Le stragi di figli da parte di madri lasciano sgomenti tanto urtano il senso comune. Descrivono una tragedia inscritta in un passato secolare: “Tieni lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho già vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa” (Euripide, Medea, vv. 89-92).
L’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore e allora può essere una delle cause di infanticidio. Talvolta, invece, una madre può uccidere il proprio bambino come atto d’amore malato, per sottrarre il bambino ad un mondo ritenuto cattivo e spietato. Spesso la depressione post partum trascurata può portare ad esiti tragici.
Una caratteristica del sentimento materno è l’ambivalenza: la donna ha il potere della vita e della morte, nella sua possibilità di generare e di abortire. Ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera e dei suoi affetti.
Oggi la famiglia contemporanea vive un isolamento particolare. Chiuso nelle pareti domestiche ogni problema si ingigantisce, perché non c’è altro punto di vista, manca un termine di confronto che possa relativizzare il problema o che consenta di diluirlo nella comunicazione, di attutirlo nel confronto che può provenire dagli altri.
Il desiderio materno è per sua natura un desiderio cannibalico. La madre tende a fagocitare ciò che ha generato, a riprendere il proprio frutto. Ad impedire ciò interviene la funzione paterna che ha lo scopo di frapporsi tra madre e bambino in modo di impedire la fagocitazione del bambino stesso.
L’identificazione della donna alla maternità la legittima ad entrare in modo dirompente nella vita del bambino su cui crede di poter esercitare il suo potere in nome dell’amore materno. La madre dovrà imparare ad allontanare il bambino, mentre il padre dovrà imparare ad acquisirlo.
Una madre è prima di tutto una donna, che non deve perdere di vista il legame d’amore iniziale col proprio uomo. È il desiderio per un uomo che potrà proteggerla dalla minaccia di una spinta cannibalesca nei confronti del figlio.
Una madre sufficientemente buona dovrebbe mantenere i propri interessi al di là del bambino, considerare il bambino come separato da sé e non come prolungamento di sé, dare al bambino un posto particolare, sostenendone i desideri. Non dire sempre Sì: è il NO che crea il legame.
Dovrebbe mettere in funzione il nome del padre. Continuare ad essere una donna, una moglie/compagna, ritagliare uno spazio per la coppia separato da quello genitoriale. Non sapere tutto sul figlio, non raccontare tutto al figlio, creare uno spazio di ascolto e di parola che non si trasformi in interrogatorio, non essere l’amica della propria figlia.
La madre è quell’abbraccio forte che contiene il bambino appena nato, ma è anche quella stessa madre che durante la fanciullezza trasforma l’abbraccio in una stretta di mano che accompagna il proprio figlio nel mondo ed è la stessa madre che ad un certo punto fa di quella stretta di mano una forza per spingere il proprio figlio verso gli altri e verso la vita.
Tutto ciò è difficile. Come disse Oliviero Toscani con una felice intuizione : “E’ più facile far uscire un bambino dalla mamma che la mamma dal bambino!”.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
Angelo Agostini è stato senz’altro la principale cerniera fra mondo giornalistico e mondo accademico. Non soltanto perché era professore di Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico allo Iulm di Milano e giornalista professionista, brillante editorialista e autore di interessanti servizi. Questa doppia appartenenza l’hanno avuta e l’hanno anche altri. Ma perché è stato per quasi tre decenni uno snodo fondamentale fra questi due mondi, non sempre in grado di parlarsi e intendersi, animando una quantità impressionante di attività, progetti e iniziative. Soprattutto Angelo ha delineato la formazione al giornalismo nel nostro paese, sicuramente il tema che maggiormente lo appassionava e sul quale ha scritto, pensato, progettato, proposto e – soprattutto – realizzato dagli inizi della sua carriera fino alla fine.
Sostenendo che Angelo ha “creato” la formazione al giornalismo in Italia non credo di cadere in una di quelle stucchevoli iperboli frequenti quando siamo chiamati a ricordare uno stimatissimo collega, ma soprattutto un amico, quale era Angelo per me.
Certamente tanti – anche prima di lui – hanno teorizzato, proposto e lavorato perché nel nostro paese la radicata convinzione che “giornalisti si nasce” perdesse consistenza; ma sicuramente nessuno come Angelo è riuscito a far diventare tutto ciò realtà, prima con l’Istituto per la formazione al giornalismo di Bologna e poi con l’esperienza del Master allo Iulm, nonché con l’impegno in campo europeo. Angelo ha caratterizzato il dibattito sulla centralità della formazione, indispensabile per raccontare un mondo complesso, in tempi resi sempre più stretti e convulsi dalle tecnologie.
Già, le tecnologie, un altro “pallino” di Angelo. Stamattina, riguardando le annate di Problemi dell’informazione, la rivista creata da Paolo Murialdi che lo volle nel 1999 come suo successore e che Angelo si apprestava a lasciare, leggevo un suo intervento di oltre vent’anni fa in cui già indicava nel digitale la sfida che il giornalismo avrebbe dovuto affrontare. Una lungimiranza che aveva trasferito nell’instancabile azione di “progettatore” – termine per lui più adeguato di quelli di direttore e coordinatore – di formazione per il giornalismo. E che non poche critiche gli erano costate all’interno del mondo della professione, spesso lento almeno quanto quello accademico nel recepire le novità.
Seppure se così prematuramente, Angelo se ne va lasciandoci generazioni di giornalisti che ha contribuito a formare. Sono sicuro che ci avrà riflettuto in questi ultimi suoi giorni e gli si sarà aperto quel sorriso che sempre riservava agli allievi, attenuando per un momento la focosa irritazione per la politica e il giornalismo italiani, amori viscerali le cui tante imperfezioni ha osservato e descritto fino agli ultimi giorni.
*L’articolo è stato pubblicato oggi da Europa quotidiano (www.europaquotidiano.it) e da ferraraitalia ripreso per gentile concessione. L’autore è il nuovo direttore de “I problemi dell’informazione” (il Mulino)
Studioso dei media e giornalista, Angelo Agostini se ne andato l’11 marzo, a 54 anni. Giovanissimo ha contribuito a fondare l’Istituto per formazione al giornalismo di Bologna, del quale è stato condirettore e poi direttore per dieci anni. Ha in seguito fondato il master Iulm in giornalismo di cui è stato docente e coordinatore. E’ stato anche presidente della European Journalism Training Association, l’associazione europea delle scuole di giornalismo ed era direttore di “Problemi dell’informazione”, il trimestrale di media e comunicazione, edito da Il Mulino.
Fra i vari incarichi, è stato consulente della Presidenza del Consiglio per l’editoria tra il 1996 e il 1998 e direttore del corso di giornalismo della Svizzera italiana a Lugano. Ha fatto parte, inoltre, del consiglio direttivo della Federazione della stampa ed è stato membro di commissioni ministeriali per la riforma dell’Ordine dei giornalisti e per il riordino dei corsi di laurea in Scienze della comunicazione.
Potrei iniziare il mio visionario commento dicendo che lo sapevo che anche Renzi avrebbe combattuto le battaglie che avevano combattuto Bersani e Letta, battaglie contro i membri Pd deputati (gli stessi che affossarono Prodi dopo averlo proclamato con un’ovazione), del resto la maggioranza ed i parlamentari sono gli stessi, con alcuni di loro che più che persone responsabili sembrano un accozzaglia di opportunisti e parassiti, quindi il buon Renzi di cosa va lamentandosi, “chi è causa del suo mal pianga se stesso” recita il proverbio. Potrei dire che lo immaginavo che il percorso renziano avrebbe trovato ostacoli dentro il suo stesso partito, con alcuni dei membri parlamentari della direzione che votano una cosa nell’organismo di partito e, poi, in parlamento, protetti dal voto segreto, ne votano una diversa. Potrei dire tutto ciò, ma evito per rispetto del lavoro che il segretario sta tentando di fare, a proposito del quale avrei qualche annotazione critica sotto forma di domande, era il caso di “svendersi” così tanto ai voleri berlusconiani pur di dimostrare al proprio ego ed agli italiani che portava a casa un risultato (uso l’articolo indeterminativo non a caso)?
Oggi verrà presentata la “riforma shock” del cuneo fiscale, e su ciò mi pongo, da non esperto, la domanda se non fosse meglio suddividere i denari trovati tra l’Irpef e l’abbassamento dell’Irap a carico delle aziende? Siamo certi che con un pochino di denari in più ci saranno file davanti ai negozi di cittadini vogliosi di comprare qualcosa o, forse gli stessi non li metteranno in banca o per pagare i debiti contratti con la crisi o per sicurezza? Mah…
Un ultima considerazione vorrei farla sul l’intervista al segretario della Cgil in cui afferma che bisogna dare i denari ai lavoratori ed ai pensionati, intendendo, lei, con la parola lavoratori, solo il mondo del lavoro dipendente… Cara Cgil anche chi lavora in proprio è un lavoratore, e, al contrario di altri, lo è senza tutele e sta pagando questa crisi in modo almeno paritetico agli altri… smettiamola, cortesemente, con la rappresentazione che tutti gli autonomi sono evasori. E stimoliamo la politica combattere davvero l’evasione che danneggia l’economia ed in modo maggiore l’immagine di tanti autonomi onesti che le tasse le pagano, a volte, anche a fronte di redditi non percepiti.
C’è un’utile e illuminante riflessione del sociologo ferrarese Max Ascoli che riteniamo interessante riproporre ai nostri lettori poiché, a dispetto del fatto di essere stata elaborata 90 anni fa, appare ancora oggi per molti tratti attuale, per la sua capacità di illustrare alcune dinamiche motivazionali la cui chiave di comprensione risiede nella storia e nella cultura del nostro territorio. L’articolo che ospitiamo su Ferraraitalia s’intitola “Il Ferrarese” ed è stato pubblicato nella rivista di cultura politica “Rivoluzione liberale”, n. 40, il 28 ottobre del 1924. Nell’ottobre 1924, Piero Gobetti (che ha fondato la Rivista nel 1922), vuole dedicare un numero monografico di “Rivoluzione liberale” alle lotte agrarie nelle campagne padane, e chiede contributi per le loro particolari conoscenze a diversi intellettuali: Mario Missiroli, Andrea Parini (segretario di Giacomo Matteotti), Luigi Francesco Ferrari, a Max Ascoli naturalmente chiede di scrivere di Ferrara.
Nell’articolo Ascoli (Ferrara, 25 giugno 1898 – New York, 1 gennaio 1978) esamina la lotta politica primordiale che si era svolta fra contadini ferraresi, non ancora educati al socialismo, e proprietari reazionari. Nelle parole che chiudono l’articolo: “Ferrara colle sue masse di avventizi sempre sconvolte e torbide, con la sua classe di proprietari-agrari schiavisti e cinici quanto ciechi, è una infelice e per inesorabile necessità turbolenta Balcania. Ed ha offerto infatti, col Fascismo, il suo dono balcanico all’Italia. Poiché qui, in questa atmosfera di palude umana, è sorto il Fascismo, la sua nullità disastrosa l’ha iniziata gli si è plasmata qui, nel tentativo di conciliare colla forza, per far tornare proprietari i possidenti, dissensi che con la forza si inveleniscono e non si risolvono. E nel fatto che il Fascismo sia sorto in una regione socialmente e politicamente arretrata e inorganica, collocata proprio nel centro della civilissima Italia settentrionale – nella natura dei luoghi da cui il Fascismo sorse come una meridionalizzazione con spinta dal Nord – forse qui non é l’ultima causa dei mali di cui tutti soffriamo”, si comprende che Ascoli aveva perfettamente intuito, fin dal 1924, la portata decisiva dei fatti avvenuti a Ferrara per la nascita del fascismo.
“Il Ferrarese” (di Max Ascoli)
Il Ferrarese è, dicono, terra rivoluzionaria; dal 1897 non v’è più stata pace; i più noti agitatori, Pasella o Bianchi, si sono resi esperti qui nell’arte dei sommovimenti sociali, utilizzata poi con ben maggiori profitti, e altri agitatori, Rossoni e Balbo, son nati e son cresciuti qui. Pure, in ben poche regioni dell’Italia settentrionale la popolazione è tanto inerte e indifferente a tutto quel che non sia lavoro indefesso su una fecondissima terra: gente tranquilla, abituata senza sofferenze al dominio dei preti e fatta sortire da questo dominio senza rivoluzioni. E’ proprio certo che il ferrarese non invelenisce affatto con romagnola volontà di parteggiare i dissensi esistenti fra le classi e le categorie economiche, ma se questi dissensi han determinato per quasi trent’anni una permanente agitazione devono essere di natura ben complessa e grave, poiché il ferrarese di suo, di deliberato malanimo, non ci mette nulla. Tanto, che non si può parlare di lotta politica, ma di nuda lotta di classe, di pura lotta agraria, nel Ferrarese. In poche altre regioni la maturità politica, nelle classi dirigenti e nelle masse è più infantile. Prova ne siano, per le masse, i passaggi repentini, totalitari da un estremismo all’altro; e di classi dirigenti par non poterne parlare se i ceti borghesi han vivacchiato nella più gretta moderateria clericale per affidarsi poi, stremati, al Fascismo; e i dirigenti del socialismo il Ferrarese li ha sempre presi dal di fuori fra i disponibili capitani di ventura. Anche i pochi uomini d’ingegno partecipanti alle lotte politiche, son poi spinti dalla natura greve della razza a sopportare quello che nelle loro fazioni si compie: ne sian prova due uomini di opposti partiti, l’uno, il Sen. Pietro Niccolini (1) emergente appena, con scetticismo caustico sornione, fra la consorteria clerico-moderata; l’altro, Mario Cavallari, sempre, con volonteroso buon cuore, sacrificatosi ai forestieri, capitani di ventura. Son nature queste fatte più per dar Senatori che uomini di parte.
Non vi è mai stata lotta politica nel Ferrarese, ma solo rovesciamenti di situazioni: poiché qui la lotta politica è solo la rivelazione travolgente e esacerbata di una mai risolta situazione economica. Ogni principio politico ha per il Ferrarese la propria promessa, e ogni principio viene quindi accolto torrenzialmente: nella lotta politica cioè la situazione economica rivela sempre lo stesso groviglio, e non si risolve. Se il ritmo della politica è tutto lineare e tragica lotta di classe, allora la Provincia di Ferrara merita d’essere alla testa d’Italia poiché qui la lotta di classe è nuda; ma qui appare verosimile un principio alquanto diverso dalla nuda enunciazione della lotta di classe che, appunto perché anima sottintesa d’ogni conflitto economico e politico, non può mai essere affrontata nei suoi termini crudi. Come si poté giungere a questa disastrosa lotta di classe che tramutò quasi di colpo la più completa conquista socialista in dominio fascista spostando appena alcuni, e non tutti, fra i dirigenti locali? Il socialismo fu qui il perfetto fratello cadetto, il ricalcatore non sempre originale del capitalismo. Le grandi opere di bonifica (2) attrassero i lavoratori da tutte le zone vicine, aiutarono il disgregamento della unità familiare colonica nelle terre vecchie, chiamando a sé i contadini più sradicabili, pronti ad abbandonare i complessi vincoli di subordinazione nella vita colonica per ridursi a proletari viventi a salario di danaro. Le grandi opere di bonifica diedero una enorme massa proletaria al Ferrarese, attrassero braccia col ritmo stesso con cui la grande industria stacca i lavoratori dalla campagna per renderli operai nei suburbi della città. E i proletari ferraresi, terminate le opere di bonifica, non trovarono la disciplina della fabbrica o la vita dei centri urbani, ma solo l’obbligo di ritornare contadini senza legame alcuno con la terra – contadini appunto viventi a salario di danaro – peggio ancora che braccianti, avventizi.
La condizione quindi, così delineata da un ventennio, si presentava straordinariamente propizia alla lotta di classe, sopratutto alla lotta di classe intesa in senso sindacalista. Qui non era necessario dare agli agricoltori coscienza proletaria, se il proletariato agricolo c’era, creato dalla grande industria: bastava strappare le altre categorie di lavoratori legati da patti di cointeressenza alla terra del proprietario (piccoli affittuari, mezzadri e, sopratutto obbligati (3), ridurre il più possibile ogni forma di ricompensa al salario di danaro, spezzare cioè ogni altra categoria che non fosse quella degli avventizi, fino a identificare con questa l’intera classe dei lavoratori della terra. Pressoché tutte le agitazioni tesero appunto a questo: proletarizzare i lavoratori del Ferrarese strappando nello stesso tempo alla classe proprietaria quelle concessioni e quegli aumenti di salari che togliessero i lavoratori dalla miseria e dessero loro quel tanto di relativo benessere che occorre per condurre una lunga lotta rivoluzionaria. L’ultima agitazione, nel 1920, aveva chiarissima, troppo chiara sventuratamente, questa meta finale. In essa l’elemento politico rivoluzionario dominava su quello economico: tanto che nel patto Zirardini (Marzo ’20) appena e non del tutto i salari stabiliti raggiunsero quelli dell’anteguerra, tenendo conto del deprezzamento della moneta. Il patto Zirardini concretò la situazione rivoluzionaria del ferrarese con l’ufficio di collocamento. Con esso il proletariato veniva insieme disciplinato ed educato rivoluzionariamente ad un vero controllo sulla gestione delle aziende agricole: nella regione cioè cui le grandi bonifiche diedero un proletariato industriale costretto al lavoro agricolo, gli uffici di collocamento furono l’esatto equivalente dei consigli di fabbrica. Il patto Zirardini fu stipulato nel marzo del 1920. Alla fine del ’20 cominciò l’offensiva agrario-fascista, alla metà del ’21 tutta la Provincia di Ferrara era fascista, e tutto il rivoluzionarissimo proletariato ferrarese era passato nei Sindacati di Edmondo Rossoni.
