Skip to main content

Perfect Days (1) Tutto ciò che è noto viene amato e viene amato perché è noto

Perfect Days: tutto ciò che è noto viene amato e viene amato perché è noto

“Quale «nuovo» può valere quanto questa dolce monotonia, dove tutto è noto ed è «amato» proprio perché è noto?” .

È una citazione de Il mulino sulla Floss di George Eliot, pseudonimo maschile della scrittrice Mary Ann Evans.

Non trovo nulla di più appropriato di questa citazione per racchiudere, al modo di una perla in un’ostrica, l’ultimo film di Wim WendersPerfect days.

La felicità, la serenità – parrebbe dirci George Eliot – è qualcosa di monotono: è una ripetizione dello stesso. Il tempo sembrerebbe destinato a mettere in discussione proprio questo ritorno dell’identico e a strapparcelo dalle mani: nelle prime sequenze del film l’orologio appoggiato sulla mensola della casa del protagonista resta sempre, fermo, al suo posto.

Solo il giorno di riposo, Hirayama, indossa l’orologio prima di uscire di casa.

Il protagonista dell’ultimo, bellissimo film di Wim Wenders – Hirayama appunto – è un uomo taciturno e di poche parole. Ma già dai suoi semplici e incantevoli rituali mattutini capiamo molto di lui e  ci affezioniamo a lui tanto da non poter fare a meno di seguirlo per passare il nostro tempo con lui fino al punto di non chiederci più nulla o di aspettarci che accada qualcosa.

Perché il cinema di Wenders, da più di 50 anni, è una immane descrizione che coincide con la spiegazione cosicché anche nell’istante in cui non può succedere nulla, accade tutto. Accade che la vita si descrive, e si rivela nella sua semplicità e nella sua primigenia purezza.

Hirayama pulisce i bagni pubblici di Tokyo ed è contento del lavoro che fa. Lo fa con passione, scrupolo e rigore. Dopo il suo passaggio quotidiano, i bagni pubblici di Tokio diventano capolavori di architettura contemporanea. Hirayama lustra, lucida, pulisce. Ispeziona gli angoli dei wc con uno specchietto per rimuovere anche la minima traccia di sporco.

Hirayama ripete ogni giorno gli stessi gesti: si sveglia al fruscio della scopa di una spazzina che pulisce la strada davanti casa sua; ripiega il suo futon, si lava, si aggiusta i baffetti curatissimi, saluta le sue piante e i piccoli aceri di cui si prende amorevolmente cura, prende sempre gli stessi oggetti disposti sulla mensola e esce per andare a lavoro.

Nel suo furgone ascolta musica – tipicamente rock underground newyorchese- incisa su audiocassette e riprodotta con un vecchio “mangianastri”. Durante la pausa, consuma il pranzo frugale sulla panchina del parco, fotografa dal basso le chiome degli alberi con una piccola macchina fotografica analogica che porta sempre con sé nel taschino della tuta.

Al termine del turno lavorativo, si lava accuratamente in un bagno pubblico, consuma qualcosa al chiosco del mercato (la domenica si concede un pasto al ristorante della cui proprietaria sembra essere invaghito) e poi rincasa. Prima di dormire, sdraiato sul futon, legge Le palme selvagge di William FaulknerUrla d’amore di Patricia Highsmith. È un uomo colto, Hirayama. In un passaggio del film intuiamo anche che viene da una famiglia benestante con cui ha deciso di tagliare i ponti. “Il mondo – dice – è fatto da tanti mondi, alcuni sono collegati, altri no”.

Lui ha fatto una scelta filosofica:  vivere solo; vivere di musica, di libri, di piante. E di silenzi.

Vivere di piccole cose, un’esistenza minima. Essenziale.

Nel film non accade quasi nulla. Un giorno dopo l’altro tutto si ripete, anche le notti e i sogni. Il mondo onirico di Hirayama è popolato da ombre d’alberi e volti di donna, arabeschi, e origami di una bellezza e delicatezza tipica del sumi-e, la  pittura a inchiostro e acqua monocromatica  che utilizza solo inchiostro nero, in varie concentrazioni. Ombre, solo ombre: «ma se due ombre si sovrappongono, diventano più scure?», chiede Hirayama all’ex marito della proprietaria del ristorante della quale è invaghito.  Già: se esistono giorni così perfetti, potranno esistere notti a loro modo perfette?

Ed è in questa “invisibilità” di giorni perfetti e di notti altrettanto perfette che sboccia quella straordinaria monotonia che potrebbe  illuminare la citazione della Eliot che abbiamo posto all’inizio: tutto ciò che è noto viene amato e viene amato perché è noto.

Non c’è nulla di nuovo che possa valere di più della dolce monotonia perché  il crescente bene del mondo – direbbe ancora la Eliot- dipende in parte da atti non storici compiuti da quelle persone, come Hirayama, che vivono fedelmente una vita semplice e da registi come Wenders che delicatamente ce la mostrano, semplicemente, senza alcuna spiegazione.

Cover: sequenza daPerfect days”

Lo stesso giorno /
“La conoscenza è potere”: nel 1932 Lewis Michaux apre ad Harlem la prima libreria afroamericana

Lewis Michaux: “La conoscenza è potere”.

La Storia Della Prima Libreria Americana Aperta Alle Persone Nere: Un Simbolo di Resistenza e Cultura.

Negli annali della storia americana, tra le pagine segnate da ingiustizie e lotte per i diritti civili, emerge un capitolo significativo che riflette la perseveranza e la forza della comunità nera: la nascita della prima libreria aperta esclusivamente alle persone di colore negli Stati Uniti.

La storia della prima libreria afroamericana negli Stati Uniti risale al periodo post-Guerra Civile, un’epoca caratterizzata da profondi conflitti sociali e razziali. Era il 1932 – ho cercato ovunque il giorno preciso dell’inaugurazione ma gli annali non lo riportaano e Lewis Michaux inaugura la National Memorial African Bookstore.
Prima di allora Michaux vendeva libri su un carro e poi in un piccolo negozio sulla Settima Avenue, come si chiamava allora la strada. Guadagnava talmente poco da essere costretto a dormire nel retro della sua libreria.
La National Memorial African Bookstore divenne in breve tempo un punto di riferimento per gli intellettuali neri, gli attivisti e i semplici cittadini desiderosi di conoscere la propria storia e cultura. Per la comunità di Harlem era più semplicemente la “House of Common Sense and the Home of Proper Propaganda”.

Lewis Michaux nella sua libreria

Michaux ripeteva spesso che “la conoscenza è potere” e ha dedicato la sua vita alla diffusione di libri che celebrano l’eredità africana e afroamericana e contro il razzismo. Odiava la parola “negro“, sostenendo che fosse una parola usata per gli schiavi e che negasse a un popolo la sua storia e la sua patria.

La National Memorial African Bookstore non era solo un luogo di vendita di libri, ma anche un centro di dibattito e organizzazione per la comunità nera.
La libreria di Lewis Michaux ha accolto numerosi personaggi illustri, tra cui Malcolm X, Muhammad Ali, Langston Hughes e Kwame Nkrumah, che divenne in seguito il primo presidente del Ghana.

In particolare, la storia racconta che fu proprio grazie alle discussioni con Malcom X, sui diritti della comunità, che la libreria riuscì a coinvolgere sempre più persone e dare il via a molte iniziative politiche e culturali.

La National Memorial African Bookstore di Hzarlem N.Y..

Anche negli anni ’60 e ’70, durante l’epoca dei grandi movimenti per i diritti civili, la libreria è stata oggetto di minacce, intimidazioni e attacchi da parte di gruppi razzisti. Tuttavia, Michaux e la comunità hanno resistito con determinazione, difendendo il loro diritto di avere uno spazio culturale autonomo.

La National Memorial African Bookstore ha lasciato un’impronta indelebile nella storia americana. Il suo spirito di resistenza e celebrazione della cultura nera continua a ispirare le generazioni odierne.
Nel 2022 è stato commemorato il 90º anniversario dall’apertura, ricordando il suo contributo alla lotta per l’uguaglianza e la valorizzazione dell’eredità afroamericana.

In un momento in cui la diversità e l’inclusione sono al centro del dibattito nazionale, la storia della prima libreria afroamericana ci ricorda il potere della conoscenza e della cultura nel superare le divisioni e costruire un futuro più equo e solidale.

Agricoltura: Linea Verde contro Linea Nera

Agricoltura: Linea Verde contro Linea Nera

Gran parte degli agricoltori sono furiosi perché si trovano tra l’incudine e il martello: schiacciati dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO), che riconosce loro una parte troppo piccola del prezzo finale che pagano i consumatori, e dai giganti dell’industria alimentare che li mettono in concorrenza con alimenti importati, che spesso contengono più pesticidi dei nostri. Da qui nasce la comprensibile contestazione contro l’accordo UE con Mercosur ovvero Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay  – che, come afferma la coalizione Stop Ttip Italia (di cui fa parte anche Slow Food ) “… promuove un aumento delle importazioni europee di carne bovina, soia e biocarburanti, in cambio di maggiori esportazioni di automobili nei Paesi sudamericani. Uno scambio fra agroindustria e automotive le cui pesanti esternalità ricadranno sulle condizioni della foresta amazzonica, già colpita da incendi e deforestazione guidata dai grandi allevatori e agricoltori.”

Gli agricoltori subiscono per primi gli effetti del cambiamento climatico (siccità, inondazioni). Si tratta di un modello agricolo che non sta più in piedi, nonostante sia da decenni generosamente sussidiato con fondi pubblici, sia dai singoli Stati che dall’Europa, che spende per l’agricoltura un terzo del suo bilancio. Tuttavia, poiché i soldi non ci sono per tutti, essi vanno per l’80% alle grandi imprese (che sono il 20%) per cui ai piccoli arrivano le briciole. La guerra in Ucraina ha reso la situazione ancora più critica, facendo esplodere l’inflazione e i prezzi dei fornitori (antiparassitari, attrezzature, sementi, energia, gasolio, acqua) e sprofondare il prezzo dei cereali nel 2023 (-20% sul 2022) e delle piante industriali (-10,5%, fonte Istat), con l’arrivo dei corridoi di solidarietà che portano in Europa i raccolti dell’Ucraina.

Questa agricoltura industriale non ha futuro perché è costosa (va sempre sussidiata), inquina e degrada i suoli al punto che tra pochi anni molti terreni, resi meno fertili ed erosi, si desertificheranno. Proseguendo sulla strada dell’agricoltura industrializzata i piccoli agricoltori si autodistruggeranno. Arriveranno i droni, altre meccanizzazioni (tutte cose molto care della cosiddetta “agricoltura di precisione”), sempre più costosi antiparassitari per terreni sempre meno fertili, crescerà la concorrenza estera di cibo spazzatura.

Al futuro del mondo agricolo si aprono, pertanto, tre vie:

  1. scomparire. I piccoli agricoltori già si sono ridotti a 400mila, il 2% degli occupati, massacrati dall’ impatto della divisione del lavoro europea, prima ancora di quella mondiale, che si produrrà con l’ingresso dei paesi candidati (Ucraina, Georgia, Albania, Bosnia-Erzegovina, Moldova, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia), tutti a basso costo del lavoro agricolo e a grande produzione agricola e cerealicola, producendo l’ulteriore scomparsa dei piccoli coltivatori nostrani, che non esportano. Cresceranno ancora i terreni delle grandi imprese e di quelle esportatrici. Un fenomeno simile a quanto già avvenuto nel 2004 per il Sud Europa, con l’ingresso di 100 milioni di lavoratori dell’Est Europa;
  2. sopravvivere, con un’ agricoltura industrializzata ma ancora più sussidiata da aiuti pubblici (che però fanno a pugni con le altre categorie e con le regole del Patto di Stabilità, che chiede austerità a tutti). Questa è la strada che propone la burocrazia dell’Unione Europea, a costo di ulteriori devastazioni ambientali e umane, strada che trova resistenze nello stesso mondo contadino, che sempre più si rivolge al biologico;
  3. lottare per imporre l’agricoltura contadina (e bio), la difesa dei piccoli coltivatori, rispettosa dell’ambiente, degli animali, che produce con utilizzo minimo di antiparassitari, che dà un prodotto di qualità agli europei e che proprio per questo è sussidiata, chiedendo prezzi maggiori nell’ambito della filiera che finisce alla GDO. Mantenendo e incentivando quegli agricoltori che, oltre a coltivare, curano il territorio, lasciano spazi crescenti alla biodiversità e migliorano il paesaggio. E’ anche una via reclamata da molti cittadini, consumatori e agricoltori che già sostengono con le Comunità di Sostegno Agricolo (CSA) alcuni piccoli contadini che vedono non solo il dito ma la luna e capiscono che solo un’agricoltura di qualità può reggere alla concorrenza estera che si basa su bassi prezzi, cibo spazzatura e inquinamento.

Anche in Europa qualcuno lo aveva capito. Da questa insostenibilità, agricola prima che ambientale, dell’attuale modello agro-industriale sono nate le timide modifiche apportate dalla stessa Unione Europea negli ultimi 5 anni, che si sono tradotte in un’agricoltura più sostenibile, biologica, a minor impatto ambientale che usa biofertilizzanti, lascia a riposo il 4% del terreno affinché crescano gli impollinatori e la biodiversità, si arresti il degrado dei suoli e si sviluppino quelle funzioni riproduttive dei terreni con un aumento di materia organica o almeno l’arresto della loro degradazione. I terreni a riposo, che da sempre nella biodinamica sono il 10%, vengono “bollati” come improduttivi, ma chi lavora la terra (non coi trattori giganti, spesso nelle mani di contoterzisti) sa che non è vero. La rotazione delle colture è funzionale, come avevano scoperto già i Romani, ad una maggiore produttività dei terreni stessi. Permette di mantenere il suolo in salute, apportando azoto senza dover fornire continuamente antiparassitari e concimi chimici di sintesi. Evitare poi le monocolture consente di avere un’agricoltura a “mosaico” con prati, filari, stagni che favorisce l’avifauna e l’entomofauna; sono proprio gli uccelli (in calo del 36% negli ultimi 20 anni) e gli insetti i migliori antiparassitari.

Il futuro dell’agricoltura richiama il futuro delle auto, dove c’è chi resiste sulla trincea arretrata del motore endotermico, che nei modelli migliori a benzina immette 80 grammi di CO2 rispetto ai 50 previsti nel 2030; un modello che quindi non ha futuro.

… ma le stime sui seggi al prossimo Parlamento Europeo non promettono nulla di buono 

Le previsioni del voto di giugno alle elezioni Europee indicano che, nonostante la crescita delle destre, le stesse non riuscirebbero a governare col PPE (max. 358 seggi sui 361 necessari). E’ probabile la riconferma dell’attuale maggioranza (seppure indebolita) con 451 seggi formata dal PPE (che cala da 182 a 173 seggi), dai liberali di Macron (da 108 a 86), Laburisti-Socialisti (da 154 a 131) e Verdi (da 74 a 61). Poi c’è anche la sinistra radicale (anche lei in lieve crescita: da 41 a 44). Il PPE sarà comunque l’ago della bilancia.

L’Europa liberale/moderata/laburista arranca sotto le critiche delle destre-destre, mentre la sinistra appare assimilata e logorata così come il PPE, che da tempo governa. La protesta dei cittadini si rivolge quindi all’opposizione, come avvenuto in Italia con la Meloni. Eppure questa Europa è molto sbilanciata verso gli interessi della destra economica (proprietà privata, profitti, libero mercato, multinazionali, minore tassazione ai ricchi, crescenti disuguaglianze, smantellamento progressivo del Welfare State).  Il paradosso è compiuto: gli agricoltori protestano contro il ministro Lollobrigida e la Coldiretti, che hanno promosso per decenni questo modello agricolo fallimentare, ma contemporaneamente…li hanno votati.

In copertina: foto copyright © Eric De Mildt / Greenpeace

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Andrea Gandini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

in traduzione

in traduzione

Primavera in febbraio, un’acqua grama; l’insonnia, sentirci dire la natura muore.

Con quanta voce ora noi ti si piange. In full sorrow, in officio tenebrarum, in circle singing, nenia e lamentazione. In traduzione.

Con quanto sonno addosso pronunciamo, ripetiamo il tuo nome. I tuoi molti, il tuo nessun nome.

I tuoi nomi bruciamo, che rinascono identici e diversi; che affondano, riemergono, riaffiorano. Con quanta voce ti cantiamo voci, la nenia dei tuoi nomi. La tua forza, la tua furia piangiamo, la tua grazia sepolta e risorgente: te che sei mondo, luce primordiale, te lucis ante, stella del divenire.

Tu che sei forza furia e grazia e rabbia, che sei natura e vinci sempre tu. Tu vita in vite e in morti, passioni tristi e innumeri emozioni; tu che sei ogni affetto, ogni elemento, tu che sei luce e sei disequazione.

 

E noi che ripetiamo voci e nomi, spoglie, ceneri, pietre, il tuo serto di foglie e costellazioni: noi ti piangiamo morta, noi sedicenti sapiens, che ripetiamo gli atomi e le cellule in perpetuo fiorire, dare frutto e marcire. Noi a piangerti morta, tu nostra infinità; noi nel brusio, in lore di videogame, nel dolore, nel fracasso di camion e motori, noi nel tramonto dell’antropocene. Noi a guastare mondi, noi a cantargli lodi, inni, lamentazioni, vaghe approssimazioni.

Tu madre delle arnie e delle rocce, di vulcani, di bestie e di ghiacciai, tu che sei furia e grazia, che sei gioia anteriore, continuo inabissarsi e riaffiorare. Tu nostra rabbia e forza, stella del divenire, tu strazio e creazione – tu natura impensabile, pura contraddizione.

© Silvia Tebaldi

Cover: Monet – Le Printemps, 1886

Le voci da dentro /
Ricorso per inazione

Per molte persone detenute, l’attesa di qualcosa può diventare la metafora del loro percorso di rieducazione. In carcere si aspetta che arrivi l’ora d’aria, l’ora delle attività, l’ora di telefonare, il colloquio con un familiare, la risposta ad una “domandina”, l’esito di una istanza o di un permesso. Chi ha scritto il testo ha una proposta per sveltire i tempi.
(Mauro Presini)

Ricorso per inazione

di V. M.

Quanti di noi si sono ritrovati a dover attendere per lunghissimo tempo per avere una risposta da un ufficio, una istituzione, un giudice, ecc.?

Questi tempi morti diventano drammaticamente penosi quando ci si trova in stato di detenzione e da un sì o un no dipende letteralmente la vita di chi vi si è imbattuto.

Per le istituzioni europee esiste un apposito ricorso chiamato “ricorso per inazione”, il quale semplicemente prevede come si possa far ricorso contro quell’istituzione che, tenuta a dare un parere, si astenga ingiustificatamente dal farlo.

Oltretutto i tempi sono anche decisamente stringenti infatti se entro due mesi da quando l’istituzione deve prendere la sua posizione, la stessa non lo ha ancora fatto, si può attivare il ricorso per inazione e l’istituzione ha altri due mesi per emettere la sua posizione altrimenti si esporrà ad un procedimento per inadempimento.

In Italia per cercare di porre dei rimedi alle lungaggini dei procedimenti fu varata la così detta “legge Pinto”, la quale come unico rimedio a dette inutili perdite di tempo permette di accedere a dei risarcimenti (davvero irrisori e soprattutto con oneri stringenti in capo al richiedente) per coloro i quali si trovassero nella condizione di dover aspettare l’esito di un giudizio ormai da anni.

Ovviamente questo non solo non ha risolto il problema ma, di fatto, ha dato una scappatoia a giudici e funzionari che si fanno scudo di un ipotetico risarcimento per il loro inutile procrastinare alla quale il malcapitato può fare richiesta di accedere.

A parer mio sarebbe molto più utile prevedere dei termini certi e tassativi entro i quali giudici ed amministratori siano tenuti a emettere il loro atto/parere, esponendosi, in caso di mancato rispetto degli stessi, ad una procedura di infrazione che possa quanto meno portate a una valutazione dei metodi decisionali utilizzati e sfrondare quelle pratiche che hanno portato a non essere in grado di rispettare i tempi previsti.

Ci adeguiamo continuamente a “parametri europei” su decine di materie spesso anche pesantemente incidenti nelle vite quotidiane di tutti noi e che spesso portano con sé oneri anche di un certo rilievo e senza un beneficio immediatamente apprezzabile, perché non farlo su una materia che invece potrebbe cambiare le sorti di un’intera nazione?

Questa piccola norma potrebbe portare ad un’ enorme rivoluzione.

La nostra cara Italia, da decenni rassegnata all‘immobilismo dettato dalla più inutile burocrazia, potrebbe finalmente trovare uno spunto per rialzarsi e cominciare a correre in questo mondo dove la colpa più grave è divenuta la mancata azione.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica. Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

La maieutica di Michalis Traitsis

La maieutica di Michalis Traitsis

Il 13 Febbraio, presso la Sala Estense di Ferrara , si è tenuto l’incontro pubblico di “restituzione” ai cittadini, dell’edizione 2022 del pluriennale progetto “Il teatro e il benessere”, diretto dal regista-pedagogo teatrale Michalis Traitsis, e a cura del Balamós Teatro, Il progetto è rivolto a persone con malattie neurodegenerative, care givers familiari e non, ma dal video proiettato e dalle  interviste agli “attori partecipanti”, risulta aperto a tutti, mostrando un gruppo eterogeneo di persone che hanno testimoniato la valenza positiva e di empowerment dell’esperienza teatrale svolta.

