanti per l’ambiente e l’industria turistica’. L’emergenza è cessata. Fino alla prossima volta. Restano le preoccupazioni di ritrovarsi punto e capo. E i problemi di sempre, accentuati dalla crisi. ‘I campeggi sono una realtà solida, tengono e investono. Non si può dire altrettanto del mercato degli affitti, molte case sono da riqualificare per rispondere alle esigenze del mercato – spiega – chi vorrebbe intervenire desiste, si scontra con una strategia dei crediti inadeguata. Servono finanziamenti a 20 – 30 anni, ma le banche difficilmente superano i 10’. Soluzioni? Scuote la testa. ‘La politica dovrebbe accorgersi che il turismo è un’industria a cui garantire i mutui per investire in competitività, invece si taglia persino sulla promozione come è successo in Regione – prosegue – Provincia e istituzioni locali sembrano aver recepito il disagio nel quale ci troviamo, tanto da aver lanciato alcuni segnali positivi. Un esempio? Penso al bando in via di pubblicazione, per realizzare sia eventi e sia iniziative d’ intrattenimento’. Sono due facce della stessa medaglia per animare il più a lungo possibile la vita rivierasca. Una realtà che ha perso da poco il Pronto Soccorso del San Camillo. ‘Chiuderlo ha significato non tener conto delle esigenze di una città turistica, che oramai superano i tre mesi estivi – conclude – Mi preme sottolineare che contrariamente a quanto scritto e detto eravamo presenti alla manifestazione, purtroppo il problema va ben oltre all’esserci stati o meno. E richiede a mio avviso una maggior informazione’.

sudditi

Cittadino o suddito?

Nel 1549 fu pubblicato un saggio in cui si studiava la disponibilità degli esseri umani a essere servi: Etienne De La Boétie “Discorso sulla servitù volontaria” (Chiarelettere). E’ utile la lettura di un testo del cinquecento per pensare il presente di una società liberaldemocratica? La mia risposta è sì. Del resto un classico è tale proprio perché propone riflessioni che travalicano le epoche e avanza domande che non hanno ancora ricevuto risposte. Certamente oggi, nella società di massa a suffragio universale e retta da un regime democratico tutto si è fatto più complicato. In estrema sintesi, si può delineare una specie di ‘antropologia della libertà’? Proviamo a configurarla mettendo in evidenza i tipi umani ‘negativi’ che alimentano la crescita della ‘servitù volontaria’.
1- Il conformista. E’ colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma che cosa gli altri si aspettano da lui. E’ “l’uomo-massa” che annulla la propria individualità nel ‘far parte’ di qualcosa (movimento, partito….). La sua ossessione è sentirsi a posto, accettato.
2- L’opportunista. E’ il carrierista che non ha scrupoli nel prodigarsi a favore del potente del momento per ingraziarselo ai fini della propria promozione (professionale, politica…). Piaggeria e fedeltà sono i suoi distintivi.
3- L’uomo gretto. E’ quello descritto da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro (“Democrazia in America”, 1835: altro classico….): “Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri….Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica di assicurare il godimento dei loro piccoli desideri. Ama che i cittadini siano contenti, purchè non pensino che a stare contenti.” Un tale potere (che Tocqueville definiva ‘dispotismo democratico’) richiede non dei cittadini adulti, ma degli eterni bambini.
4- L’uomo che ha paura della libertà. Al di là della facile retorica da comizio, l’esercizio della libertà fa paura. Non a caso I. Kant, nel settecento, invitava gli uomini ad uscire dallo stato di minorità e ad avere il coraggio di essere liberi.

Conformismo, opportunismo, grettezza, paura: ecco gli ingredienti della ‘servitù volontaria’. Al contrario. Autonomia, coraggio, solidarietà, compongono la cifra dell’ “homo democraticus” adulto e maturo: insomma il cittadino, non il suddito.

