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Svuotati i bancomat ai lidi: turisti al verde, il ponte manda in tilt il sistema bancario

C’è soddisfazione per il tutto esaurito del Summer Fest, eppure il mugugno non si fa attendere. Tutta colpa dei bancomat svuotati durante il ponte della Repubblica, quasi come se la crisi fosse evaporata. Al Lido di Spina lo sportello di Carife di viale Leonardo da Vinci era fuori servizio fin da domenica, tanto che i villeggianti hanno avuto più volte modo di lamentarsi e chiedere aiuto al supermercato, mentre gli ambulanti del mercato si sono arrabbiati per i contraccolpi del disagio subito dalla clientela.

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Riccardo Boldrini – direttore camping Spiaggia e Mare e consigliere Banca Centro Emilia

“Ho ricevuto diverse segnalazionI; io stesso, seppure non fossi ai lidi, ho avuto delle difficoltà, è stato un sabato traumatico, sono riuscito a fare un’operazione su 10”, racconta Giovanni Finotelli, vicepresidente Confesercenti Delta con delega al commercio. Colpa del circuito sovraesposto, dell’assalto di pubblico, ‘delle cavallette’ come recitava il mitico Belushi dei Blues Brothers? “E’ molto semplice, sono finiti i soldi. Anche se lo avevamo previsto caricando al massimo la cassa, siamo rimasti senza banconote – spiega Riccardo Boldrini direttore del camping Spiaggia Mare di Porto Garibaldi e consigliere di Banca centrale Emilia, tre sportelli in altrettante località comacchiesi – Questa mattina (martedì per chi legge) abbiamo ricaricato, non si poteva fare diversamente. In campeggio abbiamo retto bene perché è a misura di ospiti”.

 

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Giovanni Finotelli vicepresidente Confesercenti Delta, ha delega al commercio

L’obbligo di pos è ormai realtà, con buona pace di chi resta senza contante. “Non siamo ancora pronti per la moneta elettronica – attacca Finotelli – Non tanto noi, che comunque dobbiamo pagare commissioni di transazione a beneficio unico delle banche, una cosa peraltro inesistente in America, ma i clienti. Parlo soprattutto di quelli anziani, molti dei quali non possiedono nemmeno un bancomat. A quel punto che si fa? Perdiamo la vendita o diventiamo evasori?”. S’impone l’era della moneta elettronica, ma al contempo si arranca nell’affrontare un ponte lungo e di successo. Altro che spesa minima di 30 euro. Il sistema non garantisce neppure il personale qualificato per alimentare la cassa automatica nei giorni di festa. Straordinari insostenibili? Uno sforzo si può pure fare, almeno nelle grandi occasioni pensate per il rilancio della riviera. Gli appuntamenti importanti sono pochi e di ponti così estesi non se ne vedevano da anni.

“Sabato e domenica – raccontano alcuni signori – ci siamo prestati i soldi tra amici”. Vita dura senza argent de poche. “Mi è stato riferito delle difficoltà di rimpinguare la liquidità incontrate da alcuni turisti – conferma Nicola Bocchimpani, presidente di AsBalneari – Non mi sorprende, a Scacchi non ci sono sportelli bancomat e l’unico di Pomposa finisce spessissimo la scorta”. Un servizio in meno agli ospiti. Lo Stato impone agli operatori la moneta elettronica, i commercianti pagano le spese di transazione. E le banche, guarda un po’, non hanno contante. Nemmeno nei giorni di festa grande. Quando la crisi appare meno austera e pesante.

La lettera del sindaco Tagliani al direttore della Nuova Ferrara (con sottotitoli)

Lunedì il sindaco Tagliani ha indirizzato una lettera alla Nuova Ferrara, in risposta al direttore Scansani. Eccola qua, ripubblicata e sottotitolata…

Caro Direttore, come ormai le è d’abitudine lei mi interpella all’ora e nel giorno che desidera imponendo tempi, argomenti e modi. Ma io, che sono uomo mite, obbedisco.
[Mi sono rotto le balle di questo modo di fare, ma siccome litigare non conviene le rispondo e già che ci sono mi cavo qualche sassolino]

In primo luogo fa comodo alla vulgata giornalistica descrivere il sindaco di Ferrara come la somma di poteri immensi che vanno dal Presidente della Provincia che verrà eletto in settembre, all’assessore regionale alla sanità che verrà scelto nella prossima primavera, all’arbitro della economia locale, via di mezzo tra il commissario Carife ed il presidente della Camera di commercio. Non cerco alibi ma segnalo che il mondo è più complicato di un titolo cubitale.
[I giornali semplificano e banalizzano ogni cosa, d’altronde li fanno i giornalisti…]

Chiarito questo non mi nascondo. Il secondo mandato non prospetta solo il rischio di cadute di energia, ma anche autonomie nuove, libertà inedite: quelle di chi come il sottoscritto, non ha alcun bisogno di ossequiare, non avendo ambizioni eccessive da coltivare, debiti da pagare, incarichi da chiedere a fine mandato.
[E’ pur vero che sono democristiano, ma a ‘sto giro qua mi prendo le mie belle soddisfazioni: le elezioni le ho vinte ed è inutile stare a far calcoli: si sa, “del doman non v’è certezza”. E allora tanto vale godersela]

E allora caro Scansani sa cosa le dico? Le dico che la prima cosa da fare sarà chiamare le cose con il loro nome: a Ferrara ci sono persone che si prendono responsabilità e altri che se la raccontano, imprenditori che investono ed altri che accantonano, politici chiacchieroni ed amministratori al lavoro quotidiano. Associazioni dinamiche ed estenuanti dispersive gelosie.
[J’aldamar j’ha finì ad godras]

Vengo ai punti sottopostimi, sono gli stessi di una campagna elettorale tra il noioso e il fastidioso.
[Speravo di aver finito con ‘sta rottura di coglioni, invece insistete a chiedere sempre le stesse cose]

La testa di ponte nelle relazioni con i territori circostanti può essere solo la città, non da sola, ma con una larga condivisione che superi le differenze politiche, da Alan Fabbri a Fabbri Marco, ogni altra scelta è destinata a finire in niente.
[‘Todos caballeros’. Però ricordatevi bene – per dirla con l’autorevolissimo marchese del Grillo – che io so’ io e voi nun siete n’cazzo]

Devo però dire che questa ossessione della marginalità non deve convocarci come al cospetto di “pianzun dlà Rosa”, in verità tutta la “provincia” italiana in un Paese che elimina Prefetture, Provincie e Camere di commercio a beneficio di grandi città metropolitane, rischia di trovarsi “spiazzata”, provi a pensare a Mantova, a Pistoia, a Macerata, Rovigo, Pordenone, Imperia… il mal comune non porta alcun gaudio ma questa storia dei ferraresi perseguitati da un destino cieco e baro comincia a darmi sui nervi: dico anche a lei al lavoro, basta piangersi addosso!
[Ciò premesso, sarebbe ora di finirla coi piagnistei e rimboccarsi le maniche]

Cona non è un problema, ma sarà la soluzione, se la sanità ferrarese la smette di cincischiarsi, con la difesa di posizioni superate altrove da 15 anni, e, se la salute dei cittadini ci interessa più di qualche “baronia”, chiediamo alla Università di pensare al futuro delle eccellenze vere: quelle che hanno evidenze scientifiche ed organizzative. Non sta a me farne la cernita, ma qualcosa dopo anni si muove finalmente. Nel frattempo in quell’ospedale dove nessuno scommetteva due anni fa ci saremmo mai trasferiti, oggi si fanno decine di migliaia di interventi, più di quanti si facessero al Sant’Anna. L’autobus passa ogni 15 minuti, il parcheggio è il triplo di quello di prima, la metropolitana riparte entro il 2014, se così non dovesse essere l’appaltante ovvero la FER e l’appaltatore si dovranno porre seriamente il problema del risarcimento danni alla città. Cona non è affatto un problema “cromosomico” della città, è una scelta sbagliata del 1990, ma il corredo cromosomico dei ferraresi non risulta affatto alterato, si altererebbe invece se a Cona la sanità non girasse come deve, ma, pur essendo tutto migliorabile, prendo atto delle lettere di compiacimento che leggo spesso sul suo giornale e che da anni non trovavo.
[Su Cona ormai i maroni mi fumano. Quei quattro parrucconi dell’Università è ora che si diano una regolata. E la Fer stia attenta perché se fanno i furbi gli faccio il paiolo]

Proprio il dato elettorale, veda i dati di sezione, conferma che anche nel quartieri “Giardino” della città il Pd e questa amministrazione ha ricevuto il maggior consenso, e l’interpretazione può esser solo una, qualcuno ha esasperato i toni contribuendo ad una immagine deprimente del quartiere, mentre altri hanno lavorato per arginare i fenomeni di microcriminalità che sono presenti nel quartiere Giardino (da oggi lo chiamerò sempre così perché è così che si chiama) come in tantissime altre realtà cittadine e i ferraresi preferiscono chi dà risposte e non si limita a denunciare problemi.
[Faccio finta di non sapere che il quartiere Giardino è in massima parte quello della buona borghesia ferrarese, dove i moderati hanno sempre preso su bene; e fingo di dimenticare che mi sono ben puntellato il fianco destro con gli ex berlusconiani]

Sono mancati nei cinque anni precedenti i grandi temi, la “visione”? Ma secondo lei decidere di tagliare 50 milioni di debito e ridurre le tasse fa parte del day by day? Errore clamoroso è un grande disegno se non lo si fa a danno dei più poveri! Trovare 50 milioni di euro per il Palaspecchi, 12 milioni per il Massari, avviare il Meis, con un appalto in corso per altri 10, approvare tutti gli strumenti urbanistici con larga condivisione cittadina, avviare le bonifiche al petrolchimico e nei quadranti a rischio, aver aumentato a decine i posti di nido e le case popolari, aver registrato importanti investimenti imprenditoriali (Bricoman, Luis Vuitton, Terna, Softer…), ai quali aggiungo 180 milioni di Versalis in anni come questi… Tutto questo lei lo giudica il solito vecchio tran tran quotidiano?
[Io ho undici decimi, cari miei, non dieci]

Sarà: ma io mi guardo intorno e vedo tanta chiacchiera, ma pochi fatti e del resto quale programmazione si può fare con un governo che cambia ogni sei mesi ed il quadro finanziario che si muta sotto il naso: l’ultima volta solo un mese fa? Io confido nella stabilità del governo Renzi, allora sì che può prendere corpo una visione, la mia: una città che offre alle idee d’impresa, quelle grandi, ma anche quelle delle fab lab dei giovani, spazi e condizioni di espansione, una città capace di crescere con le seconde generazioni della immigrazione che oggi sono gli amici dei nostri figli e parlano solo l’italiano, una città civile, pulita, viva, una città che parla di cultura non solo se “si mangia”, ma che comunque offre a chi vuole investire occasioni che nessuna città di provincia, senza alcuno sponsor, è in grado di offrire, una città che si apre al fiume e ne fa occasione di un turismo intelligente e lento, una città “parco” con oltre 5 milioni di metri quadrati di verde pubblico che vuole dialogare con il suo delta, come dialoga con la sua storia rossettiana, una città europea non più obbligata a confrontarsi con dieci commentatori blog disoccupati, ma che si confronta con Monaco, con Lione, con Gerico, con Sarajevo e non cito a caso.
[Le so tutte]

Una città che abbandona le frasi fatte e si apre al confronto con Hera, senza sudditanze ma anche senza demagogie, una città che è in grado di dire alla Regione Emilia Romagna che se la geotermia è pericolosa allora si chiuda tutta, ma anche che se oggi la Regione è eccessivamente prudente per coprire l’errore fatto nel non divulgare subito gli esiti della commissione Ichese, oppure perché si vota l’anno prossimo, allora è peggio la toppa del buco, perché io rimango della mia idea, quella che mi sono fatto nel corso di mesi di incontri con i tecnici, quella che avevo prima della campagna elettorale e durante la stessa, con coraggio, coerentemente, a prescindere dal consenso, abbiamo l’acqua calda e ci leghiamo al metano altro che ai rifiuti.
[Con Hera bisogna che ve la mettiate via: ci dobbiamo convivere, i padroni sono loro. Invece la Regione non stia tanto a fare la furbina, ché negli armadi hanno i loro scheletroni…]

Grazie dell’incoraggiamento Scansani, e buon lavoro anche a voi.
[Fev mo dar in t’l’organ tuti!]

Pensare politicamente

I commenti e i propositi dopo il voto europeo registrano un ritorno in scena della politica come protagonista a seguito di anni in cui è stata relegata, nella percezione generale, a ruolo di comparsa insignificante. Non ripropongo l’integralistico primato della politica in auge negli ultimi decenni del secolo scorso. Parlo del riemergere della necessità di pensare politicamente. La politica come pensiero, come cultura, come progetto, come un sapere e una prassi che sappiano dare un senso ad un’impresa collettiva del nostro tempo, che è il tempo della società degli individui e della domanda di più libertà e giustizia sociale. Nel mutamento profondo che la globalizzazione ha determinato della forma del mondo, la politica può diventare per ogni individuo ciò che scriveva Gramsci nel chiuso di una cella dei tragici anni trenta: la politica come cultura “…è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri”.
Però, nel nostro tempo registriamo una novità sconvolgente rispetto al secolo scorso: il generale indebolimento di strutture forti che, dall’interno e dall’esterno, costituiscono la personalità dell’individuo. Al posto di moduli solidi e predeterminati come il lavoro, la famiglia, l’identità sessuale, l’appartenenza politica, si sta formando un pulviscolo di possibilità, forme provvisorie di aggregazione e disaggregazione. Nello stesso momento si avverte una sorta di inscalfibile e opaco dominio di un potere lontano verso cui l’individuo si sente impotente. La coscienza del singolo è tentata di rinchiudersi in sé, ridurre i tramiti che la mettono in rapporto con le grandi realtà collettive. Proviamo a fare questo esperimento. Se guardiamo alla nostra vita in modo ravvicinato, ricorrendo ad un microscopio, vediamo una serie di possibilità e di scelte prima sconosciute; se invece rovesciamo la visuale ricorrendo ad un telescopio, ci pare di scorgere una società immobile, priva di alternative e di obiettivi capaci di smuovere un eterno presente che ha paura del futuro. Questa divaricazione è alla base di un’angoscia collettiva che prende soprattutto il giovane (ma non solo…) che si trova solo di fronte al vertiginoso compito di definirsi da sé. E’ dentro questa angoscia (che Freud definisce “il sentimento che non mente”) che deve penetrare la speranza di una nuova politica.
L’alta e specifica moralità della grande politica, quando ha saputo essere all’altezza del compito del momento, è sempre consistita nel tentativo riuscito di guardare alla storia degli uomini e delle donne come a un mondo che può essere rappresentato e governato da un progetto e da idee come principi destinati a dare forma alla vita pubblica della società. Ecco, in conclusione, cosa significa pensare politicamente: salvare il nucleo fondamentale della politica come idea, in modo che la politica stessa possa ridiventare (con tutte le innovazioni necessarie di programma, organizzazione, personale politico) lavorio di critica e di penetrazione culturale che persuada aggregati di uomini e donne refrattari e solo preoccupati di risolvere giorno per giorno il proprio problema per se stessi, a ricostruire legami sociali di collaborazione e solidarietà con gli altri che si trovano nelle stesse condizioni. Questo è il compito di un partito e di un vero leader politico: risvegliare e mettere in movimento energie e nuove responsabilità. Una società in crisi e complessa si cambia con l’attività e l’intelligenza di molti, non con un uomo solo al comando e il resto a fare da spettatori che applaudono o fischiano.
Diceva Italo Calvino che i problemi che ci troveremo ad affrontare nel prossimo secolo saranno quelli che vi porteremo. Ora che siamo non solo nel nuovo secolo, ma anche nel nuovo millennio, l’identità pubblica e privata è al centro dei nostri interrogativi perché alla decostruzione del passato non ha ancora corrisposto una nuova ridefinizione di noi stessi sia come animali politici, sia come singoli individui. Per questo possiamo rispondere: ‘Nel nuovo secolo troveremo ciò che sapremo costruirvi’.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Rossi ma di vergogna