Il video proiettato, contenente le interviste agli attori e parte dello spettacolo finale del 2022 “Radio Agorà”, è del regista e videomaker romano Marco Valentini, le fotografie di Andrea Casari, e la collaborazione artistica Patrizia Ninu.

Le interviste agli attori che si intercalano nel video non  sono apparse affatto scontate, ma parte del percorso di espressione di sé, fino alla ben più scabrosa fase dell’esposizione di sé che un’intervista pubblica comporta. La prima cosa che ho notato è la prevalenza femminile del gruppo, a conferma dell’ormai evidente  latitanza maschile in tutte le occasioni in cui non si ricopre un ruolo istituzionale, ma é necessario mettersi in gioco o, ancora peggio, “metterci la faccia”. I pochi maschi partecipanti  apparivano comunque particolarmente spontanei, autentici, genuini, come il simpatico attore dello spettacolo che si è espresso in un dialetto ferrarese puro,  strappando un sorriso a tutti i concittadini ancora in grado di capirlo.

Il primo aspetto che emerge dalla visione di interviste e spettacolo del gruppo, raccolti nel video, è infatti il tema della visibilità, del fare uscire dall’oscurità e dalla solitudine persone destinate alla  marginalizzazione sociale per svantaggi dovuti a problemi di  salute di carattere degenerativo, a renderli protagonisti di un percorso fruibile anche dagli altri: gli spettatori .
L’obiettivo del progetto , promosso dall’assessorato delle politiche sociali del comune di Ferrara dal 2015,  di democrazia partecipata, di inclusione dei soggetti sociali deboli, del teatro come “ arte della partecipazione e della relazione” risulta pienamente raggiunto.

L’altro aspetto che appare evidente nel lavoro presentato attraverso il video, ma anche dall’incontro e dalla discussione è il ruolo determinante, la assoluta importanza della figura del regista.

Ma come si confeziona uno spettacolo teatrale, degno di essere considerato un prodotto artistico, dalle performance di soggetti eterogenei sotto tutti i punti di vista, così come le interviste agli attori rendono evidente?

A questo punto entra potentemente in campo il percorso di Michalis Traitsis, esplicitato al pubblico dall’intervento di Domenico Giuseppe Lipani, direttore Centro Teatro Universitario di Ferrara. Un percorso, snodatosi negli ultimi sette anni e che, visto l’amore per la cultura greca e il teatro classico  di Michalis, io definirei socratico. Si parte dal conosci te stesso, con i tuoi limiti e le tue potenzialità, per esprimerti, con umiltà e orgoglio, tendendo verso “l’altro”. La relazione con se stessi e con gli altri nasce nello spazio vuoto del teatro come punto di incontro, lasciando la libertà al “non ancora accaduto” di accadere. Ed accade sempre, affermano gli attori nelle interviste, stupiti di essersi mossi , di aver superato paure e limiti, di aver incontrato altri diversi ed uguali a loro.

Dalla relazione nasce il gruppo, la coscienza di esserlo, la voglia di esprimerlo nello spettacolo, obiettivo comune di un cammino individuale e collettivo Lo spettacolo del 2022, “Radio Agorà”, di cui nel video si vedono alcuni spezzoni, restituisce il gruppo alla piazza, e la piazza al gruppo. Luogo collettivo di proprietà comune, come nell’antica Grecia, che ha la peculiarità di trasformare voci deboli, o perfino anche stonate, in un bellissimo coro.  Ed è in questo momento che emerge l’arte maieutica del regista, Michalis Traitsis, che ha tratto alla luce, aiutato a nascere  la parte più vera di ciascuno.

Per la prima volta ho capito che un regista è qualcuno che vede prima che sia visibile, che vede l’arte nella realtà viva degli esseri umani, che li vede come un’opera d’arte. Compie la sintesi, come ha detto lo stesso Michalis, fra etica ed estetica, mettendo in scena  uno spettacolo artistisco proprio dove la vita sembra trasformarsi in orrore.
Nel dibattito sulla “democratizzazione della cultura” si può incorrere nel rischio di un tradimento della vera arte, che non é affatto democratica, ma quasi sempre creata da eccellenze individuali, è emersa la posizione  di Michalis che ha ripetuto più volte; “Non basta fare teatro, bisogna farlo bene”. In conclusione, pur riconoscendo il valore terapeutico dell’esperienza, a tutti i livelli, non è necessario che gli attori siano artisti, se non di se stessi, ma il regista, come direttore d’orchestra di esseri umani, deve esserlo, e Michalis Traitsis, come ha dimostrato nei suoi spettacoli,  lo è.

Il sito di Balamós Teatro: https://balamosteatro.org/

Le foto nel testo sono di Andrea Casari

Presto di mattina /
Città aperta

Presto di mattina. Città aperta

“Anche le città hanno i loro sogni”

«Anche le città hanno i loro sogni», scrive Adam Zagajewski (1945_), per frangere il silenzio della memoria e dell’oblio (Guarire dal silenzio, Mondadori, Milano 2020, 29). Città sommerse e salvate, perdute e ritrovate sono le sue, stando ai luoghi narrativi coniati da Italo Calvino nelle Città invisibili.

Ma fra tutti i sogni quello più ricorrente di una città è di diventare una città aperta, sogno che attende anche noi per farsi vero: «La città è aperta,/ aperti sono il vento e l’errare da un polo all’altro,/ senza potersi fermare o essendo troppo fermi,/ o simulando soltanto – malgré soi – il movimento,/ in una immobile inarrestabilità;/ tutto ciò che è accaduto/ sta aspettando te» (ivi, 132).

Città aperta è pure quella che, al pari della poetica di Zagajewski, sarà capace di declinare la realtà storica con il senso profondo della condizione umana che abita in essa. Così per il nostro autore città aperta è quella che incontra e riscopre i volti, perché sono i volti che edificano una città: i volti di coloro che arrivano, di quelli che partono o restano. Per questo una città aperta è pure città contemplativa che domanda: “mostrami il tuo volto, il tuo volto io cerco” (Sal 26, 8-9) ed è città profetica, una profezia di intimità: “la tua parola nel mio cuore”, (Sal 119, 11).

Di sera sulla piazza del mercato splendevano i volti
di persone che non conoscevo. Guardavo avidamente
i volti umani: ognuno era diverso,
ognuno diceva qualcosa, persuadeva,
rideva, soffriva.
Pensai che a costruire la città non sono le case,
non le piazze, i boulevard, i parchi, le ampie strade,
ma i volti avvampanti come lampade,
come i bruciatori dei saldatori, che di notte
nelle nuvole delle scintille riparano il ferro
(ivi, 83).

Ma pure vi è una città chiusa, quella del sottosuolo. Essa «è una sala d’attesa dove ogni giorno/ muori della malattia da ratto/ di chi chiude gli occhi per non vedere il male» (ivi, 270).

Poesia, sbiadita foglia che si colora al crepuscolo

«Mi passò per la testa che la poesia non poteva essere proprietà di una nazione, perché altrimenti lo Stato se ne potrebbe impadronire. La poesia non è di nessuno. “Si fa rosa al crepuscolo la tua sbiadita foglia”, mentre qui vicino a me si odono elucubrazioni inquisitorie sul compito della letteratura in un periodo di transizione. Ridevo e sapevo che, così facendo, seppellivo ogni mia possibile carriera; da quel momento sarei stato quello che aveva violato la solennità delle riunioni di partito» (Tradimento, Adelphi, Milano 2007, 119).

Ha scritto di Zagajewski il poeta Czeslaw Milosz: «La sua è una tessitura in cui fiori, alberi e uomini convivono in un’unica scena. Ma questo mondo ricreato dall’arte non è un luogo di fuga, al contrario è in relazione con la cruda realtà di questo secolo».

Derek Walcott, il poeta dell’isola di santa Lucia nelle Antille, ha definito la poesia di Zagajewski “voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno, più intima di quella di Auden, non meno cosmopolita di quelle di Milosz, Celan, Brodskij».

Adam Zagajewski nasce a Leopoli nel 1945, città che con la sua famiglia dovette abbandonare, espulsa dai sovietici che se ne erano impadroniti nel 1944. Visse a Gliwice e Slesia, territorio tedesco annesso alla Repubblica Popolare di Polonia. Per “guarire il silenzio” ha provato ad essere voce del “mondo storpiato”, ingegnandosi a cantare l’asimmetria, la mancanza di corrispondenza tra passato e il qui ed ora.

Egli ritrova così Leopoli, la sua «piccola patria», in ogni luogo e città dove si reca. Così egli scrive: «Leopoli è ovunque» e ad essa bisogna ritornare, come a Gerusalemme. «Ogni città/ deve diventare Gerusalemme e ogni essere umano/ un ebreo, e adesso, in fretta e furia,/ fare solo le valigie, sempre, ogni giorno/ e andare fino all’ultimo respiro, andare/ a Leopoli, è infatti pur vero che esiste,/ serena e pura come una pesca./ Leopoli è ovunque», (Guarire il silenzio, 212).

È così sempre straniero, in cerca di una patria, cercando il proprio volto e quello della sua patria nei volti e nelle città altre. Quello che non è più viene reso visibile declinandolo con la concretezza del mondo presente e lo spirito si fonde con le cose della terra. Luoghi e cose avvolte in un silenzio impenetrabile, silenzio a cui le domande essenziali non si rassegnano perché nulla resti senza voce; incessanti incalzano, facendo danzare l’ago del tempo interiore: solo le domande, le parole che restano a prendersi cura del silenzio, lo rendono vivo.

La levigata pelle degli oggetti tesissima,
quanto il tendone di un circo.
Sopraggiunge la sera.
Salve, oscurità.
Addio, luce del giorno.
Siamo come le palpebre, dicono le cose,
tocchiamo sia l’occhio sia l’aria, l’oscurità
e la luce, l’India e l’Europa.
E improvvisamente sono io che prendo a dire: o cose,
sapete cos’è la sofferenza?
Siete mai state affamate, smarrite, sole?
Avete mai pianto? Conoscete l’angoscia?
La vergogna? Avete mai incontrato l’invidia e la gelosia,
i piccoli peccati che non sono abbracciati dal perdono?
Avete mai amato? Siete mai state vicine alla morte,
di notte, quando il vento apre le finestre e penetra
nel cuore fattosi freddo? Avete mai capito, vissuto
la vecchiaia, il tempo, l’effimero? E il lutto?
Cala il silenzio.
Sul muro danza l’ago del barometro
(ivi, 178-179).

E ancora domande, conversando con Friedrich Nietzsche.

Illustrissimo signor Friedrich:
mi sembra di vederla, sì,
sulla terrazza del sanatorio, all’alba,
quando cala la nebbia e il canto fa esplodere
le gole degli uccelli.

Voglio domandarle cosa sono le parole e cos’è
la chiarità, perché le parole ardono
finanche dopo cent’anni, benché la terra
sia così pesante, dura.
Se, tuttavia, non c’è Dio e nessuna forza
assembla variegati elementi, allora
cosa sono le parole e da dove scaturisce
la loro luce interiore?
E da dove deriva la gioia? Dove approda il nulla?
Dove dimora il perdono?
Perché i piccoli sogni svaniscono sul far del giorno
mentre quelli grandi crescono?
(ivi, 178).

Continue domande

Quei brevi istanti
Che si verificano così raramente –
Sarebbe questa la vita?
Quei pochi giorni
In cui ritorna la chiarità –
Sarebbe questa la vita?
Quei momenti in cui la musica
Riacquista la propria dignità –
Sarebbe questa la vita?
Quelle rare ore
In cui l’amore trionfa –
Sarebbe questa la vita?
(ivi, 16)

Dalla città alla poesia, ricerca di fulgore

Domanda: «Perché Lei scrive sempre delle città?». La risposta di Zagajewski sta in un verso, una parola greca «Periágoge» (ivi, 121), termine che si trova in Platone nel mito della caverna e dice l’azione di voltarsi, condurre intorno, percorrere, girare la testa, volgere lo sguardo, proprio come è principio di trasformazione l’uscire fuori e andare verso l’altro.

Così la città aperta costituisce lo spazio di questa conversione. Rivolta alla città la poesia stessa libera l’immaginazione perché trova in essa la sua ispirazione: «Tutto rinasce. L’ispirazione si spegne e rinasce. Il desiderio» (ivi, 122).

Non si tratta dunque solo di un’emozione o dell’astrazione di un sentimento momentaneo, ma di un sapere e un conoscere ardente del mondo. L’ispirazione poetica è generativa di un discernimento: «Una cosa è certa il mondo è vivo ed arde» (ivi, 125).

Così Zagajewski, oltre a cantare un mondo storpiato, prova a ricucire la cesura tra la poesia e il mondo, tra l’ispirazione e la storia, tra la città e il poeta. Una poesia, la sua, che canta non solo della fragilità e dell’oscurità del mondo, ma dello stupore e di una mai rassegnata speranza. Di più: «l’ispirazione è molto vicina all’incarnazione della gioia»:

La poesia è gioia sotto la quale si nasconde la disperazione
E sotto la disperazione
Di nuovo c’è la gioia
(ivi, 126).

«La poesia chiama alla vita, al coraggio/ al cospetto dell’ombra che si fa più grande» (ivi, 141). Ma proprio nel baratro dell’umano la poesia è alla ricerca del suo fulgore

Nelle strade e nei viali della mia città
col crepitio di un silenzio attivo e vivissimo
sotto le ceneri sta concentrata su un’opera l’oscurità.
La poesia è ricerca del fulgore
(ivi, 136).

Scrive Antonio Spadaro: «Ecco, dunque, a nostro giudizio, che cosa ha inteso dire Zagajewski nella sua lectio magistralis se la poesia ci innalza al di sopra della rete empirica delle circostanze che forma il nostro destino, lo fa perché spontaneamente colloca il lettore – ora drammaticamente, ora soavemente – sull’orlo dell’abisso della sua origine, del suo inizio, spingendolo verso una conoscenza più profonda e radicale di se stesso e della realtà.

L’ispirazione, in maniera più o meno oscura, conduce il poeta e l’artista su quell’orlo abissale al mistero della sua scaturigine. La stessa teologia non è affatto sorda a questa condizione. Esperienza dell’origine, teologicamente intesa, è l’esperienza della creazione, della quale l’ispirazione, in qualche modo, partecipa …

Il Novecento, globalmente inteso, ha scelto, fondamentalmente, l’abisso inteso come baratro. L’arte, come il pensiero, ha privilegiato il nichilismo, la condizione tragica dell’uomo come “essere per la morte”, e l’angoscia come condizione affettiva fondamentale. Altri sono i toni di Adam Zagajewski» (Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano 194-195; 196).

La poetica di Zagajewski, nonostante l’incompiutezza, l’inconsistenza e tragicità della condizione umana, in bilico sul baratro, si innalza nell’abisso del suo “essere per la vita”; vi scorge a tratti il lento svilupparsi dell’essere umano e l’affiorare del volto d’altri, come quando poco alla volta cresce la costruzione di una nuova città e le relazioni con le persone:

Solo l’amore e il tempo, se fanno pace,
ci permettono di vedere l’altro essere umano
nella sua misteriosa, complicata essenza,
che lenta si sviluppa sicura, come una nuova città
su una pianura o in mezzo a verdi colli
(Guarire dal silenzio, 110-111).

E dalla poesia alla città: “aspettando pazienti la verde fiamma delle foglie”

Zagajewski lo ha fatto ricordando con una sua poesia una delle opere più rappresentative del neorealismo cinematografico: Roma città aperta di Roberto Rossellini. Con il termine città aperta si intende quell’accordo stretto tra belligeranti in una città, volto a rinunciare alla lotta armata e ai combattimenti per evitarne la distruzione.

Ma per Roma non fu così: l’accordo non venne riconosciuto dagli alleati che bombardarono l’Urbe ben 51 volte dall’agosto del 1943 al giugno 1944. Se l’occupazione tedesca risparmiò il patrimonio storico e architettonico della città, fu però devastante per la popolazione con deportazioni di militari italiani e degli ebrei, con la prigione di via Tasso e le Fosse Ardeatine.

Giorno di marzo, quando gli alberi sono ancora spogli;
i platani aspettano
pazienti la verde fiamma delle foglie.
La polvere copre i templi; cinabro e ocra, arancio e
bordeaux,
ampie macchie di cannella.
Perché abbiamo smesso di parlare?
A Palazzo Barberini il bellissimo Narciso fissa il proprio
volto,
inanimato.
Città bronzea, che ripete sempre: mi dispiace.
Città bronzea, cui approdano stanche divinità greche,
come impiegati dalla provincia.
Oggi vorrei vedere i tuoi occhi senza collera.
Città bronzea, che cresce sui colli.

Lungo il Tevere corrono bambini dalle buffe mantelle
scolastiche
di inizio secolo;
accanto una cinepresa e riflettori. Corrono per il film,
non per se stessi.
Davide si vergogna per l’assassinio di Golia.
Perdonami il mio silenzio. Perdonami il tuo silenzio.
Città piena di statue; solo le fontane cantano…
(Dalla vita degli oggetti, Adelphi, Milano 2012, 194-195).

Ferrara città aperta

Vai attraverso questa città nel momento buio
quando la tristezza si nasconde nei portoni ombrosi
e i bambini giocano con palloni
che trascorrono come aquiloni
sugli inquinati pozzi dei cortili
e sottovoce, canta incerto l’ultimo merlo.

Pensa alla tua vita, che ancora dura
sebbene tanto a lungo sia già durata.
Hai saputo esprimere perlomeno una piccola parte
della totalità, domando.
Se hai visto lo squallore, hai saputo
dargli un nome, domando.
Se hai incontrato qualcuno che davvero viveva
autenticamente, hai saputo riconoscerlo?
(Guarire il silenzio, 93-94).

Anch’io passo così dalla poesia alla città, riportando alcuni testi del vescovo Gian Carlo Perego della lettera pastorale di quest’anno: Insieme sulla strada di Emmaus, che come sappiamo è una strada percorsa da due discepoli delusi e tristi, mentre abbandonano la città santa di Gerusalemme.

Ma ad accompagnarli sopraggiunge un Forestiero che farà loro ardere nuovamente il cuore e a cui diranno per annullare ogni separazione e distanza: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. E quell’incontro aprirà loro gli occhi, e subito li farà ritornare alla città pieni di gioia, quando era ancora buio, per scacciare con la buona notizia la tristezza dei fratelli rimasti chiusi a Gerusalemme.

Cittadinanza

«In una città mobile conta molto l’estensione e non la limitazione della cittadinanza, cioè della responsabilità sociale e politica. La necessità di educare alla cittadinanza viene da “una forte tendenza individualistica” che permea la società, che limita l’azione e la dimensione sociale come semplicemente funzionale a degli interessi personali. È la perdita del “bene comune”, dell’“insieme”, come fine dell’agire sociale, ma anche la perdita dell’“interesse”, della “passione sociale”, come molla dell’azione sociale. Tutto questo indebolisce le relazioni, indebolisce la città»(27- 28).

Ospitale

«La storia cristiana ha sempre pensato la città come luogo e forma di tutela, con una preferenza per i poveri (orfano, vedova, straniero, malato…). L’Ospitium, l’Ospitale, la foresteria, la casa, la scuola, l’officina, l’ambiente/giardino sono i luoghi centrali attorno ai quali cresce la città e crescono gli interessi comuni. Riprendere e riproporre un’idea di città, di cosa sta al centro della città, di fronte alla crescita di tentativi di periferizzazione della città, è molto importante oggi» (29).

Le attese della povera gente

«Occorre costruire in città una nuova relazione diffusa e intelligente, con un’attenzione preferenziale ai più deboli, con un orecchio alle “attese della povera gente”: di chi arriva e rimane ai margini della città, di chi è espulso dalla città, di chi è solo tra le case, di chi abbandona la scuola, di chi ha paura – sia in senso fisico che psichico –, di chi non ha famiglia, di chi perde il lavoro, lo coniuga con i tempi di attesa, di chi lavora irregolarmente ed è schiavo di nuovi meccanismi di caporalato o d’impresa o d’agenzia.

Non è sufficiente identificare, conoscere. Occorre incontrare e accompagnare per costruire una relazione costruttiva e risolutiva, in termini di promozione, libertà, protezione. Solamente l’incontro aiuta a costruire relazioni che vincono la paura, aprono al confronto, invitano al dialogo. Il nostro variegato mondo del volontariato è un ‘segno’ da valorizzare e far crescere» (30-31).

Città aperta

«Una città così chiede la partecipazione e la responsabilità di tutti, una nuova coscienza civile per vincere insieme quelli che La Pira e il card. Martini consideravano i mali della città: la violenza, la solitudine, la corruzione. Papa Francesco ci ricorda che questi mali possono essere superati solo attraverso “reti comunitarie” per il cambiamento (cfr. Laudato si’, 219) che generano fraternità.

Dobbiamo come cristiani e comunità cristiane che vivono nella città moltiplicare le occasioni di dono, di volontariato, di gratuità, in collaborazione con altre persone e istituzioni anche se non condividono la nostra fede: “uomini di buona volontà”, con cui condividere il cammino di pace e di non violenza, la tutela e la cura del creato, la tutela dei più deboli» (36).

