Assistenza alle vittime di mafia e controllo delle aziende sequestrate. Sono gli obiettivi principali dell’intesa firmata nei giorni scorsi da Camere di commercio regionali e associazione antimafia Libera. La collaborazione permetterà a entrambe le realtà di promuovere la cultura delle legalità nelle piccole e medie imprese dell’Emilia-Romagna.
Tra i progetti più rilevanti c’è ‘Sos giustizia’, uno sportello che assiste chi è vittima di mafia. Il servizio è gestito dall’associazione di don Luigi Ciotti, ed entrerà nel menu dei servizi offerti dalle Camere di commercio ai propri iscritti. Unioncamere invece darà una mano a Libera nel mappare e tenere aggionate le informazioni economiche delle aziende e dei beni sequestrati alla criminalità organizzata. Sarà insomma più semplice, da parte dei piccoli e medi imprenditori, ottenere i dati di gestione delle realtà produttive strappate al circuito mafioso. Per conto suo, Unioncamere ha anche elaborato un progetto per mettere a rete il lavoro degli sportelli legalità delle Camere provinciali. «Il rispetto della legalità costituisce un fattore fondamentale per lo sviluppo economico” commenta Alberto Roncarati presidente Unioncamere. «Il sistema camerale -prosegue- crede nella legalità come strumento per contrastare la concorrenza sleale, l’abusivismo, l’irregolarità, i fenomeni mafiosi».
Sebbene non sia considerata ‘terra di mafia’ l’Emilia-Romagna conosce il fenomeno dell’infiltrazione, che passa dal riciclaggio agli stupefacenti, all’estorsione. Secondo gli ultimi rapporti antimafia redatti dalle istituzioni regionali, sono stati oltre cento i beni confiscati in regione.
Mi capita sempre più di frequente di ricevere coppie di genitori che faticano a gestire la relazione con i figli e la loro crescita. Gli adulti, oggi, sembrano essersi smarriti nello stesso mare dove si perdono i figli, senza più alcuna distinzione generazionale.
Prevale il mito della giovinezza perenne, il culto dell’immaturità, che propone una felicità spensierata e priva di responsabilità. La solitudine delle nuove generazioni deriva dalla difficoltà degli adulti nel sostenere il loro ruolo educativo.
Ciò che constato, raccogliendo le storie dei genitori, è che nelle famiglie non c’è più conflitto tra legge e trasgressione, spesso tutto è concesso, senza limite. In casa, le porte delle stanze sono tutte aperte ad indicare, anche simbolicamente, l’assenza di confine, di separazione tra sé e l’altro. In questa mancanza di limite, le nuove generazioni si sentono lasciate cadere, abbandonate.
I genitori dovrebbero essere in grado di sopportare il conflitto e di rappresentare la differenza generazionale. L’omogeneità della famiglia moderna introduce un’omogeneità solo apparentemente priva di conflitti. I bambini sembrano essere equivalenti ai genitori, le madri alle figlie, i padri ai figli. Si assiste ad una confusione di ruoli, e quando uno dei componenti parla non è chiaro da che posizione lo faccia. L’autorità viene meno, si sgretola, portando come risultato quello di crescere giovani fragili, con personalità poco solide e che non sanno a quali punti di riferimento appigliarsi.
Un tempo il figlio faceva parte della famiglia sottomettendosi alla sua organizzazione gerarchica e alle sue leggi. Nel nostro tempo è esattamente il contrario: la famiglia subordina ogni scelta alle esigenze del dio bambino e alla sua volontà resa assoluta. Genitori che fanno decidere ai figli dove andare in vacanza, fine settimana tutti in funzione di ciò che è più piacevole e meglio per i bambini.
In questo modo i bambini e gli adolescenti non sperimentano le frustrazioni e quando poi, per cause di forza maggiore, la vita gliele pone davanti, non hanno gli strumenti giusti per farci i conti. Da qui anche i casi di suicidio, ad esempio in seguito ad una bocciatura scolastica o ad una delusione amorosa.
All’interno delle famiglie tutto si appiattisce in una parola vuota, che è una parola su tutto senza però che vi sia un’implicazione responsabile rispetto a ciò che si dice.
Una mia paziente parla così della madre: “Mi teneva in grembo sognando quali vestiti mettermi, e di che colore, e quali dei suoi sogni darmi in mano da realizzare. Nel suo bisogno di darmi in consegna ciò che le era mancato”. Ciò indica come la figlia possa essere vissuta come prolungamento narcisistico del genitore.
Un’altra paziente ben descrive il ruolo distorto assunto all’interno della propria famiglia e ciò che esso ha comportato per lei: “Io ero al posto di mia madre, per mio padre. Ed ero al posto di mio padre, per mia madre. Io ero quel giocattolo con cui si poteva finalmente raggiungere la soddisfazione. Quei buchi tra loro riempiti da me. Così mi sono trovata là, nel posto sbagliato, in un luogo sconosciuto, inospitale. Una mela a metà: una metà fatta del sogno di mia madre… quello di diventare il suo riscatto… e una metà fatta di lui, del sogno di restare la sua bambina… che lo avrebbe servito, amato, ascoltato, capito… Lo avrebbe soddisfatto, divenendo la donna che non aveva mai avuto. E’ in questo punto doloroso che l’amore ferisce. E’ la potenza devastante del troppo. Il troppo amore di una madre affamata. Il troppo amore di un padre e il suo desiderio. Una figlia in mezzo. Un amore che chiede in cambio una vita. Sono stata al loro gioco, non sono stata capace di liberarmi”.
Se i genitori sono confusivi, se trasmettono messaggi ambigui e contraddittori, i figli risulteranno spaesati e avranno difficoltà a distinguere tra sé e l’altro e ad avere confini definiti.
La famiglia che funziona meglio non è la famiglia che nutre con la pappa giusta, seguendo un manuale del giusto genitore. E’ la famiglia che sa nutrire e sostenere il desiderio dei figli.
Come si nutre il desiderio? Non con le prediche, la pedagogia, i discorsi, ma con la testimonianza, dando il buon esempio. Coltivando le proprie passioni. Mostrando che si può vivere in questo tempo anche senza impazzire, senza volersi suicidare, ma vivendo la propria vita e facendola fruttare.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
Lo guardano da lontano. Con sospetto e timore. Soprattutto dalle marinerie della costa emiliano romagnola, quelle a sud di Porto Viro, dove 15 chilometri al largo opera il rigassificatore di Adriatic Lng, società formata da Qatar Petroleum, ExxonMobil e Edison, tre colossi dell’energia rispettivamente detentori del 22, 71 e 7 per cento delle azioni.
Un fatturato di oltre 200 milioni annui L’impianto, operativo dal 2009, impiega 125 persone, il 60 per cento delle quali venete, e copre il 10 per cento del fabbisogno di metano in Italia con una produzione annua di 8 miliardi di metri cubi. E un fatturato superiore ai 200 milioni di euro l’anno. L’attività del terminal rappresenta una fonte di approvvigionamento energetico di importanza strategica per tutto il nord. E il suo insediamento è stato salutato da un fondo di 12 milioni di euro per riscattare le differenti fasi di stress ambientali e contribuire allo sviluppo del Polesine, dove l’azienda ha investito ulteriori 250 milioni di euro attraverso la stipula di contratti con imprese e fornitori locali. L’ammontare della somma del fondo è stata stabilita con un accordo del 2008 tra Adriatic Lng, Provincia di Rovigo e Consorzio di Sviluppo del Polesine (ConSviPo) formato da Comuni, associazioni di categoria e enti.
Un’isola di cemento alta 10 piani in mezzo al mare, al largo del Parco del Delta Da quattro anni l’isola di cemento armato e acciaio, alta come un palazzo di 10 piani, adagiata sui bassi fondali di un mare semichiuso e particolarmente atrofizzato come quello che incrocia il delta del Po, lavora a pieno ritmo. A pochi chilometri dal parco disteso tra due regioni, in un gioco di lagune, lingue di sabbia e spiagge. L’impianto, forte di un mix di tecnologie di ultima generazione, utilizza un procedimento industriale a ciclo aperto: significa che usa il calore dell’acqua di mare per riscaldare il gas, trasformandolo da liquido in aereo, e poi restituisce l’acqua al mare.
Da quando si pesca meno pesce, cosa comune a gran parte dell’Adriatico stando al rapporto 2012 del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, la domanda che si rincorre lungo le banchine è sempre la stessa. ‘E’ colpa del rigassificatore?’. Ad escluderlo è il piano di monitoraggio dell’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale approvato dal Ministero dell’Ambiente per testare le reazioni dell’habitat all’attività dell’impianto.
“Un’alterazione dell’ecosistema”
I pescatori dell’Emilia Romagna però vorrebbero un supplemento di indagine. Più a sud e con maggiori elementi di ricerca. Nella speranza di scongiurare quanto sostiene lo studio del comitato scientifico del Wwf di Trieste da qualche tempo al vaglio dell’Europa. ‘L’acqua di mare impiegata nel processo di rigassificazione negli impianti a circuito aperto viene restituita praticamente sterile, inutilizzabile per i servizi ecosistemici che rende all’ambiente’, si legge nello studio curato da Livio Poldini, Marco Costantini, Maurizio Fermeglia, Carlo Franzosini, Fabio Gemiti. Michele Giani e Dario Predonzan. ‘Si ha la perdita quasi totale delle forme di vita veicolate dall’acqua, uova, larve e avannotti, organismi planctonici e si induce artificialmente la selezione di quelle forme batteriche resistenti al processo di clorazione, che formano biofilm sulla superficie dell’acqua’, sostengono nella ricerca.
I pescatori sono in allarme
E’ un campanello d’allarme difficile da ignorare a fronte del trend decrescente di catture e ricavi dei pescatori per i quali le giornate di attività dal 2004 a oggi sono calate del 20 per cento. In Veneto e Emilia-Romagna, che vantano entrambe un giro d’affari annuale attestato sui 53 milioni di euro, la flotta è composta complessivamente da 1.442 imbarcazioni di vario tipo e ognuna ha perso mediamente una tonnellata di pescato passando da una media di 16 a 15. Sul versante Veneto è stata verificata una variazione nella composizione del pescato di cui si è parlato a fine agosto in un incontro tra pescatori organizzato a Chioggia al termine del fermo pesca. I tecnici dell’Ispra, Otello Giovanardi e Sasa Raichevich, hanno illustrato lo stato di salute delle risorse ittiche basandosi sui risultati di due campagne di pesca sperimentale a strascico promosse dal ministero delle Politiche agricole per tracciare la futura gestione della pesca.
Quattro gradi in più sul fondo marino, schiume giallastre e la magistratura indaga
Dalla ricerca è emerso come le catture del 2012 non si discostino di molto da quelle del 2011, almeno per quanto riguarda le specie più frequentemente imprigionate nelle reti. Se la presenza di barbone, seppie e canocchie è più o meno stabile, quella del molo è certamente calata. I due tecnici hanno descritto uno scenario ambientale diverso, con temperature più alte di 4 gradi sul fondo marino e una variazione verso l’alto della salinità. Mutamenti sotto osservazione, che disorientano il mondo della pesca. E mentre aumenta la preoccupazione nelle marinerie, il tribunale di Rovigo si prepara all’udienza filtro del 12 marzo, che vede due dirigenti di Adriatic Lng imputati di danneggiamento ambientale aggravato. Il sostituto procuratore Sabrina Duò contesta più episodi legati alla comparsa di abbondanti schiume giallognole, che nel 2010 hanno galleggiato sull’acqua in periodi differenti.
La schiuma è una spina nel fianco di Adriatic, che nel 2009 ne aveva segnalato a Ispra la formazione in seguito allo scarico delle acque di scambio termico del rigassificatore. Nel 2012 è poi arrivato un esposto di Eddy Boschetti presidente del Wwf di Rovigo relativo alla comparsa di una coltre bianca viscida e ghiacciata sulla spiaggia di Boccasette, nel comune di Porto Tolle, che ha gettato un sospetto sull’impianto. Nell’occasione, la società escluse ogni tipo di responsabilità, posizione tuttora sostenuta.
Il caso finisce in Parlamento
Tutto sta nei giochi per Boschetti, che ha le idee chiare: ‘In casi come questi non esiste un interlocutore diverso dal ministero, dobbiamo poterci appoggiare alla legge – dice – E’ ovvio che se ci sono maglie normative larghe, il privato interessato soprattutto al profitto cerca di sfruttarle nel proprio interesse. Sono le istituzioni a dover mantenere l’equilibrio in tutta la vicenda’. All’indomani dei galleggiamenti di schiuma Maurizio Conte, assessore regionale all’Ambiente del Veneto, scrisse all’ex ministro Corrado Clini per chiedere un tavolo di confronto sul fenomeno e, negli stessi giorni, a Roma, la deputata radicale Elisabetta Zamparuti presentò un’interrogazione a ben tre ministeri: Ambiente, Sviluppo economico e Agricoltura. La richiesta: chiarire la natura del fenomeno, conoscere le analisi di Ispra, valutare la possibilità di approfondirle indagando su cloro derivati organici e aloderivati. E di considerare l’opportunità di cambiare la lavorazione dell’impianto gasiero trasformandola da ciclo aperto in chiuso. Tutte cose importanti, aveva sostenuto la radicale, per scongiurare il rischio di danneggiare l’ecosistema marino creando danni all’economia costiera.
Anche la Commissione europea è allertata
Il tema del rigassificatore è approdato di recente anche in Europa per via delle interrogazioni dell’eurodeputato di Alde (Alliance for liberals and democrats for Europe) Andrea Zannoni membro della commissione Envi Ambiente, Sanità Pubblica e Sicurezza Alimentare al parlamento europeo. ‘Il timore è che rappresenti una minaccia per l’ecosistema marino e che sia la causa della recente strana moria di delfini e tartarughe trovati sulle spiagge romagnole – dice – In mancanza di studi comunitari sugli effetti dei rigassificatori, ho fornito alla Commissione europea lo studio del Wwf di Trieste perché possa far luce sull’impatto della lavorazione del ciclo aperto sull’ecosisistema marino. Può essere un modo per evitare eventuali disastri naturali e pericoli per le comunità costiere’. Intanto la Croazia, ricorda il parlamentare, nonostante avesse approvato un impianto con utilizzo di acqua di mare a Velia (Krk) ha fatto marcia indietro autorizzando la lavorazione a ciclo chiuso.
“Danni al turismo”: deciderà il tribunale di Rovigo
La vicenda è ‘glocal’, tanto locale quanto globale come testimonia il procedimento penale in corso, nel quale le associazioni ambientaliste, ma non sono le uniche, potrebbero chiedere di costituirsi parte civile nel processo Adriatic. ‘Abbiamo tempi molto stretti – dice l’avvocato Matteo Ceruti, conosciuto per l’impegno in difesa dell’ambiente – ma stiamo vagliando la possibilità di intervenire’. Per parte sua il giudice Duò ritiene il processo un’esperienza in divenire. ‘Ho contestato un danneggiamento aggravato anche pensando alla vocazione turistica del territorio’, spiega il magistrato, che si avvale della consulenza del dottor Giuseppe Perin dell’Università di Venezia. ‘Non dimentichiamo che gli episodi sono avvenuti al largo di spiagge frequentate dai bagnanti’. Le schiume, quando arrivano a lambire la costa possono compromettere la balneazione. Ma c’è di più. L’azione meccanica del rigassificatore oltre a scatenare la spuma nella quale, specifica la Duò, ‘non sono presenti inquinanti chimici’ agirebbe sul processo di fotosintesi e modificherebbe le cellule presenti nei microrganismi dell’acqua.
“Un impianto concepito per spazi oceanici”
‘Non credo che Adriatic si aspettasse una tale quantità di schiuma – dice il biologo marino Carlo Franzosini del comitato scientifico del Wwf di Trieste – L’impianto è stato concepito in America, è pensato per spazi oceanici, dove il contenuto organico è maggiormente diluito rispetto alle concentrazioni presenti nel mare Adriatico, che nel subire l’azione meccanica provocano una reazione eccessiva rispetto alle aspettative della società’.
Il terminal ha caratteristiche uniche al mondo
Il terminal, unico in tutto il mondo, lungo 180 metri largo 88 e alto 47, immerso in 29 metri di profondità, è collegato da 40 chilometri di metanodotto alla stazione di misura di Cavarzere da dove il gas, correndo per 84 chilometri lungo una condotta realizzata da Snam Progetti, raggiunge l’impianto di stoccaggio di metano più grande del nord Italia. La gigantesca struttura ha avuto la prima Autorizzazione Integrata Ambientale nel 2009, una certificazione triennale in scadenza nel 2015 per la quale Adriatic ha già avviato la richiesta di rinnovo per continuare un’attività che ha portato ad immettere nella rete nazionale dei gasdotti 26 miliardi di metri cubi di metano. Finora hanno attraccato al terminal 310 navi gasiere provenienti principalmente dal Qatar ma anche da altri Paesi. Ogni singolo carico trasformato dallo stato liquido a gassoso con l’ausilio del calore dell’acqua di mare contribuisce a diversificare le fonti energetiche. Va da sé l’assottigliarsi della dipendenza energetica del nostro Paese da altre nazioni.
Struttura strategica per l’Italia e l’Europa
‘La struttura è considerata strategica nell’approvvigionamento energetico italiano e comunitario’, spiega il responsabile delle relazioni esterne della società Alessandro Carlesimo. L’impianto, visitato in dicembre dall’ex ministro delle Sviluppo economico Flavio Zanonato, è stato però oggetto di un sollecito al ministero dell’Ambiente da parte dell’assessore regionale all’Agricoltura dell’Emilia Romagna, Tiberio Rabboni, a cui i pescatori si sono rivolti per avere maggiori ragguagli sugli effetti dell’attività di Adriatic Lng sul mare. E, soprattutto, sugli stock ittici.
Com’è finita? Nessuna risposta per il momento. Né ai pescatori né alle nostre ripetute telefonate. L’unica cosa certa è l’incontro a porte chiuse tra l’assessore e Adriatic Lng di cui nulla si sa di ufficiale. Eppure i tanto attesi dati del monitoraggio Ispra, sui quali si sarebbe dovuto ragionare con l’assessorato, sono pubblicati sul sito della Provincia di Rovigo. ‘Da quelle risultanze si riscontra un ammanco di uova di pesce – dice Franzosini – Manca poi uno studio specifico del comparto dei pelagi comunemente conosciuti come pesce azzurro’.
