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Giverny, l’amato giardino di Monet

È tempo di vacanze, di gite e, per chi può permetterselo, di qualche bel viaggio. Andare in giro per giardini è un modo di viaggiare che mi piace molto e che sicuramente condivido con tutti gli appassionati di giardinaggio. Non c’è video, foto, quadro che possa rendere la fisica tridimensionalità di un giardino. Poco importa se non si è fortunati e pioverà a dirotto il giorno fatidico in cui si varcherà il cancello del luogo dei nostri sogni, soltanto l’esperienza diretta ci permette di capire realmente quali sono i rapporti tra i suoi spazi e il suo contesto. Osservare con attenzione, annusare, camminare con lentezza e curiosità, farsi le proprie foto e magari un appunto scritto su un quadernino, penso che rimanga la miglior scuola di arte dei giardini. Naturalmente queste esperienze dirette possono rivelarsi entusiasmanti tanto quanto deludenti, soprattutto quando si cade nella trappola delle forti aspettative. Un esempio che faccio spesso riguarda uno dei giardini più famosi al mondo, quello di Giverny, creato e dipinto da Claude Monet. Ho potuto visitarlo qualche anno fa e, nonostante la giornata di fine aprile fosse assolutamente perfetta, la compagnia ottima e il giardino straripante di bellezza e di fiori, ogni volta che penso a Giverny ho la sensazione che mi sia mancato qualcosa. Su questo giardino penso che sia stato detto e scritto di tutto. Monet è stato un grandissimo artista, nelle sue lettere scriveva di essere stato consapevole di avere tanto amato dipingere quanto coltivare piante, riconoscendosi solo due talenti: quello di pittore e quello di giardiniere. Monet aveva capito la modernità, o forse l’aveva solo intuita, ma nei suoi comportamenti si riconoscono alcune delle azioni tipiche dei nostri tempi, soprattutto quello che riguarda l’importanza di difendere la paternità delle proprie opere. Nel caso del giardino, Monet non lasciò che altri lo dipingessero, era fondamentale che quel soggetto, in particolare la parte del giardino con lo stagno delle ninfee, fosse riconducibile solo e soltanto al suo nome. Lo stesso Monet lasciò passare una quindicina di anni prima di dipingerlo, perché il paesaggio ha bisogno di tempo per essere compreso. La fusione tra giardino e pittura, che si è realizzata proprio nella persona dell’artista, impedisce oggi qualsiasi forma di sopravvivenza del giardino al di fuori delle tele, quello che vediamo oggi è tutta un’altra cosa, bellissima ma sostanzialmente diversa. Giverny è una miniera d’oro e tutto il lavoro dei giardinieri viene impostato per dare alle migliaia e migliaia di turisti che si mettono in coda davanti al portone, fioriture abbondantissime e percorsi sicuri. Questo significa che a fine aprile non ci siano dei tulipani, ma centinaia di tulipani, di ogni forma e colore, assemblati per ricostruire quella specie di sensazione vibrante che Monet riusciva a mettere sulla tela dipingendo rapidamente un’immagine fatta di luce e colore. L’effetto nella realtà è bellissimo, ma allo stesso tempo spiazzante: la cura estrema del giardino ripaga il prezzo del biglietto, sulle prime si viene rapiti e non si riesce a controllare l’impulso di scattare centinaia di foto, in un secondo momento gira un po’ la testa, perché l’occhio non trova un angolo spento su cui riposare. Il cosiddetto giardino giapponese, dominato dalla superficie acquatica dello stagno delle ninfee, dovrebbe calmare gli animi dalle emozioni del primo giardino e lasciare spazio alla tranquillità dei verdi e dei riflessi della luce sull’acqua. Ho usato il condizionale perché questo giardino negli ultimi vent’anni è stato decisamente modificato. Il colpo d’occhio è quello visto nei quadri, ma lo spazio sembra ristretto. Si mostra per quello che è: un piccolo laghetto dai bordi sinuosi. Monet aveva creato l’illusione di uno spazio più dilatato, lasciando a prato rasato molte delle superfici che bordavano lo stagno, superfici che oggi sono state riempite con fiori e bassi cespugli che servono per impedire ai turisti di cadere in acqua. Una recinzione sarebbe stata ancora più brutta, ma in ogni caso l’effetto complessivo è diverso. Devo ammettere che in questo giardino non ho sentito schiamazzi, ma una processione continua di persone comunque fa rumore, e questo tipo di giardino ha nel silenzio uno dei suoi ingredienti più importanti. In conclusione, ho visto un giardino bellissimo, ho passato una giornata piacevolissima con una cara amica, ma non ho trovato il giardino di Monet. Monet era un vero giardiniere, sapeva che il suo giardino sarebbe stata la sua opera più fragile, ma attraverso le sue tele, lo ha reso immortale.

[Foto di Alessia Albieri]

Ero un bambino

Dove abito non c’è un bel clima ma io sono un bambino: cosa vuoi che me ne importi?
Io voglio giocare e divertirmi.
Fa caldo questo pomeriggio ma è bello stare sulla spiaggia perché la brezza che arriva dal mare ti rinfresca la pelle.
La sabbia, sotto i piedi, scotta moltissimo.
Fa proprio un caldo infernale oggi ma non c’è niente di meglio che una bella partita di pallone in spiaggia per svagarsi un po’ in questa stagione rovente.
I mondiali di calcio saranno anche finiti ma, per noi bambini, ogni partita è come se fosse la finale.
Noi la giochiamo senza portiere, a porta unica: da quella bottiglia a quell’altra.
Abbiamo fatto la conta ed io sono in squadra con Ramez; contro di noi giocano Ahed e Zakaria.
Le squadre sono venute bene perché io ho 9 anni e Ramez 11, la somma delle nostre età fa 20; Zakaria e Ahed hanno 10 anni a testa e la somma fa 20.
Tutti insieme abbiamo 40 anni, una media di 10 anni a testa.
Nella vita apparteniamo tutti alla stessa famiglia, ma nel calcio bisogna schierarsi: due di qua e due di là.
Fa un caldo terribile oggi ma, quando corri sulla sabbia prendendo a calci un pallone, senti soltanto il piacere di sfidare il vento.
E quando corri in questo modo, senti di avere un coraggio ed una forza da leone; quelli che servono per poter andare contro chi ti sembra più forte di te.
Stavamo già uno a zero per noi quando, mentre stavo scartando Zakaria e Ramez mi urlava di passargliela, ho sentito una specie di ruggito…
No, non usciva dalla mia bocca; io non mi ero fatto suggestionare troppo dalla fantasia.
Era un missile!
Li conosciamo bene anche noi bambini.
È passato sopra le nostre teste, sopra la sabbia, sopra la palla, sopra le bottiglie di plastica.
Mi sono messo il pallone sotto il braccio e, senza metterci d’accordo, insieme agli altri abbiamo iniziato a correre come se fossimo tutti della stessa squadra, avessimo appena segnato il gol del pareggio e volessimo tornare in fretta a centrocampo per vincere la partita.
Abbiamo cominciato a scappare verso gli alberghi, verso i giornalisti, verso un tetto sotto il quale ripararsi.
Poi ho sentito un altro ruggito, questa volta assordante e fragoroso quindi dilaniante e doloroso.
Sono inciampato ma ho fatto in tempo a vedere Zakaria, Ahed e Ramez cadere in terra, davanti a me, come se avessero subito un fallo tremendo, una scorrettezza inimmaginabile, una violenza inconcepibile.
Mi ricordo di aver provato a dire: “Rosso, arbitro!”… ma l’unico rosso che ho fatto in tempo a vedere era quello del mio e del loro sangue che bagnava la spiaggia di Gaza.
Mentre la sabbia mi riempiva la bocca ed il mio respiro si faceva sempre più faticoso, ho capito che l’arbitro della vita non avrebbe mai espulso i responsabili di quei falli orrendi e che nessuna punizione, nessun rigore avrebbe potuto più ridarmi il sapore di una corsa contro il vento, il profumo di una risata con gli amici o l’abbraccio fresco del mare.
Ero un bambino e ora sono diventato un piccolo respiro nel vento, uno di quelli che però riesce a far sventolare di più la bandiera della mia gente.
Volevo solo giocare e divertirmi e adesso, che non potrò più farlo, continua a rimanermi il dubbio che abbiate capito, che mi abbiate capito: IO ERO UN BAMBINO!

Ismael Mohammed Bakr di 9 anni, Ahed Atef Bakr di 10 anni, Zakaria Ahed Bakr di 10 anni e Mohammed Ramez Bakr di 11 anni sono stati uccisi da un missile israeliano sulla spiaggia di Gaza il 15 luglio scorso.
Il portavoce militare israeliano Moti Elmoz ha dichiarato: “Per ora posso solo dire che abbiamo attaccato un obiettivo sospetto sulla spiaggia”.
Il presidente Shimon Peres, in un’intervista, si è detto “dispiaciuto” e ha definito la morte dei quattro bambini a Gaza “un incidente”.
Forse un Sms gratuito, inviato poco prima a qualche utente palestinese, ha avvisato del bombardamento in arrivo; così, dietro tale ignobile alibi, gli assassini di Zakaria, Ahed, Ramez e Ismael possono continuare a lavare la propria coscienza, lurida di crimini contro l’umanità.

Israele, Palestina e pregiudizi

Mi ricordo come fosse ieri l’adesivo dell’Olp con la bandiera della Palestina attaccato sullo specchio del bagno, nella mia casa dell’infanzia a Terni, come a marcare un indirizzo politico. Sarà stato il 1978 e io avevo all’incirca 7 anni. Ora, nel 2014, siamo allo stesso punto di partenza: ad ogni recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, non si fa altro che riaffermare le proprie convinzioni ideologiche, sventolando la bandiera di preferenza, e scagliarsi gli uni contro gli altri, in una sorta di competizione in cui per vincere bisogna dimostrare a suon di recriminazioni chi sono le vittime e chi i carnefici, quando è evidente che le stragi non hanno colore e che rappresentano una sconfitta per l’intera umanità. Nel suo “Buongiorno” su la Stampa del 17 luglio scorso, Gramellini scrive: “A me non interessa se erano israeliani o palestinesi. A me interessa che erano bambini.” Condivido. E aggiungo che non ci potrà mai essere soluzione ad un conflitto, nessuno, se si fomentano odio e rancore, e che anche noi come occidentali siamo gravemente responsabili se ci facciamo avviluppare in queste spirali “agonistiche”, perché non c’è politica che tenga, non ci sono accordi o trattati duraturi, se a prevalere sono odio e rancore.
Com’è possibile che gli adulti, oggi come ieri, non riescano ad evitare di imporre le proprie convinzioni ai figli, con adesivi, bandiere e quant’altro, come una sorta di lavaggio del cervello? Che non riescano ad esprimere la propria opinione con misura e discrezione, lasciando la possibilità ai giovani di leggere con occhi nuovi la realtà che li circonda, senza dover portare su di sé la zavorra ideologica dei loro padri? La bandiera che vorrei sventolare oggi è quella con scritto “Noi adulti, che abbiamo idee vecchie e antichi rancori, facciamoci da parte… per il bene dei palestinesi, degli israeliani, per il bene dell’umanità.”

Luci e ombre della centrale elettrica

E’ gigantesca l’ombra di Vasco Brondi, e riesce persino a dare realtà al titolo del concerto di mercoledì sera nel cortile del Castello, perché – grazie all’apparato di luci messo a punto da Ferrara sotto le Stelle in questo suggestivo spazio raccolto – la proiezione nera del corpo di lui che canta e balla arriva a coprire quasi tutta la distanza “Tra Ferrara e la luna”, lambendo con la proiezione della sua sagoma scura le pareti interne dell’antico palazzo ducale, su su, fino alla cima di una delle quattro torri. I giochi di riflessi, suggestioni e squarci di luci e ombre, del resto, sono uno dei temi conduttori principali della poetica di questo cantante, cresciuto tra via Ripagrande e viale Krasnodar.

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“Luci della centrale elettrica” nel cortile del castello

Già il suo nome d’arte è un omaggio inedito alla città e ai suoi bagliori meno scontati: “Le luci della centrale elettrica”. Perché il nome del progetto artistico e di lui stesso come cantante – ha spiegato Brondi – deriva da un’attrazione particolare per l’illuminazione ininterrotta del polo chimico. Ancora ragazzino andava ad ammirarla, alla notte, appostato tra i fumi e le nebbie di quella cittadella industriale che brulica nella periferia nord, dove il lavoro e le macchine dominano sulle stagioni e dettano la loro legge al paesaggio.
Il contrasto tra luci e ombre scandisce ogni momento del concerto. Ci sono le luci dei tastini rossi e verdi dei mixer che pulsano accanto al pozzo, sull’acciottolato a spina di pesce del cortile estense; le fiammelle degli accendini, che brillano nella notte insieme alle braci di sigarette accese; i monitor illuminati degli smartphone e degli I-pad con cui i ragazzi scatenati catturano con i loro apparecchi tecnologici pezzettini di questo incontro.

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Fan di Vasco Brondi a “Ferrara sotto le stelle”

Il concerto è un’occasione di scambio e di ascolto di quei giovani talenti della musica italiana, che restano nell’ombra dei passaggi radiofonici e televisivi e che qui – finalmente – vanno sotto i riflettori. La serata parte subito con un duetto tra Vasco e Rachele Bastreghi dei Baustelle con “Un campo lungo cinematografico”, che racconta “le tue mani gelate, quei passi che abbiamo fatto sulla Luna”, “tra turni diurni e turni notturni e materiali pericolosi”. Poi c’è Levante – la rivelazione – per reinventare il testo di Franco Battiato che invoca “portami lontano a naufragare /via via via da queste sponde /portami lontano sulle onde”. Non manca una canzone che Brondi stesso definisce “un monumento, ma di quei monumenti che non restano immobili, ma scalciano e ballano” che è “Emilia Paranoica” dei Cccp, in versione quasi techno.
Con Dente arriva il brano da cui è presa la frase che dà il titolo al concerto, “40 chilometri”, e che narra un mondo dove “cercasi persone con esperienza lavorativa tra Ferrara e la Luna, /cercasi esperti di marketing e cerco le coordinate nel cielo per ritrovarti”.
Non manca, nel finale, l’omaggio struggente di “La Terra, l’Emilia, la Luna”. Un rimando autobiografico che sa raccontare ancora una volta la precarietà dei nostri giorni e di un’intera generazione, che si affaccia su un mondo di luci e ombre, che invoca “solo quello che mi disorienta/ una cantilena per quelli che dormono in macchina” e “per tutti quelli che sono morti come sono vissuti/ felicemente felicemente felicemente al di sopra dei loro mezzi”. Applausi; luci; ombra. Ferrara sotto le stelle continua.

Le responsabilità dell’Occidente nella deriva bellica in Palestina

di Fabio Zangara

“Essere testimoni della verità”. Questo il concetto cardine delle manifestazioni per la pace in Palestina, che in questi giorni si sono svolte a Ferrara come in tutta Italia. Tra i protagonisti dell’iniziativa di piazza Trento e Trieste di mercoledì, la sezione Anpi “Vittorio Arrigoni” insieme alle associazioni Cittadini del Mondo e Giovani Musulmani Ferrara, Fiom-Cgil Ferrara e a diverse altre associazioni e collettivi studenteschi e culturali della città, tutti concordi nell’associarsi all’appello lanciato a livello internazionale che mira a fermare ogni ostilità fra le parti, stoppare i sanguinosi raid israeliani a Gaza, revocare l’embargo imposto da Israele alla Striscia e imporre il rispetto delle risoluzioni internazionali.
Una esigenza resa ancora più drammatica dalla scioccante notizia, giunta poche ore prima, della strage di quattro bambini palestinesi sulla spiaggia di Gaza dopo un attacco dal mare della Marina israeliana.

La condanna della scelta dell’opzione bellica, da qualsiasi parte essa provenga, è unanime: si tratta di una “guerra che è sopraffazione dell’uomo”, come ha affermato la rappresentante di Emergency Ferrara. Ed è proprio questa decisa presa di posizione ad essere rivolta alle potenze occidentali, che sempre hanno mostrato un atteggiamento di ‘silenzioso appoggio’ allo stato d’Israele, dalla sciagurata dichiarazione di Balfur del 1917 fino alle più recenti azioni di attacco come l’Operazione Piombo fuso (dicembre 2008 – gennaio 2009).