Guarda anche me

Guardava me un Cristo olivastro
dai piccoli quadri del trecento;
non ne capivo lo sguardo,
ma volevo aprirmi a lui.
Il Cristo bruno, raccolto,
tutto concentrato, inquadrato
nelle cornici d’oro di Bisanzio,
guardava me, mentre io
ero assorbito da altro
(Guarire il silenzio, 80)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

PLASTICA, DA PROBLEMA A SOLUZIONE:
l’impegno del CDS per promuovere un polo tecnologico per il riciclo integrale della plastica

Plastica, da problema a soluzione. Il CDS Cultura e “il progetto per il riciclo integrale della plastica” che lega la storia e il futuro della chimica ferrarese

Nei primi anni ’70 del secolo scorso, quando l’economia era “lineare”, le fabbriche italiane diventarono veri e propri  – si direbbe oggi – think tanks: organismi, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche (anche se non mancavano quelli governativi), che si occupavano di analisi delle politiche pubbliche e quindi di settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dall’economia alla scienza e la tecnologia, dalle politiche industriali, sindacali, alle consulenze militari, sino all’arte e alla cultura.

Le fabbriche cioè contribuirono a fondare  quel patrimonio di consapevolezza sui diritti e sui modelli di democrazia che i lavoratori e diciamo la società non avevano mai vissuto prima.

È in questo periodo che nasce nel 1972, all’interno del consiglio di fabbrica della Montedison, il CDS (Centro di Documentazione Sindacale) come vero e proprio think tank ante litteram del territorio ferrarese che partì come strumento di comunicazione e documentazione a favore dei lavoratori, superando le pubblicazioni ciclostilate, per diventare successivamente una iniziativa editoriale e quindi un centro di ricerca, di studio e di dibattito su una vastità di temi che andavano ben oltre l’ambito sindacale e il contesto locale.

Da quella data si assiste così a un crescendo di proposte e esperienze comunicative e di studio che porteranno nel 1987 alla nascita dell’AEF (Annuario Socio-Economico Ferrarese), che esce ormai ininterrottamente da 35 anni con la collaborazione di studiosi e competenti di varie discipline socioeconomiche anche di livello nazionale.

Il CDS, nel frattempo diventato Centro Documentazione Ricerca e Studi, attraverso l’AEF e altre pubblicazioni specifiche veicola in continuità le migliori esperienze e pratiche sui più diversi argomenti grazie alla collaborazione fra tecnici, docenti, imprenditori, amministratori, avendo come unico parametro di valutazione la corretta esposizione e trasmissione delle informazioni e dei dati.

La nascita all’interno del Petrolchimico ha determinato una sorta di imprinting per il CDS che, nei suoi 50 anni di vita, ha sempre riservato una particolare attenzione alla vita dello stabilimento anche attraverso la pubblicazione di volumi dedicati tra i quali recentemente, Il nuovo Master: lavorare apprendendo (2005), Ferrara e il suo Petrolchimico, volume 1° (2006), Ferrara e il suo Petrolchimico, volume 2° (2020), Per Pino, oltre l’orizzonte (2022).

Da tale imprinting è nata, circa due anni fa, l’intuizione di prospettare il riciclo della plastica come futuro sostenibile per il Petrolchimico di Ferrara e per la Petrolchimica nel nostro Paese e in Europa.

Nella lettera di convocazione di possibili partner per una riunione preliminare, si dichiarava il 31 agosto 2020 che, “tenuto conto della vocazione industriale del territorio ferrarese e delle competenze maturate in tanti anni di vita del Petrolchimico, CDS Cultura OdV si fa promotore di una iniziativa finalizzata a dimostrare che, in particolare, le materie plastiche sono in grado di supportare la crescita di business circolari, se opportunamente e convenientemente utilizzate”.

Il Progetto Mascherine,  purtroppo frenato dal punto di vista operativo dalla presenza del Covid, ha rappresentato un primo step di questa iniziativa attraverso l’avvio di un rapporto privilegiato con il mondo della scuola e della formazione, considerato fondamentale per la buona riuscita di un progetto prima di tutto culturale, a partire  dal’IIS Copernico Carpeggiani.

Due anni fa CDS Cultura OdV, si è fatto promotore di un progetto per il riciclo integrale della plastica con la individuazione della filiera alternativa a quella classica dell’ “usa e getta”, una filiera cioè davvero circolare e che scongiurasse la destinazione finale del rifiuto in una discarica, in un termovalorizzatore o, peggio ancora, nell’ambiente.

Tale progetto si caratterizzava per il fatto di risultare un progetto veramente sostenibile e di natura transculturale perché avrebbe potuto soddisfare le imprese, l’ambiente, il risparmio energetico, il lavoro, l’identità e la partecipazione del territorio.

Il 22 settembre 2022 il progetto è stato presentato alla manifestazione RemTech EXPO 2022 e CDS Cultura OdV ha partecipato come coordinatore della sezione “Risanamento e Economia Circolare”.

Molte cose sono successe in quest’ ultimo anno:
la definitiva chiusura del cracking di Porto Marghera, il cambio di governo, gli sviluppi delle nuove tecnologie di riciclo chimico e soprattutto un evidente cambio di strategia spinto dalle politiche EU verso la circolarità, la sostenibilità, la transizione energetica delle aziende insediate nel petrolchimico di Ferrara.

Tutto questo sempre all’interno di un quadro complessivo molto ostile nei confronti della plastica ritenuta una delle più grandi responsabili dei problemi ambientali (è inutile ricordare gli slogan e le campagne contro la plastica anche in una regione come l’Emilia-Romagna a trazione plastica, come testimoniato dalla presenza di importanti players nella motor valley della via Emilia e nel il polo biomedicale di Mirandola).

Il progetto sulla creazione di un Polo Tecnologico sul Riciclo Integrale della Plastica è stato purtroppo seriamente compromesso per le scelte politico-industriali (ovvero per una vera e propria mancanza di politiche industriali) nel nostro Paese.
I risultati della ricerca sul Riciclo Chimico, svolte qui a Ferrara e grazie agli investimenti di  multinazionali insediate all’interno del Petrolchimico, saranno così sfruttati industrialmente in altri Paesi.

Sarebbe stato sufficiente come proposto dal CDS la creazione di un consorzio pubblico-privato in grado di farsi carico di una filiera semplice che prevedesse la raccolta dei rifiuti plastici, la loro selezione a favore di materiali ben noti in quanto produzioni storiche del polo industriale, riciclare meccanicamente e chimicamente il rifiuto plastico di pregio e produrre in un’ottica davvero circolare e sostenibile quella virgin nafta non più di derivazione fossile ma da una fonte rinnovabile come di fatto è il rifiuto plastico.

Fortunatamente a fianco alle difficolta di un progetto, un altro persevera e continua ed è quello del CDS, il think tank che opera ormai da 50 anni in città e che con il patrocinio dell’ASviS , l’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile, ha organizzato per il 29 settembre 2024 un workshop aperto alla cittadinanza dal titolo: Plastica, problema o soluzione?
Gli interventi previsti nel workshop intenderanno:
1) recuperare o almeno ripristinare una corretta informazione sulla plastica;
2) raccontare la storia di un territorio che non esprime solo cultura umanistica ma anche scientifica;
3) dare un’occhiata all’interno del Polo Industriale e Tecnologico di Ferrara;
4) cogliere le potenzialità del riciclo attraverso uno slogan semplice ma efficace come questo: la plastica del futuro è la plastica del passato.

Scritto da Giuseppe Ferrara e Sergio Foschi 

TERZO TEMPO
La coppa Topolino

La coppa Topolino

Nel vastissimo frasario del tifoso italiano ci sono due sfottò interscambiabili, entrambi finalizzati a sminuire o a ridicolizzare i trofei conquistati dalle squadre avversarie: la Coppa del Nonno e il Trofeo Birra Moretti – quest’ultimo è stato il primo assaggio di calcio estivo per più di un decennio. Ebbene, l’equivalente inglese di tutto ciò è la cosiddetta Mickey Mouse Cup, espressione con cui il pubblico d’oltremanica si riferisce solitamente alla Coppa di Lega inglese o, più in generale, a qualsiasi altra competizione di rango inferiore alla Premier League.

Insomma, da circa trent’anni la “Coppa Topolino” è un po’ sulla bocca di tutti: dai tifosi agli opinionisti, passando addirittura per i giocatori – qui, ad esempio, un giovanissimo Harry Kane dice che la Premier League non è una Mickey Mouse Cup qualsiasi. Inoltre, l’appellativo disneyano può essere utilizzato per bollare come scarso un giocatore o un arbitro: lo sfogo più famoso in tal senso è quello dell’ex allenatore del Newcastle Jon Kinnear, il quale, in seguito alla sconfitta per 2-1 sul campo del Fulham nel novembre del 2008, se la prese un po’ con Martin Atkinson per via di un calcio di rigore non fischiato.

“If we’d had a proper referee we’d have come away with something. It was a blatant foul, a blatant push prior to the penalty. Johnson completely pushes Caçapa out of the way – straight hands, just a push. But it was just a Mickey Mouse ref doing nothing.”

Lo striscione con la scritta “Mickey Mouse Treble” è invece opera della Stretford End, cioè la curva ovest di Old Trafford, e fu esposto al Millennium Stadium di Cardiff in occasione della sfida tra Manchester United e Liverpool nell’agosto 2001. Com’è intuibile dall’immagine, lo striscione rimarcava la differenza tra l’irripetibile treble dello United 1998/1999 e quello di minor prestigio realizzato dai Reds proprio nel 2001. Senonché, sedici anni più tardi lo United di José Mourinho ha messo in bacheca un treble più o meno identico a quello sbeffeggiato dalla Stretford End, dando così ai tifosi del Liverpool l’opportunità di rendere pan per focaccia; d’altronde, lo stesso Manchester United ci ha messo del suo nell’evidenziare quell’analogia: infatti, su suggerimento di Mourinho, i giocatori e lo staff tecnico hanno festeggiato la vittoria dell’Europa League 2016/2017 indicando con le dita il numero tre [Qui].

Quanto costa la “transizione energetica”?
In Congo l’estrazione di cobalto e rame viola i diritti umani

Quanto costa la “transizione energetica” ? In Congo l’estrazione di cobalto e rame sta comportando gravi violazioni dei diritti umani. La denuncia di Amnesty International: ecco le testimonianze. 

L’espansione, su scala industriale, delle miniere di cobalto e rame nella Repubblica Democratica del Congo ha portato al trasferimento forzato di intere comunità e a gravi violazioni dei diritti umani, tra cui aggressioni sessuali, incendi dolosi e percosse. In un rapporto congiunto, dal titolo Stimolare il cambiamento o continuare come sempre?”, Amnesty International e l’organizzazione congolese Iniziativa per il buon governo e i diritti umani descrivono nel dettaglio come la frenetica competizione delle aziende multinazionali per espandere le operazioni minerarie abbia causato lo sgombero forzato di intere comunità dalle proprie abitazioni e terre agricole.

“Le attuali espulsioni forzate, causate dall’intento delle aziende di ampliare i propri progetti minerari di rame e cobalto su vasta scala, stanno devastando vite umane e devono essere immediatamente fermate”, ha affermato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Amnesty International riconosce l’importante funzione delle batterie ricaricabili nella transizione energetica dai combustibili fossili. Tuttavia, la giustizia climatica esige una transizione equa. La decarbonizzazione dell’economia globale non deve comportare ulteriori violazioni dei diritti umani”, ha proseguito Callamard.

“Le persone che vivono nella Repubblica Democratica del Congo hanno subito maltrattamenti significativi e sfruttamenti in epoca coloniale e post-coloniale. I loro diritti continuano a essere sacrificati mentre la ricchezza intorno a loro viene depredata”, ha concluso Angès Callamard.

La crescente domanda per le cosiddette “tecnologie per l’energia pulita” ha creato una corrispondente richiesta di alcuni metalli, tra cui rame e cobalto, che sono essenziali per la produzione della maggior parte delle batterie al litio. Queste vengono utilizzate per alimentare una vasta gamma di dispositivi, tra cui auto elettriche e telefoni cellulari. La Repubblica Democratica del Congo possiede le più grandi riserve di cobalto al mondo e la settima più grande riserva di rame.

La batteria di un veicolo elettrico richiede più di 13kg di cobalto, mentre una per un telefono cellulare ne richiede circa 7g. Si stima che la domanda di cobalto raggiungerà le 222.000 tonnellate entro il 2025, dopo essersi già triplicata rispetto al 2010.

“Le persone vengono sgomberate forzatamente, minacciate o intimidite affinché lascino le loro case o ingannate a dare il loro consenso a risarcimenti irrisori. Spesso non esiste alcun meccanismo di reclamo, responsabilità o accesso alla giustizia”, ha dichiarato Donat Kambola, presidente dell’Iniziativa per il buon governo e i diritti umani.

Candy Ofime e Jean-Mobert Senga, ricercatori di Amnesty International e co-autori del rapporto, hanno aggiunto: “Abbiamo riscontrato ripetute violazioni delle salvaguardie legali prescritte dalle leggi e norme internazionali sui diritti umani, nonché dalle leggi nazionali, oltre a una totale disattenzione per i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani”.

Per realizzare il rapporto “Stimolare il cambiamento o continuare come sempre?”, Amnesty International e l’Iniziativa per il buon governo e i diritti umani hanno intervistato più di 130 persone in sei progetti minerari diversi nella città di Kolwezi e nelle zone circostanti, nella provincia meridionale di Lualaba, durante due visite separate nel 2022.

I ricercatori hanno esaminato documenti, corrispondenza, fotografie, video, immagini satellitari e le risposte ottenute. Nel rapporto sono inclusi i risultati emersi in quattro siti minerari. Di seguito sono narrate le violazioni dei diritti umani, relative agli sgomberi forzati, in tre di questi siti. Per quanto riguarda il quarto, quello di Kamoa-Kakula, il rapporto ha evidenziato prove di una ricollocazione inadeguata. È possibile accedere alle risposte delle aziende menzionate nel rapporto qui: https://www.amnesty.org/en/documents/AFR62/7010/2023/en.

ABITAZIONI DEMOLITE A CAUSA DI UNA MINIERA IN ESPANSIONE IN CITTÀ

Nel cuore della città di Kolwezi, antiche comunità sono state distrutte dopo la riapertura di una vasta miniera a cielo aperto di rame e cobalto nel 2015.

Il progetto è gestito dalla Compagnie Minière de Musonoie Global SAS (Commus), una joint venture tra l’azienda cinese Zijin Mining Group Ltd e la Générale des Carrières et des Mines SA (Gécamines), l’azienda mineraria statale della Repubblica Democratica del Congo.

Il quartiere colpito di Cité Gécamines ospita circa 39.000 persone. Le case sono tipicamente composte da più stanze e si trovano in complessi recintati con acqua corrente ed elettricità. Ci sono scuole e ospedali nelle vicinanze.

Da quando le attività minerarie sono riprese, centinaia di residenti sono stati costretti a evacuare o avevano già dovuto lasciare le proprie abitazioni precedentemente. Le comunità locali non sono state adeguatamente consultate e i piani di espansione della miniera non sono stati resi pubblici. Alcuni residenti hanno appreso che le loro abitazioni sarebbero state demolite solo dopo che alcune croci rosse erano comparse sulle loro proprietà.

Edmond Musans, 62 anni, costretto a demolire la propria casa e andarsene, ha raccontato:
“Non ci è stato chiesto di trasferirci, l’azienda e il governo sono venuti a dirci: ‘Ci sono dei minerali qui’”.

Musans ha contribuito alla formazione di un comitato di rappresentanza per gestire gli interessi di oltre 200 famiglie a rischio di sfratto, chiedendo alla società Commus un risarcimento più elevato di quello che veniva loro offerto. Il comitato ha condiviso le proprie lamentele con le autorità provinciali, senza successo.

Le persone sfrattate hanno raccontato che il risarcimento offerto dalla Commus non era sufficiente per permettere loro di acquistare abitazioni equivalenti. Di conseguenza, molti sono stati costretti a trasferirsi in proprietà prive di acqua corrente o di un’alimentazione elettrica affidabile alla periferia di Kolwezi, con un drastico calo del loro tenore di vita. Tuttora non dispongono di mezzi efficaci di rimedio o per appellarsi.

Un ex residente ha dichiarato: “Avevo una grande casa, con elettricità, acqua… Ora ne ho una piccola, che è tutto ciò che potevo permettermi con il risarcimento… dobbiamo bere acqua da pozzi… quasi nessuna elettricità”.

Cécile Isaka, un’altra ex residente, ha detto che le esplosioni per ampliare la miniera hanno causato crepe così ampie da farle temere il crollo della sua abitazione. Senza altre opzioni praticabili, ha accettato l’offerta di risarcimento e ha smantellato la sua casa danneggiata nel 2022 in modo da poter riutilizzare i mattoni per ricostruire altrove.

La Commus ha dichiarato ad Amnesty International di voler migliorare la comunicazione con gli stakeholder.

Ricercatori di Amnesty International durante un’intervista a un residente.

CASE BRUCIATE E RESIDENTI FERITI

Nei pressi del sito minerario del progetto Mutoshi, gestito dalla Chemicals of Africa SA (Chemaf), una filiale della Chemal Resources Lts. che ha sede a Dubai, gli intervistati hanno descritto come i soldati abbiano bruciato completamente un insediamento chiamato Mukumbi.

Ernest Miji, il capo locale, ha raccontato che nel 2015, dopo che la Chemaf aveva ottenuto la concessione, tre rappresentanti della società, accompagnati da due poliziotti, sono andati da lui per dirgli che era ora che i residenti di Mukumbi se ne andassero via. I rappresentati sono tornati ben quattro volte.

Ricordando una delle visite, Kanini Maska, un ex residente di Mukumbi di 57 anni, ha raccontato: “Un rappresentante della Chemaf ci ha detto: ‘Dovete lasciare il villaggio immediatamente’. Abbiamo chiesto lui dove altro saremmo potuti andare visto che lì era dove avevamo cresciuto i nostri figli, dove erano i nostri terreni agricoli e dove i nostri figli erano registrati per poter andare a scuola”.

Gli intervistati hanno raccontato che la Guardia repubblicana, un corpo militare di èlite, è arrivata una mattina e ha iniziato a bruciare case e a picchiare coloro che provavano a fermarli.

“Non abbiamo avuto la possibilità di recuperare nulla”, ha detto Kanini Maska, “Non avevamo niente per sopravvivere e abbiamo passato diverse notti nella foresta”.

Una ragazza – di cui abbiamo deciso di non rivelare il nome – che all’epoca aveva solo due anni, è stata gravemente ustionata, lasciandole profonde cicatrici. Suo zio ha raccontato che il materasso su cui era sdraiata ha preso fuoco.

Le immagini satellitari confermano che Mukumbi – che originariamente era composta dal 400 edifici tra scuole, strutture sanitarie e una chiesa – risultava completamente distrutto il 7 novembre 2016.

A seguito delle proteste, nel 2019 la Chemaf ha acconsentito al risarcimento, tramite l’autorità locale, di 1,5 milioni di dollari (circa 1,4 milioni di euro). Alcuni degli ex residenti hanno però ricevuto poco meno di 300 dollari (circa 200 euro). La Chemaf nega qualsiasi tipo di illecito, responsabilità o coinvolgimento nella distruzione di Mukumbi o di aver ordinato alle forze militari di distruggerlo.

RACCOLTI DISTRUTTI E VIOLENZA SESSUALE

Nei pressi di Kolwezi, una filiale dell’Eurasian Resources Group, che ha la sede centrale in Lussemburgo e il cui maggiore azionista è il governo del Kazakistan, gestisce il progetto Metalkol Roan Tailings Reclamation (RTR).

Ventuno contadini, parte di un collettivo che coltiva ai margini della concessione vicino al villaggio di Tshamundenda, hanno raccontato che a febbraio 2020, senza nessuna consultazione significativa o notifica di sfratto, un distaccamento di soldati, alcuni con i cani, hanno occupato la zona e demolito i campi che loro avevano coltivato.

Una donna – che chiameremo Kabibi per proteggere la sua identità – ha raccontato come stava cercando di ritirare il suo raccolto, prima che fossero distrutti i campi, quando è stata afferrata da tre soldati e violentata da una banda, mentre altri soldati guardavano.

Kabibi, che era incinta di due mesi, ha avuto bisogno di cure mediche. Ha raccontato l’incidente alla sua famiglia e al capo del villaggio, ma aveva troppa paura di segnalarlo a Metalkol o alle autorità locali. Successivamente, ha partorito il suo bambino in sicurezza.

Kabibi ha detto ai ricercatori: “Sono una vedova, non posso permettermi di registrare mio figlio a scuola…Al momento non ho un lavoro o altre fonti di reddito. Vago, di casa in casa, per trovare qualcosa da mangiare per i miei figli”.

I contadini hanno ripetutamente protestato e chiesto un risarcimento, senza ricevere nessun rimedio effettivo.

In risposta, l’Eurasian Resources Group ha dichiarato di non avere alcun controllo sulla presenza dei soldati. Il governo ha stabilito che il collettivo di agricoltori aveva ricevuto un risarcimento da un precedente operatore della miniera, cosa che gli agricoltori negano.

