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La crisi? Il problema
non è l’euro
ma la sovranità monetaria

Dentro o fuori dall’euro? Posto in questi termini l’interrogativo è fuorviante. Il problema vero, infatti, è il controllo dello Stato sulla banca centrale, condizione da cui discende la sovranità monetaria.
Quanti sanno che la Banca d’Italia è una banca di diritto pubblico – ma sostanzialmente privata – sulla quale lo Stato non ha praticamente alcun controllo? E che l’emissione di moneta e l’imposizione del tasso di interesse viene fatta da banche private al di fuori dell’autorità statale? La drammatica crisi attuale si può superare solo se lo Stato riacquisterà la prerogativa di emettere moneta nella quantità adeguata a ripagare l’operatività del sistema.
A sostenerlo, da tempo, è un gruppo di studiosi che fanno riferimento alla cosiddetta “Teoria monetaria moderna” messa a punto a fine Ottocento dall’economista tedesco Georg Friedrich Knapp con il contributo di tal Alfred Mitchell-Innes. Attorno a questa impostazione, nota come cartalismo, circola un certo scetticismo, alimentato dagli accademici del pensiero dominante. Però Knapp non doveva essere proprio uno sprovveduto se è vero che viene citato nientemeno che da Keynes nel suo “Trattato sulla moneta” e che fra i più illustri sostenitori del neo-cartalismo c’è addirittura Kenneth Galbraith, insigne economista americano, acuto critico del capitalismo moderno.

Cerchiamo dunque di comprendere la questione, scavalcando i pregiudizi.
In Italia, il problema della perdita di sovranità dello Stato nasce ben prima dell’euro e si origina nel luglio del 1981 con la separazione fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia; un processo che si completa nel 1992 con la totale privatizzazione delle principali banche nazionali partecipate dallo Stato (Commerciale, Bnl, Banco di Roma), detentrici delle azioni della Banca d’Italia che per conseguenza – a seguito di quella che è stata definita una “svendita” – passa dal controllo statale a quello esercitato da privati che operano sul mercato: oggi i principali azionisti sono Intesa Sanpaolo, Unicredit e assicurazioni Generali.
Da oltre 20 anni lo Stato, dunque, non ha più la facoltà di decidere autonomamente quanto danaro immettere nel sistema operando, come si faceva nel passato, con le leve della politica monetaria e soprattutto non ha più la possibilità di emettere denaro di sua proprietà e quindi libero da debito ma è obbligato a prendere in prestito la stessa quantità di denaro dal sistema bancario privato indebitandosi.

Ma veniamo all’oggi e alle possibili vie di soluzione della crisi attuale. Il paradosso attuale è che c’è ampia disponibilità di merce, ma non ci sono i soldi per comperarla. C’è disponibilità di forza lavoro, ma non ci sono risorse per remunerarla. Ci sono bisogni inappagati dei singoli e delle famiglie (quindi un mercato potenziale), ma non c’è denaro per soddisfarli. Insomma, tutto ruota intorno ai soldi. Se ricominciassero a circolare, il sistema si rimetterebbe in moto: pago i lavoratori che producono merci che i consumatori acquistano ripagando i costi sostenuti dalle imprese (per materie prime e manodopera) e il surplus costituito dal profitto che giustifica la loro operatività.

Se magicamente il denaro fosse disponibile nella giusta quantità il meccanismo si alimenterebbe da sé: lavoro e produco; per il mio lavoro sono pagato e con quei soldi acquisto ciò che mi serve alimentando il mercato che dovrà continuare a produrre per soddisfare nuovi bisogni; producendo e vendendo, si genereranno altre ricchezze che assicureranno il pagamento dei lavoratori. E così via…

Ma il denaro scarseggia. E chi ci impedisce di crearlo?, domandano i sostenitori della teoria monetaria. Teoricamente nessuno. Si produce quanta moneta serve per rimettere in movimento il sistema e quando eventualmente dovesse circolarne troppa, con il rischio di inflazione, si drena attraverso l’imposizione delle tasse. Perché il problema, che potrebbe derivare dalla sovrabbondanza di liquido, è che la disponibilità di beni non sia sufficiente a soddisfare totalmente la richiesta; cioè potrebbe accadere ciò che in termini tecnici si definisce “esubero di domanda” (con corrispettiva insufficienza dell’offerta). E’ il caso in cui si verifica un rialzo dei prezzi, conseguenza del fatto che gli acquirenti hanno molti soldi e sono disposti a spendere: e quando la merce comincia a scarseggiare si determina una sorta di asta pubblica… Ecco allora che lo Stato, attraverso la leva impositiva, rimette ordine: preleva attraverso le tasse soldi da destinare a servizi e opere pubbliche e riduce gli appetiti dei singoli mantenendo i beni in circolazione a livelli di prezzo standardizzati.

Perché non si fa? Non perché c’è l’euro, ma perché c’è la Bce, la Banca centrale europea! Ma se non ci fosse la Bce, ci sarebbe la Banca d’Italia: e non cambierebbe nulla. Perché nemmeno lei, come abbiamo ricordato, è sotto il controllo dello Stato, ma risponde a logiche e interessi privati. L’unica “banca” pubblica in Italia in questo momento è la Cassa depositi e prestiti, che però non funziona come una normale banca, ma opera solo come finanziaria a supporto dello Stato e degli enti locali.

Quindi il problema, secondo questa intrigante prospettiva di analisi, è ricreare una banca pubblica e porla sotto il controllo del ministero del Tesoro, cioè dello Stato, in maniera che il Parlamento possa definire gli indirizzi e le scelte della politica economica e monetaria del Paese.
Di questo si parlerà questa sera alle 20,45 alla sala San Francesco (presso l’omonima chiesa all’angolo di via Savonarola) con Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, autori del volume “Soluzione per l’euro” edito da Hoepli.

La fibromialgia, una ‘malattia invisibile’

Quando ti svegli la mattina, ti alzi e ti senti più stanco di quando sei andato a dormire? Hai indolenzimenti dappertutto? Ti affatichi per minimi sforzi? Spesso soffri di gastrite o colite? Hai spesso mal di testa e vertigini? Sono anni che ti lamenti di questi sintomi, ma nessuno è riuscito a trovare una spiegazione? Potresti essere una delle tantissime persone nel mondo affette da sindrome fibromialgica o fibromialgia.

La fibromialgia è una sindrome dolorosa che coinvolge muscoli, tessuto connettivo (tendini e legamenti) e articolazioni. Questa affezione è una delle malattie reumatiche in assoluto più diffuse: solo in Italia si stima che ne siano affetti dai 3 ai 4 milioni di individui, di cui la maggior parte sono donne. La fibromialgia non provoca alterazioni degli esami di laboratorio e non causa danni radiologicamente evidenziabili. Inoltre, chi è affetto da fibromialgia in apparenza non sembra ammalato, ha un aspetto sano e quindi è difficilmente preso seriamente sia dai familiari che dagli amici. I medici stessi spesso non conoscono bene la malattia, e di fronte ad un soggetto che riferisce di intenso dolore e stanchezza, che ha esami perfettamente normali, hanno la tendenza ad etichettarlo come “depresso” o “malato immaginario”. Molte persone colpite da questa malattia hanno in comune una storia pluriennale di visite ed esami di tutti i tipi e sono già state sottoposte a numerose terapie, compresi interventi chirurgici, normalmente senza esiti positivi. Queste esperienze portano gli individui a sviluppare reazioni ansiose o depressive. Per tutti questi motivi, la fibromialgia è stata definita “malattia invisibile”.

Ma entriamo nello specifico, la fibromialgia che tipo di sindrome è?
Il termine fibromialgia (FM) deriva da “fibro” che indica i tessuti fibrosi (come tendini e legamenti) e “mialgia” che significa dolore muscolare. La FM è quindi una sindrome che colpisce i muscoli, causando un aumento di tensione muscolare: tutti i muscoli (dal cuoio capelluto alla pianta dei piedi) sono in costante tensione.

Questo comporta numerosi disturbi:
1. innanzitutto, i muscoli tesi sono causa di dolore che, in alcuni casi, è localizzato (le sedi più frequenti sono il collo, le spalle, la schiena, le gambe), ma talora diffuso in tutto il corpo;
2. i muscoli tesi provocano rigidità e possono limitare i movimenti o dare una sensazione di gonfiore a livello delle articolazioni;
3. i muscoli tesi è come se lavorassero costantemente per cui sono sempre stanchi e si esauriscono con grande facilità: questo significa che chi è affetto da FM si sente sempre stanco e si affatica anche per minimi sforzi;
4. i muscoli tesi non permettono di riposare in modo adeguato: chi è affetto da FM ha un sonno molto leggero, si sveglia più volte durante la notte e la mattina si sente più stanco di quando si è coricato (si parla di “sonno non ristoratore”);
5. la tensione muscolare si riflette anche a livello di tendini (che sono strutture fibrose tramite le quali i muscoli si attaccano alle ossa) che diventano dolenti, in particolare nei loro punti di inserzione: questi punti dolenti tendinei, insieme ad alcuni punti muscolari, evocabili durante la visita medica con la semplice palpazione, sono una caratteristica peculiare della FM e vengono definiti “tender points”.

Studiando questa sindrome e trattando i suoi effetti come osteopata, ho verificato che i maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di fibromialgia sono:

1. una storia familiare di depressione;
2. il sesso: due terzi dei malati di fibromialgia sono donne;
3. una bassa funzione tiroidea;
4. sensibilità e familiarità (personalmente non credo al fattore genetico);
5. aumento entropico cellulare a causa di fattori tossici.

Le cause che portano alla fibromialgia
La fibromialgia non ha una causa conclamata, tuttavia, di solito chi soffre di fibromialgia ha i seguenti disturbi:

– disturbi del sonno;
– bassa soglia del dolore;
– bassa funzionalità tiroidea;
– bassi livelli di serotonina;
– bassi livelli di progesterone;
– alterata funzione dell’acido lattico;
– alterata funzione del sistema immunitario;
– alti livelli tossici, intolleranze e allergie;
– basso livello del glutatione e in generale degli antiossidanti;
– stress strutturale e psicogeno come trauma non dissipato.

Cosa occorre sapere per affrontare la sindrome fibromialgica
E’ importante sottolineare che questa sindrome è caratterizzata da un grave affaticamento che potrebbe venir alleviato in primo luogo da un buon sonno, in particolare nelle fasi 3 e 4 o fase Delta, fase in cui i tessuti corporei si rilassano e si riparano.
Ogni persona ha proprie fasi del sonno che possono essere influenzate da alimentazione, sport, medicine, alcol, droghe, disturbi del sonno e mancanza di riposo. Per essere più chiari: durante lo stadio 1 il sonno è leggero, nello stadio 2 il sonno diventa sempre più profondo, negli stadi 3 e 4 (fase Delta) si raggiunge la massima profondità del sonno. In questi stadi il corpo si riposa dopo le fatiche della giornata. Lo stadio 5 del sonno, detto anche fase Rem, è caratterizzato da evidenti alterazioni fisiologiche come respirazione accelerata, maggiore attività cerebrale, rapido movimento degli occhi e rilassamento muscolare. In questa fase si sogna.
Quindi il ritmo Delta (frequenza inferiore a ca. 3 hertz) coincide col sonno profondo senza sogni e con rilassamento muscolare intenso. In questa fase si ha la massima produzione dell’ormone della crescita GH (che durante tutta la vita è indispensabile per il rinnovamento cellulare oltre che, nella prima fase, per la crescita) e si ha una massima attività del sistema immunitario.
In questo piccolo periodo di sonno delta, si rigenerano i nostri processi neuronali che producono “endofarmaci naturali“: potenti farmaci prodotti dal nostro organismo ad azione altamente specifica. Il ritmo Delta stimola l’autoproduzione di endomorfine e citochine, grazie al senso di tranquillità e all’effetto calmante del sonno.
Purtroppo i ritmi frenetici della società moderna, che ormai viaggia alla velocità di internet, inducono il cervello a restare molto attivo per eccessivi periodi di tempo. In altre parole, si riduce la capacità di rilassarsi, e di avere un sonno profondo e quindi di rigenerarsi instaurando la temibile escalation di aumento dello stress negativo, insonnia.
L’affaticamento tipico di questa sindrome, spesso viene generato da un’elevata attività cerebrale che corrisponde ad un’eccessiva attenzione verso l’esterno (supremazia dei sensi esterocettivi vista e udito), a scapito dell’ascolto dei bisogni del corpo. Si genera così una dispercezione corporea ovvero una diminuita consapevolezza del proprio “io”, in grado di agevolare pericolosamente i processi degenerativi. Apprendere e praticare attività rilassanti e propriocettive, quali ad esempio la tecnica cranio-sacrale praticata da un osteopata esperto, una corretta attività fisica e una buona nutrizione sono di primaria importanza anche per indurre ad entrare nella fase Delta, e quindi a rimodulare e rilassare tutto il sistema corporeo.

I consigli dell’osteopata
Sono tre i passaggi chiave nella lotta contro la fibromialgia: prima di tutto occorre eliminare tossine, allergeni e stress dal proprio corpo; poi si passa a ripristinare il sistema autoimmune; infine, è necessario rigenerare i tessuti corporei danneggiati, con un’alimentazione perfetta e semplice.

Di seguito alcuni consigli pratici:

1. Fare attività fisica ma senza esagerare per non produrre l’elaborazione di acido lattico. Non effettuare una routine di esercizi, concentrarsi su regimi di nutrizione che facilitino l’eliminazione di acido lattico.
2. Fare esercizi di respiro e yoga meditativo prima di dormire.
3. Fare stretching e massaggi dolci, camminate, queste sono le migliori attività per la rimozione dell’acido lattico dal corpo.
4. Assumere calcio in piccole dosi: il calcio è una forte necessità dietetica che permette al corpo di affrontare la rimozione dell’acido lattico, una tisana di santoreggia e origano con semi di anice, non zuccherata, dopo i pasti è un toccasana.
5. Assumere magnesio: il magnesio è un importante esigenza dietetica che aiuta ad aumentare la soglia del dolore e sembra impedire ai nervi di eccitarsi troppo in fretta, migliorando la soglia del dolore. Si può trovare in abbondanza nelle verdure a foglia verde (bietole, carciofi e spinaci), nella frutta secca (noci, mandorle, anacardi, arachidi, pistacchi e nocciole) e nei legumi (in particolare lenticchie e fagioli). Anche i cereali integrali contengono un’elevata dose di magnesio; il cioccolato amaro, il cacao e i funghi poi sono tra i primi della lista in quanto a magnesio contenuto. Le banane contengono tre volte tanto magnesio rispetto a prugne, arance, mele e pere.
6. Consumare alimenti che contengono triptofano e tirosina per aumentare la funzione endocrina e il livello della serotonina.
7. Aumentare l’assunzione di antiossidanti.
8. Aiutare il sistema immunitario del corpo attraverso una dieta di pulizia che gioverà al sistema immunitario nel ritrovare un funzionamento ottimale.
9. Rivolgersi all’osteopata che è in grado di esercitare correzioni e normalizzazioni delle fasce, in modo da eliminare le pressioni sui nervi.

Metaforicamente parlando, superare la fibromialgia è un po’ come ricostruire una città che è stata bombardata durante una guerra aerea: dapprincipio, occorre quindi negoziare una decisione politica per fermare i bombardamenti e rimuovere i combattenti dalla città, se il nemico è convinto che ci siano ancora “combattenti” in città, continuerà a ordinare bombardamenti.
I “combattenti” sono le tossine, gli allergeni e lo stress. Quando le tossine si depositano in una zona di tessuto, il sistema immunitario ritiene di avere un nemico, e non smette di crederlo fino a quando gli elementi “stranieri” lasciano la zona.
Quindi, il primo passo è quello di disintossicare il corpo dalle tossine. Per condurre al meglio questa operazione di “cessate il fuoco” e di rimozione dei “combattenti” ci si può aiutare con tisane particolari che puliscono l’intestino tenue, organo in cui si svolge la più alta percentuale 90% di attività immunitaria (placche del payer). Assumere antiossidanti è altrettanto utile, agiscono come la “polizia della città” per fermare i danni da radicali liberi. In sostanza, il sistema immunitario si deve rilassare e non combattere più Infine, i tessuti danneggiati devono essere ricostruiti dalla nutrizione nel modo più efficace possibile.

La fibromialgia può essere superata o nettamente migliorata se si applica la tattica di cui sopra. Non esiste un unico “proiettile” magico che uccide la fibromialgia, in quanto questa sindrome si sviluppa nel tempo, aumenta il livello di tossine e i sistemi del corpo si degradano. Può essere superata solo ricostruendo questi sistemi nel tempo. Lentamente i nostri sistemi corporei riusciranno a replicare nuove cellule ogni cinque mesi, le cellule nervose necessitano di due anni o più. Gli sforzi per superare la fibromialgia, quindi, devono essere sforzi a lungo termine, di almeno due anni.
Bisogna “accordare” il corpo, “resettare” il sistema immunitario, in modo che non sia più iperattivo. Ottimizzare il nostro corpo fino a quando non si rimuove “il fango” che si accumula all’interno e che impedisce l’assimilazione delle sostanze nutritive, che riequilibrano e portano la quiete all’intero sistema. Per concludere, potremmo quindi dire che la fibromialgia è un’ “incomprensione” tra sistema immunitario e cervello.

