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Per favore smettiamo di dare i numeri

Mentre il Censis racconta la crescente sfiducia degli italiani nella scuola, c’è ancora chi si balocca a ragionare dell’utilità dei voti.

Quando la scuola chiude e l’estate inizia, da alcuni anni torna il tormentone dei voti. I numeri con cui le scuole di mezzo mondo classificano il rendimento dei loro utenti o ne decretano la somarità.
Ora ci si mette la Francia e un gruppo di intellettuali, tra cui Daniel Pennac, perché è brutto umiliare i bambini piccoli. Per la verità brutto lo è sempre stato, ora come prima. Forse, questo dovrebbe far capire che il ragionamento andrebbe articolato meglio. Perché è chiaro a tutti che il voto è funzionale ad un certo sistema ed a una certa idea di scuola, quella stessa verso cui, ci segnalano i dati del Censis, la fiducia dei nostri giovani va sempre più scemando.
Non voglio addentrami in ragionamenti troppo complessi, poco adatti alle calure estive, di voti, del resto, ho avuto modo di scrivere altre volte. Mi piacerebbe però che il pentimento degli adulti, in materia, fosse autentico e vaccinato da possibili ricadute.
Perché questo accada, io ritengo che sia il pensiero della scuola, quello che ci portiamo appresso da generazioni, a dover mutare. Se no, avremo la solita Mastrocola di turno a ricordarci con un ossimoro che i voti sono democratici.
Non ignoro che è difficile da comprendere l’idea di spostare la lente valutativa dai ragazzi agli adulti, è come ribaltare il tavolo su cui posano, come i pezzi di un gioco, i principi dell’educazione.
Per me le gerarchie, le graduatorie non vanno compilate tra gli alunni, ma tra la qualità delle opportunità formative, formali e informali, che offriamo alle generazioni che si preparano a governare il futuro.
Quanto il successo formativo dei nostri ragazzi dipende dalla qualità del sistema scolastico che offriamo loro? È a questo che dobbiamo assegnare i voti, è questo che dobbiamo valutare rigorosamente in tutte le sue componenti, è questo che dobbiamo promuovere o bocciare se necessario.
Perché mai del rendimento scolastico dovrebbe essere responsabile il più debole, chi fatica, chi ancora sta crescendo, con la sua storia che non è quella degli altri?
Sarebbe ben altra cosa, un altro modo di ragionare e di guardare all’istruzione, assumere come prospettiva l’obbligo della Scuola e dello Stato di rendere conto di come effettivamente consentono, dalla scuola dell’infanzia all’università, ad ogni alunna e ad ogni alunno di capitalizzare saperi e competenze necessari alla propria formazione, di coniugare il proprio tempo quotidiano al futuro.
Il diritto allo studio non ha tempo e non ha tempi, non ha sbarramenti, è alimento naturale di ogni persona e su ogni persona va ritagliato, confezionato, non come bisogno educativo speciale (ultima farisaica invenzione della scuola italiana), ma come diritto che è speciale per il fatto che il suo esercizio, da parte di ognuno, richiede tutta l’attenzione, tutta la cura e tutto l’impegno dello Stato nei confronti di ogni singolo, grande e piccolo, né più né meno come il diritto alla salute e alla vita.
A questo punto, si è in grado di comprendere, io mi auguro da parte di tutti, che sulla scuola, sull’istruzione, sul sapere non si possono più giocare gare e competizioni sociali, compilare classifiche e graduatorie, selezioni, vite perse allo studio, ai saperi, vite di scarto lungo i percorsi scolastici.
Basterebbe misurarsi seriamente con simili riflessioni, per capire che è necessario mettere mano ad un’idea di scuola che non ha più nulla a che vedere con categorie che appartengono al passato. Soprattutto, abbiamo bisogno di smettere di dare i numeri, a partire dai voti, dobbiamo ragionare con una testa del tutto rinnovata nei pensieri. Se per prime sono le teste degli adulti a non essere ben fatte, sarà difficile poter contare che tali escano, come suggerisce Morin, le menti dei nostri fanciulli da questa scuola così come continuiamo a tenercela.

Come sarò da giovane?

Morcote (lago di Lugano),

in attesa di parlare di giardini e di musei in questo straordinario scenario lacustre, girandomi le ciribiricoccole ho deciso di trasformarmi per questa sera nel giovane che è in me, sperando così di ingannare l’occhiuta regola che m’impedirà in futuro di fruire della gratuità dei musei un tempo appannaggio (giusto/ingiusto?) degli over 65. Via dunque severe cravatte Ferragamo, debolezza fiorentina coltivata per contrastare l’ovvietà di quelle Hermès o di quelle di Marinella fornitore di Arcore. Via i cachemires che fanno vecchio solo a palparli, via la giacchetta stilizzata comprata a Roma in un famoso negozio di Campo Marzio.
‘Okkei!’ Sono pronto.
Maglietta Columbus al titanio; jeans Levi’s, scarpette da runner Lacoste. Invano però cerco di occultare il busto che sorregge la colonna vertebrale in pericolo di crollo.
Cosa manca? Ovviamente il formulario linguistico-gestuale. Tento di rifiutare l’orrido “assolutamente sì/no” ma è un best. Batto il 5 ai pronipoti; credo sia necessario mugugnare un po’ di heavy metal, pregando frattanto il divino Mozart di perdonarmi. Infine “last but not last” il cappelletto con visiera rigorosamente Adidas.
Ma andrà bene?
Sarò coatto o fighetto?
Per fortuna la scarsità di chioma m’impedisce la gloriosa cresta gelificata.
Questo tentativo, frattanto medito tra me e me, non vuole porre in luce una individualità ma presentarsi come modello.
E parto non prima d’aver letto il fondamentale articolo di Francesco Merlo su “La Repubblica” che analizza come fosse un’unica galleria degli orrori la situazione dei musei e dei monumenti romani. Decido d’un tratto di cancellare ogni riferimento culturale, di farmi tabula rasa, di dimenticare quel coacervo di studi, notizie, propensioni, innamoramenti culturali che, negli anni, avevo stivato nella mia mente pensando forse ingenuamente di servirmi nei pacati ozi della pensione, flaneur indolente di poesia e pittura, di musei e città d’arte. Si avverano le esortazioni, sempre da me rifiutate, degli amici insegnanti, così condite di pepato sarcasmo, che dall’alto della loro favolosa pensione da 1250 euro al mese, ormai considerata la soglia della ricchezza dal ministero competente, mi esortavano a riflettere su quel tempo sprecato nel voler perseguire l’insano proposito. Meglio, molto meglio, una sagretta con tanto di salama e fritto misto che vagare inerme tra caterve di quadri, statue, oggetti non sempre comprensibili. Va bene!
Ma da giovane che voglio fare?
Beh, un apericena, una sana discussione “tennica” sulla situazione calcistica mondiale (meglio evitare lo spinoso problema italiano…) e concludere la serata con qualche pensosa battuta sulla politica renziana. I più acculturati (forse l’hanno letto in qualche rivista di Cairo editore) sostengono che l’acconciatura della ministra Madia sia molto preraffaellita; probabilmente un riferimento alla Beatrice di Dante Gabriele Rossetti. Il silenzio sconcertatamente ammirato che segue classifica il giudizio come figo. E alta si leva l’adesione e l’entusiasmo per la promessa gratuità al museo per i giovani. Poi un attimo di perplessità: il Museo?
Ma no! Scherziamo? Cosa dice a noi giovani quel rimprovero mite e solitario che emana dai volti, dagli atteggiamenti, dalle pittate scene che come un s.o.s proviene dalle pareti, nel silenzio sacrale del vuoto museo?
Mica tutti hanno avuto la fortuna di quella ragazzetta dall’orecchino di perla capace di catalizzare attorno a sé folle di giovani pronte al selfie. O riscattare il buon vecchio Van Gogh (vero o falso che sia) o godere con gli Impressionisti. O dire Ohhhhh…. di fronte al “Cara”, affettuosa abbreviazione del Caravaggio.
Il resto che è? Giotto? Noiosetto con i suoi inferni e paradisi e la mala abitudine di rimproverare gli evasori fiscali, come quel padovano malnato dello Scrovegni.
Botticelli? Piace troppo agli stranieri e non è poi granchè sorbellarsi code estatiche per vedere poi cosa? Un quadrone con donne (anzi madonne direbbero al Palio) sorridenti e un forsennato ragazzetto che soffia come un ossesso e lo chiamano Zefiro. D’altra parte andare al museo va bene ma sarebbe opportuno, ad esempio che l’attrazione fosse consolidata con opportuni svecchiamenti. Come per quello strepitoso di Spina a Palazzo Costabili detto di Ludovico il Moro a Ferrara dove ti fai il pieno di vasi attici, di gioielli e arredi funerari ma poi è possibile ascoltare un buon concerto, sentire una conferenza curiosa vedere le evoluzioni dei ballerini e alla fine un buon ‘aperi’. Un centinaio e più di persone, qualche giovane, molti anziani. Ma se dovesse scattare la legge te lo vedi il pensionato che paga il biglietto? Almeno metà rinuncerebbe “Dit da bon”? Sussurra allarmato l’ego giovane. Rispondo con una frase passata alla storia di una mia amica tenerissima che quando le capitava qualche disagio, anche grave, inviperita alzava l’occhio al cielo e gridava “ Ci penseranno loro!!!” Mai capito quel loro, ma filologicamente potrebbe essere il ministro e i funzionari del Mibac.

Ormai tra le sponde fiorite del lago di Lugano si fa sera. Tanto per cambiare una bomba d’acqua turba la mia passeggiata non in veste giovanile ma di conferenziere stanco over 65 sulle scale ripidissime che portano alla chiesa antica. Ho sorriso e stretto mani al rappresentante della banca di Sondrio divenuta svizzera anzi ticinese, lodo la bellezza delle scarpe e borse Bailly anch’esse corse in aiuto del comune di Morcote dove il parco Scherrer costa alla comunità locale di 600 abitanti 150 mila franchi all’anno di manutenzione. Beh si sa la Svizzera non è l’Italia e loro c’hanno i danè, mi sono dato da fare per rendere “piacevole” la giornata con i miei amici giardinisti. Ho conosciuto la organizzatrice e responsabile dei Grandi Giardini Italiani che muove in Italia 120 siti giardineschi pubblici e privati per un totale di 8 milioni di visite (è una scozzese di ferro che adora l’Italia e la crede e ci crede che sia l’heimat, la patria del cuore). Ho conosciuto sua sorella l’editrice del libro che uscirà da questo convegno. E’ una deputata inglese liberal che ha presentato in Parlamento (inglese of course) una mozione per salvare dallo smembramento la biblioteca di Warburg dal suo luogo originale e che in migliaia, io compreso senza averla conosciuta, ha firmato su fb. Va bene mi rassegnerò: svesto i panni non curiali (per chi non l’ha capito è una citazione da Machiavelli) del giovane che è in me, rimetto quelli severi del conferenziere, pagherà il biglietto ma…. “Quanto è triste Venezia”.
Pardon! l’Itaglia

Chiamale se vuoi, emozioni…

Così recitava una canzone di Lucio Battisti che, all’inizio degli anni settanta, aveva catturato tutti noi, a prescindere dalle collocazioni politiche, con un testo che certo suonava estraneo al tono impegnato e per lo più aggressivo delle assemblee studentesche. Le emozioni, anche allora, erano dovunque, nello spazio privato e quello pubblico, tanto nei luoghi in cui fiorivano nuovi bisogni di intimità fuori da una famiglia controllante, quanto nei luoghi politici, densi di retorica sui destini del mondo.
Oggi sappiamo bene le ragioni per cui le emozioni hanno un assoluto predominio nella nostra vita e non solo nelle relazioni, ma in ogni scelta. Non sempre ne siamo consapevoli e, comunque, tendiamo a negarlo, spendiamo una quantità di parole per giustificare le nostre scelte, per mettere in ordine i vantaggi e gli svantaggi di ogni opzione e tentare di operare calcoli e valutazioni razionali. Per lo più ciò non accade: siamo vittime di pregiudizi e di credenze, di speranze e di paure.
Le neuroscienze ci hanno spiegato che le emozioni sono una via breve alla conoscenza, che nessuna scelta sarebbe possibile se il circuito caldo, più veloce di quello cognitivo, non fosse in grado di dare colore alle opzioni che abbiamo di fronte. Ogni scelta, da quella di un abito, a quella di un luogo per le vacanze, a quella degli amici con cui uscire, segue questa stessa legge.
Credenze e valori esercitano un ruolo decisivo nell’orientare le scelte. Quando parliamo di valori ci riferiamo all’insieme di idee del mondo che un individuo si è formato nell’ambiente in cui vive. Queste idee danno luogo ad un mondo psicologico interiore e a meccanismi di valutazione degli stimoli e delle informazioni che non sono meno importanti dei sentimenti coscienti e della valutazione analitica.
Già nel Settecento il filosofo David Hume, sosteneva, che non è il ragionamento che guida i giudizi, ma sono le emozioni e le passioni. Anche i giudizi morali sono mossi dalle emozioni, anche se noi per lo più li associamo a fondati criteri logici e razionali sul bene e sul male. Lo psicologo Jonathan Haidt (Menti tribali, Codice, 2013) negli ultimi anni ha argomentato ampiamente questo punto di vista, contribuendo alla critica di una interpretazione astratta e razionalistica del concetto di valori morali ancorché applicati alla politica.
Diverse ricerche hanno messo in luce empiricamente come i nostri giudizi morali possano essere influenzabili. Ad esempio, se le persone chiamate ad esprimere un giudizio hanno bevuto una bevanda amara anziché dolce, esprimono giudizi morali più rigidi. I giudizi morali sono influenzati dall’ambiente, ad esempio la musica allegra rende le persone più gentili e con una tazza di caffè caldo in mano gli altri ci paiono più piacevoli. Pare che persino i giudici emettano sentenze meno severe la mattina presto e dopo i pasti. L’analisi sul ruolo delle emozioni entra, quindi, nel dibattito giuridico e investe questioni procedurali, come l’opportunità di utilizzare fotografie e video durante il dibattito processuale.
Tutta la comunicazione è impregnata di adesioni emotive alle diverse posizioni in gioco: ciò accade in misura crescente via via che l’informazione si mescola alle immagini e alle interpretazioni personali. La comunicazione odierna, nei più disparati ambiti, utilizza il registro delle emozioni e anche noi lo facciamo nel portare argomenti alle nostre considerazioni. Sarebbe meglio essere consapevoli dalla nostra dipendenza dalle emozioni, non solo per avere minore sicurezza circa la nostra superiore verità ma, soprattutto, per cerare di introdurre davvero, un po’ di razionalità in più nelle nostre scelte.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com

Dario e la bionda, una storia del Barco

Una vecchia strada del Barco, una sera di dicembre. Il buio che cala presto. Il freddo e la nebbia che avvolgono tutto. Dall’altra parte della strada intravedi le forme e le luci della grande fabbrica. Il rumore attutito dei macchinari ed il ronzio dei motori. Il suono lontano di una sirena spezza la monotonia. Qualche orto più in là ed inizia il villaggio dei marchigiani, inizia Ponte. Le pasticcerie e le vetrine del centro sono a pochi chilometri, ma è come se fosse un altro mondo. Chiudi gli occhi un istante e di colpo non sei più a Ferrara. Forse in Alabama, o Louisiana. E quel vecchio in fondo alla strada che si sta trascinando con le borse della spesa potrebbe essere Joe, presto si siederà in veranda a fumare la pipa e sputare, con il cane accucciato a terra ed il fucile a portata di mano. Stasera c’è nebbia ed è meglio essere cauti. Ti aspetti che il suono di un armonica spezzi il silenzio in ogni momento. Il Mississippi scorre calmo più a nord. È difficile capire quello che succede quando scende la nebbia, al Barco.

Dario abita qui. Pochi amici rimasti, chiusi in casa tra mogli, nipoti e acciacchi. Una vecchia passione per la caccia, in gioventù ha anche provato ad impagliare alcuni animali, senza grande talento. Trent’anni al petrolchimico e una pensione che tutto sommato fa tirare avanti. Il dottore che dice che non si può più bere e fumare, ed andare giù al bar. Questo freddo solo a guardarsi attorno fa venire voglia di stare in casa. Rosa, la moglie, da qualche giorno è tornata ad Ascoli. Ci va spesso ultimamente. La sorella, vedova da qualche anno non sta bene. Un’innocua influenza, ma anche questa volta Rosa ne ha approfittato per passare qualche giorno “a casa”, come dice lei. Dario cena da solo, ma non se ne dispiace troppo. Di quando in quando, apprezza un ritaglio di tempo per concentrarsi sui suoi interessi. Un buon film in televisione, caffè e sigaretta. Sa che non dovrebbe, ma non c’è Rosa a ricordarglielo. Una tribuna politica ed ha già fatto venire mezzanotte. Si alza e guarda fuori dalla finestra. La nebbia avvolge tutto, nella palazzina di fronte tutte le persiane sono già chiuse. Tranne una.

Lei c’è. Ne intravede la forma, che si muove velocemente dietro i vetri appannati. La sente canticchiare. Dario spegne la luce e torna alla finestra. Non vuole farsi vedere. Conosce la ragazza bionda. Assiste la vecchia Pina, ormai sorda e quasi cieca. Non che abbia interesse, ma la ragazzina, che avrà poco più di 20 anni, gli riscalda lo spirito. Quegli occhi verdi, quel corpo minuto ma che immagina forte, quel sorriso aperto ogni volta che la incrocia, e tutta una vita davanti. Hanno avuto maniera di parlare diverse volte giù in cortile. Non solo una bella ragazza, ma anche intelligente. Più matura della sua età. Si sono capiti subito. Un sorriso gli attraversa il viso ed il pensiero va indietro di 40 anni. Al primo motorino e alle notti in campagna. A quella volta che per impressionare Rosa attraversò il Po a nuoto e per poco non ci lasciò le penne.
Potrebbe passare ore a guardarla.

Il volto ridiventa serio non appena nota l’uomo appoggiato al muro, in strada. È fermo ed ha anch’esso lo sguardo puntato alla stessa finestra. Non riesce a vederne il viso nascosto nel buio, ma l’aspetto è robusto e muscolare. Ormai è l’una e adesso l’uomo lancia due fischi verso la finestra illuminata. Dario si ritrae più indietro, nel buio della stanza. Vede lo stesso la finestra che si socchiude e la bionda dire qualcosa sottovoce, l’aria intimorita. Forse dice all’uomo che è tardi, di andarsene. L’uomo risponde a monosillabi. La voce è dura, profonda. Non è uno abituato ad attendere. Con passo deciso si avvia verso il portone di ingresso, che nel frattempo é stato aperto. È allora che passa sotto la luce d’ingresso e Dario gli intravede sotto il berretto la carnagione scura, olivastra, e la grossa cicatrice che gli solca parte del viso.
Dario inizia a sentire il cuore battere più velocemente. Forse dovrebbe smettere di guardare, andare a letto. Il dottore gli ha detto quanto sia importante evitare di agitarsi. Evitare sforzi, emozioni forti. Forse dovrebbe chiamare la polizia. Ma perché poi? per dire cosa? e così continua a spiare nel buio, preoccupato. Con cautela socchiude il vetro per sentire meglio le voci. Da dietro le finestre appannate adesso può vedere anche la forma di lui. Sovrasta quella della ragazza e si muove lenta ma sicura nella stanza. Da lontano li sente discutere. Un tintinnio di bicchiere e l’ombra della ragazza che prende una bottiglia dalla credenza. Ora bevono, entrambi seduti. Dario si calma, forse è solo un vecchio amico, un parente. Ma continua a guardare, si accende un altra sigaretta. Ed è allora che vede la figura dell’uomo alzarsi, afferrare per un braccio la ragazza, spingerla nell’altra stanza. Sente un tentativo di protesta da parte della giovane donna, dei singhiozzi. Forse un urlo soffocato. E le luci che si spengono.

La notte è fredda ma la fronte di Dario è coperta di sudore. Pensieri che si accavallano. Pochi secondi per prendere una decisione. Si butta un cappotto addosso e corre giù per le scale. Un altro minuto per recuperare dalla cantina la vecchia doppietta Falco. Non si sa mai. La nasconde sotto il soprabito lungo. Ha poco tempo. Con respiro affannato esce e attraversa la strada in direzione della casa della Pina. Si ferma un attimo e si guarda intorno. La nebbia è fitta e adesso tutte le persiane sono chiuse. Le luci spente. Bene. Il portone è ancora aperto e si lancia su per le scale. Sta attento a non fare troppi rumori. È preoccupato ma non vuole svegliare i vicini. Si ferma davanti all’appartamento, un dubbio lo assale. E se avesse frainteso tutto? Ha comunque una scusa pronta… la richiesta di un medicinale che si è scordato di comperare…sì sì… Pina ne assume così tanti…
Sente il cuore scoppiare mentre bussa alla porta….