STOP AGLI SGOMBERI FORZATI

Il rapporto esorta le autorità della Repubblica Democratica del Congo a porre immediatamente fine agli sgomberi forzati, a istituire una commissione d’inchiesta imparziale e a rafforzare ed applicare le leggi nazionali in materia di estrazione mineraria e sgomberi in conformità agli standard internazionali dei diritti umani.

Le autorità hanno condotto o facilitato gli sgomberi forzati e hanno fallito nel loro obbligo di proteggere i diritti umani delle persone, compresi quelli sanciti dal Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e dai Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti Umani. L’esercito non dovrebbe mai essere coinvolto negli sgomberi.

Le affermazioni delle aziende sul rispetto di elevati standard etici si sono rivelate prive di fondamento. Hanno la responsabilità di indagare sulle violenze avvenute, fornire un rimedio efficace e agire per prevenire ulteriori danni. Tutte le aziende dovrebbero assicurarsi che le loro operazioni non danneggino le comunità locali.

“Le aziende minerarie internazionali coinvolte dispongono di risorse considerevoli e possono facilmente permettersi di apportare le modifiche necessarie per salvaguardare i diritti umani, istituire processi che migliorino la vita delle persone e fornire rimedio per le violenze subite”, ha sottolineato Kambola.

“La Repubblica Democratica del Congo può svolgere un ruolo fondamentale nella transizione globale dai combustibili fossili, ma i diritti umani delle comunità non devono essere calpestati nella corsa per l’estrazione di minerali cruciali per la decarbonizzazione dell’economia mondiale”, ha concluso Callamard.

Amnesty International

In copertina: Repubblica Democratica del Congo, miniera per l’estrazione di Cobalto – SAMIR TOUNSI/AFP via Getty Images

L’Arte che cura /
TERRA 2: Maschile-Femminile, la duplice natura della Terra Madre

TERRA 2
Maschile-Femminile, la duplice natura della Terra Madre

In questo modo concludevo su Periscopio TERRA 1: La Madre e la Terra (da intendere anche come creta materiale artistico) possiedono ambivalenze che sono imprescindibili e che permangono nei luoghi più reconditi della nostra mente antica: l’istinto di vita, Eros, e l’istinto di morte, Thanatos (Sigmund Freud).

Si affaccia così l’idea che, oltre a un potere generativo, la creta permetta di avvicinarsi ad un tabù: l’angoscia della morte, l’idea della caducità e del limite umano. Ciononostante vedremo come l’esperienza artistica possa diventare strumento per esorcizzare la paura e permettere di trasformarla nella fiducia della rinascita, risultato impossibile da raggiungere se non si passa dall’ accoglimento della morte come indispensabile nel ciclo della vita.

In questa duplice natura si incontra anche un altro fattore fondamentale che è l’incontro del femminile con il maschile, apparenti opposti che possono essere integrati e risultare complementari.

Ricorrendo al simbolismo legato alla terra potremo riconoscere queste ambivalenze che rispecchiano e ci introducono, più in profondità, nella complessità delle dinamiche della psiche. L’essere umano per trovare la sua compiutezza deve trovare equilibrio tra le ambivalenze presenti ed inevitabili della vita e delle emozioni e deve riconoscerle, accettarle e accrescerle in parti uguali.

L’ argilla per la suaarcaicitàrisveglia e mette in forma contenuti del mondo interiore permettendo alcreatoredi mettersi in contatto con essi e aprire uno spazio di accesso e di comunicazione per se stesso e per altrispettatori.

La Dea Madre e il Golem

Secondo la Kabala (volgarizzazione della mistica ebraica) la creazione del mondo è avvenuta per un processo di emanazione di ogni cosa dal nome divino.

Rabbi Löw. Illustration by Mikoláš Aleš, 1899. Ink on paper. National Gallery in Prague

Il principio fondamentale di tale concezione mistica considera ogni elemento del creato come derivato dalla composizione e scomposizione dei numeri e delle lettere dell’alfabeto ebraico, in particolare di quelle che compongono il nome di Dio.

La parola è quindi considerata come elemento di base e principio creativo dell’universo. Questo si ricollega direttamente al Golem: esso prende vita dal nome di Dio o da altre lettere con valore e significato particolare che gli vengono o scritte in fronte o scritte su un foglio, o infilate in bocca; col procedimento inverso è possibile invece farlo ‘morire’, togliergli vita e movimento.

Quello che per il nostro discorso è importante nel mito del Golem è il collegamento ai tentativi esoterici di animare le cose e gli sforzi raccontati nel corso della storia per assoggettare la materia originaria e dar vita all’uomo in maniera artificiale.

Ma ancora di più quello che ci preme sottolineare è la profonda differenza che esiste tra questo mito della creazione, dove il fulcro della vita è dato dalla potenza di un simbolo astratto: la parola, a confronto con quello della Dea Madre dove, come spero si sia colto nella parte precedente, sono la natura, il corpo e la materia lessenza della generatività.

Si potrebbe dire che la Madre terra esprime una disposizione biologica, una interazione con lambiente, mentre la creazione per mezzo del verbo divino mette più laccento sulla intenzionalità del gesto e sulla spiritualità del cosmo.
Denominare è un atto simbolico ed è quello che accade in terapia quando un paziente dopo il processo artistico che coinvolge il corpo, guardando la sua opera sceglie di dargli un nome, un titolo.

Il Dualismo MaschileFemminile

Nonostante si sia dato rilievo alla centralità femminile, parlando della creazione, è impossibile non considerare gli elementi che, fino dalle origini, hanno confrontata la Dea Madre con Divinità maschili.

A parte poche eccezioni, come quella nel Pantheon egizio in cui la terra è un dio, Geb, mentre, il cielo è impersonificato da una dea, Nut, nei miti più antichi la regola simbolica afferma che è la Terra la dispensatrice di cure materne e che a lei spettano i valori procreativi e di nutrimento. Nei fatti, il principio femminile, per quanto fondamentale, non è separabile da quello maschile.

In molti miti e nelle religioni spesso sono previste le nozze sacre che uniscono ad esempio il dio solare e la dea lunare oppure il dio cielo e la dea terra, il dio fuoco e la dea acqua eccetera. Le nozze sacre sembrano il tentativo di ricomporre questa dualità. Ununione che permette di dare una funzione ad entrambe le parti senza metterle in conflitto.

Sia la dea madre che il dio padre condividono una origine derivata da un principio assoluto che li ha preceduti. Per questo, forse, rimangono le tracce di divinità ermafrodite e i miti di una unica entità onnipotente che si rivela attraverso forme molteplici.

In fondo Artemide, sorella gemella di Apollo, simboleggia il suo doppio femminile; la luna che le appartiene come simbolo, forma una coppia di opposti complementari col sole che invece è attribuito ad Apollo, insieme esprimono la dualità giorno notte.

La versione più famosa che vuole che Eva sia nata da una costola di Adamo traduce la derivazione del due a partire dalluno – un corpo ne origina un secondo. Limmagine della costola esprime lunità, la complementarietà e lattrazione reciproca fra i due sessi.

“Senza confini, sýn-bíōsis”, S. donna 50 anni

Le relazioni possono essere definite fusionali quando due persone sono intrecciate e profondamente agganciate l’una all’altra fino a fondersi e a confondere le loro posizioni relazionali Alle volte una una relazione simbiotica può diventare patologica ed è difficile, ma non impossibile, specialmente quando si decide di intraprendere un percorso terapeutico. I partner dovranno imparare a relazionarsi lasciando spazio alla spontaneità e mettendo da parte i comportamenti stereotipati del rapporto fusionale.

La versione elhoista, che fa in origine di Adamo un Ermafrodita, partecipa della medesima idea di sdoppiamento, di divisione e di rottura di armonia.

Secondo la filosofia orientale, allorigine della creazione cè il Principio essenzialeil cui prodotto èLenergia essenziale, sintesi di tutte le energie che regolano il cosmo, tutti i fenomeni della natura e luomo.
LEnergia essenziale è una, ma ha in un dualismo. Lopposizione dei suoi due poli, negativo e positivo, indissolubili luno dallaltro, si manifesta in tutti i fenomeni della materia e della vita. La bipolarità dellEnergia essenziale, lo Yin e lo Yang, origine al movimento, alla vita generata dallalternanza dei due poli. La contrapposizione armonica sviluppa il suo ciclo costruttivo e il suo ciclo distruttivo.

Quando diciamo Yang pensiamo al positivo, al giorno, al caldo, allespansione, eccetera. Quando diciamo Yin pensiamo al negativo, alla notte, al freddo , alla concentrazione. Yang corrisponde alluomo, Yin alla donna. Ciascuno dei due termini è positivo o negativo solo in rapporto al suo opposto. Non sono cioè contraddittori e non sono assoluti.

Il simbolo convenzionale dello Yin e dello Yang, disegno di una paziente di 25 anni

Esse occupano ciascuna parte uguale allaltra del disco. La curva a forma di S che le separa fa che sia possibile una rotazione. Gli spostamenti daranno luogo a differenti posizioni delle due forze che diventeranno di volta in volta complementari e supplementari.
Se la linea che li separa fosse una linea retta che divide il cerchio in due parti identiche, i punti di incontro tra i due principi sarebbero separati, a stanti e non permetterebbe alcun movimento, nessuna creazione , nessuna manifestazione della vita.

Spesso questo simbolo è utilizzato nei disegni dei pazienti, un archetipo che emerge non solo perché in voga o conosciuto culturalmente, spesso è uno dei tatuaggi preferiti.

L’uomo incinto

La scultura intitolataLuomo incintoappartiene ad una paziente, B. donna di 45 anni con un disturbo psicotico grave e che, tra altri sintomi, presenta aspetti dismorfofobici relativi allarea genitale: si è convinta di avere una conformazione genitale anomala mai riscontrata nelle visite ginecologiche, che nella sua descrizione rimanda a un sesso androgino.

Rispetto al tema maschile e femminileL’uomo incintosintetizza questa ambiguità. B. che ha sofferto di non essere diventata madre e che di ciò ha colpevolizzato i suoi partner, in questo lavoro tenta di risolvere la questione: un unico corpo ermafrodito, la maternità è ceduta a un corpo maschile. Lunità viene ricomposta.

Louise. Bourgoise, “Fallen woman”

La Bourgois scultrice1 dice: Nel mio lavoro ci sono da sempre allusioni sessuali. Talvolta mi interessano esclusivamente forme femminili grappoli di seni come nuvole – ma spesso le immagini si fondono – seni fallici, maschile femminile, attivo, passivo.

Louise Bourgoise, “Fallen woman”

In definitiva, lenergia fallica intensifica la forza formidabile della dea della rigenerazione.

Nota:

1 Cfr. cap. 3 paragrafo 2 Luoise Bourgeois: Un tentativo infinito di dare ordine al caos

Leggi: Terra 1 ; Terra 2 ; Terra 3 (nei prossimi giorni su Periscopio) 

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioliclicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice.

Parole a Capo
Michela Silla: Tre poesie inedite

La poesia è come l’acqua nelle profondità della terra. Il poeta è simile a un rabdomante, trova l’acqua anche nei luoghi più aridi e la fa zampillare.
(Alberto Moravia)

 

Arriva la voce dal buio che non so
quando chiami: mamma – unica parola,
unica corda a cui aggrapparti
che non può spezzarsi,
ma si infrange l’ultima vocale,
la tua a finale
quando insegue l’alba,
disperata nella notte
tra miracolo e morte.

Mi tocchi. Sei salvo.

*

Quando chiudi gli occhi piano
e la testa abbassi sorridendo
come a dire vola
alla mia vita,

realizzo all’improvviso che mi ami
e nient’altro sul tuo conto
capisco fino in fondo.

*

Guidi piano accanto a me,
alzi il volume della radio.

Insieme aspettiamo
(ma non lo ammettiamo)

l’istante di Chopin
in cui spalanca il cielo scuro

la musica il suo picco.

E siamo ancora vivi.

 

Michela Silla è nata a Cagliari nel 1984. Vive a Firenze, dove ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filologia, Letteratura italiana, Linguistica e dove attualmente insegna. Con Transeuropa Edizioni ha pubblicato nel 2022 la silloge poetica Limpida a guardare e i suoi testi sono apparsi in alcune riviste letterarie. Nel 2004 ha pubblicato Zucchero filato sull’asfalto grigio, Scuola Sarda Editrice.
È attiva nel panorama culturale e artistico di Firenze.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Vite di carta /
Il libro inchiesta di Martina Castigliani: “Libere. Il nostro NO ai matrimoni forzati”

Vite di carta. Libere. Il nostro NO ai matrimoni forzati. Il libro inchiesta di Martina Castigliani.

Fatima, Yasmine, Zoya, Khadija e X sono cinque giovani donne cresciute in Italia, ma originarie di Bangladesh, Afghanistan, Pakistan e India: sono libere in quanto hanno deciso di ribellarsi alle nozze imposte loro dalla famiglia e hanno scelto la fuga.

Sono le autrici del libro uscito nel 2022 per PaperFIRST, autrici che salgono a sei con Martina Castigliani, la giornalista del Fatto Quotidiano che le ha intervistate e prima di tutto ascoltate. Diventano sette con la illustratrice Elisabetta Ferrari, le cui immagini  sottolineano il pathos che ogni storia sprigiona, sia che ritraggano la silhouette della protagonista, sia che mostrino un oggetto che vale per lei come un amuleto: un albero in fiore, un tappeto ricamato, una bicicletta.

Il libro contiene altri sette contributi, sette voci non solo al femminile che da più punti di vista (in)formano chi legge sul fenomeno dei matrimoni forzati e sulle donne che ne sono vittime, donne migranti e di nuova generazione, ma non solo.

La introduzione di Martina Castigliani è già un pugno nello stomaco: le cinque ragazze dopo essere fuggite dal loro nucleo familiare devono viverne lontane e sotto falso nome; sono ancora oggi in pericolo, in quanto il loro rifiuto non è mai stato accettato.

Per ognuna di loro il racconto della propria storia ha comportato dunque dei rischi e ha rinnovato il dolore di una profonda lacerazione, eppure non hanno ceduto alle difficoltà di incontrarsi con lei per le interviste nemmeno a seguito della pandemia.

Hanno accettato che nel libro venissero oscurati dei  pezzi della loro identità e di vedere cancellati tanti dettagli che erano loro cari, ma che potevano farle riconoscere.

Perché tutto questo, allora. La giornalista riporta la frase che tutte hanno pronunciato alla fine degli incontri: “Per le altre, perché devono sapere che si può fare”.

Anche per noi che leggiamo: sappiamo infatti molto poco sul tema ancora oggi dimenticato dei matrimoni forzati. Probabilmente non andiamo più in là di qualche caso di cronaca nera, come quello di Saman, la diciottenne di origini pakistane uccisa a Novellara nell’aprile del 2021. Uccisa dalla famiglia per aver rifiutato le nozze forzate con un cugino e avere infangato con ciò l’onore e la dignità di suo padre.

Nel libro tra i capitoli in calce alle interviste ne troviamo uno, utilissimo, che raccoglie Le storie sparite dalle cronache: si comincia con Basma Afzaal, scomparsa a Padova nel 2022, e si va all’indietro nel tempo fino ai casi italiani: quello più noto di Franca Viola del 1965 e quello di Maria Rosa Vitale, la minorenne di Cinisi che, dopo la violenza subita nel 1939, ha rifiutato le nozze riparatrici e col sostegno del padre ha denunciato lo stupratore.

Le lotte per i diritti in Italia proprio “da Franca Viola a noi” vengono ripercorse nel suo contributo da Angela Maria Bottari: lei, che è stata la promotrice  della prima legge contro la violenza sessuale, rimarca quanti anni di impegno fuori e dentro il Parlamento ci siano voluti per approdare alla legge del 1996, una vittoria civile che riconosce la violenza sessuale “come reato contro la persona e non più sminuito a reato contro la morale pubblica e il buon costume”.

L’inchiesta di Martina Castigliani punta anche sulle associazioni e sugli enti (pochi) che in Italia si occupano del problema e combattono contro l’indifferenza. Prima di tutte su Trama di terre, la associazione a cui sarà donata una parte dei proventi derivati dalla vendita del libro.

Fondata a Imola nel 1997 da Tiziana Dal Pra, “la prima a rompere il silenzio”, come recita il titolo del capitolo a lei dedicato, Trama di terre accoglie donne native e migranti in cerca di un rifugio in uno spazio ben allestito e le sostiene nel loro percorso verso l’emancipazione “cercando di smontare paure e pregiudizi”.

“Una ragazza che dice No alle nozze forzate lo fa perché non ha voglia di sposare chi le hanno scelto. O perché vuole sposarsi a quarant’anni. O disubbidire. Non perché vuole imitare la cultura occidentale. Perché è una persona, ha diritto di dire di No… Vive una costrizione talmente forte in famiglia e negli schemi sociali del suo Paese che quando può fare il confronto con un’altra realtà le scatta il meccanismo della scelta.”

Tiziana Dal Pra non crede che il punto sia rispettare le norme sociali delle società di provenienza, ritiene anzi che i termini del discorso vadano invertiti: ogni giovane donna ha diritto alle regole sociali del Paese in cui si è trasferita, e va accompagnata nella scelta che fa.

Le cinque storie raccontate nel libro mostrano i rischi a cui ogni ragazza è andata incontro quando ha voluto distogliersi dal controllo familiare. Rischi di punizioni corporali e psicologiche inflitte da entrambi i genitori, in qualche caso perfino minacce di morte.

Il padre di Yasmine arriva per due volte a puntarle contro un coltello, le dice “sei la vergogna della nostra famiglia”. Zoya subisce da parte della madre un controllo continuo e soffocante, perfino sulla sua verginità. Khadija vive reclusa in casa, picchiata regolarmente dal marito e dal cognato, anche quando è incinta; la sua colpa è di essere una donna istruita che va “rieducata” a essere sottomessa.

La salvezza per lei viene dall’intervento della polizia, chiamata da una vicina. In altri casi è un’insegnante a dare conforto, un’amica, una poliziotta. In seguito all’intervento delle forze dell’ordine le ragazze sono condotte a molti chilometri dalla loro casa e ospitate in strutture idonee.

Fatima, che è scappata nel giorno della laurea, ora fa il lavoro dei suoi sogni, è interprete e “aiuta le persone a comunicare”. Sente nostalgia per la famiglia, ma tira diritto per la sua strada, appagata dalla propria indipendenza anche economica.

Soltanto X dopo l’esperienza della fuga è rientrata in famiglia, col tempo le ha pesato troppo il pensiero di avere abbandonato la sorella più piccola. Dice “Per questo sono tornata: io voglio restare e rompere le tradizioni alla luce del sole”.

X è l’unica a essere critica verso gli italiani e la classe politica: “Ogni giorno aspetto dei segnali di apertura in casa mia. Ogni giorno aspetto dei segnali di apertura dai politici: noi siamo italiane, nate e cresciute qua. Siamo stanche di essere dimenticate, stanche di essere considerate straniere e stanche che voi giustifichiate le condotte dei nostri genitori dicendo “è la loro tradizione”. La tradizione che non rispetta i diritti va cambiata e io voglio cambiarla”.

Libere è un libro che sta circolando in alcune scuole: è un segnale piccolo, perché affidato alla iniziativa di singoli docenti, in assenza di un programma nazionale di prevenzione sul tema trattato. Tuttavia è un buon segnale.

Voglio concludere con una frase tratta dalla Postfazione di Cinzia Monteverdi, presidente della Fondazione il Fatto Quotidiano, e voglio immaginare di leggerla nella traccia di un elaborato di tipologia B (Analisi e produzione di un testo argomentativo) al prossimo Esame di Stato:

Il menefreghismo, quello che la nostra epoca consumistica ci ha insegnato, sta facendo il suo tempo... Speriamo…che dalle macerie dell’epoca nostra ne rinasca un’altra dove prevalga il pensiero che se sto bene io ma il mio vicino di casa muore di fame o è vittima di violenza, non posso voltarmi dall’altra parte“.

Nota bibliografica:
Martina Castigliani, Libere. Il nostro NO ai matrimoni forzati,  PaperFIRST, 2022.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure /
È arrivato un bastimento carico di… San Valentino

Ah, l’Amore!!! Domani è San Valentino. A voi una piccola carrellata di delicati e romantici albi illustrati, da regalare e da regalarsi. Buona lettura

Quando abbiamo chiesto alla casa editrice Kite di segnalarci alcuni volumi per un suggerimento ai nostri affezionati e fedeli lettori, in occasione della festa di San Valentino, Giulia, sempre pronta e disponibile, ce ne ha presentati vari. Tutti belli, bellissimi ma per ragioni di spazio, a malincuore, ne abbiamo dovuti selezionare quattro. Anche se, crediamo proprio, che ne presenteremo altri più avanti: d’altra parte le uova sono buone anche dopo Pasqua… (e le sorprese non finiscono mai).

Bisogna sapere aspettare e saper capire e accettare il perché di ciò che ci accade, il filo conduttore di questo albi. Perché nulla accade per caso. Il caso, poi, il bello della vita.

