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Pollo alle prugne, dal fumetto al grande schermo

Dopo il successo del fumetto Persepolis, la disegnatrice-regista iraniana Marjane Satrapi, porta al cinema, con Vincent Paronnaud, una storia ricca e commovente, un film dai toni melodrammatici che ricalcano lo stile dei film anni 50, con un tocco, talora, felliniano.
Questo lungometraggio però, a differenza di Persepolis, non è più un fumetto ma una bella trasposizione in immagini e scene degne di esso, quasi fossimo immersi in un sogno leggero.
Siamo nel 1958, quando Nasser Ali Khan, famoso violinista di Teheran, perde ogni voglia di vivere e decide di mettersi a letto per aspettare la morte: sua moglie, l’intransigente Faringuisse, durante un litigio, gli ha rotto il su amato violino, per questo nulla e nessuno valgono più nulla.

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La locandina del film ‘Pollo alle prugne’

Sprofondato nel suo letto solitario, Nasser attende l’angelo della morte, ripercorrendo tutta la sua vita, immaginando il futuro dei figli e, soprattutto, rivivendo l’amore per una ragazza conosciuta in gioventù, la bella Irâne.
In bilico fra sogno e realtà, fra vero e immaginario, passato e presente, immensi sono il rimpianto e lo struggimento per quanto si è ormai perduto.
Sembrano trascorsi invano il tempo, la gioventù, il primo amore, la passione per il violino (simbolo di libertà, creatività, leggerezza, spensieratezza e allegria); ormai, il piatto preferito per lui preparato dalla moglie (il pollo alle prugne appunto) non basta più a confortare Nasser e a farlo desistere dall’intenzione di lasciarsi completamente andare e per sempre.
Siamo di fronte a un uomo che ricorda la madre (sulla cui tomba aleggia uno strano e misterioso fumo, forse le tante sigarette ?), ormai solo, triste e disarmato, pronto ad abbandonare tutto per la musica e per l’amore nei confronti di una ragazza perduta ma anche del suo Iran. E che otto giorni dopo la tragica e insindacabile decisione se ne andrà per davvero.
I colori tenui d’altri tempi sono bellissimi, l’atmosfera, come dicevamo, resta quella del fumetto e siamo avvolti da tonalità e sapori molto stile Liberty, frondoso e a volte leggiadro. Vi sono poi anche tanta fantasia, belle e intense digressioni e riflessioni, molti flashback, qualche sguardo al futuro (o flashforward), sorrisi e risate.

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Un scena del film ‘Pollo alle prugne’

La dimensione onirica, un po’ sospesa nel vuoto e nell’aria, resta un plus importante e fondamentale di questo film, così come lo sono la ricchezza inventiva, la dimensione fiabesca e intimista tipica della millenaria cultura persiana, fuori dal tempo e dalla storia. Il film è drammatico ma allo stesso tempo romantico. Consigliato.

Pollo alle prugne, un film di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi con Isabella Rossellini, Maria de Medeiros, Golshifteh Farahani, Mathieu Amalric, Jamel Debbouze, Chiara Mastroianni, Edouard Baer, Eric Caravaca, Frédéric Saurel, Dustin Graf, Francia, Germania, Belgio 2011, 90 mn.

Abbasso il Re

di Salvatore Billardello

Juan Carlos di Borbone, eletto re di Spagna da Francisco Franco nel 1975, nei giorni scorsi ha deciso di abdicare. Come sta reagendo la Spagna? La vicenda di Juan Carlos assurto al trono il 22 novembre 1975, conosce una pagina particolarmente significativa sei anni più tardi, il 23 febbraio 1981, ricordato dagli spagnoli come “23-F”. In quella data il colonnello della Guardia Civil, Antonio Tejero, irrompe armato nell’aula del Congresso, la camera bassa del Parlamento di Madrid, con 200 guardie e poliziotti e tiene in ostaggio i deputati per 22 ore. Ed è proprio lui, il monarca Juan Carlos, a salvare la democrazia, con un discorso in diretta televisiva nel quale denuncia il tentativo di colpo di Stato e si pone come garante della Costituzione del ’78.
La popolarità del re in quel momento è all’apice: agli occhi degli spagnoli, Juan Carlos diventerà colui che traghetta il popolo dalla dittatura alla democrazia. Un consenso quasi pieno che dal duemila in poi ha conosciuto punti acuti di crisi, culminati nella crisi immobiliare del 2008 che ha colpito il Paese e nell’ancor più grave scandalo finanziario che nel 2010 ha visto coinvolti l’infanta Cristina e il genero Inaki Urdangarin in un giro di fondi neri e tangenti. Per tacere delle infinite gaffe coniugali e istituzionali in cui l’anziano e malfermo re di Spagna è precipitato: lo stemma monarchico spagnolo si è col tempo decisamente appannato.

A poche ore dall’annuncio dell’abdicazione fatto in diretta tv del premier Mariano Rajoy, in migliaia sono scesi nelle piazze spagnole per chiedere l’abolizione della monarchia e il ritorno a una più moderna Repubblica. Si innescherà a breve un complicato iter parlamentare che porterà con ogni probabilità il figlio Felipe a diventare monarca entro la metà di giugno, ma sarebbe bene che le istituzioni tenessero in seria considerazione il malcontento spagnolo, espresso nelle strade sventolando con veemenza le bandiere della Seconda repubblica spagnola, riportando alla mente quella fugace ma intensa esperienza che andò 1931 al 1939. I risultati delle ultime elezioni europee, che hanno visto il crollo di popolarità del Pp, l’ascesa vertiginosa dello storico cartello della sinistra Izquierda Unida e una prima affermazione del neonato movimento Podemos, sono l’ulteriore riflesso di un tumultuoso impulso al cambiamento auspicato dagli spagnoli.
Il sogno della terza repubblica diventerebbe un’opportunità di riscatto di segno esattamente opposto al graduale e lento, perché imposto dall’alto, processo di modernizzazione iniziato da Juan Carlos 39 anni fa. Chissà se nel giro di due settimane un insolitamente celere Parlamento porterà Felipe VI sul trono e riuscirà a spegnere gli ardori iberici o se la “seconda transizione”, come la chiama il giornalista Isaac Rosa, avverrà secondo modalità impreviste.

[© www.lastefani.it]

Salute pubblica e salute privata

La giovane amica che incontro uscendo di casa si lamenta, d’accordo il lamento è diventato un collante sociale, ma lei ha tutte le ragioni, è stata male, ha avuto febbri, dolori vari, i valori degli esami del sangue sono tutti sballati: altri esami, le hanno detto, corro in farmacia – racconta – per prenotare, risposta: tra 13 mesi. L’amica mi guarda afflitta: che faccio?, domanda più a se stessa che a me. A pagamento, rispondo sicuro e lei: già fatto, appuntamento fra tre giorni. E’ la nuova idea, socialmente avanzata, di salute pubblica, vedi, le dico, avevamo raggiunto, dopo anni di lotte, di scioperi, di scontri, di dibattiti, un sistema sanitario all’avanguardia, secondo soltanto a quelli esistenti nei paesi del nord Europe: troppo avanti devono esseri detti, a destra e a sinistra, I nostri governanti, troppo avanti, cari italiani qui bisogna fare qualche passo indietro. Detto fatto, eccoci, la riforma è stata completata in poco tempo, finalmente la sanità è stata quasi completamente privatizzata: questa sì che è una grande conquista, le visite si pagano, gli esami (se vuoi farli prima di morire senza sapere perché) si pagano, le medicine si pagano alle grandi multinazionali della farmaceutica, tutto si paga, una grande riforma davvero e non c’è un solo politico che si azzardi a dire qualcosa, a dire che qualche anno fa l’Italia era un Paese avanzato e che, forse, sarebbe necessario guardare alle nostre spalle per capire che cosa abbiamo lasciato.

Nessuno parla, il chiacchierone Renzi combatte duramente per rifare il Senato come vuole lui, quella è una riforma! Bisogna restringere, ogni giorno di più, l’area decisionale, il presidente del Consiglio dev’essere il padrone fino a nuove elezioni e, intanto, il Paese decade, di decisione in decisione la società si guasta , la pera marcisce ancora appesa all’albero. Noi cittadini siamo la pera: “sciur padrùn da li beli braghi bianchi foera li palanchi e anduma a cà”, ma sì, andiamo a casa, noi non contiamo nulla, quando accendiamo la televisione, all’apparire dei nostri padroni, dobbiamo farci il segno della croce. Come saluto, ma anche come scarmanzia. I vecchi milanesi, prima di diventare berlusconiani e leghisti dicevano “me piass minga el sciur padrùn”, ora ci deve piacere, è la riforma delle riforme: Oddìo, ci aveva pensato già nel 1922 il maestro Mussolini, poi ci ha ripensato el sciur Berlusca, difficile, amici, in questo paese uscire dalla scatola fascistoide in cui siamo rinchiusi da troppo tempo, una scatola ben legata con nastrino bianco da una Chiesa che ha sempre volutamente confuso Dio con il Potere. Ma questo che c’entra con l’organizzazione sanitaria della nostra società? C’entra, c’entra, perchè siamo condannati a ubbidire, se non lo facciamo ancora oggi si va all’inferno. Hai capito amica mia? Adesso vai farti gli esami. A pagamento, naturalmente.

Il Nioby: gli egoismi consorziati

Quando si parla di sindrome di Nimby si fa riferimento a una forma patologica di egoismo. Nimby è acronimo inglese e sta per: ‘not in my back yard’, ossia ‘non nel retro del mio giardino’. Come dire: garantitemi le comodità della società moderna, ma gli effetti collaterali scaricateli su qualcun altro. Quindi sì ai telefonini, no alle antenne; sì al consumo indiscriminato, no alle discariche e agli inceneritori; sì allo snellimento del traffico, no alla tangenziale. Ma attenzione: i ‘no’ non sono assoluti, bensì condizionati: no in questa zona, non sotto le mie finestre. Fate ciò che serve: ma da un’altra parte, dove io non veda, non senta, non patisca. Io intanto mi godo il cellulare, per pigrizia non faccio la raccolta differenziata e in centro giro con il Suv…
Quando poi si parla, spesso con ammirazione, dei comitati civici non ci si rende conto che sono quasi sempre espressione consorziata degli egoismi individuali: non combattono battaglie di principio e non si impegnano spassionatamente per l’affermazione di giuste cause tenendo conto del bene comune, ma tutelano in genere meramente i propri specifici interessi di gruppo ristretto, senza riguardo alla collettività.
Qualcuno si arrabbierà per questa affermazione, ma se ci pensiamo bene dovremo riconoscere che nella maggioranza dei casi funziona così: i singoli infastiditi dall’antenna, dalla discarica, dal traffico della tangenziale si uniscono ad altri singoli con gli stessi problemi e si coalizzano sulla base dell’assunto che l’unione fa la forza. Salvo rare eccezioni, non combattono per il superamento strutturale del problema in un ‘ottica’ comunitaria, semplicemente chiedono che il disagio sia spostato un po’ più in là, dove a loro non reca disturbo. E se anche prefigurano vantaggi o migliorie, non è nella prospettiva generale: è per loro beneficio. Si può dire quindi che siano l’espressione plurale del Nimby, che si trasforma in Nioby: not in our back yard…

Non dimenticare Venezia

Col cuore pesante per le vicende occorse alla città di tutti, Venezia, mi reco a Modena dove un capolavoro dell’arte “ch’alluminar chiamasi in Parisi”, il miniato libro “Sant’Agostino”, appartenuto a Ercole I d’Este di proprietà della Biblioteca Marciana di Venezia e un tempo custodito nella Biblioteca dei duchi estensi a Modena, viene presentato in uno splendido fac-simile che almeno virtualmente ricompenserà la perdita e che come prossima tappa toccherà Ferrara da cui era partito. E quale aiuto più utile si può dare alle offese che Venezia sta subendo: dal passaggio dei mostri navali che incombono sulla Giudecca, alla trasformazione del Fondaco dei Tedeschi in un nuovo store di una grande ditta veneta a cui è stato permesso d’intervenire su un’architettura che definire sacralmente intangibile sarebbe poco; fino alla vicenda del Mose, se non esaltandone i segni di quella bellezza assoluta che la rende non solo unica ma irrepetibile?

E’ sempre stato sottolineato dai grandi critici ottocenteschi che le arti fioriscono sotto le dittature e che il tiranno esercita il proprio diritto alla magnificentia delle arti come segno tangibile del proprio potere. In epoca democratica questo non accade in quanto tanti rappresentanti del popolo non aiutano il fiorire delle arti ma al contrario da noi, in “Itaglia”, rubano impoverendo la cosa pubblica di cui dovrebbero essere custodi. Il fine stesso del Mose era quello di preservare la bellezza di questa città in modo che non venisse deteriorata nel tempo o si allontanasse la sua fine. Quale più nobile scopo? Quale possibilità offerta agli imprenditori ora invogliati dall’Artbonus a investire nella città delle meraviglie? E a farlo con l’aiuto e la solidarietà del potere politico. No! Al contrario si ruba o si accelera la fine di Pompei o si affidano le chiavi della Reggia di Caserta a truffatori, ad ambigui personaggi, avvilendola a discarica della ambizioni di personaggi deliquenziali. E il furto alla Biblioteca dei Gerolimini di Napoli? E l’ambizione di fare di una parte della Villa reale di Monza una sede di un partito? Siamo metaforicamente il regno di Mida. Certo lui trasformava tutto ciò che toccava in oro; noi uguale. Salvo poi intascarselo.

Nell’aprire la presentazione del magnifico fac-simile del “Sant’Agostino” notavo che l’unico modo per contrastare il destino di Venezia e per non dimenticarla rimane quello di esaltarne le sue immense ricchezze culturali, rispettarle, perché sono di tutti: un magnifico dono che ci è stato concesso e che noi vilmente mandiamo in rovina. Hanno rinnovato il Museo nel palazzo di San Vio del conte Cini. E a noi ferraresi qualcosa dovrebbe risuonare nella mente. Questa meravigliosa collezione si è formata sotto una dittatura o nell’Italia che faticosamente si leccava le ferite del dopoguerra mentre noi democraticamente rubiamo e distruggiamo. Mi rendo ben conto che fare i Savonarola è assai semplice dopo; che questi fatti nuocciono alla politica più di elezioni perdute: ma quello che debbono fare voci ancorché sconsolate e sconcertate è non tacere. Si alzino a difesa della politica eticamente esercitata; non si rassegnino a restare silenziose per non dare ragione a chi vorrebbe tutto distruggere e rapinare per sedersi trionfante sulle rovine di una nazione ritornata terra di conquista dei barbari.

