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L’umiliazione e la dignità

Nel rapporto sociale con gli altri chi esercita il mestiere di critico deve esulare dalle questioni private, pena confondersi nella marea dei facebookanti o dei twisteriani i quali sbattono in prima pagina i loro problemi ben sapendo che poco importa agli altri quante volte al giorno iterano le loro azioni. Ma quando il fatto privato si trasforma in esempio di una condizione generale allora diventa dovere morale superare quel limite.
La vicenda riguarda mia nipote Elisabetta, che mi autorizza a narrare ciò che le è capitato. Eli a diciannove anni vede chiudersi definitivamente una vita cosiddetta normale. Le si rompe un tacco, sbatte la testa, va in coma e letteralmente risuscita dopo quaranta giorni provata gravemente nel fisico ma conservando intatte le facoltà intellettive. Con l’aiuto degli amici, della famiglia e col suo radioso sorriso si laurea, trova un lavoro e accetta, pur dovendo essere seguita negli spostamenti, di condividere la vita degli altri, specie di coloro che sono stati colpiti nel fisico, quelli che un orrendo termine si definiscono i “diversamente abili”.
Eli diventa un esempio di un eroismo che non si piega alla crudeltà della condizione imposta: con fierezza, con determinazione, con consapevolezza. E per tutti noi che la conosciamo acquista l’autorevolezza di chi ha dato uno scopo preciso e intenso alla sua vita. Si riavvicina alla religione, la pratica con costanza e determinazione. Insomma non si è abbandonata al destino ma lo domina e lo conosce.
L’altra sera tornando dalla sua consueta visita all’Aias dove incontra i suoi amici in via Cassoli s’avvia per ritornare a casa con la sua carrozzina elettrica ed estrae il telefono cellulare per avvertire del suo ritorno. Gli si avvicina un ragazzino dall’apparente età di circa sedici anni che le chiede se ha bisogno. Eli col suo sorrisone e risponde “no grazie”. Fulmineo allora costui le strappa il telefono e inforcando la bicicletta sparisce nel traffico. La costernazione della mia amatissima nipote si esprime in una sola frase che si ripercuote come un’ossessione in tutti i suoi discorsi: “Mi sento umiliata”, “Sono stata ancora umiliata”. Ed è insopportabile per chi non solo condivide il suo destino ma per tutti coloro che hanno ancora rispetto per la dignità morale.
La costernazione autentica e sconsolata del maresciallo dei carabinieri che stende il verbale e trasforma in rapina il furto subito non basta a lenire l’umiliazione di Eli. Frattanto viene consigliato ai suoi amici dell’Aias di non recarsi da soli in sede e limitando così ancora di più la loro libertà.
Ma alla forza di Eli umiliata ma non scoraggiata si contrappone il destino di quel ragazzetto che forse ha compiuto quel gesto disgustoso per procurarsi droga o qualche altro piacere fuggitivo. Non extracomunitario come a molti verrebbe subito alla mente definirlo, ma con un chiaro e inequivocabile accento ferrarese come depone Elisabetta. E qui allora s’intreccia la responsabilità di tutti noi per prevenire, forse opporsi, a una deriva di valori etici che sembra sempre più lontana da quelle condizioni che il nostro tempo sembra dimenticare così velocemente.
Certo non siamo più al tempo di Dickens e Ferrara non è una metropoli dove accadono fatti sicuramente un tempo impensabili in una tranquilla e forse troppo addormentata città di provincia. Eppure la globalizzazione ha portato l’indifferenza del valore etico, anche qui nel luogo di una relativa sicurezza ormai tramontata perché nella tranquilla Ferrara come a New York o Londra o Roma si compiono atti simili forse ancora più efferati in quanto l’inconsapevolezza di ciò che si commette è ancora più profonda.
Che fare? Sarebbe il caso di invocare un inasprimento delle pene che tutt’al più farebbero trascorrere in carcere gli anni più formativi senza procurare una vera “redenzione”. E ancora possibile parlare di “redenzione” oppure il senso dell’eticità si sta profondamente tramutando? Sono domande a cui non so rispondere, ma la frase di Eli, l’umiliazione subita ma alla quale non si arrende dovrebbe e forse lo sarà esempio per tanta gioventù in cui ancora speriamo e che dal proprio interno saprà trovare quella soluzione che forse noi adulti non abbiamo saputo trovare (e forse nemmeno cercare).

Grazie ancora amata nipote per questa lezione che ci hai dato non arrendendoti, ma trovando quella parola che ci fa abbassare gli occhi riconoscendo la tua forza e il tuo coraggio.

Auguri

Abbiamo ricevuto e scambiato auguri. Tutti, laici e credenti, ci siamo salutati nei giorni scorsi con un Buona Pasqua! Un augurio che era, innanzitutto, un saluto per una pausa dal lavoro o una vacanza. Abbiamo agito un rituale di buon auspicio, lontano per i più dal riferimento religioso originario.
Ben lungi dall’avere perso ogni funzione, i riti sono tornati prepotentemente a segnare i momenti della nostra vita. La nostra era secolarizzata, senza santi e senza sacro, ha ancora bisogno di delimitare il fluire del tempo e condividere riti.
Viviamo tempi di incertezza o, forse, siamo solo più consapevoli che l’incertezza rappresenta una cifra costitutiva della vita, abbiamo realizzato che la scienza e la tecnologia hanno migliorato enormemente la nostra vita, ma non hanno reso più prevedibili le vicende individuali e sociali.
Ci scambiamo auguri in forme nuove, abbandonato da tempo l’uso ormai desueto delle mail (i biglietti chi se li ricorda più) e persino l’uso degli sms, postiamo e clicchiamo sulle bacheche di Facebook e di altri social network di tutto: uova di Pasqua, agnellini, prati, fiori e uccellini, segni della Primavera che avanza. I simboli della rinascita della natura rassicurano e appaiono di buon auspicio per una nuova stagione.
I riti mantengono un valore, non solo come elemento di un ordine superiore in grado di controllare il disordine della vita. sono oggi soprattutto dichiarazioni di amicizia, atti di socialità che attraversano i luoghi in cui viviamo, le nostre bacheche, innanzitutto.

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Maria di Magdala del Bononi: una ‘cronista’ ai piedi del crocifisso

Il terremoto del 2012 in Emilia ha gravemente danneggiato chiese, musei e opere d’arte. Se si viaggia attraverso le zone colpite dal terremoto come i territori a sud di Ferrara, si vedono diverse chiese ancora sbarrate dai nastri rossi e bianchi della Protezione civile. Alcune, rimaste chiuse per molto tempo, sono di nuovo agibili (purtroppo non la chiesa di San Francesco, la mia preferita a Ferrara). E di continuo vengono riesposte al pubblico opere d’arte che sono state faticosamente restaurate per mesi, come è avvenuto al dipinto “Crocifissione con santa Maria Maddalena” di Carlo Bononi.

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Carlo Bononi, Crocifissione con santa Maria Maddalena“ (1616 ca. ), Ferrara, Chiesa delle Sacre Stimmate

Ho avuto modo di scoprirlo di recente, in una piccola mostra di capolavori ferraresi restaurati dopo il terremoto. Mi ha colpito in particolare la figura di Maria Maddalena, completamente sola, ai piedi di Gesù crocifisso. In tante, forse nella maggioranza delle raffigurazioni della crocifissione, si vede un gruppo di persone in lutto ai piedi del crocifisso, e spesso tra di loro si trova, in un angolo, anche il committente del dipinto. In questo dipinto di Bononi invece vediamo soltanto Gesù e un’unica persona addolorata e in lutto. Forse questa scena della crocifissione è esteticamente fin troppo bella. Si vede un “bellissimo corpo del Cristo”, come scrive il curatore, il mantello di Maria Maddalena dall’eleganza e dai colori magnifici. La composizione dei colori è di un seducente calore mediterraneo che contrasta con il dolore di Maria Maddalena, mortalmente triste. Ma ancor più della forma estetica, forse non armonizzante con il motivo del dipinto, mi ha affascinato questo prototipo di scena di una persona abbandonata da Dio e dagli uomini. Maria, prostrata da una tristezza infinita ai piedi della croce, non può far altro che avvinghiarsi muta e piangente al palo di legno su cui Gesù, forse l’unica grande speranza della sua vita, rende l’anima a Dio e la abbandona definitivamente. In questo momento, nel suo infinito dolore, è completamente sola, infinitamente distante dal mondo là fuori, che Bononi ha accennato in lontananza, all’orizzonte dietro al crocifisso, con i contorni di un piccolo paesino.
Di Maria di Magdala si legge nei vangeli che fosse posseduta dal demonio, che fosse una peccatrice, una prostituta, ma allo stesso tempo fu anche colei che, insieme ad altre due donne, testimoniò che il giorno di Pasqua il sepolcro di Cristo era vuoto. Fu lei che, per usare parole moderne, assunse il ruolo di cronista di un grande evento per gli altri, coloro che non sapevano ancora del fatto del sepolcro vuoto e che forse non ci potevano o non ci volevano credere. Chi vuole può perfino collegare questo episodio ai doveri dei giornalisti di oggi in qualità di cronisti.

Secondo la tradizione cristiana però Maria di Magdala non è la patrona del giornalismo investigativo, bensì delle peccatrici penitenti e dei traviati, degli scolari e degli studenti, dei prigionieri, dei produttori di profumi e ciprie. Forse anche per questo Bononi ha rappresentato la sua versione di Maria Maddalena, ancora addolorata ai piedi di Cristo crocifisso, con tale eleganza.

Buona Pasqua con il meglio di ferraraitalia

Ferraraitalia è online da quasi cinque mesi. Un primo bilancio e qualche riflessione si possono abbozzare su questo quotidiano indipendente che propone un modello di “informazione verticale” che punta, cioè, all’approfondimento. Gli strumenti giornalistici scelti per comunicare sono principalmente inchiesta, intervista, opinione e racconto di vicende emblematiche. Il gradimento è risultato elevato.

Sono stati pubblicati duemila articoli, visualizzate 165mila pagine, registrati 73mila accessi. Ferraraitalia è diffuso sul web anche attraverso i social network [vedi la pagina Facebook, vedi la pagina Twitter]. Il quotidiano ha raggiunto punte giornaliere di 3.500 lettori unici ed ha una media ormai consolidata di 1.500 lettori al giorno. Il mese scorso è stato letto da circa 30mila differenti utenti.
Sulle nostre pagine si alternano una trentina di collaboratori. Ai lettori offriamo 14 rubriche periodiche, cinque sezioni informative che, nello spazio denominato “La finestra sul cortile”, integrano il primo piano del giornale (con la rassegna di tutti i comunicati stampa, le lettere e gli interventi dei lettori, le note ricevute dai partiti, il ‘Sestante’ con le sue ‘letture e narrazioni per orientarsi’, e poi i consigli per ‘Salute e benessere’). Infine, ma non certo per ultimi, ‘Accordi’, ‘Germogli’ e ‘Immaginario’, attraverso i quali suggeriamo ogni giorno brani intonati all’attualità, pillole di saggezza o perle di ironia evocate dagli aforismi di grandi pensatori, immagini emblematiche della città, degli accadimenti che la animano e dei suoi abitanti.

L’interesse ampio è diffuso che percepiamo in maniera tangibile è un forte incoraggiamento a proseguire sulla direzione intrapresa, migliorando ancora il prodotto. Già dalle prossime settimane ci saranno alcune significative novità che speriamo rendano ancora più significativa la lettura di ferraraitalia.

Per Pasqua, però, ci concediamo il lusso dei primi due giorni di stacco. Fermarsi a rifiatare e riflettere, anche se solo per un momento, è sempre salutare. Ai nostri lettori regaliamo una sorpresa: la rassegna di alcuni fra gli articoli più apprezzati. Li trovate nella sezione “vetrina”, alla quale potete accedere cliccando [qua]. Ce ne sono una cinquantina, pensiamo siano sufficienti per sopperire alla nostra temporanea assenza…

Questione morale e vita democratica. Attualità di Enrico Berlinguer [audio]

La ‘questione morale’ come cardine di trasformazione della vita pubblica e del sistema politico in Italia. Attorno a questo nodo cruciale si è sviluppata una riflessione su Enrico Berlinguer, di cui presentiamo gli audio integrali, proposta da Istituto Gramsci e Istituto di storia contemporanea. [leggi la presentazione]
L’occasione è stata offerta dalla presentazione dell’antologia di scritti “Casa per casa, strada per strada”, curata dal giovanissimo Pierpaolo Farina. Oltre all’autore sono intervenuti all’incontro, svolto in biblioteca Ariostea, Fiorenzo Baratelli, direttore dell’istituto Gramsci di Ferrara e il sociologo Federico Varese, docente a Oxford.

Ecco gli audio degli interventi [cliccare per ascoltare]
Fiorenzo Baratelli 29min, Federico Varese 22min, Pierpaolo Farina 25min

Chi semina non sempre raccoglie

Per anni ho pensato che le architetture di pietra fossero l’obiettivo della mia vita, ma poi, qualcosa che sonnecchiava nel mio Dna si è svegliato e, da quel momento, non ho più smesso di avere qualche pianta da curare. I miei primi esperimenti li ho fatti a casa dei miei genitori: avevamo una grande terrazza e mio padre trasformò un cassettone di un vecchio letto, in una specie di aiuola rettangolare, dove seminai i miei primi ravanelli e una diabolica bustina di semi di dragoncello. Il dragoncello, o estragone (Artemisia dracunculus) è una pianta aromatica molto comune nella cucina francese, ma io la ricordo come un’infestante insulsa e puzzolente. Avrei dovuto capire già da allora, che quello che sta scritto nel retro delle bustine o nelle etichette dei fiorai e ancora su libri e manuali, sono indicazioni generali basate su medie statistiche puramente indicative. Questo significa che, rispettando alla lettera le indicazioni, la pianta ha buone probabilità di svilupparsi con quelle caratteristiche di forma e misura, ma può succedere anche l’esatto contrario. Quella è stata la prima di una lunghissima serie di prove, fallimenti e successi che mi hanno insegnato ad accettare come unica regola il rispetto, nel senso che ho imparato ad accettare il mio modo di essere giardiniera e a rispettare quello che la terra può fare spontaneamente, senza troppe forzature.
Tutto chiaro, quasi banale, eppure, ancora oggi, persevero nei miei errori, cercando di fare cose sovradimensionate al mio tempo e alla mia attrezzatura. Il più frequente è il desiderio di cimentarmi con le semine. Sembra tutto così facile: controlli se la luna è quella giusta, apri la bustina, prepari i vasetti, li riempi con un buon terriccio fine, prepari i buchi proporzionati alla dimensione dei semi, copri con un velo di terra quelli piccoli o interri quelli più grossi, una spruzzata di acqua, proteggi i vasetti con un telo di plastica trasparente, forato e aspetti. Questa è la teoria. La pratica è diversa. Un anno acquistai da una rinomata ditta inglese una trentina di bustine costosissime. Mi preparai con cura e dopo qualche settimana di attesa, avevo dei vassoi pieni di terra e di piantine germogliate con successo. Quell’anno non feci bene i conti con le lumache e quando decisi di togliere il telo di protezione, mi dimenticai di spolverizzare il tutto con una dose generosa di veleno (non avevo ancora imparato ad usare la cenere come efficace deterrente naturale) e in una notte, tutte le mie piantine furono divorate dalle simpatiche bestiole. Per anni non seminai più nulla.
Negli ultimi anni ho fatto altri esperimenti, soprattutto dopo aver provato il sito della ‘Semeria’ [vedi] che mi ha permesso di sbagliare senza spendere delle follie. L’anno scorso, io e il marito, abbiamo costruito una seminiera riciclando cassettine da frutta, le abbiamo impilate e sostenute con una struttura di assi di legno, non è bella, ma è solida, funzionale e posso fissare il telo protettivo alla struttura stessa. Anche l’anno scorso però, ci sono stati degli imprevisti: parte delle piantine sono state schiacciate dalle gatte che sono andate a dormire in cima alle cassette; altre si sono seccate perché mi sono dimenticata di innaffiarle, altre ancora sono sparite perché ho avuto fretta di metterle in terra. In compenso ho avuto una buona fioritura di annuali come le ipomee e i piselli odorosi, ma quella che mi ha dato più soddisfazione è stata la Nicotiana alata, una pianta che desideravo da tempo. È una erbacea perenne, i suoi fiori si aprono di sera e profumano la notte. Ci sono varietà comuni a fiore bianco e altre dai colori pastello e come dice il nome, è una parente della pianta del tabacco. Di tutte quelle seminate alcune piantine sono finite in un grande vaso, sono fiorite a fine estate e poi, come spesso fanno le perenni, è sparita durante l’inverno. Pensavo fosse defunta, ma pochi giorni fa, ho visto delle promettenti foglioline che stanno spuntando dalla terra. Un’altra invece è già fiorita ed è bellissima, forte e piena di foglie larghe e pelosette. Avevo buttato il fondo di una bustina di semi in una crepa del marciapiede. Il colpo di genio era stato ispirato dal ricordo di alcune Nicotiane che avevo visto crescere benissimo lungo il muro di una vecchia villa. La posizione protetta ha conservato le prime foglie dell’anno scorso, la pianta è cresciuta durante l’inverno mite e adesso è alta 80 centimetri e i suoi fiori sono stati una sorpresa color tramonto. Certo, restringe il passaggio, ma quando la sfiori alla sera, profuma l’aria e ti regala un po’ di meraviglia. Buona Pasqua.

