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Ferrara film corto festival

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Beppe Ruzziconi, il giro del mondo in e-book di Mister Mobilità

I suoi viaggi hanno il valore quasi etnografico di chi parte alla scoperta di qualcosa e poi la racconta al ritorno, arricchito dalle emozioni dei ricordi. Beppe Ruzziconi, ferrarese, segretario Cgil e poi dirigente di Ami, coltiva una passione che amplia gli orizzonti del perimetro urbano entro il quale spazia il ragionamento nel suo quotidiano lavoro all’Agenzia per la mobilità. E ha documentato i suoi itinerari in giro per il mondo dopo avere visitato, negli anni, Cina, Giordania, Turchia, India, Nepal, Cambogia, Vietnam. Un racconto che potrebbe non interrompersi mai tra un viaggio e l’altro, perchè se anche la meta si rinnova ogni volta, il fascino attraente di qualcosa di lontano da capire è sempre lo stesso.
Beppe Ruzziconi ha pubblicato una serie di ebook sul sito ilmiolibro.it che raccolgono l’esperienza personale e del gruppo che ha condiviso il progetto e tutte quelle migliaia di chilometri. Ogni partenza, ciascuna tappa è documentata dallo stato d’animo con cui viene affrontata, gli occhi incontrano cose mai viste, le impressioni sono la prima chiave di lettura di fronte al nuovo, gli interrogativi non mancano e vengono posti agli autoctoni, alla guida, ai luoghi nello loro bellezza e unicità. Una curiosità antropologica che spinge a conoscere i villaggi sperduti della Cina, a vedere l’alba sul Gange e a entrare nel mondo sotterraneo delle gallerie costruite dai vietnamiti.
Ruzziconi, un modo di viaggiare sui generis. Perchè?
“Non ci basta l’itinerario che la guida ci propone, chiediamo varianti che ci portino nei villaggi, tra la gente, in mezzo alla loro cultura. Il senso del viaggio alla fine è quello, sta negli incontri che si fanno e nelle emozioni che si provano. In ogni luogo abbiamo recepito insegnamenti da portare a casa”.
Come, ad esempio, l’esperienza nelle gallerie in Vietnam?
“Quando ci fu la guerra in Vietnam, ero un adolescente e mi era rimasto il desiderio di capire i luoghi della resistenza vietnamita. Siamo riusciti, nella zona di Cu-Chi, ad avvicinarci al mondo sotterraneo che era stato costruito e dove si era sviluppata una vita civile inimmaginabile, dove, insomma, la lotta di un popolo per difendersi aveva superato l’offensiva e la tecnologia americana. Ho provato a percorrere alcuni metri nei cunicoli, ma poi sono tornato indietro”.
Dell’India, a cui pure hai dedicato pagine nei tuoi ricordi di viaggio, cosa ti è rimasto?
“L’India si mostra nella sua povertà più cruda, più abietta. Ti chiedi come sia possibile che esista per le strade quella miseria e, allora, ti rendi conto che non c’è una ridistribuzione della ricchezza, pensi alla divisione sociale in caste e a tutte le contraddizioni di questo paese che è sulla via dello sviluppo”.
Lei racconta le situazioni, i luoghi, soprattutto le emozioni sue e della comitiva. Qual è stata una delle sensazioni più intense?
“In India, a Varanasi, gli induisti praticano un rito sacro di purificazione nelle acque del Gange, noi partimmo prestissimo per essere all’alba in barca sul fiume e assistere alle abluzioni. Ma Varanasi è anche il posto delle pire, della cremazione dei corpi che diventeranno cenere da spargere nello stesso fiume. Anche il Tibet è stato di forte impatto per il misticismo e il silenzio, così estranei al nostro modo di vivere occidentale”.
Da uomo dell’occidente, che idea si è fatto dell’uomo dell’oriente?
“Credo che in quei paesi ci sia una propensione all’autoaiuto che noi abbiamo perso da molto tempo, da quando cioè non soffriamo la povertà che, invece, ancora là c’è. Da noi manca anche la coesione sociale, manca energia nei giovani che, come nota Michele Serra, se ne stanno più che mai sdraiati”.
La prossima meta?
“Tra la via della seta e il Perù alla scoperta delle civiltà precolombiane”.

Gli ebook di Giuseppe Ruzziconi sono pubblicati online da “il mio libro” (vedi la pagina dell’autore)

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Il presidente dei geologi: “Nuove tecnologie e monitoraggio costante per prevenire le alluvioni”

di Irma Annaloro

Il territorio – in queste ore è drammaticamente evidente – non è esente da rischi idraulici e idrogeologici. Fra le cause, i mutamenti climatici, lo sfruttamento che si è perpetuato negli anni e la ridotta manutenzione attuale, conseguenza di scarse risorse finanziarie e penuria di personale. Intanto si pensa a possibili soluzioni per prevenire e prevedere situazioni di emergenza. Il presidente dell’Ordine dei geologi dell’Emilia-Romagna, Gabriele Cesari, annuncia la richiesta alla Regione di rendere operativi gli uffici geologici territoriali, organi di coordinamento fra Comuni, Protezione civile e ed esperti di settore.

Presidente Cesari, c’è il rischio che in regione possa presentarsi un’emergenza come quella che ha colpito il territorio Modenese?
L’intero territorio regionale non ha differenze eclatanti e presenta un rischio che non è molto diverso da provincia a provincia. La situazione che si è creata nei luoghi colpiti dall’alluvione trova le sue cause in una pressione antropica e nell’occupazione notevole del suolo. Consideriamo che all’incirca ogni giorno otto ettari vengono occupati da nuove costruzioni. Tutto ciò, chiaramente, si ripercuote sul territorio con un aumento di scorrimento delle acque e un minor spazio lasciato ai corsi. Altri aspetti che aumentano il rischio, sono gli usi più intensivi della terre, la mancata manutenzione e certamente i cambiamenti climatici.

Qual è il quadro geologico del territorio?
L’uso eccessivo del suolo è simile a livello regionale. In Emilia siamo in presenza di maggiori versanti arginosi. La Romagna è più stabile dal punto di vista delle frane e del dissesto geologico. Il problema sorge nel momento in cui il livello delle abitazioni si trova al di sotto dell’argine di un corso d’acqua.

Si possono prevedere e prevenire emergenze di questo tipo?
E’ possibile. A mio avviso bisogna mettere in campo nuove tecnologie per provare a gestire il territorio, fare una previsione del comportamento dei fiumi e gestire eventuali esondazioni. Questo perché le nuove tecnologie sono in grado di offrirci diverse opportunità, come il monitoraggio continuo delle situazioni. E’ un ambito che va sperimentato, ma questo richiede percorsi di lungo periodo. Per affrontare queste sfide è necessario un approccio nuovo e multidisciplinare che tenga conto dei nuovi fattori. Il nostro ordine presenterà, in Regione, una proposta che prevede l’attuazione degli uffici geologici territoriali previsti nella finanziaria. Si tratta di enti di coordinamento tra Protezione Civile e Comuni con il supporto tecnico di esperti. Su questo, la Sardegna si è spinta più avanti. In questo senso, pensiamo a una collaborazione tra un organo come il nostro, composto da professionisti, e gli enti territoriali senza appesantire la spesa pubblica.

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Ricchi e poveri nella nuova Russia. E il made in Italy come status symbol

DA MOSCA – Basta trovarsi all’aeroporto di Roma Fiumicino, diretti a Mosca, non importa se nella fila degli imbarchi di business class o di economy, per ritrovarsi sommersi da pacchi, pacchetti e pacchettini delle più note e costose case di moda italiane. Gucci, Valentino, Dolce e Gabbana, Ferragamo, La Perla, Missoni, Furla e Fendi sono solo alcune delle firme fiammanti che campeggiano sulle spalle di ragazzi robusti e imponenti.
Quasi inciampiamo in vocianti viaggiatori che parlano sempre e solo rigorosamente russo, perché a loro avviso tutti devono capire; uomini e donne si fanno strada e mettono in crisi la povera hostess che non capisce e che tenta di spiegar loro, nel suo inglese perfetto, a essi quasi del tutto incomprensibile, che vi sono limiti nei bagagli per volumi e pesi.
E’ quasi una voglia di riscatto, un tentativo di marcare terreno e far comprendere che si è arrivati (ma arrivati dove?), che quando si vuole si pretende e si deve avere, senza troppe discussioni e sforzi. Salvo che questo riscatto è sicuramente solo per alcuni, anzi direi per pochi. Parliamo dei nuovi ricchi russi, non solo degli scaltri uomini d’affari che, con la caduta del comunismo, si sono impadroniti di grandi ricchezze del Paese, ma anche di nuove generazioni che hanno fatto fortuna in settori quali quello tecnologico, l’unico in cui i miliardari sono prevalentemente giovani e hanno accumulato “da soli” grandi patrimoni.

Secondo uno studio del 2012 di Forbes Insight e Societé Generale, riportato dal Financial Times, Russia e Cina contano più di 100 miliardari, raggiungendo gli Stati Uniti e superandoli “in termini età”: i 115 miliardari cinesi e i 101 miliardari russi sono infatti più giovani. I russi, in particolare, sono in media 10 anni più giovani dei miliardari indiani e 25 anni più giovani di quelli francesi. Sempre secondo la rivista Forbes, solo nella capitale russa vivono 25 miliardari, e ben 88 mila sono i milionari nella regione. Senza entrare nel merito delle fortune e dei destini di coloro che vengono definiti i potenti e influenti “grandi oligarchi” (Sergueï Pougatchev, Guennadi Timtchenko, Iouri Kovaltchouk, Arkadi Rotenberg, Boris Rotenberg), dei casi come quelli di Nikolai Smolenskj (a 24 anni, terminati gli studi, non ha trovato la Mercedes nera sotto casa con il fiocco rosso, ma ha scoperto di essere diventato proprietario della fabbrica dei più esclusivi bolidi inglesi, la Tvr) o di Roman Abramovich (l’uomo più ricco di Russia che ha acquistato il Chelsea Football Club), ammettiamo di rimanere spesso colpiti, girando per le strade di Mosca, da alcuni aspetti in grande contraddizione fra loro.
Se passeggio lungo la centrale, aristocratica ed elegante via Ostozhenka, diretta verso la Chiesta del Cristo Salvatore e le sue guglie dorate, vengo superata da fiammanti bolidi che, oltre a violare ogni minima regola di velocità, sfiorano il limite della maleducazione e del buongusto. La Jaguar parcheggiata con il cofano occupato da un vellutato felino dipinto sdraiato non è da meno. Vedi poi sfilare ragazze pettinate, truccate e profumate che sembrano uscite dalle copertine di Vogue o di Vanity Fair, pellicce sfavillanti e tacchi a spillo anche a meno venti gradi. A pochi metri, alla fermata del metro Kropotkinskaya, gruppi di barboni parlottano fra loro, la bottiglia nascosta dietro il cappotto malconcio e liso. Uno di loro parla concitatamente con un coetaneo e a un certo punto scoppia in lacrime.

Mentre la corsa frenetica al consumo si perpetua, dall’altra parte della strada qualcuno ha perso i suoi punti di riferimento. Accanto a miliardari, milionari o ricchi, 30 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà. Attraversando il ponte sulla Moscova vicino alla Chiesa citata, si arriva al quartiere trendy di Krasny Oktyabr (Ottobre Rosso). Qui troviamo la fabbrica di cioccolato Einem, aperta nel 1867 dai tedeschi Theodor Ferdinand von Einem e Julius Heuss, nazionalizzata nel 1918 e, nel 1992, ribattezzata appunto Ottobre Rosso. Dal 2010, il quartiere – il cui nome ben si addice se si osservano i bricchi color rosso acceso – non ha più niente a che fare con il cioccolato, se non per il nome che è rimasto sulle classiche tavolette che si acquistano come souvenir. Oggi l’area, che si trova di fronte all’imponente monumento di Pietro il Grande che svetta su un’altrettanto imponente nave, ospita centri di fotografia dal forte e penetrante odore di pellicola, gallerie moderne e alternative, locali alla moda.
Qualche collega mi raccontava che qui, a Dicembre 2012, il lusso italiano di Exhibitaly aveva fatto man bassa. Un lusso dove il fattore prezzo non esiste, un inno alla creatività e alla qualità, l’essenza della dimostrazione di un benessere acquisito al quale nessuno vuole rinunciare, una grande opportunità, tuttavia, per il nostro Paese.

La passione per il made in Italy è sorprendente anche per chi è abituato a leggere statistiche e articoli. Sembra un sogno. Ma se Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, diceva che “la povertà non dipende dalla quantità di beni, ma dalle possibilità delle persone di avere accesso a questi beni” e se circa il 70% dei lavoratori, in Russia, riceve meno di 120 euro al mese di stipendio, la povertà qui esiste davvero, in mezzo a tanto nuovi ricchi. E il divario si vede. Lo vedo quando vado ai magazzini Gym vicino al Cremlino o quando entro, accanto al Teatro Bolshoi, negli ancora più lussuosi e inaccessibili Zym, dove, ingenua, avevo accarezzato l’idea di acquistare un bel colbacco bianco che prontamente abbandono a causa del suo prezzo (6000 euro!).

All’uscita penso che sia meglio andarsene da McDonald’s quando incrocio un venditore ambulante di qualche prodotto simile a noccioline che fatica a far quadrare il già misero bilancio familiare. Forse quest’uomo dalla faccia triste e un po’ spenta è georgiano. Questo incredibile divario lo vedo ancora quando scambio quelle poche parole di russo che conosco con le babushke (letteralmente “le nonne”) che lavorano, giorno e notte, nelle portinerie dei palazzi moscoviti, nel tentativo di integrare le loro piccole pensioni (sempre che le ricevano) con un’entrata sicura. Per la stessa ragione, alcune di loro spazzano le scale delle fermate della metropolitana, altre vendono fiori rosa e violetti o prodotti dell’orto per la strada. E’ grande l’affetto dei russi per le loro nonnine, da sempre depositarie di saggezza e di regole di buona cucina casalinga e familiare, piccole donne che con i loro visi segnati dagli anni e gli immancabili fazzoletti colorati annodati sulla testa canuta continuano a mostrare il volto di una Russia povera e antica, anche negli angoli più moderni di una capitale lanciata verso il futuro. Per molte di loro la vita è diventata difficile, dopo la fine del Comunismo, le vedi a guardia delle portinerie, attenti controllori di biglietti nei teatri, nelle stanze dei musei o nei loro guardaroba, azionatrici di scale mobili delle metropolitane, distributrici di giornali fuori dalle stazioni; altre meno fortunate chiedono l’elemosina ai passanti indaffarati, curati e ben vestiti, illuminati da sfavillanti e costose luci natalizie.

La Russia non ha mai conosciuto tanta ricchezza ma la sua ripartizione resta ancora un’utopia. Le spese per le funzioni sociali raggiungono a malapena il 3% del PIL, e nonostante i nuovi consumatori, a volte eccessivi, euforici ed entusiasti, le differenze ci sono e, a occhio attento e sensibile, si notano. Non parliamo poi dell’entroterra, che non conosciamo ancora, ma che osservo da alcuni video e da fotografie che appaiono sul web. Non mancano poi le critiche feroci a questa società fittizia, anche da parte di giovani artisti. Basti vedere il video della canzone ya liubliu neft (amo il petrolio) del DJ Smash, Andrey Leonidovich Shirman, classe 1982, divertente ma allo stesso spietato.

Detto questo, vogliamo però concludere con una riflessione. Abbiamo parlato della dimensione negativa di tanta opulenza e di grandi disparità, peraltro non prerogativa della sola società russa. Non vogliamo con questo dire che qui non vi siano molte cose belle, bellissime. Vedrete.