Ascolta il commento musicale: Giorgio Gaber, Il conformista

biblioteca-ariostea

In biblioteca Ariostea “l’informazione verticale” di ferraraitalia

Un faccia a faccia con la città e un’opportunità di incontro e conoscenza con i lettori. Giovedì 30 gennaio alle 17 ferraraitalia sarà ospite della biblioteca Ariostea per una presentazione pubblica. L’occasione consentirà di illustrare quel modello di “informazione verticale” al quale il nostro quotidiano online si ispira. Attraverso opinioni, inchieste, interviste e il racconto di vicende emblematiche cerchiamo infatti l’approfondimento dei fatti, per proporre chiavi di comprensione e strumenti di interpretazione utili a decifrare la realtà in cui viviamo.

Ci definiamo osservatorio giornalistico glocal poiché la prospettiva in cui ci collochiamo considera l’inscindibile interazione e l’assoluta complementarietà fra micro e macrocosmo. E siamo indipendenti nella misura in cui, pur marcando un preciso punto di vista, abbiamo come riferimento la nostra coscienza e nessun “padrone” cui dover rendere conto. L’intento di ferraraitalia è quello di proporre stimoli e animare un confronto libero e civile.

In biblioteca, giovedì 30, ci saranno collaboratori e opinionisti. Insieme cercheremo di rendere piacevole l’incontro miscelando parole, musica e immagini.

apprendimento

L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.
Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.
L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.
Cosa c’è di così tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?
Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.
Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama Lilliput.
Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.
Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.
Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:
“Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.
Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.
E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.
Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.
Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (Ue 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada dei progetti europei, in particolare del progetto Tels (Towards a European Learning Society)
Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?
E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city”?
Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?
James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.
Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento, che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.
La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

distretto-rurale-ferrara

Un distretto rurale per rilanciare il “made in Ferrara”

“Ripartire dal territorio per un nuovo modello di sviluppo” è la sintesi di una lettura apparsa su l’Aratro, il mensile della Coldiretti di Ferrara.
Si parte dal made in Italy, dalla qualità delle produzioni, dal turismo con un nostro brand, poi le direttrici dello sviluppo sostenibile e le reti delle piccole imprese, per concludere che “da diversi anni nella nostra provincia – secondo Sergio Gulinelli – non si riesce ad essere partecipi dei grandi momenti che stanno ridisegnando il sistema… per tentare di valorizzare il made in Ferrara”.
Provo a soffermarmi su questi brevi appunti anche pensando a quanto è stato fatto nel grossetano, nella maremma toscana, nelle politiche agricole di quel territorio con l’elaborazione, nel lontano 2003 del professor Pacciani, della costruzione di un distretto rurale.
Oggi quella felice intuizione ed esperienza ha dato ampi e proficui risultati, basta andare sul posto, muovere alcuni passi e percorrere qualche itinerario, anche, se si vuole, navigando sul portale web.
Importanti, quindi, sono gli elementi costitutivi di un distretto: un quadro coerente di assi strategici, il sistema territoriale di qualità, il substrato della struttura sociale ed economica e, soprattutto, creazione di relazioni stabili con l’ispessimento dei rapporti per fare sistema.
Si parte con un “Tavolo verde” con tutti gli attori diretti e alcuni stakeholder, poi una cabina di regia, una governance, il dare metodo al progetto, l’attuazione di un patto territoriale generalista e con specializzazioni in agricoltura, pesca e turismo, le varie versioni dei programmi leader, i contratti di programma per l’agro-alimentare e i piani locali di sviluppo rurale.
Appare allora evidente che in questo modello di sviluppo si profila un nuovo soggetto protagonista, il sistema territoriale, che ha come collante una radicata identità culturale e una memoria storica assai viva.
Il Distretto, quindi, riannoda i fili dell’economia esistente per inserirli in modo sistemico in un modello di sviluppo in grado di potenziare l’economia di tutto il territorio: in questo senso si qualifica come modello di sviluppo endogeno, intersettoriale, sostenibile e integrato. Ma soprattutto, in quanto distretto, si caratterizza per la sua visione strategica che mette a sistema tutte le articolazioni del tessuto economico, civile, culturale.
All’interno del distretto, grazie all’uso di strumenti di concertazione, programmazione bottom up e alla promozione delle relazioni pubblico-privato, si riesce a creare una relazione sistemica tra progetti privati e pubblici e tra risorse private e pubbliche, e questo è l’avvio di un processo virtuoso capace di generare risorse aggiuntive per le imprese e per il sistema territoriale locale nel suo complesso.

