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IL FATTO
Di nuovo come un tempo,
in piazza per mangiare
e stare insieme

Come alle feste popolari, come un tempo nelle corti rurali, si mangia in piazza, in strada o comunque nello spazio pubblico, condiviso. Si sta all’aperto, fuori dalle case, dagli angusti muri domestici. E’ proprio questo il sapore autentico della ‘Pizza street’, che da questa sera a domenica riunirà qualche centinaio di persone attorno a tavoli imbanditi sul selciato di via Voltapaletto. Il senso dell’iniziativa va ben oltre la sua dimensione commerciale e intercetta una nuova esigenza. O meglio, un bisogno che ritorna: quello della convivialità diffusa.
Per anni, quelli del ‘trionfo del privato’, del “riflusso moderato”, ci siamo rinchiusi nei nostri appartamenti, protetti – per dirla con Giorgio Gaber – con una serratura Yale che ci preservava da ogni intrusione e ogni contaminazione. Conclusa, non per caso, la fase della rivolta, della contestazione, spente le istanze di partecipazione, sopite le ansie di socialità, cancellata l’idea secondo cui tutto è politica, tutto è sociale, l’individuo si è staccato dal gruppo, dal collettivo. E si è sopito, in una lunga notte in cui il benessere per essere tale andava goduto in salotto.
Ora, fra gli effetti della crisi che ci attanaglia c’è, di positivo, la riscoperta di uno spirito di socialità, di messa in comune. Come i pastori erranti di Leopardi, avvertiamo più chiara la precarietà dell’esistenza e sentiamo la necessità di condividere con altri la nostra sorte. Così, in tante città fioriscono iniziative come questa, che spesso evolvono nel modello delle ‘social street’: che significa in sostanza la riscoperta del buon vicinato, della mutua assistenza, del reciproco sostegno secondo un sano valore di scambio di saperi e di capacità. E dunque, per dirlo in una sola parola, dell’essere solidali.
Ben venga, dunque, questa pizza street, se insieme a mozzarella e pomodoro ci riporta una fettina di smarrita umanità.

Il brano intonato: Giorgio Gaber, C’è solo la strada [clic per ascoltare]

I dettagli dell’iniziativa [clic per leggere]

L’EVENTO
E per tre giorni Ferrara ritorna Internazionale

Torna ‘Internazionale a Ferrara’, il festival di giornalismo giunto alla sua ottava edizione. Da venerdì 3 a domenica 5 ottobre sarà un weekend di incontri, dibattiti, spettacoli e proiezioni con grandi ospiti da tutto il mondo. L’organizzazione è del settimanale Internazionale. Filo conduttore, l’informazione nelle sue varie declinazioni: giornalismo di inchiesta, economico e narrativo. In questa edizione del festival si parlerà specificamente di diritti e diversità: omosessualità, aborto e violenza sulle donne, immigrazione. Non mancherà l’attualità italiana e ovviamente quella mondiale. E ancora: economia, lavoro, cultura, letteratura e cibo workshop e laboratori creativi per bambini.
“Il festival inizia nel segno di Lampedusa, un anno dopo la strage dei migranti – afferma la direttrice Chiara Nielsen -. Le migrazioni saranno uno dei fili conduttori di questa edizione”.

Ferrara è pronta dunque a trasformarsi in una grande redazione, animata da prestigiose firme del giornalismo e della letteratura: 230 ospiti da 30 diversi Paesi del mondo, 4 continenti rappresentati, 45 testate, 100 incontri, 250 ore di programmazione. Lo scenario è quello dei temi planetari. Le migrazioni e il cambiamento nella concezione dei confini e delle mobilità del XXI secolo. Dall’Iraq alla Libia tra terrorismo, scontri settari e Stati a rischio verso la ridefinizione del Medio Oriente. L’America Latina e l’orientamento della nuova sinistra. Tornano i grandi documentari inediti di Mondovisioni e la rassegna di audiodocumentari Mondoascolti. Mondocinema è invece la nuova rassegna di cinema d’autore.

Tra gli ospiti più attesi di quest’anno Martin Baron, direttore del Washington Post, Gerard Baker, direttore del Wall Street Journal, la giornalista e attivista siriana Maisa Saleh, (arrestata nei mesi scorsi) che riceverà il premio giornalistico Anna Politkovskaja 2014 per il giornalismo d’inchiesta. E poi: il giornalista francese Edwy Plenel, ex direttore della redazione di Le Monde e fondatore del giornale online Mediapart, la scrittrice e attivista messicana Lydia Cacho, il giornalista e scrittore inglese Ed Vulliamy, vincitore nel 2013 del premio Ryszard Kapuscininski per il reportage letterario. Ospite del festival anche una delle figure più rappresentative della Turchia democratica, Pinar Selek. E poi Edwin Catmull, presidente di Walt Disney Animation Studios e della Pixar, che parlerà di creatività applicata al business. Al festival tornano John Berger uno dei più grandi scrittori britannici, critico d’arte e pittore, e il giornalista David Randall, che quest’anno festeggia i suoi 40 anni di carriera. Per l’ottava edizione a Ferrara un’importante presenta istituzionale italiana con il presidente del consiglio Matteo Renzi che sarà intervistato dai corrispondenti della stampa estera, il ministro degli affari esteri Federica Mogherini e la presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini.

“Il festival ha conquistato la città – sostiene il sindaco Tiziano Tagliani -. La partecipazione si è estesa. Con il festival trasformiamo Ferrara nella redazione più bella del mondo”.

Internazionale a Ferrara è promosso da Internazionale, Comune di Ferrara, Provincia di Ferrara, Università di Ferrara, Regione Emilia-Romagna, Emiliaromagna terra con l’anima, Ferrara terra e acqua, Città Teatro, Arci Ferrara e Associazione If.

Good Bye, Lenin! Quando la cortina di ferro svanì

Siamo nel 1989, a Berlino, momento storico e unico (e per molti di noi indimenticabile). Christiane Kerner, una madre che alleva da sola i sui figli, Alex e Ariane, dopo che il marito è andato in Occidente nel 1978, e impegnata, da allora, nella costruzione della “patria socialista”, è invitata al ricevimento ufficiale organizzato in occasione dei festeggiamenti per il quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica Tedesca.

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Locandina del film

Quella sera, a Berlino Est, molti manifestanti scendono in piazza per protestare contro il regime socialista che ormai logora e affanna la popolazione. Fra essi, vi è il figlio Alex, che viene pestato e arrestato dalla polizia. Per la paura, il dolore e la preoccupazione, Christiane è colta da un infarto e cade in coma. La casa dove vive la famiglia, la zona di Karl-Marx-Allee con sullo sfondo i grandi edifici costruiti con pannelli prefabbricati, i Plattenbauten, viene turbata e sconvolta dalla vicenda della donna che coglie tutti di sorpresa. Durante gli otto mesi di coma, nella città e nel paese tutto cambia. L’incoscienza di Christiane nulla può contro il partito che cade a pezzi, i confini che si aprono, il muro di Berlino che crolla, un mondo che cambia improvvisamente e che vede i tedeschi di nuovo uniti, di nuovo un popolo e una nazione sola. Ma c’è un problema, perché quando la loro madre si sveglierà dopo otto mesi, Alex e Ariane dovranno far finta che nulla sia successo, per evitarle emozioni forti e shock che potrebbero comportare una ricaduta fatale. Inizia allora la fase di (ri)creazione di un “micromondo” protetto, sicuro e immutato intorno alla madre. Nulla è cambiato, apparentemente. Almeno non per lei (per Alex e Ariane molto è cambiato, invece, e non solo nel paese: Alex ha perso il lavoro precedente e Ariane è fidanzata con un “occidentale,” Denis).

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Una scena del film, cimeli della Germania Est

La normalità del tempo passato e che non ritorna viene “preservata’ con attenzione dai ragazzi: vengono recuperati cimeli, prodotti e giornali della Germania Est, realizzati improbabili e falsi ma credibilissimi telegiornali della televisione orientale per tenere aggiornata la madre, fino a coinvolgere sempre più amici e vicini, sperando che la donna non scopra mai la verità. Il precipizio pare vicino quando Christiane si alza dal letto, da sola, ed esce da casa. Vede allora cose strane: pubblicità e prodotti occidentali, vestiti alla moda, macchine di lusso e, soprattutto, un elicottero che porta via una grande statua di Lenin. Una statua che pare pendere dal cielo e nel cielo. Alex convince la madre che nulla è cambiato, inventando per lei una bella storia. Ancora una volta.

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Una scena del film, Christiane e il figlio Alex

Intanto Christiane sente la necessità di raccontare ai figli la verità sul padre: il genitore non era fuggito con un’altra donna, com’era sempre stato raccontato loro, ma la coppia aveva progettato di comune accordo la fuga dal sistema socialista, che ormai li opprimeva. All’ultimo momento, tuttavia, lei non se l’era sentita di raggiungerlo per la paura di perdere i figli. Ora, davanti a un nuovo infarto, Christiane vuole solo rivedere il marito un’ultima volta. Il film è bellissimo, accompagnato dalla colonna sonora del francese Yann Tiersen (autore delle musiche de Il favoloso mondo di Amelie), con qualche velo di malinconia e nostalgia per le radici di una nazione creata dal laboratorio dell’ideologia, ma comunque con un suo popolo e persone dagli ingenui ideali. Fortissimo, poi, l’amore tenero e intenso per la madre (e per la patria) che sembra davvero poter fare tutto: anche, apparentemente, cambiare la storia. Almeno per un po’.

Good Bye, Lenin!, di Wolfgang Becker, con D.Brühl, K. Sass, M. Simon, Germania, 2003, 120 mn.

banche

L’OPINIONE
Riforme strutturali sì, ma a partire da banche e finanza

Sono mesi, ormai anni che da più parti si batte su questo tasto. Da ultimo ce l’ha detto anche l’ormai mitico Mario Draghi: dobbiamo fare le “riforme strutturali”.
Molto bene, ma quali sono queste benedette “riforme strutturali”? Che cosa si vuole intendere con questa ultratrita formuletta?
Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso a parlare di “riforme strutturali” era il Partito Comunista, soprattutto la sua componente più “a sinistra”. Serviva a connotarsi sia rispetto ai sedicenti “rivoluzionari”, sia rispetto al troppo morbido “riformismo” di un’altra parte importante del movimento operaio italiano.
Verso la fine degli anni ’80, un grande giurista come Guido Rossi, che fu presidente della Consob, elencò le riforme strutturali che erano più urgenti: ridurre il potere dei monopoli, riformare la Borsa e la legge bancaria, sottrarre le Partecipazioni Statali alla lottizzazione (= spartizione di poltrone) dei partiti, riformare il fisco tassando le attività finanziarie.
Più di recente il concetto di “riforme strutturali” è stato riesumato da parte della cosiddetta Troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale). Dietro questa nobile terminologia hanno identificato, da qualche anno a questa parte, le politiche di drastico taglio dello stato sociale imposte agli Stati europei più indebitati. Una medicina amara ma necessaria – sostengono – per rilanciare la crescita economica e ridurre l’indebitamento.
Per l’Italia tutto ciò si è tradotto tra l’altro in un violento e repentino peggioramento dei requisiti di accesso dei lavoratori ai trattamenti pensionistici. Ma anche in una revisione delle norme sul lavoro, volte in particolare ad indebolire le tutele della parte considerata più protetta del mondo del lavoro.
Ma la storia non è finita. Il tormentone delle riforme strutturali resta all’ordine del giorno e i grandi mezzi di informazione continuano ad utilizzare senza parsimonia questa formula vetusta.
Però tutto lascia pensare che dietro la sua apparente vaghezza si celi l’intenzione di intervenire ancora una volta, senza molta fantasia, sul mercato del lavoro, imponendo un ulteriore giro di vite alle tutele.
Eppure sarebbe interessante tornare a riempire il concetto di “riforme strutturali” con i contenuti di cui parlava Guido Rossi quasi 30 anni fa. Del resto la crisi drammatica che stiamo vivendo non ha certo avuto origine dalle norme del mercato del lavoro, ma dal sistema finanziario. Sarebbe logico, quindi, che si partisse da lì con le riforme strutturali, per esempio separando – come molti chiedono da anni – le banche di deposito da quelle di investimento, oppure limitando la possibilità di emettere i famigerati titoli “derivati”.
Ma niente, di questo non si parla. Si continua a cercare di far ripartire la nave frustando i macchinisti, invece di occuparsi del motore ingolfato.

Ergonomia e disturbi muscoloscheletrici, consigli pratici

Secondo la definizione della Treccani, l’ergonomia è quella “Disciplina scientifica che, utilizzando le conoscenze e i dati forniti da vari campi del sapere, studia il sistema uomo-macchina-ambiente con l’obiettivo di trovare soluzioni ottimali, adatte alle capacità e ai limiti psicofisiologici dell’uomo. Secondo la definizione dell’Iea (International ergonomics association), è la disciplina che si occupa dell’adattamento delle condizioni di lavoro alle caratteristiche dell’organismo umano. E’ ormai ampiamente provato che l’applicazione di questa disciplina è un fattore di successo per combattere o almeno ridurre, ad esempio, i disturbi muscolo-scheletrici come i dolori alla nuca, alle spalle, alle braccia o alla schiena.
Lo stretching è una delle pratiche che rientrano in questo campo, e che aiuta a prevenire sia i disturbi muscoloscheletrici che il dolore e il disagio osteo-articolare in generale. Lo stretching permette al corpo di recuperare, di rilassarsi e di prepararsi alla vita quotidiana. E’ importante anche per la mente, perché consente di distendersi, in modo da poter tornare alle proprie attività con più energia e attenzione. Lo stretching fatto di frequente aiuta, inoltre, a prevenire le tensioni muscolari.
In generale si consiglia di mettere in pausa il corpo e allungarsi almeno una volta ogni ora, ancora meglio due minuti di pausa ogni mezz’ora. Se si sente che una qualsiasi parte del corpo è tesa… anche solo 30 secondi sono meglio di niente. Quando si lavora al computer, è necessario, di tanto in tanto, distogliere lo sguardo dallo schermo e mettere a fuoco gli occhi su un oggetto distante. Questo permetterà agli occhi di rilassarsi, prevenendone l’affaticamento.
Di seguito, propongo alcuni esercizi di prevenzione per il collo e le spalle, per la mano e l’avambraccio, per la schiena e le gambe, che vi aiuteranno a ridurre il disagio durante la giornata di lavoro.

Mani e braccia

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Piegamento del polso

Piegamento del polso
Scopo: allungare polso e avambraccio
Con la mano aperta e rivolta verso il basso, piegare il polso delicatamente da un lato all’altro, per quanto possibile. Mantenete la posizione per 3 a 5 secondi. Ripetere 3 volte.

 

 

 

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Rotazione del polso

Rotazione del polso
Scopo: allungare polso e avambraccio
Allungare il braccio e la mano in fuori e ruotare lentamente il polso verso il basso, fino al massimo. Mantenete la posizione per 3-5 secondi.

 

 

 

 

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Flessione / estensione del polso

Flessione / estensione del polso
Scopo: allungare polso e avambraccio
Afferrare la mano e tenere le dita con l’altra mano. Piegare lentamente il polso verso il basso, fino al massimo del tratto. Mantenete la posizione per 3-5 secondi. Relax. Ripetere 3 volte. Poi, sempre lentamente, piegare il polso verso l’alto. Tenere & relax.

