Le forze politiche cittadine presentano, in occasione del prossimo voto amministrativo, le linee di intervento per la futura gestione della città. A queste forze le Associazioni culturali, che qui sottoscrivono, indicano alcuni temi ritenuti prioritari chiedendo di farsene carico e di proporre linee di sviluppo, non contingenti, per il settore.
Prendiamo atto che non siamo all’anno zero e che le amministrazioni passate hanno avviato a soluzione molti dei problemi.
Riteniamo sia utile che la prossima amministrazione senta, pur nella necessaria distinzione dei ruoli, il nostro motivato parere.
1) Chiediamo la creazione di un momento consultivo ove esporre le nostre opinioni e indicazioni in occasione della programmazione delle attività culturali.
2) La storia di Ferrara, in tutti i suoi momenti, oltre alla ben nota tradizione umanistica, si caratterizza per la forte presenza della cultura scientifica. Auspichiamo che anche questa venga valorizzata e recuperata. Va posta inoltre attenzione ad ogni epoca della nostra storia senza trascurare le opportunità che provengono da proposte nazionali ed internazionali.
Non è possibile dimenticare che Ferrara è stata dichiarata dall’Unesco ‘patrimonio della umanità’ proprio per le testimonianze del passato ancora presenti che meritano di essere riproposte, più di quanto oggi accada.
3) L’Amministrazione renda disponibili spazi per iniziative autogestite dalle Associazioni o da privati cittadini secondo un programma concordato con l’Amministrazione Comunale.
4) L’ Amministrazione ricerchi occasioni di concertazione con gli altri attori presenti in città, in primo luogo la Università.
5) Il problema della gestione del Castello Estense, dei contenuti, modi e forme della sua fruizione è tema che non può essere eluso.
6) La nuova Amministrazione dovrà farsi carico della istituzione di un ‘sistema museale’ come previsto dalla legislazione vigente, sull’esempio di quanto già avvenuto in molte città della regione.
7) La ‘cultura della manutenzione’, piuttosto che la ricerca della ‘eccezionalità’, deve essere elemento caratterizzante e guida per ogni intervento su luoghi ed opere.
8) E’ necessario trovare una soluzione, stabile e di prospettiva, che riconosca il ruolo delle Associazioni all’interno della città e consenta loro di operare, ognuna secondo la propria specifica vocazione.
9) Molte Associazioni nel tempo hanno cumulato documenti archivistici e bibliografici che vanno integrati nel sistema informatico delle biblioteche e archivi, statali, comunali e universitari.
10) Gli spazi delle istituzioni pubbliche (musei, biblioteche, archivi, sale di musica, di riunione, di esposizione) vanno ampliati in funzione del loro progressivo sviluppo, nel lungo periodo, per effetto di donazioni, acquisizioni, accrescersi delle attività.
Attendiamo dalle forze politiche qualche risposta.
Accademia delle Scienze Amici della Biblioteca Ariostea Amici dei Musei e Monumenti Ferraresi Bald’anza Deputazione Ferrarese di Storia Patria Ferrariae Decus Garden Italia Nostra
Ilaria Morghen, medico anestesista del Sant’Anna, 43 anni, romana di Velletri, ferrarese adottiva dal 1997, è l’aspirante sindaco del Movimento 5 stelle. La sua candidatura è stata per tutti una sorpresa. Lo è stata anche per lei? In un certo senso sì, solo dallo scorso autunno sono attivista del meetup Grilli estensi e di recente sono stata selezionata dagli iscritti e poi designata per questo ruolo. Alle spalle non ha un’esperienza politica, le posso però chiedere il suo orientamento? Destra. Sono cresciuta in un ambiente familiare permeato da quei valori. Non ho mai militato, ma sempre considerato la politica una cosa seria e importante. Votare significa affidare a qualcuno la responsabilità di governare e decidere, per me e per la mia famiglia. Rimpiango il tempo in cui ci si poteva sedere in un tavolino del bar a Campo dei fiori per parlare con i nostri rappresentanti politici, in semplicità e senza formalismi. Era una forma di rispetto e una pratica di educazione civica. Poi tutto è cambiato, fa male ricordare quel che è successo: gli uomini a un certo punto sono spariti e al loro posto sono arrivati gli avvisi di garanzia. Ci è toccato prima Craxi col suo socialismo degradante e poi Berlusconi, un ventennio orribile… Mai stata berlusconiana, desumo! No no no, per carità… E quando Alleanza nazionale si è sciolta in Forza Italia è davvero finito tutto. Nostalgia per quei tempi?
No, ora c’è il movimento 5 stelle. Abbiamo ritrovato la speranza.
Con lei sindaco, Ferrara come cambierebbe?
Metteremo su una bella squadra e faremo belle cose. Voglio subito sfatare la diceria che non saremmo preparati. Abbiamo competenze molteplici, fra noi ci sono economisti, artigiani, artisti, medici, semplici impiegati. Facciamo riunioni su riunioni, ci confrontiamo, studiamo. Abbiamo anche frequentato una scuola di amministrazione etica. Siamo pronti a portare innovazione in questa città, anche da un punto di vista tecnico. Viceversa è il Pd che mostra incapacità e continua a sperimentare sulla pelle del cittadino soluzioni inadeguate, con esiti fallimentari. Per esempio?
Prendo il caso delle “unità per intensità di cura”, spacciate per ospedali. Esistono solo nelle regioni rosse e sono in realtà strutture assistenziali a bassa qualità, affidate a personale infermieristico, dove lo specialista passa ogni due o tre giorni. Sembrano concepite apposta per spingere il cittadino verso il privato. A Tagliani è persino sfuggita un’ammissione, quando ha riconosciuto che la ‘cronicità’ è da sempre affidata a Quisisana e Salus. Noi invece si battiamo per il potenziamento e la riqualificazione del servizio pubblico, non vogliamo cittadini di serie A e cittadini di serie B. Quello attuale è un modello che non ci sta bene perché penalizza i meno abbienti. Io consiglio di farsi assicurazioni private per essere tranquilli, ma non è giusto che sia così perché non tutti se le possono permettere. A proposito di servizio sanitario pubblico, che ne pensa dei medici obiettori?
L’interruzione volontaria della gravidanza è un diritto che deve essere garantito. Con l’80% di medici obiettori non è semplice. Non ravvisa anche doppiezza e ipocrisia in questa scelta?
Non conosco personalmente casi di medici che si dichiarino obiettori e poi pratichino aborti in cliniche private.
Tornando a Ferrara, ha detto che un modello virtuoso di innovazione al quale si ispira è quello di Bogotà. Non teme di spaventare qualcuno mettendo di mezzo nientemeno che la capitale della Colombia?
I miei attivisti sostengono che sono avanti vent’anni! L’esperienza del sindaco Mockus è stata qualcosa di straordinario. Diceva: “Noi non cerchiamo voti, cerchiamo voci”. E’ la nostra stessa ottica assembleare, il nostro è un programma aperto al contributo dei cittadini. In condizioni molto peggiori di queste, Mockus ha realizzato risultati eccezionali. Il fulcro della sua azione è stata l’educazione civica: trasmettere alle persona la consapevolezza del ruolo sociale di ciascuno. Qui siamo in piena anestesia partecipativa, noi vogliamo risvegliare il senso di appartenenza a una comunità. Ma se lo spirito è quello della condivisione e del confronto come si giustificano le epurazioni dei dissidenti dal movimento?
Sono mistificazioni della stampa. Grillo e Casaleggio non si sentono mai, al punto anzi da farci desiderare qualche loro consiglio. I gruppi dirigenti sono lasciati liberi di decidere senza condizionamenti. Le espulsioni però ci sono state, le reprimende a sindaci, deputati e senatori pure…
Ci sono solo tre regole di base: rispettare i cittadini, rispettare le leggi, non farsi manipolare. Sono norme che disciplinano la vita civica del movimento evitando danni ai cittadini e anche ai tuoi compagni. Chi non rispetta i patti viene segnalato ed eventualmente allontanato. La sensazione però è che ci sia scarsa tolleranza per le opinioni non allineate.
E’ così quando sono espressione di ambizioni personali. Ci sono norme etiche di comportamento che vanno rispettate. Aderire è una libera scelta, prima di diventare attivisti si è sottoposti a un periodo di osservazione. Una volta dentro, le regole vanno onorate. Una curiosità: di Grillo sappiamo tutto, ma Casaleggio che tipo è?
Affascinante, grande cultura, appassionatissimo di storia, timido e un po’ schivo. Un carattere opposto al vostro leader. Non ritiene anche lei che i toni siano spesso sopra le righe, troppo gridati, che l’invettiva non faccia bene al confronto?
Dobbiamo gridare per farci sentire, non siamo in tv, siamo spesso censurati, i giornali dei padroni non ci vogliono. E quando sei in piazza e parli direttamente con le persone si crea un forte legame emotivo, un effetto trascinamento. Avverti la speranza e insieme la rabbia e la delusione di tanti. Abbiamo il dovere di fornire risposte a quelle domande e infondere fiducia nel cambiamento, anche per impedire che la protesta si trasformi in violenza. I toni sono una conseguenza di ciò. Ma quando la gente sente Beppe, se ne va con un sorriso e la convinzione che ancora ce la si possa fare a cambiare le cose. Quindi anche il contestato “bastardi” che lei qualche giorno fa ha gridato dal palco di Bologna all’indirizzo del Pd è frutto di questo contesto?
Siamo arrivati sul palco arrabbiati perché ci censurano continuamente, siamo stanchi, esasperati…
Con gli altri candidati non c’è dialogo?
Ma non hanno niente da dire! Non hanno neanche presentato il programma. Un programma ce l’abbiamo io, Anselmi e poi, vabbé, il Pd che scrive le solite cose. Nel suo programma ci sono soluzioni concrete per fronteggiare la crisi a livello locale?
Bisogna rilanciare l’economia, pensiamo a un tavolo con artigiani e imprese, dobbiamo partire dalle nostre risorse, non cercare – come fa questa amministrazione – le holding che vengono da fuori, fanno i loro interessi, lasciano le aree da bonificare e il deserto. Noi puntiamo sulle forze produttive locali. Certo, la spending review non aiuta ma siamo convinti che in ogni settore ci siano margini di espansione. Qualche esempio di cose che vorreste fare?
La riconversione energetica degli edifici pubblici. L’apertura di un’agenzia per l’energia, come ha fatto Modena costituendo un consorzio. Ma a Ferrara ci si è rifiutati di aderire perché si volevano favorire gli interessi di Sipro. Così abbiamo perso decine di milioni di euro. E’ sempre la stessa storia, si agisce non per il bene dei cittadini, ma per compiacere gli amici. Lo stesso capita sistematicamente con Hera, che è un vero moloch: cura solo i suoi interessi e deprime la nostra economia locale. Ora si vorrebbe estendere la geotermia che non porta alcun risparmio ai cittadini ma conviene ad Hera. Entro il 19 maggio il sindaco ha la possibilità di richiedere lo spegnimento dell’inceneritore, ma se ne guarda bene. Così si continuerà a inquinare. Ma se si continua a spargere diossina sulle nostre campagne addio Doc e Igp… E per le imprese?
Vorremmo unificare le partite Iva e avviare processi di investimento garantiti dall’amministrazione comunale per sottrarre i cittadini imprenditori alle vessazioni di Equitalia, che è il grande nemico. Vanno semplificati gli iter burocratici… Il modello di città che lei citava all’inizio, quello del sindaco Mockus di Bogotà, si basa sostanzialmente sul concetto di learning city, cioè di comunità educativa che offre stimoli continui di crescita e occasioni di partecipazione. Come lo tradurrebbe per Ferrara?
Abbiamo in mente un piano estetico urbano che parte dalle periferie. Vorremmo fare dei grattacieli la porta di accesso della città, in versione ‘land art’, tappezzandoli di pannelli termoriscaldanti e trasformandoli in ‘green building’. E tutto intorno un esteso e diffuso parco che metta in connessione le aree cittadine. Turismo?
Innanzi tutto un’adeguata politica dei prezzi. Tagliare la tassa di soggiorno, ridurre i costi degli hotel. Diffondere mappe digitali e cartacee. Rilanciare il ‘made in Fe’, ad esempio attraverso l’industria della bicicletta, fare promozione all’estero con la presenza di stand alle fiere del turismo. Insomma, va rivitalizzata la città che ora è tagliata fuori persino dai flussi del traffico passeggeri. Bisogna fare arrivare anche qui i treni dell’alta velocità. Per la verità arrivano già…
C’è un frecciargento e basta. Bisogna adeguare la banchina della stazione. E’ una cosa che si fa facilmente. Abbiamo anche privati pronti a investire per il rilancio della città: imprenditori locali. Nomi?
Per ora è meglio di no. E le politiche culturali?
L’ottica è appunto quella della ‘land art’, vogliamo una città verde, vorremmo creare il parco ‘land’ più grande d’Europa abbracciando tutta la città, raccordando aree verdi e opere d’arte… Questo implicherebbe un’estensione dei divieti al traffico veicolare?
Pensiamo a parcheggi scambiatori e uso di navette elettriche gratuite. Poi vogliamo ripulire la città: via i cassonetti dell’immondizia per esempio, per liberare spazio al transito delle biciclette. Via i cassonetti nel senso che li interrereste?
No, via perché non serviranno più facendo raccolta differenziata. Le sembra realistico? Di certo non avverrà in un giorno…
Le persone vanno educate, tutto parte dall’educazione civica, l’educazione al rispetto degli spazi e degli altri. Il cambiamento non si fa in un giorno, ma si può e si deve fare. E noi vogliamo realizzarlo.
Il gioco d’azzardo è una piaga che coinvolge molti. La nostra regione vanta un record negativo che la pone al quarto posto in Italia per fatturato (8.534 milioni di euro nel 2012) e per spesa pro capite fra i maggiorenni della regione (1.840 euro). Quello che inizia come un gioco nel tempo libero può diventare un’ossessione che coinvolge ogni momento della quotidianità, sottraendo tempo e denaro non solo alla famiglia e agli amici ma anche al lavoro e ad abitudini più sane. Le conseguenze sono tragiche: si può arrivare alla depressione, a ricorrere all’usura o ancora a tentare il suicidio. Non mancano problemi di altro tipo come disordini familiari, micro crimini e atti contro l’ordine pubblico. Alla base di tutto enormi costi sociali per il trattamento sanitario dei casi più disperati, per la prevenzione e ancora per l’educazione nelle scuole, con l’obiettivo di proteggere le categorie più deboli, le più a rischio.
Che fare dunque contro il proliferare di queste sale giochi? È difficile per i Comuni agire da soli, dal momento in cui le autorizzazioni per le sale gioco passano dalla Questura e non dal Comune, in base a leggi nazionali. “I Comuni sono impegnati, ma deve essere la politica a farsi carico del problema con un intervento legislativo nazionale, riconoscendolo come disagio sociale ed economico. Noi ci mettiamo in gioco sia a livello locale sia a livello nazionale perché sono sempre di più le famiglie che si rovinano” sottolinea Matteo Iori, presidente Conagga (Coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo). Un tentativo di regolamentare il gioco d’azzardo è stato già intrapreso con il “Manifesto dei sindaci per la legalità contro il gioco d’azzardo” che ha raccolto 32.000 firme sull’intero territorio regionale. Obiettivo: chiedere al Governo di intervenire in materia con una proposta seria, che riduca visibilmente il numero delle sale gioco e delle malattie da queste derivate.
Ora è stata lanciata campagna nazionale, “Mettiamoci in gioco”, presentata nei giorni scorsi a Bologna. Un’iniziativa a cui hanno collaborato il Comune, le associazioni e imprese del terzo settore e i sindacati dell’Emilia-Romagna per costruire un coordinamento regionale capace di agire in maniera efficace sul problema.
In vista delle elezioni amministrative, il Coordinamento regionale ha promossa anche una lettera da inviare a tutti i candidati con l’intento di far inserire il tema della prevenzione e lotta all’azzardo patologico nei programmi elettorali. A tutti gli aderenti il Coordinamento chiede di far iscrivere il proprio Comune al “Manifesto dei sindaci per la legalità contro il gioco d’azzardo”. L’obiettivo principale per il Coordinamento è diventare un punto di riferimento aperto per chiunque voglia attivarsi per sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica sui rischi connessi alla diffusione del gioco d’azzardo. Oltre a questo obiettivo a lungo termine, il coordinamento lavorerà su altri 14 punti del documento “Regolamentazione del gioco d’azzardo” (il manifesto lanciato nel 2013 dalla campagna “Mettiamoci in Gioco”), il cui intento è stabilire una legge che regolamenti il gioco d’azzardo in tutti i suoi punti. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sono previste iniziative, campagne di informazione e momenti di incontro. Quello che si chiede è dare ai sindaci potere di controllo sul fenomeno nel loro territorio, ridurre l’alta variabilità attuale nella tassazione sui diversi giochi incrementando le entrate per lo Stato, inserire il gioco d’azzardo patologico nei livelli essenziali di assistenza garantiti dal servizio sanitario nazionale, vincolare parte del fatturato annuo dei giochi d’azzardo al finanziamento delle azioni di prevenzione, assistenza, cura e ricerca della ludopatia, regolamentare la pubblicità che riguarda il gioco, vincolare l’ esercizio delle concessioni nel rispetto del codice di autoregolamentazione pubblicitaria e creare un’authority di controllo esterna ad Aams (Agenzia delle dogane e dei monopoli di stato), stabilire una moratoria sull’introduzione di nuovi giochi finché non saranno esposti i risultati delle ricerche sui giochi già esistenti, adottare un registro unico nazionale delle persone che chiedono esclusione dai siti di gioco d’azzardo.