Che cosa era avvenuto? Non vi era dunque una coscienza rivoluzionaria – la nuda lotta di classe per lo sradicamento ormai ottenuto degli operai dalla terra, non doveva produrre il capovolgimento? Il capovolgimento infatti avvenne: fatalmente, quasi senza resistenza – ma fu da Zirardini a Balbo. La enorme massa resa tutta proletaria, staccati gli ultimi vincoli che la legavano al suolo, per l’urto del fascismo, totalmente si capovolse. I senza terra possedevano ormai, attraverso le loro organizzazioni di classe, tutto il suolo ferrarese – negli uffici di collocamento avevano lo strumento per governarlo – i diritti legali di proprietà erano ormai divenuti altrettanto nominali quanto quelli degli industriali che, nell’autunno del ’20, avevano le officine occupate: e questi strumenti e questo dominio il proletariato ferrarese se li lasciò strappare di mano con una resistenza che, se si guarda a Molinella, par nulla. Possedeva ormai tutto: e, se si confronta alla enormità del dominio sfuggitogli, non reagì. Evidentemente, quindi, di questo dominio non sapeva che farsene: era troppo per lui, troppo per la sua capacità rivoluzionaria e produttiva. Poiché forse la realtà dura è questa: che nel Ferrarese non vi fu mai del Socialismo; vi fu dell’avventiziato, del leghismo, vi furono tutte le condizioni esteriori della lotta di classe, ma la coscienza di classe fu da una parte sola: negli agrari. Non fu un proletariato che si conquista la propria potenza e la propria azione rivoluzionaria, non ebbe nemmeno mai educazione alla gestione diretta della proprietà con cooperative di produzione e con affittanze collettive: gli esperimenti, limitatissimi, si debbono a riformisti condotti nel Portuense da Mario Cavallari ed Antonio Bottazzi e nel Bondesano da Ugo Lugli.
Pareva un proletariato armato, del tutto simile a quello della grande industria, ed era invece un regalo della grande industria: operai sradicati dalla terra, inquieti e torbidi, che vollero forse la terra, ma senza avere né l’educazione dell’industria né quella dell’agricoltura. E la rivoluzione che pareva imminente e matura fra centomila organizzati, abortì per l’urto di alcune centinaia di fascisti. Il Ferrarese ora non è fascista come non fu socialista; occorre altra anima, altra preparazione economica, per concedersi il lusso delle lotte politiche. Il problema unico, vero è quello dell’avventiziato che fu creato dal Capitalismo, che il Socialismo tentò di risolvere con la costruzione di un edificio crollato in poche ore – edificio che i fascisti distrussero si ma per montare la guardia intorno ai suoi imponenti ruderi e per contribuire alla risoluzione essenziale del problema, praticamente, con niente. Il loro programma agrario fu la solita formula: la terra ai contadini. Ma la verità più intima fu: i contadini alla terra. E i contadini, infatti, furono non radicati ma sbattuti alla terra e tenuti ben proni ad essa: non si frazionò la proprietà che in scarsissima misura, non si fece risorgere dopo il livellamento provocato dal Socialismo, la categoria così tipicamente ferrarese degli obbligati; appena dove fu possibile, favorì il sorgere della mezzadria e della piccola proprietà o affittanza, ma il problema fondamentale del Ferrarese rimane inalterato in tutta la sua grandiosità; peggio, forse, aggravato. Poiché, dopo che il Fascismo diede la sicurezza ai proprietari, il valore delle terre ferraresi, in quattro anni triplicò: si era giunti a quattro o cinque mila lire l’ettaro, ed ora si è arrivati a tredici, quattordici, quindicimila. E i nuovi proprietari, affittuari, mezzadri molto spesso non sono ferraresi ma veneti, romagnoli, cremonesi e bresciani perfino, chiamati a Ferrara dall’ora vivissimo commercio di terre che sono fra le più feconde d’Italia. Così nuove famiglie ferraresi devono andare ad ingrossare la massa degli avventizi. Come rimedio o palliativo temporaneo, vanno sorgendo per la Provincia stabilimenti industriali, zuccherifici, essiccatoi di tabacco, fabbriche di conserve alimentari. Ma poco fa la fabbrica in campagna, fra operai avventizi, quando il lavoro è saltuario. E poi il problema e la risoluzione del problema è agricolo, e non industriale: costruzione di opere coloniche nelle grandi terre di bonifica, educazione della massa alla gestione e alle affittanze collettive, intensificata diffusione del cooperativismo. Si è, si era agli inizi con una povera massa sprovvista quasi di tutto, materialmente e moralmente: e si faceva già del comunismo!! Il Ferrarese – se è una povera terra vittima della sua ricchezza – vittima della grande industria e dell’affarismo agricolo – vittima delle correnti troppo forti di ricchezza che affluiscono a lei e sorgono da lei e non permettono ancora alla sua economia sociale di assestarsi; sussultante per un ritmo di vita economica troppo forte per quel ché può essere sopportato nelle vicende della terra. Economicamente sviluppatissimo, socialmente primordiale, politicamente gretto o infantile… Si avrà ritmo normale di attività, quando si potrà trovare un equilibrio fra questi tre aspetti di vita. Per ora di fronte alla solidità politica e sociale del Bolognese e della Romagna, Ferrara colle sue masse di avventizi sempre sconvolte e torbide, con la sua classe di proprietari-agrari schiavisti e cinici quanto ciechi, è una infelice e per inesorabile necessità turbolenta Balcania. Ed ha offerto infatti, col Fascismo, il suo dono balcanico all’Italia. Poiché qui, in questa atmosfera di palude umana, è sorto il Fascismo, la sua nullità disastrosa l’ha iniziata gli si è plasmata qui, nel tentativo di conciliare colla forza, per far tornare proprietari i possidenti, dissensi che con la forza si inveleniscono e non si risolvono. E nel fatto che il Fascismo sia sorto in una regione socialmente e politicamente arretrata e inorganica, collocata proprio nel centro della civilissima Italia settentrionale – nella natura dei luoghi da cui il Fascismo sorse come una meridionalizzazione con spinta dal Nord – forse qui non é l’ultima causa dei mali di cui tutti soffriamo.
NOTE (1) Al Niccolini si deve uno studio lucidissimo e meritatamente ritenuto quasi classico, sulla questione agraria nel Ferrarese. L’opera del Niccolini (La questione agraria nella Provincia di Ferrara – Ferrara, 1907) può ancora essere con grande profitto consultata poiché dal 1907 ad oggi non si può purtroppo dire che la situazione sia nelle sue linee essenzialmente mutata. (2) Una sola bonifica, detta “La Bonifica” per antonomasia, promossa da gruppi capitalistici torinesi, ha aumentato il suolo coltivabile ferrarese di 16.000 ettari. (3) Il patto con gli obbligati è tipicamente ferrarese e fu già diffusissimo nella Provincia con grande, beneficio nell’agricoltura. L’ obbligato vive sul fondo e viene ricompensato oltre che con l’alloggio la legna ecc., con salario di lavoro e con una cointeressenza variamente graduata alle colture.
Si ringrazia la Dr.ssa Anna Maria Quarzi, Direttrice dell’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara, che ha contestualizzato l’articolo nel delicato periodo della storia ferrarese in cui è stato scritto.
L’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara ha dedicato a Max Ascoli, nel 2008 (Ridotto del teatro comunale 23 e 24 ottobre), in occasione del trentesimo anniversario della morte, il convegno internazionale “Max Ascoli, antifascista, intellettuale, giornalista” ed è stato pubblicato a cura di Renato Camurri il libro con lo stesso titolo Max Ascoli, antifascista, intellettuale, giornalista (Ed. Franco Angeli, Milano 2012) contenente i saggi del convegno.
Ringraziamo altresì Carl Wilhelm Macke per la preziosa segnalazione del testo
Da anni è in atto una contrapposizione generazionale. Nella storia accade spesso, ma ogni volta in modo diverso. Si tratta allora, per capirne le cause specifiche, di spostarsi dal piano della polemica quotidiana, a quello culturale e antropologico.
Schematicamente organizzo il discorso mediante alcune mosse storico-concettuali per fornire qualche criterio metodologico. All’indomani della Seconda guerra mondiale, il filosofo liberale Benedetto Croce e il leader comunista Palmiro Togliatti si confrontarono pubblicamente su che cosa sia una nuova generazione. Croce ne negava l’esistenza sostenendo che il compito dei giovani era quello di invecchiare. Togliatti rispondeva che esistono peculiarità che caratterizzano una nuova generazione, ma non tutte le generazioni che si succedono sono nuove. Entrambi dicevano una cosa giusta. Per Croce, l’invito ai giovani di invecchiare significava richiamare il difficile e necessario impegno per diventare adulti e responsabili. Togliatti richiamava l’esigenza che ogni generazione, per definirsi nuova, dovesse essere portatrice di novità vere e significative rispetto a quelle precedenti.
Antonio Gramsci, in alcune note dei Quaderni del carcere, fornisce alcuni criteri che restano importanti per il nostro tema: “Una generazione che svaluta la generazione precedente, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. […]Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Una generazione che sa fare solo soffitte, si lamenta che i predecessori non abbiano costruito palazzi di dieci o trenta piani.” Questo modo di ragionare sul passato era presente nella generazione del ’68, ed è diffuso anche oggi nel comune sentire dei giovani, soprattutto nei confronti della politica.
E sulle responsabilità delle vecchie generazioni? Si interroga Gramsci: “Da dove viene l’irrequietezza dei giovani? Si può dire che essa è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, e più precisamente ciò vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera con una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare; e si dichiara una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. In questa situazione le responsabilità sono degli anziani. Costoro dirigono la vita, ma fingono di non dirigere, di lasciare ai giovani la direzione. I giovani credono di dirigere, ma i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative, e così diventano ancora più irrequieti e scontenti. Il risultato può essere che chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva.” Infine, conclude Gramsci “[… ]nel succedersi delle generazioni può avvenire che si abbia una generazione anziana dalle idee antiquate e una generazione giovane dalle idee infantili, che cioè manchi l’anello storico intermedio: la generazione capace di educare i giovani.”
Quest’ultima annotazione rappresenta bene l’attuale stallo in cui ci troviamo.
A conclusione di questo schematico e rapido percorso, mi permetto due indicazioni positive, da parte di un anziano, per un dialogo fecondo e non rissoso.
Per ciò che riguarda la politica, resta decisivo il monito di Vittorio Foa: “I valori politici non si ricostituiscono con le prediche. Vorrei vedere degli esempi, perché è dagli esempi che nasce qualcosa. Ho notato che la parola ‘esempio’ non compare più nel lessico della politica, mentre è una parola essenziale: l’esempio è la cosa più importante che si deve chiedere al politico.” E’ detto chiaro il rifiuto di ogni atteggiamento paternalistico nel rapporto tra anziani e giovani.
Per ciò che riguarda il piano esistenziale, ricordo il consiglio che dava Jean Paul Sartre ai giovani, per evitare la trappola del lamento permanente e del vittimismo: “Non è importante ciò che gli altri hanno fatto di te, ma ciò che tu farai di ciò che gli altri hanno fatto di te.” Sembra uno scioglilingua. Traduciamo: non lamentarti per tutta la vita dei condizionamenti che ti derivano dal tempo in cui sei nato, dalla famiglia in cui sei cresciuto, dal lavoro che fai, dall’ambiente che frequenti. Esci dallo stato di minorità e diventa adulto: esercita fino in fondo la dimensione personale della responsabilità. Come diceva Immanuel Kant: “Sapere aude!” Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto!
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Ora c’è una strategia ambientale fino al 2020. E’utile leggerla e farne delle valutazioni. Come sempre una ottima analisi, anche se ci si aspettava una maggiore programmazione operativa orientata al risultato.
La Regione Emilia-Romagna ha adottato il Piano Rifiuti ed è accessibile online [leggi]. Certo forse non siamo più il modello e l’esempio che in passato ci veniva assegnato. Si avverte il bisogno di una regolazione efficace e determinata che conduca nel tempo alle decisioni verso gli obiettivi ben individuati. La preoccupazione è che, come spesso accade, poi faremo degli altri rapporti di analisi che giustificheranno gli scostamenti del “non raggiunto”.
In una sintesi, a mio avviso, alcuni principi fondamentali, che di seguito indico, hanno bisogno di una grande determinazione operativa che individui le modalità e le responsabilità di una governance pubblica attenta e forte.
La riforma, nelle modalità di gestione dei rifiuti, deve porre al centro delle priorità la prevenzione e la riduzione della produzione dei rifiuti, prima ancora del riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico come peraltro già previsto dalle Direttive comunitarie. Si deve però dire cosa, come e quando farla. Si tratta di una impostazione a forte valenza di politica economica in quanto prima di decidere “come trattare i rifiuti” cerca di impostare un comportamento sostenibile nelle scelte di produzione, uso e consumo delle merci.
La politica del rifiuto è quindi ancor prima “politica del prodotto”, e dunque antepone alle questioni giuridiche delle impostazioni metodologiche rivolte verso strumenti e processi di tipo industriale. E’ necessario sviluppare una forte cultura del riciclo e favorire un processo di crescita qualitativa. Per allineare l’Italia, nella gestione dei rifiuti, alla linea di politica ambientale dettata dalla UE e peraltro già affermatasi in taluni Paesi comunitari bisogna invertire il processo in corso, ed occorre procedere tempestivamente ad un ribaltamento di una situazione da tempo critica e indecisa nelle sue scelte. Per fare questo occorrono non singoli provvedimenti, ma interventi organici non dettati dall’emergenza, in armonia con le direttive comunitarie. Per realizzare una concreta politica ambientale di “sistema” si ritiene che i principali obiettivi concreti da perseguire potranno essere i seguenti:
1* principio di prossimità (ambiti territoriali ottimali)
2* principio di chi inquina paga (responsabilità economica)
3* principio delle priorità (4R) (riduzione dei volumi, riuso, riciclo e recupero)
4* dalla crisi dei rifiuti (emergenza ) alla politica ambientale (piani)
5* consapevolezza sociale, sensibilità ambientale, cultura dei servizi pubblici
6* le potenzialità del riciclaggio e gli obiettivi per gli imballaggi
7* obiettivi materiali (immesso/riciclo)
8* analisi limiti di convenienza coerenti con modalità operative (Lca)
9* crescente attenzione ai risultati finali, non alle modalità operative
10* la minimizzazione alla fonte
11* l’espansione del riuso e riciclo ambientalmente compatibile dei rifiuti
12* la promozione di smaltimento e trattamento ambientalmente compatibili
13* ma soprattutto una governance “forte” con controllo sul sistema dei rifiuti.
Molti di questi principi sono condivisi, ma non programmati e forse non perseguiti con la necessaria determinazione. Almeno così mi sembra.
Quando riceviamo la notizia di un incidente automobilistico, chiediamo immediatamente lo stato di salute del conducente e dei viaggiatori. Nessuno si preoccupa del danno all’auto e dei frammenti dei componenti eiettati nei dintorni, dei gas di combustione dell’incendio e dei liquidi usati dai pompieri per spegnerlo, dell’olio e delle benzine, ossia di tutte le sostanze riversate nell’area dell’incidente.
Sendai, capoluogo del Tohoku, regione del Giappone settentrionale, dista dalla città di Fukushima circa 200 km. Da quando sono partito per Sendai, mi sono sentito spesso chiedere: “Ma come sono messi con le radiazioni?”. Ora sono tre mesi che vivo a Sendai e questa domanda ha continuato sempre a farmi lo stesso effetto di: “Ma dopo l’incidente automobilistico, che fine hanno fatto i liquami delle auto?” Un’altra domanda però mi si è parata davanti al finestrino, con la stessa prepotente velocità con cui viaggia lo shinkansen (il treno ad alta velocità giapponese, detto anche treno proiettile), quando sono arrivato a Sendai ed ho visto i gelidi container in cui ancora vivono alcuni sfollati del terremoto, ed è stata: “Ma come stanno i sopravvissuti?”
I danni del terremoto e dello tsunami in termini di vittime
Alle 14:46 dell’11 marzo 2011, un fortissimo terremoto di magnitudo 9.0 si abbatté sulla costa nord-orientale del Giappone e sviluppò un devastante tsunami nelle aree adiacenti del Tohoku e Kanto. Fu il terremoto più forte mai avvenuto in Giappone ed il quinto in assoluto a livello mondiale dal 1900. Il risultato fu una catastrofe senza precedenti, con più di 16.000 morti e oltre 3.000 dispersi (stime del maggio 2012). Fra bambini e giovani (dagli asili all’Università) vi furono 654 vittime, 79 dispersi, 262 feriti, mentre fra il personale delle scuole 38 morti, 8 dispersi e 67 feriti. Sono purtroppo ancora stime, e tali rimarranno, in quanto non sarà mai possibile ritrovare e riconoscere i cadaveri devastati dalle onde del mare cariche di rottami e seppelliti da metri di detriti. Nel marzo 2012 gli orfani di entrambi i genitori al di sotto dei 18 anni erano 241. Furono danneggiati più di 12.000 edifici tra scuole, centri sociali, palestre e centri culturali distribuiti in 24 prefetture. Fra questi, 100 scuole devono essere completamente ricostruite e 22 scuole pubbliche sono state adibite a centri di recupero e di rifugio.
Ad oggi, a seguito dello tsunami, sono morte circa 18.500 persone. Questi cinque numeri di morte sono il risultato degli effetti diretti e indiretti dello tsunami.
A distanza di tre anni, circa 136.000 persone sono ancora evacuate dalle aree colpite dallo tsunami. Fukushima, Miyagi e Iwate sono state le tre prefetture maggiormente colpite dallo tsunami. Dati ufficiali dichiarano che nella prefettura di Fukushima sono morte 1.656 persone, in Miyagi 879 ed in Iwate 434, per stress o altre infermità conseguenti l’incidente. Circa il 90% di queste vittime avevano più di 66 anni (dati del Settembre 2013). Le morti indirette sono dovute allo stress fisico e mentale derivante da lunghi soggiorni nei rifugi, dalla mancanza di cure iniziali negli ospedali e dai suicidi. Lo tsunami non rade al suolo solo le case e le campagne, ma azzera il proprio passato, esaurisce le proprie energie. Dal momento in cui ci si rende conto di essere sopravvissuti ai propri cari, si deve iniziare una nuova vita.
I danni in termini di contaminazione
Il terremoto e lo tsunami causarono danni enormi alla centrale nucleare di Fukushima. Quando lo tsunami colpì la Centrale nucleare Daiichi di Fukushima, danneggiò i noccioli dei reattori causando la dispersione delle particelle radioattive nell’atmosfera e nell’oceano, contaminando le acque sotterranee, i suoli ed il mare.
A seguito della catastrofe provocata dal terremoto e dallo tsunami le informazioni riguardanti i danni e le conseguenze delle radiazioni furono spesso superficiali e sbagliate. A seguito dello tsunami i reattori rilasciarono radioattività, iniziò il meltdown e l’acqua radioattiva di raffreddamento percolante raggiunse l’oceano Pacifico. Gli isotopi radioattivi rilasciati nell’aria, successivamente passarono dalle piogge all’oceano. Queste due vie preferenziali, drenaggio e piogge, introdussero nell’area circostante la centrale principalmente Iodio-131, Cesio-137 e Cesio-134, ma dispersero anche Tellurio, Uranio e Stronzio.