La bionda gli apre con il solito sorriso e si punta un dito sul naso. Adesso bisogna fare silenzio. Lo invita ad entrare. Tutto è andato come previsto. Dario sente la tensione sparire, rimpiazzata dalla solita felicità ogni volta che vede la bionda, ogni volta che se la trova vicino e sente il profumo dei suoi capelli. Si muovono lentamente per casa. Sarebbe un peccato se Pina dovesse svegliarsi proprio adesso e rantolare per un bicchiere d’acqua. L’uomo è in camera, steso sul letto. Un sacchetto avvolto attorno al viso. Dorme ed annaspa a fatica. Forse sta già morendo. Dario si occuperà più tardi di questo dettaglio. I potenti sonniferi mischiati alla dose di vodka gli hanno fatto perdere i sensi in pochi minuti. Non è stato difficile adescarlo. Quando il lupo pochi giorni prima in stazione ha visto la bionda, ha perso ogni cautela, passando da cacciatore a preda. Probabilmente nemmeno lui ha condiviso la conoscenza della bionda con il resto del suo gruppo, così geloso che a qualcun altro questa faccenda potesse far venire l’acquolina alla bocca. Nessuno lo verrà a cercare al Barco, così come per tutti gli altri prima di lui. Troveranno la maniera di trasportarlo nel solito posto, o Dario inizierà la lavorazione a casa di Pina come già fatto in passato.
Adesso i due si guardano con affetto reciproco, quasi amore. Rosa ne sarebbe gelosa, ma senza motivo. Per Dario la Bionda è anche un po’ come la figlia che non ha mai avuto. Lo anima un orgoglio quasi paterno. Dividono molti interessi e quando hanno parlato si sono capiti subito. Al Barco non ci sono i lupi da cacciare, e alla Bionda mancavano i pomeriggi con suo padre, che da bambina la portava dietro con sé ed i fratelli sui monti: l’emozione della fiera che fuggiva, l’eccitazione della scarica, quel colpo preciso che atterrava l’animale più feroce. Bisognava trovare un’alternativa accettabile. Si sa, i giovani sono schiavi delle loro passioni. Dario poi ha sempre desiderato trovare il tempo per migliorare le sue conoscenze di tassidermista. In cuor suo spera che la Bionda possa interessarsene un giorno, anche se non glielo ha ancora confessato.
Ma c’è tempo, e molte altre serate di nebbia, al Barco.

Vivere o sopravvivere, il dilemma di un uomo pacifico

Vivere per accumulare giorni e ricordi o vivere trasferendo le vincite di una puntata su un’altra successiva? Tony, il protagonista de “Il senso di una fine” (edizioni Einaudi, 2012) di Julian Barnes, ha una certa attitudine all’autoconservazione e alla sopravvivenza che ha dimostrato passando la vita a scansare inquietudini. Finchè, un giorno, l’inatteso arriva a sconvolgere la sua esistenza di uomo pacifico e un po’ codardo.
Un compagno di studi, Adrian, morto suicida molti anni prima, lo cita in un diario, di cui Tony può leggerne, dopo una faticosa ricerca, solo una pagina. Ma manca il seguito, la frase è monca, priva della reggente, è troncata a metà come l’amicizia che c’era stata fra di loro, come il rapporto con Veronica che fu l’anello di congiunzione fra Tony e Adrian. Un periodo ipotetico sospeso (“Dunque, ad esempio, se Tony…”) che Tony prova a completare cercando di rintracciare il senso di quello scritto e di quei quartant’anni che nel frattempo sono passati.
Non solo il cosa è accaduto nei rispettivi cammini, ma anche il come la vita sia stata vissuta. Da quella pagina del diario di Adrian, Tony, ormai uomo di mezza età, si interroga sulla cautela dietro cui si è sempre comodamente riparato, sull’accadere della vita piuttosto che sul farla accadere padroneggiandola, prendendola a due mani e giacandosela tutta.
“Pensavo alle cose che mi erano successe negli anni e a quanto poco avessi fatto succedere io”, è questa allora la differenza con la scommessa di cui parlava Adrian nel diario? Una giocata come nell’ippica, dove punti, rischi e se vinci la giocata si trasferisce e si accumula su un successivo pronostico. Quanti più, per, meno e diviso ci sono nella vita e nelle relazioni? E come si fa a non fermarsi a una semplice addizione, ma a capire che la crescita sta oltre? La crescita come sviluppo dell’accumulo è quello che Adrian aveva saputo capire giovanissimo. Ma Tony no, deve accadere (ancora una volta) qualcosa perché si metta dentro alle cose.
Il ricordo dell’amicizia con Adrian e dell’amore con Veronica, diventa, per lui, rielaborazione dell’io che restituisce una versione di sé diversa, meno conveniente perché foriera di rimorso. La memoria lo riallaccia di colpo a un passato quasi dimenticato, il tempo oggettivo e regolare non coincide più con il tempo soggettivo che è “quello che si porta sull’interno del polso, proprio accanto alle pulsazioni cardiache”, un tempo emotivo, scandito solo dall’irrompere dei ricordi.

Lettera aperta a una “sentinella in piedi”

Cara “sentinella in piedi” che flashmobberai sabato 28 giugno alle 18 in piazza a Ferrara, contro il disegno di legge che contrasta l’omofobia, mi piacerebbe farti qualche domanda.
Posso?
Per prima cosa devi sapere che per me le parole sono importanti, quindi potresti spiegarmi perché hai scelto di chiamarti con un nome preso dal vocabolario militare, se vuoi “difendere la libertà di espressione e di opinione”? Ne intendi fare un uso intimidatorio? O sei anche tu uno di quelli che credono che le libertà si possano difendere meglio con nomi bellici altisonanti (Esercito di Silvio, Milizia Mariana, …) ?
Chiariscimi perché, per favore, se sei già una sentinella vuoi precisare anche che sei “in piedi”? Io non ho mai sentito parlare di sentinelle sedute, sdraiate o stravaccate.
(I vostri punti di riferimento francesi almeno si fanno chiamare “Veilleurs debout” che mi sembra più corretto sintatticamente e anche meno bellicoso).
Cordiale “sentinella in piedi”, sul tuo profilo Facebook scrivi: “Vegliamo in silenzio oggi per essere liberi di esprimerci domani”; vuoi forse dirmi che non ti senti libero di esprimere la tua opinione? Dai non scherzare, con la storia che hai alle spalle ed i suoi innumerevoli esempi di opinioni altrui condannate, soffocate, infilzate, messe al rogo non dovresti arrivare a tale paradosso!
Cito ancora dal tuo profilo: “Sentinelle in Piedi è una resistenza di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere l’uomo e la civiltà”; lo trovo interessante ma prima spiegami di quale uomo e di quale civiltà stai parlando, per favore. Temo che la tua idea di uomo non consideri affatto i suoi sentimenti, i suoi sogni, i suoi bisogni, le sue speranze e che la tua civiltà sia da considerarsi tale solo se ci si mette una bella croce sopra.
Anche se c’è qualcosa di mussoliniano nell’inizio della tua frase: “Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna” io vedo che tu, caro “guardiano”, puoi manifestare liberamente in difesa di ciò che ritieni giusto. Permettimi un banale consiglio: cerca però di ricercare la coerenza fra le tue azioni ed i valori cristiani a cui fai riferimento altrimenti passi per essere un bigotto, ipocrita ed intollerante che considera la “famiglia naturale” come un involucro vuoto e che non si occupa delle cose ben più importanti che sono le sincere ed oneste relazioni d’amore fra le persone, indipendentemente dal sesso a cui gli esseri umani appartengono.
Lo so che la coerenza è una virtù di pochi ed io non te lo scrivo mica perché penso di possederla; credo però che quando scrivi che il testo del Ddl Scalfarotto “è fortemente liberticida in quanto non specifica cosa si intende per omofobia lasciando al giudice la facoltà di distinguere tra un episodio di discriminazione e una semplice opinione” tu finga di non capire per poter mantenere il pesante potere del tuo giudizio.
Gentile “sentinella”, in altri contesti, elogi le differenze e le diversità ma perché, in questo caso, vuoi mantenere per qualcuno il diritto di discriminare senza che questo venga sanzionato? Ti confesso una cosa: a volte penso che a te, le persone che definisci diverse, servano per sentirti superiore a loro e che l’elemosina che fai, con qualche spicciolo o con qualche buona azione, sia il deodorante a ph neutro che ti serve per profumare la coscienza, coprendo così il cattivo odore della presunzione e dell’arroganza.
Personalmente penso che il Ddl Scalfarotto non sia nemmeno così estremista, anche per il fatto di essere frutto di accomodamenti fatti all’interno di un governo delle larghe intese, ma almeno prende atto di un problema grave che si chiama “omofobia” (che è “la paura e l’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, basata sul pregiudizio” *) e tenta di intervenire.
Sensibile “sentinella”, non credo che a te piaccia ma io condivido che la mia città consideri la tua manifestazione “un messaggio che divide e alimenta un clima di pregiudizio e di discriminazione e non può e non deve trovare spazio a Ferrara, città dell’associazionismo e del volontariato che, negli ultimi anni, si è distinta per i suoi valori di inclusività e di rispetto per il suo impegno civile contro ogni forma di discriminazione”.
Immobile “sentinella”, mentre sarai in piedi a difendere la libertà di espressione, se puoi confessaci: con la candela che tieni in mano, a quanti libri ti sei avvicinato con intenzioni focosamente distruttive, prima di scegliere quello che leggerai in piazza?
Immacolata “sentinella”, io non riesco ad augurarti buona fortuna per la tua manifestazione ma desidero vivamente che lo facciano i piccioni di piazza Trento e Trieste, inscenando il loro flash mob beneaugurale preferito: “Ready-Aim-Fire ovvero Puntate-Mirate-Fuoco”.

La filosofia del giardino di Jorn de Précy

Jorn de Précy nacque a Reykjavik nel 1837. Figlio di un ricco commerciante di origini bretoni, lasciò l’Islanda per viaggiare e vivere tra Italia, Francia e Inghilterra, prima di stabilirsi, nel 1865, nella tenuta di Greystone, nell’Oxfordshire, dove visse ancora a lungo e si dedicò completamente alla realizzazione di un giardino. Nel 1912 uscì il suo unico libro: “The Lost Garden.” De Précy lo pubblicò a sue spese, non divenne mai un best seller e le poche copie circolarono in modo semi clandestino, ma le sue idee anticiparono in modo profetico, la cultura contemporanea del giardino. Confesso di averlo acquistato per caso, attirata dalla copertina della sua versione italiana curata da Marco Martella (“E il giardino creò l’uomo”, ed. Ponte alle Grazie, 2013), forse avevo letto qualche recensione, infatti ho ritrovato un articolo di Pia Pera tratto dal domenicale del Sole24ore, messo da parte e poi dimenticato. Ma il caso forse non esiste, certi fili di corrente passano tra le persone, attraversano il tempo senza rispettare i confini e fanno in modo che le strade di queste persone si incontrino, e la passione per il giardino, più precisamente, la condivisione di un certo modo di sentire il giardino, può darsi che sia uno di questi fili, sottili ma incredibilmente resistenti. Sono stata catturata da questo libro, dal modo diretto, ruvido e poetico usato dall’autore per descrivere concetti sulla natura dei giardini e sulle motivazioni che ci spingono ad essere giardinieri e a cercare la bellezza come risposta alla inciviltà. Pagine intense che raccontano come il rispetto dei luoghi non sia un vincolo, ma un gesto di ascolto, una semplice applicazione dei nostri sensi che precede ogni nostro capriccio e ci consente di abitare la terra in modo creativo e costruttivo, per arrivare alla descrizione di emozioni che sembrano le mie personali. La faccenda è diventata intrigante, mi sembrava di avere troppe cose in comune con questo personaggio vissuto un secolo fa, anche il suo giardino mi era familiare e mi riportava ad un luogo magico visitato anni fa, non in Inghilterra, ma in Francia, durante un viaggio di studio. Un giardino che ha molto influenzato le mie scelte di giardiniera. Infatti, non era un caso. Durante quel viaggio abbiamo avuto alcune guide speciali, una di queste è stata Marco Martella – scrittore, storico, direttore della rivista “Jardins”- e grazie a lui, il nostro gruppo ebbe la possibilità di visitare un giardino meraviglioso, chiuso al pubblico in quel periodo. Marco, alla fine di una intensa giornata ci propose di visitare un ultimo giardino fuori programma, e nonostante la stanchezza ci aprìil cancello, per condividere con noi la bellezza unica di quel giardino che stava studiando. Il giardino era veramente un incanto, la luce era perfetta per sottolineare l’armonia che può nascere quando l’abbandono permette alla natura di affiancare la mano dell’uomo. Sono momenti unici, fragili e irripetibili, ma possibili quando il giardiniere ha la consapevolezza del suo ruolo e lavora per rendere visibile questa bellezza. Questo giardino ha un nome e una storia, esiste e ricorda quello di Greystone, un giardino scomparso, o forse mai esistito, comunque vivo nelle pagine di rara poesia e sensibilità di Jorn de Précy (Marco Martella).
“Il tempo del giardino è dunque quello della vita. Non ci spinge in avanti, come il tempo meccanico che ormai governa le nostre esistenze, perché un vero luogo ci radica sempre nel tempo presente, qui e ora. Non vi sono scopi da ottenere, né obiettivi da raggiungere, perché la vita ha un solo fine: se stessa. E lo stesso la bellezza, che nasce costantemente dal processo vitale. (…) Ritrovare questa vita, la vera vita e questo tempo della natura che è anche il nostro vero tempo, il tempo che conosce il nostro corpo animale: ecco cosa ci spinge ad aprire il cancello di un giardino e a entrarvi, ogni volta come se ci accingessimo a entrare in un mondo a parte sepolto dentro di noi. Questo è il dono del giardino. (…) Ora, respirando tutta la bellezza del luogo, tuffandomi nel suo mistero, comprendo questa sensazione. Qui si vede che il mondo dorme. E forse questo giardino è il suo sogno.” Jorn de Précy

Osteopatia: rimettere a posto le ossa per ristabilire salute e armonia

L’osteopatia è una scienza terapeutica manuale che si fonda su una filosofia ed un ragionamento causa-effetto. Interviene sulle strutture umane e il suo scopo è quello di ristabilirne l’armonia funzionale, perché possano nuovamente espletare il loro ruolo nelle migliori condizioni. Una disarmonia funzionale risale a condizioni precise che ne favoriscono la manifestazione, e lesioni che turbano la mobilità ed i normali rapporti delle strutture del corpo. La lesione osteopatica, chiamata anche “disfunzione somatica” (somatico significa relativo al corpo), è una restrizione della mobilità naturale di una struttura. Tutte le strutture sono mobili, in relazione le une con le altre.
L’osteopatia oggi va molto di moda, ma non è la terapia “ultimo grido”. L’osteopatia non ha inventato niente, è solo un modo diverso di considerare alcuni aspetti che ci concernono. Il procedimento osteopatico non consiste in una serie di ricette utilizzate, piuttosto di altre, in tale o talaltra affezione, ma mira a normalizzare ed armonizzare le strutture (fasciali, viscerali, ecc.) che hanno perso una parte della loro dinamica naturale e che, per questo, sono poste in una situazione difficile, che non può più loro assicurare un funzionamento normale. L’interesse della persona nella sua globalità resta prioritario.

In osteopatia è particolarmente importante il concetto cranico, ossia l’applicazione alla sfera cranica dei principi dell’osteopatia, introdotto da parte del suo fondatore il dr. Sutherland. Osservò in particolare che tutte le ossa del cranio si articolavano attraverso forme precise che erano in grado di permettere ad ogni singolo osso un ben determinato movimento. L’intricata architettura delle ossa craniche lo indusse a chiedersi se questa strutturazione favoriva il movimento. Cosa muove le porzioni ossee craniche? Tale movimento fu messo in evidenza dal dr. Sutherland attraverso il tatto. Lui comprese il funzionamento di questo speciale meccanismo a cui diede il nome di Meccanismo respiratorio primario. Con meccanismo respiratorio primario si intende la respirazione dei tessuti che prende origine a livello cellulare, con costanti scambi di metaboliti e cataboliti, attraverso un mezzo liquido e attraverso le membrane cellulari. In sostanza, l’encefalo è l’organo che necessita di più ossigeno di qualsiasi altro; a riposo il metabolismo cerebrale corrisponde a circa il 15% di quello complessivo dell’organismo, pur essendo la sua massa solo il 2% dell’intero essere.
Il metabolismo cerebrale in condizioni di riposo è sette volte e mezzo il metabolismo medio del resto del corpo, ed è principalmente legato al funzionamento delle pompe ioniche a livello delle membrane cellulari dei neuroni. Ecco che un improvvisa carenza di sangue o di ossigeno in esso provoca uno stato di incoscienza entro i 5-10 secondi.
Sutherland per descrivere il Meccanismo respiratorio primario, lo paragona al cosiddetto movimento a ruote dentate, indicando un sistema attraverso il quale il movimento di un osso cranico si trasmette a tutti gli altri, proprio come un sistema ad ingranaggi, determinando un movimento complessivo della struttura. Questa mobilità è apprezzabile con la palpazione e si manifesta ritmicamente 8-13 volte al minuto.
Sappiamo che anche solo un insulto, sia fisico sia emotivo, può generare modificazioni permanenti della nostra struttura. Ogni insulto, ogni trauma non dissipato, ovvero non seguito da un ritorno all’omeostasi, genera una modificazione nella direzione della restrizione, che implica ispessimento o densificazione del tessuto connettivo.
L’osteopata, con il suo bagaglio di conoscenze anatomiche, embriologiche, neurofisiologiche e biomeccaniche, rimodula e riarmonizza la disfunzione ed elimina il dolore.

Su quali disturbi agisce l’osteopatia, le più comuni indicazioni:

• “mal di schiena”, dovuto a problemi articolari, ernie e sciatalgie
• dolori cervicodorsali
• dolori sacrolombari
• altri disturbi del rachide cervicale (es. postumi di “colpo di frusta”, parestesie, nevralgie cervico brachialgie)
• cefalee, emicranie, dolori e nevralgie facciali
• vertigini
• dolori articolari quali sindrome di spalla, dolori al gomito, disfunzioni al ginocchio o alla caviglia-piede (ad esempio esiti traumatici)
• dolori da tensione muscolare
• disfunzioni dell’articolazione temporo-mandibolare
• disturbi “posturali”
• disordini funzionali delle vie digestive (ernie iatali, ecc.)

La pratica osteopatica risulta efficace anche per:

• problemi cranici, otiti, rinofaringiti, sinusiti
• problemi stomatognatici
• problemi legati al parto (soprattutto distocico e cesareo)
• problemi circolatori
• problemi viscerali a livello cardiorespiratorio o uro-ginecologico
• problemi neurologici

Ma, attenzione, l’osteopatia non ha alcuna efficacia in caso di lesioni anatomiche gravi od urgenze mediche dove l’azione chirurgica diventa insostituibile.

Marattin: “Da Cattaneo e Zibordi cialtronate sulla crisi”. La replica: “Pronti al confronto”

Per Luigi Marattin, docente di Economia all’università di Bologna e assessore del Comune di Ferrara, si tratta di “monnezza intellettuale”. Giuseppe Fornaro, candidato sindaco a Ferrara della lista Valori di sinistra, viceversa, rivendica il fatto di essere stato “l’unico in campagna elettorale a sostenere queste posizioni”. Insomma, dopo l’intervista apparsa su ferraraitalia [leggi], attraverso i social network si sta animando il dibattito attorno alla via d’uscita dalla crisi economica proposta da Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, autori per Hoepli del recente volume “Soluzione per l’euro”.

Afferma Marattin: “Alla domanda (intelligente) del giornalista su come si possa evitare l’iper-inflazione che deriverebbe dall’aumento della base monetaria in circolazione (fenomeno che ha distrutto svariate economie negli ultimi 100 anni), questi finti economisti rispondono: ‘semplice! Si aumentano le tasse!’. Ma l’aumento di tassazione, diminuendo la domanda aggregata come loro stessi – in un delirio di contraddizioni – riconoscono, vanifica l’effetto espansivo dell’aumento di base monetaria. In pratica, ad una politica monetaria espansiva si fa corrispondere una politica fiscale restrittiva, con effetti totali nulli. Anzi, si potrebbe argomentare che poiché la politica fiscale restrittiva ha effetti anche sul lato dell’offerta (diminuendo l’accumulazione dei fattori produttivi, che determinano la produzione e quindi il Pil), l’effetto complessivo sarebbe anche pesantemente recessivo. Tutta roba che si insegna nell’arco delle prime tre settimane di un qualsiasi corso base di economia a ragazzi di 19 anni”.