“La pesca è in calo da quattro anni”
‘Sono quattro anni che le catture dei pesci sono calate – racconta Mario Drudi della cooperativa Casa del Pescatore di Cesenatico – Il dilatarsi del fermo pesca, la diminuzione delle giornate di lavoro, la proibizione di praticare lo strascico sotto le tre miglia non hanno portato alcun miglioramento. La causa non può essere attribuita all’eccessivo sforzo di pesca come si cerca di far credere. Bisogna indagare a 360 gradi, sarebbe opportuno ampliare il monitoraggio’. Il terminal, al pari di molti impianti industriali off shore, ricorda Sergio Caselli, responsabile di Lega Pesca Emilia-Romagna ha tolto miglia di mare ai pescatori di qua e di là dal Po e alle colture di mitili del rodigino. Il restringersi del campo d’azione ha colpito anche le marinerie emiliano-romagnole autorizzate a gettare le reti nei comparti confinanti, ma escluse dal piano di compensazioni del Polesine.
“Vogliamo capire se ci sono fenomeni inquinanti, ma l’osservatorio promesso non c’è”
Dei 12 milioni gestiti da ConSvipo, solo 2 milioni e 450 mila euro sono riservati al cofinanziamento di progetti di pesca professionale. ‘Non ho mai apprezzato l’accordo, avrei preferito negoziazioni più trasparenti che non fossero frutto di trattative private. Le nostre marinerie spendono milioni per il marchio di qualità, se succede qualcosa all’habitat chi le ripaga?’, dice Luigino Pelà di Lega Pesca Veneto. ‘Mi dispiace non sia stata rispettata quella parte del protocollo nella quale era prevista la creazione di un osservatorio della pesca, che ci permettesse una condivisione maggiore dei dati sui quali oggi non abbiamo un controllo diretto – continua – Il monitoraggio Ispra è difficilmente traducibile noi vogliamo capire se ci sono inquinanti, se l’ecosistema è cambiato. Se ci sono specie che oggi prevalgono su altre, sapere se ci sono problemi e quali in modo da pianificare in anticipo le nostre attività e trovare eventuali alternative per diversificarle’. E ancora: ‘A cosa servono le analisi fatte così? Ci costringono a navigare a vista. Avevamo chiesto in sede nazionale un’interazione con i nostri istituti di ricerca, ma non c’è stato seguito. Purtroppo paghiamo scelte politiche e strategiche, che non tengono conto dell’area dove ci troviamo’.
“Le responsabilità del rigassificatore sono tutte da verificare”
‘Negli ultimi 10 anni lo sforzo di pesca è diminuito del 30 per cento, interrogarsi sul motivo del calo quantitativo e qualitativo degli stock ittici è più che lecito e la risposta – dice Sergio Caselli – può venire solo da un maggior approfondimento scientifico con parametri più ampi, che riguardino anche un’estensione a sud dell’area campionata’. Dello stesso parere Vadis Paesanti, presidente emiliano romagnolo di Federcoopesca, che aggiunge altri elementi di riflessione sul diradarsi del pesce: ‘La questione trascende i confini regionali, siamo coinvolti in modo diretto insieme ai nostri 2mila addetti ai lavori. Tutti in difficoltà – spiega -. L’approfondimento è importante, come lo sono anche le valutazioni su esperimenti di salvaguardia messi in atto senza tener conto dell’esperienza dei pescatori. Si è pensato di difendere l’ecosistema vietando lo strascico sotto le tre miglia, in realtà nel delta del Po, l’utilizzo di quel metodo bonificava i fondali da un eccesso di limo. Era utile per la tenuta a regime dell’habitat’.
Giuliano Zanellato, presidente della cooperativa di Pilamare fondata nel 2009, una flotta di 13 pescherecci specializzata nella pesca del pesce azzurro, non fa mistero della necessità di ottenere un’operazione di maggior chiarezza nell’illustrazione dei dati dei campionamenti. ‘Che ci sia meno pesce è una realtà, ma non abbiamo dati scientifici per imputarne il calo al rigassificatore – dice – Certo mi sentirei più tranquillo se la Regione mi garantisse, attraverso l’impegno della multinazionale, una somma adeguata per formare una squadra di tecnici di fiducia delle cooperative a cui affidarci’. La Regione, a sua detta, ha guadagnato ben poco dell’insediamento del terminal la cui presenza è stata ripagata con il fondo gestito dal ConSviPo. ‘Dodici milioni complessivi sono briciole – conclude – Alla pesca hanno interdetto miglia di mare. Mi chiedo cosa accadrà quando la Provincia, così come la conosciamo, non ci sarà più e decadrà anche il Consorzio di Sviluppo, che si occupa dei rapporti con Adriatic. E’ bene che sia la Regione a gestire l’intera situazione’.
La fragilità del delta del Po, del mare nel quale i suoi rami si tuffano e l’accelerazione dei cambiamenti climatici sui quali si concentra l’attenzione dell’Europa, sono difficili da mantenere in equilibrio. Possono convivere gli interessi energetici con quelli economici di un comparto costiero tradizionale come la pesca e le esigenze ambientali del vicinissimo patrimonio Unesco, il Parco del Delta del Po, separato dal fiume che ne detta i confini amministrativi? In Emilia Romagna l’articolo 3 della legge regionale 24 del 23 dicembre 2011 parla chiaro. ‘L’ente deve inoltrarsi per 10 chilometri in mare nell’interesse della tutela dell’ambiente’, dice Lucilla Previati direttore del versante a sud del Parco. ‘E’ il motivo per il quale sono favorevole a un monitoraggio approfondito’.
Gentile Assessore Fusari,
in primo luogo le chiedo scusa per la mia uscita anticipata dalla sala ove lei ha avuto la cortesia di illustrare ai soci della sezione ferrarese di Italia Nostra alcune delle valutazioni che l’Amministrazione Comunale ha compiuto circa la possibilità di utilizzo delle Caserme Pozzuolo del Friuli e Bevilacqua. Un familiare veniva quella mattina dimesso da una clinica, ove era ricoverato, e dovevo andarlo a prendere.
Ho ascoltato con grande attenzione la sua relazione e le sono grato per la chiarezza con la quale ha illustrato alcune opzioni.
Nel mio intervento, da privato cittadino quale sono, e ora con questa lettera, le chiedo ne vengano valutate anche altre, possibili e, mi pare, non minori né indegne.
Certo per ristrettezza di tempi lei ha parlato della vicinanza di Schifanoia alla Caserma Pozzuolo del Friuli solo come un dato topografico. Ma, forse, il senso della presenza andava comunque indicato.
Lei sa bene che non esiste a Ferrara un ‘sistema musei’, auspicato dalla legislazione regionale, richiesto dalle associazioni cittadine, presente e funzionante in altre città della regione. Ferrara, la cui eccezionalità è stata riconosciuta dall’Unesco, ha, paradossalmente, poco investito sul proprio patrimonio ed ha preferito scelte diverse.
Credo che valorizzare la città, sia sotto l’aspetto urbanistico che per le testimonianze che sopravvivono dal XIV al XX secolo, sia un impegno che deve essere assunto. Lo penso come atto politico, non per un generico e, se fosse così, futile credere in una funzione salvifica della cultura, con un uso deviante e sterilmente autoconsolatorio del termine.
Trasportato in termini concreti e in tempi credibili sono convinto che la capacità attraente della città sarebbe sicuramente accresciuta se di fianco alle iniziative espositive e musicali e alle altre occasioni vi fosse una rete museale integrata in percorsi cittadini, funzionante ed efficiente.
Oggi così non è, come lei da amministratore sa. Manca collaborazione fra le istituzioni, sono quasi del tutto assenti i servizi, manca, a completare il quadro, il Museo della città.
Faccio alcuni esempi: mancano quasi del tutto le guide ai musei, manca una editoria specifica, non esiste una biblioteca, la fototeca è congelata, il rapporto con l’università è quasi assente, le associazioni stentano a presentare progetti comuni, l’amministrazione fatica a fare discorsi di lungo periodo o, almeno, a renderli noti.
L’area della Caserma Pozzuolo del Friuli potrebbe, a mio parere dovrebbe, essere destinata al Museo della Città: il Museo del vivere quotidiano, nella città attraverso i secoli, che raccolga le testimonianze del lavoro, della religiosità, della organizzazione del governo pubblico, della vita e della morte.
Un concorso di idee, per la sistemazione dell’area, metterebbe Ferrara al centro di un dibattito che coinvolgerebbe non solo i ferraresi.
Un ultimo esempio concreto è l’utilizzo della ‘cavallerizza’. Se vogliamo, come dovremmo, che i visitatori ritornino ai musei bisogna creare occasioni e strutture. Schifanoia come gli altri in città ha nei depositi ricche testimonianze ed opere che non vengono esposte per mancanza di spazi. La cavallerizza potrebbe, dovrebbe a mio parere, essere la sede per mostre temporanee organizzate dal museo, in prevalenza con propri materiali, la sala, polivalente, potrebbe, dovrebbe, essere utilizzata anche per convegni, conferenze.
Mi scusi di nuovo per l’assenza e per il poco di tempo che le ho portato via. Mi aspetto che questi temi vengano, da lei, dal Sindaco, dagli amministratori, considerati e valutati come possibili. Mi aspetto, da cittadino, una risposta e una indicazione.
Posso auspicare che questo possa avvenire ? Non senta come una provocazione il dono degli atti del convegno sui musei, mi creda.
Ranieri Varese
Ferrara 27 gennaio 2014
Quando Matteo Renzi, neo primo ministro, declama nel suo discorso di investitura che la situazione “richiede un cambio radicale delle politiche economiche”, verrebbe voglia non solo di applaudire, ma di alzarsi in piedi.
Finalmente, caspita! Possibile che nessuno prima abbia ancora avuto il coraggio di dire chiaramente questa verità così palese?
Poi, però, compare nella mente l’immagine della nuova ministra allo Sviluppo economico, Federica Guidi, cioè colei che dovrebbe dare gambe e concretezza a questo cambiamento radicale, nota esponente della parte più retriva del padronato industriale italiano, e l’entusiasmo si affievolisce rapidamente.
Stessa cosa quando viene indicato uno dei pochi impegni chiari e precisi di tutto il discorso: ridurre di 10 punti il cuneo fiscale sul lavoro. Prima reazione: sarebbe bellissimo! Ma, dopo qualche secondo: dove cavolo si prendono i 34 miliardi di euro necessari ad ottenere questo risultato?
Alla fine, prevale la sensazione di aver ascoltato un abile esercizio oratorio, che però risulta difficile catalogare come un vero discorso programmatico, essendo i pochi punti chiari enunciati in proposito (edilizia scolastica, pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, fondo di garanzia per le piccole e medie imprese) già presenti nel programma del governo Letta, appena destituito.
A proposito, continuano a rimanere senza risposta un paio di interrogativi non banali: perché questa repentina sostituzione, dopo averla tanto a lungo negata? Perché, e in base a che cosa il governo Renzi dovrebbe riuscire, pur con la stessa maggioranza che lo sostiene, là dove Letta ha fallito? Chi aveva pensato (sperato) che la risposta stesse in qualche geniale trovata o innovazione programmatica, è rimasto deluso, almeno fino ad ora.
L’unico fatto concreto consiste per il momento in una conquista del governo, avvenuta calpestando il proprio rivale e infischiandosene della coerenza con le proprie dichiarazioni rese appena poche ore prima.
Un fatto non marginale, perché quando, come oggi, ogni forma di rappresentanza, sociale o politica che sia, vive una crisi profonda, la coerenza dei comportamenti e quella tra le dichiarazioni e i fatti diventa assolutamente fondamentale, per la tenuta e la residua credibilità delle istituzioni democratiche.
In questi anni, in cui ho incontrato molte persone ed ho parlato con tanti genitori, mi sono accorto che non è facile far capire cosa sta succedendo alla scuola pubblica italiana.
Nonostante i tagli al personale siano stati macroscopici, nonostante la sottrazione di risorse sia stata smisurata, nonostante lo svilimento del ruolo del personale continui ad essere enorme, risulta comunque complicato spiegare la trasformazione a cui sta andando incontro la nostra scuola.
Per provare a far capire la differenza fra una scuola “essenziale” (così come la vuole chi, dopo aver tagliato, continua a togliere risorse anche al Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa) ed una scuola “arricchita” (così come serve per attuare un Piano serio per l’Offerta Formativa) ho deciso di provarci in un altro modo.
Se siete interessati, potete seguirmi… in cucina.
Per preparare un buon primo piatto, c’è bisogno di una pentola, di un fornello, di acqua, di sale e naturalmente di pasta.
Di solito possiamo averne a disposizione diversi tipi: rigatoni, tagliatelle, spaghetti, fusilli, maccheroni, ravioli, fettuccine, lasagne, agnolotti e molti altri ancora, apparentemente uguali, chiusi nella loro bella confezione, confusi fra il bisogno di star al sicuro e la voglia di uscir fuori nel mondo.
Avete mai notato come è buffo quando si apre una scatola di fusilli e ci si trova dentro un maccherone?
Verrebbe da toglierlo per metterlo da parte ma poi scappa da pensare che sia meglio lasciarlo in mezzo agli altri perché la sua presenza diventi una specie di tesoro che possa rendere speciale quell’insieme.
Sarete d’accordo con me che la pentola dovrà essere grande per poter accogliere nel modo giusto il quantitativo di pasta.
Anche l’intensità del calore diventa importante perché, se non è abbastanza, la pasta non è mai pronta ma se, per velocizzare i tempi, lo si alza troppo si rischia di farle perdere una parte importante dei suoi nutrienti.
Dopo l’opportuno tempo di cottura, che varia a seconda del tipo di pasta, si può ottenere un piatto che per unico sapore avrà quello della pasta stessa.
Per chi ha molta fame può andar bene, ma di certo l’offerta sarà essenziale.
Perché il primo piatto sia un po’ più saporito c’è bisogno di aggiungere almeno un po’ di olio o di burro, magari una grattugiata di formaggio.
Ma anche in questo modo non si otterrà un piatto gustoso; si avrà piuttosto un servizio di caratteristiche simili a quelle di un menu ospedaliero.
Per chi ha bisogno di guarire può andar bene, ma di certo l’offerta sarà simile ad un modesto ricostituente.
Se invece vogliamo che il primo piatto sia davvero appetitoso e desideriamo esaltarne le caratteristiche è necessario abbinare i condimenti adatti.
A chi ha un po’ di esperienza risulta evidente che non tutti i condimenti vanno bene per condire lo stesso tipo di pasta.
Ad esempio si possono mangiare i ravioli aglio, olio e peperoncino o ancora gli spaghetti burro e salvia ma non avranno mai il sapore superlativo che si può ottenere creando il giusto contesto; solo allora gli spaghetti insieme all’aglio, all’olio e al peperoncino troveranno la loro vera dimensione; oppure solo quando i ravioli conosceranno il burro e la salvia riusciranno ad esprimere a pieno il loro carattere.
Occorre quindi impegnarsi per conoscere bene i vari tipi di pasta in modo da assegnare il giusto condimento che riesca ad esaltarla.
Per chi ha voglia di gustare sapori di vario tipo va più che bene, e di certo l’offerta è soddisfacente.
Ma se vogliamo che il sapore della pasta si sviluppi completamente, bisogna anche valutare attentamente sia la qualità dei condimenti che l’eventuale aggiunta di altri ingredienti.
Molte persone che non hanno il tempo (o la voglia) di cucinare, leggono sui ricettari quali sono i condimenti più adatti e poi li vanno a comprare già fatti al supermercato.
Spero siate d’accordo con me se affermo che non è la stessa cosa: quelli comperati non hanno la stessa intensità rispetto a quelli studiati, adattati, amalgamati, preparati appositamente nell’ambiente della cucina.
Ogni condimento infatti richiede molta attenzione nella sua preparazione perché il successivo abbinamento con la pasta diventerà determinante.
Inoltre il modo di unire o di dividere, i mezzi usati ed il clima che imposta il cuoco caratterizzano il modo di intendere la cucina che esso ha: infatti può essere un posto simile ad un fast food, un luogo dove si mangia per sfamarsi, un sito dove si scarta più di quello che si mangia, uno spazio in cui si propongono ricette preconfezionate, un ambiente dove si preparano gli alimenti per una nutrizione bilanciata o ancora un contesto dove si impara insieme che è importante non solo mangiare ma anche cosa, quanto, come, dove e perché ci si nutre.
È necessario perciò che i condimenti e gli abbinamenti siano il più possibile calibrati proprio per quel tipo di pasta in quella determinata stagione.
Di sicuro è molto comodo cucinare usando i condimenti già pronti ma, è del tutto naturale che, il risultato finale non potrà mai essere paragonato alla stessa sinfonia di sapori che si ottiene con un condimento adattato alle caratteristiche specifiche di quel tipo di pasta.
In tutto questo il ruolo del cuoco o della cuoca è fondamentale: potrebbero esserci materie prime di qualità e condimenti saporitissimi ma se il cuoco non è in grado di valorizzare la pasta, di rispettare i tempi, di organizzare la cucina, di fare le giuste proporzioni, di creare un’armonia perfetta, c’è il rischio che buona parte del lavoro sia buttato al vento.
Anche l’ambiente in cui tutto ciò avviene ha una grande importanza: se le cucine accolgono, preparano, nutrono ma poi, nella pratica, sono piccoli locali sistemati nei sotterranei di una grande casa in cui la fretta, la competizione, il risparmio sono i principi fondativi, si creeranno delle contraddizioni fra il modello di vita che vige in casa e quello diverso che si vive quando si cerca di preparare un buon piatto in cucina.
C’è poi un periodo dell’anno in cui le cucine vogliono far conoscere il loro menu all’esterno.
A chi dovesse andare in visita, offro un modesto consiglio: quello di non fidarsi completamente dei locali che promettono nuovi piatti di pasta riccamente adornati con il vostro condimento preferito perché, molto spesso poi, al momento di servire in tavola, il cameriere (quasi mai il gestore) è costretto a presentarsi con aria mesta scusandosi per l’imprevisto esaurimento delle materie prime e chiedendo, a voi, di portarle direttamente da casa vostra.
Purtroppo le cucine in cui è l’utente stesso a portare gli ingredienti da casa si stanno diffondendo sempre più; in tal modo il locale riesce a preparare i suoi piatti ma inevitabilmente concorre a snaturare il suo ruolo e non potrà più presentarsi come un: “Locale pubblico”.