Non ci sono stime inconfutabili sulle quantità di questi isotopi rilasciate nell’oceano in quanto la Tepco, la compagnia proprietaria della centrale, non ha pubblicato informazioni ufficiali. Le stime correnti sono di circa 538.100 terabecquerels (TBq), quantità superiore ai livelli di Three-Mile Island (Pennsylvania, 1979), ma inferiore a quelli di Chernobyl (1986).
Dopo alcuni mesi dall’incidente nucleare il Woods hole oceanographic institution (Whoi) americano organizzò una crociera scientifica alla quale presero parte 17 scienziati di 8 istituzioni diverse, allo scopo di campionare le acque antistanti la centrale di Fukushima. Gli scienziati scoprirono elevati livelli di Cesio radioattivo, inferiori tuttavia a quelli pericolosi per la vita umana. I livelli di Cesio diminuirono verso il largo delle coste, in quanto questo isotopo si diluì velocemente nelle acque oceaniche. Gli scienziati misurarono la quantità di Cesio ed altri radionuclidi anche nel plankton e nei pesci e, nelle crociere successive, campionarono i sedimenti dei fondali e le alghe marine. Fino a quel momento, le ricche aree pescose al largo di Fukushima rimasero interdette alla pesca, in quanto i livelli di Cesio erano superiori ai limiti previsti dalla legge giapponese.
La mappa della radiazione di fondo del Cesio-137 nell’oceano prima di Fukushima [vedi] mostra che i valori di Fukushima precedenti il disastro nucleare sono solo di 4 Bq/m3. Analizzando questa mappa probabilmente non mangeremmo più le pillole di olio di pesce delle aringhe dal mar Baltico né il caviale del mar Nero (valori rispettivamente di 125 Bq/m3 e 52 Bq/m3, derivati dalle radiazioni provenienti da Chernobyl). Nel Mediterraneo i valori di Cesio radioattivo sono quasi il doppio di quelli dell’oceano Indiano, ma circa 10 volte inferiori a quelli dell’Irlanda.
Stato di salute delle risorse ittiche dell’oceano Pacifico
“Ma allora posso mangiare il pesce del Pacifico?” La risposta data dagli esperti per la maggior parte delle aree analizzate è “si!”. Alcune pescherie nel nord del Giappone sono ancora chiuse a causa della contaminazione radioattiva. I pesci che vivono sul fondale sono direttamente esposti alla contaminazione in quanto il fallout si raccoglie sul fondo. I pesci contaminati non dovrebbero superare i severi controlli sulla contaminazione radioattiva effettuati nei mercati ittici. Non è possibile tuttavia garantire l’assenza di pesce contaminato.
L’acqua di percolazione della centrale nucleare contiene Stronzio e Trizio che sono più problematici del Cesio-137. Ma sembra che lo Stronzio si accumuli specialmente nelle lische ed il problema della contaminazione sussiste quindi se mangiamo i piccoli pesci, come le sardine (ed affligge le sardine pescate vicino al Giappone in quanto esse sono principalmente stanziali). I 95 TBq di Cesio radioattivo accumulati nei sedimenti attorno a Fukushima, luogo ancora molto problematico per i pesci che vivono sui fondali, rendono l’area off-limit per le pescherie giapponesi. Per rendere più tranquille le nostre frequenti cene nel sushi bar preferito, Fisher et al. [vedi] hanno analizzato esattamente quanta radiazione riceveremmo mangiando 100 chili di maki-sushi di tonno. I pescatori di tonno nei supermercati riceverebbero 0.9 microSiever di radiazioni, mentre i pescatori dell’oceano ne riceverebbero 4.7 microSv.
Questi valori sono circa gli stessi o poco inferiori alle quantità che riceviamo giornalmente dalla sorgente naturale. Per un adulto il rischio relativo di contrarre un tumore a seguito di contaminazione da Cesio 134-137 è di 4.1-4.8% per Siever di dose di radiazione. Quindi un buon gustaio di pesce fresco che mangia circa 124 kg di pesce contaminato proveniente da Fukushima riceverebbe una dose di 4.7 microSiever. A seguito di una lastra di raggi-X al torace eseguita all’ospedale, riceviamo circa 50 microSiever per volta, mentre per un esame gastro-intestinale riceviamo circa 600 microSiever. L’aumento di probabilità di contrarre un tumore per il buongustaio di pesce sarebbe di 0.00002% (cioè 2 nuovi casi di tumore per 10 milioni di abitanti; Fisher et al., 2013).
“Ma allora a che punto siamo?” I fondali prospicenti la centrale devono essere depurati; non si sa ancora come, quando e chi lo farà. A tre anni dal disastro sociale, ambientale ed economico creato dallo tsunami, i ritardi burocratici, i compromessi politici, il dispendio di mezzi ed energie hanno mantenuto l’instabilità sociale nella zona colpita. Molti bambini hanno avuto anni scolastici interrotti, molti non proseguiranno gli studi normalmente. Esiste la generazione Chernobyl (i bambini bielorussi ospitati dalle famiglie ferraresi); ci sarà una generazione Fukushima.
Non mi sembra ci sia tanta differenza fra questa astenia politica giapponese e quella italiana. A due anni dal terremoto dell’Emilia, non si sono avute le idee (e le forze politiche) per ridurre gli effetti che provocherà il prossimo terremoto.
Le domande che hanno accompagnato questa breve analisi dei danni e delle conseguenze dello tsunami del marzo 2011, iniziano con una congiunzione semplice: “ma”. Questa è usata per collegare situazioni che si trovano sullo stesso piano logico. Quindi vorrei che ci ponessimo, per logica, quest’altra domanda: “Ma è possibile ridurre al massimo i danni e le conseguenze del prossimo tsunami?” È certo che non possiamo evitarli.
Davide Bassi è ricercatore e professore aggregato in Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Fisica e scienze della terra dell’Università degli studi di Ferrara. A Sendai è visiting professor presso la Tohoku University Museum (Institute of Geology and Paleontology, Graduate School of Science).
Avete mai provato a voler far entrare un elefante in un capannone attraverso una porta che è evidentemente troppo piccola? È la sensazione che si prova quando si lancia un’idea che non è nuova, ma lo è per il vostro uditorio. Ma se il mondo nel tempo è cambiato credo proprio che sia perché molti elefanti hanno varcato quelle soglie. La metafora non è mia, è del professor Norman Longworth, uno dei più autorevoli pensatori nel campo della formazione permanente. Secondo Longworth, l’elefante rappresenta, per un amministratore pubblico, le strategie e i piani della città per spingersi verso il futuro di una città che apprende. Il capannone contiene il futuro: ricco di opportunità, prosperità, stabilità sociale e intelligenza, benessere e felicità per i cittadini. La porta è la complessità, l’opportunità creativa: come possiamo renderla più larga?
Forse quanto segue vi fornirà alcuni spunti e risposte o forse no!
L’elefante a cui io mi riferisco è il Festival dell’apprendimento di cui ho già parlato in questa rubrica e che sta dentro alla politica per l’istruzione che mi piacerebbe vedere realizzata nella mia città, e che potrebbe attingere ai fondi messi a disposizione per questo dalla Commissione europea. L’idea del festival è quella di celebrare l’apprendimento e, così facendo, dimostrare a tutti che l’istruzione può essere divertente. Per molti la scuola non è un’esperienza piacevole da ricordare. Ma vedere illustrato dagli studenti quello che imparano a scuola, sentirli motivare per quali ragioni imparano, e raccontare come l’hanno appreso, può essere l’avvio di un modo di riconsiderare la scuola e lo studio, con occhio nuovo, con nuova attenzione e interesse, anche per quei ragazzi che la scuola ha escluso o che di fronte alla scuola si sono arresi, i nostri tanti neet (Not (engaged) in education, employment or training) e i tanti scolasticamente dispersi. Può essere fonte di rinnovata motivazione per chi già frequenta la scuola o l’avvio di un viaggio nuovo attraverso l’istruzione per chi la scuola l’ha abbandonata o per chi adulto ha voglia di riprendere a studiare. Frequentare un corso potrebbe significare acquisire una nuova qualifica, nuove competenze, forse avviare una nuova carriera.
Il Festival si propone di cambiare gli atteggiamenti verso l’apprendimento, portare le persone a comprendere che l’istruzione non è qualcosa che avviene solo all’interno delle scuole e delle università, ma che essa inizia con la nostra nascita e dura fino alla nostra morte. E’ un evento che si svolge in diversi luoghi e spazi della città, nelle piazze, nelle strade, nei centri commerciali, nei parchi, nelle scuole, nei campi sportivi, nelle biblioteche, nei musei, sull’acqua, con spettacoli, dibattiti, sessioni di degustazione, visite guidate, esposizioni, dimostrazioni, laboratori, mostre, workshop.
Tutto ciò che è richiesto, è il contributo delle scuole, dell’università, delle numerose organizzazioni di volontariato, delle associazioni, delle istituzioni culturali, delle biblioteche, dei musei e innanzitutto la volontà dell’amministrazione cittadina.
Penso che se la nostra città avesse una struttura permanente tipo “Forum per l’apprendimento” potrebbe lavorare per organizzare durante l’anno il suo festival dell’apprendimento, coinvolgendo i quartieri e le loro risorse in termini di scuole, di volontariato, di associazioni culturali e quant’altro. Penso che se ci fosse un progetto condiviso, si potrebbe motivare e finalizzare il lavoro degli studenti e degli insegnanti, dalla scuola dell’infanzia alle scuole superiori, alla formazione professionale, per presentare la loro ricchezza di proposte alla città, per realizzare open day e giornate della didattica nell’ambito del festival dell’apprendimento, perché intorno alle loro fatiche ci sia il riconoscimento, l’affetto e la solidarietà di tutta la cittadinanza. Sarebbe riconoscere concretamente e pubblicamente quanto la città considera importante il lavoro, l’intelligenza e la fatica quotidiana delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Una città che si stringe attorno a chi si impegna nell’arricchire se stesso di sapere e di competenze, non può non essere a vantaggio di tutta la nostra comunità. Testimoniare la nostra riconoscenza per il contributo che danno nel fare della nostra città una città che apprende.
Non ci mancano le risorse per riempire le giornate e gli spazi di iniziative. Dai laboratori della memoria, ai laboratori di scienze, di matematica viva, di scrittura, d’arte e di murales, di disegno e grafica. Ai laboratori di musica, ai concerti eseguiti dai nostri allievi del conservatorio e dei corsi a indirizzo musicale, ai cori delle scuole. Ai laboratori di degustazione e cucina tenuti dagli allievi del nostro istituto alberghiero, al giardinaggio e all’agricoltura con gli studenti del Navarra, fino alla moda con gli studenti dell’Ipsia. Penso al contributo di creatività che potrebbero dare gli studenti del Dosso Dossi, le idee di abitabilità e ambiente che potrebbero suggerirci gli studenti dell’Aleotti. Penso all’importanza dello sport e dell’educazione motoria, al contributo che potrebbero dare le nostre associazioni sportive. E potrei continuare a lungo. Potremmo conoscere e dare un nuovo impulso alle esperienze delle classi tecnologiche, conosciute come Classi 2.0 di cui forse la città conosce poco. Le esperienze di twinning, di gemellaggio con le scuole di altri paesi. Il teatro delle scuole, le storie di vita di adulti e anziani, le librerie per apprendere, leggere in famiglia, gli incontri con gli scrittori, Ferrara walk, documentari, fotografie, Vivicittà, la Città bambina, il Centro per le famiglie, Estate ragazzi, la rete internazionale delle città universitarie, Unicef, le escursioni con il battello sul Volano, i Planetari e tanto altro ancora. I seminari: la città del futuro, ambiente e benessere, l’apprendimento tra locale e globale, istruzione e formazione professionale, scuola aperta, disabilità, i Cpia e il futuro dell’istruzione per gli adulti, l’edilizia scolastica, gli ambienti dell’apprendimento, bambini, insegnanti, genitori, il festival mondiale della creatività nella scuola. Insomma il materiale non manca, neppure le idee, si tratta solo di volontà e di organizzazione.
Uno spazio per divertirsi imparando, per pensare, uno spazio per parlare, uno spazio di confronto, un luogo per sperimentare, un luogo per aggiornare l’approccio di tutti sulla formazione.
Ma per far passare l’elefante dalla porta, occorre mettere insieme i bambini, gli studenti, gli insegnanti e i genitori, coinvolgerli nel dibattito sulla e per la città che apprende, chiedere alle nostre scuole di contribuire a crearla e farla crescere, perché esse ne sono la parte più importante.
Un atto politico concreto nei confronti dello strapotere di banche e finanza. Parlo della petizione che ha come primi firmatari Luciano Gallino, Elio Veltri e Antonio Caputo e indirizzata al Parlamento europeo per una legge di riforma del sistema finanziario [vedi].
Chi ha seguito in questi anni le rigorose analisi economiche e sociali del professor Gallino può ritrovarne interamente i contenuti nella petizione, che, constatando lo sviluppo anomalo del sistema finanziario generatore di una crisi senza precedenti nel sistema produttivo, chiede in sostanza la scomposizione dei grandi gruppi bancari europei in entità di minori dimensioni, più controllabili dalle autorità e la separazione tra banche di deposito e banche di investimento (sulla guisa della legge bancaria denominata Glass – Steagall Act introdotta nel 1933 dall’amministrazione Roosevelt negli Stati Uniti, poi abrogata dal presidente Clinton nel 1999 con la promulgazione della nuova legge Gramm – Leach – Bliley Act, che mantenne la separazione delle attività solo per la Federal Deposit Insurance Corporation, organismo istituito con la legge precedente).
La petizione chiede inoltre uno sfoltimento delle sussidiarie di ciascun gruppo finanziario, per una miglior regolazione internazionale con lo scopo di evitare crack come quello di Lehman Brothers nel 2007; una riduzione del cosiddetto shadow banking, ossia di un’attività finanziaria che avviene fuori dai canali tradizionali e che si stima attorno ai 23 trilioni di euro; il divieto di emettere derivati “nudi”, cioè di prodotti finanziari trattati al di fuori delle borse regolamentari ai quali non corrispondono, nel 90 per cento dei casi, scambi reali di merci o servizi, al di là del loro valore nominale; la trattazione di tutti i derivati su borse o piattaforme regolamentari, aspetto questo importante sei si pensa che le banche europee hanno emesso nel tempo titoli derivati per centinaia di trilioni di euro. Dopo l’iter all’Europarlamento, la legge dovrebbe essere trasmessa alla Commissione, al Consiglio europeo e agli Stati membri per la sua applicazione. Sono prevedibili naturalmente modifiche, ma l’importante sarebbe salvaguardarne i principi ispiratori.
L’iniziativa di Gallino, Veltri e Caputo ci dice come si debba rompere il dominio sempre più soffocante della finanza sull’economia, sulla politica, ma soprattutto sulla vita di milioni di persone.
Regolamentare i mercati e gli scambi non è semplice, e la strada è tutta in salita. Il presidente Obama ha ottenuto solo qualche modesto successo: in Europa giacciono, presso i singoli governi, proposte di legge che però non hanno ancora visto la luce. E te credo, direbbero a Roma. Quella francese, ad esempio, afferma fra l’altro che le banche dovrebbero prestare denaro prevalentemente all’economia reale, questione sollevata più volte dallo stesso presidente della Bce Mario Draghi che ha recentemente definito “zombie” i gruppi e gli istituti che non intervengono in questo senso. Se lo dice lui…
La partita dovrebbe interessare tutti coloro – politici in prima fila, e lobby permettendo – che hanno a cuore l’uscita al più presto dell’Europa e del nostro Paese dal rigore a senso unico. Quindi anche la sinistra, o quel che ne resta: la lotta di classe oggi ha cambiato i principi e i protagonisti.
In un dibattito è facile sopraffare l’interlocutore attribuendogli cose mai dette o spostando su altri temi il discorso. Così è successo quando mi sono azzardato a chiedere attenzione verso altre ipotesi per il riutilizzo della ex caserma Pozzuolo del Friuli.
Non ho mai detto che il Comune deve acquistarla, non ho mai detto che il ‘Museo della Città’ deve essere realizzato e gestito dal Comune. Ho posto dei problemi, fra questi quello della istituzione del ‘sistema musei’ che, oggi, la legislazione riserva ad un altro ente.
Non sono un ‘provocatore’, mi rendo, spero, conto delle situazioni, anche finanziarie. Un’area abbandonata di tre ettari nel centro della città è un problema. L’Amministrazione Comunale non può non intervenire, ma non è obbligata all’acquisto: il Comune, come sanno tutti i ferraresi, ha gli strumenti per determinarne la destinazione d’uso: è sua responsabilità decidere se pubblica o privata e in che forme. Se esiste un piano di utilizzo lo può rendere vincolante.
L’area si trova incuneata fra la Palazzina di Marfisa d’Este, Palazzo Schifanoia e Palazzo Bonacossi: una opzione possibile, direi naturale, è quella di costituire un polo museale, dedicato alle testimonianze storiche, che caratterizzi questa parte della città, come le gallerie d’arte moderna per la zona Palazzo Massari-Palazzo dei Diamanti.
Non contrappongo le mostre ai musei; ne propongo l’integrazione.
L’Annuario statistico del Comune dice che nel 2011 vi sono stati 189.414 turisti, nello stesso periodo i visitatori alle esposizioni sono stati 174.534; ai musei sono stati 301.323. Cifre modeste in ambito regionale, ma testimoniano una potenzialità non raccolta. La poca visibilità dei musei è attestata: nel 2012 quelli statali, in Emilia Romagna, hanno totalizzato 713.745 presenze, a Ferrara 58.500.
L’elenco dei musei per frequenza vede ai primi posti il Museo Arcivescovile e il Museo Nazionale di Ravenna: rispettivamente con 532.027 e 477.326 visitatori. Al 6° il Castello di Ferrara con 100.027 (nel 2011, 99.550); al 13° Palazzo Schifanoia con 53.688 (nel 2011, 47.930).
Nota è la carenza di servizi, l’incapacità di accesso ai finanziamenti regionali ( ex legge 18/2000), la difficoltà di fare rete. La mostra di Zurbaran ha avuto 65.274 visitatori, solo 561 hanno utilizzato il biglietto valido per l’accesso agevolato ai musei.
