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Per un rilancio del Ferrarese crollino le mura difensive della città!

Proviamo ora, a distanza di moltissimo tempo e cioè dai primi anni Ottanta, a rileggere cosa ha detto di noi il Censis e come viene descritta la “regione” ferrarese nella Storia illustrata di Ferrara; questo potrebbe aiutarci, forse, a riflettere e a capire perché siamo ancora un lembo lontano della via Emilia, e perché sia così difficile per noi svegliarci e uscire da una complicata storia di secoli.

Sulla base dei racconti di 424 imprenditori intervistati, il Censis evidenziò in particolare che:

– il tessuto imprenditoriale ferrarese pare incapace di esprimere strategie ed ha accumulato ritardi, risulta ancora debole, si chiude dentro il locale, ha una evoluzione lenta; non maturo ad una cultura del fare impresa, è privo di relazioni industriali, da segnali di inerzia e emerge una sorta di sviluppo bloccato, le cooperative sono un mercato protetto e questo non è positivo, manca il salto per guardare altrove più che guardare oltre;

– la classe politica debole è di ostacolo all’innovazione e porta ad un sistema associativo poco evoluto, si sente il bisogno di immaginazione politica a ipotesi forti, scarso è il contributo della politica locale ad affrontare le criticità sociali e si tende a caricare elementi di tensione;

– interessanti risultano alcuni comportamenti imprenditoriali di modernizzazione dei processi, tra il ’75 e l’85 il 35% è nuova imprenditoria; si richiede una sorta di evoluzione di onda lunga, serve un artigianato più evoluto ed un innesto di imprese dall’esterno per fare struttura di tessuto; per evitare l’impoverimento del vissuto, serve allargarsi ad aree contigue per puntare su piste lunghe, si manifesta una volontà di fuga.

E ora riprendiamo alcuni passaggi tratti dalla Storia illustrata di Ferrara (a cura di Francesca Bocchi, Sellerio, 1987):

– il ferrarese muta con il mutare del tempo (estensi, medioevo, rinascimento) in un processo storico che ha sedimentato nel territorio taluni caratteri, formando l’immagine di una identità;

– sentirsi ferrarese significa parlare di “regione” ferrarese; Ferrara è la biforcazione tra il Primaro e il Volano, un crocevia idroviario, terre nuove;

è “una regione” che ha visto svilupparsi la propria storia in una altalena di situazioni spesso estreme, che ha dovuto modellare la propria identità su contrapposizioni sempre nette;

– nel quadro della geografia economica italiana, il Ferrarese sconta, anche, gli effetti negativi della posizione. Secoli di dominio papale, una situazione di accentuata concentrazione fondiaria, la presenza di un esercito di braccianti sottoccupati, l’assenza di investimenti locali, sono tutti elementi che storicamente hanno favorito la situazione di marginalità;

– il Ferrarese è uscito dal secondo conflitto mondiale lacerato nella sua economia e nella sua identità. Un fardello pesante per quelle generazioni, si è spezzato il rapporto con il passato, persa la continuità anche del ventennio, di un tessuto di solidarietà sociale. Ricostruire fu arduo, ci fu un’emarginazione politica.

Cosa dire di quel tempo, se non che molto è dipeso e dipende da noi; siamo ancora immersi in quelle storie, restiamo nel ducato anche se nel suo perimetro debordano gli sguardi delle terre del comacchiese, dell’argentano e del centese, più come fuga e come distacco di diversità.
La città, poi, l’altro ieri, ieri e ancora oggi, pensa più alla sua lettura città-centrica che non ad una visione d’area, e la più lunga e ampia possibile. E non ci meraviglia che nella ‘città della non contiguità con altre terre’, non ci sia la volontà di farsi in una ritrovata geopolitica, non solo per poter crescere e svilupparsi economicamente, ma anche per far propri caratteri d’ambiente, per farsi incrocio fra culture e costruttore di nuovi orizzonti di comunità.
Se, infine, chi ci legge è per una diversa seppure approfondita lettura, è sicuramente un bene, perché quello che si chiede è come uscire da queste secche e farsi veramente storia di un piccolo popolo, ogni proposta risulta utile e preziosa.
E se fossimo assaliti, e le nostre mura estensi, difesa oggigiorno inutile e dannosa, espugnate? Verrebbe quasi da augurarsi, fuor di metafora, un evento che ci costringa a guardare oltre le mura, lontano, noi pensiamo a est e verso la costa.
Finalmente diventeremmo una regione ferrarese, dentro ed insieme ad altri con un sogno, una speranza che affidiamo a coloro che possono lasciare un solco del ‘cambiare verso’. Forse è possibile, e perché non andare verso una grande Romagna?

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Il ricatto di Renzi e la resa di cittadini e lavoratori: i diritti sono un lusso

Renzi procede brandendo l’arma del ricatto: “O si fa come dico io, o è la catastrofe!” Ogni giorno attacca tutto ciò che è corpo intermedio (Parlamento, partiti, sindacati, intellettuali…) parlando direttamente al ‘popolo’ e in nome del popolo. La linea è tecnicamente, politicamente e culturalmente populistico-plebiscitaria. Ed è una linea forte. Perché? Perché sfrutta il fallimento delle classi dirigenti degli ultimi decenni (comprese quelle dei movimenti e del Pd da cui proviene il medesimo Renzi e tanti che oggi lo seguono…) e della sinistra politica e sindacale. Chi ha idee diverse viene marchiato con il titolo di disfattista, o ‘parrucone’, o ‘professorone’ parolaio.

Con gli attacchi agli uomini e donne di cultura Renzi continua una miserabile tradizione di sprezzante giudizio del potere politico verso la cultura: dal ‘culturame’ di Scelba, all’anatema di Craxi ‘contro gli intellettuali dei miei stivali’, ai ‘sapientoni’ di Bossi quando ruppe con Gianfranco Miglio…Renzi non entra nel merito di obiezioni o proposte (sia nel campo elettorale-istituzionale, che in quello del lavoro…), ma a tutti risponde che è da trent’anni che si discute e ora bisogna decidere. E’ vero. Ma sarebbe onesto aggiungere che lui non dice niente di nuovo, ma sta solo scegliendo una linea che è stata nettamente sostenuta dalla destra berlusconiana per ciò che riguarda un’ispirazione generale: svuotamento della Costituzione e abolizione dei diritti. La tragedia è che questa linea sta passando nel mare magnum dello scetticismo e dell’impotenza di una parte di cittadini e di lavoratori. Il cittadino crede sempre meno che la Costituzione si possa applicare nelle sue parti migliori e correggere in quelle superate. Il lavoratore si è ormai persuaso che i diritti sono un lusso che non possiamo permetterci. Alla fine di questo percorso non si capisce che cosa resterà in piedi della democrazia costituzionale rappresentativa, e che cosa ci stanno a fare i sindacati…

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Nana su spalle da giganti

Regolarmente accade che prese di posizione come quella assunta nei giorni scorsi dal cardinale Bagnasco e dal presidente dell’Age (Associazione italiana genitori) contro le iniziative del Miur per contrastare, a partire dalle scuole, ogni forma di discriminazione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, riaprano un’annosa questione, che per di più ha contribuito a mantenere nell’ambiguità il ruolo del sistema formativo del nostro paese, quando non a frenarne la crescita in qualità.
Mi riferisco al peccato originale del sistema scolastico pubblico italiano, quello per cui nel 1894 il ministro dell’Istruzione all’epoca, Guido Baccelli, esordiva in parlamento, a proposito dei nuovi programmi per la scuola elementare, con la frase: «Istruire quanto basta, educare più che si può».
Da allora ai giorni nostri sulla scuola è piovuta ogni sorta di educazione, dal virile e patriottico indottrinamento del regime fascista alle educazioni più gentili alla salute, all’ambiente, stradale, alimentare, digitale, multimediale, alla legalità, alla cittadinanza attiva e l’elenco sarebbe ancora molto lungo se solo lo volessimo completare, tutto sempre comprimendo questo ampio spettro di compiti, attribuiti alla scuola e ai suoi insegnanti, nel modesto orario settimanale delle discipline.
Non è mia intenzione aprire una querelle, tipo l’uovo e la gallina, riproponendo una sterile quanto inutile contrapposizione tra educazione e istruzione. La connessione delle due funzioni è di una tale reciprocità che salta agli occhi anche dei più sprovveduti.
Ma non siamo inglesi. Gli inglesi tale problema non potrebbero mai porselo, perché l’hanno risolto a monte avendo un’unica parola da poter usare: education, che, al di là delle apparenze, significa istruzione.
Dal 1948 l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclama: «Tutti hanno diritto all’istruzione». Ma se si vanno a rileggere gli atti del dibattito della commissione che giunse, attraverso non pochi compromessi, a questa formulazione, si vedrà che si confrontarono due modi diametralmente opposti di concepire l’istruzione. Quello dei paesi con sistemi scolastici autoritari per ragioni ideologiche o religiose, e quello dei paesi con sistemi scolastici che autoritari non sono.
Può il diritto all’istruzione essere garantito in tutto il mondo a prescindere dalle differenze culturali, religiose, politiche e sociali? Purtroppo sappiamo che non è così, perché la volontà di condizionare i comportamenti delle persone, soprattutto quelli delle giovani generazioni, porta a una prevaricazione dell’educazione sull’istruzione come fonte di sapere e di conoscenza, uccidendo la possibilità per ognuno di scegliere e quindi di essere uomini e donne liberi.
Forse è anche per questo che i nostri padri costituenti, con un’intelligenza e lucidità che ancora a distanza di tempo lasciano stupefatti, la parola educare la usano una volta sola e nel testo dell’art. 30 a proposito della famiglia che deve “istruire ed educare i figli…”. Mentre lo Stato riserva per sé il solo compito di istruire: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione…” (art.33), “L’istruzione […] è obbligatoria e gratuita” (art. 34).
Non è un caso che dal dopoguerra in poi nel nostro Paese ci sia il ministero dell’Istruzione e non più il Ministero dell’educazione nazionale dei Gentile e dei Bottai.
Lo Stato non ha una sua visione educativa, non ha una sua pedagogia. Se così fosse sarebbe uno Stato confessionale, uno Stato di sudditi anziché di cittadini. La nostra scuola è pubblica e laica, laica nel significato che appartiene al popolo, non al cardinale Bagnasco e neppure a nessun presidente dell’Age o di qualunque altra consorteria politica o religiosa.
La visione educativa deve averla la società nelle persone che la compongono, nelle sue organizzazioni e associazioni, visioni che non possono che essere le più varie, specie in un mondo globalizzato, sempre più a grana multiculturale e multietnica.
La scuola statale istruisce attraverso la ricerca, l’esercizio della critica e l’apprendimento del sapere, perché ognuno costruisca la conoscenza necessaria alla propria crescita, a creare se stesso, come è nell’etimologia della parola crescere, consapevoli che l’esperienza scolastica, fortunatamente, non è esaustiva della formazione delle persone.
È proprio dalla tutela, dalla difesa e dalla qualificazione del ruolo della scuola pubblica come luogo dell’istruzione che discende la garanzia che ogni insegnamento in essa impartito non è mai una forma di indottrinamento, salvo quello, ma da ciascuno liberamente scelto, della religione cattolica.
E d’altra parte come potrebbe essere di fronte a quella dirompente modernissima forza prescrittiva che è il primo comma dell’articolo 33 della Carta costituzionale: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.
Ciò che indigna, ciò che nessuno cittadino, a partire da chi esercita professione di cultura nelle nostre scuole, dovrebbe tollerare, non è già la presa di posizione di questo o quel gruppo, di questa o quella gerarchia ecclesiastica, ma che il governo del paese si inchini al loro volere, ritirando i propri provvedimenti per combattere l’omofobia, umiliando la scuola, chi vi lavora, i suoi studenti, tradendo i principi dettati dalla Costituzione su cui ha giurato.
C’è da chiedersi che Paese è quello che continua a tollerare simili sfregi, che educazione costruita sull’argilla darà mai ai suoi figli? Sono questi i sepolcri imbiancati di cui parla papa Francesco? E allora cosa aspetta la Chiesa a dare una mano a sbiancarli a partire dalla scuola?
O dovremo assistere all’espandersi anche tra le aule scolastiche della scandalosa obiezione di coscienza che, umiliando le donne, la loro dignità e la nostra, si consuma ogni giorno negli ospedali del sistema sanitario pubblico?
Pare che in Francia lo stiano già facendo e in Italia gli epigoni siano sul piede di guerra, quello di tenere a casa dalle lezioni scolastiche i propri figli un giorno al mese per protesta contro una scuola che, poiché fa il suo mestiere di istruire, insegnare, informare, mina i valori della famiglia e dell’educazione cattolica. Liberi di farlo, sottostando alle regole sulle assenze da scuola, ovviamente. Nel caso, presumo, assenze ingiustificate.
Non libero il nostro ministro dell’Istruzione, appunto, di subirne il ricatto, svilendo ancora una volta di più la scuola della nostra Costituzione, ridotta ad essere nana su spalle da giganti.

Storia di muri e di donne che amano gli alberi

Sono sopravvissuti all’atomica di Hiroshima, ma non è chiaro se scamperanno agli effetti collaterali di una lite tra condomini finita in tribunale. Il futuro resta un’incognita per i tre ginkgo biloba e l’ailanthus piantati quarant’anni fa nel cortile del condominio ‘Il vialetto’ al 144 di viale Cavour. Vivere o morire ora va oltre la volontà degli inquilini che si sono battuti a loro difesa. Oggi dipende dall’esito di un tavolo tecnico e, soprattutto, dalla capacità degli alberi di reagire all’amputazione di alcune radici utili ad ancorarsi al suolo. La soluzione di taglio parziale era stata concordata in virtù di un’intesa con cui si pensava di salvaguardare la vita delle piante e, contemporaneamente, permettere il rifacimento del vecchissimo muro di cinta pericolante. “Quando si è fatto l’accordo probabilmente nessuno aveva ben chiara la grandezza delle radici emerse dopo lo scavo utile al rifacimento del muro – dice l’agronoma Stefania Gasperini –. In realtà per come sono andate le cose e per l’importanza dell’intervento subìto, la stabilità degli alberi dovrà comunque essere testata e nel caso aiutata con qualche puntello. Nessuno vuole rischiare un crollo interno a un condominio dove passano le persone”.

Mutilati, obbligati a una condizione contraria alla natura e del tutto inconciliabile con la primavera, gli alberi aspettano. Non sanno di essere stati giudicati responsabili della malformazione del muro e condannati in prima istanza a essere abbattuti. Aspettano ignari del fiume di parole e delle tante carte bollate a cui è legato il loro destino di alberi di città a rischio estinzione. Aspettano, vivi e poco vegeti, inconsapevoli degli oltre 40mila euro pagati dagli inquilini de “Il Vialetto” per il rifare il muro come richiesto dai confinanti de “Il Giardino” e della sentenza di appello con cui il giudice ha sospeso la loro esecuzione.

Fin dalle prime ore del mattino di ieri alcuni inquilini, in rappresentanza di una parte di assemblea condominiale, hanno presidiato le piante per scoraggiare gli operai della ditta incaricata dei lavori. “Non si sa più che fare – dice il responsabile Rossano Felloni – Uno dice di andare avanti l’altro di fermarsi”. Allarga le braccia, ma di rimettere la terra per riparare le radici non se ne parla.

“Invece di una colata di cemento armato bastava una siepe”, suggerisce l’ambientalista Sergio Golinelli, accorso sul luogo della singolar tenzone. “Sarebbe sufficiente una copertura o un archetto per permettere alle radici di trovare il loro spazio”, incalza Angela Buono, munita di delega condominiale di quelli del Vialetto per controllare lo stato dei lavori.
Nessuna soluzione – se non quella di riavere il muro integro – è invece la posizione di Giovanni Vitali de “Il Giardino”, presente insieme all’avvocato Giuliano Onorati. “Secondo l’accordo raggiunto avrebbero dovuto mettere le radici in sicurezza, ma non l’hanno fatto”, taglia corto. E’ una questione di muri, di recinti e foglie da ripulire. Storie di condomini di provincia, dove il tempo è ancora un benefit a misura d’uomo.

