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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Il bigodino della Pinca e le profezie dell’Altea

Pronto Ada, hai tempo? Sì? Allora siediti che ti racconto. L’altra mattina alla Conad incontro la signora Pinca, te la ricordi la Pinca, quella bassina, gamba corta, polpaccio poderoso ma tanto a modino, sempre con la sua volpe al collo, sempre col ricciolo fresco di bigodino… insomma, mentre una lattuga e due peperoni planavano nel carrello (ci si deve pure procurare da vivere anche senza servitù) mi sorprendo a raccontare alla bassina le mie preoccupazioni finanziarie, con la pensione che non aumenta di un centesimo, con le banche commissariate, come andremo a finire? Quel sant’uomo di mio marito s’arrabbia se gli parlo dei nostri risparmi in pericolo… Non finisco la frase che la signora Pinca, a carrello accostato e voce insinuante, sentenzia “C’è solo una cosa da fare: andare dall’Altea” e mi spiega che l’Altea è una ragazza, ragazza si fa per dire perché non ha mai avuto marito, ragazza sui cinquant’anni che per colpa di una scoliosi mal curata è rimasta leggermente gibbosa, sa come Leopardi, non era mica gobbo Leopardi, soltanto un po’ gibboso.
Insomma, la signora Pinca conclude che la gobba è bravissima a leggere le carte e che lei ci va spesso e ha intenzione di ritornarci presto per chiedere all’arcano, tra l’altro, che fine farà quel bel giovanotto di Casini, moderato che non sa più chi moderare. La virata democristiana mi convince, detto fatto andiamo dall’Altea. Nell’anticamera dello studio stagna un certo odorino che non è proprio cattivo odore, ma quella puzzina gialla di colonie da poco prezzo, non un soffio di Caleche, non un’idea di Arpege, pazienza.
Le convenute, tutte donne, raccontano i fatti dell’Altea: “A mio marito aveva predetto che sarebbe morto, invece l’operazione è andata bene, poi è sopraggiunta una complicazione: è mo’ morto!”, conclude la vedova con saporita voce di stomaco. Non è da meno la sua vicina: “ Glielo aveva tanto detto a mia cognata di non comperare la casa a Mirabello lei no, ostinata a dire che era un affare: la casa di Mirabello è crollata col terremoto, tale e quale come aveva previsto l’Altea”.
La puzzina gialla era diventata più consistente o, forse, ero io che stavo cedendo, fatto sta che alla terza morte e al quarto infarto divinati nelle stelle mi sono fatta coraggio e ho salutato la compagni, adducendo un improvviso malore.
Mentre galoppo verso la macchina mi viene in mente un altro rimedio infallibile consigliato questa volta dalla badessa del collegio dove ho studiato. Giovane sposa, rivelo alla monaca il mio desiderio di un figlio e lei sentenzia, proprio come la signora Pinca: “Per avere un figlio bisogna fare una cosa sola: pregare”. Al sant’uomo non piace pregare.

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Il freddo va di moda

Da MOSCA – La neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve. (Maxence Fermine, Neve)

In parallelo alle Olimpiadi Invernali di Sochi, da un osservatorio privilegiato come può essere ora quello di Mosca e quando tutti i giornali parlano della Russia, delle sue posizioni intransigenti su numerose tematiche, è difficile non percepirne il freddo, il ghiaccio, la neve, le temperature polari.
L’inverno russo è un’idea di questo immenso Paese, parte integrante della sua forte identità, e, oggi, ne è forse anche diventato un vero e proprio brand. Questo freddo diventa sinonimo di tante cose insieme, di bellezza, di spensieratezza, di gioco, di salute – vigore, freschezza, fantasia, vivacità, colore, guance rosse che si osservano sui volti dei pattinatori delle piste del Gorky Park – e, non da ultimo, di moda. Qui si è davvero imparato a vendere il freddo, un’arte e un business.
Neve russa, foreste russe, montagne russe (non nel senso di ottovolanti, ovviamente, che, peraltro, i russi chiamano amerikànskije gòrki, ovvero “colline americane”…), giochi d’inverno russi, colbacchi russi, stivali russi, vodka ghiacciata russa. Dobbiamo correre ai ripari. Fa davvero freddissimo.
A meno ventisette gradi sotto lo zero, ci avventuriamo, allora, alla ricerca del colbacco perduto, perché qui senza uno di essi non si può reggere davvero l’inverno… Ne scopriamo una varietà incredibile, un copricapo con una sua storia. Da ragazzini, quando “militavamo” nelle Giovani Marmotte, legavamo questo copricapo a quello di Davy Crockett. Eravamo orgogliosi di possederne uno quando, con gli scout, correvamo su e giù per le montagne. Ma questo cappello di pelliccia con una specie di codina è un’altra cosa, qualcuno di noi si avvicinava maggiormente al copricapo russo se indossava una sorta di berretto da aviatore con i paraorecchie (in russo, ushanka). Il suo progenitore, il treukh, divenne popolare già nel XVII secolo. Questo colbacco di pelliccia, solitamente di pecora, sul davanti era adornato da un ampio orlo di pelo, sulla nuca si allungava in una falda che arrivava fino alle spalle e le orecchie erano protette da due paraorecchie, legati sotto il mento per proteggere la gola dal vento e dal gelo. L’ushanka è in uso ancora oggi in diversi colori (grigio per la polizia, nero per la marina). I soldati che devono stare di guardia in piedi al gelo, con i paraorecchie sollevati, risolvono il problema indossando un cappello di una misura maggiore, che scende sulle orecchie e in tal modo impedisce loro di congelarsi. Lo notiamo quando passiamo, intirizziti, nella Piazza Rossa e osserviamo queste guardie immobili non solo per ruolo e funzione ma anche forse un po’ per il freddo… Dal guardaroba militare l’ushanka era passato presto in quello civile. Durante il periodo dell’Unione Sovietica, questi cappelli di pelliccia, di pelo di renna, di castoro, di topo muschiato e di altri animali erano indossati dalla maggioranza della popolazione maschile. Non meno amato era ed è il colbacco del Kuban (kubanka). Giunta dal Caucaso, la kubanka o papakha era un attributo dei Cosacchi del Kuban (da cui prende il nome). La papakha classica è un copricapo di forma cilindrica dalla sommità piatta, di astrakan.

Fin dal periodo sovietico, fu straordinariamente popolare la versione femminile della kubanka, fatta di pelliccia a pelo lungo o di volpe bruna. Questo accessorio divenne di moda grazie ai costumisti della Mosfilm, storico studio cinematografico nato a Mosca nel 1923: lo indossava infatti la protagonista di un film molto amato da tutti i russi, Ironia del destino. Io ricordo anche quello della bella Lara del Dottor Zivago. Oggi questo tipo di kubanka è tornato di grande attualità: si può tranquillamente tirare fuori dall’armadio quella di volpe bruna della nonna, della vecchia zia o della mamma, toglierla dalla sua scatola di latta (che si dice sia il modo migliore per conservarla, per non sciuparne forma e pelo) e indossarla con un cappotti classici o mantelle stile anni ’60. Anche l’ushanka ritorna. Celebri marchi come Bally e Ralph Lauren invitano a completare il proprio look invernale con i cappelli paraorecchie. Anche alcune creazioni di Chanel ricordano questo copricapo.
Ci sono, poi, gli stivali di feltro, qualcuno ha scritto, simpaticamente, Valenki alla riscossa. Perché questi stivali si chiamano, appunto, Valenki, le tradizionali calzature russe che tornano di moda, nei loro più svariati colori. Se ne trovano di finemente ricamati, decorati con stampe o rifiniti con pelliccia. Non solo tengono i piedi caldi e comodi durante l’inverno (sono fatti di feltro di lana di pecora e massaggiano leggermente i piedi camminando), ma sono anche considerati delle opere d’arte folkloristiche, di moda e facilmente personalizzabili, perché alti, bassi, larghi, stretti, sotto o sopra il ginocchio. Diffusi fra tutte le classi sociali, stanno aumentando in popolarità, tanto da fare ormai seria concorrenza ai modaioli Ugg australiani. E poi sono spettacolari, perché uguali, non vi è un destro e un sinistro e, credetemi, che quando siete impacchettati per uscire al freddo non dover scegliere quale stivale va indossato per primo è davvero comodo. Acquistatelo, tuttavia, in una taglia più grande se volete indossare calze pesanti… con galosce di gomma sopra se piove. Li potete trovare nei mercatini di souvenir, come quello di Ismailovo a Mosca, o in alcuni negozi del centro. Se vi interessa capire la loro origine e storia e come sono prodotti potete anche visitare il museo dei Valenki, vicino alla stazione dei treni Paveletskaya. Se, infine, siete particolarmente curiosi, vi sono anche canzoni russe dedicate ad essi (di Alexandra Strelchenko o di Efrosinia).
Perché il freddo, che va sempre più di moda, si compra e… si ve(n)de.

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A Ferrara il bestiario fantastico di un maestro vetraio che fa scuola anche all’estero

Un artista del vetro, che vive e lavora a Ferrara, ha sviluppato una tecnica e uno stile di lavorazione tanto particolari da essere chiamato nelle scuole di arte e design in Italia e all’estero per insegnare come plasmare questo materiale. E’ Alberto Gambale, diplomato all’Accademia di belle arti di Bologna, con oltre vent’anni di esperienza artigiana e artistica che lo rendono uno tra i maggiori esperti della lavorazione del vetro. Gambale, infatti, è docente alla scuola Vetroricerca di Bolzano – unico ente nazionale di formazione artistica in questo campo – e tiene annualmente corsi al Centro nacional del vidrio di La Granja, vicino a Madrid, in Spagna. La sua tecnica spazia dalla più moderna vetrofusione, che porta a creazioni di effetto molto contemporaneo, fino alla classica rilegatura a piombo delle antiche vetrate.

Un’occasione per vedere le realizzazioni di Gambale è la mostra, a Porta degli angeli fino a martedì 11 febbraio. Un bestiario fantastico, che unisce creatività e pulizia stilistica. Un missile con le squame di pesce e le ali di uccello accoglie il visitatore. Il mostro colorato è come un richiamo a entrare in questo fortilizio dalle ampie porte-finestre che si affacciano sul verde delle mura di Ferrara. Gambale rivela qui la sua capacità di dare un’anima giocosa a vetro, legno e acciaio. Il manufatto di grandi dimensioni, oltre 4 metri di lunghezza per un paio di metri d’altezza, apre la rassegna dedicata alla serie di creature immaginarie. All’interno altre opere trasformano in un percorso ricco di magia stanze, anfratti e scale a chiocciola di questa torretta civica. Ogni scultura diventa elemento narrativo capace di sfruttare gli spazi dell’edificio storico. Il filo conduttore è evocato dal titolo della mostra: “Il volo dei senza nome”.

Un viaggio che continua dopo il debutto, ormai una decina di anni fa, all’interno del castello del Verginese, vicino a Portomaggiore di Ferrara. La Delizia è stata la residenza di Laura Dianti, compagna del duca di Ferrara Alfonso d’Este dopo la morte della moglie Lucrezia Borgia. Una leggenda vuole che lo spirito della Dianti aleggi ancora in quella dimora ferrarese. E partendo da questo spunto suggestivo, legato alla storia estense, Gambale crea il percorso scultoreo che vede l’antica dama nei panni immaginifici di donna-albero, amica e guardiana degli strani animali approdati in sua compagnia con il comune desiderio di spiccare il volo. Una favola che prende le sembianze traslucide, attuali e suggestive del vetro colorato e delle forme giocose di strani animali, dove ogni creatura si può indovinare per il tipo di maculazione e forma di zampe, dorsi e creste. La primadonna di corte è presentata in sembianze arboree, mentre zebra, toro e camaleonte sono accomunati dalla presenza di un becco di uccello, che simboleggia l’inizio della metamorfosi in atto per esaudire il sogno di staccarsi da terra.

Numerose le esposizioni e le opere pubbliche realizzate dall’artista. Sue opere sono conservate in collezioni museali e private. Da alcuni anni affianca alla propria produzione la collaborazione con artisti e studi di progettazione architettonica.

La mostra “Il volo dei senza nome” dentro a Porta degli angeli, in Rampari di Belfiore 1 a Ferrara, è a cura di Alberto Squarcia e Vincenzo Biavati dell’associazione Stileitalico in collaborazione con la Circoscrizione 1. Orari: fino all’11 febbraio tutti i giorni 15-17. Sabato e domenica 10,30-12,30 e 14,30-18 con musica e laboratorio per bambini e ragazzi.

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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Le opere di Alberto Gambale per la mostra “Il viaggio continua” (foto di Aldo Gessi)
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Claudio Fava al liceo Ariosto parla di mafia e dittatura. E dell’antidoto del coraggio [audio]

La forza di lottare contro ogni forma di oppressione per una vita libera e dignitosa. Davanti a un pubblico di ragazzi attenti e curiosi, Claudio Fava è intervenuto questa mattina al liceo Ariosto di Ferrara per parlare del suo ultimo libro (“Mar del Plata”) che racconta in forma romanzata una vicenda vera ispirata alle gesta di una squadra di rugby negli anni della dittatura argentina. Il colloquio con gli studenti si è poi ampliato a riflessioni sulla mafia e la legalità.

Giornalista, scrittore, sceneggiatore del film “I cento passi”, deputato di Sinistra Ecologia e Libertà, vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Claudio Fava è figlio di Giuseppe Fava, fondatore de “I Siciliani”, giornalista, scrittore, drammaturgo assassinato dalla mafia a Catania nel 1984.

In apertura, Fava ha raccontato il libro “galeotto” che gli ha fatto desiderare di diventare scrittore, “Uomini e topi” di Steinbeck e ha poi risposto alle domande degli studenti suo romanzo “Mar del Plata” (Add edizioni, 2013).
L’incontro è stato organizzato dalla scuola avvalendosi dell’apporto dei docenti referenti del progetto “Galeotto fu il libro”, in collaborazione con l’associazione Libera.

[Audio 1] I cento passi, il rifiuto di piegarsi, la forza di resistere (23 minuti)
[Audio 2] Borsellino, Rostagno e i rischi dell’indifferenza (20 minuti)


Questa la sinossi del libro che merita certamente la lettura.

Immaginate un giocatore di rugby.
Teso, attento, pronto allo scatto e a resistere alle cariche, ai placcaggi, a tutto. Solo che quest’uomo non è un giocatore di rugby come gli altri: lo si capisce quando comincia a raccontare quella partita, e le altre cento che l’hanno preceduta.
Si chiama Raul, è argentino e la squadra per cui sta giocando non esiste più. Morti, tutti, durante gli anni della dittatura. Lui è l’unico sopravvissuto. Una squadra di fantasmi. Che un tempo era la squadra più forte d’Argentina.
Un tempo funesto, il 1978. Qualcuno si illude che lo sport sia un terreno neutrale e che altrove, lontani dal campo di rugby, stiano anche i generali e la repressione di un regime che in pochi anni farà ventimila morti.
Che c’entriamo noi con la dittatura? Noi che diamo l’anima sul campo?
Poi uno di quei ragazzi, uno che di mestiere fa l’operaio e in fabbrica parla e pensa ad alta voce, scompare. La domenica successiva i suoi compagni chiedono un minuto di silenzio prima della partita.
Invece di minuti ne passano dieci. Dal giorno dopo cambia tutto. Mentre l’Argentina si prepara a trasformare i campionati del mondo di calcio del 1978 nella vetrina del regime, tra la giunta militare e quei ragazzi si accende una sfida che non prevede armistizi. Uno dopo l’altro i giocatori spariscono: ma per ogni giocatore ucciso, un ragazzino del vivaio viene promosso titolare. E così, mentre il mondo celebra l’Argentina campione del mondo di calcio fingendo di non sapere cosa stia accadendo, i ragazzi del Rugby La Plata continuano a giocare, a vincere, a parlare ad alta voce. E a morire. Dei titolari ne resta in vita solo uno: Raul. L’ultima di campionato si porta in campo una squadra di ragazzi. Giocano, e vincono. Per la giunta militare, che assiste con le divise tirate a lucido dal palco d’onore, sarà l’inizio della fine. Una storia vera, raccontata con la passione, l’amore e il rispetto che meritano i grandi eventi della Storia.
Alla fine di “Mar Del Plata”, Claudio Fava, avanza una tesi interessante: le dinamiche applicate dalla dittatura argentina sono le stesse messe in atto dalla mafia siciliana.