Riferendosi al rapporto fra le potenze occidentali e Israele, un esponente locale della comunità araba si è espresso mercoledì con chiarezza: “L’Occidente rappresenta e ha sempre rappresentato la ‘mano destra’ del governo israeliano. Francia, Germania e Italia sono le maggiori esportatrici di armi verso Israele e in questi ultimi tempi lo Stato israeliano sta diventando anch’esso produttore ed esportatore, grazie agli aiuti finanziari elargiti dai paesi amici e alleati”. Al riguardo, va ricordato il ruolo che l’Inghilterra ebbe nella decisione della creazione di uno Stato ebraico nell’attuale Palestina, in contrasto con le proposte dei più grandi intellettuali ed esponenti del sionismo storico, come Leon Pinsker, che aveva proposto come luogo del futuro stato ebraico una zona sul suolo degli Stati Uniti o della Turchia, o Theodor Herzl che aveva pensato all’Argentina e Moses Hess, filosofo tedesco, che addirittura aveva indicato il canale di Suez, proposta che fu subito rifiutata perché avrebbe infastidito gli interessi della Corona inglese.

Durante la manifestazione si è parlato inoltre del rapporto tra la questione israelo-palestinese e i mass media occidentali. “Nelle testate giornalistiche nazionali italiane è difficile trovare scritto un articolo ‘onesto’ riguardo i fatti politici interni, figuriamoci se c’è onestà intellettuale nel raccontare la questione arabo-israeliana. E’ deprimente vedere il silenzio della stampa statunitense e occidentale riguardo le azioni del governo israeliano, al di là delle azioni militari.” aggiunge il rappresentante della comunità araba ferrarese. I ragazzi della redazione di “Occhio ai media”, da anni impegnati a monitorare i mezzi di informazione, aggiungono che non sempre sono riportate le notizie nella loro integrità e verità; per esempio riguardo “i negoziati di pace, sempre sbilanciati a favore d’Israele, o le azione di embargo che Israele ha imposto alla Striscia di Gaza”, in cui è difficile reperire, per esempio, medicinali e materiali per la costruzione edile.

Edward Said, intellettuale palestinese, definì la questione israelo-palestinese l’ultimo taboo del mondo occidentale e sottolineò il potere dei gruppi di pressione ebraici negli Stati Uniti.
Nel 1992, quando George Bush senior ebbe l’ardire, a pochi mesi da una possibile rielezione, di minacciare Tel Aviv con il blocco di 10 miliardi di dollari in aiuti se non avesse messo freno agli illegali insediamenti ebraici nei Territori Occupati, i lauti finanziamenti dei gruppi di pressione pro-Israele furono devoluti al rivale Bill Clinton e nel conto finale dei voti Bush si trovò con un misero 12% dell’elettorato ebraico contro il 35% che aveva incassato nel 1988.
Altro concetto fondamentale emerso nella manifestazione è l’azione che il cittadino può intraprendere per manifestare il proprio dissenso verso il Governo d’Israele; viene sottolineata l’importanza del boicottaggio dei prodotti delle imprese e ditte israeliane operanti nei territori occupati.

E’ stata più volte ribadita, durante il presidio, l’importanza di una presa di posizione di solidarietà alla resistenza del popolo palestinese da parte delle istituzioni italiane e della comunità ebraica cittadina, a cui sarà inviata una lettera per sottolineare come “il silenzio possa costituire una pesante complicità alle sanguinose azioni di guerra”.

Mercoledì in piazza a Ferrara si è parlato anche di possibili soluzioni, conferendo importanza al concetto di costruzione e non di distruzione. A questo riguardo il rappresentante della Comunità araba dichiara: “Parlare di soluzione in questo momento è una barzelletta. E’ impossibile la convivenza tra un paese ‘extra’ forte e che ha sempre perseguito una politica di aggressivo espansionismo e un popolo che non ha nulla, se non la propria povertà. Se gli Stati continueranno ad appoggiare Israele non si giungerà mai ad una fine positiva del conflitto. Solo quando questi smetteranno di sostenere diplomaticamente ed economicamente lo Stato d’Israele si potrà raggiungere una soluzione”.

Viene messa in luce la ‘possibile soluzione’ di uno stato bi-nazionale, come teorizzato dal professor Edward Said. Una convivenza pacifica tra la comunità ebraica e araba è storicamente confermata dalle parole pronunciate il 16 luglio 1947 dal rabbino Joseph Shufutinsky, che testimoniò come il popolo ebraico e quello palestinese avessero vissuto in armonia, fino all’istituzione dello Stato d’Israele.
La soluzione va costruita con onestà intellettuale degli attuali contendenti e con il rispetto dei trattati Onu che impongono a Israele di rispettare quei confini territoriali che oggi sono ben violati. Una soluzione pacifica che va costruita con la giustizia, non con le bombe e immense sofferenze per le popolazioni civili.

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La manifestazione in sostegno della Palestina organizzata a Ferrara

Quel che sapeva Maisie, o la separazione vista con gli occhi dell’infanzia

Bello questo Henry James riletto in chiave contemporanea. Nel 1897, lo scrittore statunitense, nel romanzo Che cosa sapeva Maisie, ritraeva una coppia di genitori irresponsabili in fase di divorzio, vista con gli occhi della loro figlia sensibile e dolce, nel periodo tra la sua prima infanzia e la precoce (e forzata) maturità. Una condanna verso quegli adulti che trascurano i propri doveri nei confronti dei figli.

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la locandina del film

Delicato e sincero, Quel che sapeva Maisie è uno di quei piccoli ma piacevoli film, davvero meritevoli: la storia, abbastanza comune, di una moderna famiglia disfunzionale, in una New York contemporanea, frenetica e forse un po’ apatica.
Julianne Moore è Susanna, una rockstar distratta poco equilibrata, emotiva, nevrotica-isterica, inaffidabile, manipolatrice ed egocentrica che, tra le varie cose, cerca anche di amare sua figlia Maisie (Onata Aprile), bimbetta di sei anni, carina, docile, spontanea, simpatica e bravissima. Steve Coogan è Beale, marito di Susanna e padre di Maisie, sempre in giro per il mondo, superficiale, sorridente e scanzonato dongiovanni, davvero poco presente.

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una scena del film, con la nuova compagna del papà

Tra Susanna e Beale tutto va male: vanno in scena grida, litigate e nuovi giovani compagni che portano al divorzio e ad accese battaglie in tribunale dove la piccola Maisie è sballottata a destra e a sinistra. I nuovi giovani rispettivi compagni della coppia separata sono, per Beale, la dolce e bionda tata Margot (Joanna Vanderham), per Susanna, il bel Lincoln (Alexander Skarsgård), per la bambina quasi un gigante buono (e bello), protettivo e complice. Due giovani che diventeranno il faro amico di una bambina tenerissima.

Scenate, ripicche, promesse e appuntamenti mancati sono visti con lo sguardo della piccola, che non giudica, con il suo sguardo dolce e taciturno, e con una telecamera che spesso si muove alla sua altezza.

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una scena del film, il nuovo compagno della mamma

Come capita ai bambini, Maisie a volte sembra non notare le urla e capire cosa succede intorno a lei, tutta presa a ritirare con gioia una pizza o a giocare. Anche se, dentro di sé, ne coglie il significato profondo. Vorrebbe solo un po’ di pace e un’affettuosa e semplice quotidiana routine, senza ricatti e strattoni.
Il film, appena uscito al cinema in Italia, è da vedere, quasi un insegnamento, perché rappresenta tutto quello che un genitore non dovrebbe fare: parlare male dell’altro genitore con il proprio figlio, suggerirgli parole da riferire davanti a un giudice, dimenticarsi di andare a prenderlo a scuola o dagli amici, affidarlo a un altro adulto senza neanche sapere bene chi è, considerandolo quasi un “pacco postale”…

 

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la piccola protagonista, Onata Aprile

Maisie è gracile ma dotata di occhi grandi per scrutare il mondo, capace di assorbire il dolore di quel vortice familiare nel suo piccolo corpo e cuore di bambina. Maisie è educata, delicata, ma anche forte, volitiva e indipendente, pur nella sua tenera età e, proprio nonostante questo, più matura di due adulti interessati solo a farsi dispetti reciproci, contendendosi una creatura innocente malamente e inutilmente. E portandosi tanto rancore. Quasi un moderno Kramer contro Kramer, ma dal finale diverso.
Alla ricerca di un punto di riferimento, la bimba lo troverà in se stessa e nella sua volontà di vedere ed esplorare il mare. Scoprendo, da sola, cos’è la felicità.

Quel che sapeva Maisie, regia di Scott McGehee, David Siegel; con Julianne Moore, Alexander Skarsgård, Onata Aprile, Joanna Vanderham, Steve Coogan, Emma Holzer, Diana Garcia, Stephen Mailer, Samantha Buck, Joel Garland, Trevor Long, James Colby, Gil O’Brien, Mario Moise Fontaine, Kevin Cannon, Owen Shipman, Zachary Unger, Robert C. Kirk, Malachi Weir – USA 2013, 93 mn

Il bene comune nell’era della globalizzazione

Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa si legge: “Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale; essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune.”
Ciò significa che il bene comune è qualcosa di indivisibile, perché solamente assieme è possibile conseguirlo, proprio come accade in un prodotto di fattori: l’annullamento di anche uno solo di questi, annulla l’intero prodotto perché cade la relazione tra le persone.
Il bene comune è dunque il bene della relazione stessa fra persone, tenendo presente che la relazione delle persone è intesa come bene per tutti coloro che vi partecipano
Comprendiamo allora la profonda differenza con il bene totale: in quest’ultimo non entrano le relazioni tra persone e, di conseguenza, neppure entrano i beni relazionali, la cui rilevanza ai fini del progresso civile e morale delle nostre società è ormai cosa ampiamente risaputa, teorizzata e promossa da vari e rinomati studiosi come Possenti, Alici, Mancini, Zamagni, e ancora Bruni, Becchetti, Berselli, Petrella, Tettamanzi, Nosciglia e Toso.
Del pari diffusa, nel lessico politico ed economico corrente, è la confusione tra bene comune e interesse generale, come se i sostantivi bene e interesse, da un lato, e gli aggettivi comune e generale, dall’altro, fossero sinonimi.
Eppure, generale si oppone a particolare, mentre comune si oppone a proprio. Nel bene comune, il bene che ciascuno trae dal proprio utilizzo non può essere separato da quello che altri pure da esso traggono. Sulla differenza tra i concetti di bene e di interesse non occorre aggiungere altro, tanto è chiara ed evidente.

Nel linguaggio contemporaneo, il bene pubblico viene così definito da Antonio Rosmini “[…] bene comune è il bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale e che sono soggetti di diritti; il bene pubblico all’incontro è il bene del corpo sociale preso nel suo tutto, ovvero preso, secondo la maniera di vedere di alcuni, nella sua organizzazione”.
Quindi il bene pubblico corrisponde al bene collettivo, cioè al bene indistinto della società, come suggerisce il comunitarismo, mentre il bene comune è il bene delle persone che vivono e che si costituiscono in società.
Potremmo dire che il bene comune non ha carattere sommatorio: non è una somma di interessi, né una somma di risorse, né una somma di regole, né una somma di aiuti, non ha cioè una dimensione esclusivamente materiale, naturale, procedurale o assistenziale: questi sono aspetti che possono rientrare nel concetto di bene comune, ma come condizioni che, più o meno necessarie, sono pur sempre insufficienti.

Ciò precisato, l’idea di bene comune è oggi ancora spendibile a fini pratici? e come delinearne alcune linee guida? Proviamo a ragionarci su.
Personalmente ritengo che, per comprendere correttamente la natura e il significato del bene comune, sia necessario porsi su un altro piano, considerando cioè il bene comune come uno stile di convivenza civile all’insegna del rispetto, del riconoscimento, della responsabilità e della reciprocità.
E’ in tale orizzonte che il bene comune può essere effettivamente perseguito, coerentemente con la sua natura e il suo significato: la natura del bene comune si collega al piano della socialità della persona umana e della sovranità del popolo, per cui la città dell’uomo non è un alveare né un formicaio, e la comunità umana non è una mandria; inoltre il significato del bene comune si collega al piano della sussidiarietà, che consegue alla pluralità delle istituzioni, e alla solidarietà, che sbocca nella fraternità e solidarietà.

Si rende allora evidente che affrontare la questione del bene comune necessita di un approccio pluridisciplinare, che consenta di cogliere la dimensione etica del bene comune nonché le sue motivazioni e applicazioni di carattere politico.
Il bene comune deve tenere conto principalmente di due categorie: da una parte quella di “crisi”, e dall’altra quella di “laicità”, e si tratta di una crisi che è anzitutto assiologica, e di una laicità che è soprattutto metodologica.

Ci piace finire questa breve nota per i lettori di Ferraraitalia con quanto detto a proposito dal nostro Presidente della Repubblica, all’incontro del “Cortile dei gentili” di Assisi: “[…] nel nostro Paese ci si dovrebbe spingere a una larghissima assunzione di responsabilità, a ogni livello della società, in funzione dei cambiamenti divenuti indispensabili non solo nel modo di essere delle istituzioni, ma nei comportamenti individuali e collettivi, nei modi di concepire benessere e progresso e di cooperare all’avvio di un nuovo sviluppo del Paese nel quadro dell’Europa unita, uno sviluppo sostenibile da tutti i punti di vista”.

Gambe gonfie e ritenzione idrica

La ritenzione idrica è un disturbo molto diffuso che colpisce soprattutto le donne. Di per sé la ritenzione idrica non è altro che il trattenimento dei liquidi nel nostro organismo, che si accumulano maggiormente nelle zone della pancia, dei fianchi, delle gambe e nei piedi. Il fenomeno è comunque da non sottovalutare poiché può comportare gravi rischi per la salute.

Facciamo un po’ di chiarezza

Da un punto di vista medico si possono riscontrare diversi tipi di ritenzione:
• c’è un primo tipo di ritenzione idrica, quella circolatoria, che è causata dal malfunzionamento del sistema venoso e linfatico, e che provoca l’accumulamento di liquidi tra una cellula e l’altra, causando tumefazione dei tessuti e conseguente dolore;
• un secondo tipo è la ritenzione idrica dovuta all’abuso di farmaci;
• poi abbiamo una ritenzione idrica di origine alimentare, dovuta ad una alimentazione (eccesso di sodio) e a una condotta di vita scorrette (poca attività fisica e postura sbagliata).
• infine, una ritenzione idrica associata a patologie come insufficienza renale, cardiaca, ipertensione arteriosa, linfedema.

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Gonfiore e dolore, gli effetti della ritenzione idrica sui piedi

Come si manifesta
Quando c’è ritenzione idrica, si nota un gonfiore causato dall’accumulo di liquidi nei tessuti, di fluidi in eccesso. Pancia gonfia, piedi gonfi, caviglie gonfie: ciò comporta anche un aumento di peso e un senso di pesantezza degli arti che può provocare dolore. È bene però sottolineare che non è la ritenzione idrica che porta al sovrappeso, semmai il contrario: il sovrappeso rallenta infatti la diuresi e favorisce la comparsa della ritenzione idrica. Se si preme per alcuni secondi il pollice nella parte anteriore del polpaccio, e rilasciando rimane visibile l’impronta del dito, allora c’è un ristagno e un accumulo di liquidi. Un controllo dal proprio medico è importante per valutare la specificità e la clinica del problema.

