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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


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“Rosso Istanbul” di Ferzan Ozpetek, rosso d’amore

Una sera, un regista turco, un aereo, una madre, una famiglia, due città, Roma e Istanbul. L’amore. Ci sono tutti gli ingredienti, insieme a colori, sapori, odori, profumi, ricordi, per una lettura intensa e indimenticabile. A dire il vero anche un po’ “sconvolgente” perché in una certa misura incita a strapparsi di dosso la vita come un vecchio vestito smesso e malconcio, per ricominciare daccapo.
Questo libro è una vera dichiarazione d’amore all’amore, ad una città, Istanbul, rossa come i suoi vecchi tram, i melograni, i tramonti sul Bosforo, i carretti dei venditori di simit (il pane croccante a forma circolare), le ciliegie di Neruda. C’è poi il rosso vermiglio di una bandiera, del sorgere del sole (che è solo per i sognatori), dell’abito della ragazza che va incontro ai poliziotti con gli idranti per difendere gli alberi di Gezi Park, dei garofani dei suoi compagni manifestanti, del colletto della splendida donna in copertina, della tuta da ginnastica che, quella stessa donna, la madre di Ferzan Ozpetek, chiedeva per la fisioterapia dopo un pesante intervento, del suo smalto e del suo rossetto.
L’amore (il rosso) è il tema che percorre tutto il libro del regista di Cuore sacro, di Saturno contro, di Mine vaganti, Magnifica presenza e del più recente Allacciate le cinture. L’amore di quando si parte per rivedere la propria casa dell’infanzia, che non ci abbandona mai; di quando ci si affaccia ad una finestra e si sente il profumo dei tigli che quasi stordiscono, insieme alla brezza marina; di quando si torna indietro con la memoria ai giardini delle ville dove si giocava da bambini; di quando si trovano, in una scatola, le gondole veneziane o i souvenir della nonna un tempo allineati sulle credenze; di quando, ancora, si vedono vecchie cartoline in bianco e nero della propria città o della propria famiglia; di quando si ritrova la scrittura elegante, la curata calligrafia dal sapore antico, dietro fotografie che facevano da segnalibro a qualche antico lettore; di quando, infine, la tua città ti aspetta.
Ozpetek ripercorre tutte queste fasi, mentre il suo destino si incrocia con quello di una sconosciuta, Anna, che si trova sullo stesso aereo che li porta alla Istanbul di ieri e di oggi. Le vite di Anna, del marito Michele e degli amici Andrea ed Elena, che viaggiano con loro, si intrecceranno in un amaro epilogo, all’ombra di gelatinosi, appiccicaticci e zuccherati lokum.
C’è molta hüzün, malinconia, sentimento misto di tristezza e nostalgia. Alcune immagini sono antiche, in bianco e nero. Vi sono ricordi, oggetti, contenitori di cristallo ottomano per l’acqua di rose, dai petali dipinti e iridescenti, ritratti a olio di sultani, cornici scurite, fotografie sbiadite.
Ma ci sono anche tanti colori, il blu della Moschea di Rüsyem Pasha e delle sue maioliche, l’azzurro del cielo, il bianco del marmo, il rosso-arancio dei piattini del tè, le più svariate tonalità dei tulipani, l’argento delle cornici delle vecchie foto, il nero del pianoforte che nessuno suonava, il biondo venere dei capelli della madre, pettinanti ad onde, il giorno del suo matrimonio, il marrone intenso del caffè, l’oro del buio di Santa Sofia, il caleidoscopio del Gran Bazar, il blu dei jeans e il nero dei veli, il bianco dei teli di cotone, l’ocra della spiaggia, il bianco delle calli nel vaso cristallino illuminato dai raggi della luna, il giallo-verde dell’Orient Express, che ho scoperto dare anche il nome a una varietà di rose, meravigliosi fiori gialli con sfumature rosa che formano uno splendido contrasto con le foglie verdi dalle tonalità bronzee, il viola del glicine della villa dei vicini. E’ proprio qui il passaggio, a mio avviso, più bello del libro. “Ricordo i proprietari della villa, due signori anziani. Anziani… forse non avevano neppure sessant’anni, ma ai miei occhi di bambino erano, certo, anziani. Lui tornava a casa ogni sera, poco prima del tramonto, e la chiamava, spingendo il cancello di ferro: «Serap, Serap!». Era il suo nome. Ma pronunciato con voce così carezzevole, così dolce, così piena di aspettative che era come se, ogni sera, le mormorasse: amore, amore… E lei, una bella signora, una pittrice, apriva il portone, usciva, lo aspettava sulla scalinata. E lo abbracciava, forte, come se fosse sempre il primo giorno, come se non lo vedesse da mesi, da anni, e invece era solo uscito quel mattino. Le donne del vicinato? Be’, erano invidiose. A noi bambini, invece, faceva ridere quella scena troppo romantica. Serap, Serap… ripetevamo, canzonandolo. Ma adesso so che è questo il punto dell’amore: avere qualcuno che ti aspetta davanti alla porta, la sera. Qualcuno che ti abbraccia. Qualcuno tra le cui braccia, anche se solo per un giorno e non per sempre, ti senti a casa. A me è successo: oggi, a Roma, mi aspetta un uomo senza il quale so che non potrei più vivere. Il mio unico eterno amore”. In questo passaggio meraviglioso, che ho voluto riportarvi nella sua integralità, si sintetizza tutto l’amore che affolla le pagine, l’abbraccio caldo che ti accoglie e ti fa sentire a casa. Lo spazio non esiste più.
Oltre all’amore e ai colori, ci sono, poi, tanti profumi, quelli del pane tostato, dei dolci zuccherosissimi e mielosi, della cucina dove si preparava colazione e pranzo, delle spezie, del tè in salotto, dei biscotti appena sfornati, dello sciroppo di cui erano intrisi i dolci finissimi capelli d’angelo, i kadayif, del pesmelba ricoperto di panna, gelato e miele della pasticceria Baylan, del vento, delle ombre, del silenzio. Fra i sapori dell’infanzia risuonano i versi di Nazim Hikmet.
Ozpetek affonda ancora nell’amore, quando parla della sua prima e unica passione, Yusuf, quando ricorda il padre che non c’era mai, quando scopre che la propria madre anziana è innamorata, quando ci fa capire che la sua educazione sentimentale è stata tutta al femminile, maturata in una sorta di originale harem personale. Quello della Zia Betul e della zia Güzin, bellissime, moderne, emancipate e sempre elegantissime, single, che bevevano Cinzano e amavano giocare a imitare le femmes fatales. Zia Betul – come il regista la chiama nel libro, ma non è il suo vero nome – è stata la sua maestra di aquiloni. Un giorno gli aveva detto: “vieni, perché ho comprato la carta per fare l’aquilone. Un uomo che non riesce a far volare un aquilone, non riesce a far felice una donna”. A lui, bambino, ciò sembrava follia e, invece, la zia voleva dirgli che il modo di far felice una donna ha a che fare con la creatività, con il costruire qualcosa insieme. Lo avrebbe capito dopo.
E poi c’è l’affascinante nonna, una vera principessa ottomana, che lo portò per la prima volta al cinema, lo storico e oggi scomparso Emek Sinemasi, a vedere Cleopatra, che Ozpetek definisce il primo amore che lo porterà a Roma, città del cinema. E c’è l’amore per i ribelli, per coloro che, con un sorriso, provano a camminare a testa alta. Perché riluci d’oro dove la vita ti ha scheggiato.
In una recente intervista, il regista ha ricordato che “L’amore è in tutte le cose che facciamo. Non c’è amicizia senza amore, non c’è la solidarietà. Tempo fa, una mattina prestissimo, saranno state circa le sette e un quarto, mi chiama la badante di mia madre. Come al solito mette giù la cornetta perché richiami io. Stavo andando a girare “Magnifica presenza”, a Cinecittà. Ho telefonato e mi ha passato mia madre. “Ricordati – mi ha detto – che niente è più importante dell’amore””.
E questo libro ci insegna, con le parole dello stesso Ozpetek, che è meglio un incendio che un cuore d’inverno, che l’amore cancella la solitudine, che egli sceglie tra la folla, che tutto quello che abbiamo imparato sull’amore è solo che l’amore esiste, “che l’amore non sa né leggere né scrivere. Che nei sentimenti siamo guidati da leggi misteriose perché non esiste mai un motivo per cui ti innamori. Succede e basta. E’ un entrare nel mistero: bisogna superare il confine, varcare la soglia. E cercare di rimanerci, in questo mistero, il più a lungo possibile”. Semplice.

Ferzan Ozpetek, Rosso Istanbul, Mondadori, 2013, 111 pp.

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Il Monte Blog

I sogni sono fantasmi non sempre coscienti, anzi quasi mai coscienti, sono irresponsabili, fanno quello che vogliono, appaiono, scompaiono, vanno, vengono come piace a loro e non alla mente che scelgono per il loro teatrino. Così avviene che di notte s’inseriscano, non chiamati, nei tuoi più reconditi pensieri e li sconvolgano. Stanotte per esempio, mi è arrivata dentro, nella testa dormiente, la signora Filomena, detta anche Filo, è una conoscente che abita dalle mie parti, ex maestra, donna acculturata, ama ancora la poesia di Leopardi e quella di Pascoli, spesso cita le odi più famose, quando incontra la Silvia, comune amica, non c’è volta che le reciti “Silvia rimembri ancora quel tempo di tua vita…”, citazione che termina immancabilmente con una risata di entrambe le donne, e un saluto cordiale.
Bene: tra me e la maestra Filomena non c’è alcuna ragione per cui lei si prenda l’ardire di occupare i miei pensieri notturni, eppure, questa notte eccola lì la Filomena. Eravamo in una valle tra montagne alte e ancora bianche di neve e lei, la Filomena, stava seduta ansante su un masso. Mi guardava smarrita. “Non ce la faccio”, disse. A far che cosa?, le chiesi. “A salire sul Monte Blog, mi sono arrampicata fino a escoriami le mani, ma niente da fare, sono arrivata vicina alla vetta, ma lì è comparso un signore con barba e capelli bianchi scompigliati che mi ha intimato di non fare altri passi, altrimenti mi avrebbe dato un calcio e ributtato a valle. Lei non può entrare nella nostra casa, mi ha detto quel signore maleducato, lei è troppo vecchia, mi ha detto, e non fa parte del nostro popolo. Io gli ho risposto che ognuno ha i suoi pensieri, le sue idee, le sue convinzioni, se non si è d’accordo basta confrontarsi e lui: ci sono io a pensare per voi valligiani, e noi soltanto, io e quelli che sono d’accordo con me, possiamo salire sul Monte Blog, da dove osserviamo, benediciamo, polemizziamo, giudichiamo e lei, cara signora non è in grado di capire, di parlare con noi che il dio della politica ha scelto come suoi rappresentanti in terra.
Così ha detto quel signore biancobarbuto, che poi ha urlato vada, vada dai suoi simili ignoranti. Ho cercato di ribattere “e la democrazia?”, gli ho chiesto e poi: se uno non ha i mezzi per salire al Blog, che deve fare? Quello che vuole, basta che stia lontano dai giovani che mi stanno attorno, quelli sono la democrazia, voi vecchi ignoranti, siete finiti, la democrazia, signora mia, è per pochi eletti… Proprio così mi ha detto quell’omaccio corpulento, non lo voglio più vedere, che debbo fare? Signora Filomena, le ho risposto, dia retta a me, non venga più nei miei sogni.

‘The hardest’, storia di amicizia e di una sfida estrema fra i ghiacci della Lapponia

Porta la firma del regista ferrarese Paolo Cirelli, il documentario che andrà in onda questa sera alle 21 su Deejay Tv. Si chiama The Hardest, e racconta la storia degli unici due partecipanti, due italiani, alla Lapland Extreme Challenge, la più difficile gara a piedi attraverso la Lapponia, disputata lo scorso gennaio.
Prodotto dalla società ferrarese Pubbliteam, specializzata in format sportivi, il documentario sarà proposto all’interno del programma Fino alla fine del mondo, dedicato all’endurance e fortemente voluto dal direttore artistico Linus, grande maratoneta.
Cirelli, che si è formato alla London Film School di Londra, lavora da anni per Sky, Rai ed Mtv.
E’ autore dei cortometraggi La gran funa [vedi] e Gaynster, La gran funa 2 [vedi], oltre che dei videoclip musicali Bellezza dei Marlene Kunz, [vedi], e il più recente My girlfriend dei ferraresi Thee Mutandas [vedi].
Ha curato la regia della diretta web per lo Stupido Hotel Tour di Vasco Rossi e di vari documentari tra cui uno monografico per lo stilista Romeo Gigli ed un altro sempre per Deejay Tv dal titolo Running to the sky, su una gara di corsa in montagna [vedi].
“Non ho voluto raccontare solo una sfida estrema a meno quaranta gradi – dice Cirelli – ma anche un’incredibile storia di amicizia, quella di due romagnoli, Fabio Pasini 48 anni, titolare di una palestra, e Pietro Donati, 33 anni, ingegnere, che si sono allenati fianco a fianco per cimentarsi in quest’impresa ai limiti della sopravvivenza, in uno dei luoghi più freddi del mondo.
Entrambi di Cattolica, cresciuti in una terra calda, vicino al mare, sono stati gli unici due pazzi che hanno avuto il coraggio di iscriversi a questa gara di 900 chilometri a piedi tra i ghiacci, senza percorso e senza punti di ristoro.
The Hardest era nato come un semplice documentario sportivo, una sorta di diario per immagini, ma un brutto incidente che è capitato a Fabio, ha stravolto i loro piani ed anche i miei.
Non c’era più solo la gara di mezzo, ma anche la vita, e l’incredibile solidarietà tra due persone che va al di là di tutto. Io li ho seguiti a distanza ogni giorno, grazie ad un operatore specializzato che era con loro, Laurent Colombo, ex atleta di triathlon, perché per girare in quelle condizioni bisogna essere, oltre che folli, anche preparati.
Ho riscritto la sceneggiatura in tempo reale, adattandola agli imprevisti che si sono susseguiti, e il risultato finale è molto di più di quel che avevo immaginato”.

The Hardest sarà in onda alle 21 di venerdì 28 su Deejay Tv, canale 9 del digitale terrestre e canale 145 di Sky. [vedi]

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Il regista ferrarese Paolo Cirelli auotore del documentario The Hardest
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Scene dal documentario The Hardest del regista ferrarese Paolo Cirelli
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Scene dal documentario The Hardest del regista ferrarese Paolo Cirelli
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Scene dal documentario The Hardest del regista ferrarese Paolo Cirelli
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Scene dal documentario The Hardest del regista ferrarese Paolo Cirelli
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Scene dal documentario The Hardest del regista ferrarese Paolo Cirelli
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Il sindaco replica al professor Fioravanti: la scuola è al centro delle nostre politiche, vorrei un incontro pubblico con chi sostiene il contrario

da: Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara

Gentile Prof. Fioravanti oltre la metà delle cose da Lei suggerite sono già patrimonio di una azione concreta e programmata da anni, mi riferisco alla centralità dell’investimento educativo, alla scelta di fare cerniera fra cultura e scuola testimoniata dalla rinnovata collaborazione fra questi due mondi (casa delle Arti e Ferrara Arte) separate fino a ieri, alla riconosciuta autonomia della Istituzione Scuola voluta fortemente da tutti gli operatori del sistema infanzia e dallo scrivente tutelata.

Progetti come quello della educazione all’arte attraverso pubblicazioni e laboratori testimoniano concretamente e non con immaginifiche ricostruzione come in questi anni penosi e vuoti, ci sia chi ha continuato ad investire e non solo sulle strutture edili, ma anche sul sistema città educante. La scuola è oggetto di politiche sulla sicurezza urbana, di urbanistica partecipata, di educazione ambientale, di sperimentazione teatrale, di educazione civica ed alla Costituzione… Sembra leggendo il Suo intervento che a Ferrara si spazzino solo le aule!

Forse sfugge a qualcuno che il Presidente della Istituzione Scuola a Ferrara è il Sindaco che partecipa personalmente alle riunioni con i comitati dei genitori, con le insegnanti, che stamattina ha dato il via (in assenza di assessori e sindaci d’altri comuni) alla commissione tecnica distrettuale, che pubblica perfino veda un po’, dal basso della propria incompetenza, su riviste specializzate articoli sulla esperienza ferrarese ricercata anche ai convegni regionali (ad es. CGIL scuola).

Questa presidenza “miope” è quella che ha consentito dopo la chiusura del cda per le dimissioni dei partecipanti, di ovviare al blocco delle assunzioni nella scuola, di avviare confronti di merito con il sindacato e con le famiglie, di ampliare il servizio educativo aprendo nuovi posti nido e di occuparsi dei guai, non pochi, che l’autonomia scolastica e la concorrenza fra le direzioni tese all’accaparramento degli studenti ha creato alla corretta gestione delle strutture, scatenando reazioni che solo con le nuove scuole inaugurate si è potuta affrontare, scuole nuove ovviamente frutto di improvvisazione in tempi di risorse certe ed abbondanti.

Mi meraviglio non poco che si snobbino i “servizi”, quasi che il quotidiano coprire gli spazi statali sul sostegno e sul pre scuola sia cosa “altra” dal “collocare al centro dell’interesse della comunità lo sviluppo delle scuole”.

Belle parole, vorrei davvero un incontro pubblico per discutere con Lei e gli autorevoli amici, commentatori del suo pur pregevole pezzo, cosa voglia dire fare scuola in un comune italiano e non in una scuola di Newcastel.

A nome di chi fatica invoco rispetto, non ragione!