Pepito Rossi non l’ha presa bene la sua esclusione dal gruppo azzurro. “Io fuori forma? Me la rido”, ha detto con amaro sarcasmo.
Di lui Prandelli aveva affermato: “E’ un esempio. La sua radiosità, la sua serenità, la sua classe sono un messaggio bello per tutto il calcio”. Non è uno sprovveduto e neppure un uomo privo di sensibilità il ct della nazionale. Ha regole e principi che rispetta e fa rispettare. Ha persino introdotto un codice etico che sanziona con l’esclusione protempore della maglia azzurra i calciatori colpiti da provvedimenti disciplinari: un buon segnale, benché non sempre applicato con rigore. Però nel caso di Rossi prima di decidere avrà certamente soppesato tutti i pro e i contro.
Al riguardo la stampa è abbastanza abbottonata, prima di esprimersi attende di vedere come va a finire l’avventura brasiliana: un atteggiamento al solito dettato dal coraggio delle proprie idee.
Ma quel che stupisce, al di là del singolo caso Rossi, sono le scelte fatte dal selezionatore per l’attacco azzurro. Solitamente la classifica cannonieri è dominata dagli stranieri. Quest’anno, invece, non solo un italiano è arrivato in cima alla graduatoria, ma ce ne sono tre fra i primi quattro e sette fra i primi dodici: Immobile, Toni, Di Natale, Berardi, Rossi, Gilardino e Paulinho (brasiliano col passaporto italiano). Solo campioni del calibro di Tevez, Higuain, Palacio, Llorente e Callejon si sono inframmezzati ai nostri. Insomma, una volta tanto, fra esperti e giovani c’era solo l’imbarazzo della scelta.
Prandelli invece, a parte il capocannoniere Immobile, è andato a pescare nelle retrovie della classifica. Per carità, mica brocchi: Balotelli (che però non è in perfette condizioni atletiche), Cerci (che però ha accusato un evidente calo di condizione e soprattutto di capacità realizzativa nel girone di ritorno), Cassano (talentuosissimo ma incostante, intemperante e per questo spesso fuori dal giro della Nazionale), infine Insigne (un virtuoso che la porta però la vede proprio poco: 3 gol appena…). Insomma, non sono convinto e lo dichiaro prima, a costo d’essere smentito (speriamo!).

L’artigianato profumato di Jazmin, oggetti fatti con bucce d’arancia

E’ la prima volta che esce dalla Colombia, la prima volta che vola in Europa e la prima volta che racconta in pubblico la sua esperienza: artigiana specializzata nella lavorazione di oggetti da regalo fatti con bucce d’arancia, diventa poi responsabile della produzione e del controllo qualità del laboratorio “Piel Acida” (oggi Sapia) di Bogotà. E’ appena stata a Ferrara, ospite della cooperativa di commercio equo Altra Qualità con cui collabora dal 2003.

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Bamboline in buccia d’arancia lavorata a mano da Sapia

Prima di raccontare dell’incontro con Jazmin Zetabobo Molina, occorre premettere che adoro quel profumo assolutamente inconfondibile di buccia d’arancia che pervade lo show-room di Altra Qualità e che accoglie il visitatore in ogni momento dell’anno. Non è Natale per me se non mi reco lì per annusare i vestitini arancio di quei deliziosi angioletti e le decorazioni fatte con stelline giallo oro. Dolce, intenso e speziato, quello per me è “il profumo”. E come si sa, i profumi sono spesso legati alle storie, le definiscono. Non potevo quindi perdermi l’incontro con una delle artigiane di “Piel Acida” che, nella mia romantica immaginazione, deve avere il dono più unico che raro di mani profumate all’aroma di buccia d’arancia.

 

L'artigianato profumato di Jazmin, oggetti fatti con bucce d'arancia
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decorazione

Jazmin, Jaz per gli amici, è una bellissima giovane donna con lunghi capelli neri e occhi intensi e seri. Appare fin dall’inizio una persona molto sobria, responsabile, semplice ed elegante insieme (notiamo immediatamente che indossa un meraviglioso anello di cui le chiederemo dettagli a incontro finito).

 

 

 

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Jazmin nel 2004 a Piel Acida, mentre prepara stelline di buccia d’arancia per l’essiccazione

Quando comincia a raccontare la sua storia, capiamo subito le ragioni di tale serietà e maturità: Jazmin ha solo 32 anni ma metà della sua vita l’ha spesa tra lavoro e figli. Ha iniziato a lavorare a 17 anni dopo essere rimasta incinta, ha un ragazzo di 15 e una bambina di 6 anni da crescere da sola, lavora otto ore al giorno ma ce ne mette due ad andare al laboratorio e due a tornare, che insieme fanno 12, questo significa che si alza alle 4 della mattina e non rientra prima delle 7 di sera quando è già buio, dopodiché si dedica a verificare che i compiti siano stati fatti bene e che tutto sia pronto per l’indomani, un po’ di tele e alle 11 nanna. Insomma, giornate piene e non facili, ma Jazmin si dice molto fortunata ed è contenta perché ha un lavoro in regola (cosa che in Colombia non è la norma) in un’impresa che da sempre valorizza il fattore umano e premia impegno e capacità: Jaz ha iniziato come tutti a Piel Acida con la lavorazione della buccia d’arancia, nel corso del tempo è divenuta una delle artigiane più esperte e, nonostante non abbia un elevato livello di scolarizzazione, quando la cooperativa si è ampliata, è diventata responsabile della produzione e del controllo di qualità dei fornitori, i cosiddetti “satelites ossia singole persone (generalmente donne capofamiglia, spesso abbandonate dai mariti) o gruppi informali o famigliari, che assemblano e realizzano i prodotti a casa loro o in piccoli laboratori, ricevendo rigorosamente la stessa paga oraria dei dipendenti, calcolata sommando costo orario e contributi, cosa non comune per i lavoratori informali.

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Laboratorio Piel Acida 2004: Jazmin e Ana Maria Pedrahita, una delle fondatrici

Con grande umiltà e onestà, Jazmin ci dice però di dover tutto a Javier (uno dei due fondatori, insieme ad Ana Maria Pedrahita, di Piel Acida); da lui ha imparato tutto quello che sa, in materia di gestione della produzione, di distribuzione del lavoro ai “satelites”, di logistica, gestione degli ordini, e grazie a lui ha deciso di rimettersi a studiare, magari specializzandosi in amministrazione.
Chiediamo a questo punto a David Cambioli, presidente di Altra Qualità di raccontarci qualcosa su questo Javier e sulla nascita della cooperativa Piel Acida/Sapia: “Javier Cardenas è un tipo molto in gamba, si è laureato in Ingegneria gestionale nel 1999, e, subito dopo, ha proposto alla sua amica Ana Maria Pedrahita, amica di famiglia poco più grande di lui, di affiancarla nell’attività artigianale che lei aveva da poco avviato per dare un’opportunità lavorativa alle donne in difficoltà.

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Spremitrice ambulante d’arance, Bogotà

Ana Maria (che dei due è l’artista) ha avuto l’idea del tutto originale di riciclare le bucce d’arancia delle spremitrici ambulanti che, in ogni periodo dell’anno e ad ogni angolo di Bogotà, dissetano i passanti, lasciando però tonnellate di bucce d’arancia inutilizzate. Dall’idea alla realizzazione: hanno creato un’impresa, assumendo tre donne in difficoltà tra cui la giovane Jazmin e seguendo tutto il processo, dalla raccolta delle bucce, all’essiccazione, alla lavorazione a mano. Per la raccolta, si sono accordati con le venditrici di spremute che puliscono le bucce e le asciugano, e che vengono pagate a peso (questa retribuzione è diventata la principale fonte di sostentamento per alcuni venditori di arance); poi hanno impiegato dei ragazzi che hanno il compito di passare con bici complete di portapacchi per ritirare i sacchi.

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Spremitrice ambulante che pulisce a asciuga la buccia d’arancia per Piel acida

Per intagliare le varie forme (cuore, stella, pupazzo, ecc.) inizialmente facevano tutto a mano, poi hanno ideato e messo a punto una macchina che si aziona con un semplice pedale, funziona benissimo e fa risparmiare tempo e fatica. Anche per l’essiccazione hanno trovato con il tempo un metodo più efficace: anziché lasciare le bucce al sole, girarle e rigirarle (cosa lunga e rischiosa perché se pioveva dovevano buttare via tutto, e Bogotà è una città piovosa), hanno costruito degli essiccatoi. Insomma, per farla breve, Javier, Ana Maria ma anche altri che nel frattempo si sono aggiunti al gruppo, sono molto attivi, pieni di idee e di risorse; con loro abbiamo sviluppato già da qualche anno “El otro plan Colombia” [vedi], un progetto che mira a coinvolgere anche altri piccoli artigiani colombiani da inserire nel circuito equo solidale. Sì è costituito così un nucleo di piccole imprese, di laboratori, di persone con cui sviluppiamo nuovi prodotti e Sapia ci fa da intermediario e promotore. Già da qualche anno la produzione di Sapia si è allargata anche ad altri materiali naturali oltre alla buccia d’arancia (foglie di mais, semi di tagua, cotone, pasta di mais) e gli artigiani con cui collabora lavorano nuovi materiali di riciclo, come la camera d’aria di bicicletta con cui realizzano borse e portafogli, o la gomma che si trova all’interno dei tappi di birre o bibite, che tingono e trasformano in originali orecchini e collane.”

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Anello in resina indossato da Jazmin, realizzato a mano da Ecuilibrio diseño, laboratorio che impiega anche ragazzi disabili

A proposito di bigiotteria, il tuo anello? E’ bellissimo, da dove viene? “Questo anello è di “Ecuilibrio diseño”, un nostro nuovo produttore, è in resina naturale ed è stato fatto completamente a mano”, ci dice Jazmin, e aggiunge: “Si tratta di una coppia di designer, marito e moglie, che realizzano collane, anelli e bracciali coloratissimi, aiutati da alcuni ragazzi disabili: il processo di lavorazione dura ore ed ore, e ogni oggetto viene levigato sei volte prima di essere pronto per la vendita. Questi gioielli stanno avendo un enorme successo, soprattutto in Europa, gli ordini crescono ma la produzione non riesce a stare al passo; noi di Sapia stiamo cercando di aiutarli ad acquistare una levigatrice, per dimezzare il tempo di lavoro e anche i costi degli oggetti.”

Li potremo acquistare anche noi questi gioielli? chiediamo a Cristina Bergamini, designer. “Certo, abbiamo già alcuni dei loro pezzi e ordineremo anche questi ultimi; in più, stiamo sviluppando con loro una nuova linea di bigiotteria realizzata in resina e tagua insieme.”

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Jazmin e David Cambioli durante l’incontro a Ferrara del 26 maggio scorso

Non solo equi e solidali quindi, ma attivissimi e brillanti. Essendo cresciute insieme, Sapia e Altra Qualità si stimolano a vicenda, sviluppano continuamente nuovi progetti e si divertono a sperimentare nuovi materiali. L’incontro con Jazmin e David ci offre anche uno spaccato diverso della realtà dei due Paesi, sul quale fermarsi a riflettere: la Colombia allora non è solo guerriglia e traffico di droga, ma anche artigianato vitale e lavoro giustamente retribuito, e l’Italia non è solo mafia e sommerso ma anche apertura, collaborazione e contaminazione. Fosse tutta così! Ma forse, seguendo questi esempi virtuosi e sinergici, ci si potrebbe pian piano arrivare…

Si ringraziano Beatrice Bonadiman e David Cambioli per aver tradotto per noi dallo spagnolo all’Italiano.

Per saperne di più:

  • la fondatrice Ana Maria Pedrahita spiega il processo di lavorazione delle bucce d’arancia [video in inglese]
  • sito di Sapia  [vedi]
  • sito di Altra Qualità [vedi]

Via i mercanti dai templi

Il nostro buon Dario Franceschini ne ha sparata una grossa: via i mercanti dai templi. Ossia basta con lo scempio degli ambulanti parcheggiati con le loro mercanzie dinanzi al patrimonio artistico del nostro Belpaese. Tradotto in salsa ferrarese: via il mercato dal listone e da corso Martiri, via le bancarelle di souvenir e quelle di ciarpame vario. Il decreto ‘ArtBonus’ appena passato all’esame della Camera si propone di “garantire il decoro attorno ai monumenti”. Il ministro ferrarese ai Beni Culturali sottolinea il carattere di “urgenza” di questa norma e spiega che “con un semplice procedimento amministrativo sindaci e sovrintendenze potranno revocare le autorizzazioni ad ambulanti, camion, bar e bancarelle vicine ai monumenti”.

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Il mercato del venerdì, nel pieno centro storico di Ferrara [clicca per ingrandire]

La prima domanda da farsi è se questo eccellente decreto sarà tradotto in legge o resterà solo un ottimo proposito. In caso positivo vedremo se i sindaci (il nostro rinnovato sindaco Tagliani) e le spesso inutilmente solerti sovrintendenze prenderanno carta e penna per fare immediatamente ciò che è buono e giusto.
C’è inoltre da augurarsi un’applicazione estensiva del provvedimento e del principio in esso contenuto: via tutto ciò che deturpa e scempia i monumenti, per liberare la bellezza. E quindi: via i taxi dal castello, via le auto – tutte le auto, anche quelle delle forze dell’ordine, dei politici, dei soliti noti – dal centro storico. Obiettivo: pedonalizzare integralmente l’area monumentale di Ferrara per renderla degno patrimonio Unesco. Vorrai mica far torto al patrio Dario…

Il magnifico ulivo dell’umanità

Destra e sinistra categorie del passato? Difficile da sostenere fino a quando l’economia di mercato che condiziona la conoscenza non sarà soppiantata dall’avvento del governo della conoscenza sull’economia e sul mercato. Due modi distinti di considerare uomini e donne: da un lato la loro centralità, dall’altro la libera sopraffazione dei beni.