Fornaro, spiega di essere stato persuaso da un seminario tenuto da Claudio Bertoni (referente ferrarese del gruppo), e a Marattin replica: “Non sarei così sprezzante. Non c’è bisogno degli insulti. Sarebbe interessante, invece, un confronto pubblico tra te (Marattin, ndr) e Bertoni, o i due autori di cui si parla nell’articolo, con un moderatore, sui temi dell’economia. Ci sono alcuni punti delle loro tesi che sono convincenti, altri meritano di essere approfonditi”. E conclude: “Ci stai ad un confronto pubblico?”.

All’invito, Marattin controbatte: “Il confronto pubblico con quei finti economisti io lo chiedo da almeno due anni. Sono sempre scappati a gambe levate. Non certo per me, ma perché gli è rimasto un briciolo di onestà tale da comprendere che le loro cialtronerie verrebbero completamente distrutte da un semplice studente del primo anno. Proprio per questo si ostinano a fare iniziative a voce unica. Nell’improbabile ipotesi che vogliano – dopo tanto tempo – accettare un contraddittorio, certamente sarei disponibile. Non ho mai avuto problemi a confrontarmi”.

A questo punto entra in campo Cattaneo, che ha seguito a distanza il contraddittorio su Facebook: “Non so a chi si riferisca Luigi Marattin affermando che ‘il confronto pubblico con quei finti economisti io lo chiedo da almeno due anni. Sono sempre scappati a gambe levate’. Sicuramente non parla di me, e credo nemmeno di Giovanni Zibordi. Personalmente, non ho mai avuto occasione di incontrare Marattin e questa richiesta di confronto, evidentemente, a me non è stata rivolta. Ma colgo con piacere l’occasione per raccogliere l’invito e sollecitare un confronto-dibattito pubblico, e per quanto mi concerne do piena disponibilità a organizzare, per esempio a Ferrara, in qualsiasi data dal 15 luglio prossimo in poi”.

Dunque, emerge da tutte le parti la volontà di guardarsi in faccia e chiarire i rispettivi punti di vista. Ferraraitalia si rende disponibile a organizzare il confronto, secondo i crismi dell’imparzialità.

Sarebbe davvero interessante poter ascoltare in contraddittorio le voci dei protagonisti. Lo spirito crediamo debba essere quello del giovanissimo Fabio Zangara che, intervenendo anch’egli nel dibattito su Facebook, si rivolge direttamente a Marattin raccontando che “anch’io ho partecipato ai seminari del dott. Bertoni e, oltre che simpatico, mi è sembrato anche molto preparato e documentato. In tutta sincerità non comprendo la sua perplessità circa la risposta di Zibordi e Cattaneo riguardo il controllo della base monetaria in circolazione. Se la moneta in circolo è ‘scarsa’ si applicano iniezioni di liquidità nel sistema, se si rischia il fenomeno inflattivo viene applicata una studiata imposizione fiscale che riequilibra la base monetaria in circolazione, per garantire il giusto equilibrio del ‘flusso circolare’. Si controlla quindi la base monetaria tramite la funzione sinusoidale (sinx), usando investimenti e tasse come contrappesi. Non vedo, quindi, il pericolo di un fenomeno recessivo riguardo le tesi di Zibordi e Cattaneo. Sono convinto che sarebbe molto utile un confronto pubblico fra di voi per spiegare ai cittadini cosa sta accadendo oggi in Eurozona. Mi piacerebbe anche sapere perché istituti creditizi privati e Bce di fatto emettono moneta dal nulla attraverso i prestiti. Ritengo estremamente importante che lo Stato possa emettere denaro per monetizzare l’operosità dei cittadini, garantendo lo scambio di beni, sostenendo l’economia reale”.

Argomentazioni e quesiti chiari, scaturiti da una mente fresca e non imbevuta di dogmi, che esprimono anche l’anelito di un giovane cittadino alla ricerca di un orizzonte di stabilità per il proprio futuro.

Ma, anche nei suoi confronti, Marattin usa espressioni tranchant che mal si conciliano con la volontà al confronto che pure manifesta: “Fabio, sul confronto pubblico vale quanto scritto sopra. Sono sempre scappati, e c’è da capirlo. Sul resto, sei ancora giovane ed in tempo per non farti sedurre da colossali castronerie (quali quelle che sembri ripetere) che non hanno né fondamento logico, né empirico. Le persone che citi non hanno una formazione accademica completa, non hanno posizioni presso università o centri di ricerca degni della benché minima notorietà scientifica, e non hanno pubblicazioni comunemente accettate presso la comunità scientifica (cioè in riviste internazionali con doppio referaggio anonimo). Spacciano colossali panzane come teorie economiche alternative, ma in realtà usano solo tutti voi in buona fede per acquisire un minimo di notorietà e per facili guadagni. Fai un favore a te stesso, studia l’economia quale scienza sociale. Ti accorgerai che per mettere in discussione alcuni dogmi troppo facilmente accettati non c’è bisogno di uscire totalmente fuori dal perimetro scientifico con questa spazzatura intellettuale”.

In realtà Cattaneo e Zibordi pongono un problema reale e drammatico, quello della crisi, al quale gli economisti gallonati ai quali Marattin fa riferimento non hanno saputo porre rimedio. Se ci sono debolezze o fragilità vanno discusse. Ma se il punto di partenza è buono, sbagliato è rifiutare il ragionamento.
Credo si debba fare molta attenzione ad additare visionari ed eretici a pubblici roghi.
Il pregiudizio è una bestia pericolosa. Il padre dei fratelli Wright, agli albori del secolo scorso, sentenziò “Mai e poi mai l’uomo volerà per mezzo di una macchina”. Proprio i suoi figli lo smentirono. Non degli anatemi si alimenta il progresso della civiltà.
Quando si tratta di questioni vitali come questa è saggio guardare la luna e non il dito che la indica.

Lunga e diritta corre la strada fra la via Emilia e il fiume

SEGUE – Una strada lunga e dritta spacca il centro della pianura da San Possidonio, Cavezzo, fino all’incrocio col fiume Panaro, all’altezza di Camposanto. Secondo la regione Emilia Romagna, dalle terre piane dell’alto modenese dovrebbe passare la cispadana, un’autostrada che così unirebbe la A13, all’altezza di Ferrara sud, alla A22 del casello di Reggiolo-Rolo. Ma a giudicare da quello che vedo i propositi per il 2015 andranno rivisti almeno di qualche decennio, e scommetto che nessuno se ne stupirà più di tanto.

Camposanto sembra meno danneggiato degli altri. Anche se in campagna quasi ogni giardino è munito di un container o una casetta di legno. Mi dicono come dopo gli eventi sismici la vendita di roulotte e camper abbia subito un’impennata vertiginosa. Passando per la statale una targa ricorda il gemellaggio con un paese del potentino colpito dal sisma del 1980. Come se non bastasse, a gennaio il comune, insieme a Bomporto, ha subito un’alluvione di cui a livello nazionale si è parlato davvero poco. Incrocio un gruppo di persone, credo siano addetti alla cartiera Smurfit Kappa, che ha sede qui… loro hanno fretta, io riparto.

Pochi chilometri e un cartello avvisa ancora una volta di un cambio di provincia, a Palata Pepoli sembro arrivato in Arizona e invece sono solo in una frazione di Crevalcore, in provincia di Bologna. Casette e campi squadrati, due semafori che regolano gratuitamente un traffico inesistente, il bar “sole luna” e un altro caffè, bar H, più avanti. Tutta Italia dovrebbe venire almeno qualche giorno a Palata Pepoli, recupererebbe la semplicità di quattro strade che si incrociano senza troppe pretese, senza fingere di essere ciò che non si è.

Siamo nei comuni delle terre d’acqua. Un nome intenso che ricorda agli uomini quanto abbiano dovuto faticare per strapparle alla malaria. Anche qui le scuole sono ospitate nei prefabbricati, come a San Felice sul Panaro, a Finale Emilia, a Mirandola. Paesi che, nel sud dove sono nato, ho sempre sentito riecheggiare come in una sorta di memoria collettiva. La massiccia emigrazione interna nella seconda parte del novecento ha trovato qui una seconda casa per molti miei conterranei. E oggi mi ritrovo a dare forma e colori a terre che pareva conoscessi da tempo.

Campagna emiliana a Palata Pepoli

Campagna emiliana a Palata Pepoli

Da Palata a Cento è un soffio di strada. Le due scosse hanno creato un immenso cratere che cerco di percorrere con i miei tempi. Tento di circoscriverlo ma il perimetro è enorme, segnalato dal crollo parziale di buona parte dei vecchi casolari dell’Emilia, ne ho contati a decine: stazionano alla stregua di cattedrali circondate da un deserto di grano, ed estese oasi di frutta. Tetti sgarrupati e ruderi hanno definitivamente mutato il paesaggio, mettendo come un accento di dolore sulla già passata civiltà contadina che mi ricorda la poetica amara di Azzurra D’Agostino:

La casa viene al mondo e si spacca sotto/il peso di un tramonto mortale: rotto il cotto/il tetto, l’architrave. Quante Ave Maria avrà detto/
la vecchia che non ha più nome. Il gendarme sarà/venuto? Avrà preso mai un disertore? Le ore quando/è ancora buio e già là nei campi si muove l’aratro/chiedere perdono per il peccato lo steccato aprirlo/tirar fuori le bestie restie nell’alba da venire a farsi aprire/cucinare per gli uomini dentro i camini la cenere sparsa/arsa come la bocca dopo l’amore il fiore sul greto del fiume/il sudiciume portato a lavare al pozzo il gozzo tagliato/del maiale il sangue a sgocciolare giù dal collo del coniglio/tutta una vita tutto un germoglio un gran scompiglio.

 

Ruderi nella campagna ferrarese

Ruderi nella campagna ferrarese

Oggi non c’è tempo per arrivare a Sant’Agostino, a San Carlo, a Bondeno. La mia giornata finisce a Cento, la città del Guercino coi suoi trentamila e passa abitanti e un tasso di immigrazione tra i più alti d’Italia, col suo dialetto dal suono bolognese, le industrie, la città che in centocinquanta anni ha raddoppiato la popolazione, rimanendo assiepata al cospetto dell’ennesimo fiume minaccioso di queste terre: il Reno.
La bella piazza centrale è in parte inagibile, alcuni palazzi storici mostrano i segni ormai noti della messa in sicurezza. La pinacoteca civica ancora chiusa e in cerca di fondi per il restauro. Ma nel giorno del mercato la città torna a vivere. A Cento nel ’47 nacque la Vancini e Martelli, meglio nota come VM. La madre del motore diesel italiano ha un migliaio di dipendenti e dopo una girandola di passaggi di mano è finita nell’orbita della General Motors. In Emilia nel raggio di pochi chilometri troviamo le storie di nomi come Lamborghini, Ferrari, Maserati, Ducati. Passo davanti allo stabilimento, faccio rifornimento in una strada come tante, e mi perdo, attratto da uno di quei mercati dell’usato per cui vado matto, dimentico i motori e il resto e ne esco con un seggiolino per bici, le lettere di Machiavelli, e l’idea di una vecchia radio in ciliegio che costa troppo.

Piazza del Guercino a Cento

Piazza del Guercino a Cento

Non ho avuto il tempo di vedere la mostra fotografica nella rocca.

Della seconda tappa dell’itinerario che mi sono prefisso rimane l’idea di una terra d’acqua e dai motori tuonanti degna della Born to run di Bruce Springsteen. Emilia di provincia e motori, ma anche “america” della vecchia e nuova emigrazione, fatta di un’ironia e di una vivacità che mi pare difficile riscontrare al di là del grande fiume Po.

Non mi illudo in questo breve passaggio di giugno, lo so che è un mese che aggiusta tutto, e che da qualche parte ci sarà anche la fioca “luce dicembrina”: l’Emilia paranoica cantata dall’inconfondibile Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP. Quella del malessere covato nel profondo, quella ossessiva e ripetitiva provincia assorta e impotente, dove nel chiuso delle case stazionano, sopra i comodini,  soluzioni in pillole da casa farmaceutica. Il luogo a cui si soccombe per inerzia, per debolezza, che consuma e distrugge con la speranza delusa “di un’emozione sempre più indefinibile”.

Forse sarà a Sant’Agostino e San Carlo, o a Finale Emilia, a Mirandola, dove tenterò di chiudere il perimetro del cratere. Per ora mi accontento di trovarla nel mio stereo, in una vecchia canzone…

Emilia di notti agitate per salvare la vita

Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire

Emilia di notti ricordo senza che torni la felicità

Emilia di notti d’attesa di non so più quale amor mio

che non muore e non sei tu e non sei tu

EMILIA PARANOICA

2 / CONTINUA

Leggi la prima parte del viaggio

Il blog racconti viandanti di Sandro Abruzzese

Di calcio e d’altre sconfitte

“Il primo insuccesso dell’Italia nell’era di Renzi”. Dopo l’eliminazione dai mondiali della nazionale di calcio nella partita con l’Uruguay questo titolo, tutto giocato sull’ambiguità di un’Italia sia squadra di calcio che di governo, ha campeggiato per molte ore sull’home page de L’Huffington Post. Nel Regno Unito ed in Spagna, Paesi colpiti entrambi dalla medesima sciagura calcistica, nemmeno i più sguaiati tabloid hanno associato in modo così inconsulto l’eliminazione dal mondiale ai destini del Paese. Pur considerando la tendenza di quel giornale a voler cercare titoli ad effetto, si fatica a cogliere un qualsiasi nesso logico in quell’accostamento sparato a tutto schermo, che invece si rivolge direttamente alla pancia.
Nessuno stupore perché il calcio è da sempre il locus dove s’intersecano e si mescolano le pulsioni di questo Paese, da cui traggono origine tutte le metafore, assieme immagine proiettata e specchio della nazione. Questo significa essere “sport nazionale”, con buona pace di chi non lo ama. Uno sport che come popolo ci rappresenta in toto: dato che nell’immaginario della maggioranza degli italiani si fonda, in parti circa uguali, su abilità, astuzia e fortuna. In cui gli eroi sono tali solo se sono anche vincitori. E il pallone è rotondo, come la vita.
La spedizione brasiliana è naufragata per evidenti limiti che coinvolgono sostanzialmente in misura uguale giocatori e staff tecnico. Tuttavia è interessante notare come nel sondaggio di Repubblica la maggioranza di chi ha risposto attribuisca la maggior responsabilità all’allenatore, mentre fra i giocatori il maggiore accusato è Mario Balotelli.
In Italia è ormai da anni prassi comune, anche per le squadre delle serie minori, che presidenti inflessibili, semmai dietro pressioni di gruppi di ultras inferociti, caccino l’allenatore al primo accenno di crisi. Il tecnico è quindi diventato l’unico capro espiatorio, quasi sempre a prescindere dalle sue effettive responsabilità, allo stesso modo in cui in molte tribù primitive se i sacrifici agli dei dello stregone in carica non sortivano gli effetti sperati era costui ad essere sacrificato a furor di popolo. C’è da dire che, per loro fortuna, gli allenatori quasi sempre se la passano decisamente meglio di quelli stregoni.
Qualcuno dovrà prima o poi scrivere la “fenomenologia di Balotelli”, perché l’intreccio di sentimenti potenti e contrapposti che questo giocatore suscita nell’opinione pubblica, ben oltre i confini di chi segue questo sport, è senza alcun dubbio degno dell’attenzione di un sociologo e studioso di costume. Mario ha indubbiamente enormi potenzialità tecniche unite ad un pessimo carattere, che spesso gli impedisce di metterle interamente al servizio delle squadre in cui gioca: a lui però sin dagli esordi e contrariamente ad altri campioni non viene perdonato nulla, né in campo né nella vita privata. Non credo si tratti, almeno nella maggioranza dei casi e tolti pochi imbecilli, del solito razzismo becero, ma di una sua forma un po’ più sottile e per certi versi più preoccupante, che rimanda comunque al colore della sua pelle. E’ come se, inconsciamente, a lui molti non perdonassero l’eccesso di orgoglio, le spacconate e l’ostentazione della ricchezza, così comuni in quell’ambiente, perché da un italiano d’adozione si attenderebbero invece un atteggiamento più “grato” e “umile”. Il fatto che quando giocava in Inghilterra succedesse lo stesso, stante il noto e sottile razzismo dei tabloid, è in realtà una conferma di quanto sopra.
Come ultima considerazione credo si possa dire che l’eliminazione dal mondiale sia stata vissuta dalla maggioranza degli italiani con mesta rassegnazione, diversa dall’indignazione del 2002 e dallo stupore quasi incredulo del 2010. Come se le prestazioni modeste della squadra fossero state preventivamente identificate con quelle più generali del Paese e che quindi fosse del tutto fuori luogo coltivare illusioni sull’esito finale della spedizione. Come detto, il pallone è rotondo e paralleli troppo stringenti sono fuori luogo; tuttavia azzarderei che la quantità di aspettative che vengono investite sull’esito di un evento come questo non possa non essere correlata a quelle che il Paese complessivamente nutre nei confronti del proprio futuro. Così come l’entusiasmo che un popolo è grado di trasmettere alla propria nazionale sia in qualche modo dipendente da quello che riesce ad esprimere nella vita quotidiana.

“Basta con l’austerity, ecco una proposta concreta per uscire dalla crisi”

“La cura non funziona: allora aumentiamo la dose”! Loro dissentono, ma sono i paria, gli inascoltati: quelli ‘che semplificano’, accusati a torto di voler uscire dall’euro, di spaccare l’Europa. Tacciati di leggerezza, sospettati di ambigue contiguità, avvolti in un alone oscuro. Tutto questo perché vanno controcorrente e alla crisi rispondono con soluzioni originali, invise agli economisti dell’establishment. Il paradosso che indicano è realmente tale: finora si è cercato il rilancio attraverso politiche di austerity, siccome non hanno dato i frutti sperati ci viene detto di stringere la cinghia ancora di più. “Intanto perdiamo il paziente”, commentano a ragion veduta. E il paziente siamo noi.
Loro invece, gli outsider, sono Marco Cattaneo, Giovanni Zibordi e altri che fanno riferimento alla dottrina del neo-cartalismo. “Economisti pragmatici, non accademici”, dicono di se stessi; anche se alle spalle, fra i riferimenti teorici, ci sono giganti come Kenneth Galbraith…
Vale dunque la pena ascoltare le loro teorie, ragionarci su. Per capire se cambiando medico e terapia non si possa propiziare la guarigione.

“Questa è una crisi assurda – afferma Cattaneo -. Ci sono beni disponibili, forza lavoro disponibile, strutture produttive adeguate. Ma tutto resta incagliato perché mancano i soldi”
E quindi?
I soldi non sono un problema, se mancano si fanno.

Come, ‘si fanno’?
Si fanno! Si stampano. Uno Stato che gode di sovranità monetaria si regola così: immette moneta in rapporto alla capacità produttiva del sistema e l’economia ricomincia a funzionare.

Scusi ma un eccesso di moneta circolante, dato che i beni non sono illimitati, non porta poi all’aumento dei prezzi e quindi all’inflazione?
Sì, ma quando serve lo Stato interviene per drenare la liquidità in eccesso agendo sulla leva della fiscalità. In altri termini, quando si deve favorire la ripresa si aumenta la quantità di moneta in mano a cittadini e aziende diminuendo le tasse; quando invece si vuole contrastare l’aumento dei prezzi dovuto a un eccesso di domanda si fa il contrario.

Ma se è così semplice, com’è che predicate nel deserto?
Perché ci sono molti interessi in gioco e potentati da tutelare; c’è gente che di crisi muore e altra che guadagna facendo enormi fortune.

Mi sta dicendo che c’è una congiura in atto a discapito dei cittadini?
Beh, non siamo gli unici a pensarlo. Altri più autorevolmente di noi lo hanno detto e scritto. Luciano Gallino gode di prestigio a livello internazionale e parla di golpe di banche e governi…

E quindi quanto servirebbe per fare ripartire l’economia?
Almeno duecento miliardi. E’ la somma che abbiamo perso per strada negli ultimi anni per pagare gli interessi sul debito. Il Pil infatti in questi ultimi 20 anni ha continuato a crescere con una media costante. Il problema è che da quando lo Stato italiano ha perso la sovranità sulla moneta, i debiti virtuali sui prestiti sono diventati debiti reali nei confronti delle banche prestatrici. Il processo si origina ben prima dell’euro e ha a che fare con la perdita di controllo sulla Banca d’Italia.