Insomma quello che voglio dire è che ci sono modi diversi di stare in cucina e a tavola: si può ingurgitare, ci si può sfamare, si può mangiare e ci si può nutrire insieme in maniera sana rispettando le singolarità di ciascuno.
Sfortunatamente questo è il momento in cui tutti parlano molto di corretta alimentazione ma, nei fatti, si mettono le cucine in condizione di offrire soltanto un pasto frugale.
È naturale che in molti rimangono con la fame ma solo chi ha le possibilità, appena arriva a casa, si abbuffa a tal punto che corre il rischio che gli venga un bel mal di pancia.
Oltre a non essere sano, ciò non è nemmeno giusto perché tutte le cucine dovrebbero essere locali pubblici attrezzati per offrire a tutti e a ciascuno un servizio di qualità; in più dovrebbero mantenere a loro disposizione un fondo specifico per il miglioramento dell’offerta in modo che, oltre all’essenziale, vi si possa preparare il cibo di cui ognuno ha veramente bisogno per crescere.
Soprattutto in periodo di crisi, io continuo a credere che ci sia bisogno di far fronte alla necessità sociale di “nutrimento” degli esseri umani compiendo tutti gli sforzi possibili per migliorare le cucine, per formare i cuochi, per investire su un programma di alimentazione sana dove ognuno possa maturare imparando a riconoscere “il vero sapore del saperi”.
P.S. In questo mio percorso “gastro-pedagogico” spero di non essere stato frainteso; non ho voluto paragonare la cucina con la scuola, il cuoco con l’insegnante, i vari tipi di pasta con gli studenti, la pentola con l’aula, i condimenti con le proposte di arricchimento dell’offerta formativa.
La mia modesta intenzione rimane la stessa: a partire da una semplice allegoria, riuscire a provocare una reazione alla normalizzazione dilagante ed una riflessione sul modello di scuola che riteniamo più adatto per la società del futuro.
Comunque vi alimentiate, buon appetito.
I quadri pieni di gialli, rossi e blu squillanti dominano le sale di Palazzo dei Diamanti, in corso Ercole d’Este 21, e intanto, qualche manciata di numeri civici più in là, va in scena l’anti-Matisse. Nella stessa via rinascimentale di Ferrara, bella e acciottolata, si trova infatti la galleria-abitazione di Maria Livia Brunelli, dove è in mostra il lavoro di Mustafa Sabbagh in contrapposizione con il maestro “fauve” francese. Come ormai consueto la Mlb-home gallery propone un artista assolutamente contemporaneo in abbinamento al protagonista delle grandi mostre di Ferrara Arte.
Nato in Giordania, cresciuto professionalmente a Londra al fianco di Richard Avedon e diventato famoso come fotografo sui set delle griffe più importanti, Sabbagh ha da tempo elaborato una sua personale estetica. Il risultato delle sue riflessioni è nelle fotografie che lo hanno reso famoso, scavando e rivoluzionando quelle immagini stereotipate. La sua arte si contrappone all’ossessione per la bellezza univoca del mondo della moda e alla rigidità dei suoi canoni. Sulle sue stampe fotografiche i corpi vengono esibiti sì, ma nella loro cruda nudità e i tessuti e le stoffe, stringono le carni, le avvolgono e le mascherano, anziché addobbarle e abbellirle.
Mustafa, che ha fatto di Ferrara la sua città adottiva, spiega: “Dopo anni che lavoravo per riviste di moda, ho voluto cercare la verità fuori dal modello imposto, che è quello di una bellezza che ispira attrazione immediata, ma irraggiungibile, e che quindi crea anche un senso di disagio”. Lui, che è nato e cresciuto in Medio Oriente, osserva che il burka può essere proprio là dove crediamo sia stato strappato via. “Il nudo totale è il burka – dice – un burka moderno, fatto della necessità di essere ricchi, belli, taglia 42”. Il travestimento diventa allora uno strumento per liberare i corpi. Sabbagh racconta: “Ho iniziato a ragionare su questa idea e ho riflettuto sul fatto che oggi una forma di travestimento è il lattice, il reggiseno, la chat, un sito porno. La maschera può diventare uno strumento per liberarsi dalle maschere quotidiane imposte da consumismo, loghi, genere sessuale. La maschera elimina la superficie e può portare all’essenza del genere umano”.
Lo stesso tipo di ricerca fatto sulla moda per scardinarne i pilastri, Sabbagh lo applica alle opere di un maestro dell’arte moderna come Henry Matisse. E il risultato è in mostra nella home gallery che si trova all’altro capo della via di Palazzo dei Diamanti, in corso Ercole d’Este 3. Figure e volti completamente coperti di nero su fondo nero o nudi bianchicci su fondo chiaro compongono le installazioni di stampe lambda opache su carta fotografica applicata su alluminio. “Ho tolto il colore che domina le composizioni di Matisse, ho coperto o lasciato nascosti i volti – conclude Mustafa – e poi mi sono accorto che un mio modello aveva la stessa posa di un suo disegno e la modella era distesa come una delle sue sculture”. L’idea di bello, quindi, resta lì, anche quando si cerca di superarla e schiacciarla. E rivela le insospettabili affinità che, un secolo dopo, legano l’artista fauve francese e il fotografo di moda e artista contemporaneo.
Burka moderni, un dialogo inventato con Matisse. Fino al 4 maggio alla Mlb home gallery di corso Ercole d’Este 3, a Ferrara. Sabato e domenica ore 15-19, gli altri giorni su appuntamento al 346 7953757.
Le città invisibili di Calvino sono il racconto di un Marco Polo, viaggiatore visionario, a un malinconico imperatore che ha compreso come il suo sterminato potere conti ben poco, in un mondo che sta andando in rovina. Eppure dal resoconto di Marco Polo prendono corpo le tante cose che tengono insieme le città: le memorie, i desideri, i luoghi di scambio. Gli apprendimenti delle vite vissute dalle persone.
Ecco, quindi, voglio parlare di città che hanno reso visibile ciò che al trasognato Marco Polo di Calvino pareva invisibile. Voglio parlare delle città che hanno preso sul serio l’obiettivo di sviluppo della Comunità Europea come “società avanzata basata sulla conoscenza”.
Sono tante: Derby, Dublino, Newcastle, Glasgow, Gothenburg, Southampton e altre ancora, sparse un po’ ovunque in Europa. Ottimi esempi di città che hanno una chiara visione della centralità che cultura e conoscenza rappresentano per la costruzione del loro futuro. Città che hanno ritenuto necessario dare vita a comitati cittadini per la promozione dell’apprendimento, coinvolgendo, oltre alle scuole e alle università, le istituzioni educative e non educative, e mettendo a disposizione risorse e budget adeguati.
E’ un invito a riflettere che rivolgo alla mia città e ai suoi amministratori. La città di Ferrara che da anni ha rinunciato ad avere un assessorato all’istruzione, quasi che su questo terreno non ci fossero più politiche da realizzare, ma solo servizi da fornire. Un suggerimento in particolare per il sindaco che, a fronte dell’abolizione delle Circoscrizioni, è alla ricerca di idee per tenere viva la rete di partecipazione territoriale.
Apprendimento, l’idea dell’apprendimento permanente: questa è una buona idea per pensare ai cittadini della città, dai piccoli ai grandi, come ad una preziosa risorsa da valorizzare, come capitale umano e sociale su cui investire; l’apprendimento come opportunità per migliorare la qualità della vita di tutti, per la qualità delle relazioni, dei servizi, per fare della responsabilità e della condivisione il valore primo dell’abitare la propria città, dello stare insieme nel riconoscimento di ognuno come risorsa indispensabile agli altri.
La costruzione di una città che apprende attraverso i suoi abitanti, attraverso i cittadini, potrebbe essere la chiave dei piani orientati al futuro della nostra città: dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo culturale, dalla sicurezza ai servizi sociali, alla salute, al trasporto, all’economia.
La geografia del glocale ha mutato la direzione dello sviluppo, la direzione della conoscenza, i luoghi delle fonti del sapere e dell’informazione, facendo dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento tutt’intero e globale, la base necessaria allo sviluppo del capitale umano e sociale che compone la comunità cittadina. Oggi più che mai, le città costituiscono lo spazio chiave per una crescita che tenga salde le sue radici nei valori umani e sociali.
Facciamo sapere al mondo che la nostra città prende sul serio l’apprendimento, che l’apprendimento crea ricchezza, attiva investimenti e occupazione in una società delle conoscenze.
Alla nostra città non mancano risorse e iniziative culturali, istituzioni educative e non, con le quali tessere una rete organica che qualifichi la città come ambiente di apprendimento permanente per tutti i suoi cittadini. Un logo che tutte le istituzioni, tutte le organizzazioni, comprese le aziende, dovrebbero usare nella loro documentazione e soprattutto in quella di marketing.
Presentare su internet la nostra città come learning city, proprio perché riconosciuta quale patrimonio dell’umanità, promuovendola attivamente come tale, sia nei confronti del mondo esterno, sia nei confronti dei cittadini, attraverso opuscoli, video, poster, presentazioni multimediali, ecc.
Creare sottocomitati per l’apprendimento in ciascun quartiere o ex circoscrizione, mettendo a punto le procedure di consultazione sull’apprendimento e lo sviluppo. Sollecitare i commenti di tutte le componenti della città. Qualora alcuni segmenti di cittadini non siano rappresentati, si tratta di individuare i mezzi che consentano loro di esprimersi, come i consigli di quartiere e i comitati di studenti e di giovani. La preoccupazione maggiore deve essere soprattutto quella di coinvolgere giovani, piccoli e grandi, far sentire che la città crede in loro e che ha bisogno della loro intelligenza, del loro successo formativo, del loro progetto di vita, che è la ricchezza su cui poggia il futuro della città, perché è dalla loro intelligenza e dalle loro competenze che esso dipende. Una città attenta e interessata al successo scolastico delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, che non rimane più solo un fatto privato, ma anche un interesse comune di tutti noi concittadini.
Centrale è far sentire tutta l’attenzione e l’amore della città per le sue scuole, su quello che avviene al loro interno, sulla loro qualificazione. In quelle scuole, ogni giorno, impegnano il proprio tempo migliore quanto abbiamo di più prezioso, i nostri figli, i nostri bambini e ragazzi. Dobbiamo chiedere alle scuole e all’università il massimo di qualità e di professionalità, di utilizzare i talenti, le idee, l’expertise, le conoscenze, le competenze presenti nelle loro comunità per contribuire alla crescita dei processi di apprendimento.
Si tratta di collocare al centro dell’interesse della comunità lo sviluppo delle scuole, avere in ciascuna scuola un referente della mobilitazione delle risorse professionali e materiali, in un’ottica di miglioramento e ampliamento degli apprendimenti.
L’ idea di una città che apprende, un territorio che vive di apprendimenti continui, colti dal tessuto della vita sociale e condivisi, può essere considerato come il raggio di luce che indica alle persone la strada per un’autentica società della conoscenza, di cittadini solidali nell’affrontare le sfide che ci prospetta il futuro.
E come Italo Calvino ci ricorda dalle pagine delle sue città invisibili: «I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi».
Il sistema di raccolta tradizionalmente più diffuso in Emilia Romagna è ancora quello che utilizza i contenitori stradali, che intercetta il 34% della raccolta differenziata. Ma si sta progressivamente diffondendo anche il “porta a porta” che riceve il 15% dei rifiuti differenziati, mentre il 27% confluisce nei 371 Centri di raccolta. Gli altri sistemi (raccolte dedicate, su chiamata, tramite eco-mobile, etc.) permettono di intercettare il rimanente 24% dell’intera differenziata. Sono alcune delle cifre contenute nel Report Rifiuti 2013, decima edizione del monitoraggio annuale prodotto dalla Regione Emilia-Romagna e da Arpa Emilia-Romagna, presentato un mese fa.
Da tempo sul porta a porta si è sviluppato un interessante dibattito. L’applicazione di questa forma gestionale sta diventando uno dei temi principali di confronto, sia economico che gestionale (ma talvolta, mi sia permesso dirlo, anche politico), e si ritiene dunque utile riproporre alcune considerazioni di merito, che si auspica possano contribuire alla migliore ricerca di una soluzione migliorativa (innegabile infatti è il supporto per ampliare la raccolta differenziata e soprattutto il riciclo).
Provo ad esprimere qualche valutazione, sperando nella benevola attenzione del lettore interessato e ambientalmente sensibile:
la soluzione gestionale del porta a porta permette, in determinati contesti, risultati significativinel raggiungimento degli obiettivi, e si ritiene debba avere ancora maggiore spazio; un utilizzo ampio, però, può comportare maggiori disagi e maggiori costi, non si tratta dunque della soluzione migliore, ma di una soluzione utile in certi specifici casi;
ogni territorio, avendo la sua specificità, raggiunge obiettivi di raccolta differenziata diversi; la % più significativa del P/P è ottenuta nei comuni tra i 20 e gli 80.000 abitanti, mentre è più difficoltosa per grossi centri;
è fondamentale il coinvolgimento di quella larga fascia d’utenza “non domestica” che rappresenta la parte principale quali-quantitativa nelle raccolte differenziate; produttori di oltre il 50% dei rifiuti con qualità del loro rifiuto selezionato: bisogna puntare in particolare a bar, ristoranti, fruttivendoli, uffici, negozi, etc. con specifici servizi dedicati, e sistemi di raccolta porta a porta adattati ai loro bisogni;
l’attivazione di circuiti di raccolta a domicilio per la frazione organica (con un’elevata e capillare frequenza), consentirebbe la riduzione della frazione putrescibile nel residuo;
il sistema porta a porta è molto utile per la carta e il cartone, un poco meno per la plastica; è sconsigliabile per vetro e indifferenziato, in quanto la raccolta del VPL (Vetro Plastica Lattine) comporta un peggioramento delle caratteristiche del vetro e dei costi di selezione; per il vetro dunque forse sono meglio le campane;
si consiglia di mantenere un solo sistema di raccolta multi-materiale in modo da rendere più efficace sia la fase di raccolta sia quella del recupero, in riferimento alle caratteristiche degli impianti di selezione utilizzati dal gestore;
il P/P migliora la qualità del materiale raccolto, legato ai concetti di impurità e scarto;
il P/P aumenta il coinvolgimento dei cittadini; permette un rapporto (controllo) più personalizzato: la raccolta puntale permette frequenti, metodiche e costanti informazioni sui livelli raggiunti, sul grado di impegno e sui risultati ottenuti per aree (strade, condomini, etc.);
il P/P crea però problemi igienici (sversamenti, accumuli, etc.) e di sicurezza stradale e degli individui;
inoltre si è riscontrato talvolta un non gradimento da parte dei cittadini, costretti a tenere il rifiuto in casa per tempi più lunghi, e costretti ad orari di conferimento scomodi e inopportuni;
il P/P aiuta a valorizzare la definizione nell’applicazione della Tariffa: il sistema puntuale di raccolta favorisce una migliore conoscenza economica da parte degli utenti coinvolti;
un tema importante e spesso difficilmente affrontabile (purtroppo) è la valutazione economica del porta a porta e il confronto sulla convenienza per un presunto elevato costo (basso livello di industrializzazione del servizio); in questo senso si vedono sfavoriti i grandi comuni e le zone ad alta densità urbanistica;
sono poi molto importanti i metodi di calcolo utilizzati per stimare i costi delle raccolte, partendo dall’esame delle tipologie di utenze, per arrivare a definire la tipologia di contenitori da utilizzare;
nelle valutazioni economiche occorre prestare molta attenzione a come si calcolano gli accordi Anci – Conai (Consorzio nazionale imballaggi), anche per le nuove convenzioni del multi-materiale;
infine, occorre fare attenzione al numero degli operatori nelle squadre di raccolta, possono influire sui costi del personale (se si tratta di un autista solo, oppure con un operatore, con due operatori come per la raccolta tradizionale).
Avere la propria casa ancora inagibile a causa del terremoto di due anni fa e rischiare di dover tornare a pagare il mutuo. È allarme tra gli emiliani terremotati, dato che in Regione le delibere per interrompere il pagamento della rata anche nel 2014 sono ancora in sospeso. Non solo. In assenza di accordi specifici, molte banche hanno già fatto ripartire i pagamenti dal 1° gennaio.
Il comitato Sisma.12, che rappresenta i cittadini terremotati, ha deciso di alzare la voce. Lo farà il prossimo 26 febbraio davanti ai palazzi di via Aldo Moro, dove ribadirà l’urgenza di rinnovare la sospensione del mutuo fino a che gli immobili danneggiati non tornino perlomeno ad essere agibili. Una proroga che non può aspettare. Il tempo inizialmente stimato per riparare abitazioni e capannoni si è infatti notevolmente allungato, perché come se il terremoto non bastasse, la Bassa emiliana è stata colpita anche da una tromba d’aria nel luglio 2013 e dalla recente alluvione che ha provocato lo straripamento del Secchia.
E di fronte alla drammaticità del problema, Sisma.12 dichiara forte preoccupazione, denunciando «l’assenza e il silenzio del commissario/presidente Vasco Errani» e dichiarazioni «estremamente fantasiose» da parte dei suoi collaboratori. Ecco perché i membri del comitato, dopo aver incontrato i vertici dell’Associazione Bancaria Italiana Emilia-Romagna, hanno deciso di recarsi in Regione mercoledì prossimo. Dall’Abi il presidente Luca Lorenzi, al quale comunque il governatore Errani, l’assessore Muzzarelli e alcuni parlamentari avevano chiesto dei chiarimenti, garantisce «massima disponibilità delle banche verso i clienti – privati o aziende – titolari di edifici inagibili e non ancora recuperati». E indica come condizione essenziale per la sospensione del mutuo, che una volta ufficializzata durerebbe fino alla fine del 2014, la presentazione di un documento che testimoni «la volontà di aderire al progetto di recupero dell’abitazione o del capannone».
Nello specifico, si tratta di uno tra i modelli Mude (Modello unico digitale per l’edilizia) e Sfinge (il portale per presentare domande di contributo). Certificati che i membri di Sisma.12 presenteranno mercoledì in via Aldo Moro. Nell’occasione saranno consegnate direttamente al presidente Errani anche le 12mila firme dei cittadini che aderiscono alle altre richieste del comitato, che mirano a una semplificazione delle pratiche burocratiche e a vantaggi fiscali per i territori colpiti dal sisma.