E qui siamo alla questione vera: un’economia basata sulla conoscenza o una conoscenza basata sull’economia? Far uso dell’economia in funzione della conoscenza o usare la conoscenza in funzione dell’economia? In definitiva, l’economia che condiziona la conoscenza o la conoscenza che condiziona l’economia?
In questi giorni ancora freschi di tornata elettorale, c’è qualcuno, che con altrettanta banalità del tipo “signora mia le stagioni non sono più quelle di una volta”, ci racconta che categorie come destra e sinistra sono superate.
Francamente di fronte al dilemma che sta in testa a questo articolo, mi pare proprio di no.
La destra è ancora quella dell’improvvida dichiarazione del ministro Tremonti che con la cultura non si mangia. Per cui se la cultura serve all’economia e al suo mercato va bene, diversamente, se ne può fare a meno, con buona pace degli otia studiorum.
Credo che a questo proposito tra destra e sinistra intercorra un rapporto direttamente proporzionale, tanto più la destra ha investito in capitali e finanze, tanto più la sinistra ha investito nello studio, nella ricerca e nella cultura. E ha fatto bene. Perché senza conoscenze, senza sapere, senza una nuova cultura non si esce dal vicolo cieco in cui ci hanno condotto gli interessi delle destre nel mondo.
La settimana scorsa l’amico Fiorenzo Baratelli, nel suo bell’articolo su queste pagine, ci ricordava la visione kantiana dell’uomo come legno storto dell’umanità. Devo dire la verità, che fin dai banchi di scuola l’approccio a quelle pagine mi induce irrimediabilmente a pensare all’ulivo. Magnifico albero, che più legno contorto di così non si può. Ma per l’uomo, sappiamo, storicamente carico di importanti e impegnativi significati.
Il filosofo Isaiah Berlin, nel suo libro Il legno storto dell’umanità, ci mette in guardia da tutti quelli che assurgono o sono assunti a guaritori dell’uomo. E ha ragione. Perché non c’è via di uscita per l’umanità se non si nutre fiducia negli uomini e nelle donne. Ecco un altro tema che non estingue le differenze tra destra e sinistra. La fiducia nell’uomo, nell’uomo nuovo è propria della sinistra.
Se pensiamo a una società fondata sulla conoscenza che guidi la condotta dell’economia e dei mercati, allora ricollochiamo l’uomo al centro, con la sua perenne ricerca di pace e di felicità. La conoscenza è dell’uomo, perché la usi per impedire d’essere sfruttato insieme al suo ambiente di vita. Questo è di sinistra.
Di destra è ostacolare ogni conoscenza che possa ridurre la libertà dell’economia, della concorrenza, dell’uso delle risorse.
Lo sviluppo strategico basato sulla conoscenza incoraggia la ricerca, stimola alla creatività continua, alla condivisione dei saperi, al loro rinnovamento e aggiornamento, all’interazione delle conoscenze tra i cittadini del mondo.
Solo questo sarebbe sufficiente a farci dubitare della validità dei sistemi di istruzione che ancora ci teniamo, non certo pensati per preparare i giovani al sapere, alla ricerca, ad acquisire gli strumenti per vivere in futuri dove le conoscenze potrebbero non essere più quelle apprese, ma tutte da rinnovare o da ricercare nuovamente.
No, nei sistemi di istruzione che la destra ci ha lasciato, quasi inossidabili nel tempo, i nostri bambini e i nostri giovani, giocano ancora il ruolo di depositi generazionali, da riempire delle nozioni ritenute necessarie per essere accolti come servitori diligenti degli interessi dei mercati, della voracità dell’economia globale. Saperi che riempiono la mente, ma volutamente dimentichi di coltivare le intelligenze.
Così col tempo, come dimostrano le ricerche internazionali sulle competenze degli adulti, che collocano il nostro paese all’ultimo posto, unitamente alla Spagna, le abilità acquisite sui banchi di scuola si affievoliscono e con loro l’interesse del mercato del lavoro che ti respinge, facendo della tua esistenza una vita di scarto per l’economia e per la società.
Oggi, più che mai, non c’è cittadinanza se non fondata sul primato della conoscenza, anziché del mercato. La sfida tra destra e sinistra si gioca sul terreno delle politiche in grado di investire da subito sui cittadini come capitale intellettuale, sulle politiche che considerano le persone come la ricchezza principale di un paese e, per questo, neppure una può essere abbandonata a se stessa.
L’impoverimento culturale è degrado sociale, svilimento della dignità dell’uomo, è grave quanto e più dello sfruttamento dell’ambiente, perché colpisce l’esercizio della propria vita, l’autonoma gestione di se stessi.
È di sinistra ritenere intollerabile e scandaloso che decenni di politiche neoliberiste abbiano ridotto l’Italia ad avere, secondo i recenti dati Ocse, il 70% di adulti tra i sedici e i sessantaquattro anni che posseggono competenze di base al disotto del livello tre, ritenuto dall’Europa indispensabile per poter partecipare consapevolmente alla vita sociale e lavorativa. Se a questo dato sommiamo la percentuale di giovani che non raggiungono alcuna qualifica e quella di chi, dopo essersi laureato, emigra all’estero, ci rendiamo conto che a ognuno di noi è stata rubata la possibilità di vivere in un paese la cui economia fondi le radici sulla conoscenza.
Il grande furto prodotto dalle politiche di destra è questo. L’averci sottratto ciò che è essenziale alla cittadinanza nella società della conoscenza, la capacità di generare e di applicare nuovi saperi, di creare idee nuove e invenzioni che stimolino la realizzazione di prodotti competitivi, di servizi e procedure per il nostro progresso.
È impensabile che il tessuto di una società oggi possa tenere senza conoscenza e senza rafforzare il coinvolgimento di tutti. La stessa politica nata in rete ci sta ad indicare che è finita l’epoca delle cittadinanze anonime. Ci troviamo di fronte a processi che possono migliorare la qualità della vita entro i confini della propria città, del proprio paese e anche oltre, facendo divenire attraente la cittadinanza, con l’essere sempre più qualificati e ricchi di competenze per potersi prendere cura della propria comunità. Occorre allora considerare attraente vivere il proprio paese. Questo è il compito delle generazioni anziane nei confronti di quelle più giovani, formare insieme un gruppo poliedrico di scambio di metodi, di lezioni apprese, di nuove idee, di processi tecnologici e di iniziative per promuovere e vitalizzare un’economia che affondi le sue radici nei saperi.
Credo sia questa la fonte essenziale per ottenere un vantaggio competitivo rispetto alle altre nazioni, così come per qualsiasi altra organizzazione, non può che essere la cultura diffusa, radicata nella gente, non può che essere il capitale intellettuale. Questo è il motivo per cui l’investimento sociale nella cura di ogni uomo e di ogni donna, come di ogni bambina e bambino, fa ancora la differenza tra la destra e la sinistra.

Festa della Repubblica
che ripudia la guerra

La madre è la Resistenza antifascista, il padre è il Referendum democratico: la Repubblica italiana è nata in un’urna il 2 giugno del 1946.
Perché, per festeggiare il suo compleanno, lo Stato organizza la parata militare delle Forze Armate?
E’ una contraddizione ormai insopportabile.
Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le vere forze vive della Repubblica che chiedono di rimuovere l’ostacolo delle enormi spese militari ed avere a disposizione ingenti risorse per dare piena attuazione a tutti i principi fondanti della Costituzione: lavoro, diritti umani, dignità sociale, libertà, uguaglianza, autonomie locali, decentramento, sviluppo della cultura e ricerca, tutela del paesaggio, patrimonio artistico, diritto d’asilo per gli stranieri e ripudio della guerra.
I nostri movimenti celebrano il 2 giugno promuovendo congiuntamente la Campagna per il disarmo e la difesa civile e lanciando oggi la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”.
Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa nonviolenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale.
La difesa civile, non armata e nonviolenta è difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; difesa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.
logo_congressoIl disegno di Legge istituisce un Dipartimento che comprenderà il Servizio civile, la Protezione Civile, i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo.
Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 6 per mille alla difesa non armata. Inoltre si propone che le spese sostenute dal Ministero della Difesa relative all’acquisto di nuovi sistemi d’arma siano ridotte in misura tale da assicurare i risparmi necessari per non dover aumentare i costi per i cittadini.
Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che “ripudia la guerra”
(art. 11).
La Campagna è stata presentata il 25 aprile 2014 in Arena di pace e disarmo; viene lanciata in occasione del 2 giugno 2014, Festa della Repubblica; la raccolta delle 50.000 firme necessarie inizierà il 2 ottobre 2014, Giornata internazionale della Nonviolenza, e si concluderà dopo 6 mesi.

Rete Italiana per il Disarmo – Controllarmi
Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile – CNESC
Forum Nazionale per il Servizio Civile – FNSC
Tavolo Interventi Civili di Pace – ICP
Campagna Sbilanciamoci!
Rete della Pace

La cultura attende
la stagione del coraggio

Con un misto di sensazioni e di affollati pensieri, il ritorno in patria sembra riflettere l’urgenza e la necessità dei commenti che le elezioni hanno prodotto. L’elegante Watteau nel Settecento descrisse l’aspetto idilliaco di un rifiuto della realtà sociale in un quadro famosissimo, Pèlerinage à l’île de Cithère tradotto in vari modi tra cui il più conosciuto rimane L’imbarco per l’isola di Citera, l’isola di Afrodite. In realtà, il quadro non rappresenta l’imbarco per l’isola ma il ritorno dall’isola. Primo e celebre capolavoro di quel filone che si è soliti chiamare “Le feste galanti”, impareggiabile momento di rifiuto della realtà sociale per una descrizione fantastica delle delizie della corte e della classe nobiliare francesi.
Così, l’imbarco per la mia isola di Citera si trasforma in un ritorno dall’isola per assistere alle feste galanti che coronano il successo renziano. Il giubilo, la sensazione di un pericolo scampato, quasi la necessità di abbandonarsi alla convinzione di una specie di miracolo, ma nello stesso tempo il vago e ancor lontano sospetto degli impegni presi. Con questo carico di proiezioni che investono prima il giornaliero che il progetto, ci si affanna sui giornali a scoprire tra le pieghe dell’ancor incerto “avvenir” qualche segno positivo che, nel campo in cui mi è permesso di spendere qualche parola, quello culturale, ravvisa una specie di piccolo passo avanti compiuto da Franceschini e approvato da Salvatore Settis. E, chi conosce la vicenda del tormentato iter del Mibac, saluta con sollievo queste righe che Settis affida a un articolo apparso su La Repubblica il 28 maggio scorso, dal titolo “Nell’Italia dove la cultura vale zero euro”: “Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come “petrolio” d’Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager, genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire.”

E di queste parole bisogna ben tener conto, come pure dell’intenzione, anche questa dai riflessi positivi, di reintrodurre l’insegnamento della storia dell’arte, dissennatamente abrogato e limitato dalla ex ministra Gelmini. Osservo a questo punto le proposte su cui si fonda la continuazione della politica culturale locale, affidata per il nuovo quinquennio alla squadra che già ha operato nella tornata precedente, e che ora sembra trovare un motivo di critica dal risultato della mostra-monstre bolognese, “La ragazza dall’orecchino di perla”, della quale si descrivono le mirabilia del successo economico, saggiamente contestato dall’assessore alla cultura bolognese Ronchi, in questo caso appoggiato anche dall’assessore alla cultura di Ferrara. Ma l’idea raccapricciante per cui si usa un capolavoro per una operazione esclusivamente commerciale rimane lì ad aspettare al varco, con le lusinghe dell’indotto economico condito di sagre, “magnatine” e altri giustissimi sollazzi, quale sarà la risposta di Ferrara dopo aver posto e testato il problema.

Tra i progetti per il 2016 di Ferrara Arte, si vuole far perno sulle celebrazioni ariostesche nell’anno dell’uscita della prima edizione del poema – edizione valorosamente proposta e fiore all’occhiello dell’ex Istituto di studi rinascimentali – dal professor Marco Dorigatti dell’Università di Oxford. A testimonianza, la sollecitudine con cui dopo l’uscita del testo si pensò a una mostra dedicata al rapporto tra Ariosto e le arti figurative, un progetto di cui esiste un dossier completo e suffragato dalla partecipazione del Louvre e della National Gallery di Londra, impietosamente bocciata dall’allora responsabile di Ferrara Arte e ora riproposta, almeno a quanto sembra dai titoli dei giornali, e affidata a uno studioso organizzatore di mostre padovane, quasi che non esistano in città le garanzie di un affido proficuo a cominciare dall’Isr, per di più ora divenuto ufficio comunale sotto l’egida dei Musei d’arte antica. Questi rilievi vengono fatti esclusivamente per sollecitare dialoghi che sembrano sempre sul punto di interrompersi. Ma a riprova di questa volontà di dialogo, una recente esperienza che vale la pena di riportare.