Il primo è “Quando un elefante si innamora”, di Davide Calì e Alice Lotti (2014, 32 p.), la storia di un elefante innamorato e molto timido che fa di tutto per attirare l’attenzione della sua amata. Si nasconde quando l’amata passa, dietro un albero (come se bastasse). Decide di seguire alcune regole base, quelle che tutti gli innamorati prima o poi decidono di seguire: si mette a dieta (anche se di notte, qualche volta, si alza per finire la cheesecake, il caro frigo, d’altronde, attende), si veste elegante (fra mille indecisioni), scrive delle lunghe lettere d’amore, guarda le nuvole pensieroso e lascia fiori alla sua porta (scappa subito dopo aver suonato il campanello). Ah, se almeno lei sapesse che esiste. Malgrado tutte queste attenzioni lei non sembra notarlo…. Tuttavia…

Dall’elefante all’uccellino. “Rosso come l’amore” di Valentina Mai (2018, 32 p.) è magnifico: dalla casa editrice ci dicono che glielo lo ordinano a colpi di cinquanta copie come bomboniera per i matrimoni. In queste pagine Rosso è un uccellino paffutello che vorrebbe trovare l’amore, lo ha sempre solo atteso, vedendolo però ovunque, ma l’impresa si dimostra molto più ardua di ciò che avrebbe creduto, perché quelli che gli paiono suoi simili, sono, in realtà, altre cose: un semaforo, un sole, una sua immagine nello specchio. Quando, sconsolato dalle sue mille avventure mai a lieto fine, comincia a dubitare che l’amore esista o che lui lo possa trovare, eccolo che invece arriva… Mai disperare, saper attendere oltre che vedere e capire, guardandosi dentro. Sempre. Non solo in amore.

 

C’è poi “Un giorno senza un perché”, di Davide Calì e Monica Barengo (2014, 32 p.) un evergreen sempre attuale e molto ironico. Nella vita succedono cose spesso inspiegabili. Come un regalo inaspettato, una sorpresa imprevista, un evento che destabilizza l’ordine delle cose e ci mette a soqquadro. Questo è ciò che accade al nostro protagonista, a cui una mattina spuntano improvvisamente sulle spalle un paio d’ali. Superato l’immediato sgomento, si arrovella interrogandosi (e interrogando chiunque gli capiti a tiro), sul motivo di questa trasformazione, ma nessuno sa fornirgli una spiegazione plausibile, accettabile, unica. Il dottore non ha mai visto nulla di simile e non esiste certo uno sciroppo… Nessun cugino o parente lontano che le abbia mai avute.

Per la vicina di casa è colpa dell’inquinamento, il custode propone di tagliargliele, il capo ufficio sbotta che non fanno parte dell’abbigliamento adatto a un impiegato.

C’è chi considera quelle ali un dono (magari, avercele, le ali) e chi un accessorio inutile, chi le reputa inadeguate e fuori luogo, chi pensa che ogni cosa abbia un perché. E in effetti, l’incontro giusto darà un senso a tutto. Anche qui, basta capire e sapere aspettare.

E, last but not least, “Il catalogo dei giorni”, di Luca Tortolini e Daniela Tieni (2017, 32 p.), poetico e intenso, un monologo alla Jacques Prévert (conoscete le sue “Paroles?”).

Una storia sul significato dello scorrere della vita, qualunque esso sia.

La nostra vita è fatta di giorni. Giorni in cui si aspetta una risposta o un risultato medico, semplicemente l’arrivo dell’autobus. Momenti cui si affidano decisioni importanti, occasioni per dire una o due parole o per non pronunciarne alcuna. Giorni cui si affidano i ricordi, tempo donato e da donare. Perché il più grande regalo a chi si ama è donargli tempo. Giorni che non si vogliono perdere. Giorni freddi in cui nulla scalda, giorni che hanno sogni di una precisione sconcertante, giorni da ferito, giorni in cui si fa una cosa ma se ne vorrebbe fare un’altra, in cui si sbaglia e pare grave, in cui ci si arrabbia e si vuole fare la guerra, incendiare e distruggere. Giorni in cui non si smette mai di fare, perché bisogna continuare, non fermarsi, non arrendersi, proseguire il viaggio, (ri)cominciare.

Ci sono giorni in cui dici addio, non voglio vederti mai più, giorni in cui ti penti di quello che hai detto o pensato, e ti rivedi. Giorni in cui dici ci rivediamo e non ci si rivede più.

Giorni, giorni che passano. Siano essi lieti, tristi, tormentati, perduti, colmi d’amore o rabbia, tumultuosi o anche stupidi o noiosi. E poi ci sono i giorni dell’amore.

Spesso andiamo veloci attendendo un altro giorno e un altro ancora. Ma il tempo vola, scappa, non ritorna e non dobbiamo avere fretta. Ogni giorno ha il suo valore, il suo perché. Soprattutto se c’è amore.

Guerritore e Vado al Teatro Comunale Abbado con “Ginger e Fred”

Dal 12 al 14 febbraio va in scena al Teatro Comunale di Ferrara lo spettacolo di e con Monica Guerritore, “Ginger & Fred”. L’amara rappresentazione della volgarità di televisione e pubblicità, che, nel 1986, Federico Fellini portò sul grande schermo con Giulietta Masina e Marcello Mastroianni.

Che a Federico Fellini non piacesse la televisione né, soprattutto, la sua pubblicità, non è un mistero. Nelle lunghe battaglie contro “Sua Emittenza”, Silvio Berlusconi, non aveva mai spesso di ripetere che “non si interrompe un’emozione”. Come dargli torto.

È il maggio del 1985 e la Repubblica dà notizia della denuncia da parte del regista nei confronti del broadcaster milanese. Il regista sostiene, nel ricorso all’autorità giudiziaria, “che gli inserti pubblicitari nelle opere cinematografiche violano le norme che tutelano il diritto d’autore e portano ad una deformazione del prodotto con grave lesione della qualità artistica del film e quindi della reputazione professionale dell’autore”. Qualche anno prima Franco Zeffirelli aveva citato l’ancora proprietario di Italia 1 Edilio Rusconi, in seguito alla messa in onda del suo “Romeo e Giulietta” interrotto da ben 18 pause pubblicitarie. Altri tempi, tempi andati. Ci penserà la legge Mammì, nel 1990, a non dargli ragione.

Seguirà una lunga lettera di Fellini pubblicata da l’Europeo, a fine 1985, in cui sosterrà di essere “estraneo alla televisione. Non mi attrae, non desta la mia curiosità. La televisione è soltanto un mezzo di distribuzione che, sì, può trasmettere anche film, ma restringendoli, mortificandoli, deformandoli, riducendoli a cartoline, e tutt’al più dando allo spettatore raggiunto nella sua casa un compiaciuto sentimento, un po’ losco, di voyeurismo a buon mercato […] Le continue interruzioni dei film trasmessi dalle televisioni private sono un vero e proprio arbitrio e non soltanto verso un’opera, ma anche verso lo spettatore. Lo si abitua ad un linguaggio singhiozzante, balbettante, a sospensioni dell’attività mentale, a tante piccole ischemie dell’attenzione che alla fine faranno dello spettatore un cretino impaziente, incapace di concentrazione, di riflessione, di collegamenti mentali, di previsioni, e anche di quel senso di musicalità, dell’armonia, dell’euritmia che sempre accompagna qualcosa che viene raccontato […], vecchi film continuamente interrotti da soffritti sfrigolanti, cascate di ragù e ascelle irrorate da spray deodoranti”.

Una lettera forse programmata per anticipare di un mese l’uscita di “Ginger e Fred”, surreale racconto di due attempati ballerini sul viale del tramonto, riuniti un’ultima volta davanti alla potenza delle telecamere di un volgare network televisivo privato. Il riferimento è chiaro per comprendere contro chi si punti il dito: nel film ad aleggiare sul destino catodico dei due malconci ballerini, Amelia e Pippo, è tale Cavaliere Fulvio Lombardoni…

Dal film alle scene, Monica Guerritore porta sul palco del Teatro Comunale l’adattamento della storia dei due ballerini, che, separati dalla vita, si ritrovano, dopo molti anni, grazie a uno show televisivo natalizio che propone al pubblico le vecchie glorie.

Ci sono tutti i grandi temi: la vecchiaia, un mondo degenerato e divenuto ormai incomprensibile, un passato di entusiasmi perduti, uno spettacolo che non esiste più, la delusione, i dolori dell’esistenza. Anche in una realtà grottesca, tuttavia, rimangono la tenerezza, l’entusiasmo infantile, la fede, l’ottimismo, la dignità e il pudore.

Siamo alla Vigilia di Natale e, nel piazzale deserto, entra in scena un gruppo di personaggi strani e spaesati.

Sullo sfondo la vetrata di un albergo e l’insegna luminosa di una discoteca anni ‘80, qualche lampadina colorata ricorda una festa che è finita. I protagonisti, ospiti dello show, sono emozionati per la serata che li porterà sotto le luci dei riflettori.

Quello che non sanno è che, derubricati alla voce “materiale di varia umanità”, sono necessari a mandare avanti l’ingranaggio spietato della televisione commerciale, riempiendo i buchi tra una pubblicità e l’altra.

Nella notte, e poi in sala trucco, prima che il teatro stesso, pubblico compreso, diventi lo studio dello show e il Presentatore, come il Domatore di un circo, li faccia entrare come bestie ammaestrate, questa piccola umanità fatta di personaggi bizzarri, pavidi e coraggiosi, si imporrà intenerendo il pubblico per la realtà delle loro vite fatte di solitudine, piccole ambizioni e basse aspirazioni, menzogne e confessioni improvvise, nell’esaltazione di un giorno “straordinario”.

Amelia e Pippo, Ginger e Fred, sono tra questi personaggi, ma per loro è diverso: era il loro talento a essere ammirato, a brillare sotto le luci dei riflettori, prima che Ginger rinunciasse lasciando Fred solo e spaesato. Fred che perde l’equilibrio psichico ma anche fisico.

Lo spettacolo del Teatro Comunale è vivace, sulla scena irrompe e prorompe la pubblicità, imperterrita e che non perdona, spot continui che interrompono i momenti più importanti, senza pietà. La farina Amadori, il gelato Amadori, il gelato al cioccolato di Pupo, il pubblico che applaude, partecipe, al segno della claque, che ride su richiesta. In tutto ciò, bellissime musiche e scenografie.

Ginger e Fred si ritrovano qui, persi, confusi, e in questo mondo assurdo cercheranno di riannodare quel “filo nascosto” e ritrovare la luce. Balleranno… e per un breve momento ritroveranno la bellezza e l’intimità di un tempo. Il loro mondo fatto di incanto, come la luna di carta che Fred ha chiesto al macchinista di far apparire magicamente durante il ballo, non c’è più; la vede per un attimo, traballante, che viene calata dai macchinisti, per essere chiusa in un baule durante lo smontaggio. La serata è finita. Sipario. Federico ha voluto così.

“È nell’osservazione di questo piccolo popolo, nella comprensione, nella partecipazione alle loro vite disvelate durante le ore di attesa, nella loro umanizzazione prima di essere usati come ‘caricature’ e spediti al massacro, che emerge la pietas che spinge Fellini a scrivere e dirigere “Ginger & Fred”. Il mondo di Fellini è illusione e suggestione. La scena non descrive ma allude, indica uno spazio ‘altro’: le luci di una festa finita da tempo, le insegne di una discoteca riminese, l’Eden Rock. È quello il mondo che accoglie Ginger e Fred. E che ne racconta la fine”.
Monica Guerritore

“Ginger e Fred” di Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli, adattamento e regia Monica Guerritore, produzione Teatro della Toscana, Accademia Perduta/Romagna Teatri, Società per Attori, con Monica Guerritore e Massimiliano Vado e con (in o.a.) Alessandro Di Somma, Mara Gentile, Nicolò Giacalone, Francesco Godina, Diego Migeni, Lucilla Mininno, Valentina Morini, Claudio Vanni. Scenografia Maria Grazia Iovine, costumi Walter Azzini, coreografie Alberto Canestro, light design Pietro Sperduti, regista assistente Leonardo Buttaroni, direttore allestimento Andrea Sorbera

Fotografare la musica: l’emozionante mostra “Il sorriso di Claudio” alla Rotonda Foschini

Fotografare la musica: l’emozionante mostra “Il sorriso di Claudio” alla Rotonda Foschini. Intervista al fotografo  Marco Caselli Nirmal.

La Rotonda Foschini è per me uno dei più bei luoghi di Ferrara. Nelle passeggiate in centro che faccio spesso – volendo sentirmi un po’ turista e molto flaneuse [1]– è la mia meta preferita, soprattutto quando, nei riquadri delle finestre che si rincorrono nella fascia ad altezza d’occhio, sono esposte, in diverse e sempre centratissime occasioni, le fotografie di Marco Caselli Nirmal.

Sono fotografie di teatro, giacché questa è la specialità di Marco, che del Teatro Comunale Claudio Abbado è il fotografo ufficiale. Sono fotografie che hanno una vita, una luce, uno spessore straordinari, qualunque sia il soggetto raffigurato. E ti fanno vivere lo spettacolo che riproducono, ti fanno sentire la musica degli strumenti e la voce dei cantanti, ti fanno vedere le movenze dei danzatori, ti fanno emozionare e palpitare.

Il tutto amplificato dalla cornice: le pareti ogivali di quel bel rosso dei mattoni ferraresi, le quattro file di finestre (di cui le due più in alto chiuse da imposte di un bel verde) che accompagnano lo sguardo verso l’apertura ovale che dà direttamente sul cielo, ultimamente sempre più spesso di un azzurro limpido.

È ciò di cui abbiamo goduto in tanti nella tarda mattinata di sabato 20 gennaio, nella inaugurazione della mostra dal magnifico titolo IL SORRISO DI CLAUDIO – Fare musica insieme: Abbado a Ferrara nelle immagini di Marco Caselli Nirmal 1990-2013 organizzata da Ferrara Musica.

Le foto poi continuano, nella forma del fronte/retro, sotto il portico corrispondente all’ingresso del teatro, dove è una goduria emozionante camminare a testa in su e ammirare volti gesti e sorrisi del Maestro. Nello spostarsi dalla Rotonda al porticato lo sguardo viene quasi pilotato, sulla destra, dai gradini dello scalone del Ridotto, verso una gigantografia che riproduce un gesto iconico, le braccia aperte, come due ali spiegate a interpretare il volo della musica.

Il sorriso di Claudio

Il sorriso del Maestro, rivelatore della sua gentilezza, è l’aspetto che più mi ha colpito nel discorso di Marco Caselli Nirmal, seguito agli interventi dell’assessore alla cultura Gulinelli, del presidente di Ferrara Musica Francesco Micheli e di Moni Ovadia, direttore generale del Teatro Abbado.

Ed è proprio il sorriso, il primo argomento che gli ho chiesto di trattare nella intervista che mi ha concesso qualche giorno dopo.

È un argomento che mi ha colpito emotivamente – dice Marco – perché al di là del lavoro costante, massivo, che ho fatto con Abbado, ho voluto soprattutto seguire gli esiti di questo sorriso che in realtà mi corrisponde; perciò ringrazio questa mostra che mi ha obbligato a dare ascolto a questo richiamo. Il suo sorriso mi ha fatto da guida, anche eticamente, rispetto al mio lavoro di fotografo; quindi ho cercato di documentare il lascito, l’eredità di Abbado, ma attualizzandola, rendendola viva. Volevo evitare in ogni modo il rischio di dar vita ad una celebrazione vuota, retorica, perciò ho evidenziato, nel breve discorso di presentazione, l’elemento della gentilezza, che è anche l’intonazione del mio lavoro, che si propone di seguire la tensione legata al trasmettere le cose e rendere più operativa la memoria delle opere d’arte”.

Claudio Abbado e José Antonio Abreu

Continua Marco: “Io ho sempre pensato che la musica è l’arte che muove tutte le altre, dovevo quindi partire dal musicista che ho seguito di più da quando faccio questo mestiere e far cogliere il riflesso, l’eredità di un uomo, un maestro che è venuto a mancare. Ora che di lui è rimasto il silenzio (ricordo che al termine di una esecuzione della Nona di Mahler nella Sala Santa Cecilia di Roma nel 2004 invitò il pubblico ad attendere ad applaudire e godere per alcuni minuti il silenzio) ci rimane la sua lezione, il suo pensiero, ci rimangono i semi che ha raccolto nel corso della sua vita, anche nel contatto con altre esperienze artistiche, come EL Sistema creato in Venezuela da José Antonio Abreu.

Il messaggio e il significato profondo dell’agire del maestro venezuelano sono arrivati, grazie ad Abbado, qui da noi; li ha accompagnati con azioni, invenzioni, creazione di orchestre, soprattutto giovanili, per risvegliare l’attenzione nei confronti della musica in parte sopita in Occidente rispetto ai secoli passati”.

Il discorso di Marco si concentra poi sul rapporto che il Maestro aveva con i musicisti, da lui osservato nelle lunghe sedute per le riprese fotografiche, sia durante le prove che in concerto.

Il modo di muovere le mani

“Abbado metteva in mostra quasi una forma di complicità, mi appariva come ’il capobanda’ di un gruppo che era praticamente alla pari. I suoi sorrisi erano proprio sintomo di questa complicità” e io mi inserisco nel suo discorso per osservare un aspetto che mi sta molto a cuore: la complicità, nei video che sto scorrendo per scoprirlo meglio, la vedo anche nel suo modo di muovere le mani.”

Anche nelle tue foto, gli dico, le mani di Claudio appaiono potentissime: tu le rispetti e le metti in luce. Marco risponde raccontando il suo modo di lavorare, il rapporto particolare che instaura con il soggetto rappresentato. È come se lo stile discreto di Claudio Abbado venisse condiviso in toto dal fotografo, che quasi si schermisce dal mio complimento: “Sull’esito fotografico non spetta a me dire, io ho fermato quelle immagini come riflesso. Quello che ho notato sul piano della direzione orchestrale è che Claudio aveva un segno veramente bello, rispettoso della musica e dei musicisti, un segno che faceva sì che io avessi davanti la musica, cosa che molto difficilmente ho visto con altri direttori, più centrati su sé stessi.

Anche i musicisti, quelli con cui avevo confidenza e ai quali chiedevo di dirmi cosa pensavano di lui, mi dicevano che non necessariamente lui era più bravo degli altri, ma rendeva le cose più semplici, rendeva facilitante fare musica, e questo è un dono raro. Un altro aspetto che vorrei trattare riguarda il fotografare durante le prove e nei concerti, le diverse situazioni, importanti entrambe, ma con esiti indubbiamente differenti. E occorre osservare che, soprattutto prima delle macchine digitali, raramente era concesso dagli organizzatori di riprendere durante i concerti, a causa del disturbo che poteva causare il rumore dello scatto.

Io considero importante la fase delle prove, ma il compiersi dell’opera d’arte, il ricostituire l’opera attraverso il lavoro dei musicisti e del direttore produce una trasformazione che accade solamente durante la presenza del pubblico. L’attenzione che ho avuto sempre nei confronti del disturbo provocato dallo scatto fotografico è nata in me nei tempi estremamente significativi, in cui ho cominciato a lavorare per la Sala Polivalente, in occasione delle performances dal vivo che là si svolgevano, così come mi si è rivelata allora la propensione per la fotografia culturale.”

Una fotografia che fa sentire la musica

Gli chiedo poi se quando fotografa presta ascolto alla musica e se essa lo indirizza, se la musica condiziona in qualche modo l’atto del fotografare.
E lui torna a parlare del rumore disturbante dello scatto.

Certo, mentre fotografo ascolto. Ti dicevo del rumore: il primo a essere disturbato quando scatto sono io perché ciò crea un’interruzione del flusso comunicativo con la musica. La soluzione, allora, si trova privilegiando i momenti di ‘pieno orchestrale’. Io mi pongo sempre nella consapevolezza che quello che sto fotografando è un’opera d’arte e che devo assecondarla, devo entrare in sintonia e non essere elemento di disturbo, di dissonanza.

Questo vale anche per la prosa, che vive sul suono della voce, per cui ha le stesse regole della musica, e ricordo con piacere l’apprezzamento di Paolini verso il rispetto che manifestavo nei confronti della voce. E comunque, quando qualcuno dice o scrive che la fotografia ‘fa sentire la musica’  [2] non voglio negare che questo possa accadere, ma dico che ciò non dipende dalla fotografia, ma da cosa prova chi la guarda, l’immagine fa da attivatore di sensazioni o emozioni che chi guarda ha già dentro; e questa funzione è propria di tutte le discipline artistiche.

Fotografare nella Terra di nessuno 

Certo ci possono essere esiti diversi se si tratta di foto giornalistica o di espressione artistica. Ho sempre amato stare nella linea di confine fra il gornalismo e l’arte, sono sempre stato attratto dai confini, dalle ‘terre di nessuno’, in cui c’è compresenza dell’uno e dell’altro aspetto: la documentazione e il fare artistico.
Cerco la linea di contatto fra una disciplina e un’altra, fra un concetto e un altro, una sorta di inquinamento, una messa in connessione tra elementi diversi, altrimenti l’espressione non è fertile.

Anche il mio percorso di studi e le successive scelte professionali mostrano questa mia attitudine a voler stare ‘sul crinale’: ho iniziato Architettura a Venezia, non l’ho completata e sono diventato fotografo, cominciando proprio col fotografare edifici, sempre al confine fra arte e architettura, come poi sarà fra arte e musica, fra parola e musica, sempre cercando il contatto e il confine, l’incontro, la gentilezza ed evitando il più possibile gli integralismi. E, per tornare alla fotografia, sento di non rimpiangere la macchina analogica, la camera oscura, lo sviluppo e la stampa”.

