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Cittadini o consumatori: il Pil non misura ciò che rende la vita degna d’essere vissuta

Nella prima parte dell’articolo [leggi], l’autore traeva spunto da una citazione del celebre economista Victor Lebow del 1955, per fare un passo indietro nella storia e rintracciare i caratteri fondanti dello spirito del consumismo, ossia del pensiero egemone ancora oggi. Nella parte che segue, invece, indica rischi e soluzioni praticabili per scrollarci dalle spalle il peso dei “consumi” ed evolvere finalmente sulla strada dei “bisogni” .

4. Il rischio del riduzionismo fondato sul PIL
Ad onor del vero questo modello imperante fondato sul PIL e la coazione al consumo è stato messo in discussione fin dal suo avvento, non solo dai critici di professione ma anche da soggetti ben addentro nelle pratiche del potere; ecco, per restare sempre oltre Atlantico, cosa ne disse R.Kennedy, allora candidato alla presidenza, nel suo celebre discorso del 1968, pochi giorni prima di essere assassinato:

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Un discorso di straordinaria attualità (credo che vorremmo tutti poter essere orgogliosi di essere italiani) che ci mostra come anche un potente possa uscire dallo stereotipo e lanciare nuove sfide se davvero è un leader dotato di visione. Un discorso che ci mostra con esemplare chiarezza i rischi che si corrono quando un indice (qualsiasi indice) viene sostituito alla realtà dei fatti che dovrebbe rappresentare.

5. Le conseguenze inattese e gli effetti perversi della crescita
Cosa si paga per questo riduzionismo esasperato ed dominante fondato sull’imperativo della crescita, quotidianamente celebrato dai media, globalmente accettato ma che appare quanto mai fuori luogo, almeno da un punto di vista epistemologico, in un contesto che dice di fare della complessità, della pluralità e della libera ricerca della verità i suoi fondamenti? A fronte della mostruosa produzioni di merci che stanno avvelenando il pianeta e che sembrano offrire – almeno a noi occidentali (non ancora impoveriti) –  grandi possibilità di scelta e la possibilità di crogiolarsi nella propria soggettività svuotata di vigore, ecco alcuni degli effetti perversi (ma non certo inattesi) che ci toccano direttamente:

  • la distruzione dell’ambiente e l’inquinamento (fronteggiare con greenwashing e se si può con nuove tecnologie pulite);
  • la crescita costante del disorientamento e dell’alienazione (curare con Prozac, Viagra e con tutti i preparati di big pharma);
  • L’aumento della patologizzazione e la conseguente sempre più estesa medicalizzazione della vita;
  • la diminuzione del senso di sicurezza e della fiducia (risolvere con aumento della videosorveglianza, della forze di polizia private e la guerra implacabile al terrorismo);
  • l’esclusione di sempre più persone dalla fruizione di beni e servizi e la concentrazione della ricchezza in pochissime mani (nessuna soluzione).

A tutto questo la cultura mainstream, incurante delle conseguenze, contrappone dunque le sue soluzioni perfettamente in linea con la sfida consumista lanciata da Lebow 60 anni fa e quotidianamente ribadita da un esercito di neo liberisti d’accatto (politici, giornalisti, professionisti, consulenti, docenti): più consumo, più crescita, più libero mercato. Nessuno di costoro viene sfiorato dall’idea che si possa e forse si debba cambiare direzione ed inventare qualcosa di diverso.  Ovviamente, nessuna presa di posizione decisa, che vada al di là della chiacchiera politicamente corretta, per fronteggiare gli effetti perversi, le esternalità e gli effetti collaterali; poca o nessuna riflessione seria ed approfondita sulla dimensione dei bisogni, sul modo in cui sono socialmente organizzati e sui modi alternativi attraverso cui le persone potrebbero soddisfarli.

6.Che fare? In cerca di soluzioni innovative
E’ possibile uscirne salvando capra e cavoli e, in caso affermativo, come? In tal senso è ancora percorribile ed utile l’alternativa exit or voice (or loyalty) proposta da A. Hirshmann nel lontano 1970? O forse sta emergendo qualcosa di nuovo, di cui non si riconoscono ancora i contenuti, i confini e le potenzialità?

Ciò che davvero inquieta nella prospettiva dominante è la pretesa, che non esito a definire metafisica, di risolvere l’umano nel consumo e di volere imporre questa unica scelta indiscriminatamente a tutti i paesi e a tutte le culture. Questa situazione non rosea, resa più chiara dagli effetti della crisi e ancor più dai rimedi somministrati dai potenti per affrontarla, ha però il pregio di mettere i cittadini di fronte ai fatti crudi, un passaggio insidioso ma forse indispensabile per una diffusa presa di consapevolezza; offre una spinta ad evolvere, come affermano molti soggetti vicini a tutte quelle costellazioni di movimenti che sempre più spesso cercano di costruire forme alternative di vita, di esplorare piste creative ed innovative che sempre più spesso coinvolgono la sfera personale, culturale e sociale; stimola a riflettere e ad inventare soluzioni non convenzionali, a pensare fuori dagli schemi e ad ampliare gli schemi di pensiero; suggerisce di inventare nuove soluzioni e modelli che rendano obsoleta la realtà esistente.

Di sicuro qui c’è una grande sfida anche per tutti quegli operatori del bisogno (penso in particolare alle professioni di cura, sanitarie e sociali)  che non si fermano a svolgere il loro compitino ma allargano la loro riflessione sul bisogno, fino ad indagarne le cause sociali ed ambientali. Di sicuro un cambiamento diffuso è necessario poiché non ci si può più permettere – citando G. Bateson – l’ostinazione molto occidentale di curare i sintomi senza dedicare ogni sforzo per intervenire sul sistema; e, di sicuro, il sistema a cui faceva riferimento non era quello economico neo liberista né quello finanziario che tante attenzioni ricevono dalla nostra classe dirigente.

2. FINE

Leggi la prima parte

Quando la dacia non è una marca di autovettura…

Da MOSCA – “Casa dolce casa” nella campagna russa, circondati dal calore di una stufa, se fa freddo, e comunque da tavole imbandite, cani, gatti, bambini, caramelle. Ci si è arrivati con una familiare piena di vivande, torte e biscotti preparati dalle nonne. Qualcuno l’ha raggiunta con gli autobus o i treni suburbani, gli ėlektrička. Se la destinazione del desiderio è, invece, più lontana, si caricano i bagagli pesanti su aerei pieni di viaggiatori che cercano solo un po’ di quiete da routine e smog quotidiani.
Stessa direzione per tutti, le dacie di campagna, dove ogni famiglia russa che si rispetti (oggi non più solo russa) scappa nel fine settimana per cercare riposo, calore invernale, refrigerio estivo.
Molte di esse assomigliano a casette delle favole, con le tendine ricamate alle finestre, con un camino che fuma e cornicioni delicatamente e finemente orlati. Una mansarda dalla piccola finestra circolare, permette di sbirciare silenziosamente la luna addormentata.

La dacia è parte della stessa cultura russa, un angolo di paradiso che, ai tempi del regno di Pietro il Grande, era riservato ai ceti più elevati (o meglio, ai vassalli leali allo zar), ma che, durante il periodo sovietico, divenne un rifugio semplice, di legno, assegnato dallo Stato per particolari meriti, dove poter liberamente coltivare orto e alberi da frutto, preparare dolci marmellate e conserve, e passare serene giornate di riposo con famiglia e amici. In russo arcaico, la parola dača significa “qualcosa di dato” e ricorda il latino “data”. Da qui la sua origine storica.

Il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale conobbe una crescita rilevante delle dacie e, in mancanza di una legge che ne vietasse la costruzione, molti lotti di terreni furono occupati da cittadini che cercavano uno sfogo in campagna. Nel 1955, fu introdotta la cosiddetta “Società di giardinieri” che riceveva il diritto all’uso permanente della terra per fini agricoli, oltre al permesso di allacciarsi a rete elettrica e idrica. Si trattava di una sorta di fattorie collettive. Nel 1958, fu creata una nuova forma di cooperativa per la costruzione di dacie che riconosceva il diritto del singolo a costruire una piccola casa sulla terra locata dal governo. Il crollo dell’Unione Sovietica vide il ritorno alla proprietà privata e molte dacie furono privatizzate, pure nei villaggi di medie e grandi dimensioni.
Ancora oggi se ne trovano di bellissime, anche appena fuori porta, con la loro tipica architettura e le finestre lavorate, edificate solitamente a gruppi di tre, come la Trinità. E’ una vera moda, una tendenza tale per cui molti parlano scherzosamente di “daciamania”.

Ci sono poi le gosdacie, le dacie di stato assegnate a membri del governo, accademici, ufficiali superiori dell’esercito e altre figure di rilievo. Nella Russia moderna, l’amministrazione presidenziale continua a possedere numerose dacie che vengono affittate a funzionari governativi. Il presidente russo ha la residenza ufficiale nella sua dacia a Zavidovo e Novo-Ogarëvo, la sua personale è a Ozero. Le gosdacie a Komarovo, vicino a San Pietroburgo, e a Peredelkino, a 25 km da Mosca, sono abitate da intellettuali e artisti sovietici. Peredelkino è stato battezzato il “villaggio degli scrittori”, perché creato da Stalin per premiare gli scrittori, gli artisti e i grandi intellettuali dell’epoca. Qui ricevevano una dacia i cantori del regime ma anche romanzieri, accademici, maestri di scacchi, uomini dal grande valore artistico e intellettuale. Anche Evgenij Evtushenko, poeta a lungo dissidente, ha posseduto una casa a Peredelkino per lungo tempo. Si trattava di una comunità dove ci si conosceva, dove si respiravano letteratura e arte; un luogo incantevole circondato da neve che si scioglieva a maggio e da un bosco. Oggi, qui, sono arrivate le ruspe per costruire un complesso residenziale: ville, piscine, garage sotterranei, guardie e cancelli elettronici, uno di quei luoghi dove vanno ad abitare i “nuovi ricchi”. A Peredelkino si trova ancora la dacia-museo di Boris Pasternak che qui ha vissuto ed è sepolto, con la famiglia, nel cimitero accanto alla chiesa del paese, fra alberi di betulle, faggi e pini. La dacia-museo è aperta al pubblico ed espone gli effetti personali del poeta, tra cui i dipinti del padre Leonid Pasternak, la sua collezione di ceramiche in stile georgiano e la sua grande biblioteca.

Abbiamo poi sfogliato un numero del mensile Marie Claire del dicembre 2012, dal titolo “Il rifugio dell’inverno in una dacia che ricorda il romanzo Dottor Zivago”, dove il fotografo Sergio Ghetti è stato invitato a passare un fine settimana a Petrushovo, sulla strada di Kazan, nella dacia di Irene Commau, intellettuale di origine russa e sovietologa all’Istituto francese di relazioni internazionali. Irene racconta di essere capitata lì nel 1992, in quell’angolo di Russia eterna che compare negli archivi storici per la prima volta nel ‘500. L’edificio da lei acquistato era una scuola elementare costruita nel 1912 e caduta ormai in disuso, e le era piaciuto immaginare che, nella storia delle pareti di quella casa, vi fossero rimaste le risate e gli allegri strilli degli alunni. D’altra parte, in quella casa sarebbero cresciuti i suoi figli, al ritmo di quei risolini. Un tuffo nel passato e nell’infanzia felice.
Anche il National Geographic, nello stesso anno, ha pubblicato un bellissimo servizio fotografico su questi luoghi d’incanto. Il numero di chi si sposta a vivere qui, per scelta, è in crescita.
Insomma, molte persone, anche straniere, sono contagiate sempre di più dal desiderio di possedere un terreno da coltivare e vivere in una casetta calda e confortevole, se pur piccolina, sotto una volta celeste stellata e silenziosa, dove basta chiudere il cancello per dimenticarsi di tutti e di tutto, e sentire solo il profumo delle fragole e delle rose che sbocciano.

autostrada

Al volante gli italiani amano la sinistra

In strada gli italiani amano la sinistra. E in autostrada diventano persino estremisti. Hai voglia a farle a tre o quattro corsie: a destra non ci va nessuno. Motivo? Non una repiscenza per i comportamenti elettorali. Banalmente, l’automobilista italiano non ama essere sorpassato. E si difende come può. Sbarrando il passo a chi si azzarda.
Così alla guida sceglie la sinistra. Sempre. A prescindere. In chiave tattica. Non si sa mai che qualcuno possa sopraggiungere con l’ardire di passare davanti.
Questo capitava già nelle autostrade a due corsie. Si marcia preferibilmente a sinistra, si lascia sgombra la destra. In quelle a tre il fenomeno diviene ancor più evidente: è ben raro trovare qualche veicolo nella prima corsia. E’ considerato umiliante transitarvi.
Tutt’al più ci passa – sfrecciando – qualche auto sospinta da duecento cavalli e oltre, che per aggirare l’ostruzionismo dei ‘sinistrorsi’ utilizza per il sorpasso l’unica pista sempre libera.
Ostinarsi a progettare e realizzare autostrade a quattro corsie è pura follia. Lo dimostra l’Autosole, nei tratti maggiorati: nella corsie dei paria ci cresce l’erba…

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Il ‘tuffarsi dentro’ di David Lynch, un modo per schivare la banalità

di Alessandro Oliva

Un’espressione apparentemente torva e introversa, ma capace di regalare al contempo calma e serenità, un ciuffo spropositato, occhi lucidi e attenti: David Lynch, il regista-culto, non è certo un personaggio qualunque e Fabio Fazio, che lo ha recentemente ospitato nel noto programma “Che Tempo Che Fa”, ha avuto modo di scoprirlo, rimanendo anche, a tratti, stupito. In primo luogo, infatti, Lynch si dimostra estraneo a tutto ciò che viene propriamente detto “lynchiano”, all’intima oscurità e alle intricate tenebre che percorrono le sue opere cinematografiche. Il regista non è ne angosciante ne angosciato, scherza con Verdone e riesce contemporaneamente a mantenere attorno a sé un alone di mistero, grandiosità e tranquillità; soprattutto però non parla solo di cinema, ma anche di qualcosa che gli fa brillare gli occhi di una luce viva ed estatica, il vero motivo per cui d’altronde si trovava in Italia in questi giorni: la meditazione trascendentale, una pratica mentale portata alla luce dal maestro indiano Yogi, noto mentore spirituale dei Beatles, e promossa in tutto il mondo da Lynch attraverso una fondazione apposita, la Foundation for Consciousness-Based Education and World.

Questa tecnica di meditazione, che si avvale anche di numerosi riconoscimenti scientifici, viene descritta dal regista come un “tuffarsi dentro”, il raggiungimento di una consapevolezza e di una coscienza assolute che ci mettono in contatto con un campo unificato e ci permettono di accedere a qualità positive illimitate. Insomma, in una sola parola, trascendere.

Fazio è lievemente turbato dalla spiegazione di Lynch, teme che il pubblico televisivo domenicale non sia in grado di apprezzarla, o di digerirla, ma non riesce a frenare il fiume di parole che, seppur pacate, si riversano sugli spettatori portando con sé tutta la frenesia e la passione del regista, che si congeda sottolineando come la meditazione sia uno strumento fondamentale per la pace e lo sviluppo negli individui e dunque nel mondo, un mezzo che, dice arditamente, spera che adotti anche il Papa.

Forse le parole di Lynch possono suonare stereotipate, banali, più consone a un santone indù che a un artista del suo calibro, tuttavia ospitano al loro interno un verbo fondamentale che probabilmente racchiude in sé la soluzione a molti problemi: trascendere, ovvero andare oltre, superare la superficie e cogliere una realtà più profonda.