Ho, volutamente, richiamato questo punto di vista – espresso in un convegno promosso da Accademia dei Georgofili e Studi Sviluppo Rurale – perché ben si attaglia anche quello spazio che la Coldiretti indica, nel made in Ferrara, e che trova difficoltà di apprezzamento negli interlocutori, nella politica e nelle istituzioni.

Che più di qualcuno pensi, ancora, che sia un sogno, una utopia irraggiungibile forse è nelle cose ferraresi, in una conservazione impossibile da schiodare, in una statica condizione sociale senza fine, anche se ci sono alcuni segni che fanno ben sperare.
Proviamo a pensare: le pere, le mele di pianura, le carote, l’aglio, i cereali, le produzioni ittiche di valle e di sacca, le singolarità dei nostri terreni, l’ambiente pedo-climatico.
E poi: l’agro-alimentare delle cooperative e dei grandi gruppi privati, i mercati contadini e le fattorie didattiche, la strada dei vini e dei sapori, la cultura e la civiltà contadina,
Ancora: i turismi della costa e il parco del delta, gli itinerari dei beni artistici e culturali del rinascimento, la destra Po, i tratti del Volano e l’idrovia, i piccoli milieu culturali e le tradizioni locali, i life natura e gli ambienti dell’agenda ventuno.
Un distretto quindi si può fare, ci sono i presupposti, le condizioni e le risorse, anche europee.
Basta uno sforzo ed una volontà.

sateriale-marattin

Sateriale e Marattin, ricette anticrisi per rilanciare lavoro e occupazione [audio integrale]

“Siete venuti per ascoltarci o per veder litigare me e Marattin?” Con questa battuta d’esordio, Gaetano Sateriale ha strappato il primo sorriso al numeroso pubblico presente al centro sociale di corso Isonzo per sentire l’ex sindaco e l’attuale assessore comunale al bilancio discutere del Piano del lavoro messo a punto dalla Cgil, della quale Sateriale è coordinatore nazionale di segreteria. Qualcuno era forse anche animato dalla speranza che i toni del confronto si accendessero. Invece gli interventi sono risultati stimolanti, ma pacati.

Sateriale è partito dalla constatazione che “c’è poco lavoro e quel poco è lavoro povero”. All’emergenza, ha spiegato, si fa fronte “non con sgravi che non creano occupazione perché il mercato è fermo, ma creando nuovi posti di lavoro di qualità”. Questo significa, per l’ex sindaco, valorizzare le tecnologie e i saperi specialistici e operare in un’ottica di innovazione del Paese, anche attuando azioni di prevenzione rispetto, per esempio, alle sempre incombenti disastrose conseguenze del dissesto idro-geologico o al rischio sismico. Anziché spendere “a posteriori”, ha detto in sostanza, per rimediare ai disastri, spendiamo prima per evitarli. Otterremo un saldo a somma zero, che garantirà però i famosi nuovi posti di lavoro e maggiore sicurezza alla comunità.

Gli elementi di dissenso, però non sono mancati. Luigi Marattin, intervenendo dopo Sateriale, ha infatti voluto marcare due punti di contrasto rispetto alle premesse del ragionamento svolto dall’interlocutore, affermando che il problema nodale non è la domanda, ma la qualità dell’offerta e affrettandosi a sostenere che riconoscerlo non significa non essere di sinistra.
La responsabilità è stata attribuita alla totale inadeguatezza del sistema di formazione professionale “che sarebbe da abbattere, cospargere di sale e rifondare completamente”.