La conversazione, ricca e stimolante, tocca poi altri aspetti interessanti, ma mi preme non perdere il filo dell’incontro con Claudio Abbado attraverso le fotografie messe in mostra, per cui mi concedo una domanda conclusiva, che sta al confine fra tecnica ed espressività: perché (come mi ha confessato appena finita l’inaugurazione) per le foto della Rotonda avrebbe preferito il bianco e nero?

Riguardandole ora, e confrontandole con quelle esposte l’anno scorso nella mostra Volti della regia – mi risponde – mi è venuto da pensare che anche queste di Abbado (tranne una, quella del sorriso) avrebbero, in bianco e nero, una forza maggiore, rispetto all’ambiente, una intonazione con lo spazio, giacché a volte il colore può essere fonte di distrazione, soprattutto in uno sfondo cromaticamente determinato come quello della Rotonda. Al contrario, quelle esposte lungo il portico prendono maggiore valore, a colori, perché collocate in alto in una zona non particolarmente illuminata.”

L’incontro con Marco Caselli Nirmal mi ha consentito di avvicinarmi di più al Maestro che voleva essere chiamato soltanto Claudio, come più volte è stato ricordato nel corso dei tanti eventi dedicati a ricordarlo nella giornata del decimo anniversario della morte. Forse è proprio così: riusciamo veramente a scoprire e a capire qualcuno, solo se lo vediamo (e magari lo fotografiamo) nei suoi gesti quotidiani. Piccoli gesti che compongono un grande Maestro, raccontati da un grande fotografo.

La mostra Il sorriso di Claudio – Fare musica insieme: Abbado a Ferrara nelle immagini di Marco Caselli Nirmal 1990-2013″ sarà visitabile presso la Rotonda Foschini di Ferrara fino al 15 aprile 2024.

Periscopio dedicherà uno “Speciale” al maestro Claudio Abbado  e al fotografo  Marco Caselli Nirmal con tutti gli scatti in mostra ed alcuni inediti dal 21 febbraio al 20 marzo 2024.

Note:
[1] La parola, notissima, francese flaneur indica proprio chi passeggia per il piacere di farlo e addirittura gode del paesaggio. Di questo termine, però, manca il corrispettivo femminile. C’è stata una sorta di accordo tra accademici e perfino femministe per cui non si è mai pensato di declinarlo: del resto le donne non hanno mai avuto la totale libertà di camminare per la città. Io però me lo sono inventata, è flaneuse>.  Così, in un’intervista del 2017 su Il libraio, racconta Lauren Elkin, autrice del libro omonimo, edito da Chatto&Windus, che rievoca grandi autrici che amavano passeggiare per le loro città.

[2] …perché gli dico che forse considererà retorica la frase, di questo mio articolo, in cui scrivo che le sue fotografie fanno sentire la musica…

Bibliografia e sitografia

Foto in copertina e nel testo di Marco Caselli Nirmal

Per leggere gli articoli di Maria Calabrese su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Cara Ferrara, la libertà non è uno spazio libero:
libertà è partecipazione

“Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.”

Cara Ferrara, la libertà non è uno spazio libero: libertà è partecipazione

Nel 1972 Giorgio Gaber aveva già disegnato la silhouette della democrazia italiana prossima ventura, quella che in seguito abbiamo attraversato come un incubo: prima in bianco e nero e dopo a colori, pieno di lustrini e ragazze svestite, mentre gli onesti e capaci esplodevano nel tritolo.
Questi ultimi 40 anni, iniziati con la rappresentazione catodica della libertà (indirizzata ogni dieci minuti al supermercato con i “consigli per gli acquisti”), non sono passati invano. Le conseguenze sono incalcolabili, ormai impossibili da isolare dal nostro corpo e dalla nostra mente, anche solo per esaminarle – come quando si preleva un frammento di tessuto per una biopsia. La penetrazione capillare del modello catodico di libertà ha modificato la nostra biologia. Le giunzioni delle nostre sinapsi tra un neurone e l’altro sono cambiate, così come tra alcune generazioni nasceranno umani ricurvi e senza vista periferica.
L’incessante, subliminale gocciolare nella nostra fontanella cranica del modello Fininvest e di quel suo terrificante derivato che è la spettacolarizzazione della second life attraverso i social – una vera e propria weltanschauung cha scavalla la fine millennio e inaugura quello successivo, tanto più velenosa in quanto percepita come superficiale – ha trasformato l’idea stessa di “persona di valore”: non è più una persona con dei valori, ma una persona che ce l’ha fatta. Così come una persona con la capacità di coordinare un gruppo di lavoro non basta più: deve esserci un leader.
Nella contesa preelettorale per i prossimi sindaco/a e giunta di Ferrara, i primi passi confermano l’inevitabile trionfo del modello culturale dominante: attenzione, niente affatto subculturale, in quanto tutti ne siamo permeati, in misura diversa. Il candidato principale dell’opposizione che “scioglie la riserva” lo fa al cospetto di centinaia e centinaia di persone che sono accorse al cinema non per parlare, ma per ascoltarlo. E lui non è lì per ascoltare, ma per parlare. Chiedete ad una persona che sospira di sollievo allo “scioglimento della riserva” cosa lo fa scegliere, in questo momento, l’avvocato Fabio Anselmo: il centro storico senza auto? La bonifica delle falde acquifere inquinate? Migliorare la qualità dell’aria nelle zone in cui l’automobile adesso viaggia ai dieci chilometri all’ora, altrochè trenta? Ridare risorse alla sanità territoriale pubblica invece di dover aggirare le liste chiuse a suon di 120 euro a visita? Dare spazio amministrativo al terzo settore, quello fatto di gente che si occupa delle persone fragili facendo supplenza a uno Stato latitante?
Andiamo, su. Non fatela sempre complicata. La risposta è: “con Lui si vince” (del resto lei, Laura Calafà, è stata prima lusingata e poi congedata senza troppi complimenti, perché con lei non si vinceva).
Allora una domanda la faccio io: che differenza passa tra questo modo di dare una delega e l’altro, quello per cui altri l’hanno data ai “brutti sporchi e cattivi”?
Qualcuno la risposta me l’ha data: la qualità della persona.
Giusto. Le persone sono importanti. Quando qualcuno dice “prima i programmi e poi le persone”, quasi sempre mente, anche perchè di solito chi lo dice è un politico di professione, che intende esattamente il contrario.
Ma un cittadino comune che affida la sua delega in bianco a una persona senza avere non dico contribuito a, ma ricevuto un’idea di città, con quale logica lo fa? La mia risposta è: con la stessa logica degli altri. Questo non significa che uno o l’altro sono uguali: se fossimo in un sistema a turno unico in cui sono costretto a scegliere subito tra due alternative secche, non avrei un dubbio. Invece siamo in un sistema in cui, in direzione ostinata e contraria (e forse al tramonto) rispetto al modello culturale che ci ha colonizzato il cervello, sopravvive uno spazio che i cittadini possono riempire, sol che qualcuno gli dia il modo di farlo. La Comune di Ferrara sta facendo questo: sta dando ai cittadini lo spazio e il tempo per esprimere la propria idea di città.
Far esprimere le persone, tutte le persone che vogliono farlo, è una fatica enorme. Intanto bisogna farsi conoscere, e raccontare questa follia, che le persone possono parlare senza filtri sedute a un tavolino e che le loro idee vengono appuntate su un cartellone.  Poi bisogna organizzare gli spazi per ascoltarle, e farlo con delle tecniche che non disperdano le energie in mille rivoli. Poi bisogna fare i conti col fatto che le persone sono abituate a dire cosa non va, ma non sono più abituate a proporre qualcosa. A quello i nostri neuroni non sono più abilitati, non nel dibattito pubblico: nel dibattito pubblico la maggior parte delle persone prende parte come tifoseria. Non sono più abituate nemmeno all’idea di poter scendere in campo: in campo scende quello che ci arriva dal cielo, con l’elicottero.
Fare mediazione e sintesi (comunque indispensabile) partendo realmente dal basso e con queste premesse culturali sedimentate è una vera impresa. Si tratta, dentro un magma caleidoscopico e spesso indistinto di lamentazioni e di embrioni di idee, di fare filtro e sintesi, ma che arrivano dopo una disintermediazione resasi necessaria dalla caduta verticale della fiducia nei soggetti deputati: i partiti. Non è populismo, è aritmetica: basta fare il conto di quanta gente non va più a votare, dando purtroppo un oggettivo contributo alla vittoria dei “brutti sporchi e cattivi”. Ma questa è tutta gente menefreghista, priva di idee, che pensa solo ai cavoli propri, per la quale “sono tutti uguali”?
No. Lo dimostra la crescente partecipazione agli incontri de La Comune. Minoritaria? Riserva indiana? Invito semplicemente a riflettere sulla differenza di metodo. Da una parte ci sono coloro che parlano di sé, dall’altra un gruppo di persone che danno uno spazio per parlare di sé. Per partecipare, e non solo attraverso il televoto, che è divenuta la forma più apprezzata di democrazia diretta.
Detta così può sembrare la descrizione di un gruppo di autoaiuto. Invece potrebbe essere un salutare ritorno agli anni settanta dell’individualista disperatamente collettivo Gaber, prima che le stragi e il tubo catodico ammazzassero i giusti e i neuroni.
La campagna elettorale è appena iniziata. Non esiste nessun dubbio sul comune avversario cui togliere la sedia dal sedere. La differenza sta nel decidere di farlo senza cambiare nulla nel nostro modo di ragionare, che è ormai quello di delegare la risoluzione dei nostri problemi ad un supereroe o ad un furfante; oppure nel provare ad essere cittadini attivi e contribuire alla scrittura di un programma per cambiare Ferrara, e che può essere utile a chiunque diventerà sindaco. C’è ancora tempo e modo: infatti quello de La Comune di Ferrara si chiama “quasi programma”. 

Una nuova famiglia

Una nuova famiglia

Che buono, il couscous. Buono come l’agnello, l’insalata méchouia e i makroud, i dolci a base di datteri. Pietro assapora il cibo a tavola con Karim, sua moglie Aziza, e i loro due figli, Fouad, otto anni e Fatma, che ne ha sei. Karim e Aziza provengono da un villaggio vicino a Matmata, nell’interno della Tunisia. Da ragazzo Karim ha fatto il pastore, poi il muratore; Aziza tesseva tappeti. Sono in Italia da dieci anni e qui sono nati i bambini.

Pietro pensa che solo qualche tempo fa non avrebbe mai detto che questa sarebbe diventata la sua nuova famiglia… La sua mente fa un salto indietro, rivede immagini chiare, nette. Immagini di qualche mese fa.

***

È rimasto solo, sua moglie se n’è andata per un tumore, il suo unico figlio lavora all’estero, si sentono ogni tanto: ha la sua vita, va bene così.

Dopo la morte di Gianna, Pietro non ha desiderato più nulla. Si sono voluti molto bene, lei è stata una compagna dolce e paziente, ha sopportato con coraggio il male e la fine. Quando tutto è terminato e gli altri sono andati via dopo il funerale, gli abbracci e le condoglianze, lui si è seduto nel modesto soggiorno del suo appartamento a guardare il muro.

È restato lì per ore, a piangere. Poi si è coricato sul letto, su quel letto dove si erano amati, si erano detti tante parole, avevano fatto progetti. Per dormire ha dovuto prendere i tranquillanti e si è svegliato con la testa che girava. Nei giorni successivi è uscito unicamente per comprarsi da mangiare.

Pietro è in pensione, dopo quarant’anni di lavoro, abita in un quartiere popolare, case costruite molti anni fa in cui adesso vengono ad abitare molti immigrati. Quante volte li ha visti, gli uomini soprattutto di sera, le donne nel pomeriggio a spingere le carrozzine con due, tre, anche quattro bambini, molte sono giovani, parlano tra loro ad alta voce. Una babele di lingue, l’italiano si sente raramente, ormai qui sono tutti stranieri, io che ci faccio? non ti guardano, sembra che tu non esista. Stai a vedere che tra loro ci saranno pure dei terroristi…

Un pomeriggio, nel salire le scale per andare sul terrazzo condominiale a stendere il bucato, Pietro si accorge che due occhi neri lo stanno osservando. Si volta e gli occhi spariscono. Continua a salire e si accorge che gli occhi sono quelli di Fatma. La bimba sta sulla soglia dell’appartamento dove abita, due piani sopra il suo: appena lui si avvicina lei scappa dentro e richiude la porta.

Un’altra volta ad Aziza cade un recipiente lungo le scale, Pietro lo raccoglie e glielo porta; la donna lo ringrazia tutta confusa e rientra in casa. Poi è Fouad che torna da scuola, all’improvviso lo zainetto si apre spargendo libri, quaderni, matite e penne proprio davanti all’appartamento di Pietro: lui esce e insieme raccolgono tutto, il ragazzino ringrazia e fugge via.

In casa Pietro riflette: però questa è gente che non fa mai confusione, contrariamente a quel che si sente dire. Karim è un uomo un po’ austero, quando torna dal lavoro ha la tuta bianca di calce e saluta Pietro educatamente, con rispetto. Quando si incontrano, Aziza gli sorride timidamente.

***

Oggi è domenica, nel quartiere c’è aria di festa. Nel giardinetto tra i palazzi i bambini corrono e giocano, sulle panchine siedono pensionati e famiglie. Pietro è uscito, dopo tanti giorni trascorsi in casa. Ha pensato molto a Gianna, ha sentito suo figlio che adesso è in Australia, poche parole al telefono. Dopo aver passeggiato un po’, è tornato a casa per il pranzo. Sta per mettersi a cucinare, quando sente suonare il campanello.

Apre la porta e c’è Aziza con una tajine, il recipiente di coccio dove si cuoce e si serve il couscous. Ho portato questo per te, spero che ti piaccia, mormora la donna abbassando lo sguardo. Pietro prende la tajine e ringrazia: porta in cucina il recipiente e torna per salutare Aziza, ma lei è già sparita.

Allora sale le scale e suona alla porta dell’appartamento due piani più sopra. Viene ad aprire Karim, dietro di lui si nascondono Fouad e Fatma. Pietro ringrazia ancora, poi non sa più cosa dire e Karim lo invita a entrare. L’appartamento è ordinato e pulito, Pietro va nella cucina, dove tutta la famiglia sta per pranzare. Dice Karim: tu sei il benvenuto in questa casa. Sappiamo che sei solo, che hai provato un grande dolore. Se vorrai, noi saremo tuoi amici.

***

Pietro risente quelle parole mentre sta seduto a tavola. Ha pensato molto, lui pensa sempre, e una cosa gli è chiara. Non siamo tutti uguali, bisogna saper distinguere le persone e per distinguerle bisogna conoscerle. Bisogna imparare da dove vengono, cosa pensano, come vivono, in cosa credono. L’immigrazione non si può fermare con le cannonate e non si può lasciar morire la gente in mare. Certo, vanno aiutati a restare nei loro paesi d’origine. Ed è vero che qui il lavoro non c’è per tutti, ma molti immigrati fanno mestieri che noi non vogliamo più fare, pagano le tasse, cercano di rispettare le leggi.

Gli immigrati sono troppi, d’accordo, non sono un problema solo dell’Italia, anche degli altri paesi d’Europa, servono più controlli. E poi non tutti si comportano bene, invece devono rispettarci e osservare le nostre regole. Però non possiamo fare finta che non esistano, quando ci passano vicino e non ci guardano dobbiamo sapere perché, cosa pensano di noi. Almeno dobbiamo provarci, parlare con loro. E poi c’è il terrorismo che va combattuto insieme, noi e loro.

Tutti questi pensieri si agitano nella testa di Pietro, mentre mangia e guarda i bambini che sono un po’ irrequieti, ma con lui stanno volentieri. Oggi in tavola ci sono anche le brik, le frittelle sottili con uova, tonno, carne, formaggio, molto appetitose.

Domani è lunedì, Karim si alzerà presto per andare al lavoro, Aziza ha trovato un servizio a mezza giornata e Pietro accompagnerà Fouad e Fatma a scuola. E poi, in un condominio vicino abita Rita, una maestra in pensione amica di Gianna, che aiuterà i bambini nei loro compiti.

© Franco Stefani 
(11-12 maggio 2015- 23 agosto 2022)

In copertina: Tajine di Pollo con Verdure 

Per leggere gli articoli di Franco Stefani su Periscopio clicca sul nome dell’Autore

Per certi versi /
UN CARNEVALE A BOLOGNA

UN CARNEVALE A BOLOGNA

Ti vedo
Ti accolgo
E non sento
il mio corpo
Sembro d’aria
di fuoco
D’acqua
di vento
Sono cosi intento
A viverci
Che mi dimentico
Di me
O piuttosto
Sono tutto
me stesso
Con la mia
torre gemella
Forse
se mangiamo
una frittella
Di carnevale
E tu mi lecchi
I baffi
zuccherati
Il corpo batte
un colpo
Il cuore sa
Dove siamo
stati

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Anna Zonari: Basta con la vecchia politica fatta nei corridoi. Noi proponiamo una politica basata sul metodo partecipativo.

Solidarietà agli iscritti e ai dirigenti ferraresi di Sinistra Italiana e Europa Verde
La Comune di Ferrara ribadisce la sua disponibilità ad accogliere tutti i soggetti della politica ferrarese che credono ancora nel valore della partecipazione.

Ecco le parole della candidata Sindaca Anna Zonari: “Respingiamo un’idea di politica centralista che azzera le decisioni prese dai militanti a Ferrara, sostenendo la supremazia della strategia elettorale scelta a Roma. Tutti si aspettano trasparenza nel modo in cui vengono prese le decisioni, e questa fase iniziale della campagna elettorale non ci è piaciuta. L’allontanamento di Laura Calafà a dicembre, e ora l’alt intimato dalle segreterie romane agli elettori di Alleanza Verdi e Sinistra Italiana, hanno il sapore di una politica concentrata sulle sue dinamiche di potere, quelle che hanno portato alla sconfitta elettorale di cinque anni fa.

La Comune ha messo sin dall’inizio al centro della sua azione politica il metodo partecipativo. Non basta riempire sale di elettori che ascoltano. Bisogna tornare ad ascoltare i cittadini e renderli protagonisti delle decisioni.

Troppe volte abbiamo visto una politica lontana dai cittadini. Una politica che privatizza l’acqua che la gente vuole pubblica. Supermercati che aumentano indipendentemente dal colore dell’amministrazione al potere, indipendentemente dai bisogni reali. Una politica che stravolge il senso delle parole, trasformando la rigenerazione urbana in speculazione edilizia, il verde urbano in operazioni di greenwashing.

Speriamo che dai prossimi giorni la politica ferrarese torni con i piedi per terra: serve un’idea di città diversa, che sa affrontare davvero le sfide delle migrazioni e dell’invecchiamento della popolazione, della decarbonizzazione, della sanità e della salute, del lavoro, della qualità della vita degli studenti e degli anziani. La politica fatta nei corridoi, lontano dallo sguardo dei cittadini serve solo alle segreterie nazionali dei partiti per giustificare il loro ruolo, e non merita nessuno spreco di energia da parte nostra”.

In copertina: Anna Zonari con Evita (una Springer spaniel di 8 anni di cui 7 nel canile di Assisi) che ha appena adottato.

San Valentino in salsa leghista

San Valentino in salsa leghista

San Valentino martire

Mi sono letto il suo profilo agiografico, che si richiama al celebre Martyrologium Hieronymianum del VI secolo, e devo dire che Valentino da Terni mi è sembrato un tipo tosto: vescovo, poi martire, quindi santo. San Valentino, l’originale, che penserebbe dell’asfissiante can can commerciale montato ogni anno per il 14 Febbraio, giorno del suo martirio e festa degli innamorati?
Comunque non c’è niente da fare, abbiamo voluto il capitalismo, e adesso ci tocca anche San Valentino, con il corollario di cioccolatini, scatoline, bigliettini,  palloncini, e naturalmente baci bacini e bacetti, tutti necessariamente a forma di cuore.

Quel che non si può proprio vedere, che personalmente non reggo, che tutti i ferraresi di buon senso non sopportano, sono quei cuori che ornano (deturpano) la Torre della Vittoria in piazza Trento Trieste. Un’altra pacchianata, dopo la cometa e il presepe kitsch in Piazza Ariostea, dopo lo stellone accanto allo scalone del Municipio, dopo la ruotina panoramica (senza possibilità di vedere alcun panorama) nei Giardini del Grattacielo ed altre dozzinali invenzioni in giro per Ferrara e che per fortuna ho dimenticato.

Torre della Vittoria con i cuoricini del Sindaco Fabbri
La panchina per farsi un selfie contornati dal cuoricione

Ma il caso della Torre della Vittoria, coperta di cuori rossi luccicati e con alla base un piccolo trono per i patiti del selfie, merita una particolare menzione; non è solo volgare e cretino. ma poco rispettoso per il monumento e per coloro a cui è dedicato.  La Torre deve il suo nome alla Grande Guerra e ai suoi caduti. Per ricordarli, all’interno della torre, visibile a tutti i passanti, c’è La Vittoria Alata, una scultura dello scultore ferrarese Arrigo Minerbi.