(Ha collaborato Mauro Presini)

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Il rugby, i desaparecidos e il bisogno di lottare. Libertà e dittatura in Argentina

Andrea De Rossi, terza linea della squadra italiana di rugby che partecipò da capitano alla Coppa del Mondo del 2003, una volta disse: “Nel rugby la fortuna non conta. Contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di lottare.”
Forse i dittatori militari, in Argentina a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, hanno deciso di ammazzare diciassette giocatori della squadra di rugby de La Plata proprio perché quei ragazzi sapevano resistere lottando con il fisico, il cuore e l’intelligenza.
L’unico sopravvissuto, Raul Barandiaran Tombolini, capitano di quella squadra, racconta: “Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’Università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi e fare politica fu una scelta naturale.»
O forse li hanno assassinati perché quei ragazzi sapevano osservare la realtà, dentro e fuori dal campo di rugby e, avendo frequentato la scuola e l’Università pubblica, non avevano imparato le lezioni di remissività incluse nel pacchetto degli istituti privati religiosi.
Oppure li hanno eliminati perché il regime pensava che, essendo Ernesto Che Guevara il rugbista argentino più famoso, quella squadra non potesse essere altro che un covo di rivoluzionari che si ispirava a lui.

Era il 24 marzo 1976 quando il controllo dell’Argentina fu assunto da una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti.
Controllo significò, tra le altre cose, lo scioglimento dei partiti politici e del Parlamento, l’annullamento di tutte le attività politiche e sindacali, il controllo della Corte di Giustizia, la censura, l’abolizione della libertà di stampa e di espressione.
La dittatura militare avviò il cosiddetto “Proceso de reorganización nacional” che prevedeva l’instaurazione di un sistema economico neoliberista e l’allontanamento della “minaccia comunista” anche attraverso il rapimento e l’uccisione di tutti gli oppositori politici.
Fu il maggior genocidio nella storia del Paese: 30 mila desaparecidos e 500 bambini rubati, secondo le madri di Plaza de Mayo, circa 8 mila morti ammazzati secondo lo stesso Videla.
Dopo il fallimento della dittatura e la rovinosa guerra delle Falkland, il 15 dicembre 1983 il nuovo presidente Raul Alfonsin istituì la Comisiòn Nacional sobre la Desapariciòn de Personas che aveva come obiettivo quello di chiarire i fatti successi durante il regime militare.

Le conclusioni a cui giunse la Commissione, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, possono essere riassunte con queste parole riportate nel capitolo conclusioni del Nunca Mas: “È possibile affermare che – contrariamente a quanto sostenuto dagli esecutori di questo piano sinistro – non si perseguì solamente i membri di organizzazioni terroriste, ma si contano a migliaia le vittime che non ebbero mai alcun rapporto con tale attività e che tuttavia furono oggetto di orrendi supplizi per la loro ferma opposizione alla dittatura, per le loro lotte sindacali o studentesche, per essere intellettuali che criticavano il terrorismo di stato, o, semplicemente, per essere familiari o amici di qualcuno considerato sovversivo.“

Era un venerdì santo quando il gruppo paramilitare della Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina) rapì Hernan Francisco Roca detto “Mono“, il mediano di mischia, mentre era a casa del padre.
Lo avevano confuso con Marcelo, suo fratello che era militante tra i Montoneros.
Dopo qualche giorno il corpo di Hernan fu trovato con le mani legate dietro alla schiena, gli occhi bendati e ventuno colpi di arma da fuoco nel corpo che gli avevano sbriciolato le ossa.
La domenica successiva al ritrovamento del cadavere di “Mono” era prevista una partita; i giocatori dello Champagnat, per solidarietà, proposero un rinvio ma i compagni del “Mono” vollero giocare ugualmente.
Il capitano del La Plata Rugby Club chiese ed ottenne un minuto di silenzio in memoria del mediano ucciso.
Scrive Claudio Fava nel suo libro “Mar del Plata“, in cui narra la storia della squadra “desaparecida“:
“… perché un minuto passa lento come la vita, come la morte è lento, avanza piano, segna il passo, canta strofe tutte uguali, un minuto è un rumore di secondi che non s’incontrano mai. Invece finiscono, l’arbitro fischia e allora succede quello che nessuno immagina, però succede che in campo nessuno si muove, in tribuna nessuno si siede, restano tutti immobili, rigidi, le braccia lungo i fianchi, la palla dimenticata a terra, tutti ad aspettare che il tempo cammini ancora un po’ perché un minuto è poco, poco per il Mono, poco per quella morte di merda, filo di ferro attorno ai polsi, la canna di una pistola che spinge sulla nuca […]
No, un minuto non basta, ne serve un altro, e un altro ancora, e intanto tutti fermi, incatenati, impegnati a dilatare quel tempo, a renderlo lungo come la vita che toccava al Mono e che invece gli hanno strappato, aveva 17 anni, figli di puttana, 17 anni, pensate che ci basti un minuto?
Ne passano cinque. Poi sei.
Tanto nessuno ha fretta di fare, nessuno ha fretta di dimenticare.
Otto minuti. Nove. Dieci. Dieci minuti durò quel silenzio”.
Ma dieci minuti di silenzio furono un affronto troppo grande per la dittatura e i militari non perdonarono quel gesto di sfida.
Lo cita alla lettera Ernesto Sabato, scrivendo che il fatto era stato definito dal regime: “di grave provocazione da tenere nella considerazione dovuta“.

Da quel momento l’accanimento sui “canarios” (i ragazzi di La Plata avevano la maglia gialla) fu minuzioso, anche per la fama con cui la squadra veniva chiamata: “Escuela de guerrilleros”.
Gli stessi giocatori di La Plata si presero beffa anche di quella definizione e la trasformarono in “Eserjito revolucionario del cisne”, cioè “Esercito rivoluzionario della burla”.
Dopo Hernan Roca detto “Mono” toccò al mediano d’apertura Otilio Pascua che venne trovato mesi dopo in un fiume, con i segni delle torture e mani e piedi legati.
La lista dei giocatori del La Plata Rugby Club ammazzati o scomparsi diventò via via tragicamente lunga: Santiago Sánchez Viamonte, Mariano Montequín, Pablo Balut, Jorge Moura, Rodolfo Axat,Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Marcelo Bettini, Abel Vigo Comas, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo del Rivero, Enrique Sierra, Julio Álvarez, Hugo Lavalle.
A dispetto di tutto ciò, la squadra guidata dal burbero allenatore Hugo Passarella, continuava a vincere nonostante mettesse in campo i giocatori provenienti dalle squadre giovanili.
Continuava a vincere di fronte allo sguardo nero dei generali schierati in tribuna perché nel rugby, come nella vita, contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di resistere lottando.

Claudio Fava, in uno dei suoi viaggi in Argentina, ha letto gli articoli di Gustavo Veiga, giornalista del periodico Pagina 12, ed il capitolo del libro “Deporte, desaparecidos e dictatura” dedicato a quei giocatori di rugby che hanno pagato un prezzo altissimo,  rispetto a sportivi di altre discipline.
Così ha scelto di dare un’anima a quegli articoli e di scrivere “Mar Del Plata” in cui racconta, in maniera semplice ma appassionante, la storia di quella squadra di rugby “desaparecida”, riuscendo inoltre, anche attraverso scene epiche, a renderla poeticamente potente. Ne ha tratto un libro di cui consiglio calorosamente la lettura.

terracini

Utopisti

Senza nostalgie o sonnolente malinconie ripenso a ciò che ho lasciato alle mie spalle, il Paese canagliesco, le tante città nelle quali ho lavorato, gioito, anche sofferto, ma, soprattutto ai molti amici che, lungo la strada della mia vita mi hanno lasciato, piccoli preziosi uomini e donne, o grandi personaggi, che mi hanno accompagnato, mi hanno sorretto, mi hanno fatto piangere a volte, mi hanno dato tanto in termini di affetto e di stima.
Li ho perduti, la vita non attende niente e nessuno, va avanti, ci sputa addosso il suo tempo senza pietà, se ne infischia di amori, legami, impegni, la vita spazza via tutto.

Alcuni, di questi amici li ricordo con tenerezza, altri con grande rimpianto, tra noi, mi accorgo ora, in questo silenzio che mi avvolge teneramente, sono rimaste in sospeso tante parole, troppi ragionamenti non hanno avuto termine e ora, mi chiedo, come faccio a trovare le risposte che mi attendevo? Niente da fare, faccio perfino fatica a ricordare le cento voci lasciate nel vuoto, cerco di ricostruirle, o di immaginarle, quella di Umberto per esempio, Umberto Terracini, quando gli chiesi “Umberto, come hai fatto a resistere per oltre vent’anni in galera ed essere ancora qui a sperare che la società cambi?”. E lui, sereno, davanti a un piatto di tagliatelle in una trattoria di Ancona, tagliatelle che la padrona, vecchia comunista emozionata per aver ospite un personaggio tanto importante, aveva tirato col mattarello – tagliatelle squisite – lui sereno, con il suo sorriso dolce, rispose semplice semplice: “Facendo un riposino dopo mangiato, nevvero!”.

Faceva parte, Terracini, di quel gruppo di uomini che avevano veramente cambiato l’Italia senza mai chiedere qualcosa in cambio, senza ottenere nulla che non fosse galera ed esilio. Proprio come i potenti di oggi, penso. Potenti! Si fa per dire, meglio chiamarli venditori di pere cotte. Ma gli uomini che avevano sofferto la tortura, l’umiliazione, la disperazione della prigionia, la lontananza dai propri cari, vendevano, o meglio: ci regalavano, ideali sui quali costruire le nostre convinzioni, tutta gente che credeva nel confronto e mai si sarebbe abbassata a offendere gli avversari, quella era prassi fascista, pensavamo di averla sconfitta. Una volta di più avevamo sbagliato.

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Sochi e le sue mascotte

Da MOSCA – Arrivano i Giochi Olimpici Invernali di Sochi, la XXII edizione, si parla di Russia un po’ ovunque, dei suoi atleti, degli investimenti faraonici (sono stati spesi oltre 50 miliardi di dollari, i giochi invernali più costosi della storia), delle imponenti misure di sicurezza, del rischio terrorismo e di tanti altri argomenti a corollario di questo evento importante per il Paese, la sua economia e, soprattutto, la sua immagine. E’ la prima volta che il Paese fa da padrone di casa a tale tipo di evento, anche se nel 1980, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica, aveva ospitato le Olimpiadi estive (curioso ma, anche in quel caso, si trattava della XXII edizione).

Fin da subito, ha stupito la scelta del posto, ma, si sa, i russi ultimamente sono fatti per stupire. Sochi non è un luogo di villeggiatura sciistica, non è luogo di neve e piste, la città, infatti, si affaccia sul tiepido Mar Nero. Gli impianti saranno, quindi, nella vicina Krasnaya Polyana e lo stesso villaggio olimpico è situato a circa 20 chilometri dalla città. Oltre 30.000 uomini, tra soldati, poliziotti e membri delle forze speciali, sorveglieranno città e luoghi sensibili.
Si starà, quindi, a guardare, tutto si fermerà almeno un po’, cosi come avveniva nell’antichità, quando i Giochi Olimpici erano un evento sacro e perfino le guerre venivano sospese per permettere ai più grandi atleti di parteciparvi per lodare gli Dei. Gli appassionati seguiranno il Cigno Biondo, Evgeni Plushenko, e la squadra di hockey sul ghiaccio di Aleksandr Ovečkin.
I bambini saranno incuriositi e attirati dalle mascotte dei Giochi. Come sempre.
Ci sono voluti sei anni per sceglierle, ma ora le si vedono sorridenti in tutti i grandi magazzini di Mosca, nei negozi di sport e di souvenir, all’aeroporto, nei centri commerciali, negli stand degli ambulanti leggermente ricoperti di ghiaccio. Gli abitanti di Sochi avevano votato, nel 2008, per i primi schizzi preparati per i giochi. Allora aveva vinto il delfino sugli sci ma il comitato organizzatore delle Olimpiadi aveva deciso di rimandare la scelta del simbolo, indicendo, nel 2010, un concorso nazionale, aperto a tutti e al quale hanno partecipato professionisti e dilettanti. Erano arrivati in finale Ded Moroz (Babbo Natale), un orso bruno e uno bianco, un leopardo, una lepre, il sole, il ragazzo di fuoco, la ragazza di neve, una matrioska e un delfino. Prima della votazione la giuria aveva eliminato dalla competizione Ded Moroz, simbolo principale del capodanno russo, i cui diritti non potevano certo essere ceduti al Comitato Internazionale Olimpico. Babbo Natale, o Nonno Gelo, vive nel piccolo villaggio di Veliky Ustyug, a oltre 1000 chilometri a Nordest di Mosca, in mezzo a foreste di abeti, su un’altura che si affaccia sul fiume Sukhona. Yuri Luzkhov, ex-sindaco di Mosca, dichiarò, 12 anni fa, che la piccola cittadina era la dimora ufficiale russa di Babbo Natale. Impensabile, dunque, farlo diventare il simbolo di un’Olimpiade, visto il suo ruolo fondamentale nella tradizione russa.mascotte-sochi
Nel febbraio 2011, con una votazione televisiva, sono state scelte le mascotte. Al primo posto si era piazzato il Leopardo, che godeva dell’appoggio del Presidente Vladimir Putin; al secondo, l’orso polare, favorito dal premier Dmitri Medvedev; e al terzo il leprotto. Per i giochi paralimpici le prescelte sono stati i due omini Lučik (raggio di sole) e Snežinka (fiocco di neve).
Si è trattato del primo caso nella storia delle Olimpiadi in cui le mascotte sono state scelte attraverso una votazione popolare. Prima d’ora, la confermare delle scelte ufficiali era sempre stata prerogativa dei comitati organizzativi.
Già nel 1980, un orsetto era stato il simbolo portafortuna delle Olimpiadi estive, il tenero Mishka, considerato ancora oggi uno dei migliori della storia dei Giochi, alla luce dell’impatto emotivo e dei ricordi positivi che aveva impresso nelle persone. Se prima di allora l’orso russo era associato a qualcosa di negativo, Mishka aveva cambiato questa percezione. D’altra parte, per noi, l’orsetto è sinonimo di tenerezza e gioco. Quanti ne abbiamo ricevuti da bambini.
Per ciascuna mascotte è stata creata una piccola favola, che evidenzia le loro caratteristiche migliori. L’orso polare proviene dal Grande Nord, ama la neve e rappresenta lo sci, il bob, lo slittino, il pattinaggio e il curling; il leopardo vive tra le vallate del Caucaso e con le sue doti di arrampicatore aiuta chi si trova in difficoltà in montagna, personificando il soccorritore, l’alpinista montano e l’amante dello snowboard; la lepre, durante l’inverno, è la creatura più operosa del bosco ed è esuberante, giocosa e ama ciò che fa. Tutti amano gli sport invernali.
I tre animaletti entreranno presto nella storia delle Olimpiadi, nel frattempo sono già diventati oggetti da collezione: classici peluche, portachiavi, cuscini, tazze, felpe, magneti. Alcuni mesi fa la Banca di Russia ha persino emesso una moneta commemorativa da 25 rubli che le ritrae.
Al termine dei Giochi, l’orso polare, il leopardo e la lepre lasceranno il posto ad altre due mascotte. Durante la Paralimpiade, in programma a Sochi da oggi al 16 marzo, toccherà, infatti, a un raggio di sole e a un fiocco di neve illuminare le scene. Secondo il comitato organizzatore sono la personificazione dell’armonia nel contrasto e insieme mostrano che tutto è possibile.
Il bello della scelta dei tre simboli di Sochi sta senza dubbio nel fatto che si tratta di animali con tratti emozionali, quasi con espressioni umane e sentimenti. Anche se qualcuno li ha considerati troppo fiabeschi e patinati e privi di autoironia. Vedremo dove ci porteranno.