Grano saraceno, zuppa inglese, insalata russa: le invasioni barbariche delle nostre tavole

Questa volta anche il senatore Razzi, nella esondante imitazione di Maurizio Crozza, deve inchinarsi ad un genio italico che continua a lasciare senza parole. Rimanendo in Parlamento, si viene a sapere che in commissione agricoltura della Camera dei deputati, una proposta di legge è stata presentata dal M5S per tutelare la pasta italiana. Un clamoroso “Tiè!” a tutti quelli che accusano i grillini di non essere propositivi, verrebbe da dire, se non ci fosse un seguito a dir poco stupefacente.
La difesa strenua del made in Italy nel nome del tandem Grillo-Casaleggio, era tesa a pretendere una repentina e risoluta chiusura del ponte levatoio contro la quantità eccessiva di grano saraceno, che finirebbe nei chicchi nostrani e maturati con tanto amore autarchico sotto il sole del Belpaese.
Peccato che grano saraceno non significhi affatto l’ennesimo pericolo ottomano, contro cui scatenare una nuova Lepanto agroalimentare. Immaginiamo che i produttori italiani abbiano sentito un brivido lungo la schiena causato dallo sfondone legislativo, levando al cielo non proprio lodi e canti.
Di fronte a cotanta gaffe come non pensare alla faccia di Totò che, guardando obliquamente l’onorevole di fronte, se ne uscì col celebre: “Ma mi faccia il piacere!”. Peccato, pure, che solitamente di grano attribuito per sbaglio allo spettro della mezza luna non ce ne sia per niente nella pasta, se si fa eccezione, credo, per qualche ricetta tipica locale.
E se poi il grano fosse effettivamente di importazione dal feroce, e sacrilego, usurpatore di Gerusalemme, come mai il rude spirito leghista avrebbe permesso, silente e così a lungo, questa contaminazione terrona della polenta lombardo-veneta?

Il proponente pentastellato (a quanto pare già salito agli onori della cronaca per avere scritto su un modulo: “italiano” a fianco della richiesta di specifica dello stato civile, invece di “celibe”), ha candidamente dichiarato di essere laureato in ingegneria meccanica, ma precisando subito di essere molto curioso e di avere ingurgitato nel frattempo tomi e libri sulla materia. In effetti stavamo in pensiero.
Non pago, il deputato si sarebbe precipitato a dire che il grano saraceno non è neanche grano, ma una specie di cucurbitacea. Incuriosito, sono andato su Wikipedia. Non so se la fonte sia attendibile, ma già nelle prime righe sta scritto: “Per le sue caratteristiche nutrizionali e l’impiego alimentare, questo vegetale è stato sempre collocato commercialmente tra i cereali”. È proprio vero che il più bel tacer non fu mai detto.
Speriamo solamente che il convertito, ahinoi, alla tutela degli interessi dell’agricoltura tricolore non estenda il proprio furore normativo, che so, al granoturco, all’insalata russa, oppure alla zuppa inglese, magari riesumando il pericolo della perfida Albione.
Per non parlare dei cavolini dei Bruxelles, specie per chi uscirebbe dall’Unione europea domattina stessa.

Del resto il movimento guidato, si fa per dire, da un comico genovese e da uno che non deve avere buoni rapporti con i barbieri, ha regalato alcune chicche imperdibili anche durante l’ultima campagna elettorale per le elezioni amministrative locali.
Per prima cosa la candidata a sindaco di Ferrara è andata a Bologna per un comizio, nel quale ha esortato i ferraresi (sic!) a liberarsi da oltre 60 anni di dominio democristiano (sic!). Poi ha aggiunto che Ferrara è stata ulteriormente provata dal terremoto del 2011 (a risic!).
In una successiva intervista pubblicata in video su Estense.com dichiara di essere a favore dei temi ambientali e naturalmente contro le politiche locali inquinanti, mentre si fa scarrozzare a bordo dell’auto dell’intervistatore che, supponiamo, vada ad energia elettrica prodotta dalla sola combustione di granoturco. Anzi no, per carità, italiano, a chilometro zero ed assolutamente biologico.

Ma la perla finale l’ha regalata un candidato durante il comizio di chiusura della campagna elettorale per il capoluogo. Ha detto di essere un insegnante e anche una guida turistica a metà tempo.
Punto primo, ha chiesto che la Provincia liberi dagli uffici il piano nobile del Castello Estense. Cosa già avvenuta anni fa.
Punto secondo, che la via Coperta che congiunge il Castello Estense col Palazzo Municipale sia aperta al pubblico e percorribile. Anche questa è cosa già fattibile da anni.
Ultimo, che i turisti possano visitare liberamente gli affreschi del ‘200 (o del ‘300, non ho compreso bene) della sala dell’Arengo in Municipio. È appena il caso di ricordare che gli affreschi in questione portano la firma del pittore ferrarese Achille Funi, il quale realizzò il ciclo fra il 1934 e il 1937 ispirandosi a storie dell’Ariosto.
A voler essere pignoli il genio cinquestellato arriva a compiere il record di due svarioni in un colpo solo. La prima è che il Funi al tempo di Duccio Da Buoninsegna (a costo di essere pedante, non il centravanti della nazionale di calcio del 1970), non era nemmeno lontanamente nei pensieri dei suoi antenati. La seconda è che rimane un mistero come il cinquecentesco Ariosto potesse narrare vicende da par suo, laddove fosse vissuto in pieno Medioevo.
A volte si è davvero assaliti dal dubbio se esista un limite alla sopportazione di un paese nel quale la diritta via è da tempo smarrita.
Del resto, in questi giorni perfino Gasparri interviene in difesa della Rai (“Merito una statua in Viale Mazzini”), senza che nessuno dica bau.

Pepito Sbazzeguti

Il padre che non dorme mai

Il reality Grande Fratello, concluso una decina di giorni fa, è lo spunto di riflessione del mio intervento. Nonostante gli ascolti progressivamente in calo del programma, il reality consente di rilevare alcune tendenze di questo tempo, a partire da diverse dinamiche relazionali. Genitori che solo davanti ad una telecamera riescono a esprimere ai figli sentimenti verso di loro e a comunicare quanto sono orgogliosi di loro: sembra che l’unico modo di trasmettere l’amore sia attraverso la spettacolarizzazione dello stesso.
Vi è spesso sadismo nel mettere in difficoltà i concorrenti rispetto alla compressione delle loro emozioni, dando l’illusione di poterle controllare trattenendole a comando. I concorrenti sono ridotti a burattini pilotati dall’Altro. Quest’anno il Gf si è inventato un sistema che ha chiamato “freeze” grazie al quale i concorrenti dovevano immobilizzarsi quando sentivano pronunciare questa parola e rimanere immobili fino ad ulteriore comando. Durante questo congelamento veniva fatta entrare nella casa una persona significativa per qualche concorrente, in modo da metterlo in difficoltà. Il significato di ciò è un Altro che ha potere sulle emozioni altrui, decide quando possono essere manifestate o quando debbono essere trattenute (ne va del budget settimanale per fare la spesa se qualcuno si muove e si abbandona a qualche sguardo particolarmente comunicativo). Anche nel momento della proclamazione del vincitore è stato giocato questo blocco, con l’intento di congelare l’emozione per creare ancora più suspence.
La scelta dei concorrenti in ogni edizione è sempre più condizionata dai canoni estetici imperanti e dal tentativo di trovare persone con storie tragiche con cui sia più facile per gli spettatori provare immedesimazione e identificazione: figli di separati, orfani di uno o entrambi i genitori, disoccupati, giovani costretti ad andare a lavorare a 14 anni per mantenere i fratelli.
I dialoghi tra i concorrenti sono banali, zeppi di luoghi comuni, discorsi superficiali che raramente toccano la reale intimità dei concorrenti. Nel contempo, i sentimenti sono espressi con eccessiva enfasi. Ad esempio, vi sono persone che, dopo una settimana di convivenza, si dichiarano amore o amicizia, termini che usati in modo così superficiale, vengono svuotati del loro significato profondo originario.
Altro paradosso è che i concorrenti, nelle conversazioni, sembrano tutti disinteressati al successo e, soprattutto, al montepremi finale, come se la ragione per cui sono disposti a rimanere isolati dal resto del mondo per diversi mesi fosse da ricercare altrove. Alcuni dichiarano che l’esperienza è servita loro per conoscersi realmente, quasi fosse paragonabile ad un percorso di psicoanalisi (cosa ben più seria in realtà!).
Il Gf si propone con modelli di identificazione semplici. Il premio finale assegnato in questa edizione a un contadino rafforza l’illusione che ognuno, anche una persona semplice, superando una prova, possa avere la sua rivincita nella vita. L’eliminazione progressiva dei concorrenti avviene tramite un televoto del pubblico da casa, ma in realtà le eliminazioni sono via via prevedibili e si intuisce anche quale potrebbe essere il vincitore finale.
I concorrenti sono controllati 24 ore su 24, in tutti i loro momenti della giornata: in ciò si incarna il tentativo estremo di controllo su tutto; che è la tendenza di questo tempo. Mentre Freud sosteneva che un buon padre ogni tanto deve poter chiudere un occhio, la tendenza odierna registra un padre che non dorme mai, che non abbassa mai la guardia e tiene sempre sotto controllo il figlio in ogni sua mossa. Quale gesto miglior per creare soggetti insicuri e dipendenti dall’Altro?
Le analogie con la vita reale sono molte. Così molti figli non hanno più una zona riservata del loro privato, rispetto a genitori, e analogamente, i genitori tendono a mostrare tutto senza veli. In alcune edizioni hanno partecipato al gioco, addirittura, intere famiglie, dimostrando come si appiattisca sempre di più la differenza generazionale e soprattutto di ruolo. Mancano in tal modo modelli di identificazione forti per i figli che crescono sempre più disorientati, in balìa degli altri e di un mondo costruito sul virtuale. Il significato stesso della parola reality è interessante dal momento che indica la “verità”, quando con la realtà della vita quotidiana ha ben poco a che fare.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, è specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com

Il dramma di Giuba rinchiusa al Cie di Fiumicino. Cinque figli l’attendono nella sua casa di Berra

E’ rinchiusa nel centro di identificazione ed espulsione di Fiumicino da una settimana. Ha chiesto asilo politico, ma dovrà aspettare una trentina di giorni per avere una risposta. Tutto è incerto. A cominciare dalla sua identità ufficiale, non ha un documento, non esiste né Italia né in Macedonia, dove è nata senza che i genitori l’abbiano denunciata all’anagrafe.

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Ulfindana “Giuba” Bejzaku (foto di Ippolita Franciosi)

Ulfindana, per gli amici Giuba, rom di 34 anni, moglie di Afrim Bejzaku, cinque figli di cui quattro minorenni, abita in Italia da un ventennio e da qualche anno vive con la famiglia in una casa di proprietà a Berra. “Non sono mai stata rinchiusa, sono incensurata, mi mancano i miei figli, non sopporto questa lontananza”, racconta al telefono. “Mi hanno fermata a Goro mentre chiedevo l’elemosina, mi hanno domandato i documenti e quando ho detto di non averli è cominciata una trafila tra una caserma e l’altra fino a che mi sono ritrovata a Roma”, spiega con voce agitata.
“Il giudice ha confermato il decreto di espulsione, non ha voluto tener conto della situazione, i nostri figli sono nati in Italia, vanno a scuola qui e qui c’è la mia famiglia, siamo in 13”, spiega il marito, 32 anni, tre volte nonno e insieme alla moglie docente di danza rom insegnata in differenti teatri e scuole soprattutto a Bologna dove entrambi, spiega, vantano un passato da mediatori culturali nelle scuole. Afrim è agli arresti domiciliari e quando li avrà scontati anche per lui si profila l’espulsione. “Io posso andare in Kosovo, vengo da lì, ma Giuba non può raggiungermi”, dice.
E’ un problema politico, è un problema di etnie, è un problema comunque, che si riversa sulle vite dei bambini: dove metterà radici il loro futuro? Per sempre in viaggio? Afrim e Giuba, una storia di nomadismo stanziale, complicata e impensabile per chi ha in tasca una normale carta d’identità. Siamo di fronte a un’altra cultura, avversata e difesa da fronti politicamente opposti. C’è chi giustifica e chi accusa. Chi non li vuole e chi ne considera i differenti valori un arricchimento. La sostanza non cambia: dove devono vivere queste persone? Dove hanno casa, sostiene l’avvocato Salvatore Fachile, che si sta occupando del caso. “Tenuto conto che la signora è un apolide di fatto, ha una vita radicata in Italia, quattro figli minorenni, mi sembra ci siano ragioni fondate, perché possa essere accettata la richiesta d’asilo che abbiamo presentato – spiega – tra 28 giorni ci sarà la prossima udienza, speriamo venga attivata la protezione umanitaria”.
Al giudice di pace, racconta il legale, è stata fatta presente la situazione, ma “ha dichiarato di disinteressarsene a discapito dell’interesse familiare. C’è una certa superficialità”. Sicché l’espulsione è stata convalidata, ma la Macedonia, dove Giuba non esiste, respingerà con tutta probabilità quella richiesta d’ingresso e lei rischia così di restare prigioniera del Cie, lontano dai suoi, a spese dello Stato per essere, “dopo 18 mesi, rilasciata in Italia”. Perché l’Italia non è né dei diritti né dei doveri. Ha leggi “così così” e soluzioni ancora meno di “così così”.

A misura di fragilità umana

Molti eventi ci mostrano che siamo nel bel mezzo di cambiamenti epocali, per fronteggiare i quali ci servono nuove idee, nuove strutture, nuove istituzioni, un modo nuovo di pensare alla società e un diverso modo di rapportarsi con l’ambiente. Servono nuove istituzioni che portino fuori dalla pericolosa contrapposizione tra Stato e mercato, pubblico e privato; serve un modo di pensare flessibile che sappia riconoscere e confrontarsi con la complessità evitando la chiusura in sfere e settori separati intenti a raggiungere ognuno una propria efficienza che si traduce troppo spesso in spreco collettivo privatizzando i guadagni e socializzando le perdite. Occorre ripensare anche alla qualità degli ambienti di vita in stretta relazione ai bisogni umani che contraddistinguono la condizione sempre presente di fragilità umana.