A mio avviso, il motivo per farlo risiede in più elementi: perché spesso il mondo è arido; perché frequentemente ci troviamo a vivere di routine, di cose, di avvenimenti, di sensazioni e legami che dominano la nostra realtà lasciandoci invischiati, disillusi, incapaci di sorprenderci, di cogliere la vera essenza di ciò che ci circonda e che sperimentiamo; perché progressivamente la nostra vita si orienta in uno spazio esterno che con tutte le sue dinamiche erode quello interno, a ciascuno di noi.
Ci sorprenderebbe infatti sapere quanto poco ognuno di noi pensa a sé stesso e a quanto velocemente, automaticamente e sistematicamente formuliamo ogni pensiero o giudizio, vittima di sistemi mentali, pregiudizi e stereotipi molto più del previsto.

Se, dunque, la pratica suggerita da Lynch sia efficace o meno, è qualcosa che va scoperto; ad ogni modo, desidero apprezzare il messaggio insito in essa, perché di una cosa sono sicuro: voglio essere conscio, voglio essere consapevole e capace di comprendere me stesso per comprendere ciò che mi circonda. E tutto ciò lo devo non solo a me stesso, ma anche a tutti gli altri.

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Il migliore ostello d’Europa si trova a San Pietroburgo

Da MOSCA – Qualche giorno fa gli Hoscars 2014, ossia le valutazioni annuali dei migliori ostelli al mondo, realizzati dai clienti di hostelword.com, hanno decretato come miglior ostello europeo il pietroburghese Soul Kitchen, seguito dal Budapest Bubble (Budapest, Ungheria) e dall’Adventure Queenstown Hostel (Queenstown, Nuova Zelanda). I viaggiatori hanno scelto e valutato sulla base dei criteri di atmosfera, pulizia, servizi, personale, posizione, rapporto qualità-prezzo, sicurezza.
I primi ostelli russi sono stati aperti a San Pietroburgo, circa otto anni fa. Inizialmente si trattava semplicemente di grandi appartamenti, dove per una cifra simbolica, potevano fermarsi a dormire i musicisti che venivano in città per suonare ai vari concerti. Poi, col passaparola, questi posti d’atmosfera hanno allargato il giro, fino a diventare degli ostelli a tutti gli effetti.
In Europa ci sono quattro mila ostelli, in Russia solo un centinaio, ma ne vengono aperti di nuovi ogni mese. Nella sola Mosca il numero di ostelli, negli ultimi cinque anni, è aumentato del 900%. Qui, aprire un ostello comporta investimenti abbastanza contenuti, gli ostacoli burocratici sono minimi (basta affittare un appartamento con almeno tre camere da letto e arredarlo) e il recupero delle spese iniziali sta diventando sempre più rapido. Per questa ragione, l’attività sta conoscendo un momento d’oro in Russia e molti giovani vi si stanno lanciando con interesse e creatività.

Ovviamente, è fondamentale l’atmosfera giusta per avere un flusso di visitatori continuo.

A Mosca, il giovane Roman Sabirzhanov ha aperto il Fabrika, nella zona della ex-fabbrica Krasnyj Oktjabr, dove l’ostello viene considerato un vero oggetto d’arte. Ogni ospite può dipingere le sue opere nelle stanze, le cui pareti sono state lasciate intenzionalmente bianche, e gli autori di quelle giudicate buone dallo stesso proprietario potranno soggiornare gratis.
Sempre a Mosca, troviamo anche il primo ostello bike-friendly, il Rezidencija BikeFF, sull’Arbat, dove, oltre a poter parcheggiare la propria bicicletta in camera, si trova un’officina per riparare i cicli e, per dissetarsi, vien offerto tanto kvas (la tipica bevanda russa, poco alcolica, frutto della naturale fermentazione di un qualsiasi vegetale) e mors (bibita a base di mirtillo).
A San Pietroburgo vi è, poi, il Location Hostel, di Nadezhda Makarova, che vanta dipendenti di età media 25 anni, soffitti non intonacati, qualche poltrona francese di Philippe Starck e lampade del designer tedesco Ingo Maurer. L’ostello ha pubblicato una guida gratuita agli angoli più bohemienne di San Pietroburgo e ha organizzato una serie di mostre e performance di artisti russi ed europei. Situato in Ligovskiy 74, questo è l’unico ostello che si trova sul territorio di un ex impianto di produzione di pane, trasformato in spazio culturale. Un modello esemplare.

Ma l’ultima scoperta di San Pietroburgo, grazie alla segnalazione del collega Vittorio, è quella del Kultura Art Hostel, situato al centro della città, all’interno di un nuovo spazio artistico e circondato da gallerie fotografiche, ristoranti, wine bar e studi di designer. Ogni stanza ha un nome legato ad una delle attrazioni dipinte sui muri: quindi sarete al Museo dell’Ermitage, all’Alexander Park…
In ogni camera vi è uno specchio appeso sul muro opposto a quello dipinto, dove l’ospite può fotografarsi, avendo, quindi, sullo sfondo il disegno riflesso. L’artista di questi “affreschi” colorati e spensierati è il talentuoso Igor Yanovskiy, supportato dalla sua squadra. Il design d’interni è fatto come se ci si trovasse per una delle strade cittadine ed è opera degli architetti Arseniy Brodache e Igor Kokarev. Avrete l’impressione di passeggiarvi. Lo stile è semplice, pochi colori basici (nero, bianco, grigio, verde), tanta fantasia. L’idea è, ora, quella di creare anche un gift shop, con una linea di souvenir (tazze, magliette, ombrelli) sulla quale ritrovare i dipinti che illuminano le pareti dell’ostello.

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Kultura Art hostel
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Kultura Art Hostel

Il progetto è nato circa un anno fa dall’amicizia di Tatiana Kapakli e Timofey Karelin. Partiti con l’idea di aprire un negozio di vestiti, mi racconta Tatiana, hanno avuto l’intuzione dell’ostello quando, nell’ottobre 2013, hanno trovato quello spazio. In una settimana hanno preparato il business plan e trovato gli investitori. In due mesi hanno riparato l’area interna di circa 300 m2, dove prima vi era il vecchio ufficio sovietico dell’”Union Jersey.” In poco tempo hanno demolito i muri divisori interni del vecchio ufficio e realizzato il nuovo progetto. Con entusiasmo. L’ecologia è parte degli interessi e della filosofia di Tatiana e Timofey, non solo nei materiali utilizzati ma anche nell’organizzazione di piccoli eventi, quali master class settimanali di cibo vegetariano e Ayurveda. L’esperienza di questi due giovani qui insegna che si può trovare anche spazio in un paese immenso, terra di grandi opportunità e potenzialità per molti.

A loro va il nostro più grande in bocca al lupo.

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I due pregiudicati

Accadono eventi che funzionano da specchio morale per una società, più di quanto possano fare inchieste o analisi raffinate. Ne cito due accaduti a distanza di tempo. Alcuni anni fa a Cagliari un gruppo di professori propose di intitolare la nuova scuola media ad Antonio Gramsci. La proposta fu presentata al Consiglio di Istituto e fu bocciata. Ne scaturì una vivace polemica pubblica che coinvolse la città e i giornali. A conclusione arrivò, finalmente, la replica del presidente del Consiglio di istituto che motivò così la decisione della scuola: “Ho il dovere di richiamare all’osservanza delle disposizioni ufficiali: c’è una circolare che fa esplicito divieto di intitolare un Istituto a persona con precedenti penali”.

E ora spostiamoci ai nostri giorni. Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva per frode fiscale (e in attesa di processi per reati ancor più gravi) viene ricevuto al Quirinale con tanto di solenne saluto e omaggio da parte dei corazzieri, come un normale e onesto leader di partito.
E le reazioni a questi due eventi? Nel tempo in cui accadde il fatto di Cagliari non ci fu un intervento dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione, anche se negli anni citazioni di Gramsci tratte dai suoi “Quaderni del carcere” sono state proposte dal Ministero per i temi dell’esame di Stato. Cosa del resto ben giustificata considerato che Gramsci è, oltre che un martire antifascista, uno fra i più grandi intellettuali del novecento europeo.

Anche sulla vicenda “Berlusconi-Quirinale” si è fatto finta di niente. E persino i contrari si sono ben guardati dal protestare per questo scandalo consumato nel più alto luogo simbolico dello Stato di diritto democratico e costituzionale. E’ fatto così il nuovo tempo della politica post-ideologica! Si archivia subito tutto. Si parla d’altro, perché riflettere su ciò che imbarazza potrebbe provocare conseguenze a cascata incontrollabili. E poi, per i politici navigati, c’è sempre una citazione di un poeta o un romanzo ben scritto per sublimare i vuoti di coscienza e nutrire le anime belle con qualche porzione di ‘pappa del cuore’.

Vi è molta miopia e cecità in questo comportamento. Si sottovaluta l’effetto imprevedibile che può provocare il continuo accumularsi di materiale infiammabile. Si preferisce puntare, consapevolmente, da parte delle élite politiche (sempre più meritevoli del titolo di casta: rottamati, rottamatori e riciclati) sull’effetto narcotizzante provocato dall’abitudine a convivere ormai con ogni tipo di schifezza morale. Anche le voci autorevoli si fanno sempre più fievoli e stanche, quasi subissero il condizionamento di chi circonda la loro indignazione di sarcasmi o di pietosa sopportazione.

Almeno ci venisse risparmiata la retorica sui valori, la speranza per un futuro migliore, il trionfo della novità epocale! No, devo anche sciropparmi le prediche sulla nuova spiritualità della politica di Brunello Cucinelli, che parla ispirato e folgorato sulla via… di Renzi. O l’altro grande creativo, Roberto Cavalli, che annuncia che di figure come Renzi, a Firenze, ne nascono una ogni 500 anni. Sono solo due esempi della sobrietà e del pragmatismo della politica post-ideologica. Amen.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

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Immissione alla Ferrarese

Oggi vorrei portare all’attenzione dei lettori una esiziale categoria di automobilisti, inarrivabili maestri nella manovra che un mio amico, il quale sotto naja –stiamo parlando di un tempo ormai remoto, diciamo pure il millennio scorso- ha fatto da autista a un pezzo grosso dell’esercito in quel di Livorno, argutamente definisce ‘entrata alla livornese’. Che consiste, venendo su da una traversa laterale per immettersi nella corsia opposta di una strada su cui il traffico scorre incessantemente in entrambe le direzioni, nel guadagnare subitamente il centro della carreggiata, bloccando intanto il traffico che viene da sinistra, in attesa del primo pertugio buono fra macchina e macchina dall’altra parte.
Sistema senza dubbio utile a risparmiarsi irritanti soste a bordo strada in attesa che il traffico si apra come le acque del mar Rosso, che poi dice che uno si fa il sangue cattivo, ma non privo di controindicazioni stante la molesta diffusione delle nuove tecnologie: se il primo che arriva da sinistra sta messaggiando col telefonino, finisce che ti sparpaglia per l’asfalto le ossa del bacino, strike!
Sarà per questo che gli automobilisti nostrani, applicando l’antica saggezza contadina degli avi all’entrata alla livornese, ne hanno ricavato una intelligente variante –comunemente definita Immissione alla Ferrarese- che non ammette deroghe di sorta. Fosse pure in mezzo al deserto del Gila, dove l’unico via vai è quello dei serpenti a sonagli, state pur tranquilli che il guidatore estense arriva lungo allo stop, butta il muso a metà corsia, inchioda e vede il da farsi. Se da sinistra arriva un tir, ingrana la retro e torna mansuetamente dietro la striscia bianca del segnale di arresto; se invece viene una bicicletta se ne sta lì imperterrito, mungendo ingegnosamente un altro paio di spanne di corsia per indurre il malcapitato ciclista a fermarsi per cedergli il passo onde evitare di spiaggiarsi sul cofano del suv.
Finisce naturalmente che il bigarolo passa al pelo, sgattaiolando per miracolo tra il paraurti e la fiancata dell’auto che arriva in senso opposto. Guadagnandosi lo sguardo d’odio dell’antagonista motorizzato e lanciandogli di rimando il festoso saluto che i dueruotisti ferraresi (i quali -sarà perché viaggiano sul mezzo di trasporto più bello del mondo, sarà perché girano nella città più bella del mondo dotata delle piste ciclabili quasi più belle del mondo- fatto sta che sono incapaci di qualsiasi manifestazione di astio) lanciano soavemente a tutti gli automobilisti un pochino scapestrati: chatjenuncancarchatmuressisubit!

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Sylvain Tesson o l’avventuriero parigino sulle rive del Bajkal

Da MOSCA – Molti di noi hanno il virus del viaggio. Non vogliamo certo curarlo, perché, come sappiamo, è assolutamente incurabile, desideriamo però cercare di capire insieme come convivere con esso.

Per questo, dopo avervelo introdotto qualche articolo fa (in Un inverno nel Medioevo russo), vogliamo ora presentarvi un autore che ha vissuto un’esperienza incredibile in Russia, e per la precisione, sulle rive del misterioso e ricco lago Bajkal. E con esso, il suo libro più recente.

Se volete specchiarvi nella luce delle acque di un lago immenso, profondo e lungo, e correre a braccetto con la Natura nella fredda tundra siberiana, allora, dovete davvero leggere e rileggere Sylvain Tesson. Tuffatevi, in particolare, nel suo ultimo Nelle Foreste Siberiane, edito da Sellerio.Buttatevi a capofitto, senza pensare o riflettere, nelle sue pagine pergamenate e curiose.

Meditatelo con attenzione, se volete assaporare la bellezza del contatto solo con il vostro Io, quello più puro, con la vostra autentica essenza, con quanto siete veramente e con quello che respirate, con quanto credevate e credete ancora di essere. Di fronte agli spazi smisurati, abbandonati a se stessi e con se stessi, ci vogliono la forza e il coraggio che solo i solitari possono avere. Credo di avervelo già detto. Forti unicamente dei propri pensieri, delle proprie sensazioni, della propria libertà di correre e di volare via, lontano. A volte terribilmente lontano.

Eremita, per sei lunghi e rigidi mesi, sul russo lago Bajkal, Tesson vi si recò per cercare l’ispirazione. Ritiratosi nel 2010 in una capanna di nemmeno dieci metri sulle rive del lago, all’estrema punta del Capo dei Cedri del Nord, in compagnia unicamente di un’accurata e nutrita selezione di libri (che sogno…), di cibi e di vivande, il giornalista e scrittore parigino operò quasi un miracolo, ricominciando a fare quello che ormai viene considerato un lusso dalla ricca e benestante società moderna: pensare e riflettere liberamente, nonché scrivere di getto quei pensieri leggeri ed avvolgenti, su un umido e stropicciato taccuino che diventerà un libro da 250.000 copie vendute, oltre che vincitore del famoso Prix Médicis francese.

Perché ci piace pensare che il vero scrittore usi ancora il taccuino intarsiato manoscritto.

Perché crediamo ancora che la Natura sia un’immensa e potente fonte d’ispirazione per la scrittura più nobile e sincera. Perché si può fare pace col tempo, addomesticarlo, come dice lo stesso scrittore, con l’immobilità quasi totale ed il fermarsi a pensare ed a scrivere. Quasi una necessità, ormai. Un bisogno che, credo, molti di noi ormai sentano assiduamente.

Perché ci piacerebbe davvero tanto essere come Sylvain che, colpito dal virus del viaggio, dopo tanto e lungo girovagare (quasi vent’anni di viaggi su e giù per il mondo, Russia inclusa, comprese le scalate delle cattedrali ed i giri del globo in bicicletta…), si ferma ad ascoltare l’infuriare della Natura, nella sua tempestosa solitudine e silenziosa immensità, a capire e a capirsi, ad immaginare e ad immaginarsi, a sognare e a sognarsi.

Perché per noi ha proprio ragione questo illuminato e curioso scrittore, quando considera l’esperienza dell’immobilità sul Bajkal come la continuazione del viaggio con altri mezzi.