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Tempi moderni: la guerra di Resistenza al centro sociale è per la musica alta

C’è un angolo del centro storico, che a dispetto della sua aria tranquilla, ultimamente è animato da alcune tensioni.
C’è un signore che è molto arrabbiato perché la casa dove si è da poco trasferito è vicina ad un centro sociale in cui ci sono dei ragazzi che fanno rumore. E siccome non gli danno pace, ha deciso di far loro la guerra, mandando ogni tipo di controllo, dalle forze dell’ordine all’Asl. Una sera che per l’ennesima volta gli hanno rovinato la cena con le prove dei loro concerti, si è anche presentato là dentro, tirando fuori tutta la sua disperazione, urlando “zecche di merda, vi mando Forza Nuova”. Visto che là dentro sono tutti “rossi”, gli è sembrata la minaccia più appropriata. Loro poi hanno annullato il concerto, e ora lui sta meditando le prossime mosse, perché non è finita qui.
Poco distante da lui vive Mariella, una signora che trent’anni fa ha preso casa in questa che è una delle zone più belle di Ferrara, via della Resistenza, abbracciata dalle storiche via Mortara e via Montebello. Un quartiere tranquillo di gente rispettosa e perbene. Di fianco a casa sua c’è sempre stato un centro anziani, di cui si percepiva la presenza solo quando qualcuno esultava per una tombola.

Poi tre anni fa la musica è cambiata. “Da quando al centro sono arrivati quei ragazzi che fanno i concerti, d’estate i miei amici non mi vengono più a trovare perché tanto in casa non si riesce a parlare per il rumore. E poi finito quello, quando vorremmo dormire, non possiamo perché la gente rimane sotto le nostre finestre a parlare. Non ne faccio un discorso politico, ma di regole civili”.
E mentre Mariella è sul pianerottolo che parla, esce anche Roberta. L’ha sentita e vuole dire la sua. “Io sono giovane come quei ragazzi, e capisco le loro necessità, sono contenta che facciano dei concerti, anche io suono, e non ho mai chiamato la polizia, né sono mai scesa a litigare, ma certe volte esagerano con il rumore, e poi una volta ero in salotto con le coinquiline e ci hanno lanciato un uovo, proprio a noi che li avevamo sempre difesi! Un episodio isolato, però ci siamo rimaste male”. Intanto dal portone entra Sandra, che sorride sconsolata perché ha già capito di cosa si sta parlando. “Si può essere d’accordo con le iniziative – dice – ma non con il rumore, d’inverno con le finestre chiuse non ci sono problemi, ma d’estate vien voglia di andare via. Io non voglio che questo diventi un quartiere morto, ma ormai l’unica che resiste è mia madre che è sorda!”.
L’argomento nel condominio è molto sentito e Stefania interviene dal citofono. “A noi non danno fastidio – afferma cercando di quietare gli animi – hanno abbassato la musica e i concerti finiscono prima, non ho lamentele da fare!”. Ma poco dopo un signore apre la finestra. “Non se ne può più di quelli là! Se sono mai andato a parlare con loro? Non ci penso neanche! Gli mando i carabinieri e basta”. E richiude la finestra.
C’è questo signore esasperato, c’è l’altro molto arrabbiato, ci sono Mariella, Roberta, Sandra, Stefania, e probabilmente ci sono altri vicini che avrebbero da dire la loro.

E poi c’è il centro sociale la Resistenza, al numero 34 dell’omonima via.
E’ ormai sera e sul viale d’ingresso gli anziani che hanno trascorso lì il pomeriggio se ne vanno incerti sulle loro biciclette mentre un gruppo di ragazzi arriva per l’aperitivo.
Lo stesso ricambio generazionale è avvenuto anche nel centro sociale tre anni fa, quando un gruppo di giovani volontari è subentrato nella gestione del posto, che rischiava di rimanere deserto.
Pur mantenendo l’affiliazione Ancescao e garantendo le aperture mattutine e pomeridiane del bar e delle sale ricreative per gli storici frequentatori, i nuovi arrivati hanno affiancato alle partite a trionfo e biliardo, anche altre attività.

Al piano di sotto si stanno radunando i primi arrivati per l’assemblea pubblica sulla gestione del centro che si tiene ogni mercoledì alle 20. Intanto al piano di sopra è in corso una diretta radiofonica nella sede di Radio Strike, emittente indipendente on line nata proprio nel centro. I conduttori, due insegnanti, stanno parlando dei problemi della scuola in un programma settimanale che si chiama Conflitti di Classe. Nella stanza accanto un gruppo di ambientalisti sta discutendo di come contrastare la realizzazione della Orte-Mestre. Attorno ci sono ancora i giochi utilizzati nel laboratorio teatrale per bambini che l’associazione Camaleonte ha tenuto nel pomeriggio.
In ogni angolo accade qualcosa.

“Sono ancora tante le attività che vorremmo avviare – dice Maria Lodi, presidentessa del centro – per esempio un corso per dj che si terrà il lunedì pomeriggio, o la biblioteca di quartiere intitolata a Stefano Tassinari, che inaugurerà sabato 15 febbraio dopo la manifestazione Via la Divisa, con la presentazione dell’Associazione contro gli abusi in divisa. Chiunque voglia venire per partecipare e darci una mano è bene accetto”.

Nessuno percepisce una ricompensa per il lavoro, ma tutto viene reinvestito nel centro.
“La gestione della Resistenza è un modello che viene studiato da diverse città italiane, perché non esiste una cosa del genere da altre parti” afferma Federico, una delle anime del posto.
“E poi – prosegue Maria – ci sono la ciclofficina dove si può imparare a riparare la bicicletta, il mercato contadino che si tiene due sabati al mese, le riunioni dell’Unione degli studenti, quelle dei migranti, i corsi di giocoleria e hip-hop. Questo posto è diventato un punto di riferimento per centinaia di persone, come ha dimostrato la partecipazione all’assemblea convocata d’urgenza dopo le minacce del nostro vicino”.

E poi ci sono anche i concerti del lunedì e del giovedì, che tanto fanno arrabbiare gli abitanti del quartiere.
Gli stessi organizzatori riconoscono che ci sono momenti, soprattutto d’estate, in cui la musica è alta, e diverse decine di persone si raccolgono all’esterno del locale.
“Siamo consapevoli di stare in mezzo alle case – dice Maria – quindi abbiamo abbassato i volumi e anticipato gli orari di chiusura a mezzanotte, abbiamo chiuso uno degli ingressi per non far sostare le persone sotto le case, ci stiamo dotando di materiali insonorizzanti per l’interno.
Ci hanno mandato un controllo dell’Asl e abbiamo chiuso la cucina perché non era conforme e per noi è stato grave perché era un’attività a cui tenevamo molto. Però ci stiamo adeguando a tutto quel che ci chiedono”.

Allora probabilmente la sfida più grande della Resistenza, accanto ai tanti temi di cui si occupa, è risolvere la questione più prossima a sé, ovvero quella della convivenza col vicinato, dell’integrazione col quartiere. Il rischio è la chiusura, e l’obiettivo di un centro che si definisca sociale diventa allora mediare tra le proprie necessità e il luogo in cui si trova ad operare.
La mediazione però, è un punto di incontro, al quale non si arriva né con le minacce né arroccandosi in difesa, ma con un’unica strategia: il dialogo.
Forse varrebbe la pena immaginare una riunione di quartiere con i ragazzi del centro e i vicini, o meglio ancora un pranzo, dove iniziare a condividere altro che non sia la tensione. I ragazzi ci avevano già provato, ma la riunione era andata deserta. E’ probabile che prossimamente sarà la stessa circoscrizione a proporre un’assemblea per cercare di far incontrare le due parti, in modo da garantire la tranquillità dei residenti, ma anche l’apertura del centro.

(La foto che correda l’articolo è di Luca D’Andria)

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L’idrovia, un’autostrada d’acqua per il territorio ferrarese

di Stefano Capatti

2.CONTINUA – A livello provinciale, si ha un crescita della rete infrastrutturale tra metà degli anni ’50 e i primi anni ’60: tra il ’55 e il 1960 le strade provinciali avevano quasi raddoppiato i chilometri, mentre quelle comunali sono aumentate di 200 chilometri. Le statali cominceranno ad aumentare a partire dal 1960 mentre; dal 1966 al 1970 verrà realizzato un tratto autostradale di 31 Km. Dal 1971 al 1977, anche in corrispondenza della crisi petrolifera ed economica (1973), gli investimenti di Provincia e Comuni sembrano congelarsi, mentre aumenta, di poco, il chilometraggio delle statali. Dal 1982 al 1987, invece, tornano ad aumentare le strade provinciali. Tuttavia la Provincia di Ferrara sconta una deficit infrastrutturale che la isola dal contesto regionale e delle province limitrofe (si pensi alla dismissione dell’idrovia ferrarese che dal 1955 al 1967 si avvicinerà ai valori di Mantova e ai suoi scali che detengono il primato del tonnellaggio a livello padano).

Un piano di sviluppo e di rilancio economico provinciale non può non integrare collegamenti veloci e multimodali (treno, idrovia, nave, aeroporto) ai principali assi viari europei e in stretta connessione ad azioni di insediamento di medio periodo (un programma chiaro per la prossima legislatura con verifiche, monitoraggi e correzioni per la Cispadana e l’Idrovia).

Per quanto riguarda l’Idrovia vi sono due aspetti che, a mio avviso vanno in particolare sottolineati. Trattandosi di un grosso progetto di valenza nazionale, deve poter dare due tipologie risposte: di facile accesso e immediata utilità alle imprese, con attracchi per i trasporti pensati sui fabbisogni delle aree produttive; l’altra risposta riguarda la gestione complessiva dell’infrastruttura (la gestione delle interconnessioni tra strade, ferrovie, idrovia e la gestione economica). In merito al primo aspetto, essendo noto cosa producono (e quanto) le imprese ferraresi (indicatori della Camera di Commercio), si tratterebbe di conoscere e ricostruire:
le materie prime utilizzate (da dove arrivano? Come sono trasportate?);
il processo di lavoro (c’è esternalizzazione? Se si, a chi e dove?);
come esce il prodotto o il manufatto (Container? Quale tipologia trasporto? Dove deve essere consegnato?)
i tempi (quali sono i tempi di approvvigionamento delle materie prime? E i tempi di consegna dei prodotti? Quali sono le vie ed i sistemi più usati?);
quali sono i principali fabbisogni logistici?
Quali sono i fattori infrastrutturali e logistici che renderebbero maggiormente competitiva l’azienda?
Solamente dopo aver ricostruito questo quadro qualitativo complessivo sarà possibile implementare gli attracchi (di arrivo e partenza) lungo l’asta navigabile.

Il seconda aspetto riguarda invece la gestione economica dell’Idrovia e, soprattutto, la continua manutenzione per mantenerla efficiente. La sostenibilità di un’opera così imponente richiede una gestione efficiente ed efficace nel connettere l’asta navigabile a porti, ferrovie, strade. I criteri di scelta del porto da scalare per una nave sono molti e, a loro volta, i soggetti che a diverso titolo ne determinano le priorità, sono una moltitudine, non solo armatori o personale di bordo. Nell’ottica auspicata dall’Unione europea (partecipazione dei privati) si può ipotizzare il coinvolgimento anche finanziario di una società logistica (o di un gruppo di privati) che offra un Global Service, compresa la gestione dell’idrovia per quanto concernono i trasporti interni (e i rapporti con le altre idrovie) e la localizzazione e gestione dei nodi integrati (fiume-ferrovia-aereo-mare), per rilanciare il trasporto via mare locale. Si tratterebbe del primo e più moderno servizio presente in Italia, dove semplificazione e fluidità garantirebbero alle nostre imprese un servizio innovativo. Nei paesi dell’Europa del Nord esistono grandi imprese che hanno intrapreso la gestione del trasporto global service merci secondo l’approccio “web-oriented”: il percorso della merce dal punto di origine a quello di destinazione si smaterializza e scompare non solo dalla vista, ma anche dalla percezione del cliente, il quale può seguire tramite sistemi georeferenziati sul proprio computer l’avanzamento della spedizione fino al destino finale della sua merce. Tutto sarà controllato da chi riceve l’ordine via internet prendendo in consegna il container. L’obiettivo principale di queste imprese è quello di controllare l’efficienza (costi) e l’efficacia (qualità) del complesso del percorso logistico integrato per assicurare ai propri clienti un servizio affidabile (performance migliori), a costi competitivi (tariffe più economiche) rispetto a quello offerto dai competitors nelle singole componenti del percorso (intermediari, spedizionieri, compagnie di navigazione e terminalisti portuali). A tale scopo si può pensare ad una concessione ad una di queste aziende per 10-15 anni, vincolandola anche alla manutenzione ordinaria dell’opera…

2. FINE

Stefano Capatti è ricercatore del Centro documentazione e studi di Ferrara

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L’ossimoro Ferrara: una provincia piena di vuoto

di Stefano Capatti

La nostra provincia sconta un ritardo infrastrutturale che ha inciso sul suo isolamento e sullo scarso appeal nell’insediamento di imprese esterne.
La dotazione infrastrutturale di una provincia, come è noto, rappresenta un determinante “fattore dello sviluppo economico”. Fatta 100 la media nazionale, la provincia di Ferrara ha l’indice più basso nella rete stradale (78,4) a livello regionale, così per quanto concerne le ferrovie (65,2) e per quanto riguarda le strutture per le imprese. Valori bassi anche nelle reti energetico-ambientali e nella banda larga.

In questo vuoto sospeso tra carenze infrastrutturali, crisi aziendali, scarsa competitività una recente ricerca del Censis ci ricorda che oltre ai collegamenti, l’altro aspetto strategico per l’insediamento o lo sviluppo delle aziende riguarda i costi energetici e del gas.

Lo sviluppo infrastrutturale in Emilia-Romagna, a partire dal dopoguerra, si andato consolidando principalmente lungo la Via Emilia. E’ in corrispondenza di questo asse centrale che attraversa l’intera regione, protagonista per lungo tempo di una effervescenza imprenditoriale, che si sono concentrati gli investimenti infrastrutturali (ferroviari e viari), generando una sorta di “Città diffusa“, efficacemente descritta da Paolo Nori nel romanzo Siamo gente delicata. Bologna Parma, novanta chilometri.

Ad est della “Città diffusa”, un altro asse scende da nord a sud, definibile come la “Via del Loisir” del turismo, dei parchi naturali, acquatici o tematici, delle discoteche, del divertimento; un territorio sempre “acceso” 24 ore su 24, dove gravita una massa eterogenea di traffico che pone grosse criticità.

Infine esiste un asse di confine della nostra regione con Veneto e Lombardia che si sposta da ovest ad est: il fiume Po e la provincia di Ferrara. Una opportunità tutta da ripensare e rivitalizzare in connessione all’intera realtà emiliano-romagnola o in chiave di “Area vasta” con le provincie limitrofe di altre regioni.

Sottoponiamo all’attenzione del lettore date di infrastrutture e nomi di imprese, molte di queste sparite; una lettura attenta farà percepire il livello di de-industrializzazione del nostro territorio e il deficit infrastrutturale.

Partendo dal Basso ferrarese, abbiamo la rinascita della Romea con i lavori che hanno inizio nel 1951 (iniziano a S. Giuseppe di Comacchio) e finiscono nel 1956. Il Ponte di Pomposa sarà realizzato nel 1958, quello di Porto Garibaldi nel 1960, il Ponte di Mesola nel 1970. Si tratta di un’area dove, oltre a servire la produzione agricola, può già contare su una interessante area industriale: insediamento dell’industria agroalimentare Colombani nel 1962; sempre nel 1962 nasce la Falco; nel 1961 la Cristalmeta di Codigoro ha 170 dipendenti; lo Zuccherificio di Codigoro (chiuderà nel 1975), la Cartiera Lambriana Codigoro (chiuderà nel 1972), nel 1960 nasce la Cartiera di Mesola, nel 1960 a S. Giovanni di Ostellato ha inizio costruzione dello zuccherificio CoProA; la manifattura Tabacchi di Mesola, l’Azienda Valli di Comacchio, lo zuccherificio di Comacchio. L’area è servita dalla linea ferroviaria Ferrara-Codigoro, mentre il collegamento con Ferrara avveniva mediante la Rossonia (costruita nel periodo fascista), passando per Tresigallo; la Superstrada Ferrara-Mare, che collega il casello autostradale di Ferrara Sud alla costa, sarà completata negli anni ’70.