Utile il confronto con Ravenna: ha lo stesso numero di musei, una quasi identica superficie espositiva (18mila metri quadri), quasi lo stesso numero di residenti. Il numero di addetti a Ferrara è di 130, a Ravenna 102. Visitatori: a Ferrara 305.025; a Ravenna 1.139.040. Il rapporto ingressi/residenti a Ferrara è 0,89%, a Ravenna 3,25%.
Ravenna ha istituito da tempo un sistema museale, come Modena e Rimini. Consente economie di scala, servizi comuni, concorso nella progettazione, momenti di formazione, la messa in rete, piani museali: nel 2007 sono stati erogati € 255.000. A Modena partecipano gli enti locali, l’Università, la Soprintendenza e musei privati. L’adesione al sistema è canale privilegiato per i finanziamenti regionali.
I musei debbono cambiare: il mantenere per anni gli stessi allestimenti, senza aprire i depositi, senza turnare i materiali è una scelta che non premia, scoraggia il ritorno. La controprova la offre il Museo Nazionale Archeologico: nel 2013 ha visto più i visitatori ( 4% ), più incassi (21%). La ‘città museo di se stessa’ è solo una frase.
Il ‘Museo della città’ comporta investimenti e grandi spazi: a Bologna lo hanno fatto la Fondazione Carisbo e dei privati, non è obbligatorio che sia protagonista il Comune. Esistono altre soluzioni, anche consorziate. E’ una tipologia nota e diffusa, come si dovrebbe sapere.
E’ un museo sociale, che documenta l’organizzazione della vita della città attraverso i secoli. Ne raccoglie le testimonianze, dai costumi alle insegne commerciali, dalla religiosità alla organizzazione del governo, dai sommovimenti sociali ai riti della vita e della morte, dal commercio alla organizzazione del territorio, dagli strumenti della scienza a quelli del lavoro, alla forma urbana. Può accrescere di molto la capacità attraente della città, trasformare molti visitatori in turisti, dare maggiore consapevolezza di sé ai cittadini, sopratutto ai nuovi che arrivano con percentuali annuali superiori al 10% : la loro integrazione è una necessità per tutti.
Naturalmente non è la soluzione dei problemi ma un tassello che vi può concorrere.
Walter ha ottanta anni suonati, ma a dispetto dell’età che avanza dimostra ancora un’energia e una forza d’animo da fare invidia. Da diciasette anni è volontario dell’Auser di Bologna, una onlus nata nel 1989 per finalità assistenziali, e attualmente coordina a Pieve di Cento circa settanta iscritti. «Smetterò il più tardi possibile, perché quello che faccio mi dà tanta soddisfazione – dice con voce squillante -. Finché mi sosterranno le forze io continuerò a fare il volontario». Come l’acqua che scava nella roccia, l’azione di questi angeli del quotidiano è silenziosa, costante, paziente. E preziosissima: «La nostra forza è la presenza costante, essere a completa disposizione di tutti in qualsiasi momento – spiega con orgoglio Walter – cerchiamo di farci trovare pronti quando ce n’è bisogno». Un’attività a trecentosessanta gradi che va dalla distribuzione giornaliera dei pasti agli anziani, al trasporto per i disabili e all’assistenza agli ammalati, passando per la manutenzione delle zone verdi del paese e la gestione dei centri culturali. Quello di Walter è l’eroismo dei piccoli gesti, dove anche una semplice chiacchierata con una persona sola può diventare un atto di straordinaria generosità.«Per diverso tempo ho aiutato una signora anziana nelle piccole faccende giornaliere. Purtroppo lei era incontinente e si vergognava di questa condizione, perché aveva bisogno dei pannoloni. Un giorno l’accompagnai io a comprarli, perché questa cosa le creava veramente tantissimo disagio. Una volta acquistati, mi chiese di portarla a fare la spesa e volle regalarmi a tutti i costi un panettone. Mi ricordo che ci trattenemmo a parlare a casa sua per qualche ora e poi al momento di andarmene mi disse di aver passato la più bella giornata della sua vita. Quella stessa notte la signora morì. Quando ci penso ancora mi commuovo».
Walter e i volontari dell’Auser di Pieve di Cento non sono altro che il frammento di un mondo che in Emilia-Romagna vanta dei numeri straordinari e che negli ultimi dieci anni ha avuto una crescita imponente. Secondo i dati pubblicati a settembre dall’Istat riguardanti il 9° Censimento su “Industria e servizi, Istituzioni pubbliche e Non-profit”, il terzo settore dal 2001 al 2011 ha avuto un incremento del 27,2%, con oltre 25 mila enti e associazioni rilevate. Tra addetti, lavoratori esterni, lavoratori temporanei e semplici volontari questo settore può contare su un vero e proprio esercito di oltre 500 mila persone, impegnato in tutti gli ambiti del sociale: dall’assistenza agli anziani, allo sport e alla cultura, passando anche per ambiente e salute. Un vero e proprio gigante, una realtà talmente tanto radicata nel tessuto sociale regionale che più di un 1/8 della popolazione risulta essere a vario titolo coinvolta nel non-profit.
Ma che cos’è esattamente il Terzo settore, e come spiegarne lo straordinario boom? In breve, e senza pretesa di esaustività, dato che si tratta di una realtà in continua evoluzione, è il complesso di istituzioni che non sono né Stato, né mercato, soggetti di natura privata che producono beni e servizi per la collettività, siano essi associazioni di volontariato o di promozione sociale, cooperative sociali, Ong, eccetera. Secondo Stefano Zamagni, professore ordinario di economia politica dell’Università di Bologna ed esperto di terzo settore, l’esplosione del non-profit è soprattutto la conseguenza di un mutamento del modello di mercato classico, che però la società e la politica stentano ancora a percepire:«Spesso le spiegazioni che vengono date di questo fenomeno sono superficiali – spiega Zamagni -. La verità è che siamo in presenza, in Italia, come altrove, di una trasformazione del modello di mercato capitalista. Si sta passando da un modello di capitalismo centrato tutto sulla dualità Stato-mercato, a un modello tricotomico: Stato, mercato e società civile. Questo vuol dire che i soggetti della società civile hanno una rilevanza economica che in passato non avevano, perché in precedenza il non-profit era sempre stato redistributivo e aveva soltanto finalità solidaristico-assistenziali. La novità di questi 10 -15 anni – prosegue Zamagni – è che il non-profit si sta trasformando in soggetto produttivo, cioè produce valore aggiunto. Questo è il vero fatto nuovo di cui, però, non si ha ancora la percezione». Il terzo settore, insomma, smette i panni casual del semplice volontario per indossare giacca e cravatta. Il mondo non-profit non è più solo un insieme di generosi militanti, di encomiabili artigiani della bontà, ma si sta trasformando in un soggetto costituito da persone con competenze specifiche e capacità gestionali.
«Quelle del non-profit sono vere e proprie imprese che a differenza della Fiat, ad esempio, hanno il fine di soddisfare dei bisogni. La gente, però, è rimasta ancorata a un’idea del non-profit legata al semplice volontariato e non lo vede come un vero e proprio settore produttivo. Il boom degli ultimi dieci anni significa che in giro per l’Italia le persone non ne possono più, premono per andare in questa direzione». Secondo l’economista, l’ingresso della società civile come vero e proprio protagonista nel sistema economico, risponde anche anche a due problemi: il progressivo ritirarsi del pubblico e la crescente richiesta dei così detti “beni relazionali”. «Sicuramente la riduzione dell’intervento del settore pubblico nella società ha rappresentato una componente che spiega l’aumento del non-profit – chiarisce Zamagni -. Il progressivo ritirarsi dello Stato e delle Regioni dal welfare, per ragioni di finanza pubblica, ha stimolato una maggiore vitalità del terzo settore». Un ambito, quello del non-profit, che si sta sempre di più affermando come pilastro fondamentale della società moderna, una spina dorsale solida quanto invisibile che però riesce ad assicurare dei servizi che altrimenti sarebbero destinati all’oblio. «Ci sono tipologie di beni – spiega Zamagni – che né la formula pubblica, né la formula privata si dimostrano capaci di raggiungere. La più importante di queste categorie è quella dei “beni comuni”, come i beni culturali e ambientali. Questi beni – prosegue Zamagni – non possono essere gestiti in maniera adeguata né dal pubblico, né dal privato. Perciò interviene la società civile, con soggetti come le cooperative. Ad esempio, a Melpignano in provinca di Lecce, quattro anni fa è nata la prima cooperativa di comunità, un modello che non esisteva prima. Ed oggi le cooperative di comunità in Emilia-Romagna si stanno diffondendo a macchia d’olio, soprattutto nel reggiano, nel modenese e nel parmense. Perché per gestire determinati servizi, come l’energia elettrica, la raccolta dei rifiuti o la conservazione dei beni culturali, il pubblico non può più far niente, il privato non ha un interesse economico ad occuparsene e quindi ecco spiegata la nuova formula della cooperativa di comunità. Infine – conclude Zamagni – le persone ormai non si accontentano più di guardare il lato materiale dei servizi che vengono offerti, ma considerano anche il lato cosiddetto “spirituale”. Oggi le persone chiedono anche “beni relazionali”, oltre al servizio puro e semplice. Se vado in un ospedale, vengo curato, ma se vengo maltrattato non posso ritenermi soddisfatto del servizio offerto. Questo è un segnale che ormai le persone chiedono anche relazioni. Quanto più aumenta il bisogno di relazionalità, tanto più aumentano i soggetti non-profit che per loro scelta libera realizzano e soddisfano questi bisogni».
La sfida più importante per il non-profit oggi è trovare una quadra tra la necessità di essere un soggetto che opera sul mercato, e il non tradire la sua natura primigenia, solidaristica, come in parte è già accaduto al mondo cooperativo, uno degli assi portanti dell’economia emiliano-romagnola, e che pure fa parte del Terzo Settore. Paolo Mandini, dirigente di Coop Estense, oggi in pensione, ammette senza difficoltà che «il mondo cooperativo negli ultimi 10 anni ha subito una forte influenza del mercato. La crisi economica non ha certo esaltato la socialità, la mutualità e la solidarietà. Spesso sotto il nome di cooperativa arrivano cose spurie, i valori vanno verificati sul campo. La recessione, unita alla volontà di essere competitivi, si scarica sul costo del lavoro, anche se, sicuramente, rispetto al privato c’è un modo di procedere più sensibile. Un altro tema delicato e troppo spesso evitato è quello dell’organizzazione del lavoro, in una realtà composta in gran parte da donne». Mandini si richiama alla figura di Francesco I: «Alla luce di quanto sta dicendo questo papa, anche questo mondo deve ripartire dai suoi valori di base, quelli cooperativi, che sicuramente negli ultimi anni non hanno sempre brillato. Ancora e soprattutto in Emilia Romagna ci sono delle cose che vanno recuperate, e altre da rovesciare completamente, come Unipol». Secondo Mandini «bisogna vivificare un’identità, una diversità cooperativa, che oggi non è certo quella dell’immediato dopoguerra. Le cooperative nacquero per condizionare il mercato, non certo per farsene influenzare così pesantemente». Ma la sua analisi non si ferma alle criticità: «Terzo settore e mondo cooperativo, anche quello delle coop di consumo, che ufficialmente non ne fa parte, se uniscono le loro forze possono diventare un elemento dirompente, che può dare lavoro a molti giovani. Sono, a mio avviso, le risposte più moderne che si possono dare a una società in crisi valoriale, oltre che economica». Un rammarico, per Mandini, uomo storicamente di sinistra, è che «nel Terzo settore operano per lo più realtà di ispirazione cattolica, mentre la sinistra non se ne sta occupando un granché. Qui a Ferrara, ad esempio, Don Bedin con la sua associazione Viale K fa un lavoro enorme per i migranti, trovandosi spesso contro la gente del quartiere, che non si rende conto che col suo impegno disinnesca tensioni sociali altrimenti terribili».
Anche Luca De Paoli, portavoce del Forum Terzo Settore di Bologna, riconosce senza ritrosie che ci sono difficoltà a livello valoriale: “Posto che la partecipazione l’hanno persa tutti, la nostra strada è aprire il più possibile nuove relazioni affinché si recuperi da parte di tutti lo spirito originario. Certe questioni non sono un problema di soldi, ma di scelte. Nessun imbarazzo, quindi, nel tener dentro giganti come Legacoop, ma volontà di far sì che ci sia sempre più contaminazione. E’ pur vero che nelle coop più grandi qualcosa si è perso, è un problema culturale esistente. Si mantiene ben vivo, invece, in quelle più piccole, che spesso riescono a sopravvivere grazie alla tensione ideale di chi ci lavora”.
Il Forum bolognese è composto da 33 organizzazioni e dal Centro Servizi per il Volontariato (Csv).Ha un duplice obiettivo: mettere in rete, creando strategie e politiche comuni, strutture di natura diversa, ma tutte -almeno in teoria- incentrate sul benessere della persona più che sull’interesse economico; inoltre cerca di influenzare le politiche socio-sanitarie di Regione, Provincia e Comune. Riuscendoci: in Regione contribuendo alle scelte nella programmazione sociale e sanitaria, in Provincia con la creazione di un tavolo permanente di confronto, in Comune con la partecipazione ai piani di zona. Ma i rapporti con le amministrazioni pubbliche non sono sempre e solo idilliaci, anzi. Il Forum, in collaborazione con la Provincia di Bologna, ha prodotto uno studio sul ruolo e l’evoluzione del Terzo Settore nel nostro territorio, presentato il 10 ottobre scorso, in cui, tra le varie ricerche fatte, c’è anche un confronto tra il Patto per la sussidiarietà e i programmi di mandato degli stessi Comuni che l’hanno sottoscritto, per vedere se e quanto è presente la sussidiarietà. I risultati sono sorprendenti. In negativo, nel senso che il ruolo cardine svolto dal Terzo settore nel welfare locale in molti Comuni è da un lato riconosciuto sulla carta, mentre dall’altro questa consapevolezza non si accompagna ad azioni concrete che permettano un suo sviluppo. Il non-profit emiliano romagnolo, nella sua costante espansione, che pure non esprime ancora in pieno le sue potenzialità di sviluppo, è, insomma, chiamato in causa per assolvere a mille compiti, tutti importantissimi: risolvere le criticità ideologiche già presenti nel mondo cooperativo, sostituirsi al welfare pubblico a costo zero, dare nuova linfa ai valori della partecipazione e della solidarietà in un’era in cui il dio denaro li ha stritolati, fare rete per aumentare il capitale sociale della collettività.
Ancora una storia di un deportato e di un sopravvissuto ai lager nazisti. Ma quella raccontata nel libro di Andrea Carli Il caso Arpur, appena ripubblicato (gennaio 2014) in coincidenza del cinquantesimo anniversario della sua prima edizione, è significativamente diversa. Non si tratta di un deportato ebreo nei campi di concentramento tedeschi, destinato alle camere a gas e ai forni crematori. Michele Arpur, il protagonista, è invece un soldato italiano, fatto prigioniero di guerra all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, internato nello speciale lager di Hohenstein, dove fu sottoposto a un raffinato sadico esperimento di sfigurazione fisica e psichica inedito o per lo meno poco conosciuto, se non addirittura assente nella letteratura postbellica.
Sotto l’autoritratto a colori del pittore Andrea Carli, riprodotto nella copertina del suo libro, si intravvede il ritratto in bianco e nero del viso sfigurato del protagonista della storia raccontata nelle sue pagine. Tutto fa ritenere che l’autore dell’immagine e del libro, Andrea Carli, e il protagonista della storia narrata, Michele Arpur, siano la medesima persona. Ciò che Andrea scrive di Michele non può non averlo vissuto lui stesso. E ciò che Michele vive e soffre può raccontarlo e scriverlo solo uno che ha vissuto e sofferto le medesime brutali sevizie.
Tuttavia l’autore non ci aiuta mai sino alla fine a segnare con esattezza i confini della realtà storica da quella del racconto romanzato. E noi non riusciamo a comprendere quanto sia finzione letteraria e cosa resta della nuda verità storica vissuta. Io mi sono lasciato trasportare da una lettura e da una interpretazione libere. Come lettore e recensore del libro, nella mia interpretazione, forse mi sono spinto oltre la realtà ed ho “trasfigurato” oltre il limite l’immagine del protagonista del libro. Per riportarla alla sua reale dimensione, ritengo giusto riportare qui la precisazione che mi ha fornito, dopo la lettura in anteprima della mia recensione, il dottor Pierluigi Lisco, marito di Rossella Carli nipote di Andrea: “Devo precisare che lo Zio Andrea Carli è stato un internato militare nel campo di Hohenstein subendo fame, freddo, umiliazioni e riportando anche una frattura con amputazione di parte di falange della mano destra per un incidente occorso durante i lavori forzati, ma l’esperimento nazista non ha riguardato la sua persona, anche se è tornato a casa pesando 40 chili per un’altezza di un metro e 72. Non sapremo mai se quell’esperimento nazista sia esistito realmente su qualche deportato o sia solo una metafora del romanzo. Sicuramente Carli-Arpur-Anselmi metaforicamente sono la stessa persona.”
Quando inizi a leggere “Il caso Arpur” non riesci a smettere. La storia ti avvince e rapisce, la scrittura ti afferra e ti sequestra fino a quando non sei arrivato fino in fondo. Al termine, rimani senza fiato, senza parole, con una folla di emozioni e reazioni che non riesci a diluire per giorni e giorni. Vorresti che fosse solo letteratura, romanzo, invece è storia, la cui insensatezza è tale e talmente incomprensibile da farti dubitare della verità della vicenda narrata. Ti rimane una tristezza infinita e una rabbia inestinguibile. Inaccettabile e insopportabile soffrire per sevizie crudeli e per un’ingiustizia totalmente gratuite!
A Michele Arpur i nazisti sfigurarono il volto, mutandone la fisionomia, e menomarono il fisico con un inimmaginabile diabolico sadismo, rendendolo claudicante. Alterando in questo modo i tratti fisici, pensavano di riuscire a mutarne anche la personalità, producendone la irriconoscibilità e la cancellazione della memoria di se stesso a se stesso e successivamente alle persone conosciute in precedenza, ma soprattutto innestando in questo modo nella sua psiche processi che avrebbero dovuto potare alla perdita della propria identità e alla pazzia. Piano, sebbene solo in parte, tragicamente riuscito.