Il Presidente della Istituzione Scuola Comune di Ferrara

Caro sindaco, la ringraziamo innanzitutto per l’attenzione che ci riserva e per avere offerto ai lettori un’articolata argomentazione del suo punto di vista. Il professor Giovanni Fioravanti, da noi interpellato, raccoglie con piacere il suo invito a sviluppare un dialogo in sede pubblica sui temi proposti. E Ferraraitalia si rende disponibile a organizzare l’incontro, avendo cura di coinvolgere anche gli “autorevoli amici commentatori” a cui lei, pure, fa riferimento.
(sg)

Leggi l’intervento di Giovanni Fioravanti

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L’arte di andare avanti senza muoversi

Ferrara è una città viva che si offre alla lettura: le sue strade e i suoi vicoli sono come «il filo conduttore di un racconto», come scrisse della Berlino degli anni Venti lo scrittore Franz Hessel. In Italia, e in Europa, è sempre più difficile visitare una città in cui è possibile riscoprire quella «capacità di narrare» così intrinseca a Ferrara, la città degli Estensi. «Il modo in cui Bassani ha raccontato Ferrara ha attirato l’attenzione dei turisti sulla città», scrisse Alfred Andersch, uno dei più famosi scrittori tedeschi del dopoguerra, nel saggio Sulle tracce dei Finzi-Contini. Molti visitatori stranieri associano quindi Ferrara a Il romanzo di Ferrara di Bassani, cercano il giardino dei Finzi-Contini e, non trovandolo, rimangono delusi.

Ma il visitatore straniero che ha modo di fermarsi più a lungo, scopre, al di là delle vie narrate da Giorgio Bassani, anche nuove tracce che portano ad altri racconti, romanzi, saggi e, perché no, anche a poesie non ancora scritte. Nelle città che si affacciano sul Po, viene ancora attribuito un significato particolare alla lentezza che trova forse la sua migliore espressione nella “cultura della bicicletta”. A Ferrara si contano così tante biciclette come in nessun’altra città italiana: non si tratta mai di biciclette di lusso o mountain-bike raffinate; due ruote e un telaio non troppo arrugginito sono sufficienti per la maggior parte dei ciclisti; anche luci e dinamo non sempre funzionano a dovere. Su questi veicoli – che in Germania verrebbero considerati un’infrazione a tutte le regole della circolazione – si spostano con grande disinvoltura distinti impiegati di banca ed eleganti commesse di boutique alla moda, che si recano al lavoro. Gli anziani sono maestri nell’arte del passeggio in bici: si muovono sfidando il limite dell’immobilità, per potersi intrattenere in tutta tranquillità con il ciclista a fianco. Nell’era dell’alta velocità, per i ciclisti della Bassa padana il concetto del tempo è legato a una cultura ormai tramontata: muoversi, mantenendo ancora una parvenza di immobilità, senza sacrificare la comunicazione allo sviluppo.

Che, in passato, la bicicletta sia stata qualcosa di diverso da un attrezzo ecologicamente corretto e utile per mantenersi in forma, lo si può apprendere osservando il gusto e la flemma con cui montano in bici gli abitanti dei villaggi lungo le sponde del Po. Ma, appena giunti sulle principali arterie di collegamento, questa flemma ammirevole si trasforma in una ridicola nostalgia, in un anacronismo, nella dittatura del tempo del Ventesimo secolo.

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Il cardellino che non ti aspetti: a Ferrara e vicino alla Ragazza con l’orecchino

Un cardellino è tenuto legato con una catenella sopra alla scatola di becchime; l’altro è libero, posato sull’asta in uno spazio verde dove può trovare cibo, acqua e altri volatili. Il primo è Il Cardellino dipinto nel ‘600 dal pittore olandese Carel Fabritius e in mostra in questi mesi a Bologna, accanto alla Ragazza con l’orecchino di perla. L’altro è un cardellino che vive vicino a noi: nove gli esemplari che il Giardino delle Capinere, gestito dalla Lipu di Ferrara, ha preso in carico nell’ultimo anno, perché trovati feriti e salvati dal Centro di recupero che ha sede in città.

Pochi parlano della bella, piccola tavola dipinta, che sta vicino alla tela della Ragazza tanto famosa. E pochi immaginano che accanto alle mura di Ferrara ci sia un’oasi verde, grande quasi un ettaro, dove incontrare gufi, rapaci o ghiri curati e accuditi nelle voliere del Centro di recupero di animali selvatici e anche creature libere, che arrivano, bevono nel laghetto e mangiano tra le piante o nei contenitori riempiti dai volontari. A prendersi cura di uno spazio che è un tuffo inaspettato in mezzo alla natura sono una cinquantina di attivisti coordinati da Lorenzo Borghi, responsabile della Lipu ferrarese. E proprio il bilancio annuale della Lipu ci ricorda la presenza di questo uccellino nello spazio verde tanto speciale in piena città, nonché all’interno della rassegna sul secolo d’oro dell’arte olandese.

La piccola oasi di verde ferrarese è frutto di sforzi e impegno, descritti nel report presentato nel palazzo municipale con l’assessore comunale all’Ambiente Rossella Zadro e l’assessore provinciale a Flora e fauna Stefano Calderoni. L’attività messa in campo oltre ai cardellini ha fatto arrivare qui oltre 1.300 animali nel corso del 2013; 633 rimessi in libertà, perché tornati in grado di farcela da soli, con uno sforzo di 52 attivisti e oltre 9mila ore di lavoro.

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Il Giardino delle Capinere, gestito dalla Lipu a Ferrara in via Porta Catena

“Il cardellino – spiega Lorenzo Borghi – appartiene alla famiglia dei fringuelli e vive nell’area europea che va dal sud di Spagna e Marocco fino al nord di Inghilterra, Francia e, appunto, Olanda”. Non è quindi un caso che il cardellino sia stato rappresentato nel secolo d’oro dell’arte olandese e che nel Ferrarese sia arrivato nei mesi scorsi: è il suo habitat. Non è uno degli uccelli più diffusi. Viene, però, notato per la particolare colorazione. Le ali sono screziate di giallo, nero e bianco e la testa può essere rossa.

A Bologna la tavola dipinta si trova nella penultima stanza di Palazzo Fava, fino al 25 maggio. La sala dopo è quella dedicata alla fanciulla col turbante. Il cardellino è vicino al punto più atteso dell’esposizione com’è giusto che sia, ad anticipare il cammino intrapreso dall’allievo di Carel Fabritius: Vermeer che, appena 15enne, va alla bottega del pittore già affermato. E’ tra le ultime cose che Fabritius dipinge nel 1654, anno della morte prematura, causata dall’esplosione di un magazzino della cittadina olandese di Deft. L’opera è un trompe-l’oeil, ovvero uno di quei quadri che creano l’illusione di trovarti davanti a qualcosa di reale, come se da un momento all’altro la creatura potesse volare. In un volo che lo porta fino a noi.

Il Giardino delle Capinere, via Porta Catena 118 a Ferrara, è aperto per visite guidate ogni mercoledì (ore 15-16,30) e sabato (10-11,30) ma anche in altri giorni su prenotazione allo 0532 772077.

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Pensieri in libertà

E ora un po’ di pensieri in libertà dopo le sfiancanti performances della due giorni Senato-Camera.
I giornalisti: invasivi. Specie i direttori di giornali o reti. Primo fra tutti “mitraglia” Mentana che strapazza la vera eroina delle 48 ore: quella Sardoni a cui andrebbe dato il premio Oscar di pazienza mentre intervista politici e colleghi che fanno a gara per spararle più grosse (il sorriso sottile di Cazzullo con l’occhietto che chiede approvazione e ammirazione!). Poi mentre la paziente Sardoni sta per infilare una sensata domanda o un ancor più sensato commento, zac! interviene la mitraglietta direttoriale che le toglie non il pane ma il pensiero di bocca.
Poi LUI. La star. Ho apprezzato moltissimo il pezzo di Sebastiano Messina di “La Repubblica” che elenca con paziente filologia l’estrazione dalla borsa di pelle renziana dell’occorrente per sostenere il martiriologio delle dichiarazioni di voto: Iphone, Ipad, rassegna stampa, penna biro, pennarelli colorati (verde e fucsia) e udite! perfino un romanzo, L’arte di correre di Haruki Murakami (poi le carogne dicono che i politici non amano la cultura umanistica…). A conclusione, come nota europeista, Le Monde.
Perizia straordinaria del nostro Primo Ministro nel digitare, scrivere (ah sì: i “pizzini”, con il rappresentante dei 5 stelle che, come un bambinetto capriccioso, si lamenta con la signora maestra delle malefatte del compagnuccio, rivela ai giornalisti la grave malefatta del Renzi scrivano fiorentino che gli manda le missive); e ancora, rispondere al telefono, e perfino, usare quel gesto di porsi la mano davanti alla bocca per parlare quasi labbra a labbra col collaboratore/trice o con i/le membri/e del suo governo. Ricordo una memorabile avvertenza di B. a quel tempo primo ministro e con l’interim degli Esteri che raccomandava ai suoi collaboratori prima dei sussurri scambiati con ambasciatori, capi di Stato, e perfino funzionari, di munirsi di una caramella di menta rinfresca alito. E’ tutto vero! Teste Andrea Camilleri a Firenze mentre gli presentavo un libro a Palazzo Strozzi. In questa parata di gestualità simboliche o metaforiche ecco due momenti di vera commozione e rispetto della e per la politica. Le nobili parole di Emma Bonino che dal palchetto di Largo Argentina rinuncia a ogni risentimento per la mancata riconferma del suo ruolo; poi, visivamente, l’abbraccio tra Letta e Bersani. Il primo che sembra sostenere il secondo che s’accascia tra le sue braccia. Commovente e terribilmente reale.
E questa sera 26 febbraio a “Otto e mezzo” l’intervista con D’Alema: l’occhio ancor più spiritato del solito, il baffo tremulo che sembra voglia ingraziarsi il commentatore del “Il Foglio” Mario Sechi e una tremenda Gruber che vorrebbe portarlo sul discorso dei suoi rapporti con Renzi, ma invano. L’uomo più intelligente che la sinistra abbia avuto negli ultimi decenni che per un profondo senso di sadomasochia è stato il diretto responsabile di tanti fallimenti della sua parte politica e del suo partito. S’impara molto a osservare lo spaventoso potere dei media e come ci si può immolare al suo fascino (o necessità?). Stretto nel suo paltoncino dernier cri ma sicuramente di una taglia inferiore corre il primo ministro all’abbraccio dei ragazzini della scuola veneta da lui visitata – ed è stato un momento apprezzabile come sempre quando pone al centro del suo programma la scuola – poi la fuga inseguito dal branco dei lupi-giornalisti che gli lasciano come preda braccata e spartita sul tavolo dell’intervista un enorme mucchio di microfoni. Alla rinfusa.
E ancora istruttivi i commenti facebook. Lo sdegno per le dichiarazioni di Gotor o di Civati da parte dei renziani di ferro che parlano di queste proteste come provocate da nemici piuttosto che da membri dello stesso partito. Le cautissime esortazioni allo stare uniti o le sboccate e assolutamente non condivisibili proteste di chi pensa, come i pentastellati, che basta postare qualche “malaparola” preferibilmente riguardante la sfera sessuale per esprimere la propria “indignazione”, una parola che per legge vorrei non fosse mai usata dai politici, ma non solo da loro. E nel cocktail di voci, foto, scritte e selfie, mail e dichiarazioni, come evocata dal pensiero profondo, il bisogno del conforto di una musica quale la straordinaria ultima incisione di due concerti di Mozart eseguiti da Abbado con la divina Argerich: un vero testamento spirituale. Oppure ancora l’UNICO Dante che ti solleva, pur immerso com’era nella contingenza della politica, alla realtà della trasfigurazione poetica fino a riveder le stelle del nostro spirito.
E allora puoi anche sorridere di tutto questo agitarsi. Tanto domani nessuno se ne ricorderà.

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A Città del Vaticano i più grandi bevitori di vino al mondo

Da anni Francia e Italia si contendono il primato della classifica dei maggiori produttori mondiali di vino, in un’alternanza che ha dato vita a una sfida ormai da tempo apparentemente senza grosse sorprese.
Il colpo di scena invece non è mancato alla pubblicazione degli ultimi dati, relativi al 2011, che riguardano questa volta la classifica dei maggiori bevitori di vino, stilata dal California Wine Institute e riportata da Winenews, autorevole agenzia quotidiana di comunicazione sul mondo del wine & food. Al di là di ogni aspettativa, i maggiori bevitori di vino al mondo sono risultati gli abitanti della Città del Vaticano, 836 anime (inclusi i circa 250 residenti non cittadini) che occupano un territorio di 0,44 chilometri quadrati all’interno della città di Roma. Con 62,2 litri a persona, gli abitanti del più piccolo paese del mondo superano Andorra, microstato dei Pirenei, al secondo posto con 50,4 litri per 85.000 abitanti. La Francia, colosso del mercato, si trova al quinto posto con 45,6 litri, che equivalgono a 7 miliardi di bottiglie. L’Italia, altro “big” del settore, si aggiudica il nono posto, con 37,6 litri, di pochissimo sotto la Svizzera.
Questa situazione non rispecchia però la graduatoria dei maggiori produttori di vino, che vede nel 2011 in testa la Francia, seguita da Italia, Spagna e Stati Uniti (e dalla Cina, che si fa sempre più vicina).
Ma i grandi produttori sono anche forti bevitori? Se la risposta è affermativa per francesi e italiani, troviamo gli spagnoli solo al 31° posto con 21,6 litri a testa, e gli americani addirittura al 62° con 10,5 litri. La Cina, quinto produttore mondiale di vino, nell’ordine del consumo individuale si piazza 139esima su 224 paesi riportati nella classifica del California Wine Institute, con un consumo pro capite di soli 0,6 litri. Ma i numeri della Cina, si sa, sono enormi, e crescono continuamente. Rispetto al consumo totale di vino, i cinesi battono tutti, con 1865 miliardi di bottiglie di vino vendute (soprattutto rosso). Un dato che non sconvolge, vista la superiorità numerica del paese asiatico, ma che testimonia il crescente interesse della Cina per questo prodotto.
Di fronte ai grandi primati della Repubblica Popolare, che coinvolgono oggi anche il mercato vinicolo, il primato della piccola monarchia cattolica appare ancora più stupefacente, ma è forse destinato, anche se nel lungo periodo, a cedere il passo.

mafiaemilia

Intesa per combattere la mafia. Nasce sportello per le vittime

di Sirio Tesori

Assistenza alle vittime di mafia e controllo delle aziende sequestrate. Sono gli obiettivi principali dell’intesa firmata nei giorni scorsi da Camere di commercio regionali e associazione antimafia Libera. La collaborazione permetterà a entrambe le realtà di promuovere la cultura delle legalità nelle piccole e medie imprese dell’Emilia-Romagna.

Tra i progetti più rilevanti c’è ‘Sos giustizia’, uno sportello che assiste chi è vittima di mafia. Il servizio è gestito dall’associazione di don Luigi Ciotti, ed entrerà nel menu dei servizi offerti dalle Camere di commercio ai propri iscritti. Unioncamere invece darà una mano a Libera nel mappare e tenere aggionate le informazioni economiche delle aziende e dei beni sequestrati alla criminalità organizzata. Sarà insomma più semplice, da parte dei piccoli e medi imprenditori, ottenere i dati di gestione delle realtà produttive strappate al circuito mafioso. Per conto suo, Unioncamere ha anche elaborato un progetto per mettere a rete il lavoro degli sportelli legalità delle Camere provinciali. «Il rispetto della legalità costituisce un fattore fondamentale per lo sviluppo economico” commenta Alberto Roncarati presidente Unioncamere. «Il sistema camerale -prosegue- crede nella legalità come strumento per contrastare la concorrenza sleale, l’abusivismo, l’irregolarità, i fenomeni mafiosi».

Sebbene non sia considerata ‘terra di mafia’ l’Emilia-Romagna conosce il fenomeno dell’infiltrazione, che passa dal riciclaggio agli stupefacenti, all’estorsione. Secondo gli ultimi rapporti antimafia redatti dalle istituzioni regionali, sono stati oltre cento i beni confiscati in regione.

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Genitori sregolati, figli sgretolati

Mi capita sempre più di frequente di ricevere coppie di genitori che faticano a gestire la relazione con i figli e la loro crescita. Gli adulti, oggi, sembrano essersi smarriti nello stesso mare dove si perdono i figli, senza più alcuna distinzione generazionale.
Prevale il mito della giovinezza perenne, il culto dell’immaturità, che propone una felicità spensierata e priva di responsabilità. La solitudine delle nuove generazioni deriva dalla difficoltà degli adulti nel sostenere il loro ruolo educativo.
Ciò che constato, raccogliendo le storie dei genitori, è che nelle famiglie non c’è più conflitto tra legge e trasgressione, spesso tutto è concesso, senza limite. In casa, le porte delle stanze sono tutte aperte ad indicare, anche simbolicamente, l’assenza di confine, di separazione tra sé e l’altro. In questa mancanza di limite, le nuove generazioni si sentono lasciate cadere, abbandonate.
I genitori dovrebbero essere in grado di sopportare il conflitto e di rappresentare la differenza generazionale. L’omogeneità della famiglia moderna introduce un’omogeneità solo apparentemente priva di conflitti. I bambini sembrano essere equivalenti ai genitori, le madri alle figlie, i padri ai figli. Si assiste ad una confusione di ruoli, e quando uno dei componenti parla non è chiaro da che posizione lo faccia. L’autorità viene meno, si sgretola, portando come risultato quello di crescere giovani fragili, con personalità poco solide e che non sanno a quali punti di riferimento appigliarsi.
Un tempo il figlio faceva parte della famiglia sottomettendosi alla sua organizzazione gerarchica e alle sue leggi. Nel nostro tempo è esattamente il contrario: la famiglia subordina ogni scelta alle esigenze del dio bambino e alla sua volontà resa assoluta. Genitori che fanno decidere ai figli dove andare in vacanza, fine settimana tutti in funzione di ciò che è più piacevole e meglio per i bambini.
In questo modo i bambini e gli adolescenti non sperimentano le frustrazioni e quando poi, per cause di forza maggiore, la vita gliele pone davanti, non hanno gli strumenti giusti per farci i conti. Da qui anche i casi di suicidio, ad esempio in seguito ad una bocciatura scolastica o ad una delusione amorosa.
All’interno delle famiglie tutto si appiattisce in una parola vuota, che è una parola su tutto senza però che vi sia un’implicazione responsabile rispetto a ciò che si dice.
Una mia paziente parla così della madre: “Mi teneva in grembo sognando quali vestiti mettermi, e di che colore, e quali dei suoi sogni darmi in mano da realizzare. Nel suo bisogno di darmi in consegna ciò che le era mancato”. Ciò indica come la figlia possa essere vissuta come prolungamento narcisistico del genitore.
Un’altra paziente ben descrive il ruolo distorto assunto all’interno della propria famiglia e ciò che esso ha comportato per lei: “Io ero al posto di mia madre, per mio padre. Ed ero al posto di mio padre, per mia madre. Io ero quel giocattolo con cui si poteva finalmente raggiungere la soddisfazione. Quei buchi tra loro riempiti da me. Così mi sono trovata là, nel posto sbagliato, in un luogo sconosciuto, inospitale. Una mela a metà: una metà fatta del sogno di mia madre… quello di diventare il suo riscatto… e una metà fatta di lui, del sogno di restare la sua bambina… che lo avrebbe servito, amato, ascoltato, capito… Lo avrebbe soddisfatto, divenendo la donna che non aveva mai avuto. E’ in questo punto doloroso che l’amore ferisce. E’ la potenza devastante del troppo. Il troppo amore di una madre affamata. Il troppo amore di un padre e il suo desiderio. Una figlia in mezzo. Un amore che chiede in cambio una vita. Sono stata al loro gioco, non sono stata capace di liberarmi”.
Se i genitori sono confusivi, se trasmettono messaggi ambigui e contraddittori, i figli risulteranno spaesati e avranno difficoltà a distinguere tra sé e l’altro e ad avere confini definiti.
La famiglia che funziona meglio non è la famiglia che nutre con la pappa giusta, seguendo un manuale del giusto genitore. E’ la famiglia che sa nutrire e sostenere il desiderio dei figli.
Come si nutre il desiderio? Non con le prediche, la pedagogia, i discorsi, ma con la testimonianza, dando il buon esempio. Coltivando le proprie passioni. Mostrando che si può vivere in questo tempo anche senza impazzire, senza volersi suicidare, ma vivendo la propria vita e facendola fruttare.

Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

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Dal rigassificatore di Porto Tolle acqua sterile in mare. Pesca in calo. Sotto accusa l’impianto che fornisce metano all’Europa

Lo guardano da lontano. Con sospetto e timore. Soprattutto dalle marinerie della costa emiliano romagnola, quelle a sud di Porto Viro, dove 15 chilometri al largo opera il rigassificatore di Adriatic Lng, società formata da Qatar Petroleum, ExxonMobil e Edison, tre colossi dell’energia rispettivamente detentori del 22, 71 e 7 per cento delle azioni.

Un fatturato di oltre 200 milioni annui
L’impianto, operativo dal 2009, impiega 125 persone, il 60 per cento delle quali venete, e copre il 10 per cento del fabbisogno di metano in Italia con una produzione annua di 8 miliardi di metri cubi. E un fatturato superiore ai 200 milioni di euro l’anno. L’attività del terminal rappresenta una fonte di approvvigionamento energetico di importanza strategica per tutto il nord. E il suo insediamento è stato salutato da un fondo di 12 milioni di euro per riscattare le differenti fasi di stress ambientali e contribuire allo sviluppo del Polesine, dove l’azienda ha investito ulteriori 250 milioni di euro attraverso la stipula di contratti con imprese e fornitori locali. L’ammontare della somma del fondo è stata stabilita con un accordo del 2008 tra Adriatic Lng, Provincia di Rovigo e Consorzio di Sviluppo del Polesine (ConSviPo) formato da Comuni, associazioni di categoria e enti.

Un’isola di cemento alta 10 piani in mezzo al mare, al largo del Parco del Delta
Da quattro anni l’isola di cemento armato e acciaio, alta come un palazzo di 10 piani, adagiata sui bassi fondali di un mare semichiuso e particolarmente atrofizzato come quello che incrocia il delta del Po, lavora a pieno ritmo. A pochi chilometri dal parco disteso tra due regioni, in un gioco di lagune, lingue di sabbia e spiagge. L’impianto, forte di un mix di tecnologie di ultima generazione, utilizza un procedimento industriale a ciclo aperto: significa che usa il calore dell’acqua di mare per riscaldare il gas, trasformandolo da liquido in aereo, e poi restituisce l’acqua al mare.
Da quando si pesca meno pesce, cosa comune a gran parte dell’Adriatico stando al rapporto 2012 del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, la domanda che si rincorre lungo le banchine è sempre la stessa. ‘E’ colpa del rigassificatore?’. Ad escluderlo è il piano di monitoraggio dell’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale approvato dal Ministero dell’Ambiente per testare le reazioni dell’habitat all’attività dell’impianto.

“Un’alterazione dell’ecosistema”
I pescatori dell’Emilia Romagna però vorrebbero un supplemento di indagine. Più a sud e con maggiori elementi di ricerca. Nella speranza di scongiurare quanto sostiene lo studio del comitato scientifico del Wwf di Trieste da qualche tempo al vaglio dell’Europa. ‘L’acqua di mare impiegata nel processo di rigassificazione negli impianti a circuito aperto viene restituita praticamente sterile, inutilizzabile per i servizi ecosistemici che rende all’ambiente’, si legge nello studio curato da Livio Poldini, Marco Costantini, Maurizio Fermeglia, Carlo Franzosini, Fabio Gemiti. Michele Giani e Dario Predonzan. ‘Si ha la perdita quasi totale delle forme di vita veicolate dall’acqua, uova, larve e avannotti, organismi planctonici e si induce artificialmente la selezione di quelle forme batteriche resistenti al processo di clorazione, che formano biofilm sulla superficie dell’acqua’, sostengono nella ricerca.

I pescatori sono in allarme
E’ un campanello d’allarme difficile da ignorare a fronte del trend decrescente di catture e ricavi dei pescatori per i quali le giornate di attività dal 2004 a oggi sono calate del 20 per cento. In Veneto e Emilia-Romagna, che vantano entrambe un giro d’affari annuale attestato sui 53 milioni di euro, la flotta è composta complessivamente da 1.442 imbarcazioni di vario tipo e ognuna ha perso mediamente una tonnellata di pescato passando da una media di 16 a 15. Sul versante Veneto è stata verificata una variazione nella composizione del pescato di cui si è parlato a fine agosto in un incontro tra pescatori organizzato a Chioggia al termine del fermo pesca. I tecnici dell’Ispra, Otello Giovanardi e Sasa Raichevich, hanno illustrato lo stato di salute delle risorse ittiche basandosi sui risultati di due campagne di pesca sperimentale a strascico promosse dal ministero delle Politiche agricole per tracciare la futura gestione della pesca.

Quattro gradi in più sul fondo marino, schiume giallastre e la magistratura indaga
Dalla ricerca è emerso come le catture del 2012 non si discostino di molto da quelle del 2011, almeno per quanto riguarda le specie più frequentemente imprigionate nelle reti. Se la presenza di barbone, seppie e canocchie è più o meno stabile, quella del molo è certamente calata. I due tecnici hanno descritto uno scenario ambientale diverso, con temperature più alte di 4 gradi sul fondo marino e una variazione verso l’alto della salinità. Mutamenti sotto osservazione, che disorientano il mondo della pesca. E mentre aumenta la preoccupazione nelle marinerie, il tribunale di Rovigo si prepara all’udienza filtro del 12 marzo, che vede due dirigenti di Adriatic Lng imputati di danneggiamento ambientale aggravato. Il sostituto procuratore Sabrina Duò contesta più episodi legati alla comparsa di abbondanti schiume giallognole, che nel 2010 hanno galleggiato sull’acqua in periodi differenti.
La schiuma è una spina nel fianco di Adriatic, che nel 2009 ne aveva segnalato a Ispra la formazione in seguito allo scarico delle acque di scambio termico del rigassificatore. Nel 2012 è poi arrivato un esposto di Eddy Boschetti presidente del Wwf di Rovigo relativo alla comparsa di una coltre bianca viscida e ghiacciata sulla spiaggia di Boccasette, nel comune di Porto Tolle, che ha gettato un sospetto sull’impianto. Nell’occasione, la società escluse ogni tipo di responsabilità, posizione tuttora sostenuta.

Il caso finisce in Parlamento
Tutto sta nei giochi per Boschetti, che ha le idee chiare: ‘In casi come questi non esiste un interlocutore diverso dal ministero, dobbiamo poterci appoggiare alla legge – dice – E’ ovvio che se ci sono maglie normative larghe, il privato interessato soprattutto al profitto cerca di sfruttarle nel proprio interesse. Sono le istituzioni a dover mantenere l’equilibrio in tutta la vicenda’. All’indomani dei galleggiamenti di schiuma Maurizio Conte, assessore regionale all’Ambiente del Veneto, scrisse all’ex ministro Corrado Clini per chiedere un tavolo di confronto sul fenomeno e, negli stessi giorni, a Roma, la deputata radicale Elisabetta Zamparuti presentò un’interrogazione a ben tre ministeri: Ambiente, Sviluppo economico e Agricoltura. La richiesta: chiarire la natura del fenomeno, conoscere le analisi di Ispra, valutare la possibilità di approfondirle indagando su cloro derivati organici e aloderivati. E di considerare l’opportunità di cambiare la lavorazione dell’impianto gasiero trasformandola da ciclo aperto in chiuso. Tutte cose importanti, aveva sostenuto la radicale, per scongiurare il rischio di danneggiare l’ecosistema marino creando danni all’economia costiera.

Anche la Commissione europea è allertata
Il tema del rigassificatore è approdato di recente anche in Europa per via delle interrogazioni dell’eurodeputato di Alde (Alliance for liberals and democrats for Europe) Andrea Zannoni membro della commissione Envi Ambiente, Sanità Pubblica e Sicurezza Alimentare al parlamento europeo. ‘Il timore è che rappresenti una minaccia per l’ecosistema marino e che sia la causa della recente strana moria di delfini e tartarughe trovati sulle spiagge romagnole – dice – In mancanza di studi comunitari sugli effetti dei rigassificatori, ho fornito alla Commissione europea lo studio del Wwf di Trieste perché possa far luce sull’impatto della lavorazione del ciclo aperto sull’ecosisistema marino. Può essere un modo per evitare eventuali disastri naturali e pericoli per le comunità costiere’. Intanto la Croazia, ricorda il parlamentare, nonostante avesse approvato un impianto con utilizzo di acqua di mare a Velia (Krk) ha fatto marcia indietro autorizzando la lavorazione a ciclo chiuso.

“Danni al turismo”: deciderà il tribunale di Rovigo

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L’avvocato ambientalista Matteo Ceruti

La vicenda è ‘glocal’, tanto locale quanto globale come testimonia il procedimento penale in corso, nel quale le associazioni ambientaliste, ma non sono le uniche, potrebbero chiedere di costituirsi parte civile nel processo Adriatic. ‘Abbiamo tempi molto stretti – dice l’avvocato Matteo Ceruti, conosciuto per l’impegno in difesa dell’ambiente – ma stiamo vagliando la possibilità di intervenire’. Per parte sua il giudice Duò ritiene il processo un’esperienza in divenire. ‘Ho contestato un danneggiamento aggravato anche pensando alla vocazione turistica del territorio’, spiega il magistrato, che si avvale della consulenza del dottor Giuseppe Perin dell’Università di Venezia. ‘Non dimentichiamo che gli episodi sono avvenuti al largo di spiagge frequentate dai bagnanti’. Le schiume, quando arrivano a lambire la costa possono compromettere la balneazione. Ma c’è di più. L’azione meccanica del rigassificatore oltre a scatenare la spuma nella quale, specifica la Duò, ‘non sono presenti inquinanti chimici’ agirebbe sul processo di fotosintesi e modificherebbe le cellule presenti nei microrganismi dell’acqua.

“Un impianto concepito per spazi oceanici”
‘Non credo che Adriatic si aspettasse una tale quantità di schiuma – dice il biologo marino Carlo Franzosini del comitato scientifico del Wwf di Trieste – L’impianto è stato concepito in America, è pensato per spazi oceanici, dove il contenuto organico è maggiormente diluito rispetto alle concentrazioni presenti nel mare Adriatico, che nel subire l’azione meccanica provocano una reazione eccessiva rispetto alle aspettative della società’.

Il terminal ha caratteristiche uniche al mondo
Il terminal, unico in tutto il mondo, lungo 180 metri largo 88 e alto 47, immerso in 29 metri di profondità, è collegato da 40 chilometri di metanodotto alla stazione di misura di Cavarzere da dove il gas, correndo per 84 chilometri lungo una condotta realizzata da Snam Progetti, raggiunge l’impianto di stoccaggio di metano più grande del nord Italia. La gigantesca struttura ha avuto la prima Autorizzazione Integrata Ambientale nel 2009, una certificazione triennale in scadenza nel 2015 per la quale Adriatic ha già avviato la richiesta di rinnovo per continuare un’attività che ha portato ad immettere nella rete nazionale dei gasdotti 26 miliardi di metri cubi di metano. Finora hanno attraccato al terminal 310 navi gasiere provenienti principalmente dal Qatar ma anche da altri Paesi. Ogni singolo carico trasformato dallo stato liquido a gassoso con l’ausilio del calore dell’acqua di mare contribuisce a diversificare le fonti energetiche. Va da sé l’assottigliarsi della dipendenza energetica del nostro Paese da altre nazioni.

Struttura strategica per l’Italia e l’Europa
‘La struttura è considerata strategica nell’approvvigionamento energetico italiano e comunitario’, spiega il responsabile delle relazioni esterne della società Alessandro Carlesimo. L’impianto, visitato in dicembre dall’ex ministro delle Sviluppo economico Flavio Zanonato, è stato però oggetto di un sollecito al ministero dell’Ambiente da parte dell’assessore regionale all’Agricoltura dell’Emilia Romagna, Tiberio Rabboni, a cui i pescatori si sono rivolti per avere maggiori ragguagli sugli effetti dell’attività di Adriatic Lng sul mare. E, soprattutto, sugli stock ittici.
Com’è finita? Nessuna risposta per il momento. Né ai pescatori né alle nostre ripetute telefonate. L’unica cosa certa è l’incontro a porte chiuse tra l’assessore e Adriatic Lng di cui nulla si sa di ufficiale. Eppure i tanto attesi dati del monitoraggio Ispra, sui quali si sarebbe dovuto ragionare con l’assessorato, sono pubblicati sul sito della Provincia di Rovigo. ‘Da quelle risultanze si riscontra un ammanco di uova di pesce – dice Franzosini – Manca poi uno studio specifico del comparto dei pelagi comunemente conosciuti come pesce azzurro’.

“La pesca è in calo da quattro anni”
‘Sono quattro anni che le catture dei pesci sono calate – racconta Mario Drudi della cooperativa Casa del Pescatore di Cesenatico – Il dilatarsi del fermo pesca, la diminuzione delle giornate di lavoro, la proibizione di praticare lo strascico sotto le tre miglia non hanno portato alcun miglioramento. La causa non può essere attribuita all’eccessivo sforzo di pesca come si cerca di far credere. Bisogna indagare a 360 gradi, sarebbe opportuno ampliare il monitoraggio’. Il terminal, al pari di molti impianti industriali off shore, ricorda Sergio Caselli, responsabile di Lega Pesca Emilia-Romagna ha tolto miglia di mare ai pescatori di qua e di là dal Po e alle colture di mitili del rodigino. Il restringersi del campo d’azione ha colpito anche le marinerie emiliano-romagnole autorizzate a gettare le reti nei comparti confinanti, ma escluse dal piano di compensazioni del Polesine.

“Vogliamo capire se ci sono fenomeni inquinanti, ma l’osservatorio promesso non c’è”
Dei 12 milioni gestiti da ConSvipo, solo 2 milioni e 450 mila euro sono riservati al cofinanziamento di progetti di pesca professionale. ‘Non ho mai apprezzato l’accordo, avrei preferito negoziazioni più trasparenti che non fossero frutto di trattative private. Le nostre marinerie spendono milioni per il marchio di qualità, se succede qualcosa all’habitat chi le ripaga?’, dice Luigino Pelà di Lega Pesca Veneto. ‘Mi dispiace non sia stata rispettata quella parte del protocollo nella quale era prevista la creazione di un osservatorio della pesca, che ci permettesse una condivisione maggiore dei dati sui quali oggi non abbiamo un controllo diretto – continua – Il monitoraggio Ispra è difficilmente traducibile noi vogliamo capire se ci sono inquinanti, se l’ecosistema è cambiato. Se ci sono specie che oggi prevalgono su altre, sapere se ci sono problemi e quali in modo da pianificare in anticipo le nostre attività e trovare eventuali alternative per diversificarle’. E ancora: ‘A cosa servono le analisi fatte così? Ci costringono a navigare a vista. Avevamo chiesto in sede nazionale un’interazione con i nostri istituti di ricerca, ma non c’è stato seguito. Purtroppo paghiamo scelte politiche e strategiche, che non tengono conto dell’area dove ci troviamo’.

“Le responsabilità del rigassificatore sono tutte da verificare”
‘Negli ultimi 10 anni lo sforzo di pesca è diminuito del 30 per cento, interrogarsi sul motivo del calo quantitativo e qualitativo degli stock ittici è più che lecito e la risposta – dice Sergio Caselli – può venire solo da un maggior approfondimento scientifico con parametri più ampi, che riguardino anche un’estensione a sud dell’area campionata’. Dello stesso parere Vadis Paesanti, presidente emiliano romagnolo di Federcoopesca, che aggiunge altri elementi di riflessione sul diradarsi del pesce: ‘La questione trascende i confini regionali, siamo coinvolti in modo diretto insieme ai nostri 2mila addetti ai lavori. Tutti in difficoltà – spiega -. L’approfondimento è importante, come lo sono anche le valutazioni su esperimenti di salvaguardia messi in atto senza tener conto dell’esperienza dei pescatori. Si è pensato di difendere l’ecosistema vietando lo strascico sotto le tre miglia, in realtà nel delta del Po, l’utilizzo di quel metodo bonificava i fondali da un eccesso di limo. Era utile per la tenuta a regime dell’habitat’.