Qualcuno invoca la necessità di un altro muro, ben diverso da quello abbattuto nell’attesa di alzarne uno nuovo fiammante, che l’avvocato David Zanforlini, rappresentante insieme al collega Federico Carlini de “Il Vialetto”, vorrebbe invece identico al vecchio. Uguale anche nell’anomalia della pancia e nelle fondamenta ‘leggere’ anziché corazzate come lasciano intendere le gabbie calate nello scavo. Un ritorno al passato giusto per preservare le piante dall’ormai prossima colata di cemento armato. In fondo, è sempre questione di muri. “Proprio di fronte a questo – indica un signore che da anni vive al Vialetto – c’era un muretto, era vecchio ed è crollato da solo, non c’è stato bisogno di alberi”.


fotoservizio di Monica Forti

Angela Buono, delegata dei condomini del Vialetto
L’ambientalista Sergio Golinelli

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Giornata mondiale dell’autismo: la storia eccezionale di Temple Grandin, intelligenza brillante e forza di reagire

“Mi chiamo Temple Grandin, non sono come le altre persone. Io penso per immagini e le connetto.”
Inizia con questa assertiva presentazione il film con cui abbiamo scelto di partecipare alla giornata mondiale dell’autismo. Si tratta della biografia di una donna straordinaria: diagnosticata come autistica all’età di quattro anni, con forti problemi relazionali e difficoltà nel linguaggio, consegue un Ph. D. in Scienze animali e diventa una grande scienziata specializzata nella gestione e nello sviluppo di attrezzature sperimentali per il bestiame. Attualmente è professore di Scienze animali alla Colorado state university e tiene continuamente conferenze sull’autismo in tutti gli Stati uniti.

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Temple Grandin, locandina del film

Abbiamo voluto guardare il film con la lente autorevole dell’esperto, partendo dalla recensione di Paolo Meucci pubblicata su Spiweb: “Il taglio narrativo del film pone il fuoco sulla forza di reagire, sulla capacità di tramutare in ricchezza le proprie difficoltà. È un film sulla possibilità di vivere appassionatamente e trovare un adattamento funzionale grazie all’accettazione del disturbo e alla conversione delle difficoltà in punti di forza: “Avevo un dono, vedevo il mondo da un’altra prospettiva, invisibile agli occhi degli altri”. [vedi le scene salienti del film]

Temple infatti non pensa con le parole, non pensa per concetti, ma per immagini. Non legge la realtà come le altre persone, ma ha la capacità di cogliere con straordinaria consapevolezza tutto ciò che le succede attorno, sentendo ogni minimo rumore, percependo lo stato d’animo di persone e animali, catturandone i movimenti, e ricevendo da tutto questo una grandissima quantità di informazioni che fotografa e traduce in sistemi per poterle comprendere. Come nelle scene del film che si svolgono nel ranch della zia e che mostrano con disegni in sovrimpressione il modo di pensare della protagonista: se noi vediamo una mandria di mucche che procedono disordinatamente, lei vede una serie di frecce che ne tracciano la precisa traiettoria; se noi apriamo e richiudiamo una sbarra manualmente facendola sbattere contro il pilone a fine corsa, la sua mente disegna immediatamente il progetto per rendere l’operazione automatica e senza far sbattere la barra, rumore che a lei risulta insopportabile; oppure quando al college le chiedono di leggere una pagina del libro, lei non riesce a leggere le singole frasi ma fotografa l’intera pagina, la memorizza, poi la ripete tale e quale.

Nel suo terzo libro Pensare in immagini, e altre testimonianze della mia vita di autistica, scritto a quattro mani con Diedra Enwright, Grandin descrive così il suo modo di pensare: “Il pensiero visivo mi ha permesso di costruire interi sistemi nella mia immaginazione. […] La mia immaginazione funziona come i programmi grafici del computer […] quando faccio una simulazione dell’uso di un’attrezzatura o lavoro su un problema di progettazione, è come se li vedessi su una videocassetta nella mia mente. Posso osservare da ogni punto di vista, ponendomi sopra o sotto l’attrezzatura e facendola contemporaneamente ruotare. Non ho bisogno di un sofisticato programma di grafica che produca simulazioni tridimensionali del progetto. Posso fare tutto questo meglio e più rapidamente nella mia testa.”

Lo spiegano bene in termini specialistici Stefania Ucelli e Francesco Barale della Società psicoanalitica italiana: «Le eccezionali capacità visuo-spaziali di Temple Grandin, il suo “pensare per immagini” (così come il talento matematico di Rain Man, per fare un altro esempio cinematografico) non sono solo delle curiosità, ma aspetti estremi che, nella loro eccezionalità, mettono bene in luce il funzionamento della mente autistica illustrato da uno dei grandi modelli post-psicoanalitici dell’autismo, quello della “coerenza centrale”. Questo modello, attraverso una imponente mole di dati sia clinici sia empirici, ha indicato le particolari modalità di elaborazione e integrazione dell’esperienza che spesso sono presenti nell’autismo. Peculiarità che sono alla base insieme delle difficoltà autistiche, degli “isolotti di capacità” e dei “talenti speciali”».

Ed è proprio così, perché Temple ha enormi difficoltà a comprendere il mondo reale, il mondo è oscuro, incomprensibile, oppure inondante, non ha l’ “evidenza naturale” che ha invece per le persone non autistiche, e lo spiega direttamente: “La realtà per una persona autistica è una massa interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi e segnali. Niente sembra avere limiti netti, ordine o significato. Gran parte della mia vita è stata dedicata al tentativo di scoprire il disegno nascosto di ogni cosa. La routine, scadenze predeterminate, percorsi e rituali aiutano ad introdurre un ordine in una situazione inesorabilmente caotica”.

Il film racconta proprio gli anni in cui lei realizza, tra incomprensioni e sofferenze, di essere “diversa ma non inferiore”. Alcune scene del film riportano alcuni dei momenti più duri della vita di Temple e della sua famiglia: da bambina non riesce a seguire la mamma che tenta di insegnarle a parlare, perché la sua attenzione è attirata totalmente dal luccichio del lampadario a gocce; da ragazza è terrorizzata dai rumori e dal caos, e a nulla valgono i tentativi di consolazione della mamma o della zia perché lei non sopporta i gesti d’affetto, gli abbracci la spaventano, trova sollievo soltanto quando si infila nel passaggio di immobilizzazione per le mucche, sentendosi stretta e contenuta. A diciotto anni, prendendo spunto da questa gabbia, si costruisce una “macchina degli abbracci” (hug machine) che sarà l’unico modo per calmarsi nei momenti di panico. E sta proprio in questo la forza di Temple, nel cercare soluzioni ai propri disagi, imparare a gestire le situazioni, inventare e costruire da sé oggetti che la aiutino a sopravvivere in un mondo a lei così ostile.

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Giornata mondiale dell’autismo: la storia eccezionale di Temple Grandin, intelligenza brillante e forza di reagire

Ma Temple ha avuto la fortuna di essere stata costantemente incoraggiata e stimolata dalla madre, punto di riferimento importantissimo, come si evince dalla dedica al libro citato: “Dedico questo libro a mia madre. Senza il suo amore, la sua dedizione e la sua perspicacia, io non avrei potuto riuscire”. Sua madre aveva un’eccezionale abilità nel riconoscere quali persone avrebbero potuto aiutarla veramente e quali no, cercò per lei gli insegnanti e le scuole migliori, questo in un’epoca in cui la maggior parte dei bambini autistici veniva istituzionalizzata. Era risoluta nel tenerla fuori dagli istituti. Diverse figure hanno avuto quindi un ruolo fondamentale nell’incanalare i suoi interessi e le sue “manie”, e nell’aiutarla ad adattarsi ai contesti e agli ambienti, il più importante di tutti fu il professor Carlock, ex scienziato della Nasa, che ne scoprì l’intelligenza e il talento, e nel cui laboratorio di scienze Temple mise le ali per spiccare il volo.

Occorre però dire che la grande maggioranza delle persone con autismo non è ad “alto funzionamento” come Temple Grandin e purtroppo non ha neppure il suo successo. Ci sono vari tipi e quadri clinici di autismo, tanto che si parla anche di autismi o disturbi dello spettro autistico, e ancora oggi risulta difficile classificarli perché, in una certa misura, lo si può sapere solo a posteriori, dopo aver creduto nelle potenzialità del soggetto ed aver ricercato un’ autentica, seppur parziale, condivisione di mondi e di esperienze.

Ritornando a Grandin, è veramente incredibile vederla parlare nei numerosi video di conferenze che si trovano su youtube, in cui si muove disinvolta sfoggiando un’invidiabile sicurezza e scioltezza. In particolare vi segnaliamo una TED conference “Temple Grandin: Il mondo ha bisogno di tutti i tipi di mente” [vedi] in cui lei sostiene che il suo successo nel lavoro di progettista dipende proprio dalla sua condizione di autistica, perché è a partire da tale condizione infatti che riesce a soffermarsi su dettagli minutissimi, e che il mondo ha bisogno delle persone che rientrano nello spettro dei disturbi dell’autismo: pensatori visivi, pensatori schematici, pensatori verbali nonché di tutti quei bambini intelligenti che definiamo “geek” o “nerd”. Afferma anche che pensare per immagini e progettare sono il suo lato “geek”, e che la sua mente funziona come Google per le immagini, «io vedo immagini specifiche che mi lampeggiano nella memoria proprio come le immagini di Google; se mi dite scarpa, io vedo tantissime immagini di scarpe che si aprono nella mia mente come pop-up, che partono dai ricordi di scarpe degli anni ‘50 e ’60, e tante altre che si aggiungono velocemente, all’infinito».

Ci piace concludere questo articolo con una sua battuta, perché Temple tra l’altro è una donna simpaticissima e di grande ironia: “Non chiedermi cosa ne penso di una cosa… ma ‘google me!’ ”.

Temple Grandin – Una donna straordinaria è un film per la televisione del 2010 diretto da Mick Jackson con Claire Danes, Catherine O’Hara, Julia Ormond, Stephanie Faracy, David Strathairn. Drammatico, durata 103 min., Usa 2010. Il film ha debuttato sulla HBO il 6 febbraio 2010, ottenendo riscontri positivi. A luglio dello stesso anno riceve sette candidature agli Emmy Award, tra cui quelle per miglior film e miglior attrice in una miniserie o film Tv. In Italia il film è stato trasmesso il 26 ottobre 2010 su Sky Cinema 1. [vedi il trailer in Inglese]

Non siamo provinciali

Il disegno di legge (ddl) a firma Graziano Delrio è stato approvato dal Senato mercoledì 26 marzo scorso, con 160 sì contro 133 no. A questo punto il testo è tornato alla Camera per una terza, e in tanti sperano definitiva, lettura.
Dunque è ormai centrato l’obiettivo di eliminare le Province? Neanche per idea.
Il provvedimento, intitolato non a caso “svuota Province”, è solo il passo intermedio per arrivare alla cancellazione della parola “Provincia” nell’articolo 114 della Costituzione e, quindi, all’abolizione definitiva.
Nel frattempo, è trasformata in ente di secondo livello e cioè non più eletta dai cittadini, come ora, ma governata dai sindaci, a partire dal 2015.
Ma se l’obiettivo è la loro cancellazione, perché fare una tappa?
Come dicevano Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, “soprassediamo”.
Vediamo piuttosto come dovrebbero funzionare le cose, sempre che il termine “funzionare” non suoni sarcastico.
Al posto di presidenti, assessori e consiglieri provinciali, governeranno i sindaci. Quello del Comune capoluogo sarà il nuovo presidente della Provincia e consiglieri (da 10 a 16 al massimo) saranno altri sindaci designati dall’assemblea dei primi cittadini. Questi i nuovi organi. Tutto a zero euro di indennità, perché i sindaci hanno già la loro.
Nel frattempo gli attuali presidenti potranno restare in carica fino al 31 dicembre 2014, ma a titolo gratuito.
È uno dei pilastri della riduzione dei costi della politica tanto predicata dal premier Renzi, insieme alla trasformazione del Senato e al taglio delle indennità ai manager di Stato.
Si dice che sono sulle tremila le indennità degli amministratori che saranno in questo modo eliminate, con un risparmio …
Ecco, appunto, il risparmio.
Abbagliato dai responsi di alcuni centri studi, il ministro Delrio tempo fa aveva parlato di possibili due miliardi di tagli. Poi qualcuno deve avergli tirato la giacca e allora si è iniziato a parlare di una riduzione di 160 milioni, in seguito calati a 110. Successivamente la Corte dei Conti ha preso carta e penna e ha puntualizzato che, secondo i propri calcoli, il risparmio, se c’è, si aggira sui 35 milioni.
Sul tema ci ha messo bocca anche la commissione Bilancio di Palazzo Madama, esprimendo la preoccupazione che la spesa potrebbe addirittura aumentare.
Potrebbero gonfiarsi le spese se si decidesse che i sindaci metropolitani vanno eletti dai cittadini, anziché essere designati con lo stesso meccanismo di secondo livello previsto per le Province. Cosa possibile e prevista dall’attuale ddl.
Più costi arriverebbero anche dall’aumento di consiglieri e assessori nei Comuni fino a 10mila abitanti (altra cosa contenuta nel ddl), anche se per la verità la ministra Boschi ha detto da Lilli Gruber che la crescita di amministratori avverrà a costo zero.
Ma non è finita. Si dice che alcune funzioni finora esercitate dalle Province passeranno ad altri enti, fra cui Stato e Regioni. Ad esempio, i Centri per l’impiego potrebbero diventare parte di agenzie dello Stato o regionali. Nessuno dice che traslocare il personale in forza a questi uffici significa pagarli con i contratti regionali o statali (stipendio tabellare e trattamenti accessori), che costano di più rispetto a quelli degli enti locali.
Insomma, la conclusione è che è tutto da dimostrare se ci saranno effettivamente risparmi.
A proposito di funzioni, con la riforma rimarranno alle Province l’edilizia e la programmazione della rete scolastica e pianificazione in tema di trasporti e ambiente, oltre a controllare che non ci siano discriminazioni sui luoghi di lavoro in tema di pari opportunità. Per le città metropolitane, destinate a sostituire le Province, si aggiungono, tanto per semplificare le cose, infrastrutture, viabilità, mobilità, reti di servizi e sviluppo economico.
Apriamo una parentesi.
Con la riforma diventano città metropolitane Napoli, Milano, Torino, Bari, Bologna, Firenze, Genova, Venezia, Reggio Calabria e Roma, cui si uniranno Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste.
In Europa le città metropolitane sono venti in tutto. Ad esempio sono due in Francia, due in Germania e due in Spagna.
Solo in Italia saranno alla fine 15.
“Lascia fare – diceva Totò nella famosa scena della lettera nel film “Totò, Peppino e la malafemmina” – che non si dica che siamo provinciali”.
Sempre guardando oltre le Alpi si scopre che lo “svuota Province” va in controtendenza. In Germania le Province sono 400, 16 le Regioni e oltre 12mila i Comuni. Lì a non esistere non sono gli amministratori eletti dai cittadini, ma i prefetti nominati dal governo, come scrive in una nota stampa Antonio Saitta, presidente nazionale Upi.
Andiamo avanti. In Francia le Province sono 100 (26 Regioni e 36mila Comuni), mentre in Spagna hanno 17 Regioni, 50 Province e 8mila Comuni.
Ma noi siamo un laboratorio politico. E allora quando si dice che bisogna tagliare, si va ad incidere sulle Province dove la spesa pubblica vale l’1,27 per cento del totale, mentre possono continuare a dormire sonni tranquilli quelli che valgono il 60 per cento, cioè l’amministrazione centrale dello Stato, oppure le Regioni le quali 16 su 20 sono indagate a vario titolo dalla magistratura: dagli acquisti di giochini erotici, alle mutande verdi, allo champagne come se piovesse.
Dicevamo della Germania.
Se c’era una cosa buona nella riforma Monti (cassata per incostituzionalità perché il professore ha fatto l’errore di usare un decreto legge che vale solo per motivi di necessità e urgenza), era che la riduzione per accorpamento delle Province sarebbe andata di pari passo con il taglio di uffici periferici dello Stato (Prefetture, Questure,Tribunali …). Lì sarebbe stato il risparmio.
Invece si è preferito colpire un’istituzione che, come visto, non è un’anomalia nel panorama continentale e soprattutto un livello di espressione diretta dei cittadini.
Proprio la questione democratica pone più di un interrogativo.
Per Luigi Oliveri, che scrive su www.lavoce.it il 10 gennaio scorso, con il subentro dei sindaci al governo delle Province avviene di fatto un’espropriazione per i cittadini. Infatti, gli elettori di un sindaco, eletto per risolvere i problemi di una città, si trovano con la riforma Delrio ad incidere su questioni amministrative di altre realtà territoriali.
A questo aspetto altri se ne aggiungono che non convincono.
Va bene tagliare i costi della politica, ma pretendere che presidenti di Provincia e sindaci metropolitani possano governare territori vasti – e cioè assumersi responsabilità amministrative, penali e civili – come se svolgessero una comune attività di volontariato, francamente fa sorridere.
Non è comprensibile, inoltre, come un sindaco di Ferrara, eletto dai cittadini di Ferrara, possa farsi venire il mal di pancia per una linea bus, oppure per la riparazione di una scuola a Mesola, piuttosto che a Cento.
E questo vale tendenzialmente per ognuno dei 10 (massimo 16) sindaci che siederanno nei nuovi Consigli (sempre, per giunta, gratis). E, restando alla realtà ferrarese, gli altri 14 Comuni non rappresentati in Consiglio? Chi penserà a far sentire la loro voce?
Restando alla questione democratica, ci sono livelli decisionali che riguardano quisquilie come lo sviluppo economico e la situazione idrica del territorio, che tuttora sono gestiti prescindendo da ogni criterio democratico. Perché le decisioni delle Camere di Commercio o dei Consorzi di bonifica devono essere materia esclusiva di ristrette rappresentanze e non dei cittadini tutti?
Invece si è preferito azzerare uno spazio democratico, peraltro in un periodo nel quale la democrazia – come concetto, cultura, tentazioni populiste e numero di coloro che non vanno più a votare – non sta godendo di ottima salute.
Gira una battuta: fra Delrio e delirio c’è solo una “i” di differenza.
L’impressione è che quella “i” potrebbe presto presentare un conto ben più salato di quanto si pensi di risparmiare.