Al rientro dalla prigionia (1948) non fu, infatti, riconosciuto da nessuno. Per la moglie, la madre e gli amici era impossibile o per lo meno molto difficile riconoscere Andrea sotto la sua nuova maschera facciale, nella sua curva e claudicante andatura prodottagli appositamente dall’accorciamento di alcuni centimetri del femore, e nemmeno più nella sua grafia, anch’essa risultata irrimediabilmente alterata in seguito alla singolare operazione di irrigidimento dell’indice e del dito medio. Ciò che i nazisti non riuscirono a eliminare, modificare e piegare furono la sua singolare intelligenza, che traspariva dalle pagine del suo diario, e la sua irriducibile dignità personale. Il raffinato e diabolico piano di manipolazione dei nazisti non la ebbe vinta sino in fondo. Andrea, alias Michele, non si arrese neanche di fronte alla condanna alla pazzia comminatagli dai medici dell’ospedale psichiatrico di Treviso. La sua dignità non venne meno neanche davanti al rifiuto di riconoscimento dei propri cari e degli altri. Essi, salvo eccezioni, credendolo con certezza morto, lo sospettarono addirittura di gioco ingannevole e di pazzia.
La sfida più grande per Andrea era salvare la propria integrità mentale e la propria identità. Fu spesso sul limite di perdere l’una e l’altra, come quando, nella piazzetta vicino casa a Venezia, avvertì quella stranezza di non essere nessuno o quando, come al tempo della visita al cimitero di Fullen, gli parve di sentirsi pirandellianamente se stesso e un altro di se stesso.
Questa multipla e frammentaria identità di se stesso, sembra in un preciso momento definitivamente ricomporsi. Accadde quando, attraversando come al solito la piazzetta della chiesa della Salute, inaspettatamente si sentì chiamare per nome, Arpur. Egli istintivamente si voltò, e si trovò di fronte Anselmi che aveva sempre sospettato che dietro quella mutata andatura curva e claudicante e sotto quella mutata fisionomia si nascondesse il suo vecchio amico di università, Arpur. Al gesto di risposta di Andrea, Anselmi non ebbe più dubbi: “se voi non siete Michele Arpur, perché vi siete voltato?”. Fuori della finzione letteraria, quell’Anselmi è l’altro di se stesso di Andrea. Quell’incontro e quel riconoscimento non sono altro che il riconoscimento di Andrea di se stesso e l’incontro con se stesso. E’ il momento cruciale in cui Andrea si riconosce e si riprende la propria identità. L’insonne ricerca di se stesso, della propria identità, alla fine pare approdare alla verità di se stesso.
L’impegno culturale e le opere letterarie e pittoriche prodotte dopo la liberazione dalla prigionia di guerra, fino al 1990, anno della sua morte, appaiono tutti momenti e vie di ricerca di questa identità e della verità di se stesso. La produzione letteraria e artistica è la prova dell’avvenuto pieno autoriconoscimento di Andrea, del ritrovamento della propria identità e, al tempo stesso, della consapevolezza della singolarità delle propria storia e della volontà di lasciarne le tracce. Quest’ultima dovette imporglisi certamente come una sorta di imperativo etico, se si considera che Andrea come confermano le sue nipoti, Isabella e Rossella, presso la cui famiglia egli visse per trent’anni, era molto riservato e schivo a parlare di se stesso.
Si potrebbe quasi dire che attraverso la scrittura e la pittura, il volto di Michele Arpur, sfigurato fisicamente nel Lager nazista, alla fine riappare spiritualmente trasfigurato in quello di Andrea Carli scrittore, poeta, artista. La trasfigurazione non si risolve in metamorfosi, perché non riesce a modificare, cancellare o nascondere, come in una nuova operazione estetica, i segni cicatrizzati della sofferenza sul volto sfigurato di Michele. Rivela ed evidenzia invece i segni originari ineliminabili della personalità, dell’intelligenza, del talento artistico e, soprattutto, del senso della propria dignità di Andrea. L’ispirazione del poeta, la penna dello scrittore e il pennello del pittore l’hanno avuta vinta, almeno in parte, sul diabolico bisturi del sadico medico nazista. Andrea voleva forse dire proprio questo quando in un passaggio del suo racconto annota che i nazisti, nonostante tutti i tentativi di distruggerne la fisionomia e l’identità, “dentro non erano ancora riusciti a modificarlo”.
Non so quanti casi Arpur ci siano stati durante il periodo nazista. Dalle pagine del libro non si evince neanche se ci fosse un piano di sperimentazione nazista sistematicamente e rigidamente organizzato. Agli studiosi il compito di accertarlo.
Sono convinto però che quella di Andrea Carli non è e non può essere ritenuta una vicenda soltanto individuale. Il Caso Arpur, al di là della sua singolarità, potrebbe essere assunta a rappresentazione della storia delle generazioni che hanno vissuto, in vario modo, quel tempo di guerra, prigionia e crudeltà scatenate dal nazismo. Uscite provate nelle loro identità psichiche, culturali e sociali, hanno poi fatto fatica a recuperarle.
Il libro di Andrea Carli lascia spazio, poi, a sospettare anche di disegni razzisti ancora più inquietanti di quello dell’Olocausto: ristabilire la purezza della razza ariana eliminando, dopo gli ebrei, a mano a mano, anche gli altri soggetti “impuri” attraverso sistemi di alterazione e menomazione fisica e psicologica, come quello sperimentato col “caso Arpur”, in cui Andrea si è trovato tragicamente a fungere da cavia.
Le tracce che egli ha voluto lasciare nel suo libro appaiono allora anche un messaggio a non abbassare la guardia contro le rinnovate forme razziste di negazione e di manipolazione radicale degli altri. Al tempo stesso, il libro di Andrea Carli è un’ulteriore testimonianza storica indiscutibile contro tutti i tentativi di negazionismo ricorrenti dell’Olocausto e delle pratiche di crudeltà inumane del nazismo.
Riusciremo ad “abitare poeticamente la terra?”, si chiedeva Karel Kosík, filosofo della Primavera di Praga. Spesso sentiamo il desiderio di riappropriarci della dimensione umana e di volerci un po’ più di bene, ma generalmente predomina in noi la paura che la sorte dell’uomo sia tutta segnata dalla devastazione del mondo.
Ci sono dei luoghi però che potrebbero aiutare l’uomo a vivere meglio. Luoghi come l’agriturismo di San Patrignano “Vite” che si trova a Cerasolo sopra Rimini, e di cui vi voglio raccontare. Immersi nel verde, in un’oasi di pace, i ragazzi coltivano, producono e vendono prodotti biologici, primo fra tutti il vino (Aulente, Monte Pirolo, eccetera), ma anche farine di kamut, di segale impastate con lievito madre, formaggi fatti col latte munto in caseificio e stagionati in grotta, e carni (chianina, maiale brinato…). Le parole d’ordine sono biologico, no Ogm, presidio Slow food e chilometro zero. Il ristorante è una struttura moderna è molto accogliente. Quello però che mi preme riportare è l’ospitalità che ho trovato, e il sorriso (naturalmente biologico). Il sorriso, questo semplice gesto sempre più raro tra gli androidi impersonali che troviamo in fila alle poste o al supermercato. Il sorriso è stato il primo ingrediente che ho mangiato.
La struttura è gestita dalla comunità di San Patrignano e “Vite” significa le loro. “Vite, come la pianta che riveste le colline di San Patrignano. Vite, come le vite che rappresentano il centro della proposta educativa della comunità. Vite, che una volta erano emarginate e che qui ritrovano entusiasmo, passione e volontà di cambiare”. Hanno trovato il coraggio di ricominciare a crescere e progettare il loro futuro come cuochi, pasticceri e maître di sala, partendo dal sorriso.
Solo in un altro posto ho trovato gli stessi sorrisi, alla Città del Ragazzo di viale don Calabria. Tutti i ferraresi sanno dov’è, ma pochi conoscono la ricchezza che la abita. E’ una comunità educativa, un insieme di valori e di persone che cercano la seconda chance, aiutati dall’impegno e dalla professionalità di tutti coloro che vi operano fin dal 1973. La fede eventualmente è un utile optional.
Personalmente trovo rincuorante trovare il sorriso in questi luoghi. E sarebbe bello che in questo giornale venissero riportati spesso, magari aprendo una specifica rubrica, esempi come quelli descritti, che ci aiutino a vivere meglio. Sorridendo.
Tutto diventa personale: i menù, i gadget, i vestitini e i ciucci per neonati. Di personalizzazione dei prodotti si parla già da qualche decennio. Internet ha offerto a questa tendenza di lungo periodo un supporto decisivo: basta inviare nome e foto e tutto diventa immediatamente esclusivo.
Persino le notizie diventeranno su misura. Sommersi da flussi inarrestabili di informazione che produce crescente rumore e ansia, sentiamo il bisogno di selezionare le notizie in relazione ai nostri personali interessi. Possiamo decidere le notizie che vogliamo ricevere con le app che fungono da aggregatori di notizie. L’ultima app, lanciata da Zuckenberg si chiama Paper, un’applicazione mobile per costruire un giornale digitale, che integra le notizie dei grandi media con quelle social.
L’idea delle notizie personalizzate è stata introdotta nel 2010 da Flipboard, l’app in testa alle classifiche per la lettura delle news che possono essere condivise su 12 social network. Oggi ha 85 milioni di utenti in tutto il mondo, ogni mese sono consultate 7 miliardi di pagine di notizie provenienti dai principali media del pianeta. A fine gennaio è entrata in campo Aol, un gruppo mediatico che controlla grandi siti di informazione, come l’Huffington Post. Per proporre notizie su misura, Aol ha comperato Gravity, che ha sviluppato l’Interest Graph: un algoritmo che traccia in tempo reale gli interessi degli utenti in base alle navigazioni.
Tutto ciò ridefinisce il modo in cui gli utenti accedono all’informazione e offre ulteriori canali di penetrazione commerciale. La personalizzazione rende più facile l’inserimento di pubblicità mirata nel flusso delle notizie, soprattutto per raggiungere il pubblico di giovanissimi ormai sempre connessi tramite dispositivi mobili.
Le tecnologie intercettano e fanno emergere tendenze sociali: non abbiamo più interesse per le notizie che qualcuno confeziona per noi e vogliamo ricevere solo le notizie che siamo interessati a commentare. Ricerchiamo vie per essere protagonismi, abbiamo perso fiducia nelle fonti ufficiali, mettiamo al centro delle nostre conversazioni le nostre personali passioni e vogliamo riconoscerci all’interno di particolari gruppi. Così tentiamo di ricomporre la dicotomia tra osservatori e osservati, tra fatti pubblici e giudizi personali, tra informazione e comunicazione, tra fatti e interpretazioni. Notizie personali proposte in pubblico e notizie pubbliche personalizzate; una contraddizione solo apparente che sta ad indicare come la posta in gioco sia sempre la stessa: l’identità.
È possibile un ecosistema di reti in cui vivranno specializzazioni in grado di rispondere a domanda e target diversi: in crescita social come Instagram che permettono di trasmettere attraverso scatti fotografici, emozioni istantanee e Foursquare che consente di fare incontrare fisicamente le persone, confermando l’intreccio della rete con il mondo reale. Del resto, le connessioni sono ormai mobili, come lo è la nostra vita. In Italia dei 26 milioni di persone che accedono almeno una volta al mese a Fb, 16 lo fanno da mobile.
Due altre tendenze vanno emergendo. La prima è la tendenza all’integrazione dei social: il 42% di coloro che usano Fb adotta più social. La seconda è la ricerca di conversazioni, almeno in parte, private, come indica l’impetuosa crescita di servizi come WhatsApp.
Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it
Nella Toscana e a Firenze finalmente ritornata alle gloriose giornate di primavera di un tempo, quella che mi ricordavo lungo il percorso ormai annoso dei miei soggiorni fiorentini, sono accolto da una serie di notizie “cattive” che sembra siano divenute lo sport nazionale invano contrastate dallo stormire profumato dell’immenso albero di mimosa nel giardino di via degli Alfani dove per anni ho svolto le mie lezioni.
E così nel giorno dedicato alle donne a cui questo fiore è consacrato ecco le notizie dei femminicidi, delle distruzioni di famiglie dove madri e padri uccidono i figli con cattiveria e determinazione. Ecco che sui giornali e sui media campeggiare l’immagine del David michelangiolesco, estremo omaggio al corpo adolescente di un profeta nudo armato solo della propria bellezza che qualche infame produttore d’armi deturpa con un’ oscena arma che avvilisce ma non sconfigge la grandezza dell’arte. Nemmeno l’uso spregiudicato dei gessi canoviani a cui si strusciavano belle ragazze in “intimo” raggiunge la grottesca e dolorosa immagine del David armato. Poi il disgustoso scambio di offese crudeli tra i pentastellati e tutto ciò che ha a che fare con un uso normale della democrazia e delle sue leggi. E per concludere gli insulti volgari con cui alcuni personaggi doverosamente nascosti dal loro nickname commentano in un giornale online il malore che ha colpito il neo ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Una miseria etica prima che politica e culturale che ci avverte quanto siamo vicini al punto di non ritorno nello svolgimento di una corretta forma di democrazia.
La cattiveria diventa perciò lo strumento irrazionale con cui si reagisce a una situazione assai critica (e non a caso su una stazione radiofonica regionale toscana disperatamente si declina una canzone in cui l’Italia appare come “il paese delle mezze verità”) che porta alla protesta affidata a questa forma di giudizio. Se il cattivo è l’antitesi del buono sembrerebbe che per contrastare questa forma di protesta basti affidarsi al suo contrario. Ma dove reperire il “buono” se si fa di tutto per ignorarlo o per umiliarlo? Eppure c’è nonostante il preponderante uso della “cattiveria”. C’è in tantissimi ragazzi che incontro nelle scuole ma che non osano esprimersi troppo apertamente per non essere oggetto dalla forma più odiosa di cattiveria che è il bullismo, c’è nella disperazione con cui tanti giovani stringono i denti e svolgono il loro apprentissage universitario nonostante sappiano quale sarà il loro futuro. Sembrano luoghi comuni appunto perché declinati in una specie di mantra esorcizzante che però non si applica alla realtà nella sua infinita bruttezza e cattiveria.
Non si vuole con questa riflessione indurre a una sconsolata presa di coscienza dell’inutilità dello sforzo, ma invece lanciare ancora una volta un appello alla consapevolezza di un atteggiamento etico che trova la sua prima e fondante premessa nell’accostarsi alla politica come necessario mezzo di accesso a una democrazia non bacata e non “cattiva”. Certo non ignorando quanto si sia sprecato in decenni di camuffamento dell’eticità tra un B. e un G. che ancora vorrebbero negare l’urgenza e la necessità di un rimedio unico ai mali che naturalmente non può essere affidata alla cattiveria. Almeno da coloro che non si sentono “itagliani” ma italiani.
Un incontro casuale fra due ex amici che si parlano con gli schemi un po’ ingenerosi che hanno conservato l’uno dell’altro. In comune hanno un luogo conosciuto in passato, basta poco a rievocarlo, a richiamare le persone di cui ormai non si sa quasi più nulla. Un balzo all’indietro, al ricordo di un’esperienza di anni prima, a quando Lorenzo La Marca non era ancora laureato e da studente ricercatore di biologia fu incaricato di prendere il mare. Blues di mezz’autunno (edizioni Sellerio, 2013) di Santo Piazzese è l’evoluzione, come spiega l’autore nella nota finale, di un racconto scritto nel 2001 e che, alla fine, è diventato un romanzo con protagonista il giovane Lorenzo La Marca, personaggio dei romanzi I delitti di via Medina Sidonia e La doppia vita di mister Laurent.
Il viaggio di un universitario alla ricerca di materiale per uno studio scientifico è un’avventura nel mare della Sicilia tra un equipaggio di pescatori mai visti. L’obiettivo della raccolta dati sui tonni è superato dal fascino dell’ignoto e dall’approdo in un luogo sconosciuto che diventa nuova e attraente meta. L’arcipelago Spada dei turchi, che di per sé non esiste, è un’isola che non c’è dove i turisti ritornano, dove è possibile ogni forma di contrapposizione, prima fra tutte quella delle apparenze.
La prima parte del romanzo è dedicata alle settimane in barca, occasione per stringersi a lupi di mare, uomini di altre culture e religioni, spaesarsi un po’ per poi ritrovarsi in una nuova terra.
La Spada ha fascino, i suoi luoghi muti sono da scoprire, chi la popola chiama ‘gli stravaganti’ gli stranieri che arrivano. Oltre l’immensità del mare, si trova questo arcipelago dal nome così esotico che vive di ritualità, periodi deserti e turisti. La Marca ne è attratto, lui cittadino colto è immediatamente benvoluto dalle poche persone che popolano la Spada. Fra questi, i gestori del bar Edelweiss, nome strano per un posto di mare sperduto. La Spada stupisce per la sua ricchezza, non è vero che non c’è nulla: dalla Spada si può osservare “un pezzo di universo”. Santo Piazzese mette tutta la sua Sicilia, quella dei sapori del cibo e del mare e di tutti i colori possibili.
Dal terrazzino dell’Edelweiss, La Marca trascorre giornate di accidia, uno stato d’animo di necessità alla Spada, non un vizio capitale, ma un “assecondare attivo di una spinta all’introspezione e non il vizio della contemplazione di sé”.
In Blues di mezz’autunno non ci sono morti ammazzati e casi da risolvere tra i corridoi dei laboratori di ricerca, come negli altri romanzi con protagonista La Marca, c’è solo un momento di paura collettiva alla Spada, un’apparente disgrazia presto risolta.
Il posto è piccolo, tutti sanno tutto di tutti, non c’è anonimato dietro cui nascondersi almeno un po’, ciascuno ha un passato che gli altri conoscono, anche La Marca che entra a pieno in questo microcosmo lento e assolato. E la notte cala, l’ultima, mentre La Marca, arrabbiato perché forse qualcosa nella sua vita sta cambiando, legge un ‘romanzone’ di Amado.
Se è vero che Nicolò Leoniceno (1428-1524) nacque a Vicenza, e non a Lonigo come erroneamente ritenuto per lunghi anni, è altrettanto vero che morì poco meno che centenario a Ferrara, città nella quale si era trasferito a soli trentasei anni e dove visse e insegnò pressoché ininterrottamente per ben sessant’anni. Prima di approdare nella città estense, Leoniceno aveva studiato all’università padovana, laureandosi venticinquenne in Arti e Medicina. In seguito, trascorse qualche tempo in Inghilterra, quindi insegnò a Padova fra il 1462 e il 1464, sempre dovendosi riguardare attentamente dalla fastidiosa epilessia che lo tormentava sin dall’infanzia.