Abbiamo organizzato con gli Amici dei musei ferraresi una visita a Rovigo alla mostra su “I pittori del Nord” e una visita a Fratta Polesine per rivedere la Badoera e la Casa-Museo di Giacomo Matteotti. La trasferta si è dimostrata assai interessante per il confronto storico tra due terre, quella ferrarese e quella del polesine rodigino, così vicine e intrecciate in complessi rapporti. Dalla preistoria al Novecento, si sono viste e confrontate contiguità e diversità, ma soprattutto è saltato agli occhi il modo diverso di agire sul paesaggio e sulla cultura. Se una volta erano i rodigini a venire a Ferrara per imparare l’uso e il modo d’interrogare un glorioso passato, ora sembra avvenire il contrario. La mostra a Palazzo Roverella è affascinante e ha messo in luce, tra l’altro, alcuni autori ferraresi straordinari come Cesare Laurenti di cui ci si era dimenticati. La dinamicità del territorio si è misurata su quel reservoir di memorie storiche e artistiche che è Fratta Polesine. Non solo per l’utilizzazione di un monumento straordinario come la Badoera, luogo Unesco (ma non lo era anche Ferrara?) quanto per la pervicacia indotta a rendere attrattivo un territorio e un paesaggio che sembravano tagliati fuori dal turismo. Operazione che ci potrebbe insegnare come rendere produttive alcune delizie, da Belriguardo a Mesola, che certamente non attraggono i flussi turistici.
Ma l’operazione più complessa e produttiva è stata quella di rendere viva e operante l’utilizzazione della casa-museo di Matteotti che Napolitano inaugurerà il 10 giugno. E con l’aiuto e l’interessamento del massimo studioso dell’eroe polesano, un ferrarese doc come Stefano Caretti, amico e collega che ha saputo sollecitare l’attuazione di un luogo di memorie unico. A differenza della politica culturale ferrarese che sembra immutabile nel tempo. E basterebbe leggere il libro di Sandro Catani, Gerontocrazia. Il sistema economico che paralizza l’Italia (Garzanti, 2014) per capire che non è rottamando che si ottengono risultati ma accompagnando il valore prodotto dai “vecchi” nell’inserimento dei giovani che hanno bisogno di guida e di consigli. Altro che limitare il “pensare in grande”! Non servono solo sagre e baloons, festival e palii per innovare e rendere attrattiva la cultura; servono coraggio e scelte che vengano poi tramandate ai giovani. Cosa che mi sembra poco frequentata nelle politiche culturali ferraresi.
Bisognerebbe non solo trasformare ciò che si ha ma comprenderlo e viverlo con entusiasmo. Mi spiace trarre queste amare considerazioni nei confronti della mia città. Dal ’64 le mie vacanze di studio si svolgono in una campagna polesana dove le radici ferraresi sono visibili e attive. Ho visto quei territori passare dall’indigenza a una fioritura economico-culturale strepitosa. E ne sono lieto, ma mi spiace che in questo caso specifico persino i rapporti tra Ferrara e Matteotti non sembrino nemmeno interessare più di tanto in questo novantesimo della sua morte. Per fortuna ci ha pensato il Gramsci ferrarese a invitare Stefano Caretti a parlare di questa grande figura. Non si dolgano i ferraresi di queste forse severe note. Sono, al solito, dettate da un amore disperato e disperante per questa città e la sua storia.

Il web e le nuove forme
di partecipazione
alla vita pubblica

Nelle reti sociali gli individui costruiscono la propria identità anche esprimendo punti di vista e posizioni su temi che investono la vita pubblica. Il web è un grande palcoscenico, uno spazio che definisce un immaginario collettivo, un luogo popolato di oggetti che raccontano le nostre visioni del mondo. Come i muri delle città sono popolati di simboli che delineano lo scenario in cui abitiamo, così le pagine della rete, propongono e manifestano contenuti e immagini che assurgono al ruolo di simboli con cui identificarsi.
Le tecnologie digitali hanno contribuito a determinare un’ibridazione tra la sfera pubblica e quella privata, delineando uno spazio di contiguità tra i due campi che hanno in comune azioni e battaglie per il riconoscimento, a partire dal riconoscimento di sé come individui. Nel web si costruiscono nuovi modi di cittadinanza in senso lato: la socialità contiene una intrinseca dimensione normativa, propone modelli di identità e modi di abitare il mondo. Tutto ciò cambia la vita pubblica? E come? Accenno a quattro punti.
La prima tendenza, di lungo periodo, è la tendenza alla disintermediazione. Internet offre la possibilità di scavalcare i canali tradizionali della formazione di opinioni, saltare la mediazione di apparati istituzionali e strutture di partito e di costruire relazioni dirette tra gli attori politici e cittadini. L’accesso dei cittadini alle reti comunicative non implica, però, una effettiva possibilità di partecipazione ai processi decisionali e deliberativi.
La seconda tendenza riguarda il rapporto tra informazione e formazione del giudizio. La discussione in rete si svolge all’interno di gruppi assai meno aperti di quanto un giudizio superficiale farebbe pensare. È vero che si creano forme di mobilitazione di tipo orizzontale e che il web consente l’espressione di opinioni alternative rispetto ai gruppi dotati di maggiore peso. Tuttavia, in rete si va alla ricerca dei propri simili: la costruzione di gruppi di affinità e interesse identifica uno degli effetti principali dei social media. Spesso all’interno dei social si riproducono gruppi già esistenti nella vita reale. Le discussioni in rete su temi politici rispondono a logiche di comunità, all’esigenza di avere conferme piuttosto che di trovare antagonisti che le smentiscono. Questo spiega il rinforzo reciproco che le discussioni propongono o, al contrario, la totale impermeabilità delle posizioni.
La terza riguarda la carica emozionale implicita nella viralità. La condivisione in pubblico delle opinioni segue le logiche della viralità. Se migliaia di persone inviano un articolo ai lori amici per mail, se mettono il link su piattaforme di social network e spingono amici a condividerlo a loro volta, l’articolo diventa virale. Che cosa spinge alla viralità? Ciò che rende virale, ad esempio, un video o una immagine, è la risonanza emotiva, la capacità di suscitare emozioni forti: collera, paura, dolore, gioia. In questa condivisione è contenuta ben poca razionalità. La rete opera sulla base di istanze prevalentemente emozionali. Inoltre la condivisione esprime sempre una strategia di gestione della propria immagine, così tendiamo a selezionare contenuti che ci rappresentino. Accanto alla ormai nota e universale pratica del selfie, il ritratto di noi stessi, si afferma il shelfie, l’immagine metaforica della nostra libreria, che si compone attraverso la dichiarazione dei nostri riferimenti culturali e ideali.
La quarta riguarda il mito della trasparenza. Il web può consentire una maggiore diffusione delle informazioni sui contenuti implicati nelle decisioni, ma di per sé non implica una maggiore trasparenza nel processo decisionale e, soprattutto, non sostituisce la necessità di solide competenze per l’istruttoria rispetto a temi sempre più complessi.
Quattro questioni solo accennate che meriterebbero di essere discusse, certo per un ripensamento serio dell’idea di spazio pubblico, anche in relazione al web, ma sfatando alcuni stereotipi e nuovi luoghi comuni.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it

Don’t stop the music! Oggi per RockaFe dalle 17 alle 24 una maratona musicale non stop con le migliori band ferraresi

da: staff RockaFe

Don’t stop the music! E’ il grido che parte unanime dalle band che si alterneranno sul palco di RockaFe per una maratona senza pause dalle 17 alle 24 dopo l’indovinata ed apprezzata parentesi della Macchina del Tempo. A dare il fuoco alla miccia saranno i Maniax N’90. Provenienti da Argenta e dintorni, i cinque musicisti insieme dal 2010 che rispondono ai nomi di Giulio Verlato alla voce, Diego Montanari e Michele Checcoli alle chitarre, Elia Casoni al basso e Roberto Toschi alla batteria propongono un’interessante produzione inedita di ispirazione metal rock.
A seguire i Royal Guard di Lugo. La band HARD ROCK ravennate è composta da Mattia, Diego, Davide, Taba e Simo. Dopo un’avventura punk rock durata circa una decina d’anni tra svariati palchi italiani ed europei, decidono di rimettersi in gioco intraprendendo un nuovo percorso musicale che prenderà sempre più forma orientandosi verso uno stile Hard Rock Blues, sempre con brani di propria produzione.
A prendere il testimone saranno poi i Freeraggio di Pieve di cento. Nell’estate del 2012 esce il loro album SKY HI-FI, un lavoro di 13 tracce naturalmente tutte inedite, autoprodotto. Alla base del nuovo progetto c’è l’idea di provare ad unire la psichedelia degli anni ’70 (Pink Floyd, etc) con sonorità della vecchia e nuova elettronica avventurandosi in una fuga dalla realtà, in un viaggio nel profondo spazio alla ricerca dell’ignoto che c’è dentro ad ognuno di noi. Il nuovo corso dei FREERAGGIO vede alla voce Selene Recca, alle chitarre Andrea Cludi, al basso Alberto Banzi, alla batteria Alessandro Gallerani e, solo in studio, synth e sequenze Tiziano Marchetti. In cantiere un nuovo album con sonorità molto più vicine al blues con piccole virate verso il funk sempre condite con abbondante elettronica.
A seguire i Liquid Shades da Ferrara. Il progetto nasce nel 2007 con l’intento di formare una band per comporre brani inediti ispirandosi al rock progressive anni ’70 unendo al contesto sperimentazioni più moderne e psichedeliche. Dal 2009 la band ha all’attivo due EP autoprodotti contenenti 4 brani inediti ciascuno e una lunga serie di date live in tutta la provincia di Ferrara spostandosi spesso anche in Veneto e nel bolognese. Propongono un repertorio di brani inediti composti e arrangiati autonomamente, e una serie di cover di artisti quali PFM, King Crimson, Jethro Tull, Genesis e altri. Il cospicuo line up è composto da Marco Gemetto alla chitarra e voce, Matteo Tosi alla voce, Enrico Taddia al basso, Lorenzo Checchinato al sax e corno, Emanuele Vassalli al piano e sintetizzatori, Diego Insalaco alla chitarra e tromba, Guglielmo Campi alla batteria ed infine Donato di Lucchio al flauto.
Toccherà poi all’energico e coinvolgente pop rock dei bolognesi Morgana proseguire la lunga maratona di questa ventunesima edizione di RockaFE, come sempre nel Parco della Fondazione F.lli Navarra a Malborghetto di Boara, quest’anno in una nuova veste più intima e raccolta. Già ospiti della manifestazione e vincitori del premio rete Alfa nel 2010, sono Marco Poli chitarra e voce, Giuseppe Capriati alla batteria, Luca Noferini alle chitarre e Marco Mirri al basso.
In chiusura i concittadini Label 27. Il gruppo di recente formazione nasce, come spesso accade, come cover band per poi avvicinarsi alla produzione di brani propri. D’ispirazione rock classica, aggiungono ai loro lavori sonorità più moderne, sapienti pennellate di punk, tocchi più heavy e testi introspettivi. Intensa l’attività live dl quartetto che è composto da Mattia Negrelli alla chitarra, Andrea Macchioni alla batteria, Maria Claudia Farina al basso e Tommy Civieri alla voce. Tutti gli aggiornamenti su www.rockafe.it e su tutti i social.

Il Palio di Ferrara: una gara, un’emozione, uno spettacolo

da: ufficio stampa Ente Palio città di Ferrara

Un Palio bello e colorato, che non ha mancato di dispensare emozioni e colpi di scena quello appena conclusosi a Ferrara. Soddisfatti gli organizzatori, sia per il risultato di pubblico che per la bella festa offerta e vissuta. Gremite in ogni ordine di posti le tribune in Piazza Ariostea, con qualche spettatore che è persino rimasto senza poltroncina: a questi l’Ente Palio rimborserà l’acquisto del tagliando non utilizzato e regalerà un biglietto per la prossima edizione della manifestazione.
Emozioni senza soluzione di continuità nell’Anello dunque: dopo il Corteo delle Contrade, la premiazione di Borgo San Giovanni e Rione Santa Maria in Vado rispettivamente per il Premio Visentini (per il miglior Corteo) e il Casati (per il miglior Spettacolo di Corte) , il Palio ha ricevuto il premio per la 22esima tappa del Giro d’Italia in 52 weekend, promosso da weekendagogo.it.
Nella gara dei putti per il palio di San Romano, la vittoria è andata a Borgo San Giovanni con Matteo Ferroni, che dopo aver recuperato l’avversario di Rione San Benedetto, Dario Berveglieri, ha dominato nei due giri di pista senza particolari incertezze, portando al popolo “della Lince” il 42 Palio.
Avvincente la corsa delle putte, vinta da Borgo San Giorgio – che porta a casa il suo primo Palio di San Paolo dopo 46 anni. L’atleta con la casacca giallo-rossa, Polina Grossi, ha saputo difendere bene la sua pole position, mantenuta per quasi l’intera gara ma contrastata da Caterina Mangolini di Borgo San Giovanni che, dopo l’ultima curva, ha tentato la rimonta mollando solo negli ultimi 15 metri di gara.
La corsa delle asine, vinto dal Rione di San Benedetto con Laura Zanghirati su Santino Rocchitto, ha riservato emozione e …. attesa. Dopo 6 false partenze la diciassettenne staffiera biancoazzurra si è portata in vantaggio e ha saputo amministrare la gara, resistendo ai tentativi di Francesco Ferrari su 100lire per Santa Maria in Vado di passarle avanti. Alla fine del secondo giro di pista 100lire si è praticamente fermata e la Zanghirati ha potuto tagliare il traguardo in tranquillità. “E’ una ragazza straordinaria – ha raccontato Luca Accorsi, massaro di Rione San Benedetto – Fa le gare di pony game e ha fatto un mese di allenamento sul somaro con una passione tale che questa vittoria è davvero tutta sua. Se ce ne fossero di più di ragazze determinate e speciali come lei il mondo sarebbe un posto diverso.”
Dopo la dovuta pausa per riassettare la pista per la gara dei cavalli, sono state estratte le palline per l’ordine della mossa e si è corsa la competizione più attesa, quella per il palio dorato di San Giorgio. Il mossiere Gennaro Milone non ha avuto particolari problemi di disciplina nel gestire la mossa: gli otto cavalli sono partiti senza alcuna falsa partenza e ad avere da subito la meglio è stato “Grandine”, al secolo Sebastiamo Murtas, su Novanta. Il ventiquattrenne di Ghilarza (OR), fantino con un curriculum “di rispetto”, ha portato a Rione San Paolo il primo palio di San Giorgio dal 1987.

L’obiettivo del marziano

Lo guardavano come un marziano, lo guardavano da sotto i portici di piazza San Pietro, dove avevano trovato riparo dal temporale. Tutti a cercare di capire cosa ci faceva quell’uomo armato di macchina fotografica sotto la pioggia, cosa trovava di così interessante in quelle pozzanghere, che indagava chinandosi, girandovi attorno e scattando come fosse ispirato da visioni invisibili agli occhi altrui. Performance o follia? Né l’una nell’altra, bensì il lavoro di un artista fotografo, Adolfo Brunacci. Ha scattato 500 immagini, novanta delle quali raccolte in un libro da cui prende il nome la sua mostra “Rumon – all’inizio fu l’acqua’, in svolgimento dal 4 giugno al 4 luglio allo stadio Domiziano di Roma. I trenta scatti in esposizione sono un omaggio alla bellezza, un esercizio di stile sui riflessi restituiti dalla pioggia imprigionata nei tanti avvallamenti delle strade e dalle fontane romane. Alla fisarmonica di Daniele Mutino è stata affidata l’inaugurazione (alle 18.30 del 4 giugno), le note del compositore, diffuse in uno degli spazi archeologici ed espositivi tra i più suggestivi della città, collocato proprio sotto la più moderna piazza Navona, sono il preludio di un viaggio per immagini dalle quali emerge lo splendore eterno dell’Urbe sottolineato, a tratti, dai versi della poetessa Luci Zuvela.

brunacci
Il fotografo Adolfo Brunacci

Brunacci racconta una città senza tempo, cresciuta intorno all’acqua del Tevere, illuminata da una luce speciale, unica al mondo. “Ho fatto chilometri a piedi aspettato il momento giusto per cogliere tra la pioggia e le improvvise schiarite il lato estetico più affascinante. Dentro a una pozza c’è un mondo, c’è il viaggio di un viandante allo scoperta di Roma”, racconta Brunacci, toscano d’orgine romano d’adozione, abituato per anni a costruire in studio immagini che gli hanno fruttato l’etichetta di fotografo pittorealista – surrealista, definizioni coniate dalla critica specializzata per descriverne le opere. Ma è passato tanto tempo da allora e lui, chi lo conosce sa, è un artista ‘in progress’ e a piedi. Pronto a fare chilometri per carpire segreti on the road. “Da allora il mio modo di fotografare è cambiato, l’estetica resta l’obiettivo della ricerca, ma tutto si è spostato sulla strada – spiega – Un tempo fotografavo quello che pensavo, ora quello che vedo”. Per Brunacci, conosciuto nel mondo della foto ‘glam’ italiana e straniera, della pubblicità, per anni firma di punta di Playboy con una solida esperienza di graphic design e video clip, la macchina fotografica resta il mezzo per creare quello che il cuore, la mente e la cultura riescono a plasmare. Ieri come oggi.