Sylvain si era definito come Goethe, un vero Wanderer ossia un vero girovago, già nel suo Piccolo Trattato sull’Immensità del Mondo del 2005, dove evocava il viaggiatore senza alcun attaccamento materiale o legame, un uomo che non si aspetta nulla dal mondo ma che si accontenta di percorrerlo, di viaggiare, solitario, in ascolto solo dei bisogni del proprio corpo e senza attendersi nulla dal cammino preso energicamente in prestito. Un uomo capace di rispondere all’appello dell’esterno, solo con esso, e con sé il stesso forte ed autonomo. Noi crediamo tuttavia che a quel mondo esterno si possa almeno chiedere di sorriderci, di non lasciarci soli, di accompagnarci con la sua luce e i suoi riflessi, magari con qualche bel romanzo, qualche favola, racconto o poesia nello zaino leggero. O magari con un bel disegno colorato.

Fra i libri che accompagnano lo scrittore nel suo ritiro pensoso e produttivo, vi sono L’Amante di Lady Chatterly, La Mia Africa, Foglie d’Erba, Robinson Crusoe, Walden, il De Rerum Natura, ma si uniscono anche Shakespeare, de Sade e Casanova, oltre ad Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenhauer ed Heidegger, poesie cinesi e romanzi polizieschi.

La mattina legge, pensa, fuma, disegna, spacca la legna, spala la neve, scrive.

In Nelle Foreste Siberiane Tesson raccoglie pagine di giorni, sfondi, solitudini, stati d’animo, sentimenti, pensieri, riflessioni, panorami e di bio-compagni, come li chiama simpaticamente ed intelligentemente Fulvio Ervas nel suo commento al libro, intitolato “nelle gelide foreste a servire la bellezza”, apostrofando gli orsi, le cince, le foche, i cani, i pesci-omul, che affollavano le difficili ma intense giornate dell’amico francese. Perché ormai lo consideriamo amico.

Spazio, silenzio, solitudine fertile, ritmo, spettacolo, confidenze alla e sulla carta, voglia di librarsi in aria, pace e ancora pace. A volte disperazione, ma poi fiducia e nuovamente fiducia.

Ricchezza, solitudine, assenza di qualsiasi legge che non sia quella della Natura. Freddo rigido ma anche tepore, il caldo dei pensieri liberi da ogni condizionamento, in pace con se stessi. Spazi vergini ed incontaminati, aliti di vento leggermente intorpiditi e ricoperti di brina. Esperimento di vagabondaggio interiore, lontano da viaggi in superficie più che in profondità che contraddistinguevano il primo Elogio dell’Energia Vagabonda.

Con l’ebbrezza del nulla intorno, un nulla che è tutto per chi ama e rispetta il diverso da sé, la realtà animata ed indipendente che è il mondo naturale, dal sapore angelicamente divino.

Perché la noia non mi spaventa. Ci sono cose che fanno più male: il dolore di non condividere con la persona amata la bellezza dei momenti vissuti”, ci ricorda Tesson.

Cosa che io sto facendo, con queste righe, e che invito anche voi a fare, lettori attenti e sensibili.

geotermia

Il Comune: “Dalla geotermia calore pulito”. Gli ambientalisti: “Molti dubbi e trivellare è un rischio”

2. SEGUE – A tutto c’è soluzione. ‘Stiamo cercando di lavorare sulle tariffe per migliorarle’, assicura l’assessore all’Ambiente Rossella Zadro. Intanto, in assenza di soluzioni per colmare il vuoto normativo che le regolamenti, subiscono le oscillazioni del costo del gas. E’ un aspetto poco invogliante rispetto alla scelta energetica domestica da prendere al momento dell’allacciamento ‘che non è obbligatorio, ma frutto del libero arbitrio’, specifica l’assessore.
‘Personalmente non entro negli aspetti tecnici, ma di sicuro non siamo in presenza di fonti geotermiche come ad esempio quella di Lardarello – taglia corto la Pistocchi – già il fatto di trivellare in via Conchetta fino a una profondità di tre chilometri mi lascia perplessa. Inoltre è previsto l’uso del termovalorizzatore per mantenere il calore, e quella del gas non è una fonte pulita’.

Le fa eco la Zadro. ‘Il progetto ha avuto il plauso del mondo scientifico è costruito su fonti rinnovabili tra le più pulite. Posso comprendere che qualcuno la pensi diversamente, ma è scorretto parlare di falsa geotermia – dice – Quanto al termovalorizzatore lavorerebbe indipendentemente dalle necessità del teleriscaldamento. In tema di rifiuti siamo come tutte le altre province, parliamo di 130 mila tonnellate l’anno da smaltire’. Nella vicenda c’è un ulteriore postilla economica da rimarcare. ‘La nascita della centrale di via Conchetta eviterebbe al Comune le spese di bonifica dell’area dell’inceneritore in disarmo – spiega Zadro – Se ne farebbe carico Hera’.
Si scalda Piva. ‘La bonifica di un sito non si limita alla demolizione del vecchio inceneritore, serve un piano che vorremmo conoscere – dice – Come al solito è Hera a decidere anche della nostra salute. Fan quel che vogliono, basta guardare la turbogas, purtroppo a Ferrara non c’è un’opposizione forte capace di mettere un fermo a decisioni così importanti’.

‘Chi governa non ascolta neppure la nostra università – continua – L’ateneo indicava Cona e Pontegradella come zone idonee al progetto, che naturalmente avrà dei finanziamenti. Conclusione, la centrale in città e l’ospedale a 10 chilometri’. La Zadro insiste sulla bontà del progetto Hera. ‘In una zona tra le più inquinate d’Europa come il bacino padano, il sistema che combina questo mix di energie è tra le migliori soluzioni per abbattere le sostanze inquinanti’. Meno polveri sottili e anidride carbonica nell’aria, mentre invece oggi le caldaie trascurate e le stufe a pellet hanno aumentato le emissioni nocive. La Zadro, ammette la necessità di lavorare sui costi, soprattutto quelli d’allacciamento, circa duemila euro, senza contare che il risparmio sulle tariffe d’esercizio è solo del 5 per cento rispetto alle bollette tradizionali.

‘Hanno concepito un megaprogetto dalle tariffe poco vantaggiose in un’area urbana già strutturata – dice Pistocchi – Hera, ci sembra evidente, ha un disegno regionale chiaro. Lavorare in regime di monopolio. E’ il motivo per cui se ne discute nei tavoli regionali’.
Sul tavolo resta il tema della sicurezza, degli eventuali rischi sismici legati all’attività delle sonde calate nella terra, della possibilità di mettere in comunicazione due falde estranee l’una all’altra e inquinarle involontariamente. ‘Noi siamo tranquilli ci sono 25 anni di geotermia alle spalle che ci confortano sulla validità del progetto, che finora ha portato benefici’, spiega Tagliani. ‘Non vi sono certezze, proprio per questo un sindaco dovrebbe usare il principio di precauzione’, insiste Tavolazzi. ‘Prima di trivellare, mi riferisco a Hera ma anche ad altre iniziative diverse da quelle del gruppo, sarebbe bene puntare all’efficienza energetica dell’edilizia e a politiche di risparmio – conclude Pistocchi – Limitare i consumi negli uffici pubblici, nelle scuole, laddove spesso si esagera. Ciò porterebbe a un risparmio di energia pari al 30 per cento’. La partita è aperta, sull’energia si gioca il futuro e, sostiene il fronte del no, ci vuole molta attenzione, informazione e partecipazione prima di prendere anche il minimo rischio.

FINE

Leggi la prima parte dell’inchiesta

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I dati regionali sui rifiuti: la provincia di Bologna in testa alla classifica per quantità prodotta

Cala la produzione dei rifiuti urbani in Emilia Romagna: nel 2012 ne sono stati prodotti 2.893.518 tonnellate, con una diminuzione del 3,6% rispetto al 2011 a fronte di un aumento della popolazione residente dello 0,3%. La produzione pro capite si è invece assestata a 647 Kg/ab, con una diminuzione del 3,9% rispetto all’anno precedente che riporta la Regione ai valori di produzione registrati negli anni 2002-2003. Sono alcune delle cifre contenute nel Report Rifiuti 2013, decima edizione del monitoraggio annuale prodotto dalla Regione Emilia-Romagna e da Arpa Emilia-Romagna. La produzione e la gestione dei rifiuti urbani presentano differenze significative a livello territoriale: i valori medi provinciali di produzione pro capite variano dai 544 Kg/ab di Bologna ai 768 Kg/ab di Rimini. Bologna è la provincia che produce complessivamente più rifiuti (19% del totale regionale), seguita da Modena (15%) e Reggio Emilia (13%). Si tratta di un risultato vero? Siamo più bravi o è solo un effetto della crisi? O ancor peggio della modifica di applicazione della assimilabilità? Propongo nel merito qualche riflessione.

Per poter migliorare il sistema integrato di gestione dei rifiuti urbani, servono scelte radicali e non solo aggiustamenti di indirizzo; è dunque richiesto di valutare e rivedere in termini economici ed ambientali le scelte che si andranno ad operare nell’intero ciclo dei rifiuti, in tutte le sue fasi: dalla raccolta differenziata, al trattamento, allo smaltimento finale. Diventa pertanto importante costruire un modello integrato dell’intero ciclo di gestione che analizzi i flussi di materia; la conoscenza dei possibili flussi e risultati di gestione delle materie, collegata alla conoscenza dei cicli di vita prevedibili nei prodotti, permette, infatti, di valutare l’efficacia delle scelte che si andranno a prendere e quindi di valutare gli effetti delle politiche che verranno decise. A monte, però, rimane un problema di fondo: la crescita della produzione dei rifiuti. Per superare definitivamente l’emergenza rifiuti, bisogna fermare la crescita dei quantitativi di rifiuti, e quindi produrne meno. E’ evidente che ciò comporta fondamentalmente un cambiamento radicale non solo dell’attuale modello di produzione e di consumo, ipotesi per molti aspetti di non facile ed immediata attuazione, ma anche di convinti orientamenti culturali, i cui obiettivi strategici fondamentali si possono riassumere in azioni di prevenzione (diminuzione della quantità e della pericolosità), di valorizzazione (recupero di energia e risorse dai rifiuti) e di corretto smaltimento (tecnologie compatibili).La trasformazione in atto del sistema di gestione dei rifiuti deve pertanto confrontarsi con una nuova politica industriale nel settore che, insieme alla necessaria definizione del sistema di gestione e alle scelte territoriali, tenga conto delle possibili  modificazioni del mercato.

In particolare, partendo dal principio normativo della responsabilità condivisa, della prevenzione, della raccolta, del recupero, dello sbocco finale dei materiali raccolti e trattati, diventa importante stabilire e coordinare i ruoli dei diversi soggetti pubblici e privati che operano nelle diverse fasi di gestione del sistema rifiuti. Il recepimento nazionale delle direttive comunitarie in materia di tutela e risanamento ambientale, attribuisce un’importanza primaria alla regolazione preventiva dei flussi del ciclo secondario rifiuti – risorse, che comporta il raggiungimento degli obiettivi mirati alla riduzione di rifiuti a monte:

  • orientamento del sistema produttivo verso beni ad alto tasso di riutilizzabilità/recuperabilità e a bassa nocività di smaltimento, e adozione di tecnologie e materiali a ridotto consumo di risorse ed energia di trasformazione;
  • valorizzazione del tasso di recupero di materia (prima) e di energia (poi) residui nei rifiuti, mediante incentivazione e sviluppo delle raccolte separate, del mercato delle materie secondarie, e dell’integrazione dei sistemi di raccolta e gestione con le ulteriori forme di trattamento – smaltimento.
  • introduzione del concetto di “valutazione del ciclo di vita” (LCA Life Cycle Assessment) nella politica in materia di rifiuti.

In sintesi è urgente la definizione di una nuova politica industriale nel settore dei rifiuti, in particolare:

  • modifica delle produzioni, nel senso della diminuzione dei rifiuti e della riciclabilità dei prodotti (in accordo con principi europei di “responsabilità allargata”);
  • attività di ricerca tecnologica, sia nel settore industria che nell’agricoltura, in grado di produrre innovazioni positive, a favore della chiusura dei cicli;
  • creazione di interventi diversificati ai vari livelli della distribuzione, dal produttore, al grossista, al negoziante, al singolo consumatore, in modo tale che siano possibili interventi efficaci a livello di città e di bacino provinciale;
  • informazione e coinvolgimento dei consumatori, per adeguarne il comportamento e gli atteggiamenti alle esigenze di prevenzione della produzione di rifiuti da imballaggio, e partecipazione alle iniziative di recupero e riciclaggio.
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Putin e il body language

Da MOSCA – Lo abbiamo visto tutti all’apertura delle Olimpiadi di Sochi: cappotto grigio-nero lineare, posizione eretta e compita, espressione neutra, occhi glaciali da volpe siberiana. Cenno di commozione al momento dell’inno e della bandiera russa fatta ondeggiare da abili corpi che danzavano al ritmo della musica, ma poi, per tutta la durata dell’inno, è rimasto immobile.

Parliamo ovviamente di Vladimir Vladimirovich Putin, il capo del Cremlino, l’uomo più potente del mondo, secondo Forbes 2013. Criticato, definito aspirante zar, Batman-Putin, divo politico, riformatore nazional-popolare, presidente-dittatore e tanto altro, negli ultimi anni ci siamo divertiti da profani ad analizzarlo un po’, sempre sostenuti del resto dai commenti degli esperti. O meglio, abbiamo voluto provare a leggere con loro, il suo body language, quello che alcuni giornali hanno definito il corpo del capo.

Come comunica il Presidente della Federazione Russa? Cosa lo contraddistingue? Come parla il suo corpo e come lo usa per trasmettere un messaggio? Quale codice usa?

Vi consigliamo alcune letture interessanti su quello che viene simpaticamente definito dalla stampa “il codice Putin”, ovvero riti, prassi, consuetudini all’interno del linguaggio “cremlinese”. Nel palazzo del potere ci si rivolge l’un l’altro utilizzando il nome e il patronimico, anche se ci si dà del tu. Allora V.V. sarà Vladimir Vladimirovič Putin, D.A. Dmitri Anatolyevich Medvedev. Il nome sarà utilizzato solo nei rapporti di particolare vicinanza e confidenza, segno di riconoscimento come individuo. Una frase del presidente del tipo “l’ho sentita” significherà che non si rimarrà inascoltati e che magari la propria proposta verrà pure tenuta in considerazione. Non bisogna mai rimanere in silenzio o fare pause eccessivamente lunghe, perché Putin, dai suoi collaboratori, si aspetta precisione e capacità di essere all’altezza di una conversazione. Mai interrompere, perché lui mai interrompe. Precisione, comunque, sempre.

Ma soprattutto vi suggeriamo di leggere i molti articoli e di vedere i numerosi video che circolano su youtube, sulle analisi del linguaggio gestuale di Putin.

Putin e la prossemica, dunque. La Treccani la definisce come “parte della semiologia che studia il significato assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che l’individuo frappone tra sé e gli altri e tra sé e gli oggetti, e quindi, più in generale, il valore attribuito da gruppi sociali, diversi culturalmente o storicamente, al modo di porsi nello spazio e al modo di organizzarlo”.

Putin è davvero interessante per sguardi, gesti, posizioni del corpo, distanza o vicinanza dal suo interlocutore. D’altra parte, è stato allievo di Allan Pease, guru del linguaggio del corpo e autore del best seller “Mr Body Language”, che lo aveva definito come uno “studente molto intelligente e capace”, quando lo aveva incontrato, per la prima volta, nel 1991 al Cremlino, invitato a tenere un seminario per alcuni promettenti uomini politici, tra i quali appunto Putin, all’epoca trentanovenne ex ufficiale del Kgb, responsabile per la promozione degli investimenti esteri e le relazioni internazionali di San Pietroburgo. Allora, di fronte ad atteggiamenti rudi e duri, Pease aveva insegnato ai suoi studenti a essere più amichevoli in televisione e ad evitare gesti aggressivi e plateali alla Chruščëv. Analizzare Putin, nei suoi anni di potere, per conoscerne pensieri ed emozioni, è stato di grande interesse per osservatori politici del Cremlino, analisti e giornalisti.

Putin viene ammirato, e a volte anche criticato, per il suo viso impassibile, i pochi movimenti delle mani, un corpo spesso distante, uno sguardo fermo e fisso. Dicevamo da volpe siberiana.