In quei suoi primi anni ferraresi, Nicolò fu medico di corte, e le sue prime opere riguardano la volgarizzazione di scritti di carattere storico o di gesta militari commissionate da Ercole I, cui seguirono traduzioni da Diodoro Siculo, Arriano, Appiano, Polibio, Luciano, Biondo. «A Ferrara, – scrive lo studioso Daniela Mugnai Carrara – Leoniceno organizzò la propria vita occupata metodicamente fra i suoi studi, gli impegni alla corte e quelli all’università, dove insegnò prima matematica, poi filosofia morale, quindi medicina. Si inserì profondamente nella tradizione culturale ferrarese, della quale rappresenta un momento originale e importante». Il Leoniceno divenne, nel corso della sua lunghissima permanenza, molto popolare a Ferrara, basti pensare che lo stesso Brasavola (suo affezionato allievo insieme al Manardo) ricorda che, siccome durante l’inverno portava il cappello, la gente era solita dire: «Ve’ il Leoniceno imberrettato, è dunque vicino l’inverno; ve’ depose il cappello, si avvicina dunque l’estate».
Le sue opere, di genere medico/botanico e zoologico, sono: De Plinii et plurium aliorum medicorum in medicina erroribus, De tiro seu vipera, De dipsade et pluribus aliis serpentibus, De epidemia quam Itali morbum gallicum, Galli vero neapolitanum vocant, De virtute formativa. Celeberrime sono inoltre le sue traduzioni da Galeno: Praefactio communis in libros Galeni a graeca in latinam linguam a se translatos, Contra suarum translationum obtrectatores apologia, Ad Card. Alexandrum Farnesem Nicolai Leoniceni in suam ac Deodori Gazae defensionem contra Adversarium Libellus (inedito), De tribus doctrinis ordinatis secundum Galeni sententiam, Medici Romani, Nicolai Leoniceni discipuli, Antisophista. E a tutto questo bisogna almeno aggiungere la sua preziosa traduzione degli Armonici, di Tolomeo.
«Alla base del suo magistero ci fu senza dubbio un vivissimo interesse nei confronti dell’uomo; – commenta ancora Daniela Mugnai Carrara – a questo atteggiamento […] si possono ricollegare le sue preoccupazioni metodologiche, che da un lato […] lo portano a concepire il sapere come continua ricerca di una cultura concreta, che evitando quisquiglie sofistiche, possa avere utile applicazione nella vita degli uomini, e dall’altro lo inducono, proprio per garantire la fecondità di questo sapere, a mantenere un atteggiamento di libertà nei confronti dell’autorità, sia essa rappresentata dall’opera di Aristotele, di Plinio, di Galeno, che deve essere controllata non solo sul metro delle proprie fonti, ma anche su quello indispensabile del senso dell’esperienza».
Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013
Nel giorno dell’atteso concerto Trans-Jectoires Improbables che si terrà questa sera al Teatro De Micheli di Copparo, vi proponiamo la video intervista a Sara Ardizzoni, in arte Dagger Moth, l’unico componente femminile del trio che oggi salirà sul palco.
Abbiamo scelto Sara per tanti motivi. Innanzitutto perché è brava.
Poi perché è un peccato che i ferraresi si accorgano sempre dopo gli altri dei talenti che hanno in casa.
Inoltre perché Giorgio Canali (ex chitarrista dei Cccp/Csi/Pgr e oggi Rossofuoco) e Alfonso Santimone (pianista di fama internazionale), gli altri due musicisti che si esibiranno, non hanno bisogno di presentazione.
E ancora perché senza il disco di Sara al quale entrambi hanno collaborato e che ha ispirato il direttore artistico dell’evento, Davide Pedriali, forse questa serata non ci sarebbe mai stata.
Infine perché l’8 marzo è la festa della donna, e per questa volta gli uomini si devono fare da parte.
TRANS-JECTOIRES IMPROBABLES Le traiettorie si possono percorrere anche in senso contrario, il tempo mai.
Giorgio CANALI Alfonso SANTIMONE e Dagger MOTH LIVE IN CONCERTO Data unica: sabato 8 Marzo 2014 ore 21 TEATRO COMUNALE DE MICHELI – COPPARO
Ingresso offerta libera
L’intervista a Sara Ardizzoni è durata di più dei dieci minuti di filmato che vi abbiamo proposto. Qui potete leggere tutto quello che non c’è nel video.
“Mio padre mi ha sempre chiesto di suonare. Quando lui ha smesso di chiedermelo, ho deciso che era il momento di iniziare.
Fin da piccola ho ascoltato tanto blues, tanto jazz, tanto rock, poi da adolescente ho conosciuto il punk, hard core, grunge, dark e quant’altro. Da qualche anno a questa parte è molto più semplice, ma all’epoca, vent’anni fa circa bisognava essere curiosi, andarsi a cercare le cose, leggere, documentarsi. Quindi fino all’adolescenza come ascolatrice sono stata piuttosto onnivora, però ho sempre avuto una predilezione per i chitarristi ed i brani strumentali.
Non mi ha mai interessato fare cover, ho fin da subito composto cose mie.
La mia prima formazione sono stati i Pilar Ternera.
Poi ci sono state le Sorelle Kraus, gruppo punk rock femminile.
Infine i Pazi Mina, con i quali ho anche inciso un album.
Da quando ho avviato il progetto solita Dagger Moth ho suonato un po’ in giro per tutta l’Italia. Dalla Puglia al Friuli, al Piemonte, passando per Roma e varcando i confini per andare in Croazia.
Quando ho passato i primi provini dei brani a degli amici perché li ascoltassero, sembrava che il comune denominatore fosse l’atmosfera notturna un po’ scura ed ho cercato di immaginare un nome che avesse a che fare con questo mood. Così mi sono venute in mente le falene e guardando i vari esemplari, ne ho trovata una che sia chiama appunto Dagger Moth dove moth significa prorpio falena, quindi qualcosa di esile e delicato e dagger significa pugnale, perché sulle ali ci sono dei disegni che lo ricordano, e mi piaceva questo accostamento, così ho scelto il nome.
Il lavoro all’album è durato sei, sette mesi.
Alla base l’idea di darsi dei limiti, perché quando ti ritrovi da solo ti si apre un mondo dove puoi fare tutto e niente soprattutto con le tecnologie che sono disponibili oggi però l’idea era quella di fare qualcosa che da sola, dal vivo, sul palco io riuscissi a gestire.
Quindi nelle prime bozze che ho registrato qui in casa, non dovevo abbondare in sovraincisioni e arrangiamenti, perché poi ti viene voglia di usare strumenti virtuali, campionare tastiere, percussioni, però poi una volta che sei dal vivo o paghi l’effetto karaoke del tipo che spingi un pulsante metti su la base e ci suoni sopra e non era quello che volevo, oppure ti tocca stravolgere e fare un live che non c’entra niente con il disco che vai a registrare.
Io ho seguito il tipo di procedimento inverso, cioè: che tipo di live voglio proporre?
In base a quello ho strutturato e arrangiato i pezzi e registrato il disco poi mi sono data dei limiti tecnologici, del tipo: di cosa ho bisogno per fare queste cose? Di un certo numero di pedali che chiaramente ho scremato dalla quantità di cose che ho accumulato in questi anni suonando.
E poi di una loop station abbastanza potente che potesse campionare live ma supportare anche campioni preregistrati piuttosto che fare mille cose in mille modalità diverse.
Chiaramente l’utilizzo di questi strumenti comporta anche mesi di studio e di prove per capire come gestirli, come funzionano, perché alla fine sono anche apparecchiature piuttosto complicate, che richiedono letture di manuali, cose non troppo divertenti che però alla fine si sono rivelate necessarie e utilissime.
Questo disco non è un concept album ma è stato ispirato da un aggregarsi in maniera disordinata di idee che avevo represso, messo in un angolo, di idee nuove anche a livello di testi, che io
scrivo in inglese.
Non c’è un filo conduttore, ma si rifanno quasi tutte al piano personale, momenti di vita vissuta ricordi, impressioni, paure, ansie legate ad ambiti affettivi piuttosto che al posto dove vivo che è Ferrara, alla fine sono sempre stata qui, pur spostandomi di frequente.
A livello strumentale ci sono cose molto varie, magari suoni che tendono più al noise quindi distorsioni, effetti, momenti più densi proprio a livello sonoro e altri suoni più puliti più fini più fragili: un insieme di lati opposti che penso tutti abbiano.
Ci sono 12 brani tutti piuttosto variegati ma spero uniti da uno stile abbastanza riconoscibile.
Si apre con un brano abbastanza lungo che alcuni hanno definito una suite perché dura sui 6, 7 minuti. Magari è un po’ inusuale di questi tempi. Ha un’intro ed un’outro strumentali piuttosto corposi e una parte centrale cantata molto più esile e poi si va avanti con un brano che magari ha delle punte anche di elettronica seppur minimale.
E poi ci sono cose molto diverse, da riferimenti a certi ascolti di blues, fino a un certo tipo di psichedelia legata, non so, ai Pink Floyd, per dire nomi molto noti.
Un altro brano è tutto strumentale, pulito, dalle atmosfere piuttosto tese e ritmate, spesso mi dicono che ricorda Robert Fripp anche se di base non è uno dei chitarristi che preferisco
L’idea adesso è di portare avanti questo progetto solitario più che solista, anche perché il disco è uscito neanche un anno fa e penso che possa crescere.
Voglio continuare a muovermi da sola, infatti spesso mi dicono: su questo brano sentirei una batteria, piuttosto che un basso, piuttosto che altri strumenti. Però questa non è una scelta che ho fatto alla cieca, era voluto e quando mi dicono che anche dal vivo riesco a sorreggermi in questa veste è una grande soddisfazione anche se è piuttosto rischioso chiaramente perché di base quando posso suono anche un’ora, un’ora e un quarto. E’ un set un po’ complicato perché in realtà avvalendomi di tutta una serie di apparecchiature che governo con i piedi, prima fra tutte la loop station, devo cantare mentre suono magari faccio cose anche un po’ intricate nel frattempo con i piedi avere l’indipendenza di gestire senza pensarci troppo tutta una serie di cose e quindi anche un gioco spesso di precisione che spero poi non vada a far pesare troppo il lato tecnico su quella che può essere la naturalezza o l’emotività dell’esibizione”.
Una donna, una miniera. La voce di un mondo chiuso e ferite ancora aperte. Una lunga notte senza fine, senza stagioni, senza tempo. Un lavoro secolare che è orgoglio, maledizione. Chilometri di gallerie. Buio. Uomini neri. 150 minatori, gli ultimi, pronti a dare guerra al mondo “di sopra” per scongiurare una chiusura ormai imminente. E, con loro, Patrizia, l’unica minatrice in Italia che dialoga con un padre morto, un ricordo mai sepolto.
E’ questa la sinossi di “Dal Profondo”, il film di Valentina Pedicini, girato interamente 500 metri sotto il livello del mare, in Sardegna, nelle miniere del Sulcis.
Abbiamo intervistato l’autrice e regista, a Roma, al Teatro Elsa Morante, nell’ambito della Rassegna Cinema di Periferie, ideata e curata dalla Direzione Cinema del MIBACT.
“Dal profondo” è stato premiato come migliore documentario italiano al Festival internazionale del cinema di Roma ed è Menzione speciale ai Nastri d’Argento 2014.
Valentina, il tuo film sembra raccontare di un mondo chiuso, quello della miniera, e di ferite ancora aperte, quelle dei minatori del Sulcis in Sardegna. E’ così?
Sì, credo che questa sia una sintesi perfetta: “Dal Profondo” è un mondo chiuso e una ferita ancora aperta. Mi riferisco sia al film che alla situazione che ho trovato quando ho deciso di girare un documentario su questo tema. La miniera è un mondo chiuso, perché è un mondo cristallizzato, che è rimasto in qualche modo fermo a un secolo fa, nonostante le innovazioni tecnologiche. E’ un mondo in cui, per sua costituzione, il passare del tempo non esiste. Scendere in miniera significa scendere in un luogo strano, dove il passato si confonde continuamente con il presente. Ed è una ferita aperta perché non c’è un futuro. Dal punto di vista lavorativo perché il carbone appartiene al passato e anche la miniera dove ho girato il film, l’unica miniera d’Italia, è a rischio chiusura ogni giorno, ormai da dieci anni. E, ancora, è una ferita aperta perché nonostante il legame dei minatori con il mondo che hanno costruito è un posto dove ci si augura che nel 2013 non debba lavorare più nessuno.
Perché hai scelto Patrizia, una donna, come narratrice e file rouge del tuo viaggio nelle viscere della terra?
Ho scelto di seguire Patrizia in questo viaggio al centro della terra un po’ perché il primo rapporto umano che ho avuto, quando sono scesa in miniera, è stato con lei. E’ stata una vicinanza immediata, una solidarietà al femminile. E, visto che quando si gira un documentario, il rapporto con le persone è uno degli aspetti fondamentali per portare a casa un film eticamente giusto, Patrizia è stata scelta non solo perché è l’unica minatrice donna, ma anche perché è un po’ la minatrice del mio cuore, se così posso dire.
Patrizia è l’unica donna minatrice d’Italia, un’unicità che si fa paradigma?
Sì, in realtà in miniera ci sono anche altre donne, però lavorano in superficie. Patrizia è tecnicamente l’unica donna che scende nel sottosuolo. E, sicuramente, dal punto di vista della regia il fatto che lei conosca così bene la miniera, la sua storia di figlia di un padre minatore morto per la silicosi, mi è sembrata subito una storia paradigmatica. La sua è la storia di tutti i minatori che ho incontrato, una storia che racchiude l’unicità di un lavoro declinato al femminile con la capacità di raccontare tutta la Sardegna. Poi, anche se forse le metafore sono un po’ banali, la miniera dà la sensazione di un antro materno, di una donna, di una madre, quindi mi sembrava interessante che fosse una donna a raccontare. A un’altra donna.
Il tuo non è un documentario di denuncia, piuttosto un poetico ritratto della dignità dei minatori, che tu definisci guerrieri.
Sì, è questo il cuore del film dal punto di vista cinematografico. Non volevo fare un film di denuncia, non volevo fare un reportage televisivo e non volevo fare neppure un film politico in senso stretto. Volevo fare cinema e raccontare in modo duro una realtà, che è per lo più sconosciuta. Sono partita con questa idea molto forte e molto rischiosa con cui ho dovuto fare i conti perché mi sono trovata fra le mani una storia bomba, che avrei potuto far esplodere per un mio ritorno personale. Invece ho scelto fin da subito di fare cinema, di fare un film non sui minatori ma con i minatori. Questa è la sfida del mio lavoro: tentare sempre di fare un film “con” le persone, non “sulle” persone.
Vuoi dire che, come regista e come donna, avverti il pudore di mettere in piazza le anime degli altri?
Assolutamente sì. Quando scrivo e giro, non dimentico mai che ho per le mani della materia viva, pulsante, delle esistenze, delle vite. E che c’è una linea di confine che deve essere assolutamente rispettata. In più, in miniera, ho avuto a che fare con persone davvero speciali, che mi hanno regalato la più grande vittoria quando mi hanno detto che il film ha restituito loro la dignità di essere minatori. Questo vuol dire che il mio lavoro ha avuto un senso. I minatori sono gli ultimi guerrieri del sottosuolo, dei combattenti. L’occupazione che hanno vissuto è solo una piccola battaglia, se confrontata con la guerra che combattono ogni giorno. E questo mi ha aiutato a fare un film poetico, epico più che politico.
Che cosa ti porti via dalla miniera?
Mi porto via sicuramente l’esperienza umana condivisa con i minatori. Non è retorica, vivere così profondamente per tre anni insieme a loro mi ha cambiato umanamente e me ne rendo conto anche in alcuni episodi della mia vita normale. Ad esempio, a volte esco, mi fumo una sigaretta al sole ed ecco che con me ci sono anche loro, in 150, a mangiarsi polvere di carbone, 500 metri sotto terra. Nella mia vita ci sono 150 esistenze in più, di cui io mi ricordo e spero che chi veda il film possa ricordare che ci sono 150 persone, che fanno questo lavoro e vivono in queste condizioni. Dal punto di vista della regia, mi porto via il grande privilegio, voluto cercato e per cui ho combattuto, di aver girato in un luogo ostile, difficilissimo a cui pochissimi hanno avuto accesso e in cui pochissimi si sono permessi di fare cinematograficamente e tecnicamente quello che abbiamo fatto noi, lavorando duramente anche fisicamente.
Che cosa hai lasciato là?
Fare un film che è ha richiesto una lavorazione di tre anni significa investire la propria vita, sia dal punto di vista umano che lavorativo, significa fare un percorso come persona e come regista e quindi lasciare molto di se stessi. Che cosa lascio? Sicuramente un pregiudizio perché io sono arrivata con la stessa domanda di tutti in testa: come è possibile che voi lottiate per un posto di lavoro così terribile? E come ogni straniero che arriva, avevo un pregiudizio e ci ho messo tantissimo tempo a capire come si fa ad amare un posto così. Poi sono stata in miniera e ho capito che non è solo una questione lavorativa, non è solo la paura isolana dei sardi di allontanarsi dalla propria terra, non è solo una questione economica, ma che si ha a che fare con un luogo stranissimo, che crea una dipendenza anche fisica e psicologica. In più, quel mondo loro lo hanno costruito, lì sotto ci sono i loro genitori, i ricordi dei loro nonni, le loro infanzie e quindi ho imparato che quando racconterò la prossima storia avrò meno pregiudizi in generale. Poi ho lasciato tanto cuore. Io sono molto legata ai minatori e devo dire anche alla miniera fisicamente. Anche io sono uno di quelli che ha sentito il fascino stranissimo di quel posto, il mal di miniera, e quindi ho lasciato la voglia di tornare, anche se non so in che forma. Mi sento cambiata da questa esperienza e quando un lavoro ti cambia vuol dire che hai al tempo stesso un grande privilegio e una grande responsabilità.
E’ difficile per un uomo, per un Sindaco, esprimersi sul significato dell’8 marzo, tra il rischio di cadere nella retorica e quello di apparire troppo istituzionale o, peggio, superficiale. Ma è doveroso correre il rischio, è doveroso fermarsi e ragionare, oggi, sul senso autentico di una giornata che deve ricondurci ai motivi veri, e lontani, per cui venne istituita. Che deve richiamare l’attenzione sui temi che riguardano la donna, facendo in modo che diventino centrali nella nostra agenda politica, locale e nazionale, andando oltre l’8 marzo. Tanto per cominciare, non chiamiamola Festa della Donna, perché tale non è. E’ una celebrazione internazionale che ricorda le lotte delle donne, fin da inizio ‘900, in America come in Europa, per difendere i loro diritti, di lavoratrici e di donne.