“La mostra, tratta dal libro arricchito dalle poesie di Luci Zuvela, che hanno saputo richiamare la voce antica del Tevere e le sue leggende, racconta la parte migliore di Roma – spiega – Le buche, della cui mancata manutenzione i romani sono i primi a lamentarsi, assumono un significato diverso. Sono mondi a se stanti, da esplorare, da inquadrare e fermare in un gioco di luce e stati d’animo”. In poche parole, bisogna saper cercare la bellezza nei luoghi inaspettati. Roma è ricca di spunti, carica di contraddizioni, popolata dalle etnie più diverse, animata dalle più strane proposte e contemporaneamente stritolata tra nuove e vecchie povertà che, neanche a farlo apposta, vivono in strada. Il regno creativo di Adolfo Brunacci da tempo impegnato nel declinare i tanti volti di un progetto di cui “Rumon- all’inizio fu l’acqua” è il primo tassello. Di strada.

Ferrara, piccolo viaggio
nella geografia del Palio

Il visitatore che in questi giorni attraversa la città di Ferrara trova bandiere di colori diverse appese sui palazzi publici e privati, lungo le vie del centro e in quelle un po’ più periferiche. Sono le bandiere delle contrade del Palio. L’evento – in città molto sentito, ma magari meno celebre di altri analoghi – vanta il primato mondiale storico tra queste antiche gare. La prima corsa di fanti e fantesche, somari e cavalli per le vie della città risale infatti al 1259, mentre quello di Siena ha probabili origini tardo-duecentesche, ma è nel 1656 che viene preso in carico dal Comune senese in maniera sistematica.
Ma perché a Ferrara in piazza del Duomo sventola la bandiera giallo-viola con l’unicorno, mentre nella confinante piazza Municipale è issata la bandiera bianco-nera con l’aquila? Per il Palio, il territorio della città di Ferrara è diviso in otto quadranti: corrispondono ai territori delle contrade e ognuno contiene un pezzettino di storia. I quattro quadranti che si trovano tutti all’interno delle mura della città sono i “rioni”, mentre sono chiamati “borghi” quelli fuori dalla cinta muraria. Ecco la mappa, percorsa da nord ovest in senso orario.

mappa-contrade-Palio-Ferrara
Mappa delle contrade del Palio di Ferrara

Rione San Benedetto. Colori bianco e azzurro per la contrada che abbraccia il territorio cittadino, che va dai confini nord delle mura cittadine fino alla Porta degli Angeli, chiusa a est da corso Ercole d’Este e a sud dall’asse di viale Cavour. L’impresa è quella del diamante sull’anello episcopale, avvinghiato da due foglie di garofano rosso. Adottato da Ercole I, simboleggia la potenza raggiunta dagli Estensi attraverso la politica matrimoniale e il legame con lo Stato Pontificio.

Rione Santo Spirito. Giallo e verde per la contrada che rientra nel territorio dell’Addizione Erculea con il fulcro della festa nella sua piazza Ariostea, dove vengono corse le gare del Palio di Ferrara. Il confine sud è segnato da corso Giovecca. L’impresa è quella della granata svampante, il proiettile, simbolo guerresco di Alfonso I.

Rione Santa Maria in Vado. Giallo e viola per la contrada che occupa un quarto della città entro le Mura, tra il centro con il Duomo e tutte le vie acciottolate della parte medioevale. L’impresa è quella dell’unicorno, animale mitologico raffigurato nell’atto di purificare le paludose acque ferraresi con il suo corno miracoloso.

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Unicorno della contrada di Santa Maria in Vado

Rione San Paolo. Bianco e nero per il territorio della contrada, che si sviluppa intorno al castello estense. Arriva fino al confine sud del porto fluviale di via Darsena e delle mura di Rampari di San Paolo, dove è il Museo dell’ebraismo e dove si affacciano i parcheggi ex Mof e quello di viale Kennedy. L’impresa è quella estense dell’aquila sulla ruota.

Borgo San Giacomo. Blu e giallo sulle bandiere di questa contrada, che ingloba la parte interna delle mura del vecchio Acquedotto e una vasta zona periferica che va fino all’antico borgo di Mizzana. La sua impresa è un’aquila bianca, stemma originario degli Este.

Borgo San Giovanni. Il rosso e il blu sono i colori della contrada, il cui territorio si estende verso nord est al di fuori delle mura cittadine, spingendosi fino al confine dell’area comunale. L’impresa è quella della lince bendata: l’animale simbolo della vista acuta è emblema del primo vero principe estense, Niccolò III, morto avvelenato; suo figlio Leonello ereditandolo vuole rappresentare l’animale con la benda in omaggio al padre e alle sue idee inascoltate.

Palio-Ferrara-idra-impresa-contrada-San-Giorgio
L’idra, impresa della contrada di San Giorgio

Borgo San Giorgio. Rosso e giallo per il territorio fuori dalle mura, che è stato il fulcro iniziale della storia cittadina. Come impresa, la mitologica idra: mostro dalle sette teste draghesche che si contorce nel fuoco.

Borgo San Luca. Rosso e verde per il territorio di uno dei primi nuclei di insediamento sul ramo del Po che attraversava Ferrara. L’impresa è quella dello steccato detto anche “pararuro”: una zucca avvolta e legata a fior d’acqua allo steccato, con la funzione di idrometro per indicare ai guardiani il livello delle acque.

Stemmi e mappa de Palio – che si corre oggi in piazza Ariostea – sono tratti dal sito ufficiale www.paliodiferrara.it

Gli Estensi e il territorio:
le bonifiche del ‘400 preludio
al trionfo dell’agricoltura

AMMINISTRAZIONE DEGLI ESTENSI A FERRARA/1

A partire dall’epoca di Leonello (1441-1450) e Borso d’Este (1450-1471), la spaventosa contingenza demografica ed economica che attanagliava l’intero Ducato di Ferrara cominciò a segnare un’inversione di tendenza. Ma già dal dominio di Nicolò III (1402-1441), gli Estensi, mediante la concessione gratuita di zone incolte e paludose a importanti famiglie (loro fedeli) di area locale, avevano dato l’avvio alle bonifiche e alla valorizzazione del territorio ferrarese. Con le famiglie insediate nelle possessioni, gli Estensi mantennero rapporti consuetudinari, salvo il fatto che questi coloni da loro direttamente nominati godevano di vari privilegi fiscali. Lo stesso Borso promulgò nel 1456 gli Statuti, pubblicati a stampa vent’anni dopo, che regolavano le caratteristiche del rapporto fra i coloni e i proprietari.
Nella seconda metà del Cinquecento, le campagne si presentavano ben ripopolate e la città, sotto la reggenza di Alfonso II, registrò una invidiabile espansione demografica che portò al numero di 30.000 circa gli abitanti. Tuttavia, a fine secolo, una tremenda carestia mise a nudo la fragilità di quell’agricoltura premoderna di fronte alle avversità climatiche. Comunque, la congiuntura “positiva” era ormai innescata e la crescita della domanda provocata dall’incremento demografico suscitava molteplici opportunità di arricchimento, con il conseguente aumento dei prezzi dei terreni agricoli.
«I documenti del tempo, e in particolare gli atti dei notai ferraresi documentano assai bene l’emergere di un nuovo ceto di uomini d’affari che investono nella terra i loro capitali e di imprenditori, talvolta dalle umili origini, che assumono la conduzione in affitto di possessioni e di castalderie del patriziato cittadino o dei maggiori enti ecclesiastici […]. Un ceto di affittuari, composto da fattori arricchiti, da mercanti cittadini, da commercianti di grano e di seta, da pescatori e usurai, da appaltatori d’imposte pubbliche, si lancia sulla terra per ricavare profitto dalla vendita dei suoi prodotti […]. Con gli inizi del secolo XVII in effetti è tutta la società rurale ferrarese ad avere cambiato fisionomia. La partenza degli Estensi per Modena non farà che rimarcare che la ricchezza di Ferrara risiede ormai quasi esclusivamente nelle sue fertili campagne»*.

*F. Cazzola, “L’agricoltura nel XIV-XVI secolo”, in F. Bocchi (a cura di), La storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995, pp. 126-8.

Il rovescio delle storie

Rita Gabrielli prova a mettere sottosopra le facili convinzioni, quelle consolidate dai luoghi comuni più comodi. La raccolta di racconti Sottosopra (Festina Lente edizioni, 2014) della ferrarese Rita Gabrielli contiene dodici storie attraversate da uno sguardo che non smette mai di essere positivo, anche di fronte ai drammi.
Leggendo i racconti si percepisce il tentativo di fare incontrare poli opposti, come quando un sotto e un sopra si sfiorano.
“E’ così, ho provato ad affrontare le situazioni da un punto di vista non convenzionale, quello dell’altro, spesso dei deboli, degli anonimi. Credo non ci si debba mai fermare alla prima occhiata, il rovesciamento ci fa scoprire cose nuove e che le persone sono diverse”.
Le donne sono grandi protagoniste dei suoi racconti. Donne che riescono, alla fine, a prendere in mano la propria vita dal niente, avviare una trasformazione e sognare ancora. Come ci riescono?
“Sono donne solo apparentemente fragili, devono superare difficoltà e trovano sempre grande forza, spesso nell’aiuto degli altri. A portare mutuo soccorso sono altre donne e, non a caso, molto diverse, magari di altre culture, di altra estrazione. Nascono così incontri e osmosi nell’unione di vite distanti, ma che sanno capirsi”.
Racconti di fantasia o la realtà le ha dato qualche spunto?
“Ho messo insieme pezzi di realtà, fatti di cronaca, parte del mio vissuto, ricordi del passato, storie che mi sono state raccontate e soprattutto valori in cui credo”.
Alcuni valori emergono molto bene, come l’importanza dei legami familiari, l’attaccamento alle radici…
“Non solo, trovo importante il recupero della memoria che aiuta a non lasciare andare sempre tutto così in fretta e poi il valore del cibo che, per me, è un linguaggio, un modo per comunicare e per prendersi cura di sé e degli altri. Il mio intento, codificando tali valori semplici ma positivi, è lasciare un messaggio a chi è più giovane e sta vivendo immerso nella precarietà”.
Nei racconti, viene dato spazio anche al paesaggio. Che importanza assume?
“Il paesaggio è il nostro, quello padano e ferrarese a me molto caro. Accanto alla profondità dei sentimenti che ho voluto esplorare, il paesaggio rappresenta la parte esterna, il luogo dell’incontro fra le persone e della conoscenza”.

Nota sull’autore: Rita Gabrielli, 57 anni, una laurea in Lettere, lavora alle poste di Bologna. Sposata, ha un figlio di 33 anni, Marcello.

Dolore cervicale: spesso
la vittima è lo stomaco

Sappiamo che l’artrosi comporta una sofferenza di tipo degenerativo, ossia peggiora con il trascorrere degli anni e con l’avanzare dell’età; le cartilagini che ricoprono le articolazioni si logorano, i legamenti e le capsule che ricoprono le giunture (spalle, polsi, gomiti, anche, ginocchia e caviglie) s’ispessiscono e si induriscono. Uno dei punti che per primo accusa sofferenza è la colonna vertebrale. Tipica, in questo caso, è la localizzazione nella zona cervicale (che interessa, cioè, le articolazioni poste fra le vertebre del collo) con la presenza di sintomi anche neurologici come radicoliti e nevriti, tutte espressioni dello stiramento, dell’irritazione e della compressione dei tronchi nervosi che escono dal midollo spinale, tra una vertebra e l’altra. Si può a questo punto fare menzione ad un nervo particolare: il nervo vago. Il nervo vago è il decimo, il più lungo, il più ramificato dei nervi cranici ed è il principale componente della sezione parasimpatica del sistema nervoso autonomo. Il vago esce dal midollo allungato, attraversa il collo e il torace, raggiunge l’addome e invia rami alla maggior parte degli organi del corpo umano (la laringe e la faringe, la trachea, i polmoni, il cuore e buona parte dell’apparato digerente). Il nervo vago esercita la sua azione liberando una sostanza particolare chiamata acetilcolina che determina il restringimento dei bronchi e il rallentamento della frequenza cardiaca. Inoltre stimola la produzione dell’acido gastrico, l’attività della colecisti e la peristalsi, cioè i movimenti compiuti dallo stomaco e dall’intestino durante la digestione. Quando la funzionalità del nervo vago viene in qualche modo compromessa dalla presenza di un processo degenerativo articolare, come per esempio l’artrosi cervicale, può determinarsi una serie di sintomi che coinvolgono tutti i principali organi del corpo e che sembrano avere poco a che fare con una malattia delle articolazioni quale l’artrosi.

Ecco i sintomi imputabili al nervo vago:

NAUSEA – E’ un disturbo tipico, connesso alla degenerazione artrosica della cervicale, che colpisce spesso al mattino, appena svegli, e sembra più frequente durante i cambi di stagione, quando i disturbi come l’artrosi si fanno più frequenti e incalzanti. Non è connesso all’assunzione di cibo, anzi, in questi casi l’appetito non viene compromesso. Si associa spesso a salivazione abbondante (il vago stimola la produzione di saliva) e a un senso di oppressione alla nuca e alle orbite intorno agli occhi (perioculari).

ACIDITA’ DI STOMACO – Bruciori di stomaco e rigurgiti acidi sono spesso associati alla nausea e dipendono dall’aumento della produzione di acido gastrico da parte del vago.

ROSSORI IN VISO – Sono quasi sempre connessi alla sensazione di nausea e vengono originati dalla stimolazione del nervo vago causata da una compressione delle vertebre e delle articolazioni a livello cervicale.

CRAMPI – Tra stomaco e intestino tenue, sono da ricollegarsi all’aumentata attività del vago e anche della sua compromissione a livello cervicale.

TACHICARDIA – Il vago innerva il cuore e, se stimolato eccessivamente, può dar luogo a un aumento dei battiti che si traduce in una frequenza cardiaca superiore ai cento battiti al minuto.