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Giuliano Zanellato presidente cooperativa Pilamare, specializzata nella pesca del pesce azzurro

Giuliano Zanellato, presidente della cooperativa di Pilamare fondata nel 2009, una flotta di 13 pescherecci specializzata nella pesca del pesce azzurro, non fa mistero della necessità di ottenere un’operazione di maggior chiarezza nell’illustrazione dei dati dei campionamenti. ‘Che ci sia meno pesce è una realtà, ma non abbiamo dati scientifici per imputarne il calo al rigassificatore – dice – Certo mi sentirei più tranquillo se la Regione mi garantisse, attraverso l’impegno della multinazionale, una somma adeguata per formare una squadra di tecnici di fiducia delle cooperative a cui affidarci’. La Regione, a sua detta, ha guadagnato ben poco dell’insediamento del terminal la cui presenza è stata ripagata con il fondo gestito dal ConSviPo. ‘Dodici milioni complessivi sono briciole – conclude – Alla pesca hanno interdetto miglia di mare. Mi chiedo cosa accadrà quando la Provincia, così come la conosciamo, non ci sarà più e decadrà anche il Consorzio di Sviluppo, che si occupa dei rapporti con Adriatic. E’ bene che sia la Regione a gestire l’intera situazione’.

La fragilità del delta del Po, del mare nel quale i suoi rami si tuffano e l’accelerazione dei cambiamenti climatici sui quali si concentra l’attenzione dell’Europa, sono difficili da mantenere in equilibrio. Possono convivere gli interessi energetici con quelli economici di un comparto costiero tradizionale come la pesca e le esigenze ambientali del vicinissimo patrimonio Unesco, il Parco del Delta del Po, separato dal fiume che ne detta i confini amministrativi? In Emilia Romagna l’articolo 3 della legge regionale 24 del 23 dicembre 2011 parla chiaro. ‘L’ente deve inoltrarsi per 10 chilometri in mare nell’interesse della tutela dell’ambiente’, dice Lucilla Previati direttore del versante a sud del Parco. ‘E’ il motivo per il quale sono favorevole a un monitoraggio approfondito’.

1 – CONTINUA

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Alla caserma Pozzuolo del Friuli meglio destinare il Museo della città

da: Ranieri Varese

Gentile Assessore Fusari,
in primo luogo le chiedo scusa per la mia uscita anticipata dalla sala ove lei ha avuto la cortesia di illustrare ai soci della sezione ferrarese di Italia Nostra alcune delle valutazioni che l’Amministrazione Comunale ha compiuto circa la possibilità di utilizzo delle Caserme Pozzuolo del Friuli e Bevilacqua. Un familiare veniva quella mattina dimesso da una clinica, ove era ricoverato, e dovevo andarlo a prendere.
Ho ascoltato con grande attenzione la sua relazione e le sono grato per la chiarezza con la quale ha illustrato alcune opzioni.
Nel mio intervento, da privato cittadino quale sono, e ora con questa lettera, le chiedo ne vengano valutate anche altre, possibili e, mi pare, non minori né indegne.
Certo per ristrettezza di tempi lei ha parlato della vicinanza di Schifanoia alla Caserma Pozzuolo del Friuli solo come un dato topografico. Ma, forse, il senso della presenza andava comunque indicato.
Lei sa bene che non esiste a Ferrara un ‘sistema musei’, auspicato dalla legislazione regionale, richiesto dalle associazioni cittadine, presente e funzionante in altre città della regione. Ferrara, la cui eccezionalità è stata riconosciuta dall’Unesco, ha, paradossalmente, poco investito sul proprio patrimonio ed ha preferito scelte diverse.
Credo che valorizzare la città, sia sotto l’aspetto urbanistico che per le testimonianze che sopravvivono dal XIV al XX secolo, sia un impegno che deve essere assunto. Lo penso come atto politico, non per un generico e, se fosse così, futile credere in una funzione salvifica della cultura, con un uso deviante e sterilmente autoconsolatorio del termine.
Trasportato in termini concreti e in tempi credibili sono convinto che la capacità attraente della città sarebbe sicuramente accresciuta se di fianco alle iniziative espositive e musicali e alle altre occasioni vi fosse una rete museale integrata in percorsi cittadini, funzionante ed efficiente.
Oggi così non è, come lei da amministratore sa. Manca collaborazione fra le istituzioni, sono quasi del tutto assenti i servizi, manca, a completare il quadro, il Museo della città.
Faccio alcuni esempi: mancano quasi del tutto le guide ai musei, manca una editoria specifica, non esiste una biblioteca, la fototeca è congelata, il rapporto con l’università è quasi assente, le associazioni stentano a presentare progetti comuni, l’amministrazione fatica a fare discorsi di lungo periodo o, almeno, a renderli noti.
L’area della Caserma Pozzuolo del Friuli potrebbe, a mio parere dovrebbe, essere destinata al Museo della Città: il Museo del vivere quotidiano, nella città attraverso i secoli, che raccolga le testimonianze del lavoro, della religiosità, della organizzazione del governo pubblico, della vita e della morte.
Un concorso di idee, per la sistemazione dell’area, metterebbe Ferrara al centro di un dibattito che coinvolgerebbe non solo i ferraresi.
Un ultimo esempio concreto è l’utilizzo della ‘cavallerizza’. Se vogliamo, come dovremmo, che i visitatori ritornino ai musei bisogna creare occasioni e strutture. Schifanoia come gli altri in città ha nei depositi ricche testimonianze ed opere che non vengono esposte per mancanza di spazi. La cavallerizza potrebbe, dovrebbe a mio parere, essere la sede per mostre temporanee organizzate dal museo, in prevalenza con propri materiali, la sala, polivalente, potrebbe, dovrebbe, essere utilizzata anche per convegni, conferenze.
Mi scusi di nuovo per l’assenza e per il poco di tempo che le ho portato via. Mi aspetto che questi temi vengano, da lei, dal Sindaco, dagli amministratori, considerati e valutati come possibili. Mi aspetto, da cittadino, una risposta e una indicazione.
Posso auspicare che questo possa avvenire ? Non senta come una provocazione il dono degli atti del convegno sui musei, mi creda.
Ranieri Varese
Ferrara 27 gennaio 2014

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“Cambiare radicalmente la politica economica” con il ministro Guidi: la ‘mission impossible’ di Renzi

Quando Matteo Renzi, neo primo ministro, declama nel suo discorso di investitura che la situazione “richiede un cambio radicale delle politiche economiche”, verrebbe voglia non solo di applaudire, ma di alzarsi in piedi.
Finalmente, caspita! Possibile che nessuno prima abbia ancora avuto il coraggio di dire chiaramente questa verità così palese?
Poi, però, compare nella mente l’immagine della nuova ministra allo Sviluppo economico, Federica Guidi, cioè colei che dovrebbe dare gambe e concretezza a questo cambiamento radicale, nota esponente della parte più retriva del padronato industriale italiano, e l’entusiasmo si affievolisce rapidamente.
Stessa cosa quando viene indicato uno dei pochi impegni chiari e precisi di tutto il discorso: ridurre di 10 punti il cuneo fiscale sul lavoro. Prima reazione: sarebbe bellissimo! Ma, dopo qualche secondo: dove cavolo si prendono i 34 miliardi di euro necessari ad ottenere questo risultato?
Alla fine, prevale la sensazione di aver ascoltato un abile esercizio oratorio, che però risulta difficile catalogare come un vero discorso programmatico, essendo i pochi punti chiari enunciati in proposito (edilizia scolastica, pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, fondo di garanzia per le piccole e medie imprese) già presenti nel programma del governo Letta, appena destituito.
A proposito, continuano a rimanere senza risposta un paio di interrogativi non banali: perché questa repentina sostituzione, dopo averla tanto a lungo negata? Perché, e in base a che cosa il governo Renzi dovrebbe riuscire, pur con la stessa maggioranza che lo sostiene, là dove Letta ha fallito? Chi aveva pensato (sperato) che la risposta stesse in qualche geniale trovata o innovazione programmatica, è rimasto deluso, almeno fino ad ora.
L’unico fatto concreto consiste per il momento in una conquista del governo, avvenuta calpestando il proprio rivale e infischiandosene della coerenza con le proprie dichiarazioni rese appena poche ore prima.
Un fatto non marginale, perché quando, come oggi, ogni forma di rappresentanza, sociale o politica che sia, vive una crisi profonda, la coerenza dei comportamenti e quella tra le dichiarazioni e i fatti diventa assolutamente fondamentale, per la tenuta e la residua credibilità delle istituzioni democratiche.

eccezione

Il sapore di una buona scuola

In questi anni, in cui ho incontrato molte persone ed ho parlato con tanti genitori, mi sono accorto che non è facile far capire cosa sta succedendo alla scuola pubblica italiana.
Nonostante i tagli al personale siano stati macroscopici, nonostante la sottrazione di risorse sia stata smisurata, nonostante lo svilimento del ruolo del personale continui ad essere enorme, risulta comunque complicato spiegare la trasformazione a cui sta andando incontro la nostra scuola.
Per provare a far capire la differenza fra una scuola “essenziale” (così come la vuole chi, dopo aver tagliato, continua a togliere risorse anche al Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa) ed una scuola “arricchita” (così come serve per attuare un Piano serio per l’Offerta Formativa) ho deciso di provarci in un altro modo.
Se siete interessati, potete seguirmi… in cucina.

Per preparare un buon primo piatto, c’è bisogno di una pentola, di un fornello, di acqua, di sale e naturalmente di pasta.
Di solito possiamo averne a disposizione diversi tipi: rigatoni, tagliatelle, spaghetti, fusilli, maccheroni, ravioli, fettuccine, lasagne, agnolotti e molti altri ancora, apparentemente uguali, chiusi nella loro bella confezione, confusi fra il bisogno di star al sicuro e la voglia di uscir fuori nel mondo.
Avete mai notato come è buffo quando si apre una scatola di fusilli e ci si trova dentro un maccherone?
Verrebbe da toglierlo per metterlo da parte ma poi scappa da pensare che sia meglio lasciarlo in mezzo agli altri perché la sua presenza diventi una specie di tesoro che possa rendere speciale quell’insieme.
Sarete d’accordo con me che la pentola dovrà essere grande per poter accogliere nel modo giusto il quantitativo di pasta.
Anche l’intensità del calore diventa importante perché, se non è abbastanza, la pasta non è mai pronta ma se, per velocizzare i tempi, lo si alza troppo si rischia di farle perdere una parte importante dei suoi nutrienti.

Dopo l’opportuno tempo di cottura, che varia a seconda del tipo di pasta, si può ottenere un piatto che per unico sapore avrà quello della pasta stessa.
Per chi ha molta fame può andar bene, ma di certo l’offerta sarà essenziale.
Perché il primo piatto sia un po’ più saporito c’è bisogno di aggiungere almeno un po’ di olio o di burro, magari una grattugiata di formaggio.
Ma anche in questo modo non si otterrà un piatto gustoso; si avrà piuttosto un servizio di caratteristiche simili a quelle di un menu ospedaliero.
Per chi ha bisogno di guarire può andar bene, ma di certo l’offerta sarà simile ad un modesto ricostituente.
Se invece vogliamo che il primo piatto sia davvero appetitoso e desideriamo esaltarne le caratteristiche è necessario abbinare i condimenti adatti.
A chi ha un po’ di esperienza risulta evidente che non tutti i condimenti vanno bene per condire lo stesso tipo di pasta.
Ad esempio si possono mangiare i ravioli aglio, olio e peperoncino o ancora gli spaghetti burro e salvia ma non avranno mai il sapore superlativo che si può ottenere creando il giusto contesto; solo allora gli spaghetti insieme all’aglio, all’olio e al peperoncino troveranno la loro vera dimensione; oppure solo quando i ravioli conosceranno il burro e la salvia riusciranno ad esprimere a pieno il loro carattere.
Occorre quindi impegnarsi per conoscere bene i vari tipi di pasta in modo da assegnare il giusto condimento che riesca ad esaltarla.

Per chi ha voglia di gustare sapori di vario tipo va più che bene, e di certo l’offerta è soddisfacente.
Ma se vogliamo che il sapore della pasta si sviluppi completamente, bisogna anche valutare attentamente sia la qualità dei condimenti che l’eventuale aggiunta di altri ingredienti.
Molte persone che non hanno il tempo (o la voglia) di cucinare, leggono sui ricettari quali sono i condimenti più adatti e poi li vanno a comprare già fatti al supermercato.
Spero siate d’accordo con me se affermo che non è la stessa cosa: quelli comperati non hanno la stessa intensità rispetto a quelli studiati, adattati, amalgamati, preparati appositamente nell’ambiente della cucina.

Ogni condimento infatti richiede molta attenzione nella sua preparazione perché il successivo abbinamento con la pasta diventerà determinante.
Inoltre il modo di unire o di dividere, i mezzi usati ed il clima che imposta il cuoco caratterizzano il modo di intendere la cucina che esso ha: infatti può essere un posto simile ad un fast food, un luogo dove si mangia per sfamarsi, un sito dove si scarta più di quello che si mangia, uno spazio in cui si propongono ricette preconfezionate, un ambiente dove si preparano gli alimenti per una nutrizione bilanciata o ancora un contesto dove si impara insieme che è importante non solo mangiare ma anche cosa, quanto, come, dove e perché ci si nutre.
È necessario perciò che i condimenti e gli abbinamenti siano il più possibile calibrati proprio per quel tipo di pasta in quella determinata stagione.

Di sicuro è molto comodo cucinare usando i condimenti già pronti ma, è del tutto naturale che, il risultato finale non potrà mai essere paragonato alla stessa sinfonia di sapori che si ottiene con un condimento adattato alle caratteristiche specifiche di quel tipo di pasta.
In tutto questo il ruolo del cuoco o della cuoca è fondamentale: potrebbero esserci materie prime di qualità e condimenti saporitissimi ma se il cuoco non è in grado di valorizzare la pasta, di rispettare i tempi, di organizzare la cucina, di fare le giuste proporzioni, di creare un’armonia perfetta, c’è il rischio che buona parte del lavoro sia buttato al vento.
Anche l’ambiente in cui tutto ciò avviene ha una grande importanza: se le cucine accolgono, preparano, nutrono ma poi, nella pratica, sono piccoli locali sistemati nei sotterranei di una grande casa in cui la fretta, la competizione, il risparmio sono i principi fondativi, si creeranno delle contraddizioni fra il modello di vita che vige in casa e quello diverso che si vive quando si cerca di preparare un buon piatto in cucina.

C’è poi un periodo dell’anno in cui le cucine vogliono far conoscere il loro menu all’esterno.
A chi dovesse andare in visita, offro un modesto consiglio: quello di non fidarsi completamente dei locali che promettono nuovi piatti di pasta riccamente adornati con il vostro condimento preferito perché, molto spesso poi, al momento di servire in tavola, il cameriere (quasi mai il gestore) è costretto a presentarsi con aria mesta scusandosi per l’imprevisto esaurimento delle materie prime e chiedendo, a voi, di portarle direttamente da casa vostra.

Purtroppo le cucine in cui è l’utente stesso a portare gli ingredienti da casa si stanno diffondendo sempre più; in tal modo il locale riesce a preparare i suoi piatti ma inevitabilmente concorre a snaturare il suo ruolo e non potrà più presentarsi come un: “Locale pubblico”.
Insomma quello che voglio dire è che ci sono modi diversi di stare in cucina e a tavola: si può ingurgitare, ci si può sfamare, si può mangiare e ci si può nutrire insieme in maniera sana rispettando le singolarità di ciascuno.
Sfortunatamente questo è il momento in cui tutti parlano molto di corretta alimentazione ma, nei fatti, si mettono le cucine in condizione di offrire soltanto un pasto frugale.
È naturale che in molti rimangono con la fame ma solo chi ha le possibilità, appena arriva a casa, si abbuffa a tal punto che corre il rischio che gli venga un bel mal di pancia.

Oltre a non essere sano, ciò non è nemmeno giusto perché tutte le cucine dovrebbero essere locali pubblici attrezzati per offrire a tutti e a ciascuno un servizio di qualità; in più dovrebbero mantenere a loro disposizione un fondo specifico per il miglioramento dell’offerta in modo che, oltre all’essenziale, vi si possa preparare il cibo di cui ognuno ha veramente bisogno per crescere.
Soprattutto in periodo di crisi, io continuo a credere che ci sia bisogno di far fronte alla necessità sociale di “nutrimento” degli esseri umani compiendo tutti gli sforzi possibili per migliorare le cucine, per formare i cuochi, per investire su un programma di alimentazione sana dove ognuno possa maturare imparando a riconoscere “il vero sapore del saperi”.

P.S. In questo mio percorso “gastro-pedagogico” spero di non essere stato frainteso; non ho voluto paragonare la cucina con la scuola, il cuoco con l’insegnante, i vari tipi di pasta con gli studenti, la pentola con l’aula, i condimenti con le proposte di arricchimento dell’offerta formativa.
La mia modesta intenzione rimane la stessa: a partire da una semplice allegoria, riuscire a provocare una reazione alla normalizzazione dilagante ed una riflessione sul modello di scuola che riteniamo più adatto per la società del futuro.
Comunque vi alimentiate, buon appetito.

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Ferrara mostra anche l’anti-Matisse: Mustafa Sabbagh

I quadri pieni di gialli, rossi e blu squillanti dominano le sale di Palazzo dei Diamanti, in corso Ercole d’Este 21, e intanto, qualche manciata di numeri civici più in là, va in scena l’anti-Matisse. Nella stessa via rinascimentale di Ferrara, bella e acciottolata, si trova infatti la galleria-abitazione di Maria Livia Brunelli, dove è in mostra il lavoro di Mustafa Sabbagh in contrapposizione con il maestro “fauve” francese. Come ormai consueto la Mlb-home gallery propone un artista assolutamente contemporaneo in abbinamento al protagonista delle grandi mostre di Ferrara Arte.

Nato in Giordania, cresciuto professionalmente a Londra al fianco di Richard Avedon e diventato famoso come fotografo sui set delle griffe più importanti, Sabbagh ha da tempo elaborato una sua personale estetica. Il risultato delle sue riflessioni è nelle fotografie che lo hanno reso famoso, scavando e rivoluzionando quelle immagini stereotipate. La sua arte si contrappone all’ossessione per la bellezza univoca del mondo della moda e alla rigidità dei suoi canoni. Sulle sue stampe fotografiche i corpi vengono esibiti sì, ma nella loro cruda nudità e i tessuti e le stoffe, stringono le carni, le avvolgono e le mascherano, anziché addobbarle e abbellirle.