Prevenzione
La migliore prevenzione è condurre una vita sana, sommando un insieme di buone abitudini:
• bere molta acqua
• praticare regolarmente dello sport
• seguire una dieta sana e ipocalorica
non fumare
non bere alcolici
• cambiare frequentemente postura e combattere la sedentarietà
• sottoporsi ad un linfodrenaggio delicato e a tecniche fasciali osteopatiche

La natura aiuta

Cibi sani
La natura ci offre molti rimedi naturali per la maggior parte delle malattie e dei disturbi che possiamo contrarre lungo il tempo. L’alimentazione non sempre è sufficiente a risolvere il problema del ristagno dei liquidi, quando si è in presenza di una vera e propria patologia, occorre ricorrere al consulto del medico. Tuttavia, quando il livello della ritenzione idrica non è così avanzato e possiamo gestirla in modo naturale e autonomamente, bisogna rivedere subito il proprio modo di mangiare ed eliminare alcune brutte abitudini. I rimedi contro la ritenzione idrica sono molti ma, se si inizia con l’eliminare il fumo, diminuendo il dosaggio di sale nel cibo e riducendo sostanzialmente e drasticamente l’uso di alcoolici, si avrà già un netto miglioramento agli arti inferiori.
Ci sono alcuni alleati naturali che si possono provare facilmente: è importante consumare molta frutta e verdura, in particolare quella ricca di vitamina C che protegge i vasi capillari, e gli alimenti che facilitano la diuresi, quindi via libera ad agrumi, ananas, kiwi, fragole, ciliegie, meloni.
Durante i pasti utilizziamo con generosità prezzemolo, cetrioli, lattuga, radicchi, spinaci, broccoletti, cavoli, cavolfiori, pomodori, peperoni, patate, ecc. ma tutto nelle giuste dosi, senza esagerare.
Diminuire l’utilizzo di carne, soprattutto se rossa e aumentiamo invece il consumo di pesce. I cibi fritti andrebbero aboliti, come anche lo zucchero bianco e tutti i prodotti di sintesi presenti in commercio. Lo zucchero di canna e il sale integrale vanno bene. Da evitare i succhi di frutta confezionati, ricchi di zuccheri raffinati.

Le erbe
Anche la fitoterapia può aiutare, diverse le tisane efficaci a tale scopo. Le tisane sono utilissime per il nostro organismo in quanto lo purificano, aiutando ad espellere le tossine. Questo consiglio è valido soprattutto per coloro che non bevono molta acqua, grave errore per chi soffre di ristagno linfatico:
centella asiatica: volgarmente conosciuta come “la tigre del prato”, la centella fa parte della famiglia delle Apiaceae e fa parte della tradizione medica indiana. Viene impiegata nei trattamenti che interessano vene, cellulite, crampi ed emorroidi;
mirtillo: i frutti delle piante della famiglia delle Ericacee sono ricchi di sostanze che favoriscono la circolazione sanguigna, in particolare la fragilità capillare;
pungitopo: nome scientifico Ruscus Aculeatus, il pungitopo è un arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Ruscaceae. Presenta dei frutti simili a bacche rosse ed è usato, in medicina, come un ottimo diuretico, antireumatico e antiinfiammatorio. Presenta caratteristiche simili alla vitamina P che rafforzano le pareti dei capillari sanguigni;
vite: i semi di vite rossa sono molto utili in ambito medico, poiché da essi vengono estratti flavonoli (composti di origine naturale), aventi capacità antiossidanti, antiradicali liberi, vaso protettivi, consigliati per combattere le emorroidi e per ristabilire la funzionalità del circolo sanguigno;
• tisane a base di betulla o tarassaco: utilizzate contro la cellulite per le loro qualità diuretiche, drenante linfatiche, antisettiche delle vie urinarie ed anti-infiammatorie;
fucus: queste alghe, appartenenti alla famiglia delle Phaeophyta, sono utilizzate soprattutto come decotti perché lo iodio in esse contenuto stimolano il metabolismo accelerando lo scioglimento dei depositi di grasso;
pilosella: nota come lingua di gatto, presenta proprietà diuretiche e drenanti, che permettono di trattare gli inestetismi da accumuli adiposi e di liquidi, come cellulite, caviglie gonfie, edemi e, per l’appunto, ritenzione idrica.

La cosa migliore è farsi consigliare dal proprio erborista o nutrizionista, in base al singolo problema. E’ consigliato, inoltre, sottoporsi a trattamenti manuali osteopatici come il massaggio drenante e praticare costantemente attività sportiva.

L’amara e dolce resina dell’oblio. ‘Ad ora incerta’ riecheggiano
le parole di Primo Levi

Da BERLINO – È una rarità rivolgere l’attenzione di studioso e letterato all’opera poetica di Primo Levi, più spesso ricordato se non addirittura costretto nelle strette maglie del “sopravvissuto” e del “testimone” del sopravvissuto, quasi come fosse autore esclusivamente del celeberrimo Se questo è un uomo, che per molti aspetti è quasi più un trattato di antropologia (del male) che un’opera letteraria in quanto tale. Alcune degnissime eccezioni sono la felicissima indagine del poeta e saggista Paolo Febbraro (Primo Levi e i Totem della Poesia), recensito da un non meno intenso Matteo Marchesini (qui), che descrive la poesia di Levi in modo folgorante: “una torcia socratica nella notte del male.” Non lontana da queste suggestioni si è segnalata, lo scorso giugno a Bonn, presso la libreria Böttger, una brillante conferenza tenuta dal giovane italianista e ricercatore Marco Menicacci e da Johannes von Vacano, già giovane traduttore del poeta Beppe Sabaste, dedicata appunto all’opera poetica di Primo Levi. Si tratta di un’opera poetica che talvolta è quasi una teologia in versi, davvero il tentativo di una nuova Genesi, dopo che la precedente si è infranta nella Shoah. Menicacci ha giustamente celebrato l’opera poetica di Levi che si situa sempre “ad ora incerta,” ovvero in quell’ora in cui, come afferma il poeta Coleridge da cui è tratta l’espressione, “that agony returns,” torna cioè l’afflizione di ricordarsi come sopravvissuto delle atrocità. È da questo sentimento che sorge una triade di nuovi bisogni antropologici che segnano un doloroso controcanto al “nostos” omerico. Non semplicemente un “ritorno” al pari di Ulisse, bensì un “rincasare” dall’esilio a casa, dove si possa finalmente: “tornare, mangiare, raccontare.” È del resto in questa dimensione immaginaria del “ritorno” che si profila “una valle” misteriosa e sapienziale che fornisce la ripetizione e il rinnovamento della Genesi biblica, come attestano questi versi che giustamente sono stati ricordati come tra i più belli che Levi abbia scritto: “c’è un solo albero vigoroso […] È forse quello di cui parla la Genesi […] Non ha congeneri: feconda se stesso./ Il suo tronco reca vecchie ferite/ da cui stilla una resina/ amara e dolce, portatrice d’oblio.”

IN EVIDENZA
Parla Stefano Bottoni, il papà del Buskers festival: “La mia forza è l’entusiasmo”

SEGUE – Ecco la seconda parte del servizio che ripercorre la storia del Buskers festival attraverso le vicende e le testimonianze dei principali protagonisti. Dopo avere raccolto la voce di Leonardo Rosa, autore del libro “Una strada lastricata di sogni. La vita straordinaria dell’uomo che ha inventato il Ferrara Buskers Festival” ora è il turno degli interpreti, a partire proprio da Stefano Bottoni.

IL PROTAGONISTA: STEFANO BOTTONI

Come hai reagito all’idea di Leonardo di scrivere la tua biografia?
“Inizialmente (e Leonardo lo aveva intuito molto bene) tendevo a mettermi leggermente di traverso, non per ostacolarlo nel suo progetto, quanto per il fatto che non mi sentivo pronto a parlare con lui della mia vita e delle cose che mi sono capitate davanti. Avvenimenti accaduti per una strana magia delle cose se cercate con il cuore libero. Ma questo non lo sapevo.
Poi Lui è riuscito giorno dopo giorno a farmi sorprendere dei tanti miei passaggi cronologici e a farmi aprire tutti (spero) i file della memoria. E’ stato un caterpillar!
E ha avuto ragione…troppo bello stringere tra le mani questo libro con la copertina di Claudio Gualandi (illustratore del logo e dei manifesti del Festival, ndr).

Cosa pensi del libro? Cosa hai provato leggendolo?
Mi ha fatto semplicemente sentire importante, non per il mio piacere personale (anche of course) quanto per i giovani e non giovani, insomma per le persone che hanno sogni e progetti in mente da porre in essere. Viva l’entusiasmo per le cose!

Dopo così tanti anni, tutte queste soddisfazioni, ma anche tante difficoltà, sei ancora motivato a fare il Festival?
Bella domanda! Le motivazioni sinceramente vanno e vengono e se poste bene sul piatto si pongono in senso positivo per andare avanti.
In altre parole dopo 26 anni il mio senso delle cose (mi ripeto ma suona bene così) tende a calare come le palpebre prima di dormire. Ma con un giusto caffè e la giusta idea buona si riparte.
Ci mancherebbe altro che fosse tutto automatizzato e freddo e sinceramente non servono pillole blu per pensare e fare un festival.
Con i ferraresi che durante l’anno ti chiedono le date, il Comune di Ferrara che del Festival ne fa,con grande onore, una motivazione culturale e turistica, i musicisti che da ogni parte del mondo arrivano in questa stra…affascinante città come fai a non essere motivato? Io lo sono, noi lo siamo!

La città è ancora in grado di sostenere questo Festival?
Altra bella domanda, ma da rivolgere alla città! Io credo di sì, con tutte le migliorie.

IL PERSONAGGIO: MONICA FORTI

La giornalista ferrarese, firma di Ferrara Italia, è stata la prima addetta stampa del Festival, come si racconta diffusamente nel libro di Rosa.

“Penso alla prima edizione come a un’esperienza tra le più emozionanti e a una scommessa vinta. So quanto sia impegnativo ricostruire un pezzettino di storia contemporanea della città, forse l’unico attraversato dalla multiculturalità. La presenza di artisti stranieri, il fatto di passare dei giorni con loro e di stringere dei rapporti che poi restano è uno dei lati affascinanti di questa storia, volendo potrei girare il mondo da “ospite” e qualche volta l’ho anche fatto.
E’ un bello scambio, tanto più in un periodo come questo le cui ristrettezze economiche non risparmiano nessuno. In questo il Festival è davvero attuale, nel Dna ha una filosofia low cost, che ha preceduto la disfatta del portafoglio.
Per il Festival c’ero dalla mattina all’alba del giorno dopo. A scrivere, rispondere, organizzare, ballare, ascoltare…un sacco di verbi, un sacco di ricordi.
Ai Buskers devo molto: mi hanno sposata! Mio marito (il musicista e artista di strada Beppe Boron, ndr) l’ho conosciuto al Festival. Posso dire che nella vita privata, ma anche in quella professionale hanno contato moltissimo. Una traccia indelebile.

Far conoscere un evento del genere all’inizio non deve essere stato cosa da poco.
La comunicazione nel caos allegro e talvolta esagerato di una manifestazione tanto cresciuta con gli anni è faticosa, ma dà anche molte soddisfazioni. Il primo anno far parlare del Festival non fu una cosa semplice, ma l’insistenza, la novità e la voglia che se ne parlasse hanno dato il risultato sperato dalla Rai a Red Ronnie, che girò un sacco di cose e non ne fece niente. Mah?! Il Ferrara Buskers fu anche l’occasione di uno dei miei primi servizi su un giornale mito nazionale Frigidaire, il top dell’alternativa dell’informazione in controtendenza, andai a Roma a proporlo a Vincenzo Sparagna, che forse aveva più naso di Red Ronnie e lo pubblicò con le foto in bianco e nero di Beppe Benati. Gli altri nove anni sono stati più professionali, venivo dalle redazioni, dal quotidiano, periodico, sapevo un po’ meglio come muovermi e cosa volevano i giornalisti. Curiosavo dentro il Festival per trovare storie, strumenti strani e progetti particolari, coordinavo interviste a radio e cercavo luoghi adatti alle troupe le riprese di approfondimenti. Sempre sul filo dell’emergenza. Un bella palestra. Umanamente è stato un arricchimento, delusione incluse quando si sono presentate. Nulla è mai idilliaco. Certi artisti sono bravi ma capricciosi e prigionieri di un individualismo eccessivo, certi giornalisti sono indisponenti, supponenti, impreparati e maleducati. Si deve respirare profondamente per non mandarli affa. Naturalmente è capitato, non spesso ma è successo, in ogni caso mai al primo contatto. Altri sono carini e quando capita ci si sente con piacere.

Com’è stato il tuo rapporto col “capo” Stefano Bottoni?
Stefano, come ho avuto modo di scrivere in Fiori di Zucca, va letto come un libro. Dietro ogni metafora c’è un mondo il cui accesso è possibile solo attraverso alla conoscenza, alla frequentazione. Ha una visione sua e devo dire che è una delle poche persone riuscite a darle concretezza. Tanto di cappello, non è da tutti, del resto non a tutti viene in mente di mettere insieme il museo dei tombini di tutto il mondo e naturalmente il festival. Il nostro è un buon rapporto e tra i miei ricordi c’è un viaggio a Dublino con tanto di ritiro di tombino e visita alla residenza del sindaco, raramente mi sono divertita tanto. Un’avventura vicina al teatro dell’assurdo di quelle da pizzicarsi per capire se quanto succede intorno è reale o meno. Una cosa è certa, quando Stefano si mette in testa una cosa, riesce a realizzarla con il suo modo e il suo metodo. E con la camicia a fiori sempre addosso. E’ un uomo colorato e molto determinato. Abbiamo condiviso molto negli anni, a cominciare dalla prima storica edizione, un legame per sempre. Difficile a parole dare connotati a un’emozione tanto forte come quella di allora. Non si era soltanto giovani o più giovani, si era vivaci e propositivi. Si è costruito, tant’è che il festival c’è ancora ed è conosciuto ovunque.

Consigli per le prossime edizioni?
Mi piacerebbe si potessero aprire i giardini delle case per creare nuovi spazi, che meglio si presterebbero a valorizzare generi musicali come la classica e il jazz. Sarebbe gradevole per gli artisti e il pubblico che nel guardarsi intorno scoprirebbe una Ferrara inedita e bellissima.

IL FESTIVAL: ANTEPRIMA 2014

Il Festival quest’anno si svolgerà dal 21 al 31 agosto con varie tappe.

21 agosto: Venezia.
22 agosto: Comacchio.
23 e 24 agosto: Ferrara.
25 agosto: Lugo.
26 – 31 agosto: Ferrara.

Questa edizione sarà dedicata alla Mongolia.
Ecco alcune anticipazioni in esclusiva dagli organizzatori.

“Mistica ed incantata, la musica della Mongolia sembra raccontare lo spirito della natura, il ritmo incalzante del vento. Anima nomade ben incarna l’essenza girovaga degli artisti del Ferrara Buskers Festival. Sul palcoscenico open air saranno almeno quattro i gruppi, diversificati per stili musicali, che dalla capitale mongola Ulan Bator arriveranno a Ferrara, grazie alla collaborazione del Ferrara Buskers Festival con l’Ambasciata mongola in Italia e Nomad Adventure. Saranno protagonisti tra i 20 gruppi invitati della manifestazione e tra i circa 1000 artisti accreditati che ad ogni edizione trasformano il centro storico cittadino in un pianeta multietnico e multi-sonoro tra la curiosità e il coinvolgimento di un pubblico sempre più numeroso.
A dare ufficialità al gemellaggio tra il festival e la Mongolia, ci sarà anche S.E. Shijeekhuu Odonbataar, l’ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Mongolia in Italia. Potrà ascoltare con gli spettatori tra le vie e le piazze della città estense – accompagnato dal Direttore Artistico e Ideatore del Ferrara Buskers Festival Stefano Bottoni e dal Direttore Organizzativo Luigi Russo – i ritmi etno jazz di Arga Bileg e i suoni etnici e raffinati dell’ensemble di sole donne di Hulan (che ha già partecipato al Festival nel 2008), in un insieme di musica, danze e contorsionismo. Oppure soffermarsi davanti ad un trio di classica o al risuonare di un canto armonico overtone.
Un Festival sempre più green grazie all’anima ecologica della manifestazione, che torna con il riuscitissimo Progetto EcoFestival – all’insegna di azioni sostenibili per vivere la rassegna – rinforzato dalla certificazione Iso 20121 e dal prestigioso Premio CulturaInVerde ottenuto alla fine del 2013”.

Il programma è ancora in via di definizione e sarà ufficializzato a fine luglio, intanto si possono seguire tutte le novità sul sito: www.ferrarabuskers.com.

E col Buskers festival la musica di strada divenne evento internazionale

A poco più di un mese dal Buskers Festival, esce un libro che racconta la sua storia e quella del suo ideatore. L’intervista ai protagonisti e l’anteprima esclusiva dell’evento.