Ferraraitalia aveva già pubblicato un articolo su questo tema, la storia di una giovane donna affetta da fibromialgia [vedi]

Lessico poco familiare: l’anacoluto

“Ibam forte via Sacra […]”, comincia così l’epistola del grande Orazio dedicata al rompicoglioni che, incontrandolo per strada, gli attaccano un asfissiante bottone. Caro vecchio Orazio, quante volte ho invocato il tuo nome cercando di svicolare dalla stretta di uno scocciatore, di quelli che, quando tenti di andartene, ti prendono per un braccio lo stringono e ti bloccano, e allora senti una morsa allo stomaco e il cervello tuo non pensa più a nulla se non a far fuggire il povero corpo intrappolato nella morsa del nemico. Ma il pensiero che vorrei rilasciare a queste righe si riferisce ad altro: innanzitutto, non ero sulla via Sacra ma nella ben più popolare via San Romano della mia città, ero proprio all’inizio, dove i lavori continuano, il make-up della piazza è venuto proprio bene, peccato soltanto che abbiano messo la pavimentazione bianca sotto la galleria, già sporca lurida perché nessuno pulisce e i giovani, che lì quasi vivono, mangiano e bevono di giorno e di notte, inesorabili insozzano. Ero lì, dunque, quando improvvisamente, senza alcun preavviso, dalla testa mi è uscito un termine che sostava lì tra due pensieri errabondi, chissà da quanto tempo e sempre l’avevo legato a un nome: Berlusconi. Berlusconi è un anacoluto, ho sempre pensato, ma senza una ragione specifica: anacoluto è una figura retorica che significa incongruente, mancante di nessi sintattici. Avevo ragione: Berlusconi non ha mai avuto nessi sintattici e ce ne accorgiamo adesso che la sua stella sta tramontando tristemente (almeno io spero). Quando Saragat cominciò la sua salita al Colle, il grande giornalista Baldacci, fondatore de “Il Giorno”, scrisse che il nome del segretario socialdemocratico sarebbe stato sempre chiuso dentro una parentesi. E così è stato: Saragat è rimasto prigioniero della parentesi, così come Berlusconi non riuscirà mai a togliersi di dosso la figura retorica dell’anacoluto, niente da fare: politicamente il Berlusca è un anacoluto.

Ferrara sotto le Stelle 2014: il cast dell’ evento speciale con “Le Luci della Centrale Elettrica”

da: Ferrara sotto le Stelle 2014

Non sarà soltanto un semplice ritorno a casa, quello de LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA a Ferrara, il prossimo 16 luglio.

“TRA FERRARA E LA LUNA”, che si inserisce nel prestigioso programma del festival “Ferrara sotto le stelle”, sarà infatti una serata evento che insieme a Vasco Brondi porterà in città alcuni dei protagonisti della nuova scena musicale italiana.

“Mi sono immaginato una festa a cielo aperto dentro il cortile del castello – racconta Vasco Brondi – Uno dei posti più magici di questa magica città. Si chiamerà TRA FERRARA E LA LUNA che è un verso di una bellissima canzone di Lucio Dalla. Io trasalivo sempre e mi emozionavo quando sentivo nominata la mia piccola città, in un libro, in un film o in una canzone. Mi sembrava splendido e stranissimo.”

La seratà prenderà il via alle 19.30, con due concerti di apertura che vedranno sul palco una delle rivelazioni dell’ultima stagione, il cantautore Nicolò Carnesi (il suo ultimo disco “Ho una galassia nell’armadio” ha confermato tutto il bene che si diceva di lui) e la rockeuse Maria Antonietta (già sul palco con Le luci della centrale elettrica anche in occasione del concerto sold-out a Roma dello scorso aprile): “I loro dischi – scrive Brondi – sono stati la colonna sonora dei miei viaggi in furgone durante questo tour e per me sarà stupendo invece quel giorno sentirli suonare dal vivo su quello stesso palco.”

Dopo le esibizione di Nicolò Carnesi e Maria Antonietta toccherà a LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA salire sul palco per un concerto impreziosito dalla presenza di alcuni ospiti speciali: “Per questo ritorno a casa ho pensato di portarci le persone che ho conosciuto negli ultimi anni facendo questo strano lavoro, miei amici e musicisti che amo. Di portarli nella mia città, una città che continuo ad abbandonare e in cui continuo a ritornare. Ci sarà Dente che ho conosciuto proprio la prima volta che sono andato a Milano e abbiamo iniziato i nostri viaggi quasi assieme. Ci sarà Rachele Bastreghi dei Baustelle che ha una voce stupenda che mi gira sempre in testa e con la quale abbiamo anche registrato un pezzo assieme un paio di anni fa. E ci sarà Levante e sul palco ci scambieremo le canzoni. Sarà una giornata speciale e sono felice che sia a Ferrara.”

Tutte le informazioni sulla serata e sulle prevendite sono disponibili sul sito ufficiale del festival al link www.ferrarasottolestelle.it.

L’abbaglio delle privatizzazioni e la fine della politica

C’è stata una lunga e sciagurata stagione politica nella quale al grido di “privatizzazione” si è smantellato lo stato sociale e dissipato il patrimonio pubblico. Obiettivo dichiarato: abbattere gli sprechi, rendere più efficienti i servizi. Risultato lo Stato è più povero, i servizi sono in larga parte insoddisfacenti, come o peggio di prima. La ragione non è difficile da comprendere, si basa sulla logica delle cose. Il privato per sua natura mira legittimamente al profitto. E per guadagnare ha due strade: giocare sui prezzi o sui costi. Il pubblico non persegue il lucro. Pertanto, per fare un esempio a caso, il servizio mensa delle scuola può essere gestito dai Comuni a rendimento zero. Ma se subentra un privato deve guadagnarci, quindi o aumenta le tariffe o riduce la qualità del servizio per risparmiare e ritagliarsi così il proprio margine, speculando sulla materia prima impiegata o riducendo gli stipendi dei lavoratori.

L’idea di migliorare privatizzando appare dunque un paradosso, proprio perché il privato non può permettersi una partita a pareggio. Su cosa basavano dunque i fautori della privatizzazione una pretesa così apparentemente insensata? Sulla convinzione che gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione fossero talmente enormi da generare un danno superiore all’entità del giusto guadagno del privato. In altri termini il privato, “razionalizzando” e riducendo i costi, avrebbe potuto mantenere la medesima qualità (del servizio o del prodotto) ritagliandosi pure il suo margine di profitto. L’esperienza ha dimostrato il contrario. I servizi privatizzati in generale costano di più oppure valgono meno: se sulla bilancia aumenta la qualità, per mantenere l’equilibrio deve aumentare anche il prezzo; viceversa se si riduce il costo della prestazione si deve ridurre anche l’onere produttivo e dunque il suo valore.
I cittadini non ne hanno tratto alcun vantaggio come era facile prevedere. In compenso enormi flussi di denaro sono transitati dalla casse pubbliche a quelle di imprese private. Spesso, guarda caso, proprio le imprese degli amici dei fautori della privatizzazione.

Il problema andava affrontato diversamente, intervenendo sui meccanismi di gestione del settore e delle aziende pubbliche, improntandoli a criteri di managerialità, progressivamente riducendo gli sprechi fino ad azzerarli. In questo modo si sarebbe mantenuto intatto il controllo pubblico su servizi essenziali preservandone il profilo di qualità a tutela dei cittadini. E avendo libertà di decidere profili tariffari improntati a logiche “politiche” nel senso nobile del termine (cioè a criteri attenti alle necessità dell’utenza e alla redditività dei cittadini), anziché essere schiavi di valutazioni meramente economiciste.

Il sindaco Zangheri, per esempio, nella Bologna degli anni Settanta poteva permettersi di non fare pagare il bus nelle fasce orarie in cui i mezzi erano prevalentemente utilizzati da operai e da studenti. Poteva sostenere quella scelta – e generare quindi consapevolmente una perdita di gestione sul servizio di trasporto pubblico – perché poi recuperava il deficit grazie agli utili di altre aziende municipalizzate (le farmacie, i trasporti e i servizi funebri…), attraverso un meccanismo di compensazione, giustificato da una visione di sistema di impronta non biecamente aziendalista ma, appunto, orientata all’equità e alla ricerca del bene comune della collettività.

La resa incondizionata alle logiche del mercato, che si è affermata da oltre un ventennio, ha invece concorso pesantemente all’eclissi della politica concepita come servizio volto alla soddisfazione dei bisogni dei cittadini nel rispetto degli equilibri della comunità della quale ogni singolo individuo è parte costitutiva.

Piccole imprese, la crisi continua. Il fatturato cala di un altro 7%

di Davide Tucci

«Le piccole imprese sono ridotte allo stremo. E la pressione fiscale, unita all’enorme rete burocratica, non ha fatto altro che aggravare la loro situazione. Se a questo aggiungiamo anche l’evento sismico di due anni fa, è chiaro che la luce in fondo al tunnel si allontana sempre di più».
Paolo Govoni, presidente di Cna Emilia Romagna, non usa mezzi termini mentre inaugura “TrendER”, il quindicesimo Forum Congiunturale della micro e piccola impresa sul secondo semestre del 2013. Un semestre che ha confermato il quadro di difficoltà di inizio anno, e che ha fatto registrare un’ulteriore diminuzione tendenziale del 7% sul fatturato totale (nel primo semestre si era fermata al 6,3%).

«E i dati per il primo trimestre dell’anno in corso non rasserenano affatto, per via dei livelli dei ricavi complessivi che si abbassano fino a toccare il -9,4%», dichiara il direttore regionale dell’Istat Marco Ricci. La serie di scivoloni, però, ha risparmiato Bologna, l’unica provincia in cui il fatturato totale è lievitato del 2,1%. La maglia nera va invece a Parma, in rosso per oltre il 22%.

L’unica nota positiva, per le aziende emiliane con meno di 20 dipendenti, è che il ridimensionamento è stato solo in parte attenuato dalla lieve crescita tendenziale dell’1,3% sul fatturato estero: «L’export ci fa guadagnare sempre mezzo punto di Pil in più, ma non è affatto sufficiente a condurci verso la ripresa economica», sottolinea Ugo Girardi, segretario generale Unioncamere dell’Emilia Romagna. «Occorre che tutti gli attori della produzione emiliana puntino all’internazionalizzazione», rilancia Morena Diazzi, direttore generale delle Attività produttive dell’Emilia Romagna.

Il settore in picchiata è ancora una volta quello dell’edilizia, in cui il calo tendenziale del fatturato complessivo del -10% conferma, negli ultimi di mesi dello scorso anno, i dati del primo semestre. Si tratta di una riacutizzazione della crisi. Anche gli investimenti nelle costruzioni continuano a diminuire per il quarto semestre consecutivo: a fronte di un’attenuazione del 15,3%, nella prima metà dello scorso anno, si è passati ad un calo di cinque punti (-20%).

Tra i pochi settori che resistono, l’unico in salita è il manifatturiero del legno mobile, che registra una crescita dello 0,4% rispetto ai primi sei mesi del 2013, seguito dai ribassi meno dolorosi della meccanica (-1,5%) e dei trasporti (-3,5%). Più sensibili, invece, i cali di fatturato della moda, che arriva a toccare il -14,7%, e dell’alimentare, al -16%.

«C’è una doppia polarità con cui bisogna misurarsi: ottimismo e pessimismo. Stiamo attraversando una Quaresima economica più lunga del previsto», cerca di stemperare Daniele Quadrelli, direttore generale della Federazione delle Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna. «La stagnazione attuale non ha graziato neanche le banche, sentenzia. Il 2013, infatti, è stato l’annus horribilis del Credito Cooperativo, sia in Emilia che in tutto il Paese. Il nostro modello è totalmente in rivisitazione, rimanendo comunque ancorato al locale. Gli istituti di credito che compongono il sistema sono destinati a diminuire, perché lo stesso concetto di “territorialismo” sta cambiando. Dobbiamo sforzarci di capire quante sofferenze abbiamo ancora da metabolizzare».

[© www.lastefani.it]

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Dalle ronde ai forum, l’anima dei quartieri

Abito il quartiere giardino arianuova. Lo scrivo come un sostantivo seguito dal suo attributo, come un programma, una promessa della natura alla città. Dunque, non come uno più uno, che in quanto tale può fare solo due. Due entità vicine, ma distinte.
Non sopporto, poi, neppure l’etichetta Gad che con gli anni gli è stata incollata addosso. Sembra la cifra di un gruppo d’assalto.
Gad si addice alle ronde volontarie che di sera percorrono con urla da monatti le strade tra l’Acquedotto e la Stazione, con l’intento di stanare la peste dello spaccio di droghe. Ma per le urla e i frastuoni con cui si accompagnano, la loro violenza non è minore del degrado sociale che si propongono di debellare, almeno per come inaspettata ti fa sussultare, violando la tua casa e il tuo privato.
Per principio non amo chi si sostituisce ai doveri delle forze dell’ordine, con una sorta di fai da te, che il solo tollerarlo denuncia la debolezza dell’amministrazione cittadina e delle stesse autorità preposte a garantire la nostra sicurezza. Sarebbe sufficiente che dispiegassero la metà dei corpi di polizia che, ogni domenica che la Spal gioca in casa, mobilitano in zona stadio, per sconfiggere lo smercio degli stupefacenti. Ma certo di questi tempi è arduo sceverare tra calcio e coca chi sia più pericoloso.
In tanto appare un nuovo soggetto sociologico, il cittadino fai da te. Il cittadino che si sente tradito dalla sua comunità, perché si sente lasciato solo di fronte al problema. E allora cerca altre solitudini come la sua, a cui unirsi per dichiarare guerra al nemico comune.
È questo un tema critico che gli specialisti definiscono City of Neighbourhoods, difficile da traslare nella nostra lingua senza deformarne o perderne il significato vero. È, comunque, la questione del rapporto tra quartiere e città. Le circoscrizioni, che ora non abbiamo più, perché la destra, con il decreto legge 2/2010, ce le ha cancellate, per ridurre i costi della politica sulle spalle delle persone che non rubano. Così ti hanno ridotto ad essere ospite o un semplice abitante, anziché essere cittadino a tutti gli effetti. Oggetto delle politiche amministrative della tua città, anziché il soggetto per eccellenza.
Mi pare che la risposta della nostra amministrazione cittadina sia stata quella di assegnare ad un assessore la delega al decentramento. Il precedente assessore Masieri, intervistato da la Nuova Ferrara, nel gennaio di quest’anno, prevedeva un assessore costantemente decentrato, itinerante tra le delegazioni in funzione di ascolto di questo o di quell’altro interesse. Davvero umiliante, mortificante di ogni idea di cittadinanza. Sul filo pericoloso del paternalismo, del customer service, delle lobbies.
Se questo accadesse, vorrebbe dire che quasi quarant’anni di decentramento non sono stati in grado di sviluppare e consolidare nel tempo autosufficienza, strutture partecipative, identità, animazione, spirito locale.
L’esigenza d’essere cittadini attivi nel proprio quartiere non è venuta meno, anzi più la globalizzazione del mondo avanza, più cresce la necessità della partecipazione locale hic et nunc.
Non vorrei che fossimo rimasti solo con gli uffici anagrafici e le ronde di quartiere.
Le buone volontà, i volontariati, associazioni e parrocchie non hanno il compito di interpretare e dare risposte al groviglio complesso dei temi che pone ogni cittadinanza.
Cittadinanza è partecipare a un’idea di città, a un progetto che sei chiamato a condividere da chi ha titolo all’amministrazione della tua città, per investire sulla vita, sul risiedere, sulla felicità e il benessere delle persone.
Il nuovo progredisce per salti di qualità dei nostri pensieri. Di nuovo oggi ha bisogno la gente più che mai, per uscire dagli incubi economici e politici accumulati in questi decenni.
Salvate la città e la cittadinanza, non lasciate i cittadini da soli, non lasciate che si organizzino per proprio conto per combattere il crimine.
Allora nei quartieri bisogna andare ad ascoltare e dialogare. Istituire sedi permanenti di incontro, di impegni, di divisione dei compiti. I forum sono gli strumenti più rodati e conosciuti, i forum possono diventare i polmoni e l’ossigeno della vita cittadina e della sua democrazia. Non sono una perdita di tempo, non sono vuoti luoghi di sfoghi e di protesta, sono gli unici luoghi dove i cittadini hanno l’occasione di maturare nell’esercizio dei loro diritti di cittadinanza.
Se si temono i forum significa che si preferisce governare una città di sudditi e di lobbies. E allora, in simili condizioni, ognuno si organizza come può, perfino con le ronde di quartiere, che possono divenire anche squadre, fino a quando la storia si ripete.

Come stiamo ‘più o meno’ in Italia

2 / SEGUE – “Rimane alta la qualità del sistema produttivo italiano, ma diminuisce la qualità della vita e del contesto socio-economico, dell’ambiente e dell’offerta di servizi pubblici”, questa la sintesi interessante di una recentissima ricerca di cui ci piace rendere partecipe il lettore di Ferraraitalia.