In una società che cambia tanto velocemente, il compito delle istituzioni è anche educativo e ci impone di saperci rivolgere a più livelli di interlocutrici. E di interlocutori. Alle donne adulte che hanno combattuto per il diritto al lavoro, alla salute, alla propria libertà individuale, e conoscono bene, fin nelle viscere, il significato vero dell’8 marzo. Alle generazioni intermedie, delle quarantenni, che hanno avuto certamente più strumenti delle madri per vedere riconosciuto il proprio ruolo nella società e lo rivendicano. Alle giovani donne, che certi diritti li danno per acquisiti, scontati, e forse nemmeno conoscono o forse addirittura si chiedono il senso di una giornata internazionale che li celebra, tutti assieme.
E parlo del diritto al lavoro, divenuto una chimera in un mercato in cui le donne, pur a fronte di grandi responsabilità e carichi, continuano ad essere più precarie e meno pagate. Del diritto alla maternità, che la crisi allontana, costringendo le ragazze a scegliere tra i figli e il lavoro. Del diritto alla libertà, compresa quella di lasciare il proprio compagno senza pagare con la vita questa scelta.
I drammatici epiloghi che la cronaca ci consegna ogni giorno, gli episodi quotidiani di sopraffazione, non sono ‘problemi’ delle donne. La violenza è un problema della società ed è un problema con cui la comunità ferrarese si sta confrontando sempre più spesso. E’ con la volontà di non sottrarsi, è con questa coscienza che il Comune di Ferrara ha recentemente deciso di costituirsi parte civile a fianco della giovane ragazza rumena vittima di stupro. Il Comune le assicurerà assistenza legale, come è giusto che sia. Perché una donna che subisce violenza nella nostra città è prima di tutto una persona che subisce violenza all’interno della comunità in cui vive, e la sua sicurezza va tutelata.
Non è banale affermare che per evitare il rischio della disgregazione sociale che incombe, dobbiamo metterci tutti insieme, uomini e donne, a ricomporre e ricostruire i tasselli della nostra comunità. Ma non deve essere un dovere, un’imposizione, una fatica. Deve essere un orgoglio e prima ancora una responsabilità.
Il Comune di Ferrara continuerà a valorizzare il ruolo che le associazioni femminili hanno sempre avuto sul nostro territorio; la loro esperienza, il loro impegno verso la divulgazione dei diritti di genere e di una cultura dell’inclusione, si rivela fondamentale e ci permette di proseguire su questa strada, non di cominciare daccapo.
L’inaugurazione, nelle prossime settimane, de “La casa delle donne”, in cui si stanno ultimando interventi di ristrutturazione, è testimonianza concreta di questa continuità.
Una bellissima poesia di Wislawa Szymborska, Ritratto di donna, tratteggia la delicatezza e la forza che le donne esprimono.
Deve essere a scelta.
Cambiare, purché niente cambi.
È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena.
Ha gli occhi, se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Non è facile, non è impossibile, è sicuramente difficile, ma ne vale certamente la pena. Facendo mie queste parole, auguro un 8 marzo di riflessione a tutte le cittadine e ai cittadini di Ferrara.
Un singolare nanismo demografico nei sei Comuni dell’Unione “Terre e Fiumi”, può rappresentare anche una sfida ad una diversa crescita, per evitare la desertificazione delle terre “alte” di mezzo del ferrarese.
Se dal totale generale dell’ultima colonna togliamo gli stranieri residenti, che sono circa 1.700, il dato ultimo subisce una contrazione dei residenti indigeni di quasi 4.500 copparesi dell’Unione in dodici anni. Le proiezioni, a fine anno 2030, possono essere quantificate, stante la forte crescita, in valore assoluto, della parte alta della bottiglia demografica, in una perdita di oltre 6.000 indigeni, andando vicini ai 29.000 residenti. Cifre, quindi, molto preoccupanti, un’area, questa, unica e singolare, che perde continuamente colpi; il resto della provincia, invece, cresce o è stabile, sia nella classe prima di età che tra le forze attive, e con un buon livello di stranieri tra 8/10%.
Se poi entriamo nei dettagli dei sei Comuni del Copparese, analizzando le frazioni, in 14 piazze su 26 incontriamo piccolissimi numeri di unasingolare demografia, dove solitudini, isolamenti, abbandoni sono i risultati di una politica priva di iniziative di sostegno e di promozione dei borghi e dei mini agglomerati rurali. Delle citate 14, almeno 8 agorà saranno composte da poche decine di abitanti e prive di relazioni di convivenza.
Una decina di anni fa, una ricerca promossa dall’Ulivo nel ferrarese orientale, ed in particolare nel Copparese, evidenziò detti squilibri e propose anche alcune azioni che oggi non vediamo e che rimangono non solo attuali ma da percorrere. Per evitare diincrinare il modello attuale, andando sotto il minimo dei piccoli numeri si diceva:
1) le reti di protezione sociale dovranno essere assistite da luoghi di prossimità, dando peso alla sussidiarietà orizzontale;
2) attorno agli anni 2015/16 è probabile la rottura del sistema locale d’area;
3) serve rafforzare i nodi forti dei centri capoluogo, restringendo le maglie dei nano luoghi di cintura;
4) le persistenti debolezze strutturali portano ad una decrescita generalizzata;
5) la fortissima denatalità rende minimi i numeri nella sopravvivenza della corte 0-24;
6) la terza età diventa sempre più corposa e nella quarta età è elevatissima la presenza di nuclei mono-persona.
In questo tendenziale e consolidato quadro di contesto, occorre attivare politiche innovative, sia per rafforzare la natalità che per fare rete nelle piccole imprese, rilanciando alcune specificità produttive di territorio (pereti, riso, ortofrutta, agroalimentare, piccolo turismo rurale e d’acque, mercati di piazza, micro-meccanica e nanotecnologie, centri storici e borghi con un commercio di servizi, e altro).
Correanche voce che di questo territorio serve farne un “grande parco”, uno sguardo del fuori porta della città, nelle terre “alte” di mezzo, tra il grande fiume e il Po di Volano. Non ci pare la risposta giusta, anzi una spinta nel senso opposto, verso la crescita della denatalità, con il conseguente impoverimento del territorio.
Da MOSCA – Oggi, alle ore 17 italiane, si aprono le Paralimpiadi di Sochi 2014, undicesima edizione.
Il clima è teso per la situazione ucraina, molti paesi hanno annunciato il boicottaggio della manifestazione, per lo meno dal punto di vista diplomatico. Clima torrido, rovente, direi.
Ha iniziato il primo ministro britannico David Cameron, con un messaggio sul suo account twitter, seguito dagli Stati Uniti e dalla Norvegia. Se queste posizioni non dovrebbe influire sulla presenza degli atleti, l’Ucraina ha, invece, minacciato di non far partecipare la sua delegazione se la situazione non mutasse. Un fatto che nella storia delle Paralimpiadi sarebbe quasi unico, se si considera che, nel 1980, quando vi fu il grande boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca, le Paralimpiadi si tennero, comunque, ad Arnhem, in Olanda. L’unico precedente importante sarebbe, quindi, quello del 1984, quando l’Unione Sovietica e alcuni dei Paesi della sua sfera d’influenza non parteciparono alle Paralimpiadi organizzate da Gran Bretagna e Stati Uniti.
A Sochi sono, comunque, in programma, dal 7 al 16 Marzo, cinque sport, che assegneranno 72 titoli: 32 nello sci alpino (che include lo snowboard), 20 nello sci di fondo, 18 nel biathlon ed uno a testa per wheelchair curling ed hockey. I Paesi partecipanti saranno quarantacinque, con l’esordio di Brasile, Turchia e Uzbekistan. Rispetto a Vancouver 2010, però, mancherà completamente il continente africano, allora rappresentato dal Sudafrica.
A sfidarsi saranno 750 atleti provenienti da quarantacinque nazioni. La delegazione più numerosa è quella statunitense (80 atleti), seguita da quella russa (68), canadese (49) e italiana (34). Tutte le gare si svolgeranno fra lo stadio Fišt, che ospiterà la cerimonia d’apertura e di chiusura, la Šajba Arena per gli incontri di hockey e il Ledjanoj Kub per quelli di curling. Nella stazione sciistica di Krasnaja Poljana, invece, nel complesso Laura si svolgeranno le gare di fondo e biathlon, il complesso sciistico Roza Khutor ospiterà quelle di sci alpino e snowboard.
Il termine “paralimpico” è composto dal prefisso “para”, che in greco significa “parallelo” e “olimpico”, quindi Olimpiadi parallele (la prima edizione fu fatta in Svezia nel 1976) e il motto di questa Sochi 2014, testimoniato dalle sue mascotte, è “Caldo. Freddo. Vostro”.
“Le Paralimpiadi possono abbattere le barriere e gli stereotipi come nessun altro evento e credo che questi giochi saranno rivoluzionari per la Russia”, commenta sir Philip Craven, per cinque volte campione paralimpico di basket in carrozzina e attuale presidente del comitato paralimpico internazionale, che guida da tredici anni. “Nel 1980, ricorda Craven, i Giochi paralimpici non si svolsero a Mosca, sede scelta per i giochi olimpici, perché il governo di allora affermò che non esistevano persone con menomazioni sul suo territorio: per questa ragione l’essere qui a Sochi, 34 anni dopo, per i primi Giochi paralimpici ospitati dalla Russia è un enorme risultato e prova che le cose per le persone con disabilità stanno cambiando”.
Di fronte alle tensioni internazionali, si cercherà, allora, di dare respiro ad atleti che riescono, con duri e intensi allenamenti, con impegno, determinazione e divertimento, a vincere la dura battaglia della disabilità e a portare avanti un’attività agonistica, pur nella difficoltà.
Dimenticandoci allora di tutto il resto per qualche giorno.
Quarantotto ore dopo, la Cgil è ancora sotto shock. Mai, nella storia del sindacato bolognese, era successo che l’organizzazione rimanesse senza un segretario in carica. E, trattandosi della Camera del Lavoro più grande d’Italia, si tratta di un fatto clamoroso. Soprattutto perché il vuoto di potere rischia di protrarsi per almeno tre mesi. Come fanno notare i sindacalisti, i precedenti sono pochi anche nelle altre città. Proprio per questo è difficile capire come progredirà la situazione dopo le dimissioni a sorpresa di Danilo Gruppi, che mercoledì ha ritirato la sua disponibilità a ricandidarsi in seguito alla bocciatura, da parte di 110 delegati, del documento politico su cui aveva chiesto una larghissima maggioranza.
«Per il momento continueremo con la segreteria dimissionaria per mandare avanti gli affari correnti, le vertenze, le cause contro i licenziamenti», spiegano da via Marconi 69, ma nessuno sa per quanto si protrarrà la situazione. A norma di regolamento, infatti, ora la palla passa a Roma, e precisamente al Centro regolatore nazionale. L’organismo dovrà consultare uno per uno i centocinquanta membri del nuovo direttivo eletto al Congresso. Lo scopo è quello di trovare una nuova proposta per sostituire Gruppi, ma se i membri del direttivo non riusciranno a convergere su un nome, sarà scelto un segretario “tecnico”, deciso dalla segreteria nazionale ed esterno alla Cgil Bologna. Circostanza, questa, che non fa felice nessuno.
Intanto cominciano a trapelare dettagli sul giorno più lungo di Cgil Bologna. Secondo un giovane delegato della Funzione pubblica, a votare contro il documento è stata quasi tutta la Fiom, insieme agli esponenti della mozione di minoranza “Il sindacato è un’altra cosa” (che fa capo, a livello nazionale, a Giorgio Cremaschi) e a qualche singolo. L’odg sulla scuola interamente pubblica, che ha visto la maggioranza andare sotto 168 a 165, è invece stato votato da quasi tutta Fiom, dall’opposizione, e da ampi settori di Nidil e Flc. Questo esito pesa, perché reindirizza la linea Cgil sull’esito del referendum del maggio scorso.
Una fronda trasversale, quindi, che però non riesce a proporre un’alternativa. Almeno, questa è l’analisi di Antonella Raspadori, componente della segreteria uscente: «Quando si decide di mettere in discussione una linea politica o un gruppo dirigente – attacca la sindacalista – bisogna avere un progetto alternativo, e in questo caso io non lo vedo. Eravamo pronti a gestire una situazione complicata con la Fiom e la minoranza, ma gli ultimi giorni hanno manifestato che c’erano altre posizioni di dissenso che sono una particolarità di Bologna e che si sono coalizzate». Secondo la Raspadori, quindi, c’è una regia dietro gli eventi che hanno portato alle dimissioni di Gruppi, anche se la responsabilità non è della Fiom, che «ha sempre portato avanti la sua posizione».
E in effetti, se la Cgil appare rintronata, anche nel portone a fianco non si festeggia. Benché proprio i metalmeccanici siano stati i più decisi oppositori di Gruppi, infatti, l’atmosfera non è serena. «Non sono soddisfatto, io volevo fare un congresso diverso -chiarisce Alberto Monti, il segretario provinciale- noi abbiamo mantenuto una posizione coerente, di opposizione all’accordo di rappresentanza. E per quanto il nostro emendamento abbia raccolto più voti di quelli dei soli delegati Fiom, non ne abbiamo ottenuti abbastanza per far cambiare linea alla Cgil. Certo, siamo riusciti a farlo passare alla discussione regionale, ma abbiamo comunque solo il 30%».
Tra chi sostiene la mozione Cremaschi, invece, c’è più soddisfazione. «Per me le dimissioni di Gruppi sono un buon risultato – afferma uno dei delegati che hanno votato contro il documento politico, Gianmarco Scaini – perché mettono in luce un dato politico di scontento ben superiore, per numeri, a quello della nostra mozione. Ora vedremo cosa fare».
Viviamo in un contesto sociale ed economico in rapido mutamento che stentiamo a comprendere; guardiamo indietro e ci accorgiamo che non possiamo più usare con successo le vecchie strategie del mondo industriale; guardiamo avanti e notiamo che inventare nuove vie è tutt’altro che semplice, e forte è il rischio di usare sempre la vecchia logica e le stesse strategie che hanno condotto quasi al disastro. Travolti da un eccesso di informazione, ancora non ci rendiamo conto che stanno sorgendo nuovi modelli tecnologici, nuove strutture sociali e nuovi modi di generare valore che potrebbero cambiare radicalmente il rapporto tra organizzazioni e cittadini.
Nel nostro tipo di società buona parte della vita la passiamo dentro le organizzazioni: sono esse che offrono lavoro e producono tutti quei beni e servizi che crediamo ormai indispensabili per affrontare i nostri bisogni; anche questi ultimi sono in buona parte prodotti dall’attività di altre specifiche organizzazioni. La nostra vita è insomma altamente strutturata in base ai tempi, alle esigenze e alle procedure delle organizzazioni, agli occhi delle quali siamo tutti potenziali risorse utilizzabili.
Cominciamo allora col fare chiarezza.
1. Gerarchie. Perché esistono le organizzazioni?
Sostanzialmente per dare ordine agli sforzi coordinati di più persone che contribuiscono insieme a perseguire il fine dell’organizzazione. Molti anni fa l’economista Ronald Coase (era il 1937) si poneva questa domanda relativamente a quel tipo particolare di organizzazioni che sono le aziende e in La natura dell’impresa egli affermava – a ragione – che le aziende esistono per ridurre al minimo i costi di transizione che potrebbero causare sprechi e scontri, perdita di tempo e impicci, confusione e fraintendimenti, errori vari di interpretazione sulle cose da fare per raggiungere lo scopo. Secondo questa prospettiva è del tutto razionale aggregare le persone in un sistema gerarchico (l’azienda appunto, ma più in generale ogni organizzazione) fondato sul potere del superiore sui subordinati e sulla divisione dei compiti: basta allora che alcuni individui selezionati condividano uno scopo e possiedano ruoli, responsabilità e modelli di comunicazione prestabilite per fare in modo che le cose, semplicemente avvengano. E’ all’interno di questo piccolo sistema sociale organizzato e piuttosto chiuso che trova spazio, si afferma e sviluppa tutta la disciplina del management con i suoi miti di efficienza e le pratiche “scientifiche” di selezione e gestione delle risorse umane, leadership più o meno partecipativa, gestione della cultura, formazione. Tuttavia per minimizzare i costi di transizione le organizzazioni finiscono spesso per lavorare con chiunque sia stato aggiunto piuttosto che con i migliori soggetti possibili: una situazione fortemente aggravata quando nei meccanismi della selezione intervengono corruzione, raccomandazioni, ottusità burocratica e calcolo politico.
2. Mercati. Un potenziale enorme di saperi inutilizzato
Pochi anni dopo, un altro economista Friedrich von Hayek, nel suo studio del 1945, ormai diventato un classico, L’uso della conoscenza nella società sosteneva appunto – e con buone ragioni – che poiché il sapere è distribuito tra le persone in maniera disomogenea (e, aggiungiamo, che le persone sono dislocate sui territori in modo non uniforme), le organizzazioni centralizzate e coordinate non sarebbero in grado di sfruttare al meglio la conoscenza diffusa che, al contrario, potrebbe essere valorizzata molto meglio dai mercati. Il fatto è che fuori dai confini dell’organizzazione, per quanto grande essa possa essere, c’è un numero enorme di persone, di saperi, di conoscenze e di risorse motivazionali, oltre che cognitive, tutte potenzialmente raggiungibili ed utilizzabili per quanto raramente utilizzate ed anzi per lungo tempo considerate inutili dalle organizzazioni stesse, se non per l’esigenza di cambiarle e di renderle adeguate alle proprie procedure di funzionamento. Per un’organizzazione diventa strategicamente importante comprendere il modo per coinvolgere questa enorme sezione di popolazione.
3. Reti e comunità. Il superamento della predominanza di gerarchie e mercati?
Negli ormai lontani anni ’80, Margaret Thatcher riprendendo politicamente alcune di queste idee amava ripetere che “la società non esiste, ci sono solo individui e famiglie”, o, peggio ancora che “non esiste una cosa chiamata società: esistono solo gli individui”. A fronte di questo, negli ultimi vent’anni si è venuta affermando una (apparentemente) opposta visione supportata dalle tecnologie digitali che celebra il successo, la pervasività e l’assoluta necessita delle reti, delle comunità (community), delle tribù digitali. Le comunità, contrariamente alle organizzazioni gerarchiche, spesso intasate di burocrazia ed impegnate a difendere la propria integrità organizzativa, si formano intorno ad interessi e bisogni condivisi senza procedure se non quelle strettamente necessarie al loro informale funzionamento. A ben vedere, e con tutte le riserve del caso, si può ipotizzare dietro a questi sviluppi il superamento della vecchia contrapposizione tra comunità e società e il riconoscimento implicito che gerarchie e mercati senz’anima non possono essere la soluzione dei problemi del mondo, delle collettività e delle persone.