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Pepito Sbazzeguti, politico impunito, fa ‘outing’ su ferraraitalia

Giovedì trenta gennaio Sergio Gessi, inventore di ferraraitalia, ha fatto incontrare i collaboratori del nuovo quotidiano, on line dalla fine di novembre scorso, nella sala Agnelli in biblioteca Ariostea, presentando al pubblico l’iniziativa editoriale.
Primo merito del direttore responsabile.
Grazie a questa occasione, infatti, mi sono reso conto maggiormente dello spessore della pensata, della qualità dei collaboratori e delle idee che vi sono espresse e messe in circolo.
Secondo merito del direttore responsabile.
Nella circostanza mi sono chiesto se avesse senso ancora la presenza di Pepito Sbazzeguti in quel novero di talenti e intelligenze, perché non vorrei che mi vestisse a pennello la frase di Flaiano: “L’insuccesso gli ha dato alla testa”.
La risposta che mi do è sì.
Quel nome nasce qualche tempo fa dall’anagramma dietro il quale si nasconde il sindaco di Brescello nel film “Don Camillo monsignore ma non troppo” (1963), nell’ambito della celebre saga cinematografica tratta dai racconti di Giovannino Guareschi.
Giuseppe Bottazzi, alias Gino Cervi, sceglie quel nome scritto sul retro della schedina, per nascondere non solo che ha osato giocare al totocalcio, ma che ha pure vinto. E tanto.
Il rossore di cui è preda non ha più niente a che fare con il fervore ideologico, essendo invece un tuttuno con la vergogna.
Vergogna per uno che ha legato il suo destino politico ed esistenziale all’emancipazione del popolo nel nome della giustizia e che ora si trova scandalosamente borghese, cioè individualista, nel desiderio di utilizzare per sé quel denaro.
Pepito Sbazzeguti, dunque, continua ad essere valida chiave di lettura di una politica (e forse di un tempo) smarrita in una deriva di orizzonti e interessi personali che pare inarrestabile. E così facendo finisce tragicamente per contraddire la propria stessa radice semantica: Polis. Oppure, se si preferisce, per segare il ramo sul quale siede.
Ferraraitalia dà la possibilità a Pepito Sbazzeguti di continuare ad essere, purtroppo, attuale e di continuare ad esserlo, come scrive Fiorenzo Baratelli, unendo ragione e passioni. La lezione che Pepito fa sua è in fondo quella di Edmondo Berselli e dell’irresistibile ironia con la quale scriveva di politica. Un modo apparentemente leggero, non razionale appunto, che però era capace di girare al largo dalla noia di una politica ridotta, e spesso descritta, come un vuoto e mortale bla bla.
Così, forse, più persone potrebbero riprendere interesse, e magari pure divertirsi leggendo. Il che in una democrazia che va pericolosamente e progressivamente vuotandosi di contenuti, senso, interesse e partecipazione, non sarebbe male. E non sarebbe male che in tanti, da semplici cittadini continuassero ad esserlo riprendendo in mano la matita elettorale e ad usarla con meno fretta, perché nel frattempo si è diventati più esigenti, critici e liberi, in fatto di idee e opinioni. E non ci si accontenta più dei quattro salti in padella preparati durante campagne elettorali sempre più nelle mani dei pubblicitari – poche cose perché la gente non capisce – o precotti altrove.
C’era della pedagogia nella leggerezza di Berselli e la sua è stata una lezione seria.
E così siamo giunti al terzo merito del direttore responsabile.
Infine la linea editoriale di Ferraraitalia. O forse sarebbe meglio dire la non linea, visto che Sergio non credo abbia mai chiesto ad alcuno di scrivere o non scrivere certe cose.
Eppure, proprio ciò che sembra essere un’assenza si rivolta in una presenza solida e radicata.
Ferraraitalia è la sola redazione che conosca che come linea editoriale non ha una posizione o un principio organizzativo, ma un valore: la libertà di opinione ed il suo massimo rispetto in un incontro libero e civile fra idee e persone.
Quarto merito di Sergio Gessi, cui dico ancora grazie.

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Manutenzione inadeguata, “mancano uomini e soldi”. E i fiumi ora fanno paura

di Irma Annaloro

“Rischi di alluvione? Nessuno può assicurare nulla”. Non c’è allarmismo, ma neppure alcuna certezza. Il responsabile del servizio tecnico Bacino del Reno, l’architetto Ferdinando Petri, parla del quadro idrico e idrogeologico in Emilia Romagna all’indomani dell’alluvione che ha colpito la provincia di Modena, provocata dal fiume Secchia con conseguenze drammatiche per la popolazione. E denuncia situazioni preoccupanti.

Secondo lei, sarebbe stato possibile prevenire il disastro accaduto nel Modenese?
Forse sì, si poteva prevenire. Si potevano quantomeno ridurre le possibilità che avvenisse. Come? Controllando meglio gli argini, e ripulendo gli alvei dove all’interno si forma della vegetazione a causa della mancata manutenzione. Questo comporta da un lato un ostacolo al deflusso dell’acqua e dall’altro un pericolo degli argini. In caso di sradicamenti, gli alberi vengono trasportati a valle in modo turbinoso, spesso cozzano contro le arginature e fanno delle incisioni. Tradotto significa pesanti danni alle opere idrauliche.

E perché allora non è stato fatto quel che era necessario?
Un paio d’anni fa abbiamo stimato, per la pulizia ordinaria annuale dei nostri corsi d’acqua del bacino del Reno, un milione e mezzo all’anno in condizioni normali. Noi generalmente non abbiamo più di 300-350 mila euro. Ciò significa che da un lato si può assicurare una manutenzione, anche a rotazione, solo di una parte dei corsi e dall’altro che i costi aumentano perché intanto la vegetazione cresce e occorrono tempi più lunghi e macchinari più potenti per lo smaltimento. Inoltre, le nostre operazioni rientrano all’interno di un sistema complicato per motivi di carattere amministrativo e burocratico che ci obbliga a sottostare a certe limitazioni che alla fine rallentano la nostra azione e in certi casi ci mettono in condizioni di non poter fare determinate opere.

E’ grave e preoccupante quel che afferma. Ma la sicurezza idraulica del territorio è solo un problema di risorse finanziarie?
No, la sicurezza idraulica è la somma di tanti fattori uno dei quali è quello finanziario. Ce ne sono altri, come la dotazione delle necessarie risorse professionali. In passato il genio civile, che adesso ha lasciato il posto al servizio tecnico bacino Reno, aveva 120 persone e numerose strutture di vertice. Adesso l’organo regionale che ha stesse competenze, se non qualcuna in più, dispone di 70 persone. Di queste, 22 sono addette solo a compiti amministrativi. Di figure operative ne restano 50. Inoltre, il nostro territorio, che è suddiviso in trenta tronchi idraulici, ovvero tratti di un corso d’acqua che ha una sua omogeneità, è supervisionato da nove sorveglianti. In passato, invece, per ogni tronco idraulico era presente un sorvegliante. Le emergenze vanno affrontate con adeguate risorse finanziarie, umane e professionali.

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Ferdinando Petri è responsabile del servizio tecnico Bacino Reno

I rischi idraulici e quelli idrogeologici appaiono concreti…
I due problemi, idraulico e idrogeologico, sono paralleli e coesistenti. Il territorio e l’acqua sono alla base dei nostri dissesti e delle nostre problematiche. Il rischio idrogeologico è legato alla stabilità dei versanti. Negli anni c’è stato un investimento negativo della sicurezza. È un brutto vizio che risale a epoche passate. Succedeva che in pianura man mano che si strappava alla palude terreno coltivabile se ne prendeva il più possibile riducendo così la sezione del corso e ricorrendo ad argini più alti. Un’operazione sbagliata e su cui ora non possiamo fare marce indietro. Il nostro territorio è densamente antropizzato. Bisogna trovare un giusto compromesso con l’ambiente naturale. Sulle diverse centinaia di chilometri dei nostri corsi d’acqua e delle nostre arginature sono presenti situazioni di pericolo su cui non siamo in grado di intervenire per tempo e di programmare attività che possano assolutamente mettere al sicuro da questo tipo di problemi.

Invece bisognerebbe farlo, a cominciare dagli argini…
Gli argini sono opere dell’uomo e dovrebbero essere mantenute con attenzione proprio dall’uomo che le ha realizzate. Sugli argini c’è un terreno e un tipo di microclima tale per cui la vegetazione si sviluppa con velocità doppia rispetto al resto del territorio. Di norma servirebbero due sfalci all’anno sulle arginature. Gli interventi che riusciamo ad assicurare è una minima parte rispetto al fabbisogno generale per garantire almeno la visibilità delle arginature e di poter scoprire per tempo eventuali lesioni nel corpo arginale, accenni di fuoriuscita d’acqua, trasudamenti e altro che possa far scattare un minimo di attività preventiva. Le problematiche relative al mantenimento riguardano appunto fondamentalmente le poche risorse finanziarie che abbiamo a disposizione.

In quali zone il rischio è maggiore?
Sicuramente dove ci sono tratti arginati più alti. Per quanto riguarda l’asta principale del fiume Reno, parliamo della zona che va dal cavo napoleonico in giù e sotto Sant’Agostino. In generale lì dove il Reno è incanalato in una sezione artificiale. La situazione è più critica perché il corso è molto più stretto. Più il fiume scende verso valle, più – a causa dell’intervento dell’uomo – diminuisce la sua sezione e di conseguenza maggiori sono le sue portate. Nella zona dell’imolese, il Santerno è un corso d’acqua pericoloso. Lì, a differenza del Reno di Bologna, il fiume attraversa la città e mette a rischio interi quartieri. Man mano che ci si avvicina al mare cresce l’altezza degli argini su cui non sempre si è in grado di assicurare manutenzione sistematica e costante.

Il Reno allora rappresenta un pericolo?
Il Reno in quanto tale non costituisce un pericolo immediato. Ci possono essere fattori contingenti e puntuali che possono chiedere maggiore attenzione fra cui l’accumularsi di materiale vegetale ma si tratta di problematiche strettamente contingenti, legate a questioni di manutenzione in senso lato. Certo che riuscire a coprire un’emergenza seria quando possiamo contare su risorse così esigue è difficile se non impossibile.

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Eppure ci sono anch’io. L’infanzia con un fratello disabile

Mio fratello nacque nel 1944 in una cittadina del nord della Germania. Infuriava la guerra. I nazisti erano ancora al potere, specialmente nelle menti delle persone. Per i miei genitori deve essere stato scioccante apprendere che mio fratello era nato spastico.
Mia madre ammutoliva sempre, quando noi più tardi nella vita parlavamo della disabilità di suo figlio, mio fratello. Il padre, interrogato sui ricordi, amava rifugiarsi impacciato nelle frasi fatte: «Sono stati tempi difficili».

Ad un certo punto i miei genitori avevano anche sentito dell’eutanasia, ‘l’eliminazione delle vite senza valore’ come si chiamava nel gergo dei nazisti. Ma cosa importava a loro, fino a quando erano gli altri ad esserne colpiti? Certo pochi mesi dopo la nascita di mio fratello era finita la guerra e con essa il nazionalsocialismo, ma erano forse per questo diventate prive di fondamento le paure dei miei genitori?

Dal momento della nascita di mio fratello, per quanto io potessi percepire, i miei genitori cominciarono a comportarsi diversamente. Ci si vergognava di uno della famiglia, i cui modi di muoversi e di parlare erano diversi da quelli degli altri ‘bambini normali’. Fra la famiglia e il mondo esterno vennero eretti alti muri di paura e di distanza. La vergogna determinava interamente i nostri rapporti con le altre persone. I miei genitori ora evitavano l’ambiente circostante e si chiusero nel proprio mondo. Mio fratello venne iscritto nella scuola elementare di zona e non in una scuola differenziale. Una una cosa positiva, si direbbe oggi, ma allora fu l’inizio di una via crucis. In quel periodo venni al mondo io. Solo anni, forse decenni dopo cominceranno a crescere in me certi interrogativi.

Una rete emozionale intrecciata di affetto e repulsione, di ostentato amore e rabbia repressa, di sfida e disperazione si posa sopra una famiglia con un bambino disabile. Perché proprio noi, perché proprio io?

Sebbene fossi un bambino sano venni allevato in un mondo fatto a misura di un bambino disabile. Non ho mai imparato ad essere indipendente. Mi si veniva incontro su tutto. Non dovevo dare nell’occhio, dovevo ringraziare di non essere disabile. Il dover rinunciare al proprio tempo, per doversi orientare su quello quello altrui, lo ha ben espresso Carmelo Samonà nel suo racconto Fratelli. Riconoscente lo ero pure, ma avrei dovuto forse dire grazie di non essere preso in considerazione all’ombra di mio fratello?

Mia madre si impappinava con frequente evidenza quando chiamava i suoi figli. Diceva che le veniva sulle labbra innanzitutto la prima sillaba del nome di mio fratello. Si correggeva immediatamente e chiamava il mio di nome. «Di problemi ne abbiamo già abbastanza», replicò, quella volta che esposi al pubblico il nostro nome, per aver sottoscritto una lettera di plauso all’obiezione di coscienza, pubblicata da un giornale .

Oggi il mio riserbo verso gli sconosciuti non è venuto meno, più o meno come non si è placata la paura di far qualcosa di male e di dare nell’occhio. Continuo a sentirmi in molte cose inferiore. Ma perché, per quale ragione? I miei interessi li devo sempre porre in secondo piano. Avere riguardo per mio fratello era il mio primo dovere, che valeva sempre e dappertutto.

Oggi qualche volta penso che i miei genitori e io abbiamo patito della disabilità di uno della famiglia, più di quanto non sia successo al diretto interessato. Ma è consentito pensare una cosa del genere? È consentito anche pensare, magari addirittura dire, che nei confronti di un membro della famiglia disabile qualche volta si serbano anche sentimenti di livore, di rifiuto, persino di profonda rabbia?

Si può dire che una persona che vive con il permanente dovere di aver riguardo verso il prossimo più debole, venga anche privata di una parte della propria esistenza? «Eppure ci sono anch’io» – quante volte è echeggiato dentro di me, ciò che spesso non mi era permesso di dire. Le derisioni e le umiliazioni, sbattute in faccia a mio fratello a volte con cattiveria a volta per divertimento, colpivano anche me. Per una formazione da body guard non c’è nulla di meglio che un’infanzia al fianco di un fratello disabile.

Quando camminavo con lui per strada, avvertivo la paura verso coloro che ci venivano incontro. Si sarebbero messi a ridere, avrebbero iniziato a barcollare anche loro, lo avrebbero fatto passare per un ubriaco? Ridevano di mio fratello e in quel modo ridevano anche di me, il ragazzino al suo fianco. Ancora oggi mi è rimasta l’abitudine di guardarmi intorno, per vedere se qualcuno mi viene incontro. Voglio vedere se si girano a guardarmi e magari se mi ridono dietro. Mio fratello non poté finire il ciclo scolastico nella scuola elementare di zona. Insufficiente sostegno, fu la spiegazione ufficiale. Rifiuto dei compagni e dei maestri quella probabile. Mio fratello ebbe la fortuna di venire aiutato davvero in un istituto per l’istruzione di bambini disabili. Incontrò professori comprensivi e competenti, dai quali imparò ad avere un approccio consapevole alla propria disabilità e un’altra percezione della normalità.

Le necessità di una famiglia con un bambino disabile sono molto grandi e non bisognerebbe minimizzarle con patetici, moralistici e pietistici sermoni. E tanto più grave è la disabilità, tanto più grandi sono gli oneri per tutti. Ma si impara molto presto a riconoscere quali sono i valori realmente importanti nella vita: solidarietà verso i più deboli, pazienza verso chi esula dalla norma e verso le minoranze; riguardo, rispetto e responsabilità anche verso coloro che vivono all’ombra dei disabili. Nonostante tutto, ci sono anche loro.

(traduzione Antonella Romeo)

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Into the wild

Questo mio non è “Into the wild”, nelle terre selvagge, il grande capolavoro di Sean Penn, il mio protagonista non è il ragazzo Chriss McCondless, soprannominatosi Alexander Supertramp nel momento in cui lascia l’immenso e becero paese di John Waine per andare incontro alla morte nell’inverno dell’Alaska, no, il mio è un piccolo villaggio situato al centro della mia anima, certo è la Siberia, divenuta regione in cui nessuno vuole andare con tutto quel freddo e, soprattutto, con quello che ci ricorda e anche con ciò che ci è stato scritto sopra, terra di morte.

