Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Racconti di una Resistenza impossibile

Si affida alla storia e alla memoria Elisabetta Sgarbi per rimanere lontano dalla retorica, fantasma sempre in agguato quando ci si confronta con il racconto degli episodi della Resistenza e degli ultimi decisivi mesi di guerra, trappola che imprigiona ricordi di vita vissuta in una narrazione stereotipata senza spazi per la complessità e che li spinge in un passato sempre più lontano e difficile da comprendere per il tempo presente.
Il lavoro della Sgarbi, al contrario, narra della Resistenza nelle pianure del Basso Ferrarese e del Polesine, tema ancora molto controverso nel dibattito storiografico, e lo fa attraverso le testimonianze di chi quel periodo lo ha vissuto, includendo episodi eroici e meno eroici.

Lidia Bellodi, una delle testimoni del film di Elisabetta Sgarbi

Velia-film-sgarbiVelia Evangelisti e (sopra) Lidia Bellodi, due delle testimoni del film di Elisabetta Sgarbi

Le celebrazioni del 69° anniversario della Liberazione a Ferrara sono iniziate proprio con la presentazione del film-documentario ‘Quando i tedeschi non sapevano nuotare’ della regista ferrarese Elisabetta Sgarbi, organizzata dal Comune di Ferrara, dal Museo Civico del Risorgimento e della Resistenza, da Arci, Anpi, Betty Wrong e Rai Cinema.

Sono storici che della Resistenza nel nostro territorio si occupano da sempre, come Anna Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, Davide Guarnieri, Andrea Rossi e il direttore dell’Istituto Parri di Bologna Luca Alessandrini, a confutare la tesi che la lotta di Liberazione non fosse possibile in pianura, a causa della mancanza di luoghi in cui nascondersi. Non solo, secondo Antonella Guarnieri – storica e responsabile comunicazione e didattica del Museo della Resistenza di Ferrara – già prima del 1943 è individuabile il “movimento antifascista” che porta “in carcere 60 ferraresi, tra cui lo stesso Giorgio Bassani e Alda Costa” e che preoccupa le autorità per la sua “particolarissima caratteristica di essere interpartitico e interclassista”.

film-elisabetta-sgarbi

Fin qui la storia, ma navigando sul Grande Fiume è come se gli innumerevoli rami che crea nel suo Delta ci portassero ad approdare ad altrettante vicende di coloro che in quegli anni c’erano. Il loro racconto non è fatto solo di parole, anzi forse la parte più importante sono i loro volti, i loro sguardi, su cui la regista indugia perché, confessa, “è un modo di entrare con una lente di ingrandimento” dentro le emozioni. Il rabbino Luciano Caro testimonia “l’orgoglio” della comunità ebraica ferrarese e la sua esperienza personale di rifugiato in un paese vicino Lucca: “abbiamo vissuto i due aspetti la protezione e la delazione”, tutta la comunità li ha protetti nonostante sapesse delle loro origini, ma fu un conoscente del padre a denunciarlo, deportato ad Auschwitz non fece più ritorno. Balduino Masieri di Alberone narra di quando ha visto i tedeschi annegare inghiottiti nelle acque del Po mentre tentavano di attraversarlo con una fune, e Giuseppe Sgarbi, il padre di Elisabetta e Vittorio, ricorda una giornata passata nascosto a fumare per il timore di essere di essere catturato durante un rastrellamento. Lidia, partigiana di Bondeno, racconta di quel 18 febbraio 1945, quando più di duecento donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, hanno assaltato il Comune di Bondeno e gettato i registri di leva dell’anagrafe giù dalle finestre per bruciarli: lei all’epoca aveva 19 anni ed era fra quelle donne. Ma si ricorda anche di quella sua amica staffetta che per passare un posto di blocco di fascisti e tedeschi si è tirata su la gonna: allora poche donne potevano permettersi di comprare le mutande da indossare sotto i vestiti. Velia, staffetta di Ferrara, parla dell’orgoglio di suo padre antifascista quando l’ha vista uscire di casa in missione vestita da uomo con il suo cappello in testa, ma anche dello scivolone subito fuori dalla porta a causa del ghiaccio sul marciapiede e poi delle serate con suo marito: “mi veniva a prendere in bicicletta e via che andavamo a ballare”.

Non racconti epici, ma episodi di una guerra divenuta quotidianità, non eroi, ma testimoni sopravvissuti, che ci raccontano dei loro vent’anni.

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore.

Vedevamo a portata di mano
oltre il tronco il cespuglio il canneto
l’avvenire di un giorno più umano
e più giusto più libero e lieto.”
(Italo Calvino, Oltre il ponte)

La lingua salvata

Non sarà che ci scopriamo tutti migranti in questo mondo del globale, se non altro per via della lingua che parliamo? Disorientati tra il difendere le nostre radici e il desiderio di aprirci sempre di più alle sfide di internet e della globalizzazione, sopraffatti dall’onda crescente e colonizzante del panEnglish?
La mente torna alle pagine della biografia che Canetti fa di sé con La lingua salvata.
Lui che nasce a Rustschuk, in Bulgaria, sul basso Danubio, naturalizzato britannico, sceglie come lingua madre il tedesco, quella lingua che la mamma “con terrore pedagogico” gli impone. Studierà al liceo di Zurigo e a Zurigo morirà.
Noi, che ancora ci muoviamo nell’angustia dei ragionamenti sui vari bilinguismi e su quanto sia opportuno anticipare l’apprendimento delle lingue straniere, non è che ci possiamo rifugiare nel «ma lui è Elias Canetti!» quando dalle sue parole apprendiamo che già alle elementari parla spagnolo, bulgaro, inglese, francese e subito dopo il tedesco.
È vero, il nostro grande paese, un tempo crocevia di culture, oggi è attraversato da leghismi padani, da velleitarie repubbliche da cortile di casa, da migrazioni di lingue e culture che nella nostra pertinace ottusità fatichiamo ad accogliere e comprendere.
La Rustschuk di Canetti, agli inizi del secolo scorso, era un luogo dove vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue, un microcosmo dove circolavano bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, zingari, circassi, rumeni…
Ora anche da noi, se facciamo attenzione, in giro per la città udiamo che il vecchio familiare dialetto sta cedendo il passo ad un moltiplicatore di lingue che non riconosciamo.
Elias Canetti racconta di quando da piccolo, scendendo le scale di casa, dall’appartamento di fronte usciva un uomo sorridente che gli intimava di mostrargli la lingua; e non appena il piccolo Elias la tirava fuori, quello estraeva di tasca un coltellino e diceva: «ora gliela tagliamo». Ma, all’ultimo momento, richiudeva il coltellino con un colpo secco e rimandava il taglio all’indomani.
Non è solo un episodio, lo scherzo di un adulto si trasforma nell’incubo d’un ragazzo che spiega la scelta del titolo La lingua salvata. Perché privarci della nostra lingua è come cancellare la nostra identità, la nostra capacità di pensiero, l’intimità del sentire e degli affetti.
Tove Skutnabb-Kangas, docente all’Università danese di Roskilde e all’Accademia universitaria di Vasa in Finlandia, è conosciuta nel mondo per le sue crociate a favore del riconoscimento dei diritti linguistici umani e per il diritto all’istruzione delle minoranze linguistiche e culturali.
Denuncia che le lingue stanno scomparendo dal pianeta più rapidamente delle specie viventi, in parte, sostiene, a causa della diffusione dell’Inglese. Ma è anche il risultato delle nazioni che non proteggono le minoranze linguistiche e non usano queste lingue come medium dell’istruzione nelle loro scuole.
Contro l’estinguersi delle lingue, e con esse lo scomparire di culture, di tradizioni e di identità, la Tove propone una Convenzione universale dei diritti linguistici umani. In essa afferma che ogni persona ha diritto di identificarsi con la propria madrelingua e vedere questa identificazione riconosciuta e rispettata dagli altri.
Ognuno ha il diritto di apprendere la madrelingua, orale (quando è fisiologicamente possibile) e scritta. In particolare, e questo riguarda soprattutto i figli di prima e di seconda generazione degli immigrati, anche per il nostro paese, di essere istruito prioritariamente attraverso il medium della propria madrelingua, all’interno del sistema scolastico finanziato dallo Stato. Di utilizzare la madrelingua nella maggior parte delle situazioni ufficiali (comprese le scuole). Soprattutto, ogni cambio rispetto alla propria madrelingua, poiché include conoscenze e conseguenze a lungo termine, deve essere volontario e non può essere imposto.
La Tove difende con forza il diritto di tutti i fanciulli a ricevere l’istruzione nella loro madrelingua, divenendo bilingui o trilingui con l’apprendimento della lingua dominante nel paese che li ospita.
Del resto, i dati dell’Ocse sono chiari. Dimostrano che, in generale, la prima generazione dei figli di migranti non raggiunge lo stesso grado di istruzione dei loro coetanei indigeni. Sia per la prima che per la seconda generazione, l’istruzione acquisita dipende dal livello culturale dei genitori.
Per tanto le politiche migratorie dei paesi ospitanti non sono indifferenti, ma incidono sui risultati scolastici dei figli degli immigrati. Dove la selezione di lavoratori stranieri avviene tenendo conto delle necessità del mercato del lavoro, delle qualifiche e dei livelli di istruzione, come in Australia e in Canada, il tasso di preparazione a cui giungono i figli di seconda generazione è circa lo stesso o superiore a quello dei coetanei nativi. All’opposto in Germania, in Belgio e in Italia, dove sono reclutati lavoratori stranieri con basse competenze, i livelli di istruzione raggiunti dalla seconda generazione sono significativamente al di sotto di quelli dei madrelingua.
Secondo i dati Ocse è proprio la lingua a creare lo svantaggio, il non poter studiare e pensare nella propria lingua madre: la lingua è il fattore prevalente che riguarda il rendimento scolastico.
Inoltre, poiché la madrelingua è la lingua del quotidiano, i fanciulli delle famiglie migranti spesso parlano in casa una lingua che è differente da quella del paese ospite.
Noi siamo una nazione con una scuola in teoria attenta alla lingua materna, alla lingua di scolarizzazione e alle lingue europee, ma in pratica molto lontana dall’essere un sistema scolastico plurilingue. Per cui, mentre i ministri dell’istruzione progettano fin dalle elementari lezioni in lingua Inglese, non sono in grado, non solo di procurare i mezzi, ma neppure di pensare a come garantire ai figli degli immigrati il diritto di imparare a scuola per mezzo della loro madrelingua, quella famigliare e di tutti i giorni, come è nel diritto di tutte le bambine e i bambini di questo mondo. Così gli svantaggi per questi fanciulli si moltiplicano e per loro, che hanno il medesimo diritto all’istruzione dei loro coetanei italiani, viene meno il dettato dell’art. 3 della nostra Costituzione, che dovrebbe valere ancor prima di ogni altra disquisizione intorno allo ius soli o allo ius sanguinis.
Eppure è dal 1960 che esiste la Convenzione dell’Onu contro le discriminazioni nell’istruzione. All’art. 5 fornisce una chiara protezione delle minoranze culturali e linguistiche, a partire dai fanciulli migranti. L’Unesco, nel 1999, ha istituito la Giornata internazionale della madrelingua del 21 febbraio.
Ma, evidentemente, anni di governi ignoranti e di leghismi intellettualmente asfittici hanno finito con ottundere le menti di questo nostro paese e rendere cronica la sua miopia.