Ricapitoliamo. Natale è passato, la Befana anche, San Valentino e cuoricini dovremmo levarceli di torno nel giro di una settimana. Ma non è lecito sperare in una tregua. Siamo sotto elezioni e sono sicuro che il sindaco ha in serbo altre sorprese, altre luminarie, altre brutture, altri insulti a una città che voleva essere d’arte di cultura. Prendete nota: c’è il carnevale, c’è la Pasqua (31 marzo), la festa del papà (19 marzo), la festa della mamma (12 maggio). Poi arriva giugno e speriamo che alle elezioni  i ferraresi mandino a casa il Pifferaio magico e tutta la sua compagnia di giro. Cosi finalmente spegneremo le luci e Ferrara tornerà Ferrara.

Cover e foto nel testo di Carla Bottoni

La SPAL è un bene comune

Chi mi conosce sa che della mia passionaccia per la Spal scrivo anche su un’altra testata. Non preoccupatevi, per quanto riguarda Periscopio è una tantum.

Perché parlare della gloriosa Società Polisportiva Ars et Labor tra queste pagine? In molti diranno, coi problemi di oggi, il mondo che va a fuoco, l’incertezza sul futuro di tutti, la campagna elettorale imminente e impertinente, ancora di calcio dobbiamo sentir parlare? Ecco, chi ha questo legittimo pensiero può abbandonare questo men che memorabile articolo e veleggiare su argomenti più seri.

Parlo di S.P.A.L. qui e ora perché il calcio con i colori del mio cuore non c’entra nulla. L’evento sportivo in sé non spiega minimamente l’attaccamento viscerale di una comunità alla propria squadra. Ferrara e la Spal sono la stessa cosa, lo sono dall’alba dei tempi, una storia che nasce dalle sacrestie dei salesiani a inizio secolo e trionfa nella massima serie con il Commendator Mazza per sedici anni, ritorna ad annaspare in seconda e terza serie per quasi mezzo secolo e riprende il suo cammino ritornando in serie A dopo quarantanove anni grazie ai Colombarini da Masi San Giacomo. Poi, purtroppo, ai momenti di inaspettata e inebriante felicità segue la realtà odierna. Da Masi al New Jersey c’è un gran picchio di differenza, che poi io il New Jersey pensavo esistesse solo e unicamente nei film americani, non credevo fosse un posto reale.

Come parlarvi della fatica di essere spallino, come spiegarvi i veri motivi che ci spingono adandare alla Spal come si dice da noi, come scriverlo? Molto difficile e complesso per chi mai ha ascoltato il boato del Mazza che non ti fa sentire la tua voce, quell’esplosione di gioia che fa tremare i vetri dei due torrioni, quelle onde sonore che si perdono giù verso la via Foro Boario, fino quasi in via Bologna.

Oggi viviamo in un mondo dove l’aggregazione, lo stare insieme, il pronome personale noi, hanno perso il loro significato. Non esistono più luoghi deputati alla socialità. Sui gradoni della Ovest, appoggiati spalla a spalla, noi riusciamo a ritrovare quei valori che paiono dispersi nel mondo reale. La curva della S.P.A.L. è talmente politica da essere a-partitica, è rimasta l’ultimo baluardo aggregativo di una città dove non esistono spazi per i giovani, al di fuori di proto balere o street bar. I centri giovanili dei miei tempi erano essenzialmente tre: la sezione, la parrocchia e il bar, che accomunavano tra loro il sacro e il profano, l’ateo e il credente. Oggi quegli ambienti sono estinti, e lo stadio diviene luogo fondamentale per recuperare il concetto di amicizia, comunità, storia e memoria. Gli anni bui che già abbiamo vissuto ci hanno fatto perdere una generazione, che poi con il lavoro dei ragazzi della Ovest, piano piano, un passo alla volta si è riusciti a riprendere, realizzando un humus identitario che ci è valso i complimenti anche dei non adepti, specie quando venivano allestite coreografie ricche di contenuti.

Questi stessi ragazzi, spesso identificati come barbari trinariciuti, messi in un angolo e classificati come  teppaglia schiava del panem et circenses, sono un esempio da seguire per quanto riguarda la messa in pratica del concetto di solidarietà, vera, attiva, non sbandierata. Quegli stessi ragazzi che spesso a causa di provvedimenti iniqui come il Daspo alle intenzioni vengono privati della libertà personale. Capiamoci, non sto dicendo che lo stadio è una discarica dove tutto è lecito, esistono i reati e le pene, dopo una sentenza di condanna giustamente deve essere comminata una pena. Dopo però, non prima. Ecco in breve sintesi ciò che siamo e perché abbiamo così a cuore le sorti della nostra squadra.

Per tornare a bomba alla realtà di oggi, ci ritroviamo con una squadra gestita (!) da investitori stranieri che, con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, hanno demolito in poco più di due anni un ambiente che pareva inscalfibile, anche oltre gli errori della precedente proprietà. Non sono così stupido da pensare che un qualsivoglia investitore, sia esso americano, arabo o marziano acquisti per amore una squadra di provincia lontana un anno luce dai suoi possedimenti. Capisco, non senza qualche conato di vomito, i concetti di budget, target, capitale e plusvalenze applicate al calcio, e mi immagino che i signori americani abbiamo visto in una piccola, sana, attrezzata realtà di provincia un bel giochino per fare soldi. Una realtà di provincia che ai tempi della serie A riempiva lo stadio cittadino, ma che nella storia (se qualcuno l’avesse letta), portava nei primi anni ’90 più di diecimila spettatori al Bentegodi per uno spareggio di quarta serie, assiepava seimila spallini a Bologna e molto, molto altro. Vero, mi si dice fosse un altro calcio e un altro mondo, ma la scalata della banda Semplici non è così lontana nella memoria, pochi anni fa, il tempo di un battito di ciglia, Floccari puniva la Vecchia Signora, si vinceva contro l’Atalanta, le squadre capitoline spesso venivano sconfitte dai ragazzi vestiti eleganti nelle loro strisce verticali dai colori del cielo (mi raccomando signor sindaco, i nostri colori sono bianco e azzurro, il celeste non sappiamo neppure che colore è).

Tornando agli errori presidenziali, io credo che i tanti soldi spesi nel progetto siano stati spesi … senza un progetto. Non so come si svilupperà il futuro, credo sia importante che le istituzioni cittadine, senza farne una mera bandiera elettorale, ascoltino quelle che sono le richieste del popolo spallino, nella figura delle persone che stanno là sotto in fondo dove fa più calor. La possibilità di avere il Comune (qualunque sia la giunta) come garante del marchio mi pare una richiesta più che sostenibile, ne abbiamo (pochi) esempi in Italia. La spesa per la Società detentrice dello stesso non è nei termini indicati dal Presidente nella pessima ultima conferenza stampa.

La S.P.A.L. è un bene comune e in quanto tale va rispettato, è la storia di un popolo e di una comunità che ne ha fatto bandiera dal 1907.

E no, col calcio in sé non c’entra un cazzo.

Photo cover: formazione Spal 1976/77, wikimedia commons

Per leggere gli altri articoli di Cristiano Mazzoni su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

FOIBE, IL DOVERE DI RICORDARE

FOIBE, IL DOVERE DI RICORDARE

di Sergio Anfossi
tratto da Famiglia Cristiana del 10 febbraio 2024

Oggi, 10 febbraio,  si celebra una delle grandi tragedie del Novecento: il massacro delle foibe e l’esodo dalmata-giuliano degli italiani decretato da Tito. Un evento che tramanda tante sofferenze che non va dimenticato nè strumentalizzato

E’ un paradosso grottesco, ma l’Italia sta già dimenticando il “Giorno del ricordo”, la solennità civile in memoria delle vittime massacrate dai partigiani di Tito gettati nelle foibe e dell’esodo di istriani, fiumani e dalmati di origine italiana all’indomani della vittoria militare slava (ma i primi eccidi iniziarono già nel ’43). Questa giornata di grande intensità civile, destinata soprattutto ai giovani, è stata istituita da una legge votata dopo un lungo e tormentato iter da quasi tutti i partiti nel 2004 (esclusa Rifondazione Comunista), in coincidenza con il trattato di pace del 10 febbraio 1947 tra Italia e Jugoslavia che ridisegnava i confini dei due Paesi.

Il Giorno del ricordo” nasce fin dall’inizio  tra le polemiche, tra chi accusò i suoi propugnatori di voler strumentalizzare questa ricorrenza da destra e chi tendeva a negare una delle pagine più orrende del comunismo con la scusa di opporsi alla “riabilitazione di fascisti e repubblichini” e al pericolo di infangare la Resistenza. E in effetti molti esponenti, giornalisti e persino studiosi del Centrodestra hanno tentato di farne quasi un ambiguo contraltare della Giornata della memoria, come denunciarono storici del calibro di Angelo Del Boca e Giovanni Gentile. Se ci furono vittime a destra come a sinistra allora tutti i carnefici sono uguali e dunque non ci sono carnefici, vengono attenuate le responsabilità. Un tentativo gravissimo che peraltro finisce per ledere anche l’unicità e la sacralità della Shoah, il genocidio di un popolo che va tramandato senza accostamenti fuorvianti.

In realtà quella tragedia umanitaria – frutto di abominio ideologico, etnico e nazionalista – è una pagina nera di tutto il Paese. Tra le vittime delle foibe oltre a moltissimi dirigenti e membri del Partito nazionale fascista figurano anche ufficiali, funzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, impiegati bancari, sacerdoti come don Francesco Bonifacio, studenti come Norma Cossetto, orribilmente seviziata,  stuprata e uccisa dopo un’agonia infinita, tutti cittadini senza tessera legati solo da radici comuni a quelle terre  e persino partigiani e antifascisti autonomisti fiumani. Per non parlare dei destinatari del grande esodo che costrinse centinaia di migliaia di italiani a lasciare la casa e gli affetti per finire deportati come profughi in Italia (erano i “siriani” di allora, dovrebbero servirci da ammonimento, ma nessuno ormai li ricorda). Celeberrimo il “treno della vergogna”, il convoglio ferroviario che nel 1947 trasportò da Ancona i deportati di Pola, carico di esuli italiani, a torto definiti appartenenti al partito fascista grazie a un’operazione di controinformazione, su cui si scateneranno le invettive e le infamie più brutali. Il latte destinato ai bambini malnutriti e disidratati del convoglio – nel clima infuocato di allora –  venne gettato sui binari della stazione di Bologna per dileggio.

Oggi, a pochi anni dall’istituzione di questa solennità civile, ai tentativi di strumentalizzazione si è sostituito il quasi generale disinteresse (figlio non a caso della strumentalizzazione). Quanti ne hanno parlato nelle scuole? Quante manifestazioni sono state celebrate? Quanti articoli, quanti libri sono usciti sull’argomento? Pochi. Ma la tragedia legata alle foibe, gli inghiottitoi carsici dove furono gettate le vittime, simbolo del moto d’odio e di giustizia sanguinaria che caratterizzò il dopoguerra nell’Adriatico Orientale,  ha rivelato la natura repressiva e totalitaria del regime di Tito, in un clima di anarchia e resa dei conti che caratterizza i finali delle guerre. Quella memoria di sofferenza va tramandata per rendere omaggio a tante povere vittime e perché questo abominio della storia non si ripeta. Gettare questa giornata solenne nelle foibe dell’oblio sarebbe gravissimo.

Jin Jiyan Azadi: il pensiero di Öcalan e la scienza delle donne curde. Intervista a Zilan Diyar, giornalista e attivista del TJK-E

Il pensiero di Ocalan e la scienza delle donne curde
Intervista a Zilan Diyar, giornalista e attivista del TJK-E

“Il grado di libertà e uguaglianza che le donne riusciranno ad ottenere, corrisponderà al grado di libertà ed uguaglianza di cui godrà ogni sezione della societàAbdullah Öcalan.

di Baran Qamişlo
Articolo originale su Dinamo Press del 9 febbraio 2024

Sabato 10 Febbraio il Movimento delle donne curde in Europa TJK-E terrà presso l’aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Roma Tre una conferenza dal titolo JIN JIYAN AZADÎ : Una filosofia di trasformazione della vita, insieme a Jineolojî Center, Rete Jin Italia, Comitato italiano di Jineolojî, Non Una di Meno e al Collettivo Transfemminista Marielle di Roma Tre.

Negli ultimi anni si è molto sentito parlare del motto jin Jiyan Azadî, traducibile in Donna, Vita, Libertà, soprattutto in seguito alle proteste sfociate in una vera e propria rivolta che ha coinvolto tutte le maggiori città iraniane e del Kurdistan dell’est, innescate dalla morte della ventiduenne curda Jina Amini, caduta in coma a seguito di un pestaggio subito dalla polizia morale iraniana.

A spiegare l’importanza di questo motto per le donne curde è Zilan Diyar, giornalista e attivista del TJK-E.

La conferenza si intitola Jin Jiyan Azadi (Donna, Vita, libertà). Perché questo motto è così importante per il movimento delle donne curde?

Perché l’identità stessa del movimento delle donne curde è basata su questo slogan. In effetti sarebbe più appropriato considerarlo una filosofia di vita piuttosto che uno slogan. Jin in curdo significa donna. È molto importante definire correttamente il concetto di donna. Perché, secondo le parole di Reber Apo [ Abdullah Ocalan, dal curdo reber: Guida, nda] , la donna è una classe sociale la cui esistenza è stata offuscata da bugie e propaganda. Quando parliamo di donna, intendiamo infatti un’identità sociale, non solo biologica. Nonostante la distruzione causata da cinquemila anni di sistema maschilista, ci sono aspetti della sua identità che mantengono le caratteristiche del periodo della dea madre. In altre parole, la donna è un’identità olistica, completa di ciò che ha perso e guadagnato dal punto di vista biologico, sociale e storico. Con questa conferenza stiamo cercando di raccontare questa identità in tutti i suoi aspetti.

Anche la connessione tra le parole curde jin e jiyan è importante. Osserviamo infatti la presenza delle donne in ogni aspetto della vita. Anche se, secondo la prospettiva occidentale, le donne in Medio Oriente sono viste come estranee alla vita, ma si tratta di una prospettiva incompleta. Al contrario in Medio Oriente ci sono tracce di questa cultura della dea madre ovunque. Possiamo persino Osservare che nella lingua curda tutte le parole hanno radici femminili. Azadî, in fine, rappresenta la ricucitura di questi legami tra le donne e la vita attraverso la lotta e l’organizzazione. Come donna curda, ho sentito questo slogan migliaia di volte in ogni manifestazione, marcia ed evento a cui ho partecipato. Ma questo non è solo uno slogan. È una motivazione fondamentale per la ricerca della propria identità e della direzione della propria vita. In queste tre parole si nasconde la volontà di definirsi correttamente, di dare un giusto senso alla vita e di cambiarla. In altre parole, si tratta di una filosofia sviluppata con grandi costi e fatica, che non può essere vittima della cultura popolare.

La seconda sessione richiama chiaramente la situazione di Abdullah Ocalan, perché avete ritenuto importante discutere delle sue condizioni di detenzione in questa occasione?

Questo è uno dei problemi che ci impedisce di essere comprese in modo olistico. Perché il rafforzamento del movimento delle donne curde e la conoscenza e l’esperienza che ha acquisito nella lotta per la libertà sono direttamente collegati all’impegno di Reber Apo. Spiegare correttamente questo legame è innanzitutto un requisito fondamentale del nostro compagnerismo con Reber Apo.

In secondo luogo, non abbiamo notizie di Reber Apo da 35 mesi. Questa è di per sé una valida ragione per lottare. Nessun prigioniero è mai stato tenuto in un isolamento così profondo, senza poter comunicare con la sua famiglia e i suoi avvocati. Attualmente siamo preoccupate per la sua salute e la sua sicurezza. Come donne curde, vogliamo condividere questa profonda preoccupazione del nostro popolo e consideriamo la creazione di una sensibilità contro l’isolamento e la sua eliminazione come un terreno fondamentale di lotta.

Inoltre, Reber Apo ci ha sempre detto «accettatemi come simpatizzante», mentre ci coinvolgeva nella lotta per la libertà. Vorremmo dare una risposta chiara a coloro che considerano Reber Apo, che ha pagato tanto per la libertà delle donne e che ha colto ogni occasione per analizzare la questione della libertà delle donne anche dal carcere di İmralı, come separato dalla nostra lotta. In breve, abbiamo intenzione di spiegare con la massima chiarezza il nostro legame con Reber Apo.

Perché avete deciso di tenere questa conferenza proprio in questo momento e perché proprio a Roma?

Le ragioni sono due. La prima ragione è legata a connessioni simboliche e storiche. Reber Apo è venuto in Italia per cercare una soluzione alla questione curda. All’epoca, l’intera società italiana fu testimone del suo legame con il popolo curdo. Tuttavia, questi sforzi non riuscirono a impedire la cospirazione e la conseguente cattura di Ocalan. Ripartire da qui significa completare una solidarietà incompiuta.

La seconda ragione è strettamente legata alla prima. La solidarietà e il legame dei nostri amici in Italia ci hanno incoraggiato a compiere questo passo. In Italia, da circa 7 anni, il 15 febbraio viene organizzata un’azione di protesta che riscuote grande partecipazione. Queste marce e azioni sono ampiamente sostenute da sindacati, partiti politici, ONG e vari collettivi italiani. Poiché riteniamo che questa partecipazione e sensibilità siano un ottimo punto di partenza e aprano la strada a discussioni più approfondite, abbiamo voluto tenere la conferenza qui. Durante i nostri preparativi, abbiamo constatato che tutti i nostri amici sono molto sensibili a questo tema e posso quindi affermare che abbiamo preso la decisione giusta.

Nella sessione conclusiva si parla di “completare un progetto incompiuto”, quanta strada credi sia stata fatta nel “cammino verso la rivoluzione delle donne” e che prospettive vedi per il completamento di questo progetto?

Nel primo incontro con i suoi avvocati, quando fu fatto prigioniero, Reber Apo disse: «L’unica cosa che mi rende triste è che i miei progetti sulla liberazione delle donne rimangono incompiuti». Il nostro titolo si riferisce a questo. Perché, a prescindere dalle difficoltà che incontreremo, siamo determinate a portare a termine questo progetto incompiuto. Tutti i nostri sforzi sono andati in questa direzione nel corso del quarto di secolo in cui siamo state fisicamente separate dal Reber Apo.

Sarebbe sbagliato raccontare questa situazione solo come una reazione alle sue aspettative. Come donne curde abbiamo capito quanto sia insaziabile il gusto delle opportunità di vita libera e della soggettività femminile in tutti gli ambiti della vita. Grazie al sistema creato da Reber Apo, abbiamo avuto l’opportunità di vivere in aree in cui la dominazione maschile (anche se non del tutto eliminata) è stata limitata. Così, abbiamo assaporato queste condizioni.

Per completare questo progetto, è necessario sfruttare tutte le opportunità disponibili a favore della libertà delle donne. I nostri sforzi sono sempre andati in questa direzione. Abbiamo certamente delle carenze e delle insufficienze. Tuttavia, abbiamo visto quotidianamente quanto sia appropriata e necessaria la determinazione secondo cui «la società non può essere liberata senza la liberazione delle donne» Non comprendere a sufficienza questa determinazione è alla base delle difficoltà che stiamo vivendo. Comprendere correttamente questa determinazione è alla base di ogni successo che abbiamo ottenuto come movimento.

In altre parole, non vediamo la liberazione delle donne come un obiettivo che solo le donne dovrebbero raggiungere. Al contrario, abbiamo visto chiaramente che la soluzione dei problemi sociali e del blocco da essi causato è legato anche alla non corretta comprensione di questa questione. Pertanto, è necessario ampliare le aree che offrono opportunità di libertà alle donne e perpetuare quelle esistenti. Considerando che il dominio maschile si è istituzionalizzato in tutti i settori della vita, abbiamo ancora molta strada da fare.

Per noi percorrere questo cammino è di per sé una rivoluzione. Dal più piccolo al più grande, da uno sviluppo che riguarda l’intera società a una sfida che cambierà la vita di una singola donna, ogni cambiamento è un passo su questo cammino. Tutti sono preziosi e importanti. Camminare su questo sentiero è la vita stessa.

Cover: Un’immagine di Ocalan mostrata durante una manifestazione – dinamopress

LE BUONE E LE CATTIVE RAGIONI DEI TRATTORI.
e le responsabilità dell’Europa, dei Governi e di noi consumatori

Gli Agricoltori  hanno molte ragioni e giuste richieste per cui protestare, ma anche richieste sbagliate. Purtroppo, L’Europa, i Governi, Italia compresa, sembrano accogliere solo le richieste sbagliate.

La mucca di Sanremo

Chissà se la mucca che dovrebbe salire sul palco di Sanremo … fa parte di quelle (la grande maggioranza) che sono allevate in modo intensivo, dentro recinti da cui non escono mai per tutta la vita, selezionate dai genetisti (in modo “scientifico”) per aumentare la produzione di latte (da 15 a 40 litri/giorno) a costo di ridurre la durata della loro vita che ora è di soli 4,7 anni, impedendo così di avere un 2° vitello (e producendo così anche un danno agli allevatori).

Questa ed tante altre porcherie ed atrocità vengono spacciate come “allevamento”, “agricoltura” e “scienza”, seppure in palese conflitto con la buona agricoltura, il buon allevamento, il benessere animale, la salute umana e il pianeta Terra.
In agricoltura bisogna infatti distinguere tra chi coltiva e alleva bene e chi invece, seguendo la logica solo dei soldi, coltiva e alleva male, inquina e vuole continuare a farlo. Uno dei grandi cambiamenti è ritornare ad un’agricoltura amica dell’uomo e della natura.