Per me è veramente di vita nuova: il lontano orizzonte bianco, i boschi di betulle e questo piccolo villaggio dove mi sono fatto sistemare, a mio piacimento, l’isba, calda come la pancia della mamma. Il povero Supertramp, nella sua confusa fuga dalla civiltà a stelle e strisce, era finito nella supertrappola (nomen omen) dell’Alaska, nel gelo incontenibile e assassino di una terra inospitale. E poi quell’inutile rifugio costituito da un vecchio e rottamato bus, no, la mia isba è piccola e accogliente, ci ho messo dentro tutti i ricordi che poteva contenere, anche quelli di mio padre, il quale, per primo, mi raccontò dell’inverno a quelle latitudini, dei fiumi gelati e del chiasso che fanno quelle acque tumultuose quando si sghiacciano e i lastroni bianchi si accavallano uno sull’altro con un rumore che toglie, di notte, il sonno. Da qui, da questo mio nuovo mondo, dove penso (e spero) finisca la mia fuga, vedo l’universo di idiozie che ho lasciato come se fossi su un satellite e potessi guardare dall’alto la terra, le certezze idiote, quest’ultima mia città che ho vissuto, che è stata la mia prima e, forse, anzi senza forse, la più amata, ma anche quella che mi ha dato di meno, strano agglomerato non sempre umano, bellissimo a vedersi con un’anima sporca. Ed è qui, nel mio villaggio della nuova vita, che mi accorgo di quanti valori, affetti e amori ho logorato e lasciato, ma non è un bagaglio vuoto quello che mi porto dietro, guai se i ricordi diventano troppo pesanti.

Ecco, da quassù, dal satellite-isba, ho chiarito le mie idee confuse, raffazzonate su per una vita e per affetto mutuate da tanti stupidotti che hanno condizionato e spesso vilipeso la mia esistenza e sento che era molto sbagliato quel mio pensare di pensare che avevano ragione i principi, i conti e i baroni della politica, ai quali ho pur offerto l’anima e loro se la sono presa e se la sono cacciata sotto i piedi, tant’è che per molto tempo non sono più riuscito a riconoscerla. Di tanto in tanto la incontravo, l’anima dico, e le domandavo “ma chi sei?” e lei, sempre: “La tua anima”. Non ci credevo, la mia anima – dicevo – se la sono prese le migliaia di persone che m i hanno attraversato il corpo e poi se ne sono andate senza nemmeno salutarmi. E’ stata una santa sofferenza e ora mi accorgo che il dolore è il grande misconosciuto esame di maturità degli uomini, è stato lo strumento per prendere coscienza della vita e innalzarci al di sopra degli altri esseri viventi. I signori della politica non provano dolore, nemmeno quando vengono sorpresi con le mani nella marmellata. Il dolore è la vera politica, ma è pure un’arma micidiale usata da chi gestisce il potere, da qui vedo bene come fanno i potenti di tutta la terra, per rafforzare il proprio potere raggrumano nelle loro mani tutti i tipi di dolore e di sofferenza e poi spargono questo nettare sulle folle di coloro che protestano per le ingiustizie e le violenze subìte, passate e future, e vedo il dolore che si stampa sui visi attoniti dei lavoratori senza lavoro e senza più dignità, dei bambini, delle madri e dei padri che in tutto il mondo cercano di sopravvivere con 50 cents di dollaro al giorno.

Urla questa massa, si lamenta, s’ammala e i potenti di tutto il mondo la strumentalizza, la scaglia contro altre masse di miserabili, le guerre nascono così, dalla sofferenza manipolata da coloro che stanno in alto, i quali, poi, a massacro compiuto, distribuiranno croci di guerra, medaglie al valore, diplomi agli eroi-martiri, assassini di altri eroi-martiri, ai quali i nobili della politica hanno insegnato che l’odio è merce benedetta da Dio. Allora, è qui, in questa mia isba, che ho conosciuto l’anima della vera politica: la sofferenza, il frutto purtroppo più corposo della vita, chi ha scritto nella preghiera cristiana “in hac lacrimarum valle” non ha fatto altro che raccogliere questo frutto e porgerlo piangente a un’Entità che sperava esistente.

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La rabbia: un segnale d’allarme

Per alcuni, la rabbia si manifesta in modo furioso e repentino: si tende ad urlare e usare parole dure e offensive, “scaricando” su chi si ha di fronte la tensione del momento. Una mia paziente riferisce: “con la rabbia sono cresciuta a stretto contatto… quella che doveva essere una madre amorevole è stata per me una lupa rabbiosa, che per tutta la vita ha deciso di usare gli altri come valvola di sfogo per sentire meno la pesantezza dei suoi sbagli e l’inadeguatezza delle sue scelte”.
Per altri, la rabbia è uno stato d’animo difficile da ammettere e da mostrare apertamente. In questo caso la rabbia, trattenuta e repressa, si manifesta attraverso sarcasmo, spirito polemico, irritazione, fastidio o impazienza. Entrambe le reazioni sono sbagliate e portano conseguenze negative.
La rabbia è un segnale d’allarme per sé e per gli altri che ci circondano, può essere un meccanismo di protezione che ci segnala che qualcosa non va, una reazione di insoddisfazione intensa suscitata da una frustrazione, oppure può segnalarci che i nostri diritti vengono violati, che i nostri desideri non sono rispettati.
La rabbia, infatti, è la risposta fisiologica ad una situazione di frustrazione, soprattutto quando tale frustrazione ci appare ingiusta o arbitraria. Un’altra mia paziente la definisce come “un’emozione disperata conseguente ad un senso di ingiustizia subita e che percepisco come definitiva, irreparabile”.
Solitamente si attribuisce responsabilità ed intenzionalità alla persona che induce tale frustrazione: spesso ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno/desiderio, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare tale appagamento.
La rabbia ha la funzione di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla soddisfazione del proprio desiderio. Per questo motivo si è più spesso portati a pensare alla rabbia come ad un sentimento causato da un altro esterno, ma spesso ci si arrabbia contro se stessi. Una giovane donna differenzia che “se l’altro è la causa, la rabbia è un moto soffocato che sono incapace di esprimere e che porta ad una forma di rancore nei confronti dell’altro e diventa rabbia nei miei confronti proprio per la mia inadeguatezza e incapacità di tenere testa all’altro per timore di un conflitto diretto; se sono io la causa della mia rabbia me la prendo con me stessa ferendomi anche fisicamente”.
Quando non viene riconosciuta e usata al momento in cui emerge, ma viene repressa si hanno conseguenze dannose per sé e per gli altri.
Fin dalla tenera età ci viene insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera; questa emozione viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività e al capriccio. La persone sono spesso spaventate dalla propria rabbia: temono che le spinga a compiere qualche azione dannosa e si rifiutano di prestare attenzione alla collera altrui e ad esprimere la propria. Ma quando la rabbia viene repressa si ritorce contro di noi con attacchi depressivi e alimenta un sentimento di inferiorità; quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre. Il mal di schiena, ulcere, coliti, psoriasi, ansia e panico sono alcune manifestazioni di tale meccanismo.
E’ fondamentale dunque, per la nostra salute psico-fisica, imparare ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata. Occorre imparare ad ascoltare le proprie reazioni e a dare un nome alle emozioni che avvertiamo, contestualizzandole nel momento in cui emergono. Imparare a manifestare la propria collera in maniera costruttiva anziché distruttiva significa conoscere i propri reali bisogni e intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.
La rabbia è una follia momentanea, quindi controlla questa passione o essa controllerà te.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

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Il pesce in un piatto: dal museo di Spina a Masterchef Comacchio

Masterchef sbarca a Comacchio. Giovedì 6 febbraio la puntata del talent show vedrà i concorrenti alla prova nel paese del Ferrarese dove trionfa il pesce e, in maniera distintiva, l’anguilla.

In questo modo la trasmissione (ora su Sky, poi su Cielo) va a valorizzare qualcosa di attuale e legato al territorio, che però ha un filo diretto con la storia. Archeologia e arte, con queste telecamere puntate sui fornelli, prendono forma commestibile, accattivante, succulenta. In televisione nei piatti degli aspiranti vincitori di questo programma dedicato al cibo possiamo vedere la carne dell’anguilla, tanto amata già dagli antichi, e pesci come quelli di 2500 anni fa, dipinti sui piatti esposti al Museo di Spina di Ferrara. Le vetrine dell’Archeologico nazionale di via XX settembre raccolgono, infatti, le stoviglie decorate proprio in questo stesso luogo e rinvenute nella necropoli di Spina. Perché l’antica città etrusca di Spina era lì, nel Comacchiese. La sua parte di necropoli, cioè luogo di sepoltura, era nella Valle Trebba scoperta con i lavori di bonifica del 1922, mentre l’abitato cittadino si trovava nella Valle del Mezzano bonificata negli anni ’60 tra i comuni di Comacchio, Ostellato, Portomaggiore e Argenta.

Proprio nella capitale attuale di quest’area, che è Comacchio, gli odierni appassionati di cucina tornano a fare quello che i loro antenati facevano: prendere una merce pregiata già in periodo etrusco, dove il pesce era appannaggio di pochi, cuocerla in modi diversi (bollita, fritta, al forno, allo spiedo e al cartoccio) e condirla come facevano gli antichi che usavano pesto o spezie, che l’estro del cuoco può in questo caso inventare o riproporre in base a ricette collaudate.

Sarà bello osservare questi piatti e confrontarli con quelli nelle vetrine del museo che contenevano gli antichi cibi: ventuno piatti da pesce a figure rosse su fondo nero con una cavità centrale in cui veniva posto il condimento o salsa che avrebbe insaporito il pesce, da posare sull’ampio bordo (la tesa). La ceramica decorata è anche testimonianza dei contenuti degli chef di un’epoca in cui non c’era ancora altra possibilità per mostrare cosa si mangia, come fa oggi il programma tv, ma anche un post su Facebook o Instagram. Ecco allora terrine con sopra scorfani, cefali, orate, rane pescatrici, razze, seppie e calamari, che così restano intatti nel tempo per essere mostrati non solo a parenti e amici, ma anche ai discendenti dei discendenti.

Un’idea che ha ispirato – venticinque secoli dopo – anche un artista e designer contemporaneo innamorato della ceramica, come Piero Fornasetti. A Milano in queste stesse settimane sono esposti i suoi piatti con i pesci, fino al 9 febbraio alla Triennale in viale Alemagna 6. Un servizio degli anni ’50-’60 riproduce la classica decorazione della porcellana con il paesaggio di base bianco e blu e sopra, a colori ben dettagliati, il pesce che simula la pietanza. Masterchef Italia riporta dentro a un piatto il dialogo tra arte e cibo, passato e presente. Questa volta con qualche Spina…

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A scuola di legalità contro la contraffazione

Si impone un cambio culturale. E, come ovvio, comincia dai bambini, numerosi alla presentazione del progetto contro la contraffazione promosso dall’Europa, raccolto da Confartigianato, Guardia di Finanza, Prefettura, Camera di Commercio di Ferrara, girato a insegnanti e allievi delle scuole ferraresi. L’invito a partecipare a ‘Troppo bello per essere vero? La verità sul prezzo dei prodotti falsi’, è un passo in più per raggiungere la consapevolezza di un fenomeno incontenibile, pilotato dalle mafie e dilagato in gran parte del mondo. Un fenomeno sponsorizzato dagli status symbol: borse, occhiali, abiti di gran moda senza i quali si è ‘socialmente inutili’. Non lo si esplicita in questi termini, ma in modi più insinuanti affidati a Tv e giornali, l’eco di ogni moda. Le novità sono come un’onda, rimbalzano sul pubblico con spot, magazine e periodici fashion propinando a spettatori e lettori una gragnuola di pubblicità patinate vitali per la loro sopravvivenza. La risacca invece trascina con sé un esercito di bambini colpevoli di essere nati nella parte sbagliata del mondo, li inchioda alla catena di montaggio per plasmare oggetti trendy in cambio di una manciata di monete e di molti rischi.

Infanzia, salute e vita negata. A volte stroncata da incidenti di lavoro provocati dalle condizioni di insicurezza dentro le quali si muovono. E’ la legge di sopravvivenza. Sono le regole dell’’altro mercato’, il più scaltro e florido di questi tempi di portafogli vuoti. E di vecchi stereotipi duri a morire sui quali l’industria della moda, ma non solo, ha costruito la propria immagine con l’aiuto di rami produttivi specializzati, oggi tra i più colpiti dalla disoccupazione. Tutto è nel caos, tutto è da ripensare, nel frattempo la speranza di un cambiamento a favore della legalità è affidato a bambini e ragazzi. Sono loro il futuro, anche se partono intralciati da un’eredità pesante, un debito di più di 33 mila euro a testa e dalla necessità di ricostruire un’etica dei valori dal senso compiuto. Intanto possono cominciare a cercare con ‘fantasia e creatività’, come ha ricordato Giuseppe Vancini di Confartigianato, a mettersi in gioco ‘perché il progetto funziona come un concorso, che premia tutti’.

In buona sostanza gli alunni devono far capire al mondo degli adulti di aver recepito il messaggio anticontraffazione, educare i propri genitori a rinunciare agli acquisti di generi taroccati a basso prezzo nell’interesse della dignità del lavoro, della solidarietà verso l’infanzia maltrattata, di regole e legalità. Insomma, una missione da nulla. Fissata probabilmente per la tarda primavera.
Nel silenzio inaspettato della sala conferenze della Camera di Commercio, i ragazzini hanno ascoltato, capito a tratti la breve relazione sull’economia sommersa come ha confermato una dodicenne dai capelli rossi ignara del significato di parole come ‘erario’ o ‘Pil’ . ‘Ci sono bambini che sacrificano la loro vita per costruire cose contraffatte’, ha esordito il direttore della Camera di Commercio Mario Giannatasio. ‘Il loro commercio fa mancare ogni anno all’Italia lo 0,35 per cento del Pil, l’equivalente di 1 miliardo e 700 mila euro e costa il lavoro a 110 mila persone’. Gli ha fatto eco Vancini. ‘E’ una concorrenza sleale per tutti i settori dell’impresa. Speriamo nei ragazzi, nella loro capacità di convincere i genitori ad acquistare guardando la certificazione e la salubrità del prodotto’.
Ragazzi, spalleggiati dai docenti, contro pubblicità, mode, sistema economico. Niente male come responsabilità. Ma è solo con i comportamenti giusti, ha ricordato Vicini, che si può dar forza alla retromarcia culturale per difendere la propria indipendenza economica, fonte di libertà di ogni individuo. A nord come a sud del mondo. Aggiungiamo noi.

‘Non c’è libertà se non c’è rispetto delle regole’ La contraffazione sottrae annualmente all’Italia 1 miliardo e 700 mila euro[/caption], ha aggiunto Serena Botta, capogabinetto della Prefettura nello spiegare come il progetto nato dall’Europa, voglia essere un rafforzativo dell’importanza di giocare secondo le regole nell’interesse del bene comune. ‘Siete giovani consumatori, dovete capire come un prezzo di vendita equivalente a un decimo del valore di mercato di un oggetto, maturi all’interno di un fenomeno dannoso per l’economia, l’erario, la salute e la sicurezza nazionale’, ha spiegato il colonnello Giovanni Lancerin comandante della Guardia di Finanza. Soddisfatto dell’accoglienza riservata al progetto Michele Panicali della direzione regionale scolastica. Ora la parola alle scuole.