Al tempo della crisi anche per il bancario il lavoro è un’incognita

L’archetipo del posto fisso e delle sedici mensilità è crollato. Persino il bancario può finire la sua carriera da esodato. Alfio Leotta, bancario e vignettista, racconta per immagini dall’assunzione all’ultimo giorno di lavoro in Una vita da bancario, strisce comiche di vita creditizia, un ebook pubblicato da Festina Lente edizioni, 2014.
Alfio Leotta, che si firma Fleo, è marchigiano e dagli anni settanta coltiva la passione per il disegno umoristico partecipando a numerose rassegne sia in Italia sia all’estero e collaborando con Corrado Tedeschi editore.
Alfio Leotta, anzi Fleo, da un lavoro sicuro all’uscita di scena prima del tempo, tutto può cambiare…
“È amareggiante avere acquisito, in anni di lavoro, competenze e professionalità che ora non servono più. Ero un funzionario di banca, ma un bel giorno costavo troppo e ho dovuto lasciare. È cambiato tutto così velocemente che non ho potuto riprogrammare le cose”.
Una vita da bancario è il racconto di una vita al lavoro e di una trasformazione del modo di lavorare a seguito della meccanizzazione. Possiamo leggerci anche le trasformazioni sociali degli ultimi trent’anni?
“Certamente. La meccanizzazione è il contrario dell’umanizzazione e l’uomo si deve adattare a un approccio automatizzato. Il cambiamento tecnologico all’interno della banca è lo specchio di un cambiamento della nostra società dove ci siamo fatti più individualisti, egocentrici e sostituibili”.
Il sottotitolo di Una vita da bancario, è strisce comiche di vita creditizia. L’umorismo per salvarsi?
“Sì e ne sono convinto. Umoriosmo e autoironia servono sempre e, in particolare, quando ti capita qualcosa che ti cambia la vita. Una vita da bancario non è la storia di un uomo dentro una banca, è la storia, nata da contesti reali e battute scambiate fra colleghi e clienti, di chi lavora in quell’ambiente, qualsiasi istituto di credito, insomma”.
Le prime vignette raccontano l’entusiamo di entrare a fare parte di una grande famiglia, di un gruppo che, poi, a un certo punto ti chiede il contratto di solidarietà e, per ridurre i costi, di diventare un esodato.
“Chi, come me, ha lavorato tanti anni in banca, è stato messo da parte e si è sentito inutile pur essendo ancora giovane e disponibile a restare al proprio posto. Questo distacco forzato dal nostro ruolo, durato decenni, lo abbiamo umanamente sentito, eccome”.
Ma l’orologio d’oro che avrebbero dovuto regalarle a fine carriera, è arrivato?
“L’orologio d’oro non è mai arrivato, era una bufala d’altri tempi e la carriera è finita prima del tempo…”
Le vignette conclusive dell’ebook riferiscono la visione che i bancari hanno della nuova banca. Quale sarebbe?
“Una specie di robot che rassicura il cliente dicendogli che avrà l’attenzione che merita e il massimo del calore umano”.

ll cronoprogramma e il concetto di ‘incommensurabile’

In via Zamboni a Bologna nella zona universitaria, in piazza Scaravilli per la precisione, il sabato e il lunedì mattina, quando c’era il ’68 e le immagini del Che Guevara incollate alle colonne dei porticati, un noto professore di statistica faceva lezione e le prime tre ore le dedicava al concetto e al significato di “incommensurabile”, utilizzando un linguaggio sostanzialmente filosofico.
Un’aula strapiena, molti in piedi, oltre trecento matricole impaurite che non capivano e che si guardava attorno, pensando che Statistica 1 (piena di formule complicate) fosse altra cosa; poi, dopo alcuni mesi e a lezioni quasi terminate, compresero il perché di quelle ‘digressioni’ di filosofia e del valore dei numeri.
Chi poi per motivi professionali è stato coinvolto nell’analisi delle poste di bilancio, nella sua articolazione e formazione, in alcuni indici, nella struttura dei costi, nei budget e nel controllo di gestione, nel marketing territoriale, nelle scienze sociali, sa distinguere e capire che l’econometria e tutto ciò che è cifra non si riduce alla ‘questione dei due polli’.

Fatta questa dovuta premessa, non posso che soffermarmi su ciò di cui si è discusso in questi giorni a palazzo Chigi, ossia sul Def – Documento di economia e finanza del governo, e del perché, finalmente, si sia insistito sul cronoprogramma.
Vale a dire, in soldoni, che si parla di date e scadenze, di importi in numeri, di coperture, di riordino della spesa, di investimenti, sulle principali azioni che l’esecutivo realizzerà con gli strumenti di progetti / disegni / decreti / provvedimenti, in un quadro temporale ben definito, perché serve più il fare che il faremo.
Ma se si vuole evitare che Roma non decida, pensando a Sagunto, come evitare che anche sui territori (regioni, comuni, luoghi degli apparati e delle burocrazie, aziende ed enti pubblici), il fuoco possa espandersi, trovando troppe incoerenze e, quindi, ogni cambiamento svanire, facendo perdere la speranza del Paese?
Pensare che quell’ “incommensurabile” della statistica, non nel senso della misura relativa ma della sua presenza di cifra, debba radicarsi anche nei particolari dei programmi dei candidati sindaci, è la condizione per capire la direzione di marcia di un’amministrazione, soprattutto se pubblica e rivolta al bene comune.
Salvo pochissimi e limitati casi, anche nelle municipalità ferraresi e non solo vediamo troppe descrizioni e slogan, grafiche web anche belle e accattivanti, ma solo piccole operazioni di immagine, una agenda fitta di incontri per una campagna elettorale che ci pare riscaldi poco ed entusiasmi pochissimi cittadini.
Del perché a fianco dei singoli progetti/programmi non ci sia quasi mai una descrizione precisa e puntuale, una cifra in euro, quando iniziano i lavori e/o la riorganizzazione funzionale, quando terminano, dove sono le fonti e le risorse, la loro provenienza, i cofinanziamenti e con chi, se con il Comune vicino e/o contiguo, anche più in là se si pensa all’Unione dei comuni. E dove i due bicchieri non sono a pari livello, togliere di qua per mettere di là, e se c’è almeno d’idea della fusione per piccoli e piccolissimi Comuni che da soli non ce la fanno, e così via. Di tutto questo non è dato a sapere.

Se Renzi fa il cronoprogramma ma gli altri (i sindaci) nelle periferie no, come sarà il ‘cambio verso’? Come può avvenire il cambio di passo se non si cambia almeno un po’? Lascio l’interrogativo al cortese lettore.
Ci diceva, allora, il professore: “Dietro e dentro ai numeri ci sono sempre le persone, non dimenticatelo mai”.
Allora metteteci almeno un numero, anzi la cifra, grazie.

La tartaruga vip di Marino Moretti

Una volta, nell’autunno del 2000, ho accompagnato la scrittrice e professoressa Roseda Tumiati (ci ha lasciato nel 2005) a Cesenatico, perché desiderosa di rinfrescare i ricordi delle tante estati passate sulle spiagge adriatiche, ma anche di visitare la casa di Marino Moretti, oggi museo ben curato che ne racconta la vita e le opere.
Devo confessare che non avevo mai sentito parlare di Moretti fino a quel giorno. Ma ho avvertito subito cosa significasse per Roseda la poesia morettiana: mentre Giorgio Bassani restava sicuramente il suo scrittore più amato, apprezzava di Moretti il suo modo di scrivere e l’amicizia dimostratale nel tempo, come si evince dalla prefazione del libro di Roseda Tumiati Il mondo gelatina.

Quel giorno, a Cesenatico, accanto alla casa morettiana, c’era anche, guarda caso, un certo Beppe Grillo, ma parlare di lui e del suo soggiorno a Cesenatico sarebbe tutta un’altra storia da raccontare. Tornando a noi, era davvero commovente vedere Roseda Tumiati di fronte a Cunegonda, l’amata tartaruga di Moretti che ha accompagnato il poeta durante tutta la sua vita. Cunegonda è stata in un certo senso una tartaruga vip, in quanto ha preso parte alla storia della letteratura italiana, seppure da un punto di vista ‘raso terra’; non si trova però nessun accenno di questo rettile saggio e fedele in nessuna delle opere letterarie del maestro. La Cunegonda è morta dieci anni fa, proprio a fine marzo. Era ultracentenaria, aveva 150 anni, potremmo dire che si è trattato dell’ l’unico esempio di ‘bene culturale vivente’ ultracentenario in Italia.
Roseda Tumiati amava Moretti forse perché si identificava in lui, possedendo la sua stessa malinconica ironia. Quel giorno ha spesso citato, con uno sguardo ammiccante, una sua famosa poesia dedicata a Cesena:

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuove gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me così parla, così
senza dolcezza, mentre piove:

«La mamma nostra t’avrà detto che…
E poi si vede, ora si vede e come!…
Sì, sono incinta…Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna: è una buona gravidanza…»

Ancora parli, ancora parli; e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.
E l’anno scorso eri così bambina! »

Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.

Il pensiero lungo di Berlinguer alla biblioteca Ariostea confronto fra Baratelli, Varese e Farina

«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche»

Di questione morale come nodo centrale da affrontare per impedire la degenerazione della vita politica italiana Enrico Berlinguer parlava già quasi 35 anni fa, fin dal 1981, in termini estremamente chiari. La lucida analisi riportata qui è contenuta in un’intervista rilasciata il 28 luglio 1981 a Eugenio Scalfari, direttore del quotidiano Repubblica [leggi]

E quando il segretario del Pci auspicava austerità, intendeva richiamare la necessità per ciascuno di attenersi a stili di condotta sobri, lontani da tentazioni consumistiche nella vita privata e da comportamenti inopportuni in quella pubblica.

Ecco al riguardo le sue conclusioni al convegno dell’Eliseo del 1977: «L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è così per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata». [leggi in proposito un commento di Giorgio Lunghini pubblicato il 14 febbraio scorso dal quotidiano Europa]

Di Enrico Berlinguer parleranno oggi pomeriggio alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea: Fiorenzo Baratelli, direttore dell’istituto Gramsci di Ferrara, Federico Varese sociologo della Oxford University, Pierpaolo Farina autore del libro “Casa per casa strada per strada”. Coordinerà gli interventi Roberto Cassoli dell’istituto Gramsci. Organizzano l’incontro l’Istituto Gramsci e l’Istituto di Storia Contemporanea

Quando al potere c’era ‘Il divo’

Guerre puniche a parte, mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Italia. Nel corso degli anni mi hanno onorato di numerosi soprannomi: il Divo Giulio, la prima lettera dell’alfabeto, il gobbo, la volpe, il Moloch, la salamandra, il Papa nero, l’eternità, l’uomo delle tenebre, Belzebù; ma non ho mai sporto querela, per un semplice motivo, possiedo il senso dell’umorismo. Un’altra cosa possiedo: un grande archivio, visto che non ho molta fantasia, e ogni volta che parlo di questo archivio chi deve tacere, come d’incanto, inizia a tacere. Giulio Andreotti

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locandina del film

Un uomo che soffre di terribili emicranie e arriva a contornarsi il volto con l’agopuntura pur di lenire il dolore: questa la prima immagine di Giulio Andreotti ne Il divo, questa l’apertura.
Il film racconta “la vita spettacolare di Giulio Andreotti”, un vero e proprio pezzo della storia italiana, un uomo minuziosamente analizzato e descritto nei suoi modi di fare, di dire, nelle sue abitudini, nei suoi tic e nella sua postura. Sorrentino ripercorre i passaggi della vita di Andreotti, dalla fine della sua settima presidenza del consiglio, con la massima carica istituzionale del paese all’orizzonte, fino all’inizio del processo che lo vede accusato di associazione mafiosa, accusa dalla quale verrà assolto. Impeccabile e impenetrabile, il senatore a vita affronta serafico questa fase della sua esistenza, superando tutte le prove che la quotidianità, di volta in volta gli propone.
Il film è, per certi versi, spietato, impietoso, amaro, doloroso e lancinante. Unico.
La faccia di gomma (finta e inumana) di Toni Servillo, spesso deformata in chiave grottesca, tragica e ironica al tempo stesso, diventa simbolo crudele, forte, imperdonabile e inassolvibile della mediocrità dell’uomo medio al potere: quasi senza qualità e timore, e proprio per questo ahimè adatto a governare. Spesso l’espressione fissa e immutabile di questo grande attore ci suggerisce l’immobilismo e la staticità di una politica che “tirava a campare piuttosto che tirare le cuoia”. Anche il modo in cui è presentata la “corrente andreottiana”, neanche fosse una gang malavitosa, sottintende la completa e assoluta devozione dei compagni di partito al “capo”.

Il divo Giulio, assuefatto al potere e al quale si è completamente dedicato e consacrato, viene presentato come un uomo spesso inintellegibile, impenetrabile, le mani nodose (costantemente illuminate) che parlano al posto del viso, l’emicrania continua e persistente e il ricordo di Moro a tormentargli il cervello; il marito fedele che stringe la mano della moglie durante la splendida canzone di Renato Zero, Il Cielo, che scorre sullo schermo televisivo, un uomo che rimane anche per lei misterioso, fino alla fine. Lei, Livia, sua unica, vera e intima compagna.

il-divo
una scena del film

Una presa di coscienza individuale e collettiva quando il politico le confessa: “Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava, io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa – ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. (…) Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io”. Parole dure, di pietra. Perché i “nuovi mostri” siamo noi, avrebbe detto Risi.

di Paolo Sorrentino, Italia 2008, 110 mn.
Cast: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Piera Degli Esposti, Alberto Cracco, Lorenzo Gioielli, Paolo Graziosi, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Giovanni Vettorazzo.

Caccia selvaggia al parcheggio nella giungla d’asfalto

Guidare richiede un esercizio zen al giorno. Almeno. Succede nella città delle biciclette e anche nelle grandi metropoli, dove cambia giusto l’entità degli ingorghi e il chilometraggio delle distanze. Tuttavia la maleducazione, o se è più d’effetto la mala educaciòn, è il trait d’union tra la dimensione provinciale e quella metropolitana, l’elemento comune, il collante di scorribande villane e prepotenze innegabili, che rivelano l’uomo per quello che è: un barbaro. Bardato da cafone o firmato dalla testa ai piedi non fa differenza. E’ un troglodita, che la strada sa scatenare facendogli mettere in scena le peggiori performance di cui è capace. In proposito c’è un’inesauribile bibliografia cinematografica, ma il mio pezzo preferito è quello di Nanni Moretti ne “La messa è finita”, il parcheggio è l’espediente su cui è stata costruita una delle scene più descrittive di un’epoca a quattro ruote. Alle rimostranze del sacerdote, la bestia in giacca blu che gli ha soffiato il posto, scende dall’auto e tenta di affogarlo in una fontana. Tempi moderni, per carità. Però basta.