L’indagine si basa sull’utilizzo di tre indicatori che rappresentano ciascuno la sintesi di diverse variabili statistiche riferite al periodo 2009-2012.
I tre indicatori si riferiscono a tre aspetti importantissimi della nostra società e ne valutano il livello: il sistema produttivo ha una buona propensione all’innovazione e alla crescita; la qualità della vita è in forte diminuzione con un fortissimo scarto tra nord e sud; la qualità dell’ambiente è in calo in tutto il Paese.
Gli indicatori che hanno determinato i tre punti evidenziati sono il frutto di variabili così espresse:

  • la nati-mortalità delle imprese, l’andamento dei brevetti e marchi depositati in Italia da aziende italiane, la produttività del lavoro, il ricorso all’Ict, i fallimenti, le assunzioni di figure professionali specializzate e l’andamento delle certificazioni per il sistema di gestione della qualità;
  • l’indice di povertà regionale delle famiglie, la spesa per consumi, i depositi pro-capite, il tasso di disoccupazione, l’indice di partecipazione ad attività di volontariato, le spese culturali;
  • i consumi energetici delle famiglie, le opinioni sulla qualità dell’aria, la pulizia delle strade, l’inquinamento acustico della zona di residenza, la disponibilità di verde urbano e i servizi di raccolta differenziata dei rifiuti;
  • l’offerta di trasporto pubblico, l’erogazione di servizi idrici, i servizi socio-assistenziali, i servizi medico-ospedalieri.

Come è bene notare, tutte le citate variabili rappresentano un contesto sociale e di costume profondamente cambiato; se si prendono le composizioni dei panieri degli indici del passato recente, anche quelli dell’ultimo decennio del ‘900, quelle variabili non si trovano più, sono sparite per dare spazio ad un “sistema vivendi” radicalmente spinto ad un salto in avanti nel futuro, anche nel vissuto della crisi dal 2008 fino ad oggi.
Se questa è “l’Italia in Europa” e “l’Europa nel Nord America“, quali percorsi di crescita di questa macro-area del mondo dovremmo continuare a percorrere per essere di nuovo attori di un benessere diffuso?
La risposta forse sta nei processi di globalizzazione, sta nel vedere come si muoveranno le altre macro-aree come l’Asia o la Russia con i suoi nuovi e ritrovati satelliti, quali scossoni arriveranno dall’Africa, dentro ad un tempo che cambia rapidissimamente e che ridisegnerà la nuova geo-politica.
Una sfida piena di insidie, ma che comunque avrà gambe e che sarà vincente per chi saprà stare al gioco. Che sia vincente il mondo intero e che la torta del benessere sia divisa in parti uguali, secondo criteri di dignità, giustizia e pace, è la nostra speranza, di chi pensa di stare con le persone.
Ma non ci fermiamo qui, ci pare interessante continuare, associando a questo contenuto anche l’immagine di una “società sciapa e infelice in cerca di connettività”, come bene ci illustrano i grafici del Censis.

Ecco alcune “colorazioni” del nostro Paese, tratte dal Rapporto 2013:

Il crollo non c’è stato, ma troppe persone scendono nella scala sociale. Nuovi spazi imprenditoriali e occupazionali in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Il sistema ha bisogno e voglia di tornare a respirare, oltre le istituzioni e la politica.

Oggi siamo una società più «sciapa»: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo «malcontenti», quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali.

Manca quel fervore che ha fatto da «sale alchemico» ai tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni; si intravede, tuttavia, una lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza.

Il nuovo Welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa «di tasca propria» e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria).

L’economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani «artigiani digitali».”

Molta carne al fuoco è stata messa nella narrazione, forse associando anche il non associabile, ma la complessità della ‘visione’ ci porta anche a credere che fosse inevitabile per quell’elefante entrare nella cristalliera, l’ultima chance che forse resta al nostro Paese, meglio al resto del mondo per farcela.
Se c’è una crisi antropologica e se questa, come sembra, ha raggiunto il suo apice e limite, nel poco tempo che rimane sarà necessario far tirar fuori il fiato a questa società, sempre nella cornice di buone regole di convivenza ovviamente.
Si sente in giro parlare di un “santo subito” per quel 40% e oltre che il Presidente del Consiglio del nostro Paese ha portato a casa per le elezioni europee e forse possiamo anche aggiungere che la divina provvidenza non ha mai limiti.
Ma attenti alle resistenze, soprattutto a quelle nascoste che allungano la mano senza vederla. E non resta che correre… vai Matteo, e a sentirci tra qualche anno!

Come stiamo ‘più o meno’ con l’Europa

Si è pensato di offrire alcuni dei risultati di una recente ricerca del Censis intitolata “Il Dare e l’avere con l’Europa”, fatta affinché i cittadini delle nazioni chiamati al recente voto possano intravedere la bontà della loro scelta, oppure la delusione o l’indifferenza.
La stampa, i giornali, i media, internet, le tv e altri strumenti di comunicazione necessari ed utili per la divulgazione dei tanti saperi, non sono sempre sufficienti per approfondire temi complessi, anche perché sovente sull’Europa si dicono delle mezze verità, per non andare oltre.
Ecco, quindi, un primo bilancio “del più e del meno” con l’Europa, per poter ritrovare un nuovo protagonismo dell’Italia (anche per un Renzi andato oltre il 40% dei consensi) tratto e dal “47° Rapporto sulla situazione sociale del Paese” (Censis, dicembre 2013) e dai successivi comunicati stampa.

“[…] siamo il terzo contribuente netto dell’Ue, pur essendo al 12° posto per Pil pro-capite: nel 2012 versati 16,4 miliardi di euro e ricevuti indietro 10,7 miliardi, con un saldo negativo di 5,7 miliardi. Restiamo un mercato molto appetibile e diamo un forte contributo alla competitività europea.
L’Italia è il terzo contribuente netto dell’Ue. Il budget annuale dell’Unione europea è di circa 140 miliardi di euro, ovvero poco più dell’1% del Pil complessivo degli Stati membri. Il contributo italiano alla formazione del bilancio comunitario è pari a circa il 12% del totale.
Le risorse versate dall’Italia all’Ue sono aumentate dai 14 miliardi di euro del 2007 ai 16,4 miliardi del 2012, mentre gli accrediti effettuati dall’Unione nel periodo si sono aggirati intorno ai 9-11 miliardi all’anno, determinando così un consistente saldo a nostro svantaggio: 6,6 miliardi nel 2011, 5,7 miliardi nel 2012.
Sono 12 i Paesi che versano più di quanto ricevono. Il maggiore contribuente netto è la Germania, con un valore cumulato nel periodo 2007-2012 di 52,7 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo per quasi 9 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia, con un valore negativo cumulato pari a 33 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo di 5,5 miliardi.
L’Italia è il terzo contribuente netto, con 26,7 miliardi di euro cumulati nel periodo e in media 4,5 miliardi all’anno, nonostante noi occupiamo il 12° posto in Europa in termini di Pil pro-capite (25.600 euro per abitante rispetto ai 31.500 euro dei tedeschi e ai 27.700 dei francesi). Nel 2012, in particolare, abbiamo versato 16,4 miliardi di euro e abbiamo ricevuto indietro 10,7 miliardi, con un saldo negativo di 5,7 miliardi.
Fra i percettori netti si collocano ai primi posti la Polonia (con 47 miliardi di saldi cumulati nel periodo 2007-2012 e una media di 8 miliardi all’anno), la Grecia (con 27,6 miliardi complessivi e un dato medio annuo di 4,6 miliardi), la Spagna (18,7 miliardi in totale e 3,1 miliardi in media all’anno).
Speso il 52,7% dei fondi comunitari a noi italiani destinati. La dinamica degli accrediti risente anche della capacità progettuale e gestionale dei fondi europei da parte delle autorità italiane. Attraverso i diversi fondi strutturali di derivazione comunitaria e nazionale, nel periodo 2007-2013 l’Italia ha finanziato 52 programmi, per un volume iniziale di risorse pari a 59 miliardi di euro nei 7 anni di riferimento. Oggi l’importo complessivo risulta pari a 47,7 miliardi e il contributo proveniente dall’Unione europea si attesta sui 28 miliardi. Considerando la spesa certificata a partire dal 2009, a fine 2013 risulta assorbita una quota del 52,7%.
In termini di Prodotto interno lordo siamo la quarta economia europea, l’Italia rappresenta il 12,6% dei consumi finali delle famiglie nei 27 Paesi membri, per un ammontare di circa 1.000 miliardi di euro. E siamo al quinto posto per numero di passeggeri del traffico aereo, con una quota sul totale europeo pari all’11,3% e un valore assoluto che supera i 116 milioni di passeggeri.
L’Italia si colloca al secondo posto in Europa per sottoscrizione di contratti di telefonia mobile, con un valore pari a 98 milioni e una quota del 14,8% sul totale dei contratti sottoscritti all’interno dei 27 Paesi. Siamo quarti per numero di linee telefoniche principali (21,6 milioni di linee) e per numero di abbonamenti alla banda larga fissa (13,6 milioni di contratti), preceduti in entrambi i casi solo da Germania, Francia e Regno Unito. Nel 2012 il settore delle telecomunicazioni ha generato ricavi superiori a 43 miliardi di euro (quarta posizione in classifica). La società italiana è solida. La quota sul Pil del valore degli immobili di proprietà in Italia è pari al 9,1%: questo dato ci pone in cima alla classifica europea. Sul piano della ricchezza finanziaria netta, gli italiani presentano un valore che è più di due volte e mezzo il reddito disponibile (quinto posto in Europa).

Formazione e riqualificazione del personale.Si registra anche una discreta attenzione per la formazione e l’aggiornamento professionale. Un quarto delle aziende (26,9%) è ricorso a interventi di riconversione del personale, due terzi (66,4%) hanno promosso attività interne di aggiornamento e formazione: il 36,2% tramite formatori o consulenti che hanno organizzato attività interne, il 23,8% con la partecipazione a fiere, il 20% tramite scambi con fornitori e clienti. Ma la «manutenzione del capitale umano» in tempi di crisi resta difficile. Se si esclude infatti un terzo delle imprese (il 36,7%, per lo più di grandi dimensioni) che considerano l’aggiornamento del personale un fattore centrale, la maggioranza sa che l’impegno su questo fronte non è adeguato: per il 28,4% l’azienda dovrebbe fare di più, il 34,9% è cosciente di non fare nulla su questo fronte. La riforma dell’apprendistato permette oggi alle aziende di fruire di un ventaglio più esteso di profili da acquisire: pur prevalendo i giudizi positivi (77,7%), permangono però forti resistenze all’utilizzo (solo il 14,6% delle imprese interpellate ha utilizzato tale strumento).

La ristrutturazione nascosta. Solo il 21,4% delle aziende con oltre 20 addetti è rimasto inerte, ma la maggioranza, pari al 78,6%, ha cercato di intervenire con iniziative di innovazione strutturale, con la creazione di nuovi prodotti e servizi (49,1%) o l’introduzione di nuove tecnologie funzionali al miglioramento dei processi di lavoro (45,1%). Il 38,9% si è concentrato sul miglioramento dei canali di vendita e di comunicazione, il 34,3% sull’ingresso in nuovi mercati territoriali, il 32,4% sul miglioramento della funzione finanziaria.

Innovare il portafoglio di competenze. I tentativi di innovazione si sono accompagnati in molti casi all’avvio di un processo di ristrutturazione aziendale, spesso doloroso. Il 37,3% delle imprese ha espresso l’esigenza di adeguare il proprio portafoglio di competenze al cambiamento. Si tratta di una minoranza di aziende che hanno dovuto ricercare sul mercato competenze nuove, che prima non esistevano (nel 20,8% dei casi) o che negli anni erano diventate obsolete (17,4%). Tra i nuovi profili richiesti dalle aziende spiccano i commerciali (dagli export manager agli agenti di commercio, ricercati dal 36,4% di queste imprese), i tecnici (32,4%), gli amministrativi (31,4%) e gli ingegneri (25,4%). Da segnalare anche l’elevata richiesta di esperti di comunicazione e nuovi media (ricercati dal 12,2%) e di informatici, sistemisti e programmatori (10,1%).

Valorizzare le competenze anche tramite una nuova organizzazione. L’inserimento di nuove risorse in sostituzione delle vecchie o il ricorso a competenze esterne più specialistiche, utili a supportare il cambiamento, si sono accompagnati all’ottimizzazione dell’organizzazione, con il reengineering dei processi lavorativi (38%), la riorganizzazione dei gruppi di lavoro (31,7%), la revisione dei turni e degli orari (26,5%), la ridefinizione del sistema di valutazione e dei meccanismi premiali (28%). Le resistenze interne del personale hanno condizionato in molti casi (54%) l’avvio dei nuovi processi. E le valutazioni dei risultati finora raggiunti non sono del tutto positive: solo il 25,6% degli imprenditori è pienamente soddisfatto, mentre la maggioranza (52,1%) dà un giudizio di sufficienza e il 22,3% non si ritiene ancora contento.

Le molteplici facce della ristrutturazione. Da un lato, emerge una logica di tipo difensivo da parte di quelle aziende che vivono una fase di ridimensionamento e per le quali la riorganizzazione rappresenta l’ultima chance di sopravvivenza. In questo caso l’intervento sul fronte organizzativo è drastico, con tagli al personale (48,7%), riduzione di orari, riqualificazione e riconversione delle figure professionali esistenti (30,9%). Sono quelle aziende in cui gli esiti appaiono al momento più incerti, a detta degli stessi imprenditori: il 37,4% giudica i risultati ancora non soddisfacenti, se non deludenti. All’estremo opposto, vi è invece un modello di riorganizzazione aziendale che segue una logica molto più spinta e aggressiva, che riguarda però solo l’8% delle aziende.
In questo caso la riorganizzazione segue un percorso di forte innovazione nel rapporto con il mercato, nella definizione dei prodotti e dei processi, nell’applicazione delle tecnologie. In queste realtà l’occupazione cresce. Il 75% di esse ha inserito nuove professionalità in azienda negli ultimi tre anni e il 53% ha dovuto acquisire nuove competenze di cui prima non disponeva. Emerge con chiarezza la forte spinta data all’innovazione dall’avvio dei processi di internazionalizzazione. Le aziende presenti all’estero con propri prodotti, stabilimenti e punti vendita (il 43,7% delle imprese interpellate) sono quelle che presentano i più alti livelli di innovazione. L’inserimento di nuove professionalità (46,5%), la riqualificazione del personale (34,6%), ma anche l’esternalizzazione di funzioni che prima venivano svolte internamente (20,3%) e l’uscita di professionalità non più utili (39,7%), sono stati i cardini del loro intervento […]”

Come si legge, non ci sono solo evidenze di macroeconomia (le cosiddette grandezze economiche) ma anche di politiche aziendali, e questo è un bene per il nostro Paese, in quanto dimostra la capacità del sistema produttivo di guardare lontano e di poter investire, soprattutto in innovazione, riorganizzazione, qualità del prodotto. Solo in questo modo si potrà occupare uno spazio indispensabile per il futuro del sistema delle aziende italiane ed europee in generale.
Restiamo un Paese forte nell’esportazione, dobbiamo esserlo anche per il sostegno dei consumi interni, ne abbiamo le capacità imprenditoriali e del lavoro. Ma due cose sono urgenti per sostenere questo nuovo processo: un diverso sistema fiscale e un mercato del lavoro certamente flessibile ma dignitoso.

Per ora ci fermiamo qui.

1 / CONTINUA

Dallo scarto al riciclo creativo

“Se tutti noi facessimo le cose che siamo realmente capaci di fare, stupiremo completamente noi stessi”. Con questa frase dell’inventore Thomas Edison, Alessandra Bosca, artigiana del restauro e della creatività come ama definirsi, ci regala una sorta di magico biglietto da visita.
E’ lei la protagonista di questa intervista e l’autrice del blog “Il riciclo di Alessandra” [leggi] dove ci guida alla scoperta di riciclo creativo, restyling dei mobili e restauro. Il suo pane quotidiano, insomma, masticato con la forza delle mani, la tenacia dell’intelligenza e i battiti del cuore.

Alessandra, sul tuo blog ti definisci un’artigiana del restauro e della creatività. Da dove è iniziata l’avventura?
Io nasco professionalmente come restauratrice. Già al liceo avevo questo pallino e, così, ho iniziato a frequentare un corso di restauro dei mobili e poi, puntando all’eccellenza, ho deciso di fare il concorso per entrare nell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro di Roma. Ho vinto il concorso e per venti anni ho svolto questo mestiere, avendo la fortuna di lavorare al restauro di opere di grandi autori come il Guercino o il Pinturicchio. Nel tempo però ho cominciato a notare che la professione del restauratore si stava impoverendo, spesso mi capitava di dover svolgere lavori meno stimolanti e più faticosi. Non nascondo che ho attraversato un momento di crisi, sono entrata in una specie di tunnel, non sapevo più chi fossi e cosa volessi fare realmente. Poi, essendo una persona molto pratica, ho deciso di fare tesoro di quanto avevo appreso alla scuola di alta formazione e quasi per curare me stessa, per uscire dallo sconforto, ho iniziato a lavorare con materiali diversi, a costruire oggetti e a raccogliere tutto quello che avevo realizzato in venti anni di lavoro. Piano piano, sono riuscita anche a costruire il mio blog da sola, ho scoperto di riuscire ad esprimere le mie emozioni e contemporaneamente a fare dei lavori, nello stesso tempo affetti e oggetti riprendevano vita sotto le mie mani.