4. Gerarchia, mercato, comunità. Come coinvolgere le persone esterne?
Osservato dal punto di vista di un’organizzazione il mondo appare composto da un piccolo numero di persone che stanno “dentro” e da un grandissimo numero di persone che stanno “fuori”; cosa significa in tale situazione ammettere la contemporanea presenza di gerarchia, mercato e rete o comunità? Possiamo immaginare l’enorme numero di persone che si trovano fuori dall’organizzazione (gente che solitamente si guadagna il pane in altro modo) come uno sconfinato insieme di soggettività che aspettano solo di trovare iniziative che possano attirare la loro attenzione. Si tratta di un ipotesi di lavoro straordinariamente interessante per il mondo dei servizi, un approccio già ampiamente sviluppato sulla spinta delle tecnologie digitali attraverso fenomeni di grande spessore come l’open source, il crowdfunding, il crowdsourcing. La chiave di volta di questi approcci è il riconoscimento che “lì fuori” ci sono risorse disponibili, purché si possano garantire ai potenziali partecipanti forme di ricompensa (materiale, immateriale, simbolica, diretta, indiretta) capaci di soddisfare un loro bisogno superiore. Non conta per chi lavorano i migliori: se il progetto è veramente interessante, i soggetti motivati lo troveranno.
5. Aprire le organizzazioni. Come costruire relazioni orizzontali?
Cosa comporta questo riconoscimento per le organizzazioni, in particolare per quelle che agiscono nel settore dei servizi alla persona, in un periodo come questo di ristrettezze economiche, tagli alla spesa e difficoltà finanziarie? Molto probabilmente l’esigenza di aprirsi verso l’esterno abbattendo i confini, rendendosi trasparenti, costruendo nuove relazioni orizzontali. Contrariamente alle organizzazioni a cui siamo abituati a pensare, che enfatizzano valori, missione, regole, piani e strategie di battaglia, le organizzazioni di questo tipo agiranno in base alla “legge della varietà” indispensabile in una teoria dei sistemi, secondo la quale l’organizzazione deve essere complessa tanto quanto il sistema all’interno del quale opera; in essa ci saranno parti più o meno gerarchiche in funzione dell’incertezza con cui hanno a che fare, mentre altre parti avranno bisogno di diventare estremamente dinamiche, aperte e duttili, e dovranno riconoscere e saper usare le reti e le comunità “lì fuori”, costruirne di nuove per poi sostenerle e legittimarle, accettandone le regole di funzionamento (chi si occupa di comunicazione insegna che la community è potenzialmente il migliore canale di marketing).
6. Valorizzare i territori e le comunità. Cosa comporta per il territorio che ospita le organizzazioni e per le comunità locali che ci vivono?
Diversamente da quello che succede in rete, dove ognuno tende a mostrarsi e ad emergere dal mare di informazioni, le risorse disponibili sul territorio sono spesso nascoste, non si esibiscono, sono discrete e quindi sottovalutate. Ne consegue l’esigenza di riconoscere e mettere a patrimonio comune conoscenze, saperi, capacità, artefatti e quant’altro, rendendoli visibili e mettendoli nelle condizioni di diventare concretamente generativi di innovazione sociale. Persone di talento straordinario possono essere ovunque, spesso si trovano proprio sotto il naso, ma l’organizzazione chiusa non è in grado di vederle. Quali potrebbero essere le persone più indicate tra cui reclutare questi soggetti? A livello territoriale, dove è già forte il fenomeno del volontariato, non vi è dubbio su quali possano essere i maggiori indiziati: i pensionati e forse i giovani che non sono ancora entrati nel mondo del lavoro, due categorie particolarmente bersagliate dalla crisi; ma anche i membri delle “comunità operose” e tutti quei soggetti orientati all’azione sociale da cui provengono spesso gli imprenditori morali e gli innovatori sociali.
Il tema delle organizzazioni, dei loro scopi, del potere che hanno nella società e sulle persone merita un’attenzione costante da parte dei cittadini e non può essere trattato dimenticando le profonde radici storiche, ideologiche e culturali che affondano nel passato. Facciamo allora tesoro delle esperienze che in Italia hanno saputo integrare queste tre prospettive (gerarchia, mercato, comunità) partendo dal basso e in modo geniale: si pensi ad esempio ai distretti industriali che avevano immaginato un’industria perfettamente integrata nel mercato e nella comunità territoriale; pensiamo alla straordinaria opera di Adriano Olivetti. Non facciamoci ingabbiare dai pur necessari specialismi che portano a considerare il tutto come semplice estensione di una parte, e quindi l’intera società ridotta a mercato, ridotta a management, o ridotta a rete. Recuperiamo una visione d’insieme e proviamo ad immaginare modi differenti per costruire un diverso e migliore futuro.
Monsignor Luigi Negri (vescovo di Ferrara) ha partecipato a Roma alla presentazione di un libro insieme al pregiudicato Silvio Berlusconi. E’ consapevole di ciò che ha fatto? Ritiene questa presenza parte della sua missione?
Ma è la stessa persona che voleva recintare la Cattedrale per evitare che i giovani la riducessero come un postribolo? E’ informato che il signore che gli sedeva a fianco il ‘postribolo’ l’ha messo in piedi davvero nella sua villa? E che in uno dei suoi tanti processi è imputato per induzione alla prostituzione minorile?
Povero papa Francesco! Ecco chi sono alcuni dei tuoi rappresentanti sul territorio… Monsignor Negri si è presentato alla città con il volto dell’integralismo e dell’intolleranza verso chi la pensa in modo diverso. Ha perfino scritto che “…la gioia se non è cristiana è equivoca…”.
E’ evidentemente una sciocchezza, perché si può vivere nella gioia e nella serenità in tanti modi e secondo varie credenze.
Però ci mancava la trasferta per discutere un libro con un interlocutore che anche nella giornata di ieri ha definito “una mafia” i giudici che lo hanno condannato.
Un consiglio al vescovo: rientri nelle sue funzioni religiose e lasci perdere iniziative che squalificano ciò che rappresenta. Ma se proprio vuole uscire dal seminato, non si scandalizzi se un cittadino gli rivolge la critica che merita…
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Mosheh lo vide da lontano, aveva ancora occhi buoni il vecchio Mosheh, vide una massa scura che si ergeva sulla pianura arida, sabbiosa, compatta nella sua squallida uniformità, una terra senza frutti se non quelli che mandava Dio di tanto in tanto sotto forma di fiocchetti bianchi, la famosa manna, che non sapeva di niente, ma che serviva quantomeno ad alleviare un po’ i morsi della fame al suo popolo predilettto in perenne ricerca della terra promessa, come i migranti di oggi, con una differenza: allora non finivano in galera. “Quello è il Sinai – disse Mosheh rivolto a Mattaion (“Dono di Dio”), nome tradotto dai romani in Matteo – il monte Sinai ,vedi, devo andare lassù dove mi aspetta Adonaj, mi ha dato appuntamento, ma non so che cosa voglia” “Se non lo sai tu – rispose Mattaion che parli sempre con Lui…”
E’ un periodo che alla notte io sogno, sogno di tutto, adesso faccio sogni biblici, chissà perché. Comunque, è stato interessante il seguito. Dunque: arrivato tra il popolo, Mosheh si raccomandò: “Vado da Dio”, disse solennemente. L’ebreo Joseph, che gli era vicino, gli chiese: Stai meglio con le ginocchia?” “Perché?”, chiese Mosheh. “Hai detto che vai da Dio”. Mosheh si rivolse allo sgargino Mattaion e sussurrò: “Questo non ha mai capito un cavolo”. Poi, a voce tonante: “No Adonai mi ha dato un appuntamento, aspettatemi qui e pregate, non fate altro”. E partì: passò un tempo molto lungo. Qualcuno cominciò a dire che ci voleva un nuovo capo, quello vecchio chissà dov’era finito. Mattaion ascoltò, poi prese la parola: “Giusto, qui bisogna rottamare i vecchi, via i vecchi, una nuova generazione deve andare al potere”. Non aveva ancora terminato di parlare che lontana si vide una sagoma avanzare molto lentamente, curva sotto un cumulo di sassi: la sagoma, che altri non era se non Mosheh, urlò: “Venite ad aiutarmi, ho le tavole del Signore, pesano, come pesano!” Ma lo sgargino Mattaion lo bloccò: “E’ inutile – disse – ora è cambiato tutto, Berluschi, grande amico, ha donato al popolo un vitello d’oro: vedi là come luccica? Il popolo ha trovato un nuovo motivo di speranza, il vitello d’oro, e io mi sono accordato con Berluschi su come gestire il potere. Mi dispiace, Mosheh, sei stato rottamato”. Qui il sogno finisce. Ma era un sogno?
Educazione e politica al centro della riflessione: un confronto entusiasmante finalizzato a riprogettare il presente e resistere alla mediocrità, con la consapevolezza che solo l’educazione può offrire democrazia e giustizia sociale.
Da tutto il mondo per parlare di scuola, riportata per tre giorni al centro della vita: sembra un sogno. Una sorta di “Stati Generali della scuola” in cui si è emersa con forza, nonostante il momento di grave crisi e profonda difficoltà, la tesi espressa nel programma, ossia che “Ben-essere, convivenza civile ed equità possono essere realizzate solo declinando in azioni due parole: Educazione e Politica.”
Tutto questo è accaduto nei giorni scorsi a Reggio Emilia, dove si è tenuto il XIX Convegno nazionale dei servizi educativi e delle scuole dell’infanzia intitolato “Educazione e/è Politica”. Appuntamento biennale sul tema dell’educazione che ha sempre ottenuto una grande partecipazione, ma che quest’anno ha superato ogni aspettativa, richiamando numerosi studiosi di fama internazionale e premi Nobel, ma soprattutto tantissimi educatori, insegnanti, pedagogisti, genitori e amministratori italiani e stranieri. La presenza di circa 1400 partecipanti, di cui 300 provenienti da tutto il mondo, è la chiara dimostrazione (se mai ce ne fosse ancora bisogno) del fatto che l’educazione è il volano della politica.
La politica, infatti, “non può non fare i conti con gli ideali formativi espressi dalla riflessione pedagogica e l’educazione non può perdersi in discorsi astratti o sterilmente moralistici, disinteressandosi delle dinamiche politiche” (Erbetta/Bertolini, 2002).
Nell’attuale situazione di crisi sia economica che etica, e quindi di crisi democratica, è facile perdere il significato sociale che la pedagogia attribuisce all’educazione, per cui la politica potrebbe essere “sedotta” dalla contingenza e portata a privilegiare altri ambiti di azione e sentendosi obbligata alla dismissione del welfare, dei sistemi di cura e di educazione. Ciò può accadere quando si affronta il presente e si progetta il futuro con la sola lente della contrazione delle risorse sia umane sia economiche.
Eppure l’esperienza di questi giorni ci suggerisce che le democrazie per reggersi, hanno bisogno di risorse, di intelligenze e di immaginazione, come sostiene Marc Augé, etnologo e antropologo francese: “Se non si compiono cambiamenti rivoluzionari nel corpo dell’istruzione c’è il rischio che l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala più grande la diseguaglianza delle condizioni economiche. L’educazione e l’istruzione sono la prima delle priorità”. (Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al non tempo, Elèuthera, 2009).
Solo la solidarietà di azione tra educazione e politica può creare infatti le condizioni affinché tutti gli individui diventino capaci di comprendere, capire, immaginare e valutare il mondo in cui vivono, perché la democrazia si fonda sulla consapevolezza dei cittadini, cittadini competenti, in grado di orientare e sostenere una concreta idea di futuro.
I luoghi educativi, a partire dai nidi e dalle scuole dell’infanzia, hanno il compito di far crescere cittadini responsabili e, per svolgere questo ruolo, hanno bisogno di buone politiche, mirate a crearne tutte le condizioni necessarie. Come diceva Loris Malaguzzi (il pedagogista ispiratore del cosiddetto Reggio Emilian Approach, ormai diffuso in tutto il mondo, a cui il convegno è dedicato), il rischio è di “accedere, per equivoca via idealistica, al falso problema di contrapporre in termini di supremazia e subalternità quello che invece (anche tra politica e pedagogia) va visto in chiave di rapporto. Per quanto faticoso sia, è questo il processo che va permanentemente stimolato e tenuto sotto controllo”.
L’esistenza dei servizi educativi e le prospettive di futuro esigono una politica che riconosca ed espliciti il valore etico, culturale ed economico che viene espresso dall’azione educativa e una pedagogia capace di interpretare le dinamiche sociali e politiche. Rischio l’invivibilità della società e il fallimento degli investimenti in educazione.
Protagonisti delle tre giornate sono stati davvero tutti, dai relatori ai partecipanti, suddivisi in 23 commissioni di lavoro, dislocate nelle meravigliose scuole di Reggio, teatri e centri educativi, nello scenario davvero eccezionale del Centro internazionale L. Malaguzzi, unico al mondo per la sua struttura, ma soprattutto per gli spazi e i contenuti. Si è discusso nell’ambito di cinque gruppi, dei soggetti protagonisti delle politiche educative, degli aspetti fondativi e valoriali delle politiche educative in ambito europeo, nazionale e regionale. In altri focus si sono analizzati le forme e i modi di espressione delle politiche educative, degli ambiti scientifici e artistici e degli obiettivi ad esse correlate, delle caratteristiche della governance e dei requisiti istituzionali. Il lavoro delle commissioni si è articolato nell’ambito di un’intera giornata sui temi assegnati a ciascuna commissione. Il confronto con specifiche esperienze portate da diversi relatori, ha orientato le riflessioni, sempre tenendo fede al titolo del convegno “Educazione e/è politica”. Sono intervenuti fra i tanti relatori, James Joseph Heckman, premio Nobel per l’economia (Usa), Peter Moss della London University, Irene Balaguer di Barcellona, Francesco Tonucci del CNR Scienze e tecnologie della cognizione, e tanti altri studiosi europei ed extra europei, provenienti anche da molto lontano, persino dalla Corea del Sud.
Il XIX Convegno nazionale dei servizi educativi e delle scuole dell’infanzia – “Educazione e/è Politica” è stato promosso dal Gruppo nazionale nidi e infanzia, dal Centro internazionale Loris Malaguzzi, dal Comune di Reggio Emilia col patrocinio della Regione Emilia-Romagna e l’Alto patronato del Presidente della Repubblica.
Loredana Bondi è stata dirigente scolastica statale fin dal 1989; dal 1997 al 2012 dirigente dell’Istituzione servizi educativi, scolastici e per le famiglie del Comune di Ferrara. Attualmente fa parte del Gruppo nazionale nidi e infanzia.
Ci saranno di nuovo i corpi al centro della scena oggi pomeriggio al Teatro Anatomico della Biblioteca Ariostea in via Scienze a Ferrara.
“Questa volta però saranno corpi vivi!” garantisce la coreografa Milka Panayotova, che porta per la prima volta la danza contemporanea tra gli scranni dai quali un tempo si assisteva alle autopsie.
“Ho voluto chiamare lo spettacolo Live Cracks, scrocchi vivi o dal vivo, proprio per dare l’idea di qualcosa che ancora si muove, schiocca di vitalità”.
Milka Panayotova è una performance maker bulgaro-cipriota arrivata a Ferrara per amore del marito. Laureata in Belle Arti a Firenze, e in Visual Language of Performance a Londra, ha scelto di stabilirsi qui in città, dove due anni fa ha dato alla luce un bambino. Ancora non ha una compagnia stabile, ma la desidera, e al momento collabora con vari artisti locali.
Come tutti i suoi lavori, l’ultimo dei quali è Dalla Z alla A, messo in scena al Centro Studi Dante Bighi di Copparo, anche questo sarà site specific, ovvero concepito appositamente per lo spazio in cui verrà rappresentato.
“Ho scelto il Teatro Anatomico perché è un luogo molto bello che mi ha subito colpita quando l’ho visto – spiega Milka – poi è raccolto e permette la vicinanza tra pubblico e danzatori, che per me è molto importante”.
In scena ci saranno due performer: Alessandra Fabbri e Laura Gagliardi.
“Sono due donne diverse, hanno età distinte, sono anatomicamente differenti: il loro essere è parte dello spettacolo. E’ chiaro che mi sono concentrata sui loro corpi, ma ho lavorato molto anche su di loro come persone. Quando creo uno spettacolo, parto dai miei appunti, però il lavoro con i danzatori parte sempre da zero, ed è lì che nasce la performace”.
Le musiche saranno quelle di Giacomo Marighelli e Bartleby Urens.
“Facendo delle ricerche sul Teatro Anatomico ho scoperto che un tempo, per rendere le autopsie meno angoscianti, c’erano dei musicisti che eseguivano delle musiche dal vivo. Ma i
miei protagonisti sono vivi, quindi non c’è bisogno di alleggerimento e le musiche saranno registrate!”.
Questo pare essere un buon momento per la danza contemporanea a Ferrara, con il ricco cartellone del Teatro Comunale che ha portato di recente in città compagnie come Aterballetto e Sasha Waltz, e con esperienze come quelle di Milka che propagano l’attenzione per la sesta arte.
“Si è vero qui c’è un notevole programma teatrale, e ci sono vari artisti che fanno cose molto belle, ma mancano i fondi e manca anche un network attivo. Noi cerchiamo di aiutarci a vicenda, ma non basta”.
Il patrimonio di scuole di danza, performer, spettacoli è davvero grande, e ha reso Ferrara conosciuta in tutto il mondo, varrebbe la pena di metterlo a sistema perché può portare interessanti benefici economici e ridare vitalità a un’arte senza la quale sognare diventa ancora più difficile.
Lo spettacolo è alle 17 con 25 posti a disposizione e durerà circa 20 minuti. Poi verrà ripetuto alle 18 per ulteriori 25 spettatori. E’ necessario prenotare via email a milkapan.book@gmail.com o telefonare al numero 3806482755. I posti rimanenti saranno messi a disposizione di chi arriverà per primo.
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