E’ ora di farla finita con i piccoli gesti di prepotenza, perché danno la stura a quelli più grandi fino a divenire la cifra stilistica di un esercito sempre più vasto e rozzo. La maleducazione si trasmette con l’intensità del virus, incurante dell’età. E quando trova un focolaio ci dà dentro di brutto. Piazza Ariostea, in questo, è davvero un esempio per l’ammucchiata di auto parcheggiate anche in tripla fila, per la scortesia e la distrazione di chi lascia il suo posto in mezzo alla strada senza nemmeno guardare lo specchietto retrovisore. Problemi di chi transita. Pensavo però che la questione fosse più seral-pomeridiana, invece no. Il focolaio è sempre attivo fin dal mattino, meglio di un pronto soccorso.

Stavo facendo marcia indietro per infilarmi nel parcheggio di fronte al loggiato dei caffé, quando a metà manovra mi blocco per l’assolo di clacson, guardo lo specchietto e vedo un macchinone chiaro infilarsi di gran carriera al mio posto. Retrocedo, abbasso il finestrino e gli faccio presente la situazione. Risposta. “Ah, ma io giro da mezz’ora”. Spiazzante. Replica: “Mi spiace, ma è una scorrettezza”. Lui: “Pazienza”. Io: “Maleducato”. Lui: “Va bene”. Va bene? Manco per niente. Avrà avuto 60 anni suonati, forse qualcosa di più. Alla faccia del cavalierato, quando s’incontrano gentleman di tanta raffinatezza si resta di sale e io mi sono sentita anche “babbiona” per aver usato quell’aggettivo fuori tempo, da vocabolario, quando potevo strillargli suo muso il mio “vaffa” più colorito, da camallo, un genere di gran moda. Son certa che avrebbe capito il mio punto di vista. Invece sono rimasta lì con la mano stretta intorno cambio, in preda alla voglia di trascinarlo alla fontana (purtroppo è solo una fontanella) e di mitragliargli il macchinone. Lo ammetto, la barbarie è contagiosa. Soprattutto se fanno di tutto per tirartela fuori.

Ho parcheggiato in uno stallo a una decina di metri da quello scippato, nell’uscire sono rimasta intrappolata tra due suv – vettura utilissima in una città di pianura – entrambi volevano infilarsi al mio posto, ma senza spostarsi per evitare di perderlo. Un braccio di ferro tra giganti. Forse pensavano guidassi un elicottero capace di alzarsi in verticale. Dev’essere la piazza a scatenare la “mala guida” o meglio la “mala sosta”, è un fatto conclamato oramai da anni. Un evento metropolitano appunto. Di mala educaciòn tollerato anche dai vigili urbani, che cinquecento metri più avanti multano anche chi pensa di sostare dove non può. Anche questo un segno dei tempi, naturalmente. Però basta.

…E a proposito di parcheggio [vedi spezzone dal film “La messa è finita di Nanni Moretti”]

Radio alternative: intatta è l’ambizione libertaria, per vivere ci affidiamo all’autofinanziamento

di Elisa Gagliardi e Alice Magnani

2.SEGUE – Compatti nel delimitare alle questioni di rilevanza sociale il contenuto della loro azione informativa, le redazioni di Città Fujiko, Città del Capo e Kairos concentrano la loro trattazione sui temi del lavoro, con il racconto di scioperi e vertenze sindacali, della politica, con la preminenza affidata alle decisioni e non alle diatribe tra i contendenti politici, sulle questioni abitative e sanitarie, su ambiente ed ecosostenibilità, mafia e criminalità organizzata. Con una cura particolare spesa nella consultazione di fonti diversificate, che non comprendono solo i canali dei media tradizionali e il taccuino dei contatti personali, ma anche le segnalazioni degli ascoltatori, le risorse della rete e la trama di relazioni intessuta con l’associazionismo e con gli altri soggetti operanti sul territorio.

Il fronte delle radio libere rappresenta una ricchezza e una specificità per il panorama dell’informazione locale. Sottoposte ad un processo evolutivo costante che, negli anni, ne ha modificato conformazione e assetto, le emittenti hanno visto mutare anche il proprio pubblico. La platea di ascoltatori di radio Città Fujiko, che in origine era composta principalmente da studenti, operai ed elettori della sinistra radicale, si è progressivamente ampliata ad una fascia di fruitori eterogenei con istruzione medio-alta: «Non parliamo più solo ai centri sociali o alla sinistra estrema – spiega Canella – ora abbiamo molti più ascoltatori e anche i social network ci aiutano ad accrescere il pubblico, facilitando la visualizzazione degli articoli». Anche Manassi sottolinea la differenziazione di pubblico occorsa durante gli anni: «Abbiamo ascoltatori di 50-60 anni che ascoltano la radio senza usare la rete, ma anche giovani che ci seguono in maniera selettiva, leggendo e utilizzando molto i social». Una cosa è certa: da quando la radio è attiva anche sul web c’è stato un crescente ampliamento di utenti. «Oggigiorno la rete è fondamentale: molte persone arrivano a conoscerci solo grazie ad essa», conclude la responsabile di radio Città del Capo. «I nostri ascoltatori costituiscono una comunità agguerrita, che partecipa attivamente alla costruzione della radio tramite la chat del nostro sito», racconta Tommasini di Kairos, che aggiunge: «Ci seguono i trentenni e le persone meno giovani, i musicisti e la comunità LGBTQ».

Ma come fanno a sopravvivere, a coprire i costi di mantenimento delle antenne e dell’equipaggiamento tecnico? Radio Città del Capo in questo si distingue con il ricorso ad una forma di autofinanziamento che chiede agli ascoltatori di versare una quota per l’abbonamento annuale (87 euro, che si riducono a 37 per precari e studenti). Data la scelta di ricorrere in scarsa misura alla vendita di spazi pubblicitari, l’emittente si garantisce introiti anche attraverso la produzione di alcune trasmissioni a pagamento, come la diretta delle sedute del Consiglio Comunale di Bologna e di quelle dell’Assemblea legislativa regionale.
Anche radio Città Fujiko si sostenta con trasmissioni a pagamento e programmi extra rispetto al normale palinsesto, ma anche con eventi di autofinanziamento, gadgettistica e, soprattutto, con la pubblicità, che sottrae sei minuti di ogni ora al flusso della diretta ma rimane coerente con il sistema di valori fondamentali cui si richiama la testata: «Ci rifiutiamo di pubblicizzare armi, pellicce o multinazionali» – ci tiene a precisare Canella. Quanto a radio Kairos, le sue forme di sostentamento uniscono risorse provenienti dalla vecchia gestione ad eventi in cui l’ascoltatore diventa parte attiva, come quando l’emittente allestì un mercatino di oggetti usati donati dagli ascoltatori. Un’altra modalità che la piccola emittente di via Casarini ha sviluppato per sostenere i costi sono i progetti, con laboratori di radiofonia che cercano di coinvolgere il maggior numero possibile di ragazzi. Il tutto avviene in collaborazione con diversi centri culturali e cooperative di servizi socioeducativi come “La Piccola Carovana”.

Sui legami con l’epoca d’oro di emittenti libere che avevano fatto della militanza politica la loro peculiare ragion d’essere, gli indipendenti di oggi hanno le idee chiare: «Ad essersi mantenuta intatta è l’ambizione libertaria – spiegano da radio Città Fujiko – quello che è cambiato è, invece, lo scambio continuo che prima fluiva tra ascoltatori e operatori della radio, in assenza di palinsesto. Oggi quel dialogo è venuto un po’ a mancare – prosegue il direttore – ma veniamo ascoltati da un pubblico con un livello culturale più alto e abbiamo allargato il nostro target». Per radio Città del Capo, ad essere rimasti gli stessi sono i caratteri fondamentali: «L’essere piccoli ma flessibili e veloci allo stesso tempo, la capacità di fare comunità nell’ascolto e nel gruppo di lavoro e lo spirito identitario. Il collettivo rimane il nostro punto di forza», conclude Manassi. L’accento posto sulla dimensione comunitaria trova concorde anche Tommasini di Kairos: «L’eredità degli anni ’70 è racchiusa nella costruzione collettiva della radio. La nostra non è una comunicazione unidirezionale perché tutti possono farne parte».
E se è il concetto di condivisione a caratterizzare queste consolidate realtà della radiofonia alternativa, i rapporti tra di loro in passato non hanno lesinato contrasti di natura politica, con la rivalità tra radio Città del Capo e radio Città Fujiko che, secondo la lettura di Canella, «è stata determinata da motivi storici, forse dovuta dal fatto che noi abbiamo preso fin da subito una posizione netta».
Le relazioni tra le due radio si presentano oggi più che mai distese. Infatti, nonostante la collaborazione non sia strettissima, non sono infrequenti tra le due emittenti scambi di contatti e collaborazioni tra colleghi: «Se ci accorgiamo che ai redattori di Città del Capo manca una notizia, gli diamo volentieri l’imbeccata», dicono da radio Città Fujiko. Inoltre, le tre emittenti ricordano come il progetto musicale “Threesome” abbia unito le loro forze: «Abbiamo organizzato serate di musica live in diretta radio a cui hanno partecipato i conduttori di tutte e tre le radio».

2.FINE
LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA

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Radio libere dal fai-da-te al web, una storia ribelle che continua

di Elisa Gagliardi e Alice Magnani

Antenne di fortuna, bassi costi degli impianti, attrezzature fai-da-te e facilità di comunicazione furono gli ingredienti di base che negli anni Settanta determinarono la proliferazione delle radio libere. In un clima di fervore partecipativo favorirono il coinvolgimento degli ascoltatori con il meccanismo delle dirette, esaltarono il collettivismo e la vocazione libertaria del movimento studentesco.
L’attività di radiodiffusione è stata regolarizzata nel 1976, anno in cui la Corte Costituzionale ha sancito la liberalizzazione di un etere che già da un paio anni era stato in parte colonizzato da pionieri dell’emittenza autogestita che avevano sfidato il monopolio della Rai con trasmissioni radiofoniche pirata.

Tra le città italiane fu il capoluogo emiliano a battezzare, con “Radio Bologna per l’accesso pubblico”, il primo esperimento di radiofonia indipendente, funzionando da laboratorio anche per altre esperienze radiofoniche alternative destinate a lasciare il segno. Come quella dell’iconoclasta radio Alice che, prima di essere sequestrata dalla polizia nel 1977 delle contestazioni studentesche, fece in tempo a sovvertire i canoni della radiofonia ufficiale e a dirottare i propri ascoltatori sulle frequenze di Radio Città, chiamata in causa come fonte di “ulteriori informazioni” nei concitati minuti che precedettero lo sgombero delle forze dell’ordine. Quel numero telefonico comunicato in diretta «è tuttora il nostro recapito», svela con una punta di emozione Alessandro Canella, direttore di quella che, dal 2004, ha mutato il suo nome in “radio Città Fujiko” e, con la sua storia ultratrentennale, si attesta come una delle esperienze più longeve nella storia della radiofonia indipendente italiana.
«Radio Città nacque nel 1976 per iniziativa di una cooperativa di giornalisti della sinistra bolognese come radio libera privata», racconta Canella. Una storia di attivismo radiofonico legata a doppio filo agli ambienti del movimento antagonista bolognese e non immune all’inveterata mania per le scissioni che tanto ha condizionato le sorti dei partiti di sinistra: «Nel 1986 una costola della redazione fuoriuscì dal collettivo per dissensi politici dando vita a radio Città del Capo», ricorda ancora Canella, precisando che la divisione si consumò «tra un’ala più filo Pci e un’altra più vicina a Democrazia proletaria». Mentre Lucia Manassi, direttrice di Città del Capo, individua all’origine della diaspora «una divaricazione tra chi voleva restare ancorato a forze politiche strutturate e chi voleva che la radio continuasse a fare scelte editoriali in autonomia, svincolandosi da qualsiasi linea politica».

Mentre radio Città del Capo muove i primi passi nella prima sede di via Cartolerie, radio Città rinsalda la sua identità aggiungendo al suo nome storico il numero della frequenza occupata. Ed è da “Radio Città 103” che, nel 2004, si fonde con i ragazzi di radio Fujiko, emittente giovane, popolarissima tra gli studenti bolognesi, che l’editore Arci aveva sollevato dalle difficoltà economiche cedendone la frequenza a radio Città del Capo.
Pur connotandosi ancora come strumenti di evasione dal pensiero unico degli organi ufficiali, le emittenti superstiti della rivoluzione radiofonica degli anni ’70 hanno scelto di adottare una configurazione meno “situazionista”: «Al contrario di radio Alice – sottolinea Manassi – sia Città del Capo che l’originaria radio Città hanno sempre posseduto una struttura interna ben definita, con una composizione precisa della redazione e dell’organico». Anche se, come precisa Canella a proposito dell’attuale radio Città Fujiko, un retaggio della prima stagione delle emittenti libere sopravvive nell’assenza di «una struttura piramidale» e in un’organizzazione priva di gerarchie consolidate che «lascia molto spazio all’autonomia delle persone». Più ancorata all’irregolarità libertaria della prima ora appare radio Kairos, piccola emittente comunitaria inglobata nel Tpo di via Casarini, ed erede dell’esperienza di radio K Centrale, che negli anni ’90 aveva propagato nell’etere la protesta degli studenti militanti nella Pantera.

«Alle trasmissioni lavora un collettivo di 30 volontari», spiega Flavia Tommasini, direttrice dell’emittente, ma senza vincoli di palinsesto: «La programmazione risponde alla disponibilità del momento perché non possiamo contare sull’apporto di forze stabili». Così l’emittente ha detto addio agli spazi di informazione continua che gremivano inizialmente il palinsesto: «Abbiamo riflettuto sul tipo di radio che dovevamo essere e ci siamo detti che sarebbe stato meglio scavare nella propria comunità che sforzarsi di dare notizie in anteprima». Ora che Il lavoro di redazione si incardina sull’approfondimento delle questioni ritenute interessanti, l’unica finestra informativa sopravvissuta alla ristrutturazione è “Il caveau”, trasmissione mattutina di lettura dei giornali e interviste in onda dal lunedì al venerdì.

Fin dal nome le radio libere rivendicano la loro specificità: mentre quello di radio Città del Capo è un omaggio alle proteste anti-apartheid che a metà degli anni ’80 si tenevano in una delle capitali del Sudafrica, Città del Capo, appunto, radio Fujiko lo mutua dal personaggio femminile immaginario della serie di manga e anime “Lupin III” creata da Monkey Punch. Fujiko, detta anche Margot, «rappresenta un ideale di donna libera, furba e attiva, che ci sembrava potesse incarnare al meglio l’immagine di una radio indipendente», rivela Federico Minghini, detto Mingo, uno dei fondatori dell’emittente. Quanto al nome di radio Kairos, deriva dalla K di radio K Centrale, cui, al contempo, si aggiunge il concetto filosofico di Kairos, parola che, nell’antica Grecia, significava “tensione, momento giusto o opportuno, attimo in cui far accadere qualcosa”.

Quello che emerge dalla descrizione della pratica redazionale di questi operatori radiofonici è un attento lavoro di cesello che leviga il taglio informativo dei contenuti secondo criteri di correttezza e di rigore: «Battezziamo delle notizie nostre e le seguiamo fino in fondo – illustra Manassi – ma non ci affidiamo mai a voci di corridoio non confermate. Di solito verifichiamo le notizie incrociando due o più fonti, dobbiamo essere solidi in quello che facciamo, non possiamo permetterci querele, ci condurrebbero al fallimento» – conclude la responsabile di radio Città del Capo. «Non abbiamo la presunzione di essere imparziali, abbiamo la nostra linea di pensiero e non la nascondiamo», chiosa Canella, che aggiunge: «L’attenzione viene mantenuta alta sulla correttezza delle notizie. Non ci limitiamo a diffondere un lancio di agenzia, ma andiamo a scavare la problematica che emerge da un fatto, confrontando fonti diverse prima di dare una lettura delle notizie».