C’è qualcuno che la pensa come voi?
L’ex ministro ed ex Ad di banca Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, sta dicendo qualcosa di simile, perlomeno come logica di ragionamento. Lui stima la necessità di 350 miliardi di euro, ma al di là delle cifre, l’impostazione concettuale è la medesima: serve liquidità per fare ripartire l’economia. Non si possono chiedere altri sacrifici, con la stretta creditizia e l’austerità il Paese muore. C’è bisogno del contrario: uno slancio per ripartire con forza.

Ma le vostre teorie hanno trovato mai applicazione?
Sì, nella Germania degli anni Trenta storicamente è accaduto qualcosa di molto simile. Mi rendo conto che sia brutto da dirsi, ma è così. Prescindiamo dalla situazione politica e dai protagonisti dell’epoca, lo scenario economico era molto simile: stagnazione e deflazione. La salvezza è stata l’immissione di moneta nel sistema.

Sarà un caso, ma fra le forze politiche l’unica ad avere preso posizione in maniera netta a favore della soluzione che voi proponete è proprio Forza Nuova…
In questo caso forse suggestione e dimensione simbolica funzionano per una compagine politica che fa esplicito riferimento a un certo passato. Ma noi dobbiamo prescindere da questi aspetti. Il nostro appello si rivolge a tutti, non ha connotazione politica, mira al rilancio del Paese.

Nonostante vi si attribuisca l’intenzione contraria, non siete per l’uscita dall’euro, giusto?
L’euro non è all’origine del problema – interviene Giovanni Zibordi – e la questione della sovranità monetaria si può affrontare e risolvere anche in presenza dell’euro e nel rispetto del ruolo del Banca centrale europea. Non è quindi necessario per l’Italia rimettere in discussione la propria collocazione nel consesso dell’Unione Europea o l’uso della moneta. Noi abbiamo immaginato che la liquidità si possa creare attraverso la disponibilità di titoli di credito sulle imposte che di fatto costituirebbero una sorta di moneta interna.

Cioè?
Titoli di valore predeterminato ma differito, pagabili a due anni (il tempo per fare ripartire l’economia) che lo Stato attribuirebbe ai cittadini da utilizzare per il pagamento delle imposte e delle tasse. Di fatto una sorta di emissione di ‘buoni del tesoro’ per il valore complessivo dei 200 miliardi di cui stiamo parlando. Un meccanismo simile a quello concepito da Renzi, ma altro che 80 euro in busta paga! Trattandosi di titoli certi ed esigibili, chi ha necessità potrebbe farsi anticipare le somme garantite dallo Stato tramite il normale meccanismo del prestito ai tassi di mercato. Immaginiamo una famiglia che vanta un credito di imposta garantito dai nostri certificati per duemila euro, potrebbe ottenerne subito 1.950 per esempio, pagando un interesse del 2,5%, cioè avrebbe subito a disposizione 1950 euro da spendere invece di duemila dopo due anni. E si tratterebbe di soldi veri, intendiamoci, non di somme da restituire: il contante immediato in cambio della cessione del titolo. Quindi soldi da investire o da spendere. Soldi che arrivano sul mercato, circolano e rimettono in moto l’economia.

I pagamenti fatti dai cittadini con questi titoli di credito sarebbero però, nella sostanza, pagamenti virtuali, poiché allo Stato non entrerebbe denaro ma cedole. Inoltre voi sostenete anche la necessità di un drastico taglio delle tasse. E come può lo Stato garantire i servizi se non percepisce più i corrispettivi attraverso le imposte?
Emettendo la moneta necessaria! E’ un falso problema quello che lei pone, frutto di un illusione. Ci dicono che le tasse servono per pagare i servizi, ma lo Stato può stampare quanta moneta vuole (cioè quanta gliene serve) per sé e per gli enti locali, in maniera da garantire l’erogazione delle prestazioni attraverso la copertura dei relativi costi senza intaccare il welfare aytteso dai cittadini. I soldi sono una convenzione. Lo Stato, se è sovrano, regola la circolazione della moneta, aumentandola o riducendola secondo necessità.

[Leggi la presentazione dell’incontro che si è tenuto a Ferrara a giugno: clicca qua]

Oltre il 50 per cento di ginecologi obiettori in Emilia Romagna

di Davide Tucci

«Ci sono dei luoghi adatti alla preghiera. E non si tratta certo dell’ingresso di un Pronto Soccorso. È dal 12 maggio scorso che veniamo qui davanti al Sant’Orsola a contestare i gruppi di preghiera della Comunità “Papa Giovanni XXIII”, che da quindici anni si riunisce lì davanti ogni martedì, giorno dedicato alle interruzioni volontarie di gravidanza. Quella dell’aborto è già di per sé una scelta non facile. Se poi una donna entra in ospedale sentendosi un’omicida, l’effetto è ancor più devastante».Sara è determinata, come del resto tutte le attiviste di “Mujeres Libres” e “Yo Decido”, nel perseguire lo scopo del suo collettivo di «liberare l’ingresso del Sant’Orsola dal presidio della Comunità creata da don Oreste Benzi. Certo, ora sono molto meno invasivi di qualche anno fa, quando esibivano santini e facevano una vera e propria opera di dissuasione dall’aborto: affiggono i loro cartelli pro-life e recitano in gruppo il rosario. Ma rimane comunque la violenza psicologica».

Dall’altra parte, Paola Dalmonte della Giovanni XXIII non parla di vero «scontro» con le attiviste femministe. Anche se, come tutta la comunità cattolica, è irremovibile quando parla di aborto in termini di «uccisione. Ogni martedì, al Sant’Orsola vengono uccisi undici bambini, con i soldi di tutti noi. Sono vite umane, non feti. E su questo non si discute. Non ci permetteremmo mai di fare il processo alle povere donne costrette, una volta su cinque, a fare quel tipo di scelta. Tantomeno di giudicarle. Vogliamo solo pregare e offrire loro il nostro aiuto, cosa che già facciamo da tempo. Perché, con la Legge 194, in Italia è garantita solo l’interruzione volontaria di gravidanza, e non la nascita di un figlio».

Stando ai dati dell’anno 2012, diffusi dalla Regione a fine ottobre 2013, il 53% dei ginecologi emiliano-romagnoli è obiettore di coscienza, cioè si rifiuta di praticare l’aborto. Con i suoi 9.705 aborti complessivi nel 2012 l’Emilia Romagna «è un territorio ad alto tasso immigratorio per le Igv (interruzioni volontarie di gravidanza, ndr). Quello di cui abbiamo bisogno, quindi, è una maggiore tutela delle donne che scelgono di non portare a termine la gravidanza», sollecitano da Mujeres Libres. «Chiediamo solo di dare una mano a quelle donne che, in realtà, non vogliono abortire. E l’immagine della “Santa Maria in attesa del parto” significa proprio questo».

[© www.lastefani.it]

Faggioli: “La chiesa-mondo di papa Francesco, progressista ma non liberal”

Italiano, ferrarese e americano, Massimo Faggioli è uno storico della chiesa, vaticanista conosciuto ormai a livello internazionale. Si specializza in Storia religiosa nelle università di Bologna, Torino e Tubinga tra 1994 e 2002, e dal 2008 vive negli Usa dove insegna Storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis/St. Paul. Collabora con varie riviste e quotidiani, in Italia con Europa e l’Huffington Post. E’ appena uscito in Italia il suo ultimo libro intitolato Papa Francesco e la chiesa-mondo (Armando, 2014).

Abbiamo la stessa età, abbiamo frequentato entrambi il liceo Ariosto, difficile per me non cominciare con alcune domande “ferraresi” soft sugli anni della formazione, del tipo qual è stato il tuo background cattolico a Ferrara?
Il mio background cattolico a Ferrara si sviluppa all’interno di due ambiti: lo scoutismo da una parte e l’Istituto diocesano di scienze religiose dall’altra. Scoutismo, quindi una formazione cattolica caratterizzata certamente da fedeltà alla Chiesa ma anche da un certo senso di libertà verso l’Istituzione ecclesiastica. Io ho fatto lo scout per tanti anni, uno scoutismo molto intenso perché oltre all’attività coi bambini e i ragazzi si tentava di ragionare sul ruolo della Chiesa nella società italiana. I primi dodici anni di scout sono stati con il gruppo “Ferrara 4”, alla parrocchia di san Luca; poi nell’89 sono passato a santa Francesca Romana, “Ferrara 5”, dove sono rimasto altri dieci anni circa. Sono stati anni bellissimi a cui devo moltissimo. Ho dovuto interrompere nel 1999, perché mi sono trasferito in Germania per un anno di dottorato all’estero. L’altro ambito del mio background ferrarese è per l’appunto l’Istituto di scienze religiose di via Montebello 8, dove ho studiato con Piero Stefani, monsignor Elios Giuseppe Mori e don Andrea Zerbini, personaggi a cui devo la nascita del mio interesse per la teologia e la scelta dei miei studi successivi, anche perché don Andrea era (è ancora, in un certo senso) il mio parroco, Piero Stefani un comparrocchiano e un amico di famiglia.

Dal punto di vista, invece, degli studi universitari, chi più di altri ha contribuito nella scelta di specializzarti in questa particolare area del sapere? Nella tua presentazione sull’Huffington Post dici che la tua alma mater rimane sempre Bologna: è perché “il primo amore non si scorda mai” o c’è qualcosa di più?
C’è decisamente qualcosa di più. Nell’estate 1989 faccio l’Interrail e nell’autunno dell’89 mi iscrivo a Scienze politiche a Bologna, indirizzo storico-politico, in un anno cruciale in cui stava cambiando il mondo. Ho come docente uno dei fondatori della facoltà, Giuseppe Alberigo, che era lo storico dei concili più famoso e più importante, e vengo presto attratto da questa area particolare di discipline storico-religiose. Altri miei docenti di grande spessore, oltre ad Alberigo, sono stati Mauro Pesce, famoso biblista e storico del cristianesimo, e Pier Cesare Bori, professore di “Storia del cristianesimo e delle chiese”, “Filosofia morale” e “I diritti umani nella globalizzazione”, che formavano un nucleo forte in quell’ambito di studi che purtroppo è completamente scomparso, o meglio è stato eliminato dalle politiche accademiche bolognesi: ora non esiste più nulla del genere all’Università di Bologna. Comunque è dal mio interesse per la storia in generale, per la storia politica e le questioni internazionali, e dall’incontro con questo nucleo forte delle discipline religiose, che si determina la mia scelta, nel senso che quei docenti cominciarono a spiegarmi allora qualcosa di quello che stavo facendo negli scout e il significato di certe cose che venivo sentendo, ossia dell’importanza delle identità religiose nel mondo contemporaneo, determinanti per capirne le dinamiche… e questo più di dieci anni prima dell’11 settembre 2001, tanto per intenderci. Gli anni dell’università, tra l’89 e il ’94, sono stati anni di enorme cambiamento dal punto di vista internazionale: il Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione sovietica; in Italia, la fine della prima Repubblica, tangentopoli e la crisi generale del sistema politico. Studiare scienze politiche a Bologna in quegli anni è stata una delle occasioni fortunate della mia vita, perché mi ritrovavo a studiare cose che erano particolarmente rilevanti per quello che stava succedendo nel mondo. In quel quinquennio, quindi, studio scienze politiche, mi specializzo in Storia religiosa ma continuo ad osservare quello che succede fuori e a viaggiare, in particolare in Francia e nell’Europa dell’est. Dal 1995 inizio a lavorare all’Istituto per le scienze religiose di Bologna, allora impegnato nel progetto dei cinque volumi della “Storia del concilio Vaticano II”. Come studioso sono nato lì, in quell’istituto fondato da Giuseppe Dossetti nei primi anni cinquanta: trasversalità delle discipline, imparare a confrontarsi con epoche storiche diverse, imparare le lingue straniere, non accontentarsi dell’erudizione fine a se stessa. Da Bologna poi sono passato in Germania un anno, e poi in Canada, e nel 2008 in America.

Veniamo al tuo nuovo libro in cui tendi a dimostrare, come si evince fin dal titolo, che il gesuita Bergoglio, papa Francesco, rappresenta l’incarnazione di quella transizione verso una “chiesa-mondo” annunciata dal teologo gesuita Karl Rahner alla fine del Concilio Vaticano II. A che punto siamo della realizzazione di una chiesa a dimensione mondiale? Di una chiesa che, con le parole di Bergoglio, va verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali?
La Chiesa è stata sempre mondiale, per essenza: Gesù Cristo non ha mai predicato per una nazione o per un popolo soltanto. Ma la distanza tra l’universalismo del messaggio di Gesù e la dimensione concreta della Chiesa è stata sempre molto visibile, tanto che per quindici secoli il Cristianesimo è stato sostanzialmente europeo. Oggi, nel XXI secolo, anche il Vaticano e le istituzioni ecclesiastiche hanno capito che non si può misurare tutto il mondo della Chiesa con un metro europeo o un metro romano. In questo senso, l’elezione di Bergoglio rappresenta lo scatto: da Benedetto XVI, ossia dal Papa più europeo di tutti, non solo per formazione ma anche per ideologia – nella sua visione l’Europa era normativa -, si passa a papa Francesco e allo scioglimento anche di questo paradigma. Oggi l’Europa non è più paradigma di quasi niente e, con Bergoglio, neanche più del cattolicesimo. Il suo andare in Corea in agosto, nelle Filippine e nello Sri Lanka l’anno prossimo, e prossimamente in Albania, è il suo modo per dire che l’Europa non è più lo standard con cui misurare tutto il resto. E questo lo fa lui perché viene dall’Argentina, e perché è un gesuita: i gesuiti sono sempre stati con un piede dentro la Chiesa e un piede nel mondo, fin dal ‘500, e quindi sono particolarmente capaci di misurarsi con questa prospettiva. Terza cosa, lo fa lui perché viene eletto in un periodo particolarmente drammatico della storia della Chiesa, e parliamo degli scandali e della chiara inabilità di papa Benedetto XVI di interagire con tali questioni. E quindi Francesco opera in queste circostanze che, secondo me, hanno sbloccato la situazione della chiesa. Se Francesco avrà successo nel convincere vescovi e cardinali in questo senso, ancora non si può sapere; quello che è certo è che lui è chiaramente consapevole che la Chiesa futura non può modellarsi su un cattolicesimo europeo che andava bene nei secoli precedenti, ma che nel XXI secolo ha poco da insegnare, per l’oggi, ai cristiani dell’America latina o dell’Asia o dell’Africa.

L’elezione di Bergoglio spinge quindi, e ti cito, “a ricalcolare le geopolitica del cattolicesimo”. Dal tuo punto di vista privilegiato di italiano che vive negli Usa e che studia la Chiesa cattolica, come stanno reagendo Obama e gli altri grandi della politica mondiale?
Ricalcolare nel senso che la sua mappa è molto più mondiale, Bergoglio guarda specialmente al sud del mondo, nel senso che non ha una centralità europea e nord-americana. Come latino-americano, anzi, ha un punto di vista particolare degli Stati uniti e della politica: vede gli Usa, anche se non può dirlo apertamente, come quella nazione che ha tentato di mettere mano all’America Latina da sempre, specialmente a partire dalla fine dell’800 in poi; quella di Bergoglio è una geo-politica non politica, nel senso che con i precedenti papi, e specialmente con Giovanni Paolo II, si capiva esattamente da che parte stava la Chiesa cattolica, papa Francesco al contrario ha una visione molto meno geografica e più incentrata sul modello economico-sociale contemporaneo, quindi è una geopolitica che non dà grande peso agli Stati uniti o in generale a dove sta il potere. Papa Francesco è un radicale, certe volte con toni populistici, quindi è chiarissimo il suo tentativo di spostare il centro fuori dall’Europa, fuori dal nord-America, senza però metterlo da qualche altra parte, nel senso che la sua visione del mondo, della storia e della Chiesa non è una questione di alleanze, il suo non è un cattolicesimo “strategico”. E’ ancora un po’ presto per dirlo, ma io credo che il tempo ci confermerà questa sua attitudine e il mondo se ne sta accorgendo, anche gli Usa.

In un certo senso si può dire quindi che il suo cattolicesimo sia in linea con la globalizzazione?
Sì, ma nel senso che papa Bergoglio parla a nome dei perdenti della globalizzazione. La frase che lui ha coniato, “la globalizzazione dell’indifferenza”, viene da un vissuto passato affianco ai perdenti, soprattutto da quando, come vescovo di Buenos Aires, ha toccato con mano l’impatto della crisi finanziaria globale del 2001, e questo ha sicuramente plasmato la sua visione politica delle cose. Questo vissuto particolarissimo lo induce ad avere anche certi exploit, come invitare Abu Mazen e Peres, i due presidenti di Palestina e Israele, in Vaticano, che è una chiara denuncia dell’incapacità o della mancanza di volontà degli Usa di fare qualche cosa per la pace tra Israele e Palestina. Bergoglio, dunque, ha una sua visione politica che presenta però ancora diverse incognite per gli Usa e per l’Europa, è difficile averne una misura perché molto imprevedibile. Perché andare in Albania, per esempio? Non ci sono cattolici, è un Paese povero, non fa parte dell’Unione europea. Le motivazioni sono diverse da quelle di una geopolitica classica.

Facciamo un salto nel locale: Ferrara, con il nuovo vescovo Mons. Luigi Negri, come si sta ponendo secondo te in questo contesto di forte transizione?
Devo premettere, onestamente, che io non conosco bene cosa succede nella realtà locale ferrarese. Posso dire che Ferrara, come altre diocesi, è un buon esempio della difficoltà dei vescovi italiani di far proprio il cambiamento messo in opera da papa Francesco. Difficoltà che emerge anche negli Usa, peraltro. Ci sono vescovi che sono stati nominati per seguire certe parole d’ordine del periodo Wojtyla-Ratzinger, che negli ultimi trentacinque anni non erano essenzialmente mai cambiate. Stanno cambiando ora con Bergoglio. Molti vescovi italiani erano stati nominati sulla base di un messaggio ideologico, di un conservatorismo sociale e politico, di alleanze politiche-ecclesiali molto chiare. Credo che il caso di Ferrara sia un caso abbastanza tipico nel panorama italiano. Più tipico ancora è che certi vescovi vengano mandati in una diocesi non per quello di cui ha bisogno quella diocesi, ma perché certi ecclesiastici hanno “bisogno” di diventare vescovi. Spostare vescovi da San Marino a Ferrara o da Genova a Milano o da Venezia a Milano, ha un significato solamente burocratico e carrieristico; di teologico o programmatico non c’è nulla. Ma questo, purtroppo, lo sanno tutti. Certo è che questa transizione, per i vescovi nominati nei trentacinque anni precedenti all’elezione di Bergoglio, risulta particolarmente difficile per certi episcopati, come quello italiano e quello americano.

Ancora a proposito di geopolitica del cattolicesimo, mi è molto piaciuto il parallelismo che fai tra Giovanni Paolo II che aveva davanti a sé il Muro di Berlino, mentre papa Francesco ha il muro del confine tra Usa e Messico, ossia tra Usa e il resto delle Americhe. Spiegaci meglio i termini della questione e quali i nodi più spinosi a riguardo…
Non è ancora chiaro se il papa andrà negli Usa nel 2015 ma, in ogni caso, il confine tra Messico e Usa per papa Francesco è come Lampedusa, come l’Albania, sono luoghi cruciali. Se per Giovanni Paolo II l’asse del mondo era est-ovest (il Muro di Berlino, il blocco comunista, eccetera), per Francesco è l’asse nord-sud. Il nord-sud è l’asse di questo pontificato. Lui ha ben presente il fatto che se il mondo della globalizzazione ha risolto in qualche modo la spaccatura est-ovest, ha però reso più acuta quella nord-sud. Questo anche dal punto di vista del cattolicesimo, nel senso che il sud del mondo ne è il serbatoio: nell’emisfero nord il cattolicesimo è demograficamente esausto, il futuro sta a sud. Dal mio punto di vista privilegiato di cittadino italiano e presto anche statunitense, vedo che l’unica possibilità futura per il cattolicesimo nordamericano, dal punto di vista sociale e demografico, è l’influsso dal sud. Ma il papa non ne fa solo una questione di numeri, la sua è una visione economico-sociale, che si vuole concentrare dove si trovano le diseguaglianze, e lui sa benissimo che nell’era della globalizzazione il sud del mondo è stato più usato che valorizzato.