Nei meeting faccia a faccia, tuttavia, egli trasmette i propri messaggi attraverso il linguaggio del corpo. Quando entra nella stanza, si dice, tutti smettono di parlare. Incute rispetto e forse anche un po’ di timore. Quest’ultimo aspetto è magari legato anche al fatto che tutti sanno che ha fatto parte del Kgb, dove sicuramente non mancano preparazione, istruzione e talenti particolari.

Nel gesto che il leader russo spesso usa, quello delle mani “a guglia”, i palmi delle mani sono sollevati e aperti per ispirare fiducia, in una dimensione di calma e sicurezza. Nelle conversazioni dirette con i grandi leader mondiali, spesso inclina leggermente la testa da un lato e fa un cenno a chi sta parlando; se i cenni, poi, sono tre consecutivi, significa che vi è interesse a continuare ad ascoltare l’interlocutore.

Interessanti, ancora, le analisi del Geopolitical Center (Centro di analisi strategica, militare, politica ed economica indipendente basato in Italia), del linguaggio dei corpi di Putin e Obama, durante il G8 in Irlanda del Giugno 2013. Separati dalla questione Siria, i due leader sono apparsi imbarazzati davanti alla stampa, una sensazione di grande distanza traspariva dagli sguardi che non si cercavano, non si trovavano, non si incrociavano. Entrambi senza cravatta, Putin si siede e non guarda Obama, incrocia le mani, muove nervosamente i piedi. Obama si mordicchia le labbra. In un momento quasi concitato, Putin risponde ai giornalisti gesticolando improvvisamente, un momento di nervosismo quasi aggressivo che non riesce a tener più conto di alcun insegnamento di Pease. Obama inizialmente quasi non ascolta il leader russo, sfoglia opuscoli vicino alla sua sedia, mentre l’altro risponde ai giornalisti. Comincia poi ad annuire in modo quasi automatico, prende la parola successivamente, mentre il collega russo continua ad eseguire movimenti involontari ripetitivi. I corpi parlano di disaccordo, di una fiducia reciproca in bilico e minata.

Diversi sono, invece, analisi e atteggiamenti dell’incontro dei due leader al G20 di settembre 2013 e della loro lunga stretta di mano. Ci si è sbizzarriti nell’analizzare ogni movimento e gesto. Vediamo l’esercizio, quasi clinico, che a noi pare curioso, ma che pare diffuso nei media americani. Obama prima della stretta di mano si abbottona la giacca. In molte circostanze il gesto non è ben visto, perché segnale di distanza deliberata e arroganza. La giacca sbottonata significa apertura, un invito a toni amichevoli. Poco prima del contatto iniziale, la mano di Obama è leggermente rivolta verso il suolo, quella di Putin leggermente girata, sì da trovarsi in posizione dominante quando le mani dei due leader si incontreranno. Poco dopo il contatto, mantiene il braccio in posizione dominante. Inizialmente i due leader non si guardano negli occhi, Obama non sorride e rivolge lo sguardo altrove. Poi gli occhi si incrociano e il sorriso arriva. Putin abbassa leggermente il capo, le strette di mano sono molte, forse 18, ma questo è per i fotografi. Nella stretta, la mano di Putin è sempre di circa 25 gradi superiore a quella di Obama, il tentativo di dominare viene visto sempre più insistente. Sorrisi più abbozzati e una veloce pacca sulla spalla del presidente russo da parte dell’americano. Il gesto non piace, viene, in genere, interpretato come ipocrita e arrogante. Piccole espressioni di disgusto e uno che segue l’altro. Migliorati, dicono, rispetto al precedente G8.

Alcuni osservatori esperti hanno concluso che Obama ha una maggiore sicurezza personale e leadership nel suo linguaggio del corpo: alto, falcata lunga ed elegante, sorriso genuino e meno impostato, tentativo di ridurre lo spazio fisico, camminata davanti che talora impedisce lo sguardo alla telecamera da parte dell’altro.

Putin presenterebbe, invece, un sorriso più “socialmente” forzato e di convenienza, con il braccio sempre vicino al corpo. Una chiusura evidente e un controllo del proprio spazio vitale.

Ho parlato spesso con alcune colleghe russe dell’importanza della distanza corporale, che qui è un must, diversa da quella che vi riconosciamo noi italiani. D’altra parte, anche gli animali hanno la loro distanza di sicurezza che gli consente di difendersi da un attacco o di iniziare una fuga; negli uomini la distanza di sicurezza è di circa 60 cm, ovvero la distanza del braccio teso, e accorciarla può diventare pericoloso. La dimensione di questa “bolla” è un dato di natura, ma dimensione e valore di intimità sono fatti di cultura e come tali variano. L’infrazione alle regole “prossemiche”, cioè alla grammatica che regola la distanza interpersonale, può essere vissuta come aggressione. La distanza fra i corpi limita dunque questo rischio e Putin lo sa bene, lui e il suo braccio teso.

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Ambientalisti contro Hera, scotta l’acqua calda della geotermia

Dopo il sondaggio, la pausa. Di Hera. E l’indignazione del fronte ambientalista. La prima è in stand by, il secondo è in subbuglio per il possibile raddoppio della centrale geotermica e ampliamento della rete di teleriscaldamento. In mezzo il Comune, il sindaco Tiziano Tagliani a cui si imputa di non aver condiviso il contenuto dei quesiti posti ai ferraresi e l’amicizia troppo stretta con la holding dell’energia.‘Ho agito nel rispetto di tutti i cittadini e, soprattutto, per il bene della città – spiega il primo cittadino – C’eravamo dati degli obiettivi, sono stati rispettati dagli incontri pubblici fino all’illustrazione del progetto sul polo delle energie rinnovabili’. Gli oppositori, ovvio, protestano. ‘Doveva essere una consultazione popolare e non lo è stata – dice Maria Teresa Pistocchi dei Grilli estensi – Bisognava informare meglio e di più le persone. Faccio un esempio: il business di Hera lo pagheremo noi contribuenti, verrà scaricato sulla bolletta’.

E’ molto arrabbiato Marco Piva del Comitato FerrAriaSalute. ‘Il sindaco non ha mantenuto gli impegni presi, glielo dirò una volta di più all’incontro del 27 a Boara al circolo Arci la Ruota – dice – dove alle 18 va a fare campagna elettorale. Lui ha i numeri dalla sua, ma io sono pronto a rivolgermi alla Procura, se solo ci sarà una virgola fuori posto in questa operazione di falsa geotermia, che interessa una zona inadatta dentro il parco urbano, collocata proprio nel cono di ricaduta dei fumi del polo chimico’.
Il 62 per cento dei 1500 maggiorenni ferraresi intervistati al telefono sul raddoppio della centrale geotermica e l’ampliamento della rete di teleriscaldamento, si sono detti favorevoli. Con soddisfazione di Fausto Ferraresi, direttore del teleriscaldamento del gruppo e del sindaco, che ha promosso la ‘ricognizione’ prima di restituire alla multiutility dell’energia il via libera per dare il via al progetto. Cominciando dalle richieste a Provincia e Regione sullo screening di fattibilità. ‘Lo screening di fattibilità non basta – incalza Piva – visto le quattro cisterne della centrale e tutto il resto, c’è bisogno della valutazione di impatto ambientale’.

‘Non ci sono novità né decisioni per il momento’, dicono da Hera. Dopo l’accelerazione è silenzio sul ‘piano, 50 milioni di euro d’investimento per riscaldare con acqua calda 15 mila abitazioni nella parte est della città, portando il numero complessivo delle case interessate a 37.500 contro le attuali 23mila. Il nuovo polo, sostiene Hera, produrrà 289 GWh di energia termica, di cui il 91 per cento da energie rinnovabili e di recupero. Prima fra tutte, la geotermia, di cui il nostro sottosuolo è ricco tanto da utilizzarla oramai da 25 anni nella parte ovest della città. Per Hera è il sistema maggiormente ecocompatibile: riscalderà il 40 per cento della abitazioni cittadine, sarà alimentato con il 56,4 di energia proveniente da geotermia, il 34,3 per cento dal termovalorizzatore, grazie allo sfruttamento di rifiuti e biomasse, dallo 0,3 per cento di calore termico e solo dallo 0,9 di gas, unica fonte non rinnovabile.

L’anima verde dell’energia ferrarese dovrebbe celarsi nel parco urbano, nell’area occupata dall’inceneritore in disarmo di via Conchetta, dove dovrebbe nascere la nuova centrale geotermica, sorella di quella di Casaglia gestita da Hera. L’acqua calda, secondo Hera, dovrebbe trovarsi sotto la crosta terrestre. Due o tre chilometri in profondità. ‘E’ un’occasione, meritevole di essere colta – dice il primo cittadino – Abbiamo la fortuna di avere delle fonti geotermiche in casa, che sono cosa ben diversa dal teleriscaldamento’. In sostanza, sostiene Tagliani, l’acqua calda l’abbiamo, siamo fortunati, non c’è bisogno di riscaldarla più di tanto.
‘Non sappiamo quale è il rischio reale, non sappiamo se il trivellare interferisca o meno con l’attività sismica, non ci sono dati sufficienti, ce lo ha spiegato il geologo Franco Ortolani, ma non c’è stato nulla da fare – sbotta Piva – In realtà via Conchetta è il posto meno adatto, siamo in una zona dove l’incidenza tumorale e 3 volte e mezzo superiore a quella di altre parti della città. Se fosse vera geotermia il problema non si porrebbe; a crearlo è la temperatura dell’acqua, che ha bisogno di essere riscaldata con l’ausilio dell’inceneritore’. Un inceneritore che nonostante il virtuosismo dei ferraresi nell’applicarsi alla raccolta differenziata, sostiene, continua a bruciare i rifiuti di altre città. ‘Trattiamo 40 mila tonnellate che vengono da fuori. Le emissioni si respirano dappertutto – dice – sicché non è solo Malborghetto a farne le spese ma la città’.

‘Stiamo parlando di finta geotermia’, attacca Valentino Tavolazzi di Progetto per Ferrara. ‘Non esistono giacimenti geotermici, l’acqua esce a un centinaio di gradi, è una temperatura insufficiente per scaldare un quarto della città’. Lo inquieta il contributo del termovalorizzatore indispensabile a innalzare la temperatura dell’acqua nella corsa lungo i tubi. Soprattutto nel caso di via Conchetta, dove l’oro bianco perderebbe calore nella risalita molto più che a Casaglia, dove si trova a meno della metà della profondità. ‘Lo chiamo il cancrovalorizzatore e sarà lui a integrare per un terzo le temperature’. Se il progetto passerà, insiste, Hera avrà garantito 30 anni di vita all’inceneritore, incatenato un pezzo di città a un progetto in cui non si prevede alcuna possibilità di negoziato per i cittadini.
A farne le spese i proprietari delle case allacciate. ‘Chi avrà una casa nuova, per fare un esempio, volendo cambiare sistema di riscaldamento dovrà costruirsi una canna fumaria con altri esborsi – prosegue – Non dimentichiamo inoltre, che i pozzi di Casaglia sono in regime di scadenza, Hera ne è solo il gestore, la centrale di via Conchetta sarebbe un toccasana per la multi utility che si renderebbe autonoma. Più utile e sano sarebbe spegnere il termovalorizzatore puntando su una corretta differenziata dei rifiuti’. Tra le cose negative Tavolazzi elenca il mancato controllo degli eventuali prezzi delle bollette ‘tariffe ad altissimo margine fuori dalla giurisdizione di qualsiasi authority’.

1. CONTINUA

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“Burn” ieri e oggi, rock e pop a confronto a quarant’anni di distanza

di Stefano Gueresi

Un titolo come Burn, la hit di Ellie Goulding che ha spopolato nella programmazione di tutti i network, ci riporta nel passato rievocando uno dei brani più travolgenti della discografia dei Deep Purple. Burn! è infatti il primo brano dell’omonimo lavoro del 1974 con il quale la grande band inglese si rilanciò nel panorama rock mondiale, dopo il cambio di formazione che aveva visto David Coverdale e Glenn Hughes subentrare a due elementi “storici” come Ian Gillan e Roger Glover. E’ un brano paradigmatico rispetto al modo di concepire musica dell’epoca, in relazione alla struttura di una canzone destinata al grande pubblico, con ambizioni da hit radiofonica. Così come la Burn dei nostri giorni rispetta tutti i canoni estetici di forma e di arrangiamento, per avere lo stesso effetto sul pubblico attuale.

Cos’è cambiato in quarant’anni? Lo scopo, vale a dire la capacità e la possibilità di entrare nelle orecchie dell’ascoltatore e possibilmente di restarci il più a lungo possibile, è sempre lo stesso.
Ma le modalità sono senz’altro differenti, a partire proprio dalla lunghezza del brano. Da parecchi anni a questa parte, nelle radio, o perlomeno nella maggior parte delle emittenti commerciali, imperversa la tirannia dei “tre minuti”, oltre i quali spesso scatta lo spot pubblicitario o la messa in onda del brano successivo. E, a dire il vero, questa pratica risale agli anni ’50-’60, quando le canzoni erano tutte più o meno della stessa lunghezza. La forma breve e concisa veniva raccomandata da produttori e operatori del settore, con qualche clamorosa eccezione rappresentata da brani insolitamente lunghi e articolati, che però raggiunsero ugualmente le vette delle classifiche: Eloise di Barry Ryan e Music di John Miles gli esempi più eclatanti.

La canzone della Goulding rispetta in pieno i criteri radiofonici del momento, per quanto riguarda il minutaggio e tutta una serie di escamotage che fanno parte della dotazione di una produzione di sicuro successo: il ricorso a suoni sofisticati, il ritmo sinuoso e accattivante, la melodia-filastrocca
il cui loop si imprime rapidamente nella memoria.
Il brano dei Deep Purple ha invece una struttura anche più dilatata rispetto alle consuetudini del tempo, e gioca in modo diverso con la reiterazione del tema, che viene riproposto innumerevoli volte, ma con il sublime bilanciamento di tutti gli elementi portanti della canzone: il riff principale, le parti vocali dei due cantanti, l’assolo di organo Hammond, l’assolo di chitarra. Questo porta la canzone ad assumere una struttura più complessa, ma anche più sorprendente, e il gioco della riproposizione dei temi e della loro alternanza riesce a mantenere “fresco” l’ascolto fino al finale, travolgente e perentorio.

Cosa ci può suggerire il paragone fra due brani così lontani nel tempo e così diversi nel loro impatto stilistico? Alla fine, qual è la differenza più evidente? Le canzoni del nostro tempo sono spesso un gioco, un’idea curiosa, una scommessa. Un episodio. Le canzoni dell’epoca d’oro del pop-rock sono nate per restare a lungo, create per essere ricordate e per attraversare le generazioni. E molte di loro questo scopo l’hanno raggiunto, ce l’hanno fatta.

Stefano Gueresi, pianista e compositore, è nato a Mantova il 21 aprile 1960. Compone musica evocativa di luoghi e tempi immaginari, che affonda le sue radici sia nella tradizione classica sia nel filone pop romantico-sinfonico degli anni Settanta. E’ autore – tra le altre cose – della colonna sonora della campagna di sensibilizzazione sulla Sindrome dell’X-Fragile, lo spot in onda dal 20 al 28 febbraio sulle reti Rai.