Quanto allo spettro dei temi privilegiati e al raggio di copertura dei notiziari, l’azione di questi avamposti dell’informazione alternativa si sprigiona in un’esaltazione del localismo, un saper stare sul territorio che non disdegna incursioni in scenari di interesse nazionale e internazionale: «Siamo radicati nella dimensione bolognese – chiarisce Manassi – ma non ci limitiamo a restare confinati nel recinto del locale, su temi come la musica, la cultura e la tecnologia, il nostro sguardo si fa globale». «Privilegiamo la questione dei diritti e delle diversità – sottolinea la responsabile di radio Kairos – e teniamo gli occhi puntati sui fermenti che animano la scena culturale cittadina». Ma i maggiori sforzi dell’emittente di via Casarini si concentrano sui temi della decostruzione di genere e sulla centralità del linguaggio, «importantissimo strumento di costruzione del pensiero su cui è fondamentale fare attenzione», per evitare che un suo uso tendenzioso continui a fuorviare le nostre costruzioni di senso su argomenti spinosi come l’identità di genere e l’immigrazione.

1.CONTINUA

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Un’Arena arcobaleno, la liberazione oggi si chiama disarmo

25 aprile 2014: una data significativa per più di un motivo. Il 25 aprile è il giorno in cui si commemorano la Resistenza e la Liberazione dal nazifascismo. Se si aggiunge il 2014, anno del centenario della Grande Guerra, la giornata racchiude entrambe le catastrofi del Secolo Breve europeo. Non è dunque scelto a caso l’appuntamento dell’Arena di Pace a Verona, organizzato da un comitato promotore che riunisce cinque organizzazioni: Sbilanciamoci, Rete disarmo, Movimento Nonviolento, Cnesc e Forum servizio civile. Il mondo della pace torna dunque all’Arena, che più volte negli anni ’80 e ’90 è stata il luogo per i suoi raduni: il primo è stato nell’ottobre del 1986, poi il 1989, l’anno dello storico monito “In piedi, costruttori di pace!” di don Tonino Bello, e gli appuntamenti del 1991 in opposizione alla guerra del Golfo, infine l’ultima nel 2003, quando padre Zanotelli ha chiesto di esporre le bandiere arcobaleno come segno di contrarietà alla guerra in Iraq.

Ed è ancora il missionario comboniano a lanciare questa nuova grande celebrazione laica della pace, con un appello su arenapacedisarmo.org, “non solo ai politici ma innanzitutto a noi stessi”, chiedendo a chi vi parteciperà di assumersi la responsabilità “di essere parte del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”. Hanno già aderito: don Luigi Ciotti di Libera, Susanna Camusso e Maurizio Landini della Cgil, Carlo Pedrini di Slow Food, Paolo Beni, presidente Arci, Gianni Bottalico, presidente Acli, Cecilia Strada, presidente di Emergency, Ugo Biggeri, presidente di Banca Popolare Etica. Tanti anche gli artisti: Moni Ovadia, Lella Costa, Marco Paolini, Ascanio Celestini, Natalino Balasso, Fiorella Mannoia.
Ne abbiamo parlato con Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento – in cui milita fin dalla sua fondazione – ed ex Difensore Civico della Regione Emilia Romagna.

Le parole d’ordine per questa ‘giornata nonviolenta’ sono “La Resistenza oggi si chiama nonviolenza, la Liberazione oggi si chiama disarmo”, il collegamento con i valori resistenziali quindi è ben lontano dall’essere puramente formale.
La Resistenza indica il momento nel quale ci si oppone a una realtà inadeguata che ti costringe, che ti chiude e Capitini – fondatore del movimento nonviolento ndr – ci diceva che la nonviolenza è il punto di tensione più profonda per il sovvertimento di una realtà inadeguata, cioè la nonviolenza cerca di andare alle radici della chiusura e della violenza che ci costringe. Questo è il primo elemento che collega nonviolenza e resistenza. Di qui anche la necessità che la resistenza si approfondisca, perché anche in assenza di una guerra guerreggiata si avverte la sensazione di un mondo che si chiude su se stesso, questa assenza di futuro, questa incapacità di progetti individuali e collettivi, a tutto questo bisogna resistere e farlo usando gli strumenti della nonviolenza. Per questo il nesso fra liberazione e disarmo, per sottolineare la componente della scelta di non opporre violenza a violenza, non solo come scelta etica, ma soprattutto come esperienza storica: abbiamo visto e vediamo infatti che la violenza e la forza, anche quando usate con le migliori intenzioni, hanno degli effetti che nel tempo si rivelano deleteri. C’è una frase secondo cui «Un fine che per essere raggiunto richiede l’uso di mezzi ingiusti, non può essere un fine giusto», a dirlo non è Gandhi ma Carl Marx. Da tutto ciò discende la necessità del disarmo, prima ancora che nelle armi nelle nostre teste, come ha affermato il presidente del movimento nonviolento Mao Valpiana concludendo la marcia della Pace del 2011.
Comincia a diventare più chiara ora un’espressione che si legge nell’appello con cui avete convocato l’Arena di Pace e che mi ha colpito: si parla di “uno stile di vita disarmante”. Cosa intendete?
Perché di questo disarmo fanno parte anche scelte di vita che si contrappongono a questa pretesa di una crescita senza confini. Ne misuriamo ormai tutti quanti gli effetti: un’economia finanziaria che ha ormai ingoiato l’economia reale, una propensione che viene instillata a consumare il più possibile beni, territori, persone. Diventa sempre più difficile perpetuare l’ingiustizia, che ha funzionato per molto tempo, di spostare le conseguenze dannose delle nostre scelte di vita e di consumi in altri luoghi e in altri tempi lontani da noi. Questo malcostume ora sta chiedendo il conto: nella disperazione dell’emigrazione e nell’assenza di prospettive di larga parte della gioventù, anche quella più attenta e decisa a impegnarsi. Da qui la necessità di scelte di vita disarmante e disarmata che non offenda gli altri, anche solo per una forma di egoismo illuminato che sa che un’offesa data all’altro ricade immediatamente su chi l’ha fatta, proprio per il legame profondo e sempre più forte creato dai processi di globalizzazione. Capitini diceva «Quando butti un sasso nell’acqua è difficile che tu misuri fin dove arriveranno le onde», questo vale però anche per le azioni positive, ben orientate, che hanno effetti che vanno lontano, molto al di là della nostra immaginazione: ecco perché vale la pena di agire.
L’appuntamento dell’Arena sarà anche l’occasione per una ‘rivoluzione pacifica’ del concetto di difesa, che l’articolo 52 della nostra Costituzione descrive come un “sacro dovere del cittadino”. Se i nemici oggi sono la povertà, la disoccupazione, la mancanza dei servizi sociali, per difenderci non servono gli F35, ma più fondi per i servizi primari della società: è questo il vostro messaggio?
Il dibattito costituzionale è stato molto ricco, molto si era già detto in quei momenti, per esempio sul fatto di porre un limite alle spese per la difesa, che non avrebbero mai dovuto superare quelle per l’istruzione. Si era posto anche il problema di una scelta costituzionale di neutralità dell’Italia, il tema dell’obiezione di coscienza e dell’esercito professionale. A questo proposito il dibattito è stato influenzato dalla posizione espressa da Ernesto Rossi mentre era al confino sull’isola di Ventotene: oltre a scrivere con Spinelli il Manifesto per l’Europa, ha steso anche il testo Abolire la miseria, nel quale ha posto il tema di un esercito del lavoro, della durata di due anni, obbligatorio per ragazze e ragazzi, sostitutivo della leva, il cui compito era produrre beni e servizi di base. Quindi uno strumento per la creazione di un welfare di base, attuato attraverso la gratuità dei beni e dei servizi essenziali e non delle forme di aiuto economico. È interessante che quest’accento forte sulla lotta alla miseria fosse posto da Rossi, liberista molto apprezzato da Einaudi, che per di più pensava che questo tema potesse accomunare il pensiero economico liberista e socialista. Ho accennato a questi fatti per far capire come allora il tema della sicurezza venisse declinato in modo del tutto differente. Sicurezza viene dal latino sine cura, senza preoccupazione: quando non si hanno preoccupazioni? Quando sono eliminati i motivi di preoccupazione. Noi non sottovalutiamo la richiesta di sicurezza delle persone, ma è bene comprendere da dove viene effettivamente questa insicurezza. Per questo pensiamo sia fondamentale che accanto alla difesa tradizionale, fondata sulle armi e su sistemi di armamenti sempre più sofisticati e sempre meno controllabili, ci sia anche quella che affronta le contraddizioni che portano alle guerre e abbiamo visto che, anche con pochissimi mezzi e in scenari complessi, azioni non armate hanno dato risultati straordinari. Penso all’esempio del comune di Ferrara, che attraverso il servizio civile nazionale è intervenuto a Cipro con un’azione di riconciliazione tra la comunità greca e quella turca. Cose di questo genere sono ancora troppo poche e possono essere moltiplicate. Per questo pensiamo che sia necessario cominciare a potenziare le iniziative direttamente volte alla pace, perché per avere la pace bisogna preparare la pace, come dice un vecchio detto.
Da qui nasce anche la campagna sull’opzione fiscale che lancerete all’Arena di Pace, vero?
Sì, ritorna qui la possibilità di scelta: vogliamo che le persone possano dare una possibilità alla pace, riprendendo le parole di John Lennon. Chiediamo che le persone possano indicare nella propria dichiarazione dei redditi se vogliono destinare a consapevoli azioni di costruzione della pace, attraverso forme organizzate di intervento, una quota pari a quella che in termini generali viene destinata per la difesa. Lo scopo è far crescere la consapevolezza che esiste un’alternativa concreta alla sicurezza affidata al raffinamento delle armi. Inoltre, far sì che si possa cominciare a valutare l’utilità dei fondi che vengono destinati ad azioni di pace e per la prevenzione dei conflitti, credo che le cose che abbiamo progressivamente appreso sulla vicenda degli F35 ci abbiano fatto comprendere come siano altri gli interessi che guidano queste scelte rispetto alla sicurezza delle persone. Si tratta anche di cominciare a dare attuazione a ciò che è scritto nella nostra Costituzione che all’articolo 11 recita: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Sono passati alcuni anni dall’ultimo incontro a Verona, avvenuto nel 2003 per lanciare la campagna delle bandiere arcobaleno da esporre ai balconi contro la guerra in Iraq. L’appuntamento del 25 aprile sarà anche l’occasione per rilanciare una piattaforma comune per tutto il movimento per la pace?
Ci sono state diverse occasioni d’incontro in questi anni, però un’assemblea dove sia possibile guardarci negli occhi e non solamente fra noi pacifisti doc, spesso anche divisi, incapaci di costruire un’unità al nostro interno, è un evento importante. Speriamo sia il primo passo di un percorso da costruire insieme ad altre associazioni che rappresentano il meglio di una società che cerca di meritarsi l’aggettivo di civile. L’appello è stato firmato da Alex Zanotelli, da don Ciotti, da Cecilia Strada di Emergency, hanno aderito associazioni di giovani come Agesci e Arci, ma anche i sindacati come Cgil e le Acli, anche se i lavoratori spesso si trovano in difficoltà di fronte alla riconversione di apparati industriali che producono armi, pur comprendendo la necessità di un modello di sviluppo fondato sulla costruzione della pace. Ora, che i movimenti pacifisti abbiano ottenuto una così forte adesione mi fa sperare che sia possibile andare verso un’unità molto più ampia, perché si corre sempre il rischio di chiudersi sottolineando le differenze invece degli aspetti e degli impegni che accomunano. L’Arena di Pace è proprio questo: un impegno concreto, anche attraverso la campagna dell’opzione fiscale, intorno al quale si possono riunire varie istanze.
Per concludere Daniele ti chiederei di darci alcune informazioni sul programma e su come partecipare.
L’inaugurazione della giornata sarà alle 12 in piazza Brà, mentre i cancelli dell’Arena saranno aperti alle 13. Dalle 14 in poi prenderà il via la manifestazione, con vari interventi, come ad esempio quello di Susanna Camusso, testimonianze e interviste, condotte da Gad Lerner. Ma ci sarà anche tanta musica, grazie alla collaborazione del Club Tenco. Alle 18 poi presenteremo la campagna ‘Disarmo e difesa civile non armata e non violenta’. Da Ferrara, precisamente dal piazzale ex-Mof di via Darsena, alle 11.30 partirà un pullman, messo a disposizione dalla Cgil. Per prenotare un posto basta mandare una mail a francesco.barigozzi@mail.cgilfe.it oppure telefonare al numero 3482687880.

Foto di Emanuele Romanelli.

Ferrara posa per i fotografi. Si moltiplicano gli obiettivi puntati sulla città, dagli scatti artistici a quelli amatoriali

Le gonne di un gruppo di suore, l’acqua di una fontana che si abbatte sul selciato, le tigri impagliate del Museo Naturalistico, un tarassaco spuntato fra le strade del centro, la mano di un bimbo che cerca di catturare le bolle di sapone. Sono le immagini che Alessio ha immortalato durante la maratona fotografica organizzata dall’associazione Feedback Video lo scorso sabato.
Vengono assegnati 12 temi e viene dato un tempo, 12 ore, per rappresentarli fotograficamente.
Lo spazio è quello della città e dei suoi dintorni.

Maratona Fotografica di Feedback. Foto di Emanuele Romanelli

Per Alessio non è stata solo una gara. Lui ha 24 anni e gli ultimi quattro li ha passati in un ufficio, ora vuole cambiare vita e ha deciso di emigrare in Canada, per cercare migliore fortuna. I suoi scatti sono l’ultimo sguardo alla sua città, i ricordi che porterà con sé dall’altra parte del mondo, un commiato dalla bellezza che c’è in ogni angolo di Ferrara.
“Ho iniziato a fare foto appena la scorsa estate – si schernisce – e lo scatto più bello che ho fatto oggi non c’entra col concorso, l’ho fatto per me: un operaio al lavoro sul Listone”.
Quando si inizia a guardarsi attorno con occhi attenti, si dischiude un mondo fatto di persone, gesti, dettagli che negli altri momenti della vita, in cui i luoghi sono meri attraversamenti e le persone casuali comparse, non c’è tempo di cogliere.

Maratona Fotografica di Feedback. Foto di Emanuele Romanelli.

La fotografia è un antidoto all’assuefazione, impone di rinnovare lo stupore per ciò a cui siamo abituati. E Ferrara è il soggetto ideale: un’anziana signora scavata dai segni della vita passata, ma rimasta vanitosa e civettuola. Tra le sue antiche mura accade sempre qualcosa di straniante e sorprendente, una luce, un momento di vita laddove non si immaginava.

Maratona Fotografica di Feedback. Foto di Emanuele Romanelli.

Sarà per questo che ultimamente l’attenzione di tanti fotografi si sta concentrando in città.
La maratona di Feedback ne ha portati 180, professionisti e amatori, che l’hanno immortalata in ogni angolo. Il filo conduttore di quest’anno era l’ambiente, che si collegava alla Maratona Fotografica Naturalistica che c’è stata il giorno successivo a Comacchio, all’interno di “Primavera Slow 2014”.
“E’ la prima volta che vengo – dice Elena di Bologna – grazie a questa iniziativa sto scoprendo una città che, sebbene vicina, non avevo mai visto. Che meraviglia gli orti nel cuore della città!”.
“Mi hanno portato degli amici, io sono argentino – racconta Augustin – sono rimasto incantato dalla quantità di biciclette”.
“Siamo venuti per passare una giornata in compagnia – spiega Matteo – siamo di Chioggia dove anche noi organizziamo una maratona, siete tutti invitati!”.

Il gruppo degli Igers Ferrara. Foto di @martinajrt.

Tanti anche i ferraresi, circa la metà dei partecipanti.
“Per noi che viviamo qui è paradossalmente più difficile trovare le cose originali perché le abbiamo sempre sotto gli occhi e non ci facciamo caso”, ammette Silvia. Ha partecipato assieme all’amica Lucia che dice “uno degli argomenti assegnati era “mangia a chilometro zero”, e dopo averci tanto pensato, mi è bastato guardarmi attorno e ho visto un’ape su un fiore: ecco la mia foto!”.
“Un altro argomento – aggiunge Ilaria – era “più fiori, meno cemento” ed ho fotografato il campo di colza che digrada verso i nuovi piloni di cemento della circonvallazione”.
I fotografi vedono quello che vediamo noi, ma si soffermano un attimo in più, prima che l’immagine si depositi da qualche parte nella memoria, la colgono e ce la restituiscono in modo che non si perda e ci faccia pensare: “ci passavo davanti tutti i giorni e non l’avevo notato, ma guarda che bello”.