Dopo 27 anni di convivenza si tende a dare una relazione per scontata, si pensa che non possa più riservare sorprese. Che starà sempre lì, immutabile. Le cose straordinarie che si hanno davanti non si vedono più.
Però per fortuna a volte accade qualcosa che ci ricorda che quel che si ha accanto va amato e custodito perché è raro e prezioso e non è dovuto, ma va costruito ogni giorno.
Questo è il merito del libro di Leonardo Rosa, “Una strada lastricata di sogni. La vita straordinaria dell’uomo che ha inventato il Ferrara Buskers Festival”, da poco uscito per Pendragon.
Se si è ferraresi, si rischia di avere reazioni stanche al festival, quando non infastidite per la pacifica invasione che comporta. Non si pensa più a che incontro incredibile sia stato quasi trent’anni fa, quello tra una città allora povera di eventi culturali come Ferrara, un fabbro musicista visionario, e l’arte di strada. Così la biografia romanzata di Stefano Bottoni, ricostruita dal giornalista ferrarese, finisce con l’essere un monito savonaroliano a rinnovare l’amore per l’appuntamento musicale che ha reso la città estense famosa in tutta il mondo.
Se vi avventurate tra le pagine con la diffidenza tipica dei ferraresi che leggono di altri ferraresi, sarete presto costretti ad abbandonare ogni resistenza, perché la prosa è agile, vivace e acuta.
Rosa ripercorre la vita di Bottoni partendo dall’oggi, con l’espediente di una visita al museo dei tombini, l’ultima delle sue follie. Da lì inizia il racconto in flashback della Ferrara anni ’60, con le band di adolescenti che scoprivano il rock’n’roll nei garage tra le biciclette accatastate, e chiamavano il loro gruppo “Rovine cadenti” emulando i Rolling Stones. Ci sono i primi passi di Stefano nel mondo della musica, quando inizia a suonare la chitarra e comporre versi, tra le frequentazioni parrocchiali, guidato dalla figura di don Patruno e la rivoluzione del ’68, che gli ispira il brano “Fabbrica astrale”, portato alla ribalta dal suo gruppo Folk Studio. Poi ci sono gli anni ’70 con l’attività di fabbro nell’officina padre, e il fondamentale incontro con la futura moglie Enrichetta, da allora sempre al suo fianco nell’organizzazione del Festival. E si arriva al momento cruciale nel 1987, quando in un paio di occasioni Bottoni assiste alle estemporanee e suggestive esibizioni di musicisti nelle vie del centro e inizia a sognare di creare un evento tutto per loro in quel palcoscenico naturale che è la città. La spregiudicatezza e la disponibilità economica dell’amministrazione Soffritti, l’appoggio dell’allora esordiente consigliere d’opposizione oggi ministro Dario Franceschini, hanno creato la tempesta perfetta per far partire lo stesso anno il primo Buskers Festival di Ferrara, benedetto l’anno dopo dall’esibizione a sorpresa di Lucio Dalla.
Stefano Bottoni è un nostrano Steve Jobs, suggerisce lo speaker radiofonico Maurizio di Maggio nella prefazione al libro, anche lui partendo da un garage è riuscito a realizzare un sogno, con passione e tenacia.
Proprio questa visionarietà ha convinto Leonardo a scrivere la storia di Bottoni.

L’AUTORE: LEONARDO ROSA

“L’idea è nata quasi per caso, circa due anni fa – ci ha raccontato l’autore – conosco Stefano Bottoni dal ’96, anno in cui ho iniziato a collaborare col il Ferrara Buskers Festival, accompagnando gli artisti alle loro postazioni musicali. Da allora non ci siamo mai persi di vista. Lo considero una persona “visionaria”, che sa scorgere oltre l’apparenza delle cose e al contempo riesce a essere decisamente testardo e pragmatico nel realizzare i suoi progetti. D’altronde credo sia totalmente fuori dal comune un personaggio che è al tempo stesso musicista, compositore, scultore, ideatore di alcuni importanti festival artistici, collezionista di oltre 150 tombini… Quando un giorno, dopo l’ennesimo aneddoto, mi disse: “Sulla mia vita ci si potrebbe scrivere un film”, io gli risposi: “Prima però occorre scriverne la storia”, incontrando di fatto il mio desiderio di scrivere un libro.

Quanto tempo ci è voluto per raccogliere le memorie che sono confluite nel libro?
“All’incirca due anni, non è stato un lavoro fluido, più che altro perché, dovendo seguire vari progetti lavorativi, ho dovuto relegare il libro al tempo libero. Poi c’è voluto un paziente lavoro di ricostruzione, dovendo intervistare, oltre il protagonista, anche tanti altri personaggi e andando a recuperare parecchi giornali per una storia che copre un arco temporale di circa 50 anni.

Quante persone sono state intervistate? Tutti disponibili?
“Ho contato una trentina di interviste a persone diverse, devo dire che son stati tutti gentili e disponibili con me, compreso l’attuale ministro Dario Franceschini che ha rivestito un ruolo importante per la nascita del Ferrara Buskers Festival. Non è stato ovviamente semplice contattare persone che risiedono il altre città, ma alla fine sono molto contento del risultato, con un solo rimpianto. Purtroppo non ho fatto in tempo a intervistare Lucio Dalla, dopo aver contattato la sua segreteria”.

Ci sono elementi di finzione in mezzo alle ricostruzioni storiche?
“Tutti i fatti raccontati sono veri: dal coinvolgimento di vari personaggi famosi, ai tanti progetti che Stefano è riuscito a portare a termine. Ho inventato alcuni personaggi per esigenze di trama, oltre al fatto che alcuni reali protagonisti delle vicende sono scomparsi, quindi per correttezza non li ho citati con i loro veri nomi”.

Come sei arrivato a scegliere quali dei tanti momenti includere e quali no?
“Mentalmente conoscevo le tappe salienti della vita di Bottoni, vale a dire i traguardi importanti che il protagonista ha raggiunto. Il resto sono stati tanti aneddoti emersi, anche casualmente, nel corso delle interviste con Stefano. Ne cito uno su tutti: alla stazione di Ferrara, agli inizi degli anni 70, Bottoni si imbatte in un giovane Francesco Guccini e gli dà un passaggio fino a Vigarano Mainarda dove doveva suonare. Un surreale viaggio a bordo di una Mini Minor che pareva ancor più minuscola con a bordo un omone di un metro e novanta come Guccini!”.

Il lavoro di ascolto e di riscrittura è molto lungo, richiede molta pazienza, molto tempo. Hai mai dubitato di farcela?
“Stefano, da vero artista, si esprime in modo singolare, perdendosi in digressioni lunghissime. trovare la sintesi è stato il compito più difficile. La trama è venuta da se. Il momento trepidante per uno scrittore al suo primo esperimento letterario è quando il lavoro viene spedito ai vari editori. Un progetto su cui ci si crede tanto non è detto possa conquistare i destinatari e, in ogni caso, il responso può arrivare dopo mesi. Ho avuto la fortuna che nel giro di pochi giorni mi abbiano contattato tre case editrici. Quella che mi ha convinto maggiormente è stata Pendragon e ora eccoci qua!”.

Quali sono state le reazioni delle persone coinvolte quando hanno letto il romanzo?
“Sono molto attento ai pareri dei lettori, anche in virtù del fatto che è il mio primo libro.
Le reazioni per il momento sono state molto positive. L’obiettivo era quello di raccontare una storia vera in modo fluido e leggero. Se ci sono riuscito devo ringraziare un carissimo amico, coinvolto all’inizio di questo progetto: Alessandro Gelli. Lui mi suggerì di evitare una cronistoria, ricorrendo a un espediente tratto, anche in questo caso, dalla realtà: cinque ragazzi in visita al Museo delle Ghise di Bottoni, un luogo che, oltre ai tombini, contiene tantissimi ricordi della vita di Stefano. Locandine dei primi concerti, sculture in ferro, moltissime foto di luoghi esotici. Questi curiosi visitatori rivolgono molte domande al padrone di casa, fornendo il modo di suddividere la storia in sette capitoli tematici”.

Tu e l’editore non temete che sia una storia troppo ferrarese per avere mercato al di là della città?
Sia io che l’editore non lo riteniamo un limite, anzi. Sento tante persone che non abitano da queste parti, considerarsi innamorate di Ferrara. Non è un caso sia una delle città più sfruttate per ambientarvi film e fiction TV. Inoltre alcuni episodi della storia si svolgono all’esterno, come l’incontro tra Bottoni e Compay Segundo all’Havana, o l’individuazione del primo dei 150 tombini, avvenuta a Praga. Altre vicende coinvolgono personaggi di un certo calibro. Credo sia curioso, per esempio, leggere che Lucio Dalla nel 1987, all’apice della carriera dopo il successo internazionale di Caruso, un pomeriggio d’autunno bussi all’officina di uno sconosciuto fabbro ferrarese. Così come è singolare che, una volta che i due furono diventati amici, lo stesso Dalla chieda di suonare in incognito al neonato Ferrara Buskers Festival, e al tempo stesso, nel dietro le quinte, sia assolutamente impaurito prima di affrontare quest’avventura…”.

Qual è il tuo legame con il festival? Ci lavorerai anche quest’anno?
Sarò impegnato in prima persona nel presentare ‘Storie di Buskers’ un momento quotidiano di approfondimento dove un gruppo di invitati racconterà al pubblico le proprie esperienze, tra cui la scelta di diventare artisti di strada. Dopo aver letto le voluminose rassegne stampa sui primi anni del festival e aver raccolto le testimonianze di organizzatori e pubblico, è stato emozionante constatare la crescita esponenziale di questa manifestazione negli anni. I ferraresi, come noto, sono molto diffidenti. Vedere questi ‘forestieri’ invadere la città, per la prima edizione è stato qualcosa che generò subito estrema diffidenza, malgrado si esibissero anche musicisti di grande spessore. Nel corso di un’intervista il giornalista Rai Filippo Vendemmiati mi raccontò che, dopo aver girato il primo servizio sui Buskers per il Tg2, il giorno successivo alla messa in onda l’atteggiamento dei nostri concittadini cambiò radicalmente: i ferraresi si resero conto di avere in città un evento bello, originale e coinvolgente, testimoniato da centinaia di migliaia di turisti in arrivo.
Inoltre venerdì 29 agosto ore 18, Libreria IBS, Piazza Trento e Trieste ci sarà la presentazione del libro “Una strada lastricata di sogni”, con la partecipazione del Sindaco Tiziano Tagliani e di alcuni artisti del Ferrara Buskers Festival.

Infine una nota biografica, la dedica iniziale è per un nascituro e la sua mamma, tuo figlio?
Si! L’arrivo di Giacomo è previsto tra qualche giorno…

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L’utopia e le vendette della Storia

Nella condivisione dell’articolo di Michele Serra apparso ieri su “La Repubblica” con un titolo fuorviante (“La campionessa della destra che vuol comprare L’Unità”) c’è tutta l’amarezza di chi vede estinguersi momenti nobili della nostra vita democratica ora spendibili per operazioni politicamente ma soprattutto eticamente scorrette. La domanda è: che se ne fa la campionessa della destra più bieca e intollerante, la Daniela Santanchè dal dente vampiro, del giornale fondato da Gramsci? Una vendetta sulla Storia o un abile momento di pubblicità, sapendo la suddetta che mai le maestranze e i giornalisti della gloriosa testata avrebbero permesso una simile indegna contrattazione? La stessa domanda che il bravo Serra si pone: “Sbalorditivo perché Santanchè, tra i tanti difetti, ha sempre avuto il pregio di una schietta faziosità, donna di destra dal rossetto ai tacchi, dai sentimenti – è la compagna del feroce Sallusti – all’eloquio da parà (chiedo scusa ai parà, n.d.r)”. Le soluzioni proposte da Serra variano da un’idea sadomaso (“ti compero perché voglio che agonizzi tra le mie braccia)” oppure volontà di raddrizzare la schiena ai “comunisti”. Ma se sono ipotesi condivisibili non mi pare svelino il misterioso motivo e lo centrino. Molto più normalmente la signora ha trovato un mezzo assai ingegnoso di farsi pubblicità “a gratis” e nello stesso tempo rinfocolare gli spiriti depressi dell ex Cav. Molto più banale: la banalità del male politico.

La storia, comunque si evolva, porta a termine nella lunga durata processi, intenzioni, opere e giorni e noi, la generazione che è cresciuta nel mito e nella convinzione della sinistra, si è nutrita di quelle letture anche quando talvolta riflettevano un pensiero massimalista che non era il nostro: dalle note togliattiane a certe insofferenze verso la libertà dell’arte e della cultura e in anni non felici a un omaggio più formale che reale all’ideologia dell’impero russo. Però intere generazioni di scrittori hanno visto in questo foglio il senso di una libertà intellettuale inscalfibile. Ora un libro spiega le ragioni e i perché di quel “fascismo di sinistra” che avrebbe prodotto i massimi scrittori del dopoguerra. Una tesi assai azzardata com’era azzardato pensare che chi scriveva per i compagni, come Cesare Pavese nei suoi celebri articoli sull’Unità, non potesse avere un pensiero libero e europeo come espresse nei contemporanei Dialoghi con Leucò.

Che sa di tutto questo la Santanchè? Come si permette di digrignare i suoi candidi denti pensando di umiliare quel giornale che fa parte della Storia senza (forse) conoscerne il peso e il senso nella evoluzione della storia italiana?

Mi commuove pensare come tanti amici e colleghi futuri, alla domenica, mentre io da borghese socialista li sollecitavo per l’aperitivo in piazza, rispondevano che dovevano distribuire l’Unità. Allora lo trovavo perlomeno un atteggiamento un po’ fanatico. Ora lo trovo nobile e pulito.

Ma al solito la domanda che mi viene spontanea è: “Come mai l’attuale dirigenza politica che si dichiara di sinistra non ha reagito a questa provocazione? “ E’ tutto lecito pur di non scalfire i patti del Nazareno?

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Un biglietto da ‘Visit’ per il turismo a Ferrara

Un anno di vita, un GuestBook con consigli utili per i turisti in tre lingue, due portali a settembre e una scomessa: passare da 70 a 100 soci nel prossimo anno. E’ l’obiettivo del consorzio Visit Ferrara, rete di operatori turistici formato da agenzie, camping, alberghi e associazioni deciso a viaggiare solo, ma contando su tanti, per vendere soggiorni in tutta la provincia, dalla città al mare. Catturando diversi target di viaggiatori dediti al cicloturismo, al turismo lento, culturale, enogastronomico e naturalista. Il tutto con offerte personalizzate cui Visit – in un momento di transizione per la Provincia in metamorfosi – garantirà la commercializzazione . “Un progetto che ci è piaciuto molto, condiviso fin dal primo momento con operatori e Camera di commercio che hanno contribuito alla sua realizzazione – spiega l’uscente presidente della Provincia, Marcella Zappaterra”. Un progetto dall’anima continentale. “Segue le indicazioni dell’Europa favorevole alle reti di aziende”. E magari, rispettandone le indicazioni, c’è pure la possibilità di portare a casa qualche finanziamento per un angolo di Emilia-Romagna ancora lontano dal registrare un numero di pernottamenti, le cosiddette presenze, capace di sostenere l’industria del turismo.

Le speranze non mancano. «Il consorzio – ha spiegato il presidente Franco Vitali, titolare del camping Florenz di Lido degli Scacchi  – dimostra la validità della collaborazione di molti nel mettere in campo iniziative mirate. E’ una strategia che aumenta il valore della destinazione, l’attrattiva di tutta la provincia, concepita come una cosa unica ma con differenti peculiarità, capaci di soddisfare tutto l’anno diversi tipi di target turistico italiano e internazionale. Uno dei nostri obiettivi è trasformarci in una meta sempre più ambita, puntando su nuove idee, progetti e scelte condivise». Ma soprattutto sulla moltiplicazione delle presenze, attualmente 5 milioni, che hanno bisogno dello stimolo di eventi solleticanti.