Intanto Errani esprime soddisfazione per la disponibilità ottenuta dall’Abi. «Ora ci auguriamo – ha poi aggiunto – che questa apertura diventi concreta e solida e continueremo a lavorare perché ciò avvenga, per dare sempre maggiori certezze ai territori colpiti».
Se qualcuno affermasse che potremmo risparmiare 70 miliardi l’anno senza diminuire la spesa pubblica o combattere l’evasione fiscale, che potremmo far ripartire l’economia risparmiando 70 miliardi l’anno e investirli per la ripresa delle nostre imprese, e che potremmo avere a disposizione 70 miliardi senza uscire dall’Euro e rispettando i Trattati… ci credereste? La soluzione è questa, lo dice l’articolo 123 del Tfue: il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi.
Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro e lo presta alla banca pubblica allo 0,25% e la banca pubblica lo presta allo Stato allo 0,50% invece che all’attuale 4%. Su 2.000 miliardi di debito pubblico arriveremo a risparmiare 70-80 miliardi l’anno. Troppo bello per essere vero? Per la Germania no. Lo fa già! Per la Francia no. Lo fa già! Noi, comunque, lo abbiamo chiesto direttamente all’Unione Europea e alla Bce. La risposta è stata che sì, si può fare.
Le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, le tasse aumentano, si tagliano i servizi? Bene, tutto questo si potrebbe evitare e subito.
Nell’intervento che segue, l’approfondimento tecnico e la corrispondenza con la Bce. Nella speranza che “qualcuno” prenda in considerazione molto seriamente la proposta, subito.
Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere
L’immagine che ognuno di noi ha dell’Italia è di un paese in cui “non ci sono soldi” e la spiegazione che ci viene fornita è che i governi, da decenni, spendono di più di quello che incassano, per cui l’accumulo dei deficit pubblici cronici ha creato un enorme debito rendendo necessaria l’austerità.
In realtà, la causa dell’elevato debito pubblico, attualmente di 2.100 miliardi, sta nel fatto che negli ultimi trent’anni lo Stato italiano ha pagato più di 3.000 miliardi di interessi. La soluzione del problema è quindi ridurre il costo degli interessi sul debito. Il problema del debito pubblico non è, quindi, un problema di deficit eccessivi, ma di interessi eccessivi: ce lo dicono i dati. Se guardiamo i numeri nella tabella successiva, vediamo che il debito pubblico italiano è esploso di colpo tra il 1982 al 1993, quando la spesa per interessi passò da 35 a 156 miliardi (convertendo le lire di allora in euro di oggi). Si può quindi sostenere che, a parità (presumibilmente) di sprechi e corruzione, il debito pubblico è aumentato a causa della spesa per interessi.
Come si vede nell’ultima colonna della tabella (in valori attualizzati e traslati in euro di oggi) la spesa per interessi è raddoppiata in quattro anni, dai 35 miliardi del 1980 ai 69,8 miliardi del 1984 e di nuovo è raddoppiata a 142 miliardi nel 1991 per toccare un picco a 157 miliardi nel 1992.
Nella tabella si legge anche che dal 1992 lo Stato italiano ha applicato politiche di austerità, cioè di aumento delle tasse, incrementando le sue entrate in modo da avere sempre un avanzo di bilancio (differenza tra spese ed entrate prima degli interessi), come si vede nell’ultima colonna. Nonostante più di vent’anni di politiche di austerità, cioè di imposizione fiscale crescente, iniziate con i governi Ciampi e Dini nei primi anni ’90, lo Stato non è poi più riuscito a ridurre il debito pubblico a causa della “rincorsa” degli interessi che si cumulavano.
La ragione di questa esplosione di spesa per interessi, è che nel 1981 è caduto l’obbligo della Banca d’Italia di comprare debito pubblico calmierandone gli interessi.
La “troika” (Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario) e i governi Monti, Letta (e ora sentiremo Renzi), non menzionano mai, però, questo semplice fatto, ovvero che il debito pubblico si è cumulato a causa del fatto che lo Stato si è finanziato sul mercato e quindi pagando interessi reali elevati, mentre prima usufruiva del finanziamento della Banca d’Italia che ne riduceva il costo ad un livello pari o inferiore all’inflazione, quindi il debito non si accumulava (in percentuale sul Pil).
Detto in parole semplici, lo Stato italiano è stato obbligato a farsi prestare denaro a costi di interessi dettati dalle banche estere (diciamo dal mercato finanziario estero), quando invece avrebbe potuto continuare a farsi finanziare a costo zero dalla Banca d’Italia.
Se quindi eliminassimo questo laccio finanziario che costringe all’austerità permanente, l’Italia potrebbe ridurre le tasse in modo sostanziale e tornare ad essere un paese con un’economia paragonabile agli altri paesi europei, e non un caso quasi disperato di depressione economica come accade ora.
La soluzione
Lo Stato italiano potrebbe invertire questo dannoso meccanismo, e da subito. In apparenza non sembrerebbe possibile farlo se non uscendo dall’Euro e rompendo i trattati europei, perché con l’articolo 123 comma 1 della ‘versione consolidata del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea’ viene vietato alla Banca centrale europea di finanziare l’acquisto diretto di titoli di Stato e l’unica azione che la Bce può fare è quella di creare denaro per prestarlo alle banche.
Il comma 1 dell’articolo 123 recita testualmente: “Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca Centrale Europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali”.
Da quando è iniziata la crisi finanziaria nel 2008, la Bce ha creato (“dal niente” e senza costi) circa 2.800 miliardi di euro e ha di recente fornito alle banche più di 1.000 miliardi ad un costo vicino allo zero, usati da queste per comprare titoli di stato a lunga durata come i Btp. In pratica le banche italiane hanno ricevuto prestiti ad un costo inferiore allo 0,5%, con cui hanno comprato Btp che rendevano più del 4%.
E’ evidente che se lo Stato potesse prendere a prestito dalla Bce lo stesso denaro che ha fornito alle banche a questo tasso, risparmierebbe decine di miliardi ma, come sappiamo, questa strada sembra sbarrata, oltre che dall’opposizione dei quattro paesi nordici, dai trattati europei che l’Italia stessa ha firmato.
In realtà il comma 2 dello stesso articolo 123 offre una scappatoia agli Stati dell’Eurozona perché prevede che anche gli enti creditizi di proprietà pubblica possano ricevere i finanziamenti dalla Bce. E poi, nulla impedirebbe loro di girare questi soldi allo Stato.
comma 2 articolo 123 – Le disposizioni del paragrafo 1 non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati.
Uno Stato della Ue che controllasse gli enti creditizi, potrebbe farsi finanziare da loro i deficit, pagando un interesse vicino a quello che la Bce offre, cioè vicino allo zero e comunque non superiore all’inflazione.
Su un debito pubblico italiano attuale di circa 2.000 miliardi, questo significherebbe arrivare a pagare interessi per 10-20 miliardi annui, invece che gli oltre 80 miliardi attuali.
Le cifre che indichiamo sono esemplificative e l’analisi potrebbe essere fatta in modo più dettagliato, ma la sostanza è che se il debito pubblico venisse man mano rifinanziato tramite prestiti diretti di banche pubbliche (che hanno accesso al finanziamento della Bce), il suo costo non verrebbe più determinato dal mercato finanziario. Si tornerebbe cioè alla situazione pre-1981, quando il costo del debito pubblico non era un problema perché era costantemente pari o inferiore all’inflazione.
Va sottolineato che non ci sarebbe alcun rischio per le banche pubbliche, perché lo Stato italiano, al netto degli interessi, è un ottimo “pagatore”, come si evince dai dati della tabella precedente.
Uno scambio di email con la Banca Centrale Europea
La strada per arrivare a risparmiare anche 70 miliardi di euro di interessi all’anno per lo Stato italiano, quindi esiste. Abbiamo voluto verificare questa possibilità, (già applicata in Germania e Francia tramite due enti pubblici, rispettivamente KfW e Bpi), contattando gli uffici dell’Unione europea e interrogandoli circa la fattibilità dell’utilizzo di banche pubbliche per finanziare lo Stato.
La risposta ricevuta per email a nome della Bce è stata affermativa [leggi il documento originale]: “Il divieto di scoperto bancario e di altre forme di facilitazione creditizia in favore dei governi non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati”. Inoltre, in riferimento a banche pubbliche: “Gli istituti di credito possono liberamente prestare i soldi ai governi o comprare i loro titoli di stato, nonché prestare soldi a qualsiasi cliente”.
E’ quindi possibile per lo Stato italiano nazionalizzare una banca che acceda poi alla liquidità della Bce e finanzi il suo debito ad un tasso di interesse appena superiore a quello applicato dalla Bce stessa, e in ogni caso sempre molto inferiore a quello di mercato che, va ricordato, è attualmente superiore del 3% all’inflazione.
Stiamo parlando qui di come “trovare” non due o tre miliardi con l’Imu, con qualche privatizzazione o risparmiando su sanità, scuole, infrastrutture, ma risparmiando sugli interessi, sulla rendita che da decenni lo Stato italiano paga a investitori esteri, banche e anche a investitori italiani.
Si tratta alla fine di scegliere se favorire la rendita finanziaria o il lavoro e le imprese. La rendita finanziaria, cioè chi vive speculando, ha incassato in trenta anni dallo Stato, lo ricordiamo ancora, più di 3mila miliardi di euro di interessi, mentre le imprese e i lavoratori italiani venivano schiacciati da una tassazione soffocante, giustificata con il peso del debito pubblico di 2mila miliardi, creato dall’accumularsi di questi interessi.
Gli italiani devono rendersi conto che non è vero che “non si può fare niente” contro il peso del debito pubblico e delle tasse che ci ritroviamo a causa dei trattati firmati e delle posizioni degli altri governi all’interno delle istituzioni europee. In realtà, un governo italiano competente e che abbia a cuore gli interessi degli italiani invece che nel “mercato finanziario” può muoversi anche all’interno dei trattati europei.
Il nostro, oltre che un articolo, è anche un appello ai cittadini italiani che trovino convincenti i fatti che abbiamo esposto e diffondano, ovunque possano, questa soluzione pratica al problema del debito, allo scopo di mettere la parola fine alle politiche di austerità che stanno soffocando l’economia italiana.
Giovanni Zibordi, si occupa di mercati finanziari e gestisce uno dei siti finanziari più noti in Italia, www.cobraf.com economia a Modena, ha anche tre anni di dottorato in economia a Roma, un Mba a Ucla e ha lavorato precedentemente in consulenza manageriale, ha vissuto a Los Angeles e New York per sette anni.
Claudio Bertoni si occupa di impresa ed è stato per più di vent’anni imprenditore nell’ambito del commercio equo e solidale. Dottore in Scienze Agrarie, sa che i beni reali valgono più del denaro e ricerca, come cittadino, le soluzioni possibili ai problemi monetari di macroeconomia.
P.S. Alcune obiezioni che si potrebbe portare e relative risposte
Per quanto riguarda l’obiezione sul mancato rendimento che gli investitori privati italiani avrebbero sui loro investimenti in titoli di Stato, va notato che hanno oggi solo un terzo dei titoli di Stato e si concentrano in prevalenza sui Bot e Cct che rendono meno dell’1%, mentre gli investitori esteri e le banche si concentrano sui Btp che pagano intorno al 4%. Si può stimare quindi che su circa 80 miliardi di interessi annui, ne ricevano non più di 20-25 miliardi. In secondo luogo, i detentori di titoli di Stato in larga maggioranza appartengono alla fascia più benestante della popolazione, che è quella che ha in realtà beneficiato della crisi, perché ha goduto di rendimenti (al netto dell’inflazione) maggiori degli anni precedenti e anche di guadagni in conto capitale. In terzo luogo, se, a causa del finanziamento diretto di banche pubbliche allo stato suggerito, i rendimenti dei Btp scendessero intorno o sotto l’1%, le famiglie italiane potrebbero comunque investire in fondi e titoli di reddito fisso in tante altre parti del mondo. Infine, se i titoli di stato diventassero meno attraenti, le famiglie potrebbero essere spinte a investire allora di più in obbligazioni italiane aziendali, aiutando così il finanziamento delle imprese italiane.
Alle recenti elezioni regionali in Sardegna ha votato il 52,2 % degli aventi diritto. In sostanza, un cittadino su due non è andato alle urne. I mezzi di comunicazione registrano come ormai inevitabile e farisaicamente “preoccupante” la tendenza sempre più marcata a non votare. Non molti cercano di capire se questo continuo indebolirsi della democrazia possa essere contrastato, indicando in quale modo ciò possa avvenire.
I motivi sono parecchi: mancanza di credibilità della politica, sfiducia, rassegnazione, disinteresse e altro ancora. Il cittadino sente di contare e decidere sempre meno, questo è il punto. La risoluzione delle esigenze collettive – posto che esse vengano esplicitate, il che non sempre accade nella nostra società frammentata – o viene eternamente rinviata o semplicemente non è presa in considerazione da chi governa. Le decisioni vengono assunte in un altrove lontano, senza coinvolgerci, inducendoci a vivere in comunità sempre più arroccate e divise, frustrando la progettualità che potrebbe consentirci di costruire un futuro.
L’esplodere dei social network ci ha messo del suo. Oggi la politica si compie con i tweet, i retweet e via cinguettando. In 140 caratteri si condensa il pensiero del momento, a cui segue il pensiero del momento dopo, e così via. Insomma, si vive per momenti.
La scarsa partecipazione è un problema per tutti e per il futuro della democrazia. Eppure, le vie d’uscita esistono. Per esempio, la più ampia trasparenza delle scelte amministrative: periodicamente l’amministrazione pubblica rende conto di ciò che ha fatto, cosa intende fare, e con quali risorse. Ancora, il coinvolgimento dei cittadini nel governo locale, utilizzando le nuove tecnologie dell’informazione: una rete istituzionale in cui il cittadino possa discutere i progetti rilevanti ed esprimere il proprio parere del quale l’amministrazione deve tener conto. Bisogna tener conto del digital divide, del fatto cioè che parte della popolazione – gli anziani, in particolare – non ha dimestichezza con il computer, e coinvolgere queste persone in altre maniere.
So di non dire molto di nuovo, ma noto come tutti questi sistemi – e a cascata, soluzioni, come i bilanci partecipati, i town meeting (assemblee cittadine sui grandi progetti dal vivo o sul web), le giurie e i sondaggi deliberativi – sono scarsamente praticati. Soprattutto perché costano fatica, a chi li mette in atto e a chi li utilizza. Ma il cambiamento, se vogliamo una democrazia non ridotta a simulacro, passa anche da qui.
Le merendine di quando eravamo bambini non torneranno più. In realtà non sono le merendine ad essere cambiate, siamo noi che inevitabilmente abbiamo perso l’ingenuità dell’infanzia. Lo stesso vale per le canzoni, come per il contesto sociale, le amicizie e le relazioni. Tendiamo a idealizzare ciò che riferiamo ad un tempo precedente della nostra vita.
La nostalgia scaturisce da un senso di perdita e si accompagna, per lo più, all’idea che il presente sia diventato peggiore del passato. Talvolta la nostalgia non riguarda solo la propria storia personale, ma investe l’intero contesto sociale. Il confronto, in questi casi, si riferisce ad un passato assunto a priori come migliore, dimenticando che in ogni epoca tutto ciò che emerge come nuovo induce sentimenti di spaesamento o, peggio, di perplessità, disapprovazione e condanna.
Un esempio riferito al passato che ora può far sorridere: metà Ottocento, quando i treni e le strade ferrate iniziano a popolare il paesaggio, un commentatore sulla rivista Quarterly, scriveva allarmato: “E’ una pretesa assurda e ridicola quella di voler far viaggiare locomotive con una velocità doppia delle carrozze di posta. Tanto varrebbe viaggiare su di una bomba! Vogliamo sperare che il Parlamento non approvi alcuna domanda di ferrovia senza prescrivere che la velocità di nove miglia all’ora (14 km orari) – la massima che possa adottarsi senza pericoli – non debba essere giammai superata!”. Inutile dire che per fortuna tali preoccupazioni non sono state ascoltate.
Nelle conversazioni quotidiane i richiami nostalgici sono frequenti. Si stigmatizza il tempo in cui si vive, per entrare in risonanza con un tempo in cui tutto era migliore. Insomma, se il presente fa paura o viene reputato problematico, si rivolge lo sguardo ad un presente diverso in cui era possibile (o si ritiene che lo fosse) avere serenità e sintonia con l’ambiente e il mondo circostante. Così nasce la nostalgia per i valori di autenticità, fiducia, eticità attribuiti ad altri periodi storici.
Le tracce di questo sentimento sono visibili nella comunicazione dei beni di consumo. Nascono i “negozi nostalgia”, che raccolgono oggetti fintamente vintage, proliferano i mercatini popolati di oggetti fatti a mano e di marmellate che assomigliano a quelle un tempo fatte in casa.
L’uso del sentimento della nostalgia è quello che si definisce in gergo vintage marketing. L’interesse verso i sapori dell’infanzia viene raccolto e utilizzato da molti brand alimentari in chiave di rassicurazione, per evocare un mondo non contraffatto e naturale.
Talvolta sono i consumatori che si mobilitano per riavere prodotti che hanno accompagnato la loro adolescenza. Pensiamo alla mobilitazione nella rete che ha portato al ritorno sul mercato, previsto a breve, del Winner Taco, il gelato la cui produzione era stata abbandonata. Su Facebook una pagina intitolata “Ridateci Winner Taco”, popolata da 12 mila “mi piace”, ha raggiunto questo “importante” obiettivo: convincere l’azienda a riproporre la mitizzata merendina! Intanto un altro gruppo su FB si mobilità con lo slogan: “Rivogliamo il Soldino del Mulino Bianco”. Difficile resistere alla tentazione di trovare grottesche queste iniziative di mobilitazione.
In un retorico bagno di nostalgia si è immerso in questi giorni il Festival di Sanremo, che ha cercato di coprire l’estrema povertà dell’offerta musicale e del format con il recupero di brani evergreen e di anziani ancorché autorevoli personaggi dello spettacolo. Non sembra abbia funzionato, in larga parte per la generale noia ormai associata alla televisione.
Ma, in generale, la nostalgia non è un sentimento buono da coltivare.
Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: la scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it
Indagine dopo indagine, la storia dello sbirro Pietro Malatesta non si ferma e il prossimo libro di Lorenzo Mazzoni sarà al Salone del Libro di Torino a maggio. Come nella migliore tradizione di noir e polizieschi, la serialità del personaggio e l’ambientazione metropolitana formeranno l’ossatura anche del Malatesta in uscita in primavera. Si tratta, questa volta, del sequestro di una personalità politica a cui Malatesta dovrà dedicarsi. Un altro caso, il quarto, per il poliziotto “anarchico” creato dallo scrittore ferrarese che è anche reporter, collaboratore de “Il fatto quotidiano” e vincitore del premio “Liberi di scrivere Award” con Apologia di uomini inutili.
In linea con la struttura dei romanzi noir, nelle storie di Mazzoni, le indagini e i crimini sono l’elemento più evidente della narrazione, ma non l’unico. Sottotraccia un universo di valori e approfondimenti che riguardano l’uomo oltre il personaggio.
Mazzoni, che uomo è Malatesta e in quale Ferrara vive?
“Il genere poliziesco dà la possibilità di andare oltre l’indagine, di parlare e far parlare. Ferrara ha tutti i presupposti per essere una delle città più belle del mondo, se non fosse per una certa mediocrità, per un certo modo modesto di condurre le scelte che si riflettono sulla vita pubblica. Pensiamo all’ospedale di Cona, al caso Aldrovandi, alle scelte urbanistiche del Darsena city, ai cinema del centro storico. Mi piacerebbe che i lettori di Malatesta capissero che ci sono anche belle persone, c’è un’umanità della strada, che è quella dove bazzica Malatesta, un uomo delle istituzioni, ma sui generis, perché le istituzioni, lui, le combatte da dentro. Malatesta è un ex teppista, uno che ha fatto vita di strada e gira in bicicletta per la città”.
La sua opera è stata definita un “noir solare”, perché?
“Mi piace lavorare sul grottesco e sulle contraddizioni. Malatesta è ironico e simpatico, la sua famiglia non è convenzionale, vive con la madre, una ex moglie e il suo boy, un figlio… insomma, una composizione un po’ atipica che fa sorridere”.
Malatesta e l’amore?
“Nel terzo libro si parla d’amore, per il resto Malatesta è un solitario, un uomo abbastanza frantumato”.
Nei suoi romanzi, Ferrara non è solo l’ambientazione, ma è anche una lingua, un modo di pensare, una cultura ben precisa.
“I miei libri sono farciti di ferraresità, c’è la multietnicità di via Oroboni, c’è una connotazione precisa delle strade e dei quartieri, c’è, inoltre, il dramma del terremoto che è diventato un libro della serie. E poi il dialetto, la Spal e la memoria di Federico Aldrovandi da cui tutto è partito”.
Continuerà Malatesta?
“Eccome. Dopo il prossimo lavoro con cui sarò al Salone del Libro di Torino, vorrei raccontare la Spal, farle un tributo attraverso Malatesta e la sua vicenda”.
Dopo aver raggiunto con le prime tre indagini i quindicimila lettori, Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico – Termodistruzione di un koala, edizioni Koi Press 2013, è l’ultimo romanzo di Lorenzo Mazzoni, illustrazioni di Andrea Amaducci.
Da MOSCA – Oggi si chiude il sipario sui giochi Olimpici invernali di Sochi 2014 e con essi la Mostra “La Russia alle Olimpiadi” del Moscow Multimedia Art Museum (MAMM) allestita, per l’occasione, dal 6 al 23 febbraio. Termina anche il nostro Focus Russia, il che non significa che non scriveremo più di questo Paese pieno di curiosità, bellezze, sfide e contraddizioni, ma che, semplicemente, non lo faremo con una frequenza giornaliera, come avvenuto in occasione di Sochi. Com’è giusto che sia.
Dicevamo, si chiude oggi, a Mosca, la mostra dedicata alla storia della partecipazione russa alle Olimpiadi, al MAMM, uno dei musei più chic della città, diretto dalla regista e critica d’arte Ol’ga L’vovna Sviblova, dal 2010 alla testa di questo modernissimo museo multimediale (ex Casa della fotografia, fondata da lei stessa nel 1996) e, nel 2011, definita dalla rivista ArtChronika come una delle tre persone più influenti dell’arte russa. Nelle sale del primo piano del Museo, al numero 16 dell’elegante via Ostozhenka, possiamo ammirare una serie di scatti ironici e divertenti, ma anche tormentati e sofferti. Come quelli di Anato’ly Gara’nin, impegnato a fermare il lancio del giavellotto di Alexandra Ciu’dina, o del sorriso di Misha, la mascotte delle Olimpiadi di Mosca 1980, di cui abbiamo parlato nel primo articolo del Focus. In un’intervista rilasciata all’inaugurazione della stessa Mostra, la Sviblova, ha spiegato che “dalla metà anni ’30, quando subentrano il realismo socialista e le sue regole ferree, lo sport diventa un territorio di libertà, dove l’uomo con il suo corpo può raggiungere quello che, in genere, sembra impossibile. Era terribilmente interessante mostrare quello che i nostri fotografi hanno saputo fare. A cominciare da Lev Borodulyn che, subito dopo la guerra, prende il testimone da Rodchenko in questa staffetta del liberty e che, ancora ai tempi dell’Urss, in un Paese chiuso, vince tutti i premi internazionali, possibili e impossibili”.
Il movimento olimpico in Russia si è sviluppato e consolidato a partire dal XX secolo. Nonostante gli sforzi di appassionati come il Generale Alexei Dmitrievich Butovsky (amico personale del barone de Coubertin e primo membro russo del Comitato Olimpico Internazionale – CIO) o il Conte Georgy Ivanovic Ribopier, che gli successe al CIO, la partecipazione iniziale ai Giochi Olimpici da parte dei rappresentanti russi fu principalmente a iniziativa di privati. La carta del Comitato Olimpico russo è stata ratificata nel 1912, grazie a sostegno e finanziamenti statali. La Russia è stata rappresentata alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 con ben 178 atleti, all’epoca una delle squadre più grandi. Dopo il 1912 non vi fu alcuna ulteriore partecipazione, fino ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952, questa volta da parte di un team sovietico. In quei giorni veniva istituito il Comitato Olimpico dell’URSS riconosciuto dal CIO. L’interesse per i successivi Giochi è stato notevolmente rafforzato da quest’ affiliazione tra il Paese e il movimento olimpico. Per l’URSS, la partecipazione ai Giochi era un potente fattore politico e ideologico. I successi dello sport sovietico erano diventati parte dell’ideologia di massa, un oggetto di meritato orgoglio nazionale sullo sfondo della complessa storia del paese. Le immagini scattate da importanti fotografi sono di grande rilievo e interesse, proprio per la scala di questi eventi, capaci di rendere la storia dello sport visibile, catturando record mozzafiato, volti di campioni ed emozioni di tifosi. I volti dei vincitori delle medaglie alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, come quelli di Yuri Tyukalov (vogatore), di Viktor Chukarin (ginnasta, vincitore di quattro medaglie d’oro) e di Maria Gorokhovskaya (ginnasta), sono diventati famosi in Russia, grazie al fotogiornalismo di Anatoly Garanin (filmati di RIA Novosti, l’agenzia d’informazione russa). Le fotografie degli inviati speciali Dmitri Kozlov, Boris Málkov, Leonid Lorensky, Yuri Somov, Dmitri Donskoi e Sergei Ilyin mostravano i momenti più suggestivi di gare in diverse discipline sportive: sci di fondo, ginnastica scherma, biathlon, hockey su ghiaccio e pattinaggio artistico. Scatti di pattinatori e di giocatori di hockey, così come quelli delle medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi invernali del 1956, 1964, 1968, 1972, 1976, 1984, 1988 e 1992, segnavano l’apoteosi del successo dello sport sovietico. Come nell’antica Atene, il paese doveva conoscere i nomi e i volti dei suoi eroi nazionali. Classici della fotografia sovietica, come Dmitri Baltermants, Alexander Abaza e Lev Borodulin (al quale, peraltro, il MAMM ha recentemente dedicato una retrospettiva), si distinguevano per le sottili sfumature psicologiche che riuscivano a dare ai loro ritratti di sportivi e di momenti sportivi critici. Le Olimpiadi di Mosca del 1980, se pur boicottate dagli Stati Uniti a causa dell’Afghanistan, hanno portato le prime immagini a colori.
La Mostra presenta tutto questo. Da allora atleti, immagini e riprese video si sono estremamente evolute, ma il grande orgoglio nazionale ne ha sempre fatto da sfondo imponente. A Sochi le polemiche sono state tante e, ora come allora, varie forme di boicottaggio hanno messo in discussione il vero spirito di queste celebrazioni, ossia lo sport e la sua forza, la sua capacità di coesione, la sfida ai propri limiti personali, la voglia di vincere e vincersi. Con la chiusura dei giochi di Sochi non finiranno sicuramente le polemiche, ma almeno avremo visto tanto bello sport.
Giuseppe Ravegnani (1895-1964) si laureò in Giurisprudenza a Ferrara, dove diresse la Biblioteca Ariostea per oltre un decennio. «Da giovanissimo esordì come poeta e fu tra i protagonisti della vita letteraria italiana, – scrive Eligio Gatti nella presentazione agli Atti della giornata di studi tenutasi a Pavia il 6 dicembre 1995 – nel vivace ambiente ferrarese di Govoni e De Pisis, raccolto, tra il 1914 e il 1925, intorno alle riviste “Vere Novo” e “Poesia e arte”; e in seguito intorno alla terza pagina del “Corriere Padano” di Nello Quilici. Trasferitosi a Milano, nel secondo dopoguerra sarà per molti anni redattore letterario della rivista “Epoca” e condirettore, con Alberto Mondadori, della collana di poesia “Lo specchio”. Fu direttore del “Gazzettino” e della “Gazzetta di Venezia”, critico letterario del “Resto del Carlino”, della “Stampa”, del “Giornale d’Italia”, e collaboratore di numerose altre riviste», nonché autore di traduzioni dal catalano, dallo spagnolo e dal francese.
Fra le sue opere di poesia, prosa e saggistica, sono da ricordare: Quattro parole sole (1914), I canti del cuculo (1914), Io e il mio cuore (1916), Sinfoniale (1918), Le due strade: poesie 1918-1920 (1921), Contemporanei (1930), Annali delle edizioni ariostee (con G. Agnelli, 1933), Quaderno (1939), Uomini visti. Figure e libri del Novecento (1914-1954) (premio Viareggio, 1955).
Racconta il famoso musicista e compositore Luciano Chailly, nipote di Ravegnani, che da ragazzo vide sfilare nello studio/biblioteca di casa (in via Palestro a Ferrara) del celebre zio molti fra i più importanti scrittori del Novecento italiano: Eugenio Montale, Salvator Gotta, Corrado Govoni, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Ungaretti, Dino Buzzati, Lanfranco Caretti e altri ancora. «Qualche anno dopo la sua morte – rammenta ancora Chailly – lo ricordai artisticamente inserendo nell’Ode a Ferrara per coro e orchestra (che fu eseguita a Santa Cecilia) alcuni suoi versi assieme a quelli dedicati a Ferrara da Carducci e da D’Annunzio. Ma il suo vero volto, specchio di dedizione e di bontà, il suo occhio azzurro pronto sempre a scrutare, ad amare e a perdonare, il suo passo dinoccolato quasi un segno di pazienza, di rassegnazione, continuarono a vivere per me, con la gelosia di una realtà sognata, nel Salone napoleonico della Pinacoteca di Brera in Milano, per l’ultima volta vicino a lui, mentre le musiche risuonavano (per concludere con i Suoi versi) “al di là d’ogni eco di memoria, sotto un arco di cielo appena nato, nelle azzurre navate della notte”».
La sola ombra nella vita integerrima di Giuseppe Ravegnani è data dalla spiacevole vicenda che lo coinvolse all’epoca dell’emanazione delle leggi razziali, quando ingiunse al giovane ebreo Giorgio Bassani di abbandonare per sempre le sale della Biblioteca Ariostea. L’episodio è riportato nel romanzo Il giardino dei Finzi-Contini.
Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013
Scrivere, oggi, che l’Italia è un Paese che genera attrazione in un tedesco, davvero non è facile. Nonostante tutte le turbolenze politiche ed economiche in cui si ritrova sballottata, e nonostante i rapporti piuttosto tesi, ufficiali e non, fra i due Paesi, personalmente non ho ancora perso la voglia di essere fedele ad un vecchio amore… forse amore è troppo, diciamo grande simpatia.
Mai imparar l’italiano una lingua che suona come se generasse un uomo migliore.
Blu e verde acqua son le parole e in ogni “o” luminoso un frutto si nasconde.
Non erro per proteggermi dalle illusioni.
Preferisco persone che limitatamente solo comprendo.
Incomprensioni, una più bella dell’altra quasi fossero arie musicali.
Rainer Malkowski (1939 – 2003) – (Trad. di Laura Melara Dürbeck)
Tutte le migliori qualità che attraggono un tedesco si ritrovano in questa “poesia”: la meravigliosa e sensuale lingua italiana; il paese dei sogni, delle illusioni, dell’opera lirica. Ma, ormai da molti anni, ho anche imparato che un tedesco non capisce mai veramente tutto ed in tutti i sensi dell’Italia e degli Italiani. Ci sono sempre pregiudizi, diagnosi sbagliate, equivoci.
Impressioni molto simili a quelle cantate dallo scrittore e poeta Malkowski, erano già state espresse decenni prima da altri tre altri filosofi tedeschi, che personalmente ho stimato sempre:
“Quando un tedesco entra in Italia, fa quasi sempre un ingresso falso. Ha desideri ed immagini distorte, almeno troppo unilaterali. Così non può vedere la vita reale nel paese e capire niente, o quasi niente, del paese italiano. Il Paese sembra poroso e allo stesso tempo chiuso. Tutto sembra possibile ed impossibile […]”.
Così scriveva il filosofo tedesco Ernst Bloch in un testo del 1925. Un concetto quasi identico si trova in una frase di Walter Benjamin, altro intellettuale tedesco di quell’epoca pre-fascista: “L’Italia è il paese della porosità, dell’indolenza e della passione per l’improvvisazione.”
Alfred Sohn-Rethel, anche lui un filosofo vicino alla Scuola di Francoforte, ha scritto nel 1926 un breve saggio intitolato Das Ideal des Kaputten (L’ideale della cosa rotta) dedicato a Napoli: un napoletano “si interessa ad una cosa tecnica solo quando è rotta. Una riparazione finale per un napolitano è una cosa orrenda, impensabile […]”.
E con queste tre suggestioni, abbiamo già un bel po’ di materiale per una buona riflessione, e per poter dire se l’Italia eserciti ancora o meno una certa attrazione per uno straniero.
Un tedesco, un teutonico puro, può amare e temere al tempo stesso la cosiddetta cultura italiana per la sua porosità, la sua imprevedibilità, la sua passione per l’improvvisazione e la sua, forse involontaria, capacità di riparazione le cose rotte.
Per non generalizzare troppo, non parlo di un tedesco qualsiasi ma di me. Sono nato nel 1950, nella parte estrema del nordovest tedesco, dove la terra è pianeggiante e costellata di fattorie (o perlomeno era cosi sessant’anni fa). La mia infanzia odorava di stallatico. Al centro del nostro villaggio, c’era ancora un fabbro che ferrava i cavalli. Nei miei ricordi d’infanzia si sente un po’ il profumo del primo Novecento, ma soprattutto il fetore del nazismo finito cinque anni prima.
Tutto era molto semplice, provinciale e soprattutto molto chiuso rispetto a ciò che succedeva nel mondo. Dell’Italia si sapeva solo che la capitale era Roma e che il Papa viveva in Vaticano. Il Papa di allora, Pio XII godeva di una grande autorevolezza nel mio ambiente familiare. E questa “autorità” parlava Italiano o Latino, ma non tedesco. La regione dove ho trascorso l’infanzia era molto cattolica, quasi una Bassa Padana ai tempi di Don Camillo, ma senza Peppone. Ma, in quella parte della Germania nord – occidentale, è nato anche Rolf Dieter Brinkmann, un poeta del cosiddetto “Underground of the sixtees” che ha scritto, tra le altre cose, Rom. Blicke tradotto in Italiano Roma. Sguardi un diario – un pò surrealistico, talvolta pazzo – su un suo soggiorno a Roma, in cui sferra un acceso attacco alla cultura italiana. Il mio punto di vista sull’Italia è ben diverso, più benevolo, e questo lo devo a mia madre che ha sempre disprezzato Brinkmann e che provava un grande amore per l’Italia, per le sue virtù, la sua storia, l’arte e la cultura; è grazie a mia madre, quindi, che ho provato fin da bambino una grande attrazione per il Bel Paese… oggi un po’ meno, ma la sento ancora.
Mia madre, all’inizio degli anni ‘30, frequentò una scuola cattolica di economia domestica, assieme ad alcune sue amiche, a Vicarello, un paesino sul lago di Bracciano. Da allora, faceva spessissimo riferimento a quel periodo trascorso nello sconosciuto “Sud”. Deve essere stato un periodo felice, a vedere le foto-ricordo e a sentire i racconti di quei mesi trascorsi così lontano! Molte vicende della vita di mia madre sono state evidentemente tristi, e solo raccontando della sua breve permanenza sul lago di Bracciano, s’illuminava di gioia! Quell’esperienza, tanto lontana nel tempo, aveva costituito per lei una sorta di “speranza di felicità”. Forse quella “speranza di felicità” era più che altro un’illusione, un’attrazione costruita sulle sabbie mobili, un ingresso falso e poroso per entrare nel Paese Italia (e forse è così anche per me). Oggi lei non c’è più, ed io ho ricevuto da lei quell’eredità italiana, che non è un’eredità materiale ma mentale e preziosa.
Ecco, quel tipo di attrazione per l’Italia in me c’è ancora, ma ha perso non poco della sua “speranza di felicità”. Rimane certo il fascino per il patrimonio dei beni culturali sparsi per l’Italia… ma anche di quelli che si trovano in Europa, di più… nel mondo! Ciò che sottrae forza attrattiva all’Italia è il livello bassissimo della maggior parte delle trasmissioni televisive, gli eccessi del consumismo che si erge a nuova religione, ecc. Devo ammettere, però, che questi sono fenomeni che non esistono solo in Italia, ma più o meno anche negli altri paesi europei, e anche in Germania, Paese apparentemente tanto sano, pulito, ben ordinato, e privo di corruzione. Anche la Germania di oggi, ammirata (o temuta) per la sua forte economia e le stabili strutture politiche, ha le sue ombre e debolezze.