Pepito Sbazzeguti

Le app fai dai te per la salute

Nuove tecnologie a costi accessibili per monitorare la nostra salute. Si tratta di strumenti che rilevano diversi indicatori biochimici e li comunicano in tempo reale. Questo estremo controllo sulla salute farà la felicità di un gran numero di ipocondriaci e, ovviamente, dell’enorme giro di business che ruota attorno alle nuove app per la salute? O, al contrario sarà un servizio per le persone e un contributo alla individuazione di più efficienti metodi di cura? Come sempre, entrambe le risposte colgono una parte di verità.
I modelli di telemedicina – e le relative soluzioni – nascono dall’esigenza di risparmiare, sopperire alla carenza di personale medico, fornire teleassistenza, monitorare i pazienti dimessi o cronici che, comunicando i valori biomedici, ricevono indicazioni e consigli su alimentazione e dosaggi dei farmaci. Certo rappresentano vantaggi perché offrono sicurezza ai pazienti (pensiamo a cardiopatici e diabetici), facendo risparmiare fatica, tempo e denaro pubblico.
La ricerca ha dato vita, accanto al mercato dell’e-health, ad un nuovo enorme mercato: quello delle app per il fai-da-te della salute. I dispositivi che non hanno bisogno di un professionista per essere applicati e per l’interpretazione dei dati sono già molti. Alcuni esempi: un holter Ecg wireless che viene collegato al petto e indossato sotto i vestiti e avvisa l’utente di eventuali aritmie; sensori che rilevano i livelli di glucosio, li convertono in curva e consentono di monitorare l’andamento glicemico, un cerchietto indossabile che legge le onde cerebrali per controllare stanchezza e concentrazione, visualizza le onde sullo smartphone e suggerisce esercizi; un gilet che misura la pressione arteriosa, comunica via bluetooth con lo smartphone a cui trasferisce i dati; un bracciale che misura il battito cardiaco e il livello di ossigeno nel sangue per monitorare lo stato di affaticamento, un sensore collegato allo smartphone che promette di migliorare la postura avvertendo il soggetto dell’errore attraverso una vibrazione; non poteva mancare una bilancia che misura la distribuzione della massa corporea e offre indicazione su esercizi e dieta. Il global mobile healthcare market ha raggiunto i 6,6 milioni di dollari nel 2013 e toccherà i 20,7 milioni nel 2018 (Dati Markets and Markets – Dallas).
L’autodiagnosi consentirà di esprimere in tempo reale quantità di informazioni sulla nostra salute senza precedenti. Un’opportunità di ricerca epidemiologica straordinaria a basso costo, con la raccolta automatica da parte dei pazienti di una mole di dati utili al monitoraggio di patologie croniche. Vi è però una linea di confine sottile tra strumenti di controllo e autodiagnosi che può creare confusione e proporre rischi: in alcune app basta inserire sintomi per ricevere indicazioni di diagnosi e terapie.
Alcune prime considerazioni su un fenomeno in rapida crescita. Il confine tra servizi sanitari e gestione autonoma della salute è sottile, i rischi del fai da te e dell’autodiagnosi sono evidenti. Vi è il rischio di perdere una visione d’insieme del quadro clinico e, soprattutto, di annullare la relazione con il medico che è indispensabile strumento diagnostico, ma anche complemento della terapia, come dimostrano gli studi di neuroscienza sull’importanza del rapporto fiduciario medico paziente per la cura.
Non da ultimo, si crea un confine labile tra indicazioni di salute e di performance nel campo del wellness. Questo mi pare l’aspetto più preoccupante a livello di massa. Il rischio è di patologizzare i comportamenti (a partire da quelli alimentari, considerando l’alimentazione un insieme di ingredienti e di nutrienti) di medicalizzare la vita (inducendo un’ossessione per il controllo di parametri dentro cui portare colesterolo, pressione, affaticamento e indice di massa corporea), di diffondere “tecnologie persuasive” che valutino, al nostro posto, cosa ci fa stare bene.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

ricchezza-poverta

Opulenza e miseria, l’insostenibile diseguaglianza del mondo

L’ultima in ordine di tempo è stata Barilla, ma quella di farsi ciascuna la propria fondazione rivela una tendenza ormai ampiamente diffusa fra le grandi imprese. E testimonia un paradosso di questa nostra “modernità”: da una parte ci sono Stati ed enti pubblici privi di risorse e indebitati sino al limite del fallimento (qualcuno anche oltre il limite, come le cronache segnalano); dall’altra, realtà private così opulente da potersi permettere di creare strutture senza scopo di lucro, come appunto le fondazioni. Per qualcuno la scelta della fondazione rappresenta un sincero slancio filantropico che scaturisce dalla coscienza dell’ingiustizia insita in una distribuzione delle risorse mostruosamente squilibrata, a causa della quale all’enorme accumulazione appannaggio di pochi, corrisponde indigenza e miseria di tanti.
Per altri, meno nobilmente, si tratta invece essenzialmente di escamotage per alleggerire il peso dell’imposizione fiscale, o per creare una positiva immagine di sé e trarre da ciò un utile ritorno in termini di mercato, o ancora per condizionare le scelte di attori pubblici (politici, giornalisti…) orientandone l’azione e il giudizio, con la lusinga e il sapiente utilizzo della leva dei finanziamenti che la fondazione può decidere di erogare o non erogare a favore di questo o di quello, secondo i “meriti”. In questi casi l’impresa utilizza la fondazione come ‘arma’ impropria o strumento di pressione a proprio vantaggio.

In ogni modo, anche nella fattispecie del benevolo e disinteressato contributo, si assiste allo stravolgimento della corretta dinamica pubblico-privato. Il privato è infatti posto in condizione di accumulare smisuratamente ricchezze e potere sino a creare condizioni di dipendenza dei soggetti pubblici dalla propria munificenza.
Succede così, e lo vediamo ogni giorno, che per garantire servizi essenziali in ambito sociale, culturale, urbanistico, ormai anche socio-sanitario (la base del welfare), sempre più spesso Comuni e altre istituzioni di rappresentanza dei cittadini debbano fare appello ai privati ed elemosinare quelle indispensabili risorse che gli enti pubblici ormai non hanno più nella loro disponibilità.

I dieci uomini più ricchi al mondo complessivamente dispongono di oltre 500 miliardi di dollari. Non se la passano male neppure i dieci italiani più ricchi, con i loro 90 miliardi.
Consideriamo che recenti dati Istat hanno rivelato come in Italia il 5 percento della popolazione detiene un quarto del reddito nazionale, mentre un italiano su due è costretto a vivere con appena 15mila euro all’anno. Un italiano su due!
Negli Stati Uniti va pure peggio: l’un percento più agiato controlla addirittura un terzo della ricchezza complessiva del Paese, circa 57mila miliardi di dollari, mentre l’80 per cento della popolazione si spartisce il 7 percento appena del reddito.

Sono accettabili simili livelli di concentrazione delle ricchezze e squilibri così vertiginosi? È possibile ed è ancora tollerabile che singoli individui abbiano personalmente più ricchezze di quante ne ha un intero Stato? Non è di fatto – questa – la prova di un regresso della nostra “modernità” a una condizione di barbarie feudale, in cui i signorotti affamano il popolo e possono nella sostanza disporre di ognuno a proprio piacere? Il tutto, peraltro, ammantato da un viscido velo di infingimento, che sbandiera concetti come libertà e democrazia…
Ma di quale libertà godiamo, realmente, oggi? In che misura siamo davvero in condizione di autodeterminare le nostre scelte? E possiamo davvero stimare ‘democratico’ il sistema che ci governa, se non solo la partecipazione popolare è ormai scesa ai livelli minimi, ma persino la possibilità stessa dei governi di compiere scelte autonome, coerenti con il mandato ricevuto, è sostanzialmente compressa e condizionata da poteri esterni, orientati a logiche economicistiche e asserviti agli interessi del capitale, della finanza e degli oligopoli industriali?
Sono domande – queste – tutt’altro che astratte. Riguardano la nostra vita presente e il nostro futuro. E impongono risposte chiare, scelte mature e azioni conseguenti.

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L’area vasta, una nuova geografia economica per il ferrarese

Nei primi anni Ottanta, nacque un certo interesse per il ferrarese, si fecero dei ragionamenti sia nell’ambito del Censis, con il suo cono d’ombra, sia da parte di ricercatori che si occupavano della riscoperta della “regione” ferrarese, e anche in seno all’ufficio studi camerale, tanto da imporci un approfondimento e riunirci, insieme, nella sede di Nomisma, in Strada maggiore a Bologna, per parlare dei nostri territori con il professor Fabio Gobbo.

Il dato interessante, rafforzato anche dalla possibilità di costruire una “Romea con la gobba”, fu sostanzialmente la scelta di dare un taglio geo-politico all’operazione di valorizzazione: porre il fuoco sul ferrarese, in particolare sulla costa e il suo primo entroterra, puntando però sulla direttrice sud-nord, sulle molteplici peculiarità ambientali e turistiche, e su uno sviluppo rurale potenzialmente avanzato.
Se si prova, partendo da Mantova e segnando con un righello il congiungimento a est-nord con Rosolina e a est-sud con Cervia, ne esce la figura del cono, che incrociando la fascia delle Terre di mezzo del ferrarese, forma l’area di riferimento per un nuovo sviluppo, che poi si rafforza, per contiguità, con la parte a sud della Romagna e con la parte nord di Chioggia, fino a tutta la laguna veneta.
Questo era il senso della nuova geografia economica (l’area vasta) che si era delineata a Nomisma, e che si sarebbe consolidata con il tracciato della nuova strada Romea, facendo della vecchia, una strada del parco.
Il professor Gobbo ci disse che si trattava di una risposta forte e che occorreva mettere insieme forze, soggetti ed attori anche perché noi ferraresi avremmo dovuto scegliere, per stare in questa lunga e larga fascia dell’alto adriatico, di essere il terzo lato tra la via Emilia e l’asse centrale pedemontano veneto.Gli elementi riferiti ci convinsero ed iniziarono, da allora, una serie di relazioni tra istituzioni, imprese, forze sociali e agenzie per lo sviluppo.Si pensi all’area lagunare di Venezia, al delta del Po, al porto di Ravenna, al bacino turistico del riminese; luoghi necessari per una ripartenza di valori di territorio da riempire in una lettura di integrazioni, di produzioni e di servizi d’avanguardia.
All’inizio ci sembrava un percorso possibile che la politica locale, con l’aiuto anche di Provincia, Regione, ecc., avrebbe dovuto sostenere, trovando la quadra tra progetti, risorse, atti amministrativi, patti e contratti d’area. Con il passare del tempo, ci si rendeva conto che le cose non progredivano perché molti si mettevano in mezzo per bloccare il progetto, troppi i distinguo e il solito politichese e, per finire, emergevano vecchie e nuove ideologie, interessi compresi. Quanti anni persi!

Ora ed in queste settimane, dopo quella ventata di speranza, si intravede un’opportunità, data dal riordinamento degli enti locali, e nello specifico dal superamento delle vecchie province e dai parametri posti per gli ambiti da ridefinire, anche se l’operazione ne prevede un ampio ridimensionamento delle funzioni e dei ruoli.
Il Castello però ha pensato bene di tenersene fuori, distante e solo, di non entrare nel progetto di area vasta, pensando, scegliendo, un ritorno al Rinascimento di un lontanissimo ducato. Ed ecco, quindi, un nuovo ducato-provincia, che trova il primo impatto negativo con Comacchio, seguito da alcuni mugugni nell’argentano, quelli del centese, che non vogliono farsi assorbire dalla città metropolitana e, per finire, alcuni altri piccoli comuni foresi che pensano di non stare nella prima contiguità con la città capoluogo.

Si continua ancora a pensare in piccolo, senza una chiara visione, non guardando a quel futuro che è sulla costa adriatica, e la costa è la Romagna.
E si diceva: se poi ci tolgono la prefettura, la questura, l’Inps, la Camera di commercio, la Guardia di finanza, Bankitalia che non c’è più, e qualcosa d’altro, cosa ci rimarrà; diventeremo una città deserto o poco più, con alcuni bei palazzi storici.
Ma non bisogna, forse, andare verso una pubblica amministrazione più leggera, snella ed efficiente, ma non siamo, ormai, tutti per quel ‘cambia verso’ e per la spending review, oppure questa è solo per gli altri? Noi dobbiamo sceglier la strada e i territori dove crescere insieme, dove spendere, laddove si deve spendere, recuperando risorse, energie, bellezze, saperi, intraprese, lavoro e benessere. Dobbiamo integrarci per far parte di una grande Romagna, per portare la città di Ferrara nel Parco del delta, un patrimonio dell’umanità che l’Unesco ci riconosce. Quello che sta pensando il sindaco Tagliani, ossia di unire entrambe le sponde, non è solo un’opportunità, ma una scelta strategica ed anche un modo per non restare soli. Speriamo bene.

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Amarsi un po’. E poi mancarsi

Due vite, quella di Nicola e quella di Irene che non si conoscono e che in una notte di fuochi d’artificio finiranno per sfiorarsi, poi chissà.
Mancarsi (Einaudi) di Diego De Silva è lo scorrere dell’esistenza che per quanto la determinazione e la volontà provino a indirizzarla, prenderà un’altra piega. La vita sterza all’improvviso, Nicola la subisce, Irene prova a cavalcarla. I matrimoni di entrambi saltano, quante cose lui non aveva mai detto a sua moglie, finchè c’era, pensieri camuffati per compiacenza e perchè è difficile dire esattamente quel che si pensa e che libererebbe da un peso enorme che finirà per generare altra incromprensione, altre reticenze schiave dell’autocensura. Nicola, rimasto solo, compila scientificamente l’elenco degli errori che ha commesso con sua moglie, brandelli di vita coniugale catalogata per sbagli, tra cui lasciare le cose come stavano e l’avere pensato che lei contasse più della felicità.
Irene ha cominciato a prendere la vita a partire da quello che non vuole. Non vuole più ridere per finta, come faceva un tempo quando ridere riempiva un imbarazzo o un silenzio perchè a forza di smussarsi e adattarsi perdendo un’originaria autenticità, si diventa “brutte copie di se stessi”, pian piano si spengono passioni e desideri. Così era stato nel suo matrimonio, avevano perso confidenza e si erano allontanati.
Non c’è un momento preciso in cui capita che un pezzo di rapporto si perda per strada, però poi ci si accorge che di pezzi non ce ne sono quasi più, si smette di interessarsi all’altro, si comincia a farsi un po’ da parte fino a non esserci, in mezzo solo un abisso.
E anche quando si comprende l’errore e lo si isola e viviseziona alla ricerca di tutti i suoi perchè, questo servirà a non ripeterlo? “Non siamo buoni docenti di noi stessi e le lezioni che crediamo di imparare sono imprecise e, in buona misura, truccate”. L’autoinganno è una forte tentazione, si sa. Solo il caso ci fa apprendere inciampando nella vita. Il “buon senso” a cui ci si appella nelle scelte è una comoda stampella, ma non è altro che calcolo, misura, valutazione delle possibilità, sta dall’altra parte rispetto alle aspirazioni, all’impulso e alla scintilla del cambiamento che non hanno argomenti a confronto, il buon senso ridimensiona, l’impulso spinge oltre senza la certezza del risultato.
Nicola e Irene hanno in comune un bistrot. Per Nicola è un luogo del passato in cui tornare fa male perchè rappresenta la sua vecchia quotidianità familiare finita di colpo. Per Irene è il posto scelto come punto di osservazione delle vite degli altri, è dove compila il suo personale catalogo degli uomini, una tassonomia di genere che le serve da discalia nell’approccio degli uomini. C’è il tipo alla Colin Farrel, alla Johnny Deep o alla Geroge Clooney, basta saperli riconoscere.
Una sera di festa, in un orario insolito, Nicola va al bistrot, anche Irene ci capita, deve scrollarsi di dosso l’inutilità di essersi concessa, quella sera, a un uomo che nemmeno voleva.
Lei non capisce perchè quella sensazione, come qualcosa che le stia arrivando addosso, lui non capisce perchè quel richiamo, come un invito che solo lui sente: si gira e la vede.