DISTURBI DELLA DEGLUTIZIONE – Il fastidioso senso di “gola chiusa” deriva sempre dall’infiammazione del vago che innerva organi come la faringe e la trachea. Questo disturbo, insieme ai ronzii auricolari, alle vertigini e ai dolori alla nuca, è indice della cosiddetta sindrome di Neri, Barrè e Lioeu (dal nome dei tre medici che per primi la identificarono ) tipica nell’artrosi cervicale.

Con Listonemag in piazza
dal 5 all’ 11 giugno
un grande esperimento
di narrazione collettiva

da: responsabile comunicazione progetto Backup di una piazza

Una settimana per ascoltare, raccogliere, fotografare, filmare le storie dei ferraresi e della loro piazza: la redazione di Listonemag, da giovedì 5 a mercoledì 11 giugno 2014, si trasferirà nella piazza Trento e Trieste di Ferrara, sul listone da cui prende il nome, per mettersi a disposizione di chi vorrà contribuire a questo piccolo grande esperimento di narrazione collettiva, primo nel suo genere in città.

L’operazione sarà il cuore del progetto “Backup di una piazza”, vincitore del bando “Giovani per il territorio”, promosso dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, per la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico locale. Obiettivo del progetto: raccontare la società che nel passato e nel presente ha vissuto e vive la piazza cittadina come luogo privilegiato d’incontro e di scambio.

Da febbraio a giugno la redazione si è impegnata in uno stimolante lavoro di ricerca storica, alla quale chiunque ha potuto contribuire inviando i propri ricordi o quelli della propria famiglia attraverso immagini e racconti. Adesso è il momento di occuparsi del presente! Durante l’intensa settimana che li aspetta redattori, fotografi e videomaker under35 di Listone Mag saranno impegnati a raccogliere e condividere le voci e i volti della piazza cittadina attraverso interviste e reportage, coinvolgendo passanti, turisti, lavoratori, studenti, musicisti di strada: tutto il variegato mondo che ogni giorno popola la piazza.

Peculiarità di questa iniziativa sono il coinvolgimento attivo della cittadinanza e la multimedialità. Sarà una “ricognizione” particolare, ricca di iniziative collaterali e collaborazioni, orientata a far dialogare passato e presente, listone fisico e Listone virtuale, vecchie e nuove tecnologie.
La classe 4 G del Liceo Scientifico Statale A.Roiti, coinvolta nel progetto, scriverà alcuni articoli; i ragazzi del workshop video realizzato nei mesi scorsi presso il centro comunale Area Giovani si occuperanno di svolgere originali produzioni audiovisive. Gli iscritti al corso di alfabetizzazione informatica “Pane e Internet” parteciperanno a un’originale lezione pratica per imparare a connettersi a “wi-fe”, la rete gratuita del Comune di Ferrara, supportati dagli adolescenti coinvolti nell’iniziativa.
La chiacchiera volatile della piazza sarà “cinguettata” attraverso il live tweeting, che sarà possibile seguire sull’account Twitter di Listone Mag o attraverso l’hashtag #backupdiunapiazza.

Chiunque potrà partecipare all’iniziativa con i propri racconti e i propri ricordi.
Listone Mag sarà sul listone tutti i giorni nei seguenti orari:

Giovedì 5, dalle 9 alle 13
Venerdì 6, dalle 17 alle 23
Sabato 7, dalle 9 alle 19
Domenica 8, dalle 9 alle 19
Lunedì 9, dalle 15 alle 19
Martedì 10, dalle 15 alle 19
Mercoledì 11, dalle 17 alle 23

A settembre l’intero percorso di backup sarà raccolto in una pubblicazione in duplice formato – cartaceo ed ebook – e presentato a settembre assieme a una mostra fotografica e a un evento di storytelling.

Partner del progetto: sono tante e diverse le realtà che hanno già voluto aderire al progetto: l’Istituto di storia contemporanea, l’Archivio comunale, le Biblioteche comunali, il liceo scientifico Roiti, il centro Area Giovani con il progetto Imagina(c)tion, i docenti e gli alunni del corso di alfabetizzazione informatica Pane e Internet, il comitato Commercianti Centro Storico.

Concerto verdiano
della mezzosoprano
che sposò Massari

Musica “a casa di…”. E’ bella questa idea del Conservatorio di Ferrara di abbinare un concerto di personalità legate alla città con le pareti di un luogo cittadino dove quei suoni in qualche modo hanno risuonato e vissuto. Oggi, in particolare, è più che mai attraente l’idea di potere ascoltare brani di una cantante che porta il nome di Maria Waldmann Massari. Maria, nata a Vienna nel 1844, è stata la mezzosoprano preferita di Giuseppe Verdi. La sua capacità di interpretazione era quella che al grande compositore piaceva di più per il ruolo di Amneris nell’Aida. Ed è proprio pensando ai ricchi colori del timbro di Maria, che Verdi compone l’aria del “Liber scriptus” del Requiem, da lei interpretato per la prima esecuzione nella chiesa di San Marco di Milano nel maggio del 1874, esattamente 140 anni fa, e scritto per celebrare l’anniversario della morte di Alessandro Manzoni.

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Maria Waldmann Massari

Cosa c’entrano con la città di Ferrara – verrà, però, da chiedersi – questa grande cantante di origine austriaca e il più celebre compositore italiano? Un indizio ce lo dà il cognome acquisito da Maria Waldmann che, dopo il matrimonio, prende anche il nome di Massari. A 31 anni una delle voci più importanti dei teatri europei esce di scena perché sposa il duca Galeazzo Massari. Si ritira e si trasferisce nel palazzo con il parco che porta ancora il nome della famiglia ferrarese, in corso Porta Mare. La casa dove Maria ha abitato per tutto il resto della sua vita e dove ha continuato a tenere rapporti e scrivere lettere a Giuseppe Verdi e a sua moglie è ora la sede dei musei civici di arte dedicati all’opera di Giovanni Boldini, Filippo De Pisis e dell’800. Le scosse del terremoto del maggio di due anni fa hanno reso necessari lavori di restauro nel palazzo che confina con il parco Massari. Per questo il concerto sarà nel salone del Museo archeologico. L’iniziativa, curata da Maurizio Pagliarini, è alle 17.30 di oggi – sabato 31 maggio – in via XX settembre 122. Un’occasione per ascoltare le voci e la musica del pianoforte delle allieve del conservatorio Frescobaldi e rivivere un pezzettino di una storia così importante eppure così intima, che la città ha accolto tra le mura di spazi domestici senza che tanti lo sapessero.

Il concerto è gratuito, ma l’accesso richiede il pagamento del biglietto del Museo.

Tipi di sinistra

Questo non è un commento sul risultato delle elezioni. Tanti ce ne sono già stati che credo abbiano ormai esaurito la materia: chi vince, chi perde, chi guadagna, chi arretra con tanto di flussi in ingresso e in un uscita e di motivazioni sociologiche volte a cercare di spiegare un fatto così eclatante.
No, qui vorrei cercare di seguire la traccia più debole e per ora, mi pare, quasi inesplorata degli effetti a caldo dei risultati elettorali sulle persone che compongono le varie anime del grande, variegato e storicamente litigioso popolo della sinistra. Trascurerò quindi le dichiarazioni dei leader, gente esperta a dissimulare ciò che non è bene traspaia, ma mi occuperò esclusivamente delle reazioni dei militanti e dei semplici elettori. Ovviamente non farò nomi e cognomi, ma quanto segue è stato ispirato dalle conversazioni reali e virtuali che ho avuto o a cui ho assistito in questi ultimi giorni.
Lo spettro di reazioni che ho avuto modo di cogliere è molto ampio, molto più di quanto l’eccezionalità dell’evento potrebbe far pensare. A prima vista infatti si sarebbe portati a ritenere che una vittoria elettorale con quasi il 41% dovrebbe mettere tutti d’accordo, ma in realtà non è per niente così. Cominciamo, così ce li togliamo di torno, con i due soli concetti comuni a tutti i commenti: lo stupore per le dimensioni del risultato, del tutto inaspettato, ed il senso di scampato pericolo se per caso avesse vinto il populismo. Di questo sono tutti più o meno esplicitamente grati al Pd, anche chi se ne colloca decisamente al di fuori.

Poi arrivano le differenze ed i distinguo più o meno sottili, fino a lasciar intravedere anche segni di reale disagio. Prima di addentrarmi nell’elencazione delle categorie che mi è parso di poter identificare, una premessa è comunque d’obbligo: le tipologie di reazioni che seguono hanno una consistenza numerica fra loro molto diversa ed alcune sono del tutto marginali. Ma qui, come detto, conta il campionario. Possiamo perciò identificare:
1. I soddisfatti senza se e senza ma. Nel Pd sono in massima parte sostenitori di Renzi fin dal congresso, se non prima; fra gli esterni al partito sono soprattutto coloro che mai avevano votato a sinistra.
2. Quelli del “troppa grazia Sant’Antonio”. Cioè quegli iscritti ed elettori del Pd che avrebbero sì voluto un’affermazione del loro partito, ma decisamente più contenuta di quanto non sia stato. Il timore per loro è che un successo così ampio possa indebolire le loro ragioni di opposizione al nuovo corso. Ad essi, animati da sentimenti pressoché analoghi, si aggiungono molti di quelli che hanno votato per la lista Tsipras.
3. I “grillini pentiti”. Persone che non hanno votato per il M5S (semmai si erano schierate entusiasticamente l’anno scorso) perché in profondo disaccordo con la linea portata avanti dai fondatori e che hanno invece votato per il Pd, per evitare che quella linea potesse affermarsi definitivamente. La loro reazione denota qualche senso di colpa rispetto al risultato che hanno contribuito a determinare, preoccupati che “il movimento”, che per loro continua a restare il partito politico di riferimento, possa risentire troppo negativamente della batosta subita.
4. Gli “antagonisti”. Quelli convinti che in realtà abbia vinto la Dc, anche perché solo la Dc in questo Paese può vincere con quelle percentuali, a cui la vera sinistra non potrà mai aspirare. Sono l’altra parte dei sostenitori della lista Tsipras.
5. I reticenti. Tipicamente preferiscono parlare d’altro e di solito commentano laconici con un “mah, vedremo”. Spesso sono persone in aperta rotta di collisione con il Pd di cui semmai hanno fatto parte fino a poco tempo fa. Si scorge nelle loro reazioni anche un celato dispiacere di non poter gioire per una vittoria così inusitata. Questo li rende a volta ancora più ostili nei confronti di chi adesso guida il partito.
6. Gli astenuti. Gente che non ha proprio votato, perché nessuna proposta li convinceva, ma che comunque ritiene che il risultato uscito dalle urne sia preferibile ad altri.
7. I grillini “di sinistra”. Sono quella parte di elettorato del M5S, di solito non attivisti, che ritengono che il movimento sia in realtà un’espressione della sinistra, nonostante le decise affermazioni di segno contrario dei suoi leader. Costoro hanno votato per Grillo, sulla cui linea e gestione del partito esprimono comunque significative perplessità, e a risultati acquisiti sono, se non contenti, almeno un po’ meno tristi di quelli che invece erano sdraiati sulla linea ufficiale.

Sarebbe cosa molto gradita che, se qualcuno avesse individuato altre tipologie di reazioni, le segnalasse di seguito…

A lezione in un grande giardino

Il giardino di Villa Pisani a Stra (Venezia) è un esempio classico di giardino storico. Possiamo considerarlo come il completamento naturale di un ricco palazzo che ai nostri occhi può apparire sproporzionato al suo contesto, se non si considera il fatto che la riviera del Brenta, tra XVII e XVIII secolo, era il proseguimento del Canal Grande e le famiglie veneziane importanti facevano il possibile per avere delle residenze prestigiose su queste vie d’acqua. Su questa scia, nel primo decennio del 1700, i fratelli Pisani, commissionarono a Girolamo Frigimelica la costruzione di un palazzo con un giardino degno delle corti europee. Entrando nel palazzo, si attraversa l’androne monumentale che inquadra la vista del giardino: una splendida prospettiva chiusa dall’elegante facciata delle scuderie. Lo stampo tardo seicentesco è leggibile nella geometria e nei percorsi principali, che sembrano partire da punti casuali dell’area centrale, ma che all’origine, avevano una corrispondenza nelle tessiture delle aiuole di gusto francese. I sentieri disegnavano una rete di percorsi verso statue e architetture creando sorprese e interesse. Al posto delle aiuole fiorite, abbiamo un grande prato al cui centro si trova una vasca d’acqua di forme classiche, costruita solo un secolo fa dall’Istituto per le ricerche idrotecniche, per fare delle simulazioni nautiche con modellini di navi.
La famiglia Pisani vendette il palazzo ai Francesi, e Napoleone lo regalò al figlio di Giuseppina, Eugenio Beauharnais, che vi abitò per lunghi periodi tra il 1807 e il 1814. Beauharnais lasciò il segno, sostituendo le alte siepi di carpini che fiancheggiavano l’area centrale con viali alberati, e iniziò la costruzione del boschetto romantico vicino alle scuderie. La successiva dominazione austriaca (1814-1866) segnò il momento di massimo splendore del giardino, che venne arricchito con agrumi e piante esotiche secondo la moda del collezionismo botanico. Le forme delle piantagioni, gli arredi, le statue, le raffinate costruzioni che punteggiano il giardino, come l’esedra, le abitazioni dei giardinieri, la coffee-house, le serre, la vasca d’acqua e il famoso labirinto di bosso, creano un testo in cui la matrice diventa un capitolo di una sequenza di trasformazioni. La prima importante lezione che ci insegna un giardino “storico” è proprio questa: la sua storia è una successione di eventi che contribuiscono a creare un insieme vivo, che continua a vivere anche quando il racconto prosegue verso un epilogo triste. La decadenza del giardino cominciò nel momento in cui fu dichiarato monumento nazionale nel 1882. Frequentato saltuariamente dai Savoia e utilizzato per scopi scientifici, fu ripulito solo in occasione di una visita ufficiale di Hitler, perché Mussolini considerava i giardini all’italiana come uno dei gioielli di famiglia e non perdeva occasione per mostrarli e vantarsi della loro bellezza. Da quel momento, l’incuria ridusse questo luogo a una selva, fino agli anni ’80, in cui fu avviato un intelligente progetto di restauro curato dall’architetto Giuseppe Rallo della Sovrintendenza di Venezia. Questo restauro è considerato uno dei migliori realizzati in Italia negli ultimi decenni per due motivi, innanzitutto comprende la complessità del giardino cercando di rendere visibili tutti i passaggi della sua storia, ma soprattutto, considera prioritarie le esigenze del presente: pochi soldi per la manutenzione e grande afflusso di pubblico. Fino al 2007, il giardino poteva contare su fondi pubblici annuali che permettevano la presenza di tre giardinieri. I tagli recenti hanno tolto molto a quelle poche risorse, e lo stato del giardino ne risente, ma se non fossero state fatte delle scelte previdenti al momento del restauro, il degrado attuale sarebbe decisamente superiore. Per questo ho approfittato dei miei contatti con l’Università di architettura di Cesena (Bologna), per proporre una gita a Villa Pisani a un gruppo di studenti del secondo anno. Passeggiare nel giardino è stato un momento per fare una serie di riflessioni generali sul progetto del giardino, e non solo sulla lettura dei vari stili e della loro convivenza all’interno di un sito. La vita di un giardino comincia quando si spengono i riflettori: un bel disegno e la sistemazione delle piante non costano molto, quello che costa è il lavoro per mantenerli. Progettare in funzione della manutenzione, oggi non è un fattore secondario, anzi, costituisce la grande sfida di un buon progetto.