Prima iniziativa prevista dal coordinamento sarà domenica 18 maggio a Reggio Emilia nella “Festa dello sport in ambiente” in cui il fenomeno dell’azzardo verrà descritto insieme ad associazioni e cittadini, sottolineando le buone pratiche sul territorio. Passo successivo sarà la mappatura sui servizi sul gioco d’azzardo patologico attivati nelle provincie dell’Emilia-Romagna. “Vogliamo essere un punto di riferimento aperto a tutti quelli che si vogliono aggregare, soprattutto ora che il gioco d’azzardo sta conoscendo un enorme sviluppo, con infiltrazioni già documentate dei clan mafiosi come Casalesi e Schiavone” ha spiegato Fiore Zamboni, referente coordinamento ‘Mettiamoci in gioco’ Emilia-Romagna, presente alla conferenza.
Le realtà che si sono “messe in gioco” sono numerose: Acli, Ada, Adoc, Adusbef, Alea, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Avviso pubblico, Azione cattolica italiana, Cgil, Cisl, Cna, Conagga, Ctg, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fondazione Pime, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega consumatori, Libera, Scuola delle buone pratiche, Shaker, Uil, Uil pensionati, Uisp, Lag Vignola e Associazione Umanamente.
Da LONDRA – Entro in uno dei pochi pub che sono rimasti autenticamente inglesi, di quelli periferici con il bancone di legno scuro, lucido, dichiaratamente appiccicoso e l’aria buia e impregnata dell’odore grasso di fish and chips, che qua è buona norma mangiare a tutte le ore. Mi siedo su uno dei tanti sgabelli che si affacciano sul bar e inutilmente cerco di attirare l’attenzione del giovane barista che sta annegando in un mare di ordini e birra.
Alla mia sinistra quattro ragazzi in jeans e maglietta parlano a voce molto alta, sono di fianco a me ma non capisco ciò che dicono se non per un occasionale vale o cerveza che li identifica come spagnoli; alla mia destra un uomo grassottello sulla cinquantina, palesemente inglese, tracanna l’ultimo sorso della sua birra mentre carica di tabacco la pipa e borbotta tra sé e sé parole a me incomprensibili.
Finalmente il barista si accorge di me. Ripasso mentalmente le regole della pronuncia e con il mio migliore accento londinese chiedo una pinta di Camden Hells. La reazione a cui ormai sono abituata non tarda ad arrivare: “Scusa, sei italiana? Ma dai, anche io. Di dove sei?”
Sono a Londra da tre mesi per seguire un corso di giornalismo e onestamente ho avuto troppe poche interazioni in inglese per rendermi conto di essere in Gran Bretagna.
Ho conosciuto e ascoltato le storie di ragazzi diplomati, laureati, specializzati che sono scappati tanto da paesini di provincia quanto dalle grandi città e si sono trasferiti in terra albionica con la speranza di fare “qualcosa, qualsiasi cosa”. La sensazione è che venire a fare il cameriere a Londra non sia più il rito di passaggio destinato a concludersi con la fine dell’estate che era fino a quattro-cinque anni fa. Oggi è una richiesta di speranza e di indipendenza a una città che inspiegabilmente sembra in grado di accogliere e dare lavoro a tutti quelli che dimostrano di avere buona volontà.
O almeno questo è quanto appare dall’esterno.
Per quanto possa suonare strano per una nazione che si è costruita su commercio e colonialismo, la Gran Bretagna si sta evolvendo in maniera nettamente protezionistica: fedeltà alla sterlina, nessun senso di appartenenza all’Europa (quante volte ho sentito i locals dire “voi europei”) e sconfinato orgoglio per il Made in Gb, che si parli di oggetti o di persone.
L’abbondante flusso di immigrati, polacchi in primis, ma di certo non mancano giovani dai Piigs, sfocia nel lavoro manuale e commerciale, che, pur essendo considerato con più rispetto che in Italia, non è l’obiettivo primario dei tanti “cervelli in fuga”.
Il messaggio negli annunci di lavoro della maggior parte delle grandi aziende inglesi è sottile, ma chiaro: per essere considerato idoneo, il candidato deve essere madrelingua e cittadino europeo. Facile dedurre che questi criteri includono unicamente gli abitanti del Regno Unito, con buona pace dei tanti laureati eccellenti dal resto d’Europa.
La buona notizia è che almeno nella terra d’Albione il tanto familiare essere “troppo qualificato/a” non pare essere un problema. Quindi, fedele al motto “fatta la legge, trovato l’inganno”, un giovane straniero, seppur con fatica e affrontando tanta competizione, può sperare di riuscire a entrare nel mondo del lavoro britannico frequentando corsi e master in Inghilterra e tentando di inserirsi nelle aziende tramite tirocini e collaborazioni “per arricchire il curriculum”.
Con questo non voglio scoraggiare nessuno dal mettere la pergamena di laurea o del diploma in valigia e imbarcarsi sul primo volo per Londra. Sarebbe terribilmente ipocrita da parte mia. Però è bene sapere che, una volta atterrati, non ci si trova nel paese dei balocchi dove tutto è facile o diverso dalla madrepatria. Più a lungo si vive in Gran Bretagna, più si notano atteggiamenti e situazioni simili al mondo del lavoro italiano.
A tutti coloro che aspirano a venire a Londra per trovare lavoro, dico: non abbiate paura a rimettervi a studiare, a offrirvi per uno stage non pagato, a proporvi per una posizione “inferiore” alla vostra qualifica o a essere il 1200esimo candidato per 4 posti di lavoro.
Londra non è la terra promessa, ma delle promesse noi italiani abbiamo imparato a non fidarci da un pezzo.
In questi giorni stiamo assistendo alla replica di un brutto film: nuovi scandali e nuovi arresti per corruzione. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi dice: “La politica se ne stia zitta e lasci lavorare la Magistratura!” Parole condivisibili a metà. Va bene il rispetto dell’autonomia della Magistratura a fronte del disprezzo e dileggio che la destra berlusconiana ha sempre riservato ad uno dei poteri fondamentali dello Stato di diritto. Va male se il silenzio della politica si estende a ciò che è suo dovere fare: combattere la corruzione come una delle emergenze storiche e strutturali del nostro Paese. Non è sufficiente dare vita all’ennesima Authority, o creare una task force solo dopo la scoperta della cupola milanese. La verità è che su questo fronte non registro, finora, novità da parte del governo del fare: restano in vita le sciagurate leggi ad personam; permane irrisolto il conflitto di interessi; continua da parte dei corrotti e corruttori l’uso della prescrizione per evitare le sentenze.
Vorrei, però, approfittare della dichiarazione del Presidente del Consiglio per fare chiarezza su una questione su cui viene alimentata una voluta confusione: la distinzione tra il legale-penale e il politico-morale. In Italia, da Tangentopoli in poi, la Magistratura ha fatto la sua parte. E’ la politica che non ha fatto il suo dovere. Il processo penale si muove in un ambito preciso e ristretto: è volto non a risolvere problemi sociali, ma ad accertare fatti specifici e responsabilità individuali. Spetta alla politica rendersi conto che la corruzione in Italia è da decenni corruzione sistemica, ciò che rende il nostro Paese del tutto anomalo rispetto alla corruzione fisiologica presente nelle altre democrazie occidentali.
Chi aveva investito “Mani pulite” di un’aspettativa palingenetica non aveva, evidentemente, nozione della distinzione di funzioni tra Magistratura e politica in uno Stato di diritto. Concetto, invece, presente nel rapporto dell’organismo creato dal Consiglio d’Europa per vigilare sul rispetto delle norme anti-corruzione da parte degli Stati membri, ove si afferma che: “…la necessità di elaborare una politica di prevenzione effettiva nel settore della corruzione richiede una strategia a lungo termine e un forte impegno politico, perché la lotta alla corruzione deve divenire un fatto di cultura diffusa e non solo di norme di legge.”
Ecco ciò che non ha mai fatto la politica, sia prima che dopo Tangentopoli! Solo due grandi leader politici lanciarono l’allarme agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso sulla questione morale: Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa. E solo un sindaco, Diego Novelli, anticipò la Magistratura nel denunciare la presenza di corrotti nella sua giunta di Torino. Ma costoro furono isolati all’interno dei loro stessi partiti. Ciò è potuto accadere perché è sempre stata una favola la contrapposizione tra una società politica corrotta e una società civile sana e onesta. In verità è una minoranza la parte che chiede di assumere la lotta alla corruzione come una priorità dell’agenda politica.
Mi dispiace polemizzare con l’onesto sindaco di Milano Giuliano Pisapia, ma fa un’analisi sbagliata quando dice che la legalità in Italia è un valore per molti contrastato solo da pochi. Basterebbe chiedersi: se da oggi si praticasse un’intransigente lotta contro la corruzione, l’evasione fiscale e la pratica del lavoro nero reggerebbe il sistema-Paese? Domanda drammatica, perché ci mette di fronte al disastro causato da decenni di governi incapaci o peggio. E il dato più preoccupante è proprio un’opinione pubblica divisa tra esasperati, rassegnati e indifferenti. Basti il confronto fra due comportamenti opposti tenuti da leader politici, espressione di due opinioni pubbliche diverse: Ehud Olmert e Silvio Berlusconi. Ehud Olmert, già sindaco di Gerusalemme, fu primo ministro dello Stato di Israele dal 4 maggio 2006 al 23 gennaio 2009. Quando divenne oggetto di indagine per ipotesi di corruzione, si dimise con questa motivazione: “Se devo scegliere fra me, la consapevolezza di essere innocente e il fatto che restando al mio posto possa mettere in grave imbarazzo il Paese che amo e che ho l’onore di rappresentare, non ho dubbi: mi faccio da parte perché anche il primo ministro deve essere giudicato come gli altri”.
In Italia questa forma etica di responsabilità politica che si concreta nelle dimissioni, prima e a prescindere dalla condanna in sede penale, resta sconosciuta al nostro costume civile e politico. Da noi ha vinto un garantismo peloso che non ha niente a che vedere con la salvaguardia dei diritti della persona, ma solo con la tutela dell’impunità del potente. Di più. Per Silvio Berlusconi neanche una condanna definitiva è sufficiente per escluderlo come leader politico dalla vita pubblica. Che fare? E’ impressionante come un osservatore straniero, lo scrittore tedesco Peter Schneider, fin dall’inizio dello scoppio di Tangentopoli avesse visto con lucidità la soluzione: “Non possiamo illuderci sulle possibilità di rigenerare l’Italia per la sola iniziativa della magistratura. L’idea di fare a meno della politica, dei partiti, è un errore. Un fondamentalismo che non può portare che alla distruzione della società. Contro il radicalismo dell’antipolitica bisognerà battersi, fin d’ora, in nome di un rinnovato contratto sociale e morale”. (Micromega n.4, 1993). Dopo vent’anni siamo ancora in tempo? O si preparano futuri da incubo tra incapaci, corrotti e fanatici?
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Ombre all’ombra di Matisse. Sono quelle tracciate da Maurizio Camerani, scultore e video artista, che con le sue opere dialoga con i quadri del maestro fauve francese. L’allestimento è alla Mlb home-gallery di Ferrara, che si trova lungo la stessa, bella via di Palazzo dei Diamanti dove è allestita l’esposizione di Henri Matisse: sul corso Ercole d’Este, ma una manciata di numeri civici più in su, vicino al castello del centro cittadino.
Una visita alla galleria-abitazione di Maria Livia Brunelli è un’opportunità per entrare in confidenza con l’arte minimale di Camerani, ma anche con quella ricca e variopinta di Matisse. In uno spazio che è familiare e intimo, ogni dettaglio richiama la fusione tra l’arte e la vita che è intorno. Come le piccole sagome in pasta frolla a forma di pesci, di mani e di piedi, create per il buffet da Laura Saetti: un abbraccio tra arte e materia quotidiana che – in questo caso – si può fare proprio, assaporare, masticare, digerire.
Affascinato dai momenti sospesi e dalle suggestioni che coglie nei quadri del pittore , Camerani riprende elementi delle sue stesse video-installazioni degli anni ’80 e li affianca a dettagli ricorrenti dei quadri di Matisse. Ogni opera è un assemblaggio che mette insieme un fotogramma dei suoi video con alcuni particolari matissiani, catturati sotto forma di ombra. Ecco allora il segno della matita morbida su carta, che va a comporre il riflesso che può lasciare una figura: la silhouette di un piede con la cavigliera da odalisca; la sagoma di una tazzina rovesciata; un tamburello; una rosa e una lucertola; le mani di una danzatrice; pesci rossi; foglie lobate di una pianta di filodendro che evoca vecchi appartamenti borghesi. Sono ombre, dunque, riflessi che proprio di riflessione parlano e alla riflessione portano.
Nella casa-galleria al primo piano del palazzo è aperto un catalogo dell’opera di Henri Matisse. Camerani indica su una pagina la riproduzione del quadro dell’odalisca addormentata con accanto una tazzina capovolta e una scacchiera. E si chiede: “Cosa sarà successo in quella stanza? Si sono amati? Hanno litigato?”. Un particolare che esce da quell’opera, così piena di colori da sopraffarci, per diventare protagonista in punta di matita sopra un foglio di carta montato su telaio. La riduzione al bianco e nero diventa un percorso di indagine, interrogazione, insinuazione di un mistero.
In un video la sagoma rossastra di una danzatrice si muove come nel celebre olio su tela intitolato “La danza” e dipinto da Matisse in varie versioni nel primo decennio del ’900. La didascalia spiega: “Aurora si muove con la sua ombra, la rincorre, la tocca, la tira verso di sè, poi la lascia libera di fluttuare”.
In un’altra opera le sagome dei pesci riprodotte con la matita sulla carta sono come ombre create dalla luce sulla parete dietro a un acquario, con le dimensioni degli animali che variano, rimpicciolite o ingrandite mentre navigano nell’acqua a causa dell’effetto ottico del vetro e delle luci. La suggestione è completata dalla presenza di tre pesciolini veri, che nuotano in una sfera di vetro a ricordare i “Pesci rossi” dipinti da Matisse all’interno di altre stanze, vicino ad altre finestre, in momenti e luoghi passati. “La tecnica esecutiva della matita – racconta Camerani – è un intreccio di segni, che mi costringe a un tempo lungo di permanenza sull’opera. E’ quasi un mantra, un tempo riflessivo e si collega alla mia matrice minimalista nell’ambito dell’arte”. Un mantra che riporta qui e adesso l’epoca fauve della Francia d’inizio Novecento, la rivisita in chiave moderna, la spoglia e la rinnova.
La mostra “Maurizio Camerani Atelier Matisse” in corso Ercole I d’Este 3 è aperta fino al 14 settembre; fino al 29 giugno è visitabile ogni sabato e domenica dalle 15 alle 19 con ingresso libero anche senza appuntamento. Negli altri giorni info allo 346 7953757 o sul sito della galleria (www.mlbgallery.com.)
Così come la rivoluzione francese segna convenzionalmente l’inizio dell’età contemporanea, “mani pulite” rappresenta per molti in Italia il punto di passaggio dalla prima alla seconda repubblica. I recenti fatti di Milano portano invece a chiedersi se questa dicotomia esista sul serio o se, invece, quella che noi chiamiamo seconda repubblica non costituisca né più e né meno che l’esito del processo di disfacimento della prima; rispetto al quale l’azione dei magistrati milanesi di fine anni ’80 abbia rappresentato non già l’auspicato sradicamento dell’articolato sistema corruttivo venuto alla luce, bensì la semplice potatura di alcuni rami emergenti, quando non addirittura lo strumento involontario per regolarne alcune lotte intestine.
Se così è, ripensando alla volontà rinnovatrice ed all’esigenza largamente condivisa di grandi riforme che emersero in quello stesso periodo, i 30 anni che ci separano da quelle vicende costituiscono la misura impietosa e drammatica del tempo sin qui perduto, delle occasioni mancate, della clamorosa incapacità, a volte assecondata, di iniziare quel percorso di cambiamento. Tutto questo in un mondo che nel frattempo mutava ad una velocità finora sconosciuta.
La corruzione dilagante, che ci vede agli ultimi posti delle classifiche mondiali e che nel caso dell’Expo pare essere stata elevata a modello di governance, è possibile soprattutto perché gli strumenti di controllo e di verifica funzionano male o non funzionano proprio. In tutto il mondo infatti esistono lobby e grandi gruppi economici che cercano di prevalere utilizzando mezzi più o meno leciti: solo da noi però trovano una burocrazia farraginosa e non trasparente, una giustizia civile la cui lentezza non tutela ormai più nessuno e un sistema legislativo bizantino che favorisce l’azione delle lobby e dei gruppi di interesse più disparati, con leggi che rimbalzando più volte fra i due rami del Parlamento e che si arricchiscono ad ogni passaggio di articoli e commi spuri.