 

 

 

 

ergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiergonomia-disturbi-muscoloscheletrici-consigli-praticiStretch delle dita
Scopo: allungare polso e avambraccio
a) Iniziare con la mano aperta.
b) Fare un pugno.
c) Toccare la punta delle dita alla base del palmo della mano, tenendo il pollice dritto.
d) Fare delicatamente un gancio. Far scorrere la punta delle dita fino il palmo della mano, in modo che la punta delle dita siano vicine alla base delle dita (si dovrebbe sentire tirare). Non forzare le dita con l’altra mano se doloroso.

Collo e Spalle

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Elevazione spalle

Elevazione spalle
Scopo: alleviare i primi sintomi di tensione nella zona delle spalle e del collo.
Sollevare la parte superiore delle spalle verso le orecchie fino a sentire una leggera tensione nel collo e nelle spalle. Mantenere questa sensazione di tensione da 3 a 5 secondi. Poi rilassare le spalle verso il basso, nella loro posizione normale. Ripetere 2 o 3 volte.

 

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Movimenti avanti / indietro del collo

Movimento avanti-indietro del capo
Scopo: allungare il petto e muscoli della spalla
Sedersi o stare in piedi. Senza sollevare il mento, far scivolare la testa dritta avanti e indietro. Avere la sensazione del doppio mento, significa che si sta facendo l’esercizio correttamente. Mantenete la posizione per 20 sec. e ripetere 5 -10 volte.

 

 

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Relax del collo

Relax del collo
Scopo: rilassare i muscoli del collo
Flettere lateralmente la testa lentamente verso sinistra, cercando di toccare l’orecchio sinistro con la spalla sinistra. Ripetere sul lato destro. Far cadere lentamente il mento al petto, girare la testa completamente a sinistra, quindi ruotare completamente a destra.

 

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Rotazione delle spalle

Rotazione delle spalle
Scopo: rilassare i muscoli delle spalle.
Ruotare lentamente le spalle indietro per cinque volte, con un movimento circolare. Stessa cosa ruotando le spalle in avanti.

 

 

 

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Stretch laterale

Stretch Laterale
Scopo: rilassare i muscoli laterali della schiena
Intrecciare le dita e sollevare le braccia sopra la testa, tenendo i gomiti dritti. Allungare i fianchi, lentamente, a sinistra e poi a destra.

 

 

Schiena

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Stretch del gomito

Stretch del gomito
Scopo: allungare i muscoli medi e superiori della schiena.
Tenere il braccio destro, appena sopra il gomito, con la mano sinistra. Spingere delicatamente il gomito verso la spalla sinistra. Tenere per 5 secondi. Ripetere con il braccio sinistro.

 

 

  Stretch gomito
Piegamento delle ginocchia

Piegamento delle ginocchia
Scopo: allungare la zona lombare schiena e le gambe.
Afferrare la gamba e sollevarla dal pavimento. Piegare in avanti e, se si riesce, raggiungere il naso con il ginocchio. Ripetere con l’altra gamba.

 

 

Gambe

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Stretch del polpaccio

Stretch del polpaccio
Scopo: allungare i muscoli della caviglia.
Raddrizzare la gamba e sollevarla dal pavimento. In alternativa, flettere la caviglia (puntare le dita dei piedi verso l’alto) ed estendere (puntare le dita dei piedi verso il basso). Ripetere con l’altra gamba.
Posizionare i piedi piatti sul pavimento. Con una gamba dritta, sollevare un piede a pochi centimetri dal pavimento, tenere momentaneamente, e ritornare con il piede a terra. Ripetere con l’altra gamba.

Per concludere, ci tengo a dire, come osteopata, che credo molto nel fatto che i datori di lavoro possano migliorare l’efficienza e il morale dei dipendenti, adattando le tecniche di prevenzione posturali ed ergonomiche. Le attività diventano meno faticose e i il benessere dei lavoratori, sia a livello fisico che mentale, migliora anche le loro prestazioni.

L’INTERVISTA
Con ‘mister’ De Biasi
alla scoperta
del pianeta Albania

Di lui – che trionfalmente ha trascinato il Modena in serie A, per poi ripetere l’impresa con il Torino e allenare nella massima serie il Brescia di Baggio, oltre ai granata e all’Udinese – si sono ricordati tutti, in questi giorni. La vittoria dell’Albania (della quale da tre anni è commissario tecnico) in Portogallo ha fatto scalpore. Noi, a Gianni De Biasi – vecchio amico di Ferrara e della Spal, riportata in C1 alla fine del… secolo scorso – abbiamo chiesto di raccontarci quell’universo sconosciuto che, agli occhi della maggioranza degli italiani, è l’Albania. La prima domanda però, non poteva prescindere dal suo trionfo calcistico.

Sei reduce da una grande soddisfazione, la vittoria in Portogallo al debutto nel girone di qualificazione per il campionato europeo. Come è andata?
Abbiamo vinto all’esordio di questa qualificazione all’Europeo 2016 contro una squadra che è all’undicesimo posto nel Ranking Fifa! Sicuramente siamo stati fortunati perché fra i lusitani mancava Cristiano Ronaldo, ma credo altresì che farei un torto ai miei ragazzi se non riconoscessi che l’Albania ha messo in campo le armi di cui dispone: organizzazione, agonismo determinazione e voglia di stupire.

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Il centro di Tirana, capitale dell’Albania

Che Paese è questa Albania?
Dopo gli anni della dittatura e la caduta di Enver Hoxha, l’Albania si sta pian piano avvicinando all’Europa. E’ un Paese che sta con fatica cercando di mettersi al passo con il resto dell’Occidente. Tutto è concentrato nella capitale e in poche altre città come Durazzo, Valona e Scutari. È un paese in gran parte montagnoso, con coste bellissime in particolare da Valona verso la Grecia. L’estate scorsa ho fatto un tour in bici con alcuni amici e ho incontrato, specie nei paesi di campagna, una grande accoglienza e generosità che ha sorpreso anche loro.

Hai avuto difficoltà ad ambientarti?
No, diciamo che mi sono trovato da subito bene, il fatto che molti albanesi parlano la nostra lingua, mi ha aiutato moltissimo nelle relazioni. Per ragioni logistiche non passo molto tempo a Tirana perché molto del lavoro viene svolto nello scouting in giro per l’Europa, vivo spesso all’estero tra un viaggio e l’altro. Ho però casa a Tirana e sono iscritto all’Aire (Anagrafe italiani residenti estero).
Trovare amici non è stato difficile, ne ho parecchi sia tra alcune persone della Federazione, sia tra i giornalisti, che tra i molti italiani che vivono qui.

In Italia dell’Albania se ne sa davvero poco e prevale uno stereotipo negativo a causa dell’attività di alcune bande criminali. Ma i miei amici albanesi dicono che quelli che sono delinquenti qui da noi lo erano già in patria, dove entravano e uscivano dalle galere. E appena hanno potuto sono scappati all’estero. Lì la situazione com’è dal punto di vista dell’ordine pubblico e qual è l’atteggiamento e il carattere delle persone?
Purtroppo la fama degli albanesi, da noi, è quella del delinquente che ruba nelle case o che gestisce traffici di droga o prostituzione. In patria non vedo e non sento episodi criminosi legati a rapine in banca o scippi e nelle case. Io giro tranquillo per Tirana senza problemi. La microcriminalità non la vedi e Tirana, a parte il caos legato al traffico, è una città abbastanza tranquilla da questo punto di vista. Poi c’è la città della sera e dei ragazzi che hanno voglia di vivere e ci sono molti ristoranti e disco bar molto belli.

Cos’è rimasto del vecchio regime comunista?
La mentalità è aperta, moderna. Del vecchio regime rimangono solo poche testimonianze simboliche, con l’evidente eccezione del Mausoleo che trovi vicino al Boulevard principale. Molti edifici invece richiamano il periodo fascista con strutture di grandi dimensioni e lo stesso stadio Qemal Stafa è stato costruito dagli italiani e si richiama per concezione all’Olimpico di Roma.

A breve è prevista dal visita di papa Francesco. C’è attesa? E tu ci sarai?
Spero di poter partecipare e magari incontrare il Pontefice. Mi affascina quest’uomo così vicino alla povera gente, che parla spesso a braccio ma con il cuore e con un linguaggio semplice ma essenziale. L’Albania è suddivisa in tre religioni monoteiste: mussulmana la maggior parte, ortodossa una buona percentuale specie verso il sud e cattolica percentuale più bassa. Però non ci sono conflitti legati alla religione ed ognuno è libero di professare la propria fede.

C’è qualche luogo dell’Albania che ami particolarmente?
Come ti dicevo la costa sud è molto bella, poi sono rimasto affascinato da Berat una cittadina molto ricca di storia e chiamata anche “delle mille finestre” e Patrimonio dell’Unesco.

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Gianni De Biasi con il bomber Cancellato ai tempi della Spal

I tuoi progetti futuri? Nostalgia dell’Italia e del campionato nostrano? E Ferrara? E la Spal?
Per il momento l’unico obiettivo è di portare avanti il “progetto Albania” cercando di crescere giorno per giorno, di non addormentarsi per un successo all’esordio e facendo tesoro dell’esperienza acquisita nell’ultima qualificazione ai mondiale, sfumata nelle battute finali.
Ferrara mi ricorda momenti belli (avevo quarant’anni allora), la promozione e la Coppa Italia. Città molto bella a misura d’uomo e con un duomo e un castello che da soli valgono un lungo viaggio.
La Spal vive, ahimè, un periodo difficile, però niente può cancellare il fascino della storia e l’affetto degli spallini! In fondo, il periodo di grande difficoltà economica che vive il nostro Paese si riflette gioco forza sul calcio e anche Ferrara non sfugge a questa situazione.

 

Già, anzi. A giudicare, per esempio, dai dati sulla disoccupazione, per una volta – purtroppo – la città si sente addirittura epicentrica…

Ferrara Balloons Festival: il programma di venerdì

da: ufficio stampa Ferrara Fiere Congressi

Il Ferrara Balloons Festival, l’evento sulle mongolfiere più importante in Italia e tra i principali in Europa, si avvicina al secondo weekend al Parco urbano “Giorgio Bassani” di Ferrara, dove proseguirà fino a Domenica 21.
La manifestazione, giunta alla decima edizione e organizzata dal Comune e dalla Provincia di Ferrara, con il supporto di A.T.I. Mongolfiera, ha recentemente ottenuto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la Medaglia di rappresentanza in quanto evento meritevole nei rapporti con la società civile e dal Ministero del Turismo il riconoscimento di “Patrimonio d’Italia”.
Il programma della giornata di Venerdì 12 si aprirà immancabilmente con i voli dei giganti dell’aria: le mongolfiere degli equipaggi italiani e stranieri coinvolti nel Festival spiccheranno il volo libero alle 7.30 e alle 17, mentre i decolli vincolati si svolgeranno in successione dalle 17.30 alle 20.30.
Alle 8.30 suonerà per l’ultima volta la campanella dell’“Educamp – Scuole aperte per ferie!”, il campo multidisciplinare promosso dal CONI – Comitato Regionale Emilia-Romagna, che propone ai bambini dai 6 ai 14 anni sport e attività formative fino alle 18.00.
Dalle 9 alle 20 sarà pienamente operativo lo stand interattivo dell’Aeronautica Militare – C.O.A. Poggio Renatico, dove sarà possibile ammirare alcune delle strumentazioni di punta dell’AM.
Nella stessa fascia oraria, il pubblico baby del Festival potrà prendere parte ai laboratori didattici a cura di Dopla-Wigo.
Il pomeriggio al Parco urbano inizierà all’insegna dello sport, alle 16, con le prove libere di tiro l’arco, sotto la guida attenta e qualificata degli istruttori della Compagnia Arcieri e Balestrieri Filippo degli Ariosti, e quelle di duathlon (bicicletta e corsa), a cura del C.U.S. Ferrara Triathlon.
Dalle 16 alle 22 la Città Magica allestita dall’Ente Palio di Ferrara e dal Rione Santo Spirito accoglierà i visitatori nel proprio mercato rinascimentale, offrendo spettacoli di rievocazione storica e ottimi piatti della tradizione da gustare presso la locanda “La Sganzega”.
Di nuovo sport alle 17.30 e alle 18, rispettivamente con l’esibizione di pattinaggio artistico a cura dell’A.S.D. Quadrifoglio e con la lezione dimostrativa e le performance di Ju Jitsu promosse dall’A.S.D. Ju Jitsu Italia – sezione di Ferrara.
Occhi puntati al cielo alle 18 e non solo per i voli delle mongolfiere: a quell’ora atterrerà, infatti, al Parco Bassani l’elicottero NH500 dell’Aeronautica Militare.
Dopo il tramonto, terminate le partenze dei balloons, sarà di scena la musica, per chiudere la serata sulle note dei Bitter Coconut Deadfire e Dj Fist, al Camelot Cafè, oppure per ascoltare la Big Solidal Band presso la Città Magica.

Festivalfilosofia, dalla gloria alla celebrità. Una riflessione attuale

Tornano i giorni di Festivalfilosofia. Da domani (venerdì 12) a domenica 14 a Modena, Carpi e Sassuolo sono in programma quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. Tra i protagonisti Bodei, Bauman, Augé, Nancy, Galimberti, Marzano, Severino, Recalcati, Bianchi, Baricco e Bergonzoni.

Un termine apparentemente desueto come quello di “gloria” si rivela dispositivo efficace per mettere a fuoco una questione cruciale dell’esperienza contemporanea: la celebrità. In programma a Modena, Carpi e Sassuolo dal 12 al 14 settembre in 40 luoghi diversi delle tre città, la quattordicesima edizione del festival prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti.

Il festival, che lo scorso anno ha registrato oltre 200 mila presenze, è promosso dal “Consorzio per il festivalfilosofia”, i cui fondatori – ovvero i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena – sono i soci storici che hanno partecipato alla realizzazione del festival fin dalla prima edizione.

Piazze e cortili ospiteranno oltre 50 lezioni magistrali in cui maestri del pensiero filosofico si confronteranno con il pubblico sulle varie declinazioni contemporanee della gloria. Il percorso tematico prenderà le mosse dal suo carattere splendente, che rimanda al potere attrattivo della luce, a un tempo condizione di visibilità e meta di ogni desiderio di elevazione. Quando si associa la gloria alle stelle, si opera dunque qualcosa di più di una semplice metafora. In questa chiave prenderà rilievo propriamente filosofico anche il fenomeno tutto contemporaneo delle “vite spettacolari”, che ha al suo centro la visibilità e la messa in luce di sé. Le trasformazioni dell’ambizione e la riabilitazione dell’onore indicheranno nuove implicazioni antropologiche e morali del riconoscimento sociale, fino a giungere alle nuove sfide della democrazia alla prova del consenso mediatico. Senza dimenticare che la gloria è un tentativo di lasciare una traccia, un’impronta riconoscibile, non solo nei monumenti materiali, ma anche nella rappresentazione immateriale di sé tipica dei social media.