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La vita inquieta del librettista Temistocle Solera

TEMISTOCLE SOLERA

Non esattamente “musico” ma piuttosto librettista per opere musicali liriche, Temistocle Solera (1815-1878) era figlio di quell’Antonio Solera – avvocato e patriota – che trascorse otto anni nel carcere dello Spielberg, mentre vi era imprigionato anche Silvio Pellico. Nato a Ferrara, studiò prima a Vienna e poi a Milano. Dopo aver tentato la strada della poesia e del romanzo (Michelino) si dedicò al teatro e alla musica, scrivendo cinque libretti con relative melodie, alcune romanze, due inni; fra queste opere, che non ebbero fortuna, ricordiamo almeno: Ildegonda (1840), La fanciulla di Castelguelfo (1842) Genio e sventura (1843). Il successo gli arrise grazie alla sua abilità appunto di librettista, basti pensare che sono suoi i famosissimi versi del Nabucco (“Va’, pensiero, sull’ali dorate…” ecc.), musicato da Giuseppe Verdi (1813-1901). Il suo rapporto con il grande maestro fu piuttosto burrascoso, comunque compose per lui, oltre ad una revisione di Oberto conte di San Bonifacio (1839), il succitato Nabucodonosor (1842), i Lombardi alla prima crociata (1843), Giovanna d’Arco (1845) e Attila (1846). È autore, inoltre, di libretti per vari altri compositori, fra i quali: Otto Nicolai, Achille Graffigna, Emilio Arrieta, Achille Peri. Solera ebbe una vita piuttosto turbolenta: fu impresario teatrale in Spagna; consigliere segreto – e forse amante – della regina Isabella di Spagna; corriere – sempre segreto – fra Cavour e Napoleone III; infine poliziotto, prima contro i briganti della Basilicata e poi presso il khedivè d’Egitto. Ma finì male, povero e abbandonato, dopo aver fatto l’antiquario a Parigi.

I paradossi della Grande Guerra

Chi di noi non ha dovuto affrontare, durante gli anni passati sui banchi di scuola, il fatidico capitolo sulle cause della Prima Guerra Mondiale: dall’imperialismo al nazionalismo, dall’emergere della società di massa alla crisi degli imperi centrali, senza dimenticare il casus belli dell’attentato del 28 giugno 1914 all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico. Dimenticatevi tutto ciò, o meglio, dimenticatevi che sia tutto così semplice e lineare. Questa è la differenza fra la storia che si studia a scuola e quello che si può imparare ascoltando uno storico di fama internazionale come Emilio Gentile, che venerdì pomeriggio nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea ha tenuto una sorta di lectio magistralis sul contesto europeo a ridosso della Grande Guerra, su invito di Istituto Gramsci e Istituto di storia contemporanea di Ferrara.
Quasi due ore passate in un soffio, perché ciò che è stato proposto non è una cronologia di eventi inevitabilmente legati da un rapporto di causa-effetto, ma una riflessione su una serie di fattori e considerazioni che hanno creato un quadro d’insieme con alla base l’elemento più complesso che esista: l’essere umano. Come ha affermato Gentile, “a volte la storiografia pecca di questo saccente anacronismo”: leggere la storia come “una concatenazione di fatti inevitabili” operando “una noiosa proiezione del presente sul passato”. In realtà, quindi, “la storia non andrebbe raccontata con le cause”: accanto a queste non bisognerebbe mai dimenticare di “raccontare gli uomini”. Perché, conclude Gentile, “la bellezza tragica della storia è che la fanno gli uomini e non le cause”. Del resto lo scriveva già Marc Bloch nel suo Apologia della storia o Mestiere dello storico: “L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo. O meglio, gli uomini. Più che il singolare, favorevole all’astrazione, il plurale che è il modo grammaticale della relatività, conviene a una scienza del diverso”.
Ecco allora, ha spiegato Gentile, che l’Europa “centro del mondo” dal punto di vista economico e culturale, che celebra se stessa e la propria civilizzazione nella Grande Esposizione Universale di Parigi del 1900 con un padiglione appositamente dedicato all’energia elettrica simbolo della luce del progresso, e che sta vivendo “il più lungo periodo di pace” della sua storia recente, porta nel suo grembo “un’oscura coscienza”, che inizia a parlare di razze superiori e razze inferiori o che pensa alla guerra come sola igiene del mondo.
Ecco come in un’Europa che, secondo Winston Churchill allora Ministro della Marina di Sua Maestà, mai era stata “più tranquilla”, governata nel 1914 “da maggioranze parlamentari che non volevano la guerra”, scoppia una guerra che sembra “non voluta da nessuno”, ma per la quale i giovani fanno la fila per arruolarsi volontari. Ecco come nell’Europa delle “teste coronate” lo zar Nicola II e il re d’Inghilterra Giorgio V dichiarano guerra al kaiser Guglielmo II, nonostante siano tutti nipoti della regina Vittoria. Ecco perché Francesco Ferdinando e la moglie sono a Sarajevo il 28 giugno: colgono l’occasione della sua visita come ispettore generale delle forze armate dell’Austria-Ungheria per passare insieme il loro anniversario di matrimonio, cosa che il rigido cerimoniale austriaco non avrebbe mai permesso, essendo lei una semplice contessa e il loro un matrimonio morganatico.
Purtroppo il 28 giugno è anche l’anniversario di una storica battaglia della Serbia contro l’Impero Ottomano, e Gavrilo Princip e i suoi compagni attentatori interpretano la visita dell’erede al trono asburgico come un clamoroso affronto alle tradizioni nazionali della grande Serbia. Da quei due colpi di pistola scaturiranno 53 mesi di guerra nell’inferno delle trincee, 10 milioni di morti e lo stravolgimento della geografia europea.

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“Presidiare l’integrità del tessuto produttivo”. Il commiato di Carlo Alberto Roncarati dalla Camera di Commercio di Ferrara

di Carlo Alberto Roncarati

Fra pochi giorni la Camera di commercio avrà un nuovo presidente.
Nel chiudere una parentesi durata quindici anni credo sia giustificata l’emozione e non so dire se prevalga la soddisfazione per aver potuto vivere una esperienza straordinaria o il rammarico per lasciare un incarico al quale ho dedicato tutto me stesso.
Questi anni, infatti, hanno segnato la mia vita, per come li ho vissuti e per le persone che ho incontrato. Alcune geniali e così ricche di talento da tracciare la strada per tutti. Tantissime altre forse più normali, ma capaci, creative, entusiaste e costantemente animate da una gran voglia di fare.
Persone che nel loro insieme rappresentano quel “capitale” fatto di onestà, intelligenza e ingegno di cui l’Italia – ed anche Ferrara – è ricca e che nonostante tutto incoraggia ad avere fiducia per il futuro.
Da esse ho tratto gli stimoli per tentare di adempiere onorevolmente ad un incarico da cui ho avuto gratificazioni e ruoli di responsabilità che non avrei mai immaginato di ottenere.
C’è stato anche un rovescio della medaglia, fatto di rinunce e sacrifici che hanno pesato sui rapporti famigliari, spesso colpevolmente trascurati, ed inevitabilmente inciso sulla mia attività professionale. Ma del tempo trascorso in Camera di commercio non rimpiango nulla poiché ho ricevuto più di quanto abbia dato.
Sono comunque consapevole che in coincidenza di una crisi economica di così straordinarie proporzioni, il sostegno alle imprese perseguito attraverso le limitate risorse camerali, pur utile, non è stato risolutivo. E che tanto altro resta ancora da fare per presidiare l’integrità del nostro tessuto produttivo – oggi fortemente minacciata – e promuoverne lo sviluppo, con la consapevolezza che principalmente dalle imprese, dalla loro possibilità di operare e di crescere dipenderanno la ripresa economica ed un ritrovato benessere.
So anche che si sarebbe potuto far meglio e debbo riconoscere di aver commesso errori che ancora mi pesano. Ma se non tutte le cose sono andate per il verso giusto non è stato, credete, per mancanza di impegno. E’ dunque con la serenità di chi sa di aver fatto quanto poteva che desidero ringraziare almeno una parte di coloro che hanno avuto un ruolo di rilievo in questa avvincente vicenda camerale.
Primi fra tutti gli imprenditori – in genere gente attiva e appassionata che non si abbatte di fronte alle difficoltà e che per l’azienda è sempre pronta a tutto – per quello che mi hanno insegnato.
E poi il presidente Ferruccio Dardanello che mi ha voluto al suo fianco in Unioncamere ed i colleghi presidenti per la stima che mi hanno dimostrato. Il Segretario generale Mauro Giannattasio e tutti i “direttori” con i quali ho avuto a che fare in questi anni, per la preziosa collaborazione. I componenti le giunte e i consigli con i quali a Ferrara lungo l’arco di tre mandati ho condiviso le responsabilità di amministratore e l’intera struttura camerale, di ieri e di oggi: dai dirigenti, ai quadri e ai collaboratori di ogni settore, tutti generosamente protesi al buon funzionamento dell’Ente – un traguardo che in tutta franchezza mi sembra in buona parte raggiunto – ed animati da un forte senso dell’appartenenza. Nonché gli organi di controllo e di valutazione per i buoni consigli e la continua sollecitazione al miglioramento dell’efficienza organizzativa e gestionale.
E ancora i rappresentanti delle Istituzioni, per l’attenzione sempre dimostrata e per rapporti improntati alla più aperta e fattiva collaborazione.
Le associazioni economiche ferraresi per la fiducia ed il supporto che mi hanno accordato in ogni circostanza ed il locale mondo dell’informazione per l’estrema disponibilità con cui ha contribuito a valorizzare la nostra attività di comunicazione.
Da ultimo, rivolgo al mio successore ed amico, Paolo Govoni – e alla nuova squadra che lo affiancherà – il più sentito augurio di buon lavoro, auspicando che possa anch’egli operare nello stesso clima di leale, fattiva collaborazione che ho trovato io.
Ci rivedremo, amici: troppo piccola Ferrara per non averne ancora l’occasione. E nel salutare vorrei condividere una emozione ancora.
Tempo fa, in un borgo dell’Appennino, mi ha colpito la scultura di un uomo pensieroso e un po’ curvo sotto il peso degli anni che da una piccola piazza sulla collina guardava lontano, verso la vallata, come se stesse ripensando al percorso della propria esistenza.
Alla base una iscrizione: “Non importa quanti passi hai dovuto fare nella vita. Ciò che importa è l’impronta che hanno lasciato”.
Scusate se i miei sono stati passi troppo leggeri.

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Renziani o non renziani, lavorare tutti insieme per cambiare passo

La sola lettura dello scritto sulla svolta renziana di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato giorni fa sul Corriere della Sera, aiuta a capire non solo le scontate resistenze e i mille sgambetti che il Presidente del consiglio incontrerà, ma che occorre andare oltre quelle riflessioni, perché il nostro Paese ha bisogno del sostegno di molti, anzi di moltissimi, per tirarne su le sorti.
Dentro alla nuova politica non ci sono solo annunci, non si tratta solo di proposte: è un grande pacchetto di atti di governo, parlamento compreso ed europa inclusa, che alimentati da grande speranza e tanto entusiasmo affrontano concretamente i veri problemi e le difficoltà dell’Italia.
Alcuni diranno che gli effetti saranno devastanti, che Renzi è senza esperienza e che questo governo è una delle sue ultime avventure, che non sta né a destra né a sinistra, che pensa ad un risorgimento fiorentino; ne inventeranno tante e si riempiranno le pagine dei giornali, i telegiornali, i talk show, e di queste opinioni ne risentiranno tutte le borse da Londra a New York, da Francoforte a Tokio.
La narrativa del Corriere, poi, entra più nel dettaglio e dice dell’Italia antirenziana: “spiccano settori di establishment anche se guardano al centrosinistra, pezzi di Confindustria, l’alta burocrazia, manager, commentatori e giornalisti Rai, un pezzetto della sinistra antica ed ideologica, quasi tutta la nomenclatura e gli apparati del Pd da Roma in giù, settori della Cgil (direi di no il Landini della Fiom), le municipalizzate e dintorni, i no dell’irpef e quelli che hanno i soldi in svizzera”, ma l’elenco è ancora lungo.
Da ferraraitalia online, in più circostanze, i collaboratori del quotidiano si sono soffermati sulle tante devianze e distorsioni che attanagliano il nostro Paese, un paese che non cresce da troppi anni, ma anche un territorio ferrarese che annaspa, ansima, arriva sempre dopo e non porta ad una visione.
Non si tratta, quindi, di sposare una tesi e di stare con Renzi, si tratta, soprattutto, di contribuire alla svolta, di cambiare passo, anche volto, avere la visione, guardare al futuro, dare speranza e quel tutto che è largamente condiviso, oltre gli schieramenti.
Ormai anche i bambini delle nostre scuole materne (che sanno un po’ di inglese) sanno cos’è la spending review e dove deve incidere l’azione di risanamento, togliendo il di più, gli sprechi e la corruzione.
Le famiglie, analizzando le bollette di gas, acqua, nettezza urbana, oneri e fiscalità locali, cominciano a fare l’analisi delle loro voci e, comparandole, vedono troppe diversità, importi innaturali, alcune assurdità e giustamente non ci stanno, si ribellano.
Se pensiamo anche alle multe, sembra più una persecuzione che un educare, se ti serve un certificato, un’autorizzazione, un permesso ti metti, spesso, con le mani nei capelli per tempi e costi esosi; se, infine, devi fare una visita medica, un prelievo, prenotare un’urgenza, spesso è meglio andare da un privato a pagamento, così almeno è fatta!
Questi sono i troppi vizi dell’Italia, sono una quotidianità di comportamenti pubblici e abusi privati, in un bisticcio insopportabile che ci trasciniamo da troppi anni e di cui non se ne può più, veramente più,
Il 25 maggio, purtroppo solo la domenica, andremo a porre una croce per l’Europa (una nuova e diversa Europa però), per il nostro Comune (e sono molti nel ferrarese, città compresa) e sceglieremo il Sindaco e la coalizione per un governo municipale.
Mi è capitato di sbirciare nei programmi elettorali, su come realizzarli, se le risposte sono concrete e sostenibili: in alcuni mi è parso di trovare interesse, su altri ho visto quasi il vuoto e comunque l’assenza di un raccordo di sistema e di reti, e uno sguardo corto rivolto all’ingiù.
La revisione della spesa del Comune e delle aziende municipalizzate è lasciata alla lanterna di Diogene, i fondi strutturali cofinanziabili agli occhi lacrimanti del topino che non trova il ‘formaggio grana’.
Peccato, pare che ancora una volta si tratti di un’opportunità mancata ma, essendoci ancora un po’ di tempo, speriamo in bene e che si pensi finalmente a servire quel benedetto bene comune.

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Ferrara, lo zen e l’arte di spostarsi in autobus

Da SENDAI – In Giappone la primavera è attesa al punto che il primo giorno è festa nazionale. Ma quest’anno, a dispetto del calendario, tarda ad arrivare e Sendai è ancora nelle braccia lunghe dell’inverno. La mattina del 22, la città è stata addirittura colta da una grande bufera di neve, e tutti gli studenti che solitamente raggiungono il campus universitario sulla collina con i loro scooter, hanno deciso di prendere l’autobus. Alle 8:51, alla mia fermata, la solita fila di quattro gatti congelati in attesa di salire è almeno triplicata. L’autobus si ferma, apre la porta e… è completamente stipato! Ma come facciamo ad entrare anche noi dodici?! Nessuna paura, per puro incantesimo e alla faccia di qualsiasi principio fisico di incomprimibilità dei corpi, i passeggeri giapponesi lentamente e con saggi movimenti dettati da una tradizione millenaria, si strizzano l’uno contro l’altro, tanto da poter far entrare tutti quelli che devono salire, e finché questa operazione non è stata completata, il bus rimane fermo in attesa: nessuno si lamenta, tutti comprendono. Vi chiederete sicuramente cosa ne sarà poi stato dei poveri malcapitati che dovevano scendere alla fermata successiva.

Bene, al suono ininterrotto della parola sumimasen (espressione pronunciata in modo bi-tonale in levare, che significa “scusate”), si apre un corridoio perfetto nel centro del bus, fra due ali di passeggeri compressi… avete presente l’apertura del Mar Rosso? I passeggeri scendono regolarmente, le porte si richiudono, i volumi corporei riprendono l’originario aspetto, e via per la prossima fermata!
Dovete sapere che in Giappone è severamente vietato usare il cellulare sull’autobus e su tutti i mezzi pubblici (treno, metropolitana), quindi non solo non si sente nessuno declamare pubblicamente a voce alta i propri interessi, ma oltretutto si raggiunge un tale livello di sinergia tra i passeggeri, tutti intenti nel contribuire alla buona riuscita delle fasi di riempimento e svuotamento del mezzo.
Ad ogni fermata dell’autobus, una voce suadente e sensuale femminile anticipa il nome della fermata, a seguire la voce mugugnata e iterante dell’autista che ripete il nome della fermata: vogliono essere sicuri che chi esce sia davvero sulla giusta strada! Pensate se sbagliassi fermata solo perché persuaso dalla voce femminile: esco, mi guardo in giro e… ma nooooo, non è qui che volevo scendere!