Sono entrato in Italia col “vento rosso” degli anni sessanta-settanta. Ad Hannover, dove ho studiato, durante le manifestazione politiche cantavamo canzoni antifasciste come “Oh, Bella Ciao” e “Bandiera rossa”. Abbiamo letto i primi libri di Massimo Cacciari e di Rossana Rossanda sulla lotta della classe operaia. Apprezzavo gli scritti di cattolici di sinistra come Don Mazzi a Firenze, Don Franzoni a Roma o Don Milani a Barbiana. Sandro Pertini è stato per me, idealmente, il “nonno” che avrei desiderato. Giorgio Bassani non è stato il padre preferito – per carità – ma sicuramente uno scrittore molto stimato. Il romanzo di Ferrara mi ha così profondamente colpito che, appena ne ho avuto la possibilità, ho acquistato a Ferrara un piccolo appartamento, in un palazzo dentro la mura. Adesso, è tredici anni ormai che sono molto legato a questa città estense, dove spesso ritrovo un po’ il profumo e la luce della mia infanzia. Anche noi, in Bassa Sassonia, abbiamo la nebbia autunnale. Anche da noi il paesaggio è un po’ simile a quello che si trova lungo il Po: un paesaggio basso, senza colline e tante nuvole verso l’orizzonte. Durante l’infanzia e la gioventù, anche per noi la bici era il mezzo principale per spostarsi. La chiesa si trovava al centro del paese e delle piccole città. Ma c’è di più: attraverso i miei amici ferraresi, ho scoperto anche che una cultura borghese in Germania, dopo il fascismo, è quasi del tutto sparita: liberale o di sinistra che fosse, comunque antifascista, quella ereditata nel dopoguerra è stata ben definita da Mario Pannunzio, il fondatore dell’Espresso, come “progressiva in politica, conservatrice in economia, reazionaria nel costume”. Qualcosa di profondamente diverso dal nobile spirito borghese che ha animato l’esperienza azionista italiana dalla quale, nel mio impegno civile d’oggi, ho imparato molto.
Credo profondamente che la cultura in genere, ma anche la cultura politica italiana, abbiano avuto ed abbiano ancora, una certa attrattiva per gli stranieri, nonostante i fenomeni oscuri “all’italiana” molto conosciuti in tutto il mondo. Per citare solo una delle forze più importanti, che si distinguono e che si ergono nel panorama della crisi della democrazia rappresentativa e del cosiddetto Welfare State, scelgo il volontariato italiano, politicamente forse un po’ incerto, ma con una grande volontà di fare qualcosa, sia a livello locale sia a livello mondiale; la forte presenza degli italiani nelle reti delle Ong in tutto il mondo, ne è la dimostrazione, e rappresenta un segno significativo e confortante.
Ma forse sbaglio in tutto…
Non erro per proteggermi dalle illusioni.
Preferisco persone che limitatamente solo comprendo.
Incomprensioni, una più bella dell’altra quasi fossero arie musicali.
Un ringraziamento particolare ad Antonella Romeo, la traduttrice della brano, e autrice del libro La deutsche Vita
“Giovane donna in bianco, sfondo rosso” è il simbolo della mostra di Henri Matisse a Ferrara. E chi entra a palazzo dei Diamanti – dove è esposta fino al 15 giugno – quella ragazza potrà vederla muoversi, ridere e poi impressionare, pennellata dopo pennellata, la tela che è appesa lì. Abito candido, capelli sciolti e una risata spensierata, la fanciulla si lascia cadere sulla poltrona della casa-studio del pittore fauve. Grazie a un filmato in bianco e nero ci si ritrova, a distanza di tre quarti di secolo, nel preciso momento in cui Matisse è faccia a faccia con la sua modella. Barba, occhiali e completo grigio, l’artista, che in quel momento ha già 77 anni, traccia con poche linee decise gli occhi di lei, rapide pennellate per i capelli ondulati, un’unica linea per naso e sopracciglia.
Quello con la “giovane donna in bianco” è solo uno tra i tanti incontri che la rassegna d’arte, curata da Isabelle Monod-Fontaine, offre al visitatore. Le sale ferraresi raccolgono la produzione di Matisse e la ripropongono in ordine cronologico, dal debutto più accademico della stanza d’ingresso fino ai collage fatti con carta colorata e ritagliata (gouaches découpées) degli ultimi anni. Ma ogni volta il racconto della carriera di uno degli artisti che ha cambiato il corso dell’arte del Novecento, procede come un dialogo tra le figure impresse in quadri, disegni, sculture.
I primi lavori esposti sono il “Nudo in piedi” fatto a carboncino nel 1900 con la tecnica più tradizionale del ritratto dal vero; a poca distanza c’è il “Nudo in piedi” dipinto a olio su tela un anno dopo, dove già il tratto naturalistico si addensa in macchie di colore quasi impressionistiche. Pochi passi ed è “Madeleine II”, una scultura di bronzo del 1903, dove la materia è un accumulo di ombre, una massa lavorata a piccoli tocchi che conferiscono al metallo scuro la luminosità di dense pennellate, una forma semplificata ma di volume armonico. Il dialogo ricomincia tra le teste dei ritratti: quello su tela della bambina “Nono Lebasque” (1908), dominato dai colori brillanti di abito verde, sfondo blu e giallo sbiancato del viso, ha la leggibilità dei disegni infantili e si confronta con la semplificazione delle forme del mezzo busto in bronzo intitolato “Jeanette III” (1911) con le ciocche dei capelli riassunte in quattro masse di materia, le orbite degli occhi che diventano due cavità accentuate, le guance rese in un paio di volumi rotondi. Parlano tra loro le tele dallo sfondo rosato dove Matisse prova e riprova una composizione di figure intere, “Nudo seduto” (1909), con il caschetto di capelli della modella che d’improvviso può dialogare con quello di una visitatrice ferma ad osservarla. Nell’ultima delle sale queste figure raggiungono la massima sintesi nelle gouaches di cartoncino colorato o nei disegni a inchiostro su carta, come quello di “Acrobata” realizzato da Matisse nell’ultima fase di attività (1952). Poche pennellate sicure, che spingono la figura fino ai limiti dell’astrattismo.
Chiusura nel vivace bookshop, dove l’esplosione di colori di Matisse prende la forma di poster, libri, quaderni dedicati alla sua opera, ma che sembra contaminare anche tutti gli oggetti di design, le borse, la bigiotteria e la fotografia di cucina creativa in esposizione tra banchi e scaffali. I canoni estetici del grande rivale di Picasso sono dunque ancora attuali: il dialogo continua.
Finalmente febbraio, e tiri un sospiro di sollievo. Le giornate iniziano ad allungarsi, si lasciano dietro le notti lunghe di dicembre e gennaio. Uno sprazzo di sole ti sembra già una promessa di primavera. Tutto tira su il morale, quando ti ritrovi sul parallelo che va dal Labrador alla Kamchatka. Settimane di piogge ininterrotte e giochi delle maree fanno sì che spesso Cork si ritrovi abbondantemente sott’acqua. I locals sembrano infischiarsene o al limite prenderla con filosofia. Il centro città sommerso diviene occasione di svago e fare un po’ di craic, ovvero passare una serata al pub con risate, chiacchiere, musica e varie pinte di birra. E c’è chi se ne approfitta per farsi una vasca in centro, stavolta nel vero senso della parola.
Al St.Valentine weekend, cambiare aria non sembra più una proposta così assurda e forse, per un atavico istinto di sopravvivenza, ti lasci convincere a lasciare la città inondata e partire per uno “short break”. Condizioni necessarie: individuare una località rinomata e vagamente romantica, “Grand Hotel” stile Shining, ristorante chic “Georgina Campbell guide” nelle vicinanze con prezzi da Manhattan ed atmosfere alla Masterchef, dolce compagnia al seguito. Insomma quanto basta per scatenare sane invidie nell’entourage e chiudersi in bagno a piangere all’arrivo del prossimo estratto conto.
Piove a diretto ma è troppo tardi per cancellare tutto. Con umore alla Furio – e la Madga di turno a pagarne le conseguenze – lasci la città, questa volta verso est. Verso Waterford, storica città di vichinghi, vescovi e cristalli. Appena fuori Cork incontri le prime cittadine sulla costa, località di villeggiatura rinomate prima che i charter e i voli della “Ryan” iniziassero a trasportare migliaia di vacanzieri verso le spiagge di Spagna e Portogallo: Ballycotton, Yoghal, Dungarvan, Tranmore, Dunmore East. Tempi dei quali rimangono cartoline ed immagini vintage anni ‘70. Fotografie ingiallite di famiglie in spiaggia a prendere il sole, con cestino del picnic. Tutto il mondo è paese.
Tempo infame, strada monotona, umore basso. La tentazione di fare marcia indietro è forte. Ma quando meno te lo aspetti, le colline si aprono a sud, lasciandoti vedere uno scorcio d’oceano. Davanti a te la distesa d’acqua grigia e schiumosa, tra la pioggia onde spinte dal vento che si infrangono feroci sulle scogliere. All’orizzonte un raggio di luce taglia le nuvole, il suo riflesso nell’acqua quasi ti abbaglia. In un secondo sei ripagato di tutto, il tuo viaggio potrebbe anche finire qui. Il Furio che e in te è già lontano, la tabella di marcia idem. Cerchi una scusa per fermarti a bordo strada. Il tempo di una sigaretta fumata in silenzio, sufficiente per imprimere quell’immagine nella tua memoria: l’Irlanda è fatta di dettagli, luci oblique che filtrano tra le nubi e rendono lo stesso paesaggio sempre diverso, ogni giorno.
La strada e l’umore diventano meno pesanti. All’arrivo l’Hotel a Dungarvan è come te lo aspetti. Hall immensa e semideserta, moquette, carta da parati giallastra, mobilio austero, quadri con scene marine. Mare in burrasca e foto di JFK al muro. Il concierge ti guarda severo da dietro gli occhiali e ti viene da parlare sottovoce. Forse da qualche parte c’è un senatore, un cardinale o un capitano di vascello da non disturbare. Ma è solo un’impressione, perché sei sempre in Irlanda e, mano a mano che il tempo passa, il bar-ristorante comincia a riempirsi. Camerieri vanno e vengono con vassoi di birra e Fish & Chips. Clientela composta e variegata in totale relax. Un gruppetto di pensionati, famiglie con bambini al seguito, una coppietta che avrà poco più di vent’anni. Tutti con la necessità di rompere la monotonia dell’inverno irlandese, prendere il tempo di ritrovarsi, anche se solo per una notte o un fine settimana. In camera, come sempre, le contraddizioni della cattolicissima Irlanda: bibbie che saltano fuori come funghi dagli armadietti e stampe vagamente osé alla Salomé sui muri. Ladies & Gentleman, fate pure quello che dovete fare ma, se possibile, senza esagerare. Dopo cena, trovi il pub giusto, legno, brusio, odore di cane bagnato. Un tavolo d’angolo occupato da un gruppo di musicisti alle prese con i loro strumenti. Una live session di musica tradizionale: violini, bodhran, banjo, fisarmoniche, flauti. Bevi in silenzio e tieni il tempo col battito dei piedi.
La mattina è ancora una sorpresa: durante la notte il forte vento ha spazzato via le nuvole ed è un piacere passeggiare per la cittadina. Case multicolore che si affacciano sulla baia, bar e negozietti decrepiti dall’atmosfera realmente marinara.
Torna il sorriso, le giornate buie e la stanchezza di lunghe settimane di lavoro spariscono in un momento. Ritrovi la capacità di vedere il mondo e la sua bellezza, di ricambiare l’affetto di chi ti sta a fianco. Ti rendi conto di quanto sia importante il rito irlandese dello short break. Ora non hai più voglia di tornare a casa, la tentazione di proseguire verso i musei e i palazzi di Waterford o perdersi alla scoperta dei villaggi sulla costa è forte. Ma non c’è più tempo. Non senza un filo di dispiacere, riprendi la strada verso la città. Non fa nulla, sai che per qualche minuto ti terrà ancora compagnia la vista dell’oceano grigio, ora calmo, quasi azzurro.
da MOSCA – Qualche giorno fa, osservando alcuni palazzi moscoviti elegantemente illuminati, mi è parso di vedere affacciarsi alla finestra una ragazza dal viso dolcissimo, dai lineamenti fini e delicati, pettinata in maniera un po’ antica ma molto elegante. Le tendine bianche attraverso le quali l’avevo intravista erano state da lei gentilmente ma frettolosamente richiuse. Mi rimaneva una sensazione di sorpresa, di curiosità e di dejà vu.
In effetti, la stessa percezione l’avevo avuta lo scorso luglio, quando, camminando per i vialetti del Gorky Park, avevo colto una figura leggiadra correre fra le rose e infine nascondersi dietro una siepe, furtivamente. Come allora, ho avuto l’impressione di scorgere una raffinata, garbata e aggraziata zarina. Dietro piante fiorite, rigorosamente e ordinatamente in fila, avevo anche immaginato svolgersi la scena in cui la graziosa figlia di Grigorij Ivanović Muromskij, Lizaveta-Akulina, sussurrava dolci parole al suo Aleksej, figlio dell’odiato Ivan Petrović, lungo la strada ombreggiata del boschetto che Puškin descrive con la maestria che lo contraddistingue. I cespugli parevano gli stessi, così come le leggere frasche fruscianti. I messaggi trepidanti, lasciati negli incavi degli alberi, avrebbero potuto davvero essere ancora nascosti lì. Mi era piaciuta l’idea di andare a cercarne qualcuno, avevo immaginato di poter trovare una nota manoscritta, una calligrafia femminile tornita. E a quel punto, persa fra innamorati e zarine, mi sono ricordata delle fiabe russe e di una, in particolare, che oggi vorrei raccontarvi, arricchendola sì di qualche particolare, ma restandovi fondamentalmente fedele. Questa bellissima storia d’amore della tradizione popolare russa, che ben si addice non solo a chi è innamorato, parla di una zarina liutista dall’animo nobile.
Moglie di uno zar, questa bellissima donna, generosa e intelligente, suonava meravigliosamente il liuto. L’incanto puro usciva dalle corde del suo strumento, sfiorate leggermente e amorevolmente dalle dita sottili e delicate. Un bel giorno, il marito partì per un viaggio in Oriente e qui, caduto vittima di un’imboscata, venne catturato dai soldati di un sultano e rinchiuso in un carcere buio, triste, umido e maleodorante.
La zarina si vide ben presto recapitare una lettera con una richiesta di riscatto (tre vascelli d’oro e la più giovane principessa in sposa al sultano) che, se accettata, avrebbe privato il regno delle sue uniche ricchezze e lei della sua amata figlia. La zarina non volle cedere e chiese ai suoi cortigiani di lasciare che si occupasse della situazione da sola. Dovevano solo aspettare il suo ritorno, con fiducia. Senza dire nulla a nessuno del suo piano, si chiuse nelle sue stanze dorate, si tagliò le lunghe, folte e lucide chiome, si vestì da paggio, prese il suo liuto e si mise in viaggio verso Oriente.
Giunta alla presenza del sultano rapitore, travestita da valletto, gli si presentò come un abile suonatore di liuto, felice di poterne allietare le giornate con sognanti melodie d’altri tempi.
Dopo che le note più belle si erano effuse per il palazzo, il sultano, deliziato da tanta abilità e maestria, chiese al suonatore di rimanere accanto a lui ancora per molti giorni, il tempo necessario per affezionarsi al musicista. Dopo un mese di permanenza, alla zarina fu chiesto di rimanere almeno un altro mese, in cambio di un gesto di generosità reale: ella avrebbe scelto per sé un prigioniero, proveniente dalla sua terra, in attesa di ricevere il riscatto richiesto per lui.
Accompagnata dalle guardie nelle prigioni sotterranee, la zarina, vestita da uomo, riconobbe immediatamente il marito, ma non viceversa. Lo zar, tuttavia, si rallegrò alla notizia di aver di fronte un musicista che era riuscito a strappare al sultano la promessa di poterlo ricondurre con sé nella loro comune patria. Prima del congedo, il paggio suonò una musica che allo zar ricordò quella della dolce compagna, ma questo lo portò soltanto a proferire parole di rimpianto, di tristezza e ira per moglie e sudditi che, a suo parere, non avevano fatto nulla per liberarlo. Lungo tutto il viaggio di ritorno il liutista non aprì bocca, era triste e forse anche un po’ deluso. Ma quel silenzio venne scambiato per timidezza e soggezione. Lo zar era riconoscente solo al suonatore sconosciuto e continuava a dubitare dell’amore della sua famiglia. Giunti in patria, il liutista sparì, dopo aver lasciato lo zar al cospetto della sua corte. Adirato con la moglie, di cui tutti ignoravano la sorte, e angosciato per la scomparsa del suo liutista, lo zar aveva dato ordine di cercarlo ovunque. Per lui avrebbe dato tutto, ogni bene prezioso, per quello sconosciuto che gli aveva salvato la vita in maniera tanto generosa e disinteressata. La mattina del quarto giorno, lo zar sentì il suono dolcissimo di un liuto provenire dal suo giardino alberato e fatato. Era sicuro che si trattasse del suo amico e salvatore. Precipitatosi fuori, su un prato fiorito vicino a una fontana, intravide la sagoma del liutista. Ma solo avvicinandosi capì che si trattava di sua moglie, vestita con gli abiti da zarina ma con i capelli ancora corti, dal taglio mascolino. La donna gli chiese se gli piacesse quella musica tanto amata dal sultano d’Oriente, e lo zar, stupefatto comprese allora che la splendida moglie aveva sfidato per lui la sorte, sofferto e corso enormi rischi per salvarlo; si vergognò di aver dubitato di una donna che era riuscita in un’impresa che solo un immenso amore poteva guidare.
“Per il futuro” esclamò lo zar, prevenendo le sue parole, “sarò più cauto nel giudicare”.
I festeggiamenti furono splendidi: per tre giorni e tre notti ci fu un grande banchetto con danze, suoni, canti, baci e…
quel gran pranzo sopraffino
io l’ho visto da vicino;
tre confetti ho ricevuto,
tutto il resto l’ho perduto.
Al convegno preparatorio di Orvieto per la costituente del Partito Democratico del dicembre scorso, e nei momenti successivi, Pierluigi Castagnetti, l’ultimo segretario dei popolari, parlava di “meticciato” come della condizione indispensabile per mettere insieme le diversità di storie ed esperienze, di valori ed ideali, delle due principali forze politiche italiane, oltre ad altro naturalmente.