In questo scenario Greganti, che da terminale operativo organico ad un partito politico diventa un libero professionista dell’intrallazzo che lavora a percentuale, sia pur mantenendo a quanto pare, se così si può dire, la medesima area di riferimento, costituisce l’emblema vivente che nulla da allora è cambiato nella sostanza. Se così non fosse infatti la sua rete di legami e conoscenze sarebbe oggi del tutto priva di valore ed altri avrebbero preso il suo posto. Spero poi nessuno voglia disquisire sulla presunta superiorità morale di chi ruba per un partito rispetto a chi lo fa per il proprio interesse personale: troppo spesso questa falsa contrapposizione è stata utilizzata per sminuire la gravità di determinati comportamenti e per coltivare illusori miti di diversità a priori. La vicenda di Primo Greganti, così come altre a noi più vicine, dimostra in realtà come fra i due ruoli non esista invece alcuna soluzione di continuità.
Essa dovrebbe inoltre togliere ogni dubbio residuo a chi ritiene che non esistano adesso le condizioni adatte per mettere finalmente mano a quelle riforme profonde che il Paese attende da 30 anni e di cui da 30 anni si discute, avendone ormai da tempo valutato e soppesato più volte tutte le opzioni e varianti possibili. Trasparenza amministrativa e giustizia efficiente, assieme ad un processo di produzione delle leggi più snello ed efficace, sembrano davvero le prime cose che occorre garantire al più presto. La seconda repubblica, che della prima dovrà ereditare valori e principi fondanti, sarà iniziata solo quando avremo ristrutturato le nostre istituzioni per renderle in grado di funzionare con efficienza, equità e trasparenza in un mondo che continua a cambiare ed in cui, per quello che ci riguarda più da vicino, emerge sempre più forte la necessità di rifondare il patto che sta alla base dell’esistenza stessa del Paese.
Il rinuncianesimo è neologismo coniato da una studentessa di Torino che intende abbandonare lo studio, lo racconta Andrea Bajani, autore dell’ultimo libro sulla scuola sfornato dall’editoria di casa nostra con il titolo provocatorio La scuola non serve a niente. Luogo comune abbastanza facile nella sua superficialità, che forse deve il suo rinverdimento a uno dei limiti più gravi della nostra classe docente, quello di non saper parlare di scuola, di istruzione, di formazione al Paese. Questi professionisti della cultura diffusa, non solo non hanno voce, ma non hanno neppure saputo prendersela, questo, al di là di tutto, credo sia il loro limite, la vera ragione della loro scarsa considerazione sociale.
Del rinuncianesimo, di nuovo conio, è inquietante soprattutto il suffisso esimo, usato negli ordinali, che immediatamente colloca questa ragazza all’ennesimo posto dei fallimenti della scuola, quantificato nel 17,6% di giovani che abbandona precocemente gli studi.
Ma il rinuncianesimo non è della studentessa di Torino che si assume la responsabilità di fare i conti con la propria vita, semmai è quello di un paese che non sa pensare alla sua scuola a partire da chi vi lavora dentro, che si riempie la bocca dei dati Ocse per continuare poi a balbettare, per finire con la politica che sull’istruzione insiste a poltrire e, quando si sveglia, non c’è di testa, non ha un sogno, ma solo incubi da scaricare sulla mal capitata scuola nazionale.
Di questo rinuncianesimo parlano i dati Ocse che sono la cattiva coscienza delle politiche per l’istruzione nel nostro paese. Ci dicono di un Paese che ancora non ha imparato a prendersi cura della sua scuola, di un Paese che non ha cura dei suoi figli, che considera le persone come sudditi anziché come risorse.
La storia nazionale della scuola non inizia certo dalla parte dei bambini e delle bambine e neppure dalla parte della massa dei diseredati dell’istruzione, ma al servizio delle esigenze politiche ed economiche dello Stato all’indomani dell’unificazione. E sono sempre queste esigenze che hanno continuato e continuano a prevalere su tutto.
La strada per costruire scuole di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi, anziché alunni, allievi, scolari è ancora lunga. Ancora lunga è la strada da percorre perché lo Stato riconosca nei suoi studenti le sue figlie e i suoi figli, le risorse da difendere, da tutelare, da far crescere, da non disperdere. Credo sia questo il vero significato della società della conoscenza, di conoscenza si vive, si respira, si cresce.
Così anche il sistema nazionale di valutazione, che dovrebbe misurare per consentirci di vedere e di capire, per aiutarci a cambiare, fino ad ora è parso più al servizio dell’Ocse che dei nostri ragazzi. Quello che ci serve non è valutare se il malato è stato bravo a guarire, ma se quell’ospedale l’ha saputo guarire, in quanto tempo e con quali cure e a quali costi.
La scuola è il luogo dove si lavora sui saperi, montandoli e smontandoli, è laboratorio continuo, laboratorio come atteggiamento mentale. Da tempo la didattica dell’insegnamento avrebbe dovuto cedere il posto alla didattica dell’apprendimento. Ma pare proprio che non sia ancora così. Se non cambia l’approccio, le stesse prove dell’Invalsi potrebbero rischiare di farci tornare indietro ad un insegnamento ripetitivo, di esercizio fine a se stesso, che rischia di perdere di vista il titolare dell’apprendimento che non è il docente, non è la scuola, ma ogni singola bambina e ogni singolo bambino, ciascun ragazzo e ciascuna ragazza.
D’altra parte i nostri curricoli scolastici non sono stati concepiti avendo di mira il diritto all’istruzione delle persone, tanto meno nel significato che oggi assume nella società della conoscenza, ma avendo come esclusivo fine l’integrazione degli individui nello Stato-nazione. Questo ha trasformato le nostre scuole in tanti depositi pubblici di giovani generazioni, a studiare tutti nelle stesse maniere a fare tutti ad ogni ora pressoché le identiche cose.
I nostri curricoli continuano a riflettere una concezione del sapere frantumata in discipline che, se si poteva pensare funzionale al capitale umano di una società fondata sulla divisione del lavoro, oggi appare ampiamente superata, soprattutto rispetto alla necessità di acquisire competenze utili ad essere cittadini attivi, consapevoli di sé e dell’ambiente, capaci di tutelare la propria vita e quella degli altri, di perseguire il progetto di una esistenza felice. Da questo punto di vista non è più accettabile lo scarso interesse per le scienze sociali, indispensabili a costruire una autentica società della conoscenza, cosi come la matematica e le scienze, altrettanto trascurate nelle nostre scuole, sempre più indispensabili per preparare generazioni di donne e di uomini in grado di partecipare attivamente a tracciare il loro futuro, a creare un mondo capace di promuovere consapevolmente il benessere dell’ambiente e degli individui.
Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato nei curricoli di matematica e di scienze delle nostre scuole, tranne la loro assoluta separatezza dalla vita pratica, dal tradursi in competenze per la propria esistenza, perché separati da qualsiasi studio di indagine sull’uso di queste materie per comprendere, conoscere, governare la vita umana. La suddivisione del curricolo in discipline separate limita la prospettiva intellettuale dei nostri studenti, come l’astrazione dal contesto reale dello studio delle scienze sociali, della matematica e delle scienze si traducono esclusivamente, anziché in competenze reali, in semplici ingredienti di una generica formazione da spendere su un altrettanto generico mercato del lavoro. Un mercato del lavoro che non c’è più e, se anche c’è, sulla base dei dati riportati dall’Ocse, per cui il 70% degli italiani tra i 18 e i 64 anni ritiene che la scuola non gli abbia fornito gli strumenti per accedere al lavoro, sembra non farsene nulla nello specifico.
Il rilievo inadeguato che nei nostri programmi scolastici hanno ancora le scienze sociali, l’insegnamento della matematica e delle scienze rappresenta una sottovalutazione irresponsabile dei problemi ambientali e sanitari di dimensione mondiale che i nostri giovani dovranno affrontare, rischiando di giungere a quell’appuntamento impreparati. È questo l’umanesimo vero di cui la nostra scuola ha urgente bisogno. Sono queste le conoscenze che oggi possono liberare l’uomo, aiutarlo ad agire per difendere la qualità della sua esistenza, contro il progressivo degrado del pianeta e della sua biosfera. Oggi dobbiamo attrezzare i nostri giovani non a integrarsi nello stato-nazione con il suo sistema di mercato, ma a vivere in un mondo pulito, respirabile, umanamente migliore, che non tradisca la millenaria aspirazione delle persone ad essere felici.
Alla luce dei nuovi naufragi del sistema politico e degli scandali che animano questo tramonto della democrazia ripasso mentalmente la tormentata vicenda di 154 anni di unità nazionale, tenendo fermo il 1860 come inizio del processo. E sfilano, lividi di scandalo e di perversa attitudine al male, i protagonisti, infimi moralmente, della nostra storia. I Savoia, Mussolini, qualche presidente della Repubblica, i responsabili di Tangentopoli, Berlusconi e Scajola e Greganti, poi la nuova trionfante stagione dei mestatori dello scandalo Expo che hanno nel nome il segno di un destino, i fratelli Magnoni (la nonna ci insultava quando mio fratello ed io saccheggiavamo la dispensa al grido di “Magnun”!) che incautamente hanno lasciato nel nome la loro specificità.
Bene fecero, ai tempi loro, i fratelli Falsetti che da umili corniciai pratesi hanno costruito una delle più potenti gallerie d’arte cambiandosi però il cognome in Farsetti! Accanto, il livore e la violenza di Genny ‘a carogna, di “Gastone” o del femminicida di Firenze. Ma sembra non bastare. Si chiede fiducia per le istituzioni, s’invocano “le magnifiche sorti e progressive” per ridare fiato alla politica con la frase non so se più incosciente o compiaciuta del Matteo nazionale che chiede alla politica di stare alla finestra in silenzio finché la magistratura abbia eseguito il suo compito.
Mi domando: quale Paese del cosiddetto Occidente ha sopportato e supportato e ha scelto, nella maggior parte dei casi, la deviazione dall’etica, la frode, la violenza come metodo di governo, come in Italia? Centocinquantaquattro anni di unità nazionale la maggior parte dei quali trascorsi a scegliere il peggio. E non mi pare di mancare di fiducia nell’ottimismo della ragione. Semmai lo sposterei su un carico di fiducia nel sentimento. E penso ai bambini. Studi seri hanno dimostrato che la fanciullezza con il suo carico di egoismo e autoreferenzialità, con la mancata conoscenza del limite è la meno adatta a sviluppare il concetto di giustizia e di democrazia se non fossero, quest’ultime, affidate all’educazione e alla famiglia. Dall’altra parte la fragilità dei cuccioli umani rende questi compiti il vertice della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Non sapremo se da quei visi, da quelle menti, da quelle persone sbocceranno Einstein, Marguerite Yourcenar, Picasso oppure il mostro di Firenze o Pol Pot o qualche dittatore. O più semplicemente persone “normali” Ecco il punto.
Qual è il senso e il significato di “normalità”. Cos’è per il comune sentire la “normalità”? Lavorare con impegno durante la settimana per poi esprimersi in curve sud della violenza? Rispettare le leggi e nello stesso tempo essere indifferente alle tragedie degli altri? Comportarsi come in una riunione di condominio che nella mia, per fortuna brevissima esperienza, è il luogo specifico della banalità dell’egoismo? Si risponde di solito a questi interrogativi contrapponendovi il concetto di “eroismo”. Ma l’eroismo è di sua natura eccezione e non normalità. A meno che non si dia finalmente credito all’eroismo della normalità linfa e nutrimento della crescita della civile convivenza e quindi della possibilità di attuare la democrazia. Ma finché si irride o si truffa questa esigenza non saremo mai nazione, Stato, popolo.
Nella mia lunga carriera di docente nulla ha potuto paragonarsi all’esperienza che ho avuto qualche giorno fa con bambini di terza e di quarta elementare. Mi era sfuggito di mente che in tempi lontanissimi mi ero diplomato maestro e che questa condizione si era rafforzata nell’attenzione alla “didattiha” secondo la gorgia fiorentina a cui m’incitavano i colleghi pedagogisti del Magistero fiorentino. Naturalmente, come si richiede a un critico à la page – come mi ritenevo a causa della mia malattia non curabile: la pavonite – la propensione alla didattica era lontanissima dal mio progetto d’insegnamento. Insegnare – e tenacemente ho perseguito questo che è stato per me il primo comandamento – significava e significa prendere coscienza e consapevolezza del metodo. Solo se ci si rende conto che il progetto e il metodo stanno alla base di qualsiasi curiosità o passione, questa sì era ed è la mia didattica. In questo modo la parola non può essere mistificata così come il pensiero. Sta dicendo Papa Francesco in questo esatto momento la scuola apre la mente alla realtà. Un pensiero che può essere accettato e fatto proprio dalla laicità perché la realtà non è questione di fede ma di conoscenza. Il massimo grado della realtà è quello che viene veicolato dalle forme d’arte e d’espressione del pensiero primo fra tutti la poesia E la realtà e verità e non menzogna come ci hanno contrabbandato coloro che così male hanno preso le redini di questo paese trasformandolo nelle montaliane Stalle d’Augia tra lo strame dell’inganno e del profitto illecito.
L’esperienza con i bambini mi ha profondamente non dico commosso ma rinforzato nell’idea che un’età preziosa come la fanciullezza va preservata instillando loro il senso della bellezza come realtà. Come disvelamento della verità a cui si devono inchinare le miserie umane comprese quelle politiche. E ricordando il bacio sulla mia pelata deposto dai piccoli ascoltatori chiudo infastidito la televisione dove un urlante Grillo istiga alla violenza verbale e al disconoscimento della realtà intesa come metodo ed etica del vivere quotidiano.
In vista delle prossime elezioni l’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio Luigi Negri ha rivolto ai «carissimi figli e figlie» della sua diocesi un messaggio. Monsignor Negri, in quanto vescovo, afferma che sua missione inderogabile è comunicare il Vangelo. Parte integrante di questo annuncio è trasmettere una precisa concezione dell’uomo espressa nei principi fondamentali dalla dottrina sociale della Chiesa, da essa sempre proclamati e testimoniati. Questa visione è contenuta in «principi non negoziabili» che sono «inscritti nella coscienza di ciascuno». Il primo da cui tutti gli altri discendono è «la dignità della persona umana, costituita a immagine e somiglianza di Dio». Segue il consueto elenco esteso dalla sacralità della vita umana dal concepimento alla morte naturale, alla famiglia naturale fondata sul matrimonio e ai diritti e alle libertà fondamentali della persona e così via.
Che la Chiesa abbia sempre proclamato e testimoniato i diritti e le libertà fondamentali della persona è un palese falso storico su cui non vale la pena soffermarsi. Più interessante è chiedersi chi sono coloro a cui Negri si rivolge con l’appellativo di «figli e figlie»: sono solo i credenti praticanti? Se fosse così sarebbe coerente richiamarsi ai diritti della persona creata a immagine e somiglianza di Dio; se invece quella qualifica si estende a ogni residente nella sua diocesi bisognerebbe far riferimento ai diritti umani che hanno un’altra base fondativa (qualunque essa sia) e non già a quelli della persona (per questa capitale differenza vedi D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012).
L’uso dell’ormai anacronistica espressione di «principio (o valori) non negoziabili» (da cui ha preso apertamente le distanze papa Francesco) lascia presupporre che monsignor Negri compia un’indebita sovrapposizione tra i diritti umani e quelli della persona. È evidente che anche il cattolico impegnato in politica crede che la persona umana sia stata creata a immagine e somiglianza di Dio; ma ciò non intacca il fatto che questo suo convincimento non vada direttamente assunto come un argomento a sostegno di decisioni pubbliche che riguardano pure individui o gruppi che non condividono la sua fede ma vivono, al pari di lui, in una società pluralista. In un contesto pubblico le argomentazioni devono essere di altra natura e vanno articolate, pur all’interno di una varietà di opzioni, facendo appello a un linguaggio condiviso (per esempio i principi della Costituzione italiana, testo che non nomina mai Dio).
Nessuno dei futuri candidati sindaco, a cominciare da Tagliani, interpellati dalla Nuova Ferrara a proposito del messaggio vescovile ha messo in rilievo questa capitale differenza. Per questo motivo ho ritenuto opportuno sottolineare la non sovrapponibilità pubblica tra diritti umani e quelli della persona.
Mentre adolescenti e adulti hanno ormai assunto i social network come uno dei luoghi della vita, si moltiplicano le domande sugli effetti dei cambiamenti nelle relazioni e nei modi di comunicare. Stiamo costruendo legami fragili, connotati da un tepore uniforme e diventiamo incapaci di cercare un rapporto profondo? Sta crescendo una generazione di giovani che non sanno fronteggiare le emozioni, né esprimerle e metterle alla prova nella realtà? Forse, ma per ragioni che è improprio ricondurre all’uso degli smartphone e dei social network.
Internet ha trasformato l’antropologia dell’amore? Nella rete, come nella vita, convivono diverse declinazioni dell’amore. Troviamo una larga varietà di siti dedicati ad incontri sentimentali: dai siti per la ricerca dell’anima gemella, a quelli finalizzati ad incontri sessuali nell’arco di poche ore, ai vari social network che consentono di allargare la cerchia di amici e, certo, anche di sperimentare nuovi contatti.
La grammatica dell’amore è profondamente influenzata dalla rete, ma la rete non è l’unico fattore del cambiamento. La vita sentimentale è sempre stata segnata da un insieme di valori, istituzioni e quadri culturali che va oltre le storie degli individui. Le traduzioni istituzionali dell’amore hanno conosciuto rilevanti differenze nella storia e nei diversi contesti culturali. Tutto contribuisce oggi a ridisegnare il linguaggio dell’amore: tecnologie, economia, valori, rapporto tra i generi e stili di vita.