 

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Alessandra Bosca

Come è nato il tuo interesse per il restyling e il recupero dei mobili?
Il gusto per il restyling è nato da una passione che ho sempre avuto: trasformare gli oggetti per farli diventare belli. Ho cominciato a lavorare con mobili anonimi di legno, abbandonati e senza vita, e ho scoperto che, divertendomi con pennelli, colori e altri ferri del mestiere, potevano cambiare aspetto e rivivere. Il mobile fa parte della storia di ognuno di noi, ha un legame affettivo con noi, e anche se non ti piace puoi trasformarlo, rinnovarlo e farlo diventare bello. Poi, ovviamente, ho frequentato corsi di marketing e di imprenditoria e ho, quindi, cercato una via per differenziarmi sul mercato.

E la passione per il riciclo creativo da dove arriva?
Il riciclo creativo mi ha conquistato perché è troppo curioso e divertente. L’aspetto che ho trovato più affascinante e stimolante è che con il riciclo creativo si cambia il punto di vista delle cose e delle situazioni. L’incontro con questa nuova attività ha coinciso con un momento particolare della mia vita, è come se proprio quando mi stavo trasformando in un’altra persona, quando stavo cambiando la mia vita, professionale e privata, avessi trovato una concretizzazione pratica della mia trasformazione. Mi trasformavo io, così come un vecchio lampadario si trasformava in un vaso portafiori a sospensione, o la testiera del letto in un dondolo. E questo mi ha incoraggiato nel percorso. Poi è diventata una passione, da cui non posso più liberarmi.

Che materiali usi?
Uso quello che mi capita, quello che trovo al momento o in base all’ispirazione. Cestelli di lavatrice da trasformare in contenitori luminosi, ad esempio, e tante altre risorse che ho imparato a selezionare per non rischiare di diventare una sorta di discarica… Ultimamente, mi sono fatta conquistare dalla plastica, dalle bottiglie di plastica in particolare, perché è un materiale economico che ti offre tantissime possibilità di lavorazione ed è facile reperirlo. Trasformare la plastica mi dà anche una soddisfazione ecologica, è bello vedere che le persone sono felici di darmi bottiglie che, altrimenti, andrebbero perse, contribuendo ad inquinare l’ambiente. Con questo materiale realizzo soprattutto collane, gioielli e lampadari, scateno la mia creatività e quella del committente. E’ questo trovo sia il quid in più del riciclo creativo, rispetto al lavoro di mera esecuzione del restauratore.

Che senso ha oggi per te “costruire bellezza”?
Per me far rivivere un oggetto, renderlo bello, è come dare una visione positiva delle situazioni della vita. E’ come ricordare che non bisogna mai scoraggiarsi, che il cambiamento è importante ed è anche una bella sfida da affrontare. Una sfida che a me sembra di cogliere ogni volta che trasformo un mobile in disuso, che può apparire inutile, brutto, in un’opera unica, che rinasce e rivive. Il riciclo creativo è questo: creare qualcosa di unico, irripetibile, che, in qualche modo, esprime la tua essenza. Meglio se tutto questo contribuisce anche al rispetto dell’ambiente, anche se io, più che una paladina, in questo mi sento solo una delle tante persone che piano piano hanno iniziato un percorso verso una maggiore coscienza.

Alessandra sta per aprire il suo laboratorio, dove tutto sarà realizzato solo con materiale riciclato, in un quartiere storico di Roma, il Pigneto.

Berlinguer e la questione morale trent’anni dopo

Undici giugno 1984: muore Enrico Berlinguer. Dopo trent’anni, il tempo per un giudizio equanime sulla sua figura di politico e di statista non è ancora giunto. Questa rubrica non è certo il luogo per tentare un bilancio della sua leadership alla testa del più grande partito comunista dell’occidente democratico. Una cosa è certa: non va raccolto l’invito di Miriam Mafai che chiedeva di “Dimenticare Berlinguer”, come recitava il titolo di un suo infelice saggio.
In questa sede vorrei limitarmi a rilevare una drammatica conferma in occasione di questo anniversario. Negli ultimi anni della sua segreteria Berlinguer si caratterizzò per l’allarme che lanciò sui rischi di degrado morale che correvano la politica e il paese. Do per conosciuti gli elementi fondamentali della sua diagnosi. Ne cito solo i titoli: i partiti sono diventati macchine di potere e di clientela; la corruzione si combatte con pene severe e con la riforma delle istituzioni e della pubblica amministrazione; gli italiani onesti di tutti i partiti devono reagire e cacciare i corrotti dalla vita pubblica. Meno nota è la previsione fatta pochi mesi prima di morire: “Affrontare la questione morale è una condizione ineliminabile per poter proporre e fare accettare una politica severa di riforme e di risanamento finanziario. Ciò significa correttezza e onestà dal vertice alla base di tutta la vita pubblica. Come ha detto Norberto Bobbio, la prima riforma istituzionale consiste nel non rubare. Questo è lo stato di cose da cambiare per evitare una rivolta che sta maturando contro tutti i partiti”. Per i successivi decenni quella profezia fu ignorata e questo fu l’errore capitale commesso da chi si propose come erede innovatore di quella storia. Nessuna sorpresa se oggi dobbiamo fare i conti con Grillo e Casaleggio!
La denuncia di Berlinguer fu contestata fin dall’inizio. E’ doveroso ricordare che il segretario del Pci fu lasciato solo in questa difficile battaglia politica. Tranne Ugo La Malfa, tutti i partiti di quel momento lo snobbarono, e anche dentro il suo partito fu isolato e marchiato con il titolo di moralista. Cosa è accaduto da allora? La risposta è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. La corruzione è diventata un sistema che impedisce di realizzare onestamente grandi opere pubbliche. Ecco l’elenco sommario degli scandali degli ultimi anni: mondiali di nuoto, G8 alla Maddalena, terremoto dell’Aquila, Expo 2015, Mose.
Che fare? Non esiste una misura in grado da sola di aggredire un fenomeno sistemico. Bisogna muoversi, contemporaneamente, su molti piani. Innanzitutto abolire tutte le leggi ‘ad personam’ e regolamentare la prescrizione in modo che non sia più usata per evitare le sentenze. Approvare nuove leggi che consentano controlli e pene adeguate da scontare in carcere. A questo riguardo basta un dato per segnalare lo scandalo dell’impunità di cui continuano a godere i corrotti: oggi, in tutto il Paese, i condannati per corruzione che si trovano in carcere sono meno di dieci. In Italia i colletti bianchi sono lo 0,4 per cento dei detenuti, a fronte di una media europea dieci volte superiore, anche se vantiamo il triste primato di essere uno dei paesi più corrotti del mondo. L’altro dato strutturale che ha contribuito a saldare nel malaffare pezzi di pubblica amministrazione-imprese-politici è l’ordinaria emergenza a cui si fa appello fin dagli anni ottanta per fare tutto in deroga, al di fuori di regole e trasparenza. Da questo sistema è nata una perenne mangiatoia di Stato. Insieme a queste misure vanno approvate le indispensabili riforme per rendere trasparente ed efficiente la gestione del denaro pubblico e il funzionamento dei controlli: riformare la Pubblica Amministrazione; rafforzare, aumentando organici e mezzi, le istituzioni e i corpi dello Stato addetti al controllo di legalità: magistratura, guardia di Finanza, carabinieri. Infine, è prioritaria la costruzione della cornice dentro cui collocare questa guerra quotidiana: la riforma della politica e dei partiti. Nella impostazione di Berlinguer questo elemento era centrale. Nella sua visione tutto si tiene: giustizia sociale, riforma morale e culturale, rinnovamento della politica e delle istituzioni. Bisogna investire sulla diffusione di una cultura della cittadinanza democratica fin dalle scuole per creare il deterrente più efficace contro la corruzione: la condanna e la sanzione sociale dei cittadini verso chi ruba il denaro pubblico. Il corrotto deve essere circondato dalla riprovazione generale della società senza distinzione tra destra e sinistra. Diventeremo un paese normale quando non accadrà più che un condannato per corruzione (l’on. Raffaele Fitto di Forza Italia) sia il secondo più votato in Italia, come è accaduto nelle recenti elezioni europee. Oppure che un capo di partito condannato in via definitiva per frode fiscale e in attesa di altri processi per reati infamanti, sia ricevuto al Quirinale o scelto come interlocutore per cambiare la Costituzione. E’ con questa speranza che ricordiamo e onoriamo la memoria di Enrico Berlinguer. Fu un politico capace e onesto, verso la cui integrità morale proviamo una legittima e sana nostalgia.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Il brano intonato: Dolce Enrico di Antonello Venditti

Rudy, Bandiera del web: “Anche in rete la credibilità è tutto”

Di recente di lui si è parlato e scritto per un inedito ruolo di inviato speciale al seguito del Giro d’Italia: ha raccontato il dietro le quinte della manifestazione attraverso un blog che ha destato molta curiosità [leggi]. Ma Rudy Bandiera, ferrarese, titolare con Riccardo Scandellari dello studio NetPropaganda, è prima di tutto un informatico che ha compreso prima di altri le potenzialità del web. Ha sviluppato una particolare competenza per il mondo dei social media e in qualità di pubblicista e consulente è sovente interpellato per fornire risposte circa il cosiddetto marketing non convenzionale [leggi il suo blog].

“Rischi e opportunità del web 3.0 e delle tecnologie che lo compongono” è il titolo del tuo libro. Innanzi tutto cos’è il web 3.0?
Bella domanda… non lo so (ride). In effetti non lo sa nessuno, nel senso che una definizione precisa ancora non esiste, così come quella di 2.0 è ombrosa e sfumata. Diciamo che, dal mio punto di vista, sono quelle tecnologie che, nei prossimi anni, si fonderanno per rendere la nostra vita totalmente interconnessa, come ad esempio Cloud e Big data. Di fatto, e questo è un paradosso, il Web 3.0 non è solo web.

E che cos’è, dunque?
E’ il futuro. Io lo immagino come l’interconnessione tra le cose e le persone, la creazione di una sorta di “mente collettiva” con la quale tutti quanti dialogheremo.

La logica del database su cui si fonda, caratterizzerà sempre più il web come enorme archivio: la rete diventerà il totem della memoria?
La Rete lo è già, il totem della memoria, ma la memoria da sola no serve a nulla. Una delle definizioni di Web 3.0 è anche quella di “web semantico” ovvero un web evoluto in cui le macchine siano in grado non solo di leggere ma di interpretare. L’interpretazione dei dati, quindi della memoria, è la vera sfida.

Spazio e tempo nel web si modificano e si contraggono. Dinanzi al monitor si può dominare il mondo, o quantomeno ci si illude di farlo. Il virtuale risulta sempre più un potenziamento del reale. Ormai stiamo vivendo dentro i film di fantascienza che ci facevano sognare solo pochi anni fa, non ti pare?
Si, e lo trovo bellissimo. Mi spiego raccontando un aneddoto che ho scritto anche nel libro: Qualche tempo fa sono andato a tenere una lezione in una scuola superiore a Cesena, per spiegare quali fossero i rischi del dare tutti i nostri dati in mano ad aziende private che, tra l’altro, sono americane. Sì sì, non vi preoccupate, alla fine del libro arriviamo anche a fare due chiacchiere su questo ma, dicevo, prima del mio intervento ho seguito quello di Renzo Davoli, un bravissimo informatico che per moltissimi anni ha lavorato negli Usa. Un uomo che ha visto Arpanet, l’embrione militare di Internet, con i propri occhi, per capirci. Davoli raccontava che quello che stiamo vivendo è una sorta di Rinascimento, o di Rivoluzione industriale, o di entrambi messi insieme aggiungo io, tuttavia diceva anche un’altra cosa interessantissima, ovvero che le rivoluzioni epocali, incredibili e giganteschi passaggi da un’umanità ad un’altra del tutto diversa, hanno sempre solo e soltanto una cosa in comune: che quelli che la vivono non se ne rendono conto. Ecco, tutti noi non ci stiamo rendendo conto di quello che accade, quindi ne abbiamo in parte paura. Non dobbiamo! E dobbiamo, invece, coglierne le opportunità.

I “vip” del nuovo mondo sembrano essere i guru della rete: sei tu, insomma! Ci spieghi cosa significa essere “social influencer” e come lo si diventa, casomai ci venisse la tentazione?
Naaaa… io no riesco ad influenzare nemmeno il clima accendendo il condizionatore! Anche qua mi permetto di rispondere con un mio pezzo: “Ecco come si diventa influencer, o almeno ecco quali sono i passaggi per tentare di esserlo: – la definizione di un obiettivo – l’individuazione di un ecosistema – il lavoro, duro, per anni. Capite cosa vi piace, o cosa volete fare o cosa volete vendere. Capite il mondo al quale vi state avvicinando e percepitene le forme e le persone che lo popolano. Scrivete, impegnatevi, sempre e comunque dicendo quello che ritenete opportuno ma sempre e comunque pensando che il mondo è popolato di persone che non sono d’accordo con voi. Siate disponibili al dialogo, sempre, e partecipate ai contenuti degli altri senza la supponenza che i vostri siano i migliori. Tenete sempre a mente il mantra: ‘la Credibilità è Tutto’. La ‘Credibilità’ si costruisce negli anni, parola dopo parola. La Credibilità è Tutto”.

Umano, troppo umano… Giovedì alle 18 alla libreria Ibs di Bologna con il tuo socio Riccardo Scandellari sarete pubblicamente intervistati dalla giornalista ferrarese Camilla Ghedini e avrete modo di sviluppare questi ragionamenti (e tu magari potrei racocntare anche la tua recente esperienza al seguito del Giro d’Italia). Il pretesto è la presentazione dei vostri recenti libri che stanno riscuotendo un notevole successo. Hai promesso un evento “rock”, cosa lo renderà tale? Ci sarà una ‘carrambata’ con Celentano?!?
Io vorrei, e giuro lo vorrei, entrare con Enter Sandeman dei Metallica a tutto volume. Sarebbe una bomba! Ma non so… ma vediamo 😉

Ferrara, una città che si sa narrare

Gli italiani, così almeno pare, amano le statistiche. I loro giornali sono sempre pieni di tabelle, liste di best seller e sondaggi d’opinione.
Molto popolari anche le classifiche delle città italiane con la migliore qualità della vita, pubblicate con regolarità dalle riviste. I criteri di valutazione che vanno per la maggiore sono: retribuzione media dei cittadini, qualità dei servizi comunali, offerta di attività culturali, funzionamento dei trasporti pubblici, numero e superficie degli spazi verdi.

Si tratta, indubbiamente, di indici importanti, ma ci sono anche altri criteri – non materiali – per definire il valore delle città, criteri letterari, per esempio. Quanto contano ancora palazzi, chiese, case, piazze, strade, angoli, monumenti e, non dimentichiamoli, i luoghi che una città dedica ai suoi morti? Le città sommerse dal consumo sono città morte; non ci raccontano niente, i loro abitanti sono intercambiabili, come i negozi.
Molti parlano, in questi ultimi anni, della crisi che attanaglia Ferrara, e ci sono effettivamente tanti elementi per verificarla. Non è mio compito giudicare da lontano se è vero o no. Ma si può assumere anche un altro punto di vista, un punto di vista letterario. E in questo senso, per me Ferrara è una città viva, che si offre alla lettura: le sue strade e i suoi vicoli sono come «il filo conduttore di un racconto», come scrisse della Berlino degli anni venti lo scrittore Franz Hessel. In Italia, e in Europa, è sempre più difficile visitare una città in cui è possibile riscoprire quella «capacità di narrare» così intrinseca a Ferrara, la città degli Estensi.

«Il modo in cui Bassani ha raccontato Ferrara ha attirato l’attenzione dei turisti sulla città», scrisse Alfred Andersch, uno dei più famosi scrittori tedeschi del dopoguerra, nel saggio Sulle tracce dei Finzi-Contini. Molti visitatori stranieri associano quindi Ferrara al Romanzo di Ferrara di Bassani, cercano il giardino dei Finzi-Contini e, non trovandolo, rimangono delusi. Ma il visitatore straniero che ha modo di fermarsi più a lungo scopre, al di là delle vie narrate da Giorgio Bassani, anche nuove tracce che portano ad altri racconti, romanzi, saggi e, perché no, anche a poesie non ancora scritte.
Ovunque è possibile scoprire dettagli e ornamenti, epigrafi e tavole votive che testimoniano una lunga storia e le storie più misteriose di Ferrara. Chi sa ascoltare il cuore di questa città, magari educato all’ascolto dal meraviglioso saggio di Alberto Savinio su Milano, riuscirà a cogliere il fascino e scoprire la magia di Ferrara e dei suoi dintorni, al di là delle mete turistiche più famose.
Potremmo dire che Ferrara è una scuola dei sensi, per chi vuole ascoltare e vedere. Consentite, pertanto, a un visitatore straniero come me, di parlare di alcune delle mie prime scoperte. Per esempio, del cimitero ebraico in fondo a via delle Vigne, così diverso dai cimiteri tedeschi tenuti con cura maniacale e progettati come se fossero autostrade. All’ombra delle mura cittadine, coperte da una fuga di alberi, i morti possono riposare in pace. Nessuno spazza le foglie, nessuna lapide viene pulita, il decadimento dilaga dappertutto.