Nel definire Bergoglio non hai dubbi, dici che è un “cattolico-sociale”, portatore di un cristianesimo pro-life, e cito, “che non si accontenta di denunciare la mentalità abortista, ma include il discorso pro-life in un quadro di dottrina sociale cristiana sul lavoro, la salute, la giustizia sociale”. Ma dici anche che papa Francesco “non è liberal” e nemmeno liberale. Spiegaci meglio…

Liberal nel vocabolario anglosassone è qualcuno che è a favore delle libertà individuali, in senso progressista. In italiano, l’aggettivo liberale qualifica invece gli orientamenti individuali o di un partito relativamente alla politica economica, in sostanza oggi si può tradurre “meno Stato e più mercato”. In questo senso, papa Francesco non è né liberal né liberale. Non è un liberale perché non crede che ci voglia più mercato e meno Stato, anzi ha sempre detto che ci sono alcuni ambiti per i quali lo Stato deve fare qualcosa: scuola, sanità, assistenza, politiche economiche ecc. Lui non è come papa Benedetto che in sostanza diceva: essendo lo Stato uno stato laico, è meglio che si limiti a dare i soldi alle scuole private. Francesco non è neanche un liberal perché, nella sua accezione ideal-tipica, il liberal è uno che dice che il bene comune è la somma delle libertà individuali, e che questa sommatoria porta ad una società migliore. Papa Francesco dice, invece, che le libertà individuali sono secondarie rispetto al bene comune. Lui è decisamente anti-liberale e anti-liberal. Ma mentre il suo non essere liberale in economia è stato percepito, il suo non essere liberal ancora no, nel senso che ci si illude ancora che sia un papa liberal-progressista. Francesco è un progressista, ma non nel senso liberal – e qui le sue radici latinoamericane nell’Argentina di Peron sono molto importanti. L’articolo relativo a queste questioni, che ho riportato nel libro “Papa Francesco e la chiesa-mondo”, lo scrissi sei-sette ore dopo l’elezione e lo riscriverei tale e quale, perché Bergoglio è stato molto fedele alla sua visione, anzi più parla e più ne dà conferma.

A conclusione del tuo libro, sostieni che con l’elezione di papa Francesco la Chiesa cattolica mostra la capacità di saper governare e riformare, dopo trentacinque anni in cui entrambi i predecessori hanno fatto poco dell’una e dell’altra cosa. Spostando decisamente l’asse del discorso e passando alla politica italiana, ti sentiresti di dire la stessa cosa di Renzi e del Pd?
Sì, Bergoglio sa che la Chiesa deve governare e riformarsi, e lui ha già cominciato ma ovviamente è ancora troppo presto per capire quanto e come potrà farlo. Secondo me si capirà qualcosa in quella essenziale finestra di tempo che va dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015, ossia nell’anno in mezzo ai due prossimi sinodi dei vescovi. Quello sarà l’anno cruciale in cui si capirà se papa Francesco è isolato o se ha un seguito. Su Renzi e il Pd non ne so abbastanza, ma personalmente mi sento lontano dalla cultura di cui Matteo Renzi è portatore. Posso dire però che il fenomeno Renzi, secondo me, non ha niente a che fare con il fenomeno Bergoglio, se non per una certa voglia di novità. Renzi come cattolico mi ricorda moltissimo quello che fece più cinquant’anni fa John Kennedy: “Io sono cattolico ma il mio cattolicesimo non ha alcun influsso sulla mia politica”. Renzi non è un politico cattolico, ma è un cattolico che fa il politico. Forse è ciò che in questo momento deve fare, ma non è per nulla l’erede di De Gasperi o di Andreotti o di Dossetti. Lui fa un uso spregiudicato e allo stesso tempo accorto del suo essere cattolico: ma per capire il fenomeno Renzi, il suo cattolicesimo non serve a molto.

Torniamo a Massimo Faggioli, al tuo mestiere di studioso, ricercatore e commentatore dello stato della Chiesa cattolica. Spesso scrivere in un’altra lingua e in luoghi diversi dal consueto aiuta a vedere meglio e ad essere più distaccati: scrivere di papi ti viene meglio a Roma, a Ferrara o a Minneapolis?
Dagli Stati uniti si vedono dell’Europa cose che è difficile vedere da qui, e viceversa. In generale la cosa di cui io sono sempre più scioccato è quanto poco si riesca a trasmettere e comprendere da un continente all’altro: cose che riguardano la Chiesa, ma anche fenomeni culturali più generali – aldilà delle notizie di Hollywood e sullo sport. Secondo me sono due mondi che, nonostante la capacità di internet e dei nuovi strumenti di comunicazione, purtroppo si parlano sempre di meno, e nell’ambito della Chiesa questo è molto evidente. Questa, d’altro canto, è stata una delle mie fortune professionali, che non mi aspettavo affatto, perché io sono uno che riesce a parlare a entrambi i mondi, cercando di tradurre e trasportare in Italia questioni americane, e negli Usa profili di teologi europei eccellenti, per esempio, di cui là nessuno ha mai sentito parlare.  Dove mi viene meglio scrivere? Dipende molto dalle occasioni, ma scrivo anche in aereo. A questo proposito c’è anche un detto, che “gli emigrati si sentono veramente a casa solo in aereo”. Credo che sia vero.

Tu ti traduci?

No, è una cosa che evito di fare, perché se uno traduce i propri scritti in un’altra lingua, ripensa e riscrive in modo parzialmente diverso ciò che aveva scritto. Questo mio ultimo libro su papa Francesco, per esempio, verrà pubblicato in Inglese a inizio 2015 ma viene tradotto da altri. La stessa cosa è successa per i due miei precedenti libri scritti in Inglese e tradotti in italiano: se li avessi tradotti io, sarebbe venuta fuori una cosa abbastanza diversa dall’originale, e questo non è corretto nei confronti dei lettori.

In Italia scrivi per “Europa” e “Huffington post”, negli Stati Uniti per quali riviste?
Scrivo per “America”, il settimanale dei gesuiti americani, che ha pubblicato la famosa intervista a papa Francesco del settembre scorso, di cui io sono stato uno dei traduttori, e poi per “Commonweal”, la rivista dell’intelligentsia cattolica liberal americana, entrambe riviste newyorkesi. Loro mi cercano perché, come dicevo prima, hanno molta poca conoscenza del mondo italiano ed europeo in generale, e quindi hanno bisogno di uno che, anche se non scrive sempre direttamente, però dia delle informazioni su ciò che succede in Europa e che è di importanza decisiva anche per gli americani.

Nel ringraziarti moltissimo per questo incontro con i lettori di Ferraraitalia, una domanda confidenziale che solo la conterraneità può giustificare: che libri legge d’estate in vacanza un vaticanista ferrarese che vive negli Usa?
Quest’estate solo cose pubblicate da Adelphi, per reazione, perché una casa editrice come quella non esiste negli Stati Uniti. La cultura americana è spietatamente pragmatica, mentre la casa editrice Adelphi fin dalle origini si è prefissata di pubblicare cose che non sono pragmatiche per niente.

Ali e la moschea

Da MOSCA – Sono nel taxi, immersa nel traffico moscovita, un mese di giugno ancora freddo ma tanta gente per le strade. C’è chi si copre il viso per il vento che soffia costante e imperterrito, chi tira su il cappuccio dell’impermeabile appiccicato, infastidito da una pioggerellina leggera che spazza via maquillage, rossetti e pettinature appena fatte.
Sono al semaforo e guardo fuori dal finestrino di un’automobile che fa lo slalom fra le pozzanghere. Percorro la ulitsa Schepkina, ed ecco apparire la grande moschea, ancora in costruzione, quella che diventerà, dicono, la più grande della città di Mosca. Scoprirò poi, che quella storica moschea, costruita nel 1904 e bell’esempio di architettura islamo-tatara, era stata abbattuta nel 2011 per gravi danni strutturali e relativi rischi per le persone che la frequentavano; secondo altri, invece, la moschea non era allineata con la Mecca, diventando, così, un luogo senza valore: era stata, allora, smantellata e deciso un ampliamento sulle stesse fondamenta, quello in corso oggi.
Intanto, sono attratta da un piccolo smile disegnato a inchiostro nero sul muro di fronte, due occhietti e una mezzaluna sorridente.
Strana questa immagine, una mezzaluna che sorride, la bocca di una figurina, e una mezzaluna d’oro che simboleggia l’Islam, svettante proprio di fronte alla moschea. Bizzarro accostamento, casuale ma significativo. Sono sicuramente io a vederci una somiglianza, un qualche legame, ma la cosa mi colpisce e fa volare la mia fantasia.
La moschea è avvolta dalle impalcature, quasi da esse abbracciata, ma fra le maglie serrate del cantiere polveroso vedo aggirarsi, in mezzo ai sacchi di cemento e ai segnali di lavori in corso, un giovane dal capo coperto. La classica barba lunga.
Intorno vi sono banche, uffici, farmacie, negozi di fiori e di produkti (i classici negozi che hanno un po’ di tutto e che in Italia sarebbero tenuti da cinesi o pakistani).
La vita scorre mentre il giovane cammina a capo chino, parlando da solo. Pensoso.
Chiedo al tassista, metà in russo e metà in inglese, se quell’uomo che tanto m’incuriosisce sia un habitué del quartiere.
Il semaforo è sempre rosso, come rossi sanno essere qui; quanto a lunghezza sono imbattibili (le strade sono enormi), ma a me ora va benissimo perché voglio osservare.
Quel ragazzo è Ali, mi dice, vive nel quartiere da qualche anno. Qualcuno dice provenga dall’Algeria, qualcun altro dall’Iraq. Nessuno conosce veramente la sua storia, forse per diffidenza, forse per noncuranza, forse, semplicemente, per difficoltà linguistiche. Si sa solo che Ali, ogni mattina, passa davanti alla moschea, la guarda, la osserva, controlla i lavori e il loro avanzamento, vigila sui risultati. Con accuratezza, attenzione, precisione e… amore. Forse, nel suo paese, ne ha costruite tante, magari era un bravo e solido muratore venuto da lontano. Magari ne ha costruite in pietra, in cemento o ha partecipato alla rivisitazione annuale collettiva di strutture di sabbia, come quelle maliane di Djenne. Chissà. Qualcuno addirittura gli attribuisce un’aura quasi mitologica, dicendo in giro che Ali è il nipote di uno degli architetti della storica moschea, arrivato a vigilare che i colori e le magie di quell’antico edificio restino impressi nell’animo e nello spirito dei nuovi costruttori.
Qualcuno ha fatto caso alla sua costante vigilanza, chi si è insospettito, chi si è allarmato-inquietato-preoccupato, chi ha ignorato, chi ha solo notato che lui misura con gli occhi l’altezza del minareto, ne valuta la distanza dal cielo terso, attentamente. Più la moschea cresce, più Ali sorride, come sorride quel disegno sul muro.
Intanto il semaforo diventa verde ed io saluto con un cenno Ali, che mi sorride a sua volta. Credo abbia capito che ho capito. La mia giornata improvvisamente diventa più piacevole e leggera.
Domani passerò ancora per quella strada e insieme al piccolo tratto disegnato sul muretto valuterò quanto cresce la felicità. Magari lo vedrò mutare, vedrò un sorriso più grande e Ali passeggiare sempre intorno a quelle impalcature, vigilante.
Qualcuno pensa che quando la moschea sarà terminata, Ali andrà altrove.
Passerò di nuovo fra qualche giorno e poi ancora fra qualche mese per vedere come avanzano i lavori.
Sono sicura, anch’io, che quando non vedrò più Ali sarà perché i lavori saranno terminati. Se e quando Dio vorrà.

La sbiciclettata su Roma

Da Ferrara a Roma in bicicletta. Un’esperienza da consigliare. Caldamente, vista la stagione.
Basta avere un po’ di gamba, una buona bici e qualcuno che sappia leggere mappe e carte geografiche.
Non certo come il sottoscritto che per tentare di rimediare alla totale incapacità di individuare i quattro punti cardinali in un tempo ragionevole si è pure iscritto ad un corso Cai e durante la lezione in montagna di orientamento è stato subito apostrofato dall’istruttore, perché stavo guardando la carta delle cime davanti a me a rovescio.
Siamo partiti in sette, i Magnifici sette. Sull’aggettivo è lecito avere qualche dubbio, ma sul numero assicuro che la certezza è apodittica.
Merito dell’organizzatore avere distribuito tappe alla portata di tutti e lungo città e luoghi incantevoli. San Piero in Bagno (che finora credevo fosse un’immagine sacra in intimità), Sansepolcro, Perugia, Todi, Otricoli e Roma.
Un tessuto di centri incredibilmente ricchi di storia e arte, ricamato da un paesaggio – quello umbro e laziale – incantevole.
È l’Italia, che nonostante tutti i lavori pubblici e fuori dalle notizie dei telegiornali è di una bellezza infinita.
Si passa, senza sosta, dalla Risurrezione e dal Polittico della Misericordia di Piero della Francesca a Sansepolcro, passando per Perugia (dove basta una visita agli affreschi di Perugino del Collegio del Cambio per rimanere senza parole), e poi al duomo e alla piazza di Todi, e ancora giù fino alla capitale.
Qui l’imbarazzo della scelta nella città più bella al mondo impone una selezione. E così, da un lato, un tour caravaggesco per San Luigi dei Francesi, Sant’Agostino e Santa Maria del Popolo e, dall’altro, una puntata all’insegna del Romanico a San Giorgio in Velabro e, per finire, a Santa Maria in Trastevere.
Ecco, di fronte ad una magnificenza che leva il respiro, ad una costante del bello che per quel poco di mondo che ho visto non mi pare abbia eguali, almeno in queste proporzioni, chiunque riterrebbe di avere una risorsa in quantità tale che nemmeno gli arabi con tutto il loro petrolio penserebbero così in grande.
E invece.
Per l’intero itinerario, zero, o quasi, piste ciclabili. Per buona parte del viaggio abbiamo percorso la strada provinciale Tiberina (se non ho capito male), che addirittura in alcuni tratti è stata chiusa al transito perché, immagino, non ci sono soldi per la manutenzione. È vero che così diventa una lunga ciclabile in mezzo ad un paesaggio sorprendente, ma è altrettanto vero che la vegetazione si sta impadronendo della strada.
Per chi, poi, ha già fatto in precedenza la Innsbruck Salisburgo sempre su due ruote, ha visto che altrove si favorisce questa forma di turismo con un servizio di trasporto bagagli. Lo paghi, ma c’è. In Italia non sai a chi rivolgerti e quindi ti porti il bagaglio sulle spalle. Dall’inizio alla fine.
Viene facile dire che per chi dovrebbe puntare sul turismo per vincere facile, non pare una strategia di marketing vincente quella della selezione darwiniana del visitatore.
Infatti i non molti ciclisti che si incontrano – sostanzialmente stranieri – sembrano dei Cristoforo Colombo che non sanno bene su che sponda approderanno la sera.
Nella capitale, poi, uno che gira in bici sembra un marziano.
Arrivi alla stazione di Prima Porta per caricare il tuo destriero sul treno, ed evitare la bolgia della tangenziale, e per tutta risposta ti scontri con un categorico “None” del capostazione.
Dopo aver dato fondo inutilmente a tutte le capacità diplomatiche, riprendi in mano la mappa (non io, per carità) e studi un percorso alternativo.
Ho notato che fra controviali, come nel nostro viale Cavour, e marciapiedi larghi da farci un’assemblea di condominio, a occhio e croce non dovrebbe essere una spesa da far sballare il patto di stabilità attrezzare Roma con piste ciclabili. Tante soluzioni sembrerebbero a portata di mano. Basterebbe, credo, tirare una riga di vernice per separare tanti marciapiedi in due: da una parte i pedoni e dall’altra le bici. Così come i controviali (vedi la Nomentana) si potrebbero riservare alle bici, anziché alle auto.
Infine c’è il viaggio di ritorno.
Non c’è un treno che da Roma a Ferrara carichi le due ruote. Perciò occorre prendere solo convogli regionali: Roma-Firenze, Firenze-Prato, Prato-Bologna e Bologna-Ferrara.
Va detto che è encomiabile la disponibilità e cortesia dei capitreno, che spesso si fanno in quattro per far salire velocipedi anche oltre la disponibilità (sono numerosi ormai i pendolari che si portano con sé la bici nei loro spostamenti di lavoro o studio).
Ma chi ha fatto almeno una volta la Dobbiaco Lienz, sa che a fine treno nella stazione della cittadina austriaca c’è un vagone che ne carica un numero esagerato e che nel solo Trentino puoi salire con la tua amica di metallo su qualsiasi treno.
Qualcuno ha detto che il solo mercato tedesco delle due ruote a pedali si aggira sui 3,5 milioni di turisti.
Come si fa a continuare a sfornare spot in cui fior di attori e star dello schermo ti dicono con fare suadente, come se dovessi andare a letto con Pamela Anderson: “Vieni nelle Marche”, piuttosto che in qualunque altra regione italiana (le immagini incantevoli non mancano e i fotografi fanno oggettivamente poca fatica), se poi una volta varcato il confine pare ci sia una gara a inscenare il peggior ufficio complicazioni affari semplici?

Nove mesi di attesa. E la borsa di studio diventa un miraggio per settemila studenti

di Emiliano Trovati

Sostenere economicamente gli studenti meritevoli, attraverso la messa al bando di borse di studio. L’Inpdap da anni, con il progetto #Homo Sapiens Sapiens, finanzia il percorso formativo di migliaia di giovani, rispondendo in maniera lodevole al precetto costituzionale “l’istruzione superiore deve essere accessibile sulle basi del merito”. Un’attività però, che, nonostante venga garantita in anni difficili, sconta il peso della macchina burocratica pubblica, abbandonando i beneficiari nel purgatorio delle borse di studio.

Sette mila sussidi per lo studio, una grossa opportunità offerta dall’Inpdap – oggi integrata nell’Inps – per altrettanti studenti universitari, masterizzandi, dottorandi e tirocinanti, figli di ex dipendenti pubblici oramai in pensione, che ne facciano richiesta. Si chiama #Homo_Sapiens_Sapiens ed è una delle iniziative welfare dell’ente di previdenza, per incentivare lo studio e la ricerca italiani. Il progetto esiste da diversi anni e anche se non ha mai brillato per velocità di lavorazione delle pratiche e liquidazione delle borse ai vincitori, quest’anno, a detta di molti studenti, che ne hanno fatto domanda, l’attesa è stata un vero e proprio “purgatorio”.
Sono passati oltre nove mesi dalla pubblicazione del bando sul sito dell’Inps – era il 21 ottobre scorso – ma a tutt’oggi le borse non sono ancora state pagate. Questa lunga attesa, fatta di graduatorie pubblicate in ritardo e richieste di documenti aggiuntivi da consegnare, si è nutrita per tutto questo tempo della speranza dei ragazzi ed è stata aggravata poi dalla scarsa informazione della pubblica amministrazione.
In questa storia sono due gli aspetti che catturano l’attenzione: la mancanza del principio di ‘giusta attesa’, quando a dover pagare è il pubblico, e la difficoltà dei beneficiari di ottenere informazioni chiare e puntuali riguardo l’iter della propria richiesta.
Parlando con alcuni dei protagonisti, quello che emerge è l’impotenza del singolo di fronte all’ente pubblico, come un novello Davide che, solo e senza alcuna speranza di riuscita, deve affrontare le lungaggini di un Golia troppo potente che lo sovrasta. Questa condizione è espressa in maniera lucida dall’esperienza di Lorenzo, trentenne della provincia di Bologna, che proprio quel 21 novembre ha fatto richiesta di borsa di studio per svolgere un tirocinio, in una importante impresa locale.
La sua domanda va a buon fine, a marzo escono gli esiti delle graduatorie e Lorenzo ci rientra a pieno, è ottantesimo. Quindi in breve si aspetta di ricevere il suo accredito, necessario per sostentarsi durante il periodo lavorativo che lo attende. Così non è però. Nonostante sia vincitore, infatti, il giovane deve fornire dei documenti aggiuntivi inerenti al suo tirocinio. Per tenersi aggiornato sulla situazione verifica costantemente l’iter della pratica dalla sua pagina personale all’interno del sito dell’Inps, da dove ha fatto domanda di borsa di studio. In una sezione dedicata, chiamata ‘iter personale’, l’ente informa sullo stato dei lavori. Nella sua, come in quella di molti altri, appare la scritta ‘Domanda approvata – attesa documentazione’. Nel frattempo si fa aprile e Lorenzo, come altri, si procura i documenti necessari da consegnare all’ufficio di competenza per territorio, quello di Bologna, in via Gramsci. Da allora, della documentazione consegnata, della borsa di studio e dei tempi per ottenerla, non se ne sa più nulla. Come lui stesso racconta: “Ho consegnato i miei documenti ad aprile, ancora prima che mi venissero richiesti per mail, non appena all’interno della mia pagina personale è apparve la dicitura ‘approvata – attesa documentazione’. Sono andato, ho consegnato i documenti e me li hanno anche protocollati. Da lì, dopo alcuni giorni, non vedendo modifiche, ho iniziato ad inviare alla responsabile dell’ufficio ogni lunedì una mail per avere informazioni. Fino al 3 giugno non ho avuto risposte. In quella data, poi, ho ricevuto una mail dall’ufficio provinciale, diciamo, poco garbata, in cui mi si chiedeva di smettere di continuare a mandare mail, perché intanto la mia pratica era in lavorazione”.
C’è un altro modo, però, per avere informazioni, e Lorenzo prova ripetutamente anche questa strada, chiamare il call center dell’Inps, al numero 06.164.164. Anche qui, però, non ottiene risposte migliori. Nessuno sa dirgli che fine abbia fatto la sua pratica e a che punto della lavorazione si trovi. “ Ho provato a chiamare il centralino – racconta – anche se avendo fatto il centralinista all’università, per pagarmi gli studi, so come funziona, i ragazzi che rispondono non ne sanno più di quelli che li chiamano. E difatti non hanno saputo dirmi nulla di più di quello che potevo vedere io a video all’interno della mia pagina personale: “Approvata – Attesa documentazione”.