In Facebook i rituali amorosi si svolgono sotto lo sguardo degli altri. Ma l’amore non è mai stato un fatto esclusivamente privato. Tantomeno lo era in passato, quando la famiglia e la comunità avevano il compito di legittimare la relazione. A questo sguardo si è sostituito oggi quello degli amici.
Le reti sociali influenzano le relazioni sentimentali. Hanno cambiato le modalità di corteggiamento e di incontro, la gestione della relazione, le cause di gelosia, i vissuti che accompagnano il gioco amoroso. E’ facile mettere l’accento sui rischi di delusioni, sul pericolo di fraintendimenti, sulla caduta di investimenti impegnativi. E’ possibile commentare il rischio di virtualità di contatti mediati da uno schermo. Certo, relazioni che restano solo sullo schermo sono espressione di serie difficoltà di relazione. Ma non è così che accade nella gran parte dei casi.
L’amore resta, anche nel tempo di Internet, la ricerca di un altro che ci consenta di riconoscerci e su cui proiettare il nostro bisogno di radicamento, la nostra ricerca esistenziale di casa e di sicurezza.
Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Marketing del prodotto tipico, Social Media Marketing e Web Storytelling. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.it
E’ stato un incontro vero tra due interlocutori che esprimevano valutazioni divergenti sulle politiche educative che hanno caratterizzato l’agire recente dell’amministrazione comunale. Su una sponda il sindaco Tiziano Tagliani sull’altra il professor Giovanni Fioravanti. L’incontro che si è tenuto venerdì alla sala dell’Arengo è stato interessante e utile per vari motivi. La premessa era un intervento di Fioravanti sulle pagine di Ferraraitalia che aveva segnalato l’inadeguatezza di quanto fatto: “La città di Ferrara da anni ha rinunciato ad avere un assessorato all’istruzione, quasi che su questo terreno non ci fossero più politiche da realizzare, ma solo servizi da fornire”, invitando a prendere esempio da altre città d’Europa che hanno messo l’idea della conoscenza diffusa al centro delle loro politiche per migliorare la qualità della vita di tutti.
Tagliani ha replicato con calore enunciando i presupposti (centralità dell’investimento educativo, raccordo fra mondo della scuola e mondo della cultura) ed elencando le numerose e diverse iniziative che il Comune ha realizzato (laboratori di educazione all’arte, urbanistica partecipata, educazione civica, sicurezza urbana, educazione ambientale, sperimentazione teatrale) sostenendo che non erano state certamente inferiori a quelle delle precedenti amministrazioni, pur essendo peggiorate le condizioni al contorno. Sembravano due posizioni abbastanza distanti, ma soprattutto sembravano scorrere su binari divergenti, l’uno a difendere la concretezza e la fatica della gestione del quotidiano, l’altro a lanciare lo sguardo oltre l’ambito territoriale, a guardare l’Europa e le nuove sfide educative che pone un mondo sempre più complesso.
Il pubblico, composto in gran parte da operatori scolastici, ha stemperato i toni e gli interventi hanno riconosciuto la ricchezza delle iniziative che sono state messe in campo, molte delle quali si apprendevano in quel momento. Si suggeriva quindi di farle venire alla luce, di ricollocarle in un quadro che esprimesse l’intenzionalitàformativa dell’Amministrazione, che insomma rendesse esplicito l’indirizzo culturale che stava alla base delle scelte e le orientava.
L’incontro si è rivelato interessante anche per l’approfondimento che ha favorito sui temi dell’istruzione e della conoscenza, nella prospettiva di una dimensione più ampia di fronte alla quale dobbiamo confrontarci: quella di una cittadinanza europea. E’ forse questa una chiave che potrebbe aiutarci a sviluppare le nuove politiche municipali nel campo della formazione. Tali politiche potrebbero avere due campi di riferimento: le scuole da un lato e la comunità dall’altro.
Le scuole si trovano in una condizione abbastanza difficile per realizzare gli obiettivi europei, causa politiche nazionali dissennate che hanno penalizzato i curricoli e moltiplicato gli inciampi, per cui il riferimento a una municipalità accogliente e interattiva potrebbe aiutare a far entrare i giovani nelle maglie complesse della società, per esercitare direttamente le proprie competenze di cittadinanza.
Fioravanti dice che la città deve far sentire l’amore per le proprie scuole e io penso che sarebbe una buona cosa, nello stesso tempo penso sia necessario costruire esperienze in cui i giovani siano messi in grado di ‘prendere in mano’ la città, assumerne la responsabilità. E’ questa la cittadinanza attiva, non può essere agita se si rimane legati ai banchi di scuola.
Il secondo campo di azione delle politiche municipali è la comunità cittadina. Anche qui gli interventi hanno sottolineato la necessità di operare connessioni e di far emergere quanto si fa per migliorare la conoscenza dei meccanismi di funzionamento della città, per diffondere l’informazione in modo più capillare, per creare forme di aggregazione, per dare più potere di scelta a ciascun cittadino. Diventa quindi sempre più importante la conoscenza diffusa per esercitare una cittadinanza autentica, per poter scegliere e in sintesi per poter agire in una prospettiva di libertà per tutti.
Ferrara, secondo Fioravanti potrebbe diventare un luogo di riflessione e di raccordo delle buone pratiche su questi temi, o con un festival del tipo di quelli che si fanno in diverse città d’Italia, o con incontri cittadini: insomma tutto da inventare.
Il sindaco ha accolto con favore tutti i suggerimenti e si è detto disponibile a progettare assieme a coloro che saranno disponibili.
In conclusione può essere utile riflettere sulle parole di Martha C. Nussbaum, che ci ricorda come la democrazia non sia una realtà compiuta ma un processo in continuo divenire che va curato e sostenuto: “Dove va oggi l’istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale… Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è un cavallo nobile ma indolente. Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l’autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento”.
“MUSICI” FERRARESI DEL PRIMO NOVECENTO
RICCARDO NIELSEN E ANGELO MERCURIALI
Riccardo Nielsen – Nato a Bologna ma ferrarese di adozione, Riccardo Nielsen (1908-1982) studiò pianoforte, violino e composizione al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna, dove si diplomò nel 1931. Inizialmente attratto dalla corrente neoclassica, si interessò in seguito al linguaggio dodecafonico, rielaborandone i canoni con originalissima vena creativa.
Attingendo alla propria smisurata conoscenza delle opere dei compositori italiani del XVI, XVII e XVIII secolo, ne trascrisse mirabilmente larga parte, revisionando in specie pagine notevoli del teatro musicale secentesco: Dafne di Marco da Gagliano, Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, La catena d’Adone di Domenico Mazzocchi, Didone ed Ercole amanti di Francesco Cavalli, Arianna di Benedetto Marcello, La conversione di San Guglielmo d’Aquitania di Giambattista Pergolesi e inoltre brani di Frescobaldi, Croce, Gabrieli, Scarlatti, ecc.
Durante la seconda metà degli anni Quaranta, Nielsen fu sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna e, dal 1952 in poi, assunse e tenne per oltre un ventennio la direzione dell’Istituto musicale “Frescobaldi” a Ferrara, che sotto la sua guida raggiunse il grado di Conservatorio Statale. Stimato compositore di portata europea, è collocabile a pieno diritto nell’ambito più significativo della musica italiana del secondo dopoguerra.
Angelo Mercuriali – Il cantante lirico ferrarese Angelo Mercuriali (1909-1999) è stato per trent’anni direttore del teatro La Scala di Milano, durante la sua carriera si è esibito in ben 197 opere, in 26 delle quali come primo tenore, interpretando complessivamente 228 ruoli. La sua straordinaria versatilità, la grande padronanza scenica e la facilità con cui apprendeva i copioni, gli hanno consentito di impersonare con disinvoltura, nella stessa opera (e talvolta nella stessa serata), i panni di innumerevoli personaggi.
Le sue performances non si contano: Rigoletto, Traviata, Macbeth, Falstaff, Turandot, Lucia di Lammermoor (con cui esordì, nel 1932, al teatro Verdi di Ferrara), I pagliacci, Madama Butterfly, Cyrano de Bergerac e altro ancora. Ha lavorato con artisti come Beniamino Gigli, Tito Schipa e Magda Olivero. Mercuriali è sepolto nella Certosa di Ferrara.
Dal greco meteoros (alto nell’aria) e pathos (malattia), la meteoropatia è una malattia che sta ad indicare qualsiasi condizione psicologica connessa in qualche modo con le condizioni meteorologiche che ci circondano. Considerata in passato una malattia immaginaria, la meteoropatia è oggigiorno riconosciuta dai medici come una vera e propria patologia. Stando alle statistiche più recenti, un italiano su tre è sensibile alle variazioni climatiche, tanto da riuscire a percepire un temporale in arrivo quando il cielo è ancora sereno e assolato.
Le stagioni Primaverile e autunnale sono caratterizzati da disturbi e instabilità climatiche che si riflettono sull’intero corpo provocando spesso una vera e propria sindrome che si traduce in effetti su tutta la colonna vertebrale e precisamente si potranno avere … dolori alle ossa.. stanchezza ..mal di testa, irritabilità, depressione, insonnia, disturbi influenzali, tachicardia. Quando cambia il tempo, in particolare quando piove, c’è vento o caldo gli effetti meteoropatici influenzano i muscoli e le articolazioni. Esistono molti studi in campo mondiale che dimostrano l’influenza del cambiamento di tempo (in particolare associato ad una perturbazione atmosferica in arrivo) proprio sulle ossa, le articolazioni, i muscoli, i nervi e i tendini. Le condizioni meteo, specie nei cambi di stagione, si ripercuotono sui dolori reumatici, di cui soffrono milioni di persone in tutto il mondo, viene da studiosi argentini che hanno seguito, per un anno, un centinaio di pazienti affetti da osteo-artrite, artrite reumatoide e fibromialgia, confrontando le loro reazioni alle variazioni di temperatura, umidità e pressione con quelle di persone sane. Il rapporto fra tempo e dolori reumatici è stato così confermato, pur avendo registrato che l’effetto meteo varia a seconda della patologia del paziente e della sensibilità individuale al clima, ad esempio:
– la fibromialgia è correlata con bassa temperatura e alta pressione atmosferica,
– l’artrite reumatoide con bassa temperatura, alta pressione ed elevata umidità,
– l’osteoartrite è influenzata da freddo e umidità. L’altalena climatica, invece, non ha influito sui soggetti sani. Sono proprio tendini, guaine e borse a soffrire maggiormente della variazione termica e climatica, provocando fastidio in particolare all’inizio del movimento “a freddo” e causando un rallentamento dell’attività motoria, che in alcuni casi può raggiungere livelli anche notevoli. Un fenomeno che aggrava, soprattutto nei più anziani, uno stato di salute articolare magari già compromesso dall’artrosi, favorendo una tendenza all’immobilità.
Anche la riduzione della pressione atmosferica può contribuire a far sentire maggiormente i dolori. Nelle giornate instabili, più fredde o umide, il risveglio può essere veramente “pesante”.Quindi ..Un clima malsano è una forza malsana che agisce sulla nostra forza vitale alterandola. La forza vitale così alterata è la causa dei sintomi della meteoropatia. E’ anche vero che un clima molto favorevole può essere curativo e questo è noto sin dall’antichità. Per la medicina convenzionale, solo di recente la meteoropatia è stata considerata un problema di salute. Attraverso la termoregolazione la pelle percepisce sensazioni di freddo intenso e di calore eccessivo o al contrario di dilatarsi con conseguenti brividi o un’eccessiva attivazione abnorme delle cellule sudoripare e perdita di liquidi, sali minerali e oligoelementi, ecco perché le persone che tendono a soffrire di più di metereopatia sono le persone anziane e quelle con delle malattie pregresse, come cardiopatici ed infermi che vedono spesso il peggioramento della propria malattia.
Come possiamo comportarci?
– Un rimedio semplice ed efficace è quello di fare un bagno o una doccia molto calda al mattino, per “sciogliere” i muscoli.
– Inoltre è consigliabile essere ben protetti con indumenti caldi, che evitino durante il giorno il raffreddamento degli arti, del collo e della zona lombare.
Alcuni consigli per contrastare i disturbi del “mal di tempo”:
– E’ importante contenere lo stress ed imparare a gestirlo con tecniche yoga, di meditazione e tecniche cranio-sacrali…
– Uno degli accorgimenti più importanti è quello di mantenersi in moto il più possibile. Non solo passeggiate prolungate nelle ore più calde, ma anche ginnastica leggera, consigliata soprattutto ai più anziani. Oggi sono disponibili molte medicine per combattere il dolore, ma è sempre preferibile mantenere un corretto stile di vita e praticare regolarmente attività sportiva, per consentire la massima efficacia di ogni azione terapeutica.
– Anche i rimedi naturali possono rappresentare un valido sostegno; l’idroterapia, per esempio, è in grado di stimolare i meccanismi di termoregolazione. Rimedi casalinghi come l’idromassaggio e l’alternanza di caldo e freddo sotto la doccia, le spugnature fredde sono di sicuro giovamento.
-Coloro che tendono a soffrire di meteoropatia possono compiere delle regolari passeggiate all’aria aperta per attivare la produzione di serotonina ed endorfine riabituando così l’organismo a vivere all’aria aperta per chi è troppo abituato agli ambienti climatizzati.
“Il 29 maggio avevo detto che avremmo regolarmente cominciato l’anno scolastico il 17 settembre, e quando l’ho detto stavo piangendo. A due anni di distanza, devo dire che è andata bene”. Patrizio Bianchi, ferrarese, assessore regionale a Scuola, formazione, università, non ha dubbi: la ricostruzione del tessuto scolastico, messo in ginocchio dalle scosse che il 20 e il 29 maggio 2012 hanno colpito la Bassa emiliana, merita una promozione a pieni voti. “Il nostro punto di forza è stato l’averlo fatto insieme. Il commissario non era inviato dall’esterno ma era un rappresentante della comunità (Errani, ndr), i sindaci sono stati fantastici e lo è stata la struttura tecnica inviata dalle altre Regioni. E anche le imprese ci hanno aiutati, sia materialmente sia mostrando di volere restare”. Dopo ventiquattro mesi e oltre quattrocento scuole rimesse in piedi, l’assessore regionale alla scuola è convinto che questo terremoto sia stato, per l’edilizia scolastica, una lezione da ricordare per il futuro: “Basta edifici storici, dobbiamo ripensare il nostro patrimonio scolastico. Il sisma ci ha insegnato come devono essere costruiti gli edifici: su un piano, con materiali leggeri e antisismici, predisposti al fotovoltaico e in grado di consumare meno energia di quella che producono”.
Assessore, due anni fa il terremoto danneggiava 450 edifici scolastici, colpendo 70 mila studenti. A due anni di distanza, qual è il bilancio?
Quando abbiamo fatto la prima verifica, il 28 maggio, gli edifici danneggiati erano 100. Il giorno dopo, con la seconda, siamo arrivati a 450. L’area coinvolgevacirca 70 mila studenti, e 18 mila avevano le scuole del tutto inagibili. Fin da subito abbiamo fatto una verifica in tutti gli edifici: entro luglio avevamo verificato gli oltre 600 nel cratere, entro settembre abbiamo controllato tutti quelli della Regione. I ragazzi hanno iniziato tutti la scuola il 17 settembre. A fine anno erano tutti al caldo, dentro edifici temporanei di lunga durata o dentro i moduli. Abbiamo deciso di fare una trentina di moduli temporanei dove le scuole erano state danneggiate ma potevano essere recuperate. Dove abbiamo fatto quelli di lunga durata, abbiamo quasi dappertutto ampliato le strutture con biblioteche, palestre, territori. Abbiamo tenuto i moduli temporanei del Calvi-Morandi di Finale e del Galilei di Mirandola, perché nel frattempo la Provincia stava ristrutturando le scuole originarie, che sono in cemento armato e richiedevano più tempo delle altre per essere messe a posto. In ogni caso, il ripristino dovrebbe avvenire entro il 30 settembre. A Finale abbiamo costruito anche dei laboratori, dove stiamo sviluppando dei progetti di creazione d’impresa. Tutte le scuole sono state cablate, quindi abbiamo messo lavagne multimediali in tutte le aule.
Quante scuole sono quelle in cui bisogna intervenire?
Tolti i casi di Finale e Mirandola, che sono di competenza della Provincia, noi abbiamo finito le scuole l’anno scorso. Nell’ultimo anno, abbiamo fatto solo lavori di ampliamento. Dato che all’inizio dell’anno scolastico avevamo fatto solo le aule, abbiamo aggiunto le biblioteche, le palestre, i laboratori e le mense. Avendo costruito le scuole per moduli, abbiamo solo dovuto aggiungere i “pezzi” di cui c’era bisogno.
Il 29 maggio alle due avrebbe mai detto che tre mesi e mezzo dopo sareste riusciti a far ripartire l’anno scolastico ovunque?
Io l’avevo già detto. Il 20 maggio avevamo detto che saremmo ripartiti il 17 settembre, e c’è voluta una bella incoscienza per fare una dichiarazione del genere. Il 29 maggio l’ho ripetuto, e stavolta piangevo. L’ho detto più per volontà che per altro. L’ho detto perché ci contavo. Devo dire che ci è andata bene. Sono stati fantastici i sindaci, è stata fantastica la struttura tecnica che le altre Regioni ci hanno dato. Perché sono stati in tanti ad aiutarci.
Qual è stato il vostro punto di forza?