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Il terremoto e la geografia dell’anima

Piccola geografia della memoria. Da e-book a testo cartaceo. Perché in fondo anche nella società delle immagini, e del virtuale, continua ad esistere solo ciò che si tocca, che ha odore, che ha una consistenza. Come le pagine dei libri, per fortuna, e come le macerie provocate dal sisma, per sfortuna. A quasi due anni dal terremoto che nel maggio 2012 ha piegato l’Emilia Romagna, la casa editrice ferrarese Festina Lente ha pubblicato l’e-book. Ora, alla luce del successo ottenuto nei primi due mesi di divulgazione, rilancia con un vero e proprio volume, che sarà presentato il prossimo 6 febbraio, alle 17, alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea all’interno del ciclo di conferenze ‘Presente remoto’. Due autori – Emiliano Rinaldi, di Copparo, e Antonella Iaschi, della provincia di Udine – per due differenti registri creativi, frutto delle rispettive riflessioni ed emozioni. Il saggio antropologico e le fotografie, per lui. La rassegna poetica per lei. Uno e unico l’obiettivo. Vedere come i terremoti, tutti i terremoti, dal 400 ad oggi, in Italia come in America, sono stati vissuti, percepiti e soprattutto comunicati dai mass media, «talvolta falsandoli», spiega l’editore, Marco Mari. Composto da un saggio antropologico di Rinaldi, che con un linguaggio semplice e accessibile a chiunque invita a riflettere su come l’argomento viene sviscerato – nei quotidiani, nei fumetti, nei film – e da fotografie da lui scattate corredate da poesie di Iaschi, l’opera è più di una raccolta documentaria, è un compendio che ‘ferma’ le tappe della realtà in movimento. Anche per questo, in concomitanza all’uscita in libreria, editore e autori stanno organizzando una mostra itinerante che sta toccando varie città d’Italia e approderà nei luoghi venuti alla ribalta – ma oggi come prima quasi tornati nel dimenticatoio – del sisma. Quindi Finale Emilia, Cavezzo, Buonacompra. Dove la vita per molti è finita e dove il valore dell’esistenza per tutti gli altri ha assunto nuovi connotati. «E’ un progetto in cui ho creduto molto – spiega Mari – per le prerogative di interdisciplinarità». Le stesse che favoriscono l’interesse dei lettori. «Puntiamo molto sul web», per conquistare giovani, ma anche sulla carta, per i più tradizionalisti. Perché anche l’editoria, va detto, terremoti ne ha subiti tanti, soprattutto per la crisi economica che imperversa. Ma Mari, con la casa editrice fondata nel 2012, ha voluto rischiare, e con una lunga esperienza professionale nel campo e una trentina di titoli fin qui imbroccati, ha puntato sulla ‘memoria’ e su un titolo che «senza moniti e senza denunce» suona come un invito a ricordare, a fissare le emozioni, a trasmetterle. Perché in formato digitale o cartaceo, scrivere e pubblicare equivale a vivere. E a lasciare traccia della propria anima. Anche quando le tracce sono macerie.

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Per ‘cambiare verso’ davvero va reciso il collateralismo fra politica e affari

Se quel “cambiare verso” delle forze politiche si soffermasse anche sui collateralismi, in ispecie quelli legati agli interessi e ai business, forse i sentieri di un Paese che sceglie veramente di cambiare, sarebbero meno difficoltosi e senza pesi da portare sulle spalle.
Siamo di fronte ad una forma di partecipazione politica indiretta che nulla ha da spartire con quel pacchetto di valori e programmi dei dna dei partiti, anzi ne turba il significato dei contenuti e ne inquina i percorsi.

Voler trasportare il sistema del noto e tradizionale collateralismo, o crearne di nuovi, più occulti e per questo anche più pericolosi, nella nuova situazione, apre una concreta possibilità che all’interno di queste “relazioni speciali” si sviluppino operazioni di potere, con effetti distorsivi della dialettica politica e, per certi versi, di quella del mercato.
Questo, naturalmente, vale per tutti, ed in particolare, per una netta discontinuità nelle pratiche del collateralismo da parte di alcuni soggetti che recentemente ‘si sono fatti sentire’ per alcune vicende, come ad esempio quella delle slot machine.

Se si prova a leggere i momenti preparatori del libro più famoso sulle “classi sociali”, a partire dagli anni ’70, che ha visto lunghe riunioni di Paolo Sylos Labini con i ricercatori del Censis, emerge il forte rilievo della composizione sociale del nostro Paese dove cresceva, a dismisura, il suo conglomerato sociale dei ceti medi.
In questo fenomeno incidevano grandi processi.
La crescita dell’associazionismo categoriale dei lavoratori individuali (ed anche di quelli dipendenti, se si pensa al pubblico impiego); un associazionismo che impose il suo potere attraverso quel collateralismo politico che fu coltivato principalmente dalla Dc ma anche dal Pci.

Oggi se dobbiamo fare i conti con i corporativismi di ogni tipo, lo dobbiamo a quell’antica indulgenza alla logica del collateralismo categoriale.
Una sorta di indulgenza per chi stava al governo (Dc) con atti di generosità solidaristica, per altri, che stavano all’opposizione (Pci), per una loro lettura marxiana, egemone e centralistica delle istituzioni.
Ad entrambi veniva imputato, soprattutto ai primi, dalla letteratura degli economisti francesi, una sorta di sotterranea concessione nell’evasione e nell’elusione fiscale (anni ’60 e ’70 ), come l’accompagnamento di una forma di detassazione degli utili, purché reinvestiti, per ricreare anche un circuito virtuoso nelle imprese, facendo crescere il Pil a ritmi esponenziali.

Ora che quel ceto medio si sta sciogliendo e diventa precariato diffuso e ai confini della povertà relativa, l’analisi ci dice che restano, ancora, forti le pressioni e i condizionamenti di alcuni settori protetti (municipalizzate e alta burocrazia), delle grandi imprese, di particolari oligopoli e di noti gruppi sociali.

Tutto questo, ci porta a sottolineare che c’è, ormai, un neocorporativismo ben marcato e che fa resistenza alla nuova politica.
Ma come è possibile farsi interesse generale del Paese se lasciamo alle ormai note lobbies il sottile ruolo di condizionamento sulla politica e i partiti, concedendo alla corruzione il terreno fertile che non fa crescere l’intero tessuto sociale di una nazione?
Chi vuol capire, capisca. E comunque sappia che è finito un ciclo perché il paese non è più in condizione di sostenere né di tollerare i privilegi delle oligarchie.

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Ebrei a Roma, dalla sofferenza un modello per la nostra identità

“Quella che vi offro è una fotografia di un piccolo grande mondo miracolosamente vivo”: così il regista Gianfranco Pannone presenta il suo film-documentario Ebrei A Roma.
Un viaggio tra passato e presente della comunità ebraica più antica del mondo occidentale, catturata nella sua essenza attraverso la voce di David, Giovanni e Micaela. Tre generazioni, per molti aspetti differenti, eppure legate dal filo rosso dell’orgoglio per la propria cultura e il forte senso di identità.
Abbiamo intervistato Pannone al teatro di Villa Torlonia, in occasione dell’evento Ebrei a Roma. Una città e un popolo, realizzato dalla Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea di Roma, dalla Direzione Generale per il Cinema del MIBACT, in collaborazione con Luce Cinecittà, Centro Sperimentale di Cinematografia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). L’evento è stato la prima tappa dell’articolato progetto di valorizzazione e promozione del documentario italiano “Cinema di periferie”, che vedrà susseguirsi proiezioni e presentazioni in vari teatri romani.
Pannone, dal suo documentario emerge che nel ghetto si manifesta di più il senso dell’identità. Questo può essere un insegnamento per tutti noi?
Sì, sono convinto di questo. Oggi abbiamo superato un po’ la mitizzazione della globalizzazione e stiamo riscoprendo che apparteniamo tutti a un mondo con il proprio dialetto, con le proprie tradizioni e con la propria cultura. In questo la comunità ebraica può essere un vero e proprio modello perché, per motivi ovviamente storici, oltre che religiosi, è molto legata alle proprie radici. Così anche io, quando penso al bisogno di sentire un senso di appartenenza alla mia città, Napoli, penso spesso agli ebrei. Quella ebraica, infatti, è una comunità che ha sofferto tanto e che non ha mai dimenticato, dentro alla globalizzazione, di essere molto legata a livello comunitario.
Identità e religione, come dialogano la cultura ebraica e la cultura laica occidentale?
Questo è un tema delicato, che molto spesso crea un grande equivoco perché si confonde l’essere israeliani con l’ebraismo. L’equivoco nasce dal fatto che la cultura laica occidentale in generale tende a separare la religione dallo Stato, in base al principio libera Chiesa in libero Stato, e che, spesso, ci si dimentica che l’ebraismo è fatto di tante facce: esiste l’ortodossia ebraica, che ha anche risvolti politici, ma ci sono anche gli intellettuali ebrei, che rappresentano un pungolo, una critica a un certo tipo di società. Quello che non sopporto è questo tendere da destra e da sinistra a confondere l’ebraismo con Israele. I pregiudizi duri a morire dovrebbero lasciare spazio alla rivisitazione di una cultura che ci offre un insegnamento tale da non poter essere relegato solo a un discorso di ortodossia.
Ebrei a Roma è un viaggio tra passato e presente della comunità ebraica più antica d’occidente. E il futuro?
A Roma oggi la comunità ebraica ha una importanza maggiore di quanta ne avesse trenta, quaranta, cinquanta anni fa. Voglio dire che oggi continua a dare un contributo alla cultura superiore rispetto al passato. Questo si deve senz’altro anche alla figura del rabbino Toaff, che è stato un po’ un viatico per trasformare la cultura ebraica romana, diventata un punto di riferimento anche per i non ebrei. Credo che oggi l’ebraismo sia molto interessante in quanto concretizza il modello culturale che potremmo definire “glocal”, ossia il sentire di appartenere al mondo, globalmente, e l’essere legato alla propria cultura, localmente. In tal senso la cultura ebraica attuale rappresenta un modello per il futuro.
Lei è entrato da estraneo nel ghetto ebraico. Quali difficoltà ha incontrato e quali sono stati i momenti più emozionanti?
Il mio viaggio alla scoperta della comunità ebraica romana è durato due anni e non è stato un viaggio facile. Rompere il ghiaccio, girare in sinagoga, parlare con le persone, sono state tappe cui sono arrivato piano piano. Il momento più emozionante è stato il dialogo tra il padre David e il figlio Giovanni, dove ho assistito a un vero e proprio rovesciamento dei ruoli generazionali, con un figlio che è più ortodosso del padre. David riconosce un po’ timidamente di aver mangiato carne di maiale, è uno degli ebrei romani, quelli chiamati per scherzo ebrei apostolici romani, mentre il figlio Giovanni sente di dover difendere una cultura che ancora oggi il padre ha difficoltà a difendere. E poi mi hanno emozionato la liturgia, il rito del matrimonio ebraico, i canti di Evelina Meghnagi, il coro della sinagoga. In particolare, mi ha colpito la tradizione musicale ebraica, da cui traspare la sofferenza, il dramma storico di un popolo, che ha vissuto sulla sua pelle non solo l’orrore della Shoah, ma anche l’orrore di vivere ai piedi del Vaticano, esperienza che è un eufemismo definire per niente facile. Ecco, non va mai dimenticato che l’orgoglio e anche quella sorta di chiusura, riscontrabile in una parte della cultura ebraica romana, sono motivati da quello che di terribile questo popolo ha vissuto e attraversato senza sosta lungo i millenni.
Focalizzando le riprese sui particolari lei rende omaggio anche alla bellezza e al rispetto per l’arte della comunità ebraica. Un invito a riscoprire e ad amare di più i tesori di una città come Roma?
Beh, si dice che il più “romano de Roma” sia l’ebreo ed è vero. Credo che oggi essere “romani di Roma” passi anche attraverso l’orgoglio di appartenere a un ghetto, che mantiene delle vestigia antiche romane. I primi difensori di tutto questo sono proprio gli ebrei. Riguardo alla attenzione ai particolari, devo dire che mi affascina molto l’iconografia ebraica, i simboli che si possono trovare al cimitero ebraico del Verano, dentro al quartiere, in ogni casa. E’ come se dietro a ogni simbolo, così come dietro alle celebrazioni di grande impatto scenografico, come la festa dell’Hanukkah, ad esempio, ci sia il calore che gli ebrei sanno esprimere per aver sofferto troppo. E’ un calore che nasce da una sofferenza perpetrata nel tempo, che non ha pari nella storia dell’uomo, un calore che chiede massimo rispetto, così come certe manifestazioni che possono sembrarci di chiusura o di distacco. E’ questo modo particolare di vivere, ricordare, celebrare la sofferenza che dovrebbe spingerci a scoprire davvero la storia degli ebrei, oltre la Shoah.
Che cosa rappresenta per lei la Giornata della Memoria dopo questo lavoro?
La Giornata della Memoria è una ricorrenza tragica, ma anche una festa perché non è vero che nel ricordo doloroso la faccia debba essere solo contrita. Bisogna leggere la rinascita anche nel ricordo doloroso: il popolo ebraico è rinato, gli è stato permesso di avere un Paese, un territorio dove ci sono più culture diverse. Un territorio unico, dove mi è capitato più volte di andare. Ebbene, quando sono tornato, ho detto di essere stato in Israele, Palestina e Terra Santa perché quel territorio è fatto di due Paesi ed è anche il luogo del cristianesimo, cui mi sento di appartenere.

Occhi aperti sulla ricostruzione post-terremoto

Controllare l’avanzamento dei lavori della ricostruzione post terremoto, vigilare sulla trasparenza degli appalti, mappare i cantieri ancora aperti.
Sono tutte attività di competenza degli organi di controllo e della pubblica amministrazione, ma perché anche i cittadini non possono prendervi parte come osservatori attivi? E non stiamo parlando degli “umarells” a bordo scavo, ma di persone che si prendono la briga di studiare la legislazione in materia di appalti, fare sopralluoghi sistematici sui cantieri del sisma e far sentire alle istituzioni che la popolazione è presente, non solo per ricevere aiuti, ma anche per verificare come vengono usati.
Certo è uno sforzo in più, ma di questi tempi e in questo paese è tristemente necessario.
A chi pensa che “sarebbe bello, ma…”, diciamo che tutto questo è già stato fatto, e in più nella nostra provincia. Bondeno è infatti stato scelto dall’organizzazione internazionale Action Aid, assieme ad altri quattro comuni emiliani terremotati, per sperimentare il cosiddetto “monitoraggio civico”. Un team di operatori ha realizzato un progetto dal titolo Open Ricostruzione che ha previsto tre incontri nell’arco del semestre che si è appena concluso e ha realizzato attività con le scuole e i cittadini.
Per gli adulti sono stati fatti dei laboratori giuridici per conoscere i meccanismi di concessione degli appalti pubblici, prendendo come esempio il bando del nuovo polo scolastico di Scortichino: si è parlato di anti-mafia, subappalti e sicurezza nei cantieri. Poi sono stati fatti dei tour fotografici con gli Instagramers di Ferrara per immortalare a che punto sono i lavori di ricostruzione degli edifici pubblici danneggiati dal sisma.
Ai ragazzi delle scuole sono stati fatti dei corsi di data journalism, il giornalismo basato sui dati, che ha permesso, per esempio, di integrare il dataset regionale del Piano della Ricostruzione correggendo alcuni indirizzi e arricchendo con informazioni di prima mano la mappa dei cantieri (vedi i risultati del lavoro).
Ma perché Action Aid che normalmente opera nei Sud del mondo ha avviato attività in Italia?
“Qui, soprattutto dopo il terremoto – spiega Christian Quintili di Action Aid – ci sono problemi che ci rendono molto simili agli altri paesi in cui operiamo, e abbiamo sentito la necessità di promuovere interventi sul territorio attorno al concetto di accountability, ovvero responsabilità, trasparenza e partecipazione tra soggetti pubblici, privati e società civile.
Il 17 giugno 2013 la Regione Emilia-Romagna ha emanato un provvedimento nell’ambito della ricostruzione post terremoto. All’interno, ci sono 1502 interventi per un totale approssimativo di oltre 1,3 miliardi di euro (circa il 10% della stima totale dei danni). A Bondeno sono previsti 95 interventi. Noi vogliamo coinvolgere tutta la cittadinanza per comprendere meglio come e perché verranno finanziate le attività per la ricostruzione, chi userà questi fondi e a che cosa i fondi verranno destinati”.
Ed ora che il progetto si è concluso cosa resterà?
“Abbiamo lasciato degli strumenti per continuare il monitoraggio, soprattutto ai ragazzi che sono i più recettivi in ambito tecnologico. Abbiamo fornito testi informativi e nozioni giuridiche che permettono a chiunque di capire se c’è qualcosa di strano nelle procedure e di interagire con le pubbliche amministrazioni e i privati per chiedere chiarezza”.
Rispetto agli altri paesi coinvolti in Open Ricostruzione, i laboratori giuridici di Bondeno sono stati quelli con la minor affluenza, come leggere questo segnale?
“La sensazione è quella di svuotare il Titanic con una tazzina da caffé, ci sono prassi da invertire, il civismo è un muscolo che va allenato – dice speranzoso Quintili – se troveremo altri finanziamenti, ci piacerebbe tornare per proseguire il lavoro”.
“Io sono stato soddisfattissimo – afferma Gino Alberghini, bondenese che ha partecipato a tutti gli incontri – è troppo facile andare al bar e parlare senza sapere nulla. Dispiace la poca partecipazione, ma intanto questo è un inizio”.
Il seme è stato piantato, ora sta ai cittadini farlo crescere.