Quest’anno tra i protagonisti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Giacomo Marramao, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Severino, Carlo Sini, Gustavo Zagrebelsky e Remo Bodei, Presidente del Comitato scientifico del Consorzio. Nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francesi Jean-Luc Nancy, Miguel Abensour (spagnolo di nascita), Nathalie Heinich e Marc Augé, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio; il franco-libanese Milad Doueihi; il tedesco Gernot Böhme; i britannici Zygmunt Bauman ed Ellis Cashmore; lo spagnolo Javier Gomà. In brillanti fuori pista saliranno in cattedra due protagonisti della narrativa e del teatro. Alessandro Baricco (lectio Rotary) leggerà e commenterà le gesta di Achille nell’Iliade, mentre Alessandro Bergonzoni pronuncerà sulla gloria un intervento pirotecnico e sorprendente.

Il programma filosofico del festival propone anche la sezione “la lezione dei classici”: esperti eminenti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema della gloria, dal thymos platonico alla dottrina della magnanimità in Aristotele fino alla teoria dell’onore di Tommaso d’Aquino. Tra gli autori moderni, Guicciardini servirà per mostrare gli effetti dell’ambizione sulla scena politica, mentre con Hobbes emergeranno gloria e vanagloria come passioni del potere. Passando per lo snodo di Hegel, si incontrerà il tema cruciale del riconoscimento, mentre, arrivando alle questioni novecentesche, con Max Weber prende forma l’idea di potere carismatico e con von Balthasar la discussione teologica della Gloria si salderà alla teoria estetica.

Se le lezioni magistrali sono il cuore della manifestazione, un vasto programma creativo, in via di definizione, coinvolgerà narrazioni e performance, musica e spettacoli dal vivo, di cui saranno come d’abitudine protagonisti alcuni beniamini del pubblico. Non mancheranno i mercati di libri e le iniziative per bambini e ragazzi.

Oltre 30 le mostre proposte in occasione del festival, tra cui una personale di Mimmo Jodice, una mostra sull’iconografia di gloria della dinastia estense, una su Jamie Reid e lo schiaffo al potere del Punk inglese (con il sostegno di Gruppo Hera), una sulle celebrità in figurina, una sul ciclo affrescato dei Trionfi petrarcheschi nel Palazzo dei Pio di Carpi, e una dei ritratti Tullio Pericoli.

E, accanto a pranzi e cene filosofici ideati dall’Accademico dei Lincei Tullio Gregory per i circa settanta ristoranti ed enoteche delle tre città, nella notte di sabato 15 settembre è previsto il “Tiratardi”, con iniziative e aperture di gallerie e musei fino alle ore piccole.

(a cura di MediaMenteComunicazione)

Infoline: Consorzio per il festivalfilosofia, tel.059/2033382 e www.festivalfilosofia.it

LA STORIA
Feshion coupon, un successo ferrarese

“La cosa è cominciata quasi per gioco: ero cliente Groupon, ma molto spesso non riuscivo a trovare le offerte che mi interessavano qui nella mia città, a Ferrara. Perciò ho pensato di provvedere direttamente”. Alessandra Scotti racconta così la nascita di Feshion coupon, un marchio ferrarese che in un anno ha conquistato già qualche centinaio di clienti e conta oltre centomila persone che almeno una volta hanno visitato il sito.

“All’inizio ero partita con l’idea di creare delle opportunità di risparmio per me e la mia cerchia di amici e conoscenti, poi la cosa ha rapidamente preso piede ed è diventata un lavoro”. Un lavoro al quale Alessandra, che nella vita è ricercatrice universitaria a Farmacia, dedica tempo, passione e intelligenza. “La mia ambizione sarebbe quella di andare avanti nel percorso universitario, studiare mi è sempre piaciuto e non mi ha mai pesato. Però mi rendo conto che la strada è complicatissima. Così mi sono trovata e svolgere mansioni slegate da quella che è la mia formazione: abituata a composti e formule, mi sono dovuta cimentare con marketing, comunicazione, relazioni pubbliche. Devo ammettere che mi diverto e dedico a questa attività tutto il tempo necessario. E non mi sono mai fatta problemi sui sabati o le domeniche: quando serve si lavora anche la notte”.

Alessandra non lesina l’impegno: è operativa sedici ore al giorno di media e non lamenta la fatica. “La sera mi addormento serena, la mattina mi sveglio felice. Feshion è capitato per caso e spontaneamente ha preso piede, come quasi tutte le cose della mia vita”. Alessandra è giovane, 28 anni, ma dimostra consapevolezza e maturità. A questo equilibrio contribuisce Mirko, marito e prezioso consigliere. “Ci siamo conosciuti a scuola, stiamo insieme da sempre. Siamo molto affiatati e ci sosteniamo l’un l’altro”.

Dall’idea iniziale, quella dei coupon legati a promozioni commerciali, si è presto passati a un disegno più ampio. “Per farci conoscere abbiamo utilizzato Facebook, funziona benissimo!”. Alessandra è lanciata ora anche su eventi e iniziative, alcuni dei quali rivestono pure una valenza sociale. Come la ‘pizza street’, “un’idea nata parlando con gli amici Riccardo e Ylenia della pizzeria da asporto ‘Andrea e Lauretta’ di via Voltapaletto. Ci siamo posti l’obiettivo di fare qualcosa per animare la via, nell’ottica delle social street tanto in voga. Il primo anno, nonostante il maltempo è andata benissimo, questo fine settimana replichiamo e speriamo di coinvolgere ancora più persone”. E, con il coinvolgimento di partner istituzionali, sono nati anche ‘Ferrara in fiaba’, il ‘Cappellaccio street’ in via Cortevecchia, ‘l’Aperishow della domenica’…

“Quando mi sono resa conto che il gioco poteva diventare un lavoro ho costituito la società”. In questo modo, oltre a creare una redditizia occupazione per sé, Alessandra ha coinvolto altre quattro persone che la affiancano nel lavoro quotidiano. Conta infatti, oltre che sul sostegno, non solo morale, del marito Mirko Marangella, anche su Miriam Previati, grafico del gruppo, Antonella Schena che cura il filone delle iniziative rivolte alle famiglie e Barbara Manzoli che si occupa di quelle turistiche.

“Feshion è un marchio al quale sono affezionata – confessa Alessandra – perché ingloba l’idea di Ferrara, la città che con Mirko abbiamo scelto sette anni fa per viverci. Ed è Feshion la matrice attorno alla quale sviluppare gli ipotetici rami aziendali: i coupon, gli eventi, i corsi di formazione…”. Già, perché anche la corsistica è entrata a far parte del mondo di Feshion: cucina, fotografia, lingue, make up, manicure, barman, avvicinamento al vino e tante altre idee che prenderanno forma prossimamente.

Prima di arrivare a questo traguardo, Alessandra ha conseguito la laurea in Farmacia, facendo al contempo la ragazza immagine per sostenersi negli studi; ha vinto un dottorato di ricerca che le consente tuttora di continuare a coltivare la sua passione. E poi ha scoperto questa sua nuova vocazione. Ma si è guadagnata ogni cosa. “Studiare continua a piacermi e ad appassionarmi. Però con l’assegno da ricercatore dell’Università non si campa. Penso tuttavia che ci sia modo di trarre da qualunque cosa un’opportunità di guadagno, basta saperla inquadrare nel giusto verso”. E così ha fatto lei. Che ai suoi coetanei raccomanda di “non rassegnarsi, di scegliere su cosa puntare e di perseguire con convinzione e fiducia i loro obiettivi”.

A Montezemolo 27 milioni di euro, quei soldi sono anche nostri

La notizia che Luca Cordero di Montezemolo è stato liquidato dalla sua carica di presidente della Ferrari con una buonuscita di 27 milioni di euro è stata riportata dalla stampa con accenti lievi e con i toni della nota di colore. C’è stata una semplice presa d’atto, forse perché non è un politico, non si è infierito. A me la cosa fa ‘leggermente’ indignare. In generale, specie in una situazione di crisi come quella attuale, il fatto di per sé appare immorale. Ma nello specifico, vale la pena ricordare che il Gruppo Fiat, del quale Ferrari fa parte, dal 1977 al 2013 ha beneficiato di 7,6 miliardi di euro di finanziamenti statali. Possiamo quindi dire che quei soldi sono usciti anche dalle nostre tasche.

IL FATTO
Al via il Mercato della Terra in Alfonso I d’Este: buon cibo, cultura e socialità

Sarà come andare ad un’allegra festa paesana: da metà ottobre tutti i sabati mattina ci saranno banchetti e stand di produttori locali, assaggi di cibi particolari, e poi teatro, musica e cultura, il tutto nella cornice del baluardo della Montagnola, una delle zone più belle della città.
Grazie ad un’attenta opera di riqualificazione urbana dell’area, dopo la scelta di collocare negli edifici degli ex magazzini Amga la sede di alcune associazioni culturali come Sonika, la Musi jam (ex Banda filarmonica F. Musi) e il Teatro di Ferrara Off, l’Assessorato alla cultura va oltre, ospitando nel cortile della “cittadella” ex Amga il Mercato della Terra di Slow Food, che da metà ottobre arricchirà con il mercato dei piccoli produttori agricoli il panorama di proposte dedicate alla cittadinanza.
Abbiamo incontrato i protagonisti di quest’interessante operazione, l’assessore alla Cultura Massimo Maisto e il dirigente di Slow Food Italia Alberto Fabbri; per conoscere il punto di vista delle associazioni, ci siamo rivolti a Marco Sgarbi e Monica Pavani di Ferrara Off.

Cominciamo proprio da questi ultimi, “A ottobre avrete un nuovo inquilino, una presenza che un po’ si scosta dal vostro ambito. Cosa ne pensate, voi associazioni, di questo connubio tra attività culturali della città e produzioni enogastronomiche del territorio?”
“Ne siamo molto contenti, e condividiamo la volontà dell’amministrazione di valorizzare e revitalizzare la zona di via Alfonso I d’Este – Bagni ducali, nella quale stanno investendo da diversi anni. In questo senso, anche il Mercato della Terra rientra nell’ottica di creare un movimento di persone che possano essere attirate al tempo stesso da un’economia territoriale e da attività artistiche produttive locali.”

Come pensate di organizzarvi e di interagire con il Mercato della Terra, e soprattutto con la clientela che entrerà nella “cittadella”.

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Azione teatrale all’aperto, nel retro del Teatro Off

“Da parte di tutte le associazioni riunite all’interno della struttura c’è la volontà di essere attive durante le mattinate di ogni sabato, e di offrire a chi frequenta il mercato “assaggi” di lavori teatrali in fase di allestimento, prove aperte di musica, teatro e letture. Abbiamo scelto di non proporre spettacoli o letture completi, perché la gente verrà principalmente per assaggiare e comprare prodotti gastronomici. Ci piace però l’idea di “tenere aperte le porte” del teatro, dando la possibilità di assistere a performance già in atto, entrando e uscendo con grande libertà, o anche solo per dare una sbirciatina agli spazi, che sono appena stati ristrutturati e sono bellissimi.”

Possiamo quindi dire che chi verrà in Alfonso I d’Este il sabato mattina avrà la possibilità di fare assaggi di prodotti locali e assaggi di produzioni teatrali al tempo stesso, è così?

“Sì, un assaggio, una prova, qualcosa da gustare in velocità… in questo senso avevamo infatti trovato anche una sorta di slogan, abbinando “slow food” a “fast theatre”, tanto per rendere l’idea. Se volessimo trovare anche una relazione a livello “semantico” tra il Mercato della Terra e la fruizione di attività culturali, potremmo dire che entrambe le attività produttive, quella agro-alimentare e quella teatrale, mirano a “coltivare” prodotti locali, farli crescere e promuoverli, a beneficio dell’intera comunità.”

All’Assessore Maisto abbiamo chiesto se c’è effettivamente una visione programmatica in tutto questo, e quali considerazioni hanno portato alla decisione di scegliere il cortile degli ex-magazzini Amga come location per il Mercato della Terra di Slow food.
“Abbiamo preso in considerazione diversi posti come il Chiostro di San Paolo, il Giardino delle Duchesse e il cortile degli ex-magazzini Amga. Alla fine, in totale accordo con gli organizzatori, abbiamo preso una decisione in funzione di tre obiettivi. Il primo obiettivo è coerente ad un mandato del Sindaco, che ci chiede di allargare il centro storico: più volte il Sindaco ha detto che va benissimo valorizzare le nostre piazze, ma non ci sono solo le principali, piazza Castello, piazza Municipale, piazza Travaglio, ma anche tante altre zone della città in pieno centro o limitrofe da valorizzare. Ecco quindi che ci piaceva l’idea di porre l’attenzione su un luogo bellissimo, una delle zone più belle della Mura, che però nell’ottica ferrarese viene ancora percepita come “periferica”, quando in realtà si trova all’interno delle Mura, in pieno centro storico. La scelta di portare ai Bagni ducali lo stesso Assessorato, di organizzare il Reload Music Festival, di ospitare la sede di associazioni culturali, prima la Banda Musi, Sonika e ora il Teatro off, significa che l’Amministrazione si è data da tempo l’obiettivo di avviare una riqualificazione a tutto tondo di una zona che era stata un po’ abbandonata.
E questo si collega al secondo aspetto: per noi la riqualificazione della zona Baluardo delle Mura – Bagni ducali è sempre stato un progetto anche culturale, altrimenti il mercato di Slow Food sarebbe finito semplicemente nella logica commerciale di tutti gli altri mercati. E quindi la risposta è sì, alle spalle c’è un ragionamento che mira al recupero della tradizione enogastronomica, della cultura dei nostri prodotti, della filiera corta, e che si vorrebbe venisse accompagnato da iniziative di divulgazione dirette (ossia riferite ai prodotti commercializzati) e di tipo culturale, nel senso di rendere la situazione più vivace e piacevole con le proposte artistiche delle associazioni. Va detto che la disponibilità del luogo, durante le mattine dei sabati in cui ci sarà il Mercato, non sarà riservato alle associazioni che lì hanno sede, ma sarà aperto a tutte quelle che vorranno costruire iniziative. Rendere la location un luogo produttivo e ricreativo è un punto su cui stiamo puntando molto e di cui personalmente vado abbastanza orgoglioso.

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Il Mercato della Terrara di Slow Food a Bologna

Il terzo obiettivo, più legato a dire il vero ad una scelta degli organizzatori, era quello di distinguersi dagli altri eventi che si svolgono in centro. Slow Food è un marchio forte, ha un’identità autonoma, e quindi può permettersi di differenziarsi. La loro è stata comunque una scelta coraggiosa, soprattutto per una città come Ferrara, perché hanno deciso di puntare su coloro che scelgono effettivamente di acquistare prodotti locali e di qualità recandosi al Mercato della terra. Del resto Slow Food ha fatto la stessa scelta anche a Bologna: il Mercato della terra si tiene in p.tta Pasolini, nello spazio antistante il Cinema Lumière, che è in centro ma non in un luogo di passaggio. A Bologna è andata molto bene, speriamo lo stesso avvenga anche a Ferrara. Ci tengo a sottolineare che il Mercato della terra di Ferrara è il secondo mercato di Slow Food in una città capoluogo dell’Emilia Romagna, dopo Bologna; a parte quelli di Colorno e Imola, in regione non ce ne sono altri.”