L’averlo fatto insieme. Non c’era il commissario esterno. Io ho confrontato la nostra situazione con quella che c’era, purtroppo, in Abruzzo. Quando ci sono i terremoti, generalmente viene nominato un commissario esterno e viene sospesa la struttura di rappresentanza civile. Noi abbiamo fatto il contrario: pensavamo che il commissario dovesse essere il presidente della Regione e che il vice, in ogni territorio, dovesse essere il sindaco. Questo ha rafforzato ancor più la comunità. Quando viene un terremoto non si spaccano solo le pietre, si spacca soprattutto la comunità. Quando è venuto il terremoto all’Aquila hanno spostato la gente in posti anonimi, e dopo cinque anni le persone sono rimaste lì. Noi abbiamo deciso di tenere la gente nel suo territorio, in modo che ciascuno avesse come referente il suo sindaco piuttosto che il suo parroco. E poi siamo stati equi: per noi tutte le scuole erano uguali, le abbiamo trattate tutte allo stesso modo. A Mirabello c’erano una scuola parrocchiale e una statale, le abbiamo rifatte insieme e questo ha ricompattato la gente.
Qual è stata la scommessa più grossa che avete vinto?
La cosa più difficile è stata proprio questa, dare a tutte le persone l’idea che stavamo ricominciando, che eravamo sul pezzo, che avevamo appuntamenti fissi e che non potevamo mancarli. Non abbiamo detto “adesso l’emergenza e poi la ricostruzione”, abbiamo fatto vedere che partivamo subito con la ricostruzione.
Cosa non ha funzionato, invece?
Sulla struttura delle scuole, io credo il rapporto continuo con tutta la filiera, dalle autorità statali a quelle locali e alle imprese, abbia funzionato. Temevamo che ci potesse essere una forte pressione della malavita, ma lavorando sulla comunità siamo riusciti a tenerla fuori. Certo, so che ci sono ancora dei problemi con le case e con le imprese, ma noi ci siamo concentrati sulle scuole. Avendo avuto un mandato così preciso su qualcosa che tutti sentivano comune, ci siamo concentrati su quello. Forse l’unico neo è stato il falso allarme di inizio giugno, che però ci ha permesso di mettere in azione tutte le strutture di allarme e di tenere la macchina “in tiro”.
Ultimamente si è parlato molto di collaborazione fra sistema scolastico e impresa. Quanto vi hanno aiutato, se vi hanno aiutato, le imprese nella ricostruzione delle scuole?
Al di là dell’aiuto materiale che molte ci hanno dato donando denaro, strumenti e laboratori, le imprese ci hanno aiutato perché hanno rafforzato la comunità. Hanno fatto vedere che non se ne andavano via. Se dopo il terremoto le multinazionali di Mirandola fossero andate via, sarebbe stato preoccupante. Invece sono rimaste tutte e l’hanno fatto vedere. Tutte dicevano di ripartire dalla scuola, che era il riferimento. E così l’intera comunità ha sentito che nessuno scappava.
Cosa resta da fare?
Stiamo continuando nell’opera di rafforzamento e consolidamento di tutto il patrimonio scolastico della Regione. Stiamo inducendo Comuni e Province a ripensare il loro patrimonio scolastico sulla base di quello che abbiamo imparato in quei giorni. Stiamo trasferendo al governo nazionale tutto quello che abbiamo imparato su come ci si muove in questa fase, come si può costruire.
In pratica, questo terremoto vi è servito per capire come si devono costruire le scuole nuove?
Sì. Noi siamo arrivati con un patrimonio che spesso era fatto di edifici storici. Ora sappiamo che le scuole devono essere fatte con materiali leggeri, assorbenti del rumore, antisismici, in grado – spesso – di consumare meno energia di quella che producono. Sappiamo che gli edifici devono essere predisposti al fotovoltaico, che devono essere cablati, che devono essere su un unico piano con un’uscita sul corridoio e una esterna. Stiamo inducendo i Comuni a tenere gli edifici storici che erano usati come scuole per altri utilizzi, come biblioteche o sedi civiche, e ricostruire il polo scolastico con metodi nuovi. Stiamo aiutando i Comuni a costruire gli altri edifici pubblici danneggiati in quel modo, e stiamo inducendo tutta la Regione a ripensare il proprio patrimonio. Dato che ora c’è un fondo nazionale rivolto ai Comuni, stiamo parlando col sottosegretario Reggi e con le amministrazioni locali per dir loro di fare delle progettazioni tenendo conto di ciò che abbiamo imparato.
Perchè secondo me l’unico motivo per cui due si possono lasciare dopo un anno e otto mesi è che non si amano più”. Così gli risponde lei quando si sente dire “sto meglio senza di te”, pur amandoti, forse amandoti per sempre. Valeria Parrella compie un viaggio fino a Buenos Aires nei luoghi di Borges, deve stare con Michele, vuole stare con Michele prima che tutto finisca.
Ma quale amore (Einaudi, 2014) è un conto alla rovescia verso quel momento che era stato annunciato da mille avvisaglie, rimaste lì a ricordare che qualcosa non va, perché un amore non finisce mai per caso.
Lei lo sa che per due “malati di tossico indipendenza” come sono loro, la distanza può diventare un abisso. Michele vuole spazio, lontano, sempre di più, è lo spazio che, in una storia, confina l’altro altrove senza possibilità di accesso, se non a singhiozzo. Una libertà vigilata al contrario, un domani che diventa sempre più spesso dopodomani. Lei non la vuole questa libertà, vuole lui, che fugge verso il suo spazio in più. Chissà se Michele l’ha capito che condividere qualcosa, quando si sta insieme, non toglie nulla, ma aggiunge.
Si sente intrappolata nel suo non amore, nella propensione di lui a farne a meno, a volersi bene anche da lontano, come in un anno sabbatico, quando si sceglie di partire e provare, tanto prima o poi si tornerà.
È la sera giusta per andare da Michele e lasciarlo. Ma un sms la anticipa, anzi la liquida. Pochi caratteri, che altro serve per mettere fine a una storia, a un amore? Ma quale amore.
È chiaro che si va avanti, si cancella il numero, si mette da parte tutto ciò che lo può anche solo lontanamente ricordare, guai a nominarlo, si normalizza il più possibile ciò che prima era parso speciale, si smette di dare valore simbolico a quelle cose che avevano unito, che avevano fatto sentire una coppia. Che saranno mai un compleanno, un natale e un capodanno senza quell’amore, basta non pensarci, dimenticare un po’ e considerare il viaggio concluso.
Poi arriva il colpo di coda. Forse non è tutto finito. Michele che stava bene anche da solo, Michele del “magari ci serve stare separati”, si fa vivo, rivediamoci. Ma allora non era il capolinea quello, c’è dell’altro. C’è tutto quello che da sepolto e rintuzzato che era, torna a galla in un attimo, prepotente: il viaggio a Buenos Aires, le sue vie monumentali, le madres di Plaza de Mayo,loro due che hanno saputo sentirsi vicini e sono stati capaci di amarsi.
Non è solo il ricordo di quell’uomo e di quell’amore a essere smosso, è un nuovo desiderio di bellezza, almeno un po’: “lucidare le ossa per riporle in una teca, oppure lasciarsi sorprendere da una fenice araba”.
Michele chiede scusa, ma non serve, si chiede scusa se si pesta un piede, non se si è tranciato un rapporto. Scusa fa fare pace a chi lo dice, è come mettere l’errore da parte, passarci sopra.
E dopo trecento notti, Michele non le fa più lo stesso effetto, Michele non fa più nulla, quella distanza è finalmente servita.
Ormai lo scenario dei nuovi assetti istituzionali, dalla nuova legge elettorale ad un probabile diverso ruolo del Senato con le autonomie, dalla modifica del titolo V del dettato costituzionale all’Anci che chiede meno Comuni ma più corposi, anche nelle funzioni, non può che coinvolgere il sistema delle aziende municipalizzate, da quelle quotate in borsa a quelle piccolissime, favorendo, così, oltre ad una pubblica amministrazione più leggera e snella, servizi di utilità compresi, il percorso della “spending review”.
Perché il nuovo scenario diventi concretezza, accompagnato da altre novità del nuovo governo Renzi, anche le realtà dei territori debbono fare la loro parte, affatto irrilevante nel disegno innovatore appena tratteggiato.
A tale proposito, vale la pena di soffermarci a parlare dei servizi di pubblica utilità del ferrarese, fuori dalle mura cittadine, per fare il focus su tutta una serie di argomenti di grande importanza: catena di controllo con le governance, management e presidenze, piani industriali incrociati, grandezze disaggregate, poste articolate e indici dei bilanci, struttura dei costi, tariffe e tutti quegli elementi e fattori che sono in grado di dare risposte aziendali e di pubblica utilità ai clienti-cittadini.
Se poi ci impegniamo, coinvolgendo esperti indipendenti, a comparare (anche se le aziende operano in monopoli) i servizi e le cifre delle bollette, anche semplificandole, non solo in nome della trasparenza ma anche per capirle (gas, energia, ciclo delle acque e depurazioni, nettezza urbana e sistema della raccolta, reti di telecomunicazioni e banda larga, inceneritori e discariche, farmacie e piccole aziende per le infrastrutture e altro), le sorprese non saranno poche, anzi ci diranno che così non è più possibile procedere con queste gestioni amministrative locali.
Il dato sul quale dobbiamo riflettere è che in molte regioni del nord e parte del centro del nostro Paese, le cosiddette municipalizzate hanno fatto, da tempo, un salto di qualità non indifferente, anche per competere con una concorrenza europea agguerrita e rivolta ad una sana politica aziendale che punta sui servizi, i costi e i prezzi delle tariffe, andando oltre la logica dei monopoli. Nel ferrarese le moltiplicazioni delle aziende pubbliche locali (e non solo), a volte anche nel nanismo d’impresa e con fatturati da bar-pasticceria-tavola calda, manifestano vecchie logiche di un tempo ormai superato, a volte spannometriche, più per continuare a soddisfare gli ultimi giapponesi degli apicali, lasciando però frequentemente la struttura e l’organizzazione dei servizi nel marasma dell’inefficienza, abbandonando i necessari caratteri dell’economicità e dell’efficacia e, spesso, nel caos, la formazione dei prezzi, delle tariffe e delle bollette.
Ora diventa necessario quindi rafforzare il sistema delle utilities modificandolo, perché a Bondeno, ad Argenta, a Pontelagoscuro, a Codigoro, a Copparo, le differenze non siano troppo evidenti (ad oggi anche con scarti oltre il 20%) sulle tariffe per le bollette da pagare.
Si chiede, non solo un approccio metodologico di revisione della spesa, di riordino della stessa e del suo necessario riposizionamento, ma, soprattutto, un recupero corposo di risorse finanziarie (oltre a risparmi per i cittadini) che potremo riorientare e utilizzare, insieme ad altre, alle imprese, al lavoro, all’occupazione, ai giovani e fare crescita dei nostri territori.
Noi da soli, però, non possiamo farcela, anche producendo il dovuto sforzo aziendale, ed allora proviamo a guardare se oltre il nostro perimetro troviamo disponibilità ed attenzioni.
Sappiamo, infine, che i soci delle municipalizzate sono i Comuni, che i sindaci sono chiamati a rispondere, che a breve ci saranno in molti Comuni le elezioni amministrative e che qualche candidato non potrà sottrarsi a dire come la pensa al riguardo.
Non possiamo chiedere ad altri di “cambiare verso” se non cominciamo da noi, dai territori, dai cittadini e dagli amministratori locali tutti.
Una delle domande più frequenti che mi rivolgono riguardo al mio giardino è questa: “Come fai ad avere tante rose e così pochi pidocchi?” La domanda contiene la risposta: “Ho tante rose”. Se avessi un’invasione di afidi proporzionata al numero di fiori che a maggio riempiono il mio giardino, non avrei altra scelta che il lanciafiamme. Quasi tutte le mie rose sono grandi arbusti maritati ad alberi, siepi e altre piante, quindi gli afidi, di fronte a tanta scelta, si distribuiscono o si attaccano a qualche ramo, quasi sempre dei succhioni, così mi basta eliminare i rami più infestati per contenere questi ospiti. Gli altri insetti fanno il resto. A questa domanda segue quasi sempre l’osservazione: “… per te è facile, hai un giardino grande!”. Queste parole mi irritano tantissimo perché le dimensioni di un giardino o di un balcone, non sono assolutamente un ostacolo per creare un insieme ricco di forme e di biodiversità. Nella prima casa in cui ho abitato da sposata, avevo un balcone di 1 metro per 5, coperto ed esposto a nord-est; in pochi anni sono riuscita ad accumulare una settantina di vasi in cui coltivavo di tutto, non avevo criterio e sono riuscita ad allevare anche un fico, un paio di rosai e altre varietà che si erano adattate ad una vita-bonsai, con poca luce e niente pioggia. Nonostante le dimensioni e la pessima esposizione, quel balcone era un microcosmo in salute, frequentato da insetti e farfalle e, nel suo piccolo, era un vero intruso nel prospetto uniforme del condominio, le cui uniche presenze vegetali erano le batterie di gerani e/o petunie nei mesi estivi. Quelle piante, castigate in gioventù, sono state premiate e adesso vivono in tutto il loro splendore nella terra del mio giardino. Potrei citare tantissimi esempi in cui piccolo è diventato sinonimo di vario, esagerato, bio-diverso, grazie alla volontà e al desiderio dei giardinieri che lo hanno coltivato, scegliendo l’ordine o il disordine, lo stile e le piante. Chi preferisce averne poche o di un solo tipo, deve averne molta cura, trattarle con attenzione, difenderle, non può mai distrarsi. Le rose sono piante molto robuste, ma hanno bisogno di terra grassa, sole, aria, compagnia e libertà di movimento. Se vogliamo coltivarle in vaso, dobbiamo cercare di rendergli la vita accettabile, altrimenti si indeboliscono, si stressano e di conseguenza si ammalano e subiscono più facilmente gli attacchi dei parassiti. Se proprio non si resiste all’acquisto di un ammiccante rosaio mignon, tra uno yogurt e un pacchetto di biscotti sui bancali della coop, è bene trattarlo come un onesto centro tavola da cucina e, quando si affloscia, lo si getta nel bidone. Non è cinismo, ma un’onesta valutazione dello scopo per cui sono stati creati e selezionati questi vegetali. Un buon rimedio naturale contro gli attacchi dei pidocchi delle rose, è il macerato d’ortica (costa meno di quello fatto con gli scarti delle sigarette). Si prepara con le foglie dell’ortica comune, raccolta in qualsiasi momento, tranne quando la pianta va a seme. Il macerato elimina gli afidi e nutre le piante con calcio, potassio e azoto, immediatamente assimilabili dalle foglie.
Ricetta: un chilogrammo di pianta fresca (oppure 200 grammi di pianta essiccata) per ogni litro di acqua, fredda e possibilmente piovana, piogge acide permettendo. Sarebbe preferibile un contenitore di coccio o di legno, altrimenti si usa una pentola smaltata o una catinella di plastica, ma non di metallo. Il macerato va mescolato una volta al giorno e quando si mescola puzza. Per facilitare l’operazione di filtraggio, si può immergere della tela di iuta nella catinella. Il macerato prima di essere usato e distribuito con un erogatore a pompa o con uno spruzzino, deve essere filtrato per bene. L’efficacia del macerato dipende dalla concentrazione e dal tempo di macerazione. Il macerato di 12 ore, si usa concentrato e si spruzza direttamente sulle piante infestate dagli afidi. Il macerato di 4 giorni, si usa diluito in acqua: una parte di acqua, mezza di macerato, per concimare e combattere gli afidi; con l’aggiunta di un decotto di equiseto è ottimo anche per combattere in modo naturale gli attacchi di ragnetto rosso. Si può fare anche il macerato maturo di 15 giorni, ma diventa piuttosto impegnativo da gestire per chi ha un terrazzo o un piccolo giardino da trattare.
Poesia, musica araba amorosamente nostalgica, dolcezza e buoni sentimenti, sguardi teneri, persi e complici, sono gli ingredienti ben amalgamati di questa pellicola, di qualche anno fa, del giovane regista israeliano Eran Kolirin.
Accompagniamo, allora, silenziosamente, la simpatica banda musicale, impeccabilmente vestita di azzurro, della polizia di Alessandria d’Egitto che, invitata ufficialmente all’inaugurazione del centro culturale arabo della città israeliana di Petah Tikva, si ritrova, per un malinteso, nel villaggio sperduto desertico di Bet Hatikva. Il giovane Khaled, distratto dalle belle donne, dunque un po’ dongiovanni, mal comprende le indicazioni per arrivare a destinazione e la banda arriva nel posto sbagliato. O meglio, in quello sbagliato che poi, per altri versi, si rivelerà davvero quello giusto. Qui, dove sia gli uomini che Dio paiono essersi dimenticati di tutto, di luoghi e abitanti, i componenti della banda verranno ospitati nelle case di vari israeliani amici della padrona del bar dove sono stati generosamente accolti, ossia dalla bella e sensuale Dina, dai lunghi capelli neri.
Senza mezzi di trasporto fino al mattino successivo, giorno del fatidico concerto, l’incomunicabilità iniziale verrà presto trasformata in tenerezza e condivisione di vite, passati, confidenze e sentimenti. Il colonnello-direttore della banda, l’arabo Tewfik, segue amorosamente, ma con forza, i suoi ragazzi, li dirige, amando profondamente la musica e l’energia che essa emana e diffonde, quasi miracolosamente. Personaggio curioso e particolare, lui.