Uno degli effetti positivi della crisi degli ultimi anni è quello di aver reso quanto mai urgente e necessario un cambiamento da lungo tempo auspicato, ma del quale tuttavia non è ancora chiara la direzione né i possibili effetti sui cittadini. Purtroppo in Italia manca ampiamente la capacità di ragionare per scenari, di immaginare un futuro possibile, di pensare in orizzonti di lungo periodo, di ipotizzare come potrà essere l’ambiente in cui vivremo nei prossimi anni. Il futuro prossimo dipende certo da molte variabili esogene e poco controllabili, ma dipende anche dai sogni e dalla volontà delle persone, dalle azioni finalizzate di organizzazioni ed istituzioni. Senza questa visione e senza strategia, il futuro semplicemente sarà imposto da altri attori e da altre forze alle quali si potrà solo reagire in termini di accettazione, fuga o rifiuto. Questo è particolarmente vero a livello di cittadini, del territorio sul quale vivono le persone ed operano le amministrazioni locali. A questo livello, si possono certo immaginare molti possibili scenari ma, tra questi, in linea più generale, due diversi e contrapposti possono aiutare la riflessione:

Possiamo descrivere il primo scenario (spinto dalla speranza e dalla responsabilità) come caratterizzato dal fiorire dei beni comuni, in cui gli spazi vivibili sono a misura di persona, e dove la proprietà privata (la casa innanzitutto) trova senso e valorizzazione all’interno di un ambiente urbanistico e sociale abilitante. Uno scenario caratterizzato dalla responsabilità dei cittadini, da aspetti comunitari diffusi e da un uso sociale delle tecnologie, dal primato del potenziamento delle capacità delle persone rispetto alla crescita forzosa del Pil, inteso come misura indubitabile del benessere delle comunità;

Sempre sinteticamente, il secondo scenario (spinto dalla paura e dall’avidità) potrebbe al contrario verificarsi in seguito al trionfo del privato e dalla distruzione definitiva dei beni collettivi, dove le persone “che possono” vivono in luoghi privati (abitazioni innanzitutto) completamente blindati e sorvegliati, ma inseriti in “non luoghi” insicuri e degradati, percorsi di transito videosorvegliati ed ipervigilati. Uno scenario che alimenta la paura e l’insicurezza, spingendo sempre più verso la giuridificazione dei rapporti umani e la perdita di libertà sostanziale.

I germi di entrambi gli scenari sono ben visibili a chi osserva le nostre città e i nostri paesi e, purtroppo, sembrano indicare un’inclinazione piuttosto inquietante verso il secondo, come attesta la costante distruzione di territorio (8 mq al secondo, come riporta La Stampa), la richiesta di maggiore video-controllo da parte dei cittadini, la cementificazione sistematica e l’inesorabile aumento del traffico privato, la produzione e gestione della paura da parte dei media e del mondo della politica. Per fortuna lo scopo della “scenarizzazione” è, anche, quello di aiutare a prendere decisioni strategiche che spostino il sistema verso uno stato piuttosto che un altro. Se pensiamo di collocarci, per puro esperimento mentale, in uno degli scenari, non possiamo prescindere dal fatto che tutti siamo (siamo stati o saremo) in stato di fragilità e bisognosi di cura: lo siamo stati per definizione quando eravamo bambini; lo siamo quando cadiamo ammalati o quando ci troviamo in stato di disabilità, anche temporanea; lo diventeremo, molto probabilmente, da anziani. Alcuni, i meno fortunati, lo sono per tutto il ciclo di vita, ma il rischio connesso alla fragilità incombe sempre su tutti ed in ogni momento. Basta un incidente, una malattia, una disgrazia, un tracollo finanziario.

Il modo in cui finora si è pensato di affrontare questi problemi di fragilità nel nostro sistema di welfare, ha coinciso con la creazione di servizi sempre più specializzati e specialistici che richiedono una precisa identificazione dei target e si basano, da un lato, sulle competenze di categorie di esperti e, dall’altro, sono orientati all’individuazione di sempre nuovi bisogni necessari a giustificare la loro stessa esistenza.

Come conseguenza di ciò, si è assistito negli ultimi decenni ad un aumento complessivo dei livelli di patologizzazione e ad un sostenuto incremento dei costi che appaiono oggi insostenibili. Anche l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha messo in risalto l’esigenza di modificare questo paradigma di riferimento, spostando l’attenzione da un modello di tipo medico (centrato sul problema personale, la cura medica, il trattamento individuale) ad uno di tipo sociale (centrato sul problema sociale, l’integrazione e l’inclusione, la responsabilità individuale e collettiva). Ragionare in termini di fragilità significa adottare un pensiero strategico che ponga l’accento sulle capacità e sul sistema anziché sulle carenze e sul singolo soggetto. Su questo riferimento generale si basa anche il noto modello Icf (International classification of functioning), ancora interpretato da molti come mero sistema di classificazione delle disabilità, è in realtà una strategia per costruire mondi a misura di fragilità umane ovvero ambienti a misura di bambini, di anziani e di disabili. Si badi: ambienti e non semplicemente servizi.

Come potrebbe essere strutturato un simile ambiente? Che caratteristiche dovrebbe avere partendo dal presupposto che ogni comunità ha la possibilità, per così dire, di crearselo su misura?

•Dovrebbe essere innanzitutto uno spazio sicuro, dove i soggetti in stato di fragilità possono muoversi con agio e sicurezza;
•dovrebbe essere un luogo di socialità intergenerazionale e interculturale che aiuti a rompere le separazioni tra gruppi sociali;
•dovrebbe essere un luogo comunitario ed aggregante dove le persone possono vedere facilitata la possibilità di collaborazione e di aiuto, che renda più facile la soluzione di possibili conflitti;
•dovrebbe essere uno spazio che funziona come una piattaforma abilitante, adatta a far emergere o a costruire le capacità delle persone piuttosto che un luogo specializzato (ed invivibile) di consumo o di produzione separato dal contesto.

Un territorio a misura di fragilità umane è innanzitutto un ambiente accogliente per tutte le persone, un bel posto dove vivere; esso presuppone probabilmente una mobilità pedonale e ciclistica, buon trasporto pubblico, bellezza ed estetica, presenza delle infrastrutture essenziali alla socialità e al comportamento civile. Presuppone, in altre parole, una pianificazione urbanistica (partecipata, che parta dal basso) a livello di sistema, la centralità dei beni comuni e il ridimensionamento di modelli di sviluppo basati esclusivamente sulla speculazione edilizia, sul dominio assoluto del mercato immobiliare, su tv e auto privata, sul consumo forzoso, sulla fretta e sulla presunta carenza di spazi, sulla manipolazione sistematica dei bisogni.

Che vantaggi comporta l’agire in un contesto ambientale e sociale a misura di fragilità umane? In un ambiente che, per essere a misura di bambini, disabili e anziani, è – a fortiori – a misura umana? Esso favorisce l’aumento e il rafforzamento delle reti fiduciarie, supporta e sostiene lo sviluppo di capitale sociale, contribuisce a rafforzare le istituzioni sociali che dovrebbero tutelare e potenziare i beni collettivi, contribuisce a costruire comunità e ne rafforza la resilienza, ha robuste implicazioni per la crescita sostenibile. Si tratta di un ambiente che motiva le persone ad attuare quei cambiamenti che sono indispensabili in una società responsabile ed umana, la cornice indispensabile per diminuire l’ormai non più sostenibile costo associato alle vecchie modalità di erogazione di servizi.

Modificare la struttura dell’ambiente di vita nella direzione delle fragilità umane è un passo imprescindibile (certamente non l’unico) per costruire nuove capacità e generare nelle persone che ci vivono la motivazione indispensabile per mettere a punto ed usare sistemi premianti per i comportamenti virtuosi. E’ tuttavia un passo che richiede molta consapevolezza da parte delle amministrazioni, grande coraggio e visione da parte della politica, molto senso strategico da parte di quei settori istituzionali (come ad esempio i servizi sociali e sanitari) da sempre più vicini al tema della fragilità umana e del bisogno.

Difficile forse, ma che cosa è in fondo la democrazia se non la capacità di esprimere uno stato che sia in grado di assegnare diritti alle istituzioni dei beni comuni e non solo ai mercati, alle lobby più potenti e alle imprese multinazionali private? Che sia in grado di garantire la giustizia senza causare necessariamente la giuridificazione forzosa dei rapporti sociali?

Si può fare! Passaparola

 

Dal blog di Bruno Vigilio Turra valut-azione.net

Meno prestiti alle piccole imprese, in Regione -7,8% rispetto al 2013

di Silvia De Santis

Nicchiano ancora le banche in Emilia Romagna: i prestiti alle piccole imprese nel primo scorcio del 2014 sono calati del 7,8%. Nonostante da più parti si levino voci che invitano gli istituti bancari a cambiare atteggiamento e ridare ossigeno all’economia, le condizioni del credito sono ancora restrittive e quest’ultimo stenta ad affermarsi come fattore di sviluppo per le Pmi.
La situazione piccole imprese non accenna a migliorare, visto che il mese di febbraio ha segnato in regione una contrazione del credito del 4,7% rispetto al mese precedente. A pagare lo scotto sono sopratutto le aziende con meno di 20 addetti, le più esposte anche al rischio fallimenti, visto che difficilmente possono contare su ricapitalizzazioni consistenti.
A lanciare l’allarme-credito è la Confartigianato Emilia Romagna, che ha analizzato l’andamento dei finanziamenti al sistema imprenditoriale italiano. Nella classifica generale, le piccole imprese emiliane si piazzano al quattordicesimo posto per diminuzione del credito erogato dagli istituti bancari, seguite da quelle umbre, marchigiane e siciliane.
“Come possiamo pensare di far crescere la nostra economia se non diamo alle aziende la linfa vitale del credito?” si chiede Marco Granelli, presidente di Confartigianato regionale, tanto più che alla crescente difficoltà di accesso ai finanziamenti, si sommano gli alti tassi d’interesse. I più onerosi, poi, sono quelli applicati sui prestiti fino a 250mila euro, che interessano, appunto, quei potenziale motore di ripresa che sono le piccole imprese. Con percentuali che arrivano fino al 4,74%, l’Italia è uno dei Paese europei con il costo del denaro più elevato. Peggio di lei solo la Spagna.
Maggiormente penalizzata dalla stretta creditizia è la piccola industria manifatturiera. Il 18,1% delle aziende con meno di 50 addetti ha infatti denunciato difficoltà, contro l’11,% delle medie imprese e il 12% delle grandi.

[© www.lastefani.it]

Svuotati i bancomat ai lidi: turisti al verde, il ponte manda in tilt il sistema bancario

C’è soddisfazione per il tutto esaurito del Summer Fest, eppure il mugugno non si fa attendere. Tutta colpa dei bancomat svuotati durante il ponte della Repubblica, quasi come se la crisi fosse evaporata. Al Lido di Spina lo sportello di Carife di viale Leonardo da Vinci era fuori servizio fin da domenica, tanto che i villeggianti hanno avuto più volte modo di lamentarsi e chiedere aiuto al supermercato, mentre gli ambulanti del mercato si sono arrabbiati per i contraccolpi del disagio subito dalla clientela.

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Riccardo Boldrini – direttore camping Spiaggia e Mare e consigliere Banca Centro Emilia

“Ho ricevuto diverse segnalazionI; io stesso, seppure non fossi ai lidi, ho avuto delle difficoltà, è stato un sabato traumatico, sono riuscito a fare un’operazione su 10”, racconta Giovanni Finotelli, vicepresidente Confesercenti Delta con delega al commercio. Colpa del circuito sovraesposto, dell’assalto di pubblico, ‘delle cavallette’ come recitava il mitico Belushi dei Blues Brothers? “E’ molto semplice, sono finiti i soldi. Anche se lo avevamo previsto caricando al massimo la cassa, siamo rimasti senza banconote – spiega Riccardo Boldrini direttore del camping Spiaggia Mare di Porto Garibaldi e consigliere di Banca centrale Emilia, tre sportelli in altrettante località comacchiesi – Questa mattina (martedì per chi legge) abbiamo ricaricato, non si poteva fare diversamente. In campeggio abbiamo retto bene perché è a misura di ospiti”.

 

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Giovanni Finotelli vicepresidente Confesercenti Delta, ha delega al commercio

L’obbligo di pos è ormai realtà, con buona pace di chi resta senza contante. “Non siamo ancora pronti per la moneta elettronica – attacca Finotelli – Non tanto noi, che comunque dobbiamo pagare commissioni di transazione a beneficio unico delle banche, una cosa peraltro inesistente in America, ma i clienti. Parlo soprattutto di quelli anziani, molti dei quali non possiedono nemmeno un bancomat. A quel punto che si fa? Perdiamo la vendita o diventiamo evasori?”. S’impone l’era della moneta elettronica, ma al contempo si arranca nell’affrontare un ponte lungo e di successo. Altro che spesa minima di 30 euro. Il sistema non garantisce neppure il personale qualificato per alimentare la cassa automatica nei giorni di festa. Straordinari insostenibili? Uno sforzo si può pure fare, almeno nelle grandi occasioni pensate per il rilancio della riviera. Gli appuntamenti importanti sono pochi e di ponti così estesi non se ne vedevano da anni.

“Sabato e domenica – raccontano alcuni signori – ci siamo prestati i soldi tra amici”. Vita dura senza argent de poche. “Mi è stato riferito delle difficoltà di rimpinguare la liquidità incontrate da alcuni turisti – conferma Nicola Bocchimpani, presidente di AsBalneari – Non mi sorprende, a Scacchi non ci sono sportelli bancomat e l’unico di Pomposa finisce spessissimo la scorta”. Un servizio in meno agli ospiti. Lo Stato impone agli operatori la moneta elettronica, i commercianti pagano le spese di transazione. E le banche, guarda un po’, non hanno contante. Nemmeno nei giorni di festa grande. Quando la crisi appare meno austera e pesante.

La lettera del sindaco Tagliani al direttore della Nuova Ferrara (con sottotitoli)

Lunedì il sindaco Tagliani ha indirizzato una lettera alla Nuova Ferrara, in risposta al direttore Scansani. Eccola qua, ripubblicata e sottotitolata…

Caro Direttore, come ormai le è d’abitudine lei mi interpella all’ora e nel giorno che desidera imponendo tempi, argomenti e modi. Ma io, che sono uomo mite, obbedisco.
[Mi sono rotto le balle di questo modo di fare, ma siccome litigare non conviene le rispondo e già che ci sono mi cavo qualche sassolino]

In primo luogo fa comodo alla vulgata giornalistica descrivere il sindaco di Ferrara come la somma di poteri immensi che vanno dal Presidente della Provincia che verrà eletto in settembre, all’assessore regionale alla sanità che verrà scelto nella prossima primavera, all’arbitro della economia locale, via di mezzo tra il commissario Carife ed il presidente della Camera di commercio. Non cerco alibi ma segnalo che il mondo è più complicato di un titolo cubitale.
[I giornali semplificano e banalizzano ogni cosa, d’altronde li fanno i giornalisti…]

Chiarito questo non mi nascondo. Il secondo mandato non prospetta solo il rischio di cadute di energia, ma anche autonomie nuove, libertà inedite: quelle di chi come il sottoscritto, non ha alcun bisogno di ossequiare, non avendo ambizioni eccessive da coltivare, debiti da pagare, incarichi da chiedere a fine mandato.
[E’ pur vero che sono democristiano, ma a ‘sto giro qua mi prendo le mie belle soddisfazioni: le elezioni le ho vinte ed è inutile stare a far calcoli: si sa, “del doman non v’è certezza”. E allora tanto vale godersela]

E allora caro Scansani sa cosa le dico? Le dico che la prima cosa da fare sarà chiamare le cose con il loro nome: a Ferrara ci sono persone che si prendono responsabilità e altri che se la raccontano, imprenditori che investono ed altri che accantonano, politici chiacchieroni ed amministratori al lavoro quotidiano. Associazioni dinamiche ed estenuanti dispersive gelosie.
[J’aldamar j’ha finì ad godras]

Vengo ai punti sottopostimi, sono gli stessi di una campagna elettorale tra il noioso e il fastidioso.
[Speravo di aver finito con ‘sta rottura di coglioni, invece insistete a chiedere sempre le stesse cose]

La testa di ponte nelle relazioni con i territori circostanti può essere solo la città, non da sola, ma con una larga condivisione che superi le differenze politiche, da Alan Fabbri a Fabbri Marco, ogni altra scelta è destinata a finire in niente.
[‘Todos caballeros’. Però ricordatevi bene – per dirla con l’autorevolissimo marchese del Grillo – che io so’ io e voi nun siete n’cazzo]

Devo però dire che questa ossessione della marginalità non deve convocarci come al cospetto di “pianzun dlà Rosa”, in verità tutta la “provincia” italiana in un Paese che elimina Prefetture, Provincie e Camere di commercio a beneficio di grandi città metropolitane, rischia di trovarsi “spiazzata”, provi a pensare a Mantova, a Pistoia, a Macerata, Rovigo, Pordenone, Imperia… il mal comune non porta alcun gaudio ma questa storia dei ferraresi perseguitati da un destino cieco e baro comincia a darmi sui nervi: dico anche a lei al lavoro, basta piangersi addosso!
[Ciò premesso, sarebbe ora di finirla coi piagnistei e rimboccarsi le maniche]

Cona non è un problema, ma sarà la soluzione, se la sanità ferrarese la smette di cincischiarsi, con la difesa di posizioni superate altrove da 15 anni, e, se la salute dei cittadini ci interessa più di qualche “baronia”, chiediamo alla Università di pensare al futuro delle eccellenze vere: quelle che hanno evidenze scientifiche ed organizzative. Non sta a me farne la cernita, ma qualcosa dopo anni si muove finalmente. Nel frattempo in quell’ospedale dove nessuno scommetteva due anni fa ci saremmo mai trasferiti, oggi si fanno decine di migliaia di interventi, più di quanti si facessero al Sant’Anna. L’autobus passa ogni 15 minuti, il parcheggio è il triplo di quello di prima, la metropolitana riparte entro il 2014, se così non dovesse essere l’appaltante ovvero la FER e l’appaltatore si dovranno porre seriamente il problema del risarcimento danni alla città. Cona non è affatto un problema “cromosomico” della città, è una scelta sbagliata del 1990, ma il corredo cromosomico dei ferraresi non risulta affatto alterato, si altererebbe invece se a Cona la sanità non girasse come deve, ma, pur essendo tutto migliorabile, prendo atto delle lettere di compiacimento che leggo spesso sul suo giornale e che da anni non trovavo.
[Su Cona ormai i maroni mi fumano. Quei quattro parrucconi dell’Università è ora che si diano una regolata. E la Fer stia attenta perché se fanno i furbi gli faccio il paiolo]

Proprio il dato elettorale, veda i dati di sezione, conferma che anche nel quartieri “Giardino” della città il Pd e questa amministrazione ha ricevuto il maggior consenso, e l’interpretazione può esser solo una, qualcuno ha esasperato i toni contribuendo ad una immagine deprimente del quartiere, mentre altri hanno lavorato per arginare i fenomeni di microcriminalità che sono presenti nel quartiere Giardino (da oggi lo chiamerò sempre così perché è così che si chiama) come in tantissime altre realtà cittadine e i ferraresi preferiscono chi dà risposte e non si limita a denunciare problemi.
[Faccio finta di non sapere che il quartiere Giardino è in massima parte quello della buona borghesia ferrarese, dove i moderati hanno sempre preso su bene; e fingo di dimenticare che mi sono ben puntellato il fianco destro con gli ex berlusconiani]

Sono mancati nei cinque anni precedenti i grandi temi, la “visione”? Ma secondo lei decidere di tagliare 50 milioni di debito e ridurre le tasse fa parte del day by day? Errore clamoroso è un grande disegno se non lo si fa a danno dei più poveri! Trovare 50 milioni di euro per il Palaspecchi, 12 milioni per il Massari, avviare il Meis, con un appalto in corso per altri 10, approvare tutti gli strumenti urbanistici con larga condivisione cittadina, avviare le bonifiche al petrolchimico e nei quadranti a rischio, aver aumentato a decine i posti di nido e le case popolari, aver registrato importanti investimenti imprenditoriali (Bricoman, Luis Vuitton, Terna, Softer…), ai quali aggiungo 180 milioni di Versalis in anni come questi… Tutto questo lei lo giudica il solito vecchio tran tran quotidiano?
[Io ho undici decimi, cari miei, non dieci]

Sarà: ma io mi guardo intorno e vedo tanta chiacchiera, ma pochi fatti e del resto quale programmazione si può fare con un governo che cambia ogni sei mesi ed il quadro finanziario che si muta sotto il naso: l’ultima volta solo un mese fa? Io confido nella stabilità del governo Renzi, allora sì che può prendere corpo una visione, la mia: una città che offre alle idee d’impresa, quelle grandi, ma anche quelle delle fab lab dei giovani, spazi e condizioni di espansione, una città capace di crescere con le seconde generazioni della immigrazione che oggi sono gli amici dei nostri figli e parlano solo l’italiano, una città civile, pulita, viva, una città che parla di cultura non solo se “si mangia”, ma che comunque offre a chi vuole investire occasioni che nessuna città di provincia, senza alcuno sponsor, è in grado di offrire, una città che si apre al fiume e ne fa occasione di un turismo intelligente e lento, una città “parco” con oltre 5 milioni di metri quadrati di verde pubblico che vuole dialogare con il suo delta, come dialoga con la sua storia rossettiana, una città europea non più obbligata a confrontarsi con dieci commentatori blog disoccupati, ma che si confronta con Monaco, con Lione, con Gerico, con Sarajevo e non cito a caso.
[Le so tutte]

Una città che abbandona le frasi fatte e si apre al confronto con Hera, senza sudditanze ma anche senza demagogie, una città che è in grado di dire alla Regione Emilia Romagna che se la geotermia è pericolosa allora si chiuda tutta, ma anche che se oggi la Regione è eccessivamente prudente per coprire l’errore fatto nel non divulgare subito gli esiti della commissione Ichese, oppure perché si vota l’anno prossimo, allora è peggio la toppa del buco, perché io rimango della mia idea, quella che mi sono fatto nel corso di mesi di incontri con i tecnici, quella che avevo prima della campagna elettorale e durante la stessa, con coraggio, coerentemente, a prescindere dal consenso, abbiamo l’acqua calda e ci leghiamo al metano altro che ai rifiuti.
[Con Hera bisogna che ve la mettiate via: ci dobbiamo convivere, i padroni sono loro. Invece la Regione non stia tanto a fare la furbina, ché negli armadi hanno i loro scheletroni…]

Grazie dell’incoraggiamento Scansani, e buon lavoro anche a voi.
[Fev mo dar in t’l’organ tuti!]

Pensare politicamente

I commenti e i propositi dopo il voto europeo registrano un ritorno in scena della politica come protagonista a seguito di anni in cui è stata relegata, nella percezione generale, a ruolo di comparsa insignificante. Non ripropongo l’integralistico primato della politica in auge negli ultimi decenni del secolo scorso. Parlo del riemergere della necessità di pensare politicamente. La politica come pensiero, come cultura, come progetto, come un sapere e una prassi che sappiano dare un senso ad un’impresa collettiva del nostro tempo, che è il tempo della società degli individui e della domanda di più libertà e giustizia sociale. Nel mutamento profondo che la globalizzazione ha determinato della forma del mondo, la politica può diventare per ogni individuo ciò che scriveva Gramsci nel chiuso di una cella dei tragici anni trenta: la politica come cultura “…è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri”.
Però, nel nostro tempo registriamo una novità sconvolgente rispetto al secolo scorso: il generale indebolimento di strutture forti che, dall’interno e dall’esterno, costituiscono la personalità dell’individuo. Al posto di moduli solidi e predeterminati come il lavoro, la famiglia, l’identità sessuale, l’appartenenza politica, si sta formando un pulviscolo di possibilità, forme provvisorie di aggregazione e disaggregazione. Nello stesso momento si avverte una sorta di inscalfibile e opaco dominio di un potere lontano verso cui l’individuo si sente impotente. La coscienza del singolo è tentata di rinchiudersi in sé, ridurre i tramiti che la mettono in rapporto con le grandi realtà collettive. Proviamo a fare questo esperimento. Se guardiamo alla nostra vita in modo ravvicinato, ricorrendo ad un microscopio, vediamo una serie di possibilità e di scelte prima sconosciute; se invece rovesciamo la visuale ricorrendo ad un telescopio, ci pare di scorgere una società immobile, priva di alternative e di obiettivi capaci di smuovere un eterno presente che ha paura del futuro. Questa divaricazione è alla base di un’angoscia collettiva che prende soprattutto il giovane (ma non solo…) che si trova solo di fronte al vertiginoso compito di definirsi da sé. E’ dentro questa angoscia (che Freud definisce “il sentimento che non mente”) che deve penetrare la speranza di una nuova politica.
L’alta e specifica moralità della grande politica, quando ha saputo essere all’altezza del compito del momento, è sempre consistita nel tentativo riuscito di guardare alla storia degli uomini e delle donne come a un mondo che può essere rappresentato e governato da un progetto e da idee come principi destinati a dare forma alla vita pubblica della società. Ecco, in conclusione, cosa significa pensare politicamente: salvare il nucleo fondamentale della politica come idea, in modo che la politica stessa possa ridiventare (con tutte le innovazioni necessarie di programma, organizzazione, personale politico) lavorio di critica e di penetrazione culturale che persuada aggregati di uomini e donne refrattari e solo preoccupati di risolvere giorno per giorno il proprio problema per se stessi, a ricostruire legami sociali di collaborazione e solidarietà con gli altri che si trovano nelle stesse condizioni. Questo è il compito di un partito e di un vero leader politico: risvegliare e mettere in movimento energie e nuove responsabilità. Una società in crisi e complessa si cambia con l’attività e l’intelligenza di molti, non con un uomo solo al comando e il resto a fare da spettatori che applaudono o fischiano.
Diceva Italo Calvino che i problemi che ci troveremo ad affrontare nel prossimo secolo saranno quelli che vi porteremo. Ora che siamo non solo nel nuovo secolo, ma anche nel nuovo millennio, l’identità pubblica e privata è al centro dei nostri interrogativi perché alla decostruzione del passato non ha ancora corrisposto una nuova ridefinizione di noi stessi sia come animali politici, sia come singoli individui. Per questo possiamo rispondere: ‘Nel nuovo secolo troveremo ciò che sapremo costruirvi’.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Rossi ma di vergogna

Pepito Rossi non l’ha presa bene la sua esclusione dal gruppo azzurro. “Io fuori forma? Me la rido”, ha detto con amaro sarcasmo.
Di lui Prandelli aveva affermato: “E’ un esempio. La sua radiosità, la sua serenità, la sua classe sono un messaggio bello per tutto il calcio”. Non è uno sprovveduto e neppure un uomo privo di sensibilità il ct della nazionale. Ha regole e principi che rispetta e fa rispettare. Ha persino introdotto un codice etico che sanziona con l’esclusione protempore della maglia azzurra i calciatori colpiti da provvedimenti disciplinari: un buon segnale, benché non sempre applicato con rigore. Però nel caso di Rossi prima di decidere avrà certamente soppesato tutti i pro e i contro.
Al riguardo la stampa è abbastanza abbottonata, prima di esprimersi attende di vedere come va a finire l’avventura brasiliana: un atteggiamento al solito dettato dal coraggio delle proprie idee.
Ma quel che stupisce, al di là del singolo caso Rossi, sono le scelte fatte dal selezionatore per l’attacco azzurro. Solitamente la classifica cannonieri è dominata dagli stranieri. Quest’anno, invece, non solo un italiano è arrivato in cima alla graduatoria, ma ce ne sono tre fra i primi quattro e sette fra i primi dodici: Immobile, Toni, Di Natale, Berardi, Rossi, Gilardino e Paulinho (brasiliano col passaporto italiano). Solo campioni del calibro di Tevez, Higuain, Palacio, Llorente e Callejon si sono inframmezzati ai nostri. Insomma, una volta tanto, fra esperti e giovani c’era solo l’imbarazzo della scelta.
Prandelli invece, a parte il capocannoniere Immobile, è andato a pescare nelle retrovie della classifica. Per carità, mica brocchi: Balotelli (che però non è in perfette condizioni atletiche), Cerci (che però ha accusato un evidente calo di condizione e soprattutto di capacità realizzativa nel girone di ritorno), Cassano (talentuosissimo ma incostante, intemperante e per questo spesso fuori dal giro della Nazionale), infine Insigne (un virtuoso che la porta però la vede proprio poco: 3 gol appena…). Insomma, non sono convinto e lo dichiaro prima, a costo d’essere smentito (speriamo!).

L’artigianato profumato di Jazmin, oggetti fatti con bucce d’arancia

E’ la prima volta che esce dalla Colombia, la prima volta che vola in Europa e la prima volta che racconta in pubblico la sua esperienza: artigiana specializzata nella lavorazione di oggetti da regalo fatti con bucce d’arancia, diventa poi responsabile della produzione e del controllo qualità del laboratorio “Piel Acida” (oggi Sapia) di Bogotà. E’ appena stata a Ferrara, ospite della cooperativa di commercio equo Altra Qualità con cui collabora dal 2003.

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Bamboline in buccia d’arancia lavorata a mano da Sapia

Prima di raccontare dell’incontro con Jazmin Zetabobo Molina, occorre premettere che adoro quel profumo assolutamente inconfondibile di buccia d’arancia che pervade lo show-room di Altra Qualità e che accoglie il visitatore in ogni momento dell’anno. Non è Natale per me se non mi reco lì per annusare i vestitini arancio di quei deliziosi angioletti e le decorazioni fatte con stelline giallo oro. Dolce, intenso e speziato, quello per me è “il profumo”. E come si sa, i profumi sono spesso legati alle storie, le definiscono. Non potevo quindi perdermi l’incontro con una delle artigiane di “Piel Acida” che, nella mia romantica immaginazione, deve avere il dono più unico che raro di mani profumate all’aroma di buccia d’arancia.

 

L'artigianato profumato di Jazmin, oggetti fatti con bucce d'arancia
angelo
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decorazione

Jazmin, Jaz per gli amici, è una bellissima giovane donna con lunghi capelli neri e occhi intensi e seri. Appare fin dall’inizio una persona molto sobria, responsabile, semplice ed elegante insieme (notiamo immediatamente che indossa un meraviglioso anello di cui le chiederemo dettagli a incontro finito).

 

 

 

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Jazmin nel 2004 a Piel Acida, mentre prepara stelline di buccia d’arancia per l’essiccazione

Quando comincia a raccontare la sua storia, capiamo subito le ragioni di tale serietà e maturità: Jazmin ha solo 32 anni ma metà della sua vita l’ha spesa tra lavoro e figli. Ha iniziato a lavorare a 17 anni dopo essere rimasta incinta, ha un ragazzo di 15 e una bambina di 6 anni da crescere da sola, lavora otto ore al giorno ma ce ne mette due ad andare al laboratorio e due a tornare, che insieme fanno 12, questo significa che si alza alle 4 della mattina e non rientra prima delle 7 di sera quando è già buio, dopodiché si dedica a verificare che i compiti siano stati fatti bene e che tutto sia pronto per l’indomani, un po’ di tele e alle 11 nanna. Insomma, giornate piene e non facili, ma Jazmin si dice molto fortunata ed è contenta perché ha un lavoro in regola (cosa che in Colombia non è la norma) in un’impresa che da sempre valorizza il fattore umano e premia impegno e capacità: Jaz ha iniziato come tutti a Piel Acida con la lavorazione della buccia d’arancia, nel corso del tempo è divenuta una delle artigiane più esperte e, nonostante non abbia un elevato livello di scolarizzazione, quando la cooperativa si è ampliata, è diventata responsabile della produzione e del controllo di qualità dei fornitori, i cosiddetti “satelites ossia singole persone (generalmente donne capofamiglia, spesso abbandonate dai mariti) o gruppi informali o famigliari, che assemblano e realizzano i prodotti a casa loro o in piccoli laboratori, ricevendo rigorosamente la stessa paga oraria dei dipendenti, calcolata sommando costo orario e contributi, cosa non comune per i lavoratori informali.

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Laboratorio Piel Acida 2004: Jazmin e Ana Maria Pedrahita, una delle fondatrici

Con grande umiltà e onestà, Jazmin ci dice però di dover tutto a Javier (uno dei due fondatori, insieme ad Ana Maria Pedrahita, di Piel Acida); da lui ha imparato tutto quello che sa, in materia di gestione della produzione, di distribuzione del lavoro ai “satelites”, di logistica, gestione degli ordini, e grazie a lui ha deciso di rimettersi a studiare, magari specializzandosi in amministrazione.
Chiediamo a questo punto a David Cambioli, presidente di Altra Qualità di raccontarci qualcosa su questo Javier e sulla nascita della cooperativa Piel Acida/Sapia: “Javier Cardenas è un tipo molto in gamba, si è laureato in Ingegneria gestionale nel 1999, e, subito dopo, ha proposto alla sua amica Ana Maria Pedrahita, amica di famiglia poco più grande di lui, di affiancarla nell’attività artigianale che lei aveva da poco avviato per dare un’opportunità lavorativa alle donne in difficoltà.

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Spremitrice ambulante d’arance, Bogotà

Ana Maria (che dei due è l’artista) ha avuto l’idea del tutto originale di riciclare le bucce d’arancia delle spremitrici ambulanti che, in ogni periodo dell’anno e ad ogni angolo di Bogotà, dissetano i passanti, lasciando però tonnellate di bucce d’arancia inutilizzate. Dall’idea alla realizzazione: hanno creato un’impresa, assumendo tre donne in difficoltà tra cui la giovane Jazmin e seguendo tutto il processo, dalla raccolta delle bucce, all’essiccazione, alla lavorazione a mano. Per la raccolta, si sono accordati con le venditrici di spremute che puliscono le bucce e le asciugano, e che vengono pagate a peso (questa retribuzione è diventata la principale fonte di sostentamento per alcuni venditori di arance); poi hanno impiegato dei ragazzi che hanno il compito di passare con bici complete di portapacchi per ritirare i sacchi.

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Spremitrice ambulante che pulisce a asciuga la buccia d’arancia per Piel acida

Per intagliare le varie forme (cuore, stella, pupazzo, ecc.) inizialmente facevano tutto a mano, poi hanno ideato e messo a punto una macchina che si aziona con un semplice pedale, funziona benissimo e fa risparmiare tempo e fatica. Anche per l’essiccazione hanno trovato con il tempo un metodo più efficace: anziché lasciare le bucce al sole, girarle e rigirarle (cosa lunga e rischiosa perché se pioveva dovevano buttare via tutto, e Bogotà è una città piovosa), hanno costruito degli essiccatoi. Insomma, per farla breve, Javier, Ana Maria ma anche altri che nel frattempo si sono aggiunti al gruppo, sono molto attivi, pieni di idee e di risorse; con loro abbiamo sviluppato già da qualche anno “El otro plan Colombia” [vedi], un progetto che mira a coinvolgere anche altri piccoli artigiani colombiani da inserire nel circuito equo solidale. Sì è costituito così un nucleo di piccole imprese, di laboratori, di persone con cui sviluppiamo nuovi prodotti e Sapia ci fa da intermediario e promotore. Già da qualche anno la produzione di Sapia si è allargata anche ad altri materiali naturali oltre alla buccia d’arancia (foglie di mais, semi di tagua, cotone, pasta di mais) e gli artigiani con cui collabora lavorano nuovi materiali di riciclo, come la camera d’aria di bicicletta con cui realizzano borse e portafogli, o la gomma che si trova all’interno dei tappi di birre o bibite, che tingono e trasformano in originali orecchini e collane.”

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Anello in resina indossato da Jazmin, realizzato a mano da Ecuilibrio diseño, laboratorio che impiega anche ragazzi disabili

A proposito di bigiotteria, il tuo anello? E’ bellissimo, da dove viene? “Questo anello è di “Ecuilibrio diseño”, un nostro nuovo produttore, è in resina naturale ed è stato fatto completamente a mano”, ci dice Jazmin, e aggiunge: “Si tratta di una coppia di designer, marito e moglie, che realizzano collane, anelli e bracciali coloratissimi, aiutati da alcuni ragazzi disabili: il processo di lavorazione dura ore ed ore, e ogni oggetto viene levigato sei volte prima di essere pronto per la vendita. Questi gioielli stanno avendo un enorme successo, soprattutto in Europa, gli ordini crescono ma la produzione non riesce a stare al passo; noi di Sapia stiamo cercando di aiutarli ad acquistare una levigatrice, per dimezzare il tempo di lavoro e anche i costi degli oggetti.”

Li potremo acquistare anche noi questi gioielli? chiediamo a Cristina Bergamini, designer. “Certo, abbiamo già alcuni dei loro pezzi e ordineremo anche questi ultimi; in più, stiamo sviluppando con loro una nuova linea di bigiotteria realizzata in resina e tagua insieme.”

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Jazmin e David Cambioli durante l’incontro a Ferrara del 26 maggio scorso

Non solo equi e solidali quindi, ma attivissimi e brillanti. Essendo cresciute insieme, Sapia e Altra Qualità si stimolano a vicenda, sviluppano continuamente nuovi progetti e si divertono a sperimentare nuovi materiali. L’incontro con Jazmin e David ci offre anche uno spaccato diverso della realtà dei due Paesi, sul quale fermarsi a riflettere: la Colombia allora non è solo guerriglia e traffico di droga, ma anche artigianato vitale e lavoro giustamente retribuito, e l’Italia non è solo mafia e sommerso ma anche apertura, collaborazione e contaminazione. Fosse tutta così! Ma forse, seguendo questi esempi virtuosi e sinergici, ci si potrebbe pian piano arrivare…

Si ringraziano Beatrice Bonadiman e David Cambioli per aver tradotto per noi dallo spagnolo all’Italiano.

Per saperne di più:

  • la fondatrice Ana Maria Pedrahita spiega il processo di lavorazione delle bucce d’arancia [video in inglese]
  • sito di Sapia  [vedi]
  • sito di Altra Qualità [vedi]

Via i mercanti dai templi

Il nostro buon Dario Franceschini ne ha sparata una grossa: via i mercanti dai templi. Ossia basta con lo scempio degli ambulanti parcheggiati con le loro mercanzie dinanzi al patrimonio artistico del nostro Belpaese. Tradotto in salsa ferrarese: via il mercato dal listone e da corso Martiri, via le bancarelle di souvenir e quelle di ciarpame vario. Il decreto ‘ArtBonus’ appena passato all’esame della Camera si propone di “garantire il decoro attorno ai monumenti”. Il ministro ferrarese ai Beni Culturali sottolinea il carattere di “urgenza” di questa norma e spiega che “con un semplice procedimento amministrativo sindaci e sovrintendenze potranno revocare le autorizzazioni ad ambulanti, camion, bar e bancarelle vicine ai monumenti”.

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Il mercato del venerdì, nel pieno centro storico di Ferrara [clicca per ingrandire]

La prima domanda da farsi è se questo eccellente decreto sarà tradotto in legge o resterà solo un ottimo proposito. In caso positivo vedremo se i sindaci (il nostro rinnovato sindaco Tagliani) e le spesso inutilmente solerti sovrintendenze prenderanno carta e penna per fare immediatamente ciò che è buono e giusto.
C’è inoltre da augurarsi un’applicazione estensiva del provvedimento e del principio in esso contenuto: via tutto ciò che deturpa e scempia i monumenti, per liberare la bellezza. E quindi: via i taxi dal castello, via le auto – tutte le auto, anche quelle delle forze dell’ordine, dei politici, dei soliti noti – dal centro storico. Obiettivo: pedonalizzare integralmente l’area monumentale di Ferrara per renderla degno patrimonio Unesco. Vorrai mica far torto al patrio Dario…

Il magnifico ulivo dell’umanità

Destra e sinistra categorie del passato? Difficile da sostenere fino a quando l’economia di mercato che condiziona la conoscenza non sarà soppiantata dall’avvento del governo della conoscenza sull’economia e sul mercato. Due modi distinti di considerare uomini e donne: da un lato la loro centralità, dall’altro la libera sopraffazione dei beni.

E qui siamo alla questione vera: un’economia basata sulla conoscenza o una conoscenza basata sull’economia? Far uso dell’economia in funzione della conoscenza o usare la conoscenza in funzione dell’economia? In definitiva, l’economia che condiziona la conoscenza o la conoscenza che condiziona l’economia?
In questi giorni ancora freschi di tornata elettorale, c’è qualcuno, che con altrettanta banalità del tipo “signora mia le stagioni non sono più quelle di una volta”, ci racconta che categorie come destra e sinistra sono superate.
Francamente di fronte al dilemma che sta in testa a questo articolo, mi pare proprio di no.
La destra è ancora quella dell’improvvida dichiarazione del ministro Tremonti che con la cultura non si mangia. Per cui se la cultura serve all’economia e al suo mercato va bene, diversamente, se ne può fare a meno, con buona pace degli otia studiorum.
Credo che a questo proposito tra destra e sinistra intercorra un rapporto direttamente proporzionale, tanto più la destra ha investito in capitali e finanze, tanto più la sinistra ha investito nello studio, nella ricerca e nella cultura. E ha fatto bene. Perché senza conoscenze, senza sapere, senza una nuova cultura non si esce dal vicolo cieco in cui ci hanno condotto gli interessi delle destre nel mondo.
La settimana scorsa l’amico Fiorenzo Baratelli, nel suo bell’articolo su queste pagine, ci ricordava la visione kantiana dell’uomo come legno storto dell’umanità. Devo dire la verità, che fin dai banchi di scuola l’approccio a quelle pagine mi induce irrimediabilmente a pensare all’ulivo. Magnifico albero, che più legno contorto di così non si può. Ma per l’uomo, sappiamo, storicamente carico di importanti e impegnativi significati.
Il filosofo Isaiah Berlin, nel suo libro Il legno storto dell’umanità, ci mette in guardia da tutti quelli che assurgono o sono assunti a guaritori dell’uomo. E ha ragione. Perché non c’è via di uscita per l’umanità se non si nutre fiducia negli uomini e nelle donne. Ecco un altro tema che non estingue le differenze tra destra e sinistra. La fiducia nell’uomo, nell’uomo nuovo è propria della sinistra.
Se pensiamo a una società fondata sulla conoscenza che guidi la condotta dell’economia e dei mercati, allora ricollochiamo l’uomo al centro, con la sua perenne ricerca di pace e di felicità. La conoscenza è dell’uomo, perché la usi per impedire d’essere sfruttato insieme al suo ambiente di vita. Questo è di sinistra.
Di destra è ostacolare ogni conoscenza che possa ridurre la libertà dell’economia, della concorrenza, dell’uso delle risorse.
Lo sviluppo strategico basato sulla conoscenza incoraggia la ricerca, stimola alla creatività continua, alla condivisione dei saperi, al loro rinnovamento e aggiornamento, all’interazione delle conoscenze tra i cittadini del mondo.
Solo questo sarebbe sufficiente a farci dubitare della validità dei sistemi di istruzione che ancora ci teniamo, non certo pensati per preparare i giovani al sapere, alla ricerca, ad acquisire gli strumenti per vivere in futuri dove le conoscenze potrebbero non essere più quelle apprese, ma tutte da rinnovare o da ricercare nuovamente.
No, nei sistemi di istruzione che la destra ci ha lasciato, quasi inossidabili nel tempo, i nostri bambini e i nostri giovani, giocano ancora il ruolo di depositi generazionali, da riempire delle nozioni ritenute necessarie per essere accolti come servitori diligenti degli interessi dei mercati, della voracità dell’economia globale. Saperi che riempiono la mente, ma volutamente dimentichi di coltivare le intelligenze.
Così col tempo, come dimostrano le ricerche internazionali sulle competenze degli adulti, che collocano il nostro paese all’ultimo posto, unitamente alla Spagna, le abilità acquisite sui banchi di scuola si affievoliscono e con loro l’interesse del mercato del lavoro che ti respinge, facendo della tua esistenza una vita di scarto per l’economia e per la società.
Oggi, più che mai, non c’è cittadinanza se non fondata sul primato della conoscenza, anziché del mercato. La sfida tra destra e sinistra si gioca sul terreno delle politiche in grado di investire da subito sui cittadini come capitale intellettuale, sulle politiche che considerano le persone come la ricchezza principale di un paese e, per questo, neppure una può essere abbandonata a se stessa.
L’impoverimento culturale è degrado sociale, svilimento della dignità dell’uomo, è grave quanto e più dello sfruttamento dell’ambiente, perché colpisce l’esercizio della propria vita, l’autonoma gestione di se stessi.
È di sinistra ritenere intollerabile e scandaloso che decenni di politiche neoliberiste abbiano ridotto l’Italia ad avere, secondo i recenti dati Ocse, il 70% di adulti tra i sedici e i sessantaquattro anni che posseggono competenze di base al disotto del livello tre, ritenuto dall’Europa indispensabile per poter partecipare consapevolmente alla vita sociale e lavorativa. Se a questo dato sommiamo la percentuale di giovani che non raggiungono alcuna qualifica e quella di chi, dopo essersi laureato, emigra all’estero, ci rendiamo conto che a ognuno di noi è stata rubata la possibilità di vivere in un paese la cui economia fondi le radici sulla conoscenza.
Il grande furto prodotto dalle politiche di destra è questo. L’averci sottratto ciò che è essenziale alla cittadinanza nella società della conoscenza, la capacità di generare e di applicare nuovi saperi, di creare idee nuove e invenzioni che stimolino la realizzazione di prodotti competitivi, di servizi e procedure per il nostro progresso.
È impensabile che il tessuto di una società oggi possa tenere senza conoscenza e senza rafforzare il coinvolgimento di tutti. La stessa politica nata in rete ci sta ad indicare che è finita l’epoca delle cittadinanze anonime. Ci troviamo di fronte a processi che possono migliorare la qualità della vita entro i confini della propria città, del proprio paese e anche oltre, facendo divenire attraente la cittadinanza, con l’essere sempre più qualificati e ricchi di competenze per potersi prendere cura della propria comunità. Occorre allora considerare attraente vivere il proprio paese. Questo è il compito delle generazioni anziane nei confronti di quelle più giovani, formare insieme un gruppo poliedrico di scambio di metodi, di lezioni apprese, di nuove idee, di processi tecnologici e di iniziative per promuovere e vitalizzare un’economia che affondi le sue radici nei saperi.
Credo sia questa la fonte essenziale per ottenere un vantaggio competitivo rispetto alle altre nazioni, così come per qualsiasi altra organizzazione, non può che essere la cultura diffusa, radicata nella gente, non può che essere il capitale intellettuale. Questo è il motivo per cui l’investimento sociale nella cura di ogni uomo e di ogni donna, come di ogni bambina e bambino, fa ancora la differenza tra la destra e la sinistra.

Festa della Repubblica
che ripudia la guerra

La madre è la Resistenza antifascista, il padre è il Referendum democratico: la Repubblica italiana è nata in un’urna il 2 giugno del 1946.
Perché, per festeggiare il suo compleanno, lo Stato organizza la parata militare delle Forze Armate?
E’ una contraddizione ormai insopportabile.
Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le vere forze vive della Repubblica che chiedono di rimuovere l’ostacolo delle enormi spese militari ed avere a disposizione ingenti risorse per dare piena attuazione a tutti i principi fondanti della Costituzione: lavoro, diritti umani, dignità sociale, libertà, uguaglianza, autonomie locali, decentramento, sviluppo della cultura e ricerca, tutela del paesaggio, patrimonio artistico, diritto d’asilo per gli stranieri e ripudio della guerra.
I nostri movimenti celebrano il 2 giugno promuovendo congiuntamente la Campagna per il disarmo e la difesa civile e lanciando oggi la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”.
Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa nonviolenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale.
La difesa civile, non armata e nonviolenta è difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; difesa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.
logo_congressoIl disegno di Legge istituisce un Dipartimento che comprenderà il Servizio civile, la Protezione Civile, i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo.
Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 6 per mille alla difesa non armata. Inoltre si propone che le spese sostenute dal Ministero della Difesa relative all’acquisto di nuovi sistemi d’arma siano ridotte in misura tale da assicurare i risparmi necessari per non dover aumentare i costi per i cittadini.
Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che “ripudia la guerra”
(art. 11).
La Campagna è stata presentata il 25 aprile 2014 in Arena di pace e disarmo; viene lanciata in occasione del 2 giugno 2014, Festa della Repubblica; la raccolta delle 50.000 firme necessarie inizierà il 2 ottobre 2014, Giornata internazionale della Nonviolenza, e si concluderà dopo 6 mesi.

Rete Italiana per il Disarmo – Controllarmi
Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile – CNESC
Forum Nazionale per il Servizio Civile – FNSC
Tavolo Interventi Civili di Pace – ICP
Campagna Sbilanciamoci!
Rete della Pace

La cultura attende
la stagione del coraggio

Con un misto di sensazioni e di affollati pensieri, il ritorno in patria sembra riflettere l’urgenza e la necessità dei commenti che le elezioni hanno prodotto. L’elegante Watteau nel Settecento descrisse l’aspetto idilliaco di un rifiuto della realtà sociale in un quadro famosissimo, Pèlerinage à l’île de Cithère tradotto in vari modi tra cui il più conosciuto rimane L’imbarco per l’isola di Citera, l’isola di Afrodite. In realtà, il quadro non rappresenta l’imbarco per l’isola ma il ritorno dall’isola. Primo e celebre capolavoro di quel filone che si è soliti chiamare “Le feste galanti”, impareggiabile momento di rifiuto della realtà sociale per una descrizione fantastica delle delizie della corte e della classe nobiliare francesi.
Così, l’imbarco per la mia isola di Citera si trasforma in un ritorno dall’isola per assistere alle feste galanti che coronano il successo renziano. Il giubilo, la sensazione di un pericolo scampato, quasi la necessità di abbandonarsi alla convinzione di una specie di miracolo, ma nello stesso tempo il vago e ancor lontano sospetto degli impegni presi. Con questo carico di proiezioni che investono prima il giornaliero che il progetto, ci si affanna sui giornali a scoprire tra le pieghe dell’ancor incerto “avvenir” qualche segno positivo che, nel campo in cui mi è permesso di spendere qualche parola, quello culturale, ravvisa una specie di piccolo passo avanti compiuto da Franceschini e approvato da Salvatore Settis. E, chi conosce la vicenda del tormentato iter del Mibac, saluta con sollievo queste righe che Settis affida a un articolo apparso su La Repubblica il 28 maggio scorso, dal titolo “Nell’Italia dove la cultura vale zero euro”: “Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come “petrolio” d’Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.”

E di queste parole bisogna ben tener conto, come pure dell’intenzione, anche questa dai riflessi positivi, di reintrodurre l’insegnamento della storia dell’arte, dissennatamente abrogato e limitato dalla ex ministra Gelmini. Osservo a questo punto le proposte su cui si fonda la continuazione della politica culturale locale, affidata per il nuovo quinquennio alla squadra che già ha operato nella tornata precedente, e che ora sembra trovare un motivo di critica dal risultato della mostra-monstre bolognese, “La ragazza dall’orecchino di perla”, della quale si descrivono le mirabilia del successo economico, saggiamente contestato dall’assessore alla cultura bolognese Ronchi, in questo caso appoggiato anche dall’assessore alla cultura di Ferrara. Ma l’idea raccapricciante per cui si usa un capolavoro per una operazione esclusivamente commerciale rimane lì ad aspettare al varco, con le lusinghe dell’indotto economico condito di sagre, “magnatine” e altri giustissimi sollazzi, quale sarà la risposta di Ferrara dopo aver posto e testato il problema.

Tra i progetti per il 2016 di Ferrara Arte, si vuole far perno sulle celebrazioni ariostesche nell’anno dell’uscita della prima edizione del poema – edizione valorosamente proposta e fiore all’occhiello dell’ex Istituto di studi rinascimentali – dal professor Marco Dorigatti dell’Università di Oxford. A testimonianza, la sollecitudine con cui dopo l’uscita del testo si pensò a una mostra dedicata al rapporto tra Ariosto e le arti figurative, un progetto di cui esiste un dossier completo e suffragato dalla partecipazione del Louvre e della National Gallery di Londra, impietosamente bocciata dall’allora responsabile di Ferrara Arte e ora riproposta, almeno a quanto sembra dai titoli dei giornali, e affidata a uno studioso organizzatore di mostre padovane, quasi che non esistano in città le garanzie di un affido proficuo a cominciare dall’Isr, per di più ora divenuto ufficio comunale sotto l’egida dei Musei d’arte antica. Questi rilievi vengono fatti esclusivamente per sollecitare dialoghi che sembrano sempre sul punto di interrompersi. Ma a riprova di questa volontà di dialogo, una recente esperienza che vale la pena di riportare.

Abbiamo organizzato con gli Amici dei musei ferraresi una visita a Rovigo alla mostra su “I pittori del Nord” e una visita a Fratta Polesine per rivedere la Badoera e la Casa-Museo di Giacomo Matteotti. La trasferta si è dimostrata assai interessante per il confronto storico tra due terre, quella ferrarese e quella del polesine rodigino, così vicine e intrecciate in complessi rapporti. Dalla preistoria al Novecento, si sono viste e confrontate contiguità e diversità, ma soprattutto è saltato agli occhi il modo diverso di agire sul paesaggio e sulla cultura. Se una volta erano i rodigini a venire a Ferrara per imparare l’uso e il modo d’interrogare un glorioso passato, ora sembra avvenire il contrario. La mostra a Palazzo Roverella è affascinante e ha messo in luce, tra l’altro, alcuni autori ferraresi straordinari come Cesare Laurenti di cui ci si era dimenticati. La dinamicità del territorio si è misurata su quel reservoir di memorie storiche e artistiche che è Fratta Polesine. Non solo per l’utilizzazione di un monumento straordinario come la Badoera, luogo Unesco (ma non lo era anche Ferrara?) quanto per la pervicacia indotta a rendere attrattivo un territorio e un paesaggio che sembravano tagliati fuori dal turismo. Operazione che ci potrebbe insegnare come rendere produttive alcune delizie, da Belriguardo a Mesola, che certamente non attraggono i flussi turistici.
Ma l’operazione più complessa e produttiva è stata quella di rendere viva e operante l’utilizzazione della casa-museo di Matteotti che Napolitano inaugurerà il 10 giugno. E con l’aiuto e l’interessamento del massimo studioso dell’eroe polesano, un ferrarese doc come Stefano Caretti, amico e collega che ha saputo sollecitare l’attuazione di un luogo di memorie unico. A differenza della politica culturale ferrarese che sembra immutabile nel tempo. E basterebbe leggere il libro di Sandro Catani, Gerontocrazia. Il sistema economico che paralizza l’Italia (Garzanti, 2014) per capire che non è rottamando che si ottengono risultati ma accompagnando il valore prodotto dai “vecchi” nell’inserimento dei giovani che hanno bisogno di guida e di consigli. Altro che limitare il “pensare in grande”! Non servono solo sagre e baloons, festival e palii per innovare e rendere attrattiva la cultura; servono coraggio e scelte che vengano poi tramandate ai giovani. Cosa che mi sembra poco frequentata nelle politiche culturali ferraresi.
Bisognerebbe non solo trasformare ciò che si ha ma comprenderlo e viverlo con entusiasmo. Mi spiace trarre queste amare considerazioni nei confronti della mia città. Dal ’64 le mie vacanze di studio si svolgono in una campagna polesana dove le radici ferraresi sono visibili e attive. Ho visto quei territori passare dall’indigenza a una fioritura economico-culturale strepitosa. E ne sono lieto, ma mi spiace che in questo caso specifico persino i rapporti tra Ferrara e Matteotti non sembrino nemmeno interessare più di tanto in questo novantesimo della sua morte. Per fortuna ci ha pensato il Gramsci ferrarese a invitare Stefano Caretti a parlare di questa grande figura. Non si dolgano i ferraresi di queste forse severe note. Sono, al solito, dettate da un amore disperato e disperante per questa città e la sua storia.

Il web e le nuove forme
di partecipazione
alla vita pubblica

Nelle reti sociali gli individui costruiscono la propria identità anche esprimendo punti di vista e posizioni su temi che investono la vita pubblica. Il web è un grande palcoscenico, uno spazio che definisce un immaginario collettivo, un luogo popolato di oggetti che raccontano le nostre visioni del mondo. Come i muri delle città sono popolati di simboli che delineano lo scenario in cui abitiamo, così le pagine della rete, propongono e manifestano contenuti e immagini che assurgono al ruolo di simboli con cui identificarsi.
Le tecnologie digitali hanno contribuito a determinare un’ibridazione tra la sfera pubblica e quella privata, delineando uno spazio di contiguità tra i due campi che hanno in comune azioni e battaglie per il riconoscimento, a partire dal riconoscimento di sé come individui. Nel web si costruiscono nuovi modi di cittadinanza in senso lato: la socialità contiene una intrinseca dimensione normativa, propone modelli di identità e modi di abitare il mondo. Tutto ciò cambia la vita pubblica? E come? Accenno a quattro punti.
La prima tendenza, di lungo periodo, è la tendenza alla disintermediazione. Internet offre la possibilità di scavalcare i canali tradizionali della formazione di opinioni, saltare la mediazione di apparati istituzionali e strutture di partito e di costruire relazioni dirette tra gli attori politici e cittadini. L’accesso dei cittadini alle reti comunicative non implica, però, una effettiva possibilità di partecipazione ai processi decisionali e deliberativi.
La seconda tendenza riguarda il rapporto tra informazione e formazione del giudizio. La discussione in rete si svolge all’interno di gruppi assai meno aperti di quanto un giudizio superficiale farebbe pensare. È vero che si creano forme di mobilitazione di tipo orizzontale e che il web consente l’espressione di opinioni alternative rispetto ai gruppi dotati di maggiore peso. Tuttavia, in rete si va alla ricerca dei propri simili: la costruzione di gruppi di affinità e interesse identifica uno degli effetti principali dei social media. Spesso all’interno dei social si riproducono gruppi già esistenti nella vita reale. Le discussioni in rete su temi politici rispondono a logiche di comunità, all’esigenza di avere conferme piuttosto che di trovare antagonisti che le smentiscono. Questo spiega il rinforzo reciproco che le discussioni propongono o, al contrario, la totale impermeabilità delle posizioni.
La terza riguarda la carica emozionale implicita nella viralità. La condivisione in pubblico delle opinioni segue le logiche della viralità. Se migliaia di persone inviano un articolo ai lori amici per mail, se mettono il link su piattaforme di social network e spingono amici a condividerlo a loro volta, l’articolo diventa virale. Che cosa spinge alla viralità? Ciò che rende virale, ad esempio, un video o una immagine, è la risonanza emotiva, la capacità di suscitare emozioni forti: collera, paura, dolore, gioia. In questa condivisione è contenuta ben poca razionalità. La rete opera sulla base di istanze prevalentemente emozionali. Inoltre la condivisione esprime sempre una strategia di gestione della propria immagine, così tendiamo a selezionare contenuti che ci rappresentino. Accanto alla ormai nota e universale pratica del selfie, il ritratto di noi stessi, si afferma il shelfie, l’immagine metaforica della nostra libreria, che si compone attraverso la dichiarazione dei nostri riferimenti culturali e ideali.
La quarta riguarda il mito della trasparenza. Il web può consentire una maggiore diffusione delle informazioni sui contenuti implicati nelle decisioni, ma di per sé non implica una maggiore trasparenza nel processo decisionale e, soprattutto, non sostituisce la necessità di solide competenze per l’istruttoria rispetto a temi sempre più complessi.
Quattro questioni solo accennate che meriterebbero di essere discusse, certo per un ripensamento serio dell’idea di spazio pubblico, anche in relazione al web, ma sfatando alcuni stereotipi e nuovi luoghi comuni.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it

Don’t stop the music! Oggi per RockaFe dalle 17 alle 24 una maratona musicale non stop con le migliori band ferraresi

da: staff RockaFe

Don’t stop the music! E’ il grido che parte unanime dalle band che si alterneranno sul palco di RockaFe per una maratona senza pause dalle 17 alle 24 dopo l’indovinata ed apprezzata parentesi della Macchina del Tempo. A dare il fuoco alla miccia saranno i Maniax N’90. Provenienti da Argenta e dintorni, i cinque musicisti insieme dal 2010 che rispondono ai nomi di Giulio Verlato alla voce, Diego Montanari e Michele Checcoli alle chitarre, Elia Casoni al basso e Roberto Toschi alla batteria propongono un’interessante produzione inedita di ispirazione metal rock.
A seguire i Royal Guard di Lugo. La band HARD ROCK ravennate è composta da Mattia, Diego, Davide, Taba e Simo. Dopo un’avventura punk rock durata circa una decina d’anni tra svariati palchi italiani ed europei, decidono di rimettersi in gioco intraprendendo un nuovo percorso musicale che prenderà sempre più forma orientandosi verso uno stile Hard Rock Blues, sempre con brani di propria produzione.
A prendere il testimone saranno poi i Freeraggio di Pieve di cento. Nell’estate del 2012 esce il loro album SKY HI-FI, un lavoro di 13 tracce naturalmente tutte inedite, autoprodotto. Alla base del nuovo progetto c’è l’idea di provare ad unire la psichedelia degli anni ’70 (Pink Floyd, etc) con sonorità della vecchia e nuova elettronica avventurandosi in una fuga dalla realtà, in un viaggio nel profondo spazio alla ricerca dell’ignoto che c’è dentro ad ognuno di noi. Il nuovo corso dei FREERAGGIO vede alla voce Selene Recca, alle chitarre Andrea Cludi, al basso Alberto Banzi, alla batteria Alessandro Gallerani e, solo in studio, synth e sequenze Tiziano Marchetti. In cantiere un nuovo album con sonorità molto più vicine al blues con piccole virate verso il funk sempre condite con abbondante elettronica.
A seguire i Liquid Shades da Ferrara. Il progetto nasce nel 2007 con l’intento di formare una band per comporre brani inediti ispirandosi al rock progressive anni ’70 unendo al contesto sperimentazioni più moderne e psichedeliche. Dal 2009 la band ha all’attivo due EP autoprodotti contenenti 4 brani inediti ciascuno e una lunga serie di date live in tutta la provincia di Ferrara spostandosi spesso anche in Veneto e nel bolognese. Propongono un repertorio di brani inediti composti e arrangiati autonomamente, e una serie di cover di artisti quali PFM, King Crimson, Jethro Tull, Genesis e altri. Il cospicuo line up è composto da Marco Gemetto alla chitarra e voce, Matteo Tosi alla voce, Enrico Taddia al basso, Lorenzo Checchinato al sax e corno, Emanuele Vassalli al piano e sintetizzatori, Diego Insalaco alla chitarra e tromba, Guglielmo Campi alla batteria ed infine Donato di Lucchio al flauto.
Toccherà poi all’energico e coinvolgente pop rock dei bolognesi Morgana proseguire la lunga maratona di questa ventunesima edizione di RockaFE, come sempre nel Parco della Fondazione F.lli Navarra a Malborghetto di Boara, quest’anno in una nuova veste più intima e raccolta. Già ospiti della manifestazione e vincitori del premio rete Alfa nel 2010, sono Marco Poli chitarra e voce, Giuseppe Capriati alla batteria, Luca Noferini alle chitarre e Marco Mirri al basso.
In chiusura i concittadini Label 27. Il gruppo di recente formazione nasce, come spesso accade, come cover band per poi avvicinarsi alla produzione di brani propri. D’ispirazione rock classica, aggiungono ai loro lavori sonorità più moderne, sapienti pennellate di punk, tocchi più heavy e testi introspettivi. Intensa l’attività live dl quartetto che è composto da Mattia Negrelli alla chitarra, Andrea Macchioni alla batteria, Maria Claudia Farina al basso e Tommy Civieri alla voce. Tutti gli aggiornamenti su www.rockafe.it e su tutti i social.

Il Palio di Ferrara: una gara, un’emozione, uno spettacolo

da: ufficio stampa Ente Palio città di Ferrara

Un Palio bello e colorato, che non ha mancato di dispensare emozioni e colpi di scena quello appena conclusosi a Ferrara. Soddisfatti gli organizzatori, sia per il risultato di pubblico che per la bella festa offerta e vissuta. Gremite in ogni ordine di posti le tribune in Piazza Ariostea, con qualche spettatore che è persino rimasto senza poltroncina: a questi l’Ente Palio rimborserà l’acquisto del tagliando non utilizzato e regalerà un biglietto per la prossima edizione della manifestazione.
Emozioni senza soluzione di continuità nell’Anello dunque: dopo il Corteo delle Contrade, la premiazione di Borgo San Giovanni e Rione Santa Maria in Vado rispettivamente per il Premio Visentini (per il miglior Corteo) e il Casati (per il miglior Spettacolo di Corte) , il Palio ha ricevuto il premio per la 22esima tappa del Giro d’Italia in 52 weekend, promosso da weekendagogo.it.
Nella gara dei putti per il palio di San Romano, la vittoria è andata a Borgo San Giovanni con Matteo Ferroni, che dopo aver recuperato l’avversario di Rione San Benedetto, Dario Berveglieri, ha dominato nei due giri di pista senza particolari incertezze, portando al popolo “della Lince” il 42 Palio.
Avvincente la corsa delle putte, vinta da Borgo San Giorgio – che porta a casa il suo primo Palio di San Paolo dopo 46 anni. L’atleta con la casacca giallo-rossa, Polina Grossi, ha saputo difendere bene la sua pole position, mantenuta per quasi l’intera gara ma contrastata da Caterina Mangolini di Borgo San Giovanni che, dopo l’ultima curva, ha tentato la rimonta mollando solo negli ultimi 15 metri di gara.
La corsa delle asine, vinto dal Rione di San Benedetto con Laura Zanghirati su Santino Rocchitto, ha riservato emozione e …. attesa. Dopo 6 false partenze la diciassettenne staffiera biancoazzurra si è portata in vantaggio e ha saputo amministrare la gara, resistendo ai tentativi di Francesco Ferrari su 100lire per Santa Maria in Vado di passarle avanti. Alla fine del secondo giro di pista 100lire si è praticamente fermata e la Zanghirati ha potuto tagliare il traguardo in tranquillità. “E’ una ragazza straordinaria – ha raccontato Luca Accorsi, massaro di Rione San Benedetto – Fa le gare di pony game e ha fatto un mese di allenamento sul somaro con una passione tale che questa vittoria è davvero tutta sua. Se ce ne fossero di più di ragazze determinate e speciali come lei il mondo sarebbe un posto diverso.”
Dopo la dovuta pausa per riassettare la pista per la gara dei cavalli, sono state estratte le palline per l’ordine della mossa e si è corsa la competizione più attesa, quella per il palio dorato di San Giorgio. Il mossiere Gennaro Milone non ha avuto particolari problemi di disciplina nel gestire la mossa: gli otto cavalli sono partiti senza alcuna falsa partenza e ad avere da subito la meglio è stato “Grandine”, al secolo Sebastiamo Murtas, su Novanta. Il ventiquattrenne di Ghilarza (OR), fantino con un curriculum “di rispetto”, ha portato a Rione San Paolo il primo palio di San Giorgio dal 1987.

L’obiettivo del marziano

Lo guardavano come un marziano, lo guardavano da sotto i portici di piazza San Pietro, dove avevano trovato riparo dal temporale. Tutti a cercare di capire cosa ci faceva quell’uomo armato di macchina fotografica sotto la pioggia, cosa trovava di così interessante in quelle pozzanghere, che indagava chinandosi, girandovi attorno e scattando come fosse ispirato da visioni invisibili agli occhi altrui. Performance o follia? Né l’una nell’altra, bensì il lavoro di un artista fotografo, Adolfo Brunacci. Ha scattato 500 immagini, novanta delle quali raccolte in un libro da cui prende il nome la sua mostra “Rumon – all’inizio fu l’acqua’, in svolgimento dal 4 giugno al 4 luglio allo stadio Domiziano di Roma. I trenta scatti in esposizione sono un omaggio alla bellezza, un esercizio di stile sui riflessi restituiti dalla pioggia imprigionata nei tanti avvallamenti delle strade e dalle fontane romane. Alla fisarmonica di Daniele Mutino è stata affidata l’inaugurazione (alle 18.30 del 4 giugno), le note del compositore, diffuse in uno degli spazi archeologici ed espositivi tra i più suggestivi della città, collocato proprio sotto la più moderna piazza Navona, sono il preludio di un viaggio per immagini dalle quali emerge lo splendore eterno dell’Urbe sottolineato, a tratti, dai versi della poetessa Luci Zuvela.

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Il fotografo Adolfo Brunacci

Brunacci racconta una città senza tempo, cresciuta intorno all’acqua del Tevere, illuminata da una luce speciale, unica al mondo. “Ho fatto chilometri a piedi aspettato il momento giusto per cogliere tra la pioggia e le improvvise schiarite il lato estetico più affascinante. Dentro a una pozza c’è un mondo, c’è il viaggio di un viandante allo scoperta di Roma”, racconta Brunacci, toscano d’orgine romano d’adozione, abituato per anni a costruire in studio immagini che gli hanno fruttato l’etichetta di fotografo pittorealista – surrealista, definizioni coniate dalla critica specializzata per descriverne le opere. Ma è passato tanto tempo da allora e lui, chi lo conosce sa, è un artista ‘in progress’ e a piedi. Pronto a fare chilometri per carpire segreti on the road. “Da allora il mio modo di fotografare è cambiato, l’estetica resta l’obiettivo della ricerca, ma tutto si è spostato sulla strada – spiega – Un tempo fotografavo quello che pensavo, ora quello che vedo”. Per Brunacci, conosciuto nel mondo della foto ‘glam’ italiana e straniera, della pubblicità, per anni firma di punta di Playboy con una solida esperienza di graphic design e video clip, la macchina fotografica resta il mezzo per creare quello che il cuore, la mente e la cultura riescono a plasmare. Ieri come oggi.

“La mostra, tratta dal libro arricchito dalle poesie di Luci Zuvela, che hanno saputo richiamare la voce antica del Tevere e le sue leggende, racconta la parte migliore di Roma – spiega – Le buche, della cui mancata manutenzione i romani sono i primi a lamentarsi, assumono un significato diverso. Sono mondi a se stanti, da esplorare, da inquadrare e fermare in un gioco di luce e stati d’animo”. In poche parole, bisogna saper cercare la bellezza nei luoghi inaspettati. Roma è ricca di spunti, carica di contraddizioni, popolata dalle etnie più diverse, animata dalle più strane proposte e contemporaneamente stritolata tra nuove e vecchie povertà che, neanche a farlo apposta, vivono in strada. Il regno creativo di Adolfo Brunacci da tempo impegnato nel declinare i tanti volti di un progetto di cui “Rumon- all’inizio fu l’acqua” è il primo tassello. Di strada.

Ferrara, piccolo viaggio
nella geografia del Palio

Il visitatore che in questi giorni attraversa la città di Ferrara trova bandiere di colori diverse appese sui palazzi publici e privati, lungo le vie del centro e in quelle un po’ più periferiche. Sono le bandiere delle contrade del Palio. L’evento – in città molto sentito, ma magari meno celebre di altri analoghi – vanta il primato mondiale storico tra queste antiche gare. La prima corsa di fanti e fantesche, somari e cavalli per le vie della città risale infatti al 1259, mentre quello di Siena ha probabili origini tardo-duecentesche, ma è nel 1656 che viene preso in carico dal Comune senese in maniera sistematica.
Ma perché a Ferrara in piazza del Duomo sventola la bandiera giallo-viola con l’unicorno, mentre nella confinante piazza Municipale è issata la bandiera bianco-nera con l’aquila? Per il Palio, il territorio della città di Ferrara è diviso in otto quadranti: corrispondono ai territori delle contrade e ognuno contiene un pezzettino di storia. I quattro quadranti che si trovano tutti all’interno delle mura della città sono i “rioni”, mentre sono chiamati “borghi” quelli fuori dalla cinta muraria. Ecco la mappa, percorsa da nord ovest in senso orario.

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Mappa delle contrade del Palio di Ferrara

Rione San Benedetto. Colori bianco e azzurro per la contrada che abbraccia il territorio cittadino, che va dai confini nord delle mura cittadine fino alla Porta degli Angeli, chiusa a est da corso Ercole d’Este e a sud dall’asse di viale Cavour. L’impresa è quella del diamante sull’anello episcopale, avvinghiato da due foglie di garofano rosso. Adottato da Ercole I, simboleggia la potenza raggiunta dagli Estensi attraverso la politica matrimoniale e il legame con lo Stato Pontificio.

Rione Santo Spirito. Giallo e verde per la contrada che rientra nel territorio dell’Addizione Erculea con il fulcro della festa nella sua piazza Ariostea, dove vengono corse le gare del Palio di Ferrara. Il confine sud è segnato da corso Giovecca. L’impresa è quella della granata svampante, il proiettile, simbolo guerresco di Alfonso I.

Rione Santa Maria in Vado. Giallo e viola per la contrada che occupa un quarto della città entro le Mura, tra il centro con il Duomo e tutte le vie acciottolate della parte medioevale. L’impresa è quella dell’unicorno, animale mitologico raffigurato nell’atto di purificare le paludose acque ferraresi con il suo corno miracoloso.

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Unicorno della contrada di Santa Maria in Vado

Rione San Paolo. Bianco e nero per il territorio della contrada, che si sviluppa intorno al castello estense. Arriva fino al confine sud del porto fluviale di via Darsena e delle mura di Rampari di San Paolo, dove è il Museo dell’ebraismo e dove si affacciano i parcheggi ex Mof e quello di viale Kennedy. L’impresa è quella estense dell’aquila sulla ruota.

Borgo San Giacomo. Blu e giallo sulle bandiere di questa contrada, che ingloba la parte interna delle mura del vecchio Acquedotto e una vasta zona periferica che va fino all’antico borgo di Mizzana. La sua impresa è un’aquila bianca, stemma originario degli Este.

Borgo San Giovanni. Il rosso e il blu sono i colori della contrada, il cui territorio si estende verso nord est al di fuori delle mura cittadine, spingendosi fino al confine dell’area comunale. L’impresa è quella della lince bendata: l’animale simbolo della vista acuta è emblema del primo vero principe estense, Niccolò III, morto avvelenato; suo figlio Leonello ereditandolo vuole rappresentare l’animale con la benda in omaggio al padre e alle sue idee inascoltate.

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L’idra, impresa della contrada di San Giorgio

Borgo San Giorgio. Rosso e giallo per il territorio fuori dalle mura, che è stato il fulcro iniziale della storia cittadina. Come impresa, la mitologica idra: mostro dalle sette teste draghesche che si contorce nel fuoco.

Borgo San Luca. Rosso e verde per il territorio di uno dei primi nuclei di insediamento sul ramo del Po che attraversava Ferrara. L’impresa è quella dello steccato detto anche “pararuro”: una zucca avvolta e legata a fior d’acqua allo steccato, con la funzione di idrometro per indicare ai guardiani il livello delle acque.

Stemmi e mappa de Palio – che si corre oggi in piazza Ariostea – sono tratti dal sito ufficiale www.paliodiferrara.it

Gli Estensi e il territorio:
le bonifiche del ‘400 preludio
al trionfo dell’agricoltura

AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA/1

A partire dall’epoca di Leonello (1441-1450) e Borso d’Este (1450-1471), la spaventosa contingenza demografica ed economica che attanagliava l’intero Ducato di Ferrara cominciò a segnare un’inversione di tendenza. Ma già dal dominio di Nicolò III (1402-1441), gli Estensi, mediante la concessione gratuita di zone incolte e paludose a importanti famiglie (loro fedeli) di area locale, avevano dato l’avvio alle bonifiche e alla valorizzazione del territorio ferrarese. Con le famiglie insediate nelle possessioni, gli Estensi mantennero rapporti consuetudinari, salvo il fatto che questi coloni da loro direttamente nominati godevano di vari privilegi fiscali. Lo stesso Borso promulgò nel 1456 gli Statuti, pubblicati a stampa vent’anni dopo, che regolavano le caratteristiche del rapporto fra i coloni e i proprietari.
Nella seconda metà del Cinquecento, le campagne si presentavano ben ripopolate e la città, sotto la reggenza di Alfonso II, registrò una invidiabile espansione demografica che portò al numero di 30.000 circa gli abitanti. Tuttavia, a fine secolo, una tremenda carestia mise a nudo la fragilità di quell’agricoltura premoderna di fronte alle avversità climatiche. Comunque, la congiuntura “positiva” era ormai innescata e la crescita della domanda provocata dall’incremento demografico suscitava molteplici opportunità di arricchimento, con il conseguente aumento dei prezzi dei terreni agricoli.
«I documenti del tempo, e in particolare gli atti dei notai ferraresi documentano assai bene l’emergere di un nuovo ceto di uomini d’affari che investono nella terra i loro capitali e di imprenditori, talvolta dalle umili origini, che assumono la conduzione in affitto di possessioni e di castalderie del patriziato cittadino o dei maggiori enti ecclesiastici […]. Un ceto di affittuari, composto da fattori arricchiti, da mercanti cittadini, da commercianti di grano e di seta, da pescatori e usurai, da appaltatori d’imposte pubbliche, si lancia sulla terra per ricavare profitto dalla vendita dei suoi prodotti […]. Con gli inizi del secolo XVII in effetti è tutta la società rurale ferrarese ad avere cambiato fisionomia. La partenza degli Estensi per Modena non farà che rimarcare che la ricchezza di Ferrara risiede ormai quasi esclusivamente nelle sue fertili campagne»*.

*F. Cazzola, “L’agricoltura nel XIV-XVI secolo”, in F. Bocchi (a cura di), La storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995, pp. 126-8.

Il rovescio delle storie

Rita Gabrielli prova a mettere sottosopra le facili convinzioni, quelle consolidate dai luoghi comuni più comodi. La raccolta di racconti Sottosopra (Festina Lente edizioni, 2014) della ferrarese Rita Gabrielli contiene dodici storie attraversate da uno sguardo che non smette mai di essere positivo, anche di fronte ai drammi.
Leggendo i racconti si percepisce il tentativo di fare incontrare poli opposti, come quando un sotto e un sopra si sfiorano.
“E’ così, ho provato ad affrontare le situazioni da un punto di vista non convenzionale, quello dell’altro, spesso dei deboli, degli anonimi. Credo non ci si debba mai fermare alla prima occhiata, il rovesciamento ci fa scoprire cose nuove e che le persone sono diverse”.
Le donne sono grandi protagoniste dei suoi racconti. Donne che riescono, alla fine, a prendere in mano la propria vita dal niente, avviare una trasformazione e sognare ancora. Come ci riescono?
“Sono donne solo apparentemente fragili, devono superare difficoltà e trovano sempre grande forza, spesso nell’aiuto degli altri. A portare mutuo soccorso sono altre donne e, non a caso, molto diverse, magari di altre culture, di altra estrazione. Nascono così incontri e osmosi nell’unione di vite distanti, ma che sanno capirsi”.
Racconti di fantasia o la realtà le ha dato qualche spunto?
“Ho messo insieme pezzi di realtà, fatti di cronaca, parte del mio vissuto, ricordi del passato, storie che mi sono state raccontate e soprattutto valori in cui credo”.
Alcuni valori emergono molto bene, come l’importanza dei legami familiari, l’attaccamento alle radici…
“Non solo, trovo importante il recupero della memoria che aiuta a non lasciare andare sempre tutto così in fretta e poi il valore del cibo che, per me, è un linguaggio, un modo per comunicare e per prendersi cura di sé e degli altri. Il mio intento, codificando tali valori semplici ma positivi, è lasciare un messaggio a chi è più giovane e sta vivendo immerso nella precarietà”.
Nei racconti, viene dato spazio anche al paesaggio. Che importanza assume?
“Il paesaggio è il nostro, quello padano e ferrarese a me molto caro. Accanto alla profondità dei sentimenti che ho voluto esplorare, il paesaggio rappresenta la parte esterna, il luogo dell’incontro fra le persone e della conoscenza”.

Nota sull’autore: Rita Gabrielli, 57 anni, una laurea in Lettere, lavora alle poste di Bologna. Sposata, ha un figlio di 33 anni, Marcello.

Dolore cervicale: spesso
la vittima è lo stomaco

Sappiamo che l’artrosi comporta una sofferenza di tipo degenerativo, ossia peggiora con il trascorrere degli anni e con l’avanzare dell’età; le cartilagini che ricoprono le articolazioni si logorano, i legamenti e le capsule che ricoprono le giunture (spalle, polsi, gomiti, anche, ginocchia e caviglie) s’ispessiscono e si induriscono. Uno dei punti che per primo accusa sofferenza è la colonna vertebrale. Tipica, in questo caso, è la localizzazione nella zona cervicale (che interessa, cioè, le articolazioni poste fra le vertebre del collo) con la presenza di sintomi anche neurologici come radicoliti e nevriti, tutte espressioni dello stiramento, dell’irritazione e della compressione dei tronchi nervosi che escono dal midollo spinale, tra una vertebra e l’altra. Si può a questo punto fare menzione ad un nervo particolare: il nervo vago. Il nervo vago è il decimo, il più lungo, il più ramificato dei nervi cranici ed è il principale componente della sezione parasimpatica del sistema nervoso autonomo. Il vago esce dal midollo allungato, attraversa il collo e il torace, raggiunge l’addome e invia rami alla maggior parte degli organi del corpo umano (la laringe e la faringe, la trachea, i polmoni, il cuore e buona parte dell’apparato digerente). Il nervo vago esercita la sua azione liberando una sostanza particolare chiamata acetilcolina che determina il restringimento dei bronchi e il rallentamento della frequenza cardiaca. Inoltre stimola la produzione dell’acido gastrico, l’attività della colecisti e la peristalsi, cioè i movimenti compiuti dallo stomaco e dall’intestino durante la digestione. Quando la funzionalità del nervo vago viene in qualche modo compromessa dalla presenza di un processo degenerativo articolare, come per esempio l’artrosi cervicale, può determinarsi una serie di sintomi che coinvolgono tutti i principali organi del corpo e che sembrano avere poco a che fare con una malattia delle articolazioni quale l’artrosi.

Ecco i sintomi imputabili al nervo vago:

NAUSEA – E’ un disturbo tipico, connesso alla degenerazione artrosica della cervicale, che colpisce spesso al mattino, appena svegli, e sembra più frequente durante i cambi di stagione, quando i disturbi come l’artrosi si fanno più frequenti e incalzanti. Non è connesso all’assunzione di cibo, anzi, in questi casi l’appetito non viene compromesso. Si associa spesso a salivazione abbondante (il vago stimola la produzione di saliva) e a un senso di oppressione alla nuca e alle orbite intorno agli occhi (perioculari).

ACIDITA’ DI STOMACO – Bruciori di stomaco e rigurgiti acidi sono spesso associati alla nausea e dipendono dall’aumento della produzione di acido gastrico da parte del vago.

ROSSORI IN VISO – Sono quasi sempre connessi alla sensazione di nausea e vengono originati dalla stimolazione del nervo vago causata da una compressione delle vertebre e delle articolazioni a livello cervicale.

CRAMPI – Tra stomaco e intestino tenue, sono da ricollegarsi all’aumentata attività del vago e anche della sua compromissione a livello cervicale.

TACHICARDIA – Il vago innerva il cuore e, se stimolato eccessivamente, può dar luogo a un aumento dei battiti che si traduce in una frequenza cardiaca superiore ai cento battiti al minuto.

DISTURBI DELLA DEGLUTIZIONE – Il fastidioso senso di “gola chiusa” deriva sempre dall’infiammazione del vago che innerva organi come la faringe e la trachea. Questo disturbo, insieme ai ronzii auricolari, alle vertigini e ai dolori alla nuca, è indice della cosiddetta sindrome di Neri, Barrè e Lioeu (dal nome dei tre medici che per primi la identificarono ) tipica nell’artrosi cervicale.

Con Listonemag in piazza
dal 5 all’ 11 giugno
un grande esperimento
di narrazione collettiva

da: responsabile comunicazione progetto Backup di una piazza

Una settimana per ascoltare, raccogliere, fotografare, filmare le storie dei ferraresi e della loro piazza: la redazione di Listonemag, da giovedì 5 a mercoledì 11 giugno 2014, si trasferirà nella piazza Trento e Trieste di Ferrara, sul listone da cui prende il nome, per mettersi a disposizione di chi vorrà contribuire a questo piccolo grande esperimento di narrazione collettiva, primo nel suo genere in città.

L’operazione sarà il cuore del progetto “Backup di una piazza”, vincitore del bando “Giovani per il territorio”, promosso dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, per la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico locale. Obiettivo del progetto: raccontare la società che nel passato e nel presente ha vissuto e vive la piazza cittadina come luogo privilegiato d’incontro e di scambio.

Da febbraio a giugno la redazione si è impegnata in uno stimolante lavoro di ricerca storica, alla quale chiunque ha potuto contribuire inviando i propri ricordi o quelli della propria famiglia attraverso immagini e racconti. Adesso è il momento di occuparsi del presente! Durante l’intensa settimana che li aspetta redattori, fotografi e videomaker under35 di Listone Mag saranno impegnati a raccogliere e condividere le voci e i volti della piazza cittadina attraverso interviste e reportage, coinvolgendo passanti, turisti, lavoratori, studenti, musicisti di strada: tutto il variegato mondo che ogni giorno popola la piazza.

Peculiarità di questa iniziativa sono il coinvolgimento attivo della cittadinanza e la multimedialità. Sarà una “ricognizione” particolare, ricca di iniziative collaterali e collaborazioni, orientata a far dialogare passato e presente, listone fisico e Listone virtuale, vecchie e nuove tecnologie.
La classe 4 G del Liceo Scientifico Statale A.Roiti, coinvolta nel progetto, scriverà alcuni articoli; i ragazzi del workshop video realizzato nei mesi scorsi presso il centro comunale Area Giovani si occuperanno di svolgere originali produzioni audiovisive. Gli iscritti al corso di alfabetizzazione informatica “Pane e Internet” parteciperanno a un’originale lezione pratica per imparare a connettersi a “wi-fe”, la rete gratuita del Comune di Ferrara, supportati dagli adolescenti coinvolti nell’iniziativa.
La chiacchiera volatile della piazza sarà “cinguettata” attraverso il live tweeting, che sarà possibile seguire sull’account Twitter di Listone Mag o attraverso l’hashtag #backupdiunapiazza.

Chiunque potrà partecipare all’iniziativa con i propri racconti e i propri ricordi.
Listone Mag sarà sul listone tutti i giorni nei seguenti orari:

Giovedì 5, dalle 9 alle 13
Venerdì 6, dalle 17 alle 23
Sabato 7, dalle 9 alle 19
Domenica 8, dalle 9 alle 19
Lunedì 9, dalle 15 alle 19
Martedì 10, dalle 15 alle 19
Mercoledì 11, dalle 17 alle 23

A settembre l’intero percorso di backup sarà raccolto in una pubblicazione in duplice formato – cartaceo ed ebook – e presentato a settembre assieme a una mostra fotografica e a un evento di storytelling.

Partner del progetto: sono tante e diverse le realtà che hanno già voluto aderire al progetto: l’Istituto di storia contemporanea, l’Archivio comunale, le Biblioteche comunali, il liceo scientifico Roiti, il centro Area Giovani con il progetto Imagina(c)tion, i docenti e gli alunni del corso di alfabetizzazione informatica Pane e Internet, il comitato Commercianti Centro Storico.