Gli stessi comuni del Copparese, Medio ferrarese, nel loro sviluppo e nel passaggio alla società industriale, hanno scontato problemi di comunicazione e trasporti, in virtù della nascita e consolidamento di molte aziende. Berco nel 1956 conta 900 maestranze; l’azienda per macchine agricole Ferri di Tamara comincia ad ingrandirsi, come la Sandri di Ro ferrarese, mentre a Jolanda di Savoia funziona lo zuccherificio e a Tresigallo c’è un interessante polo produttivo dove spiccano la Lombardi (chiusa nel 1980 dopo essere stata acquisita dalla Colgate) e la Saipo. Fino a metà degli anni ’50 Copparo è servita da un tratto ferroviario che la collega a Ferrara, gestito dalla società Veneta che non predispone nessun rilancio dell’infrastruttura. In tale situazione si viene a creare il seguente paradosso: Berco bisognosa di un intenso traffico di merci ha costruito al proprio interno una linea ferrata per il congiungimento con la stazione locale, mentre la società concessionaria non ripristina mai i piani caricatori, le attrezzature necessarie ed i magazzini del deposito. Berco, quindi, l’impresa opta per il trasporto via camion, offrendo lavoro a società di trasporto copparesi. La stessa rete stradale, soprattutto la Copparo-Ferrara, pur con un aumento progressivo del traffico resta immutata; i collegamenti con il Basso ferrarese fino alla Romea avvengono mediante la Rossonia o mediante la Strada Reale di Jolanda di Savoia. Solo nei primi anni ’70 la costruzione della Gran Linea congiungerà in modo rapido ed efficace Copparo alla Romea.

Anche il Centese, nell’Alto ferrarese, nonostante mostrasse sin dagli anni ’50 le inequivocabili caratteristiche per diventare l’unico distretto industriale della provincia (Baltur, VM, Sim Bianca, Lamborghini, Ceramiche Sant’Agostino), condivise con il Copparese la soppressione della rete ferroviaria. A Cento fu costruito il tratto Ferrara-Cento per Km 31,589 nel 1909 dalla “Società Veneta per la Costruzione ed esercizio di Ferrovie Secondarie Italiane”. Successivamente, nel 1911 si costruì il tratto Cento-Decima di Km 5,325, con diramazione fino a S. Giovanni in Persiceto di Km 8,175. Nel 1916 con la costruzione del tratto Decima-Crevalcore-Modena di Km 27,947 si rendeva operativo una tratto di trasporto di km 83,846 che, partendo da Copparo, toccava Ferrara, Cento e arrivava a Modena. A metà degli anni ’50 fu dismesso il servizio ferroviario nel territorio centese, isolato dalla linea ferroviaria principale Bologna-Ferrara-Padova. La stessa rete stradale, in relazione al volume del traffico e dei trasporti, è apparsa da subito insufficiente e deficitaria, soprattutto nel tratto Ferrara-Cento. Lo stesso quadro strategico per la progettazione della Cispadana, evidenzia come vi sia stato un deficit politico-progettuale nell’assegnare una maggiore attenzione al polo industriale centese. Del tutto diversa invece la sorte del territorio Bondenese (zuccherificio, Maref) che ha beneficiato fino ad oggi della linea ferroviaria Ferrara-Suzzara, anche se, parimenti, le difficoltà sono state riscontrate sulla strada Virgiliana fino a Mantova.

La stessa città di Ferrara, da centro prevalentemente agricolo, cambia volto con l’industrializzazione del dopoguerra: nel 1954 la Montecatini acquisisce il Petrolchimico di Ferrara; l’andamento degli addetti dal 1950 al 1970 è il seguente: 1950, 3000 addetti; anno 1960, 5100 addetti; anno 1970, 3940 addetti. Nel 1964 la Zenith di Ferrara ha 530 dipendenti. Nel 1962 la IMI di Ferrara ha oltre 400 dipendenti, senza dimenticare altre importanti aziende come la Toselli, la Felisatti o la Zabov.

1. CONTINUA

Stefano Capatti è ricercatore del Centro documentazione e studi di Ferrara

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Zeno De Rossi, suoni e palpiti ferraresi di un musicista jazz

Ci incontriamo in una sera di mezzo autunno, all’ombra del castello estense di Ferrara, dove ormai vive da anni. Intorno allegri ragazzotti che cinquant’anni fa sarebbero stati uomini, vagano mascherati per le vie del centro, conciati male e ciucchi, costretti ad esaudire le richieste degli amici come tradizionale festeggiamento per l’agognata laurea. In bocca al lupo.

Seduti al bar, lo saluto e per una sorta di riflesso la prima cosa che osservo in Zeno De Rossi sono proprio le mani, le riconduco allo strumento che suona: la batteria. So bene che in quell’arte ciò che conta più delle mani è la testa, la capacità di governare ogni singolo arto simultaneamente e autonomamente l’uno dall’altro. Più delle mani quindi, è una questione di testa, la sezione ritmica è il pane della musica, in qualche misura il tempo è ferro e cemento in attesa delle vibrazioni.
Guardo Zeno De Rossi e cerco di comprendere i fattori che hanno trasformato quel ragazzino che tifava per Bordon, il suo calciatore preferito, in uno dei più interessanti musicisti della scena jazz europea.
Ad abbandonare il calcio lo convinse la batosta rimediata quando con gli allievi del Lloyd Sanson affrontò i ben più blasonati avversari del Genoa Calcio: dieci a zero e i piedi ben piantati per terra. L’acre sapore della realtà e l’odore umido dell’erba, nonostante il sudore, la sconfitta.

“Con la musica non so quando sia cominciata di preciso, mio padre suonava il contrabbasso, mio fratello maggiore le percussioni, e in salotto avevamo un sacco di dischi jazz da ascoltare”. Forse lì ha stretto tra le mani Complete Communion di Don Cherry. Senza trascurare Dylan, i Doors, Neil Young, Hank Williams, Ray Charles, Luigi Tenco.
Comunque sia l’istinto a percuotere gli oggetti si manifesta subito per gioco, continua a scherzare col tempo, sezionare le parti, continua a scoprire qualcosa che non ha una forma definita. E magari la mamma a rimproverarlo, a chiedergli di smetterla di far rumore con le posate a tavola…che non sta bene.

A tredici anni, con gli amici, allestì la prima sala prove ignaro di ciò che avrebbe acceso nel suo futuro: “Una sera d’estate, complice il buio pesto, in un cantiere rubammo dei pannelli isolanti per poter insonorizzare la nostra nuova sala prove, assemblarli fu un lavoro duro, alla fine del quale scoprimmo che quei pannelli erano termici e non acustici. Il rumore si diffondeva in tutto l’isolato, in compenso all’interno la temperatura stazionava sui sessanta gradi centigradi tutto l’anno”.

La prima vera batteria a diciassette anni, la comprò da sé con le serate a fare il cameriere nei bar del centro, un po’ per necessità e un po’ perché a casa sua era così… occorreva guadagnarsela la fortuna.
Il resto è studio fatto principalmente di osservazione e ascolto, un autodidatta che bazzica nei clubs di Verona come “Il posto” per carpire le tecniche, col coraggio di seguire l’istinto: quella parte di te che indica la strada senza che tu realmente sappia se sia giusta o meno. Lo fai perché ti fa stare bene.
Insomma la Musica. Quella fatta di dialogo fittissimo, intessuta di emozioni, incroci. Una ricerca che a un certo punto diventa personale, fusione di elementi e scambio reciproco. In testa sempre Bill Frisell.

Ha la barba incolta e il tabacco sempre tra le dita Zeno, stasera indossa le scarpe da tennis rosse con su impresso il gallo rosso che ricorda la sua etichetta indipendente: “El Gallo Rojo”. Poi una moglie sannita studiosa di linguistica italiana conosciuta ormai dieci anni or sono nel backstage di uno dei tanti concerti con Vinicio Capossela.
Un ambulante si ferma al nostro tavolo, si conoscono e Zeno lo invita a bere un caffè, il venditore sorride, tuttavia preferisce continuare il suo giro, non è un buon periodo per sopravvivere. I minuti sono preziosi.

Oggi pomeriggio il volto di De Rossi e la sua musica sono in tutte le edicole d’Italia su una nota rivista jazz, nel tempo questo e i suoi numerosi progetti musicali con i Guano Padano, The Leaping Fish Trio, Midnight Lilacs, Shtik, Zeno De Rossi trio, il sodalizio decennale con Capossela, le soddisfazione de “El Gallo Rojo”, le tournée in tutto il mondo non hanno allontanato i suoi piedi dalla terra comune. Ho la sensazione che la terra per lui sia la stessa di quando era un ragazzino dell’Edera Veronetta. Forse ne sente ancora il sapore.
Chissà cosa ha in serbo il futuro, fino ad ora le indiscusse qualità lo hanno portato a un moto perpetuo, in continuo movimento. Un’esistenza di valigie pronte, coincidenze, treni, alberghi e aeroporti, dunque cieli solcati spesso con le borse sotto gli occhi e tante soddisfazioni. Quello che è certo è che si ritiene un viandante precario, costretto a non sostare mai troppo a lungo nello stesso posto.

In questo imbrunire ho davanti a me quel ragazzino che tifava Bordon insieme al liceale curioso che sognava la carriera musicale. Poi l’uomo che ha creduto all’istinto, perseguito i propri fini, e che ai miei occhi ha l’enorme merito di non sentirsi arrivato, di sporgersi ancora verso gli altri. E bisogna stare attenti, perché così a volte i sogni si conquistano per davvero, e qualcuno potrebbe finalmente imparare a scuotersi dallo strisciante torpore collettivo di una nazione in cui la principale arte tramandata sembra essere la rinuncia programmatica.

Continuo a cercare persone per cui il tempo sia qualcosa di più che una sommatoria di minuti scaduti nei centri commerciali o al cospetto di una infallibile tv satellitare. Oggi è andata bene di nuovo.
Ho incontrato un uomo per cui il sangue affluisce nelle vene al ritmo dettato dalla sua percussione. Tocca agli altri stargli dietro e una delle prime regole della musica dice che quando suoni, chiunque tu sia, il tempo lo devi rispettare. In mezzo il suo tocco, il suono che continua a sperimentare e fondere.

La musica inganna qualsiasi tipo di attesa, serve a sfidarsi senza per questo ogni volta vendere l’anima al diavolo. La pianura padana e il Po non sono il Mississippi di Crossroads. Stasera Zeno De Rossi non è nemmeno il Faust, benché mostri un vantaggio non da poco al cospetto di giorni arresi: finché sarà tutt’uno col proprio corpo, alla vita il ritmo lo imprimerà lui.

Metto su “Kepos”, l’ultimo album, mi fermo su “Pitula”, dedicata alla sua Nicoletta, qualcosa su cui gli uomini riflettono da sempre decide che venga giù la sera e domani poi di nuovo il giorno, al resto pensano il piano di Giorgio Pacorig e il sax di Francesco Bigoni. Stasera nient’altro.

Non fermarti Zeno…continua a correre!

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A Bologna l’enigma della ragazza con l’orecchino di perla

di Silvia De Santis

«Spogliamoci dell’aneddotica, del racconto, del film. “La ragazza con l’orecchino di perla” non ha una storia: è solo un volto che Johannes Vermeer ha consegnato all’assoluto del tempo». Il monito di Marco Goldin – curatore della mostra “Da Vermeer a Rembrandt” – è un farmaco contro il “feticismo” dell’opera d’arte. La ragazza con il turbante color cielo «non va guardata come un’icona pop. In questo quadro tutto vive dentro una sorta di silenzio crepitante, che chiama ognuno di noi verso il luogo dell’assoluto», continua l’organizzatore di mostre, che ha intercesso per la città affinché la Ragazza concludesse il suo tour a Bologna. La mitizzazione è il rischio che corre una delle tele più amate al mondo: a farle concorrenza solo la Gioconda di Leonardo Da Vinci e l’Urlo di Munch. Che per ora sono avversari lontani. I 100mila visitatori che attendono di vederla saranno a Bologna (dall’8 febbraio al 25 maggio) per lei, che ha viaggiato solo due volte nella sua vita: per andare in Giappone, a Tokio e Kobe, e negli Stati Uniti. Dell’Europa conosce solo l’Olanda e, da qualche giorno, palazzo Fava, «che ha ricevuto i complimenti perfino dai due conservatori del Museo Mauritshius, fissa dimora del quadro: le luci che illuminano l’opera – hanno detto – sono in assoluto le più belle al mondo», rivela orgoglioso Goldin.

E ora è lì, la Ragazza, imperatrice di una sala che abita da sola. È del 1665, ma il tempo non lavora sul suo orecchino e sul turbante. La lascia illibata: lo sguardo e la bocca dischiusa si chiamano fuori dalla storia. Neppure l’invadenza di telecamere e flash, che in occasione del vernissage affollano il suo regno per carpirne i segreti, riescono a turbarla.

Protagonista della scena, l’avvenente fanciulla è un enigma che resta sospeso nell’aria. Non è un classico ritratto dell’epoca: la Ragazza sfugge alla pittura canonica della Golden Age che affolla le altre sale del palazzo. Se la ritrattistica, segno del fiorente commercio nella Repubblica olandese del Settecento, traccia un affresco di “classe” che si espande in altre cinque sale di Palazzo Fava – dalla “Suonatrice di violino” di Gerrit van Honthorst al “Ritratto di Aletta Hanemans” di Frans Hals -, la giovane con l’orecchino e il turbante ottomano si stacca parzialmente dall’hic et nunc, trascendendo la storia. Pur trattandosi di un “tronie”- genere seicentesco che tipizzava i volti assecondando le ambizioni del libero mercato borghese – «Vermeer rifugge la contingenza e ci consegna un elemento reale sublimandolo nell’assoluto della bellezza», precisa Goldin. Un atto di virtuosismo pittorico, insomma, che ha in sé il seme di quel principio dell’“arte per l’arte” che animerà l’estetismo nella seconda metà dell’Ottocento.

Accanto al capolavoro di Vermeer, per ben due anni corteggiato dalla città, trovano posto anche Rembrandt, con opere quali “Ritratto di uomo anziano” e “Canto di lode di Simeone”, Ter Borch, Van Goyen e altri maestri del realismo della Golden Age olandese. Un parterre che fa da anticamera al secondo piano di Palazzo Fava, dove l’occhio del curatore Goldin miscela il Seicento con il contemporaneo: “Attorno a Vermeer: I volti, le luci, le cose” raccoglie i tributi odierni di Enrico Lombardi, Piero Zuccaro, Cetty Previtera e di altri artisti stregati dal maestro olandese. «Perché questa esposizione è differente da tutte le altre, non teme commistioni. Ho sempre rifiutato la logica della mostra itinerante e anche questa volta ho cercato di distinguere il Vermeer di Bologna da quello di Tokio o San Francisco. Scompongo e ricompongo per realizzare combinazioni sempre diverse. Il che, onestamente, da venticinque anni a questa parte, mi ha sempre premiato», conclude il piazzatore di mostre.

Rompere la criminale inerzia: i soldi per il risanamento ambientale si devono trovare

Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha invocato un “Piano Marshall” per intervenire contro le calamità naturali in tutte le regioni. Il deputato Ermete Realacci (Pd) presidente della Commissione Ambiente della Camera, ha chiesto “un’inversione di rotta nelle politiche del governo e delle istituzioni” rispetto alla “manutenzione del territorio, alla messa in sicurezza ed alla qualificazione del patrimonio edilizio esistente”, ricordando che la Commissione da lui presieduta ha chiesto all’unanimità di “stanziare almeno 500 milioni annui per la difesa del suolo, ben più dei soli 30 milioni previsti allo scopo nella legge di stabilità per il 2014”. L’Anbi, l’associazione nazionale delle bonifiche, ha presentato da tempo al governo un piano di salvaguardia dell’assetto idraulico italiano, senza aver avuto alcuna risposta.
Secondo Giampiero Maracchi, ordinario di climatologia all’Università di Firenze, negli ultimi 15 anni l’intensità delle piogge è aumentata fino a 9 volte rispetto al trentennio precedente, a causa del cambiamento climatico dovuto al riscaldamento del pianeta. Gli allagamenti le frane e le inondazioni in ogni parte del Paese, dal Piemonte alla Sicilia passando per Roma sono sotto gli occhi di tutti. Fanno paura i fiumi, i torrenti, persino fossati che d’estate sono secchi. Le nevicate nelle zone alpine non sono mai state così copiose come quest’anno. I danni sono ingenti, i disagi per migliaia di persone sono enormi.
L’Italia frana. Il nostro Paese è uno “sfasciume pendulo sul mare”, per ripetere ancora una volta la definizione dell’illustre meridionalista Giustino Fortunato (1848 – 1932). Ma ad ogni evento calamitoso, dopo gli interventi di primo soccorso, segue una spaventosa lentezza nelle opere di prevenzione, nel risanamento delle ferite del territorio, nel cambiamento delle norme edilizie, nel risarcimento dei danni. Ai drammi seguono il silenzio e l’inerzia.
Siamo di fronte ad un conclamato allarme ambientale ed a fenomeni estremi che ogni volta che accadono costano vite umane, distruzioni ambientali e miliardi di euro. Allora si smetta di dire che lo Stato non ha soldi per intervenire. I soldi si devono trovare. Per tener puliti gli alvei dei fiumi e controllarne le arginature. Per assicurare difese idrauliche stabili dove sono necessarie. Vietando e perseguendo con estrema severità gli interventi e gli insediamenti edilizi nelle zone di rispetto. Costruendo le opere infrastrutturali che decine di piani, documenti, progetti hanno già previsto, calcolato, misurato e quantificato economicamente. Imponendo, con una legislazione d’urgenza, che i lavori e le opere di tutela territoriale siano considerati socialmente utili, utilizzando anche in maniera straordinaria, che so, i cassintegrati, le persone in mobilità, persino i detenuti, con gli opportuni controlli. E così via, creando tra l’altro lavoro per decine di imprese.
Si può fare? No: si deve fare. Attendere ancora sarebbe criminale.