Render conto

Nei vari articoli che ho scritto sulla rubrica “Ecologicamente” ho cercato di proporre (forse con toni teorici e poco accattivanti) alcuni principi ambientali su acqua e rifiuti che mi stanno particolarmente a cuore. Mi rimane da trattare un punto che taglia trasversalmente tutti i temi e che, a mio avviso, rappresenta il principio base di ogni impostazione. Mi riferisco all’Etica della responsabilità: si tratta di un concetto generale su cui ritengo importante fare qualche ragionamento conclusivo.
La mia opinione infatti è che siano necessari elementi “alti” di caratterizzazione dei servizi pubblici locali in quanto indispensabili per realizzare un reale processo di miglioramento che richiami alla sostenibilità, alla trasparenza, alla certificazione, alla accountability, all’etica.
Bisogna mantenere alta la sensibilità e la domanda di sostenibilità e qualità sui servizi pubblici ambientali, e più in generale di ambiente, perché la crescita di qualità ambientale è un bisogno di tutti. Il bisogno di fiducia e partecipazione deve sostituire il crescente disagio e la diffidenza dei cittadini. La qualità della vita, la sicurezza, il rispetto ambientale, la coscienza civica devono contrastare la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze e l’iniqua distribuzione.
Non vorrei dare nessuna lezione di morale né fare demagogiche riflessioni, ma solo rafforzare la consapevolezza di poter ritrovare in questi territori, con questo sistema istituzionale e industriale, dei valori alti che hanno caratterizzato e che si pensa caratterizzeranno ancora i servizi pubblici collettivi in questa regione e in questa provincia.
Il bisogno di qualità sta diventando un importante elemento di riferimento anche nella politica economico-industriale dei servizi pubblici; vi è uno stretto legame tra sistema di gestione e livello di qualità ed efficienza economica, e i sistemi di regolazione devono fronteggiare il tipico dilemma fra incentivare l’efficienza produttiva e trasferire quote della rendita.
La Qualità è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella logica di apertura regolamentata dei mercati e dunque come fattore di competizione per la scelta concorrenziale del gestore. Si arriva così alla centralità dell’accountability, come insieme di momenti atti a “rendere conto in modo responsabile per tenere fede agli impegni presi”; l’accountability è dunque un insieme di modalità attraverso cui rapportarsi con i vari portatori di interesse per ottenere consensi. Questo ci porta ad un tema fondamentale: il capitale sociale. Quest’ultimo, come fondamentale valore da difendere, rappresenta infatti quella risorsa che permette di valorizzare il capitale culturale, il capitale simbolico e il capitale economico, e metterla a disposizione dei singoli individui.
Va rilevato come in particolare si stia passando da una fase di partecipazione e coinvolgimento ad una fase di distacco, di cinismo e dunque di sfiducia. E’ difficile distinguere quanto sia causa di un malessere generale; certo è che questa sfiducia indebolisce il capitale sociale come elemento di successo e di distinzione. Il capitale sociale è un importante valore di sviluppo e deve essere monitorato e analizzato in continuo per meglio comprendere il gradimento dei cittadini e più in generale il loro livello di qualità della vita.
Abbiamo bisogno di analizzare più a fondo come possono coesistere reali processi di miglioramento in contrasto con crescenti segnali di disagio e di insoddisfazione. In sintesi si stanno allentando i rapporti fiduciari che fortemente caratterizzavano il territorio e si vanno rafforzando al contrario strumenti di difesa e di autotutela.
Gli individui interagiscono quando si riconoscono reciprocamente come fini e non come mezzi. Si sente il bisogno di trasparenza e di fiducia; spesso invece si avverte una pregiudiziale diffidenza.
Conoscere cosa la gente spera sarà obiettivo fondamentale di ogni politica futura. Indagare sulle dimensioni di fiducia diffusa e di fiducia condizionata nelle relazioni fra erogatori di servizi pubblici e utenti è un impegno che bisogna assumersi collettivamente.

La nostalgia degli ‘umarells’ è paralizzante. Bisogna cominciare a immaginarsi un futuro diverso

di Elisa Manici

Danilo Masotti, l’inventore degli umarells, è, come dice il suo amico sociologo Ivo Germano, ”l’esegeta della più spiccia e incatenata realtà bolognese, anzi, è l’indagatore della sua fissità sociale”. Blogger, scrittore, per 25 anni creatore e frontman della band New Hyronja, e agitatore web tra la strizzata d’occhio alla pancia becera della gente e l’amore per quella che definisce una metropoli di provincia. Uno che pur avendo lanciato l’hashtag #ilgiorno dopononsuccedemaiuncazzo e #cimeritiamotutto – e che ha pure intitolato così il suo primo romanzo – nella sua vita è riuscito a spezzare le catene dell’ormai mitologico (ma per molti animi inquieti angosciante nella sua ripetitività) posto fisso e a inventarsi una vita anche lavorativa a sua misura: per portare a casa lo stipendio fa il grafico e il consulente per il web e il social media marketing.
Su Facebook, a chi non lo conosce bene, dà una prima impressione di cavalcare il populismo della rete in modo spesso irritante, ma basta conoscerlo meglio per capire che c’è molto altro. Lo incontriamo di persona proprio per parlare della bolognesità a modo suo, ovvero della bolognesità che passa dal web. Ma la sua lucida e spietata visione del provincialismo s’attaglia a Bologna come a Ferrara e ad ogni campanile d’Italia. Lui si pone molto gentilmente, e non si sottrae ad alcuna domanda.
“I social media si prestano molto a parlare di Bologna. Io mi diverto molto, ho iniziato coi blog, il primo è stato ‘Lo spettro della bolognesità’: replicava quello che avviene in una piazza, raccontavo quello che vedevo, ma il blog poi ha fatto il suo tempo. Quindi sono passato a una forma di comunicazione molto più veloce, che è quella di Facebook e Twitter. Su Facebook ho fatto il mio esperimento peggiore, direi, è un gruppo che si chiama ‘Una Bologna peggiore è possibile’, dove tutti i bolognesi si possono lamentare. Lì sono riuscito a raccogliere veramente il peggio della città, ma penso che una Bologna peggiore sia ancora possibile”.

E qual era il tuo scopo quando l’hai creato?
Io quando faccio le cose non ho mai un fine, il mio scopo è divertirmi. Però se proprio voglio trovare un fine è far specchiare i bolognesi in questa provocazione, farli riflettere, ascoltarsi, sentire cosa dicono sulla città, riflettere sulle loro chiusure, riflettere sui loro pregi, anche. Questa cosa qua secondo me è molto importante, e soprattutto è importante confrontarsi con persone che ti stanno anche un po’ sulle balle, anche con persone con cui non condividi e con le quali non ti diresti mai nulla.
L’utente medio di Una Bologna peggiore è possibile sembra essere pieno di mal di pancia, chiuso, tendenzialmente razzista e reazionario.
Il bolognese ha questa matrice che possiamo definire leghista, ma in questo caso “leghista” non c’entra niente con il partito della Lega, c’entra con l’attaccamento al territorio. C’è questo attaccamento al territorio, questo essere una sorta di testimoni di Geova della bolognesità, l’andare in giro a dire: “Sì, perché noi a Bologna facciam questo, facciam quello”, che è la realtà di tutte le province. Bologna è una metropoli di provincia, è una città che amo. Ecco, io ci tengo a sottolineare che queste cose che faccio sui social media e anche sui libri sono un atto d’amore nei confronti della mia città.
Mi sembra che questo, al di là di tutte le gag, traspaia con evidenza. Si dice spesso che oggi non c’è più un’unica narrazione dominante rispetto a un fatto, a un luogo, ma che ognuno scelga la sua. E’ così o ce n’è una che prevale?
Ogni narrazione della città parte dal concetto della “Bologna di una volta che si stava meglio”. Ma “non c’è più la Bologna di una volta” io me lo sentivo già dire nel ’77, quando avevo 9 anni, quindi bisogna risalire a qual è questa Bologna di una volta, tornare a viverci, e scoprire che magari non ci piace La Bologna di una volta forse rappresenta la gioventù, rappresenta la spensieratezza di ognuno di noi, e ognuno ha perciò la sua Bologna di una volta mentale.
E invece, come ci si può proiettare nella Bologna di oggi e del futuro?
La Bologna contemporanea è sicuramente problematica, come è problematico il mondo. Secondo me per proiettarsi nel futuro bisogna farsi ricchi del proprio patrimonio di vissuti in questa città e immaginarsi un futuro diverso. Bisogna cominciare a occuparsi meno di passato, con meno nostalgia paralizzante.
Attraverso la lente dell’ironia, con le tue pillole Scendo in campo affronti questioni legate all’oggi.
Sì, le giro col mio smartphone, riprendendomi selfie come va di moda adesso. Affronto le problematiche di questa città attraverso i luoghi comuni, didendo frasi fatte come alla gente piace sentirsi dire. Si ottengono molti “mi piace”, si ottengono molte critiche, si ottengono molti “ma che cazzo stai dicendo”.
Com’è nato l’hashtag #ilgiornodopononsuccedemaiuncazzo?
Da un’esperienza personale di plurivisioni di programmi come Report, Ballarò, Piazza Pulita, Servizio Pubblico. Programmi che seguo sempre meno, appunto perchè, anche se mi piace molto la domenica sera guardare, poi dopo mi lavo i denti, vado a letto, e il giorno dopo non succede mai un cazzo. Questi programmi, certo, ci vogliono, sono fondamentali, è importante sapere che cosa ci gira intorno. Ma poi?
Hai scritto ormai diversi liberi, ma solo un altro romanzo, Ci meritiamo tutto. Perché per Masotti ci meritiamo tutto?
Perchè ogni cosa che avviene nelle alte sfere del potere, ma anche solamente in un’azienda, è appunto perché noi non abbiamo fatto nulla perché ciò non accadesse, abbiamo delegato troppo, quindi ci meritiamo tutto, se continuiamo a delegare e se continuiamo ad affidare la nostra vita agli altri.
E tu che consiglio dai a una persona che non vuole più meritarsi tutto?
Per prima cosa bisogna farsi due conti in tasca e vedere se si può permetterselo. Non è così scontato, ma se questa persona comincia a vedere che di tanti oggetti può fare a meno, che può vivere spendendo meno, che può godere anche di una giornata di sole come quella di oggi e consumare meno, senza pipponi da decrescita felice. Se una persona comincia a rinunciare a tante cose, comincia a godersela un pochino di più, e secondo me riesce a gurdarsi dentro e a provare a cambiare qualche cosa. Se invece uno sta solo a guardare ai soldi, agli 80 euro in più in busta paga e cose così, continuerà poi solamente a meritarsi tutto. Chi può permetterselo un pochino, può uscire da questo gioco vorticoso, che come diceva il mio caro amico Freak Antoni “il ricatto del bisogno toglie all’uomo ogni sogno”.