Il film è carico di poesia, lo è particolarmente quando le vite dei vari personaggi si mescolano, quando si comprende che non importa essere arabi o israeliani, per essere uguali, per provare gli stessi sentimenti, le stesse paure. Non contano luoghi, lingue, razze, etnie, culture, origini e religioni per attendere ogni notte, di fronte alla cabina telefonica, la chiamata del proprio amore, per essere seduttori che amano Chet Baker, per essere un ragazzo imbranato, timoroso e impacciato con le donne, per vedere, come Dina, nel direttore-colonnello, l’Omar Sharif che ha dolcemente sedotto i propri pomeriggi di giovane ragazza, per essere come il vice direttore, eterno secondo, che non riesce a terminare la sua opera prima composta per il suo fedele clarinetto.
Tutti abbiamo le stesse capacità di sognare, di piangere e di ridere, indipendentemente da chi siamo e da dove veniamo, di vedere un grande parco alberato in uno squallido e grigio parcheggio di cemento, di respirarne aria pura solo immaginando.
I bagliori di speranza ci sono sempre, anche sul ciglio polveroso della strada che tutti percorriamo, a volte con fatica e disperazione, a volte, invece, con immensa gioia, spensieratezza e gratitudine.
Tutti possiamo sentire, in ugual misura, la musica e, quando Dina chiede a Tewfik: “Che bisogno ha, la polizia, di Oum Kalthoum?” (famosa cantante e musicista egiziana di inizio secolo) e lui risponde: “È come chiedere ad un uomo perché ha bisogno dell’anima”, capiamo che la nostra anima è qui con noi, che c’è amore, indipendentemente da chi siamo e da come siamo stati cresciuti. Il film è una vera e propria fiaba dello straordinario nell’ordinario. L’idioma utilizzato è quello dell’amore, che va oltre le barriere, ed ecco allora che, improvvisamente, si comunica. Tutti.
Di Eran Kolirin, con Sasson Gabai, Ronit Elkabetz, Saleh Bakri, Khalifa Natour, Shlomi Avraham, Israele, Francia 2007, 90 mn.
La improvvisa proliferazione dei bulbi piliferi nelle gote e nelle teste degli italiani non è probabilmente solo dovuta alla moda ma diventa un segno di riconoscimento che la politica ha entusiasticamente adottato. Aver barba possibilmente incolta è segno di auctoritas e distinzione così come, almeno fino all’anno scorso, l’uso smodato degli sciarponi al collo a cui è rimasto fedele unicamente Brunetta. Più complessa la postazione della cresta in testa a cui si abbandonano con ebbrezza straordinaria i calciatori e i divi di mezza tacca e a cui s’ispirano, tra gli altri, portantini e infermieri. Il vento della libertà vestiaria scuote dunque le severe stanze del Castello ovvero dell’ospedale Sant’Anna di Cona che sembra riservarmi sempre più sorprese che mi spiazzano ma che ancora una volta rendono sopportabile il luogo destinato ad alleviare il dolore. E’ stata l’urgenza a portarmi al Pronto soccorso a causa di un male davvero atroce che mi lancinava il palato dove stava crescendo una bolla enorme. Approdato al Triage – nome assai suggestivo che ti assegna un codice attraverso il quale sarai chiamato e non con il tuo cognome per rispettare la “praivasy” – vedo scritto con pennarello e a caratteri enormi una freccia e un’ indicazione: “adulti” . Penso dunque che i bambini abbiano libero accesso. Ma dove?
Vengo accolto dall’addetto provvisto da rigorosa barba incolta che mi chiede tesserino sanitario e sintomi del male. Un po’ balbetto. Ancora risento della mia immedesimazione con l’agrimensore K.[vedi puntata precedente] e infine mi vien consegnato il verdetto: codice verde! Dal male che provavo mi sarei aspettato più generosità nel definire l’urgenza ma la barbetta con un sorriso paterno (avrebbe potuto essere mio pronipote) commenta: “ poi perché sono stato buono!”. Il che significa che generosamente mi aveva evitato di essere cacciato nel codice bianco, praticamente l’infima postazione dove sono catalogati mali, sembra, inventati dal paziente. Così entro nelle sale d’attesa. Tutta una cromìa di verde il colore che domina e che fa grazioso contrasto con le divise gialle degli addetti e col rosso fuoco delle t-shirt degli infermieri.
Un lamento diffuso e contenuto quasi un sospiro proviene dagli occupanti le barelle e le sedie del luogo. L’antica consuetudine con Lui, Dante, sommo poeta, mi riporta alla mente questi versi: “Ora incomincian le dolenti note/a farmisi sentire¸ or son venuto/ là dove molto pianto mi percuote”. Non era un lamento reale ma un’atmosfera impregnata di una sofferenza nascosta, un dolore contenuto e paziente. Infine un’allegra ragazza con la maglietta rosso acceso chiama il mio numero e m’introduce dal medico, una deliziosa giovane che mi affascina ulteriormente perché ha le unghie laccate in giallo limone. Improvvisamente mi ritorna la contentezza che questa maledetta bolla m’aveva bloccato.
Nel pomeriggio, invitato dall’amico Mauro Presini collaboratore di questo giornale, ero andato a chiacchierare con due classi di bimbi: una di terza e una di quarta elementare. A parlare di segreti che mi aveva confidato la mia cagnetta Lilla e che parlavano di maghi che avevano una bacchetta magica chiamata arte e che rendevano eterno ciò che toccavano: questi maghi potenti si chiamano Omero, Dante Michelangelo e per non farci mancare niente per dessert abbiamo commentato anche le figure fatte di frutta fiori e verdure di Arcimboldo. Quando ripenso all’innocenza di quei visi, all’entusiasmo che mettevano nel porre le domande, un che di dolce rende meno amara la costatazione dello stato presente funestato da mostri come Genny ‘a carogna o “Gastone”, il romanista chiuso nel suo covo nazista fino agli intoccabili raggiunti da condanne si chiamino Scajola o Greganti. Questi bambinetti meravigliosi che sgranano gli occhi a sentire le imprese di Achille o a vedere il David di Michelangelo e che per ringraziarmi vogliono posare un bacio sulla pelata del Gianni, narratore di magie.
Una contentezza che fa brillare di luce nuova lo splendido giallo limone delle unghie della dottoressa. E nemmeno l’invito a tornare il giorno dopo per una visita più completa mi fa diminuire la fiducia nel suo potere taumaturgico. I miei occhi assumono l’espressione tipica della mia Lilla quando vuole il cibo e commuovono l’infermiera fasciata di maglietta rossa. Così mi si fissa un appuntamento con lo specialista e trionfalmente il mio cognome viene declamato ad alta voce invece del numero. Altro che “praivasy”! Così si agisce: non sono più un nome ma un cognome: V. Il resto è solo dolore acutissimo. La bolla viene strizzata, sondata, svuotata senza anestesia. Capisco cosa possano essere le pene narrate nell’Inferno dantesco. Eppure davanti a me ho la pazienza e l’incoraggiamento fatti persona. Dolcissima la dottoressa capisce, incoraggia, partecipa e, alla fine, il dolore lentamente svanisce e esco dal verde Pronto soccorso grato di un aiuto che rende il Castello finalmente una Casa. Dove si può soffrire ma dove trovi aiuto e umana comprensione.
L’esecuzione di Clayton Lockett, avvenuta nello stato americano dell’Oklahoma il 29 aprile scorso, ha riportato ancora una volta le nostre coscienze a fare i conti la violenza di una pena contraria a qualsiasi idea di umanità, che lede uno dei principi fondamentali su cui si basa la nostra società, il rispetto della vita umana.
Clayton Lockett, un trentottenne afroamericano condannato alla pena capitale nel 1999 per aver sparato a una ragazza di 19 anni e averla poi seppellita viva, è morto dopo un’agonia durata 43 minuti. Il cocktail di farmaci che avrebbe dovuto condurlo alla morte in modo veloce e indolore non ha funzionato, probabilmente a causa della rottura di una vena, e l’uomo è deceduto per arresto cardiaco tra atroci dolori.
Questo evento ha suscitato polemiche nell’opinione pubblica americana e ha riacceso un dibattito che dura da anni, ma che non ha ancora portato a una revisione dei metodi brutali della pena di morte, né della pena di morte stessa.
Nonostante lo stesso presidente Obama abbia definito “disumano” il modo in cui è morto Lockett, e la Casa Bianca abbia sentenziato che l’esecuzione non è stata “all’altezza degli standard del rispetto dei diritti umani”, la pena di morte negli Stati Uniti è sostenuta dalla maggioranza della popolazione e dai leader politici, che si appellano alla volontà popolare. Tuttavia questa maggioranza si sta restringendo, ed è passata dall’80% del 1994 al 60% del 2013. I giovani americani sono meno favorevoli degli anziani alla pena capitale, e i non-bianchi (ispanici, afroamericani e asiatici), che un giorno costituiranno la maggioranza della popolazione, sono solidi oppositori. Sei Stati hanno abolito la pena di morte dal 2007, portando il totale degli abolizionisti a 18 su 50. Il numero delle esecuzioni è comunque in calo: dal 1999, anno in cui sono state effettuate 98 esecuzioni, si è arrivati a 39 nel 2013.
Gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali – considerate tali non solo per il sistema politico del Paese, ma anche per l’attenzione ai diritti umani, e per il rispetto dei diritti civili e politici e delle libertà economiche – che continuano ad applicare la pena di morte, insieme a Giappone, Botswana, Taiwan, India, Mongolia e Indonesia.
In tutti il mondo, i Paesi mantenitori della pena capitale sono 40. Di questi, 33 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. Secondo gli ultimi dati disponibili, forniti dal rapporto del 2013 sulla pena di morte di Nessuno tocchi Caino, organizzazione non governativa italiana che ha come obiettivo l’attuazione della moratoria universale della pena di morte, e, più in generale, la lotta contro la tortura, nel 2012, in 17 di questi paesi sono state compiute almeno 3.909 esecuzioni, il 98,5% del totale mondiale. L’Asia si conferma il continente dove si pratica la quasi totalità delle esecuzioni nel mondo. Cina, Iran e Iraq mantengono il triste primato di “paesi boia” del 2012, rispettivamente con 3.000 (76% del totale mondiale), 580 e 129 esecuzioni.
L’Europa è un continente libero dalla pena di morte. Solo la Bielorussia continua ad applicarla: nel 2012 tre uomini sono stati giustiziati con l’accusa di omicidio. In questo Paese, che si presenta nominalmente come una repubblica, ma che di fatto è una dittatura, le informazioni sulla pena di morte sono considerate segreto di Stato. I prigionieri sono informati della loro esecuzione solo un momento prima che venga effettuata, e i condannati sono giustiziati con un colpo alla nuca. I corpi sono sepolti in tombe senza nome, in luoghi tenuti segreti alla famiglia e agli amici.
Nel 2013, l’organizzazione non governativa Penal Reform International ha realizzato un sondaggio sulla pena di morte in Bielorussia, dal quale è emerso che l’opinione pubblica è per la maggior parte favorevole alla pena capitale (64%), e che la preoccupazione circa la sicurezza personale sembra essere uno dei motivi principali a sostegno di questa pena; tuttavia, tre quarti degli intervistati ritengono che la condanna di un innocente sia più grave dell’impunità di un colpevole.
Le autorità bielorusse, nonostante abbiano in passato dichiarato che la questione dell’abolizione della pena di morte “rimane aperta”, e che si tratta di una misura “temporanea ed eccezionale”, non hanno intrapreso nessuna azione decisiva volta ad abolire la pena di morte o a stabilire una moratoria legale. Il dibattito, all’interno del governo, ruota esclusivamente intorno alle prospettive di adesione della Bielorussia al Consiglio d’Europa, che pone come condizione l’abolizione della pena capitale.
Di fatto, secondo stime non ufficiali, a partire dal 1991 circa 400 persone sono state giustiziate nello stato ex sovietico.
La strada verso la democrazia, in un Paese chiuso nei confronti dell’Occidente, caratterizzato da una totale subordinazione di tutta la società e dalla mancanza di libertà di parola, appare impervia.
E’ del dicembre 2013 l’approvazione delle “Linee guida sugli interventi assistiti con gli animali”. Anche l’Emilia Romagna si allinea alle Regioni più avanzate in materia, come Veneto e Toscana, dotandosi di una legge che intende promuovere la conoscenza, lo studio e l’utilizzo di nuovi trattamenti di supporto e integrazione alle terapie mediche tradizionali nella cura delle disabilità.
L’ippoterapia è nata in Italia più di trent’anni fa e ha avuto un enorme sviluppo nel tempo, pur sempre rimanendo un’attività non riconosciuta dal Servizio sanitario nazionale come terapia riabilitativa. Ad oggi infatti manca ancora una legge nazionale di riferimento. La sua diffusione e il riconoscimento come co-terapia hanno avuto quindi uno sviluppo locale, a livello di singole Regioni e di enti istituzionali. Oggi finalmente si sta parlando di proposte di legge-quadro (vedi proposta di legge dell’onorevole Maria Vittoria Brambilla del marzo 2013) che vanno verso il riconoscimento della pet therapy come co-terapia, ossia come cura che va intrapresa assieme a quelle mediche, e che definiscono chiaramente gli ambiti di intervento riprendendo le definizioni proposte da Delta Society, ad oggi la principale organizzazione mondiale che si occupa di pet therapy: gli interventi assistiti con gli animali si suddividono in Terapia assistita con gli animali (TAA), Educazione assistita con gli animali (EAA) e Attività assistita dagli animali (AAA).
Ne parliamo con le responsabili di due centri di ippoterapia di Bologna e Argenta. Abbiamo già scritto in un nostro recente articolo dell’Associazione Il Paddock di Bologna [leggi] che grazie ad un lavoro trentennale è diventata un punto di riferimento insostituibile per l’ippoterapia a Bologna e provincia. Nel ferrarese, ad Argenta, è attivo dal 2004 il Circolo ippico argentano, condotto da Monica Poluzzi e Paolo Donigaglia.
In assenza di una normativa ad hoc, entrambe le realtà si sono dovute finora sempre organizzare autonomamente e ricercare faticosamente le collaborazioni con i privati, con le residenze, le cliniche o altro. Questo ha avuto di positivo che sono riusciti negli anni a costruirsi una buona rete di relazioni basate tutte sul passaparola: molti dei bambini disabili ai quali fanno terapia vengono mandati dai loro insegnanti di scuola, da psicologi che portano i figli al maneggio, da neuropsichiatri che vengono a sapere di quel singolo caso. Lavorano moltissimo e con enormi risultati, ma l’entrata in vigore della legge regionale potrebbe essere un passo importante nella direzione di sgravare le famiglie dai costi delle prestazioni, valorizzare il lavoro degli operatori e puntare sulla formazione di équipe specializzate.
Abbiamo chiesto ad Angela Ravaioli del Paddock (psicopedagogista specializzata, istruttore Fise) di raccontarci come vanno le cose da loro e di spiegarci cosa si aspetta da questa legge: “Nonostante l’efficacia comprovata, ad oggi l’ippoterapia non è ancora inserita nel Servizio sanitario nazionale che quindi non ne rimborsa i costi, spesso molto elevati. Siamo però molto contenti perché da circa un anno le neuropsichiatrie ci inviano loro pazienti. Inoltre, molti bimbi arrivano privatamente ma dietro consiglio delle Asl, delle scuole e delle neuropsichiatrie che ora si stanno aprendo a queste “nuove” co-terapie. Cosa ci aspettiamo dalla nuova legge? Sappiamo che in attuazione delle linee guida si avvierà un iter formativo e, data la nostra esperienza, ci piacerebbe contribuire alla realizzazione di eventuali percorsi formativi di specializzazione, dei quali siamo tutti in grande attesa. In questi anni abbiamo lavorato per creare il nostro gruppo di lavoro con l’idea di formare una buona équipe multifunzionale. Abbiamo tirocinanti bravissimi e appassionati, operatori qualificati che si sono formati qui con noi, ma troppo spesso capita che non riusciamo a tenerceli a Bologna, si vanno a specializzare a Milano o a Firenze, gli unici due enti riconosciuti.”
Abbiamo contattato il Servizio veterinario della Regione per capirne di più e ci hanno spiegato che grazie alla nuova legge vorrebbero avviare una formazione di base specifica riconosciuta, che abbia valenza come ente Regione Emilia-Romagna. L’intento è di formare gruppi omogenei di specialisti medici, veterinari, istruttori, perché per fare pet-therapy occorre lavorare in équipe. Alla domanda se cambierà qualcosa anche a livello di assistenza, ci hanno risposto che purtroppo in quel senso non cambierà nulla finché una legge nazionale non riconoscerà la pet therapy come co-terapia, includendola nei Lea (livelli essenziali di assistenza gratuiti eroga a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket).
Il Centro ippico argentano si trova in un luogo strategico, crocevia tra Ferrara, Bologna, Romagna e Veneto, interessante punto di osservazione, quindi, per capire quanto l’ippoterapia sia diffusa e utilizzata in queste aree. Abbiamo intervistato Monica Poluzzi (istruttore Fise e Cip) del Centro ippico argentano, chiedendole qual è il loro bacino d’utenza, se hanno ragazzi disabili provenienti da Ferrara, e cosa ne pensano della nuova normativa: “Noi lavoriamo molto con il Veneto, con Ravenna, Lugo e Bologna. Per quanto riguarda il ferrarese, abbiamo persone che vengono da Portomaggiore. Noi collaboriamo per esempio con lo Smria (Salute mentale Riabilitazione infanzia adolescenza) di Portomaggiore, e abbiamo avviato da un anno una bellissima collaborazione con il Centro iperbarico di Ravenna. Purtroppo con Ferrara città non siamo mai riusciti ad avviare collaborazioni, ma sappiamo che in questo campo tutto funziona ancora molto con il passaparola. Speriamo che con la nuova legge si creino maggiori opportunità anche in questo senso.”
Ci piace concludere questo approfondimento sull’ippoterapia, chiedendo a Mary Ann Rust di raccontarci di questo interessantissimo progetto avviato con l’Iperbarica di Ravenna. Mary Ann è ippoterapista da vent’anni e collabora con il Centro ippico argentano dal 2004: “Il Centro iperbarico di Ravenna è una struttura sanitaria all’avanguardia, specializzata nella cura con la somministrazione di ossigeno in camera iperbarica. Da alcuni anni, sta portando avanti un progetto che si occupa di associare la terapia in camera iperbarica ad altre co-terapie riabilitative come l’ippoterapia, la fisioterapia, la logopedia, per la cura di persone cerebrolese. Questo progetto si basa su studi che dimostrano che, se nelle tre ore successive al trattamento in camera iperbarica, il cervello viene iperstimolato, tende a creare delle nuove connessioni che possono ripristinare qualche attività cerebrale. Al momento sono cinque i bambini dell’Iperbarica che praticano ippoterapia al Centro argentano, e tutti hanno avuto dei grossissimi risultati, acquisendo movimenti che prima non avevano.
Ma tutto è cominciato grazie alla nonna di Martina, che ha creduto nel progetto e ha fatto di tutto per diffonderne la validità e realizzando anche un sito in cui si possono seguire i progressi della sua nipotina [vedi]. Martina è una bambina di Argenta, ha dieci anni e una diagnosi di paralisi cerebrale infantile. Dal 2008 segue un percorso di terapia iperbarica associata all’ippoterapia e altri tipi di riabilitazione. Grazie a queste terapie è migliorata tantissimo, oltre ogni aspettativa: Martina non aveva quasi nessun controllo del tronco, oggi riesce a scendere le scale, anche se a suo modo, mangia da sola e va in bicicletta. La nonna e i genitori sono felicissimi, per Natale ci hanno scritto una lettera che ci ha profondamente commosso:
“Martina e la sua famiglia ringraziano il Circolo ippico argentano per aver averci dato la possibilità, accompagnandoci con serenità, decisione e amore, di fare ippoterapia […] terapia molto importante per questi nostri bambini speciali. Siate fieri e orgogliosi di quello che fate verso i più deboli […] Non ci viene offerto nulla in alternativa da chi si dovrebbe occupare di questi bambini, nemmeno la possibilità di sperare, per una vita migliore. […] Ma in questo cammino così complicato e difficile, si incontrano persone che risvegliano le tue energie, la tua anima, trasmettendoci forza, coraggio e speranza.”
“Non c’è bisogno di andare a Nardò per trovare il caporalato”, basta fare un giro lungo le strade che costeggiano le campagne ferraresi. Ad affermarlo Dario Alba di Flai Cgil, che il 6 maggio ha partecipato all’incontro I nuovi schiavi. In cammino contro la tratta degli esseri umani, organizzato alla sala polivalente del grattacielo dal coordinamento provinciale di Libera in occasione della tappa ferrarese della Carovana internazionale antimafie. Insieme ad Alba, che ha presentato il secondo rapporto ‘Agromafie e caporalato’ dell’Osservatorio Placido Rizzotto, c’erano Raffaele Rinaldi, che ha portato la testimonianza dell’Associazione Viale K e dello sportello Avvocato di Strada, e Franco Mosca, che ha lavorato all’Osservatorio sull’immigrazione della Provincia di Ferrara fino alla sua chiusura due anni fa.
Ad aprire la serata una video testimonianza di Yvan Sagnet, ragazzo camerunense venuto in Italia per studiare ingegneria al politecnico di Torino e finito nelle campagne salentine, alla Masseria Boncuri, a raccogliere i pomodori perché il denaro della sua borsa di studio non bastava. Yvan e i suoi compagni hanno dovuto imparare in fretta le leggi del caporalato. I caporali requisiscono i documenti e li usano per procurarsi altri immigrati clandestini, con il rischio che vadano persi, esponendo così al ricatto anche chi è regolare. “Ai lavoratori non è permesso raggiungere i luoghi di lavoro con mezzi propri, devono usare i pulmini dei caporali pagando il trasporto 5 euro”. Se vuoi bere devi pagare 1,50 per l’acqua, se vuoi mangiare il panino costa 3,50 euro, quanto a loro viene pagato un cassone di pomodori da 3 quintali. Non conviene avere problemi di salute, il prezzo del trasporto in ospedale è di 20 euro. Un giorno però qualcosa è cambiato, servivano pomodori per le insalate: significava selezionarli uno a uno, raddoppiando la fatica, ma allo stesso prezzo. Yvan e gli altri braccianti non ci stanno: è l’inizio di una protesta che per settimane blocca la raccolta dei pomodori nel Salento. Le istituzioni sono costrette ad ammettere che il problema caporalato esiste: abbiamo dovuto aspettare uno sciopero di lavoratori migranti perché finalmente nell’agosto 2011 venisse approvata in Italia una legge contro il caporalato (articolo 603bis del codice penale).
“Abbiamo ancora tanto da fare”, ha concluso Yvan, prima di tutto perché quella legge è incompleta, “non c’è nulla che punisca le aziende: sono le aziende che danno i soldi ai caporali per sfruttarci”. Nelle campagne ferraresi certo la situazione non è così grave, il caporalato assume per lo più la forma dell’intermediazione: i lavoratori stranieri si rivolgono cioè a un loro connazionale che parla la loro stessa lingua e che diventa l’intermediario con il datore di lavoro. Tuttavia emergono episodi di grave sfruttamento, tanto che Alba parla di “paraschiavitù”: dai pakistani che lavorano per 15-25 euro al giorno ai rumeni che d’estate vivono stipati dentro container roventi. Inoltre Mosca ha parlato di una pericolosa “frattura fra i lavoratori”, che contrappone italiani e stranieri, con i primi che attribuiscono ai secondi la mancanza e il peggioramento delle condizioni di lavoro.
Forse la soluzione, o parte della soluzione, passa dalla consapevolezza. La consapevolezza, per esempio, che non possiamo più nasconderci dietro questa sorta di “schizofrenia”, come l’ha chiamata Raffaele Rinaldi, “per cui ci indigniamo delle situazioni di sfruttamento e di disperazione quando sono lontane da noi, mentre quando queste realtà cominciano a lambire la porta di casa l’uomo diventa il clandestino”, oppure “ci si scaglia contro gli immigrati e poi li si va a cercare per lavorare” nelle campagne o nei cantieri. Oppure la consapevolezza che anche noi, nel nostro piccolo, quando facciamo la spesa siamo potenti, perché abbiamo il potere di scegliere. In altre parole la consapevolezza di un legame inscindibile fra diritti, legalità, responsabilità e solidarietà.
E’ assolutamente imperdibile l’incontro in programma sabato in castello. Risponde a uno dei quesiti fondamentali dell’esistenza umana, un interrogativo che ciascuno di noi ha angosciosamente posto a se stesso almeno una volta in quest’epoca di crisi: “Come diventare marchesa ed esserlo in tutte le occasioni della vita”. E’ un tema nodale dei giorni nostri, qualcosa che ci appassiona e ci scuote nel profondo dell’animo.
A proporre una così ghiotta occasione di crescita umana e intellettuale è Forza Italia, sempre attenta a intercettare i reali bisogni delle persone. Talchè, nel vortice della sua campagna elettorale, ha pensato giustamente di elevare il tono del dibattito generale, invitando nella nostra città un’esperta assoluta della materia, Daniela del Secco D’Aragona, che saprà con sapienza erudirci e illuminarci. Accanto a lei poseranno nobilmente tutti i candidati forzitalici, quelli delle amministrative e quelli delle europee.
La benemerita iniziativa è stata propiziata dal praticante avvocato Francesco Carità con il supporto dei club ‘La nuova Forza Italia Ferrara’ e ‘Forza Italia città estense’. Grati della caritatevole attenzione che schiude persino a noi plebei uno spiraglio all’anelito del marchesato, eleviamo il nostro canto: meno male che Francesco c’è.
P.S. Non è uno scherzo come inizialmente avevamo creduto, è tutto drammaticamente vero
La caffettiera rivestita di pelliccia. Una provocazione degna di una sfilata di alta moda. Si presenta così il sito internet dell’Associazione italiana pellicce. Oltre 150 mila animali allevati e abbattuti per produrre il simbolo per eccellenza del lusso femminile. Che allarga i confini e si adatta alla creatività tipica del Made in Italy. Così la pelliccia può rivestire una radio, una lampada da tavolo e persino una Vespa.
Contro questo mercato, in Parlamento ci sono tre proposte di legge, promosse da tre donne. Due alla Camera (Michela Brambilla e Chiara Gagnarli) e una al Senato (Silvana Amati). A queste, potrebbe presto aggiungersi l’azione delle Regioni italiane. Umbria, Sicilia e soprattutto l’Emilia-Romagna, che con cinque allevamenti mantiene una posizione di rilievo nella produzione nazionale di pelli di visone. Così l’Emilia-Romagna potrebbe essere la prima Regione italiana a proibire gli allevamenti da pelliccia sul proprio territorio. Una legge però che difficilmente potrà diventare operativa, perché creerebbe problemi costituzionali di uniformità legislativa nazionale. Lo ammette persino la Lav, Lega antivivisezione, la principale protagonista della lotta animalista. L’obiettivo reale è fare pressione sul Parlamento perché possa approvare nei prossimi mesi la messa a bando degli allevamenti su tutto il territorio italiano.
Una soluzione che non piace a Giovanni Boccù, rappresentante dell’associazione italiana allevatori di visone (Aiav). Il visone resta di fatto l’unica specie di animale da pelliccia ancora allevata in Italia. Poche decine di allevamenti, contro i 170 del 1980; un settore che sembrerebbe in via di estinzione. Il numero degli animali abbattuti in Italia, tuttavia, fa ancora impressione: oltre 150 mila, appunto.
Presidente, cosa sta accadendo agli allevamenti di visone in Italia? Tutta colpa di una legge del 2001, che avrebbe dovuto recepire correttamente la direttiva europea in materia di protezione degli animali negli allevamenti. Invece ci obbligavano ad allevare i visoni a terra e a costruire piscine per loro. Non ci sono prove che dimostrino che l’allevamento a terra garantisca un maggiore benessere degli animali, anzi, i visoni si ammalano facilmente, con danni alla produzione. Nel mio allevamento avrei dovuto spendere cinque milioni di euro, senza aumentare i ricavi futuri. Ma abbiamo fatto cambiare l’articolo e ora gli impianti stanno nuovamente aumentando, nonostante la burocrazia fatta di decine di carte prima di ottenere un permesso. A Cella di Noceto, in Emilia Romagna, il Comune aveva legiferato per impedire l’allevamento di visoni. Il governo lo ha obbligato a rettificare. Io sto cercando di ampliare i miei impianti, ma ancora senza risultati. In queste condizioni molti allevatori rinunciano.
Dove stanno aprendo i nuovi impianti? Non glielo posso dire. Contro di noi si stanno verificando atti di terrorismo. Gli ambientalisti distruggono gli impianti ancora prima che inizi il ciclo produttivo, ostacolano l’approvazione dei permessi dei Comuni facendo pressione sui sindaci, con migliaia di email ogni giorno. In alcuni impianti hanno avvelenato i cani, hanno buttato acido sulle macchine. Abbiamo già diverse denunce ai Carabinieri. Si firmano con la sigla Alf, Animal liberation front.
Vi accusano di torturare gli animali… Se così fosse, dovremmo andare in galera e con noi l’Asl che verifica la conformità dei nostri impianti alle norme di legge. Noi invece rispettiamo le leggi. Contro di noi ci sono solo falsità. Ho invitato il presidente della Lav a visitare il mio impianto ma non ha mai accettato. Noi facciamo gli open day, chiunque può venire a visitare gli impianti. Il benessere degli animali è al top.
Le sembra etico uccidere un animale per produrre pelliccia? L’etica è una opinione. Se tengo un animale in casa, invece che lasciarlo libero, forse non è etico. Se uno dice che costruire una Ferrari non è giusto perché costa troppo e perché ci sono persone che non arrivano a fine mese, oppure che mangiare la carne di animali è scorretto perché possiamo mangiare la verdura, che facciamo? Magari blocchiamo tutto solo perché lo vuole la maggioranza. Dunque se è possibile allevare animali da pelliccia, il problema è il trattamento degli animali e su questo noi non abbiamo nulla da nascondere, anzi, se hanno qualcosa da proporci, noi siamo pronti a discuterne per migliorare la salute degli animali.
Noi accetteremmo anche di essere messi al bando, ma non sulla base di falsità. In Europa la Lav ha raccolto le firme per mettere al bando gli allevamenti. Ma hanno dovuto ritirarle perché abbiamo dimostrato che dicevano falsità e l’Europa ha rigettato la richiesta.
Se la questione è etica, si faccia la legge. Noi ci adegueremo, ma finché non c’è la legge, non possono dire che noi siamo illegali e scorretti facendo danno alle nostre strutture, con atti di vandalismo
Ci sono sondaggi che dimostrano che l’opinione pubblica è contraria alle pellicce… La gente non è contraria, è indifferente e spesso non sa di cosa parla. Non ha mai visitato gli allevamenti. Le garantisco che chi è entrato da noi, esce convinto che gli allevamenti di animali da pelliccia siano identici a tanti altri allevamenti. Agli italiani interessa portare lo stipendio a fine mese, non mandare a casa altre famiglie. Chiudere i nostri impianti significherebbe un doppio costo. A noi dovrebbero darci un indennizzo per la perdita dello stipendio e degli impianti. Inoltre il mercato dovrebbe acquistare le pelli dall’estero, dove non ci sono le stesse norme di tutela della salute degli animali. Un doppio danno per il paese.
In Europa però molti paesi hanno già abolito gli allevamenti da pelliccia… Sono paesi che non hanno allevamenti, così è troppo facile. In Inghilterra, una generazione di allevatori anziani ha preferito chiudere piuttosto che rinnovare gli impianti. Hanno incassato i soldi per la chiusura degli impianti, hanno preso altri fondi dall’Unione Europea e hanno investito nuovamente in Grecia. L’Olanda ha messo al bando gli allevamenti per questioni etiche, non per maltrattamento degli animali. Il governo olandese ha dato 23 milioni di euro agli allevatori, ma i danni al settore supera il miliardo e mezzo di euro e ora stanno ricalcolando gli indennizzi. Se i governi pagano, gli allevatori chiuderanno.
In Parlamento ci sono tre proposte di legge per l’abolizione in Italia, si sente minacciato? In un paese civile la maggioranza decide, ma fin quando ci sono leggi che stabiliscono che la nostra attività è legittima, noi abbiamo il diritto a produrre senza ostacoli. Quando le proposte di legge saranno discusse in aula ne riparleremo. D’altronde, dall’estero vogliono comprare il nostro know-how e qui c’è chi prova a chiuderci e mandarci via
Ma in Italia siete poche decine, potrebbe essere facile chiudevi… Se una famiglia guadagna poco che fanno la mettono sul lastrico solo perché agli altri non interessa il suo lavoro? Se un Parlamento vuole può chiudere anche un settore ricchissimo e fiorente.
C’è chi scuoia gli animali vivi, ha mai visto le immagini? Sono cose che mi fanno venire i brividi. In Europa queste cose non possono avvenire, perché ci sono le leggi più ferree per il benessere degli animali. Abbiamo studiato con il supporto di università i migliori sistemi per garantire il benessere degli animali e tra poco arriverà anche una certificazione esterna che si aggiungerà ai controlli delle Asl. Se sbaglio qualcosa mi fanno il verbale. E’ nostro interesse certificarci, perché più alta è la qualità più il nostro prodotto è garantito sul mercato. Siamo i primi interessati al benessere degli animali, gli ambientalisti non vogliono capirlo. Il pelo viene bello se un animale sta bene, non se viene maltrattato.
Al Parlamento europeo, abbiamo fatto un’esposizione per presentare il nostro lavoro, anche agli animalisti. C’erano anche foto di animali feriti. Può succedere che un animale si possa ferire. Se uno mettesse una foto di un uomo andato in ospedale e dicesse: “questo è il genere umano”, direbbe una falsità. Così per noi l’importante è che venga curato e rimesso in produzione. Noi non abbiamo nulla da nascondere, ma cercano di accomunarci ad allevamenti lager. Noi abbiamo i controlli di ufficiali pubblici della Asl, anche sette volte l’anno. Se faccio male qualcosa, mi fanno il verbale. Se qualcosa non fosse corretta, dovremmo essere accusati tutti, compresi i controllori.
Che tempi ci sono per la certificazione? Entro l’anno prossimo in tutta Europa. È attualmente in prova in alcuni allevamenti. All’asta di Helsinki, già ora chi vende pelli da allevamenti certificati prende un extra prezzo.
Che fine fanno i corpi degli animali scuoiati? In Europa, gli allevatori riciclano un milione e mezzo di tonnellate di carne. Nel Nord Europa con la carne degli animali da pelliccia si produce biogas. È possibile farne farine proteiche e bocconcini per l’alimentazione di altri animali. Tutto il prodotto è utilizzabile. Noi comunque non ci occupiamo dei corpi degli animali, perché fanno parte del ciclo successivo, di cui si occupano le aziende autorizzate dalla Asl. Pensi che 30 anni fa, alcuni allevatori si riempivano la cella frigorifera e mangiavano quella carne tutto l’anno.
Come va il mercato delle pellicce? Benissimo, il prodotto viene venduto. Il mercato è mondiale, non è solo quello italiano. In Italia, abbiamo la MiFur che è una delle principali Fiere del mondo. La pelliccia è utilizzata ovunque ed è più che mai di moda.
Ma il prezzo sta calando, troppa concorrenza? Negli ultimi mesi c’è stato finalmente un calo, dopo un aumento del 168% registrato negli ultimi cinque anni. Per noi è meglio, perché certi mercati erano tagliati fuori, mentre ora stanno tornando a comprare.
Non c’è stato un cambiamento culturale con le pellicce ecologiche? Sono pellicce di plastica prodotte dal petrolio, che non è possibile definire ecologiche. È indistruttibile e prodotta in modo inquinante. Anzi, più le persone comprano pellicce di plastica, più si rendono conto della qualità del nostro prodotto. Sappiamo quanto distrugge il petrolio, con danni alla vita degli animali. Quello è un bene non rinnovabile, finirà. Noi produciamo quanto vuole il mercato.
Come vi tutelate dai colleghi che non rispettano le norme?
Quando è successo siamo stati i primi a denunciarli. Purtroppo chi passa con il semaforo rosso ci sarà sempre, ma questo non vuole dire che gli allevamenti torturino gli animali. Noi non diciamo alla gente che debba portare la pelliccia, ma nessuno dica che non possiamo produrla.
Come si riconosce sul mercato una pelliccia prodotta senza il rispetto delle norme europee? Il prezzo, sensibilmente più basso. Noi dobbiamo seguire cicli dietetici. Tutto deve essere bilanciato. Noi possiamo mancare di attenzione verso gli animali. Poi paghiamo le tasse. Certo in alcuni paesi, dove vivono con le galline in casa, se offrissimo cinquanta euro per farla scuoiare viva, sono sicuro che me lo farebbe anche con i denti. Se qualcuno dovesse dire che in Italia ci sono atteggiamenti simili io mi costituisco parte civile. Se gli ambientalisti fanno vedere filmati così violenti lasciando credere che succeda anche in Italia, vuol dire che hanno la coscienza sporca. Perché dovevano denunciare quelle persone, non possono metterci a paragone. L’istituto zooprofilattico di Brescia ha messo le telecamere per vedere la reazione degli animali al gas con cui vengono uccisi. Non agonizzano, muoiono in pochi secondi. Quando la concentrazione di ossido di carbonio è giusta, noi mettiamo gli animali. Poi li deponiamo sulle rastrelliere e aspettiamo il giorno dopo. Solo a quel punto noi interveniamo.
“Non si dovrebbe sottovalutare la noia come fonte di meditazione e fantasticherie, le centinaia di ore della tua prima infanzia in cui ti sei trovato solo, privo di stimoli, senza niente da fare, troppo svogliato o distrutto per voler giocare con i tuoi camion o le tue automobiline, per prenderti la briga di schierare i tuoi cowboy e indiani in miniatura… E siccome fuori pioveva o faceva troppo freddo per uscire di casa, languivi in un torpore ombroso e depresso, ancora troppo giovane per leggere, per telefonare a qualcuno, sognando un amico o un compagno di giochi che ti facesse compagnia… Temutissime ore di noia, lunghe ore solitarie di vuoto e silenzio, intere mattine e pomeriggi in cui il mondo smetteva di girare intorno a te, eppure quel terreno sterile si rivelò più importante di tanti giardini in cui avevi giocato, perché è li che ti sei addestrato a stare da solo, e una persona può lasciare libera la mente solo quando è sola”. (P. Auster, 2013, Notizie dall’interno, p. 37).
Questo affascinante brano tratto da un romanzo in forma autobiografica dello scrittore americano Paul Auster, mi serve come spunto per riflettere su un’esigenza che questo tempo nega: consentire lo spazio per la noia. Lasciare che emerga un tempo vuoto nella scansione delle proprie giornate è la condizione per riflettere sul senso di ciò che stiamo facendo, per ascoltare i propri desideri e sviluppare un pensiero creativo. Esigenza primaria che contrasta con un’attitudine diffusa a gestire il tempo libero con l’impegno ossessivo a chiudere ogni possibile spazio di tempo vuoto.
Anche nel rapporto con i bambini si commette, per lo più, l’errore di non lasciare spazio alla noia. I bambini sono sommersi e soffocati di proposte. I genitori occupano tutto il tempo dei bambini con le più varie attività e riempiono ogni spazio. Crescono bambini che non sanno fare i conti con la noia e con un tempo vuoto, non sanno giocare da soli e baloccarsi con i propri pensieri, magari inventando storie immaginarie a partire da semplici oggetti quotidiani.
La tendenza a riempire ogni momento talvolta risponde al senso di colpa per non dedicare ai figli abbastanza tempo e attenzione, spesso è una proiezione degli adulti che propongono ai figli cose che loro stessi avrebbero voluto fare e vivendo in tal modo i bambini come un prolungamento narcisistico di sé.
La saturazione di ogni spazio è anche un dato culturale di questo tempo: l’idea che ogni spazio debba essere indirizzato a qualche utilità, ad apprendere una specifica capacità. Un’idea di utilità che riduce lo spazio del gioco, lo spazio dell’astrazione e del pensiero simbolico, in nome di un precoce apprendimento di abilità. Vince così la concezione dell’apprendimento come performance da raggiungere ad ogni costo. In questa esasperata ricerca di formazione di competenze si esprime anche una delega agli esperti dell’apprendimenti: si preferisce pagare il corso piuttosto che condividere attività da fare insieme.
Nel futuro questo mancato apprendimento ad assecondare i propri ritmi e vocazioni, può provocare la tendenza a riempire il tempo con oggetti che anche in quel caso sono sostituti del desiderio, oggetti di consumo, cibo, fino alla droga. Imparare a non otturare ogni mancanza è la condizione necessaria per accedere al desiderio. Così da adolescenti i ragazzi che non sono abituati a fare i conti con la mancanza, faticano a dire cosa vogliono.
La condizione per desiderare è la mancanza, se questa viene tappata con oggetti, cose o progetti costruiti da altri, non solo viene impedito l’accesso al desiderio, ma non ci si abitua a fare i conti con la frustrazione.
Bambini abituati a stare solo con adulti, che non sanno giocare da soli, saranno adulti che non sapranno fare i conti con le inevitabili frustrazioni della vita: quando queste si presenteranno li troveranno impreparati a fronteggiarle.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali. baratellichiara@gmail.com
Confesso che il calcio mi interessa poco da quando, nella stagione di serie A 2001-2002, il Chievo arrivò al quinto posto.
Non fu certo il campo da solo a stilare quella classifica finale. Non era infatti concepibile che una squadra parrocchiale potesse umiliare le corazzate del calcio italiano. Specie quando un solo giocatore di queste tuttora costa come l’intero bilancio del Chievo, spinzini compresi.
Quello che, però, è successo sabato 3 maggio per la sfida conclusiva della Coppa Italia ha dello stupefacente e non nel senso che darebbe Giovanardi al termine.
Tutto, ma proprio tutto, in questa faccenda è fuori binario.
Le squadre finaliste erano Napoli e Fiorentina, ma ad aprire addirittura il fuoco con una pistola (una pistola!) sarebbe stato un tifoso della Roma, tal Daniele De Santis detto Gastone.
Ad oggi quello che si sa è che il bilancio è di dieci feriti, di cui uno gravissimo. Il suo nome è Ciro Esposito, ancora ricoverato al Gemelli dopo due interventi chirurgici in pochi giorni.
A stupire è che il presunto pistolero e il ferito più grave sono entrambi in stato di fermo.
La madre del tifoso partenopeo ha subito urlato la propria indignazione.
Va bene che i figli sono sempre “Piezz ‘e core”, ma mai un genitore col dubbio che se il sangue del proprio sangue è piantonato in ospedale può essere (dico, può essere) che prima non abbia preso parte a degli esercizi spirituali.
A proposito di polizia e carabinieri, dovrà pur finire prima o poi l’inconcludente, e talvolta cinico, ondeggiare da mal di mare di un’opinione pubblica che, a seconda dei casi, si scaglia contro gli uomini in divisa se calpestano dissenso e diritti con una brutalità inaccettabile per un Paese civile, salvo poi reclamare tolleranza zero di fronte a fatti come quelli di sabato scorso.
Sarà pure possibile tutto in un Paese abituato a tenere insieme diavolo e acqua santa, ma pretendere dalle stesse persone che siano, a piacimento, dei dottor Jekyll e dei mister Hyde, ha tutte le sembianze di una tiritera destinata, se tirata ancora per le lunghe, a presentare un conto finale assai poco piacevole.
Come siano andate veramente le cose è ancora in buona parte un punto interrogativo. È stato scritto che un veicolo di tifosi azzurri, non trovando parcheggio, avrebbe sfondato il cancello di un vivaio di fiori. Se così fosse, saremmo oltre l’iperuranio della sosta selvaggia.
Altri hanno detto che se qualcuno ha sparato è perché dall’altra parte sono partite le provocazioni. Marco Tardelli, quello dell’urlo del tre a uno in Italia Germania dell’82, ha addirittura insinuato che potrebbe essere stato un regolamento di conti.
L’impressione è che se si prosegue lungo la linea di queste congetture, si arriva prima o poi all’identità di Jack lo Squartatore.
Se poi si considera che tutte queste cose riguardano fatti accaduti prima di entrare nello stadio, e che gli scontri si sono estesi nella capitale a Ponte Milvio, Ponte della Musica e ponte Duca d’Aosta, non si sa davvero quale aggettivo cercare sul vocabolario.
Già, perché dentro l’Olimpico abbiamo tutti fatto la spiacevolissima conoscenza di tal Gennaro De Tommaso, meglio noto come “Gennaro la carogna”. Il capo della tifoseria partenopea lo abbiamo visto in cima ad una cancellata che indossava una maglietta con sopra scritto: “Speziale libero”. È il cognome dell’ultrà del Catania in carcere, che nel febbraio 2007 uccise l’ispettore di polizia Filippo Raciti, tirandogli addosso un lavandino (un lavandino!).
Ebbene, con uno che ha questa idea conclamata della giustizia ha preso accordi il capitano del Napoli, Marek Hamsik, per dare inizio alla partita.
Immaginiamo il tono dell’amabile conversazione, alla presenza di dirigenti e forze dell’ordine: “Che ne dice dottor Carogna di dare inizio alle ostilità?”.
Immaginiamo anche lo stato d’animo dei familiari del poliziotto ucciso durante un’ennesima mattanza, mentre lo Stato anziché rendersi conto in quale scantinato si è cacciato non vede niente di meglio da fare che umiliare una volta ancora chi ci ha rimesso la pelle per una partita di calcio.
Successivamente è stata cronaca di bombe carta (una delle quali ha mandato un vigile del fuoco all’ospedale), petardi e fischi all’inno d’Italia. Mentre in tribuna sedevano tra le più alte cariche dello Stato.
Straordinarie le dichiarazioni a caldo di alcuni papaveri. Due a caso.
Maurizio Beretta, presidente della Lega: “Questi episodi di violenza sono gravi e colpiscono lo spirito dello sport”.
Pietro Grasso, presidente del Senato: “Una partita di calcio non si può trasformare in una guerra tra bande con episodi di violenza. Questo è gravissimo”.
Gravissimo, semmai, è che uno il cui padre risulterebbe affiliato alla camorra e che indossa una maglietta che è l’esatto capovolgimento della gerarchia di principi che regge una società civile, sia l’esempio di un’interlocuzione privilegiata delle squadre di calcio e delle stesse istituzioni che dovrebbero garantire la sicurezza.
Gravissimo è che i più alti rappresentanti dello Stato non sentano il dovere di abbandonare uno spettacolo indecente che rappresenta lo sbracamento di un intero paese nel quale, come dicono le streghe nel Macbeth di Shakespeare, nessuno sembra più distinguere il giusto dal marcio.
Gravissimo è che “the show must go on” e che alla fine si assegni la Coppa Italia, perché il nome di una delle due squadre sia inciso nell’albo d’oro della competizione.
Gravissimo è che nel 2014 l’Italia continui a dare spettacolo di sé sulla scena internazionale come di un paese dai problemi volutamente ed eternamente insoluti, colpevolmente e superficialmente trascurati, inondati da sequenze interminabili di pareri di esperti ed opinionisti che continuano a girare all’infinito intorno al tema come fosse una rotatoria. Mentre molti dei nostri vicini di casa li hanno da tempo risolti e, perciò, sono più avanti di noi.
Gravissimo è che ogni santa domenica si continui a tenere impegnate schiere di agenti in assetto antisommossa, e a spendere soldi dei contribuenti, nel tentativo di scongiurare devastazioni di treni, stazioni, stadi e chissà cos’altro, per una partita e senza che mai nessuno paghi per i danni provocati.
Gravissimo è che la sera di sabato tre maggio sul campo dello stadio Olimpico di Roma sia stata l’Italia ad essere presa a calci.
E qualcuno avrebbe dovuto avere il criterio di andarsene con la Coppa sotto braccio, perché ammettendo che abbia avuto senso disputare la partita, alla fine non c’era alcun trofeo da alzare al cielo.
Perché tutti quella sera hanno, abbiamo, perso.
In prima linea per curare le ferite di “corpi” resi immortali dalla storia, ma fragili dal tempo, feriti dalle guerre e dalle calamità naturali o, semplicemente, minacciati dall’abbandono e dall’incuria.
Dopo Medici Senza Frontiere, ecco scendere in campo anche in professionisti dell’arte, pronti a fornire un “primo soccorso” a musei, monumenti e siti a rischio in Italia e nel mondo, come veri “medici” del patrimonio culturale. Il paragone è d’obbligo per questi starter innovativi.
La recente creazione del network italiano di Restauratori Senza Frontiere (Rsf), onlus dedicata alla conservazione e al restauro del patrimonio artistico in Italia e nel mondo, sta sfruttando il potente ruolo della rete nell’identificare il possibile contributo di singoli esperti, organizzazioni, associazioni attive e interessate all’etica della tutela, nel promuovere divulgazione culturale e aggregazione fra professionisti di un settore. L’associazione riserva, anche, uno spazio ai giovani, che potranno avere una vetrina aperta su questo mondo, con occasioni reali di partecipazione.
Uno dei primi obiettivi dell’associazione sarà quello di monitorare lo stato di conservazione di monumenti e opere d’arte italiane, mappando sia le eccellenzeche le emergenze, e di creare una rete di professionisti – tutti volontari – in grado di intervenire sulle priorità. A valutarle e curare i progetti specifici sarà un comitato scientifico presieduto da M.L. Tabasso, specialista in chimica dei materiali, con una lunga esperienza all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr) e all’Iccrom (il Centro internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni culturali creato dall’Unesco); al progetto hanno già aderito, molti esperti di rinomanza internazionale (per citare alcuni, si pensi a Stefano De Caro, direttore dell’Iccrom, a Friedrich Von Hase, direttore del Museo di Magonza, all’egittologo Francesco Tiradritti e a storici dell’arte come Claudio Strinati e Marcello Fagiolo Dell’Arco).
L’Organizzazione gestirà, poi, la progettazione, il finanziamento e la realizzazione di iniziative in ambito nazionale e internazionale finalizzate alla protezione e alla conservazione del patrimonio artistico mondiale, dei monumenti storici e di tutti i segni tangibili delle civiltà del passato, beni inestimabili per le nazioni di oggi. Il Fund raising sarà parte fondamentale delle attività di Rsf e permetterà di supportare progetti a cui anche i giovani professionisti potranno aderire per imparare e entrare nel mondo della conservazione. Una sorta di talent scout-job hunter.
A fine gennaio 2014, è partita la campagna d’iscrizioni per creare un database in cui ciascun volontario può inserire il proprio curriculum. Attraverso la rete sarà realizzata una mappa geo-localizzata delle specializzazioni per intervenire in modo rapido ed efficace sul territorio in caso di emergenze, con nuclei operativi formati da esperti di diversi settori, dai geologi ai fisici, dagli architetti ai restauratori. Fra gli obiettivi, c’è anche la formazione di personale in loco durante le missioni. L’associazione si propone di agire in collaborazione con le organizzazioni internazionali umanitarie e di protezione civile, stipulando convenzioni in Italia e all’estero, e conta di essere operativa sul campo già dall’estate.
Le parole d’ordine saranno quindi: salvaguardia, restauro, manutenzione, competenza, volontariato, solidarietà, partecipazione, dialogo, etica.
Tra le attività ne risalta una di estrema importanza, ossia il coinvolgimento delle popolazioni locali e quindi dei cittadini, attraverso varie iniziative che porteranno a donazioni, cooperazioni e azioni di volontariato in un modo del tutto libero e consapevole. La cultura e la sua salvaguardia sono in rete, tutti possono partecipare.
L’associazione farà rete dunque attraverso la rete.
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