La buona comunicazione ambientale, passaporto per la trasparenza e la partecipazione

Quando si affronta il tema della comunicazione ambientale si deve partire dal principio di dover soddisfare il bisogno di informazione, di assicurare trasparenza, di offrire uno strumento sociale di partecipazione attiva ambientale. Bisogna mantenere alta la sensibilità e la domanda di sostenibilità e qualità sui servizi pubblici ambientali e più in generale di ambiente; è allora importante poter dialogare informando, facendo conoscere i pro e i contro di ogni soluzione tecnica e gestionale, coinvolgendo sugli obiettivi e sui principi, ricercando la collaborazione dei cittadini affinché gli impianti possano trovare collocazione, i servizi possano essere utilizzati nel modo migliore e le modalità di informazione siano percepite, diffuse e corrette. Invece crescono i conflitti ambientali ed il problema ha assunto un notevole peso economico, sociale, ambientale e tecnico: opposizioni, scontri politici, nascita di comitati di difesa, azioni spontanee di cittadini che bloccano, ritardano e talvolta modificano i progetti.

Spesso si avverte una pregiudiziale diffidenza.
Tra le cause vi è la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze, ma anche gli interessi economici, l’iniqua distribuzione di svantaggi per pochi che sono costretti a subire; il bisogno di qualità, di sicurezza, di rispetto ambientale, la coscienza civica come valore fondamentale, la richiesta crescente di certificazione.
Bisogna insistere nell’attivare una partecipazione reale alle iniziative di raccolta differenziata, di risparmio energetico, di uso razionale delle risorse; bisogna abituare i cittadini ad interloquire con le strutture e con gli operatori che erogano servizi; bisogna educare i più giovani al rispetto per l’ambiente, alla conoscenza delle diverse problematiche, ad un uso corretto delle risorse ambientali; bisogna favorire una conoscenza delle tecnologie e degli impianti al fine di cancellare immotivate paure o comunque di poterne valutare i rischi con cognizione dei diversi processi; passare dal concetto, il più delle volte liturgico, di educazione ambientale alla cultura del benessere, della qualità della vita, della città accogliente, dei servizi efficienti e trasparenti.

Il cittadino-cliente si aspetta di essere informato (ed è intelligente); solo attraverso il consenso e la legittimazione può aumentare il coinvolgimento
Spesso comunichiamo troppe cose (talvolta anche problemi, paure, ansie…). Spesso poi comunichiamo i nostri bisogni, non la realtà (l’informazione).
In questa logica cambia il percorso della comunicazione che semplificando in uno slogan passa dal comunicare a qualcuno al comunicare con qualcuno. La comunicazione indifferenziata, di massa perde progressivamente valore. Occorre un modo nuovo di impostare i rapporti e di comunicare: più attento, più indirizzato e personalizzato, più responsabile e coinvolgente, più finalizzato verso la società dei portatori d’interessi.

Conoscere come la gente pensa, desidera, spera, apre scenari strategici fondamentali per la comunicazione nei servizi pubblici locali. Allo stesso modo la capacità di comunicazione, intesa come abilità, deve divenire patrimonio di tutti coloro che operano nel settore; comunicare, anche nei servizi pubblici, diventa una professione strategica e richiede sempre maggiori professionalità.
Nella società contemporanea e nel futuro prossimo acquisteranno crescente valore la trasparenza e dunque il diritto del cittadino di “capire” le logiche usate per amministrare le risorse pubbliche, di poter essere appoggiato, protetto, considerato e di avere qualità. È’ dunque richiesto ai gestori una crescente attenzione ai temi dell’organizzazione dell’informazione. Le imprese di servizi pubblici, devono essere uno strumento concreto a disposizione della città e dei suoi amministratori per l’elaborazione di indirizzi di politica economica, energetica ed ambientale, in cui competenze tecniche e gestionali multisettoriali, struttura industriale, conoscenza del territorio e vocazione al benessere pubblico, costituiscono i cardini della qualità urbana.
In fondo la comunicazione ambientale sta diventando un tema su cui fortunatamente sempre più tutti vogliono capire e partecipare.
E questo è un bene.

democrazia

Proteggere le radici della Costituzione per far crescere l’albero della democrazia

I sette nani e l’angelo della morte

Sono molte le atrocità nel mondo
e moltissimi i pericoli:
Ma di una cosa sono certo:
il male peggiore è l’indifferenza.
Il contrario dell’amore
non è l’odio, ma l’indifferenza;
il contrario della vita
non è la morte, ma l’indifferenza;
il contrario dell’intelligenza
non è la stupidità, ma l’indifferenza.
È contro di essa che bisogna
combattere con tutte le proprie forze.
E per farlo un’arma esiste:
l’educazione.
Bisogna praticarla, diffonderla,
condividerla, esercitarla sempre e dovunque.
Non arrendersi mai.
(Elie Wiesel, scrittore di origine ebraica sopravvissuto all’Olocausto, premio Nobel per la pace nel 1986)

PREMESSA
A volte, pronunciando certe parole o certe frasi ci si immagina che il loro significato sia chiaro per tutti, che non ne derivino fraintendimenti, che siano talmente riconoscibili da non temere il rischio dell’ambiguità.
Credo invece che quanto più diamo per scontato il significato, tanto più siamo superficiali nel considerare il contesto culturale altrui simile al nostro.
Ad esempio, quando io uso l’espressione: “bene comune” penso che sia chiara, che chi legge capisca a cosa mi riferisco, che cosa intendo con questa espressione (potrei riferirmi all’acqua, alle risorse naturali, all’istruzione pubblica o comunque a qualcosa che realizzi il bene di una comunità).
Lo do per scontato perché penso che certe persone possano farmi credito di fiducia riconoscendosi nel mio stesso contesto culturale, nei miei riferimenti etici e politici.
Ma questa mia operazione mentale non può essere seria perché le ambiguità si possono evitare solo dopo aver esplicitato quel contesto e dimostrato di muoversi verso quell’orizzonte.
Per spiegarmi meglio userò alcune frasi di Heinrich Himmler, Ministro dell’Interno della Germania nazista, proprio sul “bene comune“.
“Gli oppositori del nazismo sono scarafaggi, esseri nocivi e abietti. Distruggerli, non solo non è peccato, ma significa operare per il bene comune, agire a favore della razza e della nazione tedesche.
Zingari, ebrei, pazzi ed emarginati, la lista di coloro che si dovrà imparare a maltrattare senza battere ciglio, a umiliare, a torturare e, per finire, ad asfissiare nella totale impunità e senza l’ombra del minimo rimorso, è lunga”.
Ne deduco che l’espressione “bene comune” non sia la stessa per noi e per Himmler: noi usiamo sullo sfondo il verbo “rispettare“, il ministro nazista usa invece il verbo “distruggere“.
Pertanto mi verrebbe da sintetizzare che il concetto di “bene comune” non sia di per sé bello, positivo, progressista ma che esso sia relativo al contesto socioculturale e politico di riferimento. Sarà solo quest’ultimo a creare il vero significato della parola e a dare senso alle azioni conseguenti.
Lo stesso principio vale naturalmente quando usiamo il sostantivo “cittadini” (quali destinatari di quel bene comune) e qualunque altro termine che riguardi soprattutto gli altri, in un modo più o meno diretto.

PROLOGO
Aktion T4 era il programma pensato dai nazisti per sopprimere le persone con disabilità.
I seguaci del Terzo Reich, dopo la campagna di sterilizzazione, decisero di passare infatti all’eliminazione fisica di bambini ed adulti.
Alcune stime parlano di oltre ottantamila persone uccise dal Terzo Reich, altre invece di quasi duecentomila esseri umani.
Un numero enorme ma sempre una piccola parte rispetto ai 15 milioni circa di esseri umani, vittime dell’Olocausto: ebrei, omosessuali, zingari, dissidenti politici, slavi e testimoni di Geova che il ministro Himmler definiva: “sottoumanità da estirpare“.

PERSONAGGI ED INTERPRETI
Josef Mengele: un giovane tedesco di bella presenza, socievole, educato e ben istruito.
Laureato dapprima in antropologia all’Università  Ludwig Maximilian di Monaco e successivamente in medicina alla Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte.
Nel 1940 si arruolò come volontario nell’esercito tedesco.
Nel maggio del 1943, a 32 anni, entrò nel campo di concentramento di Auschwitz dove iniziò i suoi esperimenti di eugenetica usando le persone deportate come cavie umane.
È conosciuto anche come “L’Angelo della morte“.
Rozika, Franziska, Avram, Frieda, Micki, Erzsebet e Perla Ovitz: sette fratelli: cinque femmine e due maschi, rumeni di origine ebraica (nati in Transilvania come Elie Wiesel), affetti da pseudoacondroplasia, che è una delle forme più comuni di nanismo.
Insieme formavano la Compagnia Teatrale “I Lillipuziani” che girava l’Europa dell’Est proponendo uno spettacolo basato su canti, balli e sulla loro inesauribile ironia.
Furono catturati in Ungheria e deportati ad Auschwitz alla fine del mese di maggio 1944.

TRAMA
Al dottor Joseph Mengele brillarono gli occhi quando quelli che per lui erano “I sette nani” arrivarono ad Auschwitz.
Perla Ovitz, a cui si deve la maggior parte delle testimonianze, ricorda che il medico nazista esclamò: “Ho lavoro per i prossimi vent’anni”.
Fu lui che decise di non ucciderli subito; ma non per pietà.
Lui li voleva vivi per i suoi crudeli esperimenti.
Fu così che i sette fratelli diventarono i suoi “preferiti”.
Ottennero qualche privilegio: fu permesso loro di portare i propri vestiti, di tenere una ciotola per lavarsi e di avere dei vasini da notte, tolti ai bimbi uccisi, per i loro bisogni.
In cambio subirono esperimenti tremendi e torture insopportabili, gli prelevarono quantità infinite di sangue e midollo, li sottoposero a continui raggi X, gli versarono acqua bollente e poi gelata nelle orecchie, gli strapparono i denti sani e i capelli, iniettarono sostanze nell’utero delle donne e li costrinsero ad altre atroci malvagità.
Un giorno il dottor Mengele fece uccidere un papà e un figlio acondroplasici, arrivati al campo tre mesi dopo di loro. Voleva esporre le loro ossa in un museo di Berlino perciò ordinò di bollire i loro corpi finché carne e ossa non si fossero separate.
I sette fratelli pensarono fosse finita anche per loro invece il medico nazista li portò in un convegno di alti ufficiali nazisti: li umiliò esponendoli nudi per dimostrare chissà quale teoria.
Fra un esperimento ed una tortura, gli Ovitz furono costretti a cantare e a ballare per il dottor Mengele ed i suoi collaboratori.
In questa sorta di girone infernale i sette fratelli riuscirono, incredibilmente, a vivere sette lunghissimi mesi ad Auschwitz sopportando crudeltà di ogni genere.
Nel gennaio 1945, quando i russi li trovarono erano in condizioni disperate, fra la vita e la morte; ma sopravvissero.
Riuscirono a tornare a Rozalia, il loro villaggio in Transilvania, quindi emigrarono in Israele nel 1949, dove si spensero nel corso degli anni.
Il dottor Joseph Mengele invece, finita la guerra, scappò in Brasile dove visse indisturbato fino al 1979 quando, durante un bagno nell’oceano, fu colto da un attacco cardiaco.
Perla Ovitz visse fino al 2001; grazie a lei si può raccontare la tremenda storia dei “Sette nani di Auschwitz“.

CONCLUSIONI
In questa trama non ho usato aggettivi per descrivere in maniera negativa i criminali nazisti; ciò non perché io non li consideri tali ma per evidenziare quello che Hannah Arendt scrive ne “La banalità del male“: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso; non erano persone particolarmente malvagie o perverse, ma banali cittadini che obbedivano più o meno inconsapevolmente all’autorità costituita“.
Questa conclusione, se possibile, genera ancor più terrore perché spiazza e fa indignare.
“Banali cittadini che obbedivano” è quasi un ossimoro perché nessun cittadino dovrebbe essere banale ma consapevole e nessun cittadino dovrebbe obbedire quanto piuttosto rispettare coscientemente o contestare criticamente le leggi.
Mi viene da dedurre quindi che anche l’espressione “cittadini” abbia più contesti di riferimento pertanto non sia di per sé bella, positiva e progressista e che il concetto di “cittadino” sia relativo al contesto socioculturale e politico di riferimento.
Per quanto mi riguarda, onde evitare fraintendimenti derivanti da una mancata chiarezza rispetto allo sfondo culturale, mi affretto subito a dire che, quando uso il termine “cittadini“, per me l’orizzonte di riferimento rimane l’articolo 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale  e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.“
Se poi non fosse sufficientemente chiaro il significato che attribuisco alla parola cittadino, potrei farmi aiutare da un contrasto: quello fra partecipazione ed indifferenza.
Molto prima che in Tiergartenstrasse n°4, ad Auschwitz ed in altri luoghi spaventosi succedesse qualcosa di tragicamente inaudito per colpa dei militari nazisti e di “banali cittadini che obbedivano“, Antonio Gramsci, nel 1917, aveva immaginato una Città Futura ed in un capitolo intitolato “Indifferenti” aveva spiegato la sua idea di cittadini, scrivendo fra l’altro:
“Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. (…)
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. (…)
Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. (…)
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.“
Ricordo di aver avuto fra le mani, tempo fa, la copia di una preziosissima lettera che Giuseppe Mazzini aveva indirizzato a Carlo Mayr; la iniziava rivolgendosi a lui con il termine: “Cittadino“.
Forse oggi ci sembrerebbe spersonalizzante ricevere una lettera da qualcuno che ci chiama “cittadino” ma lì, in quel contesto, quell’espressione era talmente potente ed emozionante che riusciva a sottintendere tutta la forza ideale di cambiamento condivisa fra i due, tutta la sintonia di un senso di appartenenza che rappresentava il loro orizzonte di riferimento condiviso e ben definito.
C’è bisogno di lavorare ancora molto per costruire un vero orizzonte di cambiamento che riesca a formare cittadini attivi, critici, istruiti e consapevoli.
Io penso che occorrano impegno, tempo e pazienza ma che ci sia anche bisogno di proteggere le radici solide della nostra Costituzione, cresciute nel terreno della Resistenza, se vogliamo che l’albero della Democrazia cresca sano e robusto.
Infatti “i meccanismi della costituzione democratica sono costruiti per essere adoperati non dal gregge dei sudditi inerti, ma dal popolo dei cittadini responsabili e trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere.“ (Piero Calamandrei, 1946)

FONTI
– Yehuda Koren e Eliat Negev “In Out Hearts We Were Giants – the remarkable story of the Lilliput Troupe” Carroll & Graff, 2004 (Nei nostri cuori eravamo giganti – La storia eccezionale della Compagnia Teatrale Lilliput).
– Warwick Davis “The Seven Dwarfs of Auschwitz” (I sette nani di Auschwitz), ITV
– Claudio Arrigoni, “Come gli Ovitz sopravvissero al’Olocausto“, in Invisibili

rocco-casalino

Movimento 5 stelle, “una comunicazione di bassa lega”

Lettera aperta di un’addetta stampa a Rocco Casalino….