Al dirigente di Slow Food Italia Alberto Fabbri abbiamo chiesto come vede l’inserimento deI Mercato della Terra in questo contesto di associazionismo culturale già presente nella location prescelta.

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Logo di Slow Food

“Il contesto che abbiamo trovato in Alfonso I d’Este è l’ideale, perché i Mercati della Terra rientrano in un progetto prima di tutto culturale. Non è un caso che il rapporto sia nato con l’Assessorato alla cultura. Ci abbiamo messo un paio di anni per trovare il luogo giusto, abbiamo fatto diverse visite a Ferrara e vari sopralluoghi, ma c’era sempre qualcosa che non si adattava alle nostre esigenze: il Chiostro di San Paolo riscontrava problemi di agibilità, il Giardino delle Duchesse grosse difficoltà logistiche per via della collocazione in pieno centro storico. Quando il vicesindaco Maisto ci ha proposto il cortile dell’ex Amga abbiamo capito che quello era il posto giusto, e la presenza delle associazioni culturali è stato un motivo trainante per noi. Quella che è avvenuta è stata una coniugazione naturale.”

Come pensate di relazionarvi con le associazioni? Loro pensano di proporre “assaggi” di teatro, letture e musica, vi piace l’idea?
“Le associazioni hanno dimostrato una grande disponibilità ad ospitarci, quindi vogliamo entrare in punti di piedi. Nel mese di settembre metteremo a calendario una serie di incontri per sviluppare insieme un rapporto fecondo e creare un bel luogo di socialità. L’idea degli assaggi ci piace molto ed è proprio in linea con la nostra filosofia, perché il Mercato ha tre obiettivi: il primo è quello di realizzare un mercato di economia locale a favore dei piccoli contadini; il secondo, dare la possibilità ai consumatori di fare la spesa settimanale offrendo un’ampia gamma merceologica, dal pesce alla carne, da frutta e verdura ai formaggi, ecc.; il terzo obiettivo è ospitare ogni volta un presidio Slow Food italiano, proprio per proporre alla clientela assaggi di prodotti diversi, provenienti dalle varie parti del Paese e lavorati con il principio del Buono, Pulito e Giusto, come recita il nostro motto”.

Quanti saranno i produttori presenti al sabato mattina e a quando il primo appuntamento?
“Abbiamo selezionato una trentina di produttori del territorio, alcuni saranno fissi, altri ruoteranno in funzione della stagionalità. Diciamo che ogni sabato ci saranno 20/25 produttori-espositori. L’inaugurazione sarà sabato 18 ottobre, dopodiché partiremo con un periodo di sperimentazione che durerà fino a dicembre, fase necessaria per tarare il tutto; da gennaio, invece, contiamo di essere a regime.”

L’INTERVISTA
Il Vesuvio, ferita e feritoia che fa riscoprire il senso della vita

Il regista Gianfranco Pannone ci parla del suo ultimo film documentario “Sul Vulcano”, viaggio poetico e filosofico alla scoperta della precarietà e di un fatalismo positivo, che resiste alla cieca e distruttiva azione degli uomini.

Domani, giovedì 11 settembre, al cinema Farnese di Roma sarà proiettato “Sul Vulcano” di Gianfranco Pannone, in occasione della rassegna “Locarno a Roma”. Il film documentario, prodotto dalla Blue Film con Rai Cinema e con il contributo del Mibact, dà una lettura poetica e filosofica della vita ai piedi del Vesuvio. Tra storie di vite vissute, preziosi materiali d’archivio ed evocazioni letterarie che vanno da Giordano Bruno al Marchese De Sade, da Giacomo Leopardi a Curzio Malaparte. Sul Vulcano fa sorgere spontanea una domanda: com’è stato possibile, tra case abusive e discariche d’ogni genere, produrre tanta bruttezza in così tanta bellezza?
Ferraraitalia ha intervistato in anteprima Gianfranco Pannone.

Gianfranco, tu hai scritto che Sul Vulcano prova a dare un senso a una “terra pazza”, che infine rappresenta tutti noi. Che cosa intendi?
Intendo dire che il Vesuvio è un po’ un’icona, un simbolo, del nostro Paese, dove esiste un mix del tutto particolare, paradossale, tra la vita degli uomini e la conformazione geologica del territorio. E’ il luogo dove la natura può riprendersi tutto all’improvviso, dove allo stato di incertezza si aggiunge una sorta di non senso, una follia malinconica quasi, della precarietà. Quando penso a Napoli e al territorio partenopeo penso a un Italia al quadrato, dove ci sono ferite aperte che diventano feritoie. Sarà un’idea forse un po’ troppo cristiana, ma credo davvero che la creatività umana passi attraverso la sofferenza, la ferita. E che Napoli, la Napoli di Edoardo de Filippo o di Troisi, ad esempio, sia l’incarnazione di questa malinconia che si fa creazione artistica. Poi,ovviamente, c’è la grande questione ambientale di un territorio dove l’urbanizzazione dissennata ha distrutto l’antica bellezza, in meno di un cento anni, così come avviene in molti altre parti d’Italia, basta seguire la cronaca e i continui casi di frane, alluvioni, dissesti geologici. E’ come se ci fosse una incoscienza collettiva, un fatalismo dissennato, con cui, per primi i politici, sembrano ignorare che si è a un passo dalla tragedia. Una follia negativa, che ha cancellato per sempre l’antica saggezza contadina rispettosa dell’equilibrio della natura.

Il fato è un tema partenopeo, certo, ma che tu, nel tuo lavoro, intrecci con molti riferimenti letterari…
Il fatalismo è una componente dei popoli partenopei e, in particolare, dei popoli che vivono “ai piedi della montagna”, il Vesuvio appunto. Una caratteristica che li accomuna anche ai siciliani, che vivono ai piedi dell’Etna e quindi anch’essi in una terra precaria, all’interno di un Paese precario. Il fatalismo però ha due facce. Una negativa, che è una sorta di cecità dissennata in base alla quale si può fare tutto e non controllare nulla, quella per cui si accetta tutto: discariche abusive, infiltrazioni camorristiche, urbanizzazione senza regole. E una positiva, che potremmo identificare con il panteismo di Giordano Bruno, che, non a caso, è nato a Nola. Nei brani del filosofo che ho scelto per il documentario, affidandoli alla voce di Toni Servillo, si parla del Vesuvio come di un amico che ti fa conoscere la vita, che te la fa apprezzare proprio perché così incerta e “sotto scacco”, a rischio tragedia. Questo fatalismo positivo nasce da un profondo rispetto per la natura ed è una dichiarazione di umiltà. Credo sia utile riscoprirlo in un’epoca come la nostra, dove è evidente che il mito del ‘900 dell’uomo che può controllare tutto e imbrigliare la natura è smentito dai fatti quotidiani. La natura dà e in un colpo solo può riprendersi tutto. Solo rispettando questo possiamo cogliere il senso della ricerca della vita nella morte, del sorriso nel pianto, come in qualche modo è rappresentato anche dalla maschera di Pulcinella, sintesi della drammaticità e della comicità malinconica partenopea.

Uomo e natura, anche in questo lavoro inviti a riflettere sul legame tra la vita delle persone e la vita del territorio. Che cosa simboleggiano i tre protagonisti Maria, Matteo e Yole?

Maria, Matteo e Yole sono tre vite ai piedi del Vesuvio, in un luogo unico al mondo, ricco di miti, storia ed evocazioni letterarie. Maria, che vive e lavora in un’azienda florovivaistica ai piedi di una villa vesuviana in abbandono, “coltiva” anche le proprie curiosità intellettuali ed è una custode discreta del vulcano. Matteo, pittore di talento, rimette in gioco le sue opere fatte con la lava, testimonianza di un legame profondo con la terra da cui non si è mai staccato. Yole, cantante “neomelodica”, vive la propria libertà di giovane donna conciliandola con un’autentica devozione per la Madonna, espressione popolare di un sacro che ha sempre caratterizzato il Vesuvio, da Dioniso/Bacco a San Gennaro. Sono tre facce diverse di una Napoli un po’ fuori dagli schemi, sono tre custodi del tempio del Vesuvio, non ancora contagiati dall’indifferenza e dall’incuria collettiva. Malinconici sì, ma nel senso positivo del rispetto profondo per la vita.

Vedi il trailer [clic per guardare]

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La locandina del film

L’OPINIONE
Buona scuola, cattiva maestra

Capisco che bisogna governare, capisco che la scuola è un malato grave, che non c’è tempo per spremere le meningi ed è molto più facile copiare dal nostro vicino di banco, in questo caso gli Usa.
Le sorprese scolastiche di Renzi altro non sono che la fotocopia, adattata a casa nostra, del programma, non poco sofferto, dei democratici d’oltre oceano con la benedizione di Obama.
Non quello del 2002, quando la riforma della scuola guadagnò una indiscutibile influenza con l’approvazione della legge federale, No Child Left Behind Act (Nclb). Ma i risultati, poi, non furono quelli attesi, anzi, assai deludenti. I test scolastici nazionali dimostrarono impietosamente che molti studenti, specialmente quelli delle minoranze etniche nei centri urbani, non raggiungevano le competenze attese in lingua e aritmetica, mentre un nuovo tipo di scuola , la charter school, stava cominciando a competere con la scuola pubblica tradizionale.
Il programma di Renzi con lo zuccherino della prospettiva di circa 200mila assunzioni, di soli docenti, entro il 2019, sembra studiato apposta per evitare il contraccolpo dei sindacati all’inequivocabile introduzione del “merit pay”, salario di merito.
Forse è bene ricordare, a chi non ha letto Teachers Versus Public, pubblicato a Washington dal Brookings Institution Press nel 2014, cosa potrebbe succedere anche nel nostro paese.
Nel settembre del 2012 gli insegnanti di Chicago hanno costretto a chiudere le scuole della città per sette giorni e più, le loro rivendicazioni andavano ben al di là del solito. Oltre all’aumento di stipendio la Ctu, Chicago Teachers Union, protestava contro l’introduzione della giornata scolastica più lunga, la valutazione degli insegnanti basata sui punteggi degli studenti ai test, contro la retribuzione di merito, e la creazione delle charter school (i dirigenti e gli insegnanti del Ctu avevano letto Shock Doctrine di Naomi Klein, una denuncia della privatizzazione del pubblico in tutto il mondo).
Quello del reclutamento e della formazione degli insegnanti è comunque la prima delle emergenze della scuola italiana, che nulla toglie a quanti in tutti questi anni hanno continuato a formarsi a costo di sacrifici personali e, per i quali, si dovrà prevedere pure una forma di riconoscimento.
Chi lavora nella scuola sa benissimo, senza infingimenti, che gli insegnanti variano ampiamente nella loro efficacia nel determinare i risultati degli studenti, per cui occorre considerare con attenzione il ruolo critico che giocano reclutamento, assunzione in ruolo e retribuzione per il successo formativo degli studenti. È per questo che oggi in tutto il mondo le politiche dell’occupazione degli insegnanti sono sempre più sotto controllo, in particolare la loro formazione.
Del resto è difficile negare che il mantenimento della retribuzione basata esclusivamente sull’anzianità finisce per proteggere il lavoro degli insegnanti inefficaci e pone l’interesse della categoria al di sopra di quello degli studenti, oltre ad andare a scapito dei tanti docenti validi e fortemente motivati.
Bene, dunque, “la buona scuola” muove da “buoni insegnanti”, incentivati professionalmente dal merito. Non è mai troppo tardi. Nessuno di noi si farebbe curare da un medico inesperto e professionalmente non aggiornato. A scuola invece sì. Tanto la scuola non ammazza.
È proprio qui che si insinua il tarlo di una domanda elementare, viene cioè da chiedersi che differenza ci sia tra le proclamate riforme della scuola dei governi precedenti e questa “La buona scuola” del governo Renzi. Questo titolo tra il target e lo slogan, dovrebbe essere rassicurante, ispirare fiducia e ottimismo.
Invece, confesso, che appeno letto sono stato percorso da un brivido nella schiena. Un po’ perché foneticamente troppo parente con “Il buono scuola”, in questo caso una sorta di tagliando di revisione della macchina “sistema scolastico”, ma soprattutto, ciò che inquieta è la lunga ombra di decenni di “cattiva scuola” che il faro della buona scuola produce intorno a sé. È come quello che ti dice «quel bambino è buono, l’altro invece è cattivo» poi, se mai, nella realtà si rivela tutto il contrario. È come un buon piatto, non è detto che tale sia per tutti. D’altra parte per i nostri vecchi era buona la scuola dei loro tempi.
Il fatto è che dentro agli aggettivi qualificativi, buono, cattivo, ci sta tutto e il contrario di tutto.
E allora riflettendo sullo stato della nostra scuola, la “buona scuola” dà l’impressione di essere ferma all’infanzia dei pensieri, se si riflette sulla ben più complessa portata del discorso formativo oggi.
Il profilo della buona scuola tracciato dal governo pare i disegni della settimana enigmistica, quelli che unisci con linee i diversi punti e ti viene fuori una figura. Sono dodici i punti segnati dal governo da unire per avere una buona scuola.
Però tra questi punti non ci sono né i bambini né gli studenti. È possibile che ci sia una buona scuola che non muova prima di tutto da loro? No, loro non sono considerati, si prendano il piatto che gli adulti gli confezionano. Eppure si citano come padri della patria educativa Maria Montessori, Don Bosco, Don Milani, perfino Loris Malaguzzi. Non mi pare che la loro preoccupazione prima fosse la scuola, ma i ragazzi! Anzi con la scuola ce l’avevano su tanto!
Allora viene il sospetto che si voglia impastare un pane nuovo con la farina vecchia. Ed è così a leggere attentamente, dall’immissione in ruolo dei docenti a quello che fino ad ora, sulla carta, sarebbe stato possibile praticare, dall’organico funzionale ai rapporti con il territorio, all’apertura delle scuole, ma non si è fatto per mancanza di risorse e di personale, non per colpe di una generica cattiva scuola, ma per responsabilità precise di una cattiva politica e di cattivi governi.
Ora, è difficile allontanare il dubbio che la necessità di sistemare il personale prevarichi ogni riflessione vera sullo stato della scuola italiana, sulla pesantezza dei suoi curricoli, sul fatto che tutto si debba apprendere a scuola. Slogan come “cultura in corpore sano” usati nel 2014, sono per lo meno irritanti, oltre che fuori luogo. Dite piuttosto che avete bisogno di sistemare gli insegnanti di scienze motorie, l’integrazione tra scuola e territorio si fa riconoscendo che a scuola non può essere fatto tutto e che gli apprendimenti possono essere conseguiti nelle strutture e nelle istituzioni che agiscono con competenza nel suo contesto ambientale, è sufficiente dare loro dignità riconoscendoli come crediti. La scuola buona oggi è quella che è capace di pensare un sistema formativo integrato al servizio del diritto allo studio delle persone, di superare le classi, i voti, gli orari rigidi e le bocciature.
Ancora una volta non si tratta di scuola buona, ma di scuola ben fatta, capace di portare a compimento questa rivoluzione, che Montessori, Don Bosco, Don Milani e Loris Malaguzzi hanno a loro tempo praticato.
È un capitolo questo che ancora attendiamo venga scritto. La buona scuola potrebbe esserne la premessa, solo questo di tante speranze oggi ci resta. Diversamente anche questa buona scuola sarà una cattiva maestra.

