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Diorama

Diorama

Il presepio lo conoscono tutti, è quello il diorama più noto, il diorama per antonomasia. Andate a Napoli, non nelle chiese ma nelle case private, anche nelle più povere, per vedere come il presepio – costruirlo pezzetto per pezzetto – non sia solo tradizione o passione intima, ma arte assoluta. Presepi e diorami in genere ci accompagnano da secoli; abbiamo bisogno di miniaturizzare il mondo, in scala ridotta ci pare meno complicato e doloroso. È un meccanismo che funziona alla perfezione e che possiamo dominare: le ruote girano, le luci si accendono e si spengono, i personaggi ripetono con diligenza i movimenti previsti. C’è poi altro che ci incanta davanti a un diorama costruito a regola d’arte, perché quel mondo in scala ridotta rimpicciolisce anche chi lo osserva; così la nostra infanzia ci raggiunge, senza preavviso, né possiamo opporci al suo ritorno. Anche questo, ma non è ancora tutto. C’è un elemento imponderabile, di cui ci sfuggono i connotati, che non riusciamo a vedere ma di cui avvertiamo la presenza. Da qui la fascinazione del diorama.

Se intendiamo il diorama come una categoria, alla stessa possono appartenere insiemi di oggetti e soggetti affatto diversi: il villaggio o la casa delle bambole, ma anche il drammatico compianto di Nicolò dell’Arca e, per estensione, i sassosi giardini zen. Nell’ultima decade del secolo scorso è stato il grande Hanshiro Miura a condurre il diorama fino al vertice della più apprezzata e discussa arte contemporanea, quella battuta nelle aste internazionali inseguendo record su record. Cha no yu – letteralmente “acqua calda per il tè” – nota in occidente come ‘La cerimonia del tè’ è senza dubbio la sua opera più celebre. Al centro della scena vediamo Sen no Rikyu, il monaco zen che nella seconda metà del XVI secolo codificò la cerimonia così come oggi la conosciamo. Attorno a lui, i suoi amici, i componenti del circolo eletto di Kyoto: il pittore e grande innovatore Tawaraya Sotatsu, il calligrafo e politore di spade Kon’ami Koetsu, il ceramista Chorijro creatore dello stile Raku e accanto a lui Futura Oribe, inventore e capostipite della ceramica che prese il suo nome. Un po’ più lontano, a formare un cerchio più ampio, stanno i samurai in pose plastiche, riccamente vestiti e armati. In questo diorama, il monaco Rikyu celebra il rito: il suo braccio regge la teiera e ne varia la posizione secondo le quattro stagioni. Una parvenza di fuoco arde sotto la teiera.

È però impossibile descrivere l’animata perfezione e gli innumerevoli particolari che compongono i diorami di Hanshiro Miura. Né può servire o comunque bastare rifarsi alla fonte di ispirazione di ogni singola opera: la tradizione e il rito (come appunto nella ‘La Cerimonia del tè’), o una celebre opera lirica (come nel diorama ‘Le sorelle di Turandot’), o la vasta filmografia del maestro Kurosawa (‘Appena dopo la battaglia’). I diorami di Miura sono inesauribili, non è cioè possibile traguardarli, comprenderli fino in fondo, riunirli nella memoria in una immagine esatta. La difficoltà non pare risiedere nel gran numero dei personaggi, delle situazioni e dei movimenti – l’esperienza del moderno ci ha abituato da tempo alla folla e al movimento – ma a un elemento di disturbo, a quell’invisibile presenza cui prima accennavo.

I diorami di Miura non sono solo belli, “i più belli di tutto il Giappone”. Non sono solo i più veritieri o verosimili, i più precisi, esatti in ogni proporzione, perfetti nei gesti e nei colori. In quel teatro portatile si affollano decine di figure immerse in una millimetrica ricostruzione degli ambienti e dei fondali, fino alla stupefacente e mutevole espressione incisa nei tratti dei volti. Ma oltre, o piuttosto, sotto questa perfezione, i diorami di Hanshiro Miura nascondono ed esibiscono senza pudore un’anima segreta. Non uso a caso la parola, è proprio l’epifania dell’anima a renderli straordinari, la ragione per la quale le mostre di Miura si trasformano puntualmente in un evento. È l’anima che attira come mosche decine di migliaia di visitatori.

Sotto il meticoloso, certosino, maniacale assemblaggio di oggetti inanimati – forse per una precisa intenzione dell’autore o per un puro prodigio – avvertiamo un’invisibile e inaspettata presenza. L’anima appunto, proprio quell’anima che dovrebbe essere – e solo per i pochi che si attardano ancora a crederci – una peculiare ed esclusiva proprietà dei viventi, non già degli oggetti e delle cose inanimate. Eppure, in ogni diorama del maestro Miura – ma forse, almeno un poco, in tutti i diorami e in tutti i presepi – si nasconde quella dimenticata entità. Mi sbaglio, l’anima dei diorami animati di Miura non è poi tanto nascosta. Dopo qualche minuto che li osservi, l’anima si mostra, salta fuori dal quadro, ti raggiunge, occupa il tuo campo visivo e la tua mente. Come un prigioniero che dal buio della materia rivede improvvisamente la luce. Né è possibile intendere da dove venga quell’anima, né dove si sia celata fino ad allora.

Così i visitatori curiosi, prima incantati davanti a quelle miniature perfette, dopo pochi minuti, eccoli turbati, quasi disturbati. Tornano verso casa muti, e quel disturbo li accompagna ancora per molti giorni. Guardate la faccia di questa coppia di mezz’età appena uscita dalla mostra, o i giovani volti di questo gruppetto di studenti. Sono facce spaventate.
Perché questa apparizione, questo svelamento, è un’esperienza che non si dimentica e che spaventa. Sempre, alla meraviglia davanti al “bello”, subentra un malessere cui non si riesce a dare un nome e una causa, ma che presto vince ogni resistenza. Non è infatti cosa di tutti giorni trovarsi faccia a faccia con l’anima, quella ambigua entità che, se i più consideravano pura invenzione, aveva comunque abbandonato da un paio di secoli l’umana esperienza del mondo.

I visitatori escono dalla grande sala, e per ore, per giorni, sembrano aver perso la favella, lo sguardo vuoto, i gesti svagati. Sognano molti sogni ogni notte ma al mattino evaporano come una nuvola e gli rimane solo il ricordo di un breve spavento.

Intanto, una lunghissima fila ordinata continua a sostare davanti alla biglietteria. La mostra del maestro miniaturista Hanshiro Miura è stata dapprima prorogata oltre il termine, quindi, a furor di popolo, è diventata un museo permanente. Chiunque voglia fare esperienza di quella cosa perduta, scomparsa dalla vita di ognuno, chiunque voglia incontrare l’anima, almeno per qualche attimo e almeno una volta nella vita, si mette in fila con gli altri. Con diligenza. Con molta pazienza. Ci sarà molto da aspettare, giorni, forse anni, ma alla fine arriverà il tuo turno

 

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“Il giardino e la città”: dal 4 febbraio al 4 marzo,
Proiezioni pomeridiane alla Sala Estense. Ingresso libero.

“Il giardino e la città”: dal 4 febbraio al 4 marzo,
Proiezioni pomeridiane alla Sala Estense. Ingresso libero.

“Il giardino e la città” sarà il tema della XIX rassegna “Giardini al Cinema”, un evento cittadino ormai noto, organizzato dal Garden Club di Ferrara che verrà presentato nel Salone d’Onore della Facoltà di Architettura in Via Ghiara 36, martedì 4 febbraio alle ore 16.00.

Paola Roncarati, presidente del Garden Club, aprirà l’incontro con una introduzione alla rassegna, a cui seguirà la curatrice Giovanna Mattioli, che illustrerà il tema con le immagini dei giardini presenti nei film in programma e concluderà il prof. Romeo Farinella con un approfondimento.

I tre film in rassegna film saranno proiettati alla Sala Estense in Piazzetta Municipale alle ore 16.00, a partire dal 12 febbraio.

I film che saranno presentati sono stati girati in città emblematiche dal punto di vista urbanistico: Ferrara, la prima città moderna dell’Occidente; Parigi, la città capitale, la Ville Lumière; New York, la metropoli. Città che possiamo dire di conoscere proprio attraverso e grazie al cinema, perché le loro strade, i loro quartieri e giardini, sono stati scelti come luoghi delle riprese di una serie sconfinata di pellicole e di serie televisive.

In questo contesto, ciò che lega i tre film proposti quest’anno, è proprio la presenza significativa del giardino nello sviluppo del racconto. Tutto questo permetterà di fare una serie di considerazioni che non saranno certamente esaustive per un argomento così complesso, ma serviranno come stimolo per chiavi di lettura non convenzionali, che sfruttando la magia della finzione cinematografica, permette di vedere forme e significati che nella realtà non riusciamo sempre a notare.

Si parte mercoledì 12 febbraio con Il giardino dei Finzi-Contini (di Vittorio de Sica, 1970). Un classico della letteratura rivisto dal cinema è un passaggio importante tra parola e immagine, un percorso difficile e complesso che può alimentare, come in questo caso, accesi dibattiti tra autore e regista. In questa rassegna, la visione del film sarà indirizzata non sulle vicende umane e/o letterarie, ma lasceremo parlare la città di Ferrara, attraverso uno dei suoi giardini, quello più famoso, quello più enigmatico, quello che non c’è.

Si continua martedì 25 febbraio con Incontri a Parigi (Les rendez-vous de Paris, di Eric Rohmer,1995): film a episodi, interamente girato nei quartieri della capitale francese, ci racconta tre storie della vita sentimentale dei suoi protagonisti, in altre parole: variazioni sul tema dell’amore messe in scena nei luoghi della città. Particolarmente interessante il secondo episodio dal titolo emblematico: “Le panchine di Parigi”, che ci mostra gli appuntamenti di una coppia fissati esclusivamente nei parchi e nei giardini. Ricordi, oseremo dire, di Jacques Prévert. Un film molto interessante come documento visivo, che ci permetterà di osservare alcuni giardini storici e le fasi iniziali di parchi contemporanei che sono maturati in questi trent’anni. Un entusiasmante viaggio nel tempo.

La leggenda del Re Pescatore (The Fisher King, di Terry Gilliam, 1991), che chiude la rassegna martedì 4 marzo, ci racconta la storia di Jack, spregiudicato conduttore radiofonico che provoca di sponda la morte della amatissima moglie di Perry, docente universitario. Un dramma che li farà letteralmente impazzire. New York è la grande mela dove tutto può succedere e i destini si possono incontrare e tra sensi di colpa e visioni di antichi cavalieri, c’è lo spazio per ricucire il senso della vita, e magari ritrovarlo stesi sul grande prato del Central Park. Un luogo straordinario già visto e analizzato in altre rassegne, che in questo caso si mostrerà in un ruolo fantastico e onirico.

Ciascun film sarà preceduto da una breve introduzione di Giovanna Mattioli.

L’ingresso è aperto a tutti con offerta libera. Iniziativa da non perdere, anche per riavvicinarci alla bellezza.

Per certi Versi / Bucaneve

Bucaneve

 

Strappa il mio vestito di ghiaccio

fammi sentire il calore

mentre mi denudi dal gelo

 

Freddo è il mio corpo

i miei seni gelati

non danno più vita

 

Divieni un sole

che scioglie il mio inverno

io raccoglierò

fiori sotto la neve

Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino (Maggie) 

Cover: Foto di Henryk Niestrój da Pixabay

Hoggar, “spaventoso” gigante tatuato:
dentro al vulcano e aggrappati al cielo

Hoggar, “spaventoso” gigante tatuato:
dentro al vulcano e aggrappati al cielo.

Nel cuore del Sahara addormentato 

Il Sahara è un gigante addormentato che, da milioni di anni, giace supino sulla superficie africana: la sua capigliatura sono le foreste equatoriali; i suoi piedi sono le montagne dell’Atlante; la sua pelle è la sabbia dei deserti, le sue vene sono i torrenti, i suoi nei le oasi e, proprio nel centro, a metà distanza fra il fiume Nilo e l’Oceano Atlantico, c’è il suo ombelico: l’Hoggar, un massiccio montuoso di origine vulcanica di 530mila chilometri quadrati.

Le eruzioni, che ebbero inizio 35 milioni di anni fa e continuarono fino al Quaternario, hanno dato un’incredibile varietà di forme a un corollario di catene concentriche, che, da un’altezza massima di oltre 3.000 metri, degradano in picchi, creste, pareti, guglie, coni, funghi e aghi di rocce via via sempre più basse, sino a raggiungere la piatta superficie del deserto.

Lo scenario naturale di questa barriera geografica ubicata nel sudest dell’Algeria, tra Africa Bianca e Africa Nera, oggi Parco Nazionale Culturale, rappresenta uno dei più straordinari musei di Land Art presenti sulla superficie della Terra.
L’ombelico del gigante è tatuato: sulla sua pelle – ovvero in nicchie, grotte e caverne scavate dall’uomo e dall’erosione millenaria – sono stati tracciati grandiosi cicli pittorici da uomini preistorici che hanno documentato con una quantità impressionante di graffiti e incisioni rupestri, la propria presenza qui, quando il deserto non lo era ancora. Attraverso le immagini eseguite dagli stessi protagonisti, è possibile seguire con continuità un arco di migliaia di anni di storia dell’umanità, partendo dai gruppi di nomadi cacciatori alle prese con le prime esperienze di domesticazione animale e vegetale, fino alla sedentarizzazione, alla diffusione del carro a due ruote, all’impiego del cammello e del cavallo, all’uso dell’alfabeto e della scrittura.

Il Parco Nazionale Culturale dell’Hoggar conserva la forma estetica che, attraverso la descrizione dei loro spostamenti e di ciò che costituiva la loro cultura, i popoli sahariani primitivi dettero al proprio immaginario e può essere considerato un museo a cielo aperto che ospita un’esposizione permanente delle prime illustrazioni prodotte dall’uomo a partire da seimila anni fa.

Il vulcano architetto

Quella che il vulcano, attraverso milioni di anni di mutamenti geologici, ha dato alla propria natura eruttiva, è invece una forma primordiale di modellazione architettonica: il massiccio presenta una alternanza di rocce granitiche con rocce basaltiche fuoriuscite da numerosi crateri vulcanici nelle quote più elevate.

In alcune zone i basalti blu hanno coperto, con spessori di centinaia di metri, gli antichi graniti rosa e azzurri, formando multicolori bacini sovrapposti, strapiombi e cascate di minerali, vòlti e archi di cristalli. Sui versanti più ripidi, strati sovrapposti di lava hanno gettato le fondamenta per intere sequenze di colonnati di basalto perfettamente esagonali. I pendii più morbidi si sono rivelati letti ideali per il rotolare millenario e progressivo di migliaia di gocce di lava solidificata divenute ciottoli perfettamente levigati e sferici come biglie di vetro o pietre rotonde stratificate da striature nere elicoidali a forma di trottola che ne testimoniano la rotazione quando erano ancora molle magma incandescente.

I movimenti del sole, della luna e delle stelle, producono continui giochi di luce che cambiano minuto per minuto: trasparenze, ombre, rifrazioni e riflessi culminano in un’apoteosi di effetti visivi durante le ore serali del tramonto, quando l’intero massiccio vulcanico torna a colorarsi di rosso fuoco, per poi, lentamente, spegnersi nel grigioblu delle foschie notturne.

L’Hoggar o Haggar – dall’arabo: “luogo impressionante” o “spaventoso” – fu scelto fin dai tempi più antichi come luogo di culto e di incontro, ed è sempre stato il regno indiscusso dei popoli nomadi Tuareg, i leggendari “uomini blu” e delle loro mitica regina Tin Hinan.

Altissimo, arido, roccioso, privo di vegetazione, il Parco Nazionale dell’Hoggar emerge dal deserto e dal tempo per unire in sé la bellezza delle espressioni artistiche dei suoi abitanti con la magnificenza della forza creatrice della natura. Le memorie del tempo, della natura e dell’uomo qui coincidono nello spazio eterno, sacro e mistico di una impressionante biblioteca scritta su pietra e costruita dentro all’ombelico vulcanico di un gigante addormentato.

Pére de Foucauld i suoi amici Tuareg

Charles de Foucauld  era amico dei Tuareg e l’amicizia era ricambiata, non aveva motivi per rivaleggiare in materia di spiritualità e religiosità al punto da essere visto come una minaccia o un profanatore o un dissacratore ed è impossibile che i Tuareg potessero essersi spinti ad assumere atteggiamenti di fanatismo religioso contro colui che rispettavamo come un santo, pur se straniero, cattolico e bianco.

In seguito alla sua tragica morte, la maggior parte del suo lavoro risultò occultato in favore di una visione agiografica della sua vita, mettendo in risalto solo gli aspetti del suo percorso spirituale, del suo ruolo evangelico e del suo compito missionario.
Ma la prima pubblicazione in Francia, avvenuta dieci anni dopo la sua morte, fece ben comprendere il lavoro enciclopedico che aveva compiuto: i due volumi che costituivano il corpus delle Poésies Touarègues comprendevano più di 575 poemi e qualcosa come 5.670 versi.

A partire dal 1907, parallelamente ai suoi approfondimenti scientifici sul lessico, sulla grammatica, sui nomi dei luoghi e delle persone, Pére de Foucauld aveva copiato, trascritto, tradotto, commentato e analizzato il compendio di tutti i poemi e di tutte le poesie recitategli a memoria per giorni e giorni dalle donne Tuareg. Aveva condotto la propria ricerca in maniera speculare traducendo i Vangeli ed estratti della Bibbia in lingua Tamasheq e aveva raccolto informazioni ed elementi tali, in dieci anni di continui approfondimenti, per poter stabilire una veridicità e una corrispondenza diretta tra i miti legati alla Tin Inan dei Tuareg e alla Neit degli Egizi che confluivano nell’idea di una dea madre primordiale creatrice e progenitrice dell’umanità.

L’impianto del monumentale lavoro di studioso svolto dal “marabutto bianco dei Tuareg dell’Hoggar”, come è stato definito, che per tragica fatalità della vita, o per drammatica coincidenza del destino, finì di redigere due soli giorni prima della sua morte, non venne mai più ritrovato o ricomposto nella sua integrità.

Ci si avvicina alla verità tanto più ci si allontana dagli uomini. Più ci si allontana dagli uomini tanto più ci si avvicina a Dio.

Gli eremiti cristiani che fra il III e il IV secolo d.C. popolarono il deserto lo chiamavano paradiso e lo trovavano accogliente e favorevole alla longevità: il grande abate Antonio vi visse fino a 105 anni e sosteneva che “chi vive in solitudine sfugge alle pene di tre guerre: quella di ascoltare, quella di parlare e quella di vedere”; Paolo di Tebe ne visse otto in più in una spelonca vicino a una fonte dove cresceva una palma: acqua e datteri furono la sua dieta ma negli ultimi sessant’anni si cibò del tozzo di pane che un corvo gli portava in dono ogni giorno.