Gentile Rocco,
dovrei forse chiamarti collega, ma non ci riesco. E’ un sostantivo che implica identità di percorso, medesimo approccio alla professione, rispetto delle istituzioni. E quindi no, non ti reputo un collega, seppure sei un super stellato, in tutti i sensi, ufficio stampa.
Mi permetto di scriverti perché il tuo comportamento, la tua non-etica, danneggia chi come me lavora ogni giorno seriamente, in regia. Sai Rocco, chi fa il nostro mestiere deve sapere stare sempre due passi indietro, deve esserci senza farsi notare, deve essere informato su quel che succede nel mondo, non per suggerire, ma per consigliare. Possibilmente rimanendo nei termini della deontologia professionale. Deontologia che per me, come per altri, significa attenersi ai canoni di un concetto di comunicazione coincidente con quello di informazione. Te lo traduco? Significa che dobbiamo invitare i nostri committenti a fare dichiarazioni non ideologiche; a fare promesse realizzabili; a non cadere nella demagogia. So che per voi penta stellati che volete rifare il mondo – e avreste voluto rifarlo, come Dio, in pochi giorni – risulta difficile. E sai perché? Perché voi – non tutti voi, probabilmente, perché neppure io voglio generalizzare – non conoscete né la politica né la storia né il valore delle istituzioni. E se non conoscete, inevitabilmente, comunicate il falso. E ammesso che non sia per dolo è per superficialità.
Però ti voglio rasserenare. Essere corretti è possibile. Però bisogna studiare. Per fare l’ufficio stampa e il responsabile della comunicazione di un gruppo parlamentare, non è sufficiente indottrinare i deputati con slogan capaci di arrivare alla pancia della gente; non è sufficiente invitarli a cambiare abiti – Alessandro di Battista, oggi, sembra un perfetto borghese, uno di quelli che voi, a parole, disprezzate -; non è sufficiente fingere di non essere aggressivi e sorridere alle telecamere.

Anche nell’educazione c’è violenza. Nell’elargire imputazioni come ‘condannato’, ‘mafioso’ – Di Battista alle Invasioni Barbariche – o figlio e nipote di un ‘assassino’ – tu alla Bignardi – , c’è violenza. Ho letto l’intervista che hai rilasciato a Repubblica, in cui hai spiegato cosa vi ha fatto tanto inorridire dell’intervista fatta venerdì sera dalla Bignardi a Di Battista. Ho colto svariati ‘scivoloni’: 1) hai quasi ammesso di avere fatto affidamento sul tuo vecchio rapporto, datato Grande Fratello, con Daria Bignardi; 2) hai avuto la presunzione di giudicare la gestione dei contenuti della puntata; 3) hai ipotizzato che Luca Sofri suggerisse le domande alla moglie, come se la Bignardi fosse come voi, bisognosa di parolieri; 4) hai asserito che il tuo ruolo è proteggere i parlamentari. Ma proteggerli da chi? Dalla democrazia che loro stessi dovrebbero rappresentare? Parliamo di deputati, Rocco, gente che dovrebbe avere la forza di cambiare l’Italia con la ragione e il buon senso, non con la debolezza di sentirsi continuamente offesa per lesa maestà. In questo modo, peraltro, li hai danneggiati facendoli passare per utili idioti bisognosi di te. che detto con franchezza, che titoli hai?; 5) hai chiosato definendoti un attivista lottatore. Ma non ti fai sorridere da solo?

Caro Rocco, per me hai dimostrato un’unica cosa. Un’ansia di protagonismo di bassa ‘lega’ o a ‘cinque stelle’, come preferisci definirla. E se io fossi nei tuoi datori di lavoro, farei a meno di te. Ora finisco. Affermi che Di Battista e suo padre hanno sofferto molto per il riferimento della Bignardi a quanto dichiarato da Di Battista Senior a Radio 24, ossia di essere orgogliosamente fascista. Scusa Rocco, ma perché babbo e figlio si sono addolorati tanto se sono così autonomi e indipendenti intellettualmente? Così, Rocco, hai fatto passare il povero Di Battista per uno sciocco, un alunno cui la maestra ha fatto una domanda non prevista nel programma e lui, ingenuo, non ha saputo rispondere. E quindi, come ufficio stampa, hai sbagliato.

Caro Rocco, io, sai, come tanti colleghi che stimo al di là e oltre le idee politiche, ho studiato tanto, ho una laurea, ho fatto un esame di Stato per diventare giornalista, ho fatto tanta gavetta e ho tanto rispetto per questo lavoro. Che è bellissimo, avendo altrettanto rispetto della verità.

entro-non-oltre

Entro e non oltre

Perché sentiamo l’esigenza di dire due volte la stessa cosa? “Entro e non oltre”… Diavolo, ma perché siamo italiani! In qualsiasi luogo civile del mondo basterebbe dire “entro”: se è “entro” una certa data che va fatta una determinata cosa è ovvio che quella cosa dovrà essere fatta “non oltre” il termine prescritto. Certo, in ogni luogo civile del mondo. In Italia no.
L’Italia, come è noto a tutti, è una Repubblica fondata sulla deroga. Ciò che in teoria si dovrebbe fare “entro”, in pratica lo si può fare anche dopo. Ecco la necessità, certo pedantesca e burocratica, ma anche antropologicamente fondata, di ribadire: ti avverto che stavolta non sto scherzando, faccio sul serio, quella roba lì va fatta davvero, non puoi come al solito fregartene della scadenza…
Il problema è che anche “entro e non oltre” è diventata una trita formula. Ci passa attraverso senza neppure che ci facciamo caso, al punto da non notare neppure la ridondanza. E così anche “entro e non oltre” è divenuto insufficiente. Infatti capita sempre più spesso di leggere negli avvisi il monito aggiornato: “assolutamente entro e non oltre”, “improrogabilmente entro e non oltre”. Ammirevole! Ma è tutto inchiostro sprecato: siamo italiani…

Italiani

Litigiosità e conformismo, gli antichi vizi degli italiani

Lo storico Jacques Le Goff osservò (“Il caso italiano” Einaudi, 1974) che mancavano in Italia studi sistematici sulle forme e sull’evoluzione storica della coscienza sociale. A colmare questa lacuna si dedicò il grande antropologo Carlo Tullio Altan. In particolare vorrei ricordare “La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi” (Feltrinelli, 1986). E già nel titolo sono indicati i ‘mali’ ancora presenti nel costume e nella vita pubblica italiana.
Si deve risalire molto indietro per scoprire i primi documenti di una mentalità perniciosa e ancora vitale. Paolo di Messer Pace da Certaldo (seconda metà del trecento) compila alcune massime che rispecchiano l’ideologia della classe egemone di quel periodo, quella dei mercanti. “Affaticati sempre anzi per te che per altrui.” “Quando vedi il fuoco nella casa del vicino reca l’acqua ne la tua.” “In ogni terra che vai o che stai, dì sempre bene di quei che reggono il Comune; e degli altri non dire però male, perché potrebbero salire al potere.” Giovanni di Pagolo Morelli vissuto a Firenze fra il 1371 e il 1444, ci ha lasciato un documento che scrisse solo per l’uso interno della sua famiglia. “Se sei ricco accontentati di comperare degli amici coi tuoi denari, se non ne puoi avere per altra via; e ingegnati di imparentarti con cittadini amati e potenti.”
Ma i più celebri restano “I libri della Famiglia”, opera del grande umanista Leon Battista Alberti, vissuto fra il 1404 e il 1472 a Firenze. L’ordine dei valori è ben delineato in questo testo: al vertice la famiglia, come valore assoluto di riferimento; seguita dalla proprietà e dai beni che si possiedono; quindi dagli amici e conoscenti potenti e utili. La città, la politica e la vita pubblica vengono considerati solo in quanto possano sostenere ciò che riguarda, con una gerarchia ben indicata, i valori principali. E’ il trionfo del familismo amorale e del ‘particulare’ di cui parlò il Guicciardini.
Se si compie un salto nel Novecento incontriamo Piero Gobetti e la sua diagnosi del fascismo come ‘autobiografia della nazione’. Il giovane liberale scrive: gli italiani si innamorano delle soluzioni facili e dei demagoghi. E oscillano fra un estremismo parolaio e un ‘accomodantismo’, un conformismo che accetta sempre ciò che passa il convento, raccontandosi che ‘così va il mondo’, mentre si vuole nascondere il desiderio di eludere le responsabilità. L’Italia, patria di tutte le ideologie e di tutte le ribellioni, è in realtà un paese di conservatori…
E un altro di quel tempo, Antonio Gramsci, annotava nei suoi quaderni in carcere: il ribellismo estremistico, il sovversivismo irresponsabile, sono manifestazioni di antistatalismo primitivo ed elementare. E, se ben si osserva, il settarismo dell’antipolitica è una forma di clientela personale: senz’altro la peggiore perché tenuta insieme dal fanatismo. Questi caratteri erano stati notati nell’ottocento da due illustri visitatori del nostro paese: Goethe e Stendhal.
Goethe è colpito dalla costante, capillare, onnipresente litigiosità. “E’ incredibile come nessuno vada d’accordo con l’altro. Le rivalità provinciali e cittadine sono accesissime, come pure la reciproca intolleranza”. Infine Stendhal, il cui amore per Milano e per l’Italia non gli fa velo nel registrare con amaro sarcasmo: “La sera, i pomeriggi, nei caffè e sulle piazze tutti discutono dei programmi del governo. Ragionare di politica è un piacere per se stesso; i discorsi offrono uno sfogo al loro temperamento retorico; la conversazione politica costituisce una sorta di teatro i cui risultati pratici sono evanescenti, perché si appaga della propria recita. Non approfondiscono niente. Mai uno sforzo serio; mai dell’energia; nulla si concretizza. Gli italiani gridano continuamente contro la tirannia, ma quando si tratta di rovesciarla, sono sopraffatti da un rispetto superstizioso. E, per quanto riguarda la libertà, rifiutano di studiarne i meccanismi; e si immaginano che un Angelo gliela porterà un bel giorno.”
Cos’è che è all’origine di tale comportamento? Stendhal non ha dubbi: un individualismo sfrenato, l’assenza di una classe dirigente, la mancanza di senso civico e “una funesta abitudine all’odio”.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

sarto

Il sarto colto di Santa Maria in Vado che amava filosofia e letteratura

MONACO DI BAVIERA – Andando alla ricerca di una sartoria per un lavoro di rammendo alla mia giacca, mi imbattei per caso in un piccolo laboratorio nascosto nel quartiere vicino Santa Maria in Vado. Chiesi al sarto se poteva farlo subito e mentre stava effettuando il suo lavoro mi guardai attorno e vidi sopratutto una grande quantità di cassette. Quel sarto sembrava annegare in un mare di cassette che, disposte in ordine alfabetico e ben accatastate, arrivavano quasi al soffitto. Gli chiesi se erano delle cassette musicali e lui mi rispose che si, ascoltava anche della musica. Bach, e non Verdi, sarebbe per lui il più grande musicista di tutti i tempi. Gli sarebbe parso di toccare il cielo con un dito se in quel preciso istante avesse potuto ascoltare Fournier suonare le suites per violoncello di Bach. Ma per la maggioranza erano audio-cassette, me ne resi conto leggendo i nomi sul retro delle cassette: Dante, Petrarca, Leopardi, Manzoni, Calvino, Bassani. Tutti i grandi classici della letteratura italiana sembravano essersi dati appuntamento in quel laboratorio . Più di tutti però amava Schnitzler. Aveva letto “Il ritorno di Cassanova“ piu di una volta. Poi mi fece vedere una raccolta di testi filosofici che aveva registrato personalmente. Ascoltava regolarmente la voce del filosofo Hans Gerog Gadamer. Non capiva il tedesco, ma amava ascoltare la voce di un tedesco sopratutto quella di Gadamer. Non gli volli credere, mi sembrava una reverenza forse un po troppo evidente nei confronti del suo cliente tedesco. Ma lui mi mostrò la cassetta e me la fece ascoltare. Rimasi impressionato e commosso. Dietro il suo tavolo da sarto, a portata di mano, c’era anche una copia della “Divina Commedia“ e sapeva recitare quel testo quasi a memoria. Al momento stava ascoltando “Il deserto dei tartari“ di Dino Buzzati. Con quella passione per la letteratura sarebbe stato la gioa d’ogni insegnante e ministro dell’istruzione e mi fece rimanere senza parole. Quando si rese conto del mio stupito interesse per la sua insolita passione, le parole gli sgorgarono dalla labbra. Di tanto in tanto si scusava per tutto quel raccontare, per poi riprendere subito il filo del suo discorso. Il bottone era già stato attaccato, ma lui continuava a raccontare come se da anni nessun cliente si fosse più interessato della sue segrete passioni. E probabilmente era anche vero. Un sarto che svolge silenzioso il suo lavoro “all’ombra delle sorelle ammirate“ come ha scritto Alberto Savinio, immergendosi nella grandi opere della cultura europea; una simile esperienza può essere vissuta solo “nel momento in cui tutti gli altri non guardano“. Un incontro reso possibile dalla semplice necessità di farsi attaccare un bottone”.

fare-rete

Con “Atmosfera creativa a Ferrara” Sipro prova a tessere la tela fra imprese e operatori del comparto culturale

Per ‘fare rete’, come insistentemente si auspica, al punto che l’espressione è divenuta quasi un mantra, occorre innanzitutto cominciare ad annodare i fili fra loro. E’ ciò che sta tentando di fare Sipro, riunendo attorno a tavoli comuni soggetti che operano nei medesimi settori produttivi o che svolgono attività affini.
Può sembrare banale, ma non lo è in una città come Ferrara dove tutti più o meno si conoscono, ma il livello dello scambio generalmente, anche fra imprenditori, si limita alla formalità e a una superficiale cortesia relazionale. Ci si conosce, in sostanza, per modo di dire, in maniera convenzionale, spesso senza neppure sapere cosa fa esattamente e di cosa si occupa l’interlocutore, ciascuno rinserrato nel proprio riserbo.

Fare rete significa al contrario superare ritrosie e diffidenze, rendersi curiosi e al contempo permeabili, approfondire i livelli di conoscenza e condivisione, creando così le condizioni affinché ognuno, adeguatamente edotto, possa scientemente valutare reciproche potenzialità ed eventuali prospettive di integrazione, in una logica di complementarietà in grado di mettere a valore e ottimizzare specificità e prerogative di ciascun soggetto.

Così, attorno ai tavoli allestiti nei locali di Ferrara fiere e congressi, si sono ritrovati imprese, associazioni e professionisti del comparto culturale, attivi nei settori dello spettacolo e degli eventi, di turismo e festival, dei media, del patrimonio culturale, di moda e stile, del gusto, di artigianato e design. Con loro anche alcuni rappresentanti istituzionali. I lavori sono stati coordinati dal Centro di ricerche Css-Ebla. L’iniziativa fa parte di un progetto di studio delle imprese culturali e creative e delle associazioni del territorio provinciale, promosso da Sipro nel quadro del progetto Macc, finanziato dal Programma di cooperazione Italia Slovenia.

La novità sta nel fatto che persone che in città svolgono lavori simili si sono incontrate, forse per la prima volta, per discutere fra loro di ciò che fanno, entrando nel merito di dinamiche e prassi produttive, per ragionare insieme di problematiche, criticità, risorse, scenari e visioni.

Lo spirito che aleggia su “Atmosfera creativa a Ferrara” (denominazione di questa sorta di agorà dell’imprenditoria) è un po’ lo stesso che qualche anno fa aveva caratterizzato i forum di urbanistica partecipata: in fondo, sia quelli sia questi sono orientati alla definizione di scenari e di coerenti scelte: allora per la ridefinizione di pezzi di città, ora per la riformulazione di rapporti fra operatori economici del segmento cultura e creatività. E il motivo di questa sintonia c’è: la regia di entrambe le operazioni è la medesima, quella di Elisabetta Scavo, all’epoca capo di Gabinetto del sindaco Sateriale e adesso direttore di Sipro, di cui condivide le strategie con il presidente Gianluca Vitarelli.

Questa di mettere in circolo energie potenzialmente presenti e spesso inespresse appare una vocazione appropriata alle necessità dello scenario ferrarese. In questo senso risulta prima di tutto un’interessante intuizione e secondariamente una concezione coerente con gli scopi di Sipro, utile quindi anche per ridare senso e impulso all’agenzia provinciale per lo sviluppo, la cui ‘mission’ è appunto la promozione dei valori del tessuto produttivo locale.
Siamo all’inizio del percorso, la strada è accidentata, l’approdo è tutt’altro che scontato. Ma vale la pena tentare l’impresa.