Quante storie raccontano le iscrizioni ancora leggibili sulle lapidi commemorative degli ebrei di Ferrara, ormai slavate dal tempo. Ricordano persone dotate di «un grande cuore», deportati in «campi di sterminio nazisti» o «Deportato ad Auschwitz»fra il 1940 e il 1945, cifre già corrose degli anni. E le storie narrate da coloro che riposano nel cimitero ebraico di Ferrara sono particolarmente mortificanti per un tedesco. Ci si imbatte poi in epigrafi più vecchie, se non antiche, come quella di Jacob Massarani, morto il 22 marzo 1877, in vita «scrupoloso osservatore»: un’espressione che sembra facile tradurre in un tedesco parlato, anche se con il tempo il significato della parola “scrupoloso” si è sbiadito. Viene spontaneo domandarsi quando e perché l’aggettivo sia stato rimosso, come un fardello ingombrante, dal vocabolario della vita moderna. In tempi di giudizi veloci e univoci chi – eccezion fatta per gli artisti – può permettersi il lusso di essere uno «scrupoloso osservatore» dei propri tempi? A volte sono proprio le lapidi dei vecchi cimiteri a ricordarci perdite irrimediabili.

Lasciamo in pace i morti e andiamo in città, dove vivono gli essere umani. Il vicolo del Leocorno, nascosto ai margini delle città vecchia, dove mia moglie ed io abbiamo acquistato un appartamento, porta il nome di una drogheria che vi si trovava verso la metà del XVI secolo, il cui simbolo era il favoloso unicorno. Partendo da questo dettaglio, si potrebbe raccontare tutta la cronistoria delle attività commerciali e dei piccoli negozi di Ferrara che oggi rischiano la chiusura per colpa dei grandi supermercati insediatisi fuori le mura e le grande catene del mercato globale incluso dei mini shop cinesi, spesso di valore minore ma molto economici. Qualche anno fa, mi ricordo di una donna che un giorno vidi decorare le vetrine della sua bottega di via Carlo Mayr, vicino casa nostra, fino a notte fonda, per attirare nuovi clienti. Forse la signora potrebbe raccontarci qualcosa su questa lotta per la sopravvivenza.
Accanto a una copia de La donna in rosa di Giovanni Boldini, nella sua vetrina disponeva amorevolmente cosmetici: raramente ho visto clienti in quel negozio. Forse perché ci siamo tutti scordati che per ogni bottega, per ogni trattoria, per ogni bar che chiude, la città viene privata di una piccola parte della sua identità e peculiarità.
«La nuova abbondanza,» scrive Italo Calvino nel suo bellissimo libro “Le città invisibili, «faceva traboccare le città di materiali, edifici, oggetti nuovi; affluiva nuova gente di fuori; niente e nessuno aveva più qualcosa in comune con la Clarice o le Clarici di prima; e più la nuova città si insediava trionfalmente nel luogo e nel nome della prima Clarice, più s’accorgeva di allontanarsi da quella, di distruggerla non meno rapidamente dei topi e della muffa.» Che scrivendo queste frasi, stesse pensando anche a Ferrara?

All’estero la città estense è giustamente famosa anche per la sua politica culturale. Le iniziative culturali ad alto livello, come i concerti e i balletti al Teatro Comunale, sono in grado di competere con quelle organizzate nelle grandi capitali europee. L’esemplare lavoro di restauro del suo centro storico ha avuto il più ampio riconoscimento internazionale. Le mostre di Palazzo Schifanoia, di Palazzo dei Diamanti e di Casa Romei, sono un richiamo irresistibile per tutti gli appassionati d’arte. Il Castello e la Cattedrale sono tra le mete irrinunciabili dell’Emilia. Poeti e scrittori come Carducci, Bassani e Piovene hanno eretto a corso Ercole I d’Este un monumento letterario indimenticabile.

Tutte le guide turistiche elogiano, a ragione, il patrimonio artistico di Ferrara, ma la città conserva anche un patrimonio di storia e di cultura di cui le guide turistiche non fanno menzione, un patrimonio che ci consente una lettura della città che altre, seppure con una qualità della vita forse migliore, hanno perso per sempre.
«Il problema culturale delle città moderne,» scrive il sociologo urbano americano Richard Sennett, «è quello di riuscire a far parlare un ambiente anonimo, di fare uscire le città dalla loro degradazione e dalla loro neutralità.» Questo problema, per Ferrara, non si pone. Forse deve solo imparare a riscoprire e valorizzare un elemento importante della sua qualità di vita: la propria capacità di narrare.

(Traduzione di Carl Wilhelm Macke con Giovanna Runngaldier)

Una Spinelli nel fianco

Non so dire se fa più rabbia o malinconia questa nuova baruffa dentro la lista Tsipras (chiamiamola pure così, stavolta: perché questa non è certo ‘l’Altra Europa’ che vorremmo, ma solamente la nostra vecchia Italia, nonché il lato triste della sinistra).
La vicenda è nota. Da una parte c’è Barbara Spinelli che si presenta alle elezioni come candidato di bandiera, promettendo che non andrà ad occupare il seggio di Strasburgo, ma poi ci ripensa (o è indotta a farlo, spiega lei, da numerose e autorevoli pressioni) e accetta la nomina.
Dall’altra ci sono le proteste di chi imputa alla neo parlamentare il mancato rispetto della parola data. Fra gli indignati – guarda un po’ – c’è Marco Furfaro di Sel, defraudato del seggio cui avrebbe avuto diritto come primo dei non eletti. Il coordinatore della sua campagna elettorale, Enrico Sitta, con garbo afferma in proposito: “Poco conta che quando Marco Furfaro va in tv riaccende una speranza a sinistra in questo Paese, mentre la Spinelli non si capisce neanche quello che dice. Poco conta se ha promesso ovunque che avrebbe rinunciato al ruolo. Poco conta che i voti li ha presi perché l’hanno fatta votare tutti i candidati, sapendo che si sarebbe dimessa. Poco conta che ci sia gente che si è candidata proprio perché sapeva che si sarebbe dimessa; sticazzi giocare con la vita delle persone. Chi se ne frega”. E aggiunge: “Una persona misera Barbara Spinelli, una borghese piccola piccola, priva della facoltà politica e forse anche umana di intendere e di volere, in mano a dei mascalzoni che hanno sfruttato l’occasione per un unico scopo politico che andava delineandosi fin dall’inizio: fare fuori Sel. Per invidie, vecchi rancori, politicismi, opportunismi d’accatto”. Bell’ambientino… Vien immediatamente da chiedersi: ma i mascalzoni manipolatori stavano dentro o fuori la lista Tsipras?
Ricostruiamo il quadretto. Da una parte c’è il carnefice (la carnefice in questo caso) che certo rimedia una pessima figura e viene legittimamente accusata di doppiezza, ma anche di inettitudine (e se così fosse perché candidarla? Magari per la sua popolarità?). Dall’altra, ecco “la vittima”, che però si fa rappresentare da uno che si qualifica con espressioni da zotico, e imbastisce una difesa d’ufficio becera e tracotante al punto che anziché servire la scopo inevitabilmente getta ombre anche sul profilo del suo “dante causa” (il quale per parte sua non si rammarica d’aver preso meno voti, in compenso lamenta d’essere stato trattato come “carne da macello”).
In ‘filigrana’ traspaiono ambizioni, meschinità e le ipocrisie dei ‘soliti accordi’. Ma si può andare avanti così?

Il brano intonato: L’avvelenata di Francesco Guccini

Holon, la città dei bambini

Fortunatamente le città che perdono i loro bambini sono solo nelle fiabe dei fratelli Grimm. Fa piacere scoprire che nella realtà esistono città da favola, dove tutto è volto a far crescere con amore e cura i propri piccoli, fino a intitolare la città ai bambini. Del resto i bambini sono le vere radici di ogni comunità.

Nutrire l’intelligenza dei bambini è il successo della loro crescita. L’infanzia è il periodo più prezioso per lo sviluppo del nostro cervello. L’infanzia ha bisogno di ambienti di apprendimento, di luoghi capaci di stimolarne la naturale curiosità, l’esplorazione, l’interesse, l’abitudine a conoscere come quella a respirare e a nutrirsi. Ha bisogno di una rete intelligente di apprendimenti informali, non necessita di essere ordinata precocemente nell’istruzione scolastica.
Da tempo Holon dimostra d’averlo compreso. Non Holon della Specie Delta, la regione del mondo immaginario dei Pokémon. Holon nel centro di Israele, vicina a Tel Aviv.
Centottantamila abitanti, nel 1990 era considerata la città dormitorio della classe operaia, guardata con sufficienza e vissuta come poco attraente dalla sua popolazione, con i giovani in fuga per trasferirsi in città vicine ritenute più interessanti.
Motti Sasson, il nuovo sindaco, ha proposto ai suoi cittadini di fare di Holon una città della conoscenza, iniziando con l’adottare una nuova identità, quella di Città dei Bambini.
Da allora il capitale intellettuale è divenuto il focus di Holon, impegnata a favorire la valorizzazione delle conoscenze, con una attenzione della città rivolta alle generazioni più giovani, fornendo servizi, attrazioni e infrastrutture che servano a loro e ai loro figli.
In primo luogo, la città cura l’ambiente e le infrastrutture educative. Crea istituzioni e attività culturali nuove e uniche, con l’intento di tessere un ambiente di apprendimento in cui i bambini siano esposti ad apprendere idee, fatti e conoscenze dai diversi campi della ricerca e del sapere.
E allora sorge il museo dei Bambini di Israele unico nel Medio oriente, che offre un’esperienza interattiva ai bambini e ai loro genitori. Il “Meets the Eye”, un centro per vivere l’arte attraverso i mezzi tecnologici più avanzati, per stimolare l’intelletto dei bambini, arricchirne le conoscenze e iniziarli al linguaggio delle arti. Attraverso l’apertura del centro per l’Arte digitale e l’istituzione del Centro inter domain, associato al Wiezmann science institute, i bambini accedono alle conoscenze scientifiche. Inoltre, Mediatech, il centro di teatro per i giovani.
Una città della conoscenza, città dei bambini, dove l’interconnessione progettata di attività, istituzioni e operatori fornisce all’infanzia, come agli adulti, l’incontro con i saperi dei diversi territori delle scienze, della cultura e del patrimonio storico.
Il tutto in un contesto di estetica urbana e ambientale unico. La cura dell’ambiente ha trasformato Holon in una delle principali città verdi di Israele, con i giardini d’arte pubblici come lo Storybook garden, dove la cultura si integra con l’ambiente naturale.
L’obiettivo che l’amministrazione di Holon si è ripromessa è alto. È quello di divenire leader, in Israele e nel mondo, del pensiero e delle azioni innovative nel fornire risposte ai bisogni educativi e culturali, dalla nascita fino alla vecchiaia. Questo è il target dell’economia, delle imprese e dei servizi della città.
È straordinario come Holon abbia individuato nel legame con le sue scuole la maggiore risorsa per la città e il suo futuro, assegnando, innanzitutto, grande importanza all’autonomia degli istituti scolastici e alle professionalità che in essi operano. Su queste professionalità, che hanno in mano il destino dei bambini e dei giovani, la città investe. A partire da un lavoro di squadra con l’amministrazione all’interno e all’esterno delle scuole, puntando verso il miglioramento professionale degli operatori scolastici, coinvolgendoli in seminari di formazione, in modo che le scuole siano i luoghi dove gli alunni potenziano le loro competenze e la loro creatività.
La città è concentrata su ogni passo del percorso dei suoi studenti, dalla scuola dell’infanzia al conseguimento del diploma di scuola superiore, monitorando la qualità delle loro esperienze scolastiche e sostenendole con diversi interventi.
Sperimentazione e innovazione sono sviluppate e favorite come ossigeno per il rinnovo dei curricoli scolastici. Di questo è espressione l’esperienza della Scuola democratica che fa fuoco sulla democrazia e sui suoi valori, non predicati ma testimoniati, a partire dalla coerenza delle condotte di insegnanti e genitori.
La combinazione di istruzione formale e informale, la cultura del tempo libero, l’importanza di tutte le forme di conoscenza, istruzione e cultura costituiscono il terreno su cui poggia e cresce la centralità del capitale umano quale chiave del successo futuro.
L’amministrazione di Holon ha investito nella promozione e nello sviluppo di una facoltà dell’Educazione, qualificata in standard d’alta istruzione. In essa è coinvolto come ricercatore tutto il corpo docente, autore dei progressi nella ricerca didattica. Gli investimenti nelle nuove tecnologie, come parte dell’ambiente dell’apprendimento, consentono il controllo e una migliore gestione dell’apprendimento.
L’idea è fare della scuola non solo un sistema che fornisce apprendimenti, ma un’organizzazione che apprende, tenendo regolari sessioni di formazione tra i responsabili scolastici, gli insegnanti e gli altri soggetti coinvolti nei processi educativi, al fine di migliorare competenze e capacità professionali e manageriali.
Gli indicatori chiave del successo per quanto riguarda il capitale umano includono il monitoraggio, la verifica e la valutazione del livello professionale degli operatori della scuola e delle istituzioni di apprendimento. Ad Holon chi opera nell’istruzione e nella cultura migliora se stesso attraverso regolari seminari e programmi educativi che sostengono e accompagnano insegnanti e dirigenti, promuovendo la loro professionalità.
Educare ai valori sociali, incoraggiare al pensiero critico e originale è un processo lungo e complicato, ma l’amministrazione di una città della conoscenza e del capitale intellettuale, come Holon, crede fermamente nell’effetto a lungo termine della cultura e dell’istruzione permanente sulla città e sulla società nel suo complesso.

Dato per scontato

Dato per scontato, n° 1. Durante lo scorso anno scolastico, chiesi ai bambini della mia classe di disegnare una scena del capitolo iniziale della “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”.
Dopo qualche giorno una bambina, che qui chiamerò Elisa, mi riconsegnò un bellissimo disegno colorato in cui si vedevano molti gabbiani in volo, un bel sole tutto raggiante sopra un mare mosso e, in mezzo alle onde, un banco di scuola galleggiante con sopra dei pesci. 
Quando le chiesi perché avesse disegnato un banco nel mare, lei mi rispose che aveva illustrato la parte del capitolo che inizia con l’esclamazione del gabbiano di vedetta: “Banco di aringhe a sinistra!”
Elisa aveva immaginato che un banco di aringhe fosse un gruppo di pesci che nuotano sopra ad un banco di scuola.
Di solito quando leggiamo mi preoccupo di chiedere se tutti i bambini hanno capito e mi fermo a spiegare le parti che hanno termini difficili ma, quella volta ho dato per scontato che tutti avessero colto quell’espressione solo per il fatto che conteneva termini comprensibili.
Non mi sono preoccupato di spiegare il significato del termine “banco” perché per me era semplice in quel contesto.
Ho sbagliato perché ho dato per scontato qualcosa che invece per gli altri non lo era… però ci siamo divertiti insieme.

Dato per scontato, n° 2. Nella mia classe c’è un bambino che sbaglia in una maniera stupenda.
Quel bambino, che qui chiamerò Gianni, non si accorge di sbagliare ma, nell’esposizione orale o scritta, se ne esce spesso con degli errori così perfetti che fa venire voglia di immaginare nuove situazioni.
Un giorno Gianni ci ha raccontato che, una sera, lui e la sua famiglia avrebbero dovuto uscire per andare in pizzeria ma erano così stanchi che, alla fine, hanno deciso di ordinare “una pizza ad omicidio”.
Gianni ha confuso involontariamente “pizza a domicilio” con “pizza ad omicidio”.
Come potevo insegnargli la parola corretta se non partendo prima dall’inventare insieme una storia thriller-umoristica con assassinio finale (tranquilli, la pizza era caricata a… salve!!! Insomma era una pizza che saluta prima di sparare).
Un’altra volta Gianni ha scritto che, insieme ai genitori, ha avuto la fortuna di andare in un albergo talmente bello che, in camera, c’era addirittura la “vasca libromassaggio”.
Quella volta aveva usato la sua straordinaria espressione al posto di “vasca idromassaggio” e noi ci siamo tuffati ad inventare una storia ambientata in una vasca da bagno, immersi in letture così rilassanti che abbiamo dovuto stare attenti a non metter nella vasca anche i libri con la copertina rigida perché altrimenti gli angoli avrebbero punto la pelle.
Gianni non si è preoccupato di spiegare il significato dei termini “pizza ad omicidio” e “vasca libromassaggio” perché per lui erano espressioni chiare nel suo contesto.
Ha sbagliato perché ha dato per scontato qualcosa che invece per gli altri non lo era… però ci siamo divertiti insieme.