Una situazione del tutto simile la vive Antonella, studentessa dell’università di Bologna, che frequenta un master presso la sede distaccata di Modena. La ragazza, a marzo, secondo la graduatoria, risulta vincitrice della borsa, quindi, come le viene chiesto da una mail, fornisce i documenti che attestano la sua frequenza al master. Porta il materiale alla sede Inps di riferimento e attende con calma l’erogazione della borsa. Per controllare l’avanzamento della pratica, si informa giornalmente dalla pagina Facebook ufficiale dell’Inps, all’interno della quale, con cadenza irregolare, l’ente dirama dei post che informano, in maniera generica, sul programma ‘#Homo_Sapiens_Sapiens’. Ogni post pubblicato viene commentato da centinaia di lamentele di giovani in attesa dei propri soldi. Uno di questi mette in allarme la ragazza. Il 10 giugno scorso, sulla pagina Facebook, appare questo comunicato: “#Homo_Sapiens_Sapiens. La procedura di pagamento per le borse di studio Homo Sapiens Sapiens è stata ultimata”. Antonella, entusiasta, controlla immediatamente il proprio conto corrente, accedendo dal sito della sua banca, ma con grande sorpresa scopre di non aver ricevuto nessun accredito del valore della borsa. “Preoccupata – racconta – ho chiamato immediatamente il call center per capire cosa fosse successo. Ho avuto paura di aver sbagliato qualcosa nel presentare i documenti. Ho temuto di aver perso la borsa. Dal centralino, invece, una ragazza evidentemente stressata e dal tono contrariato, mi ha risposto che a loro non risultava conclusa la procedura di pagamento e che sicuramente quel post era frutto della mancanza di senso dell’umorismo di qualcuno dell’ufficio stampa”. Chi sia a gestire il profilo Facebook dell’Inps non si sa, è certo, però, che lo dovrebbe fare diversamente e meglio. D’altronde basta guardare, come detto prima, ai commenti che seguono ogni post pubblicato, per leggere centinaia di imprecazioni, se non del tutto giuste, quasi nessuna sbagliata, fatte da giovani, spazientiti e in cerca di chiarimenti, e indirizzate al mittente.

L’avvocato Bruno Barbieri, presidente del Codacons per la regione Emilia Romagna, esperto di casi affini a questo, facendolo per lavoro, ha condiviso con noi parte della sua conoscenza professionale, dando alcuni consigli su cosa fare in situazioni simili. Sui due aspetti della vicenda (attesa interminabile e mancanza di informazioni chiare), l’avvocato spiega che, per il primo aspetto, c’è solo una cosa da fare. “Sulla tempistica – dice -, per chi non è addetto ai lavori, non la interpreta andando a leggere il bando, perché a volte alcune cose non sono scritte in maniera chiara. In questo caso specifico, non essendo indicate scadenze da rispettare, il beneficiario ben posizionato in graduatoria, che ne avesse l’esigenza, può forzare la mano promuovendo l’art.700 (un procedimento d’urgenza) davanti al Tar, dicendo, guardate a me i soldi servono adesso perché ne ho bisogno per pagare la rata del master per il quale ho fatto richiesta. In questo caso il Tar potrebbe dare ragione ed ordinare alla pubblica amministrazione di pagare subito”. Comunque, il primo passo da compiere per l’avvocato è la diffida, “un atto con cui la persona intima alla controparte, questa volta un ente pubblico, di adempiere ad un fare o dare entro un determinato termine, normalmente 30 giorni. Se questo non viene rispettato si va dal Tar, chiedendo al giudice di imporre, con un atto di autorità, di fare ciò che deve”. Un’ulteriore cosa da fare, secondo Barbieri, per spingere un ente a velocizzare le pratiche, può essere “prima dell’azione giudiziaria, affiancare a questa i mass media che danno forza all’azione, e a volte nel giro di poco si risolve, perché l’Ente non vuol fare brutta figura”. Nell’affrontare un ente pubblico, quindi, conoscere qualcuno a striscia la notizia aiuta.
Per il secondo aspetto, e cioè “sul problema della trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione, così come degli istituti bancari e degli altri soggetti che fanno attività di pubblica utilità, va detto che l’operato di questo dovrebbe essere trasparente sin dall’inizio. Quando uno vede il bando, dovrebbero essere previste quante più possibili situazioni che si possono verificare in modo classico nello sviluppo della vita dello stesso. Se così non è, appunto, la bontà della pubblica amministrazione, piuttosto che una fondazione, si vede proprio dalla capacità di rispondere in maniera chiara alle domande degli utenti”. Anche in questo caso, però, l’utente ha le mani legate. “Essendo, gli enti pubblici, – conclude Barbieri – soggetti diretti da persone messe lì da politici, per legge, l’unico strumento che si ha, oltre l’autorità giudiziaria, è di dare un giudizio all’atto dell’esercizio del diritto di voto”.

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Cultura, plurale rivoluzionario. In un film l’utopia possibile di Stefano Tassinari

di Silvia De Santis

Tass – Storia di Stefano Tassinari”, il film del regista Stefano Massari che racconta la vita di Stefano Tassinari, è stato presentato nei giorni scorsi in anteprima Bologna al Biografilm festival. E’ il solido ritratto di un uomo eclettico, scrittore, giornalista e attivista politico. Cinquanta voci (tra cui Marcello Fois, Carlo Lucarelli e Fausto Bertinotti) raccontano in un’opera corale l’intellettuale-militante ferrarese scomparso due anni fa, che ha fondato “Letteraria” e l’“Associazione degli scrittori” bolognesi.

Un eretico senza scisma, un uomo che“pur schierato da una parte, pur aderendo a una fede, quella comunista, conservava la propria libertà” lo definisce Fausto Bertinotti. Per altri, “un corteggiatore instancabile” sempre intento a tessere reti di persone, “un trascinatore con le parole e con l’esempio”.
In “Tass – Storia di Stefano Tassinari” (regia di Stefano Massari, fresco di montaggio) cinquanta voci raccontano questo peculiare scrittore-giornalista-attivista politico di Ferrara, moderno prototipo dell’“intellettuale organico gramsciano”, che ha tracciato un solco profondo nella storia culturale bolognese. Ricercatore insaziabile di nuove forme, inventore di originali percorsi comunicativi, Tassinari ha dato vita all’“Associazione degli scrittori”, per far sì che anche letterati e uomini di cultura tornassero ad assolvere ai propri doveri nei confronti della collettività e si riappropriassero della loro intrinseca funzione sociale.
In un documentario-fiume di centotrenta minuti, il regista Stefano Massari ricostruisce per tappe la biografia di un autore poliedrico che fu narratore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, militante politico. Scrutando nel suo passato si torna indietro nel tempo a Ferrara, dove Stefano era nato da una famiglia piccolo borghese. Si va poi a Roma, nella casa di via Marchetti, durante i suoi anni universitari, quando la “luce ribelle nello sguardo” si era fatta azione politica. Poi i viaggi: il primo, di “formazione”, nel 1981, in Perù per sperimentare il limite tra estremismo di sinistra e terrorismo bombarolo; il secondo tre anni dopo, in Nicaragua, per testimoniare, telecamera alla mano, gli effetti del socialismo tropicale dei sandinisti al governo.
Gli ultimi dodici anni di vita di Tassinari sono quelli più prolifici, in cui diverse forme espressive si intrecciano e sovrappongono, delineando un intellettuale instancabile, “il commissario politico Tassinari”, lo chiama Carlo Lucarelli, con un’incrollabile fede nella coralità.
In un’intervista a La Stefani, Stefano Massari racconta il suo film, presentato in anteprima alla rassegna cinematografica Biografilm Festival a Bologna .

Conoscevi personalmente Stefano?
Ho conosciuto Stefano nel 1996 quando, per motivi di lavoro, mi sono trasferito da Roma a Bologna. Essendomi sempre interessato di letteratura e scrittura militante non ho potuto non incontrare Stefano, sopratutto in quelli che erano anni caldi per la città. Ma non frequentavamo le stesse cerchie. Lui era uno scrittore, io un poeta, bazzicavo ambienti più laterali, sotterranei, ero amico di Gilberto Centi. Stefano lo incrociavo spesso alle presentazioni di libri ma non conoscendolo avevo un’opinione errata sul suo conto: complice, forse, la mia natura ostinatamente anarchica, credevo fosse un uomo dell’apparato, una specie di accademico non accademico, un embedded. Mi sbagliavo completamente.

Quando hai cambiato idea?
Ci siamo avvicinati sopratutto negli ultimi anni, quando per vicissitudini familiari sono andato a vivere fuori Bologna e con la mia attuale compagna abbiamo aperto una libreria indipendente. Organizzavamo attività culturali, presentazioni di libri, rassegne di autori e Tassinari era sempre lì, in prima linea, per forza. Così, col tempo, siamo diventati molto amici. Abbiamo anche lavorato insieme: abbiamo condotto un paio di puntate di “Passioni”, la versione radiofonica di “Raccontando”, uno spettacolo che Stefano teneva a teatro, in cui di volta in volta sceglieva un autore e lo approfondiva.
L’ultima puntata andò in onda su Farheneit due giorni dopo la sua morte, l’avevamo registrata un mese prima. Nonostante la malattia Stefano lavorò fino all’ultimo e intensamente. Probabilmente i problemi di salute intensificarono direzioni che in fondo erano già state prese: Stefano era abituato a “mettere tanta carne al fuoco”, ad avviare continuamente progetti, era difficile stargli dietro, andava a un passo che non era comune. Già da malato, quando usciva un suo libro, faceva novanta presentazioni che per lui non erano un’occasione di marketing, ma un pretesto per entrare nel dettaglio delle storie, raccontarsi. Non ha mai mollato un secondo. Il suo è stato un percorso interrotto solo dalla malattia.

L’Associazione degli Scrittori è uno dei progetti spezzati?
L’Associazione degli Scrittori era un progetto di ampio respiro e di larghe prospettive che, nelle intenzioni di Stefano, avrebbe fatto di Bologna la capitale della scrittura, pur mancando un editore di riferimento. Era l’incarnazione ideale di quella che secondo lui era la missione dello scrittore: esercitare una critica nei confronti della società, mettere a disposizione il proprio sguardo, pensiero e posizione per creare una possibilità di dialogo con chi non è solo il proprio pubblico, ma potenzialmente anche un popolo. Oggi abbiamo sempre più spesso presunti intellettuali che si collocano in nicchie di mercato e elogiano qualunque cosa convenga loro, sempre confinati all’interno di un certo specialismo. Proprio contro questa visione si batteva Stefano, che voleva far uscire ciascuno dal proprio guscio e spingeva persone profondamente diverse, con forme e stili molto lontani tra di loro, ad aggregarsi, a fare rete (di cui l’idea della Casa degli scrittori è un esempio). Diceva Tass: “Non potete solo fare i divi crogiolandovi nei vostri successi, avete una responsabilità sociale”. Lui che aveva un rispetto e un amore estremo per la differenza, ha sempre spinto verso la dimensione del noi.
Per dirla con le parole di Lucarelli, l’Associazione oggi è “in stato di sonno”, non è un progetto finito. Probabilmente la sua incarnazione principale è ‘Letteraria’, la rivista che Stefano aveva messo in piedi.

Cosa ti ha lasciato in eredità Tass?
Una delle cose che ho imparato da lui è stata la capacità di mettere insieme le intelligenze per affrontare problematiche anche di tipo sociale e politico. E poi il senso del noi: ha sempre cercato di tenere viva la dimensione collettiva, senza farne un’idolatria nostalgica né trasformandola in personalismo, ma tenendola come stimolo alto del suo fare. Ha sempre cercato di avere un ruolo di ponte: tenere insieme l’io e il noi. Una scelta che ha scontato anche dal punto di vista del riconoscimento culturale perché era uno che non si piegava: mediava, ma fin dove poteva, una figura poco italiana da questo punto di vista. volutamente non era una persona scomoda: aveva le idee molte chiare, con un rispetto e una curiosità estrema verso tutto, ed era un perfezionista. Io stesso sono stato “vittima” di un paio d’ore di meticolosa spiegazione matematica sulla roulette – un suo piccolo vizio.
Negli anni ho scoperto quanto mi abbia influenzato il suo modo di fare progettazione culturale. Con Stefano condividevo la determinazione – autolesionistica quasi – di tentare di incidere sempre, di dire qualcosa di importante, di lasciare un segno, oltre alla voglia di sperimentare sempre nuove forme espressive. Io ho sempre lavorato con i video, i suoni, cercando un percorso di disciplina e di rigore con ognuna delle forme che esploravo e che tentavo di far interagire. Lui, questo, lo apprezzava molto.

Qual è il ritratto di Stefano che viene fuori dal film?
Non lo so ancora, perché ho finito di montare il documentario il giorno prima della proiezione. La versione tagliata dura due ore e dieci: è un kolossal dei documentari che sicuramente tradisce la brevità televisiva, ma questa volta mi sono messo interamente a servizio della storia, impossibile da contenere in qualsiasi formato precotto.
Non avevo una sceneggiatura o una traccia definita perché per me la storia di Stefano è stata una scoperta, soprattutto il suo passato ferrarese, poco conosciuto ma fondamentale per capire tutta la sua biografia. In questo lavoro si sollecita l’uso della memoria per accenni, ma l’intento non è nostalgico né celebrativo, mira piuttosto a offrire una comprensione del presente. Volevo far prendere coscienza che certi valori e motivi sono ancora attualissimi e possono essere strumenti culturali da impiegare nel nostro tempo. Tassinari ha sempre incarnato un’altra possibilità e nel film ho cercato di dare conto soprattutto di questo: che il suo progettare era possibile, che esistono opportunità alternative al personalismo e al divismo, malattie odierne di quasi tutti i mondi creativi.

Come hai organizzato il lavoro?
Nella realizzazione del video mi ha molto aiutato Stefania, la moglie di Stefano. Il primo elenco di persone che avevo deciso di intervistare contava novantatre nomi. In un primo momento l’ho ridotto a trentacinque, per poi tornare a cinquanta, agli amici veri, quelli più stretti. Nel documentario ho usato spudoratamente tutte le testimonianze, senza gerarchie. Di protagonisti ce n’è solo uno: Stefano e la sua storia.
Il documentario per me è uno strumento di ascolto, ricerca, studio, mentre la scrittura è il luogo in cui ricordo, tento di ridare forma a qualcosa che ho vissuto per restituirla e metterla in contatto col mondo e col destino. Ho lavorato a questo video con la sensazione di un senso di perdita che mano a mano si manifestava accanto a me. Mi sono ripetuto: “Abbiamo perso qualcosa di grosso”, che a volte abbiamo anche fatto fatica a capire.

Nel film, il pittore Concetto Pozzati dice: “Senza Stefano non è una voce in meno, è la voce che manca”. La voce di una persona che, in nome di una ideale in cui credeva, ha messo insieme tutti coloro che condividevano quel progetto di trasformazione affinché le loro voci unite diventassero un grido di rivolta e l’annuncio di un mondo possibile.

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Professione blogger: tutti i segreti del mestiere

di Alice Magnani

Parlano di moda, cinema, design, enogastronomia e sono le più frizzanti del momento. Stiamo parlando delle blogger, ragazze che trovano nel web un modo per condividere le loro passioni o per trovarne sempre di nuove. Ne abbiamo intervistate tre per capire come funziona il loro mondo, la ‘dimensione blog’, da molti conosciuta ed esaltata e da qualcuno criticata. Ma partiamo dai fondamentali. Che cos’è un blog? La parola blog è costruita sui termini web-log che indicano un vero e proprio ‘diario in rete’, un particolare tipo di sito web in cui i contenuti sono visualizzati in forma cronologica. Un blog può essere gestito da uno o più blogger che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, molto simile all’articolo giornalistico.

“Con il mio blog riesco a far vivere tutte le mie passioni, mi ha fatto capire che tutto è raggiungibile” così Maria Andreucci ci racconta il suo blog, la sua avventura, “Italian cooking adventure”, iniziata quasi per caso nel 2010. Il pranzo domenicale in famiglia preparato con cura, la produzione del pane che inizia nel cuore della notte, l’asta del pesce, o ancora i curiosi personaggi dell’ex mercato coperto di Cesena, la sua città: queste le storie che la affascinavano e che decide di condividere nel web. Dunque, non solo cibo nel suo blog, ma vere e proprie storie legate ai personaggi che ci ruotano attorno, alla convivialità, e al territorio. “Racconto l’Italia tramite la lente del cibo” dice Maria, spiegando che la creazione del suo blog non è stata altro che una scusa per approfondire ciò che più le piace. Ad ispirarla i blog americani, che le hanno fatto capire il ruolo fondamentale della fotografia per raccontare un Paese, le sue storie e le sue curiosità. Poi Maria parte per Londra, un’esperienza unica per studiare l’altra sua grande passione: il cinema. Ed è proprio a Londra che capisce quanto gli stranieri per primi amino l’Italia e la sua gastronomia, e le possibilità che il suo blog può offrirle: inizia a tradurlo in inglese e il numero dei visitatori cresce; oggi è seguita da Regno Unito, Usa, Danimarca, Svezia, Norvegia e Giappone. “All’estero non esiste il concetto di famiglia riunita a tavola come c’è da noi, è per questo che quando parli di Italia ti si aprono tutte le porte. Non a caso, i maggiori imperi economici che parlano di cucina italiana si trovano all’estero” spiega Maria, che ci tiene a sottolineare come “il mio blog non è un ricettario, ma un panorama di avventure gastronomiche: ristoranti, cultura gastronomica popolare e tutto quello che c’è dietro il cibo”. “Un altro elemento da cui i lettori stranieri sono affascinati è il rapporto diretto con il produttore, che loro spesso non hanno- ci dice Maria- ma questo non significa che in Italia il mio blog non sia letto, perché anche gli italiani hanno iniziato a capire il valore che abbiamo a disposizione e a manifestare un po’ di sano orgoglio”. Al momento Italian cooking adventure riceve circa 200 visite al giorno facendosi conoscere in tutto il mondo, anche grazie alla diffusione nei social network come Facebook ed Instagram.
Ma qual è il ricavo economico dietro al blog?
“Per poter guadagnare tramite il blog sono entrata nei backstage dei ristoranti, ho studiato la preparazione dei menù, seguito il processo di preparazione dei prodotti delle singole aziende, fatto tour alla scoperta delle eccellenze del territorio. Ma il blog è stato, soprattutto, anche un punto di partenza per farmi conoscere e ha fatto si che io possa portare avanti collaborazioni di tipo continuative”.

Un caso da imitare quello di Maria, che tramite lo studio autonomo di saggi e riviste sull’enogastronomia e tanta voglia di imparare, è arrivata a collaborare con i migliori cuochi e a partecipare agli eventi icona del settore come la fiera ‘Cibus International Food Exhibition’ di Parma, ‘Identità golose’ a Milano o ancora il ‘Festival del cinema’ di Venezia per far conoscere l’Italia tramite “la lente del cibo”.