Dal Ferrara Buskers Festival al Summer di Comacchio, tutto è benvisto pur di attirare il turista per una breve vacanza. Ma i problemi non mancano, primo tra tutti a Ferrara si pone quello della chiusura autunnale del Palazzo dei Diamanti, il nostro biglietto di presentazione nel mondo che, per quel po’ che ci conosce, ci apprezza per l’etichetta di città rinascimentale incoronata da Unesco. “La mancata stagione autunnale ai Diamanti ci mette in difficoltà, non è un segreto – dice Matteo Ludergnani, vice presidente del Consorzio – Si dovrà creare una campagna di comunicazione, nella quale vorremmo essere coinvolti, per far comprendere l’importanza del Castello Estense quale spazio museale, dove ammirare i quadri della pinacoteca”. Operazione sul filo del rasoio in attesa delle grandi mostre del 2015 di FerraraArte di cui si riparlerà in aprile, nel frattempo nessuna sospensione della tassa di soggiorno pensata per sostenere le attività espositive. “Perdiamo l’autunno, spostiamo la stagione fino a lambire il mese di luglio”, continua Ludergnani.
Doppia scommessa con salto carpiato. Si fatica a pensare a luglio e agosto come ai mesi migliori per un soggiorno in città, dove di norma l’afa regna sovrana. Più che un rischio calcolato sembra un rischio imposto dagli effetti minacciosi. Non si può ignorare che in cinque anni Ferrara ha perso 80mila presenze. La causa? Crisi, riduzione del numero delle fiere di Bologna i cui clienti spesso pernottavano a Ferrara e da ultimo, ma non ultimo, il terremoto ci hanno fatto arretrare nella graduatoria del gradimento turistico nonostante l’abbassamento dei prezzi di permanenza. Se poi si aggiunge la concorrenza culturale delle mostre di Bologna e Rovigo, l’assottigliamento del patrimonio artistico con musei e chiese danneggiati dal sisma, appare chiaro come la programmazione dei lavori ai Diamanti diventi uno scoglio pericoloso da superare. Recuperare con la comunicazione sarà una dura impresa, senza contare che l’occupazione e l’indotto diretto e indiretto collegati al museo per eccellenza, subirà un contraccolpo. Ma su questo, numeri e previsioni non se ne fanno.

Se un milione (di licenziati) vi sembran pochi

“Se l’Europa facesse un selfie avrebbe il volto della noia” ha detto il nostro presidente del Consiglio in una sede autorevolissima pochi giorni or sono.
Non oso pensare come sarebbe il selfie dell’Italia dopo l’intervista rilasciata ieri alla stampa dal suo ministro degli Interni, nonché capo della seconda forza di governo, Angelino Alfano.
Il baldanzoso ex enfant prodige di Berlusconi avanza tre proposte davvero innovative per l’agenda dei prossimi “mille giorni” del governo Renzi.
Punto 1, meno tasse (manca solo il “per tutti” per riportarci al fortunato slogan di una campagna elettorale di diversi anni fa).
Punto 2, meno burocrazia (ben detto, ma anche questo sembra di averlo già sentito).
Ma il punto delle meraviglie, la grande innovazione capace di proiettare il nostro Paese nel futuro è sicuramente il terzo: nientepopodimeno che l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori! Quello – lo ricordo per i più distratti – che prevede che il licenziamento illegittimo non è valido.
Altro che noia, qui siamo proprio al senso di nausea!

Il ministero del Lavoro ha certificato nei giorni scorsi che in Italia da quando c’è la crisi vengono licenziati ogni anno più o meno un milione di lavoratori dipendenti. Un milione ogni anno! Non male su una platea complessiva di meno di 17 milioni di lavoratori dipendenti!
Nel 2013 i licenziati sono stati per l’esattezza 923.250, comprensivi di tutte le forme di licenziamento: per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo), per giusta causa o per licenziamento collettivo. Nel 2012 erano stati anche di più: 1.038.142.
In più sarebbe interessante sapere quanti dei tantissimi (1.435.395!) che si sono dimessi di propria iniziativa l’hanno fatto davvero spontaneamente e non perché magari sono stati messi nelle condizioni di doverlo fare o addirittura perché avevano firmato in partenza una lettera di dimissioni in bianco, pratica ancora – ahimè! – molto diffusa.
Anche a Ferrara, nel nostro piccolo, non scherziamo: 3.700 licenziati nel 2013, ai quali vanno aggiunti circa 3.900 dimissioni volontarie. Licenziamenti e dimissioni che contribuiscono all’impennata record del tasso di disoccupazione provinciale, di cui oggi si accorge anche la stampa locale, dopo la pubblicazione di una indagine del Sole 24 Ore (noi avevamo già commentato la notizia nel marzo scorso, quando fu pubblicato il dato Istat [leggi].

Ebbene, di fronte a questi dati assai eloquenti, o meglio: ignorando e sottacendo questi dati, come fanno del resto abitualmente anche i grandi mezzi di comunicazione, si continua a raccontare che il problema del nostro mercato del lavoro starebbe nella difficoltà a licenziare e che quindi bisognerebbe abolire ogni residua per quanto fragile protezione di cui ancora “gode” una parte dei lavoratori nei confronti di un licenziamento totalmente immotivato. Così da superare – come ci spiegano da anni quasi quotidianamente gli onorevoli Sacconi e Ichino – il loro “ingiustificato privilegio” nei confronti di chi è privo anche di quella protezione.
Cioè: se io ho un ombrello e tu no, meglio che ci rinunci anch’io, così ci bagniamo insieme. Mal comune, mezzo gaudio. Ma non si gode poi tanto, soprattutto al pensiero che poi c’è qualcun altro che dell’ombrello non ha nemmeno bisogno, perché se ne sta comunque ben riparato al caldo.

Il costo dell’ignoranza

«Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza». Questa frase pronunciata da Derek Bok, quando era rettore di Harvard, sintetizza bene il lavoro di Giovanni Solimine, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Editori Laterza.
Pagina dopo pagina, dati alla mano, quelli dell’Ocse, Solimine traccia il profilo di un Paese, il nostro, senza sapere. Povero di competenze funzionali, debole per qualità del capitale umano, per la sua scarsa ‘manutenzione’, così nel tempo l’emergenza formativa si è tradotta in ‘costo dell’ignoranza’ che la nostra società non è in grado di sopportare.
Dirigenti, imprenditori e professionisti leggono meno dei loro dipendenti, se si tiene conto di tutti i generi di lettura, non per scarsità di tempo libero, ma per la tipologia piuttosto ‘limitata’ dei loro interessi culturali. Ne derivano per il paese bassi livelli di sviluppo, scarsa produttività, debole innovazione, oltre a costi individuali e sociali.
Nel Bel Paese, culla dell’arte e della cultura, nessun museo figura tra i dieci più visitati al mondo. I Musei Vaticani sono al sesto posto, ma non sono italiani. Bisogna scorrere fino al ventunesimo posto per trovare la Galleria degli Uffizi, il primo degli italiani.
La scuola non prepara, le imprese sono arretrate e per questo sempre meno competitive. Il nostro, è il paese dello scarso investimento in capitale umano, della crescente sfiducia che l’istruzione possa rimediare alle diseguaglianze tra le persone e tra le generazioni.
Una società poco ‘colta’ è destinata ad essere costantemente in affanno rispetto alle sfide della contemporaneità. Cultura, scrive Solimine, non è il possesso di nozioni, «ma la capacità di orientarsi in un contesto, di comprendere le logiche di riferimento e di incidere su di esse, di fronteggiare le situazioni di fronte alle quali l’esistenza ci pone quotidianamente».
L’Italia sconta ancora lo scotto di un processo di scolarizzazione e addirittura di alfabetizzazione lento e tardivo. Perché un buon sistema scolastico costa, richiede cura, costanti investimenti, la sistematica valutazione dei risultati. Ma il prezzo che si paga per l’ignoranza è di gran lunga maggiore e ha pesanti conseguenze.
In tanto la dispersione scolastica. Può essere calcolata in un costo di circa settanta miliardi all’anno, pari al 4% del PIL.
L’insufficienza delle politiche scolastiche e per l’infanzia. È ormai dimostrato che la frequenza dell’asilo nido produce effetti di lungo periodo, che giungono a influenzare i voti alle scuole superiori e all’università, fino a tradursi in una migliore riuscita sul mercato del lavoro.
I nostri ministri che vogliono ridurre la durata scolastica sappiano che un anno di più di scuola riduce del 30% il numero degli omicidi, la probabilità di ammalarsi e di ricorrere con ritardo alle cure mediche. Insomma se sul piano individuale i prezzi dell’ignoranza sono alti, sul piano sociale sono semplicemente catastrofici, la stessa qualità della democrazia diminuisce, con gravi danni per il benessere collettivo.
L’Italia ha disinvestito negli anni scorsi in istruzione. Sono diminuiti di molto gli investimenti in scuola e università, soltanto la Grecia e il Portogallo hanno fatto peggio di noi.
Mentre il paese costringe molti dei suoi laureati ad emigrare, abbiamo necessità come dell’ossigeno di una generazione nuova di ‘lavoratori della mente’ a tutti i livelli, a partire dagli insegnanti. Professionisti interessati ad approfondire costantemente i contenuti scientifici della propria attività, desiderosi di sfuggire a una piatta impiegatizzazione, di mettere le proprie competenze a disposizione della comunità, a partire dal luogo in cui sono chiamati ad operare.
Il libro di Solimene racconta di conoscenza e di come conosciamo. Dell’accesso alla conoscenza, della padronanza degli strumenti attraverso cui selezionare, utilizzare, rielaborare i contenuti. Oggi come non mai la conoscenza è benessere individuale e collettivo, un benessere che non si misura con il reddito, ma in primo luogo nella possibilità di stare bene, di vivere responsabilmente in mezzo agli altri, di essere inseriti in un tessuto sociale forte e coeso.
Pagine ricche di spunti per chi abbia voglia di riflettere sul proprio mestiere di insegnante e di studente, per quanti ritengono che la conoscenza non ha età, non ha fasi della vita, ma la accompagna in ogni istante. Pagine che inducono a riflettere sull’inadeguatezza del nostro sistema formativo, su come ormai siano segnati dal tempo le liturgie e i riti che ancora in esso ogni giorno si celebrano. Un’idea di conoscenza a cui è connaturata la dimensione della rete, propria di questo nostro secolo ventunesimo. Una conoscenza che non riguarda solo chi esercita le tradizionali professioni intellettuali, ma il cui uso viene richiesto quotidianamente nelle più diverse circostanze a tutti i cittadini.
Le dimensioni di questa comunità, di questo ‘luogo di cittadinanza’ per lungo tempo sono rimaste troppo circoscritte e la porta per farvi ingresso alquanto stretta.
Anche noi con Solimine condividiamo le parole, poste in epigrafe al libro, che la giovane Malala Yousafzai ha pronunciato innanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «Un bimbo, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo».

Scuola: lettera aperta contro i quaderni con le anelle

da: Giorgia Giordano

Nella migliore delle ipotesi i buchetti rotondi che forano le pagine si sbrindellano un po’. Ma quasi sempre gli angoli sono spiegazzati, la carta messa a dura prova da frettolosi inserimenti all’interno di un libro in attesa di successivi trasferimenti, i quadretti e le righe deformati da improprie fermate e scontri all’interno di zaini stracolmi, i contenuti martoriati da innumerevoli entra-ed-esci dai loro duri e spigolosi contenitori.
Quello di cui sto parlando sono i fogli dei quaderni con le anelle: croce di noi genitori ed ex alunni; ma, a quanto pare, delizia incontrastata degli insegnanti di tutti questi ultimi, svariati decenni.
Perché a scuola non si possono usare dei banali, semplici, funzionali quaderni? Che colpe devono scontare i vecchi, classici blocchi di carta raccolti e legati in una copertina di cartoncino? Sono sottili; obbligatoriamente ordinati; pensati per far sì che i fogli si proteggano l’uno con l’altro; propensi automaticamente a mantenere l’ordine cronologico di quello che, via via, ci scrivi sopra. Poi sono meno invasivi e violenti all’interno di zaini e contenitori, rispetto a quei loro cugini armati di cartone plasticato e anelle in acciaio, che sono – appunto – i quaderni con le anelle.
Il problema – pare – è che, se manchi un giorno o se una lezione alterna spiegazioni di algebra con quelle di geometria, il foglio provvisto di buchi ti consentirebbe di inserirlo qua e là più facilmente. Sono dunque più flessibili, ancorché precari. Forse una metafora che, già nei nostri apparentemente floridi anni Ottanta, doveva farci intravedere il futuro verso il quale stavamo approdando: flessibilità e precarietà. Con la flessibilità che troppo spesso affida a un indefinito momento futuro l’occasione di porre certezze, fissare paletti, avere punti fermi.
Eppure non basta questo strumento (di tortura cartaria). Le giornate scolastiche sono dispensatrici di ulteriori fogli raminghi, affidati alla mercè di libri e cartelline, in balia di camerateschi spintoni e ammassamenti all’interno di bus e bauli d’automobile. Nel corredo di ogni allievo fin dai primi anni di vita scolastica abbondano, infatti, le famose fotocopie, fornite per arricchire e integrare i libri di testo. Di solito questo comporta, a monte, una colletta da parte di rappresentanti di genitori, incaricati di finanziare l’istituto scolastico, che non avrebbe abbastanza risorse per l’acquisto di fogli A4 e relative fotocopie. Che alla fine riescono comunque, sempre, ad essere prodotte e distribuite. Per andare a ingorgare le pagine dei libri stessi, alla ricerca di un ordine temporaneo all’interno di buste trasparenti (a loro volta dotate di buchi) da inserire nei famosi quaderni con le anelle. Il fine ultimo delle fotocopie è quello di intercettare ragazzi o adulti che possano ridare un po’ di tregua al loro sfortunato destino e che accarezzino con un po’ di compassione la piega alle orecchie stropicciate delle loro vulnerabili estremità. Il continuo fuoriesci dalle pietose buste trasparenti – a scopo di lettura, ripasso e apprendimento – tende comunque a rimettere a repentaglio l’incolumità, che si era faticosamente cercato di dare ai fogli fotocopiati. Alla fine di ogni anno scolastico, dunque, ci ritroviamo a contemplare pile di materiale cartaceo farcito e imbottito, che provoca insani mal di pancia, improprie voglie di falò e sensi di colpa per volerci sbarazzare di qualcosa che sentiamo che si dovrebbe, invece, vezzeggiare e blandire come un cimelio di infanzia o gioventù.
Le scuole sono finite, le nuove classi vengono formate, tra un paio di mesi gli scaffali di cartolerie, mercati e supermercati torneranno a riempirsi di materiale scolastico di cui fare incetta. Speriamo che questa sarà, finalmente, la volta buona: che faremo acquisti destinati ad essere valorizzati e curati, che i fogli che si riempiranno di nozioni restino lisci e ordinati, che le deboli anelle di carta non si frantumino, che magari ci sia qualche vecchio e classico quadernino in più. Buone vacanze!

‘Pedalarte’, una buona idea
per valorizzare la cultura
e promuovere l’uso
della bicicletta

“La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”. Albert Einstein

Pedalarte, ovvero le visite guidate di Milano in bicicletta, rappresenta un buon esempio di come si possa coniugare, sapientemente e intelligentemente, cultura, arte e forma fisica. Mens sana in corpore sano.
L’iniziativa nasce dall’unione (che anche qui fa la forza) di BioEcoGeo, rivista in edicola dal 2009 che tratta temi ambientali, e di Milanoguida, un gruppo di giovani guide turistiche abilitate per le province di Milano e Monza e laureate in Storia dell’arte, riunitosi per offrire visite guidate ai capolavori artistici di Milano.

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Quattro i percorsi proposti

Il progetto prospetta visite guidate su quattro percorsi attraverso il bel capoluogo lombardo e sollecita l’utilizzo della bicicletta come mezzo sostenibile.
Parlarne in tempo di vacanze al pubblico ferrarese, tanto avvezzo all’uso di questo mezzo di locomozione, potrebbe essere d’ispirazione e incuriosire su questa interessante iniziativa. E magari replicarla.
Le visite in bicicletta non promuovono solamente la diffusione della conoscenza storico-culturale della città ma anche i suoi aspetti paesaggistici, botanici e naturali, visibili nelle aree verdi, nei giardini e nei parchi milanesi. Se poi vi sono costruzioni in bio-edilizia lungo il percorso, ecco che l’attenzione del partecipante viene sollecitata e la sua curiosità stimolata.
Un modo intelligente di unire arte, storia, eredità culturale, conoscenza del proprio territorio, sensibilizzazione ai temi ambientali e rispetto della natura che ci circonda.

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BikeMi, servizio di bike sharing della città di Milano

A Pedalarte si è aggiunta anche BikeMi, servizio di bike sharing della città di Milano, nato per favorire la mobilità dei cittadini e per costituire un vero e proprio sistema di trasporto pubblico da utilizzare per i brevi spostamenti (al massimo 2 ore) insieme ai tradizionali mezzi di trasporto atm. BikeMi mette a disposizione di Pedalarte 30 abbonamenti al servizio, dando così una forte valenza di servizio pubblico al progetto.
La prima stagione (quattro domeniche di settembre e ottobre 2013) è servita da vero e proprio test e il successo ha portato a replicare l’iniziativa lo scorso mese di maggio.