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Il cuore e la politica

I sentimenti e le emozioni non sono mai stati estranei al mondo della politica. E i politici che hanno ignorato ciò, hanno contribuito alla propria ‘ruina’. Il grande filosofo dell’utopia e della speranza Ernst Bloch era solito raccontare un evento a cui aveva assistito. Era il 1933, l’anno dell’ascesa di Hitler al potere. Al Palazzo dello sport di Berlino viene organizzato un dibattito fra un dirigente comunista e un dirigente nazista. L’esponente comunista, dinanzi a una platea composta soprattutto di operai di sinistra, illustra pedantemente l’idea della caduta tendenziale del profitto secondo “Il capitale” di Marx. E accompagna la teoria con una interminabile lettura di dati statistici sulla disoccupazione. L’oratore nazista, invece, parla con foga, mescolando slogan e frasi ad effetto. Fa leva sui sentimenti nazionalisti frustrati dalla sconfitta della guerra e dall’umiliazione inflitta alla Germania dai trattati di Versailles. Alla fine del confronto, il nazista viene portato in trionfo e osannato persino da quegli operai che, poche ore prima, erano entrati al Palazzo dello sport come comunisti o socialdemocratici. E’ evidente che, in questo caso, siamo di fronte ad un uso demagogico delle passioni; ma ignorarle è altrettanto pericoloso proprio per l’uso nefasto che gli ‘psicagoghi’ ne possono fare. A questo proposito vale la pena leggere l’ottimo libro dello storico inglese Christopher Duggan “Il popolo del Duce. Storia emotiva dell’Italia fascista” (Laterza). Da questa lettura emergono insegnamenti anche per capire i nostri anni recenti.
Una cattiva interpretazione di Machiavelli, come inventore dell’autonomia della politica, ha assimilato la politica a calcolo e ad astuzia. In realtà, la grande tradizione del pensiero politico moderno e contemporaneo (da Hobbes a Spinoza e a Vico, da Croce a Gramsci e a Sen) non ha mai tagliato il legame tra passioni e politica. Per esempio, Vico ricorda che dalla ferocia (i ‘bestioni’…), dall’avarizia, dall’ambizione, nascono il commercio, il governo, le istituzioni. Così Vico propone un modello di rapporto virtuoso tra politica e passioni, perché la razionalità della politica permette alla ‘ferinità’ (violenza dei rapporti primitivi) di farsi storia, legge e istituzione.
Oggi, non è un caso che siano due studiose della cultura femminista anglo-americana a riportare in primo piano il ruolo delle emozioni e delle passioni nella vita pubblica e privata: Martha C. Nussbaum (“L’intelligenza delle emozioni”, Il Mulino) e Emma Rothschild (“Sentimenti economici”, Il Mulino). In questa sede ci limitiamo ad una conclusione generale: lo stereotiparsi della politica attorno a formule, criteri, linguaggi, poteri separati dalla vita reale (la complessa società degli individui) non è l’ultima delle ragioni che l’hanno resa ostile ed incomprensibile.

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A Mosca il museo dell’Ebraismo e della Tolleranza interattivo e in 4D

La tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri. (Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763)

DA MOSCA – Quando ho scoperto che Mosca ospitava il più grande museo ebraico al mondo, ho prenotato il mio consueto compagno di passeggiate e di scoperte per una domenica di fine Novembre, stazione della metro Marina Roshcha, Ulitsa Obraztsova numero 11, quartiere nord della Capitale. Dopo aver camminato per una quindicina di minuti, ci troviamo di fronte all’ex deposito di autobus che oggi ospita il museo e costituisce un interessante esempio di architettura industriale costruttivista.
Il museo occupa gli 8.500 metri quadrati dell’ex Garage Bakhmetievski, costruito nel 1926-1927 dall’architetto Konstantin Melnikov e che, fino al 2011, era una delle gallerie d’arte più frequentate della città, gestita da “Dasha” Alexandrovna Zhukova, compagna del magnate Roman Abramovich (famoso per essere il proprietario del Chelsea Football Club, ma anche per i suoi contributi alle comunità ebraiche in Israele e nel resto del mondo, che riflettono le sue radici ebraiche).
L’intero intervento è costato oltre 60 milioni di dollari, tutti finanziamenti privati, il museo più caro di Russia: i nomi dei benefattori esposti all’ingresso vanno da quello Putin, che ha donato un mese del proprio stipendio al museo, a quelli dell’amministratore delegato di Gazprom, Aleksej Borisovič Miller, dell’uomo più ricco di Russia secondo Forbes 2013, fino a quello di Ronald Lauder, erede dell’impero di cosmetici o dell’imprenditore Victor Feliksovič Veksel’berg.
Creatore di questa spettacolare struttura è il guru mondiale dell’edutainment (o intrattenimento educativo), il famoso ebreo americano Ralph Appelbaum che, con la sua società basata a Soho, ha firmato l’Holocaust Memorial Museum di Washington. Inaugurato l’8 novembre 2012 alla presenza di Shimon Peres, nato, peraltro, a Višneva oggi villaggio bielorusso, il nuovo museo ripercorre i due secoli della storia tumultuosa degli ebrei in terra russa, dalla diaspora all’epoca degli zar, al periodo dell’U.R.S.S. fino a oggi, passando per le repressioni staliniane e l’Olocausto. Interattivo, interattivissimo. Al punto che qualche malevolo lo ha definito “Disneyland in salsa yiddish”. Personalmente non l’ho affatto trovato così, anzi questa interattività è, al contrario, in grado di attirare un pubblico giovane e moderno, quello che deve conoscere, che deve sapere, per mostrargli la cultura ebraica in forma accessibile, un pubblico al quale costruire una memoria.
Così, dopo che mi sono stati consegnati appositi occhialini viola, mi ritrovo seduta in un piccolo cinema che proietta in 4D la creazione del mondo e l’esodo dell’Egitto, travolta da pioggia, vento, onde, terremoto e cavallette. Ho i capelli bagnati, sento le gocce del Diluvio Universale e il vento del mare sui vestiti, animaletti repellenti mi arrivano sul viso. Mentre le poltrone tremano e Dio crea il cielo e la terra, le parole e la musica ti penetrano i pensieri. Si esce dalla saletta un po’ frastornati ma stupiti e sorpresi e si continua, anzi si inizia, la visita, passando da un’epoca all’altra velocemente, senza vincoli di sale numerate o spazi delineati. Tutto è libero, salvo la cronologia, tutto interattivo e quindi guidato da te, come vuoi e dove vuoi. Basta la curiosità a condurre verso oggetti, poster, fotografie, filmati. Sono subito attratta da un’enorme “carta dell’emigrazione” sferica, che riporta la distribuzione geografica degli ebrei. Alcuni plastici a grandezza naturale ricreano, insieme a ologrammi, filmati e sculture, gli interni delle abitazioni ebraiche negli shtetl dell’800, i villaggi dove oltre un milione di ebrei vissero confinati per decreto zarista dopo la spartizione della Polonia. Si è attirati poi dalla parte relativa all’esodo degli ebrei verso le grandi città della fine del XIX secolo, ricostruito con l’esempio di Odessa, città aperta. Grandi fotografie in bianco e nero, panchine di legno che fanno pensare a viaggiatori intirizziti accoccolati ad aspettare un treno che li porterà chissà dove. In una sala è possibile sedersi con lo scrittore Sholem Aleichem (Sholem Naumovich Rabinovič, il primo autore a scrivere libri per bambini in lingua yiddish) e con altre personalità ebree locali. Ci si siede intorno a tavolini rotondi di fronte a queste sculture bianche lattee e si muovono le dita su alcuni libri virtuali proiettati dall’alto sullo stesso tavolino, pagine che magicamente si aprono e proiettano brevi filmati storici, in formato touch come su un iPad. Utile e divertente. User friendly e davvero molto smart come direbbero i giovani.
Al centro del museo vi è un immenso schermo panoramico sul quale sono proiettate le immagini che documentano le fasi più tragiche della Seconda Guerra Mondiale: il massacro di Babi Yar del settembre 1941, le esecuzioni in massa da parte dei nazisti, l’assedio di Leningrado, la battaglia di Stalingrado e infine la vittoria. Sfilano date e numeri. Davanti allo schermo c’è una trincea innevata, elmetti di soldati trapassati da pallottole. Quando per la sala risuonano le scariche di mitragliatrice delle brigate di fucilazione degli hitleriani che hanno sterminato ebrei in Bielorussia, Ucraina e Lituania, ti viene un tremito, hai le mani fredde, le guance arrossate, le lacrime scendono inconsapevolmente, rapide. Vicino, si osserva, poi, un monumento funebre piramidale dove i visitatori possono accendere una candela in ricordo dei milioni di vittime i cui nomi compaiono uno dopo l’altro su un grande schermo scuro. La luce fioca e triste di quelle candele ti porta lontano.
In mezzo a tutta questa solida documentazione storica vi sono anche scene di vita quotidiana, lo shabbat è un invito in famiglia un venerdì sera di cento anni fa, a tavola coi bambini come in un’installazione di Bill Viola, il grande rappresentante della videoarte. La e-Torah diventa un libro magico che si apre anch’esso col touch screen. In un mare azzurro, profondo, illuminato dal sole e sterminato si aprono fotografie e nomi ad esse associate. I ricordi paiono voler annegare qui.
L’esposizione è suddivisa negli stessi periodi storici della storia dello Stato russo. Si tratta, quindi, di uno sguardo sulla storia del Paese da un’altra angolazione. Proprio sulla base dei racconti di anziani ebrei e di storici si costruiscono film sulla rivoluzione, sui pogrom di ebrei, sulla guerra, sull’Olocausto in territorio sovietico, immagini che girano sugli schermi dal pavimento al soffitto.
Abile l’uso delle luci e dell’illuminazione che ti fanno concentrare attentamente su fotografie, documenti, libri, oggetti ricamati e colorati, bianche sculture di spalle che, con la testa coperta e piegata, leggono sommessamente e discretamente, forse sognando di scappare lontano.
La visita si chiude con il passaggio al Centro della Tolleranza dove si proiettano film che invitano alla tolleranza non solo etnica e religiosa, ma anche, per esempio, verso persone con possibilità limitate. Il museo ha già un accordo con il dipartimento dell’istruzione per ospitare classi scolastiche a parlare dell’importanza di essere tolleranti verso le altre persone, che non sono simili a te.
Se siete a Mosca, dovete andare. In questi giorni che ci ricordano quanto è importante la Memoria non si può omettere questo luogo. A costo di non visitarne qualcuno più noto.

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Al voto, al voto: l’Europa, le banche e noi

Fra il 22 e il 25 maggio si voterà per rinnovare il Parlamento europeo. Sono 73 in tutto i deputati che gli italiani sono chiamati ad eleggere, su un’assemblea che in totale ne conta 751, rappresentativi dei 28 Stati membri.
Dopo aver dato i numeri, sarebbe bello se si cominciasse a farsi un’idea di cosa, e soprattutto chi, votare. Tenuto conto che in campagna elettorale non mancherà chi sbraita di uscire dall’euro e comunque sentiremo poco e niente parlare di Europa da una classe politica che, spesso, ha visto quelle poltrone poco più che una gita all’estero.
Dico subito che chi volesse trovare qualche barlume di chiarezza in queste righe temo rimarrà deluso.
Parto dalla seconda parte del titolo del libro di Luciano Gallino (2013), di cui ho raccontato l’ultima volta: “L’attacco alla democrazia in Europa”.

Abbiamo sentito in questi anni da Bruxelles un disco sempre uguale: si esce dalla crisi solo se si diminuiscono deficit e debiti pubblici. E l’unico modo, questa la medicina amara ripetuta fino allo sfinimento, è fare tagli alla spesa sociale che, ormai, non possiamo più permetterci.
Significa usare le forbici su pensioni, sanità, scuola e mercato del lavoro.
Per questo all’Italia è stato detto e ridetto che bisogna fare i compiti a casa per mettersi in ordine, altrimenti non ne usciamo. E non c’è destra, sinistra e persino governi tecnici che tengano: tutti allineati nel ripetere il mantra del riordino dei conti pubblici.

Ma è proprio così? Oddio, su burocrazia e sprechi ben pochi darebbero il sangue, ma secondo Gallino le cose non stanno così.
L’analisi prende spunto dalle due cause della grande crisi globale (Gcg): un eccesso di credito concesso dal sistema bancario, e trasferito fuori bilancio nel labirinto della finanza ombra, e un eccesso di debito contratto dalle famiglie, spinte a comprare da un colossale programma tipo “a me gli occhi”, volto a sostenere gli acquisti per ovviare al problema strutturale della stagnazione, tendenziale esito del ciclo produttivo capitalistico. Un ceto medio, occorre aggiungere, nel frattempo lasciato in modo miope con le tasche vuote a causa di un colossale trasferimento di redditi e ricchezza dal basso verso l’alto.

Il risultato è un’enorme bolla finanziaria, e cioè denaro creato dal nulla e senza alcun riferimento all’economia reale, tanto che ancora oggi questa montagna di capitali fittizi varrebbe cinque volte il prodotto dell’economia mondiale.

La traduzione di questo disastro è stato un debito ciclopico accumulato dalle banche, che per non farle fallire, e ridurre sul lastrico milioni di risparmiatori, gli Stati si sono offerti a coprire. È accaduto negli Usa, in Irlanda, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna e anche in Italia, nonostante ci abbiano sempre detto che il nostro sistema bancario è solido e sostanzialmente immune dall’infezione finanziaria.

Secondo il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, in una dichiarazione resa nel 2011, il totale della spesa pubblica in Ue per coprire i buchi del sistema bancario è stato di 4,6 trilioni di euro. Un Everest di soldi che equivale a oltre il 32 per cento del Pil dell’intera Ue.

Così negli anni della crisi i deficit dei bilanci pubblici sono effettivamente cresciuti in media di dieci volte, mentre i debiti pubblici sono lievitati di una ventina di punti passando da una media del 60 all’80 per cento del Pil.
Sia chiaro che qui non è il caso di alzare le mani in aria in segno di vittoria, se in Italia siamo attorno al 130 per cento.

Parallelamente, però, la media della spesa sociale durante gli stessi anni si è mantenuta costantemente attorno al 25 per cento della ricchezza prodotta in Europa.
“Ne consegue – scrive Gallino – che è del tutto scorretto imputare alla spesa sociale l’aumento del debito pubblico”.
Quindi ci troveremmo di fronte ad una colossale menzogna detta e ridetta come in una seduta di ipnosi, per convincerci che la colpa è nostra e che in questi anni abbiamo vissuto – altra formula magica – al di sopra delle nostre possibilità.
Omettendo, tra l’altro, di dire che un capitolo della spesa sociale, e cioè quella previdenziale e parte degli ammortizzatori sociali, sono il frutto di contributi di lavoratori e imprese e non spesa pubblica.

E invece pare sia ormai assodato che sul banco degli imputati debba stabilmente starci non chi ha causato questo crac planetario, ma un intero sistema di protezione sociale che costituisce uno dei pilastri fondamentali dello stare insieme e della qualità civile dell’Europa.

Una delle travi portanti della casa europea, volutamente issata da chi ha a lungo sognato questo edificio, al di là delle sue traduzioni nei rispettivi modelli scandinavo, cristiano-sociale tedesco, francese e catto-socialdemocristiano italico.
Un sistema, tra l’altro, i cui primi vagiti risalgono alla Gran Bretagna di Churchill e alla Germania di Bismarck, e cioè a quel medesimo mondo liberale che oggi vorrebbe usare il bisturi e rinnegare se stesso e le proprie radici.