L’ideologia (la scusa) che sostiene l’agricoltura estensiva e gli allevamenti intensivi (di 70 miliardi di animali nel mondo, stimati a 100 nel 2030) è che non c’è cibo a sufficienza per tutti i 9 miliardi di abitanti (futuri). Una falsità, mostrata da numerosi studi; basti pensare che l’attuale organizzazione agro-alimentare produce un 30% di cibo che viene scartato o buttato (perché non conforme agli “standard” del consumatore) e senza considerare che il cibo industriale è molto meno nutriente del cibo “non forzato”.

Senza contare che, è un dato assodato, mangiare 70 kg. di carne (o 120 come in Usa) all’anno a testa è una ricetta per morire prima.

Un’agricoltura senza antiparassitari (o che li riduce come chiede l’Europa), biologica, biodinamica, che tutela la natura, il paesaggio rappresenta il futuro. E’ vero che produce il 10% in meno di quella industriale, ma garantisce cibo più sano e nutriente, non inquina e alla fine sommando tutti i costi (anche quelli di inquinamento delle falde acquifere, ambientali, di trasporto che mai vengono conteggiati), costa uguale o di meno. Un prezzo che possiamo permetterci se si pensa che gli italiani spendono il 17% del proprio reddito per il cibo e che se la spesa salisse al 19% (+10%) sarebbe una scelta intelligente perché avremmo una grande quantità di altri vantaggi: meno malattie (quindi meno spese), meno inquinamento, più occupazione, migliore paesaggio, più salute.

Contributi europei e criteri PAC

L’Italia è il 1° produttore agricolo d’Europa con 32 miliardi di valore aggiunto, seguita dalla Francia con 31 miliardi, la quale ha un’agricoltura molto più estensiva dell’Italia (ha il doppio di ettari). La Francia riceve però 8,2 miliardi di aiuti rispetto ai 5 dell’Italia, ai 6,7 della Germania, ai 5,7 della Spagna.
Le cause sono i criteri di finanziamento UE che privilegiano gli ettari e non il valore aggiunto o l’occupazione locale, valori che in futuro dovremmo valorizzare. Le agricolture di qualità (bio, agricoltura di precisione) producono non solo cibi di maggior qualità ma, inquinando meno, più occupati e reddito. Ma i “trattori” vogliono fare questa battaglia?

Cambiare in meglio o in peggio i criteri della PAC (la politica agricola europea) che favorisce le grandi aziende, chi usa antiparassitari, chi ha molti ettari e molti trattori oppure si vuole favorire i piccoli contadini o chi colativa bio?
Le produzioni biodinamiche hanno per esempio un fatturato di 13.000 euro per ettaro contro una media di 3.200 dell’agricoltura industriale. Sia in Italia che in Europa molte piccole aziende e contadini sono favorevoli a questa impostazione. La linea di conflitto è quindi dentro i singoli Paesi e tra gli stessi agricoltori. E se prevalesse anche in Europa la logica delle grandi aziende estensive? Il mattatoio della Tönnies nel Nord Reno Vestfalia (una enorme “fabbrica di carne” che macella e lavora 20mila maiali vivi al giorno) è stato uno dei principali focolai di coronavirus in Germania. Un centro dove lavorano migliaia di immigrati dall’Est Europa pagati poco e ammassati in fatiscenti alloggi che producono una carne a basso costo venduta a 3,99 euro per 600 grammi nei discount. Un tipico modo di produzione che ha un alto costo sociale ed ambientale, frutto però anche delle scelte dei consumatori tedeschi. Sono questi i prodotti che dovrebbero vedere aumentata l’Iva, al fine di favorire alimenti sani e prodotti fatti nel rispetto degli Animali e degli Esseri Umani.

Cambiare abitudini alimentari

Ci sono molti europei (anche quelli ricchi o della classe media) che scelgono frutta, verdura e carne a basso prezzo. Il che denota una mancanza di cultura del cibo. Non è solo questione di soldi. In Inghilterra e Germania (più ricchi di noi) si spende solo il 10%-14% del reddito per il cibo, rispetto per esempio al 17% dell’Italia.

Per migliaia di anni la carne è stata sinonimo di sopravvivenza, prosperità e potere in quasi tutte le culture. Nelle società agiate in cui viviamo da 50 anni, è cresciuto il numero di persone che mangiano carne tutti i giorni, quando solo prima della seconda guerra mondiale la si mangiava 2-3 volte all’anno da parte della metà della popolazione più povera in Italia. Ciò spiega perché crescono gli allevamenti intensivi di animali (70 miliardi nel 2019).

Oggi mangiare carne significa ancora per la maggioranza essere ricchi e avere un senso di piacere. In generale noi occidentali rimuoviamo mentalmente il fatto che produrre carne (in questo modo in particolare) provoca grandi sofferenze agli animali che mangiamo e spesso desertificazione e disboscamento nei paesi poveri.
Ricordo quando da giovane feci un trekking in Nepal che per mangiare carne ci si portava gli animali al seguito e il dover uccidere degli animali che avevano camminato con noi, produceva una drastica minor alimentazione di carne. Eppure qualcosa sta cambiando anche in Germania: nel 2018, il 33% dei tedeschi dichiarava di mangiare carne ogni giorno, nel 2019 questa percentuale è scesa al 25%.

 Le ragioni giuste degli agricoltori

Gli agricoltori hanno molte buone ragioni per cui protestano, ma anche sbagliate e, purtroppo, pare che Governi e Unione Europea, vogliano acconsentire a rispondere a quelle sbagliate.

Gli agricoltori sono divisi in tante specie, ma in particolare tra i piccoli che coltivano bene, biologico o con un minimo di pesticidi e le grandi imprese che coltivano in modo “industriale” facendo largo uso dell’agro-chimica.
Per tutti ma in particolare per i piccoli, il vero problema è che i prezzi di vendita alla GDO (grande distribuzione) o ai grossisti sono una troppo piccola percentuale del prezzo al cliente finale che fa la GDO.

Per esempio il radicchio rosso lungo al mercatino agricolo del paese (se vivi in un paese) costava a fine ottobre 2023 1,48 euro al kg, se invece lo acquistavi al supermercato (Grande Distribuzione Organizzata, GDO) 2,49 euro (se era della specie “rosso tondo Leonardo”); se era invece quello “rosso lungo” 2,99 euro. Se è poi un prodotto IGP (Indicazione Geografica Protetta) venduto presso un punto della GDO il suo prezzo saliva a 3,49 euro. E non stiamo parlando di prodotti biologici, che costano di più. All’agricoltore vanno 0,50 euro se “rosso lungo” e 0,53 se “rosso tondo Leonardo”. All’agricoltore va, quindi, solo il 15% del prezzo finale al supermercato (se acquisti un prodotto IGP) e il 17,7%. E così è quasi per tutto.

Ora facciamo l’ipotesi che all’agricoltore andassero solo 7 cent in più, cioè che prendesse 0,60 euro al Kg. Per il coltivatore sarebbe un aumento significativo (+13,2%), mentre per il consumatore sarebbe un aumento irrisorio (+2,3%). Ma si potrebbe anche pensare che con una più equa distribuzione la GDO mantiene lo stesso prezzo finale per il consumatore e retribuisce meglio l’agricoltore, riconoscendogli non il 17,7% del prezzo finale di vendita al consumatore, ma il 20,1%, che è sempre poco, ma consentirebbe all’agricoltura di fare un grande passo in avanti in termini di sicurezza (sua e del territorio) e di sviluppo.

Quindi, il primo e principale problema in agricoltura è una remunerazione maggiore degli agricoltori che danno il prodotto che finisce al cliente.
Vale la stessa cosa anche per gli allevamenti che negli ultimi decenni hanno assunto una dimensione “horror” con la crescita di quelli intensivi in cui non c’è alcun rispetto per il benessere animale, c’è un’enorme quantità di antibiotici mescolata al mangime e mucche, maiali, polli, etc. sono stati selezionate in modo tale che per produrre di più è stata ridotta la longevità. Per esempio le mucche producono più latte ma vivono meno (4,7 anni) e non riescono più a partorire un secondo vitellino, per cui ciò ha compromesso lo stesso allevamento. Come saranno considerati in futuro questi metodi di selezione delle razze che vanno avanti da 50 anni? Ma ci sono anche allevamenti biologici e biodinamici rispettosi del benessere animale, dove gli animali non sono costretti in spazi angusti, le mucche vanno al pascolo e non si usano farmaci (antibiotici, anabolizzanti e così via).

Un altro punto critico dei temi della protesta è l’accordo con i 4 paesi del sud America: Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay (Mercosur) che, con la scusa del libero scambio, apre le porte in Europa a prodotti che costano meno ma sono contaminati da fitofarmaci che vengono esportati dalle nostre multinazionali dell’agro-chimica, in quanto non sono più commercializzabili in Europa perché da noi vietati.

Ragioni sbagliate e risposte sbagliate

Ci sono poi richieste (da parte di alcuni, non tutti) di non ridurre l’uso dei pesticidi, che la Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo (modificando la proposta meno restrittiva della Commissione UE) prevedeva del 30% entro il 2035.

Altri chiedono di mantenere gli sconti al gasolio agricolo (che produce gas serra) e altri ancora di mantenere il sostegno ai redditi agricoli, eliminati (questi ultimi) dal Governo Meloni che ora (pare) vuole ripristinare per le piccole imprese (max 10mila euro di reddito annuo). Il 4% dei campi non coltivati è per dare possibilità al terreno di non esaurirsi come fertilità ed avere siepi e alberi come nell’agricoltura biologica-biodinamica dove il 10% non è coltivato per dare spazio agli insetti e alle api. Non si tratta solo di avere un paesaggio fatto di bellezza e con alberi ma di far vivere gli impollinatori senza i quali, secondo alcune stime, la produzione cala dal 3% all’8%.

Nulla si dice dei prezzi nella filiera o di come dirottare parte degli aiuti della PAC e PNRR ai piccoli contadini anziché sempre alle grandi imprese.
Le uniche aperture riguardano invece gli aiuti al gasolio e ai pesticidi che vanno contro ogni buona agricoltura che inquinano le falde acquifere, riducono la fertilità dei suoli, fanno sparire le api, danneggiano la salute umana, la biodiversità e gli animali.

L’orientamento è quindi di favorire la parte peggiore dell’agricoltura (grandi imprese, chi coltiva industrialmente, pesticidi, gasolio, allevamenti intensivi) e mettere in crisi ulteriormente i piccoli contadini che bene coltivano rispettando la Terra e gli Animali e in modo bio. Del resto il glifosato (diserbante cancerogeno) è stato prorogato dall’Unione Europea per altri 10 anni e non c’è tra le richieste dei “trattori”, come nessuno Governo parla di rivedere i prezzi nella filiera agricola che dai campi arriva alla GDO, imponendo per esempio sull’etichetta il prezzo che viene pagato all’agricoltore.

L’idea infine che Coldiretti stia dalla parte dei piccoli agricoltori è un’idea da tempo tramontata se si pensa che ad essa aderiscono le più grandi imprese agricole tra cui BF (Bonifiche Ferraresi) quotata in borsa.

Chi protesta, sta di fatto denunciando il fallimento di un modello agricolo che è in realtà agro-industriale, un sistema che non regge in quanto basato su produzioni intensive senza alcun controllo della filiera e dei prezzi, in balia della grande distribuzione (GDO) nel caso dei prodotti destinati al consumo umano o dell’industria mangimistica, per quei prodotti come il mais che ormai non vengono più prodotti per l’uomo, ma per diventare il cibo insostenibile del nostro cibo, cercando quindi di massimizzare la resa per ettaro a discapito della qualità ambientale, del lavoro agricolo e, anche a fronte della scarsità idrica che riguarda in particolare la Pianura Padana, sarebbe opportuno modificare il tipo di colture[1].

Una delle possibili soluzioni è scendere dai trattori da 200mila euro, dall’idea di un uso intensivo e dei pesticidi per tornare a un’agricoltura contadina, dove si produce cibo buono, nel rispetto della Terra e degli Animali e dove solo a chi fa questo importante lavoro viene riconosciuto un prezzo equo.
Viceversa, come nella rivolta dei “forconi” del 2012, facendo una gran “confusione di tutto”, il rischio è che le buone ragioni dei molti piccoli agricoltori siano seppellite per difendere ancora le grandi imprese, un’agricoltura sbagliata e inquinante che riceve l’80% dei fondi della PAC e PNRR, anche se rappresenta solo il 20% delle aziende agricole.

Nota:
[1] Raccontando la protesta avrebbe senso amplificare la voce di quelle realtà che lottano per una nuova agricoltura come Via Campesina, https://www.assorurale.it/chi-siamo/european-coordination-via-campesina/ il cui coordinamento europeo ha diffuso un “Manifesto per la transizione agricola per affrontare la crisi” e chiedono il sostegno economico alla transizione agro-ecologica commisurato alle problematiche in gioco, la priorità al sostegno ai redditi agricoli di che bene coltiva e non l’ampliamento delle grandi aziende agricole. Le rivendicazioni sono puntuali: “Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della Politica agricola comune (Pac) vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. Tutti gli agricoltori già impegnati e che vogliono impegnarsi in processi di transizione verso un modello agroecologico devono essere sostenuti e accompagnati nel lungo periodo. È inaccettabile che nell’attuale PAC un 20% di aziende (le più grandi) monopolizzi quasi tutti gli aiuti pubblici, mentre l’80% degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo briciole”.
Tratto da “I trattori in strada raccontano la fine di un modello agricolo, di Luca Martinelli, 31.1.2024, in Altreconomia.

 

Per leggere gli altri articoli ed interventi di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Storie in pellicola /
“The Feast”. Un mondo inquinato raccontato con ironia

“The Feast”, di Rishi Chandna, in concorso al Festival del Cortometraggio di Clermont-Ferrand, racconta di una raccoglitrice di gamberi che affronta un politico locale organizzando per lui una festa e usando un indimenticabile piatto segreto che potrebbe salvare il suo lago morente. Protesta con ironia,

Al Festival Internazionale del Cortometraggio di Clermont-Ferrand, dal 2 al 10 febbraio, che stiamo seguendo, vanno in scena l’ambiente e le sue sofferenze, le proteste silenziose di tanti popoli.

Rishi Chandna, regista indiano e autore della sceneggiatura con Rahul Srivastava, presenta “The Feast” (“Virundhu” in Tamil), visibile anche sulla piattaforma MUBI.

Il corto è uno dei 66 selezionati per la proiezione nel prestigioso concorso – il secondo più importante Festival francese dopo Cannes e il più importante festival di cortometraggi al mondo – fra le 9500 candidature ricevute da 52 paesi.

“The Feast”, parte di un’antologia, è ambientato vicino al lago Pulicat, situato sulla costa sud-orientale dell’India, al confine tra gli Stati di Andhra Pradesh e Tamil Nadu. Concepito come un film di scienza e immaginazione, il cortometraggio si concentra sull’inquinamento idrico e sul suo impatto generale non solo sull’ambiente ma anche sulla società e vuole sensibilizzare il pubblico al problema. Toccando tasti sensibli.

Il progetto è realizzato in collaborazione con la Krea University, che si trova vicino al Lago Pulicat. “Questo vasto lago, la seconda laguna di acqua salmastra più grande dell’India dopo il lago Chilika nello Stato di Odisha”, ricorda il regista in un’intervista, “si estende dal nord di Chennai fino allo Stato di Andhra Pradesh e arriva fino all’Oceano. Nel 2021, all’Università stavano cercando di realizzare un documentario sulla simbiosi uomo-acqua come parte del loro curriculum sugli studi ambientali. Dopo aver realizzato un paio di brevi documentari, ero ansioso di cimentarmi con la fiction”.

Eccolo qui, allora. Il film è girato nel villaggio di Kottakuppam, molto vicino alla città di Pulicat nel Tamil Nadu, al largo delle rive del lago, tra le sue ultime mangrovie. Quel mondo è un corpo idrico dall’equilibrio delicato poiché molte vite dipendono da esso e sta cambiando rapidamente a causa delle attività industriali e umane.

“Durante la mia prima visita al lago”, racconta Rishi, “ho potuto vedere donne quasi completamente sommerse, camminare con la testa che dondolava nell’acqua. Queste raccoglitrici di gamberi cercano e raccolgono gamberi con una tecnica indigena molto antica. È un mondo molto ricco in termini di storia”, conclude.

Il corto racconta la storia di Mary (Janagi), una raccoglitrice di gamberi, la cui vita dipende dalle acque agitate in cui pesca. Ma quelle acque sono inquinate e molti gamberetti morti e anneriti arrivano nei suoi pugni stanchi e graffiati. Quella merce non si può né vendere né tanto meno consumare. Degrado, confusione, il nero dell’inquinamento che uccide.

Ha intenzione di organizzare una festa e di invitarvi il politico locale Thomas (George Vijay Nelson): per questo si immerge nelle acque del lago per procurarsi i frutti di mare più pregiati. Fino alla festa, al banchetto preceduto dalla potente preghiera, come posseduta.

Interessante vedere, in quell’ambiente, una chiesa azzurra di 400-500 anni, dove si tiene una festa annuale e vengono invitati i politici locali: il villaggio ha una storia di colonizzazione olandese. I colori sono incredibili, la fotografia curata e attenta.

Thomas ha il suo tallone d’Achille, quel cibo profumato che gli ricorda l’infanzia e la nonna, Josie (la figlia di Mary, interpretata da Jeevesvaran Anbarasi), invece, rappresenta il conflitto generazionale. I più giovani, istruiti, non vedono futuro nella pesca e, a volte, finiscono per lavorare nelle stesse fabbriche che inquinano l’acqua. È una situazione complessa, un circolo vizioso. Ma il segreto di quel cibo antico è proprio l’acqua.

Il cibo diventerà l’atto di ribellione di Mery, il mezzo per portare avanti la sua protesta. E lei userà l’ironia, il sarcasmo e il teatro dell’assurdo per portare a casa messaggio e risultato.

Alla fine, sarà il cibo a conquistare Thomas perché il potere del cibo – depositario della nostalgia – sta nell’evocare ricordi. Se vogliamo realizzare un cambiamento, dobbiamo tornare al nostro passato, per ricordare da dove veniamo.

Una protesta ‘saporita’ e silenziosa. Delicata e toccante.

Diario in pubblico /
Sanremo 2024: cosa pensare? Tempo, ricordi, presente

Diario in pubblico. Sanremo 2024: cosa pensare? Tempo, ricordi, presente

Dal punto di vista del “diversamente giovane” mi sono imposto di non nutrirmi solo nei ricordi di quel tempo in cui si viveva nel presente e in quello interagivano potentemente passato e futuro. Ora, l’attività del presente porta solo a presagire, per chi scrive questa nota, un futuro che non sai se diverrà presente.

Da qui la necessità che può apparire futile ai miei compagni d’interessi di interrogare il presente anche nelle sue pieghe apparentemente più futili o riprovevoli come, ad esempio, il Festival delle canzonette, che ti dà mostruosamente dilatato ciò che ora si persegue nel tempo politico e purtroppo anche culturale.

Appena vedo la scritta del teatro che ospita la manifestazione mi ritorna in mente il rito che il nonno imponeva per l’audience, che scaturiva rimbombando dalla grossa radio Ducati troneggiante in salotto. E silenzio! Così, sgranocchiando i dolcetti di nonna, mi imbottivo di Grazie dei fiori, Vola colomba, Papaveri e papere e anche di “piove e piove sul nostro amor”.

Crescendo, era d’obbligo per i giovani “promettenti” sdegnare le canzonette (al massimo il jazz americano) per darsi esclusivamente alla musica classica. Così, anche se di nascosto curiosavo tra i programmi radiofonici per ascoltar canzonette, lo sdegno doveva essere palese. Al massimo Mina che, stregato d’amore, ascoltavo alla Bussola del Forte dei Marmi.

Tra un noioso sproloquio del “montanaro” che sbandiera grande complicità con la Berlinguer di Carta bianca comincia la mia ‘visione’ sanremese. Come sghignazzavamo al tempo dell’adolescenza, “Mon dieu de la France che mal à la pance”.

Una vecchietta dai capelli blu e in mutande appare e canta: una voce familiare; poi esce il nome: è la Bertè! Frattanto giovanette in reggicalze e giacche da uomo sbraitano, agitando il microfono come se fossero al mercato. Sono le nuove ‘promesse’. E tutte/i, quasi, indossano occhiali da sole per nascondere cosa? Forse il loro imbarazzo.

Tutto è ambiguo. Perfino cantare Bella ciao o le promesse per i trattoristi o le note, sicuramente sincere, ma un poco sopratono dei soprusi e dei delitti. Ecco dove il Festival coincide con la politica: ambiguità anche nelle buone intenzioni.

Mi si accuserà di essere un vecchio residuo ‘sinistrato’. Può darsi. E allora chiedo alla mia parte: “siate meno ambigui, meno sanremesi, meno politicamente di tutto e di più/meno”. Occorre la semplicità delle idee che solo la cultura (quella vera) può donare o prevedere. Che il resto sia silenzio. Almeno finche il Festival non finisce.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.