Roma-Mosca: un asse di sviluppo fra due grandi capitali

Nel 2012, più di 15,3 milioni di turisti russi si sono recati all’estero, 6% in più rispetto al 2011. I flussi turistici in uscita sono i primi, per entità, nell’ambito dei Paesi Brics: i russi fanno 1,3 volte più viaggi all’estero dei cinesi, 3,4 rispetto agli indiani e 4,6 in più dei brasiliani. Il numero dei viaggiatori è aumentato negli ultimi cinque anni del 50%, (rispetto al 41% dei cinesi). Il margine di crescita del mercato rimane ancora ampio, poiché, attualmente, solo il 15% dei 141 milioni di abitanti della Russia viaggia all’estero. I dati sono contenuti in un rapporto diffuso dal ministero degli Esteri italiano e redatto in collaborazione con l’Agenzia nazionale del turismo. Secondo la Banca d’Italia, la spesa turistica russa nel nostro Paese nel 2012 è stata pari a 1,191 miliardi di euro (nel 2011 era stata di 925 milioni). In questa cornice, nei giorni scorsi i sindaci di Roma (Ignazio Marino) e di Mosca (Sergei Sobyanin) hanno siglato a Roma, un protocollo d’intesa che legherà le due capitali, puntando su un futuro sviluppo dei rapporti reciproci in materia di turismo, economia e trasporto. Roma è una meta in crescita e, oggi, cercata e voluta anche dal turista russo. In precedenza Italia e Russia avevano già dichiarato il 2013-2014 ‘Anno del turismo incrociato italo-russo’, con l’obiettivo di aumentare i flussi turistici nelle due direzioni.
Quello che si è rinsaldato è dunque un percorso comune di cooperazione e amicizia, iniziato nel 1996, che accompagnerà le due amministrazioni fino al 2017. I settori del commercio, dell’urbanistica e dell’architettura, della cultura, del turismo, del potenziamento del servizio pubblico e della sicurezza degli spazi pubblici saranno tutti, allo stesso modo, oggetto di rinnovata sinergia.
L’Italia è il quarto partner economico della Russia e l’intesa sottoscritta va nella direzione del rafforzamento delle relazioni commerciali e culturali fra i due Paesi. I dati sul turismo russo fanno ben capire l’importanza dell’evento romano e di iniziative analoghe.

Va poi detto che la sigla del protocollo ha avuto luogo in concomitanza con la manifestazione intitolata “Giornate di Mosca a Roma”, che ha visto svolgersi un ricco programma di eventi, sia nella capitale che a Milano.
Sobyanin ha visitato la mostra in 3D che riproduce un’ambientazione di epoca romana nel Foro di Augusto, il centro congressi “Nuvola” dell’architetto Massimiliano Fuksas, ha incontrato la Comunità russa e partecipato all’inaugurazione della mostra dei documenti d’archivio intitolata “Mosca-Roma: legami storici” presso il Centro russo di scienza e cultura. L’esposizione ripercorre i rapporti di amicizia e di collaborazione tra le due capitali, inclusi i contatti di politica estera, nei periodi dello Stato moscovita e dell’Impero russo dal XVI al XX secolo. Gli ospiti hanno potuto ammirarvi le immagini e gli autografi dei personaggi di maggiore rilevanza, tra cui uomini di Stato, del popolo e grandi politici: Ivan IV il Terribile, l’imperatore Pietro I, l’imperatrice Caterina II, i consoli italiani a Mosca, i sindaci di Mosca. Sono esposti, inoltre, i documenti della Camera di commercio russo-italiana, materiali sulla collaborazione tra Mosca e Roma nelle materie umanistiche, le fotografie inedite della permanenza a Mosca del regista Tonino Guerra e degli incontri tra Yuri Gagarin e Gina Lollobrigida, quelle di Sofia Loren e Marcello Mastroianni durante le riprese del film “I Girasoli”.

Tra gli altri eventi che hanno animato queste “Giornate di Mosca” vanno, infine, ricordati anche il concerto di gala dell’orchestra di Vladimir Spivakov “Virtuosi di Mosca” presso l’Auditorium Parco della Musica, e l’esibizione del famoso jazzista Igor Butman presso la Casa del jazz; l’esposizione di “Street art” con i murales di un artista moscovita; una conferenza sull’influenza reciproca delle culture russa e italiana presso l’Università “La Sapienza” e la mostra “La pace di Dio attraverso gli occhi di un bambino” nella chiesa ortodossa di Santa Caterina.
Il giorno prima è stato firmato, a Cerveteri, un accordo di cooperazione culturale per organizzare le “Settimane internazionali di studio”, a partire dal 2015, dedicate alle future classi dirigenziali russe e italiane. L’accordo trilaterale di cooperazione culturale e scientifica è stato concluso tra l’Università cattolica del Sacro cuore, l’Accademia internazionale Sapientia et Scientia e Università di Stato delle relazioni internazionali di Mosca (Mgimo).
Dopo la firma del protocollo del 27 maggio, Sobyanin ha consegnato al primo cittadino della capitale una lettera originale scritta da Vittorio Emanuele II allo zar russo, mentre il sindaco di Roma gli ha donato una scultura raffigurante la tradizionale Lupa capitolina che allatta i mitici Re di Roma, Romolo e Remo.

‘Le piccole idee’ crescono

Con le piccole idee si possono fare storie e rivoluzioni. Con le piccole idee si cresce e si cammina, si corre. Quattro episodi di famiglie italiane alle prese con svariate difficoltà economiche, ambientati al nord e centro Italia, presentati da bravi attori non professionisti. Storie di oggi, storie di famiglie e di amici. Spaccati di vita.

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Una scena del primo episodio, ‘L’idea dell’orco’

Nel primo episodio, “L’idea dell’Orco”, siamo in una piccola e tranquilla cittadina, dove un padre, insegnante universitario separato, percepisce uno stipendio dignitoso, che però non gli consente alcuna spesa extra. Si destreggia fra alimenti e spese per l’affitto, ma adora la piccola figlia. Quest’ultima vorrebbe da lui, per il compleanno, una nuova bicicletta rosa, quella costosa delle Winx, e il tenero papà affettuoso decide di costruirgliela con pezzi di scarto e dipingendola del colore da lei preferito. La bici non piacerà molto alla figlia, ma forse si può provare a creare un modo più semplice e coinvolgente di giocare e divertirsi insieme. Con pazienza e grande amore.

locandina
La locandina del film

Nel secondo episodio, “L’idea di guardarsi negli occhi”, un imprenditore fallito del Veneto (le scene sono girate a Valdobbiadene e a San Pietro di Feletto) prova a convincere i suoi ex dipendenti a organizzare una grigliata in fabbrica. Costretto, dalla crisi che colpisce tutto e tutti, a chiudere la sua storica attività di famiglia, il protagonista cerca di credere ancora nei rapporti umani. Perché bisogna guardarsi in faccia quando le cose vanno male, aiutarsi, stare uniti e non da soli, affrontare insieme la sfida, sorreggersi l’un l’altro, anche con il cuore. I suoi dipendenti gli girano le spalle quando lo incontrano per strada, ma qualcuno rimane…

Nel terzo episodio, “L’idea di abbracciarsi”, la scuola media sequestra il diploma di una ragazzina, i cui genitori non hanno i 170 € necessari a pagare le spese arretrate della mensa. Ma il diploma è obbligatorio per l’iscrizione al liceo romano, non se ne può davvero fare a meno. Superare l’orgoglio e la vergogna, vendere qualche cosa con fatica e impegno, e chiedere aiuto a un vicino, saranno le sfide da superare. Per evitare che, a 13 anni, si finisca a lavorare come apprendista parrucchiera, quando si hanno ancora le potenzialità per studiare e per fare qualcosa di diverso.

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Una scena del quarto episodio, ‘L’idea di farli ballare’

Nel quarto episodio, infine, “L’idea di farli ballare”, un tecnico informatico viene licenziato dopo trent’anni di duro lavoro. Il trauma è forte, inizia a bere e diventa aggressivo con la figlia e con la moglie, che pure ama. Le due donne gli trovano un ruolo all’interno della Banca del T
tempo, lì ha la possibilità di mettere a disposizione degli altri le proprie competenze recuperando, intanto, la fiducia e la stima in se stesso.
La carezza alla figlia e il ballo romantico di un tempo con la moglie avvieranno un nuovo inizio, suggellato da un tenero e spontaneo abbraccio fatto di sguardi complici.
In generale, il film ci mostra, quasi spietatamente, come il nostro Paese stia attraversando una prova durissima e come il ceto medio e la gente normale paghino oggi il prezzo più alto. La perdita del lavoro, l’incertezza nel futuro, l’impossibilità di arrivare alla fine del mese sono problemi che riguardano sempre più italiani. Purtroppo.
Questo film ci parla della gente comune costretta ad affrontare problemi che all’interno della crisi economica che stiamo vivendo diventano sempre più grandi e difficili da accettare, a volte apparentemente insormontabili. Ma, spesso, grazie all’intervento di una piccola idea illuminante e illuminata, che germina solitaria piano piano, queste stesse situazioni si possono gestire con pazienza, creatività e originalità. Queste scene ci portano a riflettere tutti sul necessario, il superfluo, il ruolo della famiglia e degli amici. Su cosa è davvero bello, importante e serio, su come sopravvivere e, a volte, risollevarsi.
Siamo forse arrivati a un punto di non ritorno?
La crisi può portarci a ridisegnare in qualche modo i nostri valori, il nostro credo, il nostro stile di vita?

Le piccole idee, film di Giacomo Faenza, con: Angelo Giotta, Luisa Mauri, Mara Romani, Mario Vigiak, Luca D’Alessandro, Gea dall’Orto, Giulia Cardarilli, Armando Cardarilli, Teresa Scozzi. Italia, 2011, 95 minuti.

La lingua di Gesù e il nodo di Israele

“Per la lingua si langue,” recita uno dei più antichi proverbi italiani, testimoniato già dallo scrittore seicentesco Giulio Varrini. Insomma, a parlare troppo si rischia di parlare a sproposito e si finisce col dire stupidaggini. Dovremmo prendere questo proverbio alla lettera per descrivere il goffo scambio di battute tra il primo ministro israeliano Benjamin Netaniayhu e Papa Francesco: a parlare a sproposito della lingua (di Gesù) si finisce per dire stupidaggini. E infatti così è stato.
Tutte le agenzie di stampa hanno riportato nei giorni scorsi uno scambio di battute tanto breve quanto fulminante:
“Gesù era su questa terra e parlava ebraico” – ha detto Netanyahu;
“Aramaico” – l’ha corretto Papa Francesco;
“Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico” – ha concluso Netanyahu.

Se non fosse per i due illustrissimi interlocutori, difficilmente una simile disputa teologica in miniatura troverebbe ospitalità nei maggiori quotidiani del mondo ma più verosimilmente rischierebbe di appassionare solo “un pio, un teorete, un Bertoncelli e un prete” – e anche il sottoscritto che non appartiene a nessuna di queste categorie.
Eppure non dovrebbe sorprendere che sia stato proprio l’altrimenti non troppo sottile primo ministro israeliano Netanyahu a sollevare una simile questione proprio di fronte ad un interlocutore così illustre, tra l’altro non sorprendentemente assai meglio informato di lui.
Quindi, perché mai intavolare un discorso simile, con una simile evidente sproporzione di forze intellettuali?

Tralasciando plausibili spiegazioni come la stupidità o l’insipienza, potremmo arrischiarci ad ipotizzare che il primo ministro israeliano tentasse di fare politica. Più precisamente di retrodatare di duemila anni il suo sionismo nazionalista.
La questione della lingua di Gesù infatti non è linguistica ma politica.
Non c’è quasi bisogno di ricordare che nella Palestina di duemila anni fa, sotto dominazione romana, si praticassero almeno quattro lingue principali: il greco (come lingua dell’amministrazione), il latino (come lingua politica del dominatore straniero), aramaico giudaico palestinese (parlato dal popolino) e anche l’ebraico post-biblico (conosciuto e forse anche parlato dall’élite intellettuale giudaica). Una ricchezza linguistica splendidamente descritta dallo scrittore Bulgakov nel sontuoso micro-racconto su Gesù all’interno del celebre Il Maestro e Margherita.

Le numerose lingue nella Palestina romana di duemila anni fa non sono un problema. Ciò su cui gli studiosi dibattono è la diffusione dell’ebraico come semplice lingua scritta oppure anche come lingua parlata. Infatti, se è indubbio che l’ebraico post-biblico venisse sicuramente praticato come lingua scritta, non è chiaro se questo fosse anche una lingua parlata e, se effettivamente lo era, se venisse usata come lingua quotidiana, come lingua dell’élite intellettuale oppure (probabilmente l’ipotesi più verosimile) esclusivamente come lingua liturgica. Insomma, una condizione assai simile a quella degli ebrei ortodossi americani odierni, che parlano quotidianamente lo yiddish (e l’inglese) ma che non parlano l’ebraico che considerano una lingua santa e che destinano solo all’uso consacrato: liturgia e lettura dei testi religiosi.

La questione infatti non è che lingua parlasse Gesù bensì per quale motivo Netanyahu pensi che l’ebraico dovesse essere la lingua che Gesù parlava quotidianamente.
La prima ipotesi (“Gesù era su questa terra e parlava ebraico”) non reclama alcuna paternità ebraica su Gesù bensì fa di Gesù una sorta di un prototipo sionista: un ebreo che parlava ebraico già nella Terra di Israele di duemila anni fa. Si tratta tuttavia di una “pia illusione,” nel senso proprio del termine: la proiezione di aspettative sioniste in un passato di duemila anni fa.
La seconda ipotesi (“Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico”) è plausibile ma presuppone sempre che ci sia una continuità tra l’ebraico post-biblico di duemila anni fa e l’ebraico moderno, parlato attualmente in Israele.