Pére Charles de Foucault si sarebbe potuto considerare l’ultimo discendente di quella tipologia di uomini religiosi che scelsero la vita nel deserto come massima forma di lontananza dagli uomini e vicinanza con Dio.
L’esempio di questi monaci, eremiti ed anacoreti non era solo esemplare in quanto rifiuto delle ricchezze mondane e dell’opulenza del potere temporale della chiesa cattolica con scelte di vita ascetiche, ma anche e soprattutto perchè, essendosi recati nei territori più ricchi di reperti ed elementi culturali di storia precristiana, furono anche in grado di sollevare dubbi e argomentazioni sulle radici stesse del cristianesimo, finendo con l’occupare un ruolo malvisto molto scomodo e critico nei confronti dell’autorità ecclesiastica e papale.

Allo stesso modo anche Pére de Foucauld, affascinato da quel misto di paganesimo astrale e cristianesimo primitivo che costiuisce l’essenza culturale dei popoli Tuareg, risultò oltremodo inviso a molti: era convinto che il processo di evangelizzazione potesse attuarsi solo attraverso il rispetto e la comprensione delle altre culture; aveva deplorato apertamente la conoscenza superficiale e la mancanza di rispetto sia da parte dei missionari che da parte dell’amministrazione coloniale; aveva condannato gli eccessi di violenza repressiva operati con le armi dalle forze militari francesi.

Chi ha ucciso l’ultimo degli eremiti del deserto? 

Anche tutto ciò che è possibile apprendere sulla sua fine (1 dicembre 1916) riconduce ad un dato oltremodo scomodo, dal momento che la spedizione mossa contro di lui allo scopo di sequestrarlo, finita in tragedia, venne in realtà organizzata dai partigiani indipendentisti libici vittime di eccessi di violenza repressiva inaudita, operati, con armi proibite, gas nervini e dai primi bombardamenti aerei mai effettuati nella storia dell’aeronautica mondiale, dalle forze militari coloniali italiane contro le popolazioni libiche della Cirenaica e del Fezzan.

I primi ad accorrere sul luogo della razzia e del delitto, dopo la fuga precipitosa degli assalitori e dell’esecutore materiale di quell’assassinio, furono i componenti delle famiglie Tuareg per le quali la residenza fortificata di mattoni e fango era stata costruita a scopo difensivo: all’esterno giaceva il corpo di Pére de Foucault, colpito a morte da un colpo di fucile sparatogli a bruciapelo all’altezza delle tempie; all’interno del fortino mancava tutto quel poco che poteva essere razziato dalla furia – qualche arma, munizioni, provviste, utensili, oggetti personali – ma sparsa ovunque, gettata o strappata, rimaneva abbandonata a terra una scia di fogli di carta di appunti scritti a mano riproducenti lettere, simboli, schizzi, disegni, graffiti, geroglifici, mappe, nomi di luoghi. Luoghi della memoria Tuareg Kel Haggar e luoghi della memoria del loro amato “padre bianco” Charles de Foucauld.

Chi trovò il coraggio di entrare dentro a quella casa di fango come si entra in una tomba profanata, raccolse i fogli dello sciame di scritture che componevano l’enciclopedia delle conoscenze delle genti che parlavano e cantavano un dialetto berbero… che vivevano come famiglie di pastori nomadi in un habitat sconfinato che dai crateri e dalle cime dellAtakor, il cuore del vulcano, degrada sgretolandosi fino al nulla di oceani dominati da dune di sabbia e vento…

In molti, tranne i Tuareg, avrebbero potuto ritenere scomodo il lavoro di Pére de Foucauld, ma nei suoi confronti il ruolo mantenuto dalle genti Tuareg, oltre a quello di ispiratore, è stato anche quello di protettore e conservatore dei suoi scritti, provenienti dal luogo del delitto, dalle mani di coloro che sopraggiunsero per primi subito dopo i fatti e che da allora si resero conto di essere i depositari delle conclusioni a cui giunsero i suoi studi.

Due Vie Lattee aperte a conchiglia

Si fatica a muovere ogni singolo passo sotto il sole cocente, è tanta la luce che si fatica a tenere aperti gli occhi, ma quando nel deserto le fasi lunari illuminano le notti a giorno e si decide di viaggiare animali e uomini fianco a fianco, lo sforzo è minore, il passo sostenuto, lo sguardo si alza e alla vista appare lo specchio del cielo riflesso sulla terra: due vie lattee aperte a conchiglia una sopra l’altra.

Se di notte decidi di rivolgere lo sguardo fisso al cielo, la luce, l’immensità e la vicinanza della Via Lattea ti creerà un’impressione di vertigine.

Se ti corichi a terra e la osservi, la sensazione non è di sentirti sdraiato, ma aggrappato con la schiena di fronte all’incombere di un baratro infinito di stelle, pianeti, costellazioni e nebulose che occupano tutto il campo visivo.

Ma è l’alba il vero traguardo da raggiungere quando il chiarore dell’aurora si riflette sulle superfici calcinate e diviene abbagliante e non si può non rimanere estasiati dalla visione di paesaggi da genesi primordiale che appaiono dal bianco assoluto come incantesimi di chimere che svaniscono.

Dal sole bisogna difendersi o ripararsi, dalla luna no. Non solo: nel deserto quella del sole non è l’unica luce: la luna è il sole argenteo delle notti. Blu, azzurro, turchese e indaco sono i colori di noi “Uomini Blu”, gradazioni notturne rifratte o emesse dalla luna, dalle stelle e dal cristallo contenuto in ogni granello di sabbia da calpestare scivolandoci sopra o da soffermarsi a leggerlo e studiarlo come si studia e si legge un punto su una mappa celeste.

Il deserto è il luogo terrestre più lontano dal mondo e più vicino al cielo, allo spazio. Luogo del pre e luogo del post. E’ per questo che è mistico e sacro: Punto di non ritorno di un orgasmo cosmico.

Cover: Il Massiccio dell’Hoggar nel deserto del Sahara in Algeria – immagine Wikimedia Commons

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LE FRAGOLE DI LONDRA
Il 25 febbraio Romeo Farinella presenta al Libraccio il suo ultimo libro.

LE FRAGOLE DI LONDRA
Il 25 febbraio alle 17,30 Romeo Farinella presenta il suo ultimo libro


Sinossi

Le relazioni tra città e disuguaglianze vanno inquadrate in una riflessione sui temi posti dai cambiamenti climatici in corso e dalla transizione ecologica. A queste relazioni fanno da sfondo le retoriche riferite ai processi di rigenerazione o di “fondazione” urbana generati dal modello neoliberista che si sta imponendo non solo nel mondo occidentale.
La rigenerazione urbana destinata alle classi più ricche, nella logica della gentrificazione, e la privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio pubblico, la segregazione socioeconomica ed etnica dei gruppi vulnerabili e quella volontaria dell’élite, la sostenibilità come strumento di esclusione (eco-gentrificazione) e i processi di greenwashing ne rappresentano i caratteri più salienti.
Tre tappe segnano questo percorso critico: la città industriale e la rottura dell’equilibrio uomo-ambiente; gli intrecci tra urbanizzazione, cambiamenti climatici e disuguaglianze; le retoriche eco-urbanistiche e il diritto alla città.

Anticipiamo due brani del volume di Romeo Farinella

I . Disuguaglianze e politiche urbane

Dal World Inequality Report 2022 emerge che l’1% delle persone più ricche del pianeta emette una quantità di gas serra corrispondente al 50% dei più poveri. Il 10% dei francesi più agiati producono il 25% del totale delle emissioni mentre i più poveri in media il 5%. Quel 10% conduce certamente una vita più sana e formalmente più “sostenibile”. Lo si riscontra nella scelta della qualità dei prodotti per l’alimentazione, ma anche per il proprio benessere personale o per il tempo libero e i servizi alla persona.

La componente più povera del nostro mondo, nonostante conduca una vita certamente meno sana nella scelta dei prodotti alimentari, nella gestione dei rifiuti, nelle forme di mobilità, in termini di bilancio globale è molto più “ecologica” della classe media e di quella economicamente più agiata. La ricerca dell’obiettivo zero emissioni non può populisticamente risolversi in misure che colpiscono percentualmente, alla stessa maniera, tutti gli strati della popolazione, ma necessita di strategie che tengano conto che, in termini di bilancio complessivo, le azioni proposte non incidono allo stesso modo sulla popolazione (ricchi/ poveri) o sulla geografia economica (Occidente/ Global South). Andrebbero, quindi, evitate misure che pesano di più sui poveri, come la carbon tax o la flat tax e, prima di tutto, occorrerebbe rivedere un sistema fiscale che genera e moltiplica le disuguaglianze perché non adegua le imposte ai diversi livelli di reddito. Al contrario, andrebbero valutate preliminarmente le disuguaglianze, tra paesi e gruppi sociali, per proporre delle strategie di adattamento, di tassazione, di redistribuzione delle ricchezze, proporzionali al contributo di ogni gruppo sociale in termini di emissioni di gas serra . La necessità, dunque, che chi inquina paghi i costi della decarbonizzazione appare politicamente non più rinviabile, come già sosteneva nel 2015 l’economista Thomas Piketty .

L’evoluzione demografica in corso non gioca a favore del miglioramento delle città e allontana sempre più il raggiungimento dell’obiettivo 11 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. La prospettiva di arrivare al 2100 con una popolazione mondiale oscillante tra dieci e undici miliardi di persone deve fare i conti anche con l’invecchiamento, visto che le aspettative di vita per gli over 65 sono in aumento mentre sono in calo le nascite, come ci dicono i dati del World Population Prospect 2024 delle Nazioni Unite .

Le previsioni demografiche in realtà sono discordanti e altre fonti indicano per il 2100 una oscillazione tra gli otto e i nove miliardi di popolazione; in ogni caso le città dovranno adattare i loro sistemi di salute e protezione sociale per fornire servizi e spazi adeguati e sicuri a queste fasce d’età. Inoltre, se le loro dimensioni cresceranno e se ne nasceranno di nuove, il consumo di beni e di suolo aumenterà ancora più velocemente. È necessario, dunque, impegnarsi in una sfida enorme di fronte alla scarsità di risorse e all’intensificarsi dei problemi ambientali. Un cambiamento per il quale il mondo non sembra preparato.

Verso quale modello di sviluppo dovremmo quindi orientarci se la nostra finalità, oltre a quella di salvare il pianeta, comprende preliminarmente anche la lotta alle disuguaglianze? Si tratta di fare emergere un tema sempre latente, ma fondamentale se di nuovo paradigma dobbiamo parlare, ovvero il rapporto tra democrazia e capitalismo. Consapevoli che la parola “democrazia” può indicare esperienze e dottrine diverse4, il “capitalismo” non è certamente in crisi, anzi rafforza sempre più il suo ruolo di “motore di prosperità selettiva”, come sottolinea Nadia Urbinati . Un “meccanismo” in grado di modificare nel corso della sua storia le condizioni e i presupposti che generano profitto, consapevole che la povertà dei “molti” è la condizione per il benessere dei “pochi”.

Nel corso del Novecento, nei paesi occidentali le differenze si sono certamente attenuate (ma non sono sparite) mentre le disuguaglianze e la povertà, come già ribadito, si sono rafforzate altrove, grazie anche al dominio dei modelli di sviluppo neoliberali. La transizione ecologica, con l’enfasi posta sul tema dell’innovazione tecnologica, che renderà smart ogni nostra azione quotidiana, in realtà non si sta configurando come un diritto per tutti e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso.

II . “Futuro ancestrale”. Oltre la sostenibilità

La sostenibilità è in fondo un concetto del capitalismo. La scrittrice e giornalista brasiliana Eliane Brum, riferendosi al pensatore brasiliano di origine indigena, Ailton Krenak, lo ribadisce chiaramente quando scrive che: “questo è il termine impiegato da chi ritiene possibile uscire dall’abisso senza rinunciare al sistema capitalistico che ci ha portato sull’orlo dell’abisso. È un discorso appetibile affinché, grazie a qualche alterazione cosmetica, tutto possa proseguire senza eliminare la disuguaglianza strutturale tra generi, razze e specie.”.

Secondo Krenak il mito della sostenibilità è una narrazione creata dalle aziende capitalistiche per conquistare i consumatori. Il racconto si fonda sull’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia: l’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che sia sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?

L’idea della ancestralidade introdotta da Krenak è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità; si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile. Vivendo è impossibile non lasciarne ma questo non significa che non ci si debba porre il problema di cercare di lasciarne il meno possibile. La riflessione sulle impronte lasciate dal nostro sviluppo è una chiave di lettura per comprendere le trasformazioni delle culture e dei territori. Secondo André Corboz, il territorio non è un dato bensì il risultato di diversi processi. Se un tempo il territorio si modificava anche spontaneamente, l’azione dell’uomo ha preso il sopravvento sui processi di modificazione, quindi il territorio è un progetto perché esprime una volontà di trasformazione. Questa considerazione determina la necessita di definire l’insieme di obiettivi ed il quadro valoriale ed etico a cui ci riferiamo quando ragioniamo sul progetto.

Il capitalismo neoliberista ha ben chiara la sua prospettiva progettuale e la sta attuando limitando la sfera pubblica a favore del privato, sostituendo alle politiche pubbliche interventi a vantaggio di banche e imprese, esautorando i parlamenti e i poteri legislativi a vantaggio della efficacia delle decisioni politiche, rafforzando gli apparati comunicativi fautori di una informazione anestetizzante relativamente ai conflitti e alle crisi in corso.

Le politiche urbane rappresentano uno dei campi privilegiati per l’azione progettuale, sempre più attraversata da una retorica imperante che svuota di significato anche le categorie riprese dalla natura (“foresta”, “bosco”, “albero”) per ridurle ad aggettivi subordinati ad interventi che hanno ben altre finalità. E la risposta non può essere Fitopolis di Stefano Mancuso, la cui tesi sembra una banalizzazione di un rapporto complesso tra città e natura. Secondo il botanista, riprendendo i dati del Copernicus Climate Change Service, per risolvere il problema della crisi climatica dobbiamo piantare cento miliardi di alberi. Piantare alberi attorno alle città è una soluzione per ridurre le emissioni climalteranti ma ci sarebbe anche un’altra strada, afferma Mancuso, ridurre tali emissioni intervenendo sul modello di sviluppo ed energetico.

Questo avrebbe un profondo impatto sull’economia delle nazioni e richiederebbe un tempo ancora lungo oltre ad un impegno globale, quindi meglio soprassedere. Del resto, Mancuso usa genericamente il termine “Antropocene” per definire il processo di alterazione del pianeta da parte dell’uomo, ma l’impatto di un nordamericano o di un europeo, come già ribadito più volte, non è lo stesso di un africano o di un indio, che sono di fatto vittime di questa situazione, al contrario dei “bianchi”. Le responsabilità umane che ritroviamo dietro la crisi climatica o si precisano e si contestualizzano economicamente, politicamente e socialmente o non serve a nulla ribadirle genericamente. Il problema oggi non è solo “ecologico”, è prima di tutto “socio-ecologico” o “socio-politico-ecologico” ed attiene in maniera diretta all’incidenza delle disuguaglianze nelle dinamiche di cui stiamo parlando.

[…] Il rischio di trasformare il “piantar alberi” in una gigantesca operazione di greenwashing è pertanto un pericolo reale; inoltre si pone un altro problema: dove trovare i cento miliardi di alberi da mettere attorno alle aree urbane del pianeta? Nel 2015 si faticò a trovare gli alberi per l’EXPO di Milano e supponendo di avere oggi i denari per pagare ai vivaisti la messa a dimora dei miliardi di alberi necessari, tra quanti anni questi saranno pronti per essere impiantati? E come faranno i paesi africani a piantare alberi, con i loro bilanci strozzati dai debiti contratti con i paesi occidentali che si arricchiscono sulle loro miserie?

La lentezza con cui procede l’impiantazione della foresta del Sahel per bloccare l’avanzata del deserto, di cui abbiamo parlato, lo testimonia. In Fitopolis si afferma che le città del futuro, siano esse costruite ex novo o rinnovate, devono trasformarsi in luoghi dove il rapporto fra piante e animali si riavvicina al “rapporto armonico” (sic!) che troviamo in natura. Ma siamo certi che dobbiamo costruire nuove città, non bastano quelle che abbiamo?

Le città mal costruite dall’uomo, prevaricanti nei confronti degli alberi e della natura, non sono nate per caso o per volontà divina ma sono l’esito di processi culturali e politici che, in particolare dopo la rivoluzione industriale, hanno assunto le dimensioni e le caratteristiche che abbiamo cercato di descrivere nel primo capitolo. Vi sono, quindi, delle responsabilità che non sono genericamente umane, ma sono associabili a specifiche forme di razionalità del pensiero occidentale, ad esempio il capitalismo e il neoliberismo. L’alterità e il dominio dell’uomo nei confronti della natura non è un dato generalizzabile a tutta la specie umana, come vedremo le culture indigene si sono sempre poste come componenti della natura e della foresta, senza ribadire la supremazia della specie umana sulle altre. Le città nuove, marcatamente neoliberiste, che abbiamo descritto precedentemente sono ricche di alberi e vegetazione ma si basano su processi escludenti e dunque su di una selezione di censo, se il concetto di classe sembra troppo marxista.

In copertina: Brick Lane, East End of London – ph. Romeo Farinella. 

Nota di redazione
Tra i molteplici impegni e attività, Romeo Farinella trova il tempo di collaborare con assiduità a questo quotidiano. Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Amnesty International all’Unione Europea: “Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”

Amnesty International all’Unione Europea:
“Rispetti il diritto internazionale. Basta sostenere il genocidio”.

È la prima volta nella storia dell’Unione che i suoi leader ricevono il rappresentante di uno stato il cui primo ministro e l’ex ministro della difesa sono destinatari di mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e il cui esercito sta attivamente commettendo crimini di diritto internazionale, tra cui il genocidio.

È inconcepibile che l’Unione europea stenda il tappeto rosso al ministro degli Esteri Sa’ar, il cui superiore, il primo ministro Netanyahu, è ricercato dalla Corte penale internazionale. Le discussioni sul futuro delle relazioni con Israele dovrebbero basarsi anzitutto sull’insistenza affinché Netanyahu e Gallant affrontino la giustizia per i crimini di cui sono accusati, oltre che sul rispetto del diritto internazionale da parte di Israele e sulla fine dell’apartheid. I leader dell’Unione europea devono dare priorità al loro impegno verso il diritto internazionale, i diritti umani e la Corte penale internazionale rispetto agli incontri diplomatici attentamente orchestrati con Israele”, ha dichiarato Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio Istituzioni europee di Amnesty International.

“Il vergognoso silenzio seguito alle minacce alla Corte penale internazionale e l’assenza di misure concrete e urgenti che avrebbe già dovuto adottare dopo le oltraggiose sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, danno l’impressione che l’Unione europea abbia dato priorità alle relazioni con un governo implicato nel commettere genocidio e crimini di guerra, piuttosto che al sostegno di un’istituzione che persegue l’accertamento delle responsabilità individuali per questi crimini. I leader dell’Unione europea dovrebbero decidere quali misure adottare per evitare di contribuire al genocidio, all’apartheid e all’occupazione illegale israeliana, invece di nascondere tutto sotto il tappeto per una stretta di mano diplomatica a Bruxelles”, ha concluso Geddie.