Il Castello di Ferrara. Foto di @macluna429.

E’ quello che fanno quotidianamente anche gli Igers, gli Instagramers di Ferrara, ovvero coloro che usano l’applicazione per cellulare chiamata Instagram per condividere on line i loro scatti fatti con cellulare o tablet.
Sono un gruppo variabile ed eterogeneo di amatori e professionisti, che si riunisce attorno ad alcune iniziative virtuali, inviando per esempio foto su Facebook, oppure reali come la doppia mostra in corso al Punto Frau e all’Hotel Annunziata. Fino al 4 maggio si potranno vedere i loro cento sguardi sulla città, momenti pubblici come il Palio di cui sono media partner, ma anche occasioni uniche come la visita alle stanze normalmente chiuse del Castello. E’ una selezione delle migliori foto pubblicate da quando si sono costituiti nell’ottobre 2013.
“Stiamo anche programmando un’invasione digitale di Palazzo Schifanoia e del lapidario – annuncia Franco Colla, local manager degli Igers – luoghi in cui abitualmente non si possono fare fotografie, che noi restituiremo alla città attraverso i nostri scatti. Poi li pubblicheremo on line sulla pagina Facebook degli Instagramers Ferrara”.

La fotografa Serena Groppelli. Foto di Stefania Andreotti.

A Ferrara non ci sono solo i grandi progetti fotografici collettivi come la maratona o le mostre degli Igers. Quello di Serena Groppelli, fotografa piacentina, è infatti un progetto individuale, che l’ha portata a puntare il suo obiettivo su un altro luogo nel cuore della città di fronte al quale spesso si passa senza guardare, o peggio non volendo guardare perché fa male: il Teatro Verdi, nel suo stato di eterno abbandono o eterna ricostruzione, secondo come lo si vuole vedere.

Il teatro di Pontenure. Foto di Serena Groppelli.

Serena come nasce l’idea di fotografare teatri chiusi, tra cui anche il nostro Verdi?
“Faccio una premessa: “bazzico” il teatro da quando sono piccola e proprio in teatro ho iniziato a fotografare. Da un gioco è nata quindi una professione e adesso collaboro con Kairòs Magazine, una rivista web di fotografia di scena che ho contribuito a fondare.
Proprio in redazione abbiamo “scoperto” un censimento sui teatri chiusi d’Italia pubblicato on line (http://censimento.teatriaperti.it/it/censimento/) e poi diventato un libro, Teatri Negati, edito da Franco Angeli Editore.

Serena Groppelli e la performer Elisa Mucchi nel Teatro Verdi di Ferrara. Foto di Stefania Andreotti.

Il tema mi ha incuriosita parecchio ed è nata l’idea, non tanto di un semplice reportage sui luoghi, ma di qualcosa che i luoghi li faccia, anche se per poco, rivivere. Sono convinta che gli “spiriti” delle storie narrate nei teatri rimangano ad abitarli anche dopo la loro chiusura: perché non ritrarli insieme agli spazi teatrali?”.
Nei tuoi scatti all’interno dei teatri abbandonati, compaiono anche delle persone, chi sono?
“Solitamente si tratta di una o due figure per immagine. La “costante” è Gabriella Carrozza, un’attrice piacentina che mi seguirà in tutto il progetto e che rappresenta lo spirito del teatro.
Per ogni realtà locale invece cerco attori, performer, musicisti che abbiano voglia di affiancarla: qui a Ferrara ho avuto la fortuna di incontrare la performer Elisa Mucchi che molto gentilmente si è “prestata” al progetto”.
Qual è l’area geografica del tuo progetto?
“Il sogno è quello di coprire tutto il territorio nazionale. Ma, non trovando sovvenzioni, ho dovuto scegliere una zona limitata e ho deciso di partire dall’Emilia-Romagna, la mia regione.
Proprio con la Regione ho iniziato: a loro ho chiesto i primi contatti, l’elenco delle realtà coinvolte e un patrocinio non finanziato. Ai teatri già chiusi, inoltre, si sono aggiunti quelli danneggiati dal terremoto che sto cercando comunque di far rientrare nel percorso”.
Quanti teatri fotograferai?
“In Emilia-Romagna sono circa una trentina, fra teatri chiusi e terremotati
Attualmente ne ho scattati solo due: Pontenure (Pc) e Ferrara, ma ad aprile dovrebbero aggiungersi Correggio e Cento”.
Raccontaci della tua esperienza a Ferrara.
Ferrara è una delle città che conosco meno in Emilia-Romagna, quindi aveva per me il fascino dell’ignoto. Inoltre è stato il primo Comune a rispondere alle mie mail, con un entusiasmo e una disponibilità che non mi sarei aspettata e dei quali li ringrazio profondamente. Ho incontrato Natascia Frasson del Comune, il Direttore del Teatro e un gruppo di architetti che ha collaborato alla messa in sicurezza della struttura.
Il teatro è davvero splendido, anche nella versione “semi sventrata”, sarebbe bellissimo vederlo rivivere. Mi sembra inoltre che i ferraresi tengano molto a quello spazio e questo è stato ulteriormente motivante per me: è quasi commovente vedere come in molte realtà spazi dimenticati rimangano vivi nella memoria collettiva.
Come dicevo prima, ho davvero trovato un grande spirito di collaborazione e la trasferta si è trasformata in una serie di piacevolissimi incontri: peccato non potermi fermare di più e conoscere meglio le realtà e le persone incontrate!”.

Lusso con Burka. Foto di Mustafa Sabbagh.

Non ritrae la città, ma dialoga con lei la mostra di Mustafa Sabbagh “Burka moderni. Un dialogo inventato con Matisse”, fino al 4 maggio presso la Maria Livia Brunelli Home Gallery, al numero 3 di Corso Ercole I d’Este.
Come si legge nell’introduzione all’esposizione, l’artista italo-giordano, molto conosciuto in città e con un lungo e prestigioso passato come fotografo di moda, intende creare una connessione con la mostra di Matisse presso Palazzo dei Diamanti.

“Sono una ventina le opere realizzate appositamente per questa esposizione – spiega Maria Livia Brunelli, direttrice della galleria – una serie di fotografie di grande raffinatezza cui si accompagnano due video. Un dialogo che è anche lo specchio delle diverse epoche in cui vivono i due artisti: mentre Matisse, come reazione a un periodo carico di tensioni e guerre, cerca di distillare la bellezza dal reale, creando sinuose figure femminili, esaltandone colori e sensualità, Mustafa, dopo anni di lavoro nel patinato mondo della moda, mette maschere nere come la pece, plumbee come pneumatici, a uomini e donne”.
“Viviamo in un’epoca – spiega l’artista – in cui la società ci impone in continuazione delle maschere: ci si maschera per essere accettati, per la paura di scoprirsi. Quando uso la maschere non è altro che come protezione, quasi un espediente per riempire il retaggio cristiano della vergogna: e la maschera è come una dichiarazione, un ennesimo atto anti-moda, dall’immediato effetto gender-bender e liberatorio.
Bello, intelligente, ricco, accettato: nella società di oggi si impone la maschera ad ogni individuo, non gli si dà la libertà di essere se stesso fino in fondo. È una maschera falsificante, subdola, vigliacca. Il ruolo che conferisco alle mie maschere, invece, e l’uso che ne faccio, è assolutamente principale: è un atto di rifiuto per le maschere imposte, invisibili e mistificanti. Scelgo di immortalare delle opere d’arte per farci sentire più liberi. Scelgo di ritrarre maschere, per farci sentire ancora più individui”.

La fotografia ci salverà? Probabilmente no, ma ci cura. Fissa l’attenzione sulle persone, sui loro attimi di vita altrimenti perduti. “Ci fa sentire ancora più individui”. Lenisce lo strazio di un luogo della cultura abbandonato. Mantiene la memoria delle nostre radici. Ci restituisce la bellezza dimenticata della nostra città, aiuta a promuoverla e richiama tanti visitatori. Ferrara è bella dal vivo ed è anche fotogenica. Basta saperla guardare.

Link per approfondire i temi dell’articolo.

Feedback Video: http://feedbackvideo.it
Maratona fotografica di Chioggia: www.progettossigeno.it

Il sito di Serena Groppelli: www.serenagroppelli.com
La rivista web di fotografia Kairòs Magazine: www.kairosmagazine.it
Il sito di Maria Livia Brunelli Home Gallery: www.marialiviabrunelli.com
Il sito del fotografo Mustafa Sabbagh: www.mustafasabbagh.com

In mostra l’operazione ‘Aktion T4’ : far quadrare i conti tagliando vite umane

“Non è azzardato dire che le dinamiche che portarono all’operazione Aktion T4 siano in atto anche oggi”. Virginia Reggi con parole forti, ammonitrici, rivelatrici, ha inaugurato la mostra Perché non accada mai più ricordiamo – Il genocidio delle persone disabili nella Seconda Guerra Mondiale di cui è ideatrice e curatrice. Un percorso di 31 pannelli allestiti nel salone d’onore del palazzo municipale visitabile fino al 27 aprile. La mostra, curata da Anffas Emilia Romagna in collaborazione con Anpi, Istituto di storia contemporanea  e patrocinata dal Comune di Ferrara, ricorda attraverso foto e descrizioni “Aktion T4”, l’operazione di sterminio di 300mila persone, tra bambini e adulti, portatrici di varie disabilità psichiche e fisiche, voluta dai nazisti, ufficialmente a partire  dal 1939, che fu una prova generale della Shoah e che proseguì anche dopo la fine della guerra.

Il percorso espositivo, rivolto in particolare agli studenti, ripercorre i fatti salienti che avvennero settant’anni fa, tra programmi di sterilizzazioni forzate, di “eutanasia” (di fatto un vero sterminio) dei bambini e degli adulti, ed esperimenti con sofferenze inflitte a malati mentali e disabili.

Manifesto di propaganda
Manifesto di propaganda. Un tedesco forzuto regge dei disabili, il testo dice ‘Anche tu ne porti il peso. Un malato con malattie genetiche costa 50.000 marchi’

La Reggi con una breve premessa storica ha messo in luce l’attualità della mostra. La crisi economica del ’29, insieme alla cultura eugenista predominante in tutta Europa e in particolare nel mondo anglosassone, furono le due maggiori cause che portarono Hitler e la Germania nazista a perseguire programmi sistematici di “eutanasia” di tutte le vite ‘inutili’, in nome della purezza della razza e come strategia demografica per la riduzione dei costi dello Stato. La grave crisi economica che stiamo attraversando e una certa cultura eugenista, che attribuisce alle vite imperfette meno valore di quelle sane – ha sostenuto – sono dinamiche economiche e scientifiche non molto diverse da quelle degli anni ’30 del secolo scorso.

Anna Maria Quarzi, direttrice dell’Istituto di storia contemporanea di Ferrara, ha confermato di come nei periodi di crisi emerga regolarmente la tendenza a fare i conti dei costi pubblici e a tagliare sul sociale. I nazisti facevano il conto di quanto avrebbero risparmiato con l’eliminazione di un certo numero di persone, una raccapricciante ‘lista della spesa’ ha aggiunto Daniele Civolani dell’Anpi. L’assessore Chiara Sapigni a sua volta ha osservato come la politica e le istituzioni debbano saper sempre trasformare la questione del “quanto costa il sociale” in “come investire nel sociale”, anche nei momenti di crisi, quando ci si trova purtroppo alla riduzione delle risorse.

A proposito delle teorie scientifiche, la curatrice della mostra aggiunge: “Assistiamo ancor oggi a non poche manifestazioni di quel darwinismo sociale da cui è derivata l’eugenetica di Francis Galton. Come quando si rifiuta chi è affetto dalla sindrome di Down, o si ha paura del diverso, e tutte le volte in cui l’individuo è sacrificato agli interessi della collettività, al benessere generale e quindi emarginato. Abbiamo di recente assistito ad esempi di eugenetica negativa, come è successo nel 2006 con il Protocollo di Groningen in Olanda, con cui si regolamentava la soppressione di bambini nati con gravi malattie genetiche. Nello stesso anno in Inghilterra il Royal College of obstetricians and gynecology chiede che gli venga concesso di uccidere i neonati disabili per tutelare il bene superiore delle famiglie. E’ successo in Australia. Ma in generale il ragionamento si può estendere alle politiche che escludono determinate categorie che non sono più ritenute utili: e quindi i programmi di riduzione delle nascite in Cina per le donne che non servono alla società e all’economia, o la questione degli esodati in Italia.”

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Manifesto di propaganda: il testo dice ‘60.000 marchi è quanto costa un malato mente alla comunità. Concittadino è anche il tuo denaro!’

Anna Quarzi, ci tiene a sottolineare e mettere in evidenza che alle cause economiche e scientifiche si aggiunse in Germania il peso determinante di una enorme e capillare campagna di propaganda che attraverso riviste, giornali, cartelloni e film ripetevano lo stesso messaggio martellante: “Esistono individui totalmente inutili che vivono in condizioni subumane, che sono irrecuperabili e le cui infermità sono ereditarie e costoro sottraggono molte risorse alla persone sane”. La propaganda di regime ottenne facilmente il risultato di orientare le coscienze.
Il nazismo riuscì ad esercitare una tale pressione sulle coscienze da trasformare un’intera classe medica (psichiatri, medici di base, infermieri, ostetriche) di persone perbene e con una eccellente preparazione in complice di crimini mostruosi. “Immaginiamoci cosa potrebbe succedere oggi”, ha posto la questione Reggi, “se un qualsiasi potere si mettesse ad utilizzare internet e social network per una simile comunicazione sociale”. Su uno dei pannelli con cui termina la mostra si legge: “Senza carceri, né torture, senza uccisioni, né lager o gulag, ma in modo piacevole, accattivante e indolore, i mezzi di comunicazione sociale possono esercitare sulla libertà di pensiero una dittatura più subdola contro la quale l’individuo si trova quasi sempre indifeso”.

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Alcuni pannelli della mostra

Ci chiediamo se questo non sia già accaduto. L’altissimo numero di suicidi di giovani che non sanno chi sono, di imprenditori in rovina, di operai licenziati, di anziani in estrema solitudine, che si verificano attualmente non sono forse il risultato di una mentalità ormai acquisita? Una mentalità secondo la quale se non siamo “Qualcuno”, se non siamo utili, se non siamo ‘abili’, allora la nostra vita non ha significato. Forse non ce ne siamo accorti.

Gente che legge: sedici foto tra le pagine chiare e le pagine scure

Fotografare qualcuno che legge è come tentare di dare forma a una visione interiore, catturare un pensiero, mostrare il percorso delle parole attraverso la persona. Provano a fare un po’ questo gli autori della mostra “Gente che legge” alla biblioteca che prende il nome di Giorgio Bassani, fino al 10 maggio a Ferrara nel quartiere di Barco.

Un grandangolo incorpora scaffali storici, che l’obiettivo trasforma nell’abbraccio avvolgente di una sala di lettura pubblica. Al centro della foto è la luce riflessa su un piano in cristallo, sopra il quale una giovane donna consulta un testo antico. La grandezza del sapere, in questo scatto di Roberto Mascellani, abbraccia la voglia viva di conoscere e la riproduce in una forma circolare un po’ deformata affiancandosi ad altre quindici immagini: c’è la lettura “leggera” dei fogli di un quotidiano all’aria di una riva rocciosa del mare; l’infilata di persone viste dall’alto con libri o giornali spalancati sulla panchina di un piazzale all’aperto; lo sguardo di una donna araba con il capo velato che si posa su un fascicolo di fogli, che potrebbero essere preghiera, libro di studio o istruzioni per l’uso. Ma c’è anche una scritta composta di lettere colorate e magnetiche su una lavagna dietro agli occhi di una ragazza dai capelli biondi, come nelle pubblicità sbarazzine di prodotti di arredo offerti per andare a rallegrare gli spazi. Nell’insieme questa raccolta di “Gente che legge” illustra la lettura come passione, bisogno e minimo comune denominatore per la biblioteca che con i suoi libri, dvd e riviste arricchisce il pezzo di città alle spalle del polo chimico.