Alcuni autorevoli linguisti israeliani (Shlomo Izreel e Gilad Zuckermann) polemizzano con questa idea e ne denunciano gli aspetti non troppo velatamente ideologici. NOn a caso chiamano l’ebraico moderno ivrit chadash, “neo-ebraico,” oppure ivrit israelit, “ebraico israeliano.” L’ebraico moderno, dunque, non sarebbe infatti nemmeno più una lingua semitica come i suoi numerosi predecessori (ebraico biblico, ebraico post-biblico, aramaico) bensì un mishmash, un “guazzabuglio,” una lingua ibrida, nata dall’incrocio di più lingue: una sorta di di yiddish postmoderno, dalla sintassi e dalla grammatica slava-indoeuropea e da un tono e un vocabolario velatamente semiti.

Se Netanyahu fosse pronto a riconoscere almeno in parte queste rivendicazioni di noiosissimi nonché autorevoli linguisti forse potrebbe riconoscere, con ciò, la complessità etnica e culturale dell’Israele d’oggi. Magari la sua politica potrebbe avere un altro corso. Ma, appunto, “per la lingua si langue.”

studenti unife

Università, il carovita spaventa 7 studenti ferraresi su 10

da: Found Comunicazione [Il testo contiene anche informazioni di natura pubblicitaria]

Cresce la preoccupazione tra gli studenti estensi per la situazione economica sempre più precaria. Gli effetti della crisi si riflettono anche sulla sfera emotiva di molti universitari che, scoraggiati dal costante peggioramento della qualità della vita, desidererebbero un maggiore aiuto da parte del governo (51%) e più sostegno dalle aziende (35%).
Carovita, aumento del prezzo del materiale didattico, costo del trasporto pubblico in aumento, difficoltà nel trovare lavori part-time che gli permettano di mantenersi gli studi: sono queste le maggiori problematiche che affliggono gli universitari degli atenei ferraresi, sempre più scoraggiati. A peggiorare la situazione ci si mettono pure la frustrazione e la rassegnazione che questa situazione genera, e le energie da utilizzare per reagire sono sempre di meno. Per loro la situazione è piuttosto grigia: adattarsi a lavori molto umili e faticosi per resistere al carovita (51%), affidarsi al portafoglio di mamma e papà (49%) o, come ultima possibilità, sudare sette camicie sui libri per assicurarsi una sempre più rara borsa di studio (27%). E a cosa si ispirano i giovani studenti italiani, come possibile antidoto per uscire dalla crisi? Ai primi tre posti spiccano la solidarietà’ (70%), la meritocrazia (59%) e l’onestà (58%), valori ai quali aggrapparsi nei momenti di debolezza.

E’ quanto emerge da uno studio promosso da Ottica Avanzi con metodologia Woa (Web opinion analysis) condotto su circa 100 studenti universitari di Ferrara, compresi tra i 19 ed i 26 anni, attraverso un monitoraggio on line sui principali social network – Facebook, Twitter e YouTube – blog, community e forum, realizzato per verificare lo stato d’animo degli studenti residenti in città e capire le loro principali problematiche. Lo studio è stato condotto in occasione della campagna ‘Sconto al merito’ con la quale vengono premiati in maniera meritocratica gli studenti italiani attraverso uno sconto sull’acquisto di un paio di occhiali da sole, o di due confezioni di lenti a contatto, pari al voto ricevuto durante l’ultimo esame. Per ogni voto espresso in trentesimi, un punto percentuale in meno sul prezzo dell’occhiale.

Qual è l’atteggiamento dei giovani estensi rispetto al futuro che li attende? Quasi la metà (49%) si definisce pessimista, soprattutto riguardo la latitanza di stabilità. Un terzo del campione (32%) è preoccupato invece perché non riuscirà a raggiungere le aspettative di carriera che si era prefissato nel corso della scelta dell’indirizzo accademico. In costante diminuzione invece coloro che nutrono speranze nel riuscire comunque ad emergere grazie alle proprie qualità (16%) e di coloro che rimangono fiduciosi nonostante tutto nel futuro e nelle istituzioni (5%).

Cosa manca agli studenti durante il percorso di studi? Per 7 studenti ferraresi su 10 (69%) il bisogno principale è quello di una sufficiente somma di denaro. Questa necessità è da ricondurre principalmente al caro affitti (41%), all’aumento del costo dei libri (35%), alle spese di viveri e per quelle indirizzate alle attività sportive (25%) e al caro trasporti (23%). Poco più della metà (51%) pensa inoltre che il tempo libero a sua disposizione sia troppo poco. Il 44% degli studenti soffre altresì di nostalgia della famiglia e del paese natio. Questo genera, a livello di stile di vita, una forte riduzione di spese legate alla propria persona (81%), ovvero per l’acquisto di abiti (75%), scarpe (60%) e accessori vari (49%) – come borse ed occhiali – seguiti da prodotti hi-tech (39%), da regali per amici e famigliari (37%) e vacanze (29%).

Quali sensazioni e quali emozioni vengono a crearsi nella mente degli studenti? Frustrazione (44%) e rassegnazione (39%) sono le più diffuse, mentre una buona quota di universitari (30%) non si arrende di fronte ai problemi e cerca di reagire attingendo a tutte le risorse di cui può disporre, sia fisiche che mentali. Per quanto concerne invece i valori a cui gli studenti s’ispirano troviamo ai primi tre posti la solidarietà’ (70%), la meritocrazia (59%) e l’onestà (58%), valori ai quali aggrapparsi nei momenti di debolezza.

In quanti raggiungono l’indipendenza dalla famiglia durante il percorso accademico? Il 51% degli studenti della città emiliana si propone di affrontare in modo autosufficiente le spese economiche, mentre il rimanente 49% attinge ancora al portafoglio di mamma e papà. Chi si autofinanzia cerca perlopiù lavoretti part time (34%), mentre i più dediti allo studio si impegnano nell’avere voti alti per usufruire di borse accademiche (27%) o ricercano ogni giorno offerte e promozioni dedicate al mondo degli studenti universitari (18%).

Da chi si aspettano di ricevere maggior sostegno gli studenti? Se i genitori rimangono il punto di riferimento principale per la metà degli studenti (45%), una considerevole quota di milanesi ritiene che siano le aziende a doversi mostrare maggiormente sensibili verso di loro (35%). Da considerare la poca fiducia nei confronti delle istituzioni; solo il 14% degli studenti si aspetta riforme e manovre rivolte a loro.
Cosa dovrebbero fare le istituzioni per venire incontro alla difficile situazione degli universitari estensi? Le richieste avanzate dagli studenti alle istituzioni sono principalmente indirizzate verso l’aspetto economico dello studio, in primo piano in questo periodo di difficoltà legate alla crisi globale: al primo posto c’è appunto la necessità di una maggiore attenzione al diritto allo studio (51%), con particolare attenzione al numero e al valore delle borse di studio in costante calo e agli incentivi per le fasce meno abbienti, seguita dal bisogno di tutela contro gli affitti in nero (26%) e dalla richiesta di una maggiore severità finanziaria nei confronti degli atenei privati a vantaggio di quelli pubblici (21%).

L’uomo che guida col cappello

L’uomo che guida col cappello per gli altri automobilisti è da sempre emblema di pericolo. Da lui ci si può attendere di tutto: vederselo svoltare a sinistra dopo che ha diligentemente messo la freccia a destra, oppure cambiare direzione d’improvviso senza alcun segnale preventivo: nel dubbio di sbagliare meglio la freccia non usare… Vanno messi nel conto il costante presidio della linea di mezzeria, gli stop senza preavviso, l’andatura a passo d’anatra zoppa. Il top lo raggiunge al semaforo: al passaggio dal rosso al verde ha un momento (un lungo momento) di travaglio esistenziale, che fare? La decisione di mettere mano al cambio e inforcare la ‘prima’ giunge di norma in simultanea con il passaggio dal verde al giallo: egli affronta così, impavido, l’incrocio quando già si sta affollando di veicoli provenienti da ogni direzione. Ma la sua coraggiosa risoluzione è premiata, come ai matrimoni, dal soave saluto dei clacson degli automezzi rimasti per suo merito al palo (semaforico) in attesa del prossimo verde.
La spiegazione a questa bizzarra corrispondenza (cappello uguale incapacità al volante) è tutta di natura psicologica: chi porta un cappello, cosa fa appena arriva a casa? Se lo toglie. ‘L’uomo col cappello’ quando entra in macchina invece se lo tiene, in ogni stagione: è a disagio, non ha familiarità con l’auto, non si sente a casa sua, quindi si protegge. E autoprotettiva è la sua guida: preso da sgomento, ogni tanto frena, senza alcun motivo, così giusto per prudenza…

Il suo antagonista è il tizio che in macchina si comporta come se fosse in un bunker, inaccessibile persino allo sguardo. E che per questo dà spettacolo pubblico: si pettina davanti allo specchietto, si dà – con l’unghia – una ripassatina ai denti e all’occorrenza si trapana con l’indice il naso e con il mignolo l’orecchio. E’ quello che, se ha caldo, al primo semaforo si cambia al volo la camicia. Lui sì che è perfettamente a suo agio in auto, totalmente calato in un ambiente domestico e protettivo, incurante o inconsapevole della proprietà di talune materie d’esser trasparenti: la mente ha grandi inesplorati poteri e la sua lo ha convinto che quelli della sua vettura sono vetri unidirezionali…

Decerebralizzati

Il nome del signor Renzi fa parte del lessico della mia famiglia. Mio padre amava scherzare con la zia Olga, sorella della mamma, bolognese puro sangue e, ogni volta che ci s’incontrava – Natale, Pasqua, eccetera – immancabilmente papà, nel mezzo dei discorsi che si facevano, diceva “ma sai, Olga, chi ho visto e ti saluta?” e lei, incuriosita, “chi?” e papà “il signor Renzi”. Il signor Renzi non esisteva , era una semplice invenzione di mio padre per sorprendere ogni volta la zia e prenderla bonariamente in giro: “Ma Dio! – diceva la zia – basta prendermi in giro e io che ci casco sempre!” Era un modo bonario per esprimere il reciproco affetto. Infatti lo sketch finiva sempre in una risata da parte di tutta la famiglia. Con il tempo il signor Renzi è venuto a significare il signor Nessuno: chi avrebbe immaginato che sarebbe arrivato, e così in fretta, fin lassù? Ora il signor Renzi dovrà pur ringraziare chi l’ha votato, ma soprattutto dovrà ringraziare le sue due stampelle, Bugia Berlusconi e Ingiuria Grillo, chè, se non ci fossero stati loro e dargli addosso forse gli italiani non l’avrebbero votato in modo travolgente: infatti, Berlusconi è in precipitosa caduta libera e gli italiani non amano chi perde, perdere in Italia è un errore insanabile, e la precipitosa discesa del mezzo cavaliere è cominciata, io credo, proprio nel momento in cui, per imitare Ingiuria Grillo, è andato giù di testa con gli insulti, mettendo insieme (no, Mussolini non l’ha toccato) Hitler, Stalin, Robespierre, in una baraonada storico-politica che soltanto una mente non allenata allo studio avrebbe potuto immaginare. Cavoli suoi. E cavoli nostri che l’abbiamo dovuto ascoltare, nonostante una inutile, inascoltata, insolente (per noi) condanna. L’altro, Ingiuria Grillo, – confessiamolo – ha un pochino esagerato con le contumelie. Lui, Ingiuria, ha detto “non siamo violenti, ma cattivi si”, no, caro Ingiuria, non cattivo, ma poco intelligente. Non ci hai dato un solo progetto socio-politico , non ci hai detto una sola parola sulla tua idea di società: di sinistra, di destra? Ah, scusa queste sono vecchie categorie di pensiero che tu e il tuo amico, quello con tutti quei capelli (sporchi?) e il viso da funerale, avete cancellato. Basta ideali, basta partiti figli degli ideali avete detto, noi siamo il nuovo, unico verbo da ascoltare, noi siamo dio (lo scrivo con la “d” minuscola), avete puntato sulla decerebralizzazione a cui sono stati condannati negli ultimi vent’anni berlusconiani quasi sessanta milioni d’italiani. Troppo impegnati a guardarvi allo specchio e alle registrazioni televisiva, ma non vi siete accorti che il paese si era stancato anche degli insulti. Meno male.

Rock in Idro approda a Bologna, attesa per gli Iron Maiden

di Giulia Echites

A Bologna torna il Rock. Quello elettronico di Fatboy Slim e quello metal degli Iron Maiden, in città per la loro unica data italiana, ma anche il punk rock dei Pogues e l’indie dei Queens of the Stone Age.
A due anni di distanza dall’ultimo Indipendent Day, il parco Nord, oggi arena Joe Strummer, si prepara di nuovo per ospitare, da domani (venerdì 30), uno dei più importanti festival del panorama internazionale, Rock in Idro, che da quest’anno lascia Milano per approdare nel capoluogo emiliano.

E se da un lato gli organizzatori strizzano l’occhio alla tradizione festivaliera europea, dall’altro sanno quanto è difficile realizzare questo tipo di eventi in Italia; da qui la decisione di investire aggiungendo due giornate di eventi (quattro in tutto), prolungando così la durata tradizionale di un festival, e variando il genere musicale durante i quattro giorni. Il risultato è che in fase di prevendita sono stati acquistati biglietti da tutta Italia e pullman dalla Slovenia e dalla Croazia sono stati organizzati appositamente per l’evento. «Siamo vicini a raggiungere le 40mila presenze – dicono gli organizzatori – domenica, con gli Iron Maiden, riempiremo l’arena».

Quest’anno, però, nel costruire lo spazio per il Rock in Idro, si è scelto di «privilegiare comfort e qualità – come spiega Lele Roveri, direttore artistico dell’Estragon – rispetto ai grandi numeri». Dunque una capienza massima di 20mila spettatori e un’area vip riservata a chi vuole godersi lo spettacolo seduto o con un drink: una sorta di terrazzo costruito ad hoc sull’arena, che può accogliere fino a 200 persone, a cui si può accedere pagando 30 euro in più rispetto al costo del biglietto. Solo per la giornata degli Iron Maiden poi, verrà allestita un’area pit di fronte al palco che ospiterà 2700 persone. Il pacchetto aggiuntivo per l’ingresso all’area pit, acquistabile con 20 euro, è andato subito esaurito.

Sul palco (grande quasi 400 metri quadrati) saranno installati maxischermi laterali e per ogni artista sono previsti giochi di luce diversi. Alcune band, come gli Iron Maiden e i Queens of the Stone Age, provvederanno a portare parte della loro scenografia.
«Bologna sta dimostrando la sua capacità di costruire eventi musicali come questo, rilevanti a livello europeo, e più piccoli, ma comunque di qualità», commenta l’assessore alla Cultura Alberto Ronchi, che poi però aggiunge «se tutti lavorassimo nella stessa direzione e se ci fosse qualche investimento in più da parte dei privati, si otterrebbero risultati molto interessanti per la città al punto di vista dell’indotto».

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