Da qui l’attacco alla democrazia in Europa che sarebbe in atto e pure i pericoli irresponsabilmente non calcolati di una tensione sociale che può finire nelle braccia di nuovi populismi sempre dietro l’angolo.
Irresponsabilmente non calcolati, si badi, specie da chi ha usato modelli matematici come se piovesse, e con l’aiuto di pezzi importanti del mondo accademico, per produrre questo disastro.
E adesso sono gli stessi che avrebbero deciso di mettere le mani sull’ultimo, forse, diaframma che distingue ancora un continente democratico dal pianeta delle scimmie.
Ma allora che si fa il maggio prossimo davanti all’urna?
Ve l’avevo detto di non aspettarvi granché da queste righe.
Eppure, se si iniziasse a riflettere e discutere, innanzitutto se questo ragionamento tiene, forse non sarebbe tempo perso.

apprendimento

Il Festival dell’Apprendimento

Oggi parlare di città della conoscenza, di learning city, significa operare per realizzare il nostro desiderio di vivere in una società, a partire dalla nostra città, più uguale, più democratica, più stimolante, dove si cresce insieme, dove la crescita di ognuno è interesse di tutti, perché ognuno è valore in sé, è una preziosa risorsa del e per il territorio.
La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono la nostra libertà. Si nasce che è tutto un darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E quello è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale.
La stupenda avventura della crescita come cammino nel mondo è storicamente imbrigliata e mortificata dalle culture, dai costumi sociali, da un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio per poter essere accolti nell’alveo degli adulti.
L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.
La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.
L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente, sullo sviluppo del potenziale individuale, su sistemi formativi fondati sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché, come ancora accade nelle nostre scuole, sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.
In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi dell’apprendimento.
In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo collettivo che avviene in modo quasi esclusivo all’interno delle istituzioni scolastiche.
Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione, crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.
Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.
Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono composte da rappresentanti di scuole, università, imprese, enti locali e regionali, centri di formazione per gli adulti e associazioni di volontariato.
La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.
La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono. L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole. Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento. Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.
Nello stesso tempo, l’apprendimento diventa un servizio alla comunità perché i futuri cittadini vengono coinvolti nella comunità locale. L’educazione concerne l’apprendimento, e non la ricezione passiva dell’insegnamento.
Un apprendimento che procede dal basso e non promana dall’alto, quasi per concessione o calcolo politico. Un apprendimento il cui focus è contenuto nel concetto di realizzazione del potenziale umano di tutti, dello sviluppo del capitale umano come risorsa per la crescita del capitale sociale della propria città.
Ci sono i festival della letteratura, della filosofia e ancora altri, perché non unire in una rete, in un disegno coerente le tante opportunità offerte dalla nostra città per celebrare il Festival dell’Apprendimento capace di far incontrare e dialogare la scuola, la città, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione, di interesse comune.
Questo vuol dire confrontarsi in concreto con l’idea di città della conoscenza.

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Ministro che va, ministro che viene. Ma l’agricoltura non può restare merce di scambio

Le dimissioni del ministro Nunzia De Girolamo hanno nuovamente privato il Ministero delle Politiche agricole del massimo responsabile politico. Senza entrare nel merito delle vicende che hanno portato alla scelta della titolare del dicastero di via XX Settembre, mette conto osservare che tutto ciò accade nel momento in cui si devono assumere decisioni importanti per il settore agricolo ed agroalimentare, in primo luogo l’applicazione della nuova Politica agricola comune, che comporta interessi vitali per le imprese italiane del settore. Per questo motivo il presidente del Consiglio Enrico Letta dovrebbe nominare rapidamente un nuovo titolare.
In cinque anni si sono cambiati cinque ministri delle Politiche agricole. Il che da un’idea della precarietà nella quale si governa l’agricoltura in Italia. La carica di ministro è storicamente merce di scambio, e nel caso specifico di scambio residuale: se nella formazione della compagine di governo i conti non tornano per questa o quella parte politica, zac! Ecco l’agricoltura come materia di compensazione degli squilibri.
Non parliamo poi dell’efficacia e del peso delle nostre rappresentanze governative a Bruxelles, dove si decidono i destini delle agricolture dei 28 Paesi membri. Si racconta – ma mancano i riscontri – che uno dei ministri italiani del recente passato, Giancarlo Galan, all’inizio del proprio mandato fu scambiato per un dirigente ministeriale, perché le trattative, da tempo, venivano seguite da un alto funzionario (poi divenuto esso stesso ministro), Mario Catania. Ma tant’è: a Bruxelles abbiamo contato sempre poco, e solo negli ultimi anni, con l’accrescimento del peso politico dell’Europarlamento in seguito al trattato di Lisbona, si è potuto vedere un ruolo attivo dell’Italia nel varo dell’ultima Pac, attraverso la Commissione Agricoltura presieduta da Paolo De Castro.
Al di là dei problemi di rappresentanza – che contano però, eccome, quando si prendono le decisioni – è sconsolante vedere che un settore vitale per l’economia sia continuamente messo in tensione e privato di orientamenti strategici. Nel 2013 il valore delle esportazioni di prodotti agroalimentari italiani ha raggiunto il massimo di sempre, con quasi 33 miliardi di euro (+6% rispetto al 2012): vino, ortofrutta, olio e pasta le “voci”trainanti. Il bisogno non è soltanto di strategie economiche per rafforzare queste performance (in primis, la difesa del made in Italy e l’internazionalizzazione delle imprese) ma anche le misure per affrontare e prevenire i disastri generati dagli eventi climatici estremi (frane, alluvioni e così via) e difendere il territorio dal consumo di suolo, mettendo in efficienza le strutture idrauliche e di bonifica per limitare o evitare il dissesto.
Non c’è bisogno di un ministro a tempo, quali che siano le vicende politiche. E nemmeno di un governo che relega l’agricoltura a materia di scambio o di trattativa, isolandola dal contesto generale, come da troppo tempo sta avvenendo. E, poiché è di moda parlare di tecnici, un check-up alla struttura di via XX Settembre sarebbe proprio necessario.

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I giorni bui delle vite rapite

DA MOSCA – Sono a Roma con una cara amica, passeggiamo per il ghetto. Ci siamo riviste dopo tanti anni, appuntamento in un Campo dei Fiori illuminato dal sole del tramonto, bellissima piazza come sempre, fiorita, immersa nei colori dei tulipani e delle rose che fanno capolino dai chioschi che da lungo tempo la accarezzano. Maria mi aveva parlato di questo libro coinvolgente della Foa, e avevo, come al solito, dovuto attendere il mio rientro in Italia per acquistarlo. Dopo chiacchiere e cena, con lei varco il portone antico di Portico d’Ottavia 13. La mia amica abita lì ora, avrei visto quel luogo prima di leggere le parole impresse sul fuoco di quella professoressa che mi avrebbe tenuta incollata alle pagine intrise di storie nelle fredde serate moscovite. Sono scorsi fiumi d’inchiostro sulle deportazioni degli ebrei, sulle loro tragedie, le razzie che li hanno portati lontano, le loro anime vendute, rapite, violentate, rovistate, scucite, strappate, rovesciate, sballottate, sviscerate, trafugate, cancellate. Abbiamo visto molte immagini di quelle anime, fotografie, mostre, musei, film. Ma ora abbiamo una sensazione diversa, forte e intensa, quella di vederli per davvero, nella corte rinascimentale, per le scale, persi fra le belle logge, davanti alle porte dalle quali sono usciti per l’ultima volta il 16 ottobre 1943. Di quel giorno autunnale piovoso non ci sono foto, qualcuno dice per le esitazioni dei tedeschi di Dannecker di fronte a deportazioni degli ebrei romani effettuate proprio “sotto le finestre del Papa”, qualcuno pensa ad un caso, qualcun altro alla loro possibile esistenza in un archivio ancora inesplorato. Leggendo le pagine della Foa, che ha lungo abitato in quell’immobile, non si percepisce violenza ma solo fretta, povera gente che non comprende, che cerca di scappare, di rifugiarsi in case vicine ma che proprio per la fretta e i calci dei fucili che spingono violentemente e velocemente all’esterno, non riesce a sfuggire alla presa di tenaglia di rapitori di vite. Osservo le scale dal sapore antico: la casa si trova vicino all’omonimo portico del II secolo a.C., costruito in sostituzione del più antico Portico di Metello, e sulle cui rovine, nel medioevo, furono edificati un mercato del pesce e una chiesa. Dicevo, guardo quelle scale e le ricorderò bene quando leggerò che gli abitanti della Casa, quel funesto giorno di Ottobre, furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi di quel Portico-mercato. Le persone più umili della comunità ebraica che vivevano nella Casa, ambulanti, sarti, falegnami con mogli, figli, cognate, venivano trascinati via, senza distinzione di sesso ed età; le liste erano stilate con precisione, i nomi chiari e impressi sulle pagine insanguinate che i reparti speciali avevano fra le mani. Leggiamo nomi e cognomi, storie di vite perdute, vediamo cantine buie e polverose dove qualche giorno dopo la razzia qualcuno avrebbe dato alla luce una bambina. Sono stata tentata di riportare il nome di questa madre, ma preferisco non farlo per non dimenticare tutti gli altri citati nel libro ma che io non ho elencato. Gradino dopo gradino, passo dopo passo, scala dopo scala, antro dopo antro, anfratto dopo anfratto, piano dopo piano, finestra dopo finestra, porta dopo porta, i ricordi si affacciano alla nostra immaginazione incredula e ferita. Ricordo che non abbiamo, per età ed esperienza di vita. Il merito di queste pagine è proprio quello di creare una memoria a chi non c’era, di farlo riflettere a lungo, di fargli sentire l’odore acre della paura, di chi, senza far rumore, era scomparso nel nulla.

riferimento bibliografico
Anna Foa, Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, Laterza, 2013

La memoria è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell’oscurità, schiacciati dal “terribile potere di annientamento” della Storia universale, come la chiamava Nietzsche. La memoria è resistenza a questa violenza; essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e cancellati, di quella “pietra rifiutata dai costruttori”, di cui il Signore farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e rispetto. (Claudio Magris)

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La Pimpa: una costruttrice di mondi possibili

Mi capita di guardare la Pimpa, talvolta, insieme a Gioia, la meravigliosa creatura che da quindici mesi allieta la mia vita e quella di tutta la famiglia.
Pimpa è una cagnolina a pois rossi, creata nel 1975 dal geniale estro di Altan. Noi adulti abbiamo conosciuto Altan soprattutto per la straordinaria capacità di sintesi sociologica sui mutamenti sociali in corso dagli anni settanta. Francamente non avevo mai prestato attenzione ai suoi cartoni per bambini. La Pimpa esce la mattina salutando Armando – che ricambia mentre, seduto nella sua poltrona, legge il giornale – e va nel mondo, pronta a sempre nuovi incontri. Armando è un uomo quieto, la saluta benevolo e resta seduto ad aspettare il suo ritorno. Il refrain della musica recita “perché la Pimpa, ecco chi è!” Vale la pena cercare su youtube uno di questi video di pochi minuti, per ricevere una piccola carica di buon umore.
Racconto una storia, una delle tante, paradigmatica. Una giornata di neve, la Pimpa incontra un Bob a due, rosso fiammante, e dice (più o meno): “mi porti a fare una discesa sulla neve?” E il Bob risponde: “non si può, sono a due posti!”. La Pimpa replica: “aspetta un momento” e si mette all’opera: raccogliendo neve fresca, costruisce un pupazzo di neve. Dopo avere disegnato al pupazzo la bocca, gli chiede: “vuoi venire a fare una discesa con me? E il pupazzo risponde lieto: “Volentieri!”. Lei lo prende e lo carica sul Bob che immediatamente dice: “Ora possiamo andare!” e la Pimpa e il pupazzo si godono sorridenti la spericolata discesa.
Al ritorno, ogni sera, la Pimpa racconta ad Armando l’avventura della giornata. Talvolta Armando replica con obiezioni come: “non è possibile, perché …”, ma noi sappiamo che ciò che racconta la Pimpa è accaduto davvero e anche Armando prende atto, con un laconico e accondiscendente: “ma certo!”.
Gioia guarda attentissima e assorta, come cercando di capire il messaggio sotterraneo. Ma forse, più semplicemente, le piacciono i disegni colorati e i pallini sul manto, che ogni tanto si staccano quando la corsa si fa veloce.
Ma chi è la Pimpa? La Pimpa è l’alter ego di Armando, ciò che gli consente di sognare, di andare con la mente in luoghi in cui non sa o non vuole andare nella vita quotidiana. È colei che gli consente di sperimentare mondi possibili, di rivisitare con occhi della meraviglia e dello stupore lo spazio angusto che sta intorno alla poltrona della sua stanza. È uno sguardo sul mondo, la conquista di uno spazio di libertà sempre possibile.
Mi chiedo perché non avessi capito prima il grande insegnamento della Pimpa. Altan, anche in questo caso, in modo più diretto dei miei riferimenti di scuola, di sociologi straordinari come Berger e Luckman, che hanno formato il mio orientamento di ricerca, ci insegna che il mondo della vita quotidiana è una realtà ordinata da routine e consuetudini che perpetuiamo e riproduciamo in modo acritico. Ma la realtà è il frutto della rappresentazione che ce ne facciamo e, quindi, possiamo costruirla, almeno in parte.
La Pimpa ci ricorda che cercare ed esplorare i mondi possibili è un esercizio per trasformare il mondo e che la fantasia è la condizione per creare una realtà migliore.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma)
Laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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L’europeismo di Bassani

“Anche la migliore delle tradizioni si serve solo rinnovandola” (Vittorio Foa)

DA MONACO DI BAVIERA – Non viviamo più nel periodo del fascismo e, né in Germania né in Italia, incombe la minaccia di un ‘nuovo fascismo’. Gli avvertimenti antifascisti di Bassani perdono quindi oggi il loro significato più stretto. Il contesto attuale è, infatti, completamente diverso da quello del periodo dal dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso. Esistono tuttavia molti nuovi pericoli al giorno d’oggi, dai quali Giorgio Bassani ci ha messo in guardia già a suo tempo: per esempio la “depoliticizzazione della democrazia”, le forme di una nuova oligarchizzazione all’interno della democrazia, il crescere di un “regionalismo provinciale”, la commercializzazione estrema dello sviluppo urbano e del territorio ecc.

Nella lotta contro questo degrado di politica e democrazia, in breve della “società civile”, può essere utile imparare dalle esperienze di chi ci ha preceduto e confrontarle con le nuove realtà di oggi. È tuttavia possibile parlare della “eredità spirituale, politica e civile nella tradizione di Giorgio Bassani” nel contesto attuale, solo se non ci si lascia andare a qualsiasi nostalgia. A questo proposito alcune osservazioni.

“Italia Nostra” sta a cuore all’Europa intera. Il 65 % del patrimonio artistico europeo è custodito in Italia. Per questo è importante per Italia Nostra, laddove possibile, superare i confini nazionali. Per Bassani, in particolar modo negli ultimi anni del suo fervido impegno politico ed intellettuale, questo “orientamento europeo” era estremamente importante.

In una conversazione con Paolo Bonetti, pubblicata nel 1984 nella rivista politica “La Voce Repubblicana”, Bassani ha parlato a lungo della “sua Europa”. Quella conversazione, dal titolo “L’Europa della cultura e della ragione”, è stata a malapena presa in considerazione dall’opinione pubblica italiana di allora. Si tratta di una sorta di testamento civile ricco di spunti di riflessione, formulati a volte con un’idealizzazione del pensiero europeo che oggi può apparire inconsueta, ma che contiene alcuni pensieri che sembrano essere profetici:
“L’Europa è concepibile solo come un’Europa dei cittadini, nel significato storico e culturale della parola ‘cittadini’… Dobbiamo unire la cultura tecnica europea con quella umanistica e civile”.
E poi in merito al rapporto Europa – America: “Dobbiamo vedere l’America come un esempio da correggere – è più avanti di noi sulla strada dell’industrializzazione totale, anche perché è un paese semplice, meno ricco delle infinite complessità europee. Ma è il frutto nostro, l’erede della nostra cultura e della nostra tradizione… Tutti, americani ed europei, siamo nati qua, da questa parte dell’Atlantico, ma noi siamo più vicini alle radici, che sono anche loro. Difendere queste radici dalla barbarie di un mondo che considera l’uomo come un semplice oggetto da consumare, è il nostro compito comune”.