Dato per scontato, n° 3. L’8 ottobre 2013 Matteo Renzi proponeva una “campagna a tappeto con i protagonisti del mondo della scuola”.
Il 6 febbraio, nella sua relazione introduttiva alla Direzione nazionale del Pd, Matteo Renzi indicava nei primi giorni di marzo l’inizio della “campagna d’ascolto degli insegnanti”.
Il 9 aprile, il Presidente del Consiglio ha dichiarato, nella stessa sede, che la campagna sarebbe partita tra la fine di aprile e l’inizio di maggio.

A tutt’oggi Matteo Renzi non è ancora partito per la “campagna” di ascolto; evidentemente ha preferito coltivare a tappeto la “campagna” elettorale per le elezioni europee.
Il presidente del Consiglio non si è preoccupato di spiegare il significato del termine “campagna” perché per lui evidentemente è un’espressione con un solo significato nel suo contesto.
Non posso dire se ha sbagliato chi ha dato per scontato il suo ascolto nei confronti della scuola oppure chi lo sta criticando… però non trovo divertente che si prendano in giro “i protagonisti del mondo della scuola”, promettendo campagne di ascolto che, per ora, rimangono aride.

Ad esempio per me il termine “campagna” è importante perché ha anche il significato di “campagna” per il rilancio e la ripresentazione in Parlamento della “Proposta di Legge popolare per una buona scuola della Repubblica”.
Infatti il 15 marzo scorso, nel corso del Convegno nazionale “Le parole chiave per capire il presente e progettare il futuro della nostra scuola”, è stato riconosciuto che la legge popolare è ancora attualissima; per questo le associazioni che la ripropongono hanno creato la campagna “Adotta la Lip”, strutturando un sito dove la Legge, oltre che essere letta, può essere  adottata, scegliendone e colorandone i termini più significativi
Giovedì 12 giugno, presso la sala stampa di Montecitorio, è stata organizzata una conferenza stampa in cui, chi crede in una buona scuola, si appellerà ai parlamentari della Repubblica affinché sottoscrivano e ripresentino a loro nome la proposta di legge.

Per informazioni:
http://adotta.lipscuola.it/
https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/04/28/vivalascuola-170/
https://www.facebook.com/adottalalipscuola?ref=ts&fref=ts
Comunque crediate in una buona scuola della Repubblica, buona adozione.

Buon compleanno Paperino, 80 anni e non sentirli

Una grande festa si prepara a Paperopoli e tra tutti gli appassionati di fumetti, piccini e meno: oggi 9 giugno, data individuata dai biografi esperti del personaggio, Paolino Paperino festeggia 80 anni. Il simpatico e buffo personaggio, nato dalla fantasia del sognatore Walt Disney nel 1934, con il nome di Donald Fauntleroy Duck, si prepara a un compleanno coi fiocchi.

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Il papero più sfortunato e famoso del mondo, con lo zio Paperone, Paperina e i nipoti Qui, Quo e Qua

A Paperopoli, infatti, fervono i preparativi, si confezionano dolci, si incartano cioccolatini farciti, si preparano caramelle dalle cartine multicolori e zucchero filato rosa, si infiocchettano pacchetti e pacchettini. Come regalo di compleanno, in Italia, il settimanale Topolino esce con un numero da collezione (il n. 3054), che vedrà il debutto di Paperino come direttore, affidandogli la rubrica della posta, le interviste e l’editoriale. Un ruolo inedito.
Tutti noi siamo cresciuti leggendo i fumetti con le sue avventure, sorridendo di fronte alle sue maldestre sventure, molti si sono sentiti come questo papero sfortunato almeno una volta nella vita (per chi non si fosse sentito Calimero, piccolo e nero…).
Pochi forse sanno, invece, quando e come è nato questo papero, spesso definito come l’antieroe per eccellenza, l’incarnazione dell’uomo medio moderno, con le sue frustrazioni, i suoi problemi, le sue nevrosi, i suoi tic e le sue paure.
La sua prima apparizione avvenne, il 9 giugno 1934, nel cortometraggio animato The wise little hen (La gallinella saggia); per vederlo a fumetti bisognerà attendere le strisce di Al Taliaferro, pubblicate sui quotidiani statunitensi, il 16 settembre 1934. Il papero, infatti, prima nasce con i cartoni e poi si trasferisce nei fumetti dove, a costruire il mondo di Paperopoli, interverrà Carl Barks, che nel 1947, inventa il leggendario Zio Paperone.
Paperino, papero bianco con becco e zampe arancioni, che indossa una blusa e un berretto da marinaio, senza pantaloni, è un pasticcione sfortunato, pigro, squattrinato, nelle cui rocambolesche avventure è facile immedesimarsi. Don Rosa, disegnatore della Disney, ha disegnato l’albero genealogico di Paperino, attraverso le indicazioni contenute nelle storie a fumetti di Carl Barks. Sembra che Paperino sia figlio di Ortensia de’ Paperoni (sorella di Paperon de’ Paperoni) e Quackmore Duck (figlio di Nonna Papera), ha una sorella gemella, Della Duck, madre di Qui, Quo, Qua ed una fidanzata storica Paperina (Daisy Duck). Paperino (o Paolino Paperino come è noto in Italia) è il vicepresidente del Circolo dei pigri, in uno dei suoi episodi.

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Senza soldi, ‘precario’ e con mille difetti, ispira simpatia

Le prime storie realizzate in Italia apparvero tra il 1937 e il 1940, nella rivista Paperino Giornale, ideate da Federico Pedrocchi, coadiuvato talvolta da altri autori come Pagot.
Il Paperino italiano è sfortunatissimo, vive a Paperopoli, in una villetta a due piani di proprietà del fantastiliardario zio Paperone, insieme ai tre nipotini discoli e indisciplinati, Qui Quo e Qua (che esordiscono, nelle strisce, nel 1937), affidatigli dalla sorella Della. In giardino, tra due alberi, si trova la fedele amaca sulla quale Paolino schiaccia il riposino pomeridiano. E’ continuamente senza soldi, pieno di debiti, in perenne fuga dai creditori, senza un impiego fisso e guida una sgangherata automobile targata 313. È rivale, nella fortuna e nell’amore, del cugino Gastone Paperone, che al contrario di lui, è fortunatissimo; è il fidanzato ufficiale di Paperina, che, di tanto in tanto, esce anche con Gastone. Paperino è spesso nei guai per colpa del maldestro cugino Paperoga, Zio Paperone sfrutta il suo perenne stato debitorio per obbligarlo a lavori massacranti nel Deposito e sotto pagati o per portarlo con sé in pericolose spedizioni alla ricerca di tesori. Creato come personaggio un po’ negativo, è diventato presto l’antagonista di Topolino. Con i suoi mille difetti (istintivo, primordiale, basico, pigro, nevrotico ma anche sognatore e romantico) ispira simpatia e in lui si riconoscono da decenni milioni di lettori.
Paperino è stato protagonista di film, di serie televisive e di videogiochi, divenuto famoso per la sua goffaggine e la sua simpatia-empatia. Dal suo debutto nel 1934, è apparso in oltre 200 produzioni cinematografiche, più di qualsiasi altro personaggio Disney. Con il successo sono arrivati riconoscimenti: un Oscar, nel 1943, quale Miglior cortometraggio d’animazione, il suo nome a un asteroide (Asteroid 12410), nel 1995, e una stella sulla Walk of Fame a Los Angeles.

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Le prime storie di Paperino in Italia, realizzate da Federico Pedrocchi

Paperino ci racconta anche la storia: così si addormenta mentre legge un pezzo di storia romana ai nipoti e immagina di esser stato Camil-Paperino, conquistatore di Veio. Il senatore Plauto Paperone, però, non vedendolo tornare col tesoro di Veio lo fa esiliare, sospettando che l’abbia rubato (in realtà era stato nascosto dagli abitanti della città). Intanto, i Galli Bassotti conquistano Roma e solo il ritorno di Camil-Paperino salva il tesoro di Plauto Paperone.

E, poi, questo simpatico personaggio, per la sua vita psicologia complessa, ha dato il nome alla Donald Duck Syndrome, secondo la quale la vita di ognuno di noi non dipenderebbe dalle potenzialità, dall’impegno o dalle possibilità che a ognuno vengono date da un punto di vista familiare o sociale, quanto dalla fortuna o dalla sfortuna. Paperino, infatti, è convinto che la causa dei suoi problemi sia, soprattutto, la sfortuna, ampiamente contrapposta alla fortuna esagerata e smodata del cugino Gastone. Chi, almeno una volta, non l’ha pensata come lui?

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Volume a fumetti, ‘Paperino – Una vita a fumetti, 80° anniversario’

Oltre all’affetto, arrivano altri regali. Oggi, per il suo 80° compleanno, Disney Libri realizza un bellissimo volume a fumetti, Paperino – Una vita a fumetti, 80° anniversario: un libro per tutti, di 352 pagine a colori, che racconta la vita del papero più amato tra i personaggi Disney, fin dal suo esordio nel cortometraggio del 9 giugno 1934. In formato 22,5×30 centimetri, con bella copertina rigida in tela, il volume ripercorre la storia editoriale del mitico Paperino, raccontandolo attraverso fatti, aneddoti, curiosità e tante irresistibili avventure. Tra le storie a lui dedicate, anche “Paolino Paperino e il mistero di Marte 1937″ scritta e disegnata da Federico Pedrocchi: è la prima volta che questa avventura viene pubblicata integralmente e non rimontata. Una bella occasione di svago per tutti. E un’opportunità per conoscere meglio e festeggiare il nostro amico pennuto.
Allora, Buon Compleanno, dolce, tenero e piccolo Paperino!

Nota semiseria su “i piagnoni” e Savonarola

Infuria sui giornali cittadini la polemica provocata dalla risposta del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani al direttore della “Nuova Ferrara”, Stefano Scansani. Nel suo intervento il primo cittadino esibisce una serie azzeccata di riferimenti storici che vanno dalla citazione al movimento savonaroliano dei piagnoni all’accenno a un capolavoro dell’arte scultoria chiamato popolarmente I pianzun dlà Rosa, splendido gruppo in terracotta policroma di un grande artista sconosciuto conservato ora nella chiesa del Gesù, dopo che i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale distrussero quella in cui era conservato (la chiesa di Santa Maria del Tempio detta “della Rosa”, epiteto probabilmente riferentesi a “roggia” (roxa) in quanto adiacente al grande canale Panfilio, la via ducale d’acqua, la chiesa apparteneva all’ordine dei Templari).

La conoscenza  di un patrimonio culturale popolare da parte del sindaco, ben s’addice a commento delle sue insofferenze e anche ad esposizione del suo programma futuro. Si pensi, come valenza simbolica, all’importanza per la vita cittadina della statua, la brutta ottocentesca statua di Savonarola, che sorge proprio nel centro cittadino e che da sempre veglia i furori della piazza e le cerimonie istituzionali con la sua posa magniloquente e incavolata. Son molto attratto dalla coincidenza del caso come dalla fisiognomica, due aspetti apparentemente secondari nell’analisi dei fatti e che invece possono essere d’aiuto. Che nel giro di quarant’anni l’italianistica avvicendasse sulla cattedra di letteratura italiana di Firenze tre ferraresi d’origine o di cittadinanza onoraria come Lanfranco Caretti, Claudio Varese, Gianni Venturi non può essere solo un caso; come del resto non mi pare una coincidenza che i nostri studi e la nostra sede d’insegnamento fossero, a Firenze, in piazza Savonarola! Confermando questa titolazione il percorso misterioso della casualità.

E di piagnoni ben ci si è interessati, se uno dei convegni più complessi e più proficui sul frate ferrarese per volontà fiorentina ebbe luogo presso l’Istituto di studi rinascimentali della nostra città. Tra la piagnoneria e il debito scambio di vedute mi pare tuttavia che ci debba essere la sua differenza. Sbaglia, però, clamorosamente il sindaco nel ritenere che essere piagnoni significhi essere lamentosi e non invece, come storicamente dimostrato, “incazzati” – e mi si perdoni la parola sconveniente se non fosse che ora è diventata espressione comune -. Ma non nel significato che ad esempio i pentastellati potrebbero dare alla parola, tutt’altro! Mi va bene, se si volesse supporre, che il mio sindaco mi accusasse d’essere un “piagnone” (anche se l’esempio, come lui ben sa, poco è applicabile alla mia fisionomia intellettuale ma anche alla mia fisiognomica) e se questo significasse che sono o potrei essere in…to per certi modi e momenti della sua politica e di quella della sua giunta, in parte rinnovata ma non negli assessorati forti come quelli che ancora occupano i tre moschettieri del suo team. Vale a dire Modonesi, Marattin, Maisto.

Eppure, se mi è permesso dialogare, la “piagnoneria” ha un suo scopo, non tanto di contrapposizione sterile quanto di incitamento a un confronto che francamente mi sembra molto spesso latitare. Non è che si voglia condizionare la necessaria e inconfutabile prerogativa dell’istituzione di governare secondo un piano e una visione delle cose elaborate in modo autonomo, ma sarebbe cosa importante se uno scambio più vivace e complesso si potesse instaurare con giunta e sindaco. Nel caso specifico dell’associazionismo culturale si è tentato di proseguire gli incontri promossi dagli Amici dei Musei con tutte le altre associazioni per definire ruolo e spettanze dei Musei, ma per ora, forse a causa della campagna elettorale, non si è avuto risposta. Altrettanto va detto per la presunta “normalizzazione” delle associazioni culturali, come rileva l’Assessore alla cultura, che sembra non si lamentino tanto ma operino positivamente. A quel che mi consta, il “lamento” associazionista trae spunto dal fatto inoppugnabile che esse prestano un servizio alla città positivo e determinante.

Dopo la vergognosa e triste vicenda della sede delle associazioni di proprietà Fondazione e Cassa Carife, da cui sono state sfrattate e dichiarate morose perché non pagavano sede e servizi condominiali a suo tempo assicurato dall’ente proprietario, mi sembra sia stata decisione saggia e generosa da parte del Comune allogarle in parte nella sede di Via Mentessi, dove provvisoriamente coabiteranno con altre associazioni. Ma non ho notizia delle vicende dell’Accademia e della sua splendida Biblioteca un tempo accolta a palazzo Zanardi, già sede dell’assessorato alla cultura. I tempi son difficili, specie ora che scandali e malversazioni rendono sempre più lontano dal sentire comune i modi di certa politica (e purtroppo di entrambi gli schieramenti). Occorre dunque che il sindaco Tagliani sia attento a quel movimento “piagnone” che gli porterebbe consensi e anche dissensi sempre però nel chiaro ed esplicito riferimento a un onesto “dibbbattito”. Così come gli suggerisco (e lo dico perché anch’io indulgo a quel peccato veniale) di non essere permaloso. E’ difficile, lo comprendo, ma non è una giustificazione. Lo stesso valga anche per molti assessori che spesso indulgono a questo vezzo. Insomma, se Tagliani vuol rivendicare a sé e ai suoi collaboratori l’immagine di Savonarola, saremo ben contenti noi “piagnoni” di seguirlo su una via difficile ma entusiasmante, sempre che sia percorsa nel rispetto reciproco dei ruoli e delle competenze.