Dialogo con Baratella sui massimi sistemi dell’arte. E sulla vita

Essere artista oggi è forse un ossimoro culturale, una contraddizione in termini? Me lo domando sempre più spesso. Forse dovrei girare la domanda a coloro i quali avevano innalzato l’opera umana all’altezza della Creazione divina ed essi stessi, confondendosi, si sono creduti esseri superiori in grado di competere con l’Ente supremo. Confusione estrema quando la religione usò questi personaggi per cantare le lodi del signor Dio, ché, se non l’avessero fatto, sarebbero stati cacciati direttamente all’inferno senza sepoltura consacrata: artisti maledetti li chiamavano. Oggi, comunque, il pericolo è scongiurato. Di chi vuoi mai cantare le lodi? Forse gli unici destinatari sono i signori del mercato, oggi è tutto mercato, I libri sono merce, le opere d’arte sono merce, se non chini la testa accettando la nuova divinità sei fuori, nessuno più ti prende in considerazione, sei finito, sei nulla. Non sono più riuscito a scacciare questi sgradevoli pensieri dopo aver visto, alla Fondazione Banca del Monte di Lucca, la mostra intitolata “Compianto” di Paolo Baratella, il vecchio fratello di teoretica con il quale da decenni mi sono abituato a confrontarmi. Ma non credi che tutto sia finito, che l’arte sia morta, che noi stessi siamo morti viventi. persone alle quali rimane soltanto di aprire la bocca che escono parole e ragionamenti preconfezionati? Non credi Paolo? E, se così è o fosse, che significato ha dipingere o scrivere se l’opera che confezioni è soltanto merce?
La risposta di Baratella è immediata e addolorata: “Se dovessi star dietro al clamore della sofferenza avrei già smesso di dipingere”. Senza volere e, soprattutto, senza insolenza, Paolo Baratella è salito sul piedistallo dell’arte per portare più in alto il male di vivere, un male straziante, talmente grande da diventare persino stupido, un’ingiustizia che chissà per quale ragione ci viene imposta così crudele. Nessuno sa, ma, peggio, nessuno cerca di trovare un rimedio, siamo ormai troppo vecchi e troppo esperti per credere alle moine vergognosamente insulse e false della politica: ognuno vuole vincere la competizione, la gara comincia presto, dai banchi di scuola e prosegue sempre più cruenta e che vinca non il migliore ma il più protervo, la regola è questa.

Per lunghi periodi, dico al Baratella, forse per anni, hai denunciato la violenza dell’uomo sull’uomo e, nel movimento della “Nuova figurazione”, ti sei ritagliato, anni Settanta, un posto importante: una nota critica a te dedicata dall’enciclopedia Garzanti afferma che il tema della condizione umana – tra mito, storia e cronaca quotidiana – ha continuato a essere al centro della tua pittura, “caratterizzata da un realismo visionario carico di simbologie e di citazioni”. Ora, dopo un lungo periodo rivolto al pensiero filosofico, in cui hai enfatizzato la ricerca niciana a cominciare dall’affermazione “Dio è morto”, sei tornato alla denuncia, violenta e commossa, della sopraffazione del potere sull’individuo. Scrive nella presentazione al catalogo della mostra Marco Palamidessi: “Non basterebbe venire al mondo più e più volte… per numerare, e perché no catalogare, gli enigmi che hanno scatenato, fecondato, afflitto, illuminato, turbato, scosso, plasmato lo spirito orgoglioso e le gesta di Paolo Baratella”. Ragione: soprattutto il Baratella “ha pensato”, mestiere difficile pensare, riesce a pochi. Eletti? Forse, ma sfortunati, niente di peggio al mondo che pensare.

Che cosa può fare oggi l’artista? si chiede Baratella, pittore migrante (Ferrara, Milano, Monferrato, Lucca). Risponde con una sua poesia: “Il tempo è scaduto/ Il mare è aperto/ Dove andare dunque?/ Mi sporcherò le mani di colore/ Chiedo una zattera/ L’onda anomala m’insegue/ Tutto si fa pittura/ Fino al più lontano orizzonte/ Nel radioso apparire di Pan/ Io sono”.
Dunque, tutto si fa pittura: la risposta è questa, per Paolo Baratella questa è sempre stata la risposta, sporcarsi le mani di colore e dipingere. Ha sempre dipinto con intelligente testardaggine, il mondo vada io dipingo: “che cosa dovevo fare – si chiede ora – dopo che Duchamp, precursore di quasi tutto, ma in primo luogo del nulla che andava predicando, ogni oggetto è opera d’arte? Fargli il funerale, come fecero Arroyo e Recalcati?” Domanda retorica; Baratella (sai Paolo?, gli confido) ha bisogno di dipingere, perché la sofferenza sia completa, si faccia colore, perché dipingere è cullare il proprio dolore, perché dipingendo si può piangere e la commozione è uno degli atti veri dell’uomo, ai quadri bisogna pur donare un’anima, non è vero ciò che ha scritto il premio Pulitzer Cunningham, secondo cui l’artista riproduce la nostra umanità nascosta, l’arte deve volare in un cielo tutto suo, anche se le gambe sono piantate per terra. Come dimostra questa mostra “Compianto – quattordiciquindicidiciotto la grande guerra”, dove è protagonista il fantaccino Bruno Baratella, zio del pittore, uscito dal macello voluto da politici assassini con il cervello colpito, spiega Paolo, da “trauma da esplosioni”. Il viso e il corpo minuto del fantaccino Bruno compaiono in ogni grande quadro, attonito spettatore delle esplosioni, degli scontri aerei, della morte che ti sta accanto muta e invincibile, nera nel mare di colori a volte corruschi, talaltra cupi, sempre traboccanti, un caos che soltanto la sapiente pittura baratelliana è riuscita a domare, o, almeno, a contenere. Paolo, gli dico, da questa mostra sono uscito commosso, era tanto tempo che non mi succedeva. E forse questa è la risposta, l’unica, che si può dare alla mia domanda iniziale. Commozione.

P.S. Una mostra così grande e importante non dovrebbe venire a Ferrara, alla vigilia dell’inizio della guerra di cent’anni fa?, chiedo ai politici della cultura.

INTERVISTE
Voci di piazza, Festivaletteratura visto dalla parte dei volontari

E’ calato il sipario anche sulla diciottesima edizione di Festivaletteratura. Ormai i record non sono più una sorpresa per la manifestazione mantovana che, come confermano i numeri a poche ore dal termine, sono aumentati rispetto agli anni passati: quasi 70 mila i biglietti venduti che, aggiunti ai partecipanti a eventi gratis e alle altre iniziative, delineano una presenza che va aggirandosi attorno alle 120 mila unità. Un traguardo veramente importante e soprattutto rassicurante per gli anni a venire, considerata anche la qualità e l’importanza degli ospiti del festival sempre molto amati dal pubblico.
Questo per me è stato il sesto anno consecutivo da volontario al servizio agli eventi, in quest’edizione ruolo impreziosito dalla nomina di responsabile di luogo, e posso tranquillamente confermare la notevole mole di lavoro aggiuntasi rispetto agli altri anni. Le strade di Mantova soprattutto nel weekend (e grazie al cielo, in tutti i sensi, viste le premesse meterologiche dei primi giorni) erano intasate, le code agli eventi chilometriche, le ore di attese sotto il sole interminabili. Non ho mai visto nella mia esperienza mantovana così tanti passanti girovagare per la città, scovare un angolo con in corso un evento, magari già incominciato e con posti a sedere esauriti, e volervici entrare lo stesso. Tutti sintomi che Festivaletteratura è più vivo che mai ed appassiona senza paura di coinvolgere chiunque, spesso anche quelli sulla carta più disinteressati.
Mi sono soffermato così a chiaccherare con i miei compagni di avventura provenienti sia dalla provincia che da altre parti d’Italia, riflettendo sul nostro operato e sulla fortuna di far parte di una macchina organizzativa divenuta veramente importante negli ultimi anni. Anche Edoardo, vent’anni e residente in provincia alla sua settima edizione da volontario, conferma che quest’anno c’era qualcosa in più rispetto agli anni passati e che “dopo tanti anni e tanta esperienza acquisita, questa volta arrivare a domenica è stata molto più dura, fisicamente e mentalmente. Ho visto nel tempo il festival evolversi e sono rimasto profondamente colpito e allo stesso tempo orgoglioso nel vedere come così tante persone, noi volontari in primis, riescano a fondersi in un tutt’uno con la città per tutta la durata dell’evento, creando una cornice per me unica in tutta la nazione”. Maddalena invece, 17 anni e proveniente da Verona, mette in risalto l’importanza “didattica” del festival: “è il mio secondo anno da volontaria a Mantova, opportunità offertami dalla scuola che propone a molti alunni come me di avanzare le candidature. Ho conosciuto tanti altri ragazzi che sono riusciti ad entrare nell’organizzazione di questo evento grazie alle scuole e penso che siano iniziative che non possano fare altro che aiutare i giovani, stimolandoli a partecipare in modo attivo ad eventi di questo genere”. Ilaria da Milano invece sottolinea la questione del volontariato come “spinta fondamentale per fare funzionare queste manifestazioni, divenute famose oggi ma nate anni fa con l’aiuto di tante persone e pochi spiccioli . Da anni nel mio comune sono attiva come volontaria in diverse associazioni ed in parrocchia, Festivaletteratura mi ha dato la possibilità di scoprire altri volti del volontariato, organizzando sempre in festa e allegria un evento per decine di migliaia di persone, promuovendo cultura e arte”. E come dimenticarsi del divertimento? E’ quello che pensa Virginia, anche lei residente in provincia e alla quarta esperienza, mettendo in risalto come “non ci sarebbe questo grande feeling tra così tanti volontari senza una grande voglia di divertirsi, anche durante i momenti più duri e con tanto lavoro da fare. Questo a mio modo di vedere è la grande fortuna del gruppo di Festivaletteratura”.
Insomma tra tanti biglietti staccati, tanti tavoli spostati, ritmi frenetici, notti quasi insonni tra palestre e campeggi, ci sta tanta voglia di mettersi in gioco e contribuire partecipando a quella che oramai è divenuta una tappa obbligatoria per molti. Queste erano solo alcune delle voci delle più di settecento magliette blu di Festivaletteratura, che si sono già dati appuntamento per l’anno prossimo, sempre a Mantova, dal 9 al 13 di settembre.

L’INCHIESTA
Partigiani oggi, nuove testimonianze: “Senso di responsabilità e coraggio per risollevare il Paese”

3. SEGUE – Continuano ad arrivare in redazione testimonianze che riattualizzano i valori della Resistenza e indicano il significato dell’essere “partigiani oggi”. E noi continueremo puntualmente a darne conto su queste pagine. Abbiamo chiesto a uomini e donne di generazioni diverse, con storie, percorsi, esperienze, formazione differenti di esplicitare i princìpi inderogabili per i quali è necessario impegnarsi e gli ostacoli che si frappongono alla loro applicazione. Nella colonna a destra della home, in alto, abbiamo inserito un logo che riporta il titolo dell’inchiesta; cliccandolo si accede a una videata che visualizza tutti gli interventi pervenuti, nella loro versione integrale.

Licia Vignotto, giovane giornalista e operatrice culturale spiega di aver “pensato a lungo sul tema del valore da difendere, ma l’idea del ‘valore’ non mi piace, come non mi piace l’idea della ‘difesa’. Ci si difende dagli aggressori ma a me sembrano tutti vittime: i ricchi e i poveri, i benestanti e i malestanti. Provo pena – pena sincera – per chi si comporta in modo stupido e nocivo, per gli arrivisti e i carrieristi, per gli avidi, per gli arroganti, per i disonesti. Non c’è niente da difendere, caso mai da diffondere: responsabilità”.

“Sarebbe sufficiente che la gente cominciasse a guardarsi in faccia e a leggere i valori dentro l’Etica del volto e della responsabilità”, fa eco Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K. Il quale segnala “la mancanza del coraggio necessario a declinare i valori nella tutela della dignità e nella lotta per la libertà della persona, soprattutto dei più deboli. Paradossalmente – rileva – si salvano i valori e si ammazzano le persone. Sappiamo scegliere i valori come i prodotti al supermercato, soprattutto quando si possono applicare forti sconti sull’impegno attivo che ne deriva. Preferiamo la penombra dell’ignavia all’esposizione del partigiano”.

“Mi piacerebbe vedere finalmente una guerra senza armi, una guerra di cervelli che vogliono il meglio per tutti, quel famoso ‘bene comune’, allontanando tutte le nefandezze presenti – afferma la giornalista marchigiana Cristiana Carnevali -. Ma certe volte mi sento impotente di fronte a tanti nani, saltimbanchi e ballerine che popolano la nostra società, occupando posti di rilievo, non soltanto in politica, con incapacità evidenti e soprattutto senza il benché minimo rispetto per Italia e italiani. Per questo restiamo partigiani anche oggi e i valori che perseguiamo sono sempre gli stessi”.

Francesca Succi, giovanissima giornalista particolarmente nota come blogger, introduce un originale punto di vista: “Come donna e giovane sono una guerriera, ogni giorno. Combatto per la libertà, la credibilità, la solidità e la condivisione immacolata. Il mio nemico è rappresentato dallo stereotipo, dalla menzogna, dall’ignoranza e dalla mancanza di tempo. L’unica adeguata difesa è l’energia, che parte dall’interno per confluire esteriormente, producendo risultato”.

Amara la riflessione di Mario Rebeschini, fotografo di pace in tempo di guerre: “Quando in un’assemblea infuocata all’università si voleva creare un momento di attenzione – ricorda – dal megafono si gridava: ‘Attenzione compagni, attenzione, prende la parola un partigiano, il compagno L.P’. Ed ecco L.P. dire parole di condivisione alle nostre battaglie con le raccomandazioni di un padre che stimi. Ma chi ha il coraggio, oggi, di prendere un megafono per ricordarci con forza i grandi valori della Resistenza e il sacrificio di quei milioni di uomini e donne che hanno garantito a tutti un’esistenza degna d’essere vissuta? Poveri partigiani, poveri noi, mi viene da pensare, ma non lo dico a nessuno”.