Ulteriori informazioni

Nonostante la Corte internazionale di giustizia abbia chiaramente delineato la responsabilità degli stati terzi di prevenire scambi commerciali e investimenti che contribuiscano al mantenimento dell’occupazione illegale, l’Unione europea continua a commerciare e investire negli insediamenti israeliani nel Territorio palestinese occupato.

Per maggiori informazioni, si vedano l’appello di Amnesty International all’Unione europea, firmato da oltre 160 organizzazioni della società civile, e la lettera del 10 febbraio, in cui si esorta i leader dell’Unione europea a utilizzare questo incontro per presentare a Israele richieste chiare affinché ponga fine alle gravi violazioni del diritto internazionale e garantisca giustizia e riparazione per i crimini commessi, evidenziando al contempo le conseguenze nelle relazioni tra Unione europea e Israele in caso di mancanza d’azione dell’organismo europeo.

In copertina: Il Ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar (Foto di Wikimedia Commons)

Parole a capo
Bruno Montanari: alcune poesie da “Spigolature”

Spigolature

Io non solo credo che la poesia sia strettamente legata alla realtà, ma anche credo che la realtà abbia bisogno della poesia per essere reale, per essere tale
(Piero Bigongiari)

I minuti

mai si fermano.
Continuo è il loro ticchettare.
Anche nel buio vanno
tenuti per mano dalle stelle.

Sono le sei!
Già vaga la luce
per i sentieri del cielo.
Bussa alla finestra
una nuova aurora
con il sapore
di un altro giorno.

Le strade sono ancora vuote,
in giro non c’é nessuno.
Il tempo si muove veloce,
presto il rumore
camminerà tutto intorno.

 

*

 

Per città

A lungo
si è confuso il mio andare
tra una folla di ombrelli aperti.
Ora la pioggia
ha smesso di cadere.

Non piove più,
ma il cielo è buio,
ancora pieno di nuvole.
Vado tra i passi della gente
che in fretta per la strada
cammina
senza fermarsi a parlare.

 

 

 *
Noto
scenari economici nuovi
e sono pieno di incertezza
per l’aprirsi delle frontiere,
il continuo migrare delle genti
ed il chiudere
e lo spostare delle fabbriche
in altri paesi.
Vedo…
la strada della gente che lavora
farsi sempre più scivolosa
e stretta,
per la grave crisi economica
e la classe politica italiana
non sempre preparata
e a volte corrotta.
*
Porta il sapore dell’infanzia
e di un mondo perduto la neve.
Di quando la mangiavo
raccolta nel palmo della mano,
o la mettevo nel bicchiere
con un poco di vino rosso
per fare la granatina.
Di quando Franco posava
le trappole
per catturare i passeri
ed io, che non volevo,
correvo avanti e indietro
per farli scappare.
Di quando noi amici
eravamo come fratelli
ed il poco pane
che insieme dividevamo
aveva un altro sapore.
*
E venne Uno
ad annunciare
che siamo tutti uguali,
non fu creduto
e fu messo in croce.
Dopo duemila anni,
l’uomo ancora non capisce
che siamo fratelli
e, con la storia
dei ricchi e dei poveri
dei servi e dei padroni
dei bianchi e dei neri,
continua a piantare croci.

 

Bruno Montanari (1941) di Madonna Boschi / Vigarano Mainarda (FE). L’unione con la poesia è avvenuta nel 2008. Prima non aveva mai scritto. Da allora ha pubblicato oltre 50 libri con diversi editori. Un libro si trova presso la Biblioteca Vaticana e due libri presso la Biblioteca del Presidente della Repubblica. Molti giudizi favorevoli sui suoi lavori sono apparsi per diversi anni nella rivista internazionale “Poeti e poesie”. In “Parole a capo” sono state pubblicate altre sue poesie il 23 luglio 2020.

NOTA: “Parole a capo” è una iniziativa dell’Associazione culturale “Ultimo Rosso”. Per rafforzare il sostegno al progetto invito, nella massima libertà di adesione o meno, a inviare un piccolo contributo all’IBAN: IT36I0567617295PR0002114236

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione gratuita nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 272° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Verso la Giornata Nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta

Dal 1986 il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani promuove l’impegno dei Comuni, delle Province e delle Regioni italiane per la pace, i diritti umani, la solidarietà e la cooperazione internazionale, attraverso: la promozione dell’educazione permanente alla pace e ai diritti umani nella scuola, l’organizzazione della Marcia per la pace Perugia-Assisi e delle Assemblee dell’Onu dei Popoli, la promozione della diplomazia delle città per la pace, il dialogo e la fratellanza tra i popoli, lo sviluppo della solidarietà internazionale e della cooperazione decentrata contro la miseria e la guerra, la promozione di un’informazione e comunicazione di pace, la campagna per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, l’impegno per la pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo, la costruzione di un’Europa delle città e dei cittadini, strumento di pace e di giustizia nel mondo.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani anche quest’anno promuove la Giornata nazionale della Cura delle Persone e del Pianeta, che è arrivata alla sua quarta edizione. Sabato 1° marzo sarà dedicato alla riscoperta e alla promozione del valore alla cura di noi e degli altri, della città e del pianeta in cui viviamo. “In un mondo in guerra, si legge nell’appello del Coordinamento, mentre siamo costretti a soffrire le conseguenze di decenni di  individualismo e incuria, come dice Papa Francesco, dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono.  Nell’ora della crisi più grande, la cura è la risposta più efficace. La cura reciproca è il modo più concreto che abbiamo per fronteggiare i problemi, ridurre le violenze e le sofferenze e cambiare le cose, qui e ora, senza aspettare che lo facciano altri, senza aspettare domani. Per questo la dobbiamo riscoprire, studiare e imparare, organizzare e promuovere.”

Pensiamo alla cura degli ammalati e della salute di tutte e di tutti, alla cura dei più piccoli e delle giovani generazioni, alla cura dei più fragili e vulnerabili, degli anziani e delle persone e famiglie in difficoltà economiche, alla cura delle donne vittime di tante violenze e discriminazioni, alla cura del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici,   alla cura della nostra economia, delle nostre città e quartieri, dell’ambiente e dei beni comuni che non sono solo nostri.
Pensiamo ai popoli in guerra, a Gaza e nel resto della Palestina e del Medio Oriente, in Ucraina e nel resto del mondo, ai migranti, alle persone perseguitate dalle guerre, dall’oppressione, dalla miseria e dalle catastrofi ambientali.

Il 1 marzo, migliaia di studenti e insegnanti, di ogni parte d’Italia, usciranno dalle loro scuole per andare a conoscere e ringraziare le persone che si prendono cura di noi e degli altri nei loro luoghi di lavoro e volontariato: pronto soccorso, ospedali, case per anziani, centri specializzati di cura, mense, empori Caritas, centri di accoglienza dei migranti, centri antiviolenza e case delle donne ma anche sedi della rai, comuni, province, tribunali, librerie, canili. Alcuni studenti e insegnanti faranno esperienza diretta di cura degli altri o dell’ambiente (ad esempio: servire ad una mensa per i poveri e senzatetto, ripulire, riordinare e abbellire uno spazio pubblico segnato dall’incuria, dall’abbandono o dall’inverno).

Altri ancora costruiranno la mappa della città della cura andando a scoprire e “illuminare” le persone, le pratiche e i luoghi di cura del territorio che contribuiscono al nostro ben-essere personale e collettivo. I partecipanti alla Giornata promuoveranno la cultura della cura raccontando in tempo reale, sui social network, gli incontri e le cose viste e sentite, amplificando così le voci e le storie delle persone incontrate, le loro attività e le loro idee sulla cura #iohocura.

Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani invita tutti i Sindaci e i Presidenti degli Enti Locali e delle Regioni ad aderire formalmente alla Giornata Nazionale della Cura delle persone e del pianeta, a registrare e diffondere  video-messaggi per dare valore alla cura e promuovere la cura della comunità e del territorio; a consegnare agli alunni/studenti della propria città il “Quaderno degli esercizi di cura”: un originale strumento di educazione civica per sviluppare l’attenzione, il rispetto, la responsabilità, la presenza, l’ascolto, la comprensione, l’empatia, l’uso delle parole, il dono, la generosità e il coraggio.

Qui per approfondire

Pubblicato su pressenza il 20.02.25

Per leggere tutti gli articoli di Giovanni Caprio su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

 

Referendum sulla Cittadinanza:
cosa prevede e quando si vota

Ok dalla Consulta al referendum sulla cittadinanza:
cosa prevede e quando si vota.

Il quesito referendario interviene sulla legge numero 91 del 1992 per abrogare l’intero articolo 9, comma 1, lettera f) e alcune parole alla lettera b). Ovvero esclusivamente la parte relativa al requisito temporale.
Oggi infatti, gli stranieri maggiorenni che risiedono in Italia e che rispettano una serie di requisiti (dalla conoscenza della lingua alle condizioni economico-sociali) devono dimostrare di aver vissuto nel Paese per dieci anni consecutivi. Il referendum chiede di dimezzare questo periodo, a cinque anni, lasciando intatti gli altri requisiti. 

Per la Consulta, “il quesito è omogeneo, chiaro e univoco”, si legge nella sentenza depositata quest’oggi. “La richiesta referendaria non contraddice neppure la natura abrogativa del referendum, che la Corte ha costantemente ritenuto non può essere utilizzato per costruire, attraverso il quesito, nuove norme non ricavabili dall’ordinamento. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la nuova regola non sarebbe del tutto estranea al contesto normativo di riferimento”.

I giudici hanno motivato l’ammissibilità spiegando che in caso di approvazione del referendum “verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e l’adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di atto discrezionale di “alta amministrazione” del provvedimento di concessione della cittadinanza”.

Peraltro, prima della legge del ’92, il tempo minimo di residenza per diventare cittadino italiano era fissato a cinque anni, come ricorda la stessa Corte. “La normativa di risulta, pertanto, sarebbe pienamente in linea con un criterio già utilizzato dal legislatore”, hanno puntualizzato i giudici.

Quando si vota

Dopo l’ok della Consulta, il prossimo appuntamento coincide con la data in cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella comunicherà quando si andrà a votare. I cittadini saranno a chiamati ad esprimersi sui cinque referendum, che come prevede la legge, dovranno tenersi  in una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Gli altri referendum

I giudici avevano dichiarato inammissibile quello che intendeva abrogare la legge sull’Autonomia differenziata, su cui la stessa Consulta si era pronunciata a novembre, bocciando diversi aspetti della norma.
Ammissibili invece i quattro quesiti sul lavoro (jobs act, indennità di licenziamento illegittimo, contratti di lavoro a termine e responsabilità dell’imprenditore committente) e quello sulla cittadinanza. Quest’ultimo chiede la riduzione da 10 a 5 anni del tempo di residenza necessario per chi intende richiedere la cittadinanza.

Ora comincia il difficile

Naturalmente raccogliere le firme e andare alle urne non basta, i referendum bisogna vincerli, e trattandosi di referendum abrogativi, occorre prima di tutto portare al voto la metà più uno degli aventi diritto.  E’ un obiettivo difficile ma non impossibile. Anche se La destra, la stessa che a parole si  lamenta dell’astensione, non si batterà per il Sì, ma per far fallire i referendum  inviterà gli italiani a disertare le urne e ad andare al mare.
Non conosciamo ancora da data dei referendum, ma non aspettiamo gli ultimi quaranta giorni. La campagna per il Sì cominciamola subito, da oggi, ognuno di noi. 

Interregionali e Jet privati

Interregionali e Jet privati

Oggetto: Parenzo e l’Interregionale

Seguendo (18/02) la rubrica radiofonica “La Zanzara”,  condotta da Giuseppe Cruciani, ho udito uno scambio di invettive tra David Parenzo, noto volto de “la 7” , e un ascoltatore che contestava gli stipendi faraonici dei dirigenti dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).

Secondo Parenzo i dirigenti dell’OMS sono pagati equamente e dovrebbero pure viaggiare su jet privati, vista la loro preziosa opera, mentre i poveretti (il termine usato era : “gli str...”) che stupidamente contestano senza fondamento le spese eccessive dell’OMS  – come l’ascoltatore – meritano di viaggiare sui treni interregionali.

Non entro nel merito della querelle, ma essendo un lavoratore che si sposta sui treni interregionali, mi sono sentito profondamente offeso dalle parole di Parenzo.

Parole degne di un radical-chic che, se prende il treno, viaggia di certo in prima classe e guarda dall’alto in basso i poveretti che, come il sottoscritto, non viaggiano – ahimè – sulla Freccia Rossa.

Giuseppe Grandi

In copertina: foto Pxhere.com su licenza Creative Commons

Sapere altro, sapere oltre:
la scuola di formazione politica di Attac

Sapere altro, sapere oltre:
la scuola di formazione politica di Attac.

Una proposta per i giovani di Attac Italia

Sapere altro per non accontentarsi della narrazione dominante e continuare a credere che un altro mondo sia possibile
Sapere oltre per non accettare la semplificazione della realtà ed essere radicali, ovvero capaci di andare alla radice dei problemi

Perché una scuola di formazione politica
Nell’epoca della cosiddetta scomparsa delle ideologie, l’unica narrazione rimasta in campo è quella basata sull’idea che la società debba essere regolata dal mercato e che l’individualismo sia la cifra delle relazioni fra le persone.
Poiché, al contrario, pensiamo che la vita delle persone si svolga dentro la reciprocità e l’interdipendenza tra le stesse e che la società debba essere il luogo del “prendersi cura con”, ovvero della costruzione comune dell’interesse generale, riteniamo che una scuola di formazione politica possa essere un valido strumento per contribuire a costruire questo nuovo orizzonte.

Perché una scuola rivolta alle giovani e ai giovani
Una scuola di formazione non può che essere rivolta alle persone che attraversano una fase della vita dentro la quale la formazione assume un ruolo prioritario.
Ma c’è un’ulteriore motivazione legata alla particolare situazione che la realtà giovanile si trova a vivere in quest’epoca: una realtà di precarietà delle condizioni materiali che rende estremamente più complicata una percezione progettuale della propria esistenza, spesso vissuta nel “qui ed ora” e dentro accadimenti nei quali è quasi impossibile trovare una chiave di lettura, un “prima” che aiuti a disvelare un “poi” e ad attivarsi per cambiarlo.

Siamo inoltre immersi in un periodo di contraddizioni drammatiche: un’epoca nella quale la guerra sembra diventata lo strumento per ridisegnare i rapporti di forza geopolitici, la crisi eco-climatica investe la vita quotidiana delle persone, la diseguaglianza sociale non ha precedenti nella storia. Capire come siamo giunti qui, come tutte queste crisi siano tra loro collegate e cosa si possa fare per immaginare un’alternativa di società è fondamentale per una generazione di giovani che si affaccia al futuro.

Proposta metodologica
La scuola di formazione politica si rivolge alle giovani e ai giovani dai 16 ai 34 anni.
E’ costituita da sezioni di indirizzo, ciascuna delle quali viene articolata in moduli tematici.
Ogni modulo tematico viene affrontato attraverso un ciclo di quattro-cinque lezioni online.
Ogni modulo si avvarrà del contributo di docenti qualificate/i e di persone esperte della tematica trattata.
La partecipazione a ciascun modulo richiede un’iscrizione preventiva con il pagamento di una quota di 10,00 euro.
Alle partecipanti e ai partecipanti di ciascun modulo verranno forniti materiali inerenti la tematica trattata.
Al termine di ogni modulo è previsto un incontro online fra le/i partecipanti per discutere assieme sull’esperienza vissuta e sulle sue possibilità di evoluzione, anche attraverso la realizzazione di laboratori permanenti di approfondimento.

Articolazione della Scuola
La scuola di formazione politica sarà articolata in tre sezioni di corsi:
1. Sezione “didattica”
E’ una sezione che mira ad affrontare una tematica, realizzando moduli che ne analizzano i diversi aspetti e forniscono gli strumenti base per comprenderla e attivarsi di conseguenza.
2. Sezione “storica”
E’ una sezione che mira ad affrontare una tematica dal punto di vista storico, realizzando moduli che ne analizzano i percorsi attraverso i quali è nata e si è affermata, si è modificata nel tempo, si è trasformata e cosa esprime oggi.
3. Sezione “movimenti”
E’ una sezione che mira ad affrontare le esperienze concrete dei movimenti sociali, realizzando moduli che ne analizzano le lotte e le proposte, le pratiche di partecipazione e di convergenza, i contributi alla costruzione di un’alternativa di società.

Prima fase
Verrà approntato un Form digitale per verificare, rispetto alla fascia di utenza prevista, quali siano i principali bisogni formativi. Il Form verrà pubblicato sul sito dell’associazione e indirizzato a diverse realtà associative e di movimento, in modo da raggiungere il massimo della diffusione possibile.
Seconda fase
Una volta identificati i bisogni formativi evidenziati dalla partecipazione al Form digitale verrà elaborato un programma annuale di corsi per ciascuna delle sezioni previste nell’articolazione della scuola.

Attac Italia

Sapere altro, sapere oltre: scuola di formazione politica per giovani

PRIVATO È PEGGIO!
RIPUBBLICIZZIAMO LA GESTIONE RACCOLTA RIFIUTI A FERRARA!

PRIVATO È PEGGIO!

FLASH MOB
SABATO 22 FEBBRAIO – ORE 10
davanti alla sportello di Hera – viale Cavour 62

Hera Spa sembra avere il monopolio dei servizi nella nostra città: servizi pubblici che continuano ad essere dati in gestione al privato. Ma la verità è che “PRIVATO E’ PEGGIO” .

Lo vediamo tutti nelle bollette del servizio rifiuti, maggiorate dagli utili del gestore privato, e da una qualità scadente del servizio raccolta rifiuti, poco attento all’ambiente e alla salute dei cittadini,
e quindi alla qualità della vita.

RIPUBBLICIZZIAMO LA GESTIONE RACCOLTA RIFIUTI A FERRARA!

* PER LA RIPUBBLICIZZAZIONE DEL SERVIZIO DEI RIFIUTI URBANI
* PER FAR USCIRE HERA DAL SERVIZIO
* PER LA RACCOLTA PORTA A PORTA
* PER DIMEZZARE L’INCENERIMENTO DEI RIFIUTI

 

Chiuso il cracking di Eni-Versalis:
Brindisi si confronta sul futuro della chimica

Chiuso il cracking di Eni-Versalis:
Brindisi si confronta sul futuro della chimica.

Lo stop al cracking brindisino, anticipata di un ulteriore mese rispetto alla prevista per marzo 2025, ha suscitato forte preoccupazione tra lavoratori, sindacati e istituzioni. In risposta, la Cgil di Brindisi ha proclamato lo stato di agitazione e il blocco delle prestazioni straordinarie per i lavoratori dell’indotto, uomini e donne impiegate in manutenzioni e ristrutturazioni, trasporti, logistica e servizi, che rappresentano una fetta importantissima della forza lavoro nelle aree dei petrolchimici.