[© www.lastefani.it]

Evviva i Subbotnik! La nuova versione dei ‘sabati comunisti’ in Russia

Da MOSCA – Sabato 12 aprile sono passati esattamente 95 anni dal primo Subbotnik o sabato comunista. Nel lontano 1919, nel deposito ferroviario della linea Mosca-Kazan, 15 lavoratori comunisti e simpatizzanti sacrificavano il loro sabato notte per riparare locomotive che sarebbero servite al paese. Decisero che avrebbero continuato l’esperienza regolarmente.

Vi domanderete, ma perché ne parliamo oggi? Vi dirò per quale motivo. La parola è la combinazione dei vocaboli Subbota (sabato) e Nik (giorno di lavoro volontario, non pagato, per il bene della società). Evidentemente, la storia del sabato comunista ha avuto la sua evoluzione, per fortuna. Se, infatti, il 1° Maggio 1920, il Partito Comunista annunciò il primo subbotnik ufficiale, al quale partecipò anche Vladimir Lenin nella Piazza del Cremlino (dipinto da Vladimir Krikhatsky), l’evento fu utilizzato dalla propaganda sovietica per mostrare quanto il padre della rivoluzione fosse davvero vicino ai lavoratori.

lenin-al-sabato-comunista nel-cremlino-mosca-maggio-1920
Lenin al sabato comunista nel Cremlino. Mosca, maggio 1920

Divenuti poi parte del sistema, i sabati si trasformarono in eventi simbolici utilizzati per aumentare l’entusiasmo del popolo e promuovere l’idea di socialismo, fino ad arrivare a ricoprire un ruolo fondamentale e cruciale nel costruire la società socialista, unendo studenti e insegnanti, lavoratori di ogni categoria, capi e dipendenti in un impulso comune. Negli ultimi anni dell’era sovietica, il subbotnik veniva organizzato all’inizio della primavera, subito dopo lo scioglimento della neve. Per questo motivo, venne associato ai lavori di pulizia dopo l’inverno: si lavavano le strade e le finestre, si raccoglieva la spazzatura, si pulivano i giardini e le facciate grigie degli edifici. La gente piantava alberi, fiori e piante. Durante il periodo dell’U.r.s.s. l’evento divenne obbligatorio, come quello annuale, che si teneva il giorno del compleanno di Lenin, il 22 aprile (chi si rifiutava di partecipare andava incontro a dure repressioni). Negli anni ’50, i sabati comunisti vennero promossi anche nei paesi del blocco comunista, in particolare nella Germania dell’Est e in Cecoslovacchia, dove presero il nome di Akce Z. Qui non erano amatissimi ma comunque diffusi.

tutti-subbotnik-ovvero-anche-tu
‘Tutti al subbotnik!’ (ovvero anche tu!)

Lontani da ogni ideologia, della quale ne è stata oggi del tutto spogliata, l’usanza del subbotnik è rimasta viva in Russia e in altre ex Repubbliche sovietiche, per esempio nella raccolta di rifiuti e di materiali riciclabili, nelle riparazioni di beni pubblici e in altri servizi a beneficio dell’intera comunità. In tutta la Russia, da tempo ormai, questo subbotnik continua a vivere, in un forte spirito collettivo e di solidarietà. A Mosca, quest’anno, fra il 12 e il 26 aprile, i cittadini si mobilitano per pulire città, parchi e giardini. E non solo nella capitale. Il volontariato ambientale oggi si vede.

 

 

 

mosca-20-aprile-2013-più-di-400-volontari-hanno partecipato-iniziativa-pulizia-parco-muzeon
Mosca, il 20 aprile 2013, più di 400 volontari hanno partecipato all’iniziativa di pulizia del parco Muzeon

L’anno scorso, ai subbotnik organizzati a Mosca hanno preso parte 1 milione e 300mila persone. La settimana successiva ci si è spostati in un altro parco moscovita, quello di Sokolniki. Scomparsa la neve, in primavera, i volontari liberano prati e vialetti dai rifiuti e dalle foglie vecchie, riverniciano le panchine e piantano fiori nelle aiuole. Il numero dei volontari cresce.
Le imprese russe, poi, organizzano i subbotnik se hanno la necessità di creare un team building speciale. L’organizzazione di subbotnik aziendali comincia a diventare un business, in Russia. Al tema ambientalista sembrano interessarsi le imprese più avanzate in cerca di nuove idee per motivare i collaboratori. Molti lo considerano solo uno svago, un modo per passare il tempo insieme e socializzare; molti altri, invece, dopo aver partecipato alla pulizia dei parchi, cominciano a fare la raccolta differenziata anche a casa. Non bisogna sottovalutare l’effetto psicologico: nei luoghi dove si tiene pulito, i rifiuti diminuiscono del 50 per cento.

mosca-parco-muzeon
Mosca, Parco Muzeon

Oltre ai subbotnik aziendali si moltiplicano le iniziative di volontariato ambientale organizzate da associazioni di entusiasti. Una di queste è il movimento “Rifiuti zero” che esiste dal 2004 e raccoglie attivisti di cento città russe. Tutto ha avuto inizio dai cortili di casa: gli spazzini pulivano intorno alle case, ma alle aree giochi per bambini non ci pensava nessuno. Per questo, Denis Stark organizzò nove anni fa la prima iniziativa di volontariato ambientale nella sua città natale, San Pietroburgo. Agli otto organizzatori si unirono allora dieci persone. Denis noleggiò un camion a proprie spese per trasportare i rifiuti. Nel 2010, al subbotnik annuale organizzato dal suo movimento in tutta la Russia, i partecipanti furono 1.500; nel 2011, 9mila e nel 2012, 85mila. I volontari organizzano le proprie azioni attraverso i social network, utilizzando tutti gli strumenti per coinvolgere i cittadini: annunci in rete, pubblicità nella metropolitana, volantinaggi, iniziative pubbliche per illustrare le azioni in programma. A settembre 2013, il movimento ha organizzato un nuovo subbotnik nell’ambito del programma internazionale di volontariato ambientale World Cleanup 2013. L’edizione è partita il 30 marzo 2013, con la manifestazione “Ghiaccio pulito nel Baikal”.

Ecco perché volevamo parlarvene: perché dal vecchio subbotnik è nata una nuova, forte e giovane coscienza collettiva. Strade, parchi e giardini di Mosca docent.

A proposito di laicità

Mercoledì 9 aprile la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto della fecondazione eterologa, che nell’accezione comune indica l’impiego di gameti (ovocita femminile e spermatozoo maschile) non appartenenti ad una coppia, donati o venduti, per avere un figlio.
Qui mi fermo, perché per entrare più dentro la materia serve una laurea in medicina, che non ho, e anche un certo stomaco.

È un’ennesima spallata alla legge 40 del 2004, approvata dal centrodestra per regolamentare la procreazione medicalmente assistita. Si legge (Corsera, 10 aprile) che sono ormai 32 le sentenze che hanno invalidato diverse parti della norma, tanto che la Quaranta in pratica finisce di esistere.

Al di là dei pro e contro, il caso ripropone sullo sfondo il tema aperto della laicità, o, se si preferisce, del rapporto stato-chiesa in Italia.
Qualcuno ricorderà i quesiti del referendum del 13 giugno 2005 per l’abrogazione della legge, con l’estenuante dibattito su procreazione assistita e cellule staminali.
I vescovi italiani, contrari all’abrogazione nonostante la considerassero un male minore, per iniziativa del loro presidente, cardinal Camillo Ruini, indicarono con forza la strada dell’astensione. Il tutto con la benedizione di papa Ratzinger, che ebbe parole di pieno sostegno alla scelta, durante la 54a assemblea generale della Cei il 30 maggio di quell’anno.

La novità non fu la presa di posizione dei pastori, ma “quella” mossa.
Ricostruisce bene la vicenda lo storico Giovanni Miccoli nel libro “In difesa della fede” (2007).
Fu una scelta presa evidentemente nel presentimento che i “no” non fossero maggioranza nel paese, specie dopo le docce scozzesi delle sconfitte su divorzio e aborto.

La questione non è se negare alla chiesa il diritto di far sentire la propria voce, che segnerebbe lo scivolamento dalla laicità al laicismo, ma il fatto che i vescovi, con l’aperta volontà di far fallire il referendum, entrarono volutamente nel campo della tattica e delle scelte politiche.
Più volte Benedetto XVI disse che non si trattava di ingerenza o interferenza nella vita pubblica nazionale, ma di una doverosa azione per illuminare le coscienze.
È interessante il filo logico seguito dal papa teologo. Il principio in questione, per sua stessa ammissione, non è verità di fede ma è iscritto nella natura dell’uomo, cioè investe la legge naturale. Perciò la chiesa non sta difendendo un interesse strettamente cristiano, confessionale, ma i diritti fondamentali della persona.

Siccome compito della chiesa è la tutela dei principi di natura, dei quali si fa interprete vera e ultima in quanto maestra di umanità, allora il suo intervento si fa eticamente necessario e conseguente al mandato cristologico di evangelizzare, anche nel campo di valori che, perciò, diventano non negoziabili.
Così si estende l’ambito di predicazione del magistero ecclesiale, fino a toccare spazi non direttamente conseguenti alla rivelazione e il destinatario degli insegnamenti diventa potenzialmente l’intero consorzio umano.

Lungo questa linea si comprende come per Ratzinger non sia sufficiente parlare della ragione umana, se ad essa non si affianca l’aggettivo “retta” e cioè illuminata dai principi di natura, iscritti nel cuore umano dal soffio di Dio.
In questa linea va ricompreso anche il binomio libertà-verità, nel senso che la vera libertà è quella che si configura entro i confini della verità, della quale custode infallibile è la chiesa cattolica.