 

 

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Visite che coniugano aspetti culturali, storici, paesaggistici e naturali

Gente comune, turisti italiani e stranieri hanno molto apprezzato l’iniziativa.
Miglior conoscenza storico-culturale della città, promozione dell’utilizzo della bicicletta, incremento degli abbonati al servizio di bike sharing, promozione dell’immagine verde e sociale del Comune, allineamento a molte città europee che da anni promuovono tale tipo di visite guidate, sensibilizzazione dei cittadini all’ambiente e al rispetto della città in cui vivono, riscoperta di spazi nascosti della città, questi gli obiettivi di Pedalarte.
Le visite vengono effettuate la domenica (per non interferire con il noleggio delle biciclette di chi le usa ogni giorno per andare a lavorare), con un numero massimo di 20 partecipanti, auricolari personali per sentire la guida, per una durata di due ore. I percorsi non sono impegnativi e non richiedono, pertanto, preparazione fisica particolare; solo curiosità, voglia di stare all’aria aperta, in compagnia di amici e della bellezza che, nel nostro bel paese, ci circonda ogni giorno. Imparando qualcosa di più su di essa. E mettendola da parte…

Per maggiori informazioni:
“Pedalarte – Visite guidate in bicicletta” su Milanoguida
“Pedalarte” su BioEcoGeo
 Il video dell’iniziativa
Twitter@Milanoguida

(Foto per gentile concessione di BioEcoGeo)

La giusta portanza: il futuro di Ferrara città ‘idropolitana’

di Sergio Fortini

A dispetto della sua storia, Ferrara è una città adolescente, intenta nel proprio percorso di autoconsapevolezza di limiti e risorse, a passo spinto in cerca di futuri. Il dibattito sul ruolo della città nei prossimi anni assume un significato ben più ampio delle mura cittadine e gli scenari potenziali di sviluppo corrono veloci come le vie d’acqua, cui questa città non ha mai prestato dovuta attenzione.
Entro questa lettura, l’idrovia diventa parte di un sistema complesso di cui l’acqua è memoria, motore e segno distintivo. Essa rappresenta un pretesto per riconfigurare la valenza di un territorio intero, del suo capitale sociale, economico, narrativo.
Per leggervi un futuro possibile, questa terra necessita di una visione di largo respiro. Sotto il profilo territoriale, la logica di tale visione è chiara: Ferrara non è solo una città di dimensioni medio-piccole con una provincia tra le più estese in Italia; Ferrara è un centro urbano metropolitano che ribalta il rapporto canonico tra nuclei antropizzati e paesaggio.
La Ferrara metropolitana è costituita da due polarità principali, il centro di Ferrara e il centro di Comacchio, agli estremi di una pianura che ospita un bilanciato rapporto tra edificato e ambiente naturale, dove i paesi si manifestano come punti di una rete a scala di quartiere, ognuno con proprie caratteristiche e mai troppo lontani dai due centri principali.
La visione che si intende proporre parte da una vocale, la ‘U’, già adagiata e leggibile sui bordi del territorio. Una ‘U’ d’acqua, margine netto e identitario almeno quanto poroso e attraversabile. Questo segno è formato, a nord, da un tratto del fiume Po e del ramo del Po di Goro che arriva al mare, a sud e verso est dal Po di Volano e dal canale navigabile fino a incontrare il mare a Porto Garibaldi; a ovest da un piccolo, fondamentale tratto di connessione, il canale Boicelli, che asseconda la Ferrara (che fu) industriale unendo i due assi precedenti. Quelli appena descritti sono dunque i bordi di un nucleo di area vasta che, attraverso l’acqua, informa di sé il territorio che lo separa dal mare: una città idropolitana.
La città idropolitana all’interno di questa ‘U’ ha dunque come bordi il Po e l’idrovia e come nucleo il territorio Unesco e tutto il sistema paesaggistico costituito da aree Sic, Zps, Rete Natura 2000 che popolano centinaia di ettari della pianura a est di Ferrara. Bordi come questi si prestano senza dubbio a un cambio di rotta nelle strategie di mobilità, poiché offrono le condizioni per un sistema di infrastrutture leggere impostato sulle vie d’acqua. Ogni bordo d’acqua può diventare in tal modo un asse portante da cui dipartono capillarmente assi di terra di potenziale rigenerazione, che puntano verso l’interno, calamitati da un territorio Unesco variegato e diffuso, così come da centralità storiche e agrarie di forte identità. Il capitale narrativo, in questo caso, è talmente presente ed eterogeneo da contemplare gli echi di un Bacchelli così come le sinuose fattezze di Sofia Loren; argini di lotte partigiane e umide terre di foce raccontate da Gianni Celati; ma anche i casali della bonifica, le tracce delle risaie, le ottuagenarie fabbriche dismesse sulla via del Travaglio, prove antesignane delle inquadrature livide di Antonioni, la necropoli di Spina. Ogni pezzo di queste terre sembra brulicare di racconti, di silenzi sedimentati, di opportunità latenti.
Gli scenari appena evocati sono già presenti, addormentati, nella Ferrara che conosciamo; tra i covoni della sua campagna ancora florida, lungo capezzagne sconnesse che portano a falsi argini, tracce di una assenza importante. L’acqua è presente anche quando non si vede: determina depressioni nel suolo, tiene in tensione raffinate idrovore, nutre differenze vegetazionali in tempi di arsura. Fino a questo punto, si sta descrivendo ciò che qualsiasi nonno di buona favella saprebbe raccontare, con parole più adeguate di queste, dalla sedia del proprio tavolo d’angolo all’intoccabile circolo, ex casa del popolo. Puntuale, suggestivo, forse ripetitivo. Però nessuna descrizione può cambiare le sorti. Le sorti iniziano a trasformarsi se si adotta una angolazione differente, focalizzata su un percorso storico, a dispetto nostro, già cominciato. Il percorso di una città che trova il completamento della propria forma nel suo territorio, una città che si bilancia sul patrimonio storico e artistico delle due polarità citate all’inizio (Ferrara e Comacchio) sostenute da una pianura ricca di differenze sottili, di segni poco appariscenti ma indelebili, di manufatti in attesa d’autore. Un territorio da declinare al ‘turismo’? Anche. Non fosse che è più corretto parlare di ‘turismi’, poiché esso è capace di assorbire famiglie est-europee in cerca di sole a basso costo, così come olandesi volanti su biciclette di ultima generazione; attempati studiosi che inseguono l’odore dei cappellacci di zucca tra le delizie estensi, o giovani etologi armati di digitali professionali in mezzo alle saline, vegliati da torri di guardia di epoca rinascimentale. Tutto ciò accade quotidianamente e trasversalmente alle stagioni, a Voghiera come a Mesola, a Sabbioncello come a Ostellato, a Codigoro come a Lido di Volano, o in un qualsiasi punto di questa pianura sotto il livello del mare.
Se l’amplificazione della portata turistica del territorio rimane un tema fondamentale, il vero obiettivo strategico, da svilupparsi su scala ventennale, è quello di porre le condizioni per una città-territorio abitabile e abilitante, dove chi risiede può vantare alta qualità della vita, disponibilità di lavoro, mobilità agile e sostenibile, molteplicità delle forme di svago e ristoro, connessioni veloci, fisiche e virtuali. Entro tale scenario, l’idrovia ha la possibilità di trasformarsi in acceleratore economico e sociale a scala territoriale, completando il sistema come asse infrastrutturale dolce, generatore di nuovi percorsi e opportunità. Quest’ultimo concetto è più facilmente comprensibile se ci si raffigura quella ‘U’ d’acqua descritta all’inizio non semplicemente come un flusso navigabile, bensì come un sistema complesso fatto di sponde più o meno permeabili che aprono la vista e la direzione sulle centralità territoriali, funzionanti o potenziali che siano. Non più una linea, dunque, ma un bordo con uno spessore che si allarga o restringe a seconda della porzione di pianura attraversata o delle eccellenze incontrate: una villa storica, un importante insediamento industriale, un percorso naturalistico vallivo, una pieve recuperata, un ex distretto produttivo, un borgo contadino.
La ricchezza di questa pianura sottoelevata è fatta, come i suoi abitanti, non di sparuti gesti eclatanti, ma di un insieme capillare di piccole centralità, attive o dormienti. Integrare le une e risvegliare le altre è un obiettivo possibile se il campo di azione è attraversato da una (infra)struttura portante, descritta all’inizio nella sua geografia, che accerchia il territorio e gli conferisce nuova linfa attraverso i percorsi che da essa si dipartono verso i nuclei abitati di pianura. Questa città-territorio si nutre di un rapporto invertito tra antropizzazione e paesaggio, dove il secondo vince per dimensione sulla prima. I nuclei principali si irradiano attraverso la pianura interna per mezzo di paesi e località direttamente dotati di luoghi di lavoro e agilmente connessi con le polarità principali, anche attraverso la via d’acqua.
Il problema della portata della sezione d’acqua è a questo punto relativo. Lungi dall’affermare che non sia fondamentale stabilire se e con quali equilibri puntare su una classe quinta europea o sulla nautica da diporto (o su un processo che organizzi la seconda come una fase antecedente alla prima); appare però più contestuale intendere il sistema d’acqua come un orizzonte di senso capace di riabilitare le potenzialità economiche e sociali delle nostre terre e di riaccenderne il capitale di arte, di paesaggio, di storia, di storie. Quello che oggi rappresenta una parziale attrattiva turistica, ancora non sedimentata nell’articolazione delle sue molteplici accezioni, è in realtà un territorio già ad oggi capace di calamitare l’interesse di filiere lavorative e gli investimenti di capitali internazionali. Non desti stupore se qualche grande nome, anche transnazionale, ci vaglierà come una città su cui investire. Ho scritto ‘città’ nell’accezione idropolitana con cui questo testo è iniziato, poiché quella giustapposizione di ambiti urbani, rurali e litoranei che noi indigeni tendiamo a sezionare e frammentare come realtà indipendenti e, spesso, non comunicanti, vista da oltre confine può apparire invece come città unica, con caratteristiche decisamente singolari e non rintracciabili in altri contesti europei. Se è vero che nelle città del mondo si stanno catalizzando processi di addensamento, proprio per le opportunità (di vita, di lavoro, di affezione, di relazione, di svago) che i tessuti urbani offrono a dispetto degli ambiti isolati, talvolta gli urbanisti si dimenticano di sottolineare che la ricerca della città non avviene per amore delle grandi quantità (di persone, di merci, di scambi), ma per una aspettativa di qualità generale del proprio vivere quotidiano. Diventa dunque più facile comprendere come Ferrara città idropolitana, vista da qualche chilometro di distanza e a volo d’uccello, possa assomigliare davvero alla prima metropoli europea in cui il rapporto tra tessuto urbanizzato e paesaggio è invertito, a vantaggio di quest’ultimo e, a parità di servizi e connessioni erogabili, a vantaggio della qualità della vita dei suoi futuri abitanti.
Ferrara, dunque, può strategicamente godere di un ribaltato rapporto con l’acqua, atavicamente ignorata, su almeno due livelli d’azione: promuoversi come città unica in Europa capace di orientare la mobilità su una ‘tangenziale di paesaggio’, un anello potenziale di viabilità lenta che contorna con le vie d’acqua l’ambito urbano su tre punti cardinali (il fiume a nord, il canale Boicelli a ovest e i rami del Po di Volano e di Primaro a sud), trovando compimento all’interno del nucleo urbano attraverso quella porzione tutelata di campagna che contraddistingue il centro storico nel quadrante nord-est e ricollegandosi al Po attraverso il grande polmone del Parco Urbano; proporsi come baricentro portante della città idropolitana, avamposto storico di un territorio plurale, geneticamente conformato per connettere punti diversamente eccellenti di un unico piano orizzontale, che corre verso il mare.
Ripenso alla carta geografica napoleonica del 1814: duecento anni dopo, quella capillare restituzione del territorio ferrarese dominato e regolato dall’acqua non è solo una affascinante testimonianza del passato; essa sembra suggerire una morfologia promettente, traiettorie che si aprono a nuove letture, generate da ‘quella sorpresa sempre risorgente che la lotta con il documento è la sola a produrre’, affermava Marc Bloch. Risorgente come l’acqua, i suoi significati, le sue prossime opportunità.

Viaggio nel mondo dei caffè all’ombra del Castello

E’ un baretto affacciato su piazza della Repubblica, a Ferrara: una piccola arena di panchine, alberi e fontana incastrate in disparte, ma all’ombra del Castello estense, a ridosso del sagrato della chiesetta trecentesca di San Giuliano. Si chiama Torrefazione Penazzi e non ha seggioline né socializzanti distese esterne di tavoli. All’insegna della sobrietà anche l’interno. Il bar è una stanza attorno al bancone, dove sorseggiare il caffè in piedi nelle classiche tazzine di ceramica. Una volta dentro, ti puoi affacciare in un secondo spazio, allestito con una serie di cilindri trasparenti, pronti a dispensare chicchi ricercati con cura nelle più disparate parti del mondo, prelevati e tostati in piccole quantità in un laboratorio alle porte di Ferrara.
Tra i vari tipi di caffè coltivati per la bevanda, Alberto Trabatti, che è il proprietario del marchio del laboratorio di torrefazione, acquista solo l’Arabica. Questa specie – la più apprezzata e diffusa, insieme alla Robusta, tra il centinaio di quelle presenti in natura – ha un contenuto di caffeina molto inferiore alle altre ed è la meno adattabile all’ambiente, perché cresce solo ad alta quota, tra i mille e i duemila metri. E così, sulle incontaminate altitudini di Paesi equatoriali, cresce questo piccolo albero che può arrivare fino a una decina di metri, con larghe foglie verde scuro e fiori bianchi, che si trasformano in quei frutti carnosi che sono le drupe, dalle quali si estrae poi la coppia di semi.
Alberto Trabatti quei chicchi di Arabica li va a trovare con la passione dell’esploratore, li mette nella sua tostatrice artigianale che consente di lavorare non più di dieci chili per volta. Attento a non eccedere nel calore, il maestro torrefattore mescola manualmente i chicchi per biscottare in modo uniforme ciascuno di loro. Poi macina, prova e gusta, classificando le future polveri nelle varie tipologie da adeguare alle diverse necessità e sfumature di sapore. Perché Trabatti ti parla del caffè come un astronomo ti descrive le infinite galassie, che ai più appaiono solo come puntini luminosi. Ti spiega che se vuoi una bevanda leggera, fruttata e fiorita, va bene lo Yirgacheffe che viene dall’Etiopia, che è tra quelli con la minor quantità assoluta di caffeina, pari all’1,2 per cento. Sempre leggero – e quindi, secondo lui, adatto a chi non è avvezzo all’impatto forte e diretto col caffè nero – il Pergamino che, con lieve gusto acidulo ma grande equilibrio, arriva dall’altopiano di Sul de Minas, in Brasile.
Secondo il produttore-artigiano, chi è abituato normalmente a zuccherare o a mettere latte nel caffè, deve smettere di farlo o almeno limitarsi, per non annacquare e falsificare il gusto puro della bevanda. Un cappuccino ogni tanto te lo concede; e, in quel caso, lui usa la qualità Miscela. La sua filosofia, comunque, sostiene la purezza assoluta del gusto, in modo che tu possa apprezzare dettagli che zucchero e latte vanno a coprire. Ad ogni modo, l’unico dolcificante che ti concede è quello bianco, senza gli aromi speziati e distraenti dei cristalli di canna. Affinato il palato, ecco il gusto dolce, non acido e di medio corpo di El Salvador, che arriva dall’omonimo Paese dell’America centrale. Fruttato e di medio corpo l’Atitlàn Exquisito del Guatemala. Speziato, dolce e sempre di medio corpo il Santos Montecarmelo della regione di Cerrado, in Brasile. Per chi ama il caffè deciso, c’è la qualità Gusto antico, ancora dal Brasile, con il suo retrogusto cioccolatoso; ma anche l’Haiti, forte e amaro. Molto particolare, con note di erbe e tabacco, il Nicaragua, tra i più pregiati e costosi (60 euro al chilo) e che nel bar ti fanno anche espresso al costo di 2 euro a tazzina al posto dell’euro che lì ti costa l’altro. Tra le vette di caffè speciali va inserito lo Yauco Selecto, che viene dal caraibico Porto Rico (80 euro al chilo). La cima assoluta si raggiunge con il Jamaica, tra i più importanti (170 euro al chilo), ma anche molto delicato e sensibile al calore, e perciò disponibile nel negozio solo in inverno, per non rischiare che possa sciuparsi con gli sbalzi di temperatura.
Nella Torrefazione Penazzi non sono disponibili sempre tutte le qualità e, anzi, di mese in mese se ne aggiungono di sconosciute, che Trabatti trova, gusta e ritiene degne di fare apprezzare. Non mancano quasi mai quelle di Pergamino, Etiopia, Guatemala, Gusto antico e Miscela, con anche una selezione di Decaffeinato per chi non vuole negarsi il piacere con attenzione ai palpiti.