Il 15 febbraio in assemblea davanti ai cancelli

Fin dalle prime luci dell’alba del 15 febbraio i lavoratori di tutte le categorie presenti nell’area industriale si sono ritrovati davanti alla portineria del petrolchimico per discutere i nodi più critici della vertenza e ribadire il proprio no alla chiusura del cracking. Nella riunione di coordinamento di tutti i delegati di fabbrica si è cercato di sintetizzare una posizione unitaria e più forte in difesa dell’occupazione e del futuro della chimica di base. Nei prossimi giorni, assicurano fonti sindacali, proseguiranno le riunioni congiunte delle diverse confederazioni presenti nell’area.

Nei giorni precedenti la Cgil e le categorie coinvolte sono tornate a chiedere al Governo il riconoscimento dell’area di crisi complessa per il territorio di Brindisi e, all’Eni, impegni chiari su un risarcimento della collettività attraverso forestazioni urbane, elettrificazione dei mezzi pubblici, posa di pannelli solari sui terrazzi di scuole ed enti locali.

Lavoratori in assemblea nell’area del petrolchimico brindisino

Una crisi che minaccia l’intero settore

La chiusura dei cracking di Brindisi e Priolo segue una serie di dismissioni analoghe avvenute negli ultimi anni a Porto TorresGela e Porto Marghera. Questa scelta rischia di compromettere la tenuta dell’intero settore della chimica di base, con ripercussioni su siti strategici come Ferrara, Mantova e Ravenna. Secondo il sindacato, il mancato mantenimento degli impegni sugli investimenti futuri e l’assenza di garanzie occupazionali rappresentano, in tutta Italia, una grave minaccia per 20 mila lavoratori.

Risulta che Versalis voglia lasciare in marcia l’impianto di produzione del polietilene e pertanto l’etilene che dovrà alimentare l’impianto di polimerizzazione dovrà essere necessariamente importato dall’estero. La chiusura del ciclo del cracking in Italia esporrà con certezza il nostro sistema industriale al reperimento di materie prime dall’estero esponendolo all’imprevedibilità del mercato.

Leggi anche: Quanto è importante il cracking per l’industria italiana?

 

In Absentia, continua presenza.
L’ultima raccolta di Alessandro Canzian

In Absentia, continua presenza.
L’ultima raccolta di Alessandro Canzian

Se c’è una cosa che è possibile sperimentare ‘facilmente’ con la poesia, soprattutto in presenza di testi brevi, è l’efficacia di una lettura completa fatta cioè con gli  occhi, con la bocca (dunque voce e orecchie) e con la mente.

Per maggiore chiarezza diciamo che con il termine mente, non bisogna limitarsi al ‘nostro cervellino’ ragionevole, quello che fa i calcoli, che guida l’auto o che vuole sapere come vanno a finire le cose. La mente nella poesia è sempre una questione di sensi-cuore-vita: è certamente testa ma unita a intuizione, percezione ed emozione.

In genere quando leggiamo un testo (saggistico, narrativo, giornalistico, etc…) sperimentiamo la lettura vorace degli occhi, soprattutto se si è animati da una sorta di automatismo a scoprire chi è, per così dire, … ‘l’ assassino’. Raramente sperimentiamo la lettura con le labbra (o a voce alta) e meno che meno quella con il cuore.

Nella poesia invece accade – ripeto: per la natura breve del verso, delle strofe e del componimento – di poter fare ritorno più e più volte e in modalità differenti su ogni singola parola, nota, intonazione e pausa.

Nel fare questo ci si accorge così che se, ad esempio, un poeta “parla del silenzio” di Dio, l’ascolto in primis diventa, fondamentale.

Nel caso di In absentia, l’ultima raccolta di Alessandro Canzian (Interlinea Edizioni, Novara, 2024) l’efficacia di questa lettura poetica, tripartita tra occhi, labbra e cuore risulta fondamentale.

Cerchiamo quindi di entrare in questi “dispositivi poetici” dei quali parla Martin Rueff nell’ottima post-fazione alla raccolta di Canzian.

Allora, prima di tutto, gli occhi. «Le poesie delle tre sezioni [Minimalia, In fondo e In absentia]sono per la maggior parte delle strofe di cinque versi (il francese usa la parola quintil) non rimate e costruite su una nitida opposizione drammatica…» dice Rueff, ma a me ( ai miei occhi) queste poesie brevi hanno subito richiamato dei tanka al di là dell’assenza del rigoroso susseguirsi di sillabe lungo i 5 versi del componimento classico giapponese (5-7-5-7-7).

Lo scopo della forma del tanka , come richiamato da uno dei suoi maggiori poeti moderni, il giapponese Tsukamoto Kunio (1922-2005), “…è quello di mostrare delle visioni”.  E infatti questi pseudo-tanka di Canzian  sono carichi di immagini filtrate dall’occhio della mente

Le lenzuola distese
sono più casa delle case.
Grate, gronde e greppi.
Da lontano un geco
le traversa mozzato.
[pg.21]

Tali visioni lasciano intravedere, paesaggi distrutti, corpi di ragazze sbrindellati, lenzuola, tovaglie piene di briciole, spighe di grano tra la polvere (Donbass, Gaza). Immagini di un universo caotico i cui frammenti non trovano ricomposizione alcuna in un’armonia vitale.

Nulla di vivo si muove
dicono dei nervi come
delle rane, le rane scoppiate.
Le rane che rincorrevamo di notte
come oggi l’inverno.
[pg.42]

I due versi finali dei quintil-tanka di Canzian possono sembrare esplicativi di quanto espresso nei primi tre, cioè possono argomentare o rafforzare il vano tentativo di recuperare un ordine, un’armonia o una senso almeno visivo, per lo meno quantitativo

Hanno spiantato per chilometri
qualunque cosa viva
alberi compresi.
Conta quanti loro morti
valgono uno dei nostri.
[pg.46]

Ma allo steso tempo in altri testi, gli ultimi due versi possono essere contradittori, cioè quasi a smentire, negare o contrastare, ciò che si è espresso nei primi tre. È tipico del tanka questo dispositivo poetico “basato sul contrasto fra una cosa vista e la sua iscrizione nella sensibilità…”, come felicemente intuito da Martin Rueff

Lasciata la ragazza a terra
senza jeans e maglietta e il resto
della notte a venire
con la pancia scoperchiata
sembra una libertà.
[pg. 47]

Passiamo alle labbra o meglio a quel ticchettio appena percepito delle dentali e labiali che sbattono in bocca prima di farsi sentire. Senza farsi sentire troppo. Proprio come quel topo, figura misteriosa che Claudia Mirrione individua come correlativo oggettivo di Dio, un Dio che sussurra appena o tace del tutto, quasi a voler ricordare che il destino del poeta è da sempre quello di affrontare un corpo a corpo con il silenzio.

Già, il silenzio di Dio così…  fragoroso dopo la creazione

Il quinto giorno Dio rimase
In un silenzio attonito.
Par qualche istante
il rumore dell’universo.
[pg.57]

Per il Dio di Canzian non esiste il settimo giorno, quello del riposo. Dio è sempre a lavoro e non può fermarsi nemmeno per una risposta, perché non ha tempo per (e non è Tempo per) rispondere.

Il sesto giorno riprendemmo
a parlare, io e Dio.
«Usami come uno straccio
da cucina» disse lui.
Per anni la cucina
lasciata così com’era.
[pg.58]

Quando Giobbe (o il Poeta) in preda al dolore interroga Dio perché vorrebbe avere una risposta sulle ragioni della umana condizione, Dio gli risponde in mezzo alla tempesta:

Dov’eri quando io mettevo le basi sulla Terra? Dillo se hai tanta sapienza”. Insomma Dio non risponde affatto alla domanda diretta di Giobbe ma lo invita piuttosto ad osservare la complessa architettura del creato. Per questo il Poeta è costretto ad assentarsi dal mondo: per osservare meglio.

Continua Dio, in absentia, a parlare con Giobbe: “Conosci tu il tempo in cui partoriscono le camozze? Hai osservato il parto delle cerve? Sai contare i mesi della loro gravidanza?…”. Nel testo biblico il discorso di Dio continua per tre capitoli: una vera e propria lezione di storia naturale.

Che bisogno c’è, ci si domanda. E perché mai questo lungo viaggio “into the Great Wide Open” costituisce un rimedio contro il silenzio e l’assenza?

Probabilmente perché la nostalgia di quello che stiamo perdendo deve essere sempre ravvivata. Perché ogni vita persa, anche quella di un topo, esige di restare indimenticabile.

Allo stesso modo una poesia come questa di Alessandro Canzian esige di essere letta, anche se nessuno la legge o pochi la leggeranno con gli occhi, le labbra e il cuore.

Perché come dice Giorgio Agambenil destinatario di una poesia  non è una persona reale ma un’esigenza”: continuare a dire e a fare sempre le medesime cose. In silenzio. In absentia.

Nella rubrica di poesia “Parole a capo” del 23 gennaio scorso https://www.periscopionline.it/parole-a-capo-alessandro-canzian-alcune-poesie-tratte-da-in-absentia-300487.html , abbiamo pubblicato alcune poesie del libro  “In absentia” di Alessandro Canzian.

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Le voci da dentro /
Il carcere brucia e noi stiamo a guardare

Le voci da dentro. Il carcere brucia e noi stiamo a guardare

Pubblichiamo un bell’articolo di Claudio Bottan, vicedirettore della rivista Voci di dentro, scrittore e attivista per i diritti umani.

La sua è una riflessione che ci scuote, che ci interroga, che non dovrebbe lasciarci indifferenti di fronte alla situazione sempre più drammatica delle carceri italiane. Purtroppo chi dovrebbe farlo, preferisce evitare di occuparsene e anche di preoccuparsene, come se le persone tragicamente decedute non meritassero attenzione solo per il fatto di essere ristrette.

Sono in molti a pensare che l’argomento carcere non li riguardi; io credo invece che tutti dovrebbero interessarsi al modo in cui si pensano e si organizzano i luoghi dove scontare una pena, perché è da questo osservatorio che si può constatare se e quanto la nostra società creda nell’educazione e nella rieducazione.
(Mauro Presini)

 Il carcere brucia e noi stiamo a guardare

di Claudio Bottan

Qualche mese fa ha scosso tutti la vicenda di Youssef, morto in carcere a San Vittore dove era recluso in attesa di giudizio a soli 18 anni appena compiuti. Seguiva una terapia psichiatrica. Per vizio totale di mente, doveva andare in una comunità terapeutica per essere curato e non in carcere, ma non c’erano posti disponibili. Youssef è morto carbonizzato nel bagno della sua cella dopo che era stato incendiato un materasso. Bisogna ancora capire se l’incendio sia stato innescato come protesta o se sia stato un gesto autolesionista da parte di Youssef.

Ma lo sdegno per l’atroce fine di quel ragazzino egiziano che in carcere non ci doveva stare è durato poco, poi si è tornati a parlare di sicurezza e certezza della pena. Eppure le fiamme si alzano spesso nelle nostre prigioni. Per comprendere le dimensioni del fenomeno basta considerare la frequenza con cui le cronache ci raccontano di incendi nelle carceri italiane.

Negli ultimi giorni ci sono stati roghi nel carcere minorile di Firenze, con due ragazzi in ospedale, e a Modena dove un 25enne è rimasto gravemente ustionato. Qualche giorno prima è stata la volta di Belluno. Gravemente ustionati, e trasportati in eliambulanza a Padova, due magrebini di 30 e 24 anni detenuti presso la Casa Circondariale Baldenich. I due avevano appiccato un incendio all’interno della loro cella, utilizzando i vestiti, carta e dell’olio.

Nell’estate del 2023, invece, un detenuto ha dato fuoco al materasso e ha atteso che il denso fumo lo accompagnasse alla morte. Si è chiusa così la vita di Abdelilah, 35 anni, marocchino. Il cadavere del detenuto viene trovato nel bagno della cella dagli agenti della penitenziaria che, nel tentativo di salvarlo, restano intossicati e sono costretti ad andare in ospedale.

Il 3 giugno 1989, undici donne (nove detenute e due agenti di custodia) morirono in un incendio divampato nella sezione femminile del carcere Le Vallette di Torino. Morirono in pochi minuti, stordite e soffocate dalle esalazioni letali rilasciate dal rogo di trecento materassi di poliuretano accatastati sotto un portico, appena arrivati per sostituire quelli vecchi utilizzati nelle celle.

Una strage che pare non aver insegnato nulla: a distanza di oltre tre decenni il fuoco arde ancora nelle celle nell’indifferenza generale. Bruciano soprattutto gli istituti per minori. Al Quartucciu, in Sardegna, un detenuto ha dato fuoco alla cella e le fiamme sono presto divampate rendendo inagibile tutta la sezione. Non è andata meglio al minorile Malaspina di Palermo, dove si sono verificati diversi episodi di protesta e lo scorso ottobre un detenuto che chiedeva di essere portato in ospedale, nonostante il parere negativo del medico, ha dato fuoco a suppellettili, lenzuola e materassi provocando un incendio. A Casal del Marmo, a Roma, gli incendi sono ormai all’ordine del giorno.

La dinamica è sempre la stessa: materassi, cuscini, lenzuola e coperte incendiati per protesta, per noia o per follia, usando il fornellino in dotazione come lanciafiamme. All’arrivo in carcere vengono fornite due lenzuola pulite e una coperta polverosa, bucata e dall’odore sgradevole: il “corredo”.

Il cuscino è spesso strappato, mentre il materasso è una striscia di poliuretano dello spessore di pochi centimetri adagiato su una lastra di lamiera forata. Quel fetido pezzo di gommapiuma, impregnato dagli umori dei precedenti inquilini con bruciature di sigaretta, evidenti chiazze di piscio, sangue e vomito, riporta una data di scadenza che normalmente risale a qualche anno prima. Difficile credere che si tratti di materiale ignifugo.

D’altra parte, l’Ordinamento penitenziario e il Regolamento di applicazione DPR del 30 giugno 2000 n. 230 non ne fanno cenno se non all’art. 9 al capitolo “vestiario e corredo, “Per ciascun capo o effetto è prevista la durata d’uso” e ancora “L’Amministrazione sostituisce, anche prima della scadenza del termine di durata, i capi e gli effetti deteriorati. Se l’anticipato deterioramento è imputabile al detenuto o all’internato, questi è tenuto a risarcire il danno”. C’è sicuramente una antica circolare del Dap che dispone l’acquisto di materassi ignifughi. Da ciò deriva di conseguenza che alla data di scadenza il materasso va sostituito, altrimenti perde parte della proprietà ignifuga.

La caratteristica distintiva di un materasso ignifugo è la capacità di auto estinguere la fiamma, prevenendo la rapida propagazione in caso di incendio. Per comprendere meglio questo concetto, immaginiamo un incendio nel quale il materasso della camera di pernottamento è coinvolto: se il materasso è veramente ignifugo, osserveremo il suo sciogliersi lento anziché la fiamma propagarsi. Questo rappresenta chiaramente il segno dell’autoestinguibilità, impedendo la diffusione del fuoco.

Un aspetto altrettanto significativo da considerare è l’emissione di fumi. In situazioni di incendio, oltre al rischio del fuoco stesso, si verifica anche il pericolo di respirare gas tossici dannosi per la salute. La normativa impone l’obbligo di utilizzo dei materassi ignifughi certificati per le strutture ricettive con più di 25 posti letto.

In genere si pensa ad un obbligo di utilizzo di materassi antincendio che persiste per hotel e alberghi ma, in realtà, i letti ignifughi omologati di classe 1IM devono essere obbligatoriamente utilizzati anche dalle strutture di riposo, di comunità, di alloggio come residenze sanitarie, RSA, case famiglia, case di cura, cliniche private, aziende sanitarie, ospedali che abbiano, appunto, più di 25 posti letto disponibili. E le carceri, in perenne condizione di sovraffollamento, non sono forse equiparabili alle strutture ricettive?

I detenuti che bruciano le celle per protesta lo sanno che il fumo nero intossica chi lo respira, infatti si coprono la testa con asciugamani bagnati, cercando di stare lontani dai materassi; ma le celle sono piccole e quasi mai ci riescono. Quindi: o si intossicano o si ustionano o muoiono. L’intossicazione spesso è denunciata dagli agenti, che intervengono per evitare il propagarsi delle fiamme e lamentano la mancanza di dispositivi di protezione.

Ma le carceri, si sa, non sono alberghi. E allora, cosa c’è di strano se le persone detenute vivono in dieci in celle pensate per quattro, se il cibo è insufficiente e scadente, se non ci sono le docce, se manca l’acqua calda, se i cessi sono a vista, se fa un caldo torrido d’estate e un freddo gelido d’inverno?

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Monte Giogo di Villore:
un Monte da amare con un monte di amore!

Monte Giogo di Villore: un Monte da amare con un monte di amore!

Giovedì 13 al Circolo I tre castagni a Villore, Vicchio del Mugello, i produttori locali delle Comunità di Villore, Corella e Gattaia, si sono ritrovati con il Comitato Tutela Crinale Mugellano, aderente alla Coalizione TESS, Transizione Energetica Senza Speculazione, per fare il punto della situazione rispetto allo stato dei territori interessati ai lavori dell’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore.

L’Assemblea pubblica, viva e partecipata, ha rivendicato l‘alto valore ambientale dei territori dell’area Giogo di Villore Giogo di Corella nell’Appennino Mugellano, l’eccellenza delle produzioni locali BIO e IGP, la presenza di Comunità attive, produttori locali privati e aziende agricole, alcune delle quali riunite nel Consorzio del Mugello per il marrone IGP, famoso marrone biondo fiorentino da tavolo, ottimo per la trasformazione in farina e il marron secco.

L‘elevata concentrazione di biodiversità favorisce l’apicoltura, l‘abbondanza di acqua pura le coltivazioni; la bellezza dei Sentieri CAI di rilevanza nazionale ed europea attrae appassionati del turismo lento, escursionisti, amanti della natura che portano benessere economico nel settore dell’accoglienza e della ristorazione.

La mostra fotografica e le proiezioni hanno evidenziato il progressivo degrado e devastazione dei paesaggi e degli ecosistemi naturali presenti ai confini del Parco Nazionale Foreste Casentinesi, habitat di specie protette, con 20 km di sbancamenti, abbattimenti di ettari di foreste, creazione di strade inesistenti e distruzione della Sentieristica CAI. L’Assemblea ha messo a punto un documento per dare voce ai territori e alle comunità esistenti, con le loro specifiche caratteristiche ed esigenze di tutela, rispetto e conservazione, al fine di mantenere e promuovere una salutare e produttiva convivenza tra ambiente naturale, esseri viventi ed esseri umani.

L’assemblea pubblica, domenica 16 Febbraio dalle ore 18.00 si sposterà a Firenze alle Piagge, da Don Alessandro Santoro, fondatore della Cooperativa Il Cerro nei terreni di  a San Lorenzo, località Il Santo, nella Comunità di Villore.

Venerdì 21 Febbraio alle ore 18.00 presso il Circolo Il tiglio a Vicchio, l’Assemblea delle Comunità di Villore, Corella, Gattaia e San Godenzo si aggiornerà nuovamente per rendere pubblico il Documento definitivo, volto a ribadire la contrarietà delle Comunità alla prosecuzione dei lavori del Progetto eolico Monte Giogo di Villore:

un Monte da amare con un monte di amore!