 

Un’altra storia quella di Valentina Veneziano che, con i suoi blog “Cabinarmadio” e “Valinapostit” , riesce a far convivere le sue più grandi passioni: moda, arredamento, decorazioni fai-da-te e ancora il cinema. Quando le chiediamo che cosa significa per lei il suo blog ci risponde “è come un magnifico quadro in una stanza semivuota, è ciò che mi dona il sorriso ogni giorno!”. Un entusiasmo tipico, il suo, delle persone che vivono coltivando i loro interessi e che non si annoiano mai. Valentina apre il suo blog “Cabinarmadio” nel 2012, dopo aver vinto il concorso come style blogger organizzato dalla rivista “Style.it”. Suggerimenti sui film da vedere nel tempo libero, proposte di outfit ispirati alle stagioni o alle tendenze, idee per regali, home-decor, profili Istagram da seguire: è questo ciò che Valentina ama condividere con le sue lettrici. “In Cabinarmadio mescolo quello che piace a me per prima e quello che credo possa piacere alle lettrici, i miei post non sono strettamente legati a ciò che va di moda – ci spiega Valentina, che sul blog si firma come ‘Valentinautoironica’ -, visto che cerco di non prendermi mai troppo sul serio”. Valinapostit, l’altro blog di Valentina, è invece più personale, con una grafica e colori scelti da lei. “Aprilo è stata una scelta personale, per poter scrivere tutto quello che voglio, è il mio grande esperimento personale” ci spiega. Un esperimento che osiamo definire vasto, vista la suddivisione in cinque tematiche, in cui Valentina condivide con i lettori pareri di moda, racconti dalla sua vita privata, testimonianze di viaggi, suggerimenti per la casa e di profili Instagram di tendenza. A leggerlo sembra di essere trascinati dentro al suo diario personale, come quello che alle adolescenti piace tanto scrivere, riempire di pensieri o scarabocchiare. Una grande passione per il british e per tutto ciò che è creativo caratterizza Valentina, che è sempre stata attirata dai blog stranieri di cucina, arredamento, mondo della moda, e da cui ha capito che le foto hanno un ruolo fondamentale per attirare e far partecipare il lettore. Il rapporto con i lettori è fondamentale infatti per crescere, per ispirarsi o ancora per essere criticati perché, soprattutto in fatto di moda, “è normale che non la pensiamo tutti allo stesso modo” spiega Valentina. E aggiunge ”E’ molto gratificante vedere come alcune persone ti seguano assiduamente e lo dimostrino tramite i commenti. Cerco sempre di rispondere a tutti, anche solo per avere un riscontro”. Un vero e proprio lavoro quello di una blogger, perché, oltre a rispondere ai commenti, bisogna sapere mantenere una certa frequenza nello scrivere i post. “Scrivere almeno una volta a settimana è d’obbligo, ma se ti piace quello che fai, viene naturale” ci dice Valentina. Per scrivere in un blog poi, come in tutti i mestieri, il tempo è maestro. È con il passare del tempo, infatti, che si impara il confronto con gli altri blogger, si prende ispirazione e si capisce cosa attrae di più i lettori, oltre a gestire argomenti fra loro diversi.

Ma quanto è alto il ricavo economico dietro il blog?
Valentina ci spiega come il suo blog non le dia un vero e proprio ricavo economico, quanto sia piuttosto un trampolino per farsi conoscere, per far vedere come scrive e per attivare collaborazioni con altre testate. “Gli unici ricavi economici che ottengo tramite il blog dipendono dai programmi di affiliazione con le case produttrici: se aumentano gli acquisti di un prodotto che pubblico sul mio blog, allora ottengo una minima percentuale della vendita. Ma per poter guadagnare in questo modo, gli acquisti dovrebbero arrivare a cifre enormi e, del resto, io non ho mai accettato di fare pubblicità in cambio di prodotti gratuiti” ci spiega Valentina.

Finora il blog è stato all’altezza delle tue aspettative?
“Certamente sì, anzi è andato oltre! Mi ha aiutato a migliorare il mio livello di scrittura, facendomi così collaborare con diverse riviste. Poi ho imparato ad usare i programmi di grafica e che cosa vuol dire stare dietro al marketing/digital”. Sono traguardi fai-da-te quelli che ha raggiunto Valentina e che, ogni volta, la rendono orgogliosa del percorso che ha fatto. Prendiamo ispirazione!

 

Dopo aver parlato di cucina e moda, è ora il turno della ‘dimensione casa’, perché di blog ne esistono veramente per tutti i gusti. E ne parliamo scoprendo Maria Vicini, autrice del blog “The Violet Wool”, nato l’11 gennaio 2012. Maria è una giovane blogger che mette tutte le sue energie nella ricerca delle nuove tendenze di interior design e home decor, per poi condividerle sul web. È con una dedica alla nipotina Viola, costante fonte di ispirazione, che nasce il suo blog “The Violet Wool”. “Stavo per trasferirmi a Parigi per studi quando ho saputo del lieto arrivo e, da quel giorno, non ho più smesso di pensare a Viola: è grazie a lei se ho aperto il mio blog e se lo arricchisco ogni giorno coltivando tutte le mie più grandi passioni” ci racconta Maria. Non solo interesse ma anche preparazione dietro il suo blog: Maria ha infatti studiato per due mesi a Londra alla Central Saint Martins College of Arts and Design, imparando i fondamentali di Design Project e Interior Styling. Studi che le hanno fatto capire come il mondo dell’interior fosse la sua più grande passione, che ancora oggi coltiva. Nel suo blog, che riceve dalle 600 alle 1000 visite al giorno, si ritrova tutto ciò che è inerente alla casa: tutorial, decorazioni, esempi di apparecchiature, arredamento. “Il blog richiede grande attenzione, mi impongo di scriverci più volte alla settimana e sono sempre alla ricerca di miglioramenti per la grafica e per la fotografia, che occupa gran parte dello spazio web. Senza dimenticarmi l’interazione con i lettori e l’attività sui social network come Facebook, Instagram e Pinterest, che donano visibilità e diffusione” ci racconta . Quindi un grande impegno dietro e un blog che cambia agli occhi dei lettori, soprattutto da quando Maria è stata scelta come lifestyle blogger dalla rivista “Grazia.it”.
E i guadagni?
Maria ci racconta come i suoi guadagni siano tutti derivanti da collaborazioni attivate tramite il blog, oltre che da collaborazioni esterne. “Il mio blog, oltre ad essere espressione delle mie passioni, si è rivelato un ottimo strumento per farmi conoscere” spiega.

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Il miracolo economico di Trento? Incrociamo le dita…

C’è freschezza e consapevolezza nei discorsi di Renzi, e quel 40% e oltre ne offre un primo riscontro. Sono gli ingredienti necessari per percorrere i sentieri di un nuovo sviluppo e di una nuova crescita per cui l’Italia sembra finalmente pronta… accelerando il passo verso precisi obiettivi, perché il tempo stringe.
Al Festival dell’economia di Trento poche settimane fa il Presidente del consiglio si è soffermato anche sulle questioni dell’impresa e del lavoro oltre che sul quadro d’insieme e ha nuovamente sorpreso tutti, illustrando dettagliatamente i provvedimenti assunti e quelli che a brevissimo presenterà come vere riforme, dando un’immagine di visione, a breve e medio termine, quasi impensabile per la politica italiana.
Quello che ci è parso di rilievo, oltre al pacchetto riforme, sono l’approccio a nuove politiche industriali, a quel manufatturiero che era stato lasciato languire da troppi anni e che San Matteo ha sviolinato citando: Taranto, Piombino, il Sulcis in Sardegna, l’agroalimentare, e si potrebbero aggiungere i turismi con la cultura, i distretti produttivi di nuova generazione, una nuova chimica e l’ambiente, le nanotecnologie, la banda larga, l’artigianato del lusso e l’attenzione ai territori orientati a milieux.
Sappiamo anche, e ci piace qui sottolinearlo, che moltissimo sta nel progetto Europa 2020 con i suoi 180 miliardi di fondi strutturali cofinanziati e i nuovi strumenti attuativi dei Patti di territorio di area vasta.
Patti da articolarsi in patti territoriali di aree vaste da ristrutturare e riorganizzare, dai contratti d’area di settore e di siti produttivi, al rilancio dei distretti ad elevata tecnologia, dalle aree rurali ed ambientali, ma soprattutto, “Patti per lo sviluppo” da affidare ad una concertata ed operativa cabina di regia e con agenzie di sviluppo in grado di individuare gestioni e governance.
Bastano pochi mesi per indirizzare le progettualità e i programmi, capire quali sono i percorsi della globalizzazione, come essere in una Europa integrata, quali produzioni, servizi e catene del valore costruire e poi partire, anche per fasi, non oltre l’anno dall’idea.
Dobbiamo, però, capire da subito che ci saranno resistenze carsiche e blocchi da molti segmenti sociali: dalla stampa al web, ai media, dalle strutture burocratiche della pubblica amministrazione ai nanismi dei piccolissimi numeri dei Comuni, alle tantissime aziende municipali e oltre.
Cosa dire, infine, se non di una ritrovata speranza e un rinnovato impegno per guardare oltre questo ‘900 e, se non bastasse, correre, serve alzare l’asticella, chiamando tutti ad una politica alta e a fare una vera rivoluzione nei comportamenti.
Forse questo nuovo Pd dovrà essere proclamato “santo subito”, certamente in senso laico (anzi sicuramente finché restano ancora alcuni “grumi” da sciogliere e non pochi giapponesi da convertire), se riuscirà a chiudere con il passato presente e se andrà avanti.
Avanti per correre ed ancora correre, può essere la sintesi ultima del nostro ragionamento e lo si spera condivisibile per almeno la stragrande maggioranza degli italiani che il 25 maggio hanno lasciato un segno in profondità.
Incoraggianti sono state anche le missioni in Vietnam e in Cina. Vogliamo pensare che Trento sia stato il buon viatico. Speriamo porti bene.

Aprire l’Italia al mondo
Il chiodo fisso
di un ‘impresario’ padano

“Per me cultura significa creazione di vita”. (Cesare Zavattini)

Senza nessun incarico pubblico, senza sponsor privati, Cesare Zavattini era ossessionato soprattutto da un’idea: aprire nuovamente l’Italia al mondo, soprattutto l’Italia di provincia, dopo i terribili periodi della guerra e del fascismo. Organizzava mostre, scriveva racconti e copioni, fondava periodici dedicati alla cultura, teneva conferenze e sosteneva altri artisti. Sosteneva soprattutto l’ “arte piccola”. Aveva una delle collezioni di quadri più stravaganti del mondo: nessuno dei quadri doveva superare gli 8 per 10 centimetri di grandezza.
Cesare Zavattini, chiamato sempre solo “Za” dai suoi amici, nacque nel 1902 a Luzzara sul Po. Nella sua infanzia emiliana non c’era “neppure l’ombra della cultura”. Esiste un libro di fotografie, ormai leggendario, del fotografo americano Paul Strand, che raccoglie fotografie di Luzzara nei primi anni cinquanta e di cui Zavattini scrisse la prefazione. Il bambino Cesare trascorreva gran parte delle giornate nel bar dei suoi genitori e imparò così, molto presto, come leggere e interpretare i gesti e la mimica dei clienti.
Ed è proprio per questo che i successivi copioni di Zavattini rispecchiano meticolosamente le abitudini quotidiane degli italiani di quel tempo, grazie alla precoce scuola del bar dei suoi genitori. Si trasferì da Luzzara a sei anni. Il suo periodo scolastico lo trascorse a Bergamo. Quando poteva, frequentava sempre, anche lì, i cinema della città. In questo modo diventò molto presto un appassionato. Successivamente visse per poco tempo a Roma e cominciò a interessarsi anche al teatro. Dopo la guerra, i suoi genitori tornarono a Luzzara e, soprattutto a causa delle loro insistenze, il ragazzo si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Parma. Non terminò però mai gli studi. L’amore per le donne, il teatro e soprattutto per il cinema impedirono al giovane Zavattini, pieno di creatività e di idee, di perseguire un corso di studi “per bene”. Film, libri, discorsi, viaggi: era questo che amava e non lo studio sistematico delle leggi o della filosofia. Tra i suoi amici di allora c’erano Giovanni Guareschi e Attilio Bertolucci. Grazie a queste amicizie e al parlare senza fine nei caffè di Parma, a partire da allora Za entrò senza possibilità di scampo nel mondo del teatro, dei giornali e dei libri.
Zavattini è considerato uno dei “padri” di un gruppo di letterati chiamati anche i “matti padani”: Ermanno Cavazzoni, Carlo Lucarelli, Gianni Celati e Luigi Malerba. Il tempo da militare lo trascorse a Firenze, dove conobbe scrittori celebri come Elio Vittorini, Vasco Pratolini e soprattutto Eugenio Montale, durante i regolari incontri nel leggendario Caffè delle giubbe rosse. In quel periodo esplose tutta la creatività di Zavattini. Scriveva per diverse testate, organizzava incontri letterari, fondò nuove riviste culturali e tenne i suoi primi discorsi pubblici.
La grave malattia del padre lo costrinse a tornare a Luzzara all’inizio degli anni Trenta. Doveva occuparsi del bar dei genitori, ma evidentemente non perse troppo tempo, né la voglia di scrivere. La sua prima opera di prosa, Parliamo tanto di me, la scrisse vegliando suo padre sul letto di morte. Trasferitosi successivamente a Milano, Zavattini iniziò a scrivere copioni. Dopo la guerra, la sua collaborazione con Vittorio De Sica divenne l’elemento più significativo per la produzione di film come Ladri di biciclette o Umberto D..
È molto sorprendente la libertà con cui Zavattini poté continuare a scrivere copioni e piccole opere di prosa anche durante il periodo fascista. E quando la censura gli provocava troppi problemi lui si ritirava e si dedicava alla pittura. Dopo la guerra lodò sempre la Resistenza, ma lui stesso probabilmente si impegnò poco nella resistenza attiva.
Dopo la guerra poi la produzione artistica dell’impresa Zavattini iniziò ad andare a pieno ritmo. Pubblicò innumerevoli articoli e libri per bambini; fondò riviste e poi ne sospese le pubblicazioni, allestì piccole mostre con disegni suoi e di altri, promosse incontri di scrittori antifascisti, lanciò iniziative di borse di studio per artisti. Sembrava che nei primi anni del dopoguerra non ci fosse un’iniziativa culturale a cui non partecipasse in un modo o nell’altro anche Za, pieno di vita e di fantasia.
La bottega creativa Zavattini produceva idee senza mai fermarsi e tra queste anche diversi progetti un po’ folli. Ad esempio, istituì rubriche fisse sui giornali in cui degli scrittori avrebbero dovuto raccontare di fittizi “pedinamenti” di loro contemporanei. Oppure, in un altra rubrica, si potevano solo porre delle domande. Secondo Zavattini il giornalismo non era tanto la faticosa ricerca rivolta a una tematica attuale: per lui i giornali erano veri e propri laboratori per fantasie e idee nuove. Amava la polemica pubblica e lui stesso era spesso al centro di controversie intellettuali. I comunisti ad esempio criticavano Umberto D. per il suo tono di generale fatalismo, che non andava per niente d’accordo con l’ideologia di lotta del partito. Il figlio di un “anarchico maestro pasticcere della pianura padana” però non si fece impressionare per niente da queste polemiche, al contrario, lo spronarono ancora di più. Za era dappertutto. Andò a Parigi, in Messico e all’Havana per presentare il cinema italiano. A Roma scrisse il copione del film a puntate Siamo donne, in cui Anna Magnani e Ingrid Bergmann recitavano le parti principali. A Vienna presiedette un incontro internazionale sulla “resistenza antifascista”. A Lugano tenne un discorso sulla relazione tra cinema e televisione. Zavattini sperava in una televisione che facesse da “cavallo di troia” e diffondesse così al grande pubblico l’arte del cinema. Successivamente comparve nuovamente a Bruxelles e a Stoccolma come rappresentante del cinema italiano del dopoguerra. Viaggiò in Spagna, negli Stati Uniti, in Egitto, in Palestina e anche in Germania.
Attorno al 1968, insieme a Michelangelo Antonioni, Ettore Scola e Federico Fellini, in seguito anche con i fratelli Taviani, fondò associazioni di registi al fine di rappresentare più fortemente gli interessi del cinema italiano al pubblico e alla politica. Conobbe l’allora ancora giovane Roberto Benigni e scrisse i suoi primi testi. A Firenze furono esposti i suoi quadri e nella sua città natale, Luzzara, organizzò il Festival del film comico.
A settant’anni disse di non conoscere per niente il concetto di “noia”. Per pensare di smettere di lavorare e di morire gli sarebbe mancato il tempo. Nei suoi ultimi anni di vita si concentrò sempre di più sulla pittura e soprattutto sulla promozione della cosiddetta arte naïf. Alla città di Luzzara donò una biblioteca che porta il suo nome e soprattutto un piccolo museo in cui è esposta principalmente l’ arte naïf italiana.
Muore a Roma il 13 ottobre 1989 e viene sepolto nel cimitero della sua città natia, Luzzara. È però difficile immaginarsi che lì abbia trovato la pace eterna. Per Zavattini, poco fedele alla Chiesa ma fervente cattolico, l’idea di una vita dopo la morte era la soluzione ottimale. In questo modo riusciva a immaginare un luogo in cui realizzare le nuove idee e i nuovi progetti che non fosse riuscito a compiere durante la vita terrestre. Nell’aldilà, in paradiso o all’inferno fa lo stesso, dopo l’arrivo di Zavattini probabilmente è cominciata una nuova vita culturale…

I cavalieri dimezzati
della vecchia scuola

È tempo di esame di Stato e il nostro pensiero è per le ragazze e per i ragazzi che sono impegnati a sostenerne le prove. Sono loro i cavalieri dimezzati che escono dalle nostre scuole, vecchie di oltre un secolo e mezzo, rammendate da improvvisati ministri dell’istruzione. Tutto nel mondo ci dice che è urgente per il nostro Paese aprire il cantiere scuola, con uno sguardo lungo nel tempo.

L’atavica sfiducia dello Stato nei confronti dei suoi ragazzi e dei suoi insegnanti, in sintesi la sfiducia nella sua stessa scuola, fa sì che dopo anni di compiti in classe e di interrogazioni, al termine d’ogni ciclo scolastico, ciascun studente debba nuovamente sostenere compiti e interrogazioni, che per l’occasione si chiamano “esami”, per provare quello che evidentemente non è stato valutato lungo tutto il percorso precedente.
In questo eccesso di zelo, ben venga l’Invalsi, con un’unica prova nazionale che certifichi e renda conto a tutto il paese circa le competenze dei nostri giovani al termine del loro curricolo scolastico.
Non sono capace di celebrare l’esame di “maturità” ora di “stato”, non so quale sia l’accezione peggiore. Non amo i riti di passaggio che considero una esclusiva tribale. Non mi piacciono gli adulti che stabiliscono cosa sia positivo o negativo per i giovani, che sentenziano che mettersi alla prova aiuta a formare alla vita, e che mai sono in grado di porsi dal punto di vista dei giovani, senza sostituirsi a loro, come poi nella vita quotidiana di genitori pare essere più facile. Io ti preparo gli ostacoli e le trappole, ma se poi non ce la fai, non restarci frustrato che lo faccio io per te. Queste le nostre schizofrenie e i nostri scarsi sforzi mentali. Così mentre osanniamo o deprechiamo gli esami di stato a partire dalle nostre memorie biografiche, continuiamo a tenerci la scuola che abbiamo e non siamo in grado di pensare diversamente.
Perché, guai toccare il liceo classico, che è la Scuola, la Tradizione, con il suo Greco e il suo Latino, morti, ma pur sempre formativi. Che ormai a frequentarlo siano poche migliaia di studenti non fa di conto. Come poco importa che noi si sia il paese dei “non portati per la matematica”, l’unico che abbia coniato una simile sindrome demenziale, così gli studenti che escono dalle nostre scuole sono come il cavaliere dimezzato, conoscono forse qualcosa della letteratura italiana, non oltre Ungaretti, si intende, ma certo non sanno trasformare una frazione in un numero decimale.
In tanto l’Ocse ha posto in capo al 70% dei nostri concittadini, compresi tra i diciotto e i sessantacinque anni, un bel cappello d’asino, perché non possiedono le competenze minime per vivere consapevolmente nella società e nel loro ambiente di lavoro.
Per non parlare poi dei giovani che si iscrivono agli istituti professionali e tecnici, non perché vi sia un mercato del lavoro pronto ad assumerli, che non è mai stato così avaro, ma semplicemente perché sono giunti a considerarsi poco adatti agli studi, presumibilmente perché il loro percorso scolastico o non è stato dei più gratificanti o certo non ha promosso, quando non li ha respinti, la fiducia in loro stessi e nelle loro capacità. Le percentuali di crescita delle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali non stanno ad indicare che la scuola ha sposato il mercato del lavoro o viceversa, temo che invece siano la conferma di una scuola che sempre più seleziona a monte, della scuola della mortificazione e dello spreco dei talenti, anziché della loro reale e concreta valorizzazione.
Tutte cose troppo difficili da prendere a mano. Specie perché questi ragazzi, è la vulgata, non si impegnano, non sanno studiare, sono nativi digitali con appendici che smanettano smartphone, iphone, ipod, ipad e tutti i ritrovati dell’itek. Ma se non si impegnano e non sanno studiare chi glielo deve imparare a questo cristo di ragazzi?
Mai pensare, quasi fosse sacrilego, che dalla Legge Casati, istitutiva della scuola pubblica, si è sempre legiferato non certo concependo l’idea di rendere la scuola il luogo in cui si diventa i cittadini della conoscenza, bensì nella considerazione che le alunne e gli alunni di fronte alle grandi narrazioni dello scibile umano altro non possono essere che i diligenti sudditi del sapere confezionato.
Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie, promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro, non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.
Tutti i dati delle indagini internazionali sugli apprendimenti ci suggeriscono l’impellente necessità di replicare una rivoluzione scientifica, che ci porti a superare il dispotismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi, in quanto risorse e non più sudditi delle nostre scuole, in quanto innanzitutto intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare, da condurre fuori dal torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa.
In questo senso, al di là dei proclami politici, è davvero tempo per il nostro Paese di aprire seriamente il cantiere scuola, più riflessione e più operatività che sappiano guardare lontano nel tempo, un cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro il pensiero e la mente di ogni ragazza e di ogni ragazzo, di coinvolgerne e entusiasmarne l’intelligenza, che bandisca ogni merce avariata, fino a segnare il definitivo tramonto dell’omologante, indistinta massa classe.
Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano, che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.