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La felicità: faccenda personale e questione pubblica

Che il nostro benessere dipenda dalle condizioni e dal clima sociale in cui viviamo è fuori dubbio. L’elenco dei numerosi fattori che inducono oggi in Italia, un clima depressivo sarebbe lungo: incertezza e smarrimento, fatica quotidiana e dubbi sul futuro, rabbia e rassegnazione sono sentimenti diffusi. Queste percezioni si riflettono sulle graduatorie che confrontano Paesi europei: su 34 Paesi dell’area Ocse l’Italia è dallo scorso anno scivolata molto in basso, al 29esimo posto, vicino alla Grecia, devastata socialmente dall’austerità. Tra gli indicatori: lavoro e condizioni di vita materiale, fiducia nelle istituzioni, sicurezza personale, equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di vita.
Un rapporto di Cnel e Istat, disponibile in rete, misura il benessere “equo e sostenibile”, allargando, secondo un approccio ormai consolidato, un’idea di benessere fondata solo sul Pil, ma aperta ad altri parametri sociali e ambientali: diseguaglianza, sostenibilità, salute, istruzione, conciliazione dei tempi di vita, paesaggio, qualità dei servizi.
Le analisi sottolineano il valore di beni che non appartengono alla sfera del mercato: la densità delle reti personali, le relazioni di scambio e di aiuto quali condizioni per il benessere. Anche il tempo dedicato al volontariato ha un peso nella percezione del proprio benessere, evidentemente perché aiuta a mettere in prospettiva le proprie insoddisfazioni.
Alla base della nostra personale percezione del benessere si conferma l’assoluta centralità delle relazioni con gli altri. La nostra felicità si nutre di tanti fattori: una famiglia che ci ama, una cerchia di amici che ci sostiene emotivamente, un lavoro gratificante, la possibilità di coltivare sogni o passioni.
Una ricerca in corso su persone appartenenti a diversi contesti culturali condotta da una ricercatrice inglese, Mandy Rose (Digital Cultures Research Centre di Bristol), segnala due condizioni per cui la gente si sente felice: sapersi accontentare o sfidare se stessi. Si tratta di due motivazioni apparentemente agli antipodi, che rappresentano, con pesi diversi secondo la personalità e le fasi della vita, condizioni variamente intrecciate nelle esperienze di ognuno.
In sostanza, sul piano personale, sembrano esistere almeno due diversi fattori di felicità. Il primo ha a che fare con l’integrazione in un contesto soddisfacente, il secondo riguarda lo sguardo sul futuro, l’apertura al cambiamento, il successo in un’impresa, la scoperta di qualcosa di nuovo. Il bisogno di sicurezza ci spinge a cercare stabilità e quiete, il desiderio di sfida ci spinge verso la ricerca continua di stimoli. Trovare un equilibrio è un arte.
Lo psicologo Dan Ariely sostiene che ciò che rende felici è mettersi alla prova e sfidare le proprie capacità. Sintetizzo questo concetto con il termine di apprendimento. Personalmente considero questa seconda strada decisiva, anzi imprescindibile, ancorché, talvolta, faticosa.
Sull’attitudine alla sfida e alla crescita individuale il contesto sociale ha un’importanza decisiva: può sostenere la fiducia e la spinta ad investire in un proprio progetto (che resta una condizione individuale) o, al contrario, deprimere energie e chiudere la speranza di futuro. La felicità, quindi, non è solo una faccenda privata e, soprattutto, i suoi frutti si riversano sul benessere di una società.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: la scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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Matrioska: una, nessuna e centomila

Da MOSCA – Quando si parla di Russia e di suoi souvenir, una delle prime cose che ci viene in mente è la Matrioška. A ogni amico che mi venga a trovare suggerisco di comprarne qualcuna, ma scegliendole attentamente e con cura, per evitare che finiscano in un solaio o in un cassetto sperduto della casa. Molti di noi ricorderanno quando, da bambini, vedevamo bamboline allineate sui comò delle nonne o delle anziane zie, vestite e impolverate nell’angolino un po’ kitsch. Queste bamboline, vestite diversamente a seconda del paese di origine, souvenir dei viaggi di nipoti e figlie, erano quasi sempre immancabilmente affiancate da altre figurine colorate allineate in rigoroso ordine decrescente, le Matrioške. Lucide, colorate, sorridenti, panciute, dal visetto simpatico e rubicondo.
Quante volte le abbiamo aperte, facendo leggermente scricchiolare il legno, sotto l’occhio attento della nonna che temeva di veder perso l’elemento più piccolo, mentre ruotavamo il busto alla scoperta del contenuto. Eravamo curiosi e aprivamo quel cerchio magico di figure alla ricerca di una sorpresa che c’era sempre. Un po’ delusi, arrivavamo alla fine mentre avremmo voluto che quella ricerca e continua scoperta non finissero mai, o almeno non così presto. Perché i pezzi erano dieci. Solo da grandi avremmo saputo che il numero di bambole inserite l’una nell’altra può variare da 3 a 60, e che il pezzo più grande si chiama “madre” mentre il più piccolo “seme”.
A questo punto, credo sia immediatamente chiaro il significato di questo oggetto tradizionale russo: simbolo di fertilità femminile, famiglia, generosità della terra, la Matrioška (matrëška è il diminutivo – vezzeggiativo di matrëna, diffuso nome proprio russo derivante dal latino mater, madre) è anche un modo per dominare lo spazio, perché contraddice il fatto che uno stesso luogo non possa essere occupato da più di un oggetto, e rimanda alla molteplicità dell’io.
La prima Matrioška, russa è apparsa alla fine del XIX secolo, nel podere Abramtsevo, lungo la strada che porta al monastero di san Sergio di Radoneza, in riva al fiume Vor’, a circa 60 km a nord-est di Mosca. Ci sono due versioni sulla sua origine. Una sostiene che sia nata nell’isola giapponese di Houshu, come giocattolo speciale fatto di molte parti interposte, e che sia stata portata in Russia dalla moglie di un famoso collezionista d’arte, Savva I. Mamontov (1841- 1918). L’altra ritiene, invece, che fu un monaco russo a portare per primo in Giappone l’idea di fare una bambola fuori dal comune. Ma gli artigiani russi le amarono fin da subito e iniziarono a crearle.
Fu l’artista Sergej Maljutin (1859-1937) a disegnare, per la prima volta, una bambola che raffigurava una contadinella dalla faccia rotonda e dagli occhi luminosi, con sarafan e grembiule bianco e i capelli lisci pettinati con cura e nascosti in gran parte sotto un fazzoletto a fiori dai colori vivaci. Aveva in mano un gallo nero. Da allora le decorazioni sono diventate numerosissime: fiori, animali, chiese, icone, fiabe popolari, argomenti legati alla famiglia, capi religiosi e politici.
Il vero segreto di questo oggetto sta nel legno, in genere si preferisce il tiglio per la sua tenerezza. Abbattuto l’albero, se ne toglie la corteccia lasciandone una minima parte per evitare spaccature durante l’essicazione. I tronchi sono lasciati ad asciugare per anni, facendovi liberamente circolare l’aria per evitare muffe. Gli esperti poi sanno capire il momento adatto per realizzare la bambola più piccola della serie, fino alla successiva che dovrà contenerla. Ogni bambola finita viene coperta con colla amidacea e levigata perché possa essere colorata con vernici, fino ad arrivare alle meravigliose creature che si vedono nei negozi più belli di souvenir. Il pezzo più grande può arrivare fino all’altezza dello stesso artigiano.
Dovete sceglierle con cura, perché sono tutte diverse e le fattezze più o meno delicate. Una bella matrioška di dieci pezzi ben dipinti, può costare anche parecchio, ma la sorpresa nel vederle allineate nel vostro elegante e luminoso salone sarà grande, credetemi.
Troverete la famiglia con le bamboline sale e pepe (per far risaltare l’ospitalità delle famiglie russe), il gruppo di quelle che consumano il rito del tè (se una famiglia invita qualcuno per il tè significa che vuole stringere rapporti d’amicizia più stretti con l’ospite), e quelle delle fiabe popolari(dalla gallina dalle uova d’oro a Cheburashka, personaggio di antiche leggende russe, con gli amici Gena il coccodrillo e Starukha Chapoklavak). Vi sono poi le bambole legate alle festività, alle icone e alla città, con lamine d’oro, a tempera e vernice d’argento.
Recentemente è comparsa anche la Matrioška gay con Elton John, Stephen Fry, George Michael e altri, inviata, lo scorso Natale, al Cremlino e all’ambasciata russa di Londra, dall’agenzia creativa Mother, nell’ambito della campagna “To Russia with love”, promossa dalla ONG per i diritti umani Kaleidoscope Trust in risposta alla recente legge russa contro la “propaganda omosessuale”.
Nel 2009, la moda ha portato alla ribalta questa figurina, nelle versioni di Vogue, nelle trousse di Pupa, nel profumo di Kenzo, nelle borse e gli accessori di Chanel. Muji ne ha fatto una versione nera lavagna perché grandi e piccini vi possano disegnare sopra.
Ma se volete riflettere, leggete il libro di Cristina Comencini Matrioska, dove Antonia, scultrice mutevole, invecchiata e appesantita, si abbandona alle righe di una giovane scrittrice impegnata a scrivere la sua biografia. In questo percorso, si apre e si riempie gradualmente un file, chiamato appunto Matrioška, perché Antonia assomiglia ad una bambola russa dai pomelli rossi che ne contiene altre sempre più piccole. In essa vi sono storie, mille ricordi, relazioni.
Se, invece, volete anche sorridere e intenerirvi, vedetevi l’omonimo cortometraggio animato dell’olandese-canadese Jacobus Willem (Co) Hoedeman, del 1970. Quattro minuti, disponibili in rete, di bamboline che danzano, si aprono, si chiudono e richiudono, si piegano e ripiegano, al ritmo di una piacevole musica russa, con la piccolina che rimane sempre un po’ indietro, come il brutto anatroccolo. Salvo che essa sarà sempre al centro e tutti la aiuteranno a restarvi.

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Il duce resta cittadino onorario di Ravenna col voto del Pd

Il cavalier Benito Mussolini resta cittadino onorario della rossa Ravenna. Nei giorni scorsi la richiesta di cancellazione dell’atto è stata respinta da una commissione del Consiglio comunale. Tutti contrari ad eccezione di Sel, Movimento 5 stelle e della lista civica “Per Ravenna” il cui capogruppo, Alvaro Ancisi, aveva avanzato la proposta, chiedendo di revocare al duce e a due altri esponenti fascisti (il prefetto Eugenio De Carlo e il ministro Stefano Giuriati) il titolo di cittadini onorari, concesso loro durante il Ventennio. Contrario al provvedimento di revoca anche il Pd.

I bene informati riferiscono che la maggioranza temeva una manovra strumentale. Ancisi – vecchio democristiano anticomunista ma, a quanto pare, anche antifascista! – avrebbe in realtà agito con scopi non dichiarati, ordendo un tranello. L’ok alla ‘destituzione’ del duce si sarebbe trasformato, secondo il presunto piano, in una sorta di grimaldello: aperta la breccia la si sarebbe sfruttata per cercare di abbattere figure storiche dell’epopea comunista celebrate nella toponomastica cittadina.

Un’evenienza avversata dal governo cittadino che, per cautelarsi, ha da tempo blindando le attribuzioni con un regolamento comunale che impedisce modifiche a posteriori. Una normativa che si sarebbe dovuta cambiare anche nel caso in cui si fosse approvata la proposta relativa al duce.

Così l’istanza, per evitare ogni imbarazzo futuro, è stata bocciata dalla maggioranza che fa capo al Pd, con la discutibile giustificazione che la cancellazione della cittadinanza a Mussolini sarebbe equivalsa a una “operazione di revisionismo storico”. Insomma, una perniciosa arrampicata sugli specchi dall’effetto paradossale: stavolta per salvare il bambino (il pantheon di famiglia) si tiene anche l’acqua sporca…

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Storia di nonna Dolenes e di gente per cui ‘la religione vera era la vita’

Luciano Curreri, nato a Torino nel 1966 e vissuto per molti anni nei dintorni di Ferrara, lavora all’estero, insegna lingua e letteratura italiana all’università di Liège, eppure, quando scrive di Quartiere, la parlata ferrarese sintetizza ancora un pensiero che in altro modo non potrebbe essere detto.
Quartiere non è un quartiere (Amos edizioni, 2013) è un racconto di una terra vicino a Portomaggiore e della sua gente, di una famiglia e di una donna, la nonna Dolenes, che hanno accompagnato Luciano Curreri nella sua crescita. Tutto è ricordo, ma è anche presenza di chi non c’è più, gancio con un passato che non si abbandona.

Il racconto inizia con un volo in deltaplano da cui Curreri vuole guardare il suo paesaggio, quello che da bambino vedeva attraverso una zanzariera. Dall’alto è diverso, ci vuole più coraggio, ma si abbracciano molte più cose.
Curreri, perché il volo e non un altro modo per riattraversare quelle terre?
“Avevo bisogno di riprendere il contatto con un contesto che non era più il mio, il volo è stato come delegare un alter ego che potesse distaccarsi e aiutarmi a ritrovare i luoghi dove ero stato, animati da persone che li rendevano concreti”.
I luoghi sono legati, appunto, alle persone, in particolare alla nonna Dolenes che, nel racconto, è insieme saggezza popolare, focolare, grande maestra, una donna per cui, lei scrive, la religione vera era la vita.
“Mia nonna mi ha insegnato che in ciascuna difficoltà c’è sempre un’opportunità vitale, è una visione del mondo dinamica, proiettata in avanti. Ho ricevuto questa eredità di pensiero trasmessa da una donna che non ebbe una vita facile. Per lei che aveva perso il marito da giovane e non si era mai risposata, un inciampo era cosa da nulla. Riuscì a compiere la sua missione di educazione della figlia e del nipote, io. La religione vera, per lei, era la vita e il suo lavoro era la migliore preghiera che conoscesse. Il volo che ho fatto, quindi, è stato un viaggio per rivedere il territorio dove sono cresciuto e dove non sono riuscito a riportare mia nonna per un suo ultimo viaggio nel 2004, prima che morisse”.
Il racconto è un ricordo del passato che, però, dialoga con un io del presente. In che rapporto sono?
“La memoria, purtroppo, oggi è di plastica e a breve termine. Nel racconto ho tentato di agganciarmi con la memoria a un ricordo vivo e sincero, a una parte di vita vissuta in mezzo a quelle persone. È un ricordo attivo, un omaggio a un mondo che non c’è più in alcune sue componenti, una società fatta di identità non scalfita, di rispetto, di slanci. Oggi sono cambiate tante cose, tutto è illuminato, non c’è più il buio, non c’è più il silenzio”.
Lei parla, a un certo punto, di libertà del lettore. In cosa il lettore è libero?
“Mi sono chiesto se sia meglio un lettore sedotto e affascinato o un lettore libero. Preferisco che l’approccio sia libero, chi legge deve essere libero di riconoscersi in un persorso universale, libero di ricordare a sua volta, libero di leggere Quartiere per frammenti, smontandolo come crede”.
Com’è finito quel volo?
“Mi sono un po’ sporto e sono precipitato giù… a sbiciclettare, a saltare i fossi, con la Dolenes”.