Comitato Tutela Crinale Mugellano  Crinali Liberi
(Coalizione TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione)

Cover: L’assemblea del 13 febbraio a Tre Castagni

Emma Ruzzon, studentessa dell’Università di Padova: “Basta competizione, siamo stanchi di piangere i nostri compagni…”

Emma Ruzzon, studentessa dell’Università di Padova: “Basta competizione, siamo stanchi di piangere i nostri compagni…”

Di seguito riportiamo alcuni brani del discorso di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova, tenuto n paio di giorni fa da Emma Ruzzon, rappresentante degli studenti dell’ateneo patavino.
Se avete meno di trent’anni (studenti, lavoratori o disoccupati) … o se avete più di trent’anni (docenti, genitori o semplici cittadini) … o se siete politici, deputati o ministri, le parole di Emma sono rivolte proprio a voi. Ascoltatela.

«…Credo siano evidenti a tutti le contraddizioni della narrazione mediatica attorno al percorso universitario: ci viene restituito il quadro di una realtà che fa male, celebrate eccellenze straordinarie, facendoci credere che debbano essere ordinarie, normali. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, con i propri modi»: le parole di Emma Ruzzon, rappresentante dei 70mila studenti dell’Università di Padova, hanno una carica dirompente. La giovane parla durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo padovano e si rivolge direttamente alle autorità presenti in sala, compreso il ministro Bernini. «Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei e vogliamo che le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire come attivarsi per rispondere a questa emergenza. Ma serve il coraggio di mettere in discussione il sistema merito-centrico e competitivo …».

Enna conclude il suo intervento ricordando gli 80anni dalla Liberazione del Nazifascismo e si toglie la camicia nera per denunciare la politica repressiva del governo nei confronti dei manifestanti e degli studenti in particolare.

Qui il discorso integrale:
https://www.instagram.com/enricogaliano/reel/DGFZXyUBf3z/

Cover: Emma Ruzzon, immagine da YouTube

Dal Festival di Sanremo un impatto economico pari a 245 milioni di Euro

E anche questo Festival di Sanremo ha chiuso i battenti. Al di là di detrattori ed appassionati, dei tanti che lo prendono (troppo) sul serio e di chi proprio non lo manda giù, il Festival di Sanremo continua ad avere un ruolo significativo per l’industria discografica italiana, come riporta un nuovo Report della Federazione Industria Musicale Italiana – FIMI che analizza in profondità il ruolo strategico degli investimenti delle case discografiche nell’indotto del Festival.

La nuova pubblicazione FIMI evidenzia come tali investimenti siano il motore che alimenta un ritorno economico significativo e in continua espansione: secondo le recenti stime di EY, infatti, l’edizione 2025 genererà un impatto economico complessivo pari a 245 milioni di euro. Le case discografiche, da sempre protagoniste e instancabili motori dell’industria musicale italiana, si confermano gli attori indispensabili non solo nella promozione degli artisti e nella produzione musicale, ma anche come volano economico per l’intero settore. Gli investimenti strategici supportano iniziative che abbracciano diversi ambiti, dalla pubblicità alla promozione live, contribuendo a creare un ecosistema virtuoso in cui la creatività si sposa con la crescita economica, con un effetto moltiplicatore di grande rilievo anche se le economie per le imprese restano limitate all’1,5 % dei ricavi del settore.

Il Report offre una panoramica completa dell’impatto sul mercato dei brani in gara, i cui ascolti in streaming sono aumentati del 463% negli ultimi cinque anni, andando a ricoprire una percentuale di mercato ormai superiore al 2%. Tuttavia, il valore degli investimenti che le aziende destinano al Festival supera di gran lunga il ritorno immediato in termini di ricavi, dimostrando un impegno che ora necessita di una revisione strutturale. L’avvicinamento ai trend musicali attuali si evince d’altronde dalla crescita del numero dei platini dei singoli in gara al Festival (241 in totale, dal 2013 al 2024) – che ha raggiunto un’impennata negli ultimi 4 anni – e dalla partecipazione in gara per il quarto anno consecutivo dell’artista con l’album best-seller dell’anno: si tratta di Taxi Driver di Rkomi (2021), Sirio di Lazza (2022), Il coraggio dei bambini di Geolier (2023) e Icon di Tony Effe (2024). Per il terzo anno consecutivo, poi, un brano in gara a Sanremo è diventato il singolo best-seller dell’anno secondo le rilevazioni FIMI-GfK: Brividi di Mahmood & Blanco nel 2022, Cenere di Lazza nel 2023 e Tuta Gold di Mahmood nel 2024. Inoltre, il 57% dei brani in gara all’ultima edizione del Festival è entrato nella Top 100 dei Singoli più venduti del 2024.

E l’incidenza non è solo rilevata nelle chart annuali: negli ultimi quattro anni, infatti, i singoli in gara a Sanremo hanno conquistato l’intera Top Ten Singoli della chart settimanale successiva al Festival. Si tratta di dati che si inseriscono in uno scenario musicale che parla sempre più italiano (nel 2024 il repertorio locale ha rappresentato l’84% della Top 100 Album annuale) e soprattutto sempre più giovane (negli ultimi dici anni l’età media degli artisti in Top Ten Album annuale è diminuita del 13%), in linea con il ringiovanimento del pubblico televisivo del Festival che nel 2024, secondo i dati Rai, ha conquistato uno share dell’82% nella fascia 15-24 anni – segnando l’intrattenimento di prima serata più giovane di sempre. Sono proprio gli investimenti mirati del settore discografico a plasmare l’ecosistema musicale celebrato dal Festival di Sanremo, riuscendo a rispondere alle sfide e alle opportunità di un mercato sempre più dinamico e competitivo, pur ricavandone ad oggi una fetta molto esigua di ricavi.

Qui il Report sull’impatto economico di Sanremo ’25

In copertina: Sanremo 2025 – immagine digital news, licenza Creative Commons

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CUCIRE LA PALESTINA.
Sul flash mob del 15 febbraio

CUCIRE LA PALESTINA.
Sul flash mob del 15 febbraio.

Ferrara, 15 febbraio. Dopo una infinita settimana di freddo e di pioggia tagliente, oggi c’è il sole, l’aria fina e il cielo pulito, una tale sorpresa che ti scopri ottimista nonostante le quotidiane brutte notizie. Dobbiamo arrivare al 2 per cento del Pil di spese militari, dice Ursula von der Leyen, che per l’Italia vuol dire altri 11miliardi di Euro, Una cosa talmente scandalosa, talmente folle, che probabilmente accadrà, e abbastanza presto.

Immagine da Facebook

È bello camminare in centro; ed è incredibile: Ferrara è governata dagli ignorantissimi fascisti del terzo millennio, eppure resiste, non cede un grammo sulla sua bellezza. La resistenza della città di pietra batte la nostra resilienza 5 a 0.

Arrivo all’appuntamento delle 16 in Piazza Cattedrale, davanti al cantiere infinito del Duomo, siamo, rapido calcolo, in centocinquanta, forse in duecento, formiamo un grande cerchio con cartelli e bandiere, donne e ragazze, come sempre, in larga maggioranza.

“Siamo in tanti”, dico a un’amica che mi sta a fianco: “NO – risponde – siamo in pochi. Dove sono tutti i bravi ferraresi mentre la Palestina è condannata a morte?”.

A turno le donne, le palestinesi e le ferraresi, “recitano” frase per frase il documento delle Donne per la Palestina . Un grande striscione chiede una cosa semplice e sacrosanta, di  Riconoscere lo Stato di Palestina. È quello che non vuole Trump, e di conseguenza non vogliono né il Governo e il Parlamento italiano, né il Consiglio Comunale di Ferrara.

Sul selciato, dentro il cerchio, 4 lunghe strisce di stoffa, nero bianco verde e rosso, i colori della bandiera palestinese.  Le strisce sono accostate l’una all’altra, ma il vento di marzo le scompiglia, le fa volare via; per fare la bandiera occorre cucirla: e una ventina di donne si inginocchia, prima gli spilli, poi l’ago e il filo.  Ed è questo, mi pare, il messaggio più potente, un antico gesto femminile di cura che diventa metafora, racconto di un popolo che da 80 anni vuole conquistare, anzi, ri-conquistare la propria terra, la propria patria.

Patria questa volta è una bella parola, è Terra Madre. Esattamente come lo fu per “gli italiani senza Italia” del Risorgimento.
Ho cercato il nome di chi ha cucito la prima Bandiera Italiana nel 1794 (quella ancora conservata a Reggio Emilia);  naturalmente non c’è il nome della donna o delle donne che la cucirono, ma solo quello dei due uomini che la “inventarono”: Luigi Zamboni, giovanissimo studente a Bologna, insieme al più noto Cesare Battisti.  Li ricordiamo giustamente come martiri, ma senza un ago, un filo e una donna, la bandiera italiana non sarebbe mai nata.

Ferrara, 16 febbraio. Così è per le donne palestinesi che cuciono la loro bandiera portando in tutto il mondo il dolore e le lacrime di un popolo violentato e il diritto a una patria e a uno Stato sovrano.

Cucite la vostra storia donne palestinesi, alla fine la bandiera sarà pronta…

Leggi Su Periscopio, due giorni fa, alla vigilia del flash mob, Chi ha paura della Palestina,

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LA GALLERIA DEL CARBONE CAMBIA CASA.
Il 16 febbraio 2025 la prima mostra

LA GALLERIA DEL CARBONE CAMBIA CASA.
Il 16 febbraio 2025 la prima mostra

 “Ho sempre avuto il piacere di percorrere piano la città, ogni passo un suono, un odore, un ritmo. una parola, un respiro…Piccole strade scure e segrete. La storia e le storie che trasudano dalla porosità dei mattoni e i nomi delle vie che raccontano il passato.E siamo stati attratti ambedue, come fosse una malia, da questa strada: Via del Carbone.”

Così scrive Lucia Boni in un passaggio del delizioso ‘quadernino’ come lei lo definisce intitolato CARBONE D’ARGENTO, una raffinata dedica, in forma di ‘dialogo con Giuliana’, alla Galleria del Carbone, sogno condiviso e realizzato dai tre protagonisti di questo testo sublime, insieme ai tanti artisti e appassionati che da 25 anni frequentano questo luogo dell’arte.

Su iniziativa di Luciana Tufani, sempre attenta a far conoscere e promuovere le ‘belle scritture’ tra gli eventi organizzati dalla Biblioteca del Centro Documentazione Donna, lunedì 20 dicembre scorso Lucia Boni ed io abbiamo dialogato su Carbone d’Argento e sulla Galleria, che proprio al compimento dei 25 anni lascia Via del Carbone 18a e si trasferisce in Via Vignatagliata 41.

In verità, io faccio notare all’autrice, introducendo la nostra conversazione, che la Galleria del Carbone, anzi la Via da cui essa ha preso il nome, compare solo a pagina 24, nelle righe con cui si apre questo mio scritto. E per di più, mai come soggetto autonomo, bensì sempre inserita nella città, della quale si sentono suoni e rumori, si annusano odori, si osservano muri e colori che cambiano con le stagioni. Perciò chiedo a Lucia di parlarci subito della Galleria e ne viene fuori un quadro fatto di vivaci ed intense attività culturali: mostre di pittura, scultura, laboratori artistici, letture, concerti, presentazioni librarie, collaborazioni con enti culturali e singoli artisti anche provenienti da paesi stranieri, viaggi. Già, perché non di sola Galleria si tratta, ma di una vivace e propositiva Associazione che raccoglie numerosi volontari e appassionati, che affiancano con idee e contributi preziosi l’instancabile lavoro di Paolo Volta e Lucia Boni stessa. Il 2025, anno delle ‘nozze d’argento’, è iniziato con i lavori di trasloco e il trasferimento nella nuova sede e l’intenzione è di proseguire, anzi intensificare il lavoro artistico e culturale, traendo nuova linfa dagli stimoli che potrà dare la nuova sede e la nuova Via, che da anni offre spazi ad artisti ferraresi.

Poi il nostro sguardo si concentra sull’oggetto di questo incontro: il piccolo ma prezioso “Dialogo con Giuliana” che ha una copertina d’argento con una suggestiva immagine, un bellissimo disegno realizzato da Paolo Volta, che mi piace evocare con le parole di Lucia in chiusura del testo: “Stasera in cielo c’è una luna piena, grande, in fondo alla strada, appoggiata sul tetto della casa che fu di Giorgio De Chirico. La luna ci guarda negli occhi. La sua luce si riflette sui ciottoli che la riverberano e la via è una roggia con polle d’acqua brillanti che paiono di metallo argentato. Queste serate fanno innamorare. Via del Carbone stasera è ‘Carbone d’Argento’”.

Il dialogo è immaginato fra l’io, che è Lucia, e il tu, che è Giuliana Magri, che (scrive l’autrice nella postfazione) “ha contribuito, con la sua presenza e disponibilità, a rendere possibile, nell’anno 2000, il realizzarsi di un progetto che sembrava troppo ambizioso…”. Ma, come già detto, la Galleria compare tardi, nel testo, perché in esso dominano i ricordi, centrati su quello che appare, fin dalle prime righe, come il lui, terzo protagonista del dialogo: lo vediamo, evocato da Giuliana  “andare su quelle strade nel centro della città medievale fin da quando era piccolino, anche nel sonno, dormendo nella carrozzina o in braccio a mamma e papà…Lui il senso della città  ce l’ha ad occhi chiusi e l’ha acquisito prestissimo…La città, le strade  le conosce senza vederle, non le vuole vedere, determinato ad immaginarle e ad indovinarle…lui era serio, gli piaceva la città dipinta, pensata, sognata. Guardava con grande rispetto i quadri di mio papà… (si parla qui di Antenore Magri, zio di Paolo, per apprezzare i cui lavori, si legge poco più avanti, bisogna misurarla la città, passo dopo passo, luce dopo luce in tagli netti…).

Il dialogo presenta una struttura compositiva molto interessante, con un gioco affascinante in cui le parole entrano ed escono dalle virgolette e si muovono lungo un percorso definito dagli  ‘a capo’ e dai numerosi spazi bianchi, in un alternarsi di discorsi diretti ed enunciati narrativi e sembra a tratti di sentirle, quelle due voci, di Lucia e Giuliana, che ora dal vivo non possono più parlarsi, ne puoi cogliere i toni, i sussurri, i rimpianti.

Il quadernino si apre con una breve ed efficace prefazione di Corrado Pocaterra: <Quanti occhi e quanti chiodi sono passati dalla Galleria del Carbone, i primi attaccati alle opere, i secondi al muro…Cosa rimarrà di tutto questo? …Puntiamo tutto sulla memoria di quelli che hanno messo ‘le mani nel carbone’…>
Mi sembra un passaggio adatto a fare da trait d’union tra due diverse occasioni di incontro che ho avuto con la Galleria in questo suo momento di cambiamento. La prima, la presentazione di Carbone d’Argento. La seconda, giovedì 13 febbraio, la Conferenza stampa indetta dal Direttivo dell’Accademia d’Arte Città di Ferrara, l’associazione no profit di cui la Galleria è lo spazio espositivo, nella nuova sede.

Nella bella e luminosa sala che ci ha accolto sono esposte opere degli artisti scelti per la mostra di inaugurazione, che si svolgerà domenica 16 febbraio alle ore 18. Ad illustrare tempi e modi del trasferimento da Via del Carbone 18a e intenti e progetti dell’Associazione di riferimento, abbiamo trovato il Direttivo quasi al completo: il Presidente Paolo Volta, la Segretaria e Tesoriera Lucia Boni e i Consiglieri Corrado Pocaterra e Ulrich Wienand (assente per indisposizione il Consigliere Gianni Cestari). Presenti anche gli artisti Daniela Carletti e Sergio Zanni.

Dagli interventi ben articolati abbiamo potuto percepire i caratteri di un mondo fatto di intensa collaborazione e partecipazione, di vitalità e vivacità culturale, di attenzione agli artisti locali e stranieri. Abbiamo potuto condividere storie ed emozioni, nei momenti in cui ha prevalso il racconto di ciò che è stato e pure, e soprattutto, gli entusiasmi di ciò che sarà, quando sono stati illustrati, a grandi linee, i tanti, nuovi progetti. Dalla ricca documentazione che ci è stata consegnata, mi piace riportare qui l’incipit del testo di illustrazione della mostra scritto da Enrica Domenicali, che soddisfa il mio desiderio di preciso inquadramento nello spazio, con dettagli toponomastici e storici ricchi ed esaurienti, del luogo di cui si parla, e i successivi capoversi dedicati alla mostra vera e propria.

Imposte di legno pesanti, fissate con lunghe viti di metallo, stanno sul portone d’ingresso di un’antica bottega in Via Vignatagliata 41, la nuova sede della Galleria del Carbone. A togliere quelle imposte si percepisce che sei l’ultimo di tanti, si sente l’avvicendarsi delle generazioni, delle memorie, in questo ritaglio della città che per secoli fu il ghetto degli ebrei ferraresi. Poco più su, al civico 33, c’è la casa di Isacco Lampronti, medico, rabbino e filosofo dal sapere enciclopedico, al 44 c’era il forno delle azzime, al 79 la scuola ebraica, dove insegnava Bassani, dopo le leggi razziste del 1938. Al 39, dove c’è oggi la Bottega di Riccardo Biavati, e prima anche gli studi di Sergio Zanni e Paolo Zappaterra, abitava Nissim Melli, il nonno del grande pittore Roberto. Gianfranco Goberti, negli anni, ha avuto addirittura tre studi in Vignatagliata: al 32, 33a, 57, in ordine topografico e temporale.

Qui, arriva ora anche la Galleria del Carbone, carica di una storia lunga un quarto di secolo e che subito, appena rimbiancati i muri, riprende l’attività con la mostra “Ripartiamo”. Un titolo che è un annuncio ed insieme un proposito.

Ad inaugurare questa nuova stagione sono chiamati cinque artisti ferraresi, cinque amici storici del Carbone che negli anni ne hanno sostenuto ed arricchito il percorso: Maurizio Bonora, Paola Bonora, Gianfranco Goberti, Gianni Guidi, Sergio Zanni. Amici del Carbone e amici tra di loro, tutti cresciuti alla scuola del Dosso Dossi e tutti legati dall’Arte, che tutti hanno praticato ed insegnato. Sostanzialmente coetanei, con Paola, la più giovane, distanziata di un lustro dal fratello Maurizio e così, per tutti, “Paolina”, e Gianfranco, il più grande, mancato due anni fa, i loro percorsi artistici sono autonomi, originali, forse appena sedotti, all’inizio, da certo astrattismo organico di matrice bolognese e certamente dal clima di protesta sociale al volgere degli anni Sessanta del Novecento.

Poste qui, le une accanto alle altre, nello spazio ordinato della Galleria le loro opere si confrontano e mostrano gli esiti di riflessioni originali, espresse da temi e poetiche sostanzialmente diverse per ciascun autore, accomunate tuttavia dalla formazione comune che si traduce e si intende nel rigore della ricerca e nell’impeccabile resa formale.