Provo ad immaginarmi lo stesso sistema a Ferrara. Autobus numero 11, fermata di piazza Travaglio, la voce femminile: “Stiamo per raggiungere la fermata di piazza Travaglio, chi è intenzionato a scendere si avvicini all’uscita, prego”, l’’autista: “A sen’ dré arivar in piaza Travai. I barbagian chi dev’andar a ciacarar sul Listòn, tachi a’ smisiaras!”. Però che bello l’uso di “barbagian”: me li vedo questi ferraresi, infreddoliti e intenti a lamentarsi delle ultime novità lette sui quotidiani locali, uniti assieme sul lato al sole del grigio Listone, a seguire i lavori infiniti di ripavimentazione… non ricordano gli omonimi saggi uccelli allineati lungo un ramo?

Ma torniamo all’autobus: è giunto il momento di pagare il biglietto, sì perché a Sendai il biglietto si paga all’uscita. Sopra all’autista c’è un tabellone elettronico che specifica il prezzo del biglietto per ogni fermata; si paga direttamente di fronte all’autista il quale, per ogni passeggero in uscita, verifica il pagamento e ringrazia. Ed ora, tutti al lavoro, stanchi e sfibrati da queste intense attività logistiche che si ripeteranno nel viaggio di ritorno a casa!

Morale per il giapponese: non avere fretta, tanto l’autobus fa sempre lo stesso tragitto e deve arrivare in orario a tutte le fermate.
Morale per l’italiano: spingi, impreca, lamentati, sbuffa, rispondi al cellulare e, se hai ancora energie… non pagare il biglietto!

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L’odore di Ferrara e lo sguardo di Alberto Savinio sulle “cenerentole della città”

Da MONACO DI BAVIERA – Qual è l’odore che caratterizza Ferrara? Molto è stato scritto sulla luce della Pianura padana, e tutti conoscono le città grandi e piccole lungo il Po, immerse nella fitta nebbia. Ma l’odore di Ferrara? Lo scrittore Alberto Savinio sapeva perfettamente di che cosa odora, ovvero di che cosa odorava Ferrara nella prima metà del secolo scorso: riteneva di potervi individuare, esattamente come a Monaco, l’odore dei “ceppi bruciati”. Alberto Savinio, fratello del pittore Giorgio de Chirico, era uno dei pochi scrittori italiani che conoscevano sia Ferrara sia Monaco: tra il 1906 ed il 1909, entrambi soggiornarono per un certo periodo di tempo nella capitale bavarese. Giorgio frequentò per due anni l’Accademia delle Belle Arti, mentre suo fratello Andrea – che più tardi assunse lo pseudonimo di Alberto Savinio – prese lezioni di musica presso il famoso compositore tedesco Max Reger. Oltre alle lezioni di pianoforte con Reger, poco sappiamo del soggiorno monacense di Andrea de Chirico (Alberto Savinio). Un piccolo appunto tratto da Ascolto il tuo cuore, città, lo stupendo libro di ricordi della Milano di fine Ottocento, ci consente tuttavia di affermare che durante la sua permanenza a Monaco avesse notato qualcosa di caratteristico: “Ferrara è la sorella in odore di Monaco. Entrambe sanno di ceppi bruciati. Due città cordialissime entrambe, ed invernali. Entrambe invitano al chiuso domestico, al gemütlich della propria casa.”
Ferrara e Monaco sono senz’altro due città cordiali, con tante case accoglienti. E durante l’inverno, a volte, sono sicuramente anche delle incantevoli “città invernali”. Ma sorelle in odore lo sono state probabilmente solo nella fantasia dello scrittore. Savinio, che Luigi Malerba e Umberto Eco reputano il loro maestro, è considerato uno dei predecessori della letteratura italiana moderna. Il suo ritratto della città, di Milano innanzitutto, è caratterizzato da un particolare interesse per i dettagli dimenticati e per le persone che vivono ai margini delle grandi piazze. Il suo interesse era rivolto alle cose che vivono all’ombra delle sorelle ammirate: “le cenerentole della città”. Si trattava, per lui, di cominciare dalle cose che non vengono colte ad una prima e superficiale occhiata. Prima di avvicinarsi ad un oggetto, ad una persona, ad un’opera d’arte o ad un’intera città, dirigeva il suo sguardo su qualcosa di apparentemente marginale. Pertanto capitava che iniziasse l’’auscultazione’ del cuore di Milano con una passeggiata attraverso Venezia, una sosta al Caffè Pedrocchi – rimasto fino ad oggi uno die cuori pulsanti di Padova – o appunto aspirando l’odore di Venezia o Ferrara. Camminava attraverso la Serenissima toccando, ascoltando, gustando e fiutando, come se volesse allenare i suoi sensi in luoghi sconosciuti, prima di affrontare la passeggiata attraverso l’amata Milano. Nessuna città è mai stata vissuta a amata così al femminile come la città di Venezia. Forse proprio per il suo odore. E a Ferrara pensava appunto di avvertire l’aspro odore dei “ceppi bruciati”. Ovunque indirizzi i suoi sensi – colonne di marmo, mobili, vetrine, campanelle della stazione -, inizia subito la vita, si accende la fantasia, si effettuano viaggi nel mondo surreale della marginalità e dell’inezia. Difatti, tutta la sua attenzione è rivolta alle cose che vivono lontane dai grandi eventi pubblici e di massa. Da Savinio possiamo apprendere l’arte del girovagare come uno scopritore curioso nei ripostigli del quotidiano e della normalità. Savinio ci insegna a puntare lo sguardo sulle “cenerentole della città”. Basta cercarle negli angoli nascosti, minimi, della realtà. E di questi, a Ferrara, ce ne sono tanti.

[Si ringrazia Giovanna Runggaldier per la traduzione dell’articolo dal tedesco all’italiano]

Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.

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Solitudine, degrado e un lampo d’amore per “Gorbaciof”, una tigre fra le scimmie

Inizialmente, pensavo di trovarmi di fronte a una storia in qualche modo legata alla Russia, che mi incuriosiva visti i tempi, invece no, nulla a che fare. L’unico legame con il politico della perestrojka e della glasnost è la vistosa voglia sulla fronte del protagonista, Marino Pacileo (per questo nominato Gorbaciof), il cassiere corrotto del carcere di Poggioreale, uomo con il terribile vizio del gioco d’azzardo, che sopravvive in un ambiente spesso squallido e violento.

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La locandina del film

Un grande Toni Servillo interpreta questo personaggio solitario e peculiare, una vera tigre fra le scimmie, titolo con il quale il film è uscito in Francia, nel 2011 (Un tigre parmi les singes).
La sua mimica, i suoi gesti, le sue pose sono uniche, parlano da sole, come sempre.
Un lupo solitario che brancola fra le vie illuminate di una Napoli confusa e multietnica.
Il messaggio universale che esce da questa pellicola è, sicuramente, quello di una forzata schematicità di molti gesti quotidiani (Pacileo vive sempre nello stesso percorso lavoro-ristorante cinese-casa), dell’incomunicabilità dei nostri giorni, dell’esistenza di barriere e di solitudini fra le persone, testimoniata dalla quasi totale assenza di dialoghi. Una sceneggiatura asciutta, un film quasi muto, questa la sua peculiarità, dove la comunicazione passa solo per sguardi e gesti. La diversa lingua di appartenenza (italiano e cinese) non facilita, poi, il linguaggio verbale tra Gorbaciof e la sua Lila (l’attrice Yang Mi, tra l’altro, ha recitato la sua parte senza capire una sola parola d’italiano, rafforzando così il messaggio d’isolamento che si crea durante il film).
Il regista gioca, dunque, come dicevamo, sulla gestualità, sull’espressione facciale, sulla liricità delle immagini, sulla pantomimica. Una scelta sicuramente difficile ma originale.

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Lila, lo co-protagonista

Ma in tutto questo, nello stupore e nella tragicità di molte situazioni (come l’angoscia legata alla perdita al gioco e alla necessità di trovare i soldi per pagare i debiti che crescono sempre più e che obbligano a sottrarre cifre importanti alle casseforti del carcere, fino a condurre a estorsioni e rapine), compare l’amore. L’amore che salva, che illumina giorni bui, tristi e tutti uguali. Giocando a poker in una bisca nel retrobottega di un ristorante cinese, infatti, Gorbaciof vi incontra Lila, figlia del gestore del ristorante. Se lui è affascinato da questa bella, dolce e giovane ragazza (bravissima), che spia spesso per la strada, anche Lila è attratta da questo strano individuo e, dopo che egli l’ha difesa dall’aggressione di due ragazzi, i due iniziano a frequentarsi. Gorbaciof dona al padre della ragazza una forte somma per pagare i debiti di gioco da lui contratti, per impedire che la giovane si debba prostituire per aiutare il genitore.
Anche senza dialogo, l’animo tenero e sorprendentemente romantico di Gorbaciof potrà essere capace di proteggere e amare. “In mancanza di leoni, le scimmie si ergono tali ma sempre scimmie rimangono. E tu sei una tigre”, dirà Lila nella sua unica battuta del film, mentre lo strano corteggiatore, che non capisce quella dolce frase in cinese, la porta allo zoo, le compra occhiali da sole all’aeroporto, qui facendola volteggiare su un argentato carrellino per i bagagli, le regala un uccellino cinguettante in gabbia, senza chiedere nulla in cambio, se non sguardi, complicità e tenerezza. Servillo, essenziale, ironico, tragico, magico e perfetto, ha ammesso, in alcune interviste, di essersi ispirato a quel Charlie Chaplin che, in Luci della città, vagabondava senza meta tra le strade della sua città, come Gorbaciof fra quelle di Napoli (e se l’osservate attentamente, da dietro, mentre cammina, non potete non accorgervene).
Lontano da immagini di una cinema chiassoso ormai spesso simile a fiction televisive, riviviamo il cinema delle origini, carico di suggestioni, di sentimenti personalizzati e personalizzabili.
Il finale, un destino beffardo di un dramma che certe volte sa di favola, lascerà un po’ d’amaro in bocca, mentre Lila attende, invano.

Gorbaciof, film di Stefano Incerti, drammatico, Italia (2010), Devon Cinematografica, Surf Film, Bottom Line, The, Teatri Uniti, 85 mn. Con Toni Servillo, Mi Yang, Geppy Gleijeses, Nello Mascia, Gaetano Bruno, Salvatore Striano, Salvatore Ruocco.

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Un ibrido da brivido: la magnolia soulangeana

La fioritura primaverile della Magnolia soulangeana è spettacolare. Questa pianta tace per tutto l’anno, poi all’improvviso, si mette a cantare: i suoi rami, ancora privi di foglie, si riempiono di grossi boccioli pelosi che esplodono letteralmente in una sinfonia perfetta di morbidi, carnosi fiori rosa e bianchi, un raro esempio di pianta che riesce ad esagerare con eleganza. Un’armonia che di solito riconosco soltanto alle rose. Questo spettacolo dura pochissimo, una, due settimane al massimo se il tempo lo permette e per questo chi ne possiede una dovrebbe prendere le ferie per ammirarla. È una magnolia rustica, sopporta fino a -10°; tollera bene i terreni argillosi, purché ben drenati, quindi non va messa dove l’acqua ristagna e le pozzanghere non si asciugano; la sua forma migliore è quella di grande arbusto con una bella base ramificata lasciata crescere tonda e libera; cresce lentamente, ma se le viene dato tempo e spazio può raggiungere anche i 7-8 metri di altezza. Non sopporta la presenza di altre piante ai suoi piedi, comunque è meglio lasciarle terreno libero attorno, perché il tappeto dei suoi petali caduti è commovente. La fioritura cambia a seconda delle varietà, le più diffuse hanno una dominante rosa, in tutte le sue tonalità, con il centro del fiore bianco. Non è un colore facile da abbinare ai rivestimenti degli edifici, quindi per non spegnere l’effetto speciale della sua fioritura è meglio accompagnarla con arbusti o piccoli alberi dal fogliame verde e leggero.
Le piante hanno sempre delle belle storie da raccontare e questa non è da meno. Le magnolie sono alberi e grandi arbusti antichissimi, originari dell’Estremo oriente e di varie zone del continente americano, la Magnolia soulangeana, invece, è un ibrido nato in Francia, grazie al lavoro di un esperto botanico: Etienne Soulange-Bodin (1774-1846). Etienne Soulange-Bodin era un cavaliere dell’armata napoleonica, si può dire che viaggiò l’Europa alternando ai campi di battaglia le grandi capitali, dove andava alla ricerca di parchi e giardini. Finite le guerre, ritornò in Francia, affermandosi come un grande esperto di botanica e di pratiche di coltivazione. Nelle sue proprietà del castello di Fromont, Soulange-Bodin fece costruire un bellissimo giardino e fondò, nel 1829, la prima Società di orticoltura francese: “Nella Villa di Fromont, sulla Senna – M. Soulange-Bodin ha saputo fondere un’elegante residenza con un vivaio esotico e con una istituzione per i giovani orticoltori. M. Soulange-Bodin, come M. Vilmorin, è al tempo stesso un coltivatore sapiente, un produttore di sementi, uno studioso e un fine gentiluomo. Durante la sua esperienza militare ha potuto conoscere tutta Europa, ed essendo stato a lungo (per usare l’espressione del principe de Ligne) sotto l’influenza della ‘jardinomanie’, ovunque andasse, i giardini sono stati i principali oggetti della sua attenzione”. (J.C. Loudon, “Gardener’s Magazine”, vol. 9, 1833). Nota: la parola horticulture mi crea sempre dei problemi di traduzione perché in inglese e francese indica genericamente tutto quello che riguarda la cura e la coltivazione delle piante, in italiano abbiamo invece una separazione tra orticoltura, che indica le pratiche relative agli orti e alle piante utili, e giardinaggio che si occupa delle piante ornamentali.
Soulange-Bodin possedeva, coltivava e vendeva, un’enorme quantità di piante, molte di queste provenivano dal lontano Oriente, come la splendida Magnolia Yulan (Magnolia denudata) dagli splendidi fiori bianchi, introdotta nel 1780 in Europa da Joseph Banks o come la Magnolia liliflora (Magnolia discolor), un arbusto dalla smagliante fioritura viola, introdotto in Europa da Carl Thunberg nel 1790. Il matrimonio fra queste due magnolie produsse una nuova specie, riconosciuta nel 1826 con il nome di Magnolia soulangeana, in onore del suo creatore. Il successo fu immediato, e già nel 1827 il famoso pittore Pierre-Joseph-Redoutè ne dipinse il fiore nel suo libro Choix des plus belles fleurs. A questo punto la storia ci porterebbe a fare un passo indietro per capire il legame tra Soulange-Boudin, Redoutè, Giuseppina Bonaparte e il suo giardino di rose alla Malmaison, ma come si dice: il seguito alla prossima puntata.

piazza

La piazza di Sant’Agostino riprende forma, continuano i laboratori partecipati

“Scusate il ritardo – interviene Rosetta Caselli – mi dite se avete già parlato del monumento e della sua degna appendice, quell’ecomostro in fondo alla piazza?”. Le risponde Maria Grazia Adorni: “Sì, abbiamo pensato di togliere il monumento e ricollocarlo in una rotonda che accolga chi viene da Cento”. Tutti ridono, ma la proposta è seria, e finisce agli atti del primo incontro operativo del processo partecipato in corso a Sant’Agostino per ridefinire la piazza colpita dal terremoto.

MONUMENTO ECOMOSTROSono appassionati e prodighi di proposte i cittadini, una dozzina, che vi hanno preso parte, ieri, nella biblioteca comunale. Dopo i precedenti momenti in cui erano emersi i punti di forza e di debolezza del cuore del paese, ora si è passati alla fase più entusiasmante, quella in cui la fantasia può viaggiare e le idee possono prendere forma.

 

Il primo ad esporre il suo progetto è Patrizio Piccinini che mostra il disegno virtuale di una copertura della piazza nella zona dell’ex palazzo comunale e di parte di Piazza Pertini, che crei uno spazio permanente per molteplici funzioni.

PICCININI

MEDIATRICE 2 MEDIATRICE 1 LAVAGNA GRUPPO DISCUSSIONE

“Non dimentichiamo però che il nostro è un territorio di boschi, anche se ora rimane ben poco – aggiunge Gianluigi Tumiati – e mi piacerebbe che di questo vi fosse traccia anche nella piazza. Non vorrei che la copertura escludesse la presenza di alberi, che potrebbero anche coprire l’ecomostro in fondo, sarebbe un bene anche per chi ci vive dentro”.
Le suggestioni piacciono e subito si crea un tavolo di lavoro per approfondirle, così emergono anche altre proposte, come per esempio quella di spostare la viabilità e il parcheggio dalla piazza alla restrostante via Caduti di Nassyria, in modo da liberarla dalle auto e restituirla alla “mobilità dolce”, tema al quale è stato dedicato un altro tavolo del gruppo di lavoro.