Proprio sul tema “Chiesa e diritti umani” ha scritto un ottimo libro lo storico Daniele Menozzi (2012), che qui possiamo solamente citare e, in fondo, il contesto è lo stesso che vide lo scontro traumatico in concilio Vaticano II (1964) sulla dichiarazione “Dignitatis Humanae”, ossia sulla libertà religiosa. Tanto che un altro storico, Hubert Jedin, ha scritto del “Venerdì nero” del concilio.

Chi contesta questa impostazione viene visto come colui che vorrebbe impedire alla chiesa di svolgere il proprio compito e che pone in discussione i diritti fondamentali della persona e, perciò, si pone contro la stessa legge di natura. Di questo passo fra laicità e laicismo non c’è più alcuna differenza e tutto diviene attacco alla libertà religiosa, cioè alla legge naturale, a Dio e all’uomo, in un giudizio pessimistico che copre le società occidentali diventate preda del relativismo etico.

Questo è anche il significato della celebre frase di Ratzinger: “Veluti si deus daretur” opposta all’”Etsi deus non daretur”, perché convinto che la società tutta debba concepirsi ed organizzarsi come se dio ci fosse, non il contrario.
Così si capisce anche il tentativo di riproporre un modello che in tanti hanno definito costantiniano o di cristianità, nel quale è indispensabile che l’ordine veritativo, morale e naturale, sia iscritto nella stessa impalcatura istituzionale e normativa dello stato. In altre parole, lungo questa traiettoria si guarda con una certa nostalgia all’alleanza trono – altare, che ha contraddistinto il tempo dell’”ancien régime” fino all’intransigentismo ottocentesco e oltre.

Questo spiega anche il ritardo con cui la chiesa ha accettato il pensiero democratico (bisogna aspettare il radiomessaggio della vigilia di natale 1944 per sentire per la prima volta un successore di Pietro usare parole positive sulla democrazia) e i dubbi che tale passo sia stato completamente metabolizzato, perché democrazia è discussione e alcune cose non lo dovrebbero essere.
E forse non è un caso che proprio durante il pontificato di Benedetto XVI siano ripresi i colloqui con i lefebvriani – tradizionalisti, anticonciliari, intransigenti per antonomasia e con simpatie nemmeno celate verso regimi come quello dei generali argentini -, anche se poi sfociati in un fallimento totale, non senza pesanti imbarazzi vaticani.

Il senso di questo disegno sta propriamente nella consapevolezza che la chiesa possieda una superiorità etica, che le dà il diritto di dettare i contenuti etici delle norme dello stato e della società. Da qui i ripetuti appelli rivolti ai cattolici impegnati in politica a farli propri, se cattolici autentici (e fino a minacciare la scomunica), come si comprende anche la dinamica di avvicinamento tattico agli atei devoti (purché i valori non negoziabili si istituzionalizzino).

Sullo stesso piano va collocato pure il fronte aperto sulle radici cristiane dell’Europa da inserire nel preambolo della Costituzione Ue, perché secondo questa logica non può esservi vera Europa se non sulle radici che danno linfa di verità all’umanità e sulle quali è innestata la chiesa.

Molti hanno messo in luce almeno due punti deboli di questo disegno.
Primo: è rischioso porre i simboli religiosi come fattori di identità etnico-culturale, specie in società che si configurano sempre più pluraliste, anche sotto il profilo delle fedi.
Secondo: è una forzatura parlare di diritti, principi e valori, che appartengono all’ordine immutabile della natura. Solo restando nel perimetro ecclesiale, fino a non molto tempo fa vescovi definivano concubinato i matrimoni civili (oggi nessuno lo farebbe), mentre con riferimento al diritto inviolabile della vita umana, in passato non si è esitato a definire cristiani regimi che nel proprio ordinamento ammettevano la pena di morte.

Un disegno che ha mostrato pubblicamente la corda con le clamorose dimissioni di Benedetto XVI, fatto inedito, o quasi, nella storia bimillenaria della chiesa.
Il conclave che poco più di un anno fa ha eletto papa il cardinal Bergoglio (13 marzo 2013), deve aver deciso di cambiare rotta.
Il nome Francesco, lo stile della misericordia, l’inedita immagine della chiesa ospedale da campo data nell’intervista al direttore de La Civiltà Cattolica (19 settembre 2013), il ritrarsi, di ritorno dalla Giornata della gioventù di Rio, dal giudicare un gay (“Chi sono io per …”), paiono i gesti di un’impostazione differente.

Un’inversione di tendenza che guarda al concilio Vaticano II non come un segno di cedevolezza verso il mondo secolarizzato – da affrontare con l’armatura di Cristo Re -, e alla povertà come punto dirimente per una Chiesa che vuole decentrarsi rispetto alla posizione di dogana della grazia.
Ecclesia che, come scrive Alberto Melloni (“Quel che resta di Dio”, 2013), deve prendere atto che nessuno ha mai usato o no un profilattico solo perché lo dice il magistero. Per questo, sembra di capire, dopo aver insistito inutilmente sulla strada del bastone, ora si sta rivalutando quella roncalliana, appunto, della misericordia.

Spiegano bene il cambiamento di paradigma, per esempio, lo storico Massimo Faggioli (“Papa Francesco e la chiesa-mondo”, 2014), i teologi Severino Dianich (Regno 14, 2013) e Christoph Theobald (Regno 4, 2014) e il sociologo José Casanova (Regno 10, 2013).
La svolta, scrive Dianich, starebbe nella scelta della Chiesa di parlare alle donne e agli uomini e non più ai popoli, alle nazioni e agli stati, perché la storia dimostra che nessuna civiltà può dirsi cristiana. Tanto meno lo possono essere le istituzioni.

In un mondo complesso e plurale, prosegue Theobald, a nulla vale la riaffermazione contro-culturale dell’identità cristiana, perché nel contesto ermeneutico nel quale sono destinate a convivere molteplici interpretazioni e percorsi di senso, la credibilità si afferma per testimonianza e non per via autoritativo-normativa.
Vero e proprio banco di prova per la chiesa diventa il concetto sociologico di secolarizzazione, scrive in sintesi Casanova. Se cioè deve essere visto come la china negativa di un progressivo allontanamento della società da Dio (cosa peraltro non vera), oppure come una nuova ed inedita opportunità.
Non a caso il Vaticano II ha parlato ripetutamente di ressourcement, cioè di ritorno alle fonti. Quando il cristianesimo era una minoranza.

Pepito Sbazzeguti

Alla ricerca di una nuova solidità

Evaporati sogni, miti, certezze e riferimenti per l’azione, liquefatte in tante pozzanghere le certezze e le attese di futuro che avevano guidato le generazioni precedenti. Inseguiamo micro narrazioni, piccoli frammenti di senso da condividere, zattere galleggianti di un’identità smarrita. Questa è l’immagine che sottende la gran parte delle analisi delle trasformazioni del contesto post moderno, a partire dalla fortunata metafora della società liquida proposta da Bauman. Così abbiamo legami liquidi, anche l’amore è divenuto liquido, tutto sembra avere perso consistenza.
McKinsey, nota e prestigiosa agenzia di consulenza americana, intitola “Consistency”, una recente news letter, sottolineando come su questo concetto chiave si giocherà nel futuro prossimo il rapporto tra imprese e clienti, tra brand e consumatori.
Il termine consistenza rimanda ad una pluralità di significati: densità, solidità, stabilità, coerenza. Tutti termini molto lontani dalle immagini di velocità e di fluidità che hanno connotato le analisi fin qui e che continuano, non senza ragioni, ad accompagnare l’era di Internet.
Credo che nessuno possa sottovalutare il frenetico mutamento in atto, l’accelerazione di processi distruttivi e creativi che l’innovazione tecnologica sollecita. Eppure, emergono nuove domande di consistenza. Di cosa stiamo parlando? Di una qualità che si colloca a ridosso dei comportamenti di imprese, organizzazioni e istituzioni, ma anche di quelli individuali. Una qualità che investe la stessa tenuta identitaria, in quanto riguarda l’intima convinzione di una continuità biografica.
Il termine consistenza richiama parole come affidabilità, coerenza, fiducia. In un contesto strutturalmente imprevedibile ci aspettiamo di poter contare almeno sulla parola data, sulla prevedibilità dei comportamenti rispetto ai patti assunti, delle azioni rispetto alle dichiarazioni e così via. La fiducia è una condizione della formazione di coesione sociale e di legami e la mancanza di fiducia per un Paese è un danno assai più grande di qualche centesimo di punto di Pil.
Di fronte ad un quadro istituzionale e pubblico in forte crisi, le persone cercano una solidità mediata innanzitutto dalle buone relazioni. Cerchiamo consistenza nei luoghi del quotidiano, nelle relazioni dirette, nelle passioni che ci animano. La cerchiamo nei campi in cui avvertiamo di avere se non il controllo, almeno una personale responsabilità di scelta. Per questo le scelte di consumo fungono talvolta da sostituti di atti politici (pensiamo ai consumi sostenibili e al fascino del green, al biologico, ecc.).
Cerchiamo di allargare lo spazio della responsabilità, mantenendolo però sempre nella realistica area di ciò che compete a noi, che è nelle nostre possibilità. Per descrivere questa tendenza, l’etichetta di individualismo, associata troppo a lungo al ritiro dell’investimento dalla sfera della politica, non ci è mai sembrata così “inconsistente”, così incapace di cogliere il mutamento di segno dalla società di massa alla società degli individui.
Come sempre accade, il pendolo della storia propone continue oscillazioni per gli individui, impegnati nella ricerca di ancoraggi di senso e di un equilibrio inevitabilmente precario.