Biblioteca-Bassani-Barco-Ferrara-Gente-che-legge-Roberto-Del-VecchioGli autori sono soci del FotoClub di Ferrara, ma quelle immagini rappresentano volutamente un ampio repertorio multiculturale e internazionale; dietro a quei fogli ci sono il sapere, l’interesse e la più disparata e umana voglia di conoscere, che può essere di stampo accademico o di quotidiana informazione.
L’esposizione è realizzata in occasione della Giornata mondiale del libro, indetta dall’Unesco ogni 23 aprile per promuovere il libro e la lettura. “Da un paio d’anni – racconta il presidente del FotoClub, Maurizio Tieghi – collaboriamo con la biblioteca diretta da Luisa Martini con corsi e mostre collettive e individuali su temi correlati al mondo del libro”. Gli autori delle fotografie sono Riccardo Bonfatti, Enrico Chiti, Roberto Del Vecchio, Sergio Guerra, Anna Maria Mantovani, Roberto Mascellani, Panz Paganoni, Giuseppe Potenza, Stefania Ricci Frabattista, Maurizio Tieghi, Luca Zampini. La mostra, in via Grosoli 42 a Ferrara, è a ingresso gratuito negli orari di apertura della biblioteca Bassani, dal martedì al sabato 9-13 e anche al pomeriggio di martedì, mercoledì e giovedì (15-18.30).

Un luogo per leggere e dove tentare di vedere cosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure, che Francesco De Gregori sapeva cantare in modo così struggente.

Il brano musicale intonato al testo: Francesco De Gregori, Rimmel

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Attenzione al volontariato! Solo il 30% delle entrate arriva a destinazione

Serviva da tempo una dettagliata ricerca sull’associazionismo e il volontariato, parte importante del terzo settore, meglio del welfare. Perché donare è un servizio bellissimo che si fa alla società ma purtroppo non sempre e non tutti agiscono con onestà e trasparenza. Sarebbe uno sgarbo a chi opera nel bene, non fare chiarezza e distinzioni in questo senso.
Ci sono migliaia di associazioni con tantissimi volontari (a volte solo sulla carta), alcune sono un po’ ripetitive, altre si fanno concorrenza, altre ancora non sono molto trasparenti, ma anche, e soprattutto, tante lodevoli esperienze a cui va la nostra riconoscenza più profonda.
Occorre, però, un focus intenso per capirne di più. Facciamo una carrellata, dopo aver navigato su alcuni siti “ad hoc” di alcune città italiane, da Trento a Rovigo, da Ferrara a Pesaro, da Cremona a Cuneo, a Lucca, per riscontrare linee comportamentali che confondono, bilanci complicati, scarsi dettagli, servizi raffazzonati, ognuno fa per sé, spesso emerge incoerenze ma certamente si riscontra tanta voglia di fare e andare incontro a chi ha bisogno.
I finanziamenti del 5 per mille nella dichiarazione dei redditi, le lotterie e la pesca di beneficenza, anche un balletto, una commedia, un revival musicale in teatri comunali, una manifestazione sportiva, banchetti e gazebo con variegate piante di fiori e comunque piccoli eventi locali disseminati nelle diecimila piazze italiane, sono realtà che nascondono, anche se in piccola percentuale, finalità non sempre ben chiare e, soprattutto, incassi non ben evidenti, forse non registrati e scarsamente pubblicati.
Forse la letteratura sul tema sottolinea proprio quella parte di costi impropri, sottratti alla beneficenza e alle finalità filantropiche di autentico e sentito volontariato sociale, come dimostra anche Il Sole 24 ore che ha calcolato che solo il 30% delle entrate arriva a destinazione, stante l’eccessiva cifra dei costi di struttura e di funzionamento, e non solo.
Il 13 marzo scorso è stato presentato a Roma il Rapporto su “Sussidiarietà e qualità nei servizi sociali”, ed ecco alcuni spunti.
Dal rapporto emerge che “non ha più senso opporre gestione pubblica e gestione privata nei settori del welfare e che, tenendo conto di efficacia, efficienza e qualità dei servizi, la prospettiva migliore è quella di una loro complementarietà. In tempo di spending review, confermando il valore imprescindibile di un welfare di qualità per tutti, indipendentemente dalla condizione sociale, è fondamentale dotarsi di strumenti di valutazione che permettano di avere indicazioni chiare su qualità ed efficienza dei servizi e quindi di allocare le risorse di conseguenza”.
Il rapporto continua spiegando obiettivo, struttura e specificità dei servizi: “Il rapporto di sussidiarietà e qualità nei servizi sociali intende offrire uno strumento utile ai decisori e ai gestori delle organizzazioni che vogliano valutare e migliorare l’efficienza e l’efficacia dei servizi. Propone per questo un’impostazione metodologica per la raccolta e l’analisi dei dati che può essere utilizzata per realizzare un benchmarking tra erogatori dei servizi (pubblici o privati che siano), utile strumento per migliorare il loro operato e avere maggiore trasparenza sui costi sostenuti e sui risultati ottenuti”.
Il rapporto consiste di due parti: la prima contiene un’analisi dei costi di produzione di alcuni servizi di welfare (housing universitario, asili nido, cura degli anziani, riabilitazione, housing sociale), con un confronto tra organizzazioni pubbliche e organizzazioni private non profit e un’analisi della soddisfazione degli utenti; la seconda parte presenta i risultati degli studi di caso su alcune realtà del privato sociale con l’obiettivo di approfondire caratteristiche e modi di intervento di questo tipo di realtà il cui ruolo è così rilevante nei settori esaminati.
Questo rapporto offre veramente un contributo innovativo che consiste nella proposta di un metodo di raccolta e analisi dei dati di costo e di prestazione delle attività, e di alcune dimensioni di efficacia (in particolare legate alla soddisfazione dell’utente), in modo che siano paragonabili per diverse organizzazioni, pubbliche o private. E’ importante ricordare a questo riguardo che, a differenza di quanto accade in altri settori di interesse pubblico, per i servizi sociali oggi non esistono in Italia pratiche consolidate di rilevazione dei costi, di analisi di efficienza “micro” (ovvero a livello delle singole organizzazioni) e metodologie condivise per la loro valutazione.

Abbiamo voluto richiamare alcuni passi del citato rapporto, senza entrare nei dettagli ma cogliendo la rilevanza della sua portata, anche a seguito delle voci provenienti dal 17° piano della Regione in via Aldo Moro a Bologna, riguardante la volontà degli enti locali di mettere in atto un forte rientro dalla gestione diretta di ampie parti del welfare sociale, dando, quindi, spazio al privato sociale, all’associazionismo, onlus comprese.
Prendiamo atto della scelta, ma attenti a come costruire le regole dei comportamenti, degli articolati delle convenzioni, delle modalità degli appalti e di altri strumenti di affidamento e accreditamento. Ci piacerebbe che nascesse una authority, non burocratica, ma snella e operativa che funga da controller ed auditing di tutte le articolazioni del terzo settore.
Si chiude la riflessione che non vuol essere uno sgarbo, anzi un riconoscimento al servizio e al merito.

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Oscurità ai margini della città

“Benvenuti a Ferrara”, recita un enorme cartellone situato sul retro della stazione ferroviaria, in via Modena. Nonostante la pioggia, ho avvertito la necessità di una lunga camminata e così sono arrivato fin qua.
Nel tragitto tante agenzie immobiliari, i bar degli asiatici in via Mazzini e Garibaldi, un centro massaggi che promette molto di più in via Cassoli, poco dopo una palestra di boxe, e un gitano che suona la sua fisarmonica scassata. In alto, alle finestre, striscioni fatti in casa: “Basta droga”, “Basta spaccio”, e sono già in stazione, dove il colore preminente diventa il nero degli africani.

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Cavalcavia ferroviario di via Modena

Sebbene la stazione sia in pieno centro, i volti mi dicono che è iniziata la periferia, rivedo le barriere e l’incuria che annunciano i margini della città, quei luoghi che la borghesia cittadina rifugge, in cui gli immobili si svendono al primo offerente o si affittano a chi non può permettersi di meglio: via Oroboni, Porta Catena, le due torri che svettano in via Stazione.

Oltrepasso la ferrovia e puntuale all’orizzonte spuntano le nubi del petrolchimico. Al di là del cavalcavia finisce Ferrara e ha inizio un posto che potrebbe essere qualsiasi altro al mondo, quelli che Augé non molto tempo fa definì ‘non luoghi’. Quartieri popolari si approssimano al polo industriale, in mezzo a pompe di benzina, ruderi, poi una sala bingo, materassi, divani, ed un ristorante, diversi supermercati.

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Rudere in via Modena

Uscito dalla magia del centro storico, piombo nello squallore ordinato di un posto in cui nessuno vorrebbe abitare e mi chiedo, ingenuamente, perché esistano le periferie. Cosa generi luoghi completamente inadatti alla vita sotto il profilo estetico e funzionale. A suo modo via Modena è un monumento all’Italia, in ricordo dell’assenza di progettazione urbanistica. Ogni permesso di costruzione a ridosso di zone inquinate, ogni cambio di destinazione d’uso in deroga a piani regolatori, rappresenta una piccola o grande sconfitta politica.

Sono partito dal ventre di Ferrara diretto verso i margini, e con le punte dei piedi fradicie penso alle parole di Darkness on the edge of town. Nella parte finale Bruce Springsteen narra come al solito di un perdente delle Badlands – i bassifondi – “Alcuni nascono sotto buone prospettive/ altri se le procurano comunque, in ogni modo io ho perso i soldi e ho perso mia moglie/ ma queste cose non mi sembrano importare tanto ora/ stanotte sarò su quella collina perché non posso fermarmi/ sarò su quella collina con tutto quello che mi è rimasto/ vite sul confine dove i sogni vengono trovati e si perdono/ sarò là in tempo e pagherò il prezzo/ per volere le cose che si possono trovare soltanto/ nell’oscurità ai margini della città”.

I margini di Ferrara mi dicono che è compito della politica evitare l’esistenza di periferie, ghetti, come pure di quartieri, scuole, asili o ospedali peggiori di altri.
A riguardo, l’urbanista Bernardo Secchi ha parlato a ragione di città dei ricchi e città dei poveri, nonché di quanto l’urbanistica contribuisca alla giustizia sociale o, al contrario, alla distinzione di classe attraverso un suo uso distorto quando non addirittura immorale.

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Cartelloni pubblicitari

Alle mie spalle due cartelloni giganti mi danno parziale risposta: il primo “compra oro, argento, gioielli, mentre il secondo si candida a sindaco della città con lo slogan “giustizia, onore, libertà”. Ma le immagini tradiscono una fatale somiglianza e dicono che non c’è poi tanta differenza tra i due propositi.

Ormai penso alla libertà strumentalizzata dalla politica e invece di Norberto Bobbio e della sua “Età dei diritti”, ho in mente il “compro oro” di via Modena, allora riattraverso la barriera del ponte ferroviario, limite della mia umida giornata, e finisco in un capannone diroccato che ospita un mercato dell’usato, dove sembra che pure la vita di ognuno sia di seconda mano.

Oggi è andata così, è una giornata di pioggia che impregna la punta delle scarpe e odora di muffa e polvere del mio grigio mercato dell’usato. Eppure amo i mercatini che mi danno la continua speranza di imbattermi in qualcosa di raro e introvabile a cui potermi aggrappare.

Una giornata fatta di slogan vuoti e ciminiere di un cielo sporco in mezzo ai cartelloni pubblicitari, con due indiani alla ricerca di un civico che mi chiedono di un certo Giovanni. O di un omaccione che offre la sua merce proibita nascosto nell’oscurità, ai margini della città, e io lo immagino bambino con cui non avrei fatto fatica a giocare tutto il giorno, e invece siamo soli entrambi, su due sponde invisibili che ci rendono talmente lontani, diversi, che non sembriamo neppure esseri umani.

Il blog di Sandro Abruzzese http://raccontiviandanti.wordpress.com

L’enfiata labbia e la rabbia di Grillo. Miserie e spregio del populismo incolto

Quivi trovammo Pluto il gran nemico.// “Papè Satàn, papè Satàn aleppe!”/ cominciò Pluto con la voce chioccia/… Poi [Virgilio] si rivolse a quella enfiata labbia e disse: “Taci maladetto lupo:/ consuma dentro te con la tua rabbia.” (Inferno, VII).

Dante che come si sa esprime sempre la verità attraverso la realtà delle situazioni, da buon profeta ha anticipato il profilo di un comico che centinaia d’anni dopo ha assunto le sembianze di Pluto, il dio degli inferi posto a guardia del luogo dove si consuma la malvagità in eterno. Quel comico che si chiama Beppe Grillo ha osato con una parodia dissacrante mutare le parole che un altro vero profeta ha posto a incipit del luogo dell’orrore e della negazione dell’umano come una sua “sacra” testimonianza. Non è bastata l’infamia della ignobile parodia, ma il nuovo Pluto con la sua ‘enfiata labbia’ ha osato ritoccare la scritta che campeggia a monito dell’invalicabile, sul cancello del campo di concentramento di Auschwitz. E per cosa? Per una ancor più miseranda lite politica dove il capo-popolo travalica il confine del lecito per spingersi nella sua satanica rabbia a colpire la sacralità dell’umano. E questo è un commento che nasce dalla convinta analisi di un laico che sa però che il “sacro” – e il “sacro” legato all’uomo – va rispettato, condiviso, per non ricadere nel gorgo dell’indicibile e del disumano.
Ai miei commenti forse anche troppo blandi che ho affidato a Facebook mi si risponde “pragmaticamente” che, pur non condividendo l’uscita del capo-comico (ma sarebbe meglio dire del capo-tragico), questo putiferio su una parodia e su una immagine non viene recepito da chi lotta nel presente e non sa come arrivare a fine mese, e che la sorte di noi “intellettuali” è non capire le esigenze primarie. Vale a dire lasciare chi non arriva a fine mese, i giovani, chi ha perso il posto di lavoro nell’ignoranza della storia o nella manipolazione della storia stessa. Un presente cieco e senza via d’uscita dove un falso profeta può manipolare la testimonianza di chi ha osato ergersi da uomo contro l’inaudito del genocidio. Mai. Nell’immondezzaio di ciò che tutti dicono, proclamano, esortano (vi ricordate il “kapò pronunciato dall’ex cavaliere al parlamento europeo? Vi ricordate la teoria del negazionismo, vi ricordate la tournée in Francia del cantante nazista Dieudonné? La gravissima parodia “La parodia – dalla lingua  greca  parà (παρα,  simile) e odè (, canto) – è l’imitazione di uno  stile letterario,musicale o artistico destinata  a essere riconosciuta come tale o anche l’imitazione caricaturale di un quantomeno noto personaggio esistente o fittizio” viene a essere un gravissimo reato, anzi la forma più abietta della sacralità comunque essa si esprima. Dante lo sapeva bene, se descrive Satana come parodia della Trinità o anche in tempi recenti Elsa Morante che nell’Isola d’Arturo fa lanciare l’insulto di “parodia” dal carcere in cui è rinchiuso, proprio dall’amante del padre di Arturo, Wilhelm Gerace. Dirò allora che il pensiero di Beppe Grillo è “parodia”, che mi pare la condanna più grave per chi si è macchiato di una simile infamia.
E i politici? Quelli che dovrebbero essere colpiti più profondamente da questa orgia di populismo? Quelli nostri locali o quelli nazionali? Dov’erano? Dove sono? Facile fare i programmi delle magnifiche sorti e progressive dell’economia, della cultura, del sol dell’avvenir e non rabbrividire e non protestare di fronte alla forma più evidente del disprezzo dell’eticità che comunque e nonostante tutto dovrebbe essere ancora presente nello svolgere l’attività che si chiama “politica”.