L’altro parziale punto di discordia è stato riscontrato nella valutazione relativa al costo del lavoro. Mentre Sateriale aveva segnalato come i lavoratori italiani, a pari livello e mansioni, siano mediamente meno pagati dei loro colleghi europei, Marattin ha riconosciuto la disparità, evidenziando però come il costo sopportato dalle imprese sia comunque più elevato: effetto, ha chiarito, o di un eccessivo peso degli oneri contributivi oppure di un carico fiscale abnorme: storture da correggere.

A beneficio dei nostri lettori riportiamo qua l’audio integrale degli interventi di Sateriale e Marattin, preceduti dalla presentazione di Roberto Cassoli, coordinatore del tavolo di confronto promosso dall’Istituto Gramsci di Ferrara in collaborazione con Cgil Ferrara.

Ascolta l’introduzione di Roberto Cassoli e l’intervento di Gaetano Sateriale

Ascolta l’intervento di Luigi Marattin

italia-cina-Cai-aula

A Ferrara un ponte tra Italia e Cina per iniziare insieme l’anno lunare

Cina… una parola che evoca l’idea di Oriente e mistero, a cui pensiamo con un misto di diffidenza e curiosità. Eppure gli abitanti di quel mondo – lontano sia geograficamente sia culturalmente – sono diventati una presenza sempre più diffusa. Lineamenti asiatici che incrociamo dietro molte vetrine di negozi, banchi del mercato e tavoli di ristorante. In città ogni giorno vediamo persone cinesi, ma di loro non sappiamo quasi nulla, difficilmente ci chiacchieriamo, a mala pena condividiamo parole che non siano buongiorno, buonasera, quanto costa.Italia-Cina
Una piccola insegna ora però si è accesa, come una torcia che può fare un po’ di luce su questa realtà. Non è l’insegna di un negozio e tanto meno quella di un ristorante. Sopra c’è scritto “Centro interculturale italo-cinese di Ferrara”. Un luogo che trovi online: nel sito che ha questo nome e sull’omonimo profilo facebook. Ma è anche una sede fisica, al numero civico 90 di via Goretti. Suoni il campanello e una voce maschile dall’accento nostrano ti invita a salire. In cima alle scale la voce ha un volto sorridente con gli occhi a mandorla sotto una frangia liscia di capelli corvini: è Cai Jin, 24 anni, presidente dell’associazione italo-ferrarese, nata nel 2012 come affiliata Arci.
Cai incarna la riuscita dell’incontro tra la Cina e l’Italia. A Ferrara arriva ancora bambino per ricongiungersi con la mamma e il papà emigrati da una zona rurale dello Zejiang. Qui Cai frequenta scuole elementari, medie e liceo; ora, è all’ultimo anno di Giurisprudenza all’università di Bologna con una specializzazione in diritto dei Paesi asiatici. Benché molto estroverso e curioso, Cai ricorda la difficoltà di trovarsi all’improvviso in un posto che non conosci, dove si parla una lingua incomprensibile e dove crollano tutti i tuoi punti di riferimento. Il suo carattere lo aiuta a superare gli ostacoli, una maestra appassionata come Annalisa Stabellini lo accoglie all’Alda Costa accompagnandolo nella conoscenza di lingua e cultura italiana, ma anche nella scoperta dei luoghi fisici e artistici che ci circondano. L’entusiasmo e la vitalità di Cai fanno il resto. Appena può, si tuffa nelle attività organizzate intorno a lui, fa il volontario per il Festivaletteratura di Mantova così come per la cooperativa Camelot di Ferrara che si occupa di mediazione culturale per gli stranieri nelle scuole e in ospedale. Studia, si confronta, gira. Abbastanza naturale quindi, per lui, pensare di creare un’associazione che sia un ponte tra la comunità cinese e quella ferrarese, punto di riferimento per partecipare e condividere. Le tre stanze del centro interculturale sono adibite a ufficio e redazione, aula scolastica dove si tengono lezioni di cinese e saletta con proiettore e seggiole per iniziative come la rassegna CinaForum, organizzata l’anno scorso. “I corsi di lingua – racconta Cai – sono iniziati all’interno del liceo Roiti, dove ho studiato e dove per primi ci hanno dato la possibilità di usare le aule”. Gli iscritti e l’interesse aumentano e così il Centro italo-cinese di Ferrara diventa anche un luogo fisico, aperto due pomeriggi alla settimana (mercoledì e venerdì) con Cai che ha anche la carica di presidente regionale di AssoCina per l’Emilia-Romagna.Italia-Cina
L’associazione unisce utile e dilettevole: fornisce servizi di traduzione, sbroglio di burocrazia varia e doposcuola, ma organizza anche gite nelle Chinatown italiane, proiezioni cinematografiche, conferenze, corsi di lingua, cucina, cultura, arte, tradizione orientale. “Il nostro obiettivo – dice – è quello di favorire l’incontro. Qui un cinese può trovare un connazionale che lo introduca a tematiche ferraresi, e un ferrarese può avvicinarsi a temi legati alla Cina”. Una cinquantina gli associati e un direttivo formato da cinque cinesi e quattro italiani. Jin Cai è il presidente. Wu Qifa, maestro di lingua e cultura cinese, è vice-presidente insieme con Yao Yi, studente di Ingegneria che viene dal Gansu. Lu Xian è una studentessa di Architettura cresciuta ad Hong Kong, che nel centro si occupa di rapporti con l’estero; la studentessa di Economia Jiang Yan viene dalla costa est ed è la responsabile degli Affari interni. Ferraresi sono il responsabile della comunicazione, Stefano Droghetti, che è un informatico; il segretario Vincenzo Spinelli, studente di giurisprudenza e poliglotta; responsabile per lo sviluppo Riccardo Pacchioni, esperto di consulenza strategica per le imprese che ha già fatto convenzioni con attività commerciali, come ristoranti e negozi, che riconoscono sconti e facilitazioni ai soci.Italia-Cina-puzzle
Tra pochi giorni una delle iniziative più importanti per tutta la comunità: il 31 gennaio si celebra il Capodanno del calendario lunare cinese. Una grande festa sarà organizzata in un ristorante della provincia con musica e piatti che Cai assicura essere davvero quelli tipici, diversi dai soliti menù. Un’altra occasione di incontro per tutti, con un desiderio che ogni ferrarese e cinese potrà affidare a una lanterna volante. Per sognare insieme l’anno che verrà.