Per potere variare senza smettere mai di sorseggiare una tazzina piccola, ma rotonda come il mondo.

vescovo Negri

“No agli assolutismi”, in risposta all’arcivescovo Negri

da: Massimiliano De Giovanni, Presidente Arcigay Ferrara

Sono Massimiliano De Giovanni, Presidente di Arcigay Ferrara. Con la presente intendo replicare alle parole dell’arcivescovo Negri apparse oggi sulla stampa ferrarese.

Non sono stupito dalle parole dell’arcivescovo Negri, perché sta impartendo – come è tenuto a fare – un insegnamento conforme alla dottrina della Chiesa in materia di omosessualità.
Tuttavia non vi sono e non possono esservi diritti scaturenti dalla tutela del sentimento religioso individuale non assimilabili a quelli altrimenti tutelati nell’ambito di una società che assicura il massimo delle libertà possibili.
Come l’arcivescovo di Ferrara sottolinea, non dovrebbe essere consentito a nessuno di assumere il compito di discriminare tra forme culturali, sociali e religiose. Tantomeno alla Chiesa.

Credo da sempre nelle libertà individuali, a cominciare da quella del bisogno e del pensiero, e non posso che rispettare anche la libertà religiosa individuale.
In Italia, però, troppe persone si nascondono dietro una croce per non ammettere di essere profondamente e ciecamente intolleranti, perché è proprio la più vile sottocultura omofobica a essere propagandata con sicumera dall’integralismo cattolico.
Se lo Stato lascia la Chiesa libera di dissentire dai cambiamenti sociali e scientifici, altrettanto la Chiesa dovrebbe impedire che una credenza, una fede, un principio di coscienza divenga legge di Stato, per lo più laico.
Un precetto non può e non deve essere un imperativo politico.

Non ho mai considerato la religione cattolica la mia cultura. La religione può essere uno dei tratti caratterizzanti di una cultura, ma in nessun modo può costituire la cultura stessa in termini assolutistici.
Alla Chiesa è già concesso di imporre i crocifissi nelle scuole, di attuare campagne di disinformazione sull’uso del preservativo, di barattare voti in cambio di leggi proibizioniste sul fine vita e sulla procreazione medicalmente assistita, di avere rappresentanti in Parlamento che equiparano provocatoriamente gay e pedofili, considerando un bacio omosessuale alla stregua dell’urina fatta per strada.
Non accetteremo nuove ingerenze e strumentalizzazioni, né ulteriori bavagli, perché la strategia di delegittimazione delle istanze per i diritti civili dei gay da parte degli integralisti religiosi è oggi più che mai intollerabile.
Lo striscione “Ferrara condanna l’omofobia e la transfobia” non lede nessuna libertà individuale. Semmai manifesta il legittimo pensiero delle istituzioni ferraresi, racchiudendo un semplice e sacrosanto principio di inclusività e rispetto.
D’altra parte, lo stesso annuncio cristiano è un messaggio di liberazione che dovrebbe riguardare le creature di Dio, a prescindere dalla razza, dal genere, dalla condizione o dall’orientamento sessuale.

È per questo che chiediamo alla Chiesa di non supportare la criminalizzazione degli omosessuali in Italia: un Dio amorevole non condanna due persone che si amano solo perché appartenenti allo stesso sesso per nascita.
Negri non disattenda dunque il suo mandato e si occupi piuttosto di curare le anime dei propri fedeli, senza dimenticare che le vittime delle dittature del XX secolo – come di ogni altra dittatura del resto, laica o religiosa – sono stati spesso proprio i gay.

Cordiali saluti,

Massimiliano De Giovanni
Presidente Arcigay Ferrara

Nella notte dense colonne di fumo dal petrolchimico

A distanza sembrava un incendio scoppiato in città, con un’immensa coltre di fumo che incombeva sull’abitato. A rendere più credibile e inquietante la scena, il passaggio verso mezzanotte, di un’ambulanza e di un altro mezzo di soccorso a sirene spiegate. Poi man mano che ci si avvicinava al presunto luogo dell’incidente, la coltre grigiastra appariva progressivamente sempre un po’ più in là, lasciando intendere la sua reale origine: l’area del petrolchimico. Ed era proprio da lì che, nella notte fra sabato e domenica, alcune bocche di fumo degli impianti esalavano dense e copiose misteriose emissioni: una più evidente che rischiarava il cielo notturno di Ferrara e altre due più contenute.

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La densa colonna di fumo che nella notte si eleva sul petrolchimico di Ferrara (foto ferraraitalia)

Lo ‘spettacolo’ è stato evidente a tutti gli automobilisti in transito nella zona, ma più in generale a tutti i ferraresi che hanno alzato lo sguardo verso il cielo. Nessuna segnalazione di pericolo, però, è stata fatta dalle autorità di controllo. Come sempre in questi casi si spiegherà che si trattava di vapori acquei. E così speriamo che fosse. L’immagine però era dantesca e inquietante.

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L’intensità delle esalazioni ha destato curiosità e anche un po’ di preoccupazione (foto ferraraitalia)

Il rovescio dell’amore

È lunga e lucidissima la lista dei motivi per cui l’amore non le manca. Va bene ripassarsela ogni tanto, specie quando si inciampa ancora per errore di sopravvalutazione. Viola, la protagonista di Che ci importa del mondo (Rizzoli, 2014) di Selvaggia Lucarelli è un personaggio televisivo sopra le righe, ha un figlio di otto anni, Orlando, molto saggio e un gruppo di amiche, di quelle che sai che ci sono.
Viola non sa cucinare, eppure le ricette per essere infelice le ha sperimentate tutte, conosce i meccanismi dell’inganno e dell’autoinganno, della lusinga e della trappola che finisce per tendersi da sola. Un ex marito con cui continua a litigare, una schiera di uomini che non smettono di deludere e un ex fidanzato che, in quanto ex, rappresenta il retrogusto con cui ci si accinge ad assaporare ogni nuova cosa. E a misurarla con il metro delle cose piccole piccole a cui l’altro ci aveva abituato, anzi costretto, con il cannocchiale rovesciato che ti fa scambiare le briciole per un pasto dignitoso. Ma sempre briciole saranno. È l’illusione “dell’incastro perfetto” che non è altro che abbaglio in un vuoto in cui a riempire sei solo tu, finché, un giorno, il tempo, la volontà o magari un nuovo amore disperderanno del tutto quelle briciole e la loro amara inconsistenza.
“La mia vita è sempre stata un cubo di Rubrik: quando finisco una faccia con tutti i quadratini dello stesso colore, scombino ancora di più le altre facce e devo ricominciare tutto daccapo”. Viola non si stanca di tentare sempre un nuovo inizio, di confondersi tra i mille pezzi sparsi delle sue contraddizioni che a volte si ricompongono e a volte no, ma sempre approdano da qualche parte, verso qualche consapevolezza di sé. Viola comprende che si può cambiare, evolvere proprio grazie a quelli che non cambiano mai e che non siamo riusciti a cambiare, a smuovere, nemmeno con il nostro troppo amore.
Quando ancora Viola stila la lista degli ottimi motivi per cui l’amore non le deve mancare (perché l’amore “ha un’insopportabile faccia tosta, (…) perché l’amore ha le sue ragioni che la ragione dovrebbe portare in tribunale ai fini di processarle, una a una, per crimini contro l’umanità sensibile, (…) perché c’è una crudeltà, nell’amore, che non c’è in nessun altro sentimento”), sa bene che invece le manca e ciò che desidera è “un uomo col cuore sgombro e le braccia spalancate”.
Quest’uomo arriverà nella vita di Viola sorprendendola come capita quando si è distratti dal peggio e non si pensa che il meglio debba ancora venire.

Le priorità del priore

Prima delle elezioni europee, il Presidente del Consiglio diceva: “La scuola è una priorità ed è necessario restituire valore sociale ai docenti”.
Dopo il risultato ottenuto alle elezioni europee il governo del Priore Decisionista, molto probabilmente durante l’estate, decreterà di:
– aumentare l’orario di servizio dei docenti a parità di salario,
– rendere obbligatorie le supplenze per chi è di ruolo,
– diminuire di un anno la durata degli istituti superiori,
– affidare pieni poteri al dirigente scolastico,
– valutare in maniera meritocratica i docenti,
– abolire le graduatorie di istituto,
– eliminare il fondo di istituto,
– cancellare la contrattazione di istituto,
– far entrare soggetti privati nei Consigli di Amministrazione (pardon, Consigli di Istituto),
– far aprire gli istituti scolastici ai privati.
Certo, la mia è una sintesi schematica scritta con il verbo “decretare” al tempo futuro del modo indicativo quindi chiunque potrà criticarla o metterla in dubbio.
Ne sono consapevole ma sono altrettanto convinto che ognuno potrà constatare una buona continuità di intenti nell’intervenire sulla scuola da parte dei governi Berlusconi, Monti e Renzi.
Per rendersene conto, e per verificare se quelle da me indicate siano illazioni, basta pescare a caso fra le molte dichiarazioni recenti del ministro Giannini, dei sottosegretari Roberto Reggi e Gabriele Toccafondi.
Si può quindi essere o non essere d’accordo sul senso di questa continuità e sulle “ricette” scelte dal governo delle larghe intese per “restituire valore sociale ai docenti”.
A me interessa conoscere piatti e sapori nuovi ma penso, nel caso della scuola, che queste “ricette” (non facendo parte della nostra cucina tradizionale) non siano per niente stuzzicanti, siano poco succulente e presuntuosamente piccantissime.
Sembrano piatti preparati in una mensa aziendale dagli arredi allettanti, in cui la bella presenza nasconde prodotti scaduti e scadenti: un luogo insomma dove il numero di stellette guadagnate nelle guide europee è proporzionale al numero delle promesse di rottamazione dei cuochi precedenti.
Preferisco una trattoria dove si mangia in compagnia, dove i piatti sono preparati in casa, con alimenti genuini ed in cui il menu sia presentato chiaramente e corrisponda, nelle portate e nei prezzi, a ciò che effettivamente verrà servito e a quello che bisognerà pagare.
Ad esempio, io preferisco la cucina mediterranea perché offre un giusto apporto di tutti i principi nutritivi essenziali per una buona crescita, dove tutte le portate sono ben condite con la giusta dose di LIPidi [leggi].
Senza di loro, infatti, non ci sarebbero quelle calorie indispensabili per mantenere tutto il corpo sociale in una sana e robusta Costituzione.

L’attesa e la scoperta

En attendant Godot o meglio le parole del sindaco di Comacchio che naturalmente non risponde mercoledì scorso ho la sorpresa di trovare la spiaggia libera dalle baracchette. Noto imbarazzo e riserbo. Sono arrivati d’improvviso vigili e forze dell’ordine (si dice così?) e subito c’è stato un fuggi-fuggi generale. Sconcerto e una certa delusione tra le signore. A rendere più persistente il vuoto del baraccume alla sera si scatena la natura offesa e piovono bombe d’acqua per 48 ore così la spiaggia resta ancora per due giorni libera. Frattanto decido tra una nuvola e l’altra munito di un bel ferrovecchio a due ruote comprato legalmente (in proporzione costa più la catena sofisticatissima che il mezzo) di esplorare i dintorni e quindi prima tappa, a somiglianza delle sorelle di cechoviana memoria che all’unisono gridano “ A Mosca, a Mosca!!”, la mia sarà “Al pesce, al pesce!” sul molo di Porto Garibaldi.
E nasce così un folle amore.

La lunga fila dei pescherecci e delle motobarche turistiche creano un variopinto contraltare, un’animata e operosa vita sul porto-canale. Tutto è pulito, umano, non falsamente legato alle goldoniane manie per la villeggiatura.
E la gente ti guarda negli occhi e fa la fila col numero!!! Non come alle poste lidensi sia in pescheria che nella bellissima farmacia dove tutti si comportano gentilmente: senza stizza o pseudo supponenza. E’ una vera comunità non un luogo che vive quattro mesi all’anno.
L’esempio di quello che ci si aspetterebbe se fossimo stati previdenti nel non aver voluto violentare la natura. Non li vedi i vu cumprà a Porto Garibaldi o molto defilati e non importuni. I ristoranti hanno una fama consolidata negli anni e prosperano. Addirittura puoi comprare il pesce dalle barche stesse a prezzi assolutamente competitivi.

Insomma se mi piacesse vivere in un posto marino, a questo punto della mia esperienza e della mia vita, sceglierei questo piccolo borgo apparentemente modesto ma infinitamente più elegante dei Lidi.
E poi, “incredibile visu” ( mettiamocela una frasetta in latino che fa tanto rompi…i) uno stupendo negozio di fiori che forse anche a Ferrara si sognano: da mandarmi su di giri!
Se dunque questo è possibile in un luogo perché non lo è a un braccio di mare di distanza?
Lo so che parlare con chi non ti risponde sembra un’impresa inutile ma ancora chiedo e mi domando: “Perché?”

La prossima puntata sarà nel cuore stesso del comprensorio. Quella città di Comacchio che ricordo (sono anni che non vi metto piede salvo per recarmi all’ospedale) tra le più affascinanti realizzazioni urbane dell’Italia.

Sul turismo la zavorra dei mille ‘enti preposti’

“A territory worth experiencing in freedom”, e per noi “Un territorio da vivere in libertà” è un piccolo depliant-libretto che la Provincia di Ferrara ha pubblicato e che si trova sugli scaffali degli Iat, nelle agenzie di viaggio e d’affari, ai punti informativi del Comune, all’entrata dei luoghi di cultura ed arte.
Un altro libretto libretto parla della costa, del Parco del Delta, di Comacchio e dei sette lidi, entrando nei dettagli e mettendo il lettore-vacanziero in condizioni di muoversi adeguatamente e con interesse.
Ci troviamo di fronte a due strumenti di marketing prevalentemente turistico che evidenziano le peculiarità dei territori, anche se sarebbe stato opportuno, saperne di più di storia, tradizioni e vissuto, e se la visione avrebbe dovuto comprendere il lungo nuovo distretto turistico emiliano-romagnolo fino alla laguna veneta.
Certo è che l’iniziativa, e non è la prima, ci mostra che l’assessorato al Turismo della provincia e il suo staff c’è l’hanno messa tutta nell’elaborare i contenuti, affidandone la distribuzione sia alla rete pubblica che ad operatori turistico-commerciali. Anche se, forse, servirebbero altre idee e ulteriori strumenti di sostegno e di servizio.
Sarebbe interessante, inoltre, capire che tipo di coinvolgimento è stato attivato e chi cura questo settore, dalla Camera di commercio, alle Sovraintendenze, dalle Agenzie per lo sviluppo Sipro e Delta 2000, ai Comuni, alla Regione e al ministero con le loro rispettive strutture operative.
Come si legge, i soggetti attuatori sono tantissimi, a volte con competenze concorrenti, a volte in conflitto, a volte silenziosi, a volte in sovrapposizione e con “spezzettamenti” a dire poco incomprensibili.
Anche qui, in questa circostanza, e non è la sola, richiamiamo l’attenzione di Franceschini, ministro indicato a mettere ordine, a rilanciare il settore, affinché turismo e cultura siano una filiera di innovazione e sviluppo, a ricreare le giuste condizioni per più lavoro, più occupazione, più imprese e farne la prima azienda nazionale.
Generalmente i supporti tecnici per animare ed accogliere i turisti si costruiscono in ottobre e novembre guardando alla stagione dell’anno successivo (se si ragiona nel breve). Occorre ricordare a tale proposito che l’ente Provincia diverrà un ente di secondo grado e privo della funzione turismo-cultura, ci pare quindi giusto evidenziare almeno alcune preoccupazioni.
Che dire ancora, se non che il nostro presidente, che è stato anche il sindaco di Firenze, dovrebbe molto preoccuparsi, perché se non arriviamo primi come accoglienza, l’Unesco potrebbe da subito toglierci dall’elenco dei Paesi i cui beni sono patrimonio dell’umanità (ne abbiamo tantissimi).
Il pil, il deficit, il debito, i parametri dei fondamentali macroeconomici, il tasso di disoccupazione, la Bce e altre istituzioni internazionali possono essere viste e riviste nella loro elasticità di movimento, anche con meno variabili indipendenti, anche con meno rigore nelle cifre e nei numeri, ma sul turismo non si può più scherzare e quindi, carissimo Dario, devi correre e più di quanto in Africa fanno il leone e la gazzella.
Buon lavoro, e speriamo bene!