Per Stefania Agarossi “la piazza dovrebbe diventare pedonale e ciclabile e connettersi alle altre piazze di San Carlo e Dosso, attraverso un percorso integrato di slow tourism”.
E dopo aver liberato e attrezzato la piazza, almeno con l’immaginazione, c’è lo spazio per pensare a cosa farci: “Vorrei che fosse vissuta 365 giorni l’anno” afferma Francesco Bonetti, gli risponde il figlio Gianpiero: “Ci si possono fare il mercato contadino e quello hobbystico, attività di promozione territoriale e turistica, attività culturali, ma anche commerciali, spettacoli, raduni, feste, una volta che la piazza è coperta la puoi usare molto di più”. E ancora, “Se si fanno delle attività, allora bisogna anche prevedere un piano interrato che funga da magazzino, sennò poi ci rubano le sedie!” auspica pratico Giordano Bonfiglioli.

 

Comune a tutti è un punto fermo, la piazza deve guardare al futuro, ma deve anche essere un luogo della memoria. Sia quella recente del terremoto, che quella più antica della storia del territorio.

Il tema è caro a Maria Grazia: “Mi piacerebbe lasciare una segnalazione grafica o con delle mattonelle del perimetro della vecchia sede comunale. E vorrei anche mantenere una piccola porzione di fondazioni, ad esempio gli archi, ricoprendola con una pavimentazione in vetro, in modo che ci si possa camminare sopra continuando a vederla”. “E bisogna anche mantenere la memoria del passato, magari con dei ceppi, ed evidenziare le rilevanze territoriali e culturali, magari con della segnaletica o dei totem”, aggiunge Vittorio Ferrioli.

E mentre ognuno sta espondendo quanto emerso nei tavoli di lavoro, la porta della sala si socchiude e si affaccia un bimbo di otto anni, è Alex della quarta elementare. Non ha potuto partecipare ai lavori della mattina perché era a scuola, ma anche lui ha la sua proposta e l’ha disegnata: è il nuovo municipio come lui l’ha immaginato, con due rinforzi nella torre dovesse mai tornare il terremoto, ed anche “una porticina per spalare giù la neve dal tetto”. Il disegno di Alex è stato allegato alle altre proposte e per tutti i prossimi appuntamenti sono per il 5 e il 12 aprile, con due laboratori aperti ai cittadini nei quali dagli schizzi si passerà alla realizzazione di veri e propri plastici, perché la nuova piazza inizi a prendere forma.

PROSSIMI APPUNTAMENTI
SABATO 5 APRILE e SABATO 12 APRILE 2014
dalle ore 9.00 alle ore 14.30

Lavoriamo Sul Futuro…
per trasformare il vuoto creato dalla demolizione del Municipio nel centro non solo di Sant’Agostino, ma anche di Dosso e San Carlo

Sala Bonzagni – Biblioteca di Sant’Agostino (FE) – Via Statale 191
Saranno presenti nei due giorni:
– alcuni esperti di urbanistica e architettura dello studio Diverserighe di Bologna
– un rappresentante del Ministero dei Beni e delle attività Culturali e del Turismo.

INFO E ISCRIZIONI
Ogni laboratorio è aperto a 25 partecipanti, le iscrizioni sono aperte a tutti i cittadini:
per e-mail a lessismore.santagostino@gmail.com oppure per telefono al numero 340 6483093 (Paola)
Al momento dell’iscrizione specificare se si vuole partecipare al laboratorio del 5 aprile o del 12 aprile o a entrambi.

(Fotoservizio di Stefania Andreotti)

DISCUSSIONE

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Quando l’America vestiva i panni dell’inquisizione

Ethel e Julius Rosenberg non li ricorda più nessuno, la memoria malandrina della politica li ha sepolti in un oblìo indegno della civiltà, oblìo interessato naturalmente, come vuole la prassi consolidata secondo la quale vanno ricordati soltanto i personaggi che nella storia sono accettati dal potere: quale potere? Il potere, rispondeva Lev Davidovich Trotskji, il potere non ha bisogno di ulteriori classificazioni, il potere è il potere, what else, che altro? La rivoluzione (e non le rivoluzioni) non dovrebbe servire ad altro se non ad abbattere la prevaricazione, l’anima del potere: purtroppo c’è sempre qualcuno che poi usa la rivoluzione per erigere altro potere e così andiamo avanti da sempre. Ethel e Julis Rosenberg, coniugi americani, furono protagonisti e vittime di uno dei casi più infami inventati in quel Paese che abbiamo innalzato, senza molte ragioni, a simbolo della libertà e della democrazia, nazione chiusa in se stessa invece, colonialista, la quale ha bisogno di sfruttare gli altri popoli per mantenere alto, sempre più alto, il proprio tenore di vita rafforzando ogni giorno la propria ricchezza e la propria fame di successo, come ci ha insegnato John Waine, bisogna vincere è la filosofia a stelle e strisce, che non vince è meglio che sparisca.

Di questo pensiero fascista fu grande assertore, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta un americano violento, il generale Douglas Arthur MacArthur, la cui aspirazione era di fare la guerra a tutto il mondo e affermare così, senza possibilità di discussione, the american way of life, la via americana all’esistenza, che si traduce nella gloria del forte e nel vituperio del debole, insomma un fascista all’ennesima potenza. In questa sua ideologia il nemico da distruggere, quello che gli toglieva il sonno alla notte, era il comunismo, che significava, nella sua mente ristretta, disfattismo e povertà.

Julius ed Ethel Rosenberg erano due pacifici ebrei comunisti e diventarono nell’azione propagandistica maccartista simbolo del male. Erano da annientare per dimostrare come vanno trattati i comunisti, una teoretica già attuata negli Stati Uniti quando si dovevano colpire i lavoratori e allora le vittime furono Sacco e Vanzetti, ammazzati senza prove, anzi con prove contrarie all’accusa, come mi dimostrò l’ultimo loro avvocato quando negli anni Sessanta venne a Milano a presentare il suo libro sul famoso, o famigerato, assassinio di Stato.

I Rosenberg furono i Sacco e Vanzetti del Cinquanta, già la filosofia maccartista aveva fatto molti chilometri ed era arrivata in Italia, dove fu accolta con entusiasmo dalla destra e dal Vaticano: essere comunisti allora (a volte anche adesso) voleva dire non trovare lavoro, non poter fare carriera pubblica e militare, essere ostacolato anche nell’impiego privato, ma, soprattutto, significava aprirsi le porte dell’inferno: sui confessionali delle chiese in quel periodo venne appeso il promemoria dei nostri più gravi peccati: hai rubato, hai ucciso, hai desiderato la donna d’altri, hai commesso atti impuri, sei comunista…? I coniugi ebrei Rosenberg, senza alcuna vera prova, vennero accusati di essere spie del Cremlino e, dopo un processo farsesco, condannati a morte. Furono messi sulla sedia elettrica il 19 giugno del 1953. Il grande McArthur aveva vinto e potè cominciare le sue epurazioni contro quei pericolosi sovversivi degli intellettuali, genìa da sterminare. La destra non ha cambiato volto, il suo santino è sempre il generale McArthur.

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Fare un blog di successo, le mie semplici regole

Ai corsi che tengo e vari amici mi chiedono costantemente consigli su come fare un blog, ho ritenuto di scrivere queste quindici regole (più una) su quello che faccio io e che consiglio di fare a quelli che vogliono entrare in questo mondo.

Creare un blog non è difficile: ogni giorno ne nascono centinaia. Quello che risulta misterioso per molti blogger è come far risaltare il proprio blog in un contesto così concorrenziale. Ci sono molti tipi di blog, con caratteristiche a volte diametralmente opposte tra loro, ma esistono tecniche di acquisizione di visibilità che sono applicabili a quasi tutti i blog, indipendentemente dalla loro struttura.
A chi volesse provare a costruire un blog, senza ricorrere a nessuna consulenza professionale, propongo alcuni suggerimenti pratici utili sia a livello di marketing che di ottimizzazione:
Qualora si decida di utilizzare il dominio aziendale o un dominio già esistente, che contenga pagine già pubblicate, è meglio distinguerlo sia dal nome di dominio sia dalla directory già esistenti installando il blog:
a) in un sotto dominio, ad es. http://blog.nomedelsito.com
b) in una directory diversa, ad es. http://www.nomedelsito.com/blog/
Un ottimo software da utilizzare per la costruzione di un blog, che è anche il mio preferito, è WordPress. Alternative comunque valide sono Moveable Type e Joomla.
E’ importante personalizzare l’estetica del blog per rendervi riconoscibili (la scelta di template pre-costruiti è molto varia), ma per ottenere un risultato di qualità, è indispensabile la competenza di un grafico.
Di fondamentale importanza è stabilire le parole chiave con le quali si vuole che il blog venga individuato.

Ottimizzazione del blog

  • Devono essere inclusi i pulsanti per i social network, l’abbonamento Rss Feed, i social bookmarks per le pagine, il codice Html deve essere ottimizzato per il Seo (tag, title, Url del sito etc.). E’ bene sottolineare che molti dei template free o commerciali sono già ottimizzati in tal senso.
  • Bisogna stabilire o meglio individuare come parole chiave, termini o categorie coerenti con le aspettative di ricerca.
  • Bisogna abilitare il trackback automatico e la funzionalità ping (su WordPress è quasi di default)
  • Bisogna configurare un account Google per l’inclusione della sitemap e validarla (utilizzando Web Master Tools)
  • Identificare blog autorevoli, siti web, e hub per i collegamenti delle risorse in uscita e Blogroll (sembrerebbe che anche i link in uscita abbiano una motivazione importante nell’algoritmo di Google)
  • Correlare i post che andrete a pubblicare con vecchi articoli che trattano della stessa tematica
  • Attivare le statistiche per il monitoraggio del blog; Google analytics in questo è ottimo e affidabile.
  • Inviare le Url del Feed Rss ai maggiori aggregatori, meglio se attinenti all’argomento qualora ne esistessero.
  • Impegnarsi in una campagna permanente di link building, facendo molta attenzione a non creare scambi reciproci di link con altri siti o blog.
  • Cercare di diffondere un comunicato stampa che annunci il blog; può essere utile anche un comunicato stampa a pagamento a condizione che i siti che lo pubblicano si impegnino a mantenere i link (follow) al blog e abbiano buon Page rank e visibilità.
  • Scrivere regolarmente sul blog è di fondamentale importanza per qualsiasi blog. Quella che può variare è la frequenza con cui si scrive: sarà necessario scrivere 2-3 volte al giorno su un blog di notizie “generaliste”; basterà farlo 3-5 volte alla settimana se si tratta di un blog autorevole e su un argomento specifico, ma ogni messaggio deve avere caratteristiche di unicità ed un alto valore informativo. Non c’è il bisogno di scrivere cose lunghissime, una buona maggioranza degli utenti si ferma al titolo.
  • Monitorare i link in entrata, il traffico, i commenti e le citazioni del blog attraverso Google alerts.
  • Rispondere sempre ai commenti che si ricevono nel blog e ringraziare ogni volta che il blog viene “citato” in un altro blog.
  • Quando si citano notizie contenute in altri blog o quotidiani la fonte va sempre dichiarata con un link.
  • Le parole chiave devono essere usate nel titolo del post del blog e nel corpo dell’articolo; il collegamento a post precedenti deve essere fatto utilizzando i link di ancoraggio.
  • Utilizzare servizi di networking per connettersi e conoscere altri blogger, partecipare ad eventi, workshop, bar camp, etc.; se a questi ultimi piacciono i tuoi contenuti chiedere un link di rimando al tuo blog.
  • Intervistare altri blogger autorevoli del settore di appartenenza è un ottimo metodo per promuovere voi e il vostro sito: la credibilità aumenterà per associazione.

[© skande.com]

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Equità e decenza: a tagliare gli stipendi d’oro si parte dal nord-est

Ci piace richiamare qui, la conclusione dell’articolo di un recente fondo del Corriere del Veneto dal titolo “Per l’equità e per la decenza”, a proposito della riduzione dei tantissimi super stipendi dei manager delle aziende municipalizzate e pubbliche nel Veneto, anche perché, per ora, si parte a da questa parte del nord-est: “[…] l’etica di un nuovo civismo e della nuova politica oggi fa un piccolo-grande passo in avanti. Sottolinearlo ci dà soddisfazione, ma non basta. Noi continueremo a dire che molti altri piccoli passi vanno compiuti nel rispetto della dignità collettiva e delle finanze di un Paese la cui irriformabilità vorremmo fosse sempre più contraddetta.”
Si parte con Acque veronesi dove il manager accetta di ridursi il super stipendio di ben 50 mila euro, poi dalla Regione veneto scatta un’articolazione della Veneto spending review con ben 28 nomi di manager più pagati incasellati in un riquadro del quotidiano del gruppo Corsera.
Anche questi segnali rappresentano una piccola ma significativa parte di quei tagli di cui il “cambia verso” del premier Matteo Renzi parla, quando spiega il modo in cui si andranno a recuperare quelle risorse dalle storture e devianze della spesa della pubblica amministrazione. Un segno di equità, anche per i tanti italiani che non arrivano alla fine del mese, per quel disastroso 42% di giovani disoccupati secondo le ultime stime, e ai pensionati da 450 euro al mese. Un atto dovuto per schiodare privilegi e clientele che si annidano nelle organizzazioni decentrate, come le Regioni, i Comuni e le tantissime aziende pubbliche locali, le partecipate, alle quali ormai è affidata quasi in toto la gestione dei nostri servizi e che sono arrivate ad essere oltre trentamila.
Ci sono piccole battaglie che tutti siamo chiamati a compiere, anche per aiutare il nostro Paese e i tanti territori delle provincie italiane ad uscire dalle secche dei silenzi e delle indifferenze diffuse, ma ancora di più per compiere un atto di orgoglio civico, alzando finalmente la testa, per dire “ci sto anch’io!”.
Non è questa la sede per capire cosa faranno la Sicilia, la Basilicata e l’Emilia-Romagna, ma sarebbe bello vedere che anche lì qualcosa si muove. Anzi vi chiediamo, carissimi signori amministratori (presidenti, sindaci, amministratori delegati ed unici…) di agire in questo senso e subito, perché questo paese deve farcela. E non fermatevi solo ai manager, andate dentro ai rivoli dei vostri apparati e stanate le incrostazioni e le resistenze.

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La punizione dei libri

Ricordo un tempo, quando si pensava secondo un luogo comune ereditato da Rinascimento, che il Medio Evo fosse epoca di oscurantismo, ignoranza e superstizione, dimenticando, complice il razionalismo settecentesco, che in realtà in quell’età vissero e operarono due maestri della cultura e della civiltà di ogni tempo: Dante e Giotto. Chi non ricorda il libro di Roberto Vacca Medioevo prossimo venturo che negli anni Settanta del secolo scorso ebbe un impatto talmente forte da far sì che quel titolo fosse usato come la minaccia permanente di un ritorno al passato oscurantista più tenebroso? Così scrive Vacca, nella riproposta on line del suo libro più fortunato: “Ma la congestione ha colpito ancora, amplificata da errori nei programmi di computer, ed ha causato blocchi nei sistemi computerizzati di telecomunicazioni degli Usa con gravi conseguenze per i telefoni, i cellulari e per i sistemi di controllo del traffico aereo. In un futuro prossimo la congestione potra’ minacciare anche Internet. I rischi tecnologici ancora esistono e sono più minacciosi proprio in certi contesti che il grande pubblico ignora. I grandi sistemi tecnologici proliferano, senza piani globali e sempre più producono impatti l’uno sull’altro. La instabilità e il blocco di un sistema (ad esempio le reti telematiche o quelle energetiche) potrebbero produrre a cascata blocchi di altri sistemi nelle nazioni piu’ avanzate ove il progresso viene progettato e realizzato. In conseguenza potremmo tornare di nuovo al medioevo”.