Guanxi: altri modi per dire reciprocità

Guanxi è un termine cinese che sta ad indicare l’insieme delle relazioni sociali utili ad un individuo nella propria vita. Il termine indica un sistema di relazioni profonde, una trama di rapporti sociali ed economici, che si forma sin dalla scuola: i genitori, infatti, scelgono una scuola dove il figlio potrà inserirsi in un gruppo su cui trovare punti d’appoggio in età adulta. A questo network un individuo può fare riferimento per velocizzare pratiche burocratiche, ottenere informazioni importanti o conseguire altri favori. Non necessariamente le guanxi devono essere dirette, ma possono essere mediate da quelle di altri.
Il concetto, rilevante per il funzionamento delle relazioni sociali in Cina, può essere accostato a quello di capitale sociale, consolidato da tempo nella letteratura sociologica ed economica, ma ne accentua la dimensione fiduciaria.
In Cina l’enfasi sulle guanxi scaturisce dall’assenza di uno spazio pubblico e dall’assenza di istituzioni che garantiscono un funzionamento trasparente della società. Così le persone, non potendo contare su regole, cercano di sopperire attraverso rapporti personali stretti.
Nei contesti in cui il sistema delle istituzioni pubbliche non è abbastanza solido e trasparente, il singolo deve contare su relazioni dirette, basate sull’attesa di reciprocità. Questo stesso criterio impronta anche i rapporti di mercato: chi ha fatto esperienza del mercato cinese, ha sperimentato che le relazioni personali e di fiducia sono fondamentali per operare in quel contesto. Non a caso, una recente ricerca, condotta da un gruppo di studiosi dell’Università di Hong Kong, propone il termine guanxi, come emblematico della capacità di costruire, attraverso le piattaforme social, legami con i clienti. Il caso citato riguarda TaoBao, la più grande piattaforma di e-commerce cinese. TaoBao è l’unica piattaforma di business online ad aver raggiunto un tasso di fedeltà tra i propri clienti del 71%, tipica soltanto della vendita face-to-face. E ciò sembra avvenuto grazie alla compenetrazione tra il sistema delle guanxi con le moderne tecnologie sociali. Non è un caso che Ebay – in Cina con il nome di EachNet – sottovalutando l’aspetto social delle transazioni commerciali, abbia ottenuto soltanto lo 0,1% del mercato on line rispetto al 96% di TaoBao. Vi è da scommettere che il concetto sintetizzato dal termine guanxi diventerà una nuova linea guida per il marketing.
Due riflessioni, più spostate sul versante dei fenomeni sociali. La prima riguarda la capacità delle tecnologie sociali di costruire on line durevoli rapporti di fiducia. Diverse ricerche sembrano sottolineare la capacità dei social network di sedimentare capitale sociale e di dare vita a relazioni prossime a quelle scaturite dai contatti quotidiani in presenza. Un linguaggio intimo, l’uso delle immagini e di contenuti emozionali, tendono a produrre empatia ed identificazione. I social network sono in grado di trasformare i rapporti on-line tra persone che non si conoscono, in relazioni personali tra amici, sia pure virtuali, e aumentano la percezione di agire per interessi comuni.
La seconda riflessione riguarda il tema della supplenza di legami personali – da qualunque fonte essi siano alimentati – per fare fronte all’assenza di solidi riferimenti nel funzionamento della vita pubblica. Un contesto istituzionale inaffidabile e corrotto spinge a cercare sostegno nelle reti personali, ma contribuisce a generare un meccanismo perverso di sfiducia nell’azione pubblica e di mancanza di trasparenza che non giova alla vita civile e, certo, neanche al mercato.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Lo sterco del diavolo

L’onorevole Zoggia parlamentare veneziano del Pd esterna stupore ed un malcelato nervosismo perché uno dei tanti indagati dell’ennesimo scandalo, il Mose, l’ha accusato di aver ricevuto un contributo elettorale di 65.000 euro elargitogli nel 2008 in una delle tante “cene” che impegnano duramente gli aspiranti alla medaglietta parlamentare. “E’ tutto contabilizzato”, dichiara serafico il Nostro.
“Dove sta il reato? Di che parliamo”. È la risposta secca ed anche scocciata. “Un normale contributo” dichiarano i suoi difensori.
Ha ragione lui. Il reato non c’è. Si passi oltre. No caro onorevole! Penalmente Lei non ha nulla da temere, ma è sufficiente questo? E la Politica (quella che tanti a sinistra chiedono e rivendicano), i valori di cui deve essere sempre permeata non sono forse stati violati da un convivio in cui brillavano tra i presenti e probabili finanziatori diversi amministratori della famigerata cupola Consorzio Venezia Nuova? C’era persino quel Pier Giorgio Baita, allora presidente della Mantovani (impresa già attenzionata dalla Magistratura anni prima), che ora confessa di aver distribuito oltre un miliardo di euro in tangenti e regalie. Una banda di noti filantropi che non si muove mai a caso. E’ “normale” tutto questo o anche a sinistra ha prevalso la pratica del “pecunia non olet”. Queste frequentazioni interessate stridono con l’etica politica e segnalano un relativismo valoriale da condannare. Un esame del sangue ai tuoi commensali caro Zoggia andrebbe sempre fatto, preventivamente. Ti dichiari per la politica onesta e pulita, per la trasparenza? Bene allora evita aziende che hanno fondato sulla corruzione le loro fortune. Non solo. Ma anche quelle che hanno falsificato i bilanci, hanno inquinato l’ambiente (vedi i centomila euro dati al Pd dall’Ilva di Taranto) o sono state condannate perché colpevoli di gravi incidenti sul lavoro… E’ fare demagogia chiedere almeno questo a chi si dichiara ad ogni piè sospinto militante e dirigente di una “nuova sinistra”?
Abolire le “cene” elettorali non sarebbe una gran perdita. Credo. Disciplinare gli ormai “famigerati” contributi “personali” sarebbe un bene per i candidati ed il partito che li esprime. So bene che i tempi sono cambiati. Nel confronto elettorale i partiti eccitano la personalizzazione quasi sempre per mascherare le loro manchevolezze. Cercano una plusvalenza politica nella “personalità” che indicano, ma la correlazione partito-candidato rimane, per fortuna, ancora molto intrecciata. Se questi toppa sul piano morale o dell’etica pubblica il danno per chi lo ha espresso è enorme. L’opinione pubblica radica il suo giudizio sul “son tutti eguali” e Grillo gongola. Che fare quindi? Trasparenza pubblica assoluta sui finanziamenti di cui però si deve assumere controllo e quindi responsabilità anche il partito in questione. Vietato il libero arbitrio sull’uso dei fondi avuti dopo che organismi collettivi politici ne hanno accertato la liceità non solo penale ma anche morale.
Caro Zoggia la magistratura non avrà nulla da eccepire sui 65.000 euro, io si e con me – ne
sono sicuro – tanti che vorrebbero continuare a votare Pd senza turarsi il naso.

Gli Estensi e la cultura: vivacità intellettuale, lungimiranza e progettualità

AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA/2

Nel XV secolo, grazie soprattutto ai grandi artisti che diedero vita alla celebre “officina ferrarese”, Ferrara si connotò come uno dei più importanti centri rinascimentali italiani. All’ombra della casa d’Este operarono, sin dalla prima metà del Quattrocento, artisti come il Pisanello e Iacopo Bellini. L’illuminato Leonello creò infatti le condizioni per lo sviluppo del grande rinascimento estense, ospitando ad esempio l’umanista Flavio Biondo, Guarino Guarini, Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna, Piero della Francesca e altri artisti, letterati e filosofi. Ma fu con Borso che si affermò la scuola pittorica ferrarese, per merito di Cosmè Tura (1430-1495), Francesco del Cossa (1436-1478) ed Ercole de Roberti (1450-1496). E in campo letterario si alternarono, tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento, i grandi poeti Matteo Maria Boiardo (1441-1494), Ludovico Ariosto (1474-1533) e Torquato Tasso (1544-1595).
Leonello d’Este, durante il suo poco meno che decennale principato, tenne Ferrara lontana dalle guerre, migliorando così le condizioni economiche dei cittadini, esentati dalle spese militari. Egli fu il primo della dinastia Estense a perseguire con coerenza il consenso della popolazione, in specie tramite gli sgravi fiscali, l’investimento di capitali per dare impulso all’economia, la realizzazione delle bonifiche, la promozione di provvedimenti finalizzati ad alleviare gli stenti dei poveri e degli ammalati. Borso fu di certo più pragmatico di Leonello, preferì le arti “minori” (si pensi alla famosa Bibbia) e si dedicò prevalentemente all’attività edilizia e urbanistica.
In seguito, con la reggenza di Ercole I d’Este, i ferraresi assistettero al raddoppiamento della città generato dal grande piano dell’Addizione Erculea (peraltro intrapreso anche per rispondere, con massicce domande di manovalanza, all’indigenza che ancora regnava nei ceti più bassi), videro sorgere le chiese e i palazzi, mettere in scena le commedie dei classici latini, allestire i tornei, il Palio, le cerimonie. I costi di tali opere, frutto in larga parte del genio di Biagio Rossetti, finirono per pesare anche e soprattutto sulle tasche dei cittadini. Solo più tardi divenne a tutti palese (oggi vanto) la lungimiranza con cui tali imprese furono progettate e realizzate. E che qualificarono Ferrara come la prima città moderna d’Europa: per la sua sobria bellezza, per l’efficacia delle soluzioni urbanistiche adottate, per il potenziale sviluppo socioeconomico che la sua struttura lasciava intuire.

Sette buoni motivi per tenersi in movimento

Meglio correre o camminare? La domanda tormenta medici e sportivi da almeno trent’anni anni. Diversi studi recenti hanno chiarito alcuni punti: a parità di sforzo, la camminata è più salutare mentre la corsa fa dimagrire più in fretta.

L’attività motoria fa bene alla salute. Basta anche solo mezz’ora di moderata attività fisica per cinque giorni alla settimana per guadagnare il 19% di aspettativa di vita in più. Questo il risultato di un’altra ricerca condotta dai ricercatori dell’Università di Cambridge e pubblicata sull’ International Journal of Epidemiology.
“Camminare fa bene al cervello” titolava il 18 ottobre scorso il Corriere di Milano, riprendendo all’uopo uno studio pubblicato sulla rivista Neurology da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pittsburgh secondo cui, percorrendo circa un chilometro al giorno, il rischio di andare incontro a compromissione cognitiva si dimezza.
Un principio della scienza osteopatica dice “la vita è movimento”.

Di seguito almeno sette buoni motivi per cui vale la pena dedicare almeno mezz’ora al giorno al movimento fisico.

Patologie cardiovascolari: sia la corsa che la la passeggiata, entrambe migliorano la salute, abbattendo significativamente i rischi legati alle patologie cardiovascolari; come vedremo l’attività fisica giova alla circolazione, al metabolismo, al buon funzionamento del sistema nervoso, ma prima di tutto è necessario per una buona ossigenazione del sangue e aiuta a mantenere la pressione arteriosa ed il colesterolo entro limiti normali.

Osteoporosi: camminare fa bene perché permette la rigenerazione ossea, dunque previene l’osteoporosi. Se le ossa sono “in carico”, in movimento, generano una vibrazione che stimola le cellule a riprodursi. Le ossa del nostro sistema scheletrico subiscono un ricambio continuo per tutta la vita e si rigenerano ogni 48 ore. A tale proposito, una curiosità: dopo un periodo prolungato in assenza di gravità, per gli astronauti si verifica una condizione di “osteopenia”, una riduzione della massa ossea data dalla assenza di carico a causa della mancanza della forza di gravità.

Circolazione periferica: il movimento e l’attività fisica consentono al flusso sanguigno di irrorare gli organi periferici. Probabilmente, se avete le mani ed i piedi sempre freddi, conducete una vita troppo sedentaria. Le persone che soffrono di gonfiore alle caviglie, senso di pesantezza alle gambe la sera, comparsa di varici, peggiorano se conducono una vita sedentaria. Camminare, invece, svolge una benefica azione preventiva.

Metabolismo: spesso mangiamo più di quanto effettivamente serva al nostro organismo. Il movimento ci aiuta a consumare energia. Il corpo in attività utilizza i depositi di acidi grassi contenuti nelle cellule adipose, ed è per questo che lo sforzo favorisce la perdita di tessuto adiposo. In particolare l’attività fisica regolare agisce direttamente sulla corticotropina (CRF), che induce una riduzione delle calorie introdotte e un aumento del consumo di energia.

Depressione: il sistema ortosimpatico, insieme a quello enterico e parasimpatico, è una delle tre parti del sistema nervoso autonomo. La sua azione generale è quella di mobilitare le risorse del corpo sotto stress, per indurre all’azione, a prendere decisioni. L’attività fisica permette di attivare il sistema ortosimpatico e di reagire a condizioni di tensione quotidiana trasformando questa energia in azione.
Camminare è un antidepressivo naturale. Quando i muscoli si attivano, producono molecole importanti come le endorfine e la serotonina che aumentano il tono dell’umore. Chi cammina con regolarità nota una diminuzione dello stress e della depressione, dorme meglio e vede la vita mentalmente ed emotivamente in modo più positivo.

Attività cognitive: camminare migliora le attività cognitive, anche più di faticosi esercizi o dello stretching. Lo ha evidenziato uno studio condotto su 124 persone sedentarie, dopo un allenamento basato sullo walking per 45 minuti, 3 volte la settimana, per 6 mesi. Questa attività, stimolando le funzioni cardiorespiratorie, aumenta l’irrorazione di sangue al cervello, migliorandone di conseguenza le funzioni. Si impara a respirare meglio: inspirare ed espirare col naso migliora la capacità respiratoria in sé.

IMMAGINARIO
Al cinema “Tass, storia
di Stefano Tassinari”

Tass, la storia di Stefano Tassinari (Italia/2014/90′) di Stefano Massari sarà proiettato al cinema Arlecchino di Bologna, via Lame 57, mercoledì 11 giugno alle 19,30 nell’ambito del BiograFilm festival 2014 [vedi il trailer ufficiale]

 

Coniugava la passione politica con il rigore etico e concepiva la cultura non come privilegio di casta ma strumento di emancipazione per tutti. Stefano Tassinari, figura eclettica del panorama culturale italiano, è mancato due anni fa (l’8 maggio 2012), ma di lui e della sua opera si continua a parlare attraverso continue iniziative che testimoniano l’affetto di coloro che lo hanno conosciuto e il bisogno di coltivare il suo pensiero.

Scrittore, giornalista e politico ferrarese trapiantato a Bologna, ma sempre intimamente legato alla propria città, Tassinari è stato un intellettuale a tutto tondo, che ha concepito l’impegno culturale come essenza di un progetto politico di profonda trasformazione della società.

Il suo agire era orientato da una ben precisa e connotata concezione politico-sociale movimentista, sempre attenta e sensibile ai fermenti e ai mutamenti sociali. Non a caso Stefano Tassinari è apprezzato e riconosciuto interprete letterario delle istanze partecipative e degli impulsi di radicale trasformazione che in Italia hanno avuto il loro acme fra il 1968 e il 1977. Di quella mancata rivoluzione democratica si ritrovano significative tracce e illuminanti interpretazioni praticamente in tutta la sua opera narrativa, con particolare insistenza nel romanzo “L’amore degli insorti” e nel suo ultimo lavoro, la raccolta di racconti edita sotto il titolo “D’altri tempi”. Ma già le vicende legate alla lotte di liberazione in Spagna e in Italia, narrate in “Il vento contro” e “L’ora del ritorno”, possono esserne considerate un prologo, così come “I segni sulla pelle” che racconta, con stile letterario ma trasparenti riferimenti alla cronaca, la tragica vicenda del G8 di Genova può in qualche misura rappresentarne una sorta di epilogo.

Stefano concepiva l’impegno letterario non come esaltazione di un talento individuale ma, al contrario, come affermazione di una dimensione collettiva dal fare attraverso l’arte della parola scritta, un esercizio che raggiunge un esito particolarmente significativo nella raccolta “Lavoro vivo”, opera narrativa frutto di una pluralità di contributi attorno al tema dei diritti e della tutela dei lavoratori.

Parte significativa del suo impegno si è indirizzato al lavoro giornalistico, quello svolto a Ferrara specificamente con Luci della Città, e il successivo a Rete 7 prima e per l’Unità e Liberazione successivamente, sino alla sua ultima creazione, la rivista Letteraria di cui è stato fondatore e direttore fino al giorno della sua scomparsa, avvenuta a seguito di una terribile malattia contro la quale ha lottato per anni con la forza e la tenacia che gli erano connaturati.

Anarchici, poveri, sontuosi: sono mille papaveri rossi

“ Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.”