Anche se Bassani si è sempre distanziato dalla cultura del ’68, c’è sempre stata una certa vicinanza con alcuni dei pensatori di questo movimento di protesta, per esempio con Herbert Marcuse, la cui opera principale si intitola L’uomo a una dimensione.

Bassani rappresentava un “regionalismo estremamente moderno, ovvero un regionalismo civile e non popolare” (Pasolini). I suoi romanzi, ma anche le sue posizioni civili, sono fortemente radicate a livello regionale (“nel Ferrarese”), ma non sono mai solo “regionalistiche”, o “localistiche”. “Volevo essere realista ma non provinciale”. Sin dall’inizio Bassani si considerava anche un “cittadino di cultura europea”, se non addirittura “un cittadino del mondo”. Bassani, forse inconsapevolmente, ha anticipato l’epoca odierna della globalizzazione. Naturalmente non ne poteva prevedere le conseguenze sociali e culturali, soprattutto i movimenti migratori di massa, ma sicuramente non si sarebbe mai schierato dalla parte del regionalismo aggressivo, provinciale e nostalgico, sostenuto oggi per esempio dalla Lega Nord, ma anche in numerosi paesi europei. Giorgio Bassani ha potuto sostenere la sua opinione in maniera molto chiara, non cadendo tuttavia mai in eccessi populistici. “Civiltà e Cultura” erano i valori centrali nella corrispondenza fra Thomas Mann e Benedetto Croce. Questi restano un leitmotiv anche nell’opera di Bassani che era un grande ammiratore sia di Mann che di Croce.

“Fare della politica ma non farla”. Bassani ha così descritto una volta il suo rapporto con l’impegno politico: “Si deve fare della politica ma non farla”. Oggi si parla molto della crisi dei partiti e della democrazia rappresentativa. Allo stesso tempo però si riscontra, soprattutto tra alcuni esponenti delle generazioni più giovani, un maggiore interesse per l’impegno civile e la responsabilità globale al di fuori di partiti e associazioni tradizionali. Paul Valery a sua volta ha detto che “la politica è l’arte di impedire che la gente si interessi di ciò che li riguarda”. Sia in Italia che anche in Germania vige oggi una forte “disaffezione nei confronti dei partiti politici”, ma questo non equivale a una “stanchezza nei confronti della politica”. Non si può parlare di “antipolitica”, ma di ricerca di altre forme di partecipazione a processi decisionali, le cui conseguenze oggi non hanno più dimensioni solo locali, bensì quasi sempre anche regionali o addirittura globali. Volendo esprimere lo stesso concetto in maniera più accorata: per molti “Italia Nostra” non è più sufficiente. Per loro sarebbe più corretto parlare de “Il Mondo Nostro”, pensiamo ad esempio al grande interesse suscitato da un festival come l’Internazionale a Ferrara. “Si deve fare della politica ma non farla” potrebbe essere il leitmotiv di questo nuovo interesse politico freddo e scettico verso i vecchi partiti ma curioso verso un nuovo modo di trovare concetti e strutture di una nuova vita sociale e contro la “indifferenza globale” (Papa Francesco ).

Per far comprendere veramente ciò che lo ha mosso, sia nelle sue opere letterarie che nel suo impegno civile, Giorgio Bassani, nella conversazione con Paolo Bonetti sull’Europa, invita chiaramente e senza alcuna retorica alla lettura delle sue Storie Ferraresi: “Lo spirito insieme ebraico e cristiano è ben presente nel mio Romanzo di Ferrara… In questo libro c’è il mio messaggio all’Europa, il senso profondo del mio impegno morale e civile”.

Questa tradizione “di impegno morale e civile” viene poi ripresa dall’olandese Rob Riemen nel suo libro, pubblicato da Rizzoli, Nobiltà di spirito. Elogio di una virtù perduta. A fare da introduzione una citazione dai Giardini dei Finzi-Contini: “Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare”.

L’istituto Nexus (con sede a Tilburg, nei Paesi Bassi) cerca da anni, così come fecero Thomas Mann e Giorgio Bassani, di dare una nuova voce alla “nobiltà dello spirito” (attraverso conferenze, network internazionali di intellettuali ecc.). Gli ideali per cui hanno combattuto Thomas Mann e Giorgio Bassani, Hannah Arendt e Norberto Bobbio, vanno però sempre adattati alle nuove realtà. “Se si vuole rimanere fedeli ai propri ideali”, scrive Rob Riemen, “si deve essere aperti al cambiamento delle forme”. Una dichiarazione che sicuramente anche Giorgio Bassani avrebbe sottoscritto.

In Europa ‘Jolanda’ primeggiava con Grazia Deledda e Matilde Serao

MARIA MAJOCCHI PLATTIS (JOLANDA)
(a 150 anni dalla nascita)

Maria Majocchi Plattis in arte Jolanda (1864-1917), essendo vissuta relativamente isolata rispetto al mondo accademico/letterario del proprio tempo e «per giunta donna e addirittura autodidatta, – scrive Giancarlo Mandrioli nell’introduzione al profilo pubblicato nel 1997 da Maria Gioia Tavoni – non raggiunse in Italia il credito di valore dovutole; l’ampia fama era circoscrivibile alla letteratura minore, rosa, della belle époque. Diverso il riconoscimento riservatole in sede europea, a livello di traduzione di opere, non inferiore a quello tributato a Grazia Deledda [premio Nobel nel 1926] e a Matilde Serao».
In effetti Jolanda «si rivolgeva a un pubblico ben preciso: donne, ma in prevalenza appartenenti alla borghesia benestante e alla nobiltà; – commenta Maria Gioia Tavoni – gentil sesso, sì, ma armato di tradizione e in possesso di una buona formazione culturale nell’accezione più lata, che è la caratteristica educativa di un certo ceto sociale subito dopo la metà del secolo XIX. […] Se si percorre sia pur frettolosamente la Bibliografia approntata da Mariateresa Alberti per gli Atti del Convegno, si rileva innanzi tutto che l’editore di Jolanda fu principalmente Cappelli. Egli stampava dapprima a Rocca San Casciano. Ebbe fra le mani più di una ventina di opere della scrittrice centese, riedite nell’arco di pochi anni e anche dopo la morte dell’autrice, in un convulso susseguirsi di tirature. […] Il romanzo Le tre Marie sforò le centomila copie e le dodici edizioni; eccezionali furono altresì le otto edizioni di Suor Immacolata e non c’è comunque opera stampata dall’editore romagnolo che non superi almeno, entro il 1928, le tre edizioni».
Il romanzo più conosciuto di Maria Majocchi Plattis è Eva regina, altre sue opere sono: Il fior della ventura, Natale, Le donne nei poemi di Wagner, Sotto il paralume color di rosa, Fiori secchi, Le indimenticabili, Crisantemo rosa, La maggiorana, Le tre Marie, Suor Immacolata, Alle soglie d’eternità, Le ignote, Accanto all’amore, La perla.
Jolanda era nipote del celebre filologo centese Gaetano Majocchi, nato nel 1796 e morto appena quarantunenne. Il quale fu inoltre poeta, latinista, musicologo ed epigrafista. Tra i suoi innumerevoli testi in lingua e in latino, bisogna almeno ricordare i componimenti scritti in occasione delle nozze Carandini-Trivulzio, dove traspare sensibilmente l’influenza di Ugo Foscolo, le Postille del Tasso in Dante e la Volgarizzazione intorno all’Imitazione di Cristo (completata dopo la sua prematura scomparsa da Marcantonio Parenti). Ma il Majocchi è oggi soprattutto ricordato per avere collaborato alla stesura del famoso Vocabolario della lingua italiana voluto dall’abate Manuzzi, una sorta di rifacimento con migliorie di quello dell’Accademia della Crusca, a cui contribuì autorevolmente con un discreto numero di schede anche Giacomo Leopardi.

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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Esther, la donna che visse due volte grazie alla musica

Suona, canta, fa concerti e ha 89 anni. Esther Béjarano è una signora tedesca di origine ebraica, abita ad Amburgo e ha vissuto la deportazione. Una reduce che, attraverso la musica, ancora oggi racconta la sua storia di artista, quella di una famiglia e di un popolo. Esther Béjarano sarà ospite mercoledì 29 gennaio alle 21 al teatro Comunale per un incontro, La ragazza con la fisarmonica, che sarà anche concerto, dialogo, film, libro. Con la partecipazione del fisarmonicista jazz Gianni Coscia e del figlio Joram Béjarano al basso, Esther canterà canzoni della resistenza, della deportazione ebraica e canti nati nei campi di concentramento. Uno spazio verrà dedicato alla presentazione del libro La ragazza con la fisarmonica (edizioni Seb27, Torino 2013) curato dalla giornalista Antonella Romeo.
Il libro è tratto da un manoscritto autobiografico che la Béjarano compose alla fine degli anni settanta, volle raccogliere i ricordi di una vita a partire dall’infanzia a cui seguì l’inizio delle persecuzioni razziali. La musica la salvò, lei suonava il piano, ma con la fisarmonica riuscì a entrare nell’orchestra femminile del campo dove la musica aveva ben poco di ludico perché accompagnava i prigionieri diretti alle camere a gas.

Abbiamo chiesto ad Antonella Romeo, curatrice del volume, chi è Esther Béjarano.
“E’ una signora di straordinaria forza sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, al lavoro coatto devastante di Ravensbrück e che è riuscita a rinascere. È emigrata in Palestina, ma ha trovato un’altra guerra e così, nel 1960, si è allontanata per tornare in Germania con marito e figli”.
La sua storia personale è diventata un libro, un documentario, ma è soprattutto musica con cui Esther riesce a comunicare anche ai più giovani.
“Esther è da sempre un’attivista molto impegnata a parlare di diritti e a sensibilizzare il pubblico per una cultura della pace e della libertà. La musica è stato il mezzo che l’ha aiutata a sopravvivere e l’ha accompagnata negli anni fino ad avvicinarsi alla musica rap con cui vuole raggiungere i più giovani e preservarli dalle derive razziste e xenofobe dell’estremismo di destra, diffuso non solo in Germania”.
La giornata della memoria diventa allora attualità e attualizzazione di una testimonianza che ha molto da dire anche sul presente.
“Dopo gli anni in Palestina, il ritorno in Germania fu traumatico, era la terra dei suoi persecutori e dei carnefici dei suoi genitori e di una delle sue sorelle. Fu un periodo di intenso lavoro e di isolamento dalla popolazione tedesca, abbandonò la musica per fare umili lavori da immigrata, solo negli anni ottanta tornò a cantare e iniziò il nuovo coinvolgimento di artista e testimone che Esther Béjarano non ha ancora smesso”
Il repertorio è stato, infatti, reinterpretato in una modernissima chiave rap, una contaminazione di stili che il pubblico sta apprezzando.
“Dal 2009, Esther canta soprattutto assieme al gruppo rap hip hop Microphone Mafia, composto da lei, dal figlio Joram e dai due rappers Kutlu Yurtseven e Rosario Pennino, figli di immigrati turchi e italiani. Con il suo canto, Esther parla di resistenza ebraica, lotta per la libertà dei giovani partigiani, amore per la pace dei disertori, nostalgia per la patria degli esiliati, desiderio di appartenenza degli immigrati. Ma conversando con lei, si riflette anche su religione, responsabilità delle nuove generazioni riguardo al passato, riunificazione tedesca, politica di Israele, affetti e di quel che conta davvero nella vita”.

L’incontro al Comunale del 29 gennaio, a ingresso gratuito, prevede una prima parte dedicata alla proiezione di scene tratte dal documentario Esther che suonava la fisarmonica nell’orchestra di Auschwitz della regista Elena Valsania sui concerti e le interviste di Esther, una conversazione tra l’artista e Antonella Romeo e, nel finale, un concerto con l’accompagnamento di Joram Béjarano e Gianni Coscia.
L’evento si svolge in collaborazione con Comune di Ferrara, Provincia, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Goethe Institut, Feliz, edizioni Seb 27.

La ragazza con la fisarmonica (edizioni Seb27, Torino 2013) è un libro, a cura di Antonella Romeo, che nasce da un manoscritto autobiografico di Esther Béjarano e che, nella seconda parte, propone un testo scritto da Antonella Romeo intrecciato alle riflessioni di Esther Béjarano. Il libro è arricchito da un’introduzione dello storico Bruno Maida, dell’università degli studi di Torino e ha in allegato il documentario della regista Elena Valsania Esther che suonava la fisarmonica nell’orchestra di Auschwitz.

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Alluvione, nessun allarme. Ma anche a Ferrara il rischio esiste

Al momento è un passaggio tranquillo quello delle acque dell’alluvione modenese attraverso il nostro territorio.
La rete idrica ferrarese è ben preparata a ricevere le masse d’acqua che stanno defluendo dal Secchia e dalle campagne allagate. Il flusso viene convogliato negli impianti idrovori di Santa Bianca, Pilastresi e Botte Napoleonica, che a loro volta scaricano nel Panaro, che arriva al Po, e nel Po di Volano, che arriva al mare.
I livelli dei fiumi sono alti ma al di sotto della soglia di attenzione, e sono in diminuzione, come confermano dall’Ufficio difesa del suolo e protezione civile della Provincia di Ferrara.
E anche in merito al timore di un ritorno di pioggia e neve a monte e a valle, arriva la rassicurazione di Stefano Calderoni, Assessore provinciale con delega alla protezione civile. “Se anche la situazione dovesse peggiorare da un punto di vista meteorologico – spiega – a Ferrara siamo pronti ad utilizzare tutti i canali della nostra rete interna, che d’inverno vengono messi in asciutta anche per ricevere eventuali acque in eccesso”.
“Il timore che l’onda dell’alluvione potesse arrivare a Ferrara è ormai scongiurato” afferma Andrea Peretti, responsabile del Servizio tecnico di bacino del Po di Volano e della Costa. “La falla nell’argine del Secchia è stata riparata, e si sta procedendo a liberare i terreni sommersi”.
Mentre a Modena ancora si contano i danni e si cerca a denti stretti di rialzarsi da questa seconda batosta, arrivata a meno di due anni dal tragico terremoto, rimane da capire come tutto questo sia potuto accadere.
Secondo Giambattista Vai, geologo e direttore del Museo geologico Capellini di Bologna, le tane scavate nell’argine dalle nutrie, individuate ora come principali responsabili, potrebbero essere una concausa, ma è riduttivo focalizzarsi su questo.
“Non dobbiamo dimenticare che gli argini sono stati costruiti a mano dagli scariolanti all’epoca della bonifica, quindi non sono eterni. Vanno costantemente manutenuti e controllati, è questo quello che è mancato. Non si può perdere la memoria della frequenza delle rotte che ci sono sempre state nel nostro territorio, è un fatto normale, a volte inevitabile. In Emilia – Romagna, dove questi fenomeni sono frequenti non dovrebbe esserci un solo argine, ma due, con in mezzo una zona di espansione capace di contenere le acque in caso di piena. E lì non bisogna costruire, si può al massimo coltivare, sapendo che si può perdere tutto. In passato c’era la consapevolezza del naturale divagare dei fiumi, ora si è persa”.
Viene allora da chiedersi se quel che è accaduto al Secchia potrebbe succedere anche ai nostri argini. “Si, certo – conferma Vai – le istituzioni non devono dimenticarsi che questi sono fenomeni ciclici, per cui bisogna investire nella prevenzione e nella programmazione, che costa comunque meno dei danni conseguenti al disastro”.
In questo senso va anche l’intervento di Massimo Gargano presidente dell’Associazione nazionale delle bonifiche delle irrigazioni.
“La rabbia di chi subisce un’alluvione è comprensibile, ma vorremmo si trasformasse nella richiesta pressante dei finanziamenti necessari a quegli interventi, che da anni chiediamo e che, ancora una volta, riassumeremo nel Piano per la Riduzione del Rischio Idrogeologico, che presenteremo a febbraio. Di fronte ad eventi eccezionali, la cui violenza è conseguenza di cambiamenti climatici ormai acclarati, servono quegli interventi strutturali, che chiediamo da tempo e che in Emilia Romagna necessitano di finanziamenti per quasi un miliardo. In assenza di un piano pluriennale di interventi il territorio modenese, come il resto d’Italia, accentua la propria fragilità, aumentando il rischio per le comunità e le loro attività economiche”.