E, per tornare a Lucia, soggetto di partenza di questo mio scritto, mi piace ora chiudere con altre sue parole, tratte dal ‘racconto’ delle variegate fasi del trasloco da una sede all’altra.

La ’vecchia’ sede di Via del Carbone non dista molto da Via Vignatagliata e, con buon impegno, si è potuta trasbordare molta parte del carico: scatoloni, strutture, arredi e suppellettili varie, con trasporti a mano, nelle serate libere da altri impegni, attraversando i crocchi di chi conversa fumando e bevendo aperitivi, vincendo la folla di passeggiatori in Via Mazzini, scarrellando rumorosamente sui ciottoli, caricando e scaricando merci varie sull’auto stracolma di qualche socio compassionevole. Avrei voluto filmare tutta questa storia, e vedere ‘di nascosto l’effetto che fa!’.

Riprendiamo quindi e verrebbe da chiederci: ‘’dove eravamo rimasti?’’, visto che non è passato, infine, troppo tempo e si deve soltanto riprendere il filo del discorso, momentaneamente interrotto. Nessuno di noi vuole ‘rottamare’ ciò che è stato, convinti, come siamo, che nulla si crea se non c’è un’esperienza pregressa sulla quale appoggiarsi, ma diventa necessario comunque rinnovarsi. Abbiamo tanti amici della Galleria del Carbone che ci hanno sostenuto fin dall’inizio nel campo dell’arte e della cultura in generale.

Vogliamo riprendere da alcuni nomi tra i tanti, tantissimi, a cui siamo legati anche da affetto, per poter continuare nella nostra nuova avventura.

La prima mostra del “nuova vita della galleria:

“RIPARTIAMO”

Opere di Maurizio Bonora, Paola Bonora, Gianfranco Goberti, Gianni Guidi, Sergio Zanni

Domenica 16 Febbraio 2025 alle ore 18
Galleria del Carbone
Via Vignatagliata 41 – Ferrara 

In copertina: due panoramiche della mostra RIPARTIAMO

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul nome dell’autrice.

Per certi Versi /
Avvilito il dolore

Avvilito il dolore

È avvilito il dolore

si percuote

in un misero volo

 

come uccello

impaurito da sparo

cade su un foglio

 

il bianco lo acceca

si snatura tra le righe

e scompare

 

come nebbia di valle

ai piedi del sole

 

In copertina: beccaccia in volo , immagine da BigHunter.it

 Nel 2025 la storica rubrica domenicale di poesia Per certi versi è affidata a Maria Mancino 

Presto di mattina /
L’aurora della parola e la sua traiettoria

Presto di mattina. L’aurora della parola e la sua traiettoria

La Parola

Sogno, grido, miracolo spezzante,
Seme d’amore nell’umana notte,
Speranza, fiore, canto,
Ora accadrà che cenere prevalga?
(G. Ungaretti, Vita d’uomo, 232)

L’esodo della parola

Stamattina, abbandonato sul primo banco in chiesa, un mazzolino di bacche rosse e spine di una rosa selvatica. L’ho raccolto e messo tra le mani oranti e immobili di Nasael, il silenzioso angelo del presbiterio di santa Francesca Romana. È l’angelo dell’esodo, il cui nome in ebraico significa ‘il Dio che rialza e fa partire’. Fa partire il desiderio, le parole anche: quelle solo concepite e ogni preghiera muta in chiuse labbra.

Ho pensato alle spine, grida di silenzio. Le bacche rosse, invece, promesse che porteranno frutto a suo tempo.

Ecco, mi sono detto: parole, perdute e ritrovate, custodite nel silenzio, di una madre che aspetta un figlio che ancora non ritorna.

L’esilio della Parola

Un doppio esilio, quello del divino nell’umano e quello, destino di ogni prece, dell’umano nel divino. Un solo roveto ardente che brucia senza consumare, dolente pianta e promessa di futuro. Il dolore del distacco non passa e ferita non rimargina, come fu dal primo giorno; ma bacche rosse tra le spine come fiamme vive, ridestano l’attesa di Qualcuno, negli animi a lui aspiranti e da lui ispirati, da lui attratti e a lui viandanti, come parole non nate in attesa del soffio, dell’ispirazione.

Al discepolo che chiedeva perché Dio fosse apparso in un roveto, il Rabbi Joshua rispose che ciò era per insegnare che non vi è alcun luogo sulla terra in cui Dio non sia presente: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: “Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele”. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): “In tutte le loro angustie Egli fu afflitto”» (da Esodo Rabhah, 2,5).

Come è possibile questo?

Ci soccorre un aforisma; una forma breve e incisiva che sintetizza l’esperienza spirituale di Ignazio di Loyola e dei suoi compagni circa la presenza del divino nell’umano, dell’infinito nel finito, della tenerezza nella forza: “Non esser limitato da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino” (Non coerceri a maximo contineri tamen a minimo divinum est).

Responsabilità delle parole per investigare il mondo e il suo mistero

È stato questo il dono e il compito testimoniato proprio da Giuseppe Pontiggia che, per amore del linguaggio chiaro, aveva il gusto degli aforismi attraverso cui condensare con precisione un intero universo in forme concise:

«La radice della parola aforisma è la stessa di orizzonte. Il verbo greco horίzo significa delimitare. Orizzonte è all’origine il cerchio che si apre allo sguardo» (Opere, a cura di Daniela Marcheschi, I Meridiani, Mondadori Editore, Milano 2004, CVI).

E continua anche ora ad essere guida affabile e affidabile in quella mappa variegata e cangiante, ritmica e prospettica della sua opera testuale, nel nostro viaggio in compagnia delle parole e della letteratura.

«Uno scrittore che si avventura nella narrazione non tende a portare alla luce sé stesso (attività che risulta singolarmente gratificante per troppe persone), ma cerca in una terra incognita il punto di incontro con sé stesso e con gli altri. Questo viaggio comporta la traversata del linguaggio e il suo ritrovamento» (Opere, 1495).

Dalle radici all’apice dei rami fruttiferi

La letteratura è un itinerario vitale di ricerca e verifica, architettura di un cosmo che si costruisce come i cerchi di un albero e dei suoi rami attraverso la linfa, in tensione tra fuori e dentro sotto e sopra, verità e bellezza e soglia permanente tra ogni albero e l’intera foresta delle parole.

Egli non ha fatto della letteratura un’archeologia. Essa «ha un senso solo se si confronta con le cose essenziali che ci riguardano». Non è la ripetizione del già detto, ma la scoperta del non ancora, di ciò che verrà.

Così scriveva sul senso della letteratura ne L’isola Volante: «Nella sua accezione debole il senso della letteratura è modesto. Si può capire l’Arcadia e riconoscerne la funzione, anche civile e morale, nella società del Seicento: ma far parte di un gregge di pastori poetanti non merita probabilmente tutte le energie e le pene che la letteratura esige.

I suoi imbarazzanti rituali si ripetono anche oggi in forme diverse e giustificano sia le adesioni sia le assenze. Nella sua accezione forte si sviluppa in una duplice direzione, individuale e collettiva. Nel cielo di una vita può diventare una costellazione: interrogazione sull’ esistere, gioco rivelatore, scoperta inesauribile di quello che non si sapeva di sapere.

Il luogo comune che in letteratura tutto è stato detto – così rassicurante, così deludente – ci aiuta con la sua falsità ad avvicinare un punto essenziale: che la letteratura è sempre sorpresa e conferma. Non ricalca il noto (altrimenti non avremmo la sorpresa), ma al tempo stesso svela quell’ignoto che non ci è estraneo» (ivi, 1494-1495).

Confini che creano sconfinatezza

«Più in là, sì più in là, più in là, più in là…» (Gerard Manley Hopkins). C’è una ulteriorità che custodisce il linguaggio con cura amorosa. Questo sguardo penetrante fu reso possibile a Pontiggia per una scelta: quella di porre come centrale la correlazione tra etica e linguaggio, ovvero la costante ricerca della dimensione etica del linguaggio unita alla responsabilità verso le parole.

Si diventa responsabili se ne conosci la storia, come ascolto delle ragioni e degli affetti delle parole. Responsabile «solo se possiedi la “storia” di una parola, le sue risonanze remote, i suoi molteplici significati, poi sei in grado di capirla, di usarla da scrittore o da studioso, di farne vibrare tutte le armoniche» (Giuseppe Pontiggia, Investigare il mondo. Atti del Convegno Internazionale Di Studi nel decimo anniversario della scomparsa, Interlinea, Novara 2005, 41).

«Indagare la storia etimologica delle parole, riportarne alla luce il significato e il potere originario, significa in primo luogo risvegliare lo stupore del lettore di fronte ad esse. Lo stupore è elemento primo dell’intuizione creativa, il nucleo originario da cui trae origine l’opera.

Pontiggia si pone in linea col pensiero espresso da gran parte della tradizione classica – “lo stupore viene sempre posto, da Aristotele, a Cartesio a Einstein, alla radice del conoscere” – e che trova una teorizzazione efficace, nel Novecento, all’interno dell’opera di Jacques Maritain. L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia.

Lo stupore di fronte alla storia etimologica dei termini viene accresciuto dal senso di ignoto che ogni singola parola porta in sé. Una percezione costante che, attraverso l’analisi linguistica, permea e dà forma, a livello estetico e morale, all’intera architettura narrativa» (G. Vaccari, Etica e fiducia nel linguaggio, in Investigare il mondo, 159).

Etica e stile persuasivo

Sono queste le polarità a cui si ispira e si sviluppa la sua scrittura e il suo insegnamento nei corsi di scrittura creativa. Questi infatti «non erano tenuti per proporre, suggerire o imporre un modello unico, bensì per sensibilizzare e modificare i tanti pregiudizi e la disposizione mentale e operativa dei suoi interlocutori di fronte al problema dello scrivere e all’oralità stessa, sovente fraintesa quale forma di “spontaneità espressiva”.

I suoi erano quindi corsi per “contribuire alla formazione di una coscienza del linguaggio, che sia insieme etica e retorico-espressiva”. Etica, perché si considerava essenziale “l’acquisizione di un linguaggio responsabile”; e retorico-espressiva perché si mirava “alla persuasione in una duplice valenza: psicologica ed estetica”.

L’insegnamento di Pontiggia mirava così non a informare, non a dare regole precostituite, bensì a praticare e comunicare la forza dell’esperienza della parola in sé e della parola letteraria, vissuta con intensità» (D. Marcheschi, La fabbrica del testo, in Giuseppe Pontiggia, Le parole necessarie: tecniche della scrittura e utopie della lettura, Marietti 1820, Bologna 2018, 10-11).

Il coraggio di attingere in sé stessi

Per Pontiggia occorre ritrovare il significato più autentico della parola “retorica” come era in origine, oggi invece sinonimo di tecnica artificiosa e falsa. Dice quello stile di relazione, un modo di porsi nei confronti dell’altro, nell’oralità come nella scrittura, che non facilita solo l’espressione del pensiero ma addirittura serve a trovarlo, a coglierlo nell’atto stesso comunicativo, capace di suscitare nell’immediatezza del discorso nuove forme di ispirazioni nel dire e nello scrivere.

Non basta un retroterra di conoscenze, di studi, di letture: «è certo che, per scrivere anche in campo critico, bisogna avere ad un certo punto il coraggio di attingere in sé stessi con una risolutezza radicale per trovare veramente le ragioni del nostro rapporto con il testo. L’atteggiamento che suggerirei è quello di una concentrazione fiduciosa su sé stessi, nel senso di attingere a sé stessi per arrivare a dire quello che solamente chi scrive può dire» (Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere).

Secondo Giuseppe Pontiggia scrivere (come parlare) «è progetto e sorpresa; e questi due elementi sono, insieme con l’ispirazione, l’essenza stessa della creatività anche in campo letterario. È progetto, come insegna l’etimologia del termine, in quanto ciò che è gettato in avanti: un procedere, un avanzamento in una costruzione architettonica di cose, che si vogliono esprimere, e una attenzione premurosa per esse e le parole che le dicono, nell’ideazione e nel farsi delle frasi, nella definizione del nostro pensiero» (D. Marcheschi, La fabbrica del testo, 5).

Occorrerà poi essere consapevoli della differenza tra un discorso autoritario ed uno persuasivo, tra un linguaggio autorevole e l’arte della retorica, avendo presente l’etimologia latina a cui attingono sia il termine ‘autore’, sia ‘autorità’.

Augere = portare all’esistenza, far nascere qualcosa; da cui “accrescere”, “aumentare”, “ingrandire” qualcosa che esiste già, ma allo stesso verbo è possibile correlare un significato più forte: “generare dal proprio seno” perché l’autorità deriva da chi l’agisce, dal suo autore (Emile Benveniste).

«La poesia condensa in una metafora l’aurora della parola e la sua traiettoria»
(Pontiggia, Opere, 1369)

Scrive Pontiggia ne Il Giardino delle esperidi (Opere, 638): «“L’amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare”. Ma perché il silenzio e perché la poesia? C’è una frase di Thomas Mann che suggerisce una risposta: “Eterno è il mondo delle cose che non si possono esprimere, a meno che si esprimano bene”».

Vedere un Mondo in un granello di sabbia,
E un Cielo in un fiore selvatico,
Tenere l’Infinito nel cavo della mano
E l’Eternità in un’ora
(William Blake)

Leggera scorre e agita.
La Sabbia.
Infine, nella batea rimane una pepita
(Guilherme de Almeida).

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Cosa vuole davvero Trump? E l’Europa sa cosa vuole?

Cosa vuole davvero Trump? E l’Europa sa cosa vuole?

Le prime azioni di Donald Trump, ma anche il suo programma elettorale, prefigurano una rottura dell’America liberale che abbiamo conosciuto: meno libero mercato e più sovranismo, meno partecipazione alle organizzazioni internazionali e più colonialismo, meno spese per il controllo del mondo e più attenzione agli interessi degli americani. Così almeno sperano quei 77 milioni di americani, non certo tutti ricchi, che l’hanno votato e che hanno visto ridursi lavoro e salario sotto i governi dei Democratici. Trump critica la decisione dell’allora presidente Jimmy Carter di riconoscere nel 1977 il diritto di Panama a controllare l’omonimo canale, in quanto minaccia gli interessi “nazionali”; e già Reagan negli anni ottanta aveva proposto di uscire dall’Unesco.

Trump vuole decidere da solo e non avere i vincoli e contrappesi tipici della democrazia liberale. Nei prossimi due anni lo può fare e vedremo cosa succede. Per ora ha anche l’appoggio di tutto il mondo del business (finanza e grandi multinazionali) che spera di fare affari anche con lui e poter bloccare le azioni degli antitrust (sia USA che UE), evitando la concorrenza con piccoli nascenti competitors.

Zelenskij, capendo l’aria che tira, vuole entrare nelle sue grazie. Infatti adesso non chiede più soldi per gli armamenti,  ma afferma: “siamo felici di intensificare la cooperazione tra le industrie minerarie dei nostri due paesi”. Parlando come si mangia significa: siamo felici di svendere a condizioni privilegiate agli americani quel che ci resta dei giacimenti  delle terre rare ucraine. Agli europei, che pure hanno speso la metà di quanto hanno stanziato in armi gli Stati Uniti, si daranno le briciole e il 30% delle terre rare ucraine finirà nelle mani dei russi dopo l’avanzata dell’esercito negli ultimi 12 mesi.

I dazi che Trump vuole imporre sono un modo per tornare al mercantilismo, la prima teoria economica del 1600 quando, influenzati dalle conquiste coloniali (e dai vantaggi che ne derivarono col commercio), si sosteneva che la ricchezza di una nazione derivava dal mercanteggiare al fine di accumulare ogni materia prima (tra cui oro e schiavi) proveniente dalle colonie. Oggi sono materie prime le terre rare e le rotte marittime. Gli Stati Uniti non vogliono inoltre più svolgere il ruolo di consumatore di ultima istanza svolto per decenni, che chiudeva il deficit di domanda interna delle aree in surplus (Cina e Germania su tutte).

Qualcosa Trump potrà fare tra minacce e dazi veri: del resto la nostra Iva al 22% cos’è se non un dazio all’import, visto che negli Stati Uniti l’iva federale non esiste e sono i singoli Stati che applicano una “sales tax” che varia dall’1% all’11%? Ma in realtà dietro al mercantilismo ci sono altre strategie, come fare più affari a spese dei vassalli occidentali e rafforzare la morente manifattura made in Usa ormai vicina al collasso (ha 5 milioni di dipendenti rispetto ai 4 dell’Italia e a 8 della Germania) che determina il più grande deficit commerciale al mondo (-1.210 miliardi nel 2024, +14% sul 2023; era quasi a zero 25 anni fa). Nei servizi l’avanzo è invece di 293 miliardi e nel complesso la bilancia dei pagamenti è in deficit per 917 miliardi.

Dopo l’incontro col primo ministro giapponese Ishiba, Trump ha trasformato quella che era una pericolosa vendita (per l’interesse nazionale USA) della US Steel (acciaio) ai giapponesi della Nippon Steel (per 15 miliardi di dollari), in un enorme investimento in Usa “a favore del lavoro americano e dell’industria manifatturiera USA”. Dopo questo accordo per i dazi contro il Giappone (che ha un avanzo commerciale con gli USA di 68 miliardi annui) “si vedrà” ha detto Trump. Così i dazi contro l’Europa servono per convincere gli imprenditori europei a investire negli Stati Uniti (Elkann ha già dichiarato che investirà 5 miliardi con Stellantis) per creare lavoro americano e rafforzare la loro manifattura. Anche a Gaza si vorrebbe usare la fine della guerra per giganteschi affari a vantaggio degli interessi nazionali Usa.

Operando in questa direzione, Trump smantella parte del capitalismo che abbiamo conosciuto con la globalizzazione, che mescolava liberi scambi con disuguaglianza, ma svilisce anche alcune mitigazioni alla logica del puro capitalismo predatorio, tipiche della cultura liberale come: antitrust, vera concorrenza, welfare, tutela dei diritti delle minoranze, indipendenza della magistratura, della stampa, libere elezioni. Tutti aspetti che si sono molto deteriorati sotto lo tsunami della globalizzazione e degli stessi governi dei Democratici a partire dal 1999. Si pensi solo all’uso della forza e della guerra (della politica e della finanza) per imporre certi interessi nazionali (Belgrado e Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Maidan in Ucraina nel 2014, UE come mero mercato) in quanto si credeva di essere diventati i padroni del mondo.

L’ascesa di Cina e Russia e dei BRICS, organizzatisi dal 2009 e favoriti proprio dalla globalizzazione americana, ha avviato quel declino USA che ora Trump vorrebbe fermare. Al di là infatti della narrazione delle élite europee e di Nato sui super poteri degli USA, dell’Intelligenza Artificiale, del dominio sul mondo del dollaro e della finanza anglosassone, gli Stati Uniti hanno serie debolezze legate alla disgregazione in atto della società americana, ai conflitti crescenti sull’immigrazione e al gigantesco deficit commerciale dovuto alla scomparsa della manifattura che ha fatto scoprire come le guerre (anche quelle future, se non sono nucleari) si perderanno tutte contro Cina e Russia per il fatto che i soldi non sostituiscono né gli eserciti (uomini in carne ed ossa da mandare al macello), né la fabbricazione di armi e munizioni (ci vuole la vile “terra” della manifattura e non solo il “cielo” di Starlink).