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Boiardo, autore dell’Orlando innamorato e formidabile traduttore dei classici latini

MATTEO MARIA BOIARDO
(a 520 anni dalla morte)

Matteo Maria Boiardo (1441-1494) nacque a Scandiano di Reggio Emilia da famiglia nobile, intraprese gli studi classici a Ferrara sotto la guida del nonno Feltrino e, pur ereditando all’età di diciannove anni il feudo avito, dimorò sempre più spesso presso la corte degli Este, per i quali svolse varie missioni diplomatiche. Amò la bellissima Antonia Caprara, a cui dedicò i tre libri degli Amores: il testo lirico unanimemente riconosciuto come il più significativo di tutto il Quattrocento. Ma si sposò con Taddea Gonzaga, alla quale si deve la pubblicazione postuma, nel 1495, della prima edizione integrale della grande opera lasciata incompiuta dal poeta: l’Orlando innamorato.
Oltre al suo celebre capolavoro e agli Amores, il Boiardo scrisse le dieci Ecloghe volgari e le dieci Pastoralia latine, il dramma Timone, i quindici Carmina de laudibus estensium, i trentun distici degli Epigrammata, le traduzioni delle Vite degli eccellenti capitani di Cornelio Nepote, della Ciropedia di Senofonte, della Istoria imperiale di Ricobaldo, dell’Asino d’oro di Apuleio e delle Storie di Erodoto, senza inoltre dimenticare le settantotto terzine dei Tarocchi e le centonovantatre Lettere, una delle quali scritta in latino.
Ma l’opera fondamentale di Matteo Maria Boiardo resta come si è detto l’Orlando innamorato, preceduta dagli Amores (o Amorum libri tres o ancora Canzoniere), una raccolta di sonetti e canzoni fortemente influenzata dallo stile del Petrarca. «Il passaggio dalla lirica petrarchistica al poema epico/cavalleresco – commenta il critico Giuseppe Anceschi – si compie in brevissimo periodo di tempo: su ciò sono concordi i maggiori studiosi di Boiardo. Se infatti si vuole conclusa la stesura degli Amores nel 1476 e già composti i primi ventinove canti del I libro dell’Innamorato a metà del 1478, bisogna dire che in assai breve volgere di tempo il poeta scandianese abbia mutato linguaggio e prospettiva del suo fare poetico».
Costruito su una trama che amalgama liberamente la materia epica del ciclo carolingio con quella amorosa/romanzesca del ciclo bretone, l’Orlando innamorato si sviluppa al di fuori di una struttura programmatica, ubbidendo invece a un costante impulso fantastico. Fa da filo conduttore la storia dell’amore di Orlando per Angelica, intorno alla quale si innestano gli altri amori, le gelosie e le lotte dei cavalieri cristiani e pagani. Il poema si interrompe con il duello fra Ranaldo e Orlando, separati da Carlo Magno che promette Angelica in sposa a quello dei due che combatterà più valorosamente nell’imminente battaglia. Da questo episodio prende le mosse l’Ariosto per la stesura del suo Orlando furioso. I centri geografici della vicenda sono solo apparentemente tali, in quanto essi rappresentano il punto di partenza e di arrivo delle due forze dinamiche: l’amore e la guerra, che disperdono i paladini e i Saraceni in giro per il mondo, in un caleidoscopico avvicendarsi di paesaggi naturali e fiabeschi.

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Cinquemila volte “Via la divisa”. Imponente corteo: “Fuori dalla polizia gli agenti responsabili della morte di Federico” [fotoservizio]

Cinquemila persone hanno sfilato a Ferrara accanto alla famiglia di Federico Aldrovandi per chiedere la destituzione dei quattro poliziotti che ne hanno causato la morte nel 2005.
In prima fila, oltre a Patrizia Moretti, la mamma, Lino e Stefano Aldrovandi, il padre e il fratello c’erano anche i parenti di Ferulli, Uva, Scaroni, Perna, Gugliotta, Bianzino, Cucchi e Budroni, le altre vittime di uomini in divisa.
“Io ti do i miei documenti, tu fatti riconoscere” c’era scritto su uno dei cartelli dei manifestanti.
La richiesta di tutti i familiari era quella di democratizzare le forze dell’ordine, introdurre il numero identificativo per gli agenti e il reato di tortura.
In corteo tante mamme con i loro figli. “Sono qui per loro – ha detto Agnese indicando i suoi due gemelli – non deve più accadere, per questo gli agenti che hanno ucciso Federico non devono più fare quel lavoro”.
“Sono una mamma come Patrizia – ha spiegato Chiara spingendo il passeggino – per questo ho sempre manifestato con lei, finché loro sono nella polizia non c’è una vera giustizia”.
Così anche per Girolamo de Michele, insegnante e scrittore: “Non mi sembra giusto che con le mie tasse venga pagato lo stipendio a quattro persone che non solo sono responsabili della morte di un ragazzo, ma non hanno mostrato nessun pentimento ed hanno anche fatto di tutto perché la verità non venisse fuori”.
C’erano anche i centri sociali, gli studenti medi, gli universitari, i partiti senza bandiere, Calvano del Pd, il vicesindaco Massimo Maisto, i Giovani Comunisti, Rifondazione, la Cgil chiamata a fare da “cuscinetto” in caso di disordini, il deputato Cinque Stelle Bernini, autore dell’interrogazione per conoscere i motivi delle decisioni assunte dalla Commissione Disciplinare nei confronti dei poliziotti. La risposta è stata che per la “natura non dolosa della condotta” la sanzione è stata ritenuta congrua, e la destituzione che viene richiesta dai familiari è troppo grave.
Sfilano tutti, sotto gli occhi dei tanti ferraresi richiamati alle finestre dal serpente che si snoda per gli oltre due chilometri di percorso.
“Siamo venuti con i tifosi del Bologna” ha raccontato un ragazzo accanto a sua moglie e ai due figli. La più grande regge un cartello con la scritta “Per il mio futuro vorrei una polizia più pulita”.
A vivacizzare la coda del corteo, i fumogeni e gli slogan della tifoseria della Spal che ogni domenica da otto anni, in curva, dedica un coro a Federico.
In testa invece c’era un furgone guidato dagli amici di Federico, che ha condotto la manifestazione a suon di musica da via Ippodromo, dove il ragazzo è morto, attraverso le vie del centro, puntando alla Prefettura.
Accanto al Castello ha preso la parola Lino Aldrovandi per dire che, nonostante quanto riferito dal ministero degli Interni, secondo la famiglia ci sono i presupposti per destituire per disonore i quattro agenti Pontani, Pollastri Segatto e Forlani. E questa stessa richiesta è stata ribadita poco dopo al prefetto Michele Tortora. “Ci ha garantito che questa sera stessa scriverà una relazione ai suoi superiori per comunicare la nostra richiesta, ancora una volta ci affidiamo con fiducia alla giustizia”, ha detto Patrizia Moretti uscendo dall’incontro ristretto in Prefettura.
Il saluto finale della manifestazione è stato affidato agli amici di Federico.
“Ancora oggi, in qualche bar della città, è possibile trovare qualche bifolco disposto a dichiarare che Aldro dopotutto se l’è cercata perché era drogato, brutto, grosso e cattivo. Tutti abbiamo paura dell’uomo nero, dello sbandato, tossico, che ci aggredirà e deruberà in un vicolo freddo e buio quando meno ce lo aspettiamo.
“Nessuno invece fa mai incubi ambientati in uffici in cui alte cariche dello Stato, sedute su comode poltrone, discutono quale sia la strategia migliore per insabbiare l’ennesimo brutale atto di repressione realizzato dalle cosiddette forze dell’ordine. Nessuno fa mai incubi riguardanti depistaggi, omissioni di atti d’ufficio e favoreggiamento, riammissione in servizio di poliziotti che hanno disonorato la divisa con un omicidio. Eppure è proprio questo genere di crimini ad avere un impatto devastante sulla nostra società democratica, ma non ci colpiscono emotivamente quanto lo spauracchio di un ipotetico brutto tipo che potremmo incontrare una sera.
“Beh, forse faremmo meglio a scegliere con più cura i protagonisti dei nostri incubi. Perché mentre è piuttosto improbabile che qualcuno di noi venga mai aggredito da un fantomatico tossico in un vicolo buio, sarà molto più facile ritrovarsi in uno Stato autoritario e repressivo che ogni giorno concede sempre meno diritti ai suoi cittadini, troppo distratti dalle loro paranoie per rendersene conto.
“Sta accadendo proprio ora”.

In cinquemila hanno manifestato a Ferrara chiedendo al destituzione dei poliziotti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi (fotoservizio di Stefania Andreotti)

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La partenza del corteo per la destituzione dei poliziotti condannati per l’uccisione di Federico Aldrovandi (foto di Stefania Andreotti)
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Il corteo in via Bologna (foto di Stefania Andreotti)
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Alcuni manifestanti (foto di Stefania Andreotti)
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Troupe e operatori dell’informazione (foto di Stefania Andreotti)
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Uno degli organizzatori (foto di Stefania Andreotti)
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Gli striscioni (foto di Stefania Andreotti)
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Gente affacciata dalle finestre (foto di Stefania Andreotti)
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Patrizia Aldrovandi assieme ad altri genitori (foto di Stefania Andreotti)
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Anche mamme e bimbi alla manifestazione (foto di Stefania Andreotti)
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Uno striscione di denuncia (foto di Stefania Andreotti)
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Il segretario provinciale del Pd Calvano e il vicesindaco Maisto (foto di Stefania Andreotti)
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Ancora mamme i figli insieme (foto di Stefania Andreotti)
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Fra i manifestanti lo scrittore Girolamo De Michele (foto di Stefania Andreotti)
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“Toglietevi la divisa” (foto di Stefania Andreotti)
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“Via la divisa” (foto di Stefania Andreotti)
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Famiglie che chiedono giustizia (foto di Stefania Andreotti)
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La protesta degli studenti (foto di Stefania Andreotti)
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Patrizia Aldrovandi al microfono davanti alla Prefettura (foto di Stefania Andreotti)
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In cinquemila hanno manifestato a Ferrara chiedendo la destituzione dei poliziotti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi (foto di Stefania Andreotti)
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L’incontro con il prefetto (foto di Stefania Andreotti)
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“Via la divisa”, manifestazione per la destituzione dei poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi [video intervista]

Questo è un estratto video dell’incontro tra Vera Vigevani Jarach, madre di Plaza de Mayo, e Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi.
Ne aveva già scritto per noi Gian Pietro Testa [leggi qui], e oggi vogliamo riproporvi alcuni momenti del confronto tra queste due donne divenute loro malgrado protagoniste di battaglie di giustizia. L’occasione è stata la visita a Ferrara della donna italoargentina, che in collaborazione con l’associazione Oltre Confine sta portando avanti un progetto sulla memoria con il liceo Ariosto.

Questo vuole essere uno spunto di riflessione in vista della manifestazione “Via la divisa” che proprio oggi, alle 15, partirà da via Ippodromo e arriverà in prefettura per chiedere la destituzione dei quattro poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi.
A promuoverlo è l’associazione “Federico Aldrovandi” che oltre, come si legge in una nota, rivendica anche la democratizzazione delle forze dell’ordine, l’introduzione del numero identificativo per gli appartenenti alle forze dell’ordine e l’introduzione del reato di tortura.

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Ana Fendo: simbolo dell’identità “indios”, emblema della lotta per la libertà

di Antonio Martella

Il lavoro, i soprusi e le battaglie per riprendere ciò che le è sempre appartenuto, la propria Terra.
Ana Fendo è sinonimo della salvaguardia della popolazione “indios” dei Kaingang del sud-ovest del Brasile. La sua lotta riecheggia nella storia di tanti indios e non solo. La sua non ottemperanza a quella “buona coscienza” del conformismo bianco, ha significato la sopravvivenza di quella cultura millenaria, ricca di riti, danze e religiosità che hanno permeato quella fantastica terra per migliaia di anni.

La Nuova Italia! Così fu chiamato quel lontano mondo da parte dei primi coloni Italo-tedeschi che vi misero piede nei primi anni del XX secolo. Purtroppo il “buoncostume” italo-tedesco dell’oppressione e della belligeranza nei confronti del “diverso”, ha anticipato, nel sud-ovest del Brasile, quella forma mentis che condurrà, trent’anni più tardi, la stessa alleanza in uno dei periodi più bui della storia dell’umanità.
Il fuoco della più celebre fotografia che la ritrae è diretto sulle sue mani, poiché rappresentarono, sono ed esprimeranno l’effigie di quella costruzione dell’Io collettivo, dell’ego della natura che prevarica e rompe ogni tentativo di oppressione del Diverso, oltre che essere il luogo comune del lavoro.
La supremazia delle popolazioni bianche su quelle “Indios” ha portato alla morte di diverse migliaia di persone appartenenti alla comunità dei Kaingang, e di diversi milioni di popolazioni in tutto il sud America. La sua lotta è stata filmata in un cortometraggio quando, all’età di 100 anni, lavorava ancora la sua Terra.
Oggi, Ana Fendo vive nel cinque percento di quella che era inizialmente la sua grande Terra; ha raggiunto l’età di 110 anni, ha perso l’occhio destro a causa di una cataratta, ma il suo spirito guerriero sembra aver trapassato quella dolce barriera che divide la vita dalla morte.
Il suo grido di battaglia sembra echeggiare in quelle infinite e rigogliose vallate che hanno dato voce al suo ostinato combattere. Le condizioni di vita della sua tribù sono molto precarie, le malattie zoologiche, la mancanza di sistemi sanitari adeguati, il grande problema dei rifiuti, ma soprattutto la “civilizzazione” imposta da una cultura estranea, hanno portato gravi conseguenze nella popolazione più giovane. Le piaghe sociali delle droghe e dell’alcol stanno distruggendo quel poco di tradizione, cultura e ritualità millenaria che questa donna ha cercato di preservare con tutta se stessa.

L’evoluzione che diventa regresso, il necessario che si trasforma in superfluo, una familiare pratica storica che si ripete, distruggendo quell’inestimabile diversità che rende il mondo incantevolmente ricco e stranamente non “uguale”.
La piccola storia di una grande guerriera, icona del lavoro e della lotta di milioni di donne, per la Libertà.

Rischiatutto_1972

Renzi gioca al Rischiatutto

Rischiatutto. Si chiamava così il telequiz che Mike Bongiorno rese celebre con la frase: “Fiato alle trombe Turchetti!”. Si potrebbe ricorrere al titolo della storica trasmissione Rai fra il 1970 e il 1974, per tentare di leggere il senso dell’ultimo strappo di Matteo Renzi. Accelerazione che è costata il posto di presidente del Consiglio a Enrico Letta, al quale è stato emblematicamente fatale il giorno prima della festa degli innamorati.

Il segretario nazionale Pd ha chiuso la direzione del partito, spronando i suoi: “C’è un’ambizione smisurata che dobbiamo avere”.
Che Matteo Renzi avesse un’alta considerazione di sé si era capito da tempo, ma non è un ultras della curva Fiesole e c’è da credere che abbia considerato e soppesato ripetutamente tutti i pro e contro della mossa.

Perché le cose che non tornano sono parecchie in questa storia.
Intanto, da quel che sappiamo, accade solo in Italia che il premier sia sfiduciato dal segretario del suo partito, del quale tra l’altro Letta è stato numero due fino a ieri l’altro. Mica uno da quinta fila.
Secondo: ai comuni mortali come noi, gratta come un foglio di carta vetrata la consequenzialità vendutaci dai leaders Pd quando spiegano ai microfoni: “Siamo grati ad Enrico Letta per il lavoro svolto, eccetera, eccetera”.
Ma se ha lavorato bene, perché sostituirlo? E soprattutto non convince che Renzi abbia detto, come se niente fosse, che il suo esecutivo farà proprio il documento “Impegno Italia”, cioè lo stesso presentato urbi et orbi da Letta il giorno prima per rendere noti passi, scadenze e tempi, della propria azione di governo.

E poi c’è il quadro politico, che continua ad essere identico a quello che ha sorretto finora l’esecutivo di servizio. Cosa faccia credere, ora, che il sindaco di Firenze possa fare i miracoli che il suo predecessore non è stato in grado di fare, resta un mistero.
Soprattutto, non si capisce perché Matteo Renzi, che ha sempre legato il proprio destino politico al metterci la faccia e ad un percorso di legittimazione popolare, ora ceda ad una manovra di palazzo degna della prima repubblica.
Il suo essere fieramente sindaco, e cioè a contatto diretto coi cittadini, fuori dal Parlamento dove siede invece la politica del privilegio e dell’immobilismo al limite del bivacco, sembra ora clamorosamente smentita dal rigurgito di una logica tutta di potere da auto blu.

Ma allora, scartando l’ipotesi che sia uscito di senno, che cosa gli ha fatto dire “Stasera mi butto”, come cantava Rocky Roberts nel 1968?
In effetti, oltre alla sua ambizione effettivamente superiore alla media, esistono numerose pressioni che devono essersi fatte sentire.
Gira una frase di Beniamino Andreatta, il quale pare dicesse del suo pupillo: “Quando Enrico si trova davanti un problema lo accarezza”. Parole che descrivono bene il garbo, rispetto al quale sembra però giunta l’ora della mano pesante, visto il protrarsi della situazione economica e sociale italiana.