La poesia dei papaveri è tutta qui: rossi come il sangue, poveri come un’erbaccia, sontuosi nella loro incredibile fragilità ed eleganza; anarchici sempre. Amanti del vento, riempiono di colore fossi, crepe di muri e cantieri assolati, oppure costruiscono paesaggi incredibili quando ai contadini scappa il controllo delle infestanti e ai bordi di un campo di grano, formano strisce drammatiche di rosso acceso, un richiamo ricco di poesia a coloro che i campi li hanno irrigati con il sangue, come nel caso del papavero delle Fiandre che cresceva nelle campagne devastate dalla prima guerra mondiale nel Nord della Francia. Chi non conosce le parole della canzone di De Andrè? Quante volte l’abbiamo cantata e ascoltata, o solo pensata, quando i nostri occhi si sono appoggiati sul miracolo di questo fiore. Un fiore plebeo vestito di seta pura, conosciuto e coltivato dai tempi dei tempi per il suoi semi preziosi e per la linfa così ricca di sostanze calmanti e anti-dolorifiche, da poterlo veramente definire una pianta “stupefacente”.
Un po’ di storia: il genere dei papaveri comprende circa un centinaio di specie, per lo più originarie delle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente, fino all’India, coltivate poi nei secoli, in tutte le regioni temperate e sub-tropicali. I Romani conoscevano bene le virtù terapeutiche di questa pianta e nonostante il suo colore sia una sferzata di energia, i miti e le divinità a cui veniva collegata erano quelle dei sogni, del sonno e dell’oblio. Una leggenda narra che Tarquinio il Superbo, re di Roma, per far capire al figlio Sesto Tarquinio che il modo migliore per sottomettere la città di Gabi fosse eliminarne fisicamente gli uomini di potere, per rendere esplicito il consiglio, andò in giardino e decapitò, con un colpo netto di bastone, le teste dei papaveri più alti. Da questa leggenda è derivato il modo di indicare i potenti con l’espressione: “alti papaveri”. Questo episodio è stato immortalato sulla tela dal pittore romantico Lawrence Alma-Tadema. Nel quadro tra le figure immobili come statue, spicca il movimento dei petali che esplodono letteralmente per il colpo secco inferto dal re.
Leggende a parte, il fatto che gli storici del tempo raccontino questo episodio, mi fa pensare che nei giardini dei primi re di Roma, i papaveri crescessero liberi e tranquilli, in aiuole e prati ben lontani dall’idea leccata che abbiamo dei giardini di lusso dei grandi del passato.
È possibile coltivare papaveri in giardino, a patto di accettarne la loro assoluta imprevedibilità. I papaveri di campo e i più raffinati papaveri orientali, hanno in comune di non amare i trapianti. Il seme deve cadere dove crescerà la pianta, ma essendo molto difficile distinguere le piantine appena germogliate da altre erbacce, di solito finiscono per fare una brutta fine. Si hanno buoni risultati seminando i minuscoli semi nei vassoi tipo Multipot (quelli che usano nei vivai) oppure, si possono fare esperimenti casalinghi con le vaschette di cartone delle uova. Il terreno deve essere fine e leggero (un terzo terra, due terzi sabbia di fiume) e quando i semi cominciano a germogliare, bisogna diradare le piantine e poi metterle a dimora prima che le radici siano troppo sviluppate. Non ho mai provato, ma se si usano le vaschette delle uova, forse è sufficiente tagliare il fondo della vaschettina di cartone e piantare tutto insieme, in questo modo la terra non si dovrebbe mai staccare dalle fragilissime radici. Per avere i papaveri in un prato rustico e fiorito bisogna seminare in pieno campo e in pieno sole, sperando che in primavera, le giovani piantine non siano soffocate da altre erbe. I migliori risultati si ottengono quando il prato è giovane e la concorrenza ridotta, ma negli anni, i fiori e le erbe cominceranno la loro lotta per la sopravvivenza e i papaveri cercheranno spazio ai bordi o dove la vegetazione è più rada. I papaveri orientali si comportano allo stesso modo, però sono più grandi di quelli di campo e offrono una varietà di colori che vanno dal bianco puro, al rosso ciliegia, fino alle sfumature più raffinate del rosa antico. Nel mio giardino ho cercato di farli fiorire dove volevo io, senza mai riuscirci, però ho avuto la soddisfazione di ammirarli dove volevano loro: qualche estate fa insieme ad una spettacolare fioritura blu di borragine, e ormai da qualche anno, sul ciglio della strada, liberi di andare o di restare.

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Nell’inferno dei malati di gioco: ‘Ricadere nel vortice è un attimo’

di Valerio Lo Muzio

“Ho perso tutto” dice con lo sguardo nel vuoto e la voce sicura, di chi è convinto di aver ormai superato la tempesta. Ad aver “perso tutto” è Francesco, 38 anni e un passato da giocatore accanito, la sua passione erano le scommesse sportive e la sala ippica dove ha buttato tutti i suoi soldi, ininterrottamente per undici lunghi anni. Un decennio della sua vita fatto di sotterfugi, di inganni, prima alla famiglia e poi a se stesso per continuare a servire quella dipendenza che è il G.a.p. , comunemente conosciuta come gioco d’azzardo patologico. “E’ peggio dell’alcolismo” dice Francesco, un nome di fantasia, perché preferisce rimanere anonimo “Scommettevo sempre, passavo 5 ore tutti i giorni nella sala scommesse, non riuscivo neanche a più a seguire un evento sportivo se non ci avevo giocato”. Francesco, si apre e racconta:“Nella mia carriera di giocatore, ho perso 300 mila euro, ma soprattutto 11 anni di relazioni sociali, di rapporti con mia moglie, mi sono perso l’infanzia di mia figlia”.

Francesco, ormai non gioca più da 5 anni, è entrato a far parte di Giocatori Anonimi Bologna, un’associazione senza fini di lucro che, grazie a tecniche di condivisione della malattia e un programma di astinenza e recupero strutturato in 12 passi, combatte l’azzardopatia. Il gioco d’azzardo patologico, è stato infatti classificato come una dipendenza comportamentale dal ‘Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders’ , la bibbia degli psicologi di tutto il mondo. Basti pensare che in Emilia Romagna, quarta regione italiana per fatturato da gioco d’azzardo (8.534 milioni di euro nel 2012) ), secondo le stime CNR su dati Ipsad (rilevazione sul consumo di alcol, fumo, sostanze illegali e sul gioco d’azzardo che viene svolta in Europa), sarebbero circa 10 mila i giocatori ad alto rischio di dipendenza, mentre secondo la Regione, nel 2012 erano 800 i giocatori con una dipendenza dal gioco in cura presso l’Ausl. Nel panorama nazionale, le cifre invece sarebbero molto più elevate, secondo l’inchiesta Azzardopoli condotta dall’associazione Libera, sono infatti 800 mila i giocatori patologici in tutto lo stivale, il gioco d’azzardo è un business da 80 miliardi l’anno, ovvero il 4% del pil nazionale.

Iniziare a giocare è facile, lo conferma anche Francesca 31 anni, entrata volutamente nel 2008 in Giocatori Anonimi, perché “mi sentivo intrappolata in un qualcosa più grande di me” confessa. Francesca ha iniziato a inserire soldi nelle slot machines all’età di 14 anni, attirata dalle vincite “era adrenalina pura” racconta “giocavo la paghetta settimanale, finché raggiunta un’indipendenza economica ho iniziato a fare sul serio”. E’ proprio la vincita l’input iniziale, secondo la dottoressa Maria Grazia Masci, psicologa in forza al Sert (servizio per le tossicodipendenze) del’ Ausl di Bologna, “generalmente si parte da una vincita, ma questo non basta, per diventare giocatori patologici c’è un’unione tra i problemi dati dalla vulnerabilità psicologica e biologica e i problemi sociali”. Anche secondo Carlo, 47 anni ed ex giocatore patologico, la vincita “non aiuta i giocatori patologici, anzi peggiora le cose”, quando gli chiediamo spiegazioni, lui sospira e ci racconta la sua storia: “feci una grossa vincita al totocalcio dei cavalli, vinsi trentasette milioni di lire con una schedina da 18mila lire, con quelli progettavo di chiudere i miei debiti con le banche, di sistemarmi e tenermi qualcosa da parte, però nonostante i buoni propositi, mi sono giocato tutto”.

Una cosa che caratterizza e accomuna in qualche modo tutti i giocatori patologici sono le convinzioni errate, quegli stravolgimenti della realtà, che la psicologa del Sert definisce “distorsioni cognitive”, e che Francesco ricorda con una distaccata e fredda lucidità rivedendosi come riflesso in uno specchio in “quei pomeriggi dove, perdevo 5 mila euro, poi all’ultima corsa ne vincevo 500, tornavo a casa convinto di aver vinto anziché aver perso 4.500 euro. Perché quando sei malato, passa tutto in secondo piano, non importa se hai vinto o hai perso, l’importante è il giocare”. Il costo maggiore della patologia del gioco lo paga la società, a causa delle continue perdite, i giocatori infatti, mettono a repentaglio la stabilità economica della propria famiglia “ci sono situazioni in cui i padri si sono giocati i soldi per mandare all’università i figli” rivela la Masci. Ma i soldi in qualche modo, il giocatore riesce sempre a trovarli “il giocatore è come un genio della finanza” racconta Francesco : “Riducendosi a chiederli in prestito, spesso dagli amici” continua “ma c’è anche chi ricorre a situazioni non propriamente legali pur di continuare a giocare”. “La cosa di cui ti priva il gioco” ricorda Francesca “è la serenità, ogni volta che entravo in casa erano urli e alle volte si arrivava anche alle mani, ero frustrata da quel continuo perdere soldi”.

Ma da questa piaga si può guarire? “No, non si può guarire – racconta Francesco – è impossibile, ma si può smettere di giocare, è una malattia per la quale bisogna chiedere aiuto e va tenuta monitorata, noi non possiamo giocare neanche 50 centesimi perché ti riporterebbe nello stesso vortice da cui siamo usciti” Come dire: Fine pena mai.

[© www.lastefani.it]

Il memofilm in scena al FilmFestival della salute mentale di Roma

Il cinema come terapia per aiutare i malati di demenza senile a ricordare attraverso “memofilm” costruiti sulla persona: un’iniziativa emiliana che approda al FilmFestival della salute mentale di Roma. L’idea di Eugenio Melloni e piaciuta al regista e sceneggiatore Giuseppe Bertolucci è stata portata avanti con un progetto scientifico della Cineteca di Bologna e dell’Azienda pubblica dei servizi sociali Giovanni XXIII. Oggi – sabato 7 giugno – il progetto “memofilm” sarà protagonista della quarta edizione dello Spiraglio FilmFestival, manifestazione promossa da Roma Capitale con un’alternanza di momenti di cinema, proiezione di film in concorso, eventi speciali e contributi del mondo sociale, scientifico ed educativo. Diretto da Federico Russo e Franco Montini, rispettivamente direttore scientifico e artistico, Lo Spiraglio FilmFestival punta a raccontare attraverso le immagini il mondo della salute mentale e le possibilità di cura legate alla potenza dell’immaginario e del mezzo audiovisivo.

Uno spazio particolare avrà quest’anno il “memofilm” ovvero il progetto realizzato con oltre una decina di filmati personalizzati per ridare l’identità perduta a persone malate di Alzheimer o di altre forme di demenza, ma che sono riusciti anche nell’intento di correggere disturbi del comportamento che nessun farmaco era riuscito a modificare. Il linguaggio audiovisivo che interviene con successo laddove quello verbale è in crisi è alla base dei risultati sottoposti a una ricerca durata cinque anni, condotta da un team di psicologi, medici e registi per aiutare malati gravi di smemoratezza, grazie a un accordo tra l’Asp Giovanni XXIII e la Cineteca di Bologna. Un percorso dai tanti possibili sviluppi, confluito nella pubblicazione del volume edito da Mimesis insieme con un dvd e intitolato “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”. Il lavoro è stato presentato a Bologna con la partecipazione di Alessandro Bergonzoni e a Ferrara è stato al centro di un incontro alla biblio-videoteca comunale Vigor in collaborazione con l’Associazione Feedback e con la psichiatra e dirigente del servizio Sert dell’azienda Usl di Ferrara Luisa Garofani.
A Roma a parlare di questa esperienza saranno oggi alle 16 al Nuovo cinema Aquila lo psichiatra e già presidente del Giovanni XXIII di Bologna, Giovanni De Plato; la coordinatrice infermieristica Valeria Ribani; il documentarista e sceneggiatore Eugenio Melloni, che vive a Ferrara e che per la regia di Wim Wenders ha scritto soggetto e sceneggiatura del mediometraggio in 3D “Il Volo” (2010) e diretto il documentario “700 anni per vedere il mare” (2011), premiato con la la medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica.

Lidi: con il progetto idrovia
e il rilancio del porto,
gli Estensi sulla buona strada
per l’eccellenza

Al Lido degli Estensi, anche se con un tempo dal cielo scuro, alcuni lampi, un po’ di pioggia, il sole che a volte buca le nuvole, alcuni sguardi dal lungo mare, i lavori quasi finiti del porto canale, le settimane scorse stati foriere di una piacevole sorpresa, anche per chi come me da tantissimo frequenta questo litorale.
Se poi sei al secondo piano di una palazzina, dove la vista si fa larga e lunga, vedi i colori del mare che cambiano ogni mezz’ora, i segmenti bianchi delle onde sembrano quasi barriere sonore, la spiaggia deserta ti dà il senso di una serenità ricevuta, le barche a vela si alzano solo se c’è il vento giusto; poi, di notte, intravedi una trentina di pescherecci che cercano di raccogliere il pescato necessario per far vivere una famiglia.

Questi semplici ma significativi elementi mostrano un quadro d’insieme che, quando lo cogli, ti genera dentro un grande appagamento.
Siamo fermi, a pochi passi dal canale, tra le due grandi dune di sabbia, piene di arbusti, siepi ed erbacce, certamente non ben curate, e, nel mezzo, ci sono i tre bagni che ti offrono un bel contesto per riflettere, o almeno singolare. Una singolarità che nasce proprio dal mese primaverile di maggio, in cui solo puoi osservare: due che corrono sulla pista ciclabile, una madre con la carrozzina e la suocera, tre bambini sullo scivolo, una lunga distesa di sabbia senza ombrelloni, ma già spianata e pulita per l’arrivo di giugno e, vicino, un centro sportivo che si anima nel tardo pomeriggio. In un grandangolo che ti fa dire che queste cose le gusti solo ora, in un maggio per pochissimi ma, comunque, bellissimo.
Se, poi, vuoi fare due passi sul viale, c’è già qualcuno che ti aspetta, puoi comprare qualcosa, la solita gentilezza, senti parlare romagnolo, modenese, veneto e qualche straniero.

Che questo lido offra abbastanza è nelle sue corde, quello che piace segnalare è che, dopo la zona del Pettina, vicino al canale Logonovo, la parte centrale resta ancora la più animata e viva. In più, abbiamo scoperto il rilancio della “vecchia zona del porto”: quella fontana a getti d’acqua, una rotonda originale con attorno tutto quello che serve ai villeggianti e un lungomare nord silenzioso, quasi a precostituire un dopo del nuovo porto canale e la passeggiata che fra poco andremo a percorrere.
Evidentemente ci voleva proprio il progetto idrovia per smuovere vecchie incrostazioni demaniali e marittime, per fermarci solo qui, e riempire con nuove scenografie le contiguità tra le due porte di Venezia e Ravenna che restano il limite del vialone del Carducci.
Forse resta solo da fare una bella pulizia alla pavimentazione, alle aiuole aggiungendo accuratamente fiori, alcune luci e la giusta animazione, per dare quel “la” necessario e raggiungere l’“eccellenza”, produrre la perla che mette insieme i sette lidi di Comacchio.
Che la crisi possa passare valorizzando al meglio i tanti turismi che possiamo offrire, dipende anche da tutti noi, e sono certo che ci riusciremo.
Speriamo di non doverci ricredere, carissimi lidi… tanti auguri!

Pollo alle prugne, dal fumetto al grande schermo

Dopo il successo del fumetto Persepolis, la disegnatrice-regista iraniana Marjane Satrapi, porta al cinema, con Vincent Paronnaud, una storia ricca e commovente, un film dai toni melodrammatici che ricalcano lo stile dei film anni 50, con un tocco, talora, felliniano.
Questo lungometraggio però, a differenza di Persepolis, non è più un fumetto ma una bella trasposizione in immagini e scene degne di esso, quasi fossimo immersi in un sogno leggero.
Siamo nel 1958, quando Nasser Ali Khan, famoso violinista di Teheran, perde ogni voglia di vivere e decide di mettersi a letto per aspettare la morte: sua moglie, l’intransigente Faringuisse, durante un litigio, gli ha rotto il su amato violino, per questo nulla e nessuno valgono più nulla.

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La locandina del film ‘Pollo alle prugne’

Sprofondato nel suo letto solitario, Nasser attende l’angelo della morte, ripercorrendo tutta la sua vita, immaginando il futuro dei figli e, soprattutto, rivivendo l’amore per una ragazza conosciuta in gioventù, la bella Irâne.
In bilico fra sogno e realtà, fra vero e immaginario, passato e presente, immensi sono il rimpianto e lo struggimento per quanto si è ormai perduto.
Sembrano trascorsi invano il tempo, la gioventù, il primo amore, la passione per il violino (simbolo di libertà, creatività, leggerezza, spensieratezza e allegria); ormai, il piatto preferito per lui preparato dalla moglie (il pollo alle prugne appunto) non basta più a confortare Nasser e a farlo desistere dall’intenzione di lasciarsi completamente andare e per sempre.
Siamo di fronte a un uomo che ricorda la madre (sulla cui tomba aleggia uno strano e misterioso fumo, forse le tante sigarette ?), ormai solo, triste e disarmato, pronto ad abbandonare tutto per la musica e per l’amore nei confronti di una ragazza perduta ma anche del suo Iran. E che otto giorni dopo la tragica e insindacabile decisione se ne andrà per davvero.
I colori tenui d’altri tempi sono bellissimi, l’atmosfera, come dicevamo, resta quella del fumetto e siamo avvolti da tonalità e sapori molto stile Liberty, frondoso e a volte leggiadro. Vi sono poi anche tanta fantasia, belle e intense digressioni e riflessioni, molti flashback, qualche sguardo al futuro (o flashforward), sorrisi e risate.

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Un scena del film ‘Pollo alle prugne’

La dimensione onirica, un po’ sospesa nel vuoto e nell’aria, resta un plus importante e fondamentale di questo film, così come lo sono la ricchezza inventiva, la dimensione fiabesca e intimista tipica della millenaria cultura persiana, fuori dal tempo e dalla storia. Il film è drammatico ma allo stesso tempo romantico. Consigliato.

Pollo alle prugne, un film di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi con Isabella Rossellini, Maria de Medeiros, Golshifteh Farahani, Mathieu Amalric, Jamel Debbouze, Chiara Mastroianni, Edouard Baer, Eric Caravaca, Frédéric Saurel, Dustin Graf, Francia, Germania, Belgio 2011, 90 mn.