Le difficoltà dell’amalgama stanno nella tribolazione di questi cinque anni e oltre; soprattutto in periferia, nelle cento città e ottomila comuni, dove sovente, nelle salette dei circoli, fuori casa, ti sentivi in prestito, sopportato, a trazione unica. Ora quel “meticciato” non c’è più, si è esaurito, e si sta trovando l’uscita dal ‘900, anche se appaiono, ancora, gli ultimi resistenti “giapponesi”.
Se penso alla nostra città e al suo territorio, l’unica cosa che forse aiuta è quel passaggio della politica che va da viale Krasnodar a via Frizzi, un modo per abbandonare un “museo” senza ritrovare, per ora, nuove architetture. Di altri attori indigeni non se ne vede, se non in alcuni tavoli del nostro centro storico. Ed in questo nuovo quadro d’insiemi, possiamo dire che ora si assapori, anche trasversalmente, uno slancio sociale un po’ più aperto, per le ritrovate identità, e quindi che si possa intravedere l’accesso a quei profumi di conoscenze e di saperi, necessari per crescere come Paese e costruire un futuro di speranza.
Possiamo affermare che era necessario entrare nella “cristalleria” del ‘900 per darsi impronte di cambiamento, rimodellarsi e riposizionarsi nel nuovo che avanza, tra sviluppo, innovazione e nuovi umanesimi, per poter entrare nei processi di globalizzazione, senza perdersi e sciogliersi nei nostri localismi, ricchi di sfumature e scavati nelle profondità dei vissuti. Forse non è ancora finito
il tempo del rimodularsi, dello scomporsi e del ricomporsi da parte delle nostre forze politiche;
ma di certo sarà l’Europa a dettare i tempi nuovi e a segnare i tratti necessari per andare oltre questa crisi profonda (anche politica) che sembra non finire mai.
Ci saranno due grandi aree della politica in Europa, due nuovi centrali pilastri della convivenza democratica, oltre a pochi, limitati e disturbanti eccessi nazionalistici e regionalistici, sostanzialmente egoistici e populisti. Chi vorrà stare fuori dalla storia da costruire, si dovrà accomodare e rimanere ai margini dei tempi nuovi, i cui segni sono ormai evidenti e maturi. Ci saranno, sicuramente, delle resistenze, anche dure e durissime, ma il solco è ormai profondo e dentro si può solo morire, sciogliendosi.
E’ sufficiente stare qualche minuto tra i tavolini di un bar, in una paninoteca all’ora dell’aperitivo, tra gli scaffali di un ipermercato, in un polveroso centro per l’impiego, in un corridoio di ospedale, dietro ad un tornio, all’oratorio, nel sagrato di una Chiesa, nella curva ovest di uno stadio, in una associazione onlus, tra i banchi delle scuole superiori, per capire che la strada da percorrere è una sola, una sola e urgente, cioè la strada di una politica del cambiamento. Non abbiamo certamente sognato, non siamo vicini al paradiso, anche se ci piace prendere quel caffè sopra le nuvole di una bellissima pubblicità; però “lasciateci almeno la speranza” come invoca il cardinal Martini.
Aspettare una “nuova cristalleria” è quel cambio di passo che ormai tutti ci attendiamo.
Alla fine lo ha detto chiaramente: “Io non sono democratico”.
È la frase che, probabilmente, ha più colpito durante le consultazioni tra il presidente del Consiglio incaricato di formare il nuovo governo, Matteo Renzi, e il leader Cinquestelle, Beppe Grillo, trasmesse in diretta streaming giovedì 20 febbraio.
Solo che, a differenza della prima diretta, dalla quale Bersani uscì con le ossa rotte, stavolta parrebbe che l’urlatore genovese si sia fatto un clamoroso autogol.
Perché ha rivelato in modo plateale che si chiama fuori dal discorso democratico, che non tollera il contraddittorio e chi mette in dubbio la sua verità.
Rimane fermamente convinto che per rimettere in carreggiata l’Italia sia sufficiente decimare le indennità ai parlamentari e azzerare il finanziamento ai partiti. Tutto il resto non conta. O meglio: se si accettano le ricette pentastellate bene, altrimenti non si fanno accordi con nessuno, perché dietro ci sono i poteri forti, le banche (in qualcuna di queste magari ci sono pure i risparmi di Grillo), il marcio, il vecchio.
Quindi, per riassumere, la scatoletta di tonno del Parlamento va aperta, mentre la sua va presa così com’è: chiusa.
Il tutto poi deve andare in onda alla luce del sole, perché non ci deve più essere alcunché da nascondere nelle stanze del Palazzo.
Salvo spegnere le telecamere quando fa comodo e, guarda caso, proprio se dentro il movimento qualcuno vuole discutere.
Soprattutto guai a parlare con i giornalisti, tutti moribondi.
Ancora, ci sono decine e decine di parlamentari eletti dal febbraio 2013, ma per capire se andare a parlare con il presidente del Consiglio incaricato si deve fare una consultazione on line per convincere il capo, che non vuole nemmeno essere chiamato tale, il quale comunque è dell’idea di non andarci. E quando si presenta davanti a Renzi dice che glielo hanno chiesto. Vostra Grazia!
Tra un po’ non ci sarebbe nemmeno da stupirsi se i grillini ricorressero ad una consultazione via rete per decidere se sia il caso di consultare la rete.
Conclusione: ruolo dei rappresentanti di Camera e Senato eletti democraticamente dai cittadini uguale a zero.
Per inciso, il comico genovese non siede nemmeno in Parlamento anche se di questi tempi, per la verità, non è un’eccezione.
Poi c’è l’altra frase detta da Grillo in faccia a Renzi: “Ci hai rubato metà programma”. Chiunque si gonfierebbe il petto se alcune proposte avessero fatto breccia nei programmi degli altri. Pare di sentire la manfrina ripetuta da chiunque: “Avete visto che avevamo ragione noi”, e via con la sfilza delle cose, tutte rigorosamente concrete.
Invece qui c’è l’ostentazione orgogliosa del tipico atteggiamento infantile: è mio.
Il pensiero corre a ritroso a Jean Jacques Rousseau e alla sua idea della volonté générale: tutti cittadini, tutti liberi e tutti che contano allo stesso modo, senza più gerarchie sociali.
Praticamente la fine delle ingiustizie, la fine dell’ancien régime e l’inaugurazione del regno dell’uguaglianza totale. Oggi, si direbbe, nell’orizzontalità assoluta del web.
I problemi nascono quando qualcuno si mette in testa di parlare in nome e per conto della volontà generale. Assolutismi, autoritarismi e totalitarismi, sono in fila, uno dietro all’altro, e ancora ci parlano. Basta leggere qualche libro di storia.
Fino all’esaltata follia del nazismo: un popolo, uno stato, un führer, o alla perdurante realtà del caro leader nordcoreano.
Per restare invece coi piedi per terra, c’è chi ha letto nello show di Grillo una mossa meticolosamente studiata in ogni dettaglio, per sottrarre a Renzi ogni possibilità di parlare al proprio elettorato, in una prospettiva di voto più o meno vicina.
Il tutto mentre si va verso la formazione del sessantaquattresimo governo in sessantotto anni di storia della Repubblica, su una maggioranza parlamentare dai contorni poco chiari, se si pensa alle parole di stima e incoraggiamento provenienti da Forza Italia, che si colloca all’opposizione, mentre scricchiolii si sentono dall’alleato Alfano e da Pippo Civati, quest’ultimo dato a un passo dalla decisione di uscire dal PD.
Per quanto claudicanti e criticabili, continuare a deridere le istituzioni in nome di una sacrosanta indignazione civile, può essere una strategia, ma può portare ad esiti diametralmente opposti a quelli desiderati; e chi ha scritto la Costituzione lo ha fatto con la penna in mano e negli occhi l’orrore lasciato da un’ideologia totalitaria.
La stessa scena dei forconi rappresentati da uno che gira in jaguar è una spia accesa.
Gli esperti li chiamano effetti perversi, e già l’espressione dovrebbe mettere in guardia chi ha ancora un po’ di sale in zucca.
Ripenso a quella frase che gli anarchici ripetevano andando sul patibolo, ci andavano ridendo e irridendo a quel potere che li condannava a morire, colpevoli di volere una società giusta; salivano sul patibolo e gridavano “una grande risata vi seppellirà”. Non c’è più il patibolo, la condanna a morte è molto più subdola, non si può condannare a morte, adesso si può passare subito, senza inutili intermediazioni, all’esecuzione: si può essere uccisi in carcere, durante un interrogatorio per esempio (ricordate Giuseppe Pinelli? giù dal quarto piano della questura milanese, non fu suicidio disse il giudice, ma nemmeno omicidio: che fu?); oppure per strada, così per tenersi in allenamento, anche in ospedale può essere sbrigata l’esecuzione senza processo, la condanna a morte viene praticata ovunque.
Viviamo in un sistema sociale per molti aspetti fuori della legalità, la legge è quella del più forte, un Far West accettato da una popolazione attonita, disillusa e umiliata, l’unico valore è quello dei soldi e ce ne sono di soldi, ma quasi tutti nelle mani di pochissimi. I politici fingono di non vedere, o forse non capiscono, comunque va bene (a loro) così. Quello che è successo in questi ultimi giorni è esemplare di come la nostra comunità sia precipitata in un baratro di inadempienze e di prevaricazioni. L’Italia aveva una cosa di buono: la Costituzione, moderna, attenta alle differenze sociali. Ebbene, abbiamo cominciato a strapazzarla, a svilirla, a non seguirne i dettami.
Ricordo, quando studiavo legge a Bologna, la fermezza del grande costituzionalista Pergolesi nel criticare anche il capo dello Stato se, per caso, succedeva che non fosse attento alla magna carta. Mi piacerebbe vedere Pergolesi oggi, qui, mi piacerebbe sentire che cosa avrebbe da dire sugli ultimi avvenimenti. Tanto per citarne un paio: il segretario di un partito (sto parlando di Renzi) va a concordare il futuro politico dell’Italia con un uomo condannato in via definitiva (sto parlando di Berlusconi) per reati sociali gravissimi, e con lui fa un patto a futura memoria mentre è ancora in piena funzione un governo, anch’esso uscito da una situazione costituzionale diciamo compromessa. Altro evento folle: sbattuto fuori il presidente del Consiglio, senza passare attraverso le Camere, il capo dello Stato accoglie nel suo ufficio al Quirinale un uomo che dovrebbe stare in galera o ai servizi sociali, e con lui concorda le mosse da fare, tanto che lo pseudo-condannato (sempre Berlusconi) può scendere dal Colle e proclamare che il nuovo governo nasce con la sua benedizione e attuerà la sua politica. Questi ed innumerevoli altri fatti politici clamorosi, accaduti negli ultimi tempi in Italia, sanciscono che la Costituzione di fatto non esiste più.
Ecco, ora dovremo ripetere la frase di quello scolaro napoletano che nel tema scrisse “io speriamo che me la cavo”. Il popolo italiano continuerà a salire sul patibolo, non gli rimane che gridare con gli anarchici la frase che fu ripresa da Brecht “una grande risata vi seppellirà“. Ricordo che quarant’anni fa (forse qualcuno di più) il pittore ferrarese Paolo Baratella, uno dei più importanti artisti della “Nuova figurazione” dipinse una serie di tele dedicate a questa drammatica risata. Per favore Baratella, ritira fuori quei quadri, sono attualissimi!
Roma caput mundi, come sempre. Città che non smette mai di stupire per le sue bellezze, la fantasia e le iniziative culturali. Nel nostro “percorso russo”, abbiamo, infatti, piacevolmente scoperto che l’Auditorium Parco della Musica – Teatro Studio di Roma ha organizzato, dal 20 ottobre 2013 al 12 maggio 2014, una serie di incontri dedicati alla letteratura russa dal XIX secolo a oggi (l’iniziativa si intitola “Vi racconto un romanzo”).
Organizzati in forma di conversazione introduttiva all’ascolto del testo, gli incontri, presieduti dal grande poeta e giornalista Valerio Magrelli, dureranno circa un’ora e un quarto ciascuno, senza alcun intervallo. Insieme a lui, ognuno degli studiosi invitati esaminerà alcune pagine degli autori scelti. Si partirà dalla presentazione biografica dell’autore, per passare all’analisi letteraria, fino ad arrivare alla lettura vera e propria, eseguita da alcuni fra i più noti attori italiani. Il pubblico potrà familiarizzare con i grandi classici della letteratura russa, rivivendo emozioni e luoghi attraverso le voci di grandi narratori. Le opere presentate saranno otto in tutto.
Il 29 ottobre scorso, è andato in scena il romanzo in versi Evgenij Onegin, di Aleksandr Sergeevič Puškin, introdotto da Antonella D’Amelia, studiosa del mondo culturale russo e Direttrice del Centro internazionale di ricerca Russia-Italia presso l’Università di Salerno, che riunisce studiosi di dodici università russe e italiane. Sulle pagine lette da Patrizia Zappa Mulas, hanno sfilato il giovane mondano, scettico e annoiato Evgenij Onegin, il poeta romantico e idealista Vladimir Lenskij, le due sorelle Tatjana e Olga Larin. Vedremo quindi Evgenij arrivare da Pietroburgo in campagna per questioni ereditarie, dove con un altro giovane proprietario, Lenskij, comincia a frequentare la casa della signora Larin che vive con le due figlie Tatjana e Olga, quest’ultima fidanzata con Lenskij. Tatjana, innamoratasi di Onegin, gli confessa il suo amore in una lettera ardente e ingenua ma il dandy farfallone, che la respinge, durante una festa da ballo, corteggia Olga e, sfidato da Lenskij, lo uccide in duello. Dopo vari anni di peregrinazioni, tornato a Pietroburgo, egli vi ritrova, sposata, la Tatjana provinciale a suo tempo rifiutata. Ora, innamoratosi perdutamente di lei, la corteggia invano, le scrive e finalmente riesce a trovarla sola in casa. Tatjana gli confessa di amarlo ancora, ma nello stesso tempo gli dichiara fermamente che non tradirà mai l’uomo che ha avuto fiducia in lei sposandola. Romanzo unico.
Il 25 novembre scorso, il satirico Le anime morte di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (peraltro scritto a Roma), è stato presentato da Cesare De Michelis, editore e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Padova e letto da Ottavia Piccolo. Vedremo fuggire il Consigliere di Collegio Pavel Ivanovič Čičikov, smascherato dopo aver tentato di acquistare a buon prezzo le “anime morte”, ovvero i servi della gleba deceduti, secondo l’ultimo censimento, e per le quali i proprietari continuavano a pagare un’imposta fino alla registrazione del decesso al successivo censimento. Gran galleria di ritratti, truffa scoperta. Delitto e Castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij è stato presentato il 16 dicembre scorso, da Fausto Malcovati, docente di Lingua e letteratura russa all’Università di Milano, e declamato da Moni Ovadia. Penseremo di trovarci a San Pietroburgo, in un’estate afosa e calda, immersi nell’evento chiave, l’ omicidio premeditato di un’avida vecchia usuraia e quello imprevisto della sorella più giovane, comparsa sulla scena del delitto appena compiuto. L’autore dei delitti è il protagonista, l’indigente studente Rodion Romanovič Raskol’nikov, e nel romanzo si narra la preparazione dell’omicidio, ma soprattutto gli effetti emotivi e fisici che ne conseguono. Ascolteremo come il vero castigo di Rodion non sia il campo di lavoro a cui sarà condannato, ma il tormento che lo logora attraverso tutta la storia e che si manifesta anche nella progressiva convinzione del protagonista di non essere un “superuomo”, poiché non ha saputo essere all’altezza dei suoi gesti omicidi.
Proseguendo, il 27 gennaio scorso, Rita Giuliani, docente di Lingua e letteratura russa all’Università la Sapienza di Roma, ha introdotto il romanzo in otto parti di Lev Nikolàevič Tolstòj, Anna Karenina ambientato nella Russia del XIX secolo e interpretato da Alba Rohrwacher. L’aristocratica Anna è sposata con Aleksej Karenin, un ufficiale governativo, e ha un figlio, Serëža. Suo fratello, Stiva, un ufficiale civile, ha tradito la moglie Dolly e Anna viene chiamata da San Pietroburgo a Mosca per convincere Dolly a non lasciarlo. Nel viaggio conosce la contessa Vronskaja e l’affascinante figlio, il conte Vronskij, anch’egli ufficiale, con il quale inizierà una relazione molto passionale, rimanendo incinta. Un amore intenso ma complesso, che condurrà Anna, confusa e disperata, al suicidio. In un intreccio variegato e non sempre facile, avremo la sensazione di attraversare scene e luoghi, e condividere sentimenti, dubbi e paure.
Il 24 febbraio prossimo sarà la volta di Noi romanzo satirico di Evgenij Ivanovič Zamjatin, presentato da Alessandro Niero, docente presso la Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Bologna, e letto da Stefania Rocca, che incarna una delle più sofisticate e lucide anti-utopie della letteratura novecentesca; il 17 marzo verrà presentato Pietroburgo di Andrej Belyi, introdotto da Daniela Rizzi, docente di Studi linguistici e culturali comparati all’Università Ca’ Foscari di Venezia, letto da Andrea Giordana, il romanzo ripercorre gli avvenimenti finali del periodo pietroburghese della storia russa; il 14 aprile, Vita e destino di Vasilij Grossman che passa in rassegna vite e personaggi dell’Unione Sovietica della II guerra mondiale e della battaglia di Stalingrado, sarà presentato da Pietro Tosco, docente di Letteratura russa alle Università di Verona e Mosca, Direttore del Centro Studi Grossman di Torino, lasciato alla voce di Giorgio Marchesi; la serie di incontri si chiuderà il 12 maggio con Mosca sulla vodka di Viktor Vladimirovič Erofeev, presentato dalla scrittrice Serena Vitale e letto da Antonio Catania, opera grottesca, visionaria, tragicomica, affidata all’alcolismo cronico e disperato del protagonista che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.
Sullo sfondo della bellissima Roma, si potranno assaporare storie dell’antica e nuova Russia.