Ma non importa pensare ad una immane catastrofe tecnologica, per vedersi ripiombare in un’epoca dove Medio Evo rimane simbolicamente la minaccia di una regressione nell’oscurità di un’epoca ritenuta la negazione della chiarezza mentale e della conquista più alta a cui il nostro tempo rimane debitore: la democrazia. Le immagini ci consegnano la foto di un disgraziato di fede cristiana a cui in qualche paese di integralismo islamico viene tagliata la mano con cui ha osato toccare il Corano, ma ciò che produce una scossa ancora più forte mista di ribrezzo e paura è ciò che accade nella patria di Bacone e degli illuministi: l’Inghilterra. Riferisce Enrico Franceschini su “La Repubblica” del 26 marzo che “nell’intento di soddisfare il populismo da tabloid” i detenuti delle carceri inglesi non possono più ricevere libri. Divieto che solo ora si conosce dopo la denuncia di un blog sui diritti umani; ordinamento che è stato emanato dallo stesso ministro della Giustizia Chris Garyling che si giustifica secondo questo ragionamento (se così si può chiamare ciò che nulla concede alla ragione) per cui i detenuti possono tenere in cella non più di 12 libri ottenuti o prendendoli in prestito dalla biblioteca del carcere (notoriamente e desolantemente vuote) oppure ottenendo un certificato di buona condotta che abolirebbe il divieto. E questo nella culla della democrazia. In altri termini io non solo tolgo la liberta del corpo ma anche quella della mente catalogando i libri come un “premio” Credo che mai sia stata concepita legge più iniqua. Come sottolinea Franceschini nemmeno a Guantanamo si toglie il diritto di leggere ai prigionieri.
Naturalmente la protesta si è concretizzata in una nota di scrittori come Pullmann o Haddon, autori di best sellers di fama internazionale, in cui viene sottolineato che il provvedimento del ministro “è uno degli atti più maligni, disgustosi, vendicativi di un governo barbaro”. Altro che Medioevo prossimo venturo! Quasi una vendetta contro la cultura o l’arricchimento delle menti ormai divenuti strumento politico da negare o proibire. Dai crolli di Pompei alla noncuranza con cui si fa strame del nostro patrimonio artistico in Italia, e ora nella grande Inghilterra la proibizione dello strumento di verità somma contenuta nei libri. Così idiotamente ridiamo sul misunderstatement “conciso-circonciso” del goffo pentastellato Tripiedi poiché ci sentiamo padroni di una lingua e di una dignità culturale che solo la lettura può dare e che nella patria di Shakespeare viene negata, perché la prigionia deve essere punizione e non redenzione per usare toni un pochino meno banali di un twitter. Vergogna! Questo è il populismo, la cafona e irritante presunzione di ometti che ci vogliono atterrire con le proibizioni, perché si sentono investiti da un potere e da una dignità usati male e violentemente. Si sono sentite stasera le leggi del guru G. di Genova per l’ammissione al parlamento europeo dei “suoi” candidati costretti alla legge del taglione della volontà espressa dai twittatori che non perdonerebbero mai un atto di insubordinazione o di protesta delle “leggi” pena il decadimento e la multa di 250 mila euro. Una imposizione dettata dalla necessità di attenersi alla volontà irrequietà del “popolo”.
Europa attenta: stai diventando la periferia del mondo.

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Una strategica visione culturale d’insieme per tracciare il profilo della città del domani

di Alessandra Chiappini

Alcuni articoli comparsi giorni fa sulla stampa locale sollecitano qualche riflessione. I temi, legati alla realtà culturale di Ferrara, si impongono in un momento di grande delicatezza sociale, politica, educativa, formativa, che la crisi economica in atto rende ancora più complesso. E’ noto che in frangenti di emergenza come l’attuale l’assunzione di decisioni –di ogni decisione verrebbe da dire- richiede una buona dose aggiuntiva di ascolto e di ponderazione, di fronte ai rischi che comunque comportano le scelte adottate in apprensione.

1) Sulla stampa locale e in occasione di incontri pubblici Ranieri Varese ha fornito una meditata e circostanziata riflessione circa la destinazione d’uso dell’area ex-caserma Pozzuolo del Friuli in riferimento ai progetti di recupero e riqualificazione presentati dall’assessore Fusari a nome dell’Amministrazione Comunale. Varese chiede di non sottovalutare l’importanza strategica della collocazione di tale area, anello di congiunzione fra il complesso di Schifanoia e quello di Marfisa d’Este, Palazzo Bonacossi incluso, rimarcandone la forte vocazione museale, difficilmente compatibile con alcuni diversi utilizzi (studentato, esercizi commerciali, edilizia residenziale) di parte dell’area ipotizzati dal Comune. Fra le motivazioni con cui l’assessore Fusari ricusa le suggestioni di Varese vi è l’insostenibile lievitazione dei costi conseguenti, tale da comportare l’azzeramento della altre operazioni edilizie attualmente in corso destinate a uso culturale. L’argomentazione è certo importante e potenzialmente anche dirimente. E’ tuttavia poco credibile che a Ranieri Varese, studioso attento, competente e pragmatico, già direttore dei Civici Musei d’Arte Antica, sfugga il pesante onere dell’impresa da lui ipotizzata: il senso che percepiamo nelle sue parole è la sollecitazione a considerare pure un’altra possibile traccia, un diverso modello, anche culturale, ad avviso suo e di non pochi altri più coerente. Nello scambio corretto e pacato fra i due interlocutori si fa riferimento al Museo della Città, ovviamente Ferrara in questo caso (una suggestione/lettura affascinante di un potenziale siffatto museo è fornita da Sergio Gessi in “Ferraraitalia” del 20 marzo scorso). Non si può non avvertire con un qualche disorientamento la divergenza fra ciò che è, per tipologia oggettiva e museologicamente consolidata, non per suggestione approssimativa, un “Museo della Città”, a qualunque realtà urbana si riferisca (ne sono dotate non poche città, in Italia e all’estero), e l’accenno dell’assessore alla città museo di se stessa, con le proprie emergenze e i propri tesori, inteso, questo, come il vero “museo della città”. Non sembra peregrino attribuire il sentore di genericità e una certa frettolosità di alcune risposte, quasi un non avvenuto approfondimento, all’affanno che la grave criticità del momento procura a chi si trova ad amministrare e far quadrare il magro bilancio senza tradire nulla dei bisogni fondamentali e della vocazione della città, nonché del progetto di mandato. Ma in queste approssimazioni talvolta si fatica a leggere il piano generale e coerente delle azioni, la visione culturale di sintesi della città, quella che risponde alla domanda: cosa vogliamo sia e diventi Ferrara in riferimento alla cultura e alle sue espressioni, nell’imminenza ma anche nei prossimi anni? Che fisionomia caratterizzante dovrà avere, e dunque, su cosa occorrerà puntare con forza?

2) Con grande sollievo molti cittadini che credono profondamente nella rilevanza dei servizi e delle attività culturali hanno salutato il progetto di recupero di Casa Minerbi. Hanno anche appreso dell’imminente avvio dei lavori per il riutilizzo di Casa Niccolini, limitrofa a Palazzo Paradiso. Assieme alle rilevanti migliorie recentemente apportate agli ambienti della Biblioteca Ariostea, questi sono parsi segni di grande speranza in un’epoca decisamente cupa. Un atto controcorrente, una sfida all’attuale diffuso sconforto lanciata da un’Amministrazione Comunale che non vuole gettare la spugna. Evviva. Proprio per questo è auspicabile che la finalità del ripristino di Casa Niccolini sia coerente con il modello e il piano dei servizi culturali che la città intende fornire, e non parta come scheggia impazzita a tamponare l’emergenza dell’immediato, senza specifica congruenza con la visione generale. Già all’indomani dell’acquisto di tale edificio era maturato un ragionamento non superficiale circa la sua destinazione d’uso, intesa come naturale ampliamento degli spazi della Biblioteca Ariostea. Fin da quegli anni lontani si individuò Casa Niccolini come possibile risorsa per una Sezione Ragazzi degna di questo nome, che la concezione di un’Ariostea accogliente per tutta la città, e non solo per agli studiosi specialisti, necessariamente richiede e merita.

3) Questa considerazione si propone anche in riferimento al tema, annosissimo, delle sedi delle associazioni culturali, alcune delle quali (Accademia delle Scienze, Deputazione di Storia Patria e Ferrariae Decus tra i primi) titolari di patrimoni documentario-archivistici e bibliografici importanti, la cui conservazione e disponibilità al pubblico dovranno essere salvaguardate e garantite. E anche se l’attuale contingenza non consente l’immediata attuazione di imprese finanziariamente impegnative oltre quelle già in corso, come osservava l’assessore Fusari, è pur vero che questo tema non può non trovare posto sin d’ora nella costruzione della sopra citata “visione” e dell’auspicato piano culturale cittadino. L’eventuale assegnazione di spazi, per quanto contenuti, ad associazioni in Casa Niccolini comprometterebbe irreparabilmente l’efficacia dell’espansione della Biblioteca, che necessiterebbe di spazi addirittura ulteriori, e non risolverebbe il problema associazioni. Quello del volontariato è tema delicato, non semplice e anche spigoloso per molteplici aspetti, come ben noto. Ma è pur vero che grazie all’affinamento delle competenze e al servizio alla città fornito da non poche di loro, le associazioni in questione costituiscono una risorsa rilevante, a Ferrara in particolare: sarebbe ingiustificato e ingeneroso sottovalutarla. E di competenza e maturità le associazioni hanno dato significativa prova di sé in diverse recenti circostanze, non ultima il convegno sui problemi e sulle prospettive dei musei a Ferrara promosso dagli Amici dei Musei nel 2011, con la relativa autorevole pubblicazione degli atti. E’ un testo, questo, che l’Amministrazione Comunale ben conosce e non c’è ragione di dubitare che lo consulterà nell’ambito della suddetta pianificazione. Si riterrebbe molto apprezzabile che l’attenzione e la vicinanza al volontariato culturale, tradizionalmente professati dal governo della città, costituissero il presupposto di una nuova coraggiosa scommessa nella quale la posta in gioco sia uno scambio fattivo e un pieno ascolto, nell’ovvio rispetto delle competenze istituzionali. E’ uno dei migliori auspici esprimibili dal volontariato culturale al governo locale che le imminenti elezioni amministrative determineranno.

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Salone del restauro di Ferrara: il restauro della villa romana di Silin a Leptis Magna, ovvero una bella storia di cooperazione italo-libica

E’ in programma per questa mattina, alla sala Marfisa, la presentazione dei progetti internazionali dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Iscr): esperienze di conservazione, restauro e formazione tra Mediterraneo e Medio Oriente, tra cui il progetto di restauro della villa romana di Silin a Leptis Magna, realizzato grazie alla cooperazione delle istituzioni culturali italo-libiche.

Quando, nel 2012, ho visitato per la prima volta Leptis Magna, sono rimasta colpita dalla bellezza del luogo ma anche, e soprattutto, dalla sua storia e dai colori quasi conturbanti, dominati dall’azzurro intenso del cielo che si perde in un amoroso, profumato e lungo abbraccio, con quello del luccicante mar Mediterraneo. Nessuna nuvola all’orizzonte, nessuna ombra intorno, ero circondata solamente da una luce abbagliante e accecante e dalla forte impressione di calcare, orme di dignità imperiale. Solo io e il passato, il mio, il vostro, il loro-nostro.

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Teatro Leptis Magna, foto di Simonetta Sandri

Durante una successiva visita al sito, conservatosi perfettamente perché rimasto coperto di sabbia per secoli, mi hanno portato a scoprire la villa di Silin, a circa 15 km di distanza da Leptis, un edificio da sogno, degno dell’ambientazione di un romanzo storico dalla trama intrecciata e viva, un luogo di primaria importanza per il patrimonio archeologico, storico e culturale della Libia, in considerazione dell’unicità del complesso, per stato di conservazione, articolazione architettonica ed estensione degli apparati decorativi, oltre che per sinuosa bellezza oggettiva. Un gioiello.
L’aria profumava di salsedine, fiori colorati abbracciavano il complesso, la generosità del mare Nostrum ci portava un altro dono da riscoprire insieme ad amici e colleghi che mi accompagnavano. La villa, a quanto mi dicevano gli archeologi con i quali ho avuto la fortuna di collaborare in passato su progetti in Libia ma anche in Algeria, era la spettacolare residenza di uno dei facoltosi notabili locali di estrazione punica, “romanizzati” nei gusti e nei costumi del vivere quotidiano.
Lo scavo del complesso residenziale è stato condotto dal Dipartimento delle antichità della Libia in anni relativamente recenti. Il vasto edificio – circa 50 gli ambienti coperti – risale al II sec. d.C. La fronte a mare appare articolata in portici colonnati e giardini. L’impianto è suddiviso in due settori: uno, di rappresentanza, a occidente, l’altro a oriente, gravitante su un vasto giardino al quale è collegato il nucleo circolare delle terme. Quasi tutti gli ambienti recano decorazioni pavimentali, musive o in marmi commessi, e intonaci dipinti parietali.
Ancor oggi memore di tanta bellezza, che rimane fra i miei ricordi più belli, scopro, con gioia e soddisfazione, che il progetto di restauro della villa Silin viene presentato proprio a Ferrara, la mia città. Che coincidenza e che legame per me! Non potevo, allora, non tentare di contagiarvi col mio entusiasmo e di condividere con voi, attenti lettori, questa meraviglia che, fra l’altro, testimonia una forte e storica collaborazione fra le nostre istituzioni culturali più prestigiose e quelle libiche. Conoscendo poi, personalmente, il livello di competenza, preparazione, impegno e passione tanto di Barbara Davidde (direttore del Nucleo interventi di archeologia subacquea dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, ISCR), di Luisa Musso (professoressa all’Università di Roma Tre) che di Giabar Matug e di Adel El Turki (del Dipartimento delle antichità della Libia, DoA), senza dimenticare quello del loro giovane ed entusiasta gruppo di studiosi e restauratori, mi pareva un’ottima occasione per parlarvi del progetto di Silin.

Da molti anni, infatti, l’Università degli Studi Roma Tre, con la missione archeologica diretta dalla prof.ssa Musso, ha condotto studi e interventi conservativi volti ad assicurare l’integrità di alcuni dipinti murali e mosaici della villa, poiché la sua posizione in riva al mare e i restauri, condotti con metodi non all’avanguardia alla fine degli anni ’70, ne avevano compromesso gli apparati architettonici e decorativi. La situazione della struttura a fine 2011 era tale da richiedere la formulazione di un nuovo piano organico d’interventi, il monumento era a grave rischio di perdita. Pertanto, nell’aprile del 2012, il DoA, l’Università degli Studi Roma Tre e l’Iscr hanno firmato un accordo di collaborazione per restauro della Villa di Silin. Ad essi si sono affiancati l’Università di Ferrara e quella di Roma La Sapienza, ognuna con specifiche finalità.

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Restauro e formazione on the job di Villa Silin, gentile concessione dr.ssa Barbara Davidde

La relazione, presentata alla sala Marfisa, illustra le fasi del cantiere pilota, iniziato nel 2012 e ancora in corso, finanziato dal Mibact e diretto dall’archeologa dell’Iscr, Barbara Davidde. Nella prima fase del progetto, sono stati intrapresi studi e analisi dello stato di conservazione della villa e dei fattori di rischio ambientale e antropico che ne mettono a rischio l’integrità. Tali studi hanno portato alla realizzazione di un rilievo laser scanner di tutto il complesso, allo studio del degrado biologico e ambientale e all’individuazione di metodologie d’intervento adeguate. Con questo primo finanziamento è iniziato anche un cantiere pilota di pronto intervento conservativo, dove tali metodologie sono state applicate su un campione di pavimenti musivi e affreschi. Nella primavera del 2013 è partito un secondo cantiere di restauro, che ha visto realizzarsi il pronto intervento conservativo dei pavimenti musivi del peristilio della villa.

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Restauro e formazione on the job di Villa Silin, gentile concessione dr.ssa Barbara Davidde

Ad una formazione sul cantiere, sono seguiti, nell’estate 2013, corsi di formazione per operatori tecnici per il restauro riservati al personale del Dipartimento delle antichità della Libia, organizzati insieme all’Unesco. Per cinque settimane, sono stati formati 35 conservatori e tecnici delle sezioni del Dipartimento di tutto il Paese (Sabha, Sabratha, Tripoli, Leptis Magna, Benghazi e Shahat), su alcune aree prioritarie: mosaici, affreschi murari, collezioni di artefatti (bronzi, ceramiche e vetri), pietre. Con l’occasione è anche partito il laboratorio di conservazione a servizio e beneficio futuro dell’intero territorio libico, e sono stati restaurati alcuni pezzi provenienti dalla collezione del museo di Bani Walid, gravemente danneggiati durante la recente rivoluzione.

 

 

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Formazione su cantiere, gentile concessione dr.ssa Barbara Davidde

Insieme all’Università La Sapienza, si è, poi, dato inizio alla sperimentazione di nuovi materiali per il restauro dei mosaici allettati su cemento armato, che ha previsto lo smontaggio di un settore del pavimento del peristilio, da riposizionare, nella primavera del 2014 (sicurezza-paese permettendo), con malta idraulica e speciali fibre di basalto. Tale tipo di materiale viene utilizzato, per la prima volta, per il restauro dei mosaici, possibile valido esempio per pavimenti musivi con analoghi problemi conservativi, per la presenza di cemento e ferro, come in molte aree archeologiche del Mediterraneo. L’esperienza ha permesso la redazione di un Piano conservativo generale, che potrà essere esteso al restauro dell’intera villa romana, che richiede un intervento complessivo; per questo, sono in corso di progettazione le nuove coperture che sostituiranno le attuali, ormai in degrado, in collaborazione con la Facoltà di architettura dell’Università di Ferrara.