Soprattutto un segnale chiaro e forte si è avvertito quando mentre poche settimane fa il premier era ad Abu Dhabi per convincere gli investitori esteri che in Italia il peggio è passato e che adesso il paese si è messo di buona lena, il capo di Confindustria, Giorgio Squinzi, dalle telecamere di Lucia Annunziata ha detto che non va bene un tubo. E successivamente davanti ai suoi ha rincarato la dose: “Se ci date un paese normale vi facciamo vedere noi di cosa siamo capaci”.
Insomma, sono frasi che chiedono un deciso cambio di passo.

Più o meno la stessa lamentela espressa dalla Cgil di Susanna Camusso.
Che bisognasse premere il piede sull’acceleratore per un’azione più incisiva, ben oltre la linea ritenuta da tanti di galleggiamento, lo ha chiesto a Renzi anche la minoranza interna del suo partito, Cuperlo e compagnia, stanca che il Pd si sfibri sine die nel nome di una responsabilità nazionale, ma scontentando un elettorato scalpitante.

In questa pressione c’è anche il rovescio della medaglia. Se Matteo dovesse fallire sarebbe la sua fine politica e i rapporti di forza dentro il Pd tornerebbero contendibili.
Stessa cosa, più o meno, vale per il Cavaliere, il quale di fronte al disarcionamento di Letta non si è messo di traverso a priori.
Certo, qualche voce si è levata in nome del prolungamento del periodo di apnea delle istituzioni da legittimazione popolare e affinché la crisi sia parlamentarizzata, ma anche qui l’intenzione inconfessata è che, dato il livello altissimo di rischio, potrebbe farsi fuori da solo il più temibile competitor che in questo momento Berlusconi abbia di fronte sulla scena politica.

Esiste poi un motivo molto tecnico che spinge verso questa decisione.
C’è chi dice che il segretario Pd avrebbe potuto, visto che solo lui può imprimere velocità ad un sistema politico ingolfato, fare approvare in due e due quattro la nuova legge elettorale e poi andare ad elezioni per risolvere capra e cavoli: la sua legittimazione popolare, come ha sempre detto, e quella delle istituzioni troppo a lungo in astinenza da voto.

C’è un però in questo ragionamento. La nuova legge elettorale, l’Italicum, ha senso nel disegno renziano se parallelamente si cambia la Costituzione perché il Senato cessi di essere elettivo. Dato che la procedura di revisione costituzionale richiede almeno un annetto, se tutto fila liscio, cade di conseguenza la tesi del due e due quattro.

E non è finita. Diversi sussurrano che a primavera andranno in scadenza decine di incarichi ai vertici delle aziende pubbliche, tipo Enel, Finmeccanica ed Eni, il cui capo, Paolo Scaroni, si dice sia in ottimi rapporti con Renzi. Il fatto di essere in quel momento capo del governo cambia di molto le cose.

Infine, almeno in questo elenco, la questione Napolitano sollevata dal libro di Alan Friedman “Ammazziamo il gattopardo” (2014). Secondo l’analista finanziario del Corsera, dalla voce identica a Oliver Hardy di Stanlio e Ollio, il presidente della Repubblica avrebbe iniziato già dal giugno 2011, quindi ancora lontano dal famoso spread a 574, a sondare il terreno con Mario Monti per un avvicendamento a palazzo Chigi al posto di Berlusconi. Rivelazioni che destano vari allarmi: dal fatto che Napolitano abbia smentito tutto definendolo solo fumo, al fatto che dietro la manovra ci fossero alcune cancellerie europee (con il problema mica da poco della sovranità nazionale), a quello della democrazia messa a lungo in naftalina.

A parte coloro che continuano a gridare al golpe, gli stessi tra l’altro che hanno votato la rielezione (unico caso nella storia della Repubblica) di re Giorgio, ciò che molti hanno osservato è stato il timing dell’operazione sparata sui giornaloni italiani. La lettura diffusa data all’operazione, è che sia stato un segnale dato al capo dello Stato quale ultimo difensore di Enrico Letta, nel nome della stabilità.
Quindi un’altra manovra pro-Renzi.

Comunque sia, il segretario Pd ha ora su di sé tutta la responsabilità di non sbagliare e i rischi della forzatura sono altissimi. Il fatto che abbia voluto dare respiro alla sua azione fino alla scadenza naturale della legislatura, 2018, non lo mette al riparo da alcune scadenze che suonano inesorabilmente come primi difficili banchi di prova: le elezioni in Sardegna e le prossime europee di maggio.

Una cosa chiara è stata detta da Peter Gomez: se dovesse fallire, non ci sarà bisogno di consultare i sondaggisti per sapere che Grillo vincerà con il 51 per cento. In realtà le cose che dice sono due.
La prima è che Matteo Renzi si gioca l’osso del collo in questa rischiosissima partita a poker.
La seconda è che anche quelli che giocano sulla sua sconfitta non hanno da stare allegri.

La differenza è che in caso di perdita, non ci sarà Mike Bongiorno a dire: “Ahi, ahi, signora Longari”.

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Le merlettaie di Vologda

Un giorno dopo San Valentino, e uno prima della domenica dove solitamente si va al ballo, eccoci qua parlare di femminilità, di cipria e merletti, di ago e filo, capaci di ricamare sogni.
Sì perché, fra le tante cose belle che ci circondando, in attesa di vedere magari un bel balletto classico dedicato a Cinderella in qualche teatro moscovita (programma ancora da esplorare, magari c’è già in cartellone), ne abbiamo scoperta una davvero interessante. I merletti.

Siamo abituati a mettere in relazione il pizzo alla donna femminile ed elegante, leziosa e un po’ civettuola; talora vi vediamo sensualità, talaltra favole armoniose, sentimenti e sensibilità di principesse e damigelle chiuse nei loro castelli a ricamare alla luce di un raggio di sole che si insinua da finestre dalla forma oblunga, al ritmo di una candela che fiocamente illumina i telai.

Mani delicate accarezzano tele candide che, piano piano, prendono forma, al tocco leggero di agili dita che sfiorano cotoni e fili bianchi, per dare forma a farfalle, rami fioriti, petali.

Merletto deriva dal termine “merlo”, inteso proprio nel senso di elemento terminale a serie intervallate, a coda di rondine o a parallelepipedo, che orna la cima di un castello maestoso, come quello poc’anzi immaginato, che svetta su una rupe dalla quale si domina tutta la vallata coperta di rugiada. Cinto da merlate e maestose mura e da alte torri… qui delicate mani creavano, impazienti.

Intravediamo lontani scialli e veli che terminano in deliziosi pizzi, dame che quando volevano attirare l’attenzione di un uomo lasciavano cadere a terra il loro prezioso fazzolettino con un bellissimo bordo merlettato e, come di consueto, il cavaliere lo raccoglieva donandolo nuovamente alla bella dama sorridente, alla quale era per errore e per caso caduto di mano…

Da questi animi leggeri, sognatori e romantici, prendono vita ricami di ogni tipo, a partire dalla fine del XVI secolo, quando in Francia si producevano i pizzi Valenciennes o Chantilly. Attenzione però, il lino arrivava dalla Russia, dove abili tessitrici iniziarono presto a porre in crisi il primato francese, dando vita a creazioni sublimi che sarebbero state ribattezzate Valenciennes russi.

La tradizione della tessitura dei merletti nella Russia settentrionale risale al XVII secolo, quando numerose artigiane già producevano questi eterei tessuti con fili d’oro e d’argento. Le città di Vologda, Yelets, Ryazan’, Toržok e Novgorod divennero presto il centro di quest’arte.

La creatività stava nelle peculiarità delle figure, nell’utilizzo di tessuti colorati, nei nuovi tipi di nodi, sempre più originali. Con i merletti si decoravano poi gli interni, la biancheria da tavola, da bagno, da letto. Quanti corredi venivano preparati a mano e con cura, in vista di una futura e duratura unione che fosse benedetta da tanto candore e amore. E quanti asciugamani ricamati con iniziali orlate attentamente, rigorosamente a mano, e bordati di pizzi cadenti come salici.

Grazia, eleganza ed eterea delicatezza. Tutte racchiuse in Vologda, città della Russia occidentale, situata sul fiume omonimo, sovrastata dalla Cattedrale a cinque cupole di Santa Sofia, conosciuta come “la città dove si trova la resnoj palisad”, dalle parole di una nota canzone, ossia una palizzata in legno, che si trova davanti e ai due lati delle case, realizzata utilizzando la lavorazione dell’intaglio. Gli artigiani di Vologda erano famosi in tutto il Paese perché usavano il legno per costruire e decorare le case. Mezzanini, colonne, portici con decorazioni frontali intagliate a mano e balconcini ornati sembrano anch’essi pizzi delicati. Forse anche ad essi si erano ispirate le ricamatrici divenute famose. “La merlettaia di Vologda”, un marchio nazionale di fama mondiale, riscosse grande successo all’esibizione internazionale di Filadelfia del 1876 e a quella di Chicago del 1893. Alla fiera di Parigi del 1925 e a quella di Bruxelles del 1958, il marchio fu premiato con medaglie d’oro.

La maestria di queste artiste lascia davvero stupiti: i loro merletti sono intrecciati a mano su appositi cuscinetti di forma cilindrica, con l’aiuto dei koklyushka, piccoli fusi di legno sui quali sono avvolti i fili delicati. Il disegno del pizzo da riprodurre viene riportato su un apposito schema, e sviluppato individualmente da ogni artigiana. Figure geometriche, fiori, pesci, uccelli, cerbiatti, leoni. Ma anche creature fantastiche, sirene e unicorni, insieme a fenomeni naturali come l’aurora boreale. Sono questi i motivi decorativi più ricorrenti. Oltre a dame, cavalieri, contadini e contadine rappresentati nei caratteristici abiti e nelle kokoshniks (pettinatura tradizionale femminile russa portata con il sarafan, un abito semplice, dritto, senza maniche), i merletti riproducono anche immagini architettoniche, come chiese, ponti e palazzi.

Agli inizi del XX secolo, la produzione di merletti nella Russia settentrionale era affidata a circa quarantamila artigiane, che apprendevano la loro arte in un’apposita scuola o tramite un addestramento che le preparava alla lavorazione del merletto sin da bambine. A Vologda, l’8 marzo 1928, è stata fondata una scuola professionale del merletto. La fama delle ricamatrici cresceva. Esse divennero talmente rinomate da essere inserite, nel 2011, nel Libro dei record nazionali per la produzione più massiccia di merletti.  Numeri e qualità, abilità e competenza, cura e attenzione, fantasia ed estro, passione e dedizione. E tanto altro ancora.

Merletti, arte di vita e della vita. Saper ricamare una storia deve essere davvero meraviglioso.

La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno nella propria metà dell’esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il rovescio: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa vedere l’intreccio dei fili. (Arthur Schopenhauer)

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San Valentino in Russia? Meglio Petr e Fevronija…

Il tuo amore è sceso su di me come un dono divino, inatteso, improvviso, dopo tanta stanchezza e disperazione. (Fëdor Dostoevskij)

Oggi è il 14 febbraio, si festeggia un pò ovunque il giorno di San Valentino, la ricorrenza degli innamorati, delle loro tenerezze, dei loro baci, abbracci, parole dolci, sospiri, carezze.

Si celebra “un po’ ovunque”, dicevamo, perché non tutti possono farlo liberamente. Non è permesso in Arabia Saudita, dove è vietato da un’interpretazione restrittiva della legge islamica, in Iran, in Malesia, in Uzbekistan e a Belgorod, città sul fiume Donec, a circa 700 km a sud-ovest di Mosca. Qui, nel 2011, il Governatorato della provincia e la Chiesa ortodossa hanno emesso, di concerto, una “raccomandazione” a tutte le scuole e ai locali pubblici perché non si parli del giorno di san Valentino (indicazione, peraltro, estesa a Halloween). La festa degli innamorati è considerata una minaccia alla “sicurezza spirituale”, promotrice di promiscuità e di sensualità più ché di amore…

Qualcuno ha scritto che tale bando sarebbe riferito, piuttosto, al fatto che la festività è di origine “cattolica” e “contraria alla cultura russa”. Ma questo è legato alle sue stesse origini misteriose. Leggende e tradizioni popolari narrano dell’esistenza di almeno tre martiri cristiani dal nome Valentino; si sa, poi, che il culto di san Valentino (da Terni) fu istituito, nel 496 d.C. da Papa Gelasio I per sostituire i Lupercalia, festa pagana omaggio a fertilità, erotismo e amore carnale.

La pratica moderna di celebrazione della festa, invece, centrata sullo scambio di messaggi d’amore e regali fra innamorati, risale probabilmente all’alto Medioevo e potrebbe essere riconducibile al circolo di Geoffrey Chaucer in cui prese forma la tradizione dell’amor cortese. Ma il giorno di San Valentino s’iniziò a festeggiare diffusamente nel XIX secolo negli Stati Uniti, evento che divenne presto commerciale e volto a incoraggiare l’acquisto e lo scambio di regali.

Il giorno russo degli innamorati sarebbe ben altro, l’8 luglio. Ricorre quando la Chiesa russa festeggia la memoria dei santi Petr di Murom e Fevronija, da novizi Davide ed Efrosinia, protettori della felicità familiare, dell’amore e della fedeltà, portatori di valori di forte legame e complicità. I russi si sono innamorati di questa nuova festa, il cui simbolo è il delicato fiore di Camomilla (Romàshka), istituita nel 2008 per promuovere i valori della famiglia, e sempre più coppie vogliono legalizzare la propria unione in estate e non d’inverno. D’altronde in estate tutto sboccia.

Prima della rivoluzione, l’8 luglio era la festa del Principe Petr di Murom (città della regione di Vladimir, a 300 km da Mosca) e della sua sposa, Fevronija, divenuti più tardi santi e simbolo delle fedeltà coniugale. I due sposi vissero a Murom fra il XII e XIII secolo, e Petr aveva voluto sposare la giovane di umili natali, che l’aveva guarito dalla lebbra con un unguento speciale, nonostante i notabili della città fossero contrari. Questi ultimi cacciarono i coniugi dalla città, ma la punizione divina non tardò e, dopo aver chiesto loro perdono, li pregarono di tornare a governare. Petr e Fevronija si guadagnarono l’affetto del popolo con la loro saggia amministrazione, volta al sostegno di poveri e deboli. Fevronjia dedicò la sua vita alla cura degli infermi. In vecchiaia i due coniugi, di comune accordo, pronunciarono i voti e vissero separati nei rispettivi monasteri fino alla fine dei loro giorni, chiedendo a Dio la grazia di poter morire lo stesso giorno. La loro preghiera fu esaudita. Le spoglie dei due principi, deceduti entrambi l’8 luglio 1228, furono esposte separatamente in due diverse chiese della città, ma la mattina successiva le salme furono ritrovate miracolosamente insieme in una bara a due posti che i coniugi avevano fatto costruire ancora in vita. Miracolo dell’amore. Per questo, gli abitanti di Mouron hanno chiesto di far rinascere la tradizione, celebrando l’8 luglio come la festa di Famiglia, Amore e Fedeltà. E così fu, cosi è, dal 2008.

Ci sarà pure chi, a Mosca, festeggerà questo 14 Febbraio, partecipando a concerti, cene, feste o eventi, tipo il festival dei cuori del Parco Sokolniki, i balli mascherati del giardino Hermitage, il tradizionale lancio delle lanterne volanti alla metro VDNkh, la più grande cartolina di San Valentino della città siberiana di Tjumen’, oppure chi si scambierà fiori colorati, regali-peluche-cioccolatini a forma di cuore e teneri ricamati bigliettini; ma noi preferiamo rimandare il tutto all’8 luglio e, in quel momento, farci gentilmente chiamare Fevronija, almeno per un giorno.