Nelle affollate sale della cultura ferrarese, dove si parla e si discute di temi e motivi straordinari (benché a volte le accoglienze siano un po’ scarse), e mi riferisco in particolare a un Castello tutto immerso nell’oscurità, mentre gli ascoltatori della conferenza su Camillo Filippi, noto pittore manierista della scuola ferrarese, si guardavano smarriti in attesa di una luce che permettesse una necessaria sosta alla toilette, o alla trionfale presentazione del libro del caro amico e collega Franco Cardini (e mai saranno sufficientemente lodate le illustrazioni prodotte da Maria Paolo Forlani!) con tutta la noblesse culturale della città con la bocca convenientemente piegata alla smorfia “cul de poule” (massimo rimprovero per “eventi” condannati a priori), che giurava sulla convinzione che MAI avrebbe ascoltato il festival della canzone sanremese, al massimo un buon western o una fantascienza d’antan.
Io, per me, curioso anche delle vetrine che espongono i cachemires e le toilettine alla Renzi, mi son sistemato in poltrona, naturalmente quella con la parte reclinabile adatta alla mia età, per vedere la più straordinaria rappresentazione del carattere degli “itagliani”. Formidabile, anche se crollavano a iosa nell’angosciante e piranesiano palcoscenico (della sempre verde serie delle Carceri) miti e personaggi. L’angosciato Fazio alle prese con la minaccia grilloide che ha riempito la piazza davanti al teatro, col ripetitivo insulto del canuto comico e la più reale minaccia di due disperati che protestavano perché, assieme ad altri 800, non prendono più stipendio da mesi.
Fazio tenta la via del salvare capre e cavoli, secondo la vecchia legge del teatro: “lo spettacolo deve continuare”. Mentre si susseguivano siparietti un po’ retrò tra cui penoso il duetto tra lo scheletrico presentatore e una formosetta con viso schiacciato -una certa Casta- ambientato in un’improbabile rivisitazione dell’esistenzialismo francese.
Allora, ho capito tutto! E’ vero, è vero! Il signore di Arcore si è sempre esibito sulle navi da crociera e nelle sue ville a sussurrare Les feuilles mortes o La vie en rose tra un’orgettina e l’altra. Ma era satira o realtà? Questo è il problema. Se sia più reale l’imitazione della vita o la vita come imitazione. Mah! In questa fiera dell’usato, ecco duettare una signora cinquantenne, la cosiddetta Lucianina, con una sempre verde Carrà gravata di innumerabili anni, parlando degli acciacchi dell’età superata con ginnastica e fiducia nella vita.
Credo che il mio spot preferito (a parte le confidenze delle signore in ascensore sugli ormai sconfitti “odori” delle loro parti intime o quello, solo per intellettuali, dove Dante scrive la Commedia sul rotolone igienico) sia quello in cui una signora con voce “importante” magnifica l’adesivo che le permette un uso disinvolto della dentiera. Ecco di nuovo: spot pubblicitario per tenersi in forma oppure pura e semplice adesione alla vita nei suoi più rappresentativi significati amatissimi dalla casalinga di Voghera o dai patiti di B. che ha avuto la capacità di ridurci così? Ecco perché non sopporto la presunzione dei miei simili (accademici e non) che trovano una diminutio specchiarsi nel mondo sanremese. Questa, come dire, riserva da radical chic (categoria a cui in certi momenti entusiasticamente aderisco, specie quando mi si rimprovera da parte degli urlanti populisti il mio privilegio di potere assistere a un grande concerto di musica classica invece di spendere 6-700 euro per la serata finale di Sanremo) mi porta a riflettere sul senso di quei nomi così doverosamente sostenuti da chi crede, ancora per poco, alle parole come “valore” e “cultura”.
Ben lo spiega il bravo Curzio Maltese su “La Repubblica” del 19 febbraio da un titolo inquietante La politica? Si fa a Sanremo. E di fronte alle urla di G. le poltrone vuote delle mogli dei Marò prigionieri in India, la protesta dei due operai riflette: “Da noi si denunciano i problemi non per risolverli, ma per ottenere un grande applauso. L’applauso in sé garantisce che la soluzione non sarà mai trovata, perché in questo caso la volta successiva non si potrebbe ottenere un altro applauso e di conseguenza s’incepperebbero i sacri meccanismi dell’audience.”
Si pensi che, oggigiorno, per sconfiggere la morte e il mistero più tormentoso della nostra esistenza, ai funerali si applaude: una forma atroce che vorrebbe ricordare il defunto attraverso la forma più spettacolare, l’applauso appunto. E le canzoni. Quelle non contano. Forse fischieremo un motivetto quando la macchina pubblicitario-organizzativa si sarà esaurita. Tutte queste modalità di espressione non hanno forse qualche somiglianza con l’altra macchina politica messa in piedi dal Presidente del Consiglio incaricato? Chissà quale canzonetta fischieremo: un plagio o una novità?
Il Prof. Giorgio Calabrese, medico nutrizionista più popolare d’Italia, grazie alle numerose partecipazioni a canali tv, ribadisce il suo no al cibo spazzatura, sottolineando l’importanza di frutta e verdura per vivere più sani e a lungo.
Hamburger, hot dog, patatine fritte, soft drink: per nutrizionisti, dietologi ed esperti di alimentazione sono questi i cibi killer per la nostra salute. In più, in questi ultimi giorni, la questione Terra dei fuochi ha portato di nuovo alla ribalta il tema dell’impatto dell’inquinamento ambientale sugli alimenti che mettiamo sulle nostre tavole. Questi i due punti su che pone in evidenza il Prof. Calabrese, che abbiamo intervistato presso la sede RAI di via Teulada.
Prof. Calabrese, la stretta connessione tra inquinamento ambientale e alimentazione torna oggi alla ribalta per la nota questione della Terra dei Fuochi. Al di là del riferimento specifico, nell’ambiente sono presenti diverse sostanze inquinanti. Quali sono le più dannose per la nostra alimentazione?
Le sostanze prodotte dallo smog in generale, dal traffico automobilistico e, ovviamente, dalle eiezioni delle case e delle aziende, finiscono nell’aria e da qui ricadono sui campi coltivati, quindi nei cibi, o nell’acqua, che, come sappiamo, hanno la capacità di trattenerle con estrema facilità.
Il primo effetto di questo fenomeno è la formazione di sostanze chiamate ammine cicliche che possono creare delle vere difficoltà al nostro fegato in fase di metabolizzazione. Contemporaneamente abbiamo anche una difficoltà di tipo respiratorio, perché il microcircolo del polmone risente moltissimo dell’inquinamento atmosferico. Le particelle di particolato, mi riferisco al pm 10 o al pm 20, si infiltrano in mezzo agli interstizi dei bronchioli fino ad arrivare ai capillari.
Quali cibi possono aiutarci ad arginare questi effetti dannosi?
La nostra dieta deve essere ricca di alimenti che permettano di disintossicarci e di combattere, arginare, le sostanze dannose presenti nell’ambiente. La medaglia d’oro va ai cibi antiossidanti, come frutta e verdura, che mantengono più giovani e rinvigorite le nostre cellule, prime fra tutte quelle del cuore e del cervello.
Prima ho detto che molti agenti ossidativi possono ricadere sui campi coltivati, ma sempre nei campi c’è un numero maggiore di antiossidanti, frutta e verdura appunto, che vanno consumate cinque volte al giorno.
Poi occorre incamerare una giusta dose di proteine, di origine animale e vegetale, senza mai superare 15% del nostro fabbisogno giornaliero. Pochi grassi e meglio di natura vegetale, soprattutto olio extravergine o di un solo seme, in modo tale da poter avere, assieme agli antiossidanti che non danno calorie e agli oligominerali, una batteria, una composizione che permetta agli agenti ossidativi di bloccarsi e di mantenere una gioventù più lunga nel tempo.
Quali cibi vanno evitati?
Continuo a dire che non esiste un cibo che di per sé faccia bene o male. E’ l’uomo che può rendere un cibo pericoloso per la salute con le tecniche di preparazione o di cottura. Il cibo eccessivamente elaborato e ricco di grassi, il cosiddetto junk food, il cibo spazzatura, deriva dalle elaborazioni umane ed è questo che va evitato come la peste.
L’Associazione nazionali Comuni italiani – Anci – e il suo presidente, in un recente convegno hanno annunciato, nell’ambito dell’imminente riordino istituzionale, che troppi sono gli oltre ottomila Comuni e che sarebbe opportuno, urgentissimo e politicamente corretto, ridurli partendo da un minimo di popolazione tra i 20/25 mila abitanti per Comune.
La trasformazione del Senato, la modifica del titolo quinto, le funzioni e le competenze concorrenti, lo sconfinamento di ruoli e funzione delle Regioni, le Province ormai spinte ad essere enti di secondo grado e di area vasta, i servizi di pubblica utilità affidati ad aziende municipalizzate e vicine alle parziali privatizzazioni, oltre ad assumere dimensioni più ampie, saranno il nuovo quadro e il cambiamento che si imporrà a breve nella nuova politica dei territori.
La spending review deve passare anche per questi nuovi riassetti istituzionali ed organizzativi della macchina burocratico – amministrativa del nostro paese, e bene fa l’Anci ad assumere questa nuova svolta sugli enti locali.
Se pensiamo che in Piemonte i Comuni sono 1.200 di cui 800 con meno di 1.000 abitanti, e tantissimi di 300 anime, ci domandiamo, come può essere possibile governarli nelle economie di scala, nelle prestazioni ai cittadini, nel farsi rete, e nei raccordi legislativi e programmatici della sua Regione, se così minimali e ormai rivolti al nanismo sia demografico che politico,?
Si governano solo con una loro adeguata dimensione sia territoriale che abitativa e funzionale, negli obiettivi e nei risultati di efficienza, efficacia ed economicità.
Partendo da almeno 20.000 abitanti, e valutando caratteri di contiguità, di prossimità, di altura e di costa, di storia e tradizioni, sicuramente si procederà bene; sarà assicurato un buon grado di governabilità lasciando al Parlamento l’articolato del Disegno di legge, alle Regioni la formulazione degli ambiti, sentite le municipalità, e poi indicendo un referendum per coinvolgere i residenti sui vantaggi e altro.
Il tutto è realizzabile entro due anni, e in questo modo avremo al massimo 3.000 Comuni e non è poco.
Di seguito, abbiamo simulato il quadro del ferrarese ed ecco i nuovi 10 Comuni contro gli attuali 24 e già 26.
Così ci pare essere funzionale, in questo modo i ferraresi potrebbero anche risparmiare almeno il 10% della spesa corrente, per un totale di 30 milioni di euro.
“Il singolare influsso esercitato dalla luce che filtra attraverso il vetro colorato” scriveva Paul Scheerbart nel 1914, “era già noto agli antichi sacerdoti assiri e babilonesi; essi furono i primi a introdurre lampade di vetro colorato nei loro templi”: da queste lampade si passò, nell’epoca gotica, alle finestre di vetro colorato: “che queste producano un effetto di particolare solennità” concludeva lo scrittore tedesco, autore di Architettura di vetro, “non dovrebbe destare particolare sorpresa […] il suo effetto sulla psiche umana non potrà essere che positivo”.
La ferita, per certi versi irreversibile, portata al nostro millenario patrimonio artistico dal violento sisma del 20 e del 29 maggio 2012, abbattutosi al centro dell’Emilia, e in parte sulle aree confinanti a nord e a ovest, ci ha ricordato, improvvisamente e quasi l’avessimo distrattamente dimenticato, che la nostra storia si rispecchia e si rigenera nelle torri civiche, nelle quinte scenografiche e abitate delle chilometriche strade porticate, nei campanili, nelle chiese. In sostanza, nell’insieme del patrimonio artistico immobile e mobile, all’interno del quale spiccano per originalità le pareti di luce invetriate e istoriate.
La tradizione che ha creato questo libro aperto, luminoso e colorato, posto sulle pareti sacre e profane del nostro patrimonio storico risale, nel mondo occidentale, a oltre mille anni fa: nel XII secolo, il monaco tedesco Theophilus, ovvero Rogkerus di Helmarhausen, scrive un trattato che definisce i canoni costruttivi delle vetrate istoriate, e l’abate Suger di Saint Denis pone le basi del significato mistico e religioso delle rappresentazioni, che hanno raccontato, in controluce, alle molteplici generazioni che le hanno osservate, le vicende dei santi, le emozioni interiori della devozione, le rappresentazioni araldiche e le perpetuazioni nobiliari.
Fatta eccezione per alcune rappresentazioni del Quattrocento, realizzate a Bologna ad opera di artisti importanti quali il Francia, Lorenzo Costa o Francesco del Cossa e dal loro contemporaneo vetraio-artista operante a Bologna, il monaco benedettino beato Jacobs Griesinger di Ulm, la maggior parte delle vetrate istoriate oggi visibili nel nostro territorio, sono state manufatte, legate e installate nel corso del XX secolo. I primi anni del Novecento, con l’elevazione delle innumerevoli chiese ispirate all’imperante stile Neogotico, e il secondo dopoguerra, con il piano di ricostruzione, videro, fra Bologna, Ferrara e Modena, un’intensa attività edificatoria nel comparto religioso. Le vetrate istoriate, da parte loro, in un percorso stilistico originale aderente alle architetture o talvolta collegato a uno stile più moderno, hanno sempre rivestito un ruolo di prim’ordine in entrambi i periodi.
Le riprese trasmesse dai media e dalla rete, con le immagini del lavoro prezioso, e talvolta rischioso, degli operatori impegnati nell’emergenza post-sisma, hanno consentito di apprezzare appieno le frenetiche operazioni di salvataggio, di recupero e messa in sicurezza del patrimonio artistico mobile: degli arredi e degli oggetti che erano conservati all’interno degli edifici storici e religiosi. Sullo sfondo, all’interno del campo di ripresa, a un’attenta osservazione delle immagini che scorrevano, non poteva sfuggire lo sfolgorio delle multicolori vetrate istoriate legate al piombo poste sulle pareti: il frutto di un’arte “difficile, artificiosa e bellissima”, come scriveva Vasari nelle Vite alla metà del Cinquecento. Un’arte che spesso, in Italia, è stata considerata un ibrido tra la rappresentazione per immagini di un soggetto sacro e la funzione svolta a protezione di ciò che si trova all’interno delle pareti.
Quando non sono crollate insieme alle strutture architettoniche di cui facevano parte, queste vetrate, con i loro santi spesso ieratici e severi, sono rimaste sostanzialmente al loro posto e, dopo diversi mesi dall’evento sismico, si trovano ancora lì: simbolo, testimone e auspicio di una volontà di rinascita.
Nella chiesa di Mirabello, nel Ferrarese – pressoché azzerata nel timpano principale, nel portale, sul tetto e nella parte absidale completamente crollata – sono andate perdute in modo irrimediabile le due eccellenti vetrate figurate degli anni Cinquanta, che misuravano più di tre metri di altezza ed erano poste dietro l’altare. Realizzate dall’artista pittore Giuseppe Cassioli e legate al piombo dal maestro fiorentino Guido Polloni, le due vetrate, che rappresentavano in figura intera San Tommaso e San Giuseppe con Gesù, erano il frutto di una donazione effettuata da una famiglia locale, poi espatriata.
In situazioni meno devastanti ma critiche, come nella chiesa di Poggio Renatico, sempre nel Ferrarese, le crepe più profonde si sono originate in corrispondenza delle discontinuità presenti nelle pareti, ovvero le finestrature. La violenza del sisma ha procurato spesso il distacco dei telai in ferro dalle murature; in alcuni casi è stato il telaio a mantenere in parte aggregata la muratura, in altri la vetrata è uscita dai ritegni metallici perimetrali ed è caduta al suolo all’interno della chiesa, danneggiandosi. In una parte consistente delle chiese i vetri applicati all’esterno, a protezione delle vetrate istoriate (in alcuni casi inefficaci, pericolosi e in parte dannosi), si sono rotti, in quanto rigidi; le vetrate legate al piombo, al contrario, hanno opposto una soddisfacente resistenza al movimento oscillatorio, conservando un’apparente buona coesione dei tasselli in vetro legati.
La spiegazione di quest’ultimo fenomeno può essere ricercata proprio nella peculiarità manifatturiera della legatura dei tasselli in vetro soffiato che compongono la vetrata: dopo il taglio sagomato e la cottura della grisaglia dipinta e fissata a caldo sulla loro superficie, i tasselli vengono assiemati in base al disegno e costretti da righelli in piombo con sezione a forma di H; poi saldati agli incroci o alle giunzioni. Al termine dell’assiemaggio di vetro e righelli, affinché la vetrata composta si mantenga unita e rigida, su di essa viene disteso un impasto collante che entra negli spazi residui fra piombi e vetro e che viene lasciato riposare fino a essicazione. Il tutto viene poi inquadrato, in genere all’interno di una solida armatura di ferro, che porta legature destinate a un altro telaio fisso e zanche per il fissaggio della vetrata alla muratura.
In alcuni casi l’oscillazione e la vibrazione laterale provocate del sisma potrebbero avere distaccato le paste collanti interstiziali pregiudicando la stabilità delle vetrate e deformandole (per valutarlo occorrerebbe un’ispezione ravvicinata); inoltre alcune saldature negli incroci dei righelli potrebbero essersi aperte, con grave pregiudizio alla coesione complessiva e con rischi di rottura o di fuoriuscita dei tasselli in vetro dai piombi in caso di esposizioni prolungate alla pioggia e al vento.
Una ricerca che da alcuni anni porto avanti sul territorio fra Bologna e Ferrara, mi ha consentito di approfondire la conoscenza della storia manifatturiera e artistica delle vetrate istoriate, applicate nel secolo scorso all’interno delle nostre chiese. Lo studio itinerante ha messo in evidenza, fra l’altro, già prima dell’evento sismico, lo stato di sofferenza di molte realizzazioni: l’umidità persistente sul vetro istoriato, le aggressioni biologiche generate da fattori climatici, gli agenti inquinanti presenti nell’aria esterna e nel microclima interno a causa dell’attività antropica, la naturale pressione del vento, alcuni interventi di protezione eseguiti in modo non sempre idoneo, e un’antica predisposizione alla manutenzione minimale del patrimonio, hanno creato una serie di danni che, inaspriti dal sisma, in diversi casi potrebbero essere fatali.
I drammatici eventi del maggio 2012, potrebbero rappresentare un’opportunità decisiva per intervenire con un progetto che, mettendo in campo le migliori competenze e le conoscenze ottenute grazie alle sperimentazioni e alle esperienze condotte in questi ultimi anni, conduca a una campagna di manutenzione, di recupero e di restauro di questi manufatti creativi e cangianti, con la dovuta attenzione a evitare i frettolosi, e talvolta impropri interventi occorsi nel passato.
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