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La scultura “Nudo seduto” di Matisse a confronto con la stampa fotografica di Mustafa Sabbagh in mostra a Ferrara

Mustafa, che ha fatto di Ferrara la sua città adottiva, spiega: “Dopo anni che lavoravo per riviste di moda, ho voluto cercare la verità fuori dal modello imposto, che è quello di una bellezza che ispira attrazione immediata, ma irraggiungibile, e che quindi crea anche un senso di disagio”. Lui, che è nato e cresciuto in Medio Oriente, osserva che il burka può essere proprio là dove crediamo sia stato strappato via. “Il nudo totale è il burka – dice – un burka moderno, fatto della necessità di essere ricchi, belli, taglia 42”. Il travestimento diventa allora uno strumento per liberare i corpi. Sabbagh racconta: “Ho iniziato a ragionare su questa idea e ho riflettuto sul fatto che oggi una forma di travestimento è il lattice, il reggiseno, la chat, un sito porno. La maschera può diventare uno strumento per liberarsi dalle maschere quotidiane imposte da consumismo, loghi, genere sessuale. La maschera elimina la superficie e può portare all’essenza del genere umano”.

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Il dittico “Lusso con burka” di Mustafa Sabbagh alla Mlb home gallery di Ferrara

Lo stesso tipo di ricerca fatto sulla moda per scardinarne i pilastri, Sabbagh lo applica alle opere di un maestro dell’arte moderna come Henry Matisse. E il risultato è in mostra nella home gallery che si trova all’altro capo della via di Palazzo dei Diamanti, in corso Ercole d’Este 3. Figure e volti completamente coperti di nero su fondo nero o nudi bianchicci su fondo chiaro compongono le installazioni di stampe lambda opache su carta fotografica applicata su alluminio. “Ho tolto il colore che domina le composizioni di Matisse, ho coperto o lasciato nascosti i volti – conclude Mustafa – e poi mi sono accorto che un mio modello aveva la stessa posa di un suo disegno e la modella era distesa come una delle sue sculture”. L’idea di bello, quindi, resta lì, anche quando si cerca di superarla e schiacciarla. E rivela le insospettabili affinità che, un secolo dopo, legano l’artista fauve francese e il fotografo di moda e artista contemporaneo.

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“Icaro” di Matisse in mostra a Palazzo dei Diamanti e un’opera del “Dialogo inventato con Matisse” di Sabbagh

Burka moderni, un dialogo inventato con Matisse. Fino al 4 maggio alla Mlb home gallery di corso Ercole d’Este 3, a Ferrara. Sabato e domenica ore 15-19, gli altri giorni su appuntamento al 346 7953757.

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L’istruzione non è solo un servizio. Senza assessorato Ferrara sconta l’assenza di una politica educativa

Le città invisibili di Calvino sono il racconto di un Marco Polo, viaggiatore visionario, a un malinconico imperatore che ha compreso come il suo sterminato potere conti ben poco, in un mondo che sta andando in rovina. Eppure dal resoconto di Marco Polo prendono corpo le tante cose che tengono insieme le città: le memorie, i desideri, i luoghi di scambio. Gli apprendimenti delle vite vissute dalle persone.

Ecco, quindi, voglio parlare di città che hanno reso visibile ciò che al trasognato Marco Polo di Calvino pareva invisibile. Voglio parlare delle città che hanno preso sul serio l’obiettivo di sviluppo della Comunità Europea come “società avanzata basata sulla conoscenza”.
Sono tante: Derby, Dublino, Newcastle, Glasgow, Gothenburg, Southampton e altre ancora, sparse un po’ ovunque in Europa. Ottimi esempi di città che hanno una chiara visione della centralità che cultura e conoscenza rappresentano per la costruzione del loro futuro. Città che hanno ritenuto necessario dare vita a comitati cittadini per la promozione dell’apprendimento, coinvolgendo, oltre alle scuole e alle università, le istituzioni educative e non educative, e mettendo a disposizione risorse e budget adeguati.

E’ un invito a riflettere che rivolgo alla mia città e ai suoi amministratori. La città di Ferrara che da anni ha rinunciato ad avere un assessorato all’istruzione, quasi che su questo terreno non ci fossero più politiche da realizzare, ma solo servizi da fornire. Un suggerimento in particolare per il sindaco che, a fronte dell’abolizione delle Circoscrizioni, è alla ricerca di idee per tenere viva la rete di partecipazione territoriale.

Apprendimento, l’idea dell’apprendimento permanente: questa è una buona idea per pensare ai cittadini della città, dai piccoli ai grandi, come ad una preziosa risorsa da valorizzare, come capitale umano e sociale su cui investire; l’apprendimento come opportunità per migliorare la qualità della vita di tutti, per la qualità delle relazioni, dei servizi, per fare della responsabilità e della condivisione il valore primo dell’abitare la propria città, dello stare insieme nel riconoscimento di ognuno come risorsa indispensabile agli altri.
La costruzione di una città che apprende attraverso i suoi abitanti, attraverso i cittadini, potrebbe essere la chiave dei piani orientati al futuro della nostra città: dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo culturale, dalla sicurezza ai servizi sociali, alla salute, al trasporto, all’economia.
La geografia del glocale ha mutato la direzione dello sviluppo, la direzione della conoscenza, i luoghi delle fonti del sapere e dell’informazione, facendo dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento tutt’intero e globale, la base necessaria allo sviluppo del capitale umano e sociale che compone la comunità cittadina. Oggi più che mai, le città costituiscono lo spazio chiave per una crescita che tenga salde le sue radici nei valori umani e sociali.
Facciamo sapere al mondo che la nostra città prende sul serio l’apprendimento, che l’apprendimento crea ricchezza, attiva investimenti e occupazione in una società delle conoscenze.
Alla nostra città non mancano risorse e iniziative culturali, istituzioni educative e non, con le quali tessere una rete organica che qualifichi la città come ambiente di apprendimento permanente per tutti i suoi cittadini. Un logo che tutte le istituzioni, tutte le organizzazioni, comprese le aziende, dovrebbero usare nella loro documentazione e soprattutto in quella di marketing.
Presentare su internet la nostra città come learning city, proprio perché riconosciuta quale patrimonio dell’umanità, promuovendola attivamente come tale, sia nei confronti del mondo esterno, sia nei confronti dei cittadini, attraverso opuscoli, video, poster, presentazioni multimediali, ecc.
Creare sottocomitati per l’apprendimento in ciascun quartiere o ex circoscrizione, mettendo a punto le procedure di consultazione sull’apprendimento e lo sviluppo. Sollecitare i commenti di tutte le componenti della città. Qualora alcuni segmenti di cittadini non siano rappresentati, si tratta di individuare i mezzi che consentano loro di esprimersi, come i consigli di quartiere e i comitati di studenti e di giovani. La preoccupazione maggiore deve essere soprattutto quella di coinvolgere giovani, piccoli e grandi, far sentire che la città crede in loro e che ha bisogno della loro intelligenza, del loro successo formativo, del loro progetto di vita, che è la ricchezza su cui poggia il futuro della città, perché è dalla loro intelligenza e dalle loro competenze che esso dipende. Una città attenta e interessata al successo scolastico delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, che non rimane più solo un fatto privato, ma anche un interesse comune di tutti noi concittadini.
Centrale è far sentire tutta l’attenzione e l’amore della città per le sue scuole, su quello che avviene al loro interno, sulla loro qualificazione. In quelle scuole, ogni giorno, impegnano il proprio tempo migliore quanto abbiamo di più prezioso, i nostri figli, i nostri bambini e ragazzi. Dobbiamo chiedere alle scuole e all’università il massimo di qualità e di professionalità, di utilizzare i talenti, le idee, l’expertise, le conoscenze, le competenze presenti nelle loro comunità per contribuire alla crescita dei processi di apprendimento.

Si tratta di collocare al centro dell’interesse della comunità lo sviluppo delle scuole, avere in ciascuna scuola un referente della mobilitazione delle risorse professionali e materiali, in un’ottica di miglioramento e ampliamento degli apprendimenti.
L’ idea di una città che apprende, un territorio che vive di apprendimenti continui, colti dal tessuto della vita sociale e condivisi, può essere considerato come il raggio di luce che indica alle persone la strada per un’autentica società della conoscenza, di cittadini solidali nell’affrontare le sfide che ci prospetta il futuro.

E come Italo Calvino ci ricorda dalle pagine delle sue città invisibili: «I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi».

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I dati regionali sui rifuti: si diffonde il sistema di raccolta “porta a porta”

Il sistema di raccolta tradizionalmente  più diffuso in Emilia Romagna è ancora quello che utilizza i contenitori stradali, che intercetta il 34% della raccolta differenziata. Ma si sta progressivamente diffondendo anche il “porta a porta” che riceve il 15% dei rifiuti differenziati, mentre il 27% confluisce nei 371 Centri di raccolta. Gli altri sistemi (raccolte dedicate, su chiamata, tramite eco-mobile, etc.) permettono di intercettare il rimanente 24% dell’intera differenziata. Sono alcune delle cifre contenute nel Report Rifiuti 2013, decima edizione del monitoraggio annuale prodotto dalla Regione Emilia-Romagna e da Arpa Emilia-Romagna, presentato un mese fa.

Da tempo sul porta a porta si è sviluppato un interessante dibattito. L’applicazione di questa forma gestionale sta diventando uno dei temi principali di confronto, sia economico che gestionale (ma talvolta, mi sia permesso dirlo, anche politico), e si ritiene dunque utile riproporre alcune considerazioni di merito, che si auspica possano contribuire alla migliore ricerca di una soluzione migliorativa (innegabile infatti è il supporto per ampliare la raccolta differenziata e soprattutto il riciclo).

Provo ad esprimere qualche valutazione, sperando nella benevola attenzione del lettore interessato e ambientalmente sensibile:

  • la soluzione gestionale del porta a porta permette, in determinati contesti, risultati significativinel raggiungimento degli obiettivi, e si ritiene debba avere ancora maggiore spazio; un utilizzo ampio, però, può comportare maggiori disagi e maggiori costi, non si tratta dunque della soluzione migliore, ma di una soluzione utile in certi specifici casi;
  • ogni territorio, avendo la sua specificità, raggiunge obiettivi di raccolta differenziata diversi; la % più significativa del P/P è ottenuta nei comuni tra i 20 e gli 80.000 abitanti, mentre è più difficoltosa per grossi centri;
  • è fondamentale il coinvolgimento di quella larga fascia d’utenza “non domestica” che rappresenta la parte principale quali-quantitativa nelle raccolte differenziate; produttori di oltre il 50% dei rifiuti con qualità del loro rifiuto selezionato: bisogna puntare in particolare a bar, ristoranti, fruttivendoli, uffici, negozi, etc. con specifici servizi dedicati, e sistemi di raccolta porta a porta adattati ai loro bisogni;
  • l’attivazione di circuiti di raccolta a domicilio per la frazione organica (con un’elevata e capillare frequenza), consentirebbe la riduzione della frazione putrescibile nel residuo;
  • il sistema porta a porta è molto utile per la carta e il cartone, un poco meno per la plastica; è sconsigliabile per vetro e indifferenziato, in quanto la raccolta del VPL (Vetro Plastica Lattine) comporta un peggioramento delle caratteristiche del vetro e dei costi di selezione; per il vetro dunque forse sono meglio le campane;
  • si consiglia di mantenere un solo sistema di raccolta multi-materiale in modo da rendere più efficace sia la fase di raccolta sia quella del recupero, in riferimento alle caratteristiche degli impianti di selezione utilizzati dal gestore;
  • il P/P migliora la qualità del materiale raccolto, legato ai concetti di impurità e scarto;
  • il P/P aumenta il coinvolgimento dei cittadini; permette un rapporto (controllo) più personalizzato: la raccolta puntale permette frequenti, metodiche e costanti informazioni sui livelli raggiunti, sul grado di impegno e sui risultati ottenuti per aree (strade, condomini, etc.);
  • il P/P crea però problemi igienici (sversamenti, accumuli, etc.)  e di sicurezza stradale e degli individui;
  • inoltre si è riscontrato talvolta un non gradimento da parte dei cittadini, costretti a tenere il rifiuto in casa per tempi più lunghi, e costretti ad orari di conferimento scomodi e inopportuni;
  • il P/P aiuta a valorizzare la definizione nell’applicazione della Tariffa: il sistema puntuale di raccolta favorisce una migliore conoscenza economica da parte degli utenti coinvolti;
  • un tema importante e spesso difficilmente affrontabile (purtroppo) è la valutazione economica del porta a porta e il confronto sulla convenienza per un presunto elevato costo (basso livello di industrializzazione del servizio); in questo senso si vedono sfavoriti i grandi comuni e le zone ad alta densità urbanistica;
  • sono poi molto importanti i metodi di calcolo utilizzati per stimare i costi delle raccolte, partendo dall’esame delle tipologie di utenze, per arrivare a definire la tipologia di contenitori da utilizzare;
  • nelle valutazioni economiche occorre prestare molta attenzione a come si calcolano gli accordi Anci – Conai (Consorzio nazionale imballaggi), anche per le nuove convenzioni del multi-materiale;
  • infine, occorre fare attenzione al numero degli operatori nelle squadre di raccolta, possono influire sui costi del personale (se si tratta di un autista solo, oppure con un operatore, con due operatori come per la raccolta tradizionale).

“Prorogare la sospensione del mutuo per le case colpite dal terremoto”. Pressing in Regione

di Lorenzo Paussa

Avere la propria casa ancora inagibile a causa del terremoto di due anni fa e rischiare di dover tornare a pagare il mutuo. È allarme tra gli emiliani terremotati, dato che in Regione le delibere per interrompere il pagamento della rata anche nel 2014 sono ancora in sospeso. Non solo. In assenza di accordi specifici, molte banche hanno già fatto ripartire i pagamenti dal 1° gennaio.

Il comitato Sisma.12, che rappresenta i cittadini terremotati, ha deciso di alzare la voce. Lo farà il prossimo 26 febbraio davanti ai palazzi di via Aldo Moro, dove ribadirà l’urgenza di rinnovare la sospensione del mutuo fino a che gli immobili danneggiati non tornino perlomeno ad essere agibili. Una proroga che non può aspettare. Il tempo inizialmente stimato per riparare abitazioni e capannoni si è infatti notevolmente allungato, perché come se il terremoto non bastasse, la Bassa emiliana è stata colpita anche da una tromba d’aria nel luglio 2013 e dalla recente alluvione che ha provocato lo straripamento del Secchia.

E di fronte alla drammaticità del problema, Sisma.12 dichiara forte preoccupazione, denunciando «l’assenza e il silenzio del commissario/presidente Vasco Errani» e dichiarazioni «estremamente fantasiose» da parte dei suoi collaboratori. Ecco perché i membri del comitato, dopo aver incontrato i vertici dell’Associazione Bancaria Italiana Emilia-Romagna, hanno deciso di recarsi in Regione mercoledì prossimo. Dall’Abi il presidente Luca Lorenzi, al quale comunque il governatore Errani, l’assessore Muzzarelli e alcuni parlamentari avevano chiesto dei chiarimenti, garantisce «massima disponibilità delle banche verso i clienti – privati o aziende – titolari di edifici inagibili e non ancora recuperati». E indica come condizione essenziale per la sospensione del mutuo, che una volta ufficializzata durerebbe fino alla fine del 2014, la presentazione di un documento che testimoni «la volontà di aderire al progetto di recupero dell’abitazione o del capannone».

Nello specifico, si tratta di uno tra i modelli Mude (Modello unico digitale per l’edilizia) e Sfinge (il portale per presentare domande di contributo). Certificati che i membri di Sisma.12 presenteranno mercoledì in via Aldo Moro. Nell’occasione saranno consegnate direttamente al presidente Errani anche le 12mila firme dei cittadini che aderiscono alle altre richieste del comitato, che mirano a una semplificazione delle pratiche burocratiche e a vantaggi fiscali per i territori colpiti dal sisma.

Intanto Errani esprime soddisfazione per la disponibilità ottenuta dall’Abi. «Ora ci auguriamo – ha poi aggiunto – che questa apertura diventi concreta e solida e continueremo a lavorare perché ciò avvenga, per dare sempre maggiori certezze ai territori colpiti».

Il sistema per far risparmiare allo Stato 70 miliardi di euro e ridurre il debito pubblico senza tagli e senza tasse

da: Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni

Se qualcuno affermasse che potremmo risparmiare 70 miliardi l’anno senza diminuire la spesa pubblica o combattere l’evasione fiscale, che potremmo far ripartire l’economia risparmiando 70 miliardi l’anno e investirli per la ripresa delle nostre imprese, e che potremmo avere a disposizione 70 miliardi senza uscire dall’Euro e rispettando i Trattati… ci credereste? La soluzione è questa, lo dice l’articolo 123 del Tfue: il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi.
Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro e lo presta alla banca pubblica allo 0,25% e la banca pubblica lo presta allo Stato allo 0,50% invece che all’attuale 4%. Su 2.000 miliardi di debito pubblico arriveremo a risparmiare 70-80 miliardi l’anno. Troppo bello per essere vero? Per la Germania no. Lo fa già! Per la Francia no. Lo fa già! Noi, comunque, lo abbiamo chiesto direttamente all’Unione Europea e alla Bce. La risposta è stata che sì, si può fare.
Le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, le tasse aumentano, si tagliano i servizi? Bene, tutto questo si potrebbe evitare e subito.

Nell’intervento che segue, l’approfondimento tecnico e la corrispondenza con la Bce.
Nella speranza che “qualcuno” prenda in considerazione molto seriamente la proposta, subito.

Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere

L’immagine che ognuno di noi ha dell’Italia è di un paese in cui “non ci sono soldi” e la spiegazione che ci viene fornita è che i governi, da decenni, spendono di più di quello che incassano, per cui l’accumulo dei deficit pubblici cronici ha creato un enorme debito rendendo necessaria l’austerità.
In realtà, la causa dell’elevato debito pubblico, attualmente di 2.100 miliardi, sta nel fatto che negli ultimi trent’anni lo Stato italiano ha pagato più di 3.000 miliardi di interessi. La soluzione del problema è quindi ridurre il costo degli interessi sul debito.
Il problema del debito pubblico non è, quindi, un problema di deficit eccessivi, ma di interessi eccessivi: ce lo dicono i dati. Se guardiamo i numeri nella tabella successiva, vediamo che il debito pubblico italiano è esploso di colpo tra il 1982 al 1993, quando la spesa per interessi passò da 35 a 156 miliardi (convertendo le lire di allora in euro di oggi). Si può quindi sostenere che, a parità (presumibilmente) di sprechi e corruzione, il debito pubblico è aumentato a causa della spesa per interessi.

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Tabella – Spese per interessi sul debito pubblico

Come si vede nell’ultima colonna della tabella (in valori attualizzati e traslati in euro di oggi) la spesa per interessi è raddoppiata in quattro anni, dai 35 miliardi del 1980 ai 69,8 miliardi del 1984 e di nuovo è raddoppiata a 142 miliardi nel 1991 per toccare un picco a 157 miliardi nel 1992.

Nella tabella si legge anche che dal 1992 lo Stato italiano ha applicato politiche di austerità, cioè di aumento delle tasse, incrementando le sue entrate in modo da avere sempre un avanzo di bilancio (differenza tra spese ed entrate prima degli interessi), come si vede nell’ultima colonna. Nonostante più di vent’anni di politiche di austerità, cioè di imposizione fiscale crescente, iniziate con i governi Ciampi e Dini nei primi anni ’90, lo Stato non è poi più riuscito a ridurre il debito pubblico a causa della “rincorsa” degli interessi che si cumulavano.

Grafico- Aumento del deficit a causa dei finanziamenti sul mercato
Grafico- Aumento del deficit a causa dei finanziamenti sul mercato

La ragione di questa esplosione di spesa per interessi, è che nel 1981 è caduto l’obbligo della Banca d’Italia di comprare debito pubblico calmierandone gli interessi.

La “troika” (Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario) e i governi Monti, Letta (e ora sentiremo Renzi), non menzionano mai, però, questo semplice fatto, ovvero che il debito pubblico si è cumulato a causa del fatto che lo Stato si è finanziato sul mercato e quindi pagando interessi reali elevati, mentre prima usufruiva del finanziamento della Banca d’Italia che ne riduceva il costo ad un livello pari o inferiore all’inflazione, quindi il debito non si accumulava (in percentuale sul Pil).
Detto in parole semplici, lo Stato italiano è stato obbligato a farsi prestare denaro a costi di interessi dettati dalle banche estere (diciamo dal mercato finanziario estero), quando invece avrebbe potuto continuare a farsi finanziare a costo zero dalla Banca d’Italia.
Se quindi eliminassimo questo laccio finanziario che costringe all’austerità permanente, l’Italia potrebbe ridurre le tasse in modo sostanziale e tornare ad essere un paese con un’economia paragonabile agli altri paesi europei, e non un caso quasi disperato di depressione economica come accade ora.

La soluzione

Lo Stato italiano potrebbe invertire questo dannoso meccanismo, e da subito. In apparenza non sembrerebbe possibile farlo se non uscendo dall’Euro e rompendo i trattati europei, perché con l’articolo 123 comma 1 della ‘versione consolidata del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea’ viene vietato alla Banca centrale europea di finanziare l’acquisto diretto di titoli di Stato e l’unica azione che la Bce può fare è quella di creare denaro per prestarlo alle banche.

Il comma 1 dell’articolo 123 recita testualmente: “Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca Centrale Europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali”.

Da quando è iniziata la crisi finanziaria nel 2008, la Bce ha creato (“dal niente” e senza costi) circa 2.800 miliardi di euro e ha di recente fornito alle banche più di 1.000 miliardi ad un costo vicino allo zero, usati da queste per comprare titoli di stato a lunga durata come i Btp. In pratica le banche italiane hanno ricevuto prestiti ad un costo inferiore allo 0,5%, con cui hanno comprato Btp che rendevano più del 4%.

E’ evidente che se lo Stato potesse prendere a prestito dalla Bce lo stesso denaro che ha fornito alle banche a questo tasso, risparmierebbe decine di miliardi ma, come sappiamo, questa strada sembra sbarrata, oltre che dall’opposizione dei quattro paesi nordici, dai trattati europei che l’Italia stessa ha firmato.

In realtà il comma 2 dello stesso articolo 123 offre una scappatoia agli Stati dell’Eurozona perché prevede che anche gli enti creditizi di proprietà pubblica possano ricevere i finanziamenti dalla Bce. E poi, nulla impedirebbe loro di girare questi soldi allo Stato.

comma 2 articolo 123 – Le disposizioni del paragrafo 1 non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati.

Uno Stato della Ue che controllasse gli enti creditizi, potrebbe farsi finanziare da loro i deficit, pagando un interesse vicino a quello che la Bce offre, cioè vicino allo zero e comunque non superiore all’inflazione.

Su un debito pubblico italiano attuale di circa 2.000 miliardi, questo significherebbe arrivare a pagare interessi per 10-20 miliardi annui, invece che gli oltre 80 miliardi attuali.

Le cifre che indichiamo sono esemplificative e l’analisi potrebbe essere fatta in modo più dettagliato, ma la sostanza è che se il debito pubblico venisse man mano rifinanziato tramite prestiti diretti di banche pubbliche (che hanno accesso al finanziamento della Bce), il suo costo non verrebbe più determinato dal mercato finanziario. Si tornerebbe cioè alla situazione pre-1981, quando il costo del debito pubblico non era un problema perché era costantemente pari o inferiore all’inflazione.

Va sottolineato che non ci sarebbe alcun rischio per le banche pubbliche, perché lo Stato italiano, al netto degli interessi, è un ottimo “pagatore”, come si evince dai dati della tabella precedente.

Uno scambio di email con la Banca Centrale Europea
La strada per arrivare a risparmiare anche 70 miliardi di euro di interessi all’anno per lo Stato italiano, quindi esiste. Abbiamo voluto verificare questa possibilità, (già applicata in Germania e Francia tramite due enti pubblici, rispettivamente KfW e Bpi), contattando gli uffici dell’Unione europea e interrogandoli circa la fattibilità dell’utilizzo di banche pubbliche per finanziare lo Stato.

La risposta ricevuta per email a nome della Bce è stata affermativa [leggi il documento originale]: “Il divieto di scoperto bancario e di altre forme di facilitazione creditizia in favore dei governi non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati”. Inoltre, in riferimento a banche pubbliche: “Gli istituti di credito possono liberamente prestare i soldi ai governi o comprare i loro titoli di stato, nonché prestare soldi a qualsiasi cliente”.

E’ quindi possibile per lo Stato italiano nazionalizzare una banca che acceda poi alla liquidità della Bce e finanzi il suo debito ad un tasso di interesse appena superiore a quello applicato dalla Bce stessa, e in ogni caso sempre molto inferiore a quello di mercato che, va ricordato, è attualmente superiore del 3% all’inflazione.

Stiamo parlando qui di come “trovare” non due o tre miliardi con l’Imu, con qualche privatizzazione o risparmiando su sanità, scuole, infrastrutture, ma risparmiando sugli interessi, sulla rendita che da decenni lo Stato italiano paga a investitori esteri, banche e anche a investitori italiani.

Si tratta alla fine di scegliere se favorire la rendita finanziaria o il lavoro e le imprese. La rendita finanziaria, cioè chi vive speculando, ha incassato in trenta anni dallo Stato, lo ricordiamo ancora, più di 3mila miliardi di euro di interessi, mentre le imprese e i lavoratori italiani venivano schiacciati da una tassazione soffocante, giustificata con il peso del debito pubblico di 2mila miliardi, creato dall’accumularsi di questi interessi.

Gli italiani devono rendersi conto che non è vero che “non si può fare niente” contro il peso del debito pubblico e delle tasse che ci ritroviamo a causa dei trattati firmati e delle posizioni degli altri governi all’interno delle istituzioni europee. In realtà, un governo italiano competente e che abbia a cuore gli interessi degli italiani invece che nel “mercato finanziario” può muoversi anche all’interno dei trattati europei.

Il nostro, oltre che un articolo, è anche un appello ai cittadini italiani che trovino convincenti i fatti che abbiamo esposto e diffondano, ovunque possano, questa soluzione pratica al problema del debito, allo scopo di mettere la parola fine alle politiche di austerità che stanno soffocando l’economia italiana.

Giovanni Zibordi, si occupa di mercati finanziari e gestisce uno dei siti finanziari più noti in Italia, www.cobraf.com economia a Modena, ha anche tre anni di dottorato in economia a Roma, un Mba a Ucla e ha lavorato precedentemente in consulenza manageriale, ha vissuto a Los Angeles e New York per sette anni.

Claudio Bertoni si occupa di impresa ed è stato per più di vent’anni imprenditore nell’ambito del commercio equo e solidale. Dottore in Scienze Agrarie, sa che i beni reali valgono più del denaro e ricerca, come cittadino, le soluzioni possibili ai problemi monetari di macroeconomia.

P.S. Alcune obiezioni che si potrebbe portare e relative risposte
Per quanto riguarda l’obiezione sul mancato rendimento che gli investitori privati italiani avrebbero sui loro investimenti in titoli di Stato, va notato che hanno oggi solo un terzo dei titoli di Stato e si concentrano in prevalenza sui Bot e Cct che rendono meno dell’1%, mentre gli investitori esteri e le banche si concentrano sui Btp che pagano intorno al 4%. Si può stimare quindi che su circa 80 miliardi di interessi annui, ne ricevano non più di 20-25 miliardi. In secondo luogo, i detentori di titoli di Stato in larga maggioranza appartengono alla fascia più benestante della popolazione, che è quella che ha in realtà beneficiato della crisi, perché ha goduto di rendimenti (al netto dell’inflazione) maggiori degli anni precedenti e anche di guadagni in conto capitale. In terzo luogo, se, a causa del finanziamento diretto di banche pubbliche allo stato suggerito, i rendimenti dei Btp scendessero intorno o sotto l’1%, le famiglie italiane potrebbero comunque investire in fondi e titoli di reddito fisso in tante altre parti del mondo. Infine, se i titoli di stato diventassero meno attraenti, le famiglie potrebbero essere spinte a investire allora di più in obbligazioni italiane aziendali, aiutando così il finanziamento delle imprese italiane.

partecipazione

Il problema vero è ridare un senso alla partecipazione

Alle recenti elezioni regionali in Sardegna ha votato il 52,2 % degli aventi diritto. In sostanza, un cittadino su due non è andato alle urne. I mezzi di comunicazione registrano come ormai inevitabile e farisaicamente “preoccupante” la tendenza sempre più marcata a non votare. Non molti cercano di capire se questo continuo indebolirsi della democrazia possa essere contrastato, indicando in quale modo ciò possa avvenire.
I motivi sono parecchi: mancanza di credibilità della politica, sfiducia, rassegnazione, disinteresse e altro ancora. Il cittadino sente di contare e decidere sempre meno, questo è il punto. La risoluzione delle esigenze collettive – posto che esse vengano esplicitate, il che non sempre accade nella nostra società frammentata – o viene eternamente rinviata o semplicemente non è presa in considerazione da chi governa. Le decisioni vengono assunte in un altrove lontano, senza coinvolgerci, inducendoci a vivere in comunità sempre più arroccate e divise, frustrando la progettualità che potrebbe consentirci di costruire un futuro.
L’esplodere dei social network ci ha messo del suo. Oggi la politica si compie con i tweet, i retweet e via cinguettando. In 140 caratteri si condensa il pensiero del momento, a cui segue il pensiero del momento dopo, e così via. Insomma, si vive per momenti.
La scarsa partecipazione è un problema per tutti e per il futuro della democrazia. Eppure, le vie d’uscita esistono. Per esempio, la più ampia trasparenza delle scelte amministrative: periodicamente l’amministrazione pubblica rende conto di ciò che ha fatto, cosa intende fare, e con quali risorse. Ancora, il coinvolgimento dei cittadini nel governo locale, utilizzando le nuove tecnologie dell’informazione: una rete istituzionale in cui il cittadino possa discutere i progetti rilevanti ed esprimere il proprio parere del quale l’amministrazione deve tener conto. Bisogna tener conto del digital divide, del fatto cioè che parte della popolazione – gli anziani, in particolare – non ha dimestichezza con il computer, e coinvolgere queste persone in altre maniere.
So di non dire molto di nuovo, ma noto come tutti questi sistemi – e a cascata, soluzioni, come i bilanci partecipati, i town meeting (assemblee cittadine sui grandi progetti dal vivo o sul web), le giurie e i sondaggi deliberativi – sono scarsamente praticati. Soprattutto perché costano fatica, a chi li mette in atto e a chi li utilizza. Ma il cambiamento, se vogliamo una democrazia non ridotta a simulacro, passa anche da qui.

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La nostalgia fa mercato

Le merendine di quando eravamo bambini non torneranno più. In realtà non sono le merendine ad essere cambiate, siamo noi che inevitabilmente abbiamo perso l’ingenuità dell’infanzia. Lo stesso vale per le canzoni, come per il contesto sociale, le amicizie e le relazioni. Tendiamo a idealizzare ciò che riferiamo ad un tempo precedente della nostra vita.
La nostalgia scaturisce da un senso di perdita e si accompagna, per lo più, all’idea che il presente sia diventato peggiore del passato. Talvolta la nostalgia non riguarda solo la propria storia personale, ma investe l’intero contesto sociale. Il confronto, in questi casi, si riferisce ad un passato assunto a priori come migliore, dimenticando che in ogni epoca tutto ciò che emerge come nuovo induce sentimenti di spaesamento o, peggio, di perplessità, disapprovazione e condanna.
Un esempio riferito al passato che ora può far sorridere: metà Ottocento, quando i treni e le strade ferrate iniziano a popolare il paesaggio, un commentatore sulla rivista Quarterly, scriveva allarmato: “E’ una pretesa assurda e ridicola quella di voler far viaggiare locomotive con una velocità doppia delle carrozze di posta. Tanto varrebbe viaggiare su di una bomba! Vogliamo sperare che il Parlamento non approvi alcuna domanda di ferrovia senza prescrivere che la velocità di nove miglia all’ora (14 km orari) – la massima che possa adottarsi senza pericoli – non debba essere giammai superata!”. Inutile dire che per fortuna tali preoccupazioni non sono state ascoltate.
Nelle conversazioni quotidiane i richiami nostalgici sono frequenti. Si stigmatizza il tempo in cui si vive, per entrare in risonanza con un tempo in cui tutto era migliore. Insomma, se il presente fa paura o viene reputato problematico, si rivolge lo sguardo ad un presente diverso in cui era possibile (o si ritiene che lo fosse) avere serenità e sintonia con l’ambiente e il mondo circostante. Così nasce la nostalgia per i valori di autenticità, fiducia, eticità attribuiti ad altri periodi storici.
Le tracce di questo sentimento sono visibili nella comunicazione dei beni di consumo. Nascono i “negozi nostalgia”, che raccolgono oggetti fintamente vintage, proliferano i mercatini popolati di oggetti fatti a mano e di marmellate che assomigliano a quelle un tempo fatte in casa.
L’uso del sentimento della nostalgia è quello che si definisce in gergo vintage marketing. L’interesse verso i sapori dell’infanzia viene raccolto e utilizzato da molti brand alimentari in chiave di rassicurazione, per evocare un mondo non contraffatto e naturale.
Talvolta sono i consumatori che si mobilitano per riavere prodotti che hanno accompagnato la loro adolescenza. Pensiamo alla mobilitazione nella rete che ha portato al ritorno sul mercato, previsto a breve, del Winner Taco, il gelato la cui produzione era stata abbandonata. Su Facebook una pagina intitolata “Ridateci Winner Taco”, popolata da 12 mila “mi piace”, ha raggiunto questo “importante” obiettivo: convincere l’azienda a riproporre la mitizzata merendina! Intanto un altro gruppo su FB si mobilità con lo slogan: “Rivogliamo il Soldino del Mulino Bianco”. Difficile resistere alla tentazione di trovare grottesche queste iniziative di mobilitazione.
In un retorico bagno di nostalgia si è immerso in questi giorni il Festival di Sanremo, che ha cercato di coprire l’estrema povertà dell’offerta musicale e del format con il recupero di brani evergreen e di anziani ancorché autorevoli personaggi dello spettacolo. Non sembra abbia funzionato, in larga parte per la generale noia ormai associata alla televisione.
Ma, in generale, la nostalgia non è un sentimento buono da coltivare.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: la scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

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C’è uno sbirro in città: con Lorenzo Mazzoni Ferrara diventa noir

Indagine dopo indagine, la storia dello sbirro Pietro Malatesta non si ferma e il prossimo libro di Lorenzo Mazzoni sarà al Salone del Libro di Torino a maggio. Come nella migliore tradizione di noir e polizieschi, la serialità del personaggio e l’ambientazione metropolitana formeranno l’ossatura anche del Malatesta in uscita in primavera. Si tratta, questa volta, del sequestro di una personalità politica a cui Malatesta dovrà dedicarsi. Un altro caso, il quarto, per il poliziotto “anarchico” creato dallo scrittore ferrarese che è anche reporter, collaboratore de “Il fatto quotidiano” e vincitore del premio “Liberi di scrivere Award” con Apologia di uomini inutili.
In linea con la struttura dei romanzi noir, nelle storie di Mazzoni, le indagini e i crimini sono l’elemento più evidente della narrazione, ma non l’unico. Sottotraccia un universo di valori e approfondimenti che riguardano l’uomo oltre il personaggio.