Il giardino, orchestra di colori in cerca di direttore

Il giardino, opera viva, regno del possibile e del paradosso, ha sempre un direttore che dirige l’orchestra, il giardiniere, colui che ascolta, guarda e al momento opportuno, sceglie cosa fare e cosa disfare. Il giardino per definizione è un luogo artificiale e ha bisogno di avere dei punti fermi nella sua struttura di base: ingressi, confini, percorsi, punti di interesse, ma questa impostazione rigida non gli impedisce di essere anche elastico, accogliente e adattabile, nomade suo malgrado. Un giardino può diventare un luogo incolto per scelta, ma un incolto è solo uno spazio abbandonato in cui la Natura riprende il suo lavoro. Affidare il proprio pezzetto di terra al caso può essere una scelta di principio, ma tante volte è la scelta di quei giardinieri che, stanchi di consultare montagne di cataloghi e di fare il giro dei vivai, decidono di fermarsi per vedere cosa succede.
A volte capita che il vento sia un alleato prezioso, soprattutto quando un giardino si trova in una zona ricca di flora selvatica e può succedere che la composizione di rose da catalogo con fiori di campo, diventi un quadro pieno di grazia e di poesia. Questo è quello che vorrei fare nel mio giardino, perché mi piace l’idea che qualcosa possa crescere in modo equilibrato senza troppi controlli da parte mia. In verità nel mio giardino, se si esclude il tappeto di margherite e pisaletto, quello che è cresciuto in modo casuale, non è arrivato poeticamente sulle ali di un fresco venticello primaverile, ma dentro prosaiche sportine di plastica. Chi coltiva erbacee perenni o rampicanti, prima o poi sarà costretto a buttarle o a distribuirle. In questo modo, e senza nessun tipo di programmazione, il mio giardino si è arricchito di tante varietà interessanti, come la deliziosa Lychinis coronaria con le sue rosette di foglie grigie e pelose; l’allegra Centranthus ruber (foto); la scultorea Euphorbia caracias; tutte piante rigogliose che ormai fanno parte del mio paesaggio e che sono arrivate brutte, mezze secche, spesso aggrumate in zolle di terra, proprio dentro alle sportine- regalo delle mie amiche.
Cosa sono le perenni? sono le generiche piante da fiore con il fusto non legnoso. Queste, al contrario delle piante annuali che ogni anno completano il loro ciclo di vita, se trovano un luogo di loro gusto, ricominciano a vegetare ogni anno allargandosi alla base. Durante l’inverno la maggior parte di loro sparisce o lascia in terra una base fatta di steli secchi e di foglie morte. Quando una pianta perenne ha qualche anno di vita, tende ad allargare questa base e per mantenere in forza la pianta è necessario dividerla con un coltello affilato. Questi pezzi di materiale vegetale, daranno vita a nuove piante e così facendo, si riempiono aiuole, bordi, vasi e prima o poi si finisce per mettere queste cose informi dentro ad una sportina e portarla ad amici con spazi ancora colonizzabili. Mettere in terra queste “cose vegetali” mi è sempre piaciuto, perché sono molto più semplici da coltivare rispetto alle semine o alle talee, e così ho potuto riempire il mio giardino di presenze tanto gradevoli quanto infestanti. Con le perenni non ci sono problemi, lo spazio c’è e ho ancora molti amici su cui contare, il problema si è creato con i rampicanti. Tutte le piante che si possono trasportare a pezzi, infilate senza complimenti in una sporta di plastica, hanno una costante: sono robustissime. Le piante rampicanti lo sono in modo particolare, quindi, prima di accettare una sportina con un omaggio del genere, dovrebbe essere obbligatorio fare un esame onesto delle proprie capacità di essere drastici nel tenerle sotto controllo. Le rampicanti come i glicini, le viti americane, le edere, le bignonie, i falsi gelsomini, i caprifogli, sono piante fortissime e hanno tutte la stessa capacità di crescere e riprodursi con estrema facilità, in pochi anni creano pergole spontanee, grovigli di vegetazione, masse verdi di grandi proporzioni. Le ho sempre accolte, piantate e ammassate, pensando di poterle controllare, ma la pigrizia, la mancanza di tempo e il mal di schiena, hanno molto indebolito le mie capacità e adesso mi ritrovo con angoli di boscaglia molto arruffati, che non sempre mi piacciono, ma che alla fine conservo, perché sono piene di insetti e qualche nido di uccellini, così il giardino cresce e si mantiene pieno di vita.

La biblioteca d’albergo, col book-sharing si arricchisce la vacanza

Soggiornare in albergo è un vero piacere, soprattutto per una donna. Le camere vengono pulite e rassettate regolarmente, la colazione servita, tv e servizio wi-fi per la gioia dei figli e per le ultime incombenze lavorative da sbrigare degli adulti. Ma quest’anno, qui in Liguria dove mi trovo per qualche giorno, l’albergo ha una piacevolissima novità, scaffali di libri che si possono liberamente prendere in prestito. A dire il vero, mi spiega la direttrice dell’albergo, Legambiente a cui sono associati di solito propone il book-sharing ai bagni, ma lei era molto interessata, ha chiesto e le hanno subito spedito una libreria Ikea e anche un buon numero di libri. Ha aggiunto qualche volume poi l’ha sistemata in un luogo ideale per la lettura: in veranda, sotto l’ombra degli archi (l’albergo si chiama “Sette archi” e si trova a Bocca di Magra, La Spezia) da cui, seduti sulle poltroncine di vimini e magari sorseggiando un buon caffè, si può godere una splendida vista sul porticciolo… barche, mare, pini marittimi, e in fondo le colline, a tratti imbiancate da blocchi di marmo che sembrano neve.

Sono venuta qui per incontrare le mie più care amiche di un tempo che non vivono più a Ferrara da anni, e questo era già un grandissimo regalo per me. Ma trovare inaspettatamente un “nuovo amico” che ti invita ad entrare in un mondo diverso, che ti dà il buongiorno la mattina e la buonanotte la sera, una storia altra in cui naufragare e raccoglierti un po’, è stato come sempre emozionante e, come mi capita ogni volta che incontro “un tipo interessante”, mi ha fatto mancare il respirocome trovare un tesoro in fondo al mare.

Oltre all’idea dello scambio di libri tra sconosciuti, ciò che più trovo divertente del book-sharing è passare in rassegna i titoli e immaginare i criteri che ne hanno guidato la scelta. Anche qui ce ne sono tanti, i più disparati, e molti rivelano un certo gusto: ci sono i Maigret e gli Ellery Queen Mondadori, autori come Pennac, Stefano Benni, e poi, incanto nell’incanto, i ferraresi Roberto Pazzi con Conclave e L’erede, e Giorgio Bassani con Il (nostro) giardino dei Finzi-Contini… e poi tanti libri in lingua, soprattutto Inglese e Tedesco, che fanno tanto Camera con vista (l’albergo tra l’altro conta diversi ospiti stranieri, cosa che aggiunge gusto, un senso di internazionalità all’ambiente e, almeno per la sottoscritta, aiuta a sentirsi davvero in vacanza).
La signora ha tenuto a spiegarmi che il sistema di prestito-scambio sta funzionando: gli ospiti prendono un libro e poi gliene donano due, l’altro giorno un tedesco ne ha lasciati quattro. Si dimostra entusiasta e non ha nessun timore di possibili razzie: sarebbe un peccato se ne mancassero all’appello, ma per la sua attività sarebbe una perdita economica irrilevante, tanto vale rischiare.

Il libro che ho scelto e che sto assaporando s’intitola Una bellissima ragazza, di Ornella Vanoni con Giancarlo Dotto (Mondadori, 2011), autobiografia molto ben scritta, esilarante e commovente, sincera ed ironica. In copertina, il ritratto stilizzato della cantante con un cespuglio di capelli rossi, come i miei, fatti di lettere dell’alfabeto e note musicali.

E’ stato un vero piacere incontrarla signora Vanoni… lei è un tesoro!

Ferrara si tinge di giallo: tre giornate ad alta tensione nel cortile di palazzo Paradiso

da: ufficio stampa Comune di Ferrara

Da venerdì 11 a domenica 13 luglio, in biblioteca Ariostea, una rassegna di letteratura gialla, noir e thriller.

Da venerdì 11 a domenica 13 luglio debutta a Ferrara a palazzo Paradiso sede della biblioteca comunale Ariostea (via Scienze 17) la prima edizione di “#GialloFerrara”, rassegna dedicata alla letteratura gialla, noir e thriller di qualità. Ideata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara si avvale del patrocinio della Regione Emilia Romagna e della direzione artistica dell’associazione culturale Gruppo del Tasso. Per presentare il programma e le caratteristiche principali della prima edizione del festival questa mattina al Teatro Anatomico della biblioteca erano presenti il vicesindaco e assessore alla Cultura Massimo Maisto, il dirigente del Servizio Biblioteche Enrico Spinelli, il responsabile delle attività culturali dell’Ariostea Fausto Natali, il presidente dell’associazione culturale Gruppo del Tasso Alberto Amorelli insieme ai direttori artistici del festival Riccardo Corazza e Matteo Bianchi e altri collaboratori.
“La nostra maggiore biblioteca – ha affermato il vicesindaco Massimo Maisto – vuole essere una piazza del sapere dove potersi incontrare e un luogo inclusivo aperto a tutti i cittadini dove accedere ai prestiti librari, certo, ma anche ricco di eventi e di opportunità. Come Amministrazione – ha poi aggiunto – abbiamo colto da subito le potenzialità di questa iniziativa, ancora sperimentale ma che speriamo destinata a strutturarsi nel tempo grazie anche all’impegno e all’entusiasmo dimostrato dagli organizzatori del Gruppo del Tasso. Per questo abbiamo sostenuto il progetto sia attraverso la collaborazione dei diversi servizi comunali sia con un contributo diretto (4mila euro ndr)”.

LA SCHEDA (a cura degli organizzatori, ufficio stampa “GialloFerrara”)

Festival #GialloFerrara: la prima rassegna di Giallo nella città estense

Il week end dell’11, 12 e 13 luglio si terrà a Ferrara la prima edizione di un festival unico nel suo genere: la rassegna #GialloFerrara. Con la conferenza odierna si vuole dare un’idea dell’humus sul quale è attecchita l’iniziativa, ovvero il condurre le penne nazionali all’interno della città e far scoprire le eccellenze locali oltre l’ombra delle sue porte: #GialloFerrara è stato ideato dall’Assessorato alla cultura del Comune di Ferrara e patrocinato dalla regione Emilia Romagna; oltre alla direzione artistica dell’associazione ‘Gruppo del Tasso’, si ricorda il main sponsor, la Cassa di Risparmio di Cento, che si è accollata l’onere di supportare l’iniziativa, e gli sponsor tecnici “Suono e immagine”, nonché l’editore ‘Meme Publishers’, dal cui sito tutti i titoli saranno scaricabili gratuitamente soltanto nelle giornate del Festival.
Durante i tre giorni di Giallo la nostra città vivrà numerose iniziative che avranno come oggetto la letteratura gialla, attraverso le cui linee conduttrici troveranno espressione i dialoghi tra scrittori, sceneggiatori, fumettisti e disegnatori. I direttori artistici Riccardo Corazza e Matteo Bianchi, credendo ancora fermamente nelle istituzioni pubbliche e sentendosi parte di una città che ha bisogno di sostanza creativa per non far fuggire i suoi giovani, hanno articolato il programma rendendo teatro degli incontri tre diversi luoghi: lo storico Palazzo Paradiso, la libreria Feltrinelli, e il suggestivo Chiostro di Santo Spirito. Durante tutto lo svolgimento dell’evento sarà possibile l’acquisto delle opere degli autori in programma grazie alla convenzione stipulata con la Libreria Feltrinelli.

L’instancabile staff della rassegna presenta continuamente eventi off e iniziative collaterali con il preciso intento di non smettere mai di stupire la città e i suoi visitatori: il flash mob del cantante bolognese Alex Mari durante il mercoledì universitario del 2 luglio, la cena col delitto del 10 luglio, i video-promo, e le anteprime degli ultimi romanzi di Matteo Strukul e Nicola Lombardi.
I grandi nomi che calpesteranno il suolo ferrarese sono: Marco Belli, Stefano Bonazzi, Davide Bonesi, Davide Bregola, Alfredo Castelli, Claudio Chiaverotti, Gaia Conventi, Andrea Cotti, Sandrone Dazieri, Delmiglio Editore, Maurizio De Giovanni, Romano De Marco, Lorenza Ghinelli, Sara Magnoli, Luca Malaguti, Nicola Manuppelli, Angelo Marenzana, Lorenzo Mazzoni, Gianluca Morozzi, Luca Poldelmengo, Angela Poli, Carlo Riberti, Roberto Roda, Stefano Scansani, Eugenia Serravalli, Marcello Simoni e Stefano Visonà.
Dietro a #GialloFerrara si nasconde un ampio Gruppo capace di lavorare con poco e senza sprechi: i direttori artistici Riccardo Corazza e Matteo Bianchi, l’ufficio stampa Irene Lodi e Silvia Franzoni, il web designer nonché autore di “Diablo”, la bicicletta ufficiale del festival, Ciro Patricelli, e numerosi proseliti e accoliti.

Ogni ulteriore informazione può essere reperita sul sito http://www.gruppodeltasso.it/home.html, e la pagina Facebook https://www.facebook.com/GialloFerrara riserva sempre nuove sorprese: stay tuned!

Questo il programma completo del festival:
Venerdì 11 luglio
Ore 10 – Albero delle storie (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Adriana Trondoli guiderà i più piccoli alla soluzione di alcuni buffi misteri e sparizioni sotto il grande albero in giardino, seguendo le tracce nascoste tra le righe di storie e filastrocche.
Ore 11 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Lorenzo Mazzoni ed Eugenia Serravalli (traduttrice di Richard Godwin) sul poliziesco tra l’Italia e il mondo. Modera Marco Belli.
Ore 19 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Aperitivo di inaugurazione con performance itinerante dell’artista Christopher Channing
Ore 21 – Palazzo Paradiso
Marcello Simoni, Davide Bonesi e il direttore de “La Nuova Ferrara” Stefano Scansani dialogano sul Giallo

Sabato 12 Luglio
Ore 11- Libreria Feltrinelli Ferrara
Gaia Conventi, Gianluca Morozzi e Luca Malaguti presentano “Nero per N9ve”. Modera Delmiglio Editore.

Ore 17 – Sala Agnelli (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Scrittori e bambini a confronto. A cura di Sara Magnoli e Angela Poli.
Ore 17 – Palazzo Paradiso
Luca Poldelmengo e Lorenza Ghinelli tra giallo e noir. Modera Stefano Bonazzi.
Ore 19 – Palazzo Paradiso
Andrea Cotti e Sandrone Dazieri: la scenografia di un crimine. Modera Luca Poldelmengo.

Domenica 13 Luglio
Ore 11 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Carlo Riberti e Nicola Manuppelli (traduttore di Francis S. Fitzgerald) dentro un noir senza tempo. Modera Davide Bregola.
ore 17 – Sala Agnelli (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Scrittori e bambini a confronto. A cura di Sara Magnoli e Angela Poli.
Ore 17 – Palazzo Paradiso
Il giallo dentro i fumetti: Alfredo Castelli e Claudio Chiaverotti tra Arsenio Lupin e Martin Mystère. Modera Roberto Roda.
Ore 19 – Palazzo Paradiso
Conversazione a due voci sulla narrativa gialla con Romano De Marco e Maurizio De Giovanni. Modera Davide Bregola.

[pubblicato il 4 luglio 2014 alle 17:40]