Daron Acemoglu (recente premio Nobel in economia) e Francis Fukuyama (politologo) hanno scritto su Foreign Policy che solo un liberalismo rifondato può contenere il populismo autoritario in America e in Europa. E forse c’è bisogno anche di qualcos’altro, visto che proprio Fukuyama che aveva preconizzato “la fine della storia” nel 1992, non ci ha preso per niente.

Tra Trump e Musk (e anche le altre big company) si profila uno scontro a breve: Trump ha preso i voti di 77 milioni di americani che vogliono salari e benessere in contrasto con la logica dei profitti delle big company e di Musk.

Se l’America sceglie il neo colonialismo (dazi e mire coloniali su Canada, Panama, Groenlandia, Messico, Gaza come riviera di lusso, le terre rare dell’Ucraina, l’Europa come eterno vassallo…), tenere fuori i migranti significa entrare in collisione non solo con le big company ma anche con Cina, Brics e resto del mondo. Ecco perché può fare la voce grossa soprattutto coi suoi vassalli: Giappone, Corea del sud, Canada e soprattutto Europa, ultimo alleato vassallo senza guida politica e quindi alla sua mercè (27 nani alla corte di Trump), con probabili effetti di prossima disgregazione.

Per rifondare il liberalismo (come dice Acemoglu) bisognerebbe ridimensionare i grandi tecno-feudatari delle big company del tech, ridare spazio all’antitrust e alla concorrenza delle piccole e medie imprese, alle norme a favore degli umani sull’Intelligenza Artificiale, rilanciare welfare e salari fermi da 40 anni, occuparsi dei diritti sociali e delle disuguaglianze, organizzare un’immigrazione legale dignitosa, rilanciare il multilateralismo equo, temi che sono stati abbandonati da decenni e che certo non saranno ripresi da Trump. Vedremo come andrà a finire, ma è probabile che si affermi un fenomeno non nuovo in America, cioè quello del ritorno ad un nazionalismo sovranista che si andrà scontrando con i nuovi attori emergenti nel mondo (Cina, Russia e Brics).

L’Europa purtroppo è del tutto assente. Potrebbe svolgere un ruolo enorme nel mondo basando lo sviluppo umano su pace, diritti e welfare per non soccombere ai dazi americani, favorendo molto di più la domanda interna, cioè i consumi dei propri cittadini, riducendo la dipendenza da merci, gas e petrolio che provengono dagli Stati Uniti, favorendo “made in Europa” come si è fatto con Airbus ma aiutando anche le piccole e medie imprese (e non solo i “campioni”) e su beni che rispondono a necessità di benessere reale e non inseguendo il riarmo voluto dall’alleato USA. Spazi fiscali non ci sono per fare entrambe le cose e la difesa si può fare riorganizzandosi e spendendo meno degli attuali 340 miliardi dei 27 nani (3 volte la Russia).
Potrebbe svolgere poi un ruolo autonomo nel mondo, rifondando tutte le istituzioni internazionali (a partire dall’ONU) sotto il segno dell’equità, del giusto equilibrio e non come ora sotto l’egida dell’America e dei potenti di turno usciti dalla 2^ guerra mondiale. La grande maggioranza dei paesi del mondo sarebbero d’accordo e l’Europa ne avrebbe un enorme vantaggio morale, economico e commerciale. Si tratterebbe di ripartire non da zero ma da tre, anzi dai sei fondatori.

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Yoav Gallant: “Il 7 ottobre fu applicata la Direttiva Hannibal”

Yoav Gallant: “Il 7 ottobre fu applicata la Direttiva Hannibal”

A confermare le testimonianze finora sempre contestate dall’establishment israeliano ci ha pensato, nel corso di un’intervista televisiva, l’allora ministro della Difesa israeliano, poi cacciato dal premier Benjamin Netanyahu.

Nella sua prima intervista da quando si è dimesso dal governo israeliano, rilasciata al Canale 12 giovedì scorso, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant ha ammesso che il 7 ottobre all’esercito di Tel Aviv venne impartito l’ordine di eseguire la cosiddetta Direttiva Hannibal (“… il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze“)  contro i suoi stessi cittadini, causando numerosi morti anche tra i prigionieri oltre che tra i miliziani delle diverse organizzazioni palestinesi protagoniste del sanguinoso blitz. Ha parlato anche delle colpe di Benjamin Netanyahu e di aver saputo dell’attentato di Hamas mentre era in bicicletta. L’ordine, ha detto Gallant, venne applicato «tatticamente» ed «in certi luoghi» nei pressi di Gaza, mentre in altre circostanze non venne utilizzato.

Spiegando ai telespettatori in cosa consiste la direttiva o procedura Annibale, il giornalista Amit Segal ha spiegato che essa permette di aprire il fuoco contro degli obiettivi senza preoccuparsi dell’incolumità degli ostaggi israeliani. Eccone un estratto: “”il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze

Yoav Gallant – su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale al pari di Netanyahu – ha anche dichiarato che l’accordo con Hamas per lo scambio dei prigionieri era di fatto stato raggiunto già nell’aprile 2024, ma venne fatto saltare da Netanyahu a causa delle minacce da parte di Bezalel Smotrich (capo dell’estremista Partito Nazionale Religioso) di abbandonare l’esecutivo.

Purtroppo questi fatti vennero volutamente ignorate dal mainstream, snobbando anche le numerose inchieste pubblicate da autorevoli testate indipendenti convalidate da documenti e testimonianze di civili israeliani scampati al 7 ottobre 2023.

Già nel gennaio 2024 il quotidiano israeliano Yediot Ahronot aveva riferito che il 7 ottobre i comandi dell’esercito israeliano avevano impartito alle truppe l’ordine di eseguire la direttiva in maniera generalizzata, a costo di «mettere in pericolo la vita dei civili nella regione, compresi gli stessi prigionieri», avevano scritto i giornalisti Ronen Bergman e Yoav Zitun.

Persino il quotidiano israeliano Haaretz aveva subito avanzato seri dubbi sulla versione ufficiale del governo israeliano e, nel luglio 2024, aveva riferito che il 7 ottobre alle truppe israeliane era stato impartito l’ordine di non permettere a nessun veicolo di tornare a Gaza. Sempre a luglio 2024, anche i britannici Guardian e l’ultraconservatore Telegraph si occuparono della famigerata direttiva “Hannibal”.

Ora però l’ammissione di Gallant getta nuova luce su quanto avvenne nelle ore successive all’inizio dell’attacco palestinese contro Israele, confermando che una parte significativa delle vittime israeliane e dei lavoratori stranieri uccisi quel giorno sono da addebitare alla reazione indiscriminata e deliberata dell’esercito di Tel Aviv sulla base di una precisa direttiva degli alti comandi delle forze armate.

Secondo un bilancio ufficiale pubblicato il mese scorso, solo il 7 ottobre l’esercito israeliano ha utilizzato contro i combattenti che avevano sconfinato 11.000 proiettili, 500 bombe da una tonnellata e 180 missili.

Ovviamente tutti gli opinion maker sionisti, complici più noti dei criminali sionisti, tacciono di fronte a queste notizie insieme a tutto il sistema mediatico complice del genocidio del popolo palestinese.

Di seguito linkiamo tutte le inchieste indipendenti, immediatamente successive al 7 ottobre 2023, pubblicate da Contropiano.org, InfoPal e La Luce che narrano un’altra vicenda rispetto a quella sposata dal mainstream proprio sugli accadimenti del 7 ottobre 2023:

Nuove informazioni sulle menzogne israeliane sul 7 ottobre

I civili israeliani uccisi il 7 ottobre. Le responsabilità non sono solo palestinesi

Emerge un’altra verità sui civili israeliani uccisi nel raid palestinese del 7 ottobre

Israele conferma (involontariamente) che metà delle vittime israeliane del 7 Ottobre sono militari

Nuove Rivelazioni dai militari israeliani: abbiamo sparato sui kibbutz coi carri armati

Smentite, testimonianze false e nessuna prova: l’inchiesta del Times sugli stupri di Hamas smontata punto per punto

Smascherato il propagandista israeliano che sta dietro alla bufala degli “stupri del 7 ottobre”: è un truffatore

Conferma choc ONU: israeliani uccisi dai soldati israeliani il 7 Ottobre con Direttiva Hannibal

I doppi standard occidentali: la narrazione sul 7 Ottobre e il racconto del terrorismo israeliano in Libano a confronto

“Il mio nome è nessuno”: a proposito delle migliaia di ostaggi palestinesi prima del 7 ottobre

7 Ottobre 2023: il giorno che ha cambiato il discorso sul conflitto Palestinese-Israeliano

Come Israele ha ucciso centinaia di suoi cittadini il 7 ottobre

“Direttiva Annibale”. I media occidentali continuano a censurare lo scoop di Haaretz sul 7 ottobre

Il libro: “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione”

Capo dell’Intelligence militare israeliana rassegna le dimissioni a seguito del fallimento del 7 ottobre

“Arriveremo da voi con un’alluvione travolgente”: la storia non raccontata degli attacchi del 7 ottobre

Ex-ostaggio israeliano: mia madre è stata uccisa dalle IOF il 7 ottobre

Carri armati israeliani sono responsabili del bombardamento dei coloni israeliani a Be’eri il 7 ottobre

L’oppressione in Palestina non è iniziata il 7 ottobre, ma 106 anni fa, afferma ambasciatore palestinese nel Regno Unito

Spie di Hamas aiutate da “informatori interni” per l’attacco del 7 ottobre

Bambini nei forni? Inchiesta di Haaretz smentisce le fake news sul 7 ottobre

Israele non ha ancora detto una sola verità, non soltanto dal 7 ottobre, ma dalla Nakba del 1948

Inchiesta di The Gray Zone sul 7 ottobre: la maggior parte dei civili uccisi dall’esercito israeliano

Giornalismo mainstream tra fonti mai verificate e fake: la “decapitazione” di neonati da parte di Hamas non è mai avvenuta

Come un colonnello israeliano ha inventato la menzogna dei bambini bruciati da Hamas per giustificare il genocidio

“Hamas decapita i neonati”, la menzogna di guerra che piace al mainstream

AP confuta le accuse di violenza sessuale perpetrata da Hamas

La giornalista della CNN si scusa per aver detto che “Hamas ha decapitato i bambini”, ma i media italiani continuano con i fake

Su Israele e lo stupro

In copertina: Yoav Gallant, foto FMT.com, licenza Creative Commons

“VAI A QUEL PAESE” e tanti altri modi di dire

“VAI A QUEL PAESE” e tanti altri modi di dire

Mandare a quel paese”, “Stare con le mani in mano”, “Pietro torna indietro” … sono alcuni modi di dire comuni e molto usati.

È capitato a ciascuno di noi di utilizzarli. Ad esempio, “Vai a quel paese”, spesso lo usiamo in modo silente, mentre ascoltiamo discorsi che non ci piacciono o vediamo comportamenti scorretti. “Vai a quel paese” non è solo un modo di dire, è anche un modo di pensare che rappresenta e riassume bene quello che la nostra presenza in contesti conflittuali ci porta a desiderare e precede spesso comportamenti di allontanamento.

Ma cos’è un modo di dire e perché si usa così di frequente? Con modo di dire o, più tecnicamente, locuzione o espressione idiomatica si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso (non modificabile) a un significato non composizionale, cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti.

Espressioni come “essere al verde”, “essere in gamba”, “prendere un abbaglio”, “tirare le cuoia” non significherebbero nulla se considerate solo come somma dei significati dei loro componenti. I modi di dire, o espressioni idiomatiche, sono un insieme di parole il cui significato non è interpretabile letteralmente, ma deve essere invece considerato in senso figurato. Quando, per esempio, diciamo a qualcuno di “togliersi dai piedi”, non stiamo chiedendo a una persona di spostarsi dai nostri piedi, ma piuttosto di andarsene e lasciarci in pace.

I modi di dire italiani sono tantissimi. Alcuni hanno radici bibliche, altri vengono dalla letteratura, gran parte di essi hanno invece un’origine popolare che racconta un pezzetto della nostra storia. È questo il principale motivo per cui ci piacciono così tanto. All’interno di una conversazione le espressioni idiomatiche aggiungono valore a quello che si sta dicendo, visto che ogni modo di dire aggiunge una particolare sfumatura alla conversazione. Ricordiamone alcuni:

Stare con le mani in mano” – L’espressione si usa nei confronti di una persona che non sta lavorando mentre tutti quelli attorno a lui si danno da fare.

Non ci piove” – Questo modo di dire di origine popolare, come la maggior parte delle espressioni che coinvolgono fenomeni atmosferici, descrive l’idea di sicurezza e ineluttabilità di ciò che viene espresso. Se “non ci piove”, vuol dire che ci si trova in un posto protetto e irraggiungibile da qualsiasi dubbio.

Mandare a quel paese” – Gli insulti hanno spesso delle origini misteriose che li rendono curiosi. In italiano, per esempio, quando qualcuno ci ha fatto esasperare, o ci ha fatto un torto, lo mandiamo a quel paese. Ma quale paese? Nessuno lo sa, ma c’è andata sicuramente molta gente.

Piove sul bagnato” – Questo modo di dire esprime tutta l’indignazione che si prova quando succede qualcosa di veramente ingiusto a chi non se lo merita. Se, ad esempio, un riccone vince la lotteria oppure una donna che è appena stata lasciata dal fidanzato perde anche la borsa … ecco, in quei casi “piove proprio sul bagnato”.

Acqua in bocca” – La leggenda narra che una donna molto devota, ma allo stesso tempo particolarmente pettegola, avesse chiesto aiuto al suo confessore. “Che cosa devo fare” chiedeva “per non sparlare più della gente e smetterla di commettere questo peccato?” Il sacerdote, molto saggio, le suggerì un liquido miracoloso che, a suo dire, avrebbe frenato il desiderio di sparlare e rivelare i segreti altrui. “Ne prenda alcune gocce e le tenga in bocca” le disse “vedrà che è miracoloso!”

Avere un diavolo per capello” – Questa espressione descrive una persona furiosa. Non si tratta semplicemente di essere così arrabbiati da temere di essere posseduti dal demonio, non si tratta nemmeno di avere pensieri maligni per le persone che ci disturbano. La situazione è decisamente più problematica. Qui, di satanassi che turbano la mente ce ne sono a migliaia e sono lì a saltellare sulla testa e a tirare i capelli furiosamente.

Un altro aspetto molto curioso delle espressioni idiomatiche è che lo stesso concetto può essere espresso in maniera molto diversa da lingua a lingua: in italiano, per esempio, diciamo “volere la botte piena e la moglie ubriaca”, quando intendiamo che qualcuno sta esagerando con le pretese o che vuole avere due cose allo stesso momento che non si possono avere assieme.

Gli inglesi dicono “have your cake and eat it too” (avere la torta e mangiarsela), i tedeschi dicono “du kannst nicht auf zwei Hochzeiten gleichzeitig tanzen” (non si può ballare contemporaneamente a due matrimoni”), gli spagnoli “no se puede estar en misa y repicando” (non si può assistere alla messa e suonare le campane), mentre i francesi dicono “vouloir le beurre et l’argent du beurre” (volere il burro e i soldi del burro).

La particolare coesione interna delle espressioni idiomatiche consente flessibilità lessicale e sintattica che avviene principalmente con l’inserimento o la sostituzione di un termine oppure con variazioni sintattiche. A volte è possibile, ad esempio, l’inserimento all’interno della frase di avverbi o aggettivi.

È possibile dire “Francesca si è tolta un grande peso dallo stomaco”, mentre nell’espressione “Tirare la pesante carretta” l’aggettivo pesante priverebbe la frase della sua idiomaticità (Cacciari 1989). Allo stesso modo l’espressione “fare quattro passi” consente la variazione “fare due passi”, ma la sostituzione di qualsiasi altro numero al posto di due o quattro farebbe perdere il significato idiomatico alla frase. L’espressione “mettere le carte in tavola” consente la forma passiva (le carte sono state messe in tavola), mentre altre espressioni completamente fisse non lo consentono.

Esistono dunque espressioni idiomatiche assolutamente congelate, che non accettano alcun tipo di modificazione.  Il grado di immodificabilità e di cristallizzazione di un’espressione idiomatica sarebbe, inoltre, da mettere in relazione con il tempo di conservazione di tale espressione nella lingua. Quando una nuova espressione ne entra a far parte essa possiede, secondo Cutler (1982), una certa flessibilità sintattica, che tende a scomparire con il tempo, rendendo l’espressione idiomatica sempre più cristallizzata. [vedi anche:Qui ]

Davvero curiosa la storia delle espressioni idiomatiche che rappresentano bene un pezzo della nostra storia. Sono un libro aperto dal quale si può imparare a conoscere il nostro passato e che ci danno indicazioni sostanziali su come vivevano e su cosa pensavano i nostri predecessori, le persone che hanno vissuto prima di noi, i nostri nonni e i nonni dei nonni.

Mi sembra importante, aldilà dello studio tecnico e sistematico della lingua che lasciamo ai linguisti e ai glottologi, la consapevolezza che i modi di dire non sono affatto banalità ma che di fatto sono elementi essenziali del nostro modo di comunicare.

È proprio attraverso l’uso del linguaggio e la sua condivisione che gli esseri umani costruiscono una idea di mondo e la trasmettono alle generazioni future. È attraverso la condivisione del linguaggio che ci riconosciamo come comunità d’intenti e disconosciamo chi non la condivide. È attraverso il linguaggio che avvengono alcuni dei più importanti processi di socializzazione, è attraverso il suo uso che le attività scolastiche fondano la loro propedeuticità e il loro forte valore pedagogico.

Credo che tutto questo faccia molto riflettere anche sull’uso che ognuno di noi fa ogni giorno del linguaggio, ogni parola che usiamo ha un suo valore, un significato che è dato in parte dal suo potere cristallizzato e in parte dal contesto in cui viene usata. Ogni parola che usiamo nei confronti delle nuove generazioni contribuirà alla costruzione della loro idea di mondo. Trasmettere contenuti distruttivi attraverso il linguaggio è una responsabilità enorme, perché instillerà in chi sta imparando una cornice sociolinguistica che poi sarà quasi impossibile da sradicare.

La lingua tenta di descrivere la realtà e si trasforma rapidamente come il contesto temporale in cui viviamo. La parola racconta qualcosa di noi, descrive oltre al mondo di provenienza e appartenenza, anche la personalità e l’identità di chi la usa. Per questo una maggiore attenzione al linguaggio che adoperiamo consente di comprendere meglio l’altro e di instaurare relazioni e “conversazioni” consapevoli.

Il linguaggio non è neutrale, non può essere libero da una visione concettuale. Ciascuna concezione ideologica contiene una visione della realtà fisica e sociale preferita. Ogni concezione della realtà prescrive una visione di cosa le persone vedono e del modo in cui lo definiscono e lo valutano. Sapir e Whorf (1937) sostengono che noi sentiamo, vediamo e maturiamo esperienze nei modi che sono prevedibili a partire dalle abitudini linguistiche della comunità a cui apparteniamo, le quali ci predispongono a certe scelte interpretative. Il modo in cui le persone denominano una situazione influenzerà il loro comportamento in quella stessa situazione.