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Ferrara e la storia recente

Mi accorgo che la mia storia a Ferrara procede a balzi: a volte accelerata, altre in rallenty, così le cose, gli avvenimenti sembrano astrarsi e non trovare quel giusto rapporto tra il ricordare e l’accadere. La notizia di una borsa di studio che i figli dedicano alla memoria di Maria Teresa Ronchi mi riporta alla memoria momenti che sembravano cancellati e che ritornano con il lampo del ricordo che tuttavia non ha la forza di ritessere la trama.
Era mia consuetudine per rimpolpare il magro budget di un assistente di ruolo appena nominato a Firenze dove ero stato costretto a prender residenza (e così non poter giovare all’avvicinamento di mia moglie dalle lande deltizie dove insegnava), far domanda di presidente di commissione agli esami di stato. Fui destinato per due o tre anni nella commissione di Maria Teresa e s’instaurò una solida amicizia basata sul rispetto e sulla reciproca condivisione di temi politici e culturali assieme. E ancora oggi con l’aspetto fisico del vecchietto ma ancora con la mente forse troppo giovanile incontro rispettabili signori che mi ricordano quella prova di maturità come una delle esperienze più gratificanti della loro non sempre quieta giovinezza.
C’era stato il ’68, erano gli anni di piombo eppure in questa città si respirava un’aria diversa così differente da quella che respiravo a Firenze centro codificato con Milano della protesta giovanile. Eppure gli studenti ferraresi non erano digiuni dalla conoscenza di quel che avveniva in Italia e non solo lì.
Un altro caro amico troppo presto scomparso che insegnava all’Istituto Industriale: Giuseppe Corticelli, finissimo studioso, allievo di Ezio Raimondi, fece portare “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini (era il 1971) all’esame di maturità nell’anno in cui presiedevo la commissione. C’era un rispetto per la cultura associata alla passione politica ammirabile. Non a caso nell’ultimo anno d’insegnamento prima di essere chiamato al Firenze nella mia classe c’erano Fiorenzo Baratelli, Roberto Cassoli, Marcello Folletti che tanto hanno dato alla città notoriamente dimentica dei propri figli migliori.
Di Maria Teresa ricordo il suo breve passaggio all’assessorato: anche lì riannodammo fili culturali solidi e tenaci. Ma ripeto il ricordo ha buchi neri. E allora mi domando: è la mia memoria che è lacerata o è stata la città ad avere smemoratezze e oblivioni? Era il mio essere pendolare tra due città dove ogni settimana vivevo in una situazione sociale e storica completamente diversa oppure quei buchi esistevano veramente?
Ormai a quasi cinquant’anni di distanza sarebbe tempo di tentare un primo risultato storico e un giudizio. Ma la città sembra distratta da altri pensieri. I giovani non certo migliori o peggiori di quelli che furono i nostri allievi, con insegnanti quasi sempre appassionati del proprio lavoro e con in più l’umiliazione costante che proviene dalle infime condizioni economiche a cui sono costretti, con disastrose riforme scolastiche che hanno coinvolto tutto lo schieramento politico culminato in questi giorni con l’abolizione dell’insegnamento di storia dell’arte voluto dalla meno degna ministra che abbia ricoperto quel ruolo, Maria Stella Gelmini, del cui operato tacere è bello, non paiono solleciti a ricostruire una memoria che li renda in fondo consapevoli di quel recente passato di cui furono protagonisti loro genitori o i loro nonni.
Sembra quasi che nel lungo governo della sinistra in città esista come una necessità se non una volontà di non fare i conti con la storia recente o recentissima. La mancanza di una solida controparte politica che in qualche modo avesse avuto i numeri e la capacità di un’alternanza, la progressiva sparizione di quella borghesia intellettuale che rappresentava l’aspetto migliore del conservatorismo di una città per tanti anni governata dalla sinistra ma il cui potere economico era saldamente in mano agli agricoltori e industriali (pochi) hanno fatto sì che si trovasse comodo rifugiarsi in una specie di non belligeranza d’idee sotto l’ala protrettrice della banca di riferimento. Questo ha forse prodotto l’“oblivione” di cui ancora non si vede la fine.
E ricordando i nomi di valorosi insegnanti che hanno educato l’odierna classe dirigente come quelli di Maria Teresa o di Corticelli, o di Giovannelli , o di Modestino o di Elettra Testi o di Luciano Chiappini o di Roseda Tumiati e del maestro Franceschini o di Don Patruno o di Franco Farina e di tanti altri straordinari insegnanti, mi pare -e sarebbe urgente- che alla fine si cominciasse a ricostruire la storia recente di Ferrara; di vederne i progressi ma anche i regressi e quindi la capacità e la necessità di non arretrare di fronte a una volontà ormai impellente di non lasciare buchi nella trama del nostro recente passato. Ne saremo capaci?

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Fortini: sulle ali delle idee Ferrara può tornare a volare

2. CONTINUA – “Il Verdi ha avuto una storia vissuta e tormentata. E’ stato il vero teatro popolare. Là si è ‘consumato’ ogni genere di spettacolo: la lirica, il cabaret, lo spogliarello, gli orchestrali, il cinema per famiglie e il porno, nell’Ottocento addirittura mangiatori di spade o di fuoco, alternati alle opere liriche… Il teatro popolare, appunto. E curiosamente uno dei pochi in Italia con la particolarità di avere l’ultimo ordine dei palchi affacciato direttamente sul palcoscenico”. A dirlo è l’architetto Sergio Fortini, fautore (con Centro studi ‘Dante Bighi’, Gianfranco Franz e Luca Lanzoni) della sua riapertura autunnale.
Nei pochi giorni in cui le porte si sono spalancate alla città, all’inizio dello scorso ottobre, c’è stata una continua processione di pubblico, per annusare sentori di storia e vedere cosa fosse rimasto di quello spazio: solo volumi e scheletri di memoria. “La temporanea riapertura del teatro Verdi – spiega – ci porta a parlare del capitale narrativo custodito in molti luoghi ferraresi. E’ stato un segnale culturale d’eccezione, nonostante la sua episodicità. L’evento ha mostrato capacità suggestiva, tale da lasciare sospesa la sua dimensione temporale. Ha catturato interesse in maniera trasversale. E in me ha generato una crasi fra Austin e Piranesi, facendomi sentire in uno stato di ‘orgoglio e precipizio’”.

Già, perché ora la scommessa è dare continuità alla suggestione e rendere l’ipotesi una realtà. “Faremo di tutto perché questo accada. Con l’Associazione ‘Città della cultura / Cultura della città’ abbiamo superato la prima selezione del concorso ‘Che fare 2’, bandito dal Sole24ore: di 600 progetti presentati solo 40 sono stati ammessi e noi ci siamo. Questo contribuisce, parallelamente, alla visibilità del progetto e all’avvio del processo di raccolta fondi”. E la Regione che ha finanziato la prima parte degli interventi è disposta a intervenire ancora? “Il cancello non è chiuso e si sta valutando se quello possa essere il canale per ottenere finanziamenti europei. Ciò a cui puntiamo non è la semplice riqualificazione di un luogo, ma la rivitalizzazione di un comparto urbano affinché possa attrarre nuove economie e generare socialità”. Ma concretamente quanti soldi servono? “Sono convinto che si possa realizzare un progetto a bassa risoluzione per il layout degli spazi, ispirato a logiche da loft quindi secondo la tipologia di recupero industriale, con accorgimenti minimali e senza l’impiego di materiali e dettagli costosi si possa realizzare un netto risparmio rispetto ai 10 milioni a suo tempo ipotizzati”. Tradotto significa “meno della metà della cifra prefigurata”.

Dal contesto del teatro Verdi, la riflessione sul capitale narrativo di Ferrara si amplia. E, quasi per prossimità fisica, il ragionamento sulla riqualificazione di ambiti urbani di particolare rilievo si indirizza verso la vicina via delle Volte. “C’è un recupero di immagine e di sostanza che si potrà realizzare nel momento in cui si dispiegherà il progetto del Meis, perché il Museo ebraico rappresenterà l’approdo turistico e la nuova testata di penetrazione della città – osserva Fortini – E via delle Volte è l’asse di attraversamento del nucleo medievale. Ma non c’è ancora una riflessione in atto. Eppure lo stimolo è potente. Una città è fatta da linee e percorsi, si gioca suoi vuoti, non sui pieni. La nostra ha una natura conformista, in ossequio alla quale ha abdicato alla cultura architettonica della contemporaneità, al punto che negli ultimi tre decenni non sono stati realizzati edifici degni di menzione, se non qualche abitazione privata frutto di brillanti ma estemporanee intese fra committente e progettista”.

“Però si è completamente rinunciato a ricercare equilibri e armonie fra antico e contemporaneo come se, da un certo momento in poi, qui come in tante altre parti d’Italia si fosse avvertito il bisogno di rifugiarsi nel classico stilema architettonico della casetta o della villetta a schiera, rassicurante perché banale. E’ una deriva determinata anche dall’incompetenza di chi gestisce il mercato, che ha imposto il modello dell’uni o bifamilare di cui si è riempita la fascia periurbana, impoverendo il paesaggio”.

Il salto dalla presente ‘villettopoli’ alla ‘smart city’ indicata da ‘Cultura della città’  come desiderabile approdo per il futuro di Ferrara ed evocata dall’ex sindaco Sateriale – nell’intervista a ferraraitalia – come potente opportunità di sviluppo e benessere per la comunità, appare dunque un vorticoso viaggio nel tempo, un vertiginoso affacciarsi oltre gli steccati della pigrizia.

“Su questi temi, già da un anno, abbiamo avviato incontri definiti ‘tavole quadrate’, a significare la volontà di smussare gli spigoli esistenti, metafora delle scarse capacità relazionali di attori pubblici e privati chiamati a rendersi protagonisti della trasformazione”. L’indifferibile necessità di un confronto, dunque. “Noi riteniamo che la condizione base da cui partire per impostare una programmazione strategica orientata alla realizzazione di una città ‘smart’ stia nella simultanea e simmetrica condivisione delle informazioni fra tutti gli attori sociali. Se due istituzioni per prime non si parlano e non sono in grado di socializzare conoscenze, competenze, dati, risorse non possono pensare di costruire un ambiente ‘smart’ il cui presupposto è la messa in comune”.

Chi non mastica questi temi come deve figurarsi questo modello di vita comunitaria? “Come un ambiente con un’alta qualità della vita, intriso di una socialità capace di generare opportunità economiche e condizioni di diffuso benessere perché le risorse vengono condivise e dunque ottimizzate a vantaggio di tutti”.
In questo senso il ritardo di sviluppo, oggi, può rivelarsi una risorsa. “Ferrara ha qualità intrinseche che discendono dalla sua storia e che ha saputo mantenere. La sua resistenza al cambiamento ha determinato una sospensione lirica e quasi metafisica. C’è in noi connaturata una lentezza nel vivere che non è quieto vivere, ma vivere quieto”. E tutto questo come si traduce in un progetto di nuova urbanità? “Abbiamo un quadrante intero di campagna dentro la città, regalato al verde dal Rinascimento e conservato sino ai giorni nostri, quello attorno alla Certosa. Siamo una città patrimonio Unesco inserita in un territorio Unesco che si estende sino a Comacchio e al mare. Sono valori aggiunti che pochi posso vantare. In questo senso l’essere rimasta avulsa dalla contemporaneità ha certo significato non avere lanciato al mondo alcun significativo segnale, ad eccezione del Nobel a Giulio Natta per l’invenzione del moplen o delle lungimirante intuizione della videoarte di Franco Farina e Lola Bonora. Ma questo oggi conferisce appunto ‘il valore aggiunto’: la città avulsa dal fluire del tempo, si è sostanzialmente sottratta ai conflitti, ai contrasti, agli attriti, alle contraddizioni della modernità. E si presenta vergine all’alba del 2014. L’isolamento di Ferrara, il freno al suo sviluppo, oggi si traduce in un vantaggio”. In opportunità… “Sì, in opportunità. Per tradurre questa carta in in un asso dovremo avere la capacità di mettere a valore il paesaggio artificiale di città nobilitato dalla storia e il paesaggio naturale incontaminato del forese. Questa è la sfida, questo è il terreno su cui lavorare”.

2. FINE
Leggi la prima parte della conversazione con Sergio Fortini

patto-scellerato

Il patto scellerato

“Bestia!”, penso di pensare mentre mi scorrono davanti agli occhi le immagini della conferenza stampa del potente sciocco di turno, il quale annuncia, con il sorriso beota dei bambini che si ciucciano il dito, di avere sottoscritto un patto di alleanza con Berlusconi. Del potente sciocco mi rifiuto di ricordare il nome, vedo soltanto i suoi occhi sempre sorpresi come di chi non ha capito nulla di quel che gli si dice, di lui ricordo il modo di parlare bleso, con la lingua che s’infila pettegola tra i denti incisivi e obbliga il ragazzo a inzizolarsi per cui il suo alleato diventa Berlutzconi. “O tosco! – direbbe Alighieri mettendolo all’inferno – che per la città del foco vivo ten vai parlando non proprio onesto…” Non mi permetterei mai di mettere un infante alla berlina per il solo gusto dello sfottò, ma qui, in questo momento, in questo paese che sta sprofondando in mare grazie anche (o soprattutto) alla noncurante cupidigia dei palazzinari sui quali la Democrazia Cristiana nell’immediato dopoguerra fondò il suo malinconico impero, dicevo che non mi permetterei mai uno sfottò fine a se stesso se il nostro paese non fosse giunto ormai, con termine caro agli scrittori di calcio, in zona Cesarini. Ma non soltanto economicamente, peggio: moralmente. Ogni popolo, ogni nazione, in qualsiasi regione del mondo, possiede una propria morale su cui ha costruito le sue leggi, le quali, in linea generale, e almeno sui principi fondanti, appaiono abbastanza simili: omicidio, furto, violenza, raggiro, truffa, evasione della tasse, eccetera, sono reati comuni a ogni codice, sottolineando l’unicità della coscienza umana sotto qualsiasi cielo, persino sotto il cielo italiano, dove, se qualcuno l’ha dimenticato, quei valori generali hanno preso forma, nel diritto romano, di regole, di leggi, o semplicemente di broccardi, nel senso che Burchard di Worms, al nome del quale rimanda il termine, diede alle nozioni della più semplice grammatica giuridica. Ora, se dal punto di vista puramente politico il patto tra sinistra, o pseudo tale, e destra è scorretto (ma può essere anche scellerato), perché corrisponde a una truffetta ai danni degli elettori di ambedue le parti, ci sono ben altre considerazioni che condannano le alchimie arzigogolate di tanti politicanti e commentatori, ora così indaffarati a dare senso civico all’accordo del toscano con Berlusconi. La prima è di ordine morale, semplice semplice: non ci si può accordare con un uomo che la giustizia ha condannato in via definitiva e che dovrebbe essere agli arresti domiciliari oppure a eseguire lavori socialmente utili . Non si può, infatti, pensare di costruire una società giusta sulla base di scorrettezze, di sotterfugi (che possono essere tali anche se fatti alla luce del sole), di falsità e di immoralità: la nostra vita deve pur avere un senso morale, se lo eliminiamo azzeriamo d’un colpo tutti quei valori fondanti non tanto del villaggio della nuova vita a cui tutti diciamo di aspirare, ma di una società minimamente legittima. La seconda considerazione è di carattere politico: un solo uomo – se amiamo la democrazia – non può permettersi di vendere non si sa per che cosa la causa a cui credono milioni di cittadini: la sinistra, per tradizione, aspira a una società in cui la povera gente (detta con termine cristiano) abbia i diritti dei privilegiati e addirittura tenda a eliminare il privilegio e, allora, non deve mai, la sinistra, accordarsi con chi è maestro del privilegio e su di esso ha edificato fortune colossali. La politica avrà pure una sostanza, oppure è soltanto forma? Se lo è chiudiamo qui, è inutile fare altri discorsi, lasciamo lavorare chi pensa che la vita sia soltanto una questione di danaro e, sulla base di questo principio elementare, commette reati ai danni di chi crede ancora in qualche sia pur minimo valore.