Maura Franchi (sociologa, Università di Parma) è laureata in sociologia e in scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Il custode poetico a Palazzo Massari

“La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina”. La verità di questa bellissima frase di Edoardo Sanguineti si può constatare anche a Ferrara, non solo in un’affollata conferenza alla biblioteca Ariostea, ma anche in una stanza silenziosa del Palazzo Massari.
Durante i mesi estivi, quel Palazzo in via Porta Mare talvolta è di un caldo insopportabile, non c’è aria condizionata e ammirare i quadri diventa un vero tormento. In quel periodo è particolarmente difficile concentrarsi sulle opere d’arte, essendo alla continua ricerca di qualcosa con cui potersi rinfrescare, eventualmente anche solo di un colloquio con qualcuno che ci faccia dimenticare il caldo. Durante una delle mie visite, ho avuto modo di intrattenermi con uno dei custodi che, annoiato, andava avanti e indietro per le sale. Non ricordo più nemmeno bene quale domanda gli feci. Comunque mi rispose piuttosto di malumore e quindi mi trattenni dal fargli altre domande. Poi, però, si avvicinò e mi chiese da dove venivo, e quando seppe che ero un giornalista, cominciò a farsi loquace. Prima mi fece un gran numero di elogi ambigui sulla Germania, affermando tra l’altro che gli americani sarebbero la causa di “tutte le nostre disgrazie”. Non mi disse a quali disgrazie si riferisse, ma per lui era più importante individuare i colpevoli che definire le colpe. “Gli americani sono più terribili di Hitler”. Espressi il mio dissenso e mi avvicinai nuovamente ai quadri. Però lui continuò a seguirmi. Grazie a dio non insistette più con le sue assurde teorie storico-politiche, ma cercò di richiamare la mia attenzione parlando di un altro argomento. Mi chiese se scrivevo anche romanzi e poesie, affermando che pure lui era uno scrittore e che amava molto la poesia. Mi disse che leggeva regolarmente poesie di Montale e di Ungaretti, poeti dai quali si lasciava ispirare per le sue opere. Per convincermi della sua serietà prese un mucchio di fogli da una borsa appoggiata su una sedia: erano poesie scritte il mese precedente. Disse di volermele regalare e che forse la mia conoscenza dell’Italiano sarebbe bastata per tradurle. Questo regalo mi riconciliò con il custode, le cui assurde opinioni politiche non potevo certamente condividere. A questo incontro strano si accompagna molto bene una nota letta sulla “Nuova Ferrara” in quei giorni afosi: a Bologna alcuni ladri erano entrati nell’appartamento di un carabiniere che si era recato alla messa domenicale con la famiglia; molti oggetti preziosi erano stati trafugati e il carabiniere lanciò un appello ai ladri, specificando che il valore materiale degli oggetti rubati non era per lui così importante e li pregava – sotto forma di versi – di restituirgli almeno i fogli con le sue poesie.

[Si ringrazia Giovanna Runggaldier per la traduzione del testo in Italiano]

Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.

L’amore che fa palpitare e sorridere, anche in fondo al viale

L’amore può sorprendere sempre, anche a ottant’anni. Piangi pure (Bompiani, 2013) di Lidia Ravera – da cui è stato tratto lo spettacolo di Lella Costa e Paolo Calabresi Nuda proprietà per la regia di Emanuela Giordano – è la fenomenologia di un amore senile che vive di passione, attese e corpi che si cercano, persino nella malattia.
Iris ha 79 anni e si innamora di Carlo, quasi coetaneo. Anche lui si innamora di lei, non importa se ha una moglie molto più giovane che si comporta come un’infermiera, in quello scampolo di vita che gli rimane, vive il suo amore con Iris e per Iris. C’è poco tempo, ma è un tempo libero da incombenze e doveri, è il loro tempo insieme. Dormono insieme, si baciano e si desiderano. Lui che riesce a guardarla “con gli occhi chiusi”, lei che riesce a sentirsi ancora piacente e agile da quando, quarant’anni prima, smise di esserlo e si rifugiò fuori da tutto, lontana dall’amore, in silenzio.
Iris, dopo avere lasciato il marito e una figlia piccola con cui non è mai riuscita a fare pace, per un’illusione durata sette mesi, ha vissuto scansando l’amore ed espiando la vita.
A quasi ottant’anni, un’altra possibilità di qualcuno che la scelga e glielo dica: “mi dedicherò a te”, questa è la decisione di Carlo. Anche Iris si dedicherà a Carlo, gli farà spazio, riuscirà a essere felice e a riguardare, tramite lui, il proprio passato.
Era stata una scrittrice, aveva narrato di sè in un romanzo e poi aveva chiuso anche con la scrittura, finchè un giorno Carlo, che è uno psicanalista con cui tutti i giorni Iris prende un caffè, le chiede di cominciare a tenere un diario dove finiranno impresse nuove pagine di vita, del presente, di un amore che nasce poco a poco e dei legami familiari traballanti e distanti. Soltanto alla nipote 27enne che fa della vita un mordi e fuggi di relazioni, Iris confessa di essere innamorata con la stessa naturalezza che si usa con un’amica fidata.
E come quando ci si innamora che la gerarchia degli impegni e della dedizione ha solo un senso, Iris stravolge una vita di abitudini e solitudine per lui, la riempie d’amore. Lo accompagna nella malattia, sa esserci, Carlo con una mano si appoggia al bastone, con l’altra alla spalla di Iris.
Lei che, dopo avere venduto la nuda proprietà della casa, aveva iniziato a pensare alla morte pur godendo di ottima salute, si sta incamminando con Carlo lungo un sentiero obbligato che non si sa quanto durerà. Una sera, a cena, parlano della morte e decidono che non esiste, “non è un’esperienza, non può essere vissuta nè raccontata nè testimoniata. Dunque non esiste”.
Riescono a nominare tutto e a non rinunciare a niente, l’ironia e il disincanto sono il loro codice, vivono il “vantaggio dell’ultimo tratto di strada”, senza convenzioni, orari e mete, ma l’amore, anche a ottant’anni, proietta in avanti, ti fa vivere gli eventi.
C’è un viaggio da fare, Carlo vuole tornare dov’è nato, solo Iris può accompagnarlo, un’altra intimità tra loro è possibile, come due sposi.

nascita

Trauma e nascita

Almeno l’80% dei bambini con alterazioni dello sviluppo, che comprendono anche deficit di concentrazione e autismo, ha alle spalle una storia di parto traumatico.
Il cervello è contenuto nella scatola cranica, una struttura adatta a sopportare la temporanea compressione all’interno del canale del parto e una conseguente grossa espansione durante il primo pianto del neonato.
La parte terminale del sistema nervoso è posizionato all’interno dell’osso sacro (l’osso largo che
forma la parte posteriore del nostro bacino). Anche quest’ultimo osso è strutturato per assorbire le
forze di compressione dovute alle contrazioni uterine, e in seguito a riequilibrarsi grazie ai movimenti corporei che avvengono subito dopo la nascita.
nascitaLa colonna vertebrale protegge il midollo spinale connettendo la testa al bacino.
I problemi che possono essere presenti durante il travaglio e il parto possono compromettere queste
aree strutturali, e, di conseguenza, alterare il sistema nervoso al loro interno, interferendo quindi con il suo sviluppo fisiologico.
Le disfunzioni strutturali dovute ad un trauma da parto possono essere corrette precocemente, in modo da permettere fin da subito un buon sviluppo neurologico. I problemi legati all’apprendimento, al comportamento e allo sviluppo possono essere affrontati ridando al bambino una corretta integrità anatomo-fisiologica.
In molti paesi è ormai prassi comune far seguire il bambino appena nato da un osteopata, in modo da prevenire possibili future disfunzioni del sistema muscolo scheletrico, nervoso, viscerale e comportamentale. La collaborazione poi con altre figure (medici specialistici, omeopati, psicomotricisti, fisioterapisti) è sempre la soluzione migliore per il soggetto preso in cura.

Vittore Veneziani, dai trionfi della Scala all’esilio in Svizzera per sfuggire alle leggi raziali

“MUSICI” FERRARESI DEL SECONDO OTTOCENTO
GIUSEPPE BORGATTI E VITTORE VENEZIANI

Giuseppe Borgatti – Diplomatosi al Liceo musicale di Bologna nel 1892, il tenore di nascita centese (FE) Giuseppe Borgatti (1871-1950) esordì in quello stesso anno nel Faust a Castelfranco Veneto. Ma la sua brillantissima carriera ebbe inizio l’anno successivo, con la medesima opera, al teatro Reinach di Parma. Per poi approdare al Regio di Torino, al Pagliano di Firenze, al Malibran di Venezia, al Dal Verme e alla Scala di Milano, quindi a Genova, a Roma, a Napoli. Numerose anche le sue tournée all’estero: Madrid, Siviglia, Pietroburgo, Il Cairo, Montevideo, più volte a Buenos Aires.
Unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori interpreti wagneriani in assoluto, Borgatti, a cui la sua cittadina natale ha dedicato un teatro, fu costretto a ritirarsi dalle scene poco più che cinquantenne a causa della cecità. In seguito si dedicò all’insegnamento, trasferendo la sua arte a molti giovani provenienti da varie parti del mondo.

Vittore Veneziani – Nato a Ferrara da famiglia israelita, Vittore Veneziani (1878-1958) studiò violoncello al Liceo musicale “Frescobaldi” e conseguì il diploma in composizione al Liceo musicale di Bologna, meritandosi una lode per la sua Cantata di Calend’aprile su versi di Gabriele D’Annunzio. Debuttò come autore nell’opera lirica con Il Pergolesi, a cui seguirono La leggenda del lago (rappresentata alla Fenice di Venezia nel 1911) e Mario e Cosetta. Specializzatosi in direzione del coro, già nel 1904 aveva diretto a Venezia il Sigfrido di Wagner e, nel 1907, un coro di duemila voci bianche in piazza San Marco.
Ma raggiunse l’apice della carriera a partire dal 1921, quando venne chiamato a dirigere il coro del teatro La Scala di Milano, debuttandovi il ventisei dicembre con il Falstaff di Giuseppe Verdi. Veneziani rimase poi alla Scala fino al 1938, allorché le leggi razziali lo costrinsero prima a ritirarsi come insegnante di musica in una scuola ebraica e, successivamente, a sfollare in Svizzera.
Rientrato in Italia dopo la Liberazione, nel maggio del 1946 fu chiamato dal grande Arturo Toscanini per l’inaugurazione del ricostruito teatro La Scala, dove egli rimase fino al 1953. Tornato a Ferrara all’età di settantacinque anni, ha qui fondato la celebre corale che oggi porta il suo nome.

eterni-me

Un’app è per sempre: ‘Eterni.me’, il social network dell’aldilà

di Davide Tucci

Il programmatore rumeno Marius Ursache si è inventato un software che permette di tenere in vita la memoria digitale dei nostri cari defunti. Attraverso algoritmi di intelligenza artificiale, ‘Eterni.me’ rielabora video, pensieri, frasi e ricordi pubblicati sui social network, adattandoli al presente. Partirà nel 2016, ma ha già 21mila iscritti. Di cui 152 italiani.