Sperimentazione animale, “Animal defenders” raddoppia e invita l’Università ad accettare il confronto

Il silenzio non fa bene agli animali, soprattutto a quelli destinati agli esperimenti. Ne è profondamente convinta l’associazione Animal defenders, che per domani sera alle 21 ha organizzato una proiezione cinematografica gratuita al Boldini, intitolata “Maximum tolerated dose”, testimonianza di tecnici di laboratorio che hanno abbandonato la sperimentazione animale per non dover affrontare strazianti storie di animali da laboratorio. Animal Defenders si oppone alla costruzione del nuovo stabulario dell’Università finanziato dalla Regione con fondi europei e per ben due volte ha tentato di coinvolgere i ricercatori dell’Ateneo in un confronto sulla vivisezione con Massimo Tettamanti, chimico ambientalista, criminologo forense e animalista scientifico convinto. “L’Università risponde oggi riprendendo un comunicato 21 marzo, afferma di essere aperta alla discussione e di ascoltare le istanze della società civile. Allora mi chiedo il motivo dell’assenza alla conferenza del 10 aprile – dice Marika Taddia, responsabile della comunicazione di Animal Defenders – Abbiamo invitato 12 ricercatori, la prima richiesta è partita l’11 febbraio. Su suggerimento di Tettamanti chiedevamo un confronto organizzato dalla Regione, visto che mette i soldi per costruire lo stabulario, il 20 febbraio in mancanza di risposte, abbiamo ripetuto l’invito estendendolo al rettore. Non c’è mai stato riscontro”.

A quel punto Animal Defenders, d’accordo con il dottor Tettamanti, ha tirato dritto organizzando una conferenza molto partecipata e, a onor del vero, animata da numerosi interventi di studenti in sala. “I punti da controbattere rispetto alla nota sono parecchi, peccato non si sia potuto farlo davanti al pubblico, quando si è presentata l’occasione di un confronto franco – specifica la Taddia – L’Università insiste sul fatto che il nuovo stabulario migliorerà la vita degli animali e ne ridurrà l’uso. Le cose sembrano diverse, nel progetto esecutivo è lo stesso ateneo a sostenere la necessità di uno spazio maggiore per contenere più cavie, conigli, ratti da usare in test commissionati da aziende esterne, che mancano di laboratori. Si tratta di un’operazione di autofinanziamento”. Il polo chimico biomedico, continua, metterà il nuovo edificio a disposizione del laboratorio per le tecnologie delle terapie avanzate del tecnopolo, il costo dell’operazione è di oltre un milione e 600mila euro (1.602.024,36 senza iva, per la precisione). “Sono finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale nell’ambito dell’Asse I, relativo alla ricerca industriale e al trasferimento tecnologico – dice –  il progetto esecutivo conferma che l’Animal Facility sarà composto di diverse tipologie di laboratori per l’allevamento, la riproduzione, la sperimentazione e utilizzazione di animali; in particolare: conigli, ratti, topi e cavie”. Come dire: carta canta.
“E’ davvero spiacevole dover replicare sul giornale quando il vis à vis avrebbe giovato a un tema tanto delicato – prosegue – Dicono che le riviste scientifiche sostengono la sperimentazione animali quale requisito indispensabile per l’esito della ricerca, noi sosteniamo il contrario, c’è un’intera bibliografia da poter produrre”.
Quanto all’affermazione dell’Università di Ferrara “non sono disponibili metodi alternativi alla sperimentazione animale, ma solo metodi complementari”, la replica sta nelle parole del dottor Tettamanti “L’attuale sistema di validazione impedisce il progresso tecnologico, perché ogni metodo scientifico che voglia sostituire l’uso di animali deve per legge dare gli stessi risultati ottenuti su di loro”, ha ricordato. Eppure ciò che funziona su un topo, anche se geneticamente adattato, non è detto funzioni sull’uomo “che comunque proverà il farmaco anche se le reazioni dell’animale sono negative – ha spiegato – I metodi moderni invece forniscono risultati sovrapponibili a quelli che si ottengono nell’uomo”.
Anche l’uomo è una cavia, non è certo una notizia, il tragico effetto Talidomide, giusto per arretrare con i tempi, è una realtà conclamata. “Nel 2012 uno studio condotto da 15 cliniche statunitensi e un paio canadesi – ha ricordato Tettamanti – conclude sostenendo che, rispetto alle risposte genetiche dell’uomo, i risultati sui topi forniscono informazioni casuali”. Una cavia spesso risponde in modo diverso da un criceto. Incertezze scientifiche.

Racconti di una Resistenza impossibile

Si affida alla storia e alla memoria Elisabetta Sgarbi per rimanere lontano dalla retorica, fantasma sempre in agguato quando ci si confronta con il racconto degli episodi della Resistenza e degli ultimi decisivi mesi di guerra, trappola che imprigiona ricordi di vita vissuta in una narrazione stereotipata senza spazi per la complessità e che li spinge in un passato sempre più lontano e difficile da comprendere per il tempo presente.
Il lavoro della Sgarbi, al contrario, narra della Resistenza nelle pianure del Basso Ferrarese e del Polesine, tema ancora molto controverso nel dibattito storiografico, e lo fa attraverso le testimonianze di chi quel periodo lo ha vissuto, includendo episodi eroici e meno eroici.

Lidia Bellodi, una delle testimoni del film di Elisabetta Sgarbi

Velia-film-sgarbiVelia Evangelisti e (sopra) Lidia Bellodi, due delle testimoni del film di Elisabetta Sgarbi

Le celebrazioni del 69° anniversario della Liberazione a Ferrara sono iniziate proprio con la presentazione del film-documentario ‘Quando i tedeschi non sapevano nuotare’ della regista ferrarese Elisabetta Sgarbi, organizzata dal Comune di Ferrara, dal Museo Civico del Risorgimento e della Resistenza, da Arci, Anpi, Betty Wrong e Rai Cinema.

Sono storici che della Resistenza nel nostro territorio si occupano da sempre, come Anna Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Davide Guarnieri, Andrea Rossi e il direttore dell’Istituto Parri di Bologna Luca Alessandrini, a confutare la tesi che la lotta di Liberazione non fosse possibile in pianura, a causa della mancanza di luoghi in cui nascondersi. Non solo, secondo Antonella Guarnieri – storica e responsabile comunicazione e didattica del Museo della Resistenza di Ferrara – già prima del 1943 è individuabile il “movimento antifascista” che porta “in carcere 60 ferraresi, tra cui lo stesso Giorgio Bassani e Alda Costa” e che preoccupa le autorità per la sua “particolarissima caratteristica di essere interpartitico e interclassista”.

film-elisabetta-sgarbi

Fin qui la storia, ma navigando sul Grande Fiume è come se gli innumerevoli rami che crea nel suo Delta ci portassero ad approdare ad altrettante vicende di coloro che in quegli anni c’erano. Il loro racconto non è fatto solo di parole, anzi forse la parte più importante sono i loro volti, i loro sguardi, su cui la regista indugia perché, confessa, “è un modo di entrare con una lente di ingrandimento” dentro le emozioni. Il rabbino Luciano Caro testimonia “l’orgoglio” della comunità ebraica ferrarese e la sua esperienza personale di rifugiato in un paese vicino Lucca: “abbiamo vissuto i due aspetti la protezione e la delazione”, tutta la comunità li ha protetti nonostante sapesse delle loro origini, ma fu un conoscente del padre a denunciarlo, deportato ad Auschwitz non fece più ritorno. Balduino Masieri di Alberone narra di quando ha visto i tedeschi annegare inghiottiti nelle acque del Po mentre tentavano di attraversarlo con una fune, e Giuseppe Sgarbi, il padre di Elisabetta e Vittorio, ricorda una giornata passata nascosto a fumare per il timore di essere di essere catturato durante un rastrellamento. Lidia, partigiana di Bondeno, racconta di quel 18 febbraio 1945, quando più di duecento donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, hanno assaltato il Comune di Bondeno e gettato i registri di leva dell’anagrafe giù dalle finestre per bruciarli: lei all’epoca aveva 19 anni ed era fra quelle donne. Ma si ricorda anche di quella sua amica staffetta che per passare un posto di blocco di fascisti e tedeschi si è tirata su la gonna: allora poche donne potevano permettersi di comprare le mutande da indossare sotto i vestiti. Velia, staffetta di Ferrara, parla dell’orgoglio di suo padre antifascista quando l’ha vista uscire di casa in missione vestita da uomo con il suo cappello in testa, ma anche dello scivolone subito fuori dalla porta a causa del ghiaccio sul marciapiede e poi delle serate con suo marito: “mi veniva a prendere in bicicletta e via che andavamo a ballare”.

Non racconti epici, ma episodi di una guerra divenuta quotidianità, non eroi, ma testimoni sopravvissuti, che ci raccontano dei loro vent’anni.

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore.

Vedevamo a portata di mano
oltre il tronco il cespuglio il canneto
l’avvenire di un giorno più umano
e più giusto più libero e lieto.”
(Italo Calvino, Oltre il ponte)

La lingua salvata

Non sarà che ci scopriamo tutti migranti in questo mondo del globale, se non altro per via della lingua che parliamo? Disorientati tra il difendere le nostre radici e il desiderio di aprirci sempre di più alle sfide di internet e della globalizzazione, sopraffatti dall’onda crescente e colonizzante del panEnglish?
La mente torna alle pagine della biografia che Canetti fa di sé con La lingua salvata.
Lui che nasce a Rustschuk, in Bulgaria, sul basso Danubio, naturalizzato britannico, sceglie come lingua madre il tedesco, quella lingua che la mamma “con terrore pedagogico” gli impone. Studierà al liceo di Zurigo e a Zurigo morirà.
Noi, che ancora ci muoviamo nell’angustia dei ragionamenti sui vari bilinguismi e su quanto sia opportuno anticipare l’apprendimento delle lingue straniere, non è che ci possiamo rifugiare nel «ma lui è Elias Canetti!» quando dalle sue parole apprendiamo che già alle elementari parla spagnolo, bulgaro, inglese, francese e subito dopo il tedesco.
È vero, il nostro grande paese, un tempo crocevia di culture, oggi è attraversato da leghismi padani, da velleitarie repubbliche da cortile di casa, da migrazioni di lingue e culture che nella nostra pertinace ottusità fatichiamo ad accogliere e comprendere.
La Rustschuk di Canetti, agli inizi del secolo scorso, era un luogo dove vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue, un microcosmo dove circolavano bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, zingari, circassi, rumeni…
Ora anche da noi, se facciamo attenzione, in giro per la città udiamo che il vecchio familiare dialetto sta cedendo il passo ad un moltiplicatore di lingue che non riconosciamo.
Elias Canetti racconta di quando da piccolo, scendendo le scale di casa, dall’appartamento di fronte usciva un uomo sorridente che gli intimava di mostrargli la lingua; e non appena il piccolo Elias la tirava fuori, quello estraeva di tasca un coltellino e diceva: «ora gliela tagliamo». Ma, all’ultimo momento, richiudeva il coltellino con un colpo secco e rimandava il taglio all’indomani.
Non è solo un episodio, lo scherzo di un adulto si trasforma nell’incubo d’un ragazzo che spiega la scelta del titolo La lingua salvata. Perché privarci della nostra lingua è come cancellare la nostra identità, la nostra capacità di pensiero, l’intimità del sentire e degli affetti.
Tove Skutnabb-Kangas, docente all’Università danese di Roskilde e all’Accademia universitaria di Vasa in Finlandia, è conosciuta nel mondo per le sue crociate a favore del riconoscimento dei diritti linguistici umani e per il diritto all’istruzione delle minoranze linguistiche e culturali.
Denuncia che le lingue stanno scomparendo dal pianeta più rapidamente delle specie viventi, in parte, sostiene, a causa della diffusione dell’Inglese. Ma è anche il risultato delle nazioni che non proteggono le minoranze linguistiche e non usano queste lingue come medium dell’istruzione nelle loro scuole.
Contro l’estinguersi delle lingue, e con esse lo scomparire di culture, di tradizioni e di identità, la Tove propone una Convenzione universale dei diritti linguistici umani. In essa afferma che ogni persona ha diritto di identificarsi con la propria madrelingua e vedere questa identificazione riconosciuta e rispettata dagli altri.
Ognuno ha il diritto di apprendere la madrelingua, orale (quando è fisiologicamente possibile) e scritta. In particolare, e questo riguarda soprattutto i figli di prima e di seconda generazione degli immigrati, anche per il nostro paese, di essere istruito prioritariamente attraverso il medium della propria madrelingua, all’interno del sistema scolastico finanziato dallo Stato. Di utilizzare la madrelingua nella maggior parte delle situazioni ufficiali (comprese le scuole). Soprattutto, ogni cambio rispetto alla propria madrelingua, poiché include conoscenze e conseguenze a lungo termine, deve essere volontario e non può essere imposto.
La Tove difende con forza il diritto di tutti i fanciulli a ricevere l’istruzione nella loro madrelingua, divenendo bilingui o trilingui con l’apprendimento della lingua dominante nel paese che li ospita.
Del resto, i dati dell’Ocse sono chiari. Dimostrano che, in generale, la prima generazione dei figli di migranti non raggiunge lo stesso grado di istruzione dei loro coetanei indigeni. Sia per la prima che per la seconda generazione, l’istruzione acquisita dipende dal livello culturale dei genitori.
Per tanto le politiche migratorie dei paesi ospitanti non sono indifferenti, ma incidono sui risultati scolastici dei figli degli immigrati. Dove la selezione di lavoratori stranieri avviene tenendo conto delle necessità del mercato del lavoro, delle qualifiche e dei livelli di istruzione, come in Australia e in Canada, il tasso di preparazione a cui giungono i figli di seconda generazione è circa lo stesso o superiore a quello dei coetanei nativi. All’opposto in Germania, in Belgio e in Italia, dove sono reclutati lavoratori stranieri con basse competenze, i livelli di istruzione raggiunti dalla seconda generazione sono significativamente al di sotto di quelli dei madrelingua.
Secondo i dati Ocse è proprio la lingua a creare lo svantaggio, il non poter studiare e pensare nella propria lingua madre: la lingua è il fattore prevalente che riguarda il rendimento scolastico.
Inoltre, poiché la madrelingua è la lingua del quotidiano, i fanciulli delle famiglie migranti spesso parlano in casa una lingua che è differente da quella del paese ospite.
Noi siamo una nazione con una scuola in teoria attenta alla lingua materna, alla lingua di scolarizzazione e alle lingue europee, ma in pratica molto lontana dall’essere un sistema scolastico plurilingue. Per cui, mentre i ministri dell’istruzione progettano fin dalle elementari lezioni in lingua Inglese, non sono in grado, non solo di procurare i mezzi, ma neppure di pensare a come garantire ai figli degli immigrati il diritto di imparare a scuola per mezzo della loro madrelingua, quella famigliare e di tutti i giorni, come è nel diritto di tutte le bambine e i bambini di questo mondo. Così gli svantaggi per questi fanciulli si moltiplicano e per loro, che hanno il medesimo diritto all’istruzione dei loro coetanei italiani, viene meno il dettato dell’art. 3 della nostra Costituzione, che dovrebbe valere ancor prima di ogni altra disquisizione intorno allo ius soli o allo ius sanguinis.
Eppure è dal 1960 che esiste la Convenzione dell’Onu contro le discriminazioni nell’istruzione. All’art. 5 fornisce una chiara protezione delle minoranze culturali e linguistiche, a partire dai fanciulli migranti. L’Unesco, nel 1999, ha istituito la Giornata internazionale della madrelingua del 21 febbraio.
Ma, evidentemente, anni di governi ignoranti e di leghismi intellettualmente asfittici hanno finito con ottundere le menti di questo nostro paese e rendere cronica la sua miopia.