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“Tutto bene, la zia è morta, piccina! Funerale di prima classe, le figlie in visone…”

“Pronto Ada, come stai? E’ un secolo che non ti sento! Io sono stata in Romagna, sono andata a trovare la zia. Tutto bene, la zia è morta, piccina! Aveva 98 anni. E, poi, il funerale è stato di prima classe, le figlie tutte in visone, come si conviene, soltanto la Norina, la grande, ha osato un feltro color marrone tipo Borso d’Este. Cosa vuoi, secondo me, alla nostra età, il cappello fa vecchia. Però la Norina era sontuosa, attiva sulla poltrona a rotelle, come in trono, ricoperta di un plaid ricamato a piccolo punto, impartiva ordini alla filippina che la spingeva e che, per l’occasione, era stata addobbata in total black: un bel colpo d’occhio. Ecco, se posso dire, solo i fiori difettavano, non perché mancassero, anzi ce n’erano tanti, corone, cuscini corbeilles, ma tutte margheritone o zinie o garofani, non l’ombra di un’orchidea. Ma, dico io, come si fa a regalare dei garofani a un a signora seppur morta o quasi sepolta? Tutti quei garofani volgarucci, siamo forse tornati socialisti? Però che belli i tempi dei garofani rossi di Craxi, non c’era mica la crisi allora, eravamo tutti ricchi e felici e senza Imu e chi rubava lo faceva con tale ineffabile candore che nessuno se ne accorgeva. Ma le cose belle non durano, cara Ada, ha guastato tutto quell’infame processo di ‘mani pulite’, ah!, i comunisti!

Obiettivo 2030, la scuola del futuro nasce ora

Centotrentaquattro milioni di bambini nasceranno quest’anno. Un bambino nato oggi frequenterà la scuola media superiore intorno al 2030, in un mondo prevedibilmente molto differente da quello di oggi.
Quali sono gli strumenti che il sistema dell’istruzione dovrà fornire a questi futuri studenti? Cominciando a lavorare da subito, perché i cambiamenti, soprattutto nell’ambito dell’istruzione, vanno progettati per tempo.
Il tema è stato affrontato l’autunno scorso in Canada, a Waterloo, nell’Ontario, in occasione dell’Equinox Summit: Learning 2030, organizzato dal WGSI (Waterloo Global Science Initiative) che ha riunito i maggiori leader in materia di istruzione, i migliori professionisti dell’insegnamento, ricercatori e politici, insieme ai giovani studenti di quelle scuole che nel mondo hanno innovato i processi di apprendimento.
Un raduno senza precedenti a cui hanno partecipato 33 rappresentanti di tutti i continenti, espressioni di diverse realtà socioeconomiche, per comporre una prospettiva sull’apprendimento veramente globale e intergenerazionale. Per disegnare una road map dei cambiamenti percorribili, convinti che ogni bambino, non importa dove viva nel mondo, possa sviluppare le competenze necessarie alla propria cittadinanza nel 2030.
Sono gli strumenti del pensare creativo, indipendente, critico, rigoroso, dell’agire in modo collaborativo, nella piena consapevolezza di sé e del contesto sociale ciò che dovranno saper fornire di norma i sistemi scolastici del mondo.
Come è possibile ottenere questo risultato? Al centro c’è sempre la relazione tra studente e insegnante, ma anche gli insegnanti più capaci e impegnati difficilmente potranno riuscire a preparare gli studenti per il 21° secolo lavorando in un sistema scolastico il cui modello educativo è ancora quello pensato per il 19°. La natura antiquata di questo modello ha già causato molti problemi, a partire dal nostro Paese che occupa l’ultimo posto in Europa per dispersione scolastica e anche coloro che portano a termine il percorso di studi lo fanno con concrescente noia e demotivazione.
Le conclusioni del summit sono che per raggiungere nel 2030 quegli obiettivi è necessaria una struttura di apprendimento radicalmente diversa da quella tradizionalmente fondata sulle classi, i corsi, gli orari, i voti e gli esami. Si tratta di una strumentazione che deve cedere il passo alla centralità dello studente, al piacere di studiare, alle sue motivazioni, al percorso di apprendimento scelto, a una struttura flessibile, creativa, più corrispondente alle modalità di apprendimento dei giovani oggi.
Tutto ciò suggerisce di diversificare i percorsi di apprendimento rispetto alle motivazioni e agli obiettivi. Alle classi si sostituiscono gruppi fluidi, mobili, di differente composizione, gruppi per obiettivo, gruppi che sono dettati dalle esigenze dello studente in quel particolare momento. Spesso questi gruppi possono combinare studenti di età differenti, di differenti livelli di apprendimento e di differenti interessi. Questi gruppi possono chiedere consigli e sostegno a insegnanti diversi, ad altri consulenti come facilitatori ed esperti disciplinari.
Gli insegnanti, con altri professionisti dell’istruzione, operano come guide e curatori dei curricoli personali. Sono i partner dell’apprendimento che indirizzano gli studenti a scegliere gli argomenti per uno studio più approfondito a seconda degli obiettivi che si sono dati, a selezionare e valutare le informazioni, a contattare esperti esterni alla scuola, ad agevolare le discussioni.
La conoscenza approfondita e la passione per la propria area tematica sono centrali per il ruolo dell’insegnante, unitamente alla cura della propria formazione permanente.
Nel sistema progettato da Learning 2030 i docenti svolgono un secondo compito fondamentale per il successo e l’apprendimento di ogni singolo studente, quello di chi si prende cura, di un caring, di un mentore che è interessato alla riuscita dell’altro. Ogni studente si incontra regolarmente con un insegnante/mentore per discutere gli obiettivi e il percorso di apprendimento, per aiutarlo nel raggiungimento e per monitorarne i progressi.
Non più voti, non più esami. I risultati dell’apprendimento vengono misurati attraverso una valutazione qualitativa delle competenze che documentano l’intera esperienza dello studente, piuttosto che misurare singole e isolate performance.
Queste valutazioni sono condotte in modo collaborativo tra alunno, insegnanti, compagni, genitori e talvolta mentori esterni alla scuola. Si tratta di valutazioni personalizzate che fanno parte del regolare processo di apprendimento degli studenti, dove una particolare attenzione viene riservata alla capacità dello studente di portare a completamento anche progetti complessi. Come risultato gli studenti sanno in ogni momento quali sono i loro punti di forza, dove hanno spazio per migliorare, e come stanno affrontando i loro progressi.
Altro punto di forza scaturito dall’Equinox summit è l’importanza dell’autonomia delle scuole come chiave di volta dell’ambiente di apprendimento del 2030, dove le decisioni sono prese dai soggetti interessati, dai gruppi formati da studenti, insegnanti, amministratori e genitori.
Scuole che investono sui loro studenti e sui loro insegnanti, incoraggiandoli a sperimentare con nuove idee, senza temere di fallire. Ciò include l’uso creativo di qualunque tecnologia disponibile. Le tecnologie per la didattica sono esplorate in un cultura che abbraccia la sperimentazione e consente di essere utilizzata come un’opportunità di continuo miglioramento. Ciò si traduce in un sistema di apprendimento dinamico, in evoluzione, in grado di adattarsi alle differenti condizioni sociali e ai continui cambiamenti tecnologici.
Questa è la scommessa su cui l’Equinox Summit invita i paesi del mondo a investire da subito per quanti saranno adolescenti nel 2030, a partire dalla esperienza di quelle scuole che già vanno praticando tutto ciò. Che dire del nostro Paese? La distanza per ora ci sembra abissale.

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Sant’Agostino, dopo il terremoto i cittadini ridisegnano il cuore del paese

Se lo si cerca con Google Maps, il Municipio di Sant’Agostino lo si vede ancora lì, al centro della piazza, nemmeno la rete si rassegna al fatto che non c’è più.
Oggi, a quasi due anni dal terremoto, è ancora difficile abituarsi al vuoto lasciato dal crollo di quello che era il cuore del paese, il centro non solo amministrativo, ma anche architettonico e sociale, perché stava in mezzo alla piazza principale.
Adesso c’è ancora il recinto con le macerie dell’esplosione controllata che l’ha abbattuto, come una bestia morente, nel luglio 2012.
Poi non è più stato fatto nulla, fino ad ora, con la presentazione alla cittadinanza di un progetto partecipato chiamato Less Is More – Ripensare il vuoto per trovare un centro.
La Giunta ha infatti cofinanziato con la Regione un percorso che fino a maggio porterà i cittadini di Sant’Agostino, guidati da un gruppo di esperti, ad elaborare un’idea di destinazione degli spazi tra piazza Marconi, piazza Pertini e corso Roma.
Ognuno, semplici cittadini, imprenditori, bambini, immigrati, anziani, associazioni, agricoltori, potrà dire la sua su quel che vorrebbe che diventasse la piazza.

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I cittadini di Sant’Agostino, guidati da un gruppo di esperti, ripenseranno la destinazione degli spazi del centro

“Il centro ha bisogno di essere rivitalizzato, abbiamo perso tante attività commerciali, dobbiamo rilanciare il nostro paese, e dobbiamo farlo assieme” afferma il vicesindaco e assessore all’urbanistica Roberto Lodi, impegnato in prima persona nell’iniziativa.
Da parte dei facilitatori del progetto, guidati dall’architetto Saveria Teston, specializzata in rigenerazione urbana, c’è grande entusiasmo.
“Ora stiamo studiando il territorio, stiamo coinvolgendo tutte le attività associative ed economiche, perché anche se non sono direttamente sulla piazza, sono fondamentali per la vita del paese. Stiamo distribuendo cartoline con questionari per capire quali sono le attività che i cittadini vanno a fare fuori da Sant’Agostino, e quindi quali sono le esigenze più sentite. Il nostro scopo non è solo far rinascere il centro, ma sviluppare connessioni con le campagne, il Bosco della Panfilia, l’area industriale e le frazioni. Solo integrando la piazza col suo contesto, si otterrà un vero risultato”.
L’idea è stata accolta con curiosità, ma anche diffidenza, dai cittadini che, tra un’emergenza terremoto e un’allerta alluvione, sono molto sfiduciati.
“Perché non si è iniziato a farlo prima?”, “A maggio ci saranno le elezioni: quel che decideremo verrà tenuto in considerazione anche dalla nuova giunta?”, “Ma poi ci saranno i soldi per finanziare il nostro progetto?”, sono le principali domande che i santagostinesi hanno posto ai curatori del progetto.
“Tutte queste osservazioni in realtà ci fanno molto piacere – risponde Teston – perché significa che questo progetto risponde ad una reale esigenza di partecipazione dei cittadini.
Se non era ancora stato messo in atto, è perché prima della ricostruzione pubblica c’è stata quella privata e solo ora la Regione ha stanziato i finanziamenti per avviare questo processo collettivo, che nei paesi anglosassoni e scandinavi è ormai una prassi, ma qui da noi rappresenta ancora una novità.
Per quanto riguarda la nuova giunta, non potremo obbligarla a realizzare il progetto che emergerà dalla consultazione pubblica, ma di sicuro la Regione sarà più propensa a finanziare e sostenere l’idea che emerge da questo processo, quindi sarà interesse di tutti tenere in considerazione la proposta partecipata. Non esiste ancora un importo per la piazza, ma la Regione finora ha destinato alla ricostruzione pubblica anche più di quanto previsto, quindi siamo ottimisti”. Conclude Teston, anticipando il calendario dei prossimi appuntamenti del percorso partecipato.

Sabato 22 febbraio – Camminata di quartiere e pranzo comunitario
Mattina con le scuole, pomeriggio con i cittadini

Venerdì 7 marzo – Incontro pubblico
Condivisione delle informazioni raccolte nei mesi precedenti

Sabato 22 marzo – Pubblica discussione
Definizione degli scenari di trasformazione, gestita con la tecnica dell’Open Space Technology

Sabato 5 e 12 aprile – Laboratorio di progettazione partecipata
Definizione delle linee progettuali

Sabato 17 maggio – Incontro pubblico di chiusura del processo
Presentazione degli esiti del percorso e passi che seguiranno.

Da sabato 17 a sabato 31 maggio – Mostra degli esiti del processo
Mostra ed eventuale votazione

Per maggiori informazioni sul progetto è possibile scrivere alla mail lessismore.santagostino@gmail.com o consultare il sito del Comune www.comune.santagostino.fe.it

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Una visita a Roma tra bombe d’acqua e la bellezza

C’è un modo antico di riflettere emozioni e scoperte che ci è stato affidato dalle cronache del settecentesco Grand Tour e che riflettono il senso di un incontro, specie se questo riguarda Roma, l’heimat, il luogo da cui proveniamo, la patria ideale, la terra dove crescono i limoni secondo il nostalgico grido di Goethe. Ed ecco che, nel breve viaggio che ci conduce con gli Amici dei musei e monumenti ferraresi a Roma per visitare le due grandi esposizioni su Cleopatra e Augusto, aprirsi uno scenario apocalittico che fa riflettere sulla fragilità della bellezza e sulla sua conservazione, aprendo la strada a quell’idea del Sublime incarnata nello scatenamento della natura infuriata a cui si contrappone per dirla con Winckelmann il grande studioso tedesco del Neoclassicismo, la “nobile semplicità e la quieta grandezza” con cui gli dèi scendono sulla terra. E di uomini diventati dèi si trattava: Augusto ormai fissato nella icona del pontefice massimo assurto agli onori della casa del cielo o lei, la bellezza che ha vinto su Roma, “Cleopatràs lussuriosa” con il sorriso immemore del destino che solo gli dèi possono esibire a noi mortali.
Su Roma si scatena la furia del temporale e il viaggio si compie tra bombe d’acqua e pericoli di tracimazione del Tevere. Quasi una risposta alla bellezza e all’ordine che i nuovi barbari, i rozzi e incolti seguaci della violenza verbale vogliono imporre con le loro immonde provocazioni alle istituzioni del paese. Quella violenza che ha tentato di annullare ciò che Roma ci ha dato nel tempo anche se sorretta da ideologie stridenti al nostro concetto di democrazia. Barbari che affidano alle parole ingiuriose, al balbettio sconnesso il senso dell’armonia e della quiete della mente che solo la bellezza sa produrre.
Questo resoconto va quindi letto come la risposta all’ingiuria che il tempo scatenato dalla natura e da certi uomini portano contro l’arte e la misura delle cose. Anche quella della mente offesa e stravolta dal balbettio dei seguaci di un comico. L’eccezionalità dunque della trasferta romana degli Amici dei Musei ferraresi non è stata solo confermata dal maltempo che ha imperversato sulla prima giornata del nostro tour ma dalla strepitosa qualità delle mostre e delle visite che abbiamo compiuto. Sembrava quasi che l’avversità del tempo venisse suffragata dalla bellezza delle cose che andavamo scoprendo con un’empatia che forse sarebbe stata minore se fossimo stati privilegiati dalle gloriose giornate di sole romano.
Tra lampi e tuoni è dunque emersa da un buio profondo la inquietante e meravigliosa testa di Cleopatra che ha scandito il percorso della mostra allietata inoltre dalle immagini novecentesche della regina d’Egitto interpretate da Theda Bara, Claudette Colbert e quella che per tutti noi rimarrà l’immagine-mito di Cleopatra: Liz Taylor. E sfingi di marmo rosa e sculture fantastiche di lottatori sui coccodrilli e mummie e ori e trionfi mentre al di là delle finestre oscurate Roma sembrava perdersi nei diluvi dell’acqua.