Luci della centrale elettrica sotto le stelle di Ferrara

Con l’estate tornano i concerti sotto le stelle e, tra questi, quello di ‘Le luci della centrale elettrica’, ossia Vasco Brondi. Cresciuto a Ferrara, l’artista torna nella sua città grazie a “Ferrara sotto le stelle”, la rassegna musicale che ha il merito di fare arrivare grandi nomi (come i Simple Minds), ma anche tanti musicisti e cantanti di nicchia, di qualità e non necessariamente da hit parade. E’ questo un po’ il caso del cantante, classe 1984, che ha dato al suo progetto musicale un nome che fa pensare più a un gruppo che a un nuovo cantautore quale, invece, è.
Perché “Le luci della centrale elettrica” è lui, lui che nel 2007 ha scelto questo biglietto da visita e che piano piano si è conquistato pubblico e critica: nel 2008 vincendo la targa Tenco, nel 2010 primeggiando tra i migliori venticinque dischi del decennio per l’edizione italiana della rivista “Rolling stone” (album Canzoni da spiaggia deturpata), nel 2011 aprendo i concerti di Jovanotti nel suo “Ora in Tour”.
Una voce, quella di Brondi che dà finalmente un punto di riferimento attuale a tutti quelli per cui la musica deve essere anche parola, voce che racconta e dà un senso a cose magari piccole, a quello che può succedere intorno, a sentimenti, precarietà, sogni, citazioni musical-letterarie.

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Disegno di Gianluigi Toccafondo per album e concerto

Quando qualcosa piace, c’è sempre un insieme di cose che tornano, come coincidenze o puntini luminosi che ti confermano che c’è una sintonia non superficiale, che c’è un perché dietro a quell’emozione che ti fa fermare, che ti fa ascoltare, che ti fa vibrare qualcosa dentro. E’ il caso, ad esempio, della copertina dell’ultimo album “Costellazioni”, disegnata da Gianluigi Toccafondo con la sua tecnica di pittura che va a ricolorare e personalizzare fotografie e fotogrammi, collaudata e già vista anche in forma video nelle sigle d’apertura di Fandango, casa di produzione e distribuzione cinematografica di Ferzan Ozpetek e Corrado Guzzanti. Ma è anche il caso dei versi che si riallacciano all’amato Lucio Battisti (“Chiamale se vuoi esplosioni dei mercati” in Anidride carbonica) o a Gabriel Garcia Marquez (L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici).

Con molta aspettativa, quindi, mercoledì 16 luglio nel cortile del castello estense di Ferrara aspetteremo lui che canta la ricerca di “un centro di gravità almeno momentanea” (La terra, l’Emilia, la luna in ‘Costellazioni’); che spiega come sia “inutile proteggersi dai venti forti”, come anche “nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci” (Macbeth nella nebbia), come “forse si trattava di affrontare la vita come una festa, come in certi paesi dell’Africa” (Le ragazze stanno bene). Bello che sotto le stelle ci siano anche queste luci a illuminare nel buio estivo la precarietà e l’incertezza. Bello potere condividere e dare un senso straordinariamente malinconico e accettabile a crisi e timori che ci avvolgono; che è poi ciò che avviene quando qualcosa è davvero poetico. Ai nostri “lunedì difettosi, ai martedì magri, ai venerdì neri”, ai “diluvi universali dei tuoi pianti” (L’amore ai temi dei licenziamenti dei metalmeccanici); ai sogni che ne I nostri corpi celesti “sfondavano i soffitti, i nostri disperati sogni di via Ripagrande, di viale Krasnodar”.

La pubblicità
ai tempi della crisi

Della scomparsa della classe media si è accorta anche la pubblicità. Questa mattina ho fatto una verifica ascoltando la radio. Di dieci spot trasmessi, sette puntavano su offerte, occasioni, saldi, svendite, liquidazioni, 3×2, 2×1… Un paio reclamizzavano prodotti decisamente economici: gelati e trucchi. Uno invece promuoveva il “gran coupé” di quella certa casa automobilistica.
Dunque, chi è il pubblico di questi messaggi? Per la maggior parte persone che devono fare i conti con i soldi per arrivare a fine mese o che comunque orientano gli acquisti prevalentemente sulla base di un criterio di convenienza. L’eccezione è il super lusso. In mezzo non c’è niente, niente di normale: la scomparsa dello standard, della classe media appunto.

Un tempo la pubblicità promuoveva prodotti capaci di soddisfare bisogni concreti, facendo riferimento alle reali necessità del consumatore. Ti serve la pentola, eccola qua. Hai finito il caffè: pronto! Poi, a partire dagli anni Ottanta, sulle ali del consumismo, i pubblicitari, divenuti nel frattempo esperti di marketing, hanno cominciato a indurre i bisogni, a crearli, utilizzando i brand (le marche) come strumenti di accreditamento sociale, chiavi di accesso agli stili di vita vagheggiati attraverso gli spot: anche tu sarai così (avrai successo, sarai ammirato, otterrai il sì della donna o dell’uomo dei tuoi sogni) usando quel certo profumo, indossando la tal maglietta, bevendo quel particolare amaro. La pubblicità non vendeva più prodotti, ma desideri e illusioni.

Oggi si è di nuovo riposizionata, adattandosi all’epoca di crisi. Per comperare, le persone devono essere convinte di realizzare un “vero affare”. Se non è così, si può attendere, non c’è fretta di acquistare. Gli scaffali sono pieni. E lo sono anche le nostre case: siamo i reduci di una ‘belle epoque’ di opulenza. Dunque, i potenziale acquirente vincono l’inerzia che li frena solo se proprio proprio hanno sentore che ne valga la pena; questo accade quando ciò che viene offerto è (o appare) un’occasione da non perdere. E la differenza, ora, la fa il prezzo. Su quello, quindi, punta la pubblicità.
Fuori dalla mischia della corsa al risparmio restano solo i pochi che ancora hanno le tasche piene. Sono pochi, sì, ma ‘né hanno tanti’ e sono quindi un pubblico minoritario ma non marginale, anzi! Nei loro confronti funziona ancora la strategia classica, che fa leva sulla suggestione; quella usata ai tempi d’oro, l’epoca dei rampanti e delle ‘Milano da bere’, quando la grande abbuffata sembrava non dover finire mai.

E Montalbano affronta
il fango della corruzione

Pioggia e fango intorno, melmosa è l’indagine che il commissario Montalbano sta affrontando, una storia di appalti, frane e morti ammazzati…
La piramide di fango (edizioni Sellerio, 2014) è l’ultimo romanzo che ha per protagonista il commissario di Vigata alle prese con gli intrighi dell’edilizia e della politica, con costruzioni e permessi.
Piove su questo pezzo di Sicilia in cui le grandi opere si fermano e le società sono controllate dai Sinagra e dai Cuffaro, Montalbano è convinto che sia lo specchio della situazione nella quale si trova il paese intero. L’indagine si impantana di continuo, tutto quel fango Montalbano se lo sente fin sotto la pelle, procede “senza slancio, senza passioni, senza vitalità”, è come se una “brutta copia” del commissario avesse preso il posto di quello vero. C’è una malinconia che non lo molla, è il pensiero di Livia che, lontana e provata, dopo la morte di Francois non è più la stessa. Ma non appena Livia inizia a stare un po’ meglio, appena fra di loro riprendono “le sciarriatine”, Montalbano riparte.
A dirigere il commissario è la convinzione che davanti ai suoi occhi si stia mettendo in scena una commedia atto per atto. Ma chi è il regista? Chi muove questi attori che recitano una parte fin troppo studiata? La solita storia di corna non regge. Nulla è mai come appare a una prima occhiata, tanto meno per uno come Montalbano che alla comoda superficie ha sempre preferito l’impervia profondità delle cose.
Il fiuto da sbirro si unisce all’intuito dell’uomo che sa scrutare i dettagli di chi gli sta di fronte, cogliendone il non detto e il falso attraverso l’impercettibile. Come in una grande pantomima, il commissario recita a sua volta, finge di credere a una confessione molto bene orchestrata e imbocca la strada per la verità.
Ma la pioggia non cessa, certe domande faticano a trovare spiegazione, il rituale del cibo, con la sua sacralità così cara a Montalbano, è disturbato e la passeggiata al molo sotto un sole nascosto gli rende l’umore ancora più “nivuro”.
Montalbano ha bisogno dei suoi notturni per riflettere, la panchetta della verandina è bagnata, possono bastare una seggiola e un bicchiere di whisky, la risacca culla e fa nascere i pensieri.
Per arrivare in fondo all’indagine, il commissario deve agire a suo modo, che non è mai quello ortodosso di uomo delle istituzioni, per entrare nella piramide deve solo bucarla, come fu con quella di Cheope che accesso non aveva.
Salvo risolve il caso, può finalmente partire e andare da Livia a Boccadesse, lascia Augello e Fazio a concludere l’indagine, ad aspettarlo ci sarà anche Selene, la cagnolina che Livia ha adottato e che le ha fatto ritrovare la voglia di vivere. Benedetta Luna.

Dal rigoroso fiscalismo estense alla redistribuzione:
ciclicità della storia

L’AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA / 4

Che la conquista del potere da parte di Azzo VII d’Este (oggi ricordato come Azzo Novello), nel 1240, abbia significato per Ferrara la perdita dell’autonomia comunale, tramite l’instaurazione di un governo autoritario, è cosa ben risaputa. E che il fiscalismo estense sia stato, almeno all’inizio e in altri momenti storici, uno fra i più severi è altrettanto scontato. Tuttavia «Le spese pubbliche dello stato estense seguirono una linea costantemente ascensionale […]. I beni demaniali estensi erano costituiti dalle terre e dai boschi, dai palazzi e dalle chiese, nonché dal commercio […]. Soprattutto le incette dei grani furono all’ordine del giorno; ma va ricordata la funzione benefica talora espletata da siffatti ammassi privati del sovrano, quando – e lo ricordano cronisti spesso piuttosto liberi nei loro giudizi verso gli Estensi – parte di quelle scorte veniva distribuita alla popolazione affamata o venduta a prezzi assai modici e arrendevoli».*
Ad esempio nel 1505, allorché Alfonso I si avvicendò ad Ercole I, il quale aveva quasi dissestato le finanze con le spese di guerra e nelle grandiose opere edificatorie, il giovane duca affrontò con saggezza la situazione economica ed amministrativa di Ferrara. Da un lato tacitò amici e parenti, dividendo fra loro gli oggetti preziosi appartenuti al defunto padre ed elargendo adeguati appannaggi ai fratelli, cautelandosi così da future lamentele nel ristretto ambito della famiglia e della corte. Dall’altro, abolì i dazi e le gabelle istituite dal padre, acquistò grano a Venezia e lo fece distribuire ai più indigenti per alleviare i danni causati dalla carestia e, nello stesso tempo, si prodigò nel fronteggiare una spaventosa epidemia che stava decimando la popolazione ferrarese. Non mancò, inoltre, di guadagnarsi ulteriore consenso popolare spogliando di beni e di potere alcune illustri famiglie, come gli Strozzi, ormai invise per la loro arroganza e avidità all’intera cittadinanza.
Anche Ercole II si distinse per la notevole rettitudine. Innanzitutto, evitò per quanto possibile di partecipare alle guerre del suo tempo, ricorrendo abilmente a idonei pretesti diplomatici; in secondo luogo, «Non appena al potere, aveva cercato di porre un riparo alla gravosa e preoccupante situazione finanziaria lasciatagli in eredità dal padre. L’erario era esausto e pare, tutto sommato, che il duca sia riuscito a reintegrarlo senza infierire sui sudditi e che anche in seguito si sia guardato dall’imporre tasse troppo gravose se non in circostanze del tutto eccezionali»**. Così pure il suo successore Alfonso II, per quanto sia stato uomo ben più distaccato e pragmatico, destinò considerevoli aiuti alla sua gente terribilmente provata dalle paurose scosse di terremoto verificatesi fra il 1570 e il 1572. Né la sua seconda moglie Barbara d’Austria lesinò la propria dedizione agli umili e agli infelici, fondando il Conservatorio delle orfane di santa Barbara allo scopo di ospitare fanciulle rimaste orfane per le calamità o abbandonate dai genitori.

*L. Chiappini, Gli Estensi, Dall’Oglio, Varese 1988, pp. 328-9.
**Ibidem, p. 251.

Teatro in strada
nel quartiere Giardino

Ma chi sono questi personaggi che arrivano a bordo di un carro trainato a mano con una piccola corte colorata di attori su strane biciclette, a piedi o appoggiati a una scopa? Fino a domenica alcune strade o luoghi di Ferrara verranno animati dallo spettacolo ‘Il Giardino dei destini incrociati’. La rappresentazione prende spunto da un’opera di Italo Calvino per raccontare la storia del quartiere Giardino, che è anche una zona di passaggio per molti viaggiatori in direzione della stazione. In scena da venerdì 20 a domenica 22 giugno in cinque punti cruciali della città. E’ una sorta di serial teatrale, organizzato dall’associazione Alpha Centauri in collaborazione con l’associazione Basso Profilo.

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Scena dall’episodio arancio del “Castello dei destini incrociati’ a Ferrara in via Vittorio Veneto

L’idea è quella di sperimentare una drammaturgia ispirata alla memoria storica e alle trasformazioni sociali in atto nel quartiere Giardino di Ferrara, nato come area residenziale modello e negli ultimi anni spesso al centro di fatti di cronaca. Lo spettacolo è un gioco di performance, che avranno diverse repliche nel corso del fine settimana. Trama e progetto nascono all’interno del laboratorio teatrale site-specific “Succede qui” condotto da Natasha Czertok e Davide Della Chiara con la partecipazione di una ventina di giovani allievi. Ogni episodio dura al massimo un quarto d’ora, per cui gli organizzatori raccomandano la massima puntualità.

L’opera ha vinto il bando “Giovani per il territorio” promosso dall’Ibc e dalla Regione Emilia-Romagna e patrocinato dal Comune di Ferrara.

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Via allo spettacolo nel quartiere Giardino

Programma e orari

  • Monumento dell’Aeronautica, via Fortezza – episodio verde – venerdì 20/06 ore 19; sabato 21/06 ore 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19
  • Via Vittorio Veneto – episodio arancio – venerdì 20/6 ore 19.15 – sabato 21/06 ore 19.15; domenica 22/06 ore 11.15, 17.15, 19.15
  • Stazione dei treni – episodio giallo – venerdì 20/6 h 19.00 – sabato 21/06 ore 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19
  • via Nazario Sauro – episodio rosso – venerdì 20/6 ore 19; sabato 21/06 ore 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19
  • Wunderkammer, via Darsena 57 – episodio blu – venerdì 20/06 ore 19; sabato 21/06 h 19; domenica 22/06 ore 11, 17, 19

Il simpatico disordine
dei prati fioriti

La spelacchiatura di un campo da calcio non dovrebbe far notizia, ma se il campo in questione è quello di uno stadio dei mondiali allora è un’altra faccenda. Il fondo erboso dello stadio di Manaus è venuto male e per rimediare ad un verdino passabile, i giardinieri carioca sono ricorsi ad una verniciatura a spruzzo, un vero e proprio maquillage dell’ultima ora. Tutto questo ha del grottesco, ma se la voglia di far bella figura dei brasiliani di fronte al mondo è comprensibile, la persistenza della moda planetaria per i pratini moquette continuo a non capirla.
Nei climi caldi e poco piovosi, mantenere un prato verde, compatto e folto come quello standard dei campi da golf inglesi, è una follia di costi e di manutenzione. Ma dove nasce questa passione collettiva per i pratini? Mettendo da parte per un attimo gli antenati naturali del prato che sono i pascoli, anche nei giardini dell’antichità si cercava di creare un fondo verde omogeneo per le piantagioni di fiori e arbusti. Plinio li descrive quando racconta dei suoi giardini, ma non si trattava di prati rasati uniformi, al contrario, di praterie fiorite tagliate spesso.
I Romani avevano sperimentato che la camomilla, tollerante di strapazzi e siccità, fosse un’ottima pianta per creare dei tappeti verdi anche dove il clima era asciutto. L’uso dei prati di camomilla nei giardini è documentato durante il Medioevo e comunque per secoli: sia la letteratura che l’arte figurativa, ci hanno descritto prati ricchi di fiori selvatici affiancati alle erbe. Questo tipo di rappresentazione aveva un alto valore simbolico legato alla figura della Vergine e dell’Amor cortese, ma ciò non toglie che per i posteri rappresentino anche un importante documento di storia botanica.
I prati italiani erano prati fioriti anche nei giardini Rinascimentali. Ci siamo abituati a pensarli come una monocultura verde per alcuni svarioni di interpretazione più recenti, che si possono collocare a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma si può ancora rimediare. Di sicuro, la moda del prato verde di sole graminacee l’abbiamo ereditata dall’Inghilterra. Se al principio c’erano pascoli e boschetti, l’invenzione del giardino paesaggistico ricostruisce, secondo parametri estetici, le tessiture del paesaggio rurale tradizionale, e per avere un bel prato non erano più sufficienti i passaggi delle pecore, ma sono stati necessari tagli più frequenti.
Le graminacee si imposero come specie dominante e resistente a questi trattamenti, infittendosi a livello radicale e rendendo la vita impossibile alle erbacee da foglia e da fiore. Usare la falce è un’arte, il suo sibilo è una musica, un po’ meno poetico tagliarsi un polpaccio, ma gli incidenti non facevano testo, e l’invenzione dei tosaerba meccanici fu una necessità dettata dalla diminuzione di forza lavoro nelle campagne. Gli Inglesi sono dei perfettini, e si capisce dal fatto che ai cavalli da traino mettessero delle speciali pantofole di cuoio per non rovinare l’erba. Da qui alla pittura del campo da calcio di Manaus è passato poco più di un secolo, ma le assurdità che si possono compiere per avere un prato come una moquette evidentemente non sono ancora esaurite.
Nel nostro clima, dove la pioggia ha degli andamenti imprevedibili e non costanti, un prato verde richiede acqua, ma soprattutto ha bisogno di una buona preparazione del terreno, che deve essere fresato, trattato con diserbanti specifici, livellato con un po’ di pendenza e soprattutto ben drenato, cioè vanno eliminate tutte le buche e gli avvallamenti che impediscono all’acqua di defluire; una prima osservazione preliminare la possiamo fare quando piove a dirotto, dove si creano delle pozzanghere stagnanti l’erba non crescerà mai bene. L’impianto di irrigazione va fatto con criterio per evitare che ci siano zone troppo innaffiate e zone secche. Il prato va tenuto falciato con regolarità, l’erba raccolta o triturata fine fine.
Per fare le cose per bene, bisognerebbe togliere il muschio, eliminare le erbacce come le margherite, le viole, i radicchi selvatici, i ranuncoli, i pisaletto e mille altre con diserbanti selettivi. Non dovremmo dimenticare le concimazioni chimiche durante l’anno: fosfati in autunno e azotati in primavera. Per non parlare della raccolta delle foglie cadute in autunno. Insomma avere una cosa che sembra così “naturale” è uno stress, un delirio con costi di tempo, energia e denaro non indifferenti, quindi, siccome i pratini leccati non mi sono mai piaciuti, confido nella crisi economica, se i prati fioriti, misti, disordinati e resistenti non passeranno come moda, torneranno come necessità, a tutto vantaggio dell’ambiente, del portafoglio e della nostra serenità.