Mazzoni, che uomo è Malatesta e in quale Ferrara vive?
“Il genere poliziesco dà la possibilità di andare oltre l’indagine, di parlare e far parlare. Ferrara ha tutti i presupposti per essere una delle città più belle del mondo, se non fosse per una certa mediocrità, per un certo modo modesto di condurre le scelte che si riflettono sulla vita pubblica. Pensiamo all’ospedale di Cona, al caso Aldrovandi, alle scelte urbanistiche del Darsena city, ai cinema del centro storico. Mi piacerebbe che i lettori di Malatesta capissero che ci sono anche belle persone, c’è un’umanità della strada, che è quella dove bazzica Malatesta, un uomo delle istituzioni, ma sui generis, perché le istituzioni, lui, le combatte da dentro. Malatesta è un ex teppista, uno che ha fatto vita di strada e gira in bicicletta per la città”.

La sua opera è stata definita un “noir solare”, perché?
“Mi piace lavorare sul grottesco e sulle contraddizioni. Malatesta è ironico e simpatico, la sua famiglia non è convenzionale, vive con la madre, una ex moglie e il suo boy, un figlio… insomma, una composizione un po’ atipica che fa sorridere”.

Malatesta e l’amore?
“Nel terzo libro si parla d’amore, per il resto Malatesta è un solitario, un uomo abbastanza frantumato”.

Nei suoi romanzi, Ferrara non è solo l’ambientazione, ma è anche una lingua, un modo di pensare, una cultura ben precisa.
“I miei libri sono farciti di ferraresità, c’è la multietnicità di via Oroboni, c’è una connotazione precisa delle strade e dei quartieri, c’è, inoltre, il dramma del terremoto che è diventato un libro della serie. E poi il dialetto, la Spal e la memoria di Federico Aldrovandi da cui tutto è partito”.

Continuerà Malatesta?
“Eccome. Dopo il prossimo lavoro con cui sarò al Salone del Libro di Torino, vorrei raccontare la Spal, farle un tributo attraverso Malatesta e la sua vicenda”.

Dopo aver raggiunto con le prime tre indagini i quindicimila lettori, Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico – Termodistruzione di un koala, edizioni Koi Press 2013, è l’ultimo romanzo di Lorenzo Mazzoni, illustrazioni di Andrea Amaducci.

Sipario sulle Olimpiadi invernali: atleti in mostra

Sipario sulle Olimpiadi Invernali, atleti in mostra

Da MOSCA – Oggi si chiude il sipario sui giochi Olimpici invernali di Sochi 2014 e con essi la Mostra “La Russia alle Olimpiadi” del Moscow Multimedia Art Museum (MAMM) allestita, per l’occasione, dal 6 al 23 febbraio. Termina anche il nostro Focus Russia, il che non significa che non scriveremo più di questo Paese pieno di curiosità, bellezze, sfide e contraddizioni, ma che, semplicemente, non lo faremo con una frequenza giornaliera, come avvenuto in occasione di Sochi. Com’è giusto che sia.

Dicevamo, si chiude oggi, a Mosca, la mostra dedicata alla storia della partecipazione russa alle Olimpiadi, al MAMM, uno dei musei più chic della città, diretto dalla regista e critica d’arte Ol’ga L’vovna Sviblova, dal 2010 alla testa di questo modernissimo museo multimediale (ex Casa della fotografia, fondata da lei stessa nel 1996) e, nel 2011, definita dalla rivista ArtChronika come una delle tre persone più influenti dell’arte russa. Nelle sale del primo piano del Museo, al numero 16 dell’elegante via Ostozhenka, possiamo ammirare una serie di scatti ironici e divertenti, ma anche tormentati e sofferti. Come quelli di Anato’ly Gara’nin, impegnato a fermare il lancio del giavellotto di Alexandra Ciu’dina, o del sorriso di Misha, la mascotte delle Olimpiadi di Mosca 1980, di cui abbiamo parlato nel primo articolo del Focus. In un’intervista rilasciata all’inaugurazione della stessa Mostra, la Sviblova, ha spiegato che “dalla metà anni ’30, quando subentrano il realismo socialista e le sue regole ferree, lo sport diventa un territorio di libertà, dove l’uomo con il suo corpo può raggiungere quello che, in genere, sembra impossibile. Era terribilmente interessante mostrare quello che i nostri fotografi hanno saputo fare. A cominciare da Lev Borodulyn che, subito dopo la guerra, prende il testimone da Rodchenko in questa staffetta del liberty e che, ancora ai tempi dell’Urss, in un Paese chiuso, vince tutti i premi internazionali, possibili e impossibili”.

Il movimento olimpico in Russia si è sviluppato e consolidato a partire dal XX secolo. Nonostante gli sforzi di appassionati come il Generale Alexei Dmitrievich Butovsky (amico personale del barone de Coubertin e primo membro russo del Comitato Olimpico Internazionale – CIO) o il Conte Georgy Ivanovic Ribopier, che gli successe al CIO, la partecipazione iniziale ai Giochi Olimpici da parte dei rappresentanti russi fu principalmente a iniziativa di privati​​. La carta del Comitato Olimpico russo è stata ratificata nel 1912, grazie a sostegno e finanziamenti statali. La Russia è stata rappresentata alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 con ben 178 atleti, all’epoca una delle squadre più grandi. Dopo il 1912 non vi fu alcuna ulteriore partecipazione, fino ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952, questa volta da parte di un team sovietico. In quei giorni veniva istituito il Comitato Olimpico dell’URSS riconosciuto dal CIO. L’interesse per i successivi Giochi è stato notevolmente rafforzato da quest’ affiliazione tra il Paese e il movimento olimpico. Per l’URSS, la partecipazione ai Giochi era un potente fattore politico e ideologico. I successi dello sport sovietico erano diventati parte dell’ideologia di massa, un oggetto di meritato orgoglio nazionale sullo sfondo della complessa storia del paese. Le immagini scattate da importanti fotografi sono di grande rilievo e interesse, proprio per la scala di questi eventi, capaci di rendere la storia dello sport visibile, catturando record mozzafiato, volti di campioni ed emozioni di tifosi. I volti dei vincitori delle medaglie alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, come quelli di Yuri Tyukalov (vogatore), di Viktor Chukarin (ginnasta, vincitore di quattro medaglie d’oro) e di Maria Gorokhovskaya (ginnasta), sono diventati famosi in Russia, grazie al fotogiornalismo di Anatoly Garanin (filmati di RIA Novosti, l’agenzia d’informazione russa). Le fotografie degli inviati speciali Dmitri Kozlov, Boris Málkov, Leonid Lorensky, Yuri Somov, Dmitri Donskoi e Sergei Ilyin mostravano i momenti più suggestivi di gare in diverse discipline sportive: sci di fondo, ginnastica  scherma, biathlon, hockey su ghiaccio e pattinaggio artistico. Scatti di pattinatori e di giocatori di hockey, così come quelli delle medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi invernali del 1956, 1964, 1968, 1972, 1976, 1984, 1988 e 1992, segnavano l’apoteosi del successo dello sport sovietico. Come nell’antica Atene, il paese doveva conoscere i nomi e i volti dei suoi eroi nazionali. Classici della fotografia sovietica, come Dmitri Baltermants, Alexander Abaza e Lev Borodulin (al quale, peraltro, il MAMM ha recentemente dedicato una retrospettiva), si distinguevano per le sottili sfumature psicologiche che riuscivano a dare ai loro ritratti di sportivi e di momenti sportivi critici. Le Olimpiadi di Mosca del 1980, se pur boicottate dagli Stati Uniti a causa dell’Afghanistan, hanno portato le prime immagini a colori.

La Mostra presenta tutto questo. Da allora atleti, immagini e riprese video si sono estremamente evolute, ma il grande orgoglio nazionale ne ha sempre fatto da sfondo imponente. A Sochi le polemiche sono state tante e, ora come allora, varie forme di boicottaggio hanno messo in discussione il vero spirito di queste celebrazioni, ossia lo sport e la sua forza, la sua capacità di coesione, la sfida ai propri limiti personali, la voglia di vincere e vincersi. Con la chiusura dei giochi di Sochi non finiranno sicuramente le polemiche, ma almeno avremo visto tanto bello sport.

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Il salotto di Ravegnani dove passava l’élite della cultura italiana

GIUSEPPE RAVEGNANI
(a 50 anni dalla morte)

Giuseppe Ravegnani (1895-1964) si laureò in Giurisprudenza a Ferrara, dove diresse la Biblioteca Ariostea per oltre un decennio. «Da giovanissimo esordì come poeta e fu tra i protagonisti della vita letteraria italiana, – scrive Eligio Gatti nella presentazione agli Atti della giornata di studi tenutasi a Pavia il 6 dicembre 1995 – nel vivace ambiente ferrarese di Govoni e De Pisis, raccolto, tra il 1914 e il 1925, intorno alle riviste “Vere Novo” e “Poesia e arte”; e in seguito intorno alla terza pagina del “Corriere Padano” di Nello Quilici. Trasferitosi a Milano, nel secondo dopoguerra sarà per molti anni redattore letterario della rivista “Epoca” e condirettore, con Alberto Mondadori, della collana di poesia “Lo specchio”. Fu direttore del “Gazzettino” e della “Gazzetta di Venezia”, critico letterario del “Resto del Carlino”, della “Stampa”, del “Giornale d’Italia”, e collaboratore di numerose altre riviste», nonché autore di traduzioni dal catalano, dallo spagnolo e dal francese.
Fra le sue opere di poesia, prosa e saggistica, sono da ricordare: Quattro parole sole (1914), I canti del cuculo (1914), Io e il mio cuore (1916), Sinfoniale (1918), Le due strade: poesie 1918-1920 (1921), Contemporanei (1930), Annali delle edizioni ariostee (con G. Agnelli, 1933), Quaderno (1939), Uomini visti. Figure e libri del Novecento (1914-1954) (premio Viareggio, 1955).
Racconta il famoso musicista e compositore Luciano Chailly, nipote di Ravegnani, che da ragazzo vide sfilare nello studio/biblioteca di casa (in via Palestro a Ferrara) del celebre zio molti fra i più importanti scrittori del Novecento italiano: Eugenio Montale, Salvator Gotta, Corrado Govoni, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Ungaretti, Dino Buzzati, Lanfranco Caretti e altri ancora. «Qualche anno dopo la sua morte – rammenta ancora Chailly – lo ricordai artisticamente inserendo nell’Ode a Ferrara per coro e orchestra (che fu eseguita a Santa Cecilia) alcuni suoi versi assieme a quelli dedicati a Ferrara da Carducci e da D’Annunzio. Ma il suo vero volto, specchio di dedizione e di bontà, il suo occhio azzurro pronto sempre a scrutare, ad amare e a perdonare, il suo passo dinoccolato quasi un segno di pazienza, di rassegnazione, continuarono a vivere per me, con la gelosia di una realtà sognata, nel Salone napoleonico della Pinacoteca di Brera in Milano, per l’ultima volta vicino a lui, mentre le musiche risuonavano (per concludere con i Suoi versi) “al di là d’ogni eco di memoria, sotto un arco di cielo appena nato, nelle azzurre navate della notte”».
La sola ombra nella vita integerrima di Giuseppe Ravegnani è data dalla spiacevole vicenda che lo coinvolse all’epoca dell’emanazione delle leggi razziali, quando ingiunse al giovane ebreo Giorgio Bassani di abbandonare per sempre le sale della Biblioteca Ariostea. L’episodio è riportato nel romanzo Il giardino dei Finzi-Contini.

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

italia-oggi-ancora-un-attrazione-per-un-tedesco

L’Italia, oggi, è ancora un’attrazione per un tedesco?

Scrivere, oggi, che l’Italia è un Paese che genera attrazione in un tedesco, davvero non è facile. Nonostante tutte le turbolenze politiche ed economiche in cui si ritrova sballottata, e nonostante i rapporti piuttosto tesi, ufficiali e non, fra i due Paesi, personalmente non ho ancora perso la voglia di essere fedele ad un vecchio amore… forse amore è troppo, diciamo grande simpatia.

Mai imparar l’italiano
una lingua che suona
come se generasse
un uomo migliore.

Blu e verde acqua son le parole
e in ogni “o”
luminoso un frutto si nasconde.

Non erro
per proteggermi dalle illusioni.

Preferisco persone
che limitatamente solo comprendo.

Incomprensioni,
una più bella dell’altra
quasi fossero arie musicali.

Rainer Malkowski (1939 – 2003) – (Trad. di Laura Melara Dürbeck)

Tutte le migliori qualità che attraggono un tedesco si ritrovano in questa “poesia”: la meravigliosa e sensuale lingua italiana; il paese dei sogni, delle illusioni, dell’opera lirica. Ma, ormai da molti anni, ho anche imparato che un tedesco non capisce mai veramente tutto ed in tutti i sensi dell’Italia e degli Italiani. Ci sono sempre pregiudizi, diagnosi sbagliate, equivoci.

Impressioni molto simili a quelle cantate dallo scrittore e poeta Malkowski, erano già state espresse decenni prima da altri tre altri filosofi tedeschi, che personalmente ho stimato sempre:

“Quando un tedesco entra in Italia, fa quasi sempre un ingresso falso. Ha desideri ed immagini distorte, almeno troppo unilaterali. Così non può vedere la vita reale nel paese e capire niente, o quasi niente, del paese italiano. Il Paese sembra poroso e allo stesso tempo chiuso. Tutto sembra possibile ed impossibile […]”.

Così scriveva il filosofo tedesco Ernst Bloch in un testo del 1925. Un concetto quasi identico si trova in una frase di Walter Benjamin, altro intellettuale tedesco di quell’epoca pre-fascista: “L’Italia è il paese della porosità, dell’indolenza e della passione per l’improvvisazione.”

Alfred Sohn-Rethel, anche lui un filosofo vicino alla Scuola di Francoforte, ha scritto nel 1926 un breve saggio intitolato Das Ideal des Kaputten (L’ideale della cosa rotta) dedicato a Napoli: un napoletano “si interessa ad una cosa tecnica solo quando è rotta. Una riparazione finale per un napolitano è una cosa orrenda, impensabile […]”.

E con queste tre suggestioni, abbiamo già un bel po’ di materiale per una buona riflessione, e per poter dire se l’Italia eserciti ancora o meno una certa attrazione per uno straniero.
Un tedesco, un teutonico puro, può amare e temere al tempo stesso la cosiddetta cultura italiana per la sua porosità, la sua imprevedibilità, la sua passione per l’improvvisazione e la sua, forse involontaria, capacità di riparazione le cose rotte.

Per non generalizzare troppo, non parlo di un tedesco qualsiasi ma di me. Sono nato nel 1950, nella parte estrema del nordovest tedesco, dove la terra è pianeggiante e costellata di fattorie (o perlomeno era cosi sessant’anni fa). La mia infanzia odorava di stallatico. Al centro del nostro villaggio, c’era ancora un fabbro che ferrava i cavalli. Nei miei ricordi d’infanzia si sente un po’ il profumo del primo Novecento, ma soprattutto il fetore del nazismo finito cinque anni prima.

Tutto era molto semplice, provinciale e soprattutto molto chiuso rispetto a ciò che succedeva nel mondo. Dell’Italia si sapeva solo che la capitale era Roma e che il Papa viveva in Vaticano. Il Papa di allora, Pio XII godeva di una grande autorevolezza nel mio ambiente familiare. E questa “autorità” parlava Italiano o Latino, ma non tedesco. La regione dove ho trascorso l’infanzia era molto cattolica, quasi una Bassa Padana ai tempi di Don Camillo, ma senza Peppone. Ma, in quella parte della Germania nord – occidentale, è nato anche Rolf Dieter Brinkmann, un poeta del cosiddetto “Underground of the sixtees” che ha scritto, tra le altre cose, Rom. Blicke tradotto in Italiano Roma. Sguardi un diario – un pò surrealistico, talvolta pazzo – su un suo soggiorno a Roma, in cui sferra un acceso attacco alla cultura italiana. Il mio punto di vista sull’Italia è ben diverso, più benevolo, e questo lo devo a mia madre che ha sempre disprezzato Brinkmann e che provava un grande amore per l’Italia, per le sue virtù, la sua storia, l’arte e la cultura; è grazie a mia madre, quindi, che ho provato fin da bambino una grande attrazione per il Bel Paese… oggi un po’ meno, ma la sento ancora.

Mia madre, all’inizio degli anni ‘30, frequentò una scuola cattolica di economia domestica, assieme ad alcune sue amiche, a Vicarello, un paesino sul lago di Bracciano. Da allora, faceva spessissimo riferimento a quel periodo trascorso nello sconosciuto “Sud”. Deve essere stato un periodo felice, a vedere le foto-ricordo e a sentire i racconti di quei mesi trascorsi così lontano! Molte vicende della vita di mia madre sono state evidentemente tristi, e solo raccontando della sua breve permanenza sul lago di Bracciano, s’illuminava di gioia! Quell’esperienza, tanto lontana nel tempo, aveva costituito per lei una sorta di “speranza di felicità”. Forse quella “speranza di felicità” era più che altro un’illusione, un’attrazione costruita sulle sabbie mobili, un ingresso falso e poroso per entrare nel Paese Italia (e forse è così anche per me). Oggi lei non c’è più, ed io ho ricevuto da lei quell’eredità italiana, che non è un’eredità materiale ma mentale e preziosa.

Ecco, quel tipo di attrazione per l’Italia in me c’è ancora, ma ha perso non poco della sua “speranza di felicità”. Rimane certo il fascino per il patrimonio dei beni culturali sparsi per l’Italia… ma anche di quelli che si trovano in Europa, di più… nel mondo! Ciò che sottrae forza attrattiva all’Italia è il livello bassissimo della maggior parte delle trasmissioni televisive, gli eccessi del consumismo che si erge a nuova religione, ecc. Devo ammettere, però, che questi sono fenomeni che non esistono solo in Italia, ma più o meno anche negli altri paesi europei, e anche in Germania, Paese apparentemente tanto sano, pulito, ben ordinato, e privo di corruzione. Anche la Germania di oggi, ammirata (o temuta) per la sua forte economia e le stabili strutture politiche, ha le sue ombre e debolezze.