proteste-ospedale-comacchio

La capitale dei lidi senza pronto soccorso, Comacchio si ribella

Non c’è tregua per la sanità del Delta. Il braccio di ferro tra istituzioni e popolazione prosegue tra partecipazione civile e denunce. Sono cinque gli esposti di Consulta Popolare del San Camillo, Comune e Uil Sanità a Prefettura, Procura e Regione per fare luce sul metodo e la regolarità del blitz con cui l’Ausl ha chiuso in un batter d’occhio il punto di primo soccorso dell’ospedale San Camillo di Comacchio.
Sabato il sindaco 5stelle di Comacchio, Marco Fabbri ha rivelato di essere stato minacciato di denuncia dal direttore sanitario Paolo Saltari per aver offuscato l’immagine dell’azienda. E’ guerra con tanto di botti. Del resto era già tutto previsto, si potrebbe canticchiare infischiandosene della bordata con cui è stato affondato il pronto soccorso comacchiese. Impossibile, a meno di non soffrire d’indifferenza perniciosa.
La prova sta nella ritrovata partecipazione civile delle tante persone e associazioni – fatta eccezione per quelle di categoria forse intenzionate ad aspettare la bella stagione per esprimere la disapprovazione di un’assenza di servizio utile al turismo – raccolte in corteo sabato pomeriggio. Hanno sfilato dall’ospedale comacchiese fino a via Folegatti, dove si è tenuto un lungo comizio con gli interventi di Giovanni Gelli e Manrico Mezzogori della battagliera Consulta del San Camillo, Mirella Boschetti della Fials e Nicola Zagatti del Comitato Salvaguardia del Delta. Un biscione umano, civile e determinato, formato da persone calate a Comacchio da diversi paesi della provincia di Ferrara per unirsi alla popolazione lagunare e gridare il proprio ‘no’ al ‘sacco’ della sanità deltizia. Perché di questo si tratta, hanno insistito gli organizzatori della protesta e il sindaco 5Stelle, in testa al corteo insieme ai suoi assessori, ai consiglieri d’opposizione della giunta e ad alcuni sindacalisti.