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MASCHERE E VOLTI DIETRO LE SBARRE
La Mostra al Museo Internazionale della Maschera di Abano Terme al 15 febbraio al 6 aprile 2025

MASCHERE E VOLTI DIETRO LE SBARRE
Mostra al Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”
Abano Terme – dal 15 febbraio al 6 aprile 2025

Sabato 15 febbraio, 2025 alle ore 11:30 al Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”  si inaugura con il patrocinio del Comune di Abano Terme, Provincia di Padova la mostra “MASCHERE E VOLTI DIETRO LE SBARRE” a cura di Paola Pizzi, Sarah Sartori e Walter Valeri, in collaborazione con Balamòs Teatro APS, diretta dal regista e pedagogo teatrale  Michalis Traitsis responsabile del progetto teatrale Passi Sospesi con la collaborazione artistica di Patrizia Ninu, attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore, Casa Circondariale SAT di Giudecca, attualmente chiusa) col contributo della Regione Veneto e Comune di Venezia.

La mostra è  composta da maschere realizzate dai detenuti del carcere maschile di Padova alla fine degli anni ’80, e documenti realizzati nel corso degli anni successivi: servizi fotografici, video, locandine del progetto teatrale Passi Sospesi. Tutti i percorsi laboratoriali, gli spettacoli, le iniziative collaterali esposti, sono stati documentati con il materiale fotografico di Andrea Casari e  video di Marco Valentini, presentati in numerose rassegne, mostre, iniziative, convegni, in Italia e all’estero.

A partire dagli anni Ottanta il teatro in carcere – già presente in alcuni istituti con attività amatoriali o tradizionali – ha assunto significati importanti, metodologie sperimentali e obiettivi che si sono consolidati nel tempo, esprimendo delle vere e proprie eccellenze in Veneto. “Ricordo come fosse ieri il volto del direttore, il personale di custodia in apprensione,  gli operatori penitenziari entusiasti, l’impegno straordinario dei detenuti nel costruire le loro prime maschere originali. La gioia nel vedere che ce l’avevano fatta!”, afferma Paola Piizzi, direttrice del Museo.

Col passare degli anni il Teatro in carcere ha posto sempre di più l’accento sull’esperienza, sulla pratica teatrale, sull’attività diretta e laboratoriale dei detenuti, sulla funzione terapeutica e pedagogica del palcoscenico, piuttosto che sul mero spettacolo di intrattenimento. Oggi quest’esperienza espositiva, aperta al pubblico, ai giovani e alle scuole, si configura come una pratica formativa importante e consolidata, che aiuta la riscoperta delle capacità e sensibilità personali dei carcerati, con modalità umane, operative ed espressioni educative specifiche, all’interno degli Istituti di pena; dove la ragione intima di ogni intervento artistico rimane il detenuto e il suo benessere. Il Centro Maschere e Strutture Gestuali di Abano Terme, fondato e diretto da Donato Sartori, è stato il primo in Italia e in Europa a realizzare un laboratorio teorico-pratico di maschere create dai detenuti, alla fine degli anni ‘80. Quel seminario, protratto nell’arco di due anni, si è poi concluso con uno spettacolo memorabile dal titolo Non basta dire, testi e musiche di Alberto Todeschini. Rappresentato all’interno del carcere di Padova il 27 gennaio 1990 e, successivamente, con gli stessi detenuti-attori il 31 marzo all’esterno del carcere, nell’ambito della rassegna teatrale organizzata dal Comune di Padova e da Arteven.          

            Certo da allora molte cose sono cambiate, non sempre in meglio bisogna dire,  ma i filmati, i gesti, le maschere, lo spettacolo a cui hanno dato vita i detenuti in quell’esperienza pilota di Padova e, negli anni successivi a Venezia, sono i protagonisti indiscussi e sorprendenti di questa bella mostra che è costata mesi di lavoro. “Rappresentano la creatività nata dietro le sbarre, per dar voce e dignità ai detenuti, a sé stessi, al proprio dolore, alle proprie future speranze. E’ l’inizio di una volontà di cambiamento che va festeggiata.” Dice il poeta e drammaturgo Walter Valeri. Unica e rara nel suo genere la mostra “Maschere e volti dietro le sbarre”, realizzata con coraggio dal Museo Internazionale della Maschera e Balamòs Teatro,  è l’incipit, la memoria delle origini del teatro in carcere, congiuntamente ad un’aggiornata testimonianza di collaborazione con gli Istituti Penitenziari di Venezia al servizio della cultura e della società civile.

La mostra è gratuita e resterà aperta sino a domenica 6 aprile 2025. Nel corso della mostra è previsto un fitto calendario di incontri, testimonianze, dibattiti e filmati.

Maschere e Volti

di Domenico Giuseppe Lipani

Scriveva Montesquieu nei sui appunti di un viaggio da Graz a L’Aia che a Venezia la maschera “non è un travestimento, se mai un incognito”: non un modo per contraffarsi in un altro, ma per non sembrare nessuno. E così essere liberi dall’individuo che si è (o quale dagli altri è riconosciuto), per divenire soggetto libero di agire, non nascosto bensì protetto dalla maschera. Insomma, la maschera ha a che fare con l’identità in una maniera più profonda della semplice negazione, perché ne è in una certa misura complemento, spazio possibile di una sua affermazione, complice del soggetto agente.

Questa mostra mette insieme maschere e volti, mediati e riuniti dal lavoro teatrale in carcere, ossia dal tempo dell’azione libera in uno spazio di privazione.

In queste maschere e in questi volti cosa vediamo? Cosa siamo capaci di riconoscere? Quale risposta sappiamo dare al loro sguardo interrogante?

Il volto dell’altro, secondo Levinas, ci interpella, ci mette in questione, ci chiama a rispondere: in questo senso ci rende responsabili. La richiesta di relazione, che il volto altrui ci impone nella sua incommensurabilità e nella sua totale trascendenza, mette in discussione il Me, le sue certezze e le sue pretese di autosufficienza: l’incontro con il volto dell’altro ci obbliga a uscire da noi stessi.

In questo senso il lavoro teatrale in carcere è la costruzione di uno spazio proprio in cui si riacquista un volto, volto come visum cioè sguardo e immagine – così come vediamo in queste fotografie – ma anche volto come splendore e come – etimologicamente – desiderio. Il volto dell’allievo ricostruito ad arte, cioè con la consapevolezza del suo intento espressivo, lo restituisce alla sua natura di soggetto di desiderio, togliendolo dall’unica dimensione reificante di oggetto di trattamento. L’aspetto che mi pare utile sottolineare sta nella dimensione “artificiale”, cioè a dire artistica, di questo processo. Si restituisce un volto alla persona grazie alla maschera teatrale, sia essa oggetto materiale o metafora del personaggio che agisce, sottraendolo alla maschera sociale che invece nega e occulta. Attraverso la maschera teatrale rivelo l’altro in me e vedo l’altro davanti a me.

Diversamente dalla dimensione ludico-rituale del teatro, le maschere fuori di esso sono oggetti che nascondono e annullano. Il carcere stesso è una maschera del controllo sociale. Dietro di esso scompaiono le vite, i dolori, le fatiche, le aspirazioni. Il potere che vi si esercita mira alla frammentazione di ogni identità o alla sua riduzione a poche, controllabili dimensioni. Il lavoro teatrale negli spazi di reclusione mira a ricomporre questa frammentarietà verso una molteplicità di tanti sé possibili. Osare immaginarsi altro, per arricchire ed espandere – il teatro sì! deve essere uno spasso! – le possibilità della persona.

Il teatro in carcere è ormai una realtà riconosciuta e diffusa, sia sul versante artistico che su quello istituzionale. In Italia nel 2021 su circa 230 istituti di pena ci sono state esperienze teatrali in almeno 127 di essi. Alcune di queste esperienze sono ormai radicate da molti anni, lavorano con continuità e vivono una situazione di riconoscimento formale da parte dell’istituzione carceraria, altre sono ancora estemporanee e vengono attivate di volta in volta sul singolo progetto.

Si tratta di attività che si situano in una posizione ibrida tra lavoro artistico e processo rieducativo, o come viene detto in termini burocratici dalla legislazione italiana ‘trattamentale’. La possibilità stessa di entrare nelle carceri con progetti teatrali si deve storicamente alla legge Gozzini del 1986, che aveva lo scopo di valorizzare l’aspetto rieducativo della pena rispetto a quello meramente esecutivo, in accordo con l’art. 27 della Costituzione italiana. Ciò permise al teatro, che era già presente, salvo poche eccezioni, per lo più con esperienze di carattere amatoriale, di entrare negli istituti di pena grazie al lavoro di registi e compagnie professionistiche. Nel giro di pochi anni si disegna una mappa articolata di esperienze, che di fatto dà vita ad un nuovo teatro, con caratteristiche diverse da un artista all’altro ma con taluni orientamenti e sviluppi condivisi.

Se da un lato l’amministrazione carceraria sottolinea l’aspetto trattamentale ed educativo delle esperienze, dall’altro gli operatori teatrali tendono per ovvie ragioni a mettere in risalto il lato propriamente artistico. Talvolta si tende a depotenziare il lavoro teatrale riducendo l’artista alla sola dimensione di operatore sociale/culturale, non riconoscendo le linee di ricerca sui linguaggi artistici, il loro collocarsi dentro un più generale sviluppo del teatro contemporaneo, la qualità estetica del lavoro.

Sembra di essere davanti ad una contraddizione insanabile, tra chi legge il senso di queste operazioni in chiave prettamente sociale/educativa e mette in evidenza soprattutto il fine etico e terapeutico delle prassi e chi lo legge in chiave prioritariamente artistica rilevando come l’utilità sociale sia direttamente proporzionale – e conseguente – alla qualità artistica e all’efficacia estetica. Questa contraddizione, forse solo apparente, attraversa più o meno tutti gli ambiti di quello che in Italia va sotto il nome di teatro sociale, e nei paesi anglofoni è più diffusamente chiamato applied theatre.

Certo le differenze ci sono e non sono riassumibili in una mera questione di generi artistici. Il teatro di interazione sociale non è un genere teatrale, dentro un sistema estetico di generi. Come affermava tempo fa Richard Schechner: “We do not deny either the social aspects of aesthetic theatre or the aesthetic aspects of social theatre but rather point out differences of purpose, audiences, venues, and production values”[1].

Ritengo personalmente che questa contraddizione sia solo superficiale e che solo la qualità di un lavoro artistico assoluto e puntiglioso, “monacale”, può garantire adeguate ricadute su tutto il sistema carcere. Non si tratta di semplice trattamento, dunque, di un’attività educativa tra le altre, o peggio di in-trattenimento, si tratta piuttosto di uno sguardo trasformativo attraverso il teatro, che si situa in uno spazio terzo, sospeso, non connivente con l’istituzione né banalmente complice con le aspettative dei detenuti. Un teatro che è essenzialmente politico perché, come spiega Hannah Arendt, crea un’occasione e uno spazio di libertà, di “utopia della polis”[2], dentro il carcere che dell’utopia è l’antinomia. E dunque un teatro che si situa lungo linee di sviluppo che hanno caratterizzato la ricerca artistica già dalle rivoluzioni novecentesche, e dalla loro conseguente dilatazione dell’agire teatrale, di quei teatri fuori dal Teatro, come li definì Fabrizio Cruciani. E che rispetto a quelle tendenze non si è acquietato nel sistema economico/istituzionale del teatro stesso, nelle sue propaggini burocratizzate dei teatri nazionali o in quelle a volte troppo autoreferenziali del teatro di ricerca. Ma ha cercato, cerca ancora, nella dimensione costretta del carcere di mantenersi fedele all’idea, che fu già di certe illuminanti esperienze di metà Novecento, di un teatro d’arte per tutti[3].

Il progetto in carcere “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro, di cui in questa mostra si possono vedere materiali e fotografie, non prevede solamente l’attivazione di percorsi teatrali, con laboratori e produzione di spettacoli ma un’offerta culturale ampia, che include incontri con importanti maestri del teatro, del cinema e della cultura contemporanea. Un percorso formativo a tutto tondo, per fare del carcere un luogo veramente riabilitativo. Inoltre, lavorando contemporaneamente anche all’Università, nelle scuole e nei percorsi di salute, Balamòs Teatro e il suo direttore artistico, Michalis Traitsis, hanno contaminato più volte i diversi percorsi creando occasioni di incontro tra i diversi gruppi, facendo venire in carcere bambini delle scuole primarie e studenti universitari e, quando possibile, inserendo gli allievi-detenuti nei progetti fuori dal carcere. Gli incontri vengono costruiti nel tempo con la pratica continua del laboratorio, costruendo una lingua comune, grazie ad una coerente disciplina teatrale. Si sono create così le condizioni di potersi riconoscere nel lavoro e attraverso di esso.

Un laboratorio teatrale in un carcere trascende il semplice dato del lavoro attraverso le tecniche del teatro e incide profondamente sulla costruzione delle persone attraverso il frame di interazione sociale in cui si trova immerso e da cui ricava il senso stesso della sua identità. Se la costruzione del sé passa attraverso un processo di negoziazione con l’altro e dal riconoscimento reciproco, inutile sottolineare come dentro l’istituzione totale questa negoziazione è costretta dentro i vincoli di etichette rigide, che segnano norma e devianza e per la quale il detenuto è fissato nell’unico ruolo di criminale, e l’unica relazione possibile con lui è data dal controllo e dalla privazione. Un detenuto è in prima istanza qualcuno che non dispone di uno spazio e di un tempo propri, e dunque non dispone di un proprio vissuto. La sua vita è regolata burocraticamente. In questa unica dimensione consentita la sua identità viene destrutturata e vengono innanzitutto compresse le necessità relazionali del sé. Le stesse istanze rieducative, proprio in quanto ‘ri-educazione’ sono in realtà la definizione di una norma da ristabilire e di una devianza dalla norma. E in questo la stessa rieducazione non mette al centro l’individuo con la sua specificità ma la norma stessa. Il laboratorio teatrale, al contrario, comporta la centralità della persona e delle sue necessità relazionali e in esso la dimensione performativa si fa pratica del sé. Il laboratorio è prima di tutto un ethos, cioè prima ancora che un set di valori, un luogo reale e metaforico da abitare: da cui ci si può allontanare e a cui si può tornare. In una prospettiva goffmaniana non sono gli stati interni dell’individuo che determinano il senso della sua azione ma i frames metacomunicativi. Se la cornice del carcere definisce l’identità del carcerato, il laboratorio teatrale è in prima istanza la creazione di una cornice nuova, uno spazio dentro al carcere che non è carcere e nel quale pertanto i partecipanti sono altro e ricostruiscono attraverso la performance la pienezza di un nuovo sé. Come dice il Marco Polo calviniano a Kublai Khan a proposito dell’inferno dei viventi: «cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Per far ciò il laboratorio teatrale funziona in prima istanza come strumento che accresce la consapevolezza delle proprie possibilità espressive e la percezione di sé come soggetto portatore di messaggio, soggetto responsabile, che può responsare. In secondo luogo, il laboratorio si fa strumento di rilettura della propria biografia, grazie ad una drammaturgia delle necessità degli individui, che permette ad un tempo di narrare sé stessi – di identità narrativa parlava Ricouer – e immaginarsi come altro da sé. Decolonizzare l’immaginario dalla sola dimensione della maschera istituzionale e mettersi nei panni altri, per accettare la molteplicità delle identità che ognuno di noi può accogliere.

Il lavoro teatrale si struttura come una sorta di itinerario da dentro a fuori, per giungere ad un’espressione formalizzata nello spettacolo, come momento privilegiato di incontro con l’altro.

Quando parliamo di spettacoli, tuttavia, dovrebbe essere chiaro che stiamo parlando dell’esito di un percorso, determinato dalla qualità del percorso stesso e dai materiali creativi ed emotivi che il gruppo ha messo insieme, costruendo una propria identità collettiva a partire dal laboratorio. Non si tratta mai di progetti pensati a monte, facendo calare dall’alto un testo o un’idea di spettacolo, ma di trovare una via comune che possa favorire maieuticamente l’espressione di sé. In questo processo si può incontrare materiale drammaturgico strutturato, come nel caso delle Troiane di Euripide, messo in scena nel 2012 e ripetuto poi altre volte fuori e dentro il carcere, o si possono montare insieme materiali disparati, in parte autoprodotti in parte suggeriti dal conduttore e ricavati da testi pre-esistenti come nel caso di Cantica delle donne, uno spettacolo del 2016, che ha avuto diverse repliche fuori dal carcere, in teatro e all’Università di Ferrara. Il processo che porta allo spettacolo è sempre fondato su una dimensione dialogica tra individuo, gruppo, regista. E assume un contorno preciso dato dall’apporto peculiare che ogni singolo può dare al lavoro, ridefinendo di volta in volta la propria identità nello spettacolo, grazie al riconoscimento del gruppo prima e della comunità degli spettatori dopo. Bisogna trovare il proprio respiro nei materiali espressivi e trovare con i compagni e con gli spettatori un respiro condiviso. Si tratta di opere a struttura aperta, i cui partecipanti possono variare – uno dei principali ostacoli in una casa circondariale è la difficile stabilità del gruppo: per motivi di esecuzione della pena, gente sempre diversa entra o esce dal carcere in un continuo turnover. Lo spettacolo, quindi, cambia insieme alle persone che vi prendono parte. I frammenti si ricompongono, dentro un canovaccio di massima.

In questa maniera era costruito, ad esempio, Cantica delle donne, in cui frammenti poetici, danze e canti di donne venivano consegnati allo spettatore sotto forma di lettera. Frammenti propri e altrui, che diventavano lo strumento di una comunicazione di sé pienamente autentica. Attraverso la mediazione dell’espressione poetica – fisica, coreutica e verbale –, da un lato si protegge l’intimità del dato biografico, dall’altro gli si dona un senso più grande, capace di traghettare le persone oltre il dolore che sono state, verso la bellezza che possono essere.

Diceva Kantor che il teatro è «il luogo che svela, come un guado segreto nel fiume, le tracce di un passaggio dall’altra riva alla nostra vita»[4]. Questo è stato il laboratorio per gli allievi del laboratorio in carcere di Balamòs Teatro, un guado dalla vita frammentata del detenuto alla pienezza di un sé da costruire giorno dopo giorno.

[1] J. Thompson, R. Schechner, Why «Social Theatre»?, in «TDR», XLVIII/3 2004, p. 11.

[2] Sulla politica come spazio di libertà, vedi H. Arendt, Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995.

[3] Mi riferisco ovviamente al Manifesto del Piccolo di Grassi e Strehler.

[4]  «The place that reveals – as some fords in the river do – the traces of transition from “that other side” into our life» (T. Kantor, A journey through other spaces: essays and manifestos, 1944-1990, University of California Press, Berkeley 1993, p. 146).

In copertina: foto di Andrea Cesari, progetto Passi Sospesi di Balamos Teatro