Sono entrato in Italia col “vento rosso” degli anni sessanta-settanta. Ad Hannover, dove ho studiato, durante le manifestazione politiche cantavamo canzoni antifasciste come “Oh, Bella Ciao” e “Bandiera rossa”. Abbiamo letto i primi libri di Massimo Cacciari e di Rossana Rossanda sulla lotta della classe operaia. Apprezzavo gli scritti di cattolici di sinistra come Don Mazzi a Firenze, Don Franzoni a Roma o Don Milani a Barbiana. Sandro Pertini è stato per me, idealmente, il “nonno” che avrei desiderato. Giorgio Bassani non è stato il padre preferito – per carità – ma sicuramente uno scrittore molto stimato. Il romanzo di Ferrara mi ha così profondamente colpito che, appena ne ho avuto la possibilità, ho acquistato a Ferrara un piccolo appartamento, in un palazzo dentro la mura. Adesso, è tredici anni ormai che sono molto legato a questa città estense, dove spesso ritrovo un po’ il profumo e la luce della mia infanzia. Anche noi, in Bassa Sassonia, abbiamo la nebbia autunnale. Anche da noi il paesaggio è un po’ simile a quello che si trova lungo il Po: un paesaggio basso, senza colline e tante nuvole verso l’orizzonte. Durante l’infanzia e la gioventù, anche per noi la bici era il mezzo principale per spostarsi. La chiesa si trovava al centro del paese e delle piccole città. Ma c’è di più: attraverso i miei amici ferraresi, ho scoperto anche che una cultura borghese in Germania, dopo il fascismo, è quasi del tutto sparita: liberale o di sinistra che fosse, comunque antifascista, quella ereditata nel dopoguerra è stata ben definita da Mario Pannunzio, il fondatore dell’Espresso, come “progressiva in politica, conservatrice in economia, reazionaria nel costume”. Qualcosa di profondamente diverso dal nobile spirito borghese che ha animato l’esperienza azionista italiana dalla quale, nel mio impegno civile d’oggi, ho imparato molto.

Credo profondamente che la cultura in genere, ma anche la cultura politica italiana, abbiano avuto ed abbiano ancora, una certa attrattiva per gli stranieri, nonostante i fenomeni oscuri “all’italiana” molto conosciuti in tutto il mondo. Per citare solo una delle forze più importanti, che si distinguono e che si ergono nel panorama della crisi della democrazia rappresentativa e del cosiddetto Welfare State, scelgo il volontariato italiano, politicamente forse un po’ incerto, ma con una grande volontà di fare qualcosa, sia a livello locale sia a livello mondiale; la forte presenza degli italiani nelle reti delle Ong in tutto il mondo, ne è la dimostrazione, e rappresenta un segno significativo e confortante.

Ma forse sbaglio in tutto…

Non erro
per proteggermi dalle illusioni.

Preferisco persone
che limitatamente solo comprendo.

Incomprensioni,
una più bella dell’altra
quasi fossero arie musicali.

Un ringraziamento particolare ad Antonella Romeo, la traduttrice della brano, e autrice del libro La deutsche Vita

Matisse-Ferrara-Palazzo-Diamanti-Giovane-donna-in-bianco

Faccia a faccia con Matisse a palazzo dei Diamanti

Giovane donna in bianco, sfondo rosso” è il simbolo della mostra di Henri Matisse a Ferrara. E chi entra a palazzo dei Diamanti – dove è esposta fino al 15 giugno – quella ragazza potrà vederla muoversi, ridere e poi impressionare, pennellata dopo pennellata, la tela che è appesa lì. Abito candido, capelli sciolti e una risata spensierata, la fanciulla si lascia cadere sulla poltrona della casa-studio del pittore fauve. Grazie a un filmato in bianco e nero ci si ritrova, a distanza di tre quarti di secolo, nel preciso momento in cui Matisse è faccia a faccia con la sua modella. Barba, occhiali e completo grigio, l’artista, che in quel momento ha già 77 anni, traccia con poche linee decise gli occhi di lei, rapide pennellate per i capelli ondulati, un’unica linea per naso e sopracciglia.

Quello con la “giovane donna in bianco” è solo uno tra i tanti incontri che la rassegna d’arte, curata da Isabelle Monod-Fontaine, offre al visitatore. Le sale ferraresi raccolgono la produzione di Matisse e la ripropongono in ordine cronologico, dal debutto più accademico della stanza d’ingresso fino ai collage fatti con carta colorata e ritagliata (gouaches découpées) degli ultimi anni. Ma ogni volta il racconto della carriera di uno degli artisti che ha cambiato il corso dell’arte del Novecento, procede come un dialogo tra le figure impresse in quadri, disegni, sculture.

I primi lavori esposti sono il “Nudo in piedi” fatto a carboncino nel 1900 con la tecnica più tradizionale del ritratto dal vero; a poca distanza c’è il “Nudo in piedi” dipinto a olio su tela un anno dopo, dove già il tratto naturalistico si addensa in macchie di colore quasi impressionistiche. Pochi passi ed è “Madeleine II”, una scultura di bronzo del 1903, dove la materia è un accumulo di ombre, una massa lavorata a piccoli tocchi che conferiscono al metallo scuro la luminosità di dense pennellate, una forma semplificata ma di volume armonico. Il dialogo ricomincia tra le teste dei ritratti: quello su tela della bambina “Nono Lebasque” (1908), dominato dai colori brillanti di abito verde, sfondo blu e giallo sbiancato del viso, ha la leggibilità dei disegni infantili e si confronta con la semplificazione delle forme del mezzo busto in bronzo intitolato “Jeanette III” (1911) con le ciocche dei capelli riassunte in quattro masse di materia, le orbite degli occhi che diventano due cavità accentuate, le guance rese in un paio di volumi rotondi. Parlano tra loro le tele dallo sfondo rosato dove Matisse prova e riprova una composizione di figure intere, “Nudo seduto” (1909), con il caschetto di capelli della modella che d’improvviso può dialogare con quello di una visitatrice ferma ad osservarla. Nell’ultima delle sale queste figure raggiungono la massima sintesi nelle gouaches di cartoncino colorato o nei disegni a inchiostro su carta, come quello di “Acrobata” realizzato da Matisse nell’ultima fase di attività (1952). Poche pennellate sicure, che spingono la figura fino ai limiti dell’astrattismo.

Chiusura nel vivace bookshop, dove l’esplosione di colori di Matisse prende la forma di poster, libri, quaderni dedicati alla sua opera, ma che sembra contaminare anche tutti gli oggetti di design, le borse, la bigiotteria e la fotografia di cucina creativa in esposizione tra banchi e scaffali. I canoni estetici del grande rivale di Picasso sono dunque ancora attuali: il dialogo continua.

Link alla sezione IMMAGINARIO – Anteprima di Matisse

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St.Valentine weekend ovvero il rito irlandese dello “short break”

Finalmente febbraio, e tiri un sospiro di sollievo. Le giornate iniziano ad allungarsi, si lasciano dietro le notti lunghe di dicembre e gennaio. Uno sprazzo di sole ti sembra già una promessa di primavera. Tutto tira su il morale, quando ti ritrovi sul parallelo che va dal Labrador alla Kamchatka. Settimane di piogge ininterrotte e giochi delle maree fanno sì che spesso Cork si ritrovi abbondantemente sott’acqua. I locals sembrano infischiarsene o al limite prenderla con filosofia. Il centro città sommerso diviene occasione di svago e fare un po’ di craic, ovvero passare una serata al pub con risate, chiacchiere, musica e varie pinte di birra. E c’è chi se ne approfitta per farsi una vasca in centro, stavolta nel vero senso della parola.

Al St.Valentine weekend, cambiare aria non sembra più una proposta così assurda e forse, per un atavico istinto di sopravvivenza, ti lasci convincere a lasciare la città inondata e partire per uno “short break”. Condizioni necessarie: individuare una località rinomata e vagamente romantica, “Grand Hotel” stile Shining, ristorante chic “Georgina Campbell guide” nelle vicinanze con prezzi da Manhattan ed atmosfere alla Masterchef, dolce compagnia al seguito. Insomma quanto basta per scatenare sane invidie nell’entourage e chiudersi in bagno a piangere all’arrivo del prossimo estratto conto.

Piove a diretto ma è troppo tardi per cancellare tutto. Con umore alla Furio – e la Madga di turno a pagarne le conseguenze – lasci la città, questa volta verso est. Verso Waterford, storica città di vichinghi, vescovi e cristalli. Appena fuori Cork incontri le prime cittadine sulla costa, località di villeggiatura rinomate prima che i charter e i voli della “Ryan” iniziassero a trasportare  migliaia di vacanzieri verso le spiagge di Spagna e Portogallo: Ballycotton, Yoghal, Dungarvan, Tranmore, Dunmore East. Tempi dei quali rimangono cartoline ed immagini vintage anni ‘70. Fotografie ingiallite di famiglie in spiaggia a prendere il sole, con cestino del picnic. Tutto il mondo è paese.

Tempo infame, strada monotona, umore basso. La tentazione di fare marcia indietro è forte. Ma quando meno te lo aspetti, le colline si aprono a sud, lasciandoti vedere uno scorcio d’oceano. Davanti a te la distesa d’acqua grigia e schiumosa, tra la pioggia onde spinte dal vento che si infrangono feroci sulle scogliere. All’orizzonte un raggio di luce taglia le nuvole, il suo riflesso nell’acqua quasi ti abbaglia. In un secondo sei ripagato di tutto, il tuo viaggio potrebbe anche finire qui. Il Furio che e in te è già lontano, la tabella di marcia idem. Cerchi una scusa per fermarti a bordo strada. Il tempo di una sigaretta fumata in silenzio, sufficiente per imprimere quell’immagine nella tua memoria: l’Irlanda è fatta di dettagli, luci oblique che filtrano tra le nubi e rendono lo stesso paesaggio sempre diverso, ogni giorno.

La strada e l’umore diventano meno pesanti. All’arrivo l’Hotel a Dungarvan è come te lo aspetti. Hall immensa e semideserta, moquette, carta da parati giallastra, mobilio austero, quadri con scene marine. Mare in burrasca e foto di JFK al muro. Il concierge ti guarda severo da dietro gli occhiali e ti viene da parlare sottovoce. Forse da qualche parte c’è un senatore, un cardinale o un capitano di vascello da non disturbare. Ma è solo un’impressione, perché sei sempre in Irlanda e, mano a mano che il tempo passa, il bar-ristorante comincia a riempirsi. Camerieri vanno e vengono con vassoi di birra e Fish & Chips. Clientela composta e variegata in totale relax. Un gruppetto di pensionati, famiglie con bambini al seguito, una coppietta che avrà poco più di vent’anni. Tutti con la necessità di rompere la monotonia dell’inverno irlandese, prendere il tempo di ritrovarsi, anche se solo per una notte o un fine settimana. In camera, come sempre, le contraddizioni della cattolicissima Irlanda: bibbie che saltano fuori come funghi dagli armadietti e stampe vagamente osé alla Salomé sui muri. Ladies & Gentleman, fate pure quello che dovete fare ma, se possibile, senza esagerare. Dopo cena, trovi il pub giusto, legno, brusio, odore di cane bagnato. Un tavolo d’angolo occupato da un gruppo di musicisti alle prese con i loro strumenti. Una live session di musica tradizionale: violini, bodhran, banjo, fisarmoniche, flauti. Bevi in silenzio e tieni il tempo col battito dei piedi.

La mattina è ancora una sorpresa: durante la notte il forte vento ha spazzato via le nuvole ed è un piacere passeggiare per la cittadina. Case multicolore che si affacciano sulla baia, bar e negozietti decrepiti dall’atmosfera realmente marinara.

Torna il sorriso, le giornate buie e la stanchezza di lunghe settimane di lavoro spariscono in un momento. Ritrovi la capacità di vedere il mondo e la sua bellezza, di ricambiare l’affetto di chi ti sta a fianco. Ti rendi conto di quanto sia importante il rito irlandese dello short break. Ora non hai più voglia di tornare a casa, la tentazione di proseguire verso i musei e i palazzi di Waterford o perdersi alla scoperta dei villaggi sulla costa è forte. Ma non c’è più tempo. Non senza un filo di dispiacere, riprendi la strada verso la città. Non fa nulla, sai che per qualche minuto ti terrà ancora compagnia la vista dell’oceano grigio, ora calmo, quasi azzurro.

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Favole russe: tra zar, zarine, amore e coraggio

da MOSCA – Qualche giorno fa, osservando alcuni palazzi moscoviti elegantemente illuminati, mi è parso di vedere affacciarsi alla finestra una ragazza dal viso dolcissimo, dai lineamenti fini e delicati, pettinata in maniera un po’ antica ma molto elegante. Le tendine bianche attraverso le quali l’avevo intravista erano state da lei gentilmente ma frettolosamente richiuse. Mi rimaneva una sensazione di sorpresa, di curiosità e di dejà vu.
In effetti, la stessa percezione l’avevo avuta lo scorso luglio, quando, camminando per i vialetti del Gorky Park, avevo colto una figura leggiadra correre fra le rose e infine nascondersi dietro una siepe, furtivamente. Come allora, ho avuto l’impressione di scorgere una raffinata, garbata e aggraziata zarina. Dietro piante fiorite, rigorosamente e ordinatamente in fila, avevo anche immaginato svolgersi la scena in cui la graziosa figlia di Grigorij Ivanović Muromskij, Lizaveta-Akulina, sussurrava dolci parole al suo Aleksej, figlio dell’odiato Ivan Petrović, lungo la strada ombreggiata del boschetto che Puškin descrive con la maestria che lo contraddistingue. I cespugli parevano gli stessi, così come le leggere frasche fruscianti. I messaggi trepidanti, lasciati negli incavi degli alberi, avrebbero potuto davvero essere ancora nascosti lì. Mi era piaciuta l’idea di andare a cercarne qualcuno, avevo immaginato di poter trovare una nota manoscritta, una calligrafia femminile tornita. E a quel punto, persa fra innamorati e zarine, mi sono ricordata delle fiabe russe e di una, in particolare, che oggi vorrei raccontarvi, arricchendola sì di qualche particolare, ma restandovi fondamentalmente fedele. Questa bellissima storia d’amore della tradizione popolare russa, che ben si addice non solo a chi è innamorato, parla di una zarina liutista dall’animo nobile.
Moglie di uno zar, questa bellissima donna, generosa e intelligente, suonava meravigliosamente il liuto. L’incanto puro usciva dalle corde del suo strumento, sfiorate leggermente e amorevolmente dalle dita sottili e delicate. Un bel giorno, il marito partì per un viaggio in Oriente e qui, caduto vittima di un’imboscata, venne catturato dai soldati di un sultano e rinchiuso in un carcere buio, triste, umido e maleodorante.
La zarina si vide ben presto recapitare una lettera con una richiesta di riscatto (tre vascelli d’oro e la più giovane principessa in sposa al sultano) che, se accettata, avrebbe privato il regno delle sue uniche ricchezze e lei della sua amata figlia. La zarina non volle cedere e chiese ai suoi cortigiani di lasciare che si occupasse della situazione da sola. Dovevano solo aspettare il suo ritorno, con fiducia. Senza dire nulla a nessuno del suo piano, si chiuse nelle sue stanze dorate, si tagliò le lunghe, folte e lucide chiome, si vestì da paggio, prese il suo liuto e si mise in viaggio verso Oriente.
Giunta alla presenza del sultano rapitore, travestita da valletto, gli si presentò come un abile suonatore di liuto, felice di poterne allietare le giornate con sognanti melodie d’altri tempi.
Dopo che le note più belle si erano effuse per il palazzo, il sultano, deliziato da tanta abilità e maestria, chiese al suonatore di rimanere accanto a lui ancora per molti giorni, il tempo necessario per affezionarsi al musicista. Dopo un mese di permanenza, alla zarina fu chiesto di rimanere almeno un altro mese, in cambio di un gesto di generosità reale: ella avrebbe scelto per sé un prigioniero, proveniente dalla sua terra, in attesa di ricevere il riscatto richiesto per lui.
Accompagnata dalle guardie nelle prigioni sotterranee, la zarina, vestita da uomo, riconobbe immediatamente il marito, ma non viceversa. Lo zar, tuttavia, si rallegrò alla notizia di aver di fronte un musicista che era riuscito a strappare al sultano la promessa di poterlo ricondurre con sé nella loro comune patria. Prima del congedo, il paggio suonò una musica che allo zar ricordò quella della dolce compagna, ma questo lo portò soltanto a proferire parole di rimpianto, di tristezza e ira per moglie e sudditi che, a suo parere, non avevano fatto nulla per liberarlo. Lungo tutto il viaggio di ritorno il liutista non aprì bocca, era triste e forse anche un po’ deluso. Ma quel silenzio venne scambiato per timidezza e soggezione. Lo zar era riconoscente solo al suonatore sconosciuto e continuava a dubitare dell’amore della sua famiglia. Giunti in patria, il liutista sparì, dopo aver lasciato lo zar al cospetto della sua corte. Adirato con la moglie, di cui tutti ignoravano la sorte, e angosciato per la scomparsa del suo liutista, lo zar aveva dato ordine di cercarlo ovunque. Per lui avrebbe dato tutto, ogni bene prezioso, per quello sconosciuto che gli aveva salvato la vita in maniera tanto generosa e disinteressata. La mattina del quarto giorno, lo zar sentì il suono dolcissimo di un liuto provenire dal suo giardino alberato e fatato. Era sicuro che si trattasse del suo amico e salvatore. Precipitatosi fuori, su un prato fiorito vicino a una fontana, intravide la sagoma del liutista. Ma solo avvicinandosi capì che si trattava di sua moglie, vestita con gli abiti da zarina ma con i capelli ancora corti, dal taglio mascolino. La donna gli chiese se gli piacesse quella musica tanto amata dal sultano d’Oriente, e lo zar, stupefatto comprese allora che la splendida moglie aveva sfidato per lui la sorte, sofferto e corso enormi rischi per salvarlo; si vergognò di aver dubitato di una donna che era riuscita in un’impresa che solo un immenso amore poteva guidare.
“Per il futuro” esclamò lo zar, prevenendo le sue parole, “sarò più cauto nel giudicare”.
I festeggiamenti furono splendidi: per tre giorni e tre notti ci fu un grande banchetto con danze, suoni, canti, baci e…

quel gran pranzo sopraffino
io l’ho visto da vicino;
tre confetti ho ricevuto,
tutto il resto l’ho perduto.