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Vuoto per pieno: il capolavoro politico del poeta fiorentino

Considerazioni serie, semiserie e di… riconoscimento, a margine della Direzione del Pd.
1) Dopo la sciagurata invenzione della larghe intese con ‘questa’ destra italiana, l’eccezione (governo d’emergenza e a tempo…) diventa un ‘normale’ governo politico e di legislatura. Questo è il capolavoro politico del grande rottamatore e innovatore…
2) La Direzione Pd ha liquidato Letta senza dire una parola sui contenuti nuovi che dovrebbero sancire il passaggio dalla ‘crisi’ alla ripresa economica.
3) Molte e strampalate citazioni di poeti per coprire una ‘prosa miserabile’… Ma nessuno si è lasciato sfuggire la parola corruzione!
4) Continua la ‘normalizzazione’ del delinquente di Arcore. Dopo che Renzi lo ha resuscitato al ruolo di padre costituente, lo vedremo nei prossimi giorni guidare la delegazione di Forza Italia negli incontri di consultazione al Quirinale. E se questo nuovo governo, politicamente ‘indecente’, durerà fino al 2018, può darsi che la tragica-farsa italiana conosca un nuovo atto: Berlusconi, scontata la pena (si fa per dire…), si può ripresentare candidato…
5) Nessuna nostalgia per il mediocre ‘doroteo’ Enrico Letta; ma un riconoscimento per come se ne è andato lo merita. Se poi resisterà alle sirene di nuovi e subitanei incarichi per sanare il brutale sfratto: chapeau! Certamente (finora…) più dignitoso di alcuni suoi ministri fedelissimi già ben piazzati su una nuova poltrona….

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Rapporto sugli “sbilanci” delle famiglie

Secondo un’indagine condotta dalla Banca d’Italia sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane nel 2012, le condizioni economiche dichiarate dalle famiglie intervistate sono peggiorate. Nel Rapporto sui bilanci delle famiglie si legge che tra il 2010 e il 2012 il reddito familiare medio è calato in termini nominali del 7,3%, quello equivalente del 6%, mentre la ricchezza media è diminuita del 6,9%. Il reddito equivalente, una misura pro capite che tiene conto della dimensione e della struttura demografica della famiglia, è stato in media pari a circa 17.800 euro annui (1.500 euro al mese). L’indicatore è superiore per i laureati, i dirigenti e gli imprenditori (che percepiscono tra i 2.350 e i 2.700 euro al mese), mentre gli operai, i residenti nel Mezzogiorno e gli immigrati presentano valori medi inferiori (intorno ai 1.000 euro al mese). In una posizione intermedia si collocano gli impiegati, gli altri lavoratori autonomi e i pensionati (1.700-1.900 euro).

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Variazione storica delle tipologie delle famiglie italiane

Il deterioramento delle condizioni economiche in termini di reddito equivalente, si legge nel rapporto, “è stato più accentuato per i lavoratori indipendenti rispetto ai dipendenti e alle persone in condizione non professionale”. Il reddito equivalente “si è ridotto per tutte le classi di età, tranne che per gli over 64 anni, per i quali è rimasto invariato. Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente diminuisce significativamente rispetto alla media generale”.
Sono i giovani infatti i più penalizzati: negli ultimi vent’anni il reddito equivalente è calato di 15 punti percentuali nella fascia 19-35 anni e di circa 12 punti in quella 35-44. Sul versante della disoccupazione, secondo gli ultimi dati Istat del novembre 2013, a fronte di una disoccupazione generale del 12,7%, si registra un tasso record di disoccupazione giovanile del 41,6%, il massimo dall’inizio delle serie storiche, ovvero dal 1977.
In Italia non cresce solo la disoccupazione, ma anche la povertà. Nel nostro paese la quota di povertà è salita dal 14% del 2010 al 16% del 2012, e un povero su tre è immigrato. Bankitalia individua la soglia di povertà con un reddito di 7.678 euro netti l’anno, 15.300 euro per una famiglia di tre persone. Una famiglia su tre, continua l’indagine, non riesce ad arrivare a fine mese, ed “è diminuita la percentuale delle famiglie che segnalano che le proprie entrate sono del tutto sufficienti a coprire le spese” dal 39% del 2010 al 32,3% del 2012”.
Più del 12% degli occupati non riesce a vivere con lo stipendio che percepisce. In Europa, solo Romania e Grecia fanno peggio, con oltre il 14%. Ma l’Italia si presenta come il posto peggiore per chi ha perso il lavoro e ne cerca un altro. Le possibilità di trovare un’occupazione entro un anno si aggirano attorno al 14-15%, le più basse tra tutti i membri dell’UE.
Aumenta la povertà e aumentano anche le disuguaglianze. Sempre nel rapporto della Banca d’Italia si legge che il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% delle ricchezza netta familiare totale (45,7% nel 2010). A ciò si aggiunga che il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce il 2,4% del totale dei redditi prodotti, mentre il 10% di quelle con redditi più elevati percepisce una quota del reddito pari al 26,3%. Il dossier spiega che “l’aumento osservato nella disuguaglianza della ricchezza è in parte attribuibile al calo del valore delle abitazioni, che è risultato di maggiore intensità per le famiglie meno agiate.”
Le differenze sono anche regionali, e riflettono una spaccatura osservabile anche in altri settori: mentre il Centro e il Nord sono le due aree geografiche con la ricchezza mediana più alta, rispettivamente circa 216.000 e 150.000 euro, il Sud e le Isole si aggirano attorno ai 100.000 euro.
Anche l’Istat ha rilevato come il reddito disponibile delle famiglie italiane nel 2012 sia diminuito rispetto al 2011. Le regioni con le riduzioni più marcate sono la Valle d’Aosta e la Liguria (-2,8% in entrambe), seguite da Toscana (-2,3%), Lazio ed Emilia-Romagna (-2%). Se consideriamo invece il reddito disponibile per abitante, la nostra regione presenta un valore tra i più elevati a livello nazionale (21.039 euro contro una media italiana di 17.948 euro), ma passa dal secondo posto del 2009 al terzo del 2012, dopo la provincia autonoma di Bolzano e la Valle d’Aosta.

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Grazie al web la psicoanalisi diventa Pop

Sappiamo che il web è stato e continua ad essere dirompente in tutti o quasi gli ambiti della vita umana in cui s’insinua, ma il fatto che abbia rotto le rigide divisioni tra gli psicoanalisti ne è la conferma più eclatante. SpiWeb, sito della Società Psicoanalitica Italiana, è un sito vivacissimo e molto articolato che in poco tempo ha scalato le classifiche dei motori di ricerca, ha avvicinato e fatto dialogare sia psicoanalisti appartenenti a scuole diverse, sia addetti ai lavori e gente comune. Il sito presenta, infatti, alla sezione Dibattiti teorico-clinici / Prospettive a confronto, dibattiti aperti in cui si può intervenire direttamente: l’analista ferrarese può confrontarsi con il collega israeliano piuttosto che con l’australiano, e questo perché il sito sta avendo talmente tanto seguito che gran parte dei contenuti vengono tradotti in lingua inglese e francese. Ricche ed interessanti sono anche le vetrine di Cultura, Libri, Video con indicazioni utilissime per insegnanti e formatori di scuole di ogni ordine e grado, per educatori e operatori dei Servizi per le famiglie, Servizi per l’infanzia e Salute donna, o anche semplicemente per noi genitori costantemente preoccupati e ansiosi. Ma più di tutto colpisce la ricchezza della sezione Cinema, in cui oltre ad un’accurata rassegna di film completi di trailer, trama e recensione, si trova la particolare Versione dello psicoanalista che, a partire dalla pellicola, guida ad una riflessione su di sé; queste del cinema solo le pagine in assoluto più visitate, In Sala ha 12.000 accessi al mese!

SpiWeb nasce nel 2005 con un taglio molto istituzionale e una struttura organizzata per argomenti, in modo piuttosto rigido e accademico. Già nel 2009, con l’Esecutivo di Romolo Petrini, il sito si apre con l’intento programmatico di comunicare ad un pubblico più vasto, utilizzando il linguaggio della gente e i nuovi strumenti della comunicazione. Infine, nel 2013, il sito viene radicalmente rivoluzionato sotto la Direzione di Jones De Luca che rompe definitivamente ogni schema, superando la rigida divisione per argomenti e organizzando i contenuti come in un’enciclopedia, con un’attenzione particolare a rendere gli argomenti ricercati facilmente rintracciabili dai motori di ricerca, quelli specifici come quelli di interesse più comune. Al telefono la dottoressa De Luca racconta con entusiasmo la sua “creatura”, e spiega che il sito sta avendo un grandissimo impatto perché ha accettato la sfida delle nuove tecnologie: apertura al web con la possibilità di confronti tra specialisti on line, caricamento di contributi audio e video aggiornati; poi la creazione si Spipedia – Piccola enciclopedia aperta della psicoanalisi che si arricchisce nel tempo di nuove voci e di costanti contributi; e ancora, incontri con grandi personaggi della cultura, del pensiero, ma anche con registi, blogger, industriali, intervistati in modo particolare, chiedendo loro di raccontare i momenti difficili che hanno attraversato nella vita, facendone quindi emergere il lato umano. Le pagine dei Dossier, che contano un grande apporto di interventi femminili, affrontano temi delicatissimi come l’abuso del corpo della donna, i “brutti pensieri delle mamme”, spesso relegati nel ristretto ambito della cronaca, con l’intento di produrre una buona informazione su quella che è la salute mentale della popolazione.

La redazione di Spiweb si presenta come una straordinaria macchina per la comunicazione: il gruppo è ben nutrito e scopriamo con ulteriore sorpresa che, oltre alle figure classiche del comunicatore scientifico e di chi si occupa di Ricerca e Magazine, c’è l’addetto che si dedica all’Outreach  (Cinema, Facebook, Twitter, Linkedin, Eventi)  e l’addetto ai Video (Videointerviste, Psicoanalisi in video, Analisti con la cinepresa, Videoteca).

Il sito diventa straordinariamente all’avanguardia tanto da essere preso come modello addirittura dall’Ipa (International pshycoanalythical association) ossia dall’associazione che sovrasta il panorama internazionale della psicoanalisi e che, guarda caso, lo scorso agosto ha eletto a dirigere il proprio sito l’italianissimo Romolo Petrini alla guida di una Web task force che, come si legge in un recente comunicato ai propri associati, ha il primario obiettivo di sviluppare “a new, wide-reaching communication plan” ossia “un nuovo piano di comunicazione ad ampio raggio”, e aggiunge: “Noi desideriamo attivare e incoraggiare i membri a prendere parte attivamente alla vita istituzionale dellaAssociazione, utilizzando gli strumenti che il web offre”. In un’intervista a Rai Educational Filosofia, la De Luca racconta un fatto molto significativo: in occasione di un recente convegno internazionale, alla domanda “Cosa ne pensate delle sedute via Skype?”, la maggior parte degli psicoanalisti intervistati da Spiweb ha risposto “Dobbiamo studiare questo mezzo, la psicanalisi in rete la facciamo già!”. Con Spiweb si è quindi andati oltre ogni immaginabile evoluzione della rete, ed è già da un po’ che nell’ambiente ci si sta chiedendo: se Freud fosse vivo, avrebbe il profilo Facebook?

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Immaginare uno scenario futuro per Ferrara? Può essere utile sognare con Santa Barbara

Lo so, non è un bel tempo per sognare. Si deve essere brutalmente realistici per sopravvivere in questi anni di crisi a tutti i livelli. Ma può anche succedere il contrario, proprio oggi in cui è difficile trovare una porta d’uscita che ci conduca verso un mondo migliore (relativamente al nostro piccolo mondo), si può sognare di più, osare e abbracciare un’utopia… e poi si vedrà! Di questi tempi è da preferire l’uomo realistico, sobrio, razionale o l’uomo poetico, quello che cammina con la testa nelle nuvole? Chissà, ma la mia scelta è il sognatore, colui che sogna con passione ma sempre ad occhi aperti, come ha detto una volta Joseph Roth. Non si può mai fare qualcosa di concreto, senza un sogno che vada molto avanti, oltre la realtà spesso triste come quella odierna. Detto questo vorrei presentare al pubblico il mio sogno per il futuro di Ferrara. Il mio sogno ha avuto inizio con la visita alla Pinacoteca nazionale al Palazzo dei Diamanti, dove è esposto un quadro di Carlo Bonini (1569 – 1632) dal titolo Santa Barbara.
In primo piano c’è il ritratto della Santa che si staglia sullo sfondo di una campagna collinosa. Nel mezzo, tra Santa Barbara e la campagna, c’è un’impalcatura sulla quale sono ritratti alcuni lavoratori. A cosa stiano lavorando non è dato comprendere, ma mi è venuto spontaneo chiedermi: lo sguardo verso la stupenda campagna viene limitato da quella impalcatura, oppure questa resta inalterata nella sua bellezza? La bellezza dell’arte antica, il mondo di qua e di là dal muro, il Nuovo, una pittura ideale, costringe a riflettere sul passato e sul presente della città per affermare che il futuro, la speranza e da ultimo il sogno, vengono determinati anche dall’analisi critica del presente, come si può imparare da uno dei maggiori pensatori italiani, Giacomo Leopardi. In questo senso, muovo una prima piccola critica alla città di Ferrara: come mai Ferrara, che è strettamente correlata all’opera di Michelangelo Antonioni, uno dei grandi registi del XX secolo, gli abbia dedicato finora soltanto una piazzetta nascosta e la mostra allestita accuratamente proprio al Palazzo dei Diamanti lo scorso anno… bellissima e con una forte eco anche oltre il Po, ma poi non è rimasto nulla. Inspiegabile come mai un patrimonio culturale di questa portata sia stato così poco curato e valorizzato.
All’analisi critica del presente appartiene anche la considerazione di quanto poco venga sfruttato il gemellaggio di Ferrara con Sarajevo, con il loro patrimonio di potenzialità culturali. Forse nemmeno qualcuno dell’amministrazione comunale si ricorda di quell’amicizia ufficiale fra Ferrara e Sarajevo durante l’occupazione della città bosniaca negli anni novanta. A dire il vero, a me pare che questo gemellaggio sia a senso unico: la ricca Ferrara aiuta la povera Sarajevo! Perché Ferrara non può diventare un centro per lo scambio tra le culture italiana e balcanica? Ci sarebbe una lunga schiera di personalità bosniache da coinvolgere: artisti, scrittori, attori, musicisti e giornalisti che certamente arricchirebbero il livello culturale di Ferrara. Negli ultimi anni Sarajevo ha avuto un forte cambiamento culturale, nonostante una crisi sociale molto profondo e persistente. Ancora una critica propositiva volta a migliorare il futuro: come mai non esiste ad oggi un piano preciso per il Teatro Verdi? Perché, mi domando ogni giorno trovandomi vicino all’edifico ferrarese, vedo il cantiere del teatro, ma non mi risulta esistere alcun progetto su come dovrà essere utilizzato dal punto di vista artistico?
Forse il Teatro Verdi potrebbe essere il luogo adatto per istituzionalizzare un vecchio adesso purtroppo fallito progetto come l’ “Ater Forum”, che ha trovato un valido equilibrio tra tradizione e modernità realizzando così uno scambio, un interazione musicale tra moderno e classico, tra Frescobaldi, il jazz e la musica mondiale. Trovare un giusto equilibrio tra la passione per l’antico e la tradizione, il coraggio di rinnovarsi e di sperimentare, Ferrara un grande tesoro dell’ arte rinascimentale e allo stesso tempo un Cantiere per l’arte moderna, questo deve resta uno dei compiti dell’avanguardia culturale ferrarese.
Tutto aria fritta? Solo fumo, sognare nelle nuvole? Ma senza un’utopia, senza un sogno ad occhi aperti, non si può fare un primo passo per andare avanti. Tutto insieme, la bellezza che si trova a Ferrara in ogni vicolo, l’apertura curiosa verso il mondo e una cantiere permanente per nuovi progetti culturali – come si evince dal quadro del Bonini – questo sarebbe il sogno ferrarese di uno straniero con un piede fuori e un piede dentro la città. Ferrara ha ancora una forte potenzialità culturale da trovare e da curare. Per vederla talvolta si deve solo sognare a occhi aperti…