Poi l’arrivo alle Scuderie del Quirinale per ammirare la mostra su Augusto evento unico per la nostra generazione. Ecco affacciarsi, tra l’idealizzazione dei personaggi e il primitivo impulso degli scultori a un naturalismo che rifletteva le “vere” fattezze imperiali, l’immagine di Augusto, sommo sacerdote, divinizzato appena morto, nella gloria dell’auctoritas che lo rendeva simile agli dèi con l’incredibile statua dell’Augusto di Prima Porta che mentre ci incatenava la mente con le storie scolpite nella sua lorica ci comunicava l’esondazione del torrente che aveva sommerso proprio Prima Porta in quelle stesse ore. E anche qui smalti, ori, trionfi per una esposizione che era una glorificazione della civiltà romana.
Poi scendendo la strepitosa scala progettata da Gae Aulenti la visione di una Roma dilavata dalla pioggia che vibrava di bellezza e di luci. Per ritornare quindi alle memorie ferraresi nella casa romana di Portia Prebys che ci ha accolto tra i memorabilia di Giorgio Bassani offrendoci un sontuoso aperitivo e via, poi, a Trastevere tra piatti romani e ancora bombe d’acqua che agli intrepidi viaggiatori vaganti per le vie del centro hanno intriso di acque “lustrali” cappotti e scarpe.
Il giorno dopo alla scoperta della seconda Roma imperiale -quella mussoliniana- accompagnati da un pallido sole. Così perduti nelle bizzarrie del quartiere Coppedè tra mostri fantastici e case di fiaba approdiamo allo stadio dei marmi e al complesso della cittadella dello sport inquinato dalla incongrua presenza dello stadio olimpico tra i risonanti nomi delle archi-star che si sono prestati alla grandezza sportiva della capitale per approdare infine allo strepitoso quartiere dell’Eur che nessuno guarda e che rappresenta un’utopia sconfitta di un destino imperiale travolto -per fortuna- ma le cui realizzazioni sono di una qualità assoluta.
I paesaggi dechirichiani dai fornici e dalle finestre inquietanti del colosseo quadrato, i palazzi del potere, la cittadella dei musei: una idea di bellezza urbanistica ormai affidata alla storia e che – come è costume degli “itagliani” insensibili alla storia e all’arte – a volte cade a pezzi a volte è disertata dalla suprema indifferenza che questo terribile paese dedica all’arte. Che boccata d’ossigeno. La bellezza affidata all’arte è come diceva il poeta “ristoro unico ai mali”. E noi ci siamo ristorati!

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Alle origini dell’età ibrida

I ragazzi degli anni ottanta sono cresciuti con il Commodore 64. In quegli anni, tra gli adulti, molti guardavano i computer con sgomento. Un buon numero di medici si sentivano richiedere certificati che giustificassero l’esonero dall’uso, tanto era il terrore che tra molte impiegate i nuovi strumenti di lavoro suscitavano. Tra gli esperti dilagavano le discussioni circa la possibilità che l’intelligenza artificiale (termine che i più usavano in termini evocativi) fagocitasse, annullandole, le capacità del pensiero umano. Per noi erano, semplicemente, un modo più veloce per scrivere la tesi.
Non ricordo quando ho avuto il mio primo computer, ricordo che è stato amore a prima vista. Anche se occupava molto spazio e faceva un po’ di rumore. Anche se bisognava conoscere le funzioni dei tasti e talvolta digitarne tre alla volta per produrre l’operazione voluta. Il ricordo più dolce era che potevo scrivere con una mano e con l’altra “giocare” con la mia bambina. Poi sono arrivati i floppy, che nome delizioso! Li ho buttati via qualche mese fa, accettando – non senza fatica – l’idea che la mia memoria andasse persa. Anche questa è una conquista nel tempo dell’archiviazione universale.
L’età ibrida è il titolo di un libro recente di A. Khanna e P. Khanna (Codice), il cui sottotitolo è Il potere della tecnologia nello scenario globale. L’argomentazione sbarazza definitivamente qualunque illusione che il mondo possa essere interpretato con le categorie a cui eravamo abituati. Soprattutto, toglie di mezzo l’idea che i nuovi media siano semplicemente strumenti da utilizzare. Le tecnologie sono in realtà un linguaggio che crea un ambiente, un mondo da abitare. Non si tratta di discutere se questo mondo ci piace di più o di meno di quello che abitavamo in passato – la cosa è del tutto irrilevante – si tratta di comprendere quali implicazioni ha questo scenario per le persone, le organizzazioni, le imprese. Un’era, fatta di oggetti, merci, pratiche è finita, un’altra iniziata è in rapidissima evoluzione.
La tecnologia crea e distrugge. La tecnologia è generativa, vale a dire è in grado di generare valore, ma distrugge lavoro; diffonde opportunità, ma è spietata con coloro che ne restano fuori; crea paradossi, ad esempio possiamo impiegare meno tempo da Bologna a Parigi che da Ferrara a Parma; semplifica e complica la vita allo stesso tempo perché genera ridondanza.
Internet moltiplica il tempo e lo fagocita, il tempo digitale non equivale al tempo cronologico, è multitasking e quindi variabile: possiamo fare più cose in contemporanea e vivere più tempi contestualmente. Mentre i tempi si sovrappongono, anche i valori si mescolano e non si dispongono su assi contrapposti. L’ibridazione il tratto di questo tempo.
Sapranno sopravvivere le imprese e le organizzazioni in grado di offrire valore, le altre sono destinate all’estinzione. Sapranno sfruttare le opportunità le persone dotate di capitale culturale e di capacità riflessive. La tecnologia non si riferisce solo a macchine o ad oggetti, ma soprattutto a processi, abilità, comportamenti, presuppone processi di appropriazione e adattabilità.
La tecknick – che gli autori del libro citato definiscono il quoziente tecnologico di una civiltà – è dunque una qualità che tutti dovremmo sforzarci di curare, singoli individui, imprese, comunità, città e nazioni. Conoscenza e innovazione potranno produrre relazioni virtuose, salvaguardando spazi di lentezza per pensare.

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Ritorno alla canapa: dalla marijuana terapeutica per l’Emilia un potenziale business miliardario

di Emiliano Trovati

Forse l’utilizzo a uso terapeutico non è l’unico aspetto su cui riflettere quando si parla di marijuana. Proviamo a prenderla da un’altra prospettiva. In questi giorni imperversa in Regione il dibattito in merito alla legalizzazione di questa sostanza come cura per alcune patologie, ma quando si parla di questo tema, in Emilia-Romagna, c’è un secondo aspetto che merita di essere preso in considerazione: quello economico collegato alla coltivazione.

Sicuramente molti ne hanno memoria, ma vale la pena ricordarlo. Almeno fino al 1957 l’Emilia Romagna, e l’Italia intera, è stata uno dei maggiori produttori al mondo di canapa, del tipo cannabis sativa, la famigerata pianta dalla quale si ricava la marijuana. La coltivazione ovviamente non era destinata al commercio di stupefacenti, né come pianta officinale, ma, essendo il prodotto estremamente versatile, era utilizzata nei più disparati settori: dal tessile, al settore nautico. Basta pensare che i canapai bolognesi sono stati, fino a tutto il XVII secolo, i primi fornitori del Regno Unito di vele e cordame, utilizzati sui velieri della Corona. Questo primato, poi, è venuto meno nel tempo, e dopo l’invenzione dei materiali plastici e in pvc, avvenuta nella seconda metà del secolo scorso, la coltivazione è definitivamente morta.

All’apice della sua produzione, raggiunta nel 1914 – secondo quanto documenta lo studio La coltivazione e l’industria domestica della canapa, consultabile dal sito del Museo provinciale della cultura contadina – la sola provincia bolognese era capace di coltivare fino a 145mila quintali di canapa l’anno. Addirittura, nel mondo, l’intera produzione nazionale era seconda solo a quella russa.

Ma veniamo al dibattito odierno. Tornare a coltivare questa pianta oggi, alla luce delle applicazioni mediche in cui potrebbe essere utilizzata, garantirebbe dei guadagni spaventosi. Si parla di miliardi di euro. Unico ostacolo, non piccolo, la paura dell’amministrazione a concedere i permessi per la coltivazione a fini farmacologici, paura dovuta alla facile associazione della marijuana a commerci non del tutto legali e monopolio delle mafie. Al netto delle paure, però, e fuori dal dibattito sulla legalizzazione o meno dell’uso ricreativo, è lecito farsi alcune domande – e anche due rapidi calcoli – giusto per chiarire di cosa si parla. Quanto potrebbe fruttare questo mercato, se legalizzato?

Partiamo dalla situazione attuale. Al giorno d’oggi la coltivazione della canapa è consentita, anche se strettamente controllata, solo per la produzione tessile e per l’edilizia. Secondo quanto riporta l’Assocanapa – Associazione nazionale dei produttori di canapa, che da anni è impegnata nella promozione della coltivazione di questa pianta per la filiera tessile ed edile -, in Italia nel 2013 sono stati destinati alla coltivazione della Canapa solo 400 ettari di terreno, per un produzione totale di 60.000 quintali. Considerando che il prezzo sul mercato della pianta è di 15 euro al quintale, l’intera coltivazione, oggi, produce un giro di affari di 900mila euro l’anno. Nulla in pratica, siamo molto lontani dal potenziale reale del settore se fosse possibile coltivare per le case farmaceutiche.

Facendo due conti, che non hanno valore scientifico, alla luce di quanto detto finora, però, vengono fuori cifre da capogiro. Il calcolo è questo: 29mila quintali per 35 euro al grammo, totale 1.015.000.000 di euro: un miliardo e rotti di euro.

Come ottenere questa cifra? Presto detto. Attualmente in alcune regioni d’Italia, come Puglia e Toscana, che si sono portate avanti con la legalizzazione terapeutica dei cannabinoidi, vengono commercializzati alcuni medicinali che contengono marijuana, come il Sativex e il Bedrocan. Questi medicinali sono prodotti da case farmaceutiche straniere, ad esempio il Bedracon è commercializzato dalla Bedrocan BV, società olandese che produce per la farmacopea marijuana in serra sin dal 1994. Il costo di vendita di quest’ultimo, che non è neanche il più caro, è di 35 euro e qualche centesimo al grammo ed è diffuso in confezioni da 5 grammi cadauno. Prendendo, quindi, questo dato come costo di riferimento e moltiplicandolo con il quantitativo di canapa prodotta a Bologna nel 1914, di 145mila quintali, opportunamente ridotto di quattro/quinti – ipotizzando che di ogni pianta è questa la parte che può essere utilizzata a scopi terapeutici, quella che in strada viene volgarmente chiamata “cima” -, quindi 29mila quintali, viene fuori quella cifra impronunciabile vista sopra.

Alla luce di tutto questo, sempre limitando il campo all’utilizzo farmaceutico, perché non considerare l’opportunità di agganciare al dibattito in essere la concessione della coltivazione a fini farmaceutici?

[© www.lastefani.it]

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Paolo Ravenna e Alberto Vigevani, i passi della memoria

Integriamo le riflessioni sviluppate in questi giorni in ricordo dell’Olocausto con questo brano lirico composto da Alberto Vigevani, poeta e narratore, in memoria delle vittime del nazismo.

A Ferrara nel cimitero israelitico

Sanno, sappiamo
di non poter tornare a queste
stagioni con sempre nuovi fiori
nuove foglie.

Sanno, sappiamo
che il sonno senza sogni
sotto la silenziosa neve
o il terso verde
è il nostro destino
meno impietoso.

[tratta dal volume di Alberto Vigevani “L’esistenza. Tutte le poesie”, edito da Einaudi]


E questo è il testo di una lettera che l’avvocato Paolo Ravenna, fondatore e presidente della sezione ferrarese di Italia Nostra, scrisse all’amico Alberto Vigevani.

Caro Alberto,
…In questi anni si è saldamente creato un legame per me prezioso in cui la comune affinità nel vedere e nel sentire ha trovato tante occasioni per esprimersi. Non posso certo ripercorrere tutte quelle che mi sono più care. Sono tante e mi affido alle prime che mi vengono alla memoria. Come quando ti vedo nella penombra del tuo studio in via Borgonuovo, molti anni fa, mentre proiettavo le fotografie che avevo scattato sulla presenza ebraica a Ferrara e tu, preso da quell’atmosfera che sentivi anche tua, mi sollecitavi a ricavarne una pubblicazione… sobria, mi raccomando.
Più tardi e questa volta in una delle serene soste al sole di Piè Tofana con Annamaria e Roseda, tornasti su quell’idea e mi suggeristi il titolo – L’antico orto degli ebrei – di quel volumetto che dopo anni avrei realizzato e che ho potuto concludere proprio con una tua struggente poesia (“A Ferrara nel cimitero israelitico”).
Ancora vedo il tuo sguardo, appena trattenuto dall’emozione, quando parlando del nostro esilio svizzero, ti mostravo una piccola foto con alcuni compagni internati. Vi riconoscesti il volto di un caro amico, Gianni Pavia. Era ritratto con altri la sera prima di rientrare in Italia ove, dopo pochi giorni, partigiano, sarebbe stato ucciso dai fascisti poco piu che ventenne. E ricordo i momenti di vivace collaborazione per la mostra “Italya” al Palazzo dei Diamanti per pensare quel manifesto che poi uscì con il segno di espressiva eleganza di Bruno Munari.
Tra le varie cose ci proponemmo allora di accostare i ritratti tuo, di Bassani e di Moravia che Carlo Levi aveva dipinto in anni di fervidi sodalizi e che furono presentati fianco a fianco per chi avesse voluto trovarvi possibili affinità. Non lontani i ritratti di Carlo Rosselli e di Leone Ginzburg. E proprio in quell’occasione, vedo finalmente qui a Ferrara, tutta la famiglia Vigevani con Annamaria, figlioli, nuore e nipoti, raccolti attorno a te, vicino al pozzo rosso di Via Palestro…
Paolo Ravenna
(Ricordi e Testimonianze per Alberto Vigevani, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1998)

leopoldo-cicognara

Il talento ribelle dell’eclettico Cicognara, poeta, ambasciatore di Napoleone e illustratore per l’amico Canova

LEOPOLDO CICOGNARA
(a 180 anni dalla morte)

Leopoldo Cicognara (1767-1834) nacque da nobile e illustre famiglia radicata a Ferrara già nel XV secolo, sebbene di ancor più lontana origine cremonese. All’età di nove anni venne affidato per l’educazione al collegio dei Nobili di Modena, dove rimase fino al 1785 ostentando un carattere inquieto e ribelle, abbastanza refrattario (come testimoniò lo stesso rettore del collegio) agli studi malgrado il proprio innato talento. Nel 1788 abbandonò la casa paterna e si trasferì a Roma, dove fu ammesso all’Accademia dell’Arcadia e conobbe importanti letterati come Vincenzo Monti. In quel periodo si dedicò alla pittura, con esiti non esaltanti e alla poesia, i cui frutti più maturi, composti fra il 1789 e il 1790, sono i poemetti Il mattino, il mezzogiorno, la sera e la notte (di evidente ispirazione pariniana) e Le belle arti.
Nel 1808 il letterato ferrarese pubblicò il suo Trattato del Bello, quello stesso anno venne nominato presidente della rinnovata Accademia di Venezia e, nel 1812, presidente dell’Ateneo Veneto. «La vera grande politica culturale del Cicognara – commenta lo studioso Gianni Venturi – si esercita, tuttavia, nelle grandi opere che lo rendono famoso in Europa: dalle Fabbriche di Venezia al Catalogo ragionato della sua splendida biblioteca che ora è uno dei vanti della Biblioteca Vaticana e che rappresenta un insostituibile strumento di ricerca storico-artistica; ma soprattutto il valore e il senso dell’opera di Cicognara, intellettuale europeo, è affidata alla stesura di quella storia della scultura che lo occuperà praticamente per tutta la vita e che lo proietterà nell’olimpo dei grandi uomini di cultura del diciannovesimo secolo». Si tratta della vasta Storia della scultura dal suo Risorgimento in Italia sino al secolo di Canova, pubblicata in tre volumi rispettivamente nel 1813, nel 1816 e nel 1818.
Antonio Canova, l’amico più caro e del quale Leopoldo Cicognara fu l’illustratore e il critico più acuto, si configurò per lui come il termine di paragone ineguagliato di tutta la storia dell’arte, ponendosi nell’evoluzione artistica al punto più alto e irraggiungibile. Il divino Canova, che morì fra le sue braccia nel 1822, rappresentò per il Cicognara l’autore in cui egli ravvisava la gloria e la supremazia della scultura su tutte le altre arti.
Leopoldo Cicognara ebbe pure, per oltre un ventennio, un’intensa carriera politica: fu nominato dallo stesso Bonaparte prima presidente della giunta di Difesa generale e poi membro del Corpo legislativo della repubblica Cisalpina, nonché ambasciatore presso i Savoia a Torino. Nel 1803 venne anche arrestato con l’accusa di essere uno dei fautori di un poemetto ritenuto antifrancese. Successivamente reintegrato, assunse nuove importanti funzioni nel Regno d’Italia e, nel 1808, lasciò la politica attiva. Cicognara morì a Venezia dopo lunga malattia, le sue spoglie sono conservate nella Certosa di Ferrara.

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013