comacchio-pronto-soccorso
Cortei di protesta a Comacchio, rimasta senza pronto soccorso

Il primo cittadino, l’unico della provincia, ha rivendicato l’importanza di una battaglia senza campanili né bandiera, per una sanità di qualità, organizzata secondo le esigenze delle popolazioni e rispettosa di chi lavora nelle strutture colpite dai tagli della dirigenza dell’azienda sanitaria, braccio esecutivo di un progetto politico deciso in Regione e sposato dalla nostra Provincia.
Tutto per favorire il Polo di Cona, denunciano dalla Consulta del San Camillo, ‘un ospedale sovradimensionato, che per assorbire le proprie spese dovrebbe servire dalle 600mila al milione di unità’. Sono in molti a pensarla nello stesso modo, contribuenti e non, ma tutti pazienti potenziali degli ospedali in declino. Tutti sfiancati dallo spettacolo di un invocato risparmio di denaro pubblico giocato sulla loro pelle piuttosto che su scelte razionali di riorganizzazione sanitaria a misura d’uomo. Lo ha ricordato il sindaco Fabbri, specificando che ‘se in Romagna hanno un’unica amministrazione dell’azienda sanitaria, noi ne abbiamo due’.
Tutto sommato usare le forbici per tagliare i duplicati è una soluzione migliore rispetto alla cancellazione di specialistiche e allo svuotamento di reparti. Come successo a Valle Oppio, dove nonostante le promesse, un pediatra solitario manda avanti la baracca, emodinamica è stata smantellata e psichiatria è in via di smobilitazione. Come dargli torto? In fondo l’economia del buon senso, molto simile a quella di ogni famiglia, è la più funzionale e funzionante. E’ ispirata dalla logica. Flessibile e rigida a seconda delle necessità. Il teorema è inattaccabile con buona pace di strategie politiche sulle quali è diventato impossibile abbozzare, specie se c’è la salute di mezzo. E se ci sono documentate soluzioni dai costi sostenibili con cui rendere produttivi e integrati gli ospedali del Delta e San Camillo. Lo ha specificato ancora una volta la Consulta.
Allora perché snobbare le proposte invece di esaminarle, fosse anche per respingerle? Perché ignorare la voce di una terra, dove in estate raddoppia popolazione e dunque la richiesta di sanità? Perché utilizzare strutture convenzionate pagando compensazioni milionarie ogni anno invece di fornirle in casa propria e risparmiare davvero sui costi? Qualcosa non torna. Lo ha gridato il lungo corteo venuto a chiedere rispetto per gli abitanti dei Comuni troppo lontani da Cona per affidare la propria salute al maxiospedale. Soprattutto in caso di emergenze. In piazza per chiedere la revisione del piano sanitario e la rinegoziazione di accordi sulla sanità comacchiese firmati dal governatore Errani e finiti giù per le scale di cantina in nome della spending review. La cosa non sorprende, ma neppure rinsalda il rapporto di fiducia tra i vertici della politica emiliano-romagnola, provinciale e la popolazione. E intanto la battaglia continua. In difesa del diritto alla salute e di un ruolo attivo nella partita sulla sanità pubblica.