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Particolare Villa Silin, gentile concessione dr.ssa Barbara Davidde

Vista l’importanza del monumento, il prestigio e l’esperienza delle istituzioni coinvolte, la realizzazione del restauro e la valorizzazione della villa di Silin potrebbe essere un intervento di grande impatto mediatico e, soprattutto, rappresentare, dal punto di vista scientifico, un’importante occasione di studio e di messa in opera di metodologie e materiali all’avanguardia. Non andrebbero sottovalutate nemmeno le ricadute socio-economiche del progetto, poiché nel corso dei lavori di restauro si potrebbe realizzare una vera e propria riqualificazione tecnico-scientifica del personale locale, con la possibilità di partecipare a corsi di formazione e aggiornamento professionale, anche in Italia. La formazione del personale locale è di primaria importanza per la corretta gestione e la manutenzione del sito archeologico, negli anni successivi al restauro. Queste attività potrebbero favorire l’occupazione nel territorio e incrementare le opportunità di scambio culturale fra Italia e Libia, che oggi, purtroppo, soffre ancora di gravi problemi di stabilità e sicurezza.

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Villa Silin, vista, foto Simonetta Sandri

La nostra speranza va a una Libia riappacificata, capace di accogliere le più belle aspettative.

Per vedere il sito di Leptis Magna [vedi il video] e [leggi]

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Alimentare creativamente le relazioni

Di creatività si è parlato molto, in relazione allo sviluppo nei bambini di buone capacità emotive e cognitive e negli adulti alla maturazione di un pensiero divergente, vale a dire in grado di trovare soluzioni originali, fuori dagli schemi abituali e comuni.
È stato detto da molti che la creatività è uno stile di pensiero, un modo di affrontare la vita, le fasi di cambiamento, i problemi inattesi; la capacità di associare idee e fatti, concetti e situazioni, vedendone il lato meno usuale rispetto alle immagini correnti.

Talvolta siamo portati a classificare come creativi pensieri o comportamenti strani, bizzarri o trasgressivi. Creatività non è sinonimo di eccentricità, anzi non è questa la cifra più interessante, la creatività non deve contrastare con la capacità di adattamento nella vita quotidiana.
La creatività può essere insegnata da genitori ed educatori a partire da un atteggiamento aperto alle novità, dall’attitudine a lasciarsi sorprendere e dalla fiducia trasmessa al bambino nelle proprie capacità.
Gli stessi sintomi sono atti creativi del soggetto, sono vere e proprie invenzioni, soluzioni che il soggetto trova per trattare paure, angosce, traumi sottostanti. L’atto creativo è anche ciò che compie l’analista all’interno di un percorso di cura, sorprendendo il paziente e facendogli sperimentare nuovi e diversi modi di stare in relazione con l’altro.

Qui voglio mettere però in luce come sia importante che anche le relazioni personali, a partire da quelle tra genitori e figli, siano alimentate da un atteggiamento creativo, per superare ostacoli, punti di stallo, momenti di difficoltà o divergenze nelle soluzioni da adottare nelle più disparate circostanze.
Una mia paziente mi ha proposto una interessante definizione del termine: “La creatività è qualcosa di così strettamente personale e legato all’individuo da poterla associare ad una sorta di spirito vitale, una luce che sembra esistere in persone dotate di vitalità, in grado di tradurre in atti, parole, sguardi, colori, musica, ma anche silenzi, movimenti, pause, espressioni del volto i propri mondi interiori”.

In sostanza, per essere alimentati da una relazione non ci basta ricevere dedizione e tanto meno sacrificio, ma occorre sentire l’energia vitale dell’altro e sentire lo sguardo dell’altro su di noi, che offre il riconoscimento necessario ed essenziale alla strutturazione di un’identità forte.
Nutrire creativamente le relazioni significa prendersi cura dell’altro, considerandolo nella sua unicità e offrendogli un posto particolare all’interno della relazione stessa. A tale proposito un’altra paziente mi dice: “Pensare alle relazioni mi fa venire sempre più spesso in mente un giardino. Le relazioni sono in fondo paragonabili a qualsiasi cosa necessiti una cura nel tempo, un’attenzione e una costanza. Un nutrimento… Un’alimentazione particolare per ogni albero, ogni pianta, ogni fiore che si è scelto di tenere”.

Ciò che nutre non è la “pappa”, ma la capacità di valorizzare la particolarità del soggetto, le differenze, di cogliere i tratti distintivi e unici perché, aggiunge la stessa paziente: “Ci sono tante piante nei nostri giardini, tutte diverse!”.
Le relazioni si possono nutrire trovando per ognuna di esse le dosi giuste di quell’amore che o rompe tutti gli argini o si rifiuta di uscire da dentro di noi. Non è semplice trovare un punto di equilibrio. Ci aiuta a capire la difficoltà una efficace immagine di un’altra paziente: “Come trovare per questo flusso tanto positivo e vitale quanto forte e pericoloso una musica d’orchestra al cui ritmo lasciarlo scorrere, portatore di gioia e non di dolore?”
Ricordiamo che l’amore va comunicato e rinnovato. La tendenza a dare per scontati i sentimenti è un modo per non nutrirli. C’è chi l’amore non lo dice e chi lo dice tutti i giorni, così spesso e con tanta maniacalità da rendere pesante ciò che per natura alleggerisce l’animo e dona aria e libertà. Alimentare creativamente le relazioni significa trovare le risorse per tenere vivi i luoghi, gli spazi delle varie relazioni, anche contro le routine della vita quotidiana e la stanchezza.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, è specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

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Dagger Moth: la ragazza “solitaria” della musica indipendente

L’appuntamento è al caffè Tiffany, nella sala superiore appese ai muri le foto in bianco e nero dei più grandi musicisti della storia, direi che è il posto giusto per ciò che mi aspetta. Incontro Sara per saperne qualcosa di più sul progetto Dagger Moth, un disco autoprodotto che dalla sua Ferrara la porta in giro per l’Italia a suonare in solitaria: chitarra, voce, e una serie di pedali, loop station, che fanno il resto sotto la sua sempre attenta regia.

Vorrei sapere da dove deriva la sua forza, la sua musica, qual è la sua storia, e le sue parole schiette producono questa prima immagine: una bambina disegna sul tavolo della cucina, ritrae delle bambole, oppure un gatto, o ancora la propria mamma. Dalla finestra filtra la luce gialla dell’estate inoltrata. Fra un po’ è il suo compleanno. E’ una bambina magra, timida e un po’ solitaria, che col tempo ha imparato a riempire i suoi pomeriggi con l’immaginazione. Non ci sono fratelli e non ci sono molti coetanei nel suo quartiere, per cui la piccola inventa, apprende come fare da sé.

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Sara Ardizzoni da bambina, foto di Giorgio Ardizzoni

Accanto alla presenza scenica, a una produzione musicale originale e inconsueta per il panorama italiano, trovo un fare semplice, disponibile, il bell’accento della sua terra, e tanta autoironia.
La seconda immagine porta ancora nel passato: è quella di una liceale ancora introversa, che grazie alla passione paterna cresce con il blues di B.B. King, Roy Buchanan, Steve Ray Vaughan, col jazz di Django Rienhardt, le note di Coltrane, e gli immancabili Pink Floyd. Cresce e osserva quella chitarra elettrica nel salotto, finché un giorno per caso la imbraccia, e non la molla più. Quindi la scuola di musica moderna dove incontra i primi amici veri, insieme alla passione.

Ma se l’immagine è ancora quella di una ragazza, il quadro non è del tutto completo. Manca il lato perfezionista e meticoloso di questa liceale, l’impegno scolastico che la porterà dritta alla laurea in Architettura. Non sembra una che lasci qualcosa di incompiuto, anche se sorridendo confessa che, da quando lavora e suona, i libri li lascia sempre a metà, la stanchezza finisce per sfinire pure la curiosità. Nel frattempo il tempo passa e lei ha seguito la scena grunge nata a Seattle negli anni ’90, si è nutrita di punk e hardcore, ha scoperto la diabolica chitarra di Marc Ribot, ascolta i Portishead e P. J. Harvey, si innamora dei Fugazi: una delle band culto della scena alternativa americana.

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Foto di Davide Pedriali

Poi c’è questo pomeriggio e la terza immagine: una donna magra che porta lunghi capelli neri e un lieve filo di trucco. Ha una certa dose di sensualità, ma la indossa quasi involontariamente. E’ appena uscita dall’ufficio dove si guadagna da vivere: l’architettura le ha fornito un lavoro e rappresenta il dovere, la musica uno scopo, e incarna la vita.
Mentre conferma di non aver mai vinto la ritrosia, di portarsi appresso l’antica timidezza, e farsi continua violenza per salire su un palcoscenico davanti al pubblico, Sara sembra essere una donna forte. Conosce i suoi difetti, le paure, e non si sottrae alla sfida continua per superarle. Lo fa col sorriso. Per questo ci vuole coraggio.“Qualcosa di estremamente doloroso mi ha insegnato che non c’è un attimo da perdere, e da allora ho iniziato a correre. Ho deciso che non mi sarei più fermata, non avrei rimandato ciò che desideravo fare, e i miei mi hanno trasmesso che la vita coincide col fare, non con l’attendere”.

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Foto di Emanuela de Toffani con Giorgio Canali

Molte persone credono nella musica di Sara, e il progetto Dagger Moth nel suo piccolo ha realizzato aspirazioni e abbattuto muri. Caparbia, non ha avuto più voglia di aspettare che arrivassero risposte o conferme, e direi che col proprio talento si è appropriata di ciò che le spetta.
Mi descrive ancora incredula quella volta che si ritrovò nella mail la richiesta di una collaborazione da parte di quel Joe Lally che suonava il basso proprio con i suoi amati Fugazi. Oppure l’album prodotto con l’aiuto della Psicolabel di Giorgio Canali, ex CSI e PGR, che ha cantato in Mind the gap insieme a lei.

Questa è Sara Ardizzoni ai miei occhi, anche se per capire il ritratto e dare essenza alle parole occorre ascoltare Dagger Moth, la sua cullante psichedelia, le parole dal ritmo lirico, e il canto mai urlato, accompagnato da un tappeto di arpeggi intensi, in cui a volte irrompe il suono cattivo e saturo della sua chitarra elettrica. Ascolto Ghost, un’onda che ripetutamente si espande e si ritrae, il cui testo ha un sapore poetico ed essenziale che cerco di tradurre: “Non posso cancellare/ una luce così forte/ Non un movimento/ Non un’ombra/ Ho migliaia di parole da pronunciare/ che ho fatto sprofondare”. O ancora Out of shot, scritto a quattro mani con Lally, in cui dichiara che nella vita non si accontenterà di imbrigliare i sogni di qualcun altro, e so che andrà come scrive. “All that I’ve ever learnt/ all that I’ve ever seen/ is not enough for me/ tame your dreams”. Crushed velvet tra le altre cose è rivendicazione delle proprie scelte, il diritto di scegliersi la propria strada e il modo di amare, inevitabilmente costellato di errori “So I don’t want a ruler to gauge a wrong side of life/ (…) to gauge a wrong side of love”.

E’ un modo di stare al mondo, quello di Dagger Moth. C’è grazia in Sara Ardizzoni e nel suo viaggio. E’ ciò che cerco in questo innocuo e forse inutile vagare verso gli altri! Non mi interessa altro che il moto di chi mi sta davanti e cosa lo genera. E’ un modo come un altro per sentire tra le mani un flusso che scorre inesorabile.E allora imbraccia la tua chitarra e metti più aria che puoi nei polmoni, così da riuscire ad andare lontano come desideri. Non fermarti Sara… continua a correre!

Dagger Moth (Sara Ardizzoni)
La sua pagina facebook 
La sua musica

Il blog di Sandro Abruzzese

La foto in evidenza è di Luca Cameli

 

Giulio-Felloni

Giulio Felloni fra moda, auto e sport. Curiosità di un uomo appagato

Noia è un termine assente dal suo personale dizionario. Non ha bisogno di spiegarlo Giulio Felloni, presidente Ascom di Ferrara e da qualche tempo della Federazione Moda Italia provinciale. Non ha bisogno di raccontarlo perché è da sempre un uomo curioso, fedele al verbo fare e alle proprie passioni, che trasforma in un lavoro divertente. Possibilmente utile alla sua città. Ma l’affetto per Ferrara e le sue tradizioni culturali, artistiche, storiche e perfino gastronomiche è maturato con il tempo. Da ragazzo erano i motori a occupare i suoi pensieri. felloni‘Alla frequenza universitaria preferivo le gare in macchina, così rubavo l’auto a mio padre, poi a un certo punto l’ho preparata per il campionato di velocità”. Nessuno canta meglio di un motore all’orecchio di un fan del volante. Se poi le quattro ruote sono d’epoca la passione diventa vero amore come è successo a Giulio Felloni per 13 anni presidente del club Officina Ferrarese cui si deve l’organizzazione di uno storico raduno d’epoca “Valli e Nebbie”, un quarto di secolo ben portato nato dall’intuizione del presidente, che ancora oggi ha parole di stima per chi insieme a lui si è adoperato per realizzarlo. “Non solo è una manifestazione molto apprezzata, ma permette di scoprire una Ferrara inedita, poco conosciuta e bellissima”. Nei suoi ricordi c’è posto per la Mille Miglia ma anche per il football americano e le Aquile, uno dei team storici italiani fondato nel 1979. “Ho accompagnato la squadra per mano fino agli anni Novanta, le Aquile hanno vinto il titolo italiano e sono una formazione che a differenza di altre non ha avuto intoppi durante il lungo percorso professionale”, racconta con orgoglio, ricordando come insieme ad altri due amici ha fondato la Fidaf, Federazione italiana di football americano.

Felloni“All’epoca ero già sposato e avevo due bambini”, dice. Di quella stagione sportiva resta anche un film made in Usa dedicato alle Aquile e mai arrivato in Italia. Un documento con tanto di attori, non ultimo il mitico Maurizio Nichetti nei panni di Giulio Felloni. Sorride il presidente, ha sempre avuto un debole per lo spettacolo, per il teatro, per le cose nuove. E’ un uomo curioso, appunto. Tanto da partire per l’Inghilterra insieme al fratello Alberto, l’obiettivo era un periodo di formazione per inserirsi con idee all’avanguardia nell’azienda di famiglia nata nel 1946. “Sono partito dalla gavetta, facevo un lavoro di facchinaggio vero e proprio”, racconta. Da Londra a Milano, sempre a farsi le ossa nel settore. In pochi anni accanto ai tessuti, core business dell’attività familiare, comparvero i capi d’abbigliamento più moderni di tutta la città. Il trionfo del jeans. Attillato, a vita alta, bassa e chi più ricorda più conosce la storia di un’istituzione della moda ferrarese. Era l’effetto Londra, il riflesso di Carnaby street e Kings Road. In poche parole: la moda. Imprescindibile dalla pop art e dalla musica di due mitiche rock band i Beatles e gli Stones. Altri tempi, altre speranze, una cosa è certa per Giulio Felloni. “Oggi più di allora l’innovazione deve essere sempre al centro di ogni attività commerciale”, spiega.

felloni“I cambiamenti si susseguono con grande velocità, soprattutto negli ultimi anni. Dopo due mandati in Ascom non potevo restare in carica un terzo – dice – Vi ho fatto ritorno dopo sei anni su sollecitazione del presidente nazionale Carlo Sangalli, è stata una chiamata lusinghiera, ma lo scenario con cui ci si misura è completamente diverso. E’ dominato da una tale incertezza da non consentire di programmare il futuro”. Dalla politica alla burocrazia alla rigidità delle banche restie a supportare il rischio d’impresa, tutto sembra giocare contro la ripresa. “E’ davvero molto complicato confrontarsi con un panorama nel quale emergono ogni giorno incongruenze e ingiustizie sociali – dice – si fatica a ignorare come gran parte dell’impegno di chi ha delle attività sia profuso per far fronte al pagamento delle tasse. Insomma è difficile”. Per tutti e anche per Ascom. “Il nostro impegno c’è, sono tante le cose in campo, penso alle iniziative nate per affrontare i problemi dei centri storici ai momenti d’ascolto degli associati di altre cittadine della provincia al percorso per rendere Ferrara una città accessibile a tutti – spiega – Resta però un fatto importante, la necessità di condividere scelte e strategie con tutte le forze sociali. L’obiettivo comune è la crescita di una città dalle tante caratteristiche non sfruttate”. Sono il fascino discreto di Ferrara, le differenti prospettive che può offrire – riassunte secondo Felloni nella bellezza del campanile incompiuto del Duomo che tanto gli piace – ad aver bisogno di una cassa di risonanza diversa. Fresca. “Il ricambio generazionale e la crescita di giovani imprenditori avrà un ruolo importante nell’emergere di idee ed esperienze – spiega – Stiamo vivendo un momento di transizione da fronteggiare con grande calma, senza perdere di vista innovazione e servizi, che oggi fanno la differenza. L’importante è non scimmiottare il passato, diversificare le attività e prevenire le tendenze, una qualità fondamentale per un imprenditore”. L’emergenza è frenare la debacle. Hanno chiuso troppi negozi e altri restano vuoti per il caro affitti. Per ogni luce che si spegne, conclude Felloni, se ne va un pezzetto di città. E si rischia di aprire la porta al degrado del salotto ferrarese.