Render conto

Nei vari articoli che ho scritto sulla rubrica “Ecologicamente” ho cercato di proporre (forse con toni teorici e poco accattivanti) alcuni principi ambientali su acqua e rifiuti che mi stanno particolarmente a cuore. Mi rimane da trattare un punto che taglia trasversalmente tutti i temi e che, a mio avviso, rappresenta il principio base di ogni impostazione. Mi riferisco all’Etica della responsabilità: si tratta di un concetto generale su cui ritengo importante fare qualche ragionamento conclusivo.
La mia opinione infatti è che siano necessari elementi “alti” di caratterizzazione dei servizi pubblici locali in quanto indispensabili per realizzare un reale processo di miglioramento che richiami alla sostenibilità, alla trasparenza, alla certificazione, alla accountability, all’etica.
Bisogna mantenere alta la sensibilità e la domanda di sostenibilità e qualità sui servizi pubblici ambientali, e più in generale di ambiente, perché la crescita di qualità ambientale è un bisogno di tutti. Il bisogno di fiducia e partecipazione deve sostituire il crescente disagio e la diffidenza dei cittadini. La qualità della vita, la sicurezza, il rispetto ambientale, la coscienza civica devono contrastare la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze e l’iniqua distribuzione.
Non vorrei dare nessuna lezione di morale né fare demagogiche riflessioni, ma solo rafforzare la consapevolezza di poter ritrovare in questi territori, con questo sistema istituzionale e industriale, dei valori alti che hanno caratterizzato e che si pensa caratterizzeranno ancora i servizi pubblici collettivi in questa regione e in questa provincia.
Il bisogno di qualità sta diventando un importante elemento di riferimento anche nella politica economico-industriale dei servizi pubblici; vi è uno stretto legame tra sistema di gestione e livello di qualità ed efficienza economica, e i sistemi di regolazione devono fronteggiare il tipico dilemma fra incentivare l’efficienza produttiva e trasferire quote della rendita.
La Qualità è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella logica di apertura regolamentata dei mercati e dunque come fattore di competizione per la scelta concorrenziale del gestore. Si arriva così alla centralità dell’accountability, come insieme di momenti atti a “rendere conto in modo responsabile per tenere fede agli impegni presi”; l’accountability è dunque un insieme di modalità attraverso cui rapportarsi con i vari portatori di interesse per ottenere consensi. Questo ci porta ad un tema fondamentale: il capitale sociale. Quest’ultimo, come fondamentale valore da difendere, rappresenta infatti quella risorsa che permette di valorizzare il capitale culturale, il capitale simbolico e il capitale economico, e metterla a disposizione dei singoli individui.
Va rilevato come in particolare si stia passando da una fase di partecipazione e coinvolgimento ad una fase di distacco, di cinismo e dunque di sfiducia. E’ difficile distinguere quanto sia causa di un malessere generale; certo è che questa sfiducia indebolisce il capitale sociale come elemento di successo e di distinzione. Il capitale sociale è un importante valore di sviluppo e deve essere monitorato e analizzato in continuo per meglio comprendere il gradimento dei cittadini e più in generale il loro livello di qualità della vita.
Abbiamo bisogno di analizzare più a fondo come possono coesistere reali processi di miglioramento in contrasto con crescenti segnali di disagio e di insoddisfazione. In sintesi si stanno allentando i rapporti fiduciari che fortemente caratterizzavano il territorio e si vanno rafforzando al contrario strumenti di difesa e di autotutela.
Gli individui interagiscono quando si riconoscono reciprocamente come fini e non come mezzi. Si sente il bisogno di trasparenza e di fiducia; spesso invece si avverte una pregiudiziale diffidenza.
Conoscere cosa la gente spera sarà obiettivo fondamentale di ogni politica futura. Indagare sulle dimensioni di fiducia diffusa e di fiducia condizionata nelle relazioni fra erogatori di servizi pubblici e utenti è un impegno che bisogna assumersi collettivamente.

La nostalgia degli ‘umarells’ è paralizzante. Bisogna cominciare a immaginarsi un futuro diverso

di Elisa Manici

Danilo Masotti, l’inventore degli umarells, è, come dice il suo amico sociologo Ivo Germano, ”l’esegeta della più spiccia e incatenata realtà bolognese, anzi, è l’indagatore della sua fissità sociale”. Blogger, scrittore, per 25 anni creatore e frontman della band New Hyronja, e agitatore web tra la strizzata d’occhio alla pancia becera della gente e l’amore per quella che definisce una metropoli di provincia. Uno che pur avendo lanciato l’hashtag #ilgiorno dopononsuccedemaiuncazzo e #cimeritiamotutto – e che ha pure intitolato così il suo primo romanzo – nella sua vita è riuscito a spezzare le catene dell’ormai mitologico (ma per molti animi inquieti angosciante nella sua ripetitività) posto fisso e a inventarsi una vita anche lavorativa a sua misura: per portare a casa lo stipendio fa il grafico e il consulente per il web e il social media marketing.
Su Facebook, a chi non lo conosce bene, dà una prima impressione di cavalcare il populismo della rete in modo spesso irritante, ma basta conoscerlo meglio per capire che c’è molto altro. Lo incontriamo di persona proprio per parlare della bolognesità a modo suo, ovvero della bolognesità che passa dal web. Ma la sua lucida e spietata visione del provincialismo s’attaglia a Bologna come a Ferrara e ad ogni campanile d’Italia. Lui si pone molto gentilmente, e non si sottrae ad alcuna domanda.
“I social media si prestano molto a parlare di Bologna. Io mi diverto molto, ho iniziato coi blog, il primo è stato ‘Lo spettro della bolognesità’: replicava quello che avviene in una piazza, raccontavo quello che vedevo, ma il blog poi ha fatto il suo tempo. Quindi sono passato a una forma di comunicazione molto più veloce, che è quella di Facebook e Twitter. Su Facebook ho fatto il mio esperimento peggiore, direi, è un gruppo che si chiama ‘Una Bologna peggiore è possibile’, dove tutti i bolognesi si possono lamentare. Lì sono riuscito a raccogliere veramente il peggio della città, ma penso che una Bologna peggiore sia ancora possibile”.

E qual era il tuo scopo quando l’hai creato?
Io quando faccio le cose non ho mai un fine, il mio scopo è divertirmi. Però se proprio voglio trovare un fine è far specchiare i bolognesi in questa provocazione, farli riflettere, ascoltarsi, sentire cosa dicono sulla città, riflettere sulle loro chiusure, riflettere sui loro pregi, anche. Questa cosa qua secondo me è molto importante, e soprattutto è importante confrontarsi con persone che ti stanno anche un po’ sulle balle, anche con persone con cui non condividi e con le quali non ti diresti mai nulla.
L’utente medio di Una Bologna peggiore è possibile sembra essere pieno di mal di pancia, chiuso, tendenzialmente razzista e reazionario.
Il bolognese ha questa matrice che possiamo definire leghista, ma in questo caso “leghista” non c’entra niente con il partito della Lega, c’entra con l’attaccamento al territorio. C’è questo attaccamento al territorio, questo essere una sorta di testimoni di Geova della bolognesità, l’andare in giro a dire: “Sì, perché noi a Bologna facciam questo, facciam quello”, che è la realtà di tutte le province. Bologna è una metropoli di provincia, è una città che amo. Ecco, io ci tengo a sottolineare che queste cose che faccio sui social media e anche sui libri sono un atto d’amore nei confronti della mia città.
Mi sembra che questo, al di là di tutte le gag, traspaia con evidenza. Si dice spesso che oggi non c’è più un’unica narrazione dominante rispetto a un fatto, a un luogo, ma che ognuno scelga la sua. E’ così o ce n’è una che prevale?
Ogni narrazione della città parte dal concetto della “Bologna di una volta che si stava meglio”. Ma “non c’è più la Bologna di una volta” io me lo sentivo già dire nel ’77, quando avevo 9 anni, quindi bisogna risalire a qual è questa Bologna di una volta, tornare a viverci, e scoprire che magari non ci piace La Bologna di una volta forse rappresenta la gioventù, rappresenta la spensieratezza di ognuno di noi, e ognuno ha perciò la sua Bologna di una volta mentale.
E invece, come ci si può proiettare nella Bologna di oggi e del futuro?
La Bologna contemporanea è sicuramente problematica, come è problematico il mondo. Secondo me per proiettarsi nel futuro bisogna farsi ricchi del proprio patrimonio di vissuti in questa città e immaginarsi un futuro diverso. Bisogna cominciare a occuparsi meno di passato, con meno nostalgia paralizzante.
Attraverso la lente dell’ironia, con le tue pillole Scendo in campo affronti questioni legate all’oggi.
Sì, le giro col mio smartphone, riprendendomi selfie come va di moda adesso. Affronto le problematiche di questa città attraverso i luoghi comuni, didendo frasi fatte come alla gente piace sentirsi dire. Si ottengono molti “mi piace”, si ottengono molte critiche, si ottengono molti “ma che cazzo stai dicendo”.
Com’è nato l’hashtag #ilgiornodopononsuccedemaiuncazzo?
Da un’esperienza personale di plurivisioni di programmi come Report, Ballarò, Piazza Pulita, Servizio Pubblico. Programmi che seguo sempre meno, appunto perchè, anche se mi piace molto la domenica sera guardare, poi dopo mi lavo i denti, vado a letto, e il giorno dopo non succede mai un cazzo. Questi programmi, certo, ci vogliono, sono fondamentali, è importante sapere che cosa ci gira intorno. Ma poi?
Hai scritto ormai diversi liberi, ma solo un altro romanzo, Ci meritiamo tutto. Perché per Masotti ci meritiamo tutto?
Perchè ogni cosa che avviene nelle alte sfere del potere, ma anche solamente in un’azienda, è appunto perché noi non abbiamo fatto nulla perché ciò non accadesse, abbiamo delegato troppo, quindi ci meritiamo tutto, se continuiamo a delegare e se continuiamo ad affidare la nostra vita agli altri.
E tu che consiglio dai a una persona che non vuole più meritarsi tutto?
Per prima cosa bisogna farsi due conti in tasca e vedere se si può permetterselo. Non è così scontato, ma se questa persona comincia a vedere che di tanti oggetti può fare a meno, che può vivere spendendo meno, che può godere anche di una giornata di sole come quella di oggi e consumare meno, senza pipponi da decrescita felice. Se una persona comincia a rinunciare a tante cose, comincia a godersela un pochino di più, e secondo me riesce a gurdarsi dentro e a provare a cambiare qualche cosa. Se invece uno sta solo a guardare ai soldi, agli 80 euro in più in busta paga e cose così, continuerà poi solamente a meritarsi tutto. Chi può permetterselo un pochino, può uscire da questo gioco vorticoso, che come diceva il mio caro amico Freak Antoni “il ricatto del bisogno toglie all’uomo ogni sogno”.

[© www.lastefani.it]

Evviva i Subbotnik! La nuova versione dei ‘sabati comunisti’ in Russia

Da MOSCA – Sabato 12 aprile sono passati esattamente 95 anni dal primo Subbotnik o sabato comunista. Nel lontano 1919, nel deposito ferroviario della linea Mosca-Kazan, 15 lavoratori comunisti e simpatizzanti sacrificavano il loro sabato notte per riparare locomotive che sarebbero servite al paese. Decisero che avrebbero continuato l’esperienza regolarmente.

Vi domanderete, ma perché ne parliamo oggi? Vi dirò per quale motivo. La parola è la combinazione dei vocaboli Subbota (sabato) e Nik (giorno di lavoro volontario, non pagato, per il bene della società). Evidentemente, la storia del sabato comunista ha avuto la sua evoluzione, per fortuna. Se, infatti, il 1° Maggio 1920, il Partito Comunista annunciò il primo subbotnik ufficiale, al quale partecipò anche Vladimir Lenin nella Piazza del Cremlino (dipinto da Vladimir Krikhatsky), l’evento fu utilizzato dalla propaganda sovietica per mostrare quanto il padre della rivoluzione fosse davvero vicino ai lavoratori.

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Lenin al sabato comunista nel Cremlino. Mosca, maggio 1920

Divenuti poi parte del sistema, i sabati si trasformarono in eventi simbolici utilizzati per aumentare l’entusiasmo del popolo e promuovere l’idea di socialismo, fino ad arrivare a ricoprire un ruolo fondamentale e cruciale nel costruire la società socialista, unendo studenti e insegnanti, lavoratori di ogni categoria, capi e dipendenti in un impulso comune. Negli ultimi anni dell’era sovietica, il subbotnik veniva organizzato all’inizio della primavera, subito dopo lo scioglimento della neve. Per questo motivo, venne associato ai lavori di pulizia dopo l’inverno: si lavavano le strade e le finestre, si raccoglieva la spazzatura, si pulivano i giardini e le facciate grigie degli edifici. La gente piantava alberi, fiori e piante. Durante il periodo dell’U.r.s.s. l’evento divenne obbligatorio, come quello annuale, che si teneva il giorno del compleanno di Lenin, il 22 aprile (chi si rifiutava di partecipare andava incontro a dure repressioni). Negli anni ’50, i sabati comunisti vennero promossi anche nei paesi del blocco comunista, in particolare nella Germania dell’Est e in Cecoslovacchia, dove presero il nome di Akce Z. Qui non erano amatissimi ma comunque diffusi.

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‘Tutti al subbotnik!’ (ovvero anche tu!)

Lontani da ogni ideologia, della quale ne è stata oggi del tutto spogliata, l’usanza del subbotnik è rimasta viva in Russia e in altre ex Repubbliche sovietiche, per esempio nella raccolta di rifiuti e di materiali riciclabili, nelle riparazioni di beni pubblici e in altri servizi a beneficio dell’intera comunità. In tutta la Russia, da tempo ormai, questo subbotnik continua a vivere, in un forte spirito collettivo e di solidarietà. A Mosca, quest’anno, fra il 12 e il 26 aprile, i cittadini si mobilitano per pulire città, parchi e giardini. E non solo nella capitale. Il volontariato ambientale oggi si vede.

 

 

 

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Mosca, il 20 aprile 2013, più di 400 volontari hanno partecipato all’iniziativa di pulizia del parco Muzeon

L’anno scorso, ai subbotnik organizzati a Mosca hanno preso parte 1 milione e 300mila persone. La settimana successiva ci si è spostati in un altro parco moscovita, quello di Sokolniki. Scomparsa la neve, in primavera, i volontari liberano prati e vialetti dai rifiuti e dalle foglie vecchie, riverniciano le panchine e piantano fiori nelle aiuole. Il numero dei volontari cresce.
Le imprese russe, poi, organizzano i subbotnik se hanno la necessità di creare un team building speciale. L’organizzazione di subbotnik aziendali comincia a diventare un business, in Russia. Al tema ambientalista sembrano interessarsi le imprese più avanzate in cerca di nuove idee per motivare i collaboratori. Molti lo considerano solo uno svago, un modo per passare il tempo insieme e socializzare; molti altri, invece, dopo aver partecipato alla pulizia dei parchi, cominciano a fare la raccolta differenziata anche a casa. Non bisogna sottovalutare l’effetto psicologico: nei luoghi dove si tiene pulito, i rifiuti diminuiscono del 50 per cento.

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Mosca, Parco Muzeon

Oltre ai subbotnik aziendali si moltiplicano le iniziative di volontariato ambientale organizzate da associazioni di entusiasti. Una di queste è il movimento “Rifiuti zero” che esiste dal 2004 e raccoglie attivisti di cento città russe. Tutto ha avuto inizio dai cortili di casa: gli spazzini pulivano intorno alle case, ma alle aree giochi per bambini non ci pensava nessuno. Per questo, Denis Stark organizzò nove anni fa la prima iniziativa di volontariato ambientale nella sua città natale, San Pietroburgo. Agli otto organizzatori si unirono allora dieci persone. Denis noleggiò un camion a proprie spese per trasportare i rifiuti. Nel 2010, al subbotnik annuale organizzato dal suo movimento in tutta la Russia, i partecipanti furono 1.500; nel 2011, 9mila e nel 2012, 85mila. I volontari organizzano le proprie azioni attraverso i social network, utilizzando tutti gli strumenti per coinvolgere i cittadini: annunci in rete, pubblicità nella metropolitana, volantinaggi, iniziative pubbliche per illustrare le azioni in programma. A settembre 2013, il movimento ha organizzato un nuovo subbotnik nell’ambito del programma internazionale di volontariato ambientale World Cleanup 2013. L’edizione è partita il 30 marzo 2013, con la manifestazione “Ghiaccio pulito nel Baikal”.

Ecco perché volevamo parlarvene: perché dal vecchio subbotnik è nata una nuova, forte e giovane coscienza collettiva. Strade, parchi e giardini di Mosca docent.