3. FINE

Cliccando i nomi in grassetto è possibile leggere l’intervento integrale

Leggi la prima puntata dell’inchiesta

Leggi la seconda puntata dell’inchiesta

Leggi i nostri articoli del progetto Treccani “Voci di Resistenza” di Giuseppe Muroni

IL FATTO
i’What’? Cogli
la prima mela

Il 9 settembre è un altro di quei giorni per qualcuno memorabili in cui la Apple annuncia le sue novità per la prossima stagione degli acquisti, che non va dimenticato negli USA inizia con il Thanksgiving, cioè ben prima di Natale. Il carrello di quest’anno contiene un iPhone più grande in due diversi formati (4,7 e 5,5 pollici contro i 4 della generazione precedente), secondo un trend già anticipato da tempo dalla concorrenza asiatica, che trova giustificazione nella necessità di maggiore spazio visivo che app sempre più complesse richiedono. E’ inoltre arrivato il nuovo ed atteso da tempo iWatch, la risposta Apple ai già numerosi dispositivi presenti sul mercato che integrano le funzionalità di un orologio con quelle di monitoraggio di alcuni parametri fisiologici e la misurazione dell’attività fisica. Il nuovo gadget di Apple, oltre ad una maggiore attenzione all’estetica, sorta di marchio di fabbrica dell’azienda, ad un’interfaccia utente estremamente configurabile e la disponibilità di modelli con diverse finiture, pare avere una spiccata vocazione per la comunicazione, naturalmente in combinazione con un iPhone, e dispone di un’interfaccia vocale che consente di dettare direttamente risposte ai messaggi ricevuti. Infine l’annuncio, poco interessante per i feticisti, ma utile per comprendere meglio le strategie a medio termine dell’azienda, di una nuova versione di iWallet, il meccanismo di micro pagamenti da dispositivo mobile con cui Apple sta tentando di acquisire una posizione di preminenza in questo mercato in crescita tumultuosa.
Immancabili anche quest’anno i gruppi di fanatici del marchio in coda da giorni davanti ai negozi per essere i primi ad acquistare o solo prenotare le nuove meraviglie, a qualunque prezzo e solo per poter dire, almeno per qualche settimana: “io ce l’ho e voi no”. Si può osservare tuttavia che dalla morte del fondatore questi eventi hanno avuto una risonanza via via un po’ minore e che le file di cui si diceva sono ogni volta sempre un po’ più corte: viviamo in un’epoca d’altronde in cui tutto si brucia molto rapidamente e poi, forse, di reali novità, di quelle che cambiano le abitudini di milioni di persone, negli ultimi anni non ce ne sono praticamente state. Ciononostante, pur essendo uno che nei confronti di quella che oggi è la società più capitalizzata del pianeta ha sempre avuto un atteggiamento molto distaccato, se non decisamente critico per la politica di quasi totale chiusura dei suoi prodotti, non posso non riconoscere che è grazie a loro che la sintesi funzionale e la diffusione di alcuni oggetti chiave è avvenuta più velocemente di quanto non sarebbe stato altrimenti.
La specialità di Apple non è mai stata infatti quella di inventare tecnologie in sé particolarmente innovative, ma invece di riuscire a definire mix funzionalità hardware e software (cioè strumenti) di qualità elevata, utilizzando quasi sempre tecnologie di terze parti giunte al giusto punto di maturazione, che regolarmente si impongono come riferimento anche per la concorrenza. Con un’attenzione quindi molto più rivolta all’ergonomia ed all’estetica che non alla pura ostentazione tecnologica, anche se, naturalmente, per ottenere quei risultati occorrono tecnologie di primissimo ordine. Per fare un esempio, prima dell’iPhone tentativi di realizzare quello che poi sarebbe diventato lo smartphone ce ne sono stati parecchi. Nokia che era il maggiore produttore di cellulari al mondo, ma anche altri produttori, ci ha provato diverse volte, con prodotti anche interessanti senza tuttavia mai riuscire a trovare la ricetta giusta. In questo caso la scommessa vincente di Apple è stata quella di puntare sulla tecnologia multi-touch e di abbandonare completamente la tastiera meccanica, che poneva vincoli insormontabili alla dimensione dello schermo o costringeva a ricorrere a soluzioni macchinose ed ingombranti. Probabilmente anche il nuovo iWatch costituirà immediatamente un riferimento per la concorrenza che, questa volta nel giro di pochissimo tempo a dimostrare la progressiva perdita del vantaggio strategico dell’azienda di Cupertino, realizzerà prodotti simili ed anche migliori. Il futuro è ormai da tempo orientato verso la diffusione di dispositivi “indossabili” (wearable per gli anglofoni) di piccole dimensioni e non invasivi, dall’orologio ai sensori per uso salutista e sanitario, alle protesi intelligenti (occhiali, lenti a contatto) che diventeranno sempre più comuni. Uniti all’immancabile smartphone, da tenere in tasca, nella borsa o legato in vita, di Apple o della concorrenza, saranno in grado di raccogliere informazioni sui nostri parametri vitali in tempo reale o di inviarci su richiesta supporti informativi di vario tipo, come ad esempio è ormai possibile con i Google Glass.

L’OPINIONE
Il dito e la luna…

Bufera sulle primarie del Pd dell’Emilia Romagna. E’ giusto ricordare che siamo in presenza di indagini, non di condanne. Ma è altamente apprezzabile il gesto di farsi da parte in attesa di chiarire la propria posizione. Così ha fatto Richetti. Così dovrebbe fare Bonaccini. Continuano invece le dichiarazioni fuori posto dell’assessore di Sel Massimo Mezzetti. Si era già distinto nell’attacco ai giudici dopo la sentenza che portò alle dimissioni di Errani. Ora rincara la dose: “Per risparmiare tempo chiediamo alla Procura di Bologna chi vuole alla presidenza della Regione…”. E bravo Mezzetti! Non ti accorgi che continui a replicare la storica frase della destra berlusconiana dopo ogni iniziativa della Magistratura: “Ecco la giustizia ad orologeria!”? In attesa delle decisioni del Pd, a fronte della difficile situazione che si è venuta a creare, inviterei a non guardare il dito, ma la luna… E la luna di questa storia corrisponde non a poche centinaia di euro, ma alla vergogna di una Regione che negli anni scorsi partecipò insieme a tutte le Regioni d’Italia ad approvare quel sistema di privilegi che fu portato a conoscenza dell’opinione pubblica dopo gli scandali che colpirono le regioni del Lazio e della Lombardia. Per me è politicamente e moralmente più grave il sistema legale di benefit che fu approvato a fari spenti da tutte le Regioni che non le singole responsabilità di violazione della legge. In Emilia Romagna il Pd si difende dicendo di essere stata la prima Regione ad iniziare a tagliare questi privilegi. E’ vero. Ma ciò non assolve da due peccati politici e morali imperdonabili: l’averli approvati a suo tempo; non averli mai denunciati prima che arrivassero i magistrati. Eppure Errani fu anche Presidente nazionale della Consulta delle Regioni… Caro Mezzetti, senza l’azione della Magistratura questo Paese sarebbe peggiore di come la casta politica l’ha ridotto in questi decenni di sciagurata corruzione e di sprechi del denaro pubblico.

LA STORIA
Il Cos padre di tutti i Forum

di Daniele Lugli

Torna il tema della partecipazione, da ultimo con il bell’intervento di Giovanni Fioravanti su Ferraraitalia, nel quale si parla di Forum, di partecipazione civica, di vita di quartiere.
Forse può essere di qualche interesse ricordare al riguardo un’importante esperienza ferrarese dell’immediato dopoguerra, promossa e sostenuta principalmente da Silvano Balboni (Ferrara 1922-1948), la cui opera di antifascista, amministratore, educatore sociale non è molto conosciuta. Si tratta dell’attività del Centro di Orientamento Sociale (COS).

Il COS nasce a Perugia su iniziativa di Aldo Capitini alla liberazione della città: la sua prima riunione è del 17 luglio 1944. Suo motto è “Ascoltare e parlare: non l’uno senza l’altro”. Diceva Capitini “chi può parlare ascolta più profondamente”. E’ luogo di libero e costante approfondimento dei temi più sentiti dalla comunità. A Perugia, accanto al COS centrale sorgono COS rionali ed altri nella provincia. Anche fuori dall’Umbria l’iniziativa prende piede. Tornato a Ferrara, nell’estate dal ’45 dalla Svizzera, dove si era rifugiato sul finire del ’43 per sfuggire a stringenti ricerche, Balboni si impegna subito per l’avvio del COS e la prepara con gli amici più vicini. Ci vorrà più tempo del previsto e la prima riunione del Centro di Orientamento Sociale di Ferrara si tiene lunedì 4 marzo1946 alle ore 18.15 all’Auditorium comunale.

Grande è il successo del primo incontro. La gente è venuta ad una riunione non più solo per ascoltare ma ha parlato. Ha posto all’ordine del giorno una serie di temi, a partire da quelli minuti e quotidiani – Nelle scatole di latte evaporato Unrra si nota un foro stagnato, c’è manomissione? L’autolettiga della Cri funziona male; c’è responsabilità? Il mangime per i polli è troppo caro e così la crusca venduta dai Consorzi agrari. L’assistenza sanitaria è troppo frazionata (Eca, Onmi, assistenza bellica, antitubercolare, reduci) e i furbi ne approfittano. Perché idraulici ed elettricisti non vengono a casa quando li chiami e costano così caro? Il problema delle strisce spartitraffico nel centro. Quali sono le prospettive dello stabilimento della Gomma sintetica? –  prendendo l’impegno di affrontarli. Viene messa a disposizione la sala del Consiglio in Castello Estense, sede della Amministrazione provinciale. Non si salta una settimana. Nel maggio del ’47 in una lettera a Capitini conta 50 incontri nel COS di città. Ci sono infatti anche COS, se pure meno assidui, nelle delegazioni, promossi sempre da Balboni. Notevole ad esempio l’attività di partecipazione alla base dell’istituzione della Delegazione di Gaibanella e la posizione del COS di Pontelagoscuro, contraria alla collocazione della ricostruzione decisa dal Comune, dopo la distruzione bellica, non più nel vecchio centro: sarà confermato l’orientamento dell’Amministrazione, con il voto contrario di Silvano Balboni, e nascerà Ponte nuovo.

Il tenersi del Cos in una sede istituzionale (in Castello fino a luglio, nel Salone del Plebiscito, Palazzo comunale, dopo cena) e l’essere divenuto Balboni assessore comunale agevolano certo il contatto con istituzioni, autorità, responsabili in genere. Ciò pone però anche il problema dell’autonomia e dell’indipendenza del COS garantita da impegno, indipendenza personale e rigore morale di Balboni. Il COS di Ferrara diventa un fatto di interesse cittadino, riconosciuto come uno strumento utile di conoscenza e controllo. La stampa cittadina ne annuncia gli incontri, ne riporta i resoconti, dibatte i temi affrontati dal Cos. È considerevole il contributo alla razionale e civile discussione dei problemi che il Cos dà in un momento nel quale la provocazione ed il sospetto sono strumenti usuali della lotta politica e si diffondono allarmi e voci incontrollate.

Nel tempo si nota uno spostarsi dai temi più minuti ad argomenti di più ampio respiro, anche sciolti da uno stretto legame locale. Un esempio è il Convegno Ferrarese sul problema religioso moderno che prende l’avvio il 17 dicembre del 1946 e poiché non è tema da concludersi in una serata prosegue un martedì dopo l’altro per dodici martedì, concludendosi l’11 marzo 1947.

Si svolge nella grande sala, allora sede dell’Università Popolare, sopra il Teatro Nuovo. Sono presentate e discusse 16 relazioni. Segue la discussione una media di 200 persone (molti i giovani e le donne). Il convegno, al quale con vari ospiti partecipano buona parte degli intellettuali ferraresi, alcuni tra i quali allora giovanissimi, desta attenzione e curiosità: ne vengono date notizie sulla stampa e ne conseguono polemiche. Le relazioni del sacerdote don Mario Mori, del pastore evangelico Zeno Tonarelli, del rabbino Leone Leoni, dell’ex prete, scomunicato vitando,  Ferdinando Tartaglia possono dare un’idea del ventaglio delle posizioni e dell’ampiezza del confronto..

Dimostrato che i temi più difficili possono essere portati a un contatto più largo che non si creda e affermato nei fatti che non vi sono limiti al discutibile si ritorna nella vecchia sede Consiglio comunale e a temi più consueti. Diceva Capitini che era bene discutere di patate e di ideali, non le une senza gli altri.

I problemi di funzionamento dei servizi pubblici e dell’istituzione di nuovi, del funzionamento più corretto dell’attività amministrativa, dell’assetto complessivo della città restano al centro dell’interesse del COS. In questo senso il COS viene a configurarsi in alcuni momenti quasi come un autorevole organo consultivo dell’Amministrazione per le più importanti decisioni da assumere. Il COS di Ferrara svolge un lavoro importante di vaglio, di preparazione e di critica rispetto alle decisioni amministrative. Il buon funzionamento delle assemblee, dove si va per ascoltare e parlare, ha creato uno spazio di confronto e di incontro di competenze tecniche, responsabilità politiche e amministrative e consenso popolare.

“Il COS lavora per la democratica trasparenza delle Amministrazioni. Controllate attraverso di esso coloro che avete eletto nelle elezioni amministrative”, recita un invito del COS, che non sembra aver perso di freschezza ed attualità. Ma il COS è anche altro: accanto ai problemi più schiettamente politici e amministrativi vengono in evidenza questioni di grande respiro. Le questioni del divorzio, della libertà e della ricerca religiosa, dell’obiezione di coscienza sono al centro di un confronto appassionato. Le conclusioni del COS ferrarese anticipano così di un quarto di secolo le faticose conquiste nel nostro Paese di diritti civili, quali appunto divorzio e obiezione di coscienza,  Sono temi centrali per la nuova socialità, alla quale lavorano Capitini e i suoi amici e che si vorrebbe caratterizzassero la Costituzione in via di elaborazione. Le posizioni del COS di Ferrara sono inviate al Ministero per la Costituente, che aveva promosso una consultazione degli Enti Locali. Il COS di Ferrara ha carattere esemplare: Nelle circolari che intendono promuovere la diffusione dell’esperienza è scritto: Chi vuole precise indicazioni su che cosa sono i COS (Centri di Orientamento Sociale), sul loro funzionamento, sul modo di istituirli, può rivolgersi a Silvano Balboni (Ferrara, Corso di Porta Romana 62 ) o a Aldo Capitini.

Non è qui il luogo per analizzare le cause della crisi dei COS sostanzialmente affidati al difficile volontariato di pochi cossisti. Già alla fine del ’47 delle decine di COS costituiti in tutta Italia risultano in costante attività solo quelli di Perugia, Ferrara, Firenze e Teramo.

I partiti si preparano allo scontro elettorale del ’48, si dividono in fronti contrapposti, contano le forze, radunano le truppe: è il momento dello schieramento, senza tentennamenti e discussioni. Non è tempo di COS.

A Ferrara il COS prosegue però anche nel 1948, con attività importanti. Il Cos resta fino all’ultimo al centro dell’esperienza e dell’impegno di Sivano Balboni, che ne tenta il rilancio e l’estensione sul territorio nazionale e provinciale. Balboni muore a 26 anni di fulminea malattia il 7 novembre 1948. Il Cos, anche se la sigla proseguirà per qualche tempo, non gli sopravvive, né a Ferrara, né altrove.

“Ci mancò poi quell’orizzonte sereno nel quale si inscrivevano i nostri incontri e scontri” come ebbe occasione di dirmi Pasquale Modestino. Resta solo Capitini a firmare la circolare n.5 dicembre 1948 Sviluppo del lavoro dei C.O.S., nella quale si concentra la riflessione sull’esperienza e la speranza  una ripresa “dal basso” dell’iniziativa per la quale gli è venuto meno il decisivo contributo di Silvano. Lo scritto si apre così Silvano Balboni, iniziatore del COS di Ferrara, è morto il 7 novembre 1948. La sua presenza e il suo servizio continuano.

 

Istruzioni di Aldo Capitini per costituire i Centri di orientamento sociale

  1. Un Cos è una riunione aperta a tutti per discutere tutti i problemi
  2. Molto importante è la periodicità, cioè stabilire un giorno e ora fissi per ogni settimana
  3. Il promotore del Cos forma un gruppo o comitato per eseguire tutto ciò che occorre al funzionamento di un Cos
  4. E’ bene che i componenti del Comitato siano indipendenti o di diversi partiti
  5. L’impegno del Comitato è di tenere il Cos aperto a tutti e di ammettere la discussione anche su temi proposti dal pubblico
  6. Uno del Comitato presiede la riunione

L’OPINIONE
Il dramma della povertà

Povertà, emarginazione, miseria, sono temi al centro dell’attenzione da sempre e che ora rischiano di diventare centrali nella nostra società. Tante indagini ne rilevano ormai la gravità; sta crescendo il disagio economico (quasi la metà delle famiglie dichiara di avere difficoltà economiche). La mancanza delle risorse necessarie per la vita delle famiglie e delle persone è un grande tema critico (“ povertà economica”) su cui vorrei esprimere qualche concetto anch’io.

Il rischio di povertà sta crescendo nelle famiglie sia al nord che al sud, tra i giovani, tra gli anziani, nei disoccupati, ma anche tra i lavoratori.
L’esigenza di affrontare il tema della povertà non solo nella sua dimensione economica, ma anche nella sua caratterizzazione di “esclusione sociale” impone infatti riflessioni più vaste e articolate, ma soprattutto richiede un maggiore coinvolgimento di tutti.

La natura multidimensionale della povertà è infatti ormai ampiamente riconosciuta non solo sul piano dell’economia, ma soprattutto a livello politico-sociale. Aumentano le categorie più vulnerabili e non comprendono più solo la quota degli anziani (di cui uno su quattro è a rischio povertà), ma stanno coinvolgendo anche in modo crescente persone giovani sole e famiglie numerose. Gli studi di analisi delle disuguaglianze indicano in questi ultimi anni infatti forti modificazioni sia nella struttura che nella composizione della nuova povertà.

È in generale modificata e aumentata la mobilità temporale dei redditi delle famiglie e conseguentemente sono di molto aumentati l’insicurezza delle famiglie e il loro senso di vulnerabilità nei confronti di eventi negativi. Ad una povertà tradizionale si aggiunge dunque una fascia di sofferenza e di disagio allargata costituita da famiglie monoreddito o con un solo genitore a basso reddito. Spesso poi è la perdita del lavoro la causa di un crescente indebitamento e dunque situazione di sofferenza.

Forse si deve ripartire dal riconoscimento di diritti: riconoscere il diritto delle persone in condizioni di povertà e di esclusione sociale di vivere dignitosamente e di far parte a pieno titolo della società. Serve una rinnovata responsabilità condivisa e di partecipazione, anche se certamente la prima cosa che viene spontaneo chiedere è quella di accrescere la partecipazione pubblica alle politiche e alle azioni di inclusione sociale, sottolineando la responsabilità collettiva e dei singoli nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale e l’importanza di promuovere e sostenere le attività di volontariato.

Bisogna promuovere una società più coesa, sensibilizzando i cittadini sui vantaggi derivanti da una società senza povertà ed emarginazione, e una società che sostiene la qualità della vita (incluso la qualità dell’occupazione), il benessere sociale (incluso il benessere dei bambini) e le pari opportunità per tutti, garantendo anche lo sviluppo sostenibile e la solidarietà intergenerazionale e intragenerazionale. Serve una maggiore coesione, ma a parole siamo tutti bravi.
Serve però un maggiore impegno e soprattutto servono azioni concrete.
Magari partendo da piccole cose quali la riduzione dei costi dei servizi collettivi (a partire da tariffe sociali per l’energia elettrica, l’acqua, i servizi collettivi, etc). Non è una priorità generale, ma è ciò di cui mi sono occupato in passato e per questo ne parlerò in un prossimo articolo.

Dalle numerose indagini sul disagio socio-economico è noto infatti che l’incidenza della povertà nel ciclo di vita delle famiglie presenta un tipico andamento a U. Il rischio di povertà è alto quando si hanno in famiglia bambini piccoli, si abbassa quando il capofamiglia raggiunge l’apice della carriera lavorativa e i figli escono progressivamente di casa (tranne quelli che restano perché non sanno dove andare…), infine torna ad aumentare tra i pensionati.
Questo andamento di massima è noto da tempo, così come le sue origini. La causa di fondo consiste nei noti difetti strutturali del nostro sistema di protezione sociale.
In Italia “l’emergenza sociale” riguarda 15 milioni di persone di cui la metà ufficialmente sotto la soglia della povertà, ma altrettanti si collocano poco sopra, dunque da considerare ad alto rischio. Anche l’Emilia Romagna si trova a dover fare fronte a questa emergenza: l’indice di povertà delle famiglie è salito negli ultimi anni a livelli molto preoccupanti; oltre mezzo milione di emiliano-romagnoli vivono sotto la soglia di povertà.

Deve crescere dunque l’attenzione in particolare su alcune aree critiche quali l’immigrazione, la povertà e l’esclusione sociale, perché, come era inevitabile, la crisi economica globale ha purtroppo iniziato a fare sentire i suoi effetti anche nel welfare di quelli che una volta erano considerati territori agiati.
Nella nostra regione sono state fatte molte cose importanti prevedendo norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Vi è sempre stato tra le priorità il contrasto alla povertà ed ai fenomeni di esclusione sociale. Ma ora si deve fare di più.

Bisogna rivedere i piani sociali di zona per monitorare e localizzare le caratteristiche del sistema socio-economico locale. Bisogna rivedere le linee di riforma dei servizi sociali che negli anni hanno coinvolto enti e amministrazioni in un importante sforzo culturale per valorizzare principi e strumenti innovativi a garanzia del diritto di cittadinanza sociale.
Quel sistema integrato di welfare non si è sviluppato e potenziato nel tempo a sufficienza.
Si ritiene che proprio in una logica integrata di sistema si riesca a caratterizzare lo sviluppo di un territorio, in quanto l’evoluzione delle esigenze e dei nuovi bisogni della popolazione porta ad allargare l’orizzonte delle scelte verso un riordino del welfare in funzione del valore sociale complessivo.
La strategia di riferimento è saper congiungere la ricerca di integrazione delle politiche sociali attraverso l’impegno concertato di tutte le istituzioni e la partecipazione integrata dei vari soggetti pubblici e privati che a vario titolo fanno parte dei diversi settori della vita sociale (ambiente, cultura, lavoro, casa, educazione, etc).

Certo non è facile e non ho certo soluzioni migliori rispetto a chi si sta impegnando da molto tempo, ma mi piacerebbe molto che anche attraverso questo giornale se ne parlasse di più. Io proverò solo nei prossimo giorni a proporre qualche riflessione che ho sviluppato negli anni scorsi scrivendo per la regione un “report sociale”.

IL FATTO
Fuori legge
i sacchetti di plastica
non biodegradabili

Per molti questa è una notizia come tante altre, per alcuni è una rivoluzione. Attenzione ai sacchetti di plastica. Soprattutto se non sono biodegradabili. Si comincia anche a individuare responsabilità e non solo principi.
Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge 11 agosto 2014, n.116, di conversione del decreto-legge 91/2014 (il cosiddetto ‘decreto competitività’), sono entrate in vigore le norme che regolano le sanzioni per commercializzazione di sacchetti di plastica non biodegradabili, anche se ceduti a titolo gratuito. I commercianti, da un paio di settimane, non possono utilizzare sacchetti non conformi alla norma, “nemmeno cedendoli come omaggio”.
Ne dà notizia il sito www.rifiutilab.it, sempre attento alle novità in materia ambientale; e soprattutto ce lo ricorda la Confesercenti che ci dice come, attraverso la normativa nata del 2011, il nostro Paese sia riuscito a raggiungere una riduzione del 50% in tre anni del volume degli shopper in circolazione, passando da circa 180 mila tonnellate nel 2010 a poco più di 90 mila nel 2013 e ha migliorato qualità e quantità del rifiuto organico, creando un vero e proprio modello di raccolta differenziata. Ora dipende anche da noi fare rispettare questa importante regola.

Syria 9 settembre, il folle amore per la vita

Per tutti questi mesi mi hanno chiamata “folle”.

Ero l’irresponsabile.

Hanno discusso di me la prudenza e il buon senso.

“Sei pazza” – dicevano.

Per tutti questi mesi ho pensato avessero ragione loro.

Erano quasi riusciti a convincermi, sì.

Convincermi d’esser stata folle, irresponsabile ed avventata.

Ho pensato fino ad oggi che avessero ragione loro.

Non si tratta di ragione. Si tratta di cuore.

Ti ho dato la vita in un luogo di morte.

Alla luce in un tempo buio.

Ti ho messo al mondo in un territorio di guerra.

Sei nato in Syria, oggi, 9 settembre 2014.

In questo Paese che ha messo al mondo anche me.

In questo Paese che non sa più cosa sia la pace.

In questo Paese che non conosce la compassione.

Sei nato senza un padre, perché tuo padre ha scelto la guerra.

Sei nato orfano perché la guerra se l’è preso.

Ho pensato che avessero ragione loro.

Ma non si tratta di ragione, si tratta di cuore.

Ora, che finalmente ti stringo tra le mie braccia so che

la ragione può lasciare il passo all’amore,

la morte alla vita, il buio alla luce.

Sei nato in Syria, oggi, 9 settembre 2014 e sei la mia scheggia di pace.

Valentina Preti

(testo presentato al Giardino delle Duchesse di Ferrara nell’ambito della rassegna ‘Schegge di pace’ organizzata dalla Proloco. L’autrice fa parte dell’associazione culturale ‘Pennuti e contenti’, vedi blog)

LA STORIA
Lampo, vita di un cane viaggiatore

A fine giugno sono andata all’Isola d’Elba per girare un reportage per la web tv dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, dove lavoro. Con la mia collega Lorena abbiamo preso un treno diretto a Piombino e, al ritorno, abbiamo fatto scalo alla stazione di Campiglia Marittima. Qui pomeriggio afoso, scenario da Far West e, inaspettata, una storia da scrivere.
Quella di Lampo, il cane viaggiatore. L’ho incontrato prima su un quadro, appeso al bar della stazione con tanto di dedica da parte delle Ferrovie Italiane, mentre sorseggiavo te freddo e menta.
Poi in una statua che gli è stata dedicata e che è nel giardino della stazione, coperta da due pini.
Infine nel racconto del barista, che, ringrazio, per essersi lasciato incalzare dalle domande.
La storia, che ha fatto il giro del mondo, in sintesi è questa qua.
Siamo nei primi anni cinquanta e un cane randagio si aggira nella stazione di Livorno. Un giorno un capostazione chiama l’accalappiacani e un ferroviere per salvarlo lo getta su un carro merci diretto a sud.
Arrivato a Campiglia Marittima, il cane scende dal treno e dopo qualche giorno viene praticamente adottato dal vice capostazione Elvio Barlettani che, a causa della sua velocità, lo chiama Lampo.
Da Campiglia, un nodo ferroviario con molto traffico, Lampo è in grado di prendere un treno per dovunque. Sale solo su treni passeggeri, nascondendosi sotto un sedile quando sente arrivare il controllore. Viaggio dopo viaggio Lampo visita ogni stazione nel raggio di 300 chilometri da Campiglia, diventando una presenza ben conosciuta.
La notte dorme nella stazione, ma al mattino salta sul treno locale per Piombino per accompagnare Virna Barlettani, la figlia del vice capostazione, a scuola e riprendere il treno per Campiglia subito dopo. Nel pomeriggio ritorna in treno a Piombino per riaccompagnare Virna a casa e poi di nuovo a Campiglia. Un giorno, però, il cane rimane intrappolato in una porta e il treno in partenza deve essere fermato per liberarlo. Un ispettore, che osserva l’accaduto, ordina di farlo sparire: Lampo viene caricato un treno per il lontano sud, con le istruzioni di abbandonarlo in aperta campagna, lontano da ogni stazione.

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Il leggendario Lampo, protagonista di un libro inglese per bambini

Dopo cinque mesi, malato e ferito, Lampo tornerà. Diventerà famoso e finirà sui giornali nazionali ed esteri. Sarà anche filmato da diverse troupe televisive. Morirà nel 1961 e alla stazione di Campiglia Marittima sarà eretta una statua in suo onore.
Elvio Barlettani, il vice capostazione, ha scritto un libro sulla sua storia intitolato “Lampo il cane viaggiatore” edito dalla casa editrice La Bancarella di Piombino. E’ catalogato fra le letture per l’infanzia, ma è un’iniezione di poesia ed energia raccomandabile anche agli adulti. Soprattutto a quelli che dimenticano di essere stati bambini.
Esiste anche un libro a fumetti in inglese intitolato “Famous dogs: Lampo the travelling dog” realizzato da James E. McConnell e pubblicato dalla Look and Learn.

Per saperne di più: [clic per vedere]
La storia di Lampo cane viaggiatore (Club Amici della Ferrovia)
Lampo, the travelling dog (Copertina, Look and Learn)
Lampo, il cane viaggiatore sul sito ‘Il cane insegna’

 

 

Chicago, la città dove l’apprendimento non finisce mai

È possibile abbattere la barriera che divide l’apprendimento a scuola dall’apprendimento fuori della scuola? Ci ha provato con successo Rahm Israel Emanuel, attuale sindaco di Chicago e già Capo di Gabinetto di Barack Obama. Emmanuel è forse l’unico politico ad aver condotto la sua campagna per l’elezione a sindaco su una piattaforma di riforma della scuola. Una volta eletto ha mantenuto gli impegni, mettendo la città di Chicago a disposizione dell’apprendimento continuo: “Where learning never stops”.
Chicago City of Learning è il primo sforzo del genere che si realizza in una grande città degli Stati Uniti, lo seguiranno i sindaci di Los Angeles, Dallas, Columbus, Pittsburgh, Washington.
Un’iniziativa innovativa che interconnette le opportunità di apprendimento per i giovani in modo da consentire ad ognuno di perseguire e sviluppare i propri interessi.
Attraverso CCOL, che dispone della piattaforma online https://chicagocityoflearning.org/, bambini e giovani, dai quattro ai ventiquattro anni, possono intraprendere sempre nuovi percorsi di conoscenza, esplorare le numerose risorse della città e scoprire cosa fare e apprendere, accumulando crediti, un portafoglio elettronico, archiviato nel badge personale che garantisce il riconoscimento permanente dei risultati ottenuti attraverso le proprie attività.
Il badge digitale registra di volta in volta il livello a cui si è giunti, le conoscenze e le abilità acquisite in una varietà di contesti di apprendimento non tradizionali. Più si progredisce, più si amplia la possibilità di nuove e più avanzate esperienze, di conoscenze più approfondite e di opportunità speciali. I crediti acquisiti, infatti, consento ai giovani di accedere a stage, a posti di lavoro e sono riconosciuti sia come credito scolastico, sia per l’accesso ai college.
Chicago City of Learning muove dalla convinzione che nessuna istituzione da sola può preparare i nostri giovani per il loro futuro, che l’apprendimento non si può esaurire tra le pareti delle aule scolastiche.
Mette a disposizione dei suoi giovani cittadini tutte le risorse della città, le sue organizzazioni, le scuole, le sue agenzie e le istituzioni culturali, perché operino in sinergia per sostenere i loro percorsi di apprendimento e di formazione, a partire dai quattro anni fino ai ventiquattro, li guidino e li assistano nell’esplorare e approfondire i loro interessi, sviluppare i loro talenti, scoprire le loro passioni, e in questo modo iniziare a tracciare i loro percorsi di vita verso il futuro.
Chicago City of Learning è il prodotto di una potente collaborazione tra le istituzioni civili e culturali che si preoccupano profondamente della città e dei suoi giovani.
L’apprendimento connesso sfrutta le possibilità dell’era digitale per rendere il sapere più ricco e più rispondente alle esigenze e alle opportunità del nostro tempo.
Le conoscenze, si sa, persistono più a lungo, sono più durature quando si collegano alla vita di chi studia, quando gli apprendimenti scolastici si connettono agli interessi che i giovani coltivano al di fuori della scuola, quando trovano supporto nelle reti sociali che incoraggiano hobby e abilità, che forniscono la possibilità di creare e produrre cose reali nel mondo reale, consentendo di tracciare percorsi chiari e personalizzati in grado di guardare avanti.
Accedendo alla piattaforma ChicagoCityOfLearning.org/CPS e creando il proprio account, il giovane utente può scegliere sia attività divertenti, sia percorsi di apprendimento, online o da vivere nel proprio quartiere o, ancora, attività organizzate dai partner del progetto come biblioteche, musei, parchi, associazioni e ancora altro.
Quando i partecipanti apprendono una nuova abilità o si impegnano in un programma, guadagnano crediti che vengono memorizzati direttamente sul badge, andando ad arricchire il proprio “portafoglio elettronico” che vale per la scuola come per i potenziali datori di lavoro.
Ogni volta che un giovane guadagna crediti, riceve suggerimenti per affrontare nuovi percorsi di apprendimento, altri programmi e attività che possono essere interessanti. Pertanto viene invitato a “salire di livello”, ad ampliare o approfondire le proprie conoscenze, ad acquisire competenze nuove. I giovani possono collegare una opportunità di apprendimento a quella successiva, una attività svolta in classe ad una online, a un programma di quartiere o di una istituzione cittadina.
«I learn best when… I can be myself» è la filosofia di Chicago City of Learning, in sostanza si apprende meglio quando si può essere se stessi.
Si tratta di esperienze che ci consentono di toccare con mano il nostro provincialismo e i nostri ritardi. Viene da sorridere a pensare alle timide iniziative di “scuole aperte” di casa nostra, spesso asfittiche e ben lontane dal respiro e dalla prospettiva, dal disegno programmato di un sindaco e di una città orgogliosi di essere “campus” di apprendimento per i propri giovani.
Che cosa ci vuole per diventare una Città di apprendimento? Ci vuole crederci. Amministratori e politici che riescano a capire che non c’è futuro per la città se non si investe sui giovani e sulla conoscenza.
L’istruzione non è più compito da delegare in esclusiva allo Stato centrale, sempre più è compito di cui avere grande e rinnovata cura a livello locale, perché sono i saperi e i giovani la ricchezza del presente e del futuro della nostra città.
Gli strumenti ci sono, a partire dalla valorizzazione delle autonomie scolastiche, aprendole al dialogo con l’intera città, coinvolgendole in un progetto condiviso, chiamandole a rendere conto del loro operato.
Una città per l’apprendimento, “Where learning never stops”. Perché farlo? Perché le nostre ragazze e i nostri ragazzi meritano d’essere incoraggiati al piacere della scoperta, all’esplorazione, a promuoverne la curiosità, la resilienza e le competenze del ventunesimo secolo, vivendo in modo compiuto la loro città e tutte le risorse che essa offre. Perché è questo, forse, l’unico vero modo per insegnare loro a rispettarla. Perché è un potente aiuto a mantenere e consolidare quanto appreso sui banchi di scuola, perché lo sviluppo di competenze e l’esperienza degli stage promuovono la possibilità di riuscita nel lavoro, perché si riducono le differenze e gli svantaggi, perché è offerta a tutti, senza distinzione, l’opportunità di sviluppare i propri talenti e le proprie ambizioni.

In regione si voterà il 23 novembre per il Consiglio e il nuovo presidente

L’indiscrezione arriva dal sito online dell’edizione bolognese del Corriere della Sera. Sarebbe il 23 novembre la data scelta dal governo e dai vertici regionali per il rinnovo del Consiglio regionale e per la nomina del nuovo presidente del governo dell’Emilia Romagna. Gli elettori dovranno scegliere il successore di Vasco Errani, dimissionario a seguito della condanna in appello che ha ribaltato il verdetto di primo grado del processo noto come ‘Terremerse’. Da viale Aldo Moro fonti autorevoli assicurano che manca solo l’ufficialità del provvedimento.

L’INCHIESTA
Idrovia, per il bypass di Ferrara
servirebbero 40 milioni di euro

SEGUE – Il fatto che l’idrovia possa restare una bella incompiuta com’è nell’auspicio di molti, può andare bene sino a che l’Europa non chiederà conto delle inadempienze, ossia del fatto di avere riqualificato l’asta del Po rendendola navigabile senza però garantire la possibilità di transito ai natanti addetti al trasporto merce di classe quinta.
Per capire meglio il tema, vediamo un po’ di dati sull’opera, valutando quel che era previsto, quel che è stato fatto e i prossimi passi da compiere.

La vicenda dell’idrovia nasce nel ’99 quando le quattro regioni lambite dal Po (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) decidono di farne una via d’acqua e siglano un patto per dar corpo all’ipotesi caldeggiata dall’allora ministro Bersani. Ci sono voluti nove anni prima che gli intenti diventassero progetti esecutivi.
Il tratto ferrarese è costituito da un percorso di 70 chilometri compresi fra la conca di Pontelagoscuro e Porto Garibaldi. Per quanto riguarda la città, il disegno originario prevedeva un canale circondariale da scavare attorno al nucleo abitato, per consentire alle imbarcazioni di immettersi nel Po di Volano senza transitare per il centro storico. Ma la Provincia, capofila del progetto, ha deciso di agire diversamente, senza in realtà trovare alcuna opposizione da parte degli altri soggetti coinvolti. Neppure di coloro che oggi polemizzano, senza però all’epoca avere mai alzato un dito per opporsi, pur avendo avuto i titoli per farlo.

Il nuovo canale, lungo circa 7,5 chilometri, si sarebbe staccato dal Po all’altezza di Sabbioni per raggiungere da qui il Volano. Il costo stimato per l’opera sfiorava i 39 milioni di euro. Ma il bypass non è stato realizzato e attualmente il collegamento avviene tramite il canale Boicelli che attraversa la zona industriale lambendo il petrolchimico sino all’immissione del canale Burana, il quale poco più a valle assume la denominazione di Po di Volano.
Le ragioni che hanno fatto propendere per il riadattamento dell’idrovia esistente (Boicelli-Burana), al di là dei costi ingenti per realizzare gli oltre 7 chilometri della nuova tratta, come ha ricordato a ferraraitalia l’ex presidente della Provincia Pier Giorgio Dall’Acqua, sono il forte impatto paesaggistico dell’opera e i rischi connessi ad eventuali fenomeni alluvionali connessi al Po.

Il problema è che l’attuale passante non consente il transito delle imbarcazione di quinta classe europea come previsto da progetto. Un impedimento virtuale se nessuno ne chiederà conto; e ‘virtuoso’ nel senso che preserva la navigazione a scopo turistico da una commistione con mezzi commerciali che sarebbe di disturbo…
La realizzazione comunque si avvia al completamento, previsto per la fine del prossimo anno. Stefano Capatti, ricercatore del Centro documentazioni e studi di Ferrara, proiettando lo sguardo in avanti, nel febbraio scorso ha sostenuto, proprio su questo giornale, che “la sostenibilità di un’opera così imponente richiede una gestione efficiente ed efficace nel connettere l’asta navigabile a porti, ferrovie, strade. I criteri di scelta del porto da scalare per una nave sono molti e, a loro volta, i soggetti che a diverso titolo ne determinano le priorità, sono una moltitudine, non solo armatori o personale di bordo. Nell’ottica auspicata dall’Unione europea (partecipazione dei privati) – ha aggiunto il ricercatore del Cds – si può ipotizzare il coinvolgimento anche finanziario di una società logistica (o di un gruppo di privati) che offra un ‘global service’, compresa la gestione dell’idrovia per quanto concernono i trasporti interni (e i rapporti con le altre idrovie) e la localizzazione e gestione dei nodi integrati (fiume-ferrovia-aereo-mare), per rilanciare il trasporto locale via mare. Si tratterebbe del primo e più moderno servizio presente in Italia, dove semplificazione e fluidità garantirebbero alle nostre imprese un servizio innovativo”.

2. CONTINUA

Leggi la prima parte

Guarda il video-promo dell’idrovia realizzato da Regione Emilia Romagna e Provincia di Ferrara

“TASS – Storia di Stefano Tassinari” alla Sala Boldini

da: Arci Ferrara

Mercoledì 10 settembre, alle ore 20:30, la Sala Boldini ricorda la figura di Stefano Tassinari con la proiezione di “TASS” il documentario di Stefano Massari presentato in anteprima all’ultima edizione dei Biografilm Festival di Bologna.

Stefano Tassinari è stato scrittore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, autore teatrale, operatore culturale, militante politico. Muore a 56 anni, nel maggio del 2012 dopo una lunga malattia. Il film racconta, intrecciando i ricordi di molti tra i tantissimi amici e compagni di strada, la sua vicenda umana, politica e culturale: dalle origini ferraresi agli anni romani nel cuore della contestazione degli anni 70’, al ritorno a Ferrara con la prosecuzione dell’attività politica, contestualmente all’inarrestabile creazione e condivisione di esperienze musicali, teatrali, oltre che di riviste e rassegne letterarie; dagli inizi della sua carriera letteraria all’approdo a Bologna, che è divenuta la sua città d’elezione, il suo definitivo punto di riferimento operativo.

Il film è il racconto corale di artisti, intellettuali, scrittori, uomini politici che gli sono stati accanto in tantissime vicende culturali: Pino Cacucci, Mauro Pagani, Mario Dondero, Marcello Fois, Alberto Bertoni, Carlo Lucarelli, Bruno Arpaia, Marco Baliani, Claudio Lolli, Fausto Bertinotti, Filippo Vendemmiati, Luca Gavagna, Andrea Satta, Pier Damiano Ori, Concetto Pozzati e molti, molti altri.
Stefano Tassinari è stato un inesauribile “motore di cultura”. Un uomo governato da una coerenza radicale ma capace di orizzonti capillari e vastissimi. Un uomo di grande rigore e di generosità autentica, senza compromessi, diventato nel corso degli anni un punto di riferimento, un interlocutore cruciale per tantissimi protagonisti del mondo culturale e politico.

Prima della proiezione interverranno:
– il regista Stefano Massari,
– l’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Massimo Maisto,
e gli amici e collaboratori Roberto Formignani, Luca Gavagna, Laura Magni, Roberto Manuzzi, Marco Caselli Nirmal e Giorgio Rimondi.

L’ingresso alla serata è libero.

L’ultimo scatto di Andrey Stenin

Da MOSCA – Venerdì 5 Settembre, Mosca. Un collega mi avverte del suo arrivo in ritardo in ufficio per la presenza di traffico intenso in una zona a pochi passi da noi. Il traffico e la presenza di tante persone, colleghi giornalisti o gente comune non rimasta indifferente, sono la reale causa di un rallentamento all’altezza dell’agenzia russa di stampa internazionale Rossiya Segodnya, sul larghissimo Zubovsky Bulvar. Fiori rossi ovunque, tristezza e lacrime, qui si sta svolgendo la cerimonia commemorativa del fotoreporter di guerra Andrey Stenin, ucciso nell’est dell’Ucraina, le cui ultime notizie risalivano allo scorso 5 agosto.

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Mosca, davanti all’agenzia stampa, foto di Simonetta Sandri

Da allora, la stampa russa e internazionale si erano mobilitate, sfilando per le strade del mondo con il suo giovane ritratto, accompagnato dallo slogan “Liberate Andrey”. Si sarebbe scoperto solo qualche giorno fa che Andrey era stato ucciso, poco dopo la sua scomparsa, nel corso di un bombardamento contro un convoglio di mezzi che trasportavano centinaia di rifugiati, scortato dalle milizie, nella zona di Donetsk. Stenin è il quarto giornalista russo che muore lavorando, seguendo i fatti di guerra in Ucraina, come era avvenuto anche, ricordiamo, al fotografo italiano Andrea Rocchelli, nel mese di maggio. Oltre ad Andrey, altri tre giornalisti russi sono periti nel conflitto, il corrispondente Igor Kornelyuk, l’ingegnere video Anton Voloshin e il cameraman Anatoly Klyan. I suoi colleghi dicevano che Andrey “non poteva mai stare fermo”, che viveva sotto il fuoco delle artiglierie e che era estremamente appassionato e coinvolto dal suo mestiere di fotoreporter, che aveva intrapreso dal 2003.

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Andrey Stenin a lavoro, foto RIA Novosti

Voleva immortalare gli eventi, sempre, lasciare traccia di quanto di terribile l’uomo poteva essere capace di fare. Era stato in Siria, nella striscia di Gaza, in Crimea durante il referendum, in Egitto, in Libia, in Kirghizistan e in Turchia. L’unico pezzo scritto da lui, ad accompagnare le fotografie, è quello di Libia, intitolato “Come abbiamo lottato per Ras Lanuf e la Libia libera”: ha sempre voluto parlare solo per immagini e con le immagini.
Insignito del premio “Camera d’Argento” nel 2010 e nel 2013, Stenin, dal 2003, aveva lavorato nel giornale Rossiyskaya Gazeta, con il portale Gazeta.ru e, nel 2008, aveva iniziato ad occuparsi esclusivamente di fotografia, lasciando bruscamente il giornalismo classico (che non amava come la fotocamera), operando come freelance per Itar-Tass, Ria Novosti, Kommersant, Reuters, Associated Press, France Press. Collaborava con Ria Novosti dal 2009 (chiusa il 9 dicembre 2013 e sostituita dall’agenzia russa di stampa internazionale Rossiya Segodnya) e, dal 2014, era diventato l’inviato speciale di Rossiya Segodnya.

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Ritratto di Andrey Stenin, foto RIA Novosti

Andrey è stato insignito post mortem dell’Ordine del Coraggio, con decreto firmato dal presidente Vladimir Putin, proprio lo stesso scorso venerdì. Di lui restano centinaia di coraggiosi e intensi scatti, molti dei quali esposti davanti alla sede moscovita dell’agenzia stampa e l’annuncio recente della creazione di un premio internazionale annuale di fotogiornalismo in sua memoria. Riposa ora nel cimitero Troyekurovskoye di Mosca. Amaramente e tristemente, se ne va un altro giovane reporter trentatreenne, talentuoso e visionario, che ha sacrificato la propria vita perché la gente sappia la verità, per il diritto di tutti gli uomini di avere un’informazione obiettiva, chiara e multilaterale.