“Ciao, come stai? Mi manchi tantissimo”. “Qui va tutto a meraviglia. Mi mancate un sacco anche voi”.
Il mondo delle messaggerie online è colmo di esternazioni simili. Leggendole, verrebbe da pensare a un figlio, un compagno o un amico che, per motivi di lavoro o di studio, vive dall’altra parte del Paese, del continente o del mondo. E invece no. La tecnologia, a volte, viaggia più veloce dell’immaginazione e dei desideri più reconditi, spingendosi al di là della vita stessa: nell’aldilà, appunto. A partire dal 2016 sarà in rete “Eterni.me”, una piattaforma web in grado di “regalare” l’immortalità virtuale ai suoi utenti, attraverso simulacri digitali che ne conservano le caratteristiche anche dopo la loro dipartita: “Diventa semplicemente immortale” è l’invito che compare sulla pagina principale del sito dedicato a questa nuova, discutibile trovata. Già Google e Facebook avevano in qualche modo affrontato l’annosa questione, proponendo la sospensione degli account inattivi con la possibilità di lasciare il proprio profilo in eredità a parenti e amici. Eterni.me nasce da un’idea del programmatore rumeno Marius Ursache che, unendo le sue conoscenze a quelle di altri due maghi dell’informatica, i canadesi Nicolas Lee e Rida Benjelloun, ha cercato una soluzione, con una sequenza di “0 e 1”, all’unica paura che affligge la mente umana più dello stesso timore della morte: quella di essere dimenticati. Eterni.me non ha la pretesa pseudo-asimoviana della criogenia, che promette di rianimare in futuro corpi ibernati. Semplicemente, punta dritto al cuore dell’esistenza così come intesa nel ventunesimo secolo: immagazzina nel suo database frasi, pensieri, video e citazioni pubblicati sulle pagine personali dei social network, e li rimodula attraverso complicati algoritmi di intelligenza artificiale. Così, per esempio, se nella vostra vita sul web avete più volte pubblicato, commentandoli, i video presenti su Youtube di Chet Baker, è altamente probabile che un qualunque giorno dopo l’inevitabile passo compaia sul vostro profilo Eterni.me la clip di “Almost blue”.
La peculiarità di questo software è un avatar digitale 3D, sviluppato dai ricercatori del Massachussetts Institute of Technology, il cui compito è quello di emulare la personalità dell’utente e fornire bit e bit di informazioni ad amici e parenti, inclusi in una lista creata appositamente.

Ursache, com’è nata l’idea di Eterni.me?
«Come ogni nuova idea, è una combinazione di vecchie intuizioni e influenze. Tra queste, vi sono la “Teoria della singolarità” dell’inventore statunitense Ray Kurzweil, i libri di Isaac Asimov e Philip K. Dick e vari film o serie tv, come “The Final Cut”, “Black Mirror” e persino “Superman”, combinati con le conoscenze di base sull’intelligenza artificiale. Una delle idee che ho avuto, e che risale a più di dieci anni fa, è stata quella di creare un sito web che simulasse delle conversazioni. Non ho mai avuto modo di metterlo in piedi, ma l’intero processo ha avuto un’influenza importante sul progetto Eterni.me».

Come funziona la sua tecnologia? Che tipo di dati intendete utilizzare?
«Una volta che ti iscrivi a Eterni.me, ti viene chiesto su quali piattaforme social desideri che i dati vengano elaborati (Facebook , Twitter , e-mail, Instagram,…) . A quel punto, le informazioni su di te vengono raccolte, filtrate e analizzate al fine di dar loro una struttura. In una fase successiva, è possibile interagire con questi dati utilizzando un avatar (in questo caso, un simulatore di conversazioni) che cerca di emulare la tua persona. Certo, ora è ancora presto per parlare di vera e propria “struttura” e di “emulazione”. Si tratta di un patrimonio digitale che viene gestito mentre si è ancora in vita, piuttosto che di una “rete social per e con i defunti”, come ha commentato la stampa scandalistica. I nostri pronipoti potranno usarlo al posto di un motore di ricerca o della timeline di Facebook, per accedere alle informazioni e ai dati che ci riguardano, dalle foto e i pensieri su determinati argomenti, alle canzoni che eventualmente abbiamo scritto ma mai pubblicato; dagli eventi legati alla famiglia alla nostra opinione sui matrimoni gay o extraterrestri (se mai ci saranno).
Uno degli aspetti chiave, tra i più complicati, di Eterni.me è il modo in cui vengono selezionate le informazioni: si utilizzano sia analisi testuali (e in futuro anche visive) che fungano da filtro, sia le interazioni tra noi e il nostro avatar, che col tempo verrà implementato. Ci vorranno anni per perfezionare questo tipo di tecnologia, per capire, ad esempio, che le foto scattate ai pasti che consumiamo quotidianamente sono meno importanti dei ritratti dei nostri primogeniti».

Quali sono i tempi di realizzazione del vostro progetto?
«Ora stiamo lavorando su un prototipo che ci permetterà di raccogliere fondi e costituire una società a Boston. A seconda dei risultati che otterremo, abbiamo intenzione di avviare una versione funzionante di Eterni.me entro l’anno, da lanciare nel 2016. Eufemisticamente parlando, c’è ancora tanto lavoro da fare».

Quanti iscritti contate al momento? Ci sono alcuni italiani?
«Abbiamo 21.000 utenti iscritti da tutto il mondo, di cui 152 sono italiani. Purtroppo, non ho ancora idea di quanti siano di Bologna».

Qual è stata, finora, la reazione del pubblico a Eterni.me?
«Perlopiù buona, ma abbiamo sicuramente la nostra parte di detrattori. Ci sono persone che vogliono accedere al software in qualità di tester, altre che vogliono farsi assumere e sono entusiaste del prodotto. Ci sono anche alcuni che sostengono che ciò che facciamo sia raccapricciante, e si augurano che finiamo all’inferno o che falliamo (non so quale delle due sia peggio). Ma la cosa più emozionante di tutte è che abbiamo ricevuto messaggi da parte di malati terminali, che vorrebbero utilizzare Eterni.me non appena sarà disponibile».

Cosa pensate di chi sostiene che la vostra idea sia «raccapricciante»?
«Siamo consapevoli dell’emotività legata al tema della morte. Per noi è importante sottolineare il fatto che non vogliamo conservare nei database l’intera esistenza di una persona. Semplicemente, desideriamo creare un patrimonio virtuale che consenta ai pronipoti di interagire con il loro bisnonno. I nostri clienti sono al centro di tutto ciò che facciamo. Ovviamente, prendiamo molto sul serio lo scetticismo di alcuni gruppi di utenti, e cerchiamo con loro un continuo scambio di idee per rendere il nostro prodotto sempre migliore».

Pensa che la gente voglia davvero parlare ai propri cari defunti?
«Non “parlare con i morti”. Penso solo che una memoria più ricca (rispetto a un album fotografico o a un polveroso dvd) rafforzerebbe il ricordo di una persona che abbiamo amato e che purtroppo non è più con noi».

[© www.lastefani.it]

appuntamenti-ferraresi-per-giardinieri-non-solo

Appuntamenti ferraresi per giardinieri e non solo

Domani, domenica 13 aprile, si celebra in tutta Italia la Giornata nazionale del giardino. Uno dei tanti eventi promossi ormai da anni dall’Ugai (Unione garden club e attività similari d’Italia), con l’obiettivo di ampliare la sensibilità e le conoscenze verso l’immenso tesoro di giardini e paesaggi che abbiamo nel nostro Paese. In questa occasione, il Garden club di Ferrara, riprende il tema, iniziato due anni fa, con la valorizzazione del Giardino di sculture di Palazzo Massari (bruscamente interrotto dal sisma), dedicato al rapporto tra giardini e sculture. Quest’anno verrà aperto al pubblico lo splendido giardino privato di casa Foschini Borghesani, in cui verrà allestita una mostra di sculture del maestro Maurizio Bonora, mai presentate a Ferrara. Il giardino della signora Gianna si trova in quella zona magica della nostra città, dove ogni pietra e ogni foglia sono il risultato di una stratificazione di cultura e natura. Sono rarissimi gli esempi di città che possano vantare, all’interno della cerchia muraria, un’area così vasta di giardini e ambienti rurali come Ferrara, nella zona tra Via Ercole d’Este e la Certosa. Questo è un giardino privato e come tale è lo specchio della sua proprietaria, un misto di delicatezza, esuberanza e sano disordine, dove le piante hanno avuto lo spazio e il tempo di invecchiare con grazia. La possibilità di incontrare il maestro Bonora e le sue opere poi sono un valore aggiunto, anche se varrebbe la pena di visitare il giardino anche “solo” per la fioritura di un esemplare monumentale di rosa banksiae lutea che straborda dal muro di cinta di vicolo del Parchetto. Il giardino si aprirà alle ore 16, per la visita delle 16,30, e alle 18, per quella delle 18,30. Ingressi vicolo del Parchetto 15, Vicolo del Portone 12 (con possibilità di parcheggio).

Segnalo un’altra iniziativa che si svolgerà a Ferrara nei prossimi 2,3 e 4 maggio, si tratta della seconda edizione della mostra/mercato Giardini Estensi 2014 [vedi]. Gli appassionati di giardinaggio conoscono benissimo questo genere di iniziative, perché negli ultimi vent’anni si sono moltiplicate e non c’è borgo, paese o città che non abbia il suo festival floro-vivaistico in questa stagione. A me sono sempre piaciute, perché sono ottime occasioni per conoscere piante nuove e per imparare dalle varie iniziative collaterali che vengono organizzate. La mia prima mostra è stata la storica Giardini in Fiera a Villa le Corti di San Casciano in Val di Pesa, alle porte di Firenze. Questa mostra non si tiene da anni ed è un peccato perché il luogo era magnifico e la qualità degli espositori eccezionale, mi ricordo che era una goduria partire con l’auto vuota e tornare con la mente e il baule stipati di piante nuove, libri e cataloghi degli espositori. In pochi anni molte cose sono cambiate, i cataloghi si trovano in rete e le occasioni si sono moltiplicate, e questo da un lato obbliga i vivaisti super-specializzati-famosi a scegliere a quale mostra partecipare, dall’altro stimola i produttori e i vivaisti locali ad esporre il meglio, e magari qualche novità rispetto al solito repertorio. Nel programma di Ferrara non mancherà nulla, mi prendo comunque la licenza di consigliare gli incontri con l’ingegner Alberto Rabitti dell’Ecoistituto di Cesena, uno dei massimi esperti di strutture costruttive con materiali naturali, e i laboratori di Annalisa Malerba, forse la vera novità della mostra ferrarese.
Annalisa è ha un blog che s’intitola “Passato tra le mani” [vedi] che si occupa di tante cose, tutte vegetali e, possibilmente, compatibili con l’ambiente. Si può dire che il suo cognome sia talmente profetico da sembrare un nome d’arte, scelto apposta, per chiarire da subito un indirizzo di vita. Annalisa è così, e come tutte le male-erbe ha tanto da condividere e da insegnare, su come sopravvivere, nell’orto e nel giardino, in un ambiente che sembra impazzito e come provare a farlo guarire, attraverso le mani di un bambino, con intelligenza, competenza e una buona dose di ironia.

palazzo-passi-perduti-ospedale-cona-segnali-indecifrabili

Il palazzo dei passi perduti. L’ospedale di Cona e i segnali indecifrabili

Le visite frequenti all’ospedale di Cona mi spingono ad alcune riflessioni che credo possano essere condivise dagli utenti del maestoso edificio. Più le visite si moltiplicano, più le probabilità di orientamento diminuiscono. Quasi un inconscio rifiuto di quel luogo tutto eguale eppure così diverso, come diverse sono le patologie che lì vengono curate. E nell’immensità dei corridoi, quasi sempre deserti, risuonano i passi perduti di chi, incapace di comprendere sigle e numeri, si sente come lo scienziato prima della decifrazione della stele di Rosetta. E come in ogni labirinto che si rispetti, ecco apparire qualche Arianna (medico o infermire, maschio o femmina) pronta a porgerci il capo del filo con una rassegnazione nel viso che esprime l’innumerevole quantità di volte che ha sentito ripetere la stessa domanda e quanti fili ha teso. Una paziente sopportazione, mentre l’occhio corre al caffè che si raffredda o alla bibita ancora incapsulata nel contenitore. Il percorso più difficile sta nel seguire le tracce che dal pronto soccorso portano al 2, luogo dei confortanti ambulatori. Porte frangifuoco minacciose ti respingono e ti fanno ritornare sui tuoi passi, le sigle si accavallano finché un piccolo cartello scritto a mano ti indica una direzione… che presto si perde di nuovo nel turbinio degli snodi e degli svincoli. Un singhiozzo represso sta per scaturire in un urlo di sconfitta ma – miracolo! – riappare la scritta umana che ti suggerisce per via ipotetica che forse lì stai per arrivare al piano giusto. E ansimante ti precipiti dentro la silenziosa scatola di ferro che ti porterà alla salvezza. Mentre sali, confessi agli esperti che si trovano con te che vai al piano 2. Silentium, come nelle biblioteche dei monaci. Si spalanca la porta e ti trovi al piano 3. Una voce cantilenante, la solita addetta travestita in abiti civili e senza camice, ti avverte che è sempre così. La chiamata non tien conto del desiderio e puoi trovati sine culpa o in Paradiso o all’Inferno. Poche volte in Purgatorio dove sei diretto. Infine, una volontà eterodiretta ti ferma al piano giusto e, dopo un severo sguardo del guardiano/guardiana, ritrovi i tui simili in attesa. Un chiacchericcio sommesso ma umano ti accoglie, mentre sollecite infermiere ti portano il ghiaccio, poiché nella fretta di raggiungere la postazione 2, ti sei schiacciata la mano nella portiera. Poi, l’allegria dello sfarfallìo dei camici. Noto con grande piacere che i giovani medici non tengono chiuso il camice ma ne lasciano svolazzare i bordi: un segno di giovinezza e di salute, a volte riconfermato da giovani dottoresse issate su tacchi 12 e.. belle. Lavorano, e tanto questi medici, molti precari, ma danno tutto, anche troppo! E quando arriva LUI, direttore o caporeparto senza sfarfallìo ma con sorriso umano e rassicurante, abbiamo la prova che la nostra sanità pubblica nulla ha da invidiare a più celebrati sistemi. Perciò, mentre di nuovo l’ascensore ti porta al piano che dopo lunghe ricerche deve essere sempre l’1 – pena dover affrontare un nuovo labirinto – sommessamente prego i responsabili: inventate un nuovo sistema di orientamento!
Allora Cona non sarà più un labirinto ma il palazzo della salute.

Sulla fotoreporter Anja Niedringhaus uccisa in Afghanistan

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, in Afghanistan sono aumentati gli attacchi dei tabliban che hanno dichiarato di fare guerra alle elezioni, scatenandosi contro amministratori, militanti dei partiti, ong e giornalisti. Anja Niedringhaus, fotoreporter di guerra e amica della nostra associazione “journalisten helfen journalisten”, è stata uccisa da un poliziotto. Si trovava a Khost, al confine col Pakistan, con un’amica e collega canadese. I funerali hanno luogo oggi 12 aprile.

anja-niedringhaus
Anja Niedringhaus

Anja Niedringhaus era l’unica donna nel team di fotografi dell’Ap insigniti del premio Pulitzer nel 2005 per la copertura della guerra in Iraq. Celebre il reportage dopo l’attentato alla base italiana di Nassirya e la strage dei carabinieri italiani.
“Anja e Kathy hanno passato anni insieme per coprire l’Afghanistan, il conflitto e la sua gente”, ha detto Kathleen Carroll, Ap executive editor. “Anja era un’appassionata, dinamica giornalista, molto amata per le sue foto, il suo cuore e la gioia per la vita.”
Anja era nata a Hoexter dove, a 16 anni, iniziò a lavorare come freelance per un giornale locale. Poi gli studi universitari in letteratura, filosofia e giornalismo a Goettingen. Arriva il 1989, il Muro crolla e grazie alle sue foto Anja entra a far parte della European press photo agency (Epa), il celebre network europeo di immagini. Nel 2002 entra nella Associated press (Ap) facendo base a Ginevra. Oltre a coprire i conflitti in atto, seguiva anche i Giochi olimpici, ben nove quelli al suo attivo. Nel 2005 il Pulitzer per l’Iraq, l’anno dopo il prestigioso Premio al coraggio della Fondazione internazionale donne nei media. E poi ancora riconoscimenti a pioggia per le sue immagini, messe in mostra nei musei di Francoforte, Houston, Londra, Vienna.
Poco prima della sua morte Anja Niedringhaus è stata intervistata al telefono da una giornalista tedesca. Questa intervista, purtroppo, è diventata una specie di testamento/eredità. “Perché sei diventata proprio fotoreporter di guerra?” le chiede la giornalista, “Perché – risponde Anja – è una professione con quale si può impregnare la memoria collettiva di tutti noi. A me non interessano tanto la battaglia e il conflitto militare in sé. Le storie più interessanti succedono sempre accanto allo scontro a fuoco. Sono molto più interessata alla vita reale della gente sul luogo, piuttosto che alle raffiche di mitra e agli scontri violenti. Per esempio, nel 2004 ho fatto scatto ad un militare americano a Falludscha (Irak) che durante una battaglia porta in spalla una mitra e una bambolina come souvenir o amuleto portafortuna […] Attraverso la mia esperienza come fotoreporter in Afghanistan, ma anche in Pakistan o a Sarajevo, sono diventata una pacifista sempre più convinta. Non si può risolvere nessun problema con le armi”. E chiude l’intervista con un ultima frase: “Posso solo sperare che il mio lavoro serva un po’ a migliorare il mondo“. Adesso sta a noi realizzare, con la nostra professione, il suo desiderio.

Le donne del Pd

di Elisa Manici

Matteo Renzi ha sparigliato -ancora una volta- le carte nel suo partito, il Pd, decidendo di candidare solo donne come capolista per le europee del prossimo 25 maggio, dopo che i giochi erano già chiusi, informalmente ma nemmeno tanto -Michele Emiliano, sindaco di Bari, faceva campagna elettorale già da un paio di mesi. Nel Nord Ovest Alessia Mosca, 38 anni, alla camera dal 2008, lettiana, va a sostituire Sergio Cofferati; nel Nord Est Alessandra Moretti, 40 anni, alla camera dal 2013, bersaniana ha scalzato Paolo De Castro; nel Centro Simona Bonafè, 40 anni, renziana, alla camera dal 2013, ha fatto scalare al secondo posto David Sassoli, 415 mila preferenze alle ultime europee, che ha commentato: “Non conta il posto in lista, ma il numero di voti che porti al partito”. Nella circoscrizione Sud Pina Picierno, 32 anni, renziana (prima franceschiniana), ha impallinato “il gioiosamente obbediente” (alla iniziale richiesta di Renzi di fare il capolista) Michele Emiliano, che si è ritirato con una certa schizofrenia tra le dichiarazioni ufficiali e il suo gesto. Nelle Isole Caterina Chinnici 59 anni, corre al posto della sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini. La Chinnici, figlia del giudice Rocco Chinnici, assassinato dalla mafia nel 1983, dal 2012 è a capo del Dipartimento per la giustizia minorile, ma dal 2009 al 2012 aveva fatto parte della giunta Lombardo (condannato in primo grado il 19 febbraio a sei anni e otto mesi per concorso esterno per associazione mafiosa) come assessore alla Famiglia e alle Autonomie locali, il che aveva fatto storcere il naso al presidente della regione Crocetta: “Le scelte nella vita si pagano”. A Giusi Nicolini, non iscritta al Pd, era stato chiesto di fare da capolista per rendere centrale la questione dei migranti e dell’accoglienza. La coraggiosa sindaca, avuto sentore degli aspri scontri all’interno del Pd siciliano, e dopo essere scivolata al secondo posto, ha scelto di non partecipare più alla competizione elettorale: “Ora, sono certa – ha dichiarato al Corriere della Sera – altri potranno rappresentare in Europa le istanze che avrei portato io. Nessuno è indispensabile. Significa che non servivo io per veicolare l’importanza delle politiche sull’immigrazione”.
Il colpo di teatro di Renzi sarà positivo in termini di voti ottenuti? Probabilmente sì, lui e i suoi spin doctors hanno una buona sintonia con la pancia del popolo piddino e sanno fiutare quali argomenti cavalcare, e quando farlo. Ma registriamo due fenomeni: uno, la totale incapacità del centro sinistra, nonostante lo sfavillante nuovo corso renziano, di lavarsi i panni sporchi in casa: ogni conflitto all’interno del partito viene raccontato in lungo i in largo su tutti i media, continuando a lasciare nei cittadini l’impressione di essere spettatori paganti ma senza possibilità di influenza alcuna in un teatro fatto di giochi di potere, correnti, manuali Cencelli senza i quali scoppierebbero carneficine. L’altro, è che il premier stia utilizzando la questione della partecipazione femminile alla politica come “brand di genere”: le donne di Renzi sembrano essere funzionali all’immagine, al brand, appunto, più che vere attrici in campo. A questo proposito Ida Dominijanni ha parlato di “berlusconismo desessualizzato” Non vanno a intaccare il sistema di potere tradizionale, anzi, ne sono strumenti.

[© www.lastefani.it]

E ora dove andiamo? Inno alle donne, al loro forte spirito di pace

Una moschea e una chiesa, un campanile e un minareto, il suono delle campane e del richiamo del muezzin convivono, uno accanto all’altro, quasi a braccetto, in uno sperduto, roccioso e polveroso villaggio del Libano (i set sono stati tre villaggi, Douma, Mechmech e Taybeh), insieme ai loro abitanti, che tentano di coltivare pace e armonia quotidiane.

e-ora-dove-andiamo-locandina-film
‘E ora dove andiamo?’ Locandina del film

Protagoniste di E ora dove andiamo?, oltre alla numerosa e variegata comunità, composta di cristiani e musulmani (a volte anche un po’ stralunati), un gruppo di donne, amiche fedeli e unite, indifferenti alle rispettive religiosità, desiderose unicamente di mantenere un equilibrio comunitario tanto difficilmente raggiunto e, a dire il vero, abbastanza precario.
Questo film è sicuramente sulle donne, per le donne, fra le donne e con le donne. E’ un inno al loro coraggio, alla loro voglia di fare, al forte spirito di pace, all’intelligenza e arguzia nel gestire l’indole e l’animo maschili (permettetemi) spesso rissosi e indifferenti ai sentimenti di amicizia e di rispetto reciproco delle differenze, oltre che alla necessità di convivenze pacifiche e armoniose.
Mantenendo lo sguardo sul mondo femminile, fatto di madri, nonne, mogli e sorelle coraggiose, ci troviamo di fronte ad autentiche pennellate di tratti di una società giunta a un passo dall’implosione. Non siamo di fronte a un film sulla guerra ma a al tentativo, piuttosto, di spiegare come evitare che scoppi, grazie a figure come Amale, Takla, Yvonne, Afaf e Saydeh, cinque vedove che s’incontrano ogni giorno per recarsi al cimitero in cui sono sepolti i loro uomini, costrette a fermare odio e intolleranza di mariti, figli, padri e zii, accecati dall’integralismo religioso.

e-ora-dove-andiamo
Una scene del film ‘E ora dove andiamo?’

Diretto dalla talentuosa regista dell’intenso Caramel, Nadine Labaki, questo secondo film rappresenta una bellissima sorpresa, perché la stessa Labaki, oltre a dirigerlo e co-sceneggiarlo, lo interpreta in maniera attenta e forte, riuscendo a trattare il tema attuale dell’integralismo in maniera delicata e con l’humour tipico del tratto femminile che contraddistingue tutto il suo lavoro.
Si spazia, quindi, dal musical al dramma di una vera favola moderna. Perché, in effetti, nel film ci sono molti momenti che richiamano la fiaba. Come quando vediamo sullo schermo una comunità mista apparentemente felice, unita, anche se visibilmente povera e fuori dal mondo; quando guardiamo le scene della canzone d’amore “pensata” da Amale e Rabih (l’amore impossibile fra una cristiana e un musulmano); quando ascoltiamo musica etnica o vediamo sfilare il carosello iniziale, in nera divisa da lutto, che si trasforma in un singolare e ancheggiante balletto; quando ci soffermiamo sulle immagini di un televisore, che i ragazzi del villaggio riescono a installare, per una visione collettiva in piazza, attorno al quale stanno tutti gioiosamente seduti. Sorridiamo, poi, di fronte alla caotica lite inventata e provocata dalle donne per non permettere, a mariti e figli, di sentire le notizie sulle lotte religiose interne al Libano. Tuttavia, man mano che queste informazioni arrivano al paese, iniziano a verificarsi strani fenomeni, come l’ingresso di animali nella sacra moschea o il ritrovamento di sangue nell’acquasantiera della chiesa. Il dubbio, il sospetto, la paura, l’inimicizia, l’intolleranza, la violenza e il livore iniziano a serpeggiare. L’equilibrio instaurato negli anni rivela di essere appeso a un filo, forse legato unicamente alla forte volontà femminile di mantenere la pace ad ogni costo. Terrorizzate dall’idea di dover tornare a seppellire i propri cari, le donne del villaggio fanno di tutto per mettere a freno l’ardore dei mariti, cercando di distrarli in qualsiasi modo possibile e immaginabile dalla terribile minaccia. Esse tentano, allora, di sollevare gli animi e alleviare le tensioni, escogitando diversi metodi, come l’invito di bionde ballerine ucraine che improvvisano una sensuale danza del ventre o il ricorso all’hashish (simpaticamente mescolato a torte e focacce servite durante una festa nel villaggio, perché “con un pizzico di hashish stramazzi un cammello”). Tutto sembra inutile e la situazione continua a precipitare, inesorabilmente.

e-ora-dove-andiamo
Una scena del film ‘E ora dove andiamo?’

A volte le scene colorate, suadenti ed evocative, sanno di surreale (vi sono anche scene tipiche di un bel burlesque) quanto di sublime, di onirico quanto di drammatico.
Lacrime e risate s’intercalano, così come si mescolano uomini e donne imperfetti, imam e parroci (alla fine, tutti fratelli e uguali), veli e capi scoperti, croci, statuette e tappetini.
Allora, sotto il sole soffocante di mezzogiorno, durante l’ennesimo lutto, una domanda magari un po’ visionaria ci nasce spontanea: le donne salveranno forse il mondo?

E ora dove andiamo? Di Nadine Labaki, Francia-Libano-Italia-Egitto, 2011, 110 mn, con Nadine Labaki, Claude Msawbaa, Layla Hakim, Yvonne Maalouf, Antoinette Noufaily, Petra Saghbini, Ali Haidar, Kevin Abboud, Mostafa Al Sakka, Julien Farhat, Anjo Rihane, Samir Awad, Ziad Abou Absi

cuore-spezzato-fiat

La concezione proprietaria della Fiat

Questa storia della Fiat – pardon, la Fca – che fa impacchettare le macchine straniere dei propri dipendenti mettendo sopra al cellophane un cuore spezzato (diciamo: quello della mamma che si vede tradita dai propri figli, ma che li ama ancora ed è pronta perdonali se non sbagliano più) è veramente singolare. Il dottor Marchionne e il suo staff vorrebbero vendere qualche auto in più e per questo hanno ordinato una campagna di marketing negli stabilimenti italiani – Mirafiori e Pomigliano i primi – invitandoli a comprare veicoli del gruppo “con una apposita promozione”.
L’iniziativa ha destato più di un commento che non vorrei ripetere; molti dipendenti hanno rifiutato. Del resto, da tempo i parcheggi interni della Fiat erano off limits per le auto di marche diverse, tranne che per i mezzi utilizzati per i disabili. Come avviene anche per la Vm di Cento.
L’organizzazione commerciale della Fiat evidentemente è un po’ a corto di idee per raggiungere il traguardo di vendita di 6 milioni di veicoli fissato dal dottor Marchionne nella recente assemblea di bilancio, e l’iniziativa appare quanto meno bizzarra.
La mossa appare in verità – almeno per me – come l’ennesimo frutto della concezione proprietaria della Fiat – che ha radici antiche – non solo del lavoro, ma anche della vita dei dipendenti: per molte persone l’auto ha una carica simbolica e simbiotica non ancora appiattito dalla globalizzazione.
Insomma, è tornata in una nuova veste il paternalismo che da Valletta in poi è parte integrante dell’azienda. Quando si varcano i cancelli sei un numero: ti si può anche coccolare, ma devi fare quel che dice chi comanda, oltre il tuo dovere. Se no spezzi il cuore, e questo non sta bene.

Liti da spiaggia a Porto Garibaldi, ma i ‘burocrati’ replicano: “Tuteliamo il parco”

Accusa la stanchezza di un’attesa che definisce troppo lunga e ormai destinata a finire con un “niente di fatto” Riccardo Boldrini, direttore del campeggio Spiaggia Mare di Porto Garibaldi. Per il camping non ci saranno né investimenti né migliorie. Tutto resterà così com’è, con buona pace della competitività sul mercato turistico internazionale. I motivi, dice, sono tanti. Primo tra tutti la burocrazia: “Abbiamo presentato un progetto sopravvissuto a diverse amministrazioni che non è mai stato protocollato per assenza di informazioni certe – racconta – Anni fa abbiamo acquistato un terreno agricolo, sperando che il Comune recepisse appieno la normativa del 2004 che permette di utilizzare l’appezzamento per costruzioni utili alla nostra attività. Ma non sembra ci sia modo di arrivare a un lieto fine”. L’ammodernamento del camping, sostiene, avrebbe permesso di aggiungere servizi e confort. Un richiamo attraente per chi ama le vacanze ‘all inclusive’ che, senza scomodarsi più di tanto, può trovare ciò che cerca in un campeggio ben attrezzato e organizzato.

riccardo-boldrini-direttore-campeggio-spiaggia-mare
Riccardo Boldrini, direttore del campeggio Spiaggia Mare

“A un certo punto della vicenda è stato licenziato il Piano di stazione parco centro storico di Comacchio a cui dovrebbe ispirarsi la Comacchio del futuro – continua – Si è pensato di creare un comparto unico che, oltre al nostro, comprende i terreni stesi dalla Collinara fino al mare, inclusa la pineta. Si tratta di un grande spazio con proprietari diversi da ripensare e progettare qualora si voglia creare un’azienda turistica”. E ancora: “Gli imprenditori sono coinvolti in prima persona, chiamati a cercare tra loro un accordo per studiare soluzioni da condividere e spendere sul piano turistico – prosegue – In assenza di accordo, l’Amministrazione dovrà occuparsene in modo diretto”. In buona sostanza l’indicazione del Parco punta a un’identità di strutture compatibili con la sua vocazione naturalistica, possibilmente armoniche tra loro e spendibili in campo turistico. Se ne parla dalla primavera del 2013, quando il piano è stato adottato dalla Provincia, che sembrava sul punto di essere sciolta. “In quell’occasione è stato richiesto l’impegno di tutti gli attori coinvolti, ma non ne è uscito nulla – spiega – Noi avremmo dovuto accordarci con i nostri vicini, la società Medusa srl, ma non c’è stata intesa per problemi di natura di valutazione fondiaria tra i privati”.

La storia continua. “In mancanza di un’intesa abbiamo provato a unire i nostri due progetti lasciando separate le proprietà, poi il 31 di marzo siamo stati convocati dai tecnici su richiesta del sindaco Marco Fabbri – spiega – A quel punto ci hanno imposto alcuni paletti, il primo dei quali è l’arretramento del campeggio”. Sospira. “Non se ne comprende il motivo, visto che gli altri nove camping della costa restano al proprio posto – denuncia – Eppure l’articolo del Piano territoriale paesistico regionale è lo stesso per tutti. Per quanto riguarda i fabbricati licenziati dalle autorità competenti prima che la legge li proibisse, e per quelli sanati 6 mesi fa, il problema non si pone, restano lì”. Per Boldrini quello con i tecnici non è stato un meeting tra i più felici. “