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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Sharbat-Gula

Che colore ha la dignità?

“Quando ripenso a tutte le stronzate che ho imparato alla scuola superiore, è un miracolo che io possa ancora pensare…”.
No, non mi riferisco alla mia esperienza scolastica; l’autore di questa frase è il cantautore Paul Simon che introduce così una sua canzone, scritta nel 1972.
In questa prima strofa mi sembra abbastanza chiara la sua dura critica al sistema educativo statunitense di quel periodo.
Non me ne intendo abbastanza per scriverne nel merito ma se quella scuola era impregnata di puritanesimo come ha dimostrato qualche insegnante con cui abbiamo corrisposto via mail ai primi degli anni novanta per una ricerca sulle filastrocche per fare la conta (leggi), allora canto anche io la stessa canzone condividendone il contenuto.
Infatti ricordo con immutato stupore che diversi docenti americani si erano molto scandalizzati e avevano giudicato male la nostra scuola quando avevano saputo che i bambini italiani, per scegliere chi di loro doveva star sotto in un gioco, andavano a raccontare ai quattro venti che la figlia di un medico aveva una relazione sentimentale con tre civette, con le quali compiva addirittura peripezie a carattere sessuale su un mobile di legno; in più trovavano drammatico che tale rapporto avesse fatto aggravare le condizioni di salute del padre della ragazza!!!
Chissà cosa avrebbero pensato quegli insegnanti se solo avessero saputo che anche un certo signor Cecchino, di professione cacciatore, era destinatario privilegiato delle attenzioni amorose di una cornacchia extracomunitaria!
Condivido il fatto che la scuola italiana abbia qualche problema ma questi non dipendono sicuramente da una cornacchia del Canadà e neanche da tre civette sul comò.
Kodachrome è il titolo della canzone di Paul Simon ma prima di allora era soprattutto il marchio di una pellicola fotografica prodotta dalla Kodak.
La canzone di Paul Simon fa riferimento ad una pellicola unica e straordinaria per diversi motivi: aveva una sensibilità incredibile, riusciva ad esaltare i particolari, offriva una durata nel tempo notevole, forniva un’immagine estremamente nitida della realtà; in pratica celebrava i singoli colori armonizzandoli in un insieme cromatico unico.
In cambio però richiedeva un trattamento di sviluppo lungo e complesso.
Infatti il Kodachrome era una pellicola che nasceva originariamente in bianco e nero e solo dopo, in fase di sviluppo, venivano aggiunti i copulanti cromogeni, che in parole semplici sono le sostanze che, reagendo, sviluppano i colori.
In pratica, a differenza di tutte le altre pellicole che  già avevano nell’emulsione i copulanti del colore, al Kodachrome i colori venivano aggiunti dopo.
Se a Paul Simon la presa di posizione canora sulla scuola gli ha impedito una maggiore diffusione del suo brano, a me quella canzone fa venire in mente che anche nella nostra scuola c’è bisogno di metterci i colori perché, come canta lui, “Everything looks worse in black and white” (ogni cosa sembra peggiore in bianco e nero).
Ho già scritto e detto più volte sul perché ci sia assoluto bisogno di investire culturalmente ed economicamente sulla nostra scuola e sul come farlo.
Nonostante tutto continuo a credere che nella scuola, per un’efficace trasformazione cromatica, ci sia bisogno dapprima di prendersi cura di “coloro che possono aggiungere colore in fase di sviluppo”: sto parlando di tutte le persone che vivono la scuola.
Persone” ancor prima che “personale” della scuola: studenti, personale docente e ata, dirigenti.
Potrei elencare una serie di azioni che si riferiscono al prendersi cura, fra le quali: prestare attenzione, ascoltare attivamente, accogliere, coinvolgere, sostenere, valorizzare, rispondere.
In questo momento però se chi governa la scuola fosse intenzionato a dimostrare interesse, l’elemento irrinunciabile da cui partire dovrebbe essere la restituzione della dignità di cui le “Persone della scuola” sono state derubate in questi anni.
Basterebbe che i politici iniziassero da alcune piccole/grandi cose come il riconoscimento del ruolo sociale della scuola, il rispetto delle reciproche competenze, la chiarezza nelle comunicazioni, la correttezza nelle decisioni, la coerenza fra le dichiarazioni di intenti e gli impegni poi assunti.
Abbiamo un bisogno vitale che si crei una scuola “dalla sensibilità incredibile, che riesca ad esaltare i particolari, che offra una durata nel tempo notevole, che fornisca un’immagine estremamente nitida della realtà; in pratica una scuola che, celebrando i singoli, riesca ad armonizzarli in un insieme unico“.
Il trattamento di sviluppo potrebbe essere lungo e complesso ma, dopo i lunghi anni nei quali la scuola italiana è stata rabbuiata da una Stella che continua ad essere portata in Carrozza, con Letizia, attraverso un prato di Fioroni che fanno poco Profumo, abbiamo la necessità di iniziare ad illuminarla a partire dal colore vivace e deciso della dignità.
P.S. Quella in apertura è forse la foto più famosa della storia della rivista National Geographic. La ragazza afgana ritratta si chiama Sharbat Gula; dopo un attacco che uccise i suoi genitori fu costretta a scappare scalando le montagne fino ad arrivare al campo rifugiati di Nasir Bagh, in Pakistan, con i suoi fratelli e la nonna.
Fu lì che Steve McCurry scattò questa fotografia ormai famosissima… usando pellicola Kodachrome.
Sharbat, all’epoca, aveva 12 anni e non sapeva che, attraverso quella foto, il suo sguardo dignitoso sarebbe diventato un simbolo per il dramma dei rifugiati in tutto il mondo.
Il Kodachrome non si produce più e la Eastman Kodak concesse proprio al fotoreporter Steve McCurry l’onore di utilizzare l’ultima pellicola.

Ascolta il commento musicale: Paul Simone, Kodachrome

Giovani-Associazioni-premiate

Listone e quartiere Giardino diventeranno set di teatro, cultura e memoria

Due luoghi di Ferrara che si trasformeranno in spazi culturali: la piazza accanto al Duomo e un intero quartiere tra maggio e giugno diventeranno il set per spettacoli teatrali, incontri, rassegne di fotografia, memoria storica e racconti. Sono i due progetti che andranno in porto grazie al bando “Giovani per il territorio” indetto dall’Ibc (Istituto beni culturali) della Regione Emilia-Romagna con il Comune di Ferrara. A vincere il concorso rivolto ad associazioni giovanili per progetti innovativi di gestione e valorizzazione dei beni culturali della città sono due associazioni cittadine che mettono insieme ragazzi under 35: l’associazione culturale Listone che da aprile scorso cura il magazine online Listonemag.it e l’associazione di promozione sociale Alpha Centauri, attiva dal 2007 con manifestazioni e attività teatrali che portano la loro azione in carcere, nei gruppi di salute mentale, ma anche in attività europee legate al terzo settore.
Il bando dell’Ibc, alla sua terza edizione, ha scelto Ferrara come città dove cercare iniziative giovanili creative e inedite da selezionare e finanziare con un premio di 6mila euro ciascuna. Una decina i progetti presentati, tra i quali sono stati scelti l’evento di Listone intitolato “Backup di una piazza” che in maggio trasformerà il listone in una redazione a cielo aperto e quello di Alpha Centauri intitolato “Il giardino dei destini incrociati” che nei fine settimana di giugno produrrà una serie di spettacoli teatrali da mettere in scena in cinque diversi spazi del quartiere Giardino, area dentro le mura cittadine tra via Cavour e corso Isonzo che include la stazione ferroviaria e l’Acquedotto monumentale.
“Già da febbraio – spiega Licia Vignotto dell’associazione Listone – ‘backup di una piazza‘ partirà con il lavoro di redattori, videomaker e fotografi per raccogliere informazioni e materiali che raccontino passato e presente di piazza Trento Trieste come luogo privilegiato di incontro, aggregazione, scambio”. In maggio, poi, questo luogo nel cuore della vita cittadina si trasformerà in redazione a cielo aperto con una postazione allestita nella piazza per raccontare in presa diretta quello che succede e per mostrare i risultati di una ricerca storica che coinvolge Istituto di storia contemporanea, Archivio comunale, biblioteche cittadine, liceo Roiti, centro municipale Area Giovani, comitato Commercianti del centro storico, alunni e docenti del corso di alfabetizzazione informatica Pane e Internet. La partecipazione è comunque aperta, e chi vuole potrà dare il suo ulteriore contributo inviando foto, racconti, aneddoti, video che raccontano il proprio listone all’indirizzo e-mail backup@listonemag.it. L’iniziativa finirà poi sulle pagine di un libro di carta e di un e-book in pubblicazione in settembre.
Le rappresentazioni del “Giardino dei destini incrociati” saranno invece il frutto di un laboratorio teatrale partito a inizio gennaio e che coinvolge oltre una ventina di ragazzi. “Insieme creeremo uno spettacolo – spiega Davide Della Chiara dell’associazione Alpha Centauri – che verrà messo in scena in più sequenze negli spazi del quartiere Giardino, come la stazione ferroviaria e i giardini di via Nazario Sauro”. Trame e spunti saranno legati alle ricerche storiche e urbanistiche dell’associazione di architetti Basso Profilo, che raccontano questo quartiere nato nella seconda metà dell’800 con l’intento di creare un pezzo di città-giardino accogliente. Tra i protagonisti coinvolti – fanno notare Natasha Czertok e Dora Fanelli – ci saranno anche bambini della scuola Poledrelli, ex detenuti che hanno seguito laboratori teatrali della Casa circondariale, iscritti al centro sociale e centro anziani Ancescao.
I vincitori e i loro progetti sono stati presentati in residenza municipale dal vice sindaco e assessore alla cultura del Comune di Ferrara Massimo Maisto e dalla responsabile dell’educazione al patrimonio culturale dell’Ibc Valentina Galloni, che ha spiegato la volontà dell’istituto regionale di coinvolgere i giovani “perché offrono punti di vista inconsueti, modalità comunicative nuove e in questo caso capaci di coinvolgere diversi partner e l’intera comunità locale”.

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Abbado, lo sguardo oltre il palco: passione civile e attenzione verso i giovani

Di Claudio Abbado mi piace ricordare due aspetti singolari del suo essere un grande direttore e un grande artista. Due modi di intendere il proprio ruolo che ne fanno una personalità rara se non unica nel grande panorama culturale italiano ed europeo.
La sua attenzione verso i giovani, la sua costante passione civile.
Sono caratteristiche che ho avuto il privilegio di toccare con mano più volte, negli anni in cui Abbado aveva scelto, per generosità, Ferrara come una delle sedi della sua poliedrica attività musicale e culturale nel mondo.

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Claudio Abbado nel marzo 2003 per protesta contro la guerra in Iraq espone la bandiera della pace sul palco

Verso i giovani talenti il Maestro aveva non solo una particolare sensibilità ma la volontà costante di creare sempre nuove occasioni per impegnarli e valorizzarne le esperienze.
Basti pensare che a Ferrara o da Ferrara Abbado ha dato vita a due orchestre giovanili che hanno suonato e continuano a suonare nei più importanti teatri e sale da concerto d’Europa. Al fatto che Daniel Harding considera Ferrara come il luogo della sua maturazione come direttore d’orchestra. Alla promozione che Claudio Abbado ha fatto della Simòn Bolìvar Youth Orchestra del Venezuela e del suo giovane direttore Gustavo Dudamel, all’aiuto che ha sempre voluto fornire alla Scuola di Musica di Fiesole.
Ma il personale rapporto che Abbado aveva con i giovani musicisti delle sue orchestre si apprezzava soprattutto sul campo, potendo assistere alle prove per l’esecuzione dei concerti e delle opere liriche che decideva di eseguire.
Questa, una delle esperienze più belle e istruttive che si possano ricordare, per l’atmosfera del tutto originale, impegnata e spontanea insieme, allegra, quasi giocosa a volte, e nello stesso tempo serissima come meritava una lezione di altissimo livello. Ma più che un professore, Claudio (come era obbligo chiamarlo), sembrava un fratello maggiore prodigo di consigli, un compagno di corso più anziano pronto a suggerire ed aiutare i colleghi meno esperti. Instancabile nello spiegare, sempre amabilmente, cosa c’era davvero scritto dietro le note. Ma fermissimo nelle sue posizioni e convinzioni che si percepivano essere sempre frutto di riflessioni profonde.
Claudio Abbado sul palco del direttore era autorevole in maniera assoluta, senza dover mai alzare la voce, incisivo senza fare nessun gesto men che armonioso. In grado di ricavare il suono che voleva sorridendo ai musicisti. Severo con chi non era all’altezza. Con la sua esperienza e lettura profonda della musica educava e conquistava, orientava, suggeriva, sottolineava fino a ottenere dall’orchestra l’interpretazione che voleva . Un’interpretazione sempre nuova e ricca di sfumature, senza indulgere alle mode ma scavando in profondità nella partitura e nel suo significato. Basti ricordare le recenti esibizioni mahleriane a Lucerna o il ciclo di concerti a Roma con i Berliner dei primi anni 2000.

La passione civile di Abbado si esercitava soprattutto nella fermissima determinazione di fare qualcosa di concreto per migliorare le condizioni ambientali dei luoghi in cui viveva e lavorava.
A me pareva fosse non solo frutto di una ferma convinzione circa le conseguenze nefaste di un certo sviluppo urbano e industriale, ma anche l’idea che fosse suo dovere restituire qualcosa di permanente alle città che lo ospitavano. Magari il piacere di lasciare qualcosa di bello anche ai cittadini che non avevano potuto ascoltarlo. Di qui i progetti delle fioriere, dell’alberazione dei viali, dei parcheggi interrati, delle auto a idrogeno, dell’uso intensivo della bicicletta e delle ciclabili. Non tutti i suoi progetti erano immediatamente realizzabili, ma la sua richiesta era puntuale e studiata nel dettaglio: “Vengo a suonare da voi se voi vi impegnate a fare questo”. Si vedeva dal suo sguardo quando le risposte dell’amministratore di turno non erano all’altezza delle sua aspettative. Chi gli prospettava buona volontà malgrado le difficoltà delle decisioni e della burocrazia, veniva messo alla prova. Chi provava a imbrogliarlo lo perdeva.
Ambiente soprattutto, ma non solo.
Credo sia un ricordo importante per tutta la comunità ferrarese, una di quelle testimonianze che restano per sempre, come simbolo di un’epoca, l’occasione in cui diresse uno splendido Re Lear di Shostakovic con la bandiera della pace distesa sul palco davanti al podio. Era il marzo del 2003, stava scoppiando la guerra in Iraq e Claudio accettò volentieri di dare rappresentazione visiva al sentimento di contrarietà che dominava fra la gente di Ferrara e non solo.
Le sue capacità di far conoscere i significati meno ovvi della musica e il suo impegno per il progresso civile ci mancheranno molto.

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Fra tassa e tariffa sconfitto è il cittadino

Come è a tutti noto permane un preoccupante ritardo nell’applicazione del passaggio a tariffa, anzi ormai ancora una volta ha vinto la tassa. La modernizzazione del settore si ottiene invece con l’adozione di sistemi economici di gestione integrata e l’integrazione richiede condivisione, partecipazione e soprattutto determinazione. In questa logica diventa importante la corretta applicazione di equilibrati strumenti tariffari e dunque forti critiche si continuano a muovere all’attuale sistema di tassazione.
La tassa è impropria, ma è anche applicata con criteri spesso personalizzati tra le varie realtà territoriali e con ancora forti elementi critici (modesti gradi di copertura, disomogenei regolamenti di applicazione del tributo, forte evasione e naturalmente permangono in generale forti problemi di gestione in molti Comuni). L’applicazione della tariffa al contrario avrebbe potuto portare importanti miglioramenti: dalla valorizzazione di un corretto sistema economico alla comprensione dettagliata dei costi, al controllo della gestione del settore e soprattutto per garantire una maggiore equità di contribuzione per i cittadini. Il passaggio a tariffa risponde infatti a tre principi di base che si possono riassumere in:
1) sostenibilità ambientale (perché si auspica la crescita di comportamenti virtuosi),
2) sostenibilità economica (e dunque l’equilibrio reale tra entrate e costi del servizio ),
3) equità contributiva (pagare per un servizio reale) ed effettivamente erogato.
Affrontare il tema delle tariffe significa approfondire quei temi economici che spesso sfuggono al controllo del sistema e che comunque è complesso analizzare. Spesso infatti si hanno forti difficoltà di collegamento tra bilancio economico e decisionale per misurare l’efficacia della gestione ambientale (analisi dei benefici), mentre in una attenta analisi tra bilancio economico e bilancio d’impresa dovrebbe trovare spazio anche l’approfondimento tra valori e gestione (responsabilità sociale).

L’economia ambientale pone dunque in generale questioni di diritto collettivo (quindi di etica delle azioni) e l’economia ecologica richiede di considerare il singolo sia come cittadino che come consumatore dunque mosso sia da desideri individuali sia da argomentazioni sociali e motivazioni pubbliche. Bisogna trovare la migliore combinazione tra obiettivi apparentemente divergenti quali la soddisfazione delle persone e la produttività ed efficienza nei cicli produttivi.
Il percorso teorico è noto: possono essere più agevolmente perseguiti e utilizzati strumenti economici che valorizzano i comportamenti virtuosi degli utenti, stimolando l’innovazione e la competitività, promuovendo nel contempo un più corretto e trasparente sistema di controllo di gestione del ciclo dei rifiuti urbani. E forse per questo è noto perché non si applica.

Il primo problema in genere è relativo al grado di copertura. L’obiettivo finale deve essere quello della copertura integrale del costo “motivato dal fine di trasferire sulla tariffa l’onere di finanziare il costo pieno del servizio compresi gli investimenti”, ma sono comunque ammissibili, anzi consigliati percorsi di graduale avvicinamento nel tempo. Questo aspetto è elemento caratteristico di chiarezza amministrativa e trasparenza nell’impostazione delle spese per i servizi previsti .
L’altro tema critico generale è relativo alla forte evasione (ed elusione) e all’importanza del relativo controllo. L’attività di recupero si ritiene sia stata comunque intensificata negli ultimi anni per una maggiore attenzione delle amministrazioni basandosi sull’aggiornamento dell’elenco degli utenti iscritti a ruolo. Si deve invece mantenere la trasparenza degli indici e favorire il coinvolgimento e la consapevolezza della propria produzione di rifiuti da parte degli utenti in modo distinto a seconda delle diverse categorie di applicazione; solo così potrà maturare una maggiore sensibilizzazione sul problema della produzione crescente di rifiuti.
Aspettiamo ancora con la speranza che tutto questo aiuti a cambiare le regole.

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Fortini: il futuro è nel tecno-artigianato, sogno l’Italia dei fablab

Un paio di settimane fa il quotidiano Estense.com ha invitato i propri lettori a votare l’evento ferrarese dell’anno. Alle spalle del festival Internazionale, di ormai consolidata fama, i due avvenimenti culturali più significativi sono risultati la temporanea riapertura del teatro Verdi e la rassegna di designer MeMe exposed.
Particolare significativo, nella cabina di regia di queste due apprezzate proposte locali ha avuto un ruolo chiave l’architetto e docente universitario Sergio Fortini, eclettica figura di operatore culturale che concepisce la propria competenza professionale come un valore versatile, spendibile al servizio della città in ambiti non necessariamente riconducibili in senso stretto a quelli propri dell’architettura. “E’ stata una bella soddisfazione, anche se si è trattato di coriandoli di fine anno – afferma -. La verità è che Ferrara vanta un panorama culturale straordinario in termini di qualità e varietà dell’offerta e di ricchezza potenziale ancora in parte inespressa. In questa fase si avverte come la città stia cercando di reinventarsi, rielaborando idee sul sedime di manifestazioni già radicate; così crescono e fioriscono nuove attività come quelle che stiamo organizzando noi. Certo, è bellissimo entrare da outsider in una scenario tanto prestigioso”.

Quando Fortini dice “noi” si riferisce all’associazione Cultura della città che nel 2013, oltre alla riapertura del teatro Verdi, ha promosso, nei locali dismessi del mercato coperto di via Santo Stefano, l’iniziativa di Heritage market: interventi che hanno stimolato il confronto sul tema della gestione e valorizzazione del patrimonio storico e culturale. Ma parla anche di quanto è avvenuto nel medesimo spazio, fra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, con la rassegna MeMe, nata dalla collaborazione tra lo studio Sigfrida (principali ideatori del festival), Kuva Comunicazione, Uxa architettura, Canapè cantieri aperti e Ferrara Fiera e Congressi: un evento, questo, che ha orientato lo sguardo verso direzioni innovative per promuovere la giovane imprenditoria. “Preparare il futuro – recita il manifesto dell’iniziativa – facendo emergere la creatività giovanile ancora sommersa”.
“MeMe è il festival dei ‘maker’, i moderni artigiani che riescono a coniugare tradizione e innovazione, incorporando creatività e idee negli oggetti che realizzano: saperi antichi che vengono rielaborati con l’ausilio delle innovazioni tecnologiche – spiega Fortini -. Sono prodotti che potremmo definire di ‘nicchia larga’, realizzati attraverso dinamiche di processo standardizzate, ma adattabili progettualmente alle esigenze del singolo individuo, “customizzabili” come si usa dire. E questo vale anche per il delta dei prezzi, che possono oscillare fra pochi euro e alcune migliaia. Non è il prodotto seriale di bassa qualità, né l’extralusso esclusivo per benestanti”.
Il tema appassiona il nostro interlocutore. E la ragione ce la esplicita con chiarezza. “Quella dei maker non è una moda ma un’intrapresa che delinea un preciso filone economico sulla base del quale si può risollevare il destino di un’intera nazione”. Può apparire un’iperbole, ma Fortini argomenta: “Si attiva una duplice economia di scala, quella generata dai maker e dalle loro produzioni (accessibili a una larga fascia di pubblico e conformabili alle loro specifiche esigenze); e quella dei fablab, centri di servizio ai maker che consentono di tradurre idee e progetti in prototipi riproducibili in scala”.
A Reggio Emilia si trova il fablab più prossimo a Ferrara, uno dei primi e dei meglio strutturati, “un esempio brillante e lungimirante di spazio di lavoro e socialità”.
“Ogni maker – spiega – è portatore sano di un capitale narrativo: ha una storia da raccontare e un’idea da realizzare, e su questi presupposti si generano i fondamenti della relazione che lega il maker alle persone che concretamente lo aiutano a realizzare il suo progetto”.
E’ una visione, dunque, non è una semplice bolla, questa che si delinea: e prefigura un nuovo modello di sviluppo. “L’Italia della cento città, se fossimo nel migliore dei mondi possibili, avrebbe in ciascuna di esse un suo fablab, realizzato in osmosi fra pubblico e privato, come centro nevralgico di incontro di socialità e lavoro”.

1. CONTINUA

Leggi la seconda parte della conversazione

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Taxi da piazza Savonarola a Porta Reno? “Si fa fatica a fare manovra”

Piazza Savonarola, il salottino ferrarese accanto al castello, è soffocata da auto in sosta e da taxi. Un brutto vedere per la città Unesco. Qualcuno ha prefigurato una buona soluzione per ovviare al problema: trasferire i taxi in corso Porta Reno. Uno spostamento di 200 metri scarsi, sufficiente però a ricollocare i veicoli in una strada esterna alla zona monumentale. L’amministrazione comunale, per parte sua, non esclude affatto questa possibilità.
Ottimo. Se non fosse che i taxisti già mettono il freno a mano: “Piazza Savonarola è un punto di riferimento conosciuto da tutti i ferraresi”, dichiara, allarmato, il ‘tassinaro’ Massimo Milani alla Nuova Ferrara. Capirai! Si parla di Porta Reno, mica di Porta Mare. Milani però, così argomentando, spera forse di fare breccia nel cuore conservatore degli indigeni.
E aggiunge: “Poi in Porta Reno si fa fatica a fare manovra…”. Si fa fatica a fare manovra?!? Ma la carreggiata è larga 15 metri! Stesse parlando un ottuagenario si potrebbe anche capire. Ma il taxista no! Fa torto a se stesso. Sarebbe stato più onesto dichiarare “c’lé più bel far filò tacà a la màchina in faza al castèl…”.
Se queste sono le solide obiezioni, avanti così, sindaco! Non si lasci intenerire. E stesso trattamento per le auto private. Poi: sotto con piazza Castello. Liberiamo i monumenti dalla lamiera!

crisi

Ma cos’è questa crisi

Scoppiata nel 2008, è la crisi, secondo alcuni la più grave, che ha messo in ginocchio le economie occidentali. Con un tonfo del prodotto interno lordo (Pil) addirittura superiore a quello misurato dopo la prima guerra mondiale.
Ne spiega cause e conseguenze Luciano Gallino, pezzo da novanta della sociologia italiana, nel suo ultimo libro “Il colpo di stato di banche e governi” (2013).
Già il titolo mette i brividi, così come possono spaventare le oltre 330 pagine.
Eppure è una lettura da consigliare, anche se non so dire quanto la tesi sia condivisa.
Certo non c’è da aspettarsi applausi da parte dei discepoli di Milton Friedman e della scuola di Chicago.
Andando all’osso, Gallino dice che la crisi non è un momento passeggero, per quanto grave, ma una malattia che sta nel sistema capitalistico. È come un herpes che si ha dentro e di cui ci si accorge solo quanto scoppia su un labbro.
Si potrebbe dire marxianamente: la stagnazione genera la crisi, oppure keynesianamente: è la crisi che genera stagnazione, ma comunque si finisce sempre lì.
Il capitalismo sembra basarsi sul paradosso di Böckenförde, nel senso che poggia su presupposti che non è in grado di riprodurre.
Terminata una prima fase euforicamente espansiva, i decenni immediatamente postbellici, la produzione tende alla saturazione. Il sistema nel suo complesso matura un’eccedenza di capacità produttiva e non può sfogare questa potenzialità in nuove lavatrici, macchine o altro, perché non ce n’è più bisogno se non in misura più limitata.
Peraltro il tempo contemporaneo sta rendendo evidente il modello di uno sviluppo non più sostenibile.
Perciò servono complessivamente meno lavoratori, anche perché nel frattempo ci sono le macchine che li sostituiscono. Il problema è che in questo modo in giro c’è meno gente che può comprare e così il sistema tende all’avvitamento se lasciato a se stesso, checché ne dicano i liberisti duri e puri convinti del meccanismo autoregolante del mercato.
È la stagnazione che, quindi, è problema strutturale.
Proprio per ovviare a questo punto interrogativo, di là e di qua dell’Atlantico – prosegue Gallino – è stata messa a punto una duplice risposta.
Per fare in modo che la domanda del mercato continuasse a tirare, è stata data possibilità alle banche di creare denaro dal nulla e in quantità completamente sganciata dalle cose e dal capitale. Così facendo lo Stato, gli Stati, hanno rinunciato ad una delle proprie prerogative e cioè di stabilire la quantità di moneta circolante.
Si parla di quantità stratosferiche di denaro dal nulla, a partire dagli anni ’80. Montagne di trilioni di dollari. Se si pensa che un bilione sono mille miliardi e che un trilione sono mille bilioni, viene il mal di testa solo a pensarci.
Eppure è quello che è accaduto, per esempio, con la famosa bolla immobiliare. Sono stati concessi mutui ipotecari a cani e porci per comprare casa (con l’immobile stesso a garanzia appunto). In caso di insolvenza sono stati fatti mutui su mutui, basati sui valori nel frattempo sempre al rialzo delle case. Alla fine, quando è stato chiaro che qualsiasi appartamento non poteva valere come il castello di Windsor, la bolla è scoppiata e tutto è crollato. Il problema è che su quei mutui, cioè sul niente, è stata creata moneta, altrettanto vuota, che è stata sparata come un virus nei mercati finanziari e cioè comprata e venduta chissà quante volte oppure messa in cassaforte pensando di accumulare un tesoro.
Nel frattempo c’è stato un colossale trasferimento di redditi e ricchezza dal basso verso l’alto della scala sociale. Anche qui si parla di trilioni di dollari a livello planetario. Il che vuol dire che una minoranza di qualche decina di migliaia di persone in tutto, ha molto di più di quello che chiunque possa anche lontanamente immaginare e che la maggioranza della popolazione si deve dividere il resto.
Il problema è che anche un ricco sfondato ha bisogno di un solo cuscino per dormire e più di tanti non ne riesce a consumare, mentre sono costretti a fare senza, o quasi, tutti quelli ridotti a stringere la cinghia.
Sono però questi ultimi a fare numero e ad incidere su vendite e fatturati, cioè sulla tanto decantata crescita, non l’élite.
Quindi, da una parte il respiro velenoso di un’enorme bolla di debito e di denaro creato dal nulla, tuttora a quanto pare minacciosa sui destini del mondo, e dall’altra una pari dinamica suicida che produce e riproduce stagnazione. Peraltro, logica conseguenza di un capitalismo lasciato a briglia sciolta nel nome della libertà e dal verbo imperante della deregulation e della liberalizzazione senza limiti e con la complicità di legislazioni nel frattempo adottate – scrive Gallino – da Usa, stati europei e Ue.
Se quest’analisi regge, le politiche di austerità messe in atto da Stati e governi non farebbero che aumentare la spirale recessiva e favorire l’avvitamento di una crisi basata sull’insoluto problema della stagnazione sistemica.
E sullo sfondo ci sarebbe un vero e proprio attacco alla democrazia, che è poi la seconda parte del titolo del libro.

Nei giorni scorsi c’è stato in città un dibattito sulla riforma del mercato del lavoro cui hanno partecipato l’ex sindaco di Ferrara, ora tornato in Cgil, Gaetano Sateriale e l’assessore comunale Luigi Marattin.
A confronto la proposta del sindacato guidato da Susanna Camusso sul lavoro e il jobs act avanzato da Matteo Renzi.
In particolare, l’assessore dice che è il momento di superare steccati ideologici secondo i quali si è di sinistra se si guarda alla domanda e di destra se ci si concentra sull’offerta di lavoro.
Tenendo presente che se non c’è crescita il lavoro non si può inventare, secondo Marattin parecchio si può comunque fare sul fronte dell’offerta: contratto unico a tutele crescenti (sul modello Boeri-Garibaldi), rivedere il sistema scolastico e della formazione professionale, riforma della pubblica amministrazione a partire dall’eliminazione del dirigente di ruolo.
Del resto, dice, la storia dimostra che i cambiamenti sono stati fatti dal lato dell’offerta e non tanto della domanda.
E però se Gallino ha una qualche ragione, sempre al di là della gabbia destra-sinistra, anche il versante della domanda pare avere una responsabilità mica da poco e con ricadute sociali al limite del criminale. A tal punto da vanificare ogni pur lodevole tentativo di mea culpa dell’offerta se, almeno contemporaneamente, non si rimuovono le cause suicide e strutturali della stagnazione.
Il problema è chi può farlo oggi.

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Mare, valli, parco e città d’arte. Vitali: “Puntiamo sull’industria del turismo”

Nessuna ricetta né formule magiche ma un ingrediente unico, l’impegno. Su tutti i fronti. E’ la scommessa di Franco Vitali, presidente di Ascom Comacchio, ma soprattutto imprenditore turistico in cerca del giusto equilibrio per mantenere stabile l’azienda di famiglia e dare nuove prospettive di sviluppo a Comacchio e al suo litorale, ‘dove l’estate – dice – deve durare tutto l’anno e permetterci di crescere’. Una fiera dopo l’altra, l’ultima a Stoccarda, dove è stato presentato il brand Comacchio, Vitali legge, analizza, propone. Per lavoro e passione. Nella convinzione che la buona geografia economica debba allentare i limiti di quella amministrativa in nome del bene comune. E oggi, secondo la sua convinzione, l’interesse di Comacchio sta a nord più che a sud, dove la provincia di Ravenna vanta gli stessi problemi dei nostri lidi fatta eccezione per Milano Marittima e Cervia. ‘Siamo un’area strategica, di collegamento tra Veneto e Romagna, con caratteristiche ambientali uniche. Penso alle valli al Parco del Delta del Po, alle città d’arte vicino alle quali ci troviamo. A poche centinaia di chilometri ci sono cinque aeroporti raggiungibili in auto, nonostante tutto non riusciamo a comunicare al mercato il nostro valore ’, spiega. ‘Non è importante il nome della regione d’appartenenza, all’estero nemmeno lo conoscono – insiste – I turisti non vanno in Emilia-Romagna, ma a Venezia, a Riccione. E’ la località a essere attrattiva, a fare la differenza’. Nel marketing turistico sottolineare i confini regionali, sostiene, è un limite squisitamente italiano. ‘E’ difficile spiegare come mai il Parco del Delta del Po sia diviso in due, per il potenziale turista risulta incomprensibile – prosegue – gli interessa invece la reputazione di un luogo’. Il biglietto da visita di Comacchio è piuttosto stropicciato, pochi servizi, un parco appartamenti in larga parte da ristrutturare e un mare divenuto fonte di grattacapi per l’economia. ‘Il divieto di balneazione in piena stagione estiva non ha giovato, la cosa più preoccupante è che a tutt’oggi non c’è chiarezza sulle ragione dell’inquinamento – prosegue – Serve un’operazione seria, puntuale e trasparente per prevenire fatti devastanti per l’ambiente e l’industria turistica’. L’emergenza è cessata. Fino alla prossima volta. Restano le preoccupazioni di ritrovarsi punto e capo. E i problemi di sempre, accentuati dalla crisi. ‘I campeggi sono una realtà solida, tengono e investono. Non si può dire altrettanto del mercato degli affitti, molte case sono da riqualificare per rispondere alle esigenze del mercato – spiega – chi vorrebbe intervenire desiste, si scontra con una strategia dei crediti inadeguata. Servono finanziamenti a 20 – 30 anni, ma le banche difficilmente superano i 10’. Soluzioni? Scuote la testa. ‘La politica dovrebbe accorgersi che il turismo è un’industria a cui garantire i mutui per investire in competitività, invece si taglia persino sulla promozione come è successo in Regione – prosegue – Provincia e istituzioni locali sembrano aver recepito il disagio nel quale ci troviamo, tanto da aver lanciato alcuni segnali positivi. Un esempio? Penso al bando in via di pubblicazione, per realizzare sia eventi e sia iniziative d’ intrattenimento’. Sono due facce della stessa medaglia per animare il più a lungo possibile la vita rivierasca. Una realtà che ha perso da poco il Pronto Soccorso del San Camillo. ‘Chiuderlo ha significato non tener conto delle esigenze di una città turistica, che oramai superano i tre mesi estivi – conclude – Mi preme sottolineare che contrariamente a quanto scritto e detto eravamo presenti alla manifestazione, purtroppo il problema va ben oltre all’esserci stati o meno. E richiede a mio avviso una maggior informazione’.

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Cittadino o suddito?

Nel 1549 fu pubblicato un saggio in cui si studiava la disponibilità degli esseri umani a essere servi: Etienne De La Boétie “Discorso sulla servitù volontaria” (Chiarelettere). E’ utile la lettura di un testo del cinquecento per pensare il presente di una società liberaldemocratica? La mia risposta è sì. Del resto un classico è tale proprio perché propone riflessioni che travalicano le epoche e avanza domande che non hanno ancora ricevuto risposte. Certamente oggi, nella società di massa a suffragio universale e retta da un regime democratico tutto si è fatto più complicato. In estrema sintesi, si può delineare una specie di ‘antropologia della libertà’? Proviamo a configurarla mettendo in evidenza i tipi umani ‘negativi’ che alimentano la crescita della ‘servitù volontaria’.
1- Il conformista. E’ colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma che cosa gli altri si aspettano da lui. E’ “l’uomo-massa” che annulla la propria individualità nel ‘far parte’ di qualcosa (movimento, partito….). La sua ossessione è sentirsi a posto, accettato.
2- L’opportunista. E’ il carrierista che non ha scrupoli nel prodigarsi a favore del potente del momento per ingraziarselo ai fini della propria promozione (professionale, politica…). Piaggeria e fedeltà sono i suoi distintivi.
3- L’uomo gretto. E’ quello descritto da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro (“Democrazia in America”, 1835: altro classico….): “Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri….Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica di assicurare il godimento dei loro piccoli desideri. Ama che i cittadini siano contenti, purchè non pensino che a stare contenti.” Un tale potere (che Tocqueville definiva ‘dispotismo democratico’) richiede non dei cittadini adulti, ma degli eterni bambini.
4- L’uomo che ha paura della libertà. Al di là della facile retorica da comizio, l’esercizio della libertà fa paura. Non a caso I. Kant, nel settecento, invitava gli uomini ad uscire dallo stato di minorità e ad avere il coraggio di essere liberi.

Conformismo, opportunismo, grettezza, paura: ecco gli ingredienti della ‘servitù volontaria’. Al contrario. Autonomia, coraggio, solidarietà, compongono la cifra dell’ “homo democraticus” adulto e maturo: insomma il cittadino, non il suddito.

Ascolta il commento musicale: Giorgio Gaber, Il conformista

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In biblioteca Ariostea “l’informazione verticale” di ferraraitalia

Un faccia a faccia con la città e un’opportunità di incontro e conoscenza con i lettori. Giovedì 30 gennaio alle 17 ferraraitalia sarà ospite della biblioteca Ariostea per una presentazione pubblica. L’occasione consentirà di illustrare quel modello di “informazione verticale” al quale il nostro quotidiano online si ispira. Attraverso opinioni, inchieste, interviste e il racconto di vicende emblematiche cerchiamo infatti l’approfondimento dei fatti, per proporre chiavi di comprensione e strumenti di interpretazione utili a decifrare la realtà in cui viviamo.

Ci definiamo osservatorio giornalistico glocal poiché la prospettiva in cui ci collochiamo considera l’inscindibile interazione e l’assoluta complementarietà fra micro e macrocosmo. E siamo indipendenti nella misura in cui, pur marcando un preciso punto di vista, abbiamo come riferimento la nostra coscienza e nessun “padrone” cui dover rendere conto. L’intento di ferraraitalia è quello di proporre stimoli e animare un confronto libero e civile.

In biblioteca, giovedì 30, ci saranno collaboratori e opinionisti. Insieme cercheremo di rendere piacevole l’incontro miscelando parole, musica e immagini.

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L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.
Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.
L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.
Cosa c’è di così tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?
Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.
Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama Lilliput.
Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.
Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.
Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:
“Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.
Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.
E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.
Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.
Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (Ue 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada dei progetti europei, in particolare del progetto Tels (Towards a European Learning Society)
Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?
E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city”?
Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?
James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.
Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento, che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.
La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

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Un distretto rurale per rilanciare il “made in Ferrara”

“Ripartire dal territorio per un nuovo modello di sviluppo” è la sintesi di una lettura apparsa su l’Aratro, il mensile della Coldiretti di Ferrara.
Si parte dal made in Italy, dalla qualità delle produzioni, dal turismo con un nostro brand, poi le direttrici dello sviluppo sostenibile e le reti delle piccole imprese, per concludere che “da diversi anni nella nostra provincia – secondo Sergio Gulinelli – non si riesce ad essere partecipi dei grandi momenti che stanno ridisegnando il sistema… per tentare di valorizzare il made in Ferrara”.
Provo a soffermarmi su questi brevi appunti anche pensando a quanto è stato fatto nel grossetano, nella maremma toscana, nelle politiche agricole di quel territorio con l’elaborazione, nel lontano 2003 del professor Pacciani, della costruzione di un distretto rurale.
Oggi quella felice intuizione ed esperienza ha dato ampi e proficui risultati, basta andare sul posto, muovere alcuni passi e percorrere qualche itinerario, anche, se si vuole, navigando sul portale web.
Importanti, quindi, sono gli elementi costitutivi di un distretto: un quadro coerente di assi strategici, il sistema territoriale di qualità, il substrato della struttura sociale ed economica e, soprattutto, creazione di relazioni stabili con l’ispessimento dei rapporti per fare sistema.
Si parte con un “Tavolo verde” con tutti gli attori diretti e alcuni stakeholder, poi una cabina di regia, una governance, il dare metodo al progetto, l’attuazione di un patto territoriale generalista e con specializzazioni in agricoltura, pesca e turismo, le varie versioni dei programmi leader, i contratti di programma per l’agro-alimentare e i piani locali di sviluppo rurale.
Appare allora evidente che in questo modello di sviluppo si profila un nuovo soggetto protagonista, il sistema territoriale, che ha come collante una radicata identità culturale e una memoria storica assai viva.
Il Distretto, quindi, riannoda i fili dell’economia esistente per inserirli in modo sistemico in un modello di sviluppo in grado di potenziare l’economia di tutto il territorio: in questo senso si qualifica come modello di sviluppo endogeno, intersettoriale, sostenibile e integrato. Ma soprattutto, in quanto distretto, si caratterizza per la sua visione strategica che mette a sistema tutte le articolazioni del tessuto economico, civile, culturale.
All’interno del distretto, grazie all’uso di strumenti di concertazione, programmazione bottom up e alla promozione delle relazioni pubblico-privato, si riesce a creare una relazione sistemica tra progetti privati e pubblici e tra risorse private e pubbliche, e questo è l’avvio di un processo virtuoso capace di generare risorse aggiuntive per le imprese e per il sistema territoriale locale nel suo complesso.

Ho, volutamente, richiamato questo punto di vista – espresso in un convegno promosso da Accademia dei Georgofili e Studi Sviluppo Rurale – perché ben si attaglia anche quello spazio che la Coldiretti indica, nel made in Ferrara, e che trova difficoltà di apprezzamento negli interlocutori, nella politica e nelle istituzioni.

Che più di qualcuno pensi, ancora, che sia un sogno, una utopia irraggiungibile forse è nelle cose ferraresi, in una conservazione impossibile da schiodare, in una statica condizione sociale senza fine, anche se ci sono alcuni segni che fanno ben sperare.
Proviamo a pensare: le pere, le mele di pianura, le carote, l’aglio, i cereali, le produzioni ittiche di valle e di sacca, le singolarità dei nostri terreni, l’ambiente pedo-climatico.
E poi: l’agro-alimentare delle cooperative e dei grandi gruppi privati, i mercati contadini e le fattorie didattiche, la strada dei vini e dei sapori, la cultura e la civiltà contadina,
Ancora: i turismi della costa e il parco del delta, gli itinerari dei beni artistici e culturali del rinascimento, la destra Po, i tratti del Volano e l’idrovia, i piccoli milieu culturali e le tradizioni locali, i life natura e gli ambienti dell’agenda ventuno.
Un distretto quindi si può fare, ci sono i presupposti, le condizioni e le risorse, anche europee.
Basta uno sforzo ed una volontà.

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Sateriale e Marattin, ricette anticrisi per rilanciare lavoro e occupazione [audio integrale]

“Siete venuti per ascoltarci o per veder litigare me e Marattin?” Con questa battuta d’esordio, Gaetano Sateriale ha strappato il primo sorriso al numeroso pubblico presente al centro sociale di corso Isonzo per sentire l’ex sindaco e l’attuale assessore comunale al bilancio discutere del Piano del lavoro messo a punto dalla Cgil, della quale Sateriale è coordinatore nazionale di segreteria. Qualcuno era forse anche animato dalla speranza che i toni del confronto si accendessero. Invece gli interventi sono risultati stimolanti, ma pacati.

Sateriale è partito dalla constatazione che “c’è poco lavoro e quel poco è lavoro povero”. All’emergenza, ha spiegato, si fa fronte “non con sgravi che non creano occupazione perché il mercato è fermo, ma creando nuovi posti di lavoro di qualità”. Questo significa, per l’ex sindaco, valorizzare le tecnologie e i saperi specialistici e operare in un’ottica di innovazione del Paese, anche attuando azioni di prevenzione rispetto, per esempio, alle sempre incombenti disastrose conseguenze del dissesto idro-geologico o al rischio sismico. Anziché spendere “a posteriori”, ha detto in sostanza, per rimediare ai disastri, spendiamo prima per evitarli. Otterremo un saldo a somma zero, che garantirà però i famosi nuovi posti di lavoro e maggiore sicurezza alla comunità.

Gli elementi di dissenso, però non sono mancati. Luigi Marattin, intervenendo dopo Sateriale, ha infatti voluto marcare due punti di contrasto rispetto alle premesse del ragionamento svolto dall’interlocutore, affermando che il problema nodale non è la domanda, ma la qualità dell’offerta e affrettandosi a sostenere che riconoscerlo non significa non essere di sinistra.
La responsabilità è stata attribuita alla totale inadeguatezza del sistema di formazione professionale “che sarebbe da abbattere, cospargere di sale e rifondare completamente”.

L’altro parziale punto di discordia è stato riscontrato nella valutazione relativa al costo del lavoro. Mentre Sateriale aveva segnalato come i lavoratori italiani, a pari livello e mansioni, siano mediamente meno pagati dei loro colleghi europei, Marattin ha riconosciuto la disparità, evidenziando però come il costo sopportato dalle imprese sia comunque più elevato: effetto, ha chiarito, o di un eccessivo peso degli oneri contributivi oppure di un carico fiscale abnorme: storture da correggere.

A beneficio dei nostri lettori riportiamo qua l’audio integrale degli interventi di Sateriale e Marattin, preceduti dalla presentazione di Roberto Cassoli, coordinatore del tavolo di confronto promosso dall’Istituto Gramsci di Ferrara in collaborazione con Cgil Ferrara.

Ascolta l’introduzione di Roberto Cassoli e l’intervento di Gaetano Sateriale

Ascolta l’intervento di Luigi Marattin

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A Ferrara un ponte tra Italia e Cina per iniziare insieme l’anno lunare

Cina… una parola che evoca l’idea di Oriente e mistero, a cui pensiamo con un misto di diffidenza e curiosità. Eppure gli abitanti di quel mondo – lontano sia geograficamente sia culturalmente – sono diventati una presenza sempre più diffusa. Lineamenti asiatici che incrociamo dietro molte vetrine di negozi, banchi del mercato e tavoli di ristorante. In città ogni giorno vediamo persone cinesi, ma di loro non sappiamo quasi nulla, difficilmente ci chiacchieriamo, a mala pena condividiamo parole che non siano buongiorno, buonasera, quanto costa.Italia-Cina
Una piccola insegna ora però si è accesa, come una torcia che può fare un po’ di luce su questa realtà. Non è l’insegna di un negozio e tanto meno quella di un ristorante. Sopra c’è scritto “Centro interculturale italo-cinese di Ferrara”. Un luogo che trovi online: nel sito che ha questo nome e sull’omonimo profilo facebook. Ma è anche una sede fisica, al numero civico 90 di via Goretti. Suoni il campanello e una voce maschile dall’accento nostrano ti invita a salire. In cima alle scale la voce ha un volto sorridente con gli occhi a mandorla sotto una frangia liscia di capelli corvini: è Cai Jin, 24 anni, presidente dell’associazione italo-ferrarese, nata nel 2012 come affiliata Arci.
Cai incarna la riuscita dell’incontro tra la Cina e l’Italia. A Ferrara arriva ancora bambino per ricongiungersi con la mamma e il papà emigrati da una zona rurale dello Zejiang. Qui Cai frequenta scuole elementari, medie e liceo; ora, è all’ultimo anno di Giurisprudenza all’università di Bologna con una specializzazione in diritto dei Paesi asiatici. Benché molto estroverso e curioso, Cai ricorda la difficoltà di trovarsi all’improvviso in un posto che non conosci, dove si parla una lingua incomprensibile e dove crollano tutti i tuoi punti di riferimento. Il suo carattere lo aiuta a superare gli ostacoli, una maestra appassionata come Annalisa Stabellini lo accoglie all’Alda Costa accompagnandolo nella conoscenza di lingua e cultura italiana, ma anche nella scoperta dei luoghi fisici e artistici che ci circondano. L’entusiasmo e la vitalità di Cai fanno il resto. Appena può, si tuffa nelle attività organizzate intorno a lui, fa il volontario per il Festivaletteratura di Mantova così come per la cooperativa Camelot di Ferrara che si occupa di mediazione culturale per gli stranieri nelle scuole e in ospedale. Studia, si confronta, gira. Abbastanza naturale quindi, per lui, pensare di creare un’associazione che sia un ponte tra la comunità cinese e quella ferrarese, punto di riferimento per partecipare e condividere. Le tre stanze del centro interculturale sono adibite a ufficio e redazione, aula scolastica dove si tengono lezioni di cinese e saletta con proiettore e seggiole per iniziative come la rassegna CinaForum, organizzata l’anno scorso. “I corsi di lingua – racconta Cai – sono iniziati all’interno del liceo Roiti, dove ho studiato e dove per primi ci hanno dato la possibilità di usare le aule”. Gli iscritti e l’interesse aumentano e così il Centro italo-cinese di Ferrara diventa anche un luogo fisico, aperto due pomeriggi alla settimana (mercoledì e venerdì) con Cai che ha anche la carica di presidente regionale di AssoCina per l’Emilia-Romagna.Italia-Cina
L’associazione unisce utile e dilettevole: fornisce servizi di traduzione, sbroglio di burocrazia varia e doposcuola, ma organizza anche gite nelle Chinatown italiane, proiezioni cinematografiche, conferenze, corsi di lingua, cucina, cultura, arte, tradizione orientale. “Il nostro obiettivo – dice – è quello di favorire l’incontro. Qui un cinese può trovare un connazionale che lo introduca a tematiche ferraresi, e un ferrarese può avvicinarsi a temi legati alla Cina”. Una cinquantina gli associati e un direttivo formato da cinque cinesi e quattro italiani. Jin Cai è il presidente. Wu Qifa, maestro di lingua e cultura cinese, è vice-presidente insieme con Yao Yi, studente di Ingegneria che viene dal Gansu. Lu Xian è una studentessa di Architettura cresciuta ad Hong Kong, che nel centro si occupa di rapporti con l’estero; la studentessa di Economia Jiang Yan viene dalla costa est ed è la responsabile degli Affari interni. Ferraresi sono il responsabile della comunicazione, Stefano Droghetti, che è un informatico; il segretario Vincenzo Spinelli, studente di giurisprudenza e poliglotta; responsabile per lo sviluppo Riccardo Pacchioni, esperto di consulenza strategica per le imprese che ha già fatto convenzioni con attività commerciali, come ristoranti e negozi, che riconoscono sconti e facilitazioni ai soci.Italia-Cina-puzzle
Tra pochi giorni una delle iniziative più importanti per tutta la comunità: il 31 gennaio si celebra il Capodanno del calendario lunare cinese. Una grande festa sarà organizzata in un ristorante della provincia con musica e piatti che Cai assicura essere davvero quelli tipici, diversi dai soliti menù. Un’altra occasione di incontro per tutti, con un desiderio che ogni ferrarese e cinese potrà affidare a una lanterna volante. Per sognare insieme l’anno che verrà.

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La capitale dei lidi senza pronto soccorso, Comacchio si ribella

Non c’è tregua per la sanità del Delta. Il braccio di ferro tra istituzioni e popolazione prosegue tra partecipazione civile e denunce. Sono cinque gli esposti di Consulta Popolare del San Camillo, Comune e Uil Sanità a Prefettura, Procura e Regione per fare luce sul metodo e la regolarità del blitz con cui l’Ausl ha chiuso in un batter d’occhio il punto di primo soccorso dell’ospedale San Camillo di Comacchio.
Sabato il sindaco 5stelle di Comacchio, Marco Fabbri ha rivelato di essere stato minacciato di denuncia dal direttore sanitario Paolo Saltari per aver offuscato l’immagine dell’azienda. E’ guerra con tanto di botti. Del resto era già tutto previsto, si potrebbe canticchiare infischiandosene della bordata con cui è stato affondato il pronto soccorso comacchiese. Impossibile, a meno di non soffrire d’indifferenza perniciosa.
La prova sta nella ritrovata partecipazione civile delle tante persone e associazioni – fatta eccezione per quelle di categoria forse intenzionate ad aspettare la bella stagione per esprimere la disapprovazione di un’assenza di servizio utile al turismo – raccolte in corteo sabato pomeriggio. Hanno sfilato dall’ospedale comacchiese fino a via Folegatti, dove si è tenuto un lungo comizio con gli interventi di Giovanni Gelli e Manrico Mezzogori della battagliera Consulta del San Camillo, Mirella Boschetti della Fials e Nicola Zagatti del Comitato Salvaguardia del Delta. Un biscione umano, civile e determinato, formato da persone calate a Comacchio da diversi paesi della provincia di Ferrara per unirsi alla popolazione lagunare e gridare il proprio ‘no’ al ‘sacco’ della sanità deltizia. Perché di questo si tratta, hanno insistito gli organizzatori della protesta e il sindaco 5Stelle, in testa al corteo insieme ai suoi assessori, ai consiglieri d’opposizione della giunta e ad alcuni sindacalisti.

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Cortei di protesta a Comacchio, rimasta senza pronto soccorso

Il primo cittadino, l’unico della provincia, ha rivendicato l’importanza di una battaglia senza campanili né bandiera, per una sanità di qualità, organizzata secondo le esigenze delle popolazioni e rispettosa di chi lavora nelle strutture colpite dai tagli della dirigenza dell’azienda sanitaria, braccio esecutivo di un progetto politico deciso in Regione e sposato dalla nostra Provincia.
Tutto per favorire il Polo di Cona, denunciano dalla Consulta del San Camillo, ‘un ospedale sovradimensionato, che per assorbire le proprie spese dovrebbe servire dalle 600mila al milione di unità’. Sono in molti a pensarla nello stesso modo, contribuenti e non, ma tutti pazienti potenziali degli ospedali in declino. Tutti sfiancati dallo spettacolo di un invocato risparmio di denaro pubblico giocato sulla loro pelle piuttosto che su scelte razionali di riorganizzazione sanitaria a misura d’uomo. Lo ha ricordato il sindaco Fabbri, specificando che ‘se in Romagna hanno un’unica amministrazione dell’azienda sanitaria, noi ne abbiamo due’.
Tutto sommato usare le forbici per tagliare i duplicati è una soluzione migliore rispetto alla cancellazione di specialistiche e allo svuotamento di reparti. Come successo a Valle Oppio, dove nonostante le promesse, un pediatra solitario manda avanti la baracca, emodinamica è stata smantellata e psichiatria è in via di smobilitazione. Come dargli torto? In fondo l’economia del buon senso, molto simile a quella di ogni famiglia, è la più funzionale e funzionante. E’ ispirata dalla logica. Flessibile e rigida a seconda delle necessità. Il teorema è inattaccabile con buona pace di strategie politiche sulle quali è diventato impossibile abbozzare, specie se c’è la salute di mezzo. E se ci sono documentate soluzioni dai costi sostenibili con cui rendere produttivi e integrati gli ospedali del Delta e San Camillo. Lo ha specificato ancora una volta la Consulta.
Allora perché snobbare le proposte invece di esaminarle, fosse anche per respingerle? Perché ignorare la voce di una terra, dove in estate raddoppia popolazione e dunque la richiesta di sanità? Perché utilizzare strutture convenzionate pagando compensazioni milionarie ogni anno invece di fornirle in casa propria e risparmiare davvero sui costi? Qualcosa non torna. Lo ha gridato il lungo corteo venuto a chiedere rispetto per gli abitanti dei Comuni troppo lontani da Cona per affidare la propria salute al maxiospedale. Soprattutto in caso di emergenze. In piazza per chiedere la revisione del piano sanitario e la rinegoziazione di accordi sulla sanità comacchiese firmati dal governatore Errani e finiti giù per le scale di cantina in nome della spending review. La cosa non sorprende, ma neppure rinsalda il rapporto di fiducia tra i vertici della politica emiliano-romagnola, provinciale e la popolazione. E intanto la battaglia continua. In difesa del diritto alla salute e di un ruolo attivo nella partita sulla sanità pubblica.

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Lavoro: rassegnata anche Ferrara, molti hanno smesso di cercare

È uscito un prezioso volumetto scritto dal sociologo Emilio Reyneri, in collaborazione con Federica Pintaldi, ricercatrice Istat. Il libro “10 domande su un mercato del lavoro in crisi” (il Mulino) ha il merito di rispondere con chiarezza, ma con rigore, alle domande che di frequenti ritornano quando tentiamo di ragionare sul tema del lavoro (e della mancanza di lavoro) oggi.
Emilio Reyneri, che il tema del mercato del lavoro lo studia da anni, si propone di sfatare alcuni luoghi comuni diffusi, mettendo in evidenza, tra l’altro, che i dati medi nascondono valori diversi per classi di età, genere e area geografica. Il quadro che emerge dall’analisi è quello di un Paese la cui economia da tempo ha smesso di crescere. La situazione attuale è molto negativa, ancor più di quanto sembri dai dati sul tasso di disoccupazione.
Il problema è la qualità del lavoro e il fatto che in Italia la quota di buoni lavori, tra questi quelli creati dal web, sia più bassa rispetto ad altri paesi Europei. Per questo, la competizione tra i giovani laureati per i pochi posti buoni è molto più forte e una quota rischia di trovarsi imbottigliata in un’area di occupazioni dequalificate. Questa è la differenza più rilevante rispetto a qualche anno fa, quando i percorsi di ingresso dei laureati erano caratterizzati da una trafila, pure lenta e tortuosa, che però consentiva di approdare ad un porto stabile.
Il punto grave è che la fascia dei cattivi lavori è oggi relativamente più ampia, ed è all’interno di questa fascia che si registra la maggiore turbolenza, vale a dire il maggior numero di lavori a termine di basso profilo e di brevissima durata. La fascia dei soggetti più a rischio è quella dei cinquantenni: troppo giovani per proiettarsi verso la pensione e troppo vecchi per ritrovare lavoro nel caso lo perdano per crisi aziendali.
Nessuna ricetta facile, se non un investimento di lungo periodo sulla qualità dell’istruzione, affinché aumenti la produttività del lavoro. Ma non sarebbe poco, semmai ne vedessimo l’avvio.
Rispetto a questi temi come si colloca Ferrara?
Da anni gli indicatori di occupazione e disoccupazione indicano un tessuto più fragile. I dati recenti confermano un numero di inattivi più alto, un calo delle occupazioni a tempo indeterminato e un aumento di quelle a tempo determinato, un’occupazione a bassa produttività, derivante dalla qualità del tessuto produttivo, da servizi di basso livello.
A Ferrara la percentuale di persone in cerca di impiego registra il dato di gran lunga più alto della Regione, supera l’11 contro una media regionale di poco superiore al 7%. Tra le persone in cerca di occupazione che si rivolgono ai Centri per l’Impiego il 57% ha un titolo di studio dell’obbligo o inferiore. E una quota pari a circa la metà ha più di 40 anni.
Anche a Ferrara, quindi, il punto preoccupante, in prospettiva, è la qualità dell’occupazione e, insieme a questo, l’effetto di scoraggiamento nella ricerca, che si riflette nella tendenza a non compiere azioni di ricerca attiva nella convinzione che non esistano opportunità. La crisi accentua le debolezze strutturali e per questo occorrono investimenti di lunga durata nella qualità delle risorse umane.
Ciò che sgomenta, dopo anni di enfasi sull’orientamento, è l’assenza, tra molti giovani, di una capacità di costruire un progetto realistico e razionale, di indirizzare azioni verso un obiettivo e di perseguirlo con tenacia.
Ci sono compiti per tutti. Anche per l’Università. Perché non investire, in accordo con le associazioni imprenditoriali, in Master realmente professionalizzanti per occupati e non, per migliorare la qualità delle competenze e per un utilizzo avanzato delle nuove tecnologie del web?
Il tema del lavoro è troppo serio perché sia ricondotto a facili semplificazioni. Per questo il contributo alla riflessione che deriva dalla lettura del libro di Reyneri è particolarmente utile.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma)
Laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali e alle nuove tecnologie, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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Il filo spinato della prevaricazione in un romanzo che mette a confronto due generazioni

Stare a contatto con gli adolescenti fa parte del suo lavoro, cercare di comunicare con loro anche oltre la didattica, è ciò che Patrizia Marzocchi fa nei i suoi libri. La recente pubblicazione Ricordare Mauthausen (edizioni Il mulino a vento) è un romanzo che tocca il tema della Shoah, è ambientato ai giorni nostri, ma guarda a un pezzo di storia del Novecento e intreccia argomenti di sensibilità sociale, come bullismo e razzismo, esistenziale e storica.
Patrizia Marzocchi è un professoressa di lettere delle scuole medie, vive a Bologna e di romanzi per ragazzi ne ha già scritti parecchi. Ricordare Mauthausen è la storia di Mariangela che ha appena terminato con successo il primo anno di liceo, ha una famiglia benestante, frequenta una compagnia esclusiva, ha un’amica del cuore cui è molto legata. Improvvisamente, tutto il suo mondo crolla: la fabbrica del padre fallisce e la sua famiglia, ridotta in povertà, deve trasferirsi presso i parenti che vivono in campagna. Mariangela non trova il coraggio di confidarsi con gli amici e sparisce senza lasciare tracce. La presenza del nonno, reduce del campo di concentramento di Mauthausen, la spinge alla ricerca delle radici ebraiche della sua famiglia. E’ però tutto molto difficile perché il nonno non vuole parlare del passato. Emerge inoltre l’esistenza di un rancore profondo tra la famiglia di Mariangela e quella di uno strano ragazzo del paese, che lotta, insieme alle sorelle, contro un gruppo di bulletti razzisti. Lotta contro la prevaricazione, amicizia, amore concorrono a disegnare una rete che unisce il presente al passato e delinea un nuovo futuro.

Patrizia, perchè l’argomento della Shoah in un libro per giovanissimi?
“Ho visto i ragazzi interessati a capire quel particolare momento storico e così, evitando toni didascalici, ho voluto narrarlo parlando anche di presente e di emozioni. Il fulcro è la prevaricazione, ho cercato di immedesimarmi in chi subisce, nella difficoltà a reagire a certa violenza”.
Il tema del bullismo è affrontato nelle scuole in vari modi, eppure il fenomeno è tutt’altro che debellato, quali strumenti servono per fare passi in avanti?
“Io credo servano chiavi di lettura, i ragazzi devono trovare modelli di comportamento per uscirne, sappiamo quanto l’influenza del gruppo sia forte a questa età. La giovane protagonista si pone queste domande e combatte una sua piccola battaglia. A fare procedere la vicenda anche mistero, amore, amicizia e interazione di Mariangela con altre figure della storia”.
Nel romanzo, il valore delle relazioni e del silenzio sono fondamentali per la crescita della protagonista.
“La vita di Mariangela si intreccia a quella del nonno che ha vissuto nel campo di concentramento di Mauthausen e non intende parlare del passato. Entrambi vivono una sofferenza, il silenzio è una forma di comunicazione fra i due che poi si infrange diventando contatto, dialogo, compassione, sensibilità”.
Il silenzio rimane, però, qualcosa da difendere.
“Eccome, ci sono cose che non amano la luce del sole, verrà detto a un certo punto. Credo che tutta la visibilità che i ragazzi hanno a disposizione in questa società distrugga un loro mondo più intimo e segreto che va salvaguardato. La privacy ha un valore e il rischio per i giovani è restare senza protezione”.

Patrizia Marzocchi, il prossimo 17 febbraio alla biblioteca Ariostea, incontrerà due classi delle scuole medie con cui dialogherà di due suoi precedenti romanzi Il viaggio della speranza e Il bullo, la secchia e gli altri. Il dialogo continua…

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La necessità del ricordo

Ripensare nei giorni della memoria come deve essere necessario salvare il ricordo come bene prezioso e inestimabile che potrebbe spegnersi con la scomparsa dei testimoni mi sembra il compito etico che tutti dovrebbero proporsi per non dar luogo non al “bestiale” ma all’“inumano”. Ecco allora la funzione salvifica affidata alla scrittura e alle arti come il bene prezioso non solo di testimonianza ma soprattutto di memoria imperitura: “aere perennius”, come scriveva Orazio che il carissimo amico Claudio Cazzola mi suggerisce di interpretare così: “più duratura di ogni opera umana”, ovvero, come afferma Tucidide, “un possesso per sempre”.
Leggere sotto questa prospettiva l’articolo di Carl Macke “Il buon soldato. Una storia ferrarese” apparso su questo giornale rafforza e convince che sempre di più il ricordo deve essere “un possesso per sempre”.
Mi si riaffacciano alla memoria dunque i classici a cui il ricordo si affida: da Primo Levi ad Anna Frank, da Hanna Arendt a Elie Wiesel, da Hans Jonas a quello che sento più vicino, Jean Améry di Intellettuale a Auschwitz. E la cui funzione per me dovrebbe essere – e nel mio piccolo è – quella di chi difende la cultura come bene primario contro gli attacchi disumani del pensare comune, quello che produce i deliri razzistici testimoniati dalla Padania e dai suoi sostenitori (compreso il “patto d’acciaio” siglato dai leghisti con Marine Le Pen): l’accorato appello a non dimenticare si fa sempre più urgente e necessario.
Ricordare ad esempio un titolo che sembra affievolirsi nella memoria comune: La Storia di Elsa Morante con l’elegia tragica della povera Iduzza Ramundo vittima di uno stupro da parte del giovane soldato tedesco da cui nascerà Useppe, inconsapevole eroe di una storia di stragi. Useppe inventato dalla scrittura ma così reale grazie alla verità che ogni opera d’arte porta con sé. Fratello di Anna Frank, il cui ricordo si sarebbe perso nella strage della Storia se non fosse stato salvato da quel diario a cui viene affidato il ricordo “possesso per sempre”. Fratello di Piccolo a cui Primo Levi recita i versi “fatti non foste a viver come bruti” dell’Ulisse dantesco nel momento più angoscioso e terribile della distruzione dell’umano. Perché non prevalga la memoria grigia dei Sommersi e salvati, ché alla fine, se trionfasse quella, porterebbe a rinunciare al peso del ricordo, come purtroppo è accaduto col suicidio di Primo Levi o di Jean Améry.
L’arte e la scrittura rimeditati da un saggio terribile ma denso di significato come quello esposto nella meditazione filosofica di Hans Jonas che ripensa il valore della responsabilità umana in Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Ma soprattutto perché non si ripeta il rogo dei libri della perversa idea nazista che poteva illudersi che basta un fuoco per distruggere il pensiero. I libri vanno portati dentro. Sono la fodera dello spirito, senza di loro – cartacei o e-book – non potremmo pensare e ricordare. Ricordare che se questo è un uomo mai dovrebbe essere più scritta e quindi divenuta “possesso per sempre” la più terrificante testimonianza dell’inumano: “Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza per ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno”. MAI PIU’ che vi sia qualcuno che non ha “più forza di ricordare”.

Gianni Venturi è docente universitario a riposo di Letteratura italiana, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e dell’Istituto di ricerca su Canova e il Neoclassicismo di Bassano del Grappa, ma soprattutto (è la cosa a cui tiene di più) presidente dell’Associazione Amici dei Musei e Monumenti ferraresi. Nonostante queste attività è critico letterario specialista in Dante e nella letteratura contemporanea, Bassani in primis.

Giovanelli_poeta

Franco Giovanelli, il poeta schivo che amava Sbarbaro

FRANCO GIOVANELLI
(ventennale della morte)

Riluttante a ogni forma di esibizionismo pubblico e cronicamente schivo nel fornire chiavi interpretative della sua opera, incline a occultare gli elementi di cronaca privata e collocando invece in primo piano i suoi scritti nella loro integra nudità, Franco Giovanelli (1916-1994) ha attraversato con il proprio lavoro culturale le fasi salienti di buona parte di questo secolo. Suoi testi sono apparsi, nel tempo, su “Paragone”, “Nuovi argomenti”, “Poeti d’oggi”, “Botteghe Oscure”, “Nuova Civiltà”, “Palatina”, “Emilia-Romagna”. E scrive il critico Antonio Caggiano, in un suo affettuoso ricordo, che Giovanelli «emanò il senso profondo di una didattica interdisciplinare che ebbe in lui una continua presenza come protagonista, stabilendo intorno a sé – per chi lo conosceva a fondo – una sorta di monumento della cultura».
La maggior parte delle poesie di Franco Giovanelli sono riunite in L’arrivo al Borgo, una silloge che raccoglie e riassume, insieme alle liriche, le esperienze intellettuali ed esistenziali dello scrittore. Il volume si articola in quattro sezioni, distribuite nello spazio di un centinaio di pagine. Il primo settore: “La partenza”, rievoca il silenzioso e soffocato tormento che pervade Pianissimo di Camillo Sbarbaro, poeta a cui l’autore dedica un delicato e struggente sonetto alla memoria. Nella seconda parte: “L’arrivo al borgo”, affiora il Giovanelli “civico”, che richiama alla mente il canto epico del Quasimodo di Giorno dopo giorno. Le ultime due sezioni: “Il vivere” e “La ricchezza che cresce”, perseguono alternativamente la discorsività della versificazione in prosa e il rientro nell’ordine della struttura metrica.
Libro fondamentale di Giovanelli è l’antologia La ricchezza che cresce, volumetto prefato da Giorgio Bassani e Lanfranco Caretti e illustrato dal pittore Roberto Rebecchi. Dove appaiono alcuni interessantissimi inediti, in particolare due lettere poetiche: la prima idealmente indirizzata dallo scrittore ad Attilio Bertolucci e la seconda in risposta da questi all’amico ferrarese (testo incluso dal poeta parmense in Viaggio d’inverno, del 1971). «Se poi penso ai classici italiani, – scrive Lanfranco Caretti nella plaquette – direi che Giovanelli si tiene più vicino a Foscolo che a Leopardi, più a Dante che a Petrarca. L’endecasillabo è non a caso il verso che gli è più congeniale, anche se non esclusivo; ed egli lo sa variare dall’interno con grande sapienza ritmica ricorrendo ad abili spezzature o a sagaci legami, pervenendo così ad una dizione ovunque sostenuta, la quale conferisce un tono di vibrante intensità anche al quotidiano e al famigliare, anche al dimesso, cioè realizzando sovente quel “sublime d’en bas” di cui parlava Flaubert».
Fra i molti libri da lui curati, tradotti e prefati, sono almeno da ricordare: Poesie di J. Donne (1944), Sonetti sacri e poesie profane di J. Donne (1963), Poesie di P.B. Shelley (1983), Avventure di Don Giovanni di G.G. Byron (1991) e Satire di G.G. Byron (1993). Ha inoltre pubblicato: Le stagioni (1937), Poesie (1978), L’arrivo al Borgo (1984), Govoni nella critica contemporanea (atti del convegno “Corrado Govoni e l’ambiente letterario ferrarese del primo Novecento”, Ferrara 1984, 1985), Tullio Didero: poeta e narratore (con P. Vanelli, 1988), La ricchezza che cresce (antologia con inediti, prefazione di G. Bassani e L. Caretti, illustrazioni di R. Rebecchi, 1993) e altro ancora. Preziosa è la sua nota alla cartella d’arte illustrata dal pittore Gianni Vallieri (1971).

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Il buon soldato. Una storia ferrarese

“È nell’apparentemente banale che sta il grande valore” (Giuseppe Pontiggia)

MONACO DI BAVIERA – Una storia forse banale, ma una lezione importante. Tutto cominciò da una lettera apparsa all’inizio del 1997 nella rubrica “Lettere dei lettori” nel quotidiano italiano “La Nuova Ferrara”. Un lettore rispondeva polemicamente alla lettera di un altro lettore, si discuteva della politica di Israele e del rapporto tra israeliani e palestinesi, fascismo contro antifascismo. Nulla di straordinario quindi: in Italia come nel resto d’Europa queste polemiche sono all’ordine del giorno.
In un punto della sua lettera Franco Badiali ricorda tuttavia un ‘piccolo’ episodio capitatogli 50 anni prima, quando suo padre aveva salvato, nel 1944, dei documenti della Comunità Ebraica di Ferrara dalle azioni vandaliche dei fascisti e li aveva nascosti nella Biblioteca Ariostea, della quale il padre era custode.
Questa annotazione marginale colpisce l’avvocato Paolo Ravenna, che da anni cerca di ricostruire la complessa storia della Comunità Ebraica di Ferrara. In questi anni Ravenna sta cercando di ricostruire i fatti precisi in cui avvennero le devastazioni della Sinagoga da parte dei fascisti, tra il 1943 e il 1945. Leggendo la lettera del quotidiano ritorna con la memoria alla sua storia personale mai dimenticata.
Nel 1949, tornato a casa dall’esilio in Svizzera, si era recato alla Biblioteca Ariostea per cercare alcuni libri. A pochi anni dalla fine della guerra la biblioteca non era ancora ben assortita e funzionante, tuttavia Ravenna scoprì, non senza stupore, alcuni volumi dell’epoca napoleonica, che appartenevano alla antica collezione ‘Elia Minerbi’. Questi libri avrebbero dovuto essere nell’Archivio della Comunità Ebraica, come erano arrivati qui? Per molti decenni l’avvocato ebreo Ravenna non pensò più a quell’episodio finché non lesse la lettera di Franco Badiali. Ravenna, il cui padre era stato podestà di Ferrara fino alle leggi razziali del 1938 (ma questa è un’altra importante e non banale storia), si mette in contatto subito con il Badiali. Lo prega di raccontargli dettagliatamente le circostanze in cui quei documenti ebraici furono salvati.
Badiali racconta all’avvocato la storia già descritta nella lettera, ma aggiunge un dettaglio interessante: padre e figlio non erano soli quando avevano messo in salvo i libri con loro c’era un soldato tedesco della Wehrmacht, che li aveva aiutati. Aveva portato alcuni libri dalla sede della Comunità Ebraica di via Mazzini alla vicina Biblioteca Ariostea. In un italiano stentato aveva detto al padre di Badiali che voleva proteggere i libri dai “soldati stupidi”.
Ravenna chiese se Badiali aveva ricordi precisi di questo soldato. Sì, egli ricordava alcune cose: era un uomo gentile dai capelli scuri e portava dei guanti bianchi. Insomma un soldato molto corretto mentalmente un ‘prussiano classico’, ma senza l’aspetto tipico del tedesco. Lo si incontrava spesso in biblioteca, aveva un grande amore e rispetto per i libri e si era sempre presentato dicendo gentilmente il proprio nome. L’avvocato chiese se ricordava questo nome. Doveva chiamarsi Schapf o Scharf o Scharpf, precisamente non ricordava, ma suonava più o meno così.

Gli elementi raccolti sembravano troppo generici, perché la ricerca potesse avere successo. Ravenna tuttavia non si scoraggiò, perché voleva trovare quel soldato tedesco onesto e gentile. Non era interessato ai molti che avevano aderito al fascismo e nemmeno a quelli che avevano preso parte allo sterminio, i responsabili si conoscono, sono stati giudicati o lo saranno a Monaco e a Stoccarda, come stabilito. Forse doveva rivolgere le sue ricerche ai mandanti e alle vittime degli assassini del periodo fascista invece di sprecare le sue forze per cercare un soldato tedesco, che aveva salvato alcuni documenti della comunità ebraica di Ferrara.

E con la ricerca del “buon” soldato tedesco non si relativizzava forse il comportamento segreto ed ingiusto di parti dell’esercito tedesco durante la guerra ?
Al di là dei massacri e al di là dell’individuazione dei responsabili di tali azioni rimane la storia di questo ebreo ferrarese, la cui famiglia dovette fugire nel 1943 in Svizzera, che aveva perso parenti ed amici ad Auschwitz. Nell’epitaffio della Sinagoga di via Mazzini ci sono i nomi dei 96 ebrei ferraresi che morirono nei campi di concentramento nazisti: 14 portano il cognome Ravenna. Non tutti appartenevano alla famiglia dell’avvocato Ravenna, ma questo può essere importante?

Egli vuole conoscere quel soldato che ha avuto un comportamento così diverso dagli altri nei confronti degli ebrei e della loro storia, scritta in quei libri che ha salvato. Un amico tedesco, un giornalista, gli viene in aiuto. Il giornalista comincia la ricerca negli archivi tedeschi non senza dubbi sugli esiti, le tracce sono poche, è probabile un insuccesso. In molti casi non si ottengono risposte, in altri si sconsiglia la ricerca visti i pochi elementi a disposizione. Ma si continua pazientemente, si aspetta…. Dopo due anni una notizia che insieme a molte delusioni lascia sperare. Si trovano infatti due soldati dal cognome Scharpf che rispondono alle caratteristiche richieste. Di uno non si sa se sia stato impiegato in Croazia e in Italia. La descrizione dell’altro potrebbe coincidere con il soldato cercato. Il suo nome è Paul Scharpf, nato il 13 giugno 1914 a Stoccarda. E’ stato attivo in un reggimento che ha operato nel ’44 nell’Italia del nord nei pressi del Po. Questi dati incuriosiscono. Purtroppo è morto nel ’95 a Stoccarda, con lui quindi non è più possibile parlare, ma forse si può farlo con i famigliari. Si devono cercare. Si prendono contatti con loro e ci si conosce non senza un certo timore.

Si mettono a confronto i dati posseduti, i ricordi dei testimoni ferraresi, sembra che i familiari non sappiano molto di quel periodo in Italia, ma molti dettagli combaciano. Perché ci si ricorda così bene del male e si dimentica il bene così in fretta? Nella primavera e nell’estate 1944 Paul Scharpf era effettivamente stato nel nord Italia. Dove precisamente non si era in grado di ricostruire in base ai ricordi dei famigliari. La moglie però si ricorda molto bene delle cartoline che lui inviava da una città “vicina a Bologna”. Le cartoline non ci sono più. Si mostrano documenti della vita di Paul Scharpf che permettono di ricomporre il mosaico per l’identificazione di questo “buon” soldato. Scharpf non ha mai lasciato, a parte il periodo della guerra ed in occasione di alcune vacanze, la sua città natale Stoccarda. Là è nato e là è morto. Suo padre era un maestro-pittore benestante. Dalla sua fanciullezza e giovinezza non emergono fatti particolari. E’ stato un uomo onesto e riservato. La moglie ricorda che il marito quand’era soldato era solito portare guanti bianchi. Anche dopo la guerra ha frequentato con continuità la Biblioteca Comunale di Stoccarda, ha sempre letto molto e il figlio aggiunge che il padre gli ha trasmesso questo suo amore per i libri. Il suo ricordo è simile a quello di Franco Badiali, quel suo toccare il dorso dei libri quasi li accarezzasse. Il padre diceva anche qualche parola in italiano, ma al figlio sembra improbabile che il padre conoscesse il contenuto dei libri che aveva salvato. Sebbene soldato aveva odiato la guerra. I nazisti non li sopportava. Ma poi era stato richiamato e aveva fatto il suo dovere. Dopo, a differenza di molti amici e conoscenti, non aveva mai parlato delle sue esperienze in guerra: “Non voleva né sapere né sentire più nulla della guerra”. Così non aveva raccontato a nessuno, nemmeno ai suoi famigliari, di quel periodo in Italia. E nessuno gli aveva chiesto nulla. Nell’autunno del ’44 era nato suo figlio. Di quel periodo non aveva più parlato, solo questa ultima data era per lui significativa e del resto non aveva più detto nulla.

Dal dopoguerra fino alla pensione aveva lavorato come ingegnere alla Bosch, cosa abbastanza normale a Stoccarda. Durante questa ricerca ci si imbatte apparentemente solo in banalità e normalità, materia per una storia eroica non se ne trova. Nelle foto mostrate all’avvocato Ravenna si vede un uomo in divisa militare, ma non imponente. In chi lo guarda da l’idea di un uomo ritroso , semplice, in un certo qual modo cortese, un uomo da conoscere e con il quale parlare per quei tratti del carattere ricordati dal figlio e da Badiali, che avevano commosso l’avvocato ferrarese… Non c’era niente di straordinario in quest’uomo, colpito anche negli ultimi anni della sua vita dal morbo di Alzheimer, o forse qualcosa di straordinario c’era, come ha scritto Hannah Arendt nel suo saggio ” Eichmann a Gerusalemme”: “Oggi sarebbe tutto diverso in Germania, in Europa, forse in tutti i paesi del mondo, se ci fossero più storie come questa da raccontare”. Storie come quella del soldato tedesco Paul Scharpf, che ha mostrato rispetto per i libri che non gli appartenevano, ma che potevano rappresentare per altri un valore inestimabile. In un momento storico cosi drammatico e importantissimo ha dimostrato con un solo gesto la sua umanità e la sua coscienza storica.

Franco Badiali fu sorpreso da questo racconto, soprattutto dal fatto che Scharpf non si fosse reso conto di aver fatto qualcosa di straordinario e dopo l’incontro con il giornalista e l’avvocato se ne tornò al suo lavoro abituale di portiere di notte di un albergo ferrarese. Anche questo rientra nella norma. E una storia come questa, che parla di cose straordinarie, può in fondo apparire banale.

Ma certamente molte cose sarebbero andate diversamente in Germania e in Europa, se tra il 1933 e il 1945 ci fossero state un po’ di più di queste storie normali.

(Traduzione di Claudia Tumaini)

Scuola, nn ci sn tt i sold

Nel Consiglio dei Ministri di ieri si doveva fare chiarezza sulla paradossale vicenda degli scatti di anzianità che ha coinvolto il personale della scuola.
Sto parlando del caso dei pochi spiccioli finalmente assegnati con anni di ritardo solo a una parte di persone, soldi sottratti però dal fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa, successivamente trattenuti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi provvisoriamente restituiti in busta paga (domani… chissàchilosa, ma oggi per l’opinione pubblica il problema è risolto grazie all’intervento del segretario diffeRENZIato).
Il comunicato stampa che dovrebbe spiegarci nel dettaglio la decisione del Governo (cinguettata qualche giorno fa con gran entusiasmo sia dal Presidente del Consiglio che dai Ministri Carrozza e Saccomanni) non assomiglia per niente ad un canto di usignolo.
Al contrario è un esempio di politichese contorto che anche Raymond Queneau avrebbe definito: “Esercizio di CaricaScaricaBarile”.
Ecco il comunicato stampa del Ministero copiato dal sito del Governo:
“Il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Presidente, Enrico Letta, e dei ministri dell’Istruzione università e ricerca, Maria Chiara Carrozza, dell’Economia e Finanze, Fabrizio Saccomanni, e della Pubblica amministrazione e Semplificazione, Gianpiero D’Alia, un decreto legge in materia di retribuzioni per il personale della Scuola che demanda ad un’apposita Sessione negoziale avviata dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il riconoscimento dell’anno 2012 ai fini della progressione stipendiale del personale della Scuola (docente, educativo ed ATA). Nelle more della conclusione della sessione al personale interessato verrà mantenuto il trattamento economico corrisposto nell’anno 2013. La procedura negoziale per il recupero dei mancati scatti è stata già utilizzata per gli anni precedenti al 2012 e viene finanziata con risparmi e risorse rinvenienti dal settore scolastico senza alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato. Il decreto prevede altresì, come già annunciato, che non venga comunque effettuata alcuna azione di recupero delle somme attribuite al personale della Scuola per progressioni stipendiali nell’anno 2013. Viene inoltre prevista, per l’anno 2014, la non applicazione al personale della Scuola, con riferimento alle progressioni stipendiali correlate all’anzianità di servizio, del limite ai trattamenti economici individuali introdotto dall’art. 9, comma 1, del decreto legge n. 78 del 2010, nella considerazione che, a legislazione vigente, la predetta annualità per il comparto scuola è già utile ai fini delle progressioni stipendiali.”
Dopo anni di abitudine a letture così contorte mi sembra di aver capito il contenuto del comunicato.
Ho sempre pensato che quelli bravi potrebbero riuscire a scrivere le cose in maniera semplice, se solo lo volessero.
Evidentemente, certi politici o non sono bravi o non desiderano la chiarezza.
È “chiaro” che anche la scelta di “non essere chiari” ha il suo bel motivo che, per il mio modo di vedere, ha a che fare con la coerenza.
Infatti più si è chiari, più individui potranno capire. Ma se più cervelli possono capire ci saranno più coscienze che potranno osservare. E se molti soggetti possono osservare allora tante persone potranno giudicare… giudicare anche la coerenza tra il dire, il fare e il “normare“.
Per esempio, lo scrittore e filosofo francese Albert Camus scriveva: “Quelli che scrivono con chiarezza hanno dei lettori, quelli che scrivono in modo ambiguo hanno dei commentatori“.
Mi aspetto quindi che il Ministro dell’Istruzione, nella prossima pubblicazione, per essere più vicino ai gggiovani e per avere più commentatori, potrebbe addirittura optare per questo tipo di linguaggio:
“X te ke aspttv 1 cmbiamnt nll skuola, scordatl!!!
Nn ci sn tt i sold xke li spndiam x F35; cmq i $ ke ti diam, li prndiam anke qll dll vstr task e da $ dl Fnd x Mglrmnt Offrt Frmtv dll skuole.
T.V.B. anz T.V.1.B.3mendo.
Kiara Krrzz”

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“Le vie del Sacro” nella Roma di Francesco

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Una nomade tibetana

Il matrimonio tra il Centro di Produzione culturale la Pelanda del Testaccio e la fotografia non solo è ben riuscito, ma è un trionfo, quando di mezzo ci si mette la religione. Anzi le religioni. La mostra ‘Le vie del Sacro’ di Kazuyoky Nomachi, in programma fino al 4 maggio, è una delle proposte più azzeccate nella Roma di Francesco, il papa ‘pigliatutto’. E’ un piacere camminare lungo i corridoi, dove da rastrelliere semicurve di metallo e legno pendono gli scatti del fotografo documentarista giapponese, 68 anni, protagonista di una lunga avventura professionale intorno al mondo durante la quale è rimasto affascinato dai riti di preghiera delle popolazioni incontrate lungo il viaggio. L’occhio di Nomachi rimane prigioniero e cattura la spiritualità degli uomini fotografati in Africa, Asia, America del Sud, nel Sahara, in Etiopia. Lungo il Nilo e sulle rive del Gange, in Tibet, alla Mecca e sulle Ande. Le immagini restituiscono miriadi di fedeli inchinati per osannare Allah, giovani guerrieri dipinti di bianco in omaggio agli dei, donne velate e commosse, visi rapiti dall’estasi, che offrono occhi offuscati dalle lacrime sullo sfondo di paesaggi fumosi, antri biblici, illuminati dai falò o da una luna gigante, impossibile da addomesticare. Così tanto da intimorire. Chi guarda, con occhi e cuore, si addentra in altri mondi. Apre lo sguardo su paesaggi primordiali, tasta il polso al rapporto tra uomo e la natura, solo i pazzi, i presuntuosi e gli ignoranti non cadono sulle ginocchia di fronte a madre terra, mancandole di rispetto. Ecco il ‘sacro’. Anche l’uomo più moderno, recalcitrante verso la religione e i suoi dogmi, è costretto a cedere a ‘geo’, ai suoi capricci e alle sue rivendicazioni. Perlopiù giustissime. E’ lei la più forte. Nell’offesa, nelle sue conseguenze e nel suo imbizzarrirsi.

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La mostra “Le vie del Sacro” resta aperta sino al 24 maggio

A questo proposito l’obiettivo di Nomachi, che ha la sua prima antologica in Occidente, si fissa su tre giovani dal volto color caffè tostato, sorridenti e dal naso camuso, quasi la ‘raza’, tutti e tre vestono un copricapo a tamburello nero e giacche scure dalle maniche cucite con motivi tali da farle sembrare ali di condor. Un uccello leggendario. Ragazzi e credenze, riti e leggende si riversano nell’ex mattatoio, trasformato da luogo di sangue in casa della cultura, dove hanno sede anche una parte del Macro, il museo di arte contemporanea di Roma, la scuola di Musica Popolare e parte delle aule della facoltà di Architettura di Roma Tre. L’architettura industriale incontra le arti, diventa bella, tranquilla e alternativa in una città, attraversata da masse di disperati, homeless e disoccupati che dormono nella sporcizia, in angoli nascosti e impensabili di una metropoli storicamente irripetibile, schizofrenica, sporca e in caduta libera.

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Entra la Corte

Stavamo in pensiero.
Una volta uscite nella serata di lunedì 13 gennaio le motivazioni della Corte Costituzionale che ha cassato, in parte, il Porcellum, quali sono le onde sulla politica e, in particolare, sulle tre proposte di legge elettorale di Renzi?
Se lo è chiesto Roberto D’Alimonte sulle colonne del Sole 24 Ore (martedì 14 gennaio).
Seguiamo il ragionamento, perché il professore non è mica un patacca qualsiasi.
La Corte avrebbe bocciato “quel” premio di maggioranza, frutto della fantasia sfrenata di un odontoiatra sposatosi con rito celtico, non qualsiasi premio.
Così non sarebbero, sulla carta, fuori luogo la proposta del segretario Pd del Mattarellum modificato, ribattezzato “Matteum” dal maestro Sartori, e quella sul modello dell’elezione dei sindaci.
Nel primo caso la vecchia legge in vigore prima dell’era Calderoli, attribuiva il 75% dei seggi con sistema maggioritario in collegi uninominali: il più votato si prendeva il seggio e tutti gli altri a guardare.
Ora la proposta del sindaco di Firenze prevede che la rimanente quota del 25% dei seggi, prima aggiudicata con metodo proporzionale, sia trasformata in premio di maggioranza da aggiudicare a chi vince fra i primi due.
Sarebbe salva anche la disproporzionalità contenuta nel doppio turno di lista (il modello sindaci), perché il premio che garantisce il 55% dei seggi in Parlamento va a chi al primo turno di aggiudica il 50% più uno dei voti. Quindi non un premio concepito sul modello dell’Asso che fa scopa.
In sostanza i giudici della Corte avrebbero voluto semplicemente circoscrivere le distorsioni fra voti e seggi, senza arrivare a fissare dei veri e propri paletti.
E così rimarrebbe sul tavolo pure la terza proposta, cucita sul modello spagnolo: un sistema proporzionale, sì, ma su collegi talmente piccoli da assegnare i seggi in palio ai vincitori e pochissimi altri. Proporzionale con effetti maggioritari.
L’altro tema è quello delle liste bloccate. Si poteva pensare che l’istituzione a guardia della Costituzione le avesse proibite tout court. E invece così non è stato, perché “il divieto – scrive D’Alimonte – è limitato alle liste bloccate lunghe”.
Perciò, anche da questo punto di vista, resterebbero in gioco tutte e tre le proposte renziane: vanno bene collegi uninominali, alla Mattarella o altri, e va bene il modello spagnolo basato su collegi piccoli.
A questo punto il tema non sarebbe più giuridico ma politico, anche se non manca chi ha fatto notare che il modello sindaci, se tale e quale, implicherebbe la bazzecola del cambio della Costituzione, perché i primi cittadini sono ad elezione diretta, mentre se lo sguardo è rivolto a Madrid andrebbero completamente ridisegnati tutti i collegi elettorali dello Stivale, che non è operazione che si fa in due e due quattro.
In ogni caso, Renzi ha detto che per lui questo o quello pari sono, purché si faccia presto (ma guai a chi pensa che abbia Letta nel mirino).
A Berlusconi piace quello spagnolo, almeno per il prossimo quarto d’ora, mentre ad Alfano veste di più il modello sindaci.
Una cosa la dice chiara e tonda il professor D’Alimonte, in un contesto diventato nel frattempo tripolare (Pd, Forza Italia più Ncd e Cinque Stelle fino a prova contraria si equivalgono): “occorrono sistemi di voto che trasformino la minoranza relativa dei voti in maggioranza assoluta”. Altrimenti, si potrebbe continuare, il paese non lo governa più neanche il mago Otelma in persona.
Anche se Gianroberto Casaleggio (chi?) ha già fatto sapere che a lui andrebbe bene il suino macellato dalla Corte e cioè un proporzionale puro che, tra l’altro, sarebbe già pronto.
È la sortita di uno che prima di tutto avrebbe bisogno di un barbiere, come avrebbe sentenziato mia madre, o un campanello d’allarme?

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La natura come modello per il nostro benessere

Vuoi innovare? Chiedi alla natura! La risposta a molte domande la fornisce la biomimetica, studio consapevole dei processi biologici e biomeccanici della natura, come fonte di ispirazione per il miglioramento delle attività e tecnologie umane.

La natura viene vista come modello, misura e guida alla progettazione degli artefatti tecnici. Un’esempio concreto? Il velcro è uno straordinario frutto della biomimetica. Fu inventato nel 1941 dall’ingegnere svizzero George de Mestral, ispiratosi ai piccoli fiori che si attaccavano saldamente al pelo del suo cane ogni volta che lo portava a passeggio. Analizzandoli al microscopio, de Mestral notò che ogni petalo presentava alla sommità un microscopico uncino, capace di incastrarsi praticamente ovunque trovasse una appiglio naturale. Fu così che dall’osservazione di questo fenomeno nacquero le strisce di velcro che tutti noi conosciamo: semplici strisce in nylon combinate, una in tessuto peloso e una munita di tanti piccoli uncini che si attaccano saldamente all’asola, riproponendo il meccanismo di “cattura” osservato in natura.

Il termine biomimicry, entrato nel dizionario solo nel 1974, indica il trasferimento di processi biologici dal mondo naturale a quello artificiale: “mimando” i meccanismi che governano la natura, l’uomo può infatti trovare la soluzione ad innumerevoli problemi.

Le applicazioni di questo principio (vedi) sono molte ed affascinanti. Si può in un certo senso affermare che il primo ad applicare la biomimetica fu Leonardo, che nei suoi studi sulle macchine volanti prendeva ad esempio il volo degli uccelli.
La prima vera applicazione della biomimetica fu il tetto del Crystal Palace di Londra, costruito su progetto dell’architetto e botanico Joseph Paxton a metà del XIX secolo ed ispirato ad una pianta appartenente alla famiglia delle meravigliose ninfee, la Victoria Amazonica. L’edificio, purtroppo distrutto da un incendio negli anni Trenta, venne dotato di una struttura estremamente leggera, che massimizzava l’esposizione al sole proprio grazie all’esempio delle foglie di ninfea.
Un gran numero di applicazioni ispirate alla natura è già stato tradotto in applicazioni tecniche ed è commercialmente disponibile, come il velcro, le superfici autopulenti ispirate alle foglie di loto (Nelumbo nucifera) e gli adesivi strutturali, sviluppati a partire dal geco e dalle valve di alcuni molluschi.

L’assunto base della biomimetica è che tutti i sistemi naturali rispettano alcuni principi fondamentali: funzionano secondo cicli chiusi: non esiste il concetto di rifiuto; si fondano su interdipendenza, interconnessione, cooperazione, processi che sono alla base di tutti i sistemi viventi; funzionano ad energia solare; rispettano e moltiplicano la diversità.

Online, all’indirizzo www.asknature.org, si trova un sito davvero innovativo, coinvolgente, creativo che, in un inglese divulgativo (e in italiano grazie al traduttore automatico di Google), si rivolge alla comunità di biologi, studiosi, imprenditori e navigatori tout court, curiosi di saperne di più su questa disciplina.

L’ideatrice di www.asknature.com, sito no profit che si sostiene grazie al contributo di sponsor privati, è la studiosa Janine Benyus, che ha approfondito e divulgato efficacemente questi temi.
In pratica i biomedici sono degli imitatori della natura che, come afferma la Benyus, ricordano che quello che noi uomini abbiamo bisogno di disegnare, costruire, realizzare viene fatto quotidianamente e con grazia da tanti organismi viventi. Un esempio? Nelle Galapagos esiste uno squalo che riesce a tenere lontani i batteri grazie a una particolare disposizione architettonica di dentelli sulla sua superficie esterna. Ebbene, l’architettura di questi dentelli è stata riprodotta per rivestire le pareti degli ospedali e tutelare i pazienti.
Sul sito è possibile trovare un repertorio di strategie per prodotti bioispirati a quanto fanno serpenti, farfalle, piante, cellule, batteri con immagini e una grafica che sorprende, cattura e spinge a saperne di più. Un modo diverso per tuffarsi nell’Ambiente in cui viviamo.

scilipoti

Viva Scilipoti

Confesso pubblicamente: mi manca Scilipoti, mi manca il suo agile fisico, alla Berlusconi per intenderci, mi mancano le sue battute argute e profonde, il suo incedere elegante, la sottile intelligenza politica che esaltava ogni passaggio da un partito all’altro, la sua fermezza ideale, l’incorruttibile e pertinace rigore nell’allontanare, novello Ulisse, qualsiasi sirena incantatrice: Scilipoti era l’Uomo. D’accordo, adesso lo hanno sostituito con Brunetta, ma volete mettere Scilipoti con Brunetta? E’ vero: entrambi sono stati e sono, due alti – in senso metaforico, s’intende – sostenitori del cavaliere, il quale dovrebbe essere agli arresti domiciliari oppure a pulire i cessi cittadini, ma rimane libero, il presidente della Repubblica gli ha concesso un’amnistia ad personam, istituto giuridico introdotto dallo stesso Berlusconi, per il quale ognuno si fa le leggi che gli servono (questa, afferma, è la vera democrazia). Ma torniamo al duo Scilipoti-Brunetta. Dicevo: volete mettere Brunetta con Scilipoti? Può fare qualsiasi cosa lo zazzeruto Brunetta, qualsiasi cose ma non arriverà mai all’altezza di Scilipoti. Il lettore stia attento, nell’autore non esiste la minima ironia quando usa l’aggettivo “alto” o il sostantivo “altezza” riferiti ai due grandi uomini politici, la cui statura morale è ben maggiore della loro prestanza fisica. Oh che! Non abbiamo forse avuto un re, il quale fece abbassare il minimo di statura dei soldati italiani, portandolo alla sua altezza? In un passaggio di “Addìo alle armi” Hemingway racconta che quando al fronte della prima guerra mondiale passava una grande auto vuota, tutti sapevano che dentro c’era Vittorio Emanuele III. Ora accade la stessa cosa: quando vedete giungere a Montecitorio o a Palazzo Grazioli una grande auto blu vuota non si abbiano dubbi, dentro c’ è l’incomparabile Brunetta, ma noi che non perdiamo mai le speranze attendiamo di vedere uscire dalla macchina ufficiale blu o nera l’amato amabile Scilipoti, che Dio lo benedica!

panchine-semicircolari

Le panchine dell’indifferenza

C’è una recente espressione dell’atomizzazione e dello sfrangiamento del tessuto del nostro vivere comunitario. Mi riferisco a quel curioso modello di panchine semicircolari, peraltro esteticamente gradevoli, che da un po’ di tempo popolano alcuni parchi o stazioni ferroviarie.
Il restyling non pare il frutto di un semplice capriccio di design, ma sembra studiato apposta per assecondare quella pulsione alla parcellizzazione che accompagna le nostre esistenze.
Eppure le panchine sono luogo topico. Pensiamo a quanti letterari e reali incontri hanno ospitato, fungendo da inatteso e imprevisto strumento di incontro, socializzazione, magari innamoramento…
Ma le nuove panchine arquate non sono concepite per la convivialità e consentono ai frettolosi occupanti di sedersi senza quasi osservarsi, sfuggendo gli uni allo sguardo degli altri, garantendo persino su un emblema della promiscuità – quale è la panchina – il rispetto della privacy. E anche ai più inclini alla socialità, esemplari ormai rari in via di estinzione, impongono ugualmente un altero distacco.
Peraltro l’efficacia del nuovo design delle panchine si sublima in un coerente effetto collaterale: rendere impossibile – o quantomeno disagevole – l’improprio utilizzo della panca da parte di chi volesse farne giaciglio. O forse l’effetto dissuasivo più che collaterale è voluto e del tutto intenzionale.
Di certo c’è che in queste sedute a semicerchio si può stare gli uni accanto agli ignorandosi. E farlo senza neppure lo sforzo di distogliere l’attenzione, perché un previdente progettista ha provveduto a regalarci una soluzione che evita l’imbarazzo avvertito quando si è forzati a ostentare indifferenza. Così tutto fluisce in una ‘spontanea’ non considerazione di chi ci sta accanto, come usualmente avviene fra moderni dirimpettai.
Insomma un bel ritrovato della modernità in perfetta sintonia con le nostre solitudini.

Psiko-SkaFest

Ferrara museo a cielo aperto con i muri di Psiko, Don Bro, Mambo e gli altri writer

Dietro i murales batte un cuore, anzi, tanti cuori votati all’arte. Disegni, scritte e colori che aprono squarci di fantasia su molti muri di Ferrara sono realizzati da un gruppo di ragazzi della città che anno dopo anno sono stati affiancati da writer e artisti affermati, provenienti da tutt’Italia.
A raccontarlo è Psiko, nome d’arte di Paolo Garola, che a Ferrara da diversi anni collabora con il Comune, Area giovani, per portare avanti un’idea: quella che dipingere in strada non è un crimine, ma può anzi diventare un’occasione di esprimersi cercando nello stesso tempo di dare un tocco di bellezza in più alla città. Gli angoli più anonimi e le pareti grigie, secondo lui, possono diventare quasi un’istigazione allo sfregio. E allora murales, graffito, lettering o disegno che sia e che ci va sopra – quando è bello – diventa una forma di piacere per gli occhi e, nello stesso tempo, qualcosa che spinge a non imbrattare.
Psiko è nato e cresciuto a Torino, ma dopo i vent’anni arriva a Ferrara, dove ha i nonni materni. “Fin da bambino – racconta – mi piaceva disegnare. Per me è un bisogno, più ancora che una passione”. Così la sua esperienza di writer nel capoluogo piemontese se la porta tutta qui, conosce i referenti di Area giovani che gestiscono attività e spazi del Comune e insieme a loro parte il progetto “Graffi a Fe”. E’ il 2007 e l’iniziativa coinvolge i ragazzi che hanno questa voglia di disegnare e scrivere sui muri, mette a loro disposizione vernici, ma soprattutto pareti pubbliche fuori dal centro storico, dove fare arte senza sfregiare monumenti o palazzi privati.
Adesso Psiko ha 32 anni e fare arte è diventato un po’ un mestiere. Insieme ad altri ragazzi del gruppo di Area giovani ha fondato l’associazione culturale Articiok, parola in dialetto ferrarese (= carciofo) e che richiama il concetto di arte con un suono scoppiettante. Psiko è il presidente di Articiok, il vicepresidente è Elvis ‘Mambo’ Pregnolato, classe 1973, e segretario è Don Bro, coetaneo di Psiko. “L’associazione – spiega il presidente – in realtà non ha scopo di lucro e ci serve per partecipare a iniziative collettive, concorrere a progetti o bandi in modo da coprire almeno le spese vive, mentre portiamo in giro l’attività che amiamo”.
Ognuno di loro, poi, la vita se la guadagna cercando di farci stare dentro il proprio talento artistico. Mambo, ad esempio, dipinge scenografie per un’azienda di Modena che allestisce parchi di divertimento; Don Bro fa tatuaggi con una tecnica molto particolare e curata; Psiko dipinge opere su commissione, fa scenografie e quando ha un po’ di tempo mette a frutto l’altra sua passione, che è quella della cucina.
Oltre a questo gruppetto storico, Articiok mette insieme altri nomi di writer ferraresi: il più giovane è Mendez, studente 19 enne del Dosso Dossi; poi ci sono Esc, 23enne di Portomaggiore appena uscito dall’Accademia di belle arti di Bologna; Andrea Amaducci, che è vicepresidente dell’associazione culturale non profit Grisù di Ferrara.
Graffiti, disegni sui muri e firme personalizzate (lettering) per Psiko sono il collante di generazioni, stili e persone diverse che diventano parte di un progetto ambizioso: fare della città un museo a cielo aperto. Ecco allora che si può girare per Ferrara, rimanendo ai margini della zona monumentale e storica, per scoprire una piccola antologia di arte contemporanea. C’è Cristiano ‘SirTwo’ Luparia, classe 1972 di Milano, specializzato in lettere tridimensionali che ha lasciato una sua opera su un edificio del parco dell’Itis Carpeggiani; i Tdk che a Milano fanno writing dagli anni ’80 e che hanno contribuito al murales con i pugili del Palapalestre di Ferrara insieme a Mambo; il ferrarese Don Bro che sul Palapalestre firma la gigantografia dell’arbitro e all’Itis Carpeggiani il volto di Cavour; Psiko pittore dei bambini affacciati sule pareti della scuola elementare Don Milani; Made Ead, classe 1972 di Padova, autore del ritratto di Garibaldi sull’edificio visibile sul retro dell’Itis Carpeggiani; sempre all’Itis ci sono Psiko per il lettering sotto a Mazzini, Erik per quello sotto a Cavour e Mendez sotto a Garibaldi; Esc che sul Palapalestre ha fatto i podisti e Macs il giocatore di basket; Andrea Amaducci che firma la striscia con l’incontro tra una ragazza e un ragazzo sul retro del Palapalestre; Mambo il personaggio di Doc tra il sottomura e il parcheggio ex Mof in Rampari di San Paolo; sempre vicino all’ex Mof i bambini dark sul retro sono dell’Incubatore, Calinda l’artefice del personaggio con il volto che si disfa e un diamante tra le mani, mentre è di Esc il totem con il rubinetto aperto.
Il museo a cielo aperto non si ferma qui. Spray e creatività sono pronti a ripartire in primavera per dare colore e forme ai muri della palestra del liceo Ariosto, via Arianuova 19, mentre a marzo ci sarà una collettiva al teatro Concordia di Portomaggiore con arte, musica, proiezioni. Perché quello che conta è l’unione delle diverse forme di creatività, tanti talenti da tirare fuori e mettere in piazza.

Il simbolico in frantumi e il vuoto che abbiamo dentro

Viviamo in un tempo in cui, come diceva Sartre, il cielo sopra le nostre teste è vuoto.
Un vuoto lasciato da Dio, dal padre e dall’Ideale, un vuoto che si situa come fondamento dei nuovi sintomi contemporanei, in cui spesso gli oggetti come cibo, droga, alcool o gioco cercano di colmarne illusoriamente l’effetto della mancanza.
Assistiamo oggi ad una caduta dell’ordine simbolico che si manifesta in diversi ambiti: dalla scuola alla famiglia, alla società civile. Le giovani generazioni faticano in tal modo a trovare punti di riferimento solidi e facilmente identificabili.
Anche i social network, tra cui Facebook è il più conosciuto, contribuiscono ad una sorta di svuotamento dell’aura mitica che era presente attorno a certe figure che potevano essere assunte dai giovani come modelli di identificazione.
Molti personaggi dello spettacolo, che un tempo potevano assolvere tale scopo, ora scrivendo su Facebook della loro vita quotidiana si rendono umani, troppo umani e come tali non appetibili come modelli, svuotati del loro significato.
Persino l’ordine del Sacro è investito da un generale processo di de-sacralizzazione, anche se questo processo si presenta nella forma di avvicinamento alle persone. Lo stesso Papa possiede una pagina su Facebook che raccoglie commenti di migliaia di persone che in questo modo possono lasciare una loro traccia e avere l’illusione di dialogare con un’istituzione un tempo irraggiungibile. Tutto ciò produce un appiattimento, una riduzione della distanza, invece necessaria per strutturare il soggetto.
Alla tv la pubblicità del libro con le figure di Papa Francesco da colorare riflette proprio questa assenza di distanza e caduta del simbolico. Tutto è, in qualche modo ridotto ad oggetto da commercializzare e da comunicare con efficacia. L’efficacia della comunicazione sembra essere il criterio principale.
In un’epoca in cui si perde la dimensione dell’ordine simbolico e la funzione normativa del grande Altro, termine con cui Lacan si riferiva al ruolo della dimensione simbolica, il soggetto appare disorientato, spaesato, confuso, alla ricerca continua di paletti a cui appigliarsi.
In tale orizzonte anche la strutturazione del proprio desiderio risulta difficile, ragione per cui i giovani faticano a trovare la “propria strada” e, prima ancora, si perdono nella incapacità di cercarla.

Ascolta il commento musicale: Giorgio Gaber, I padri miei (i padri tuoi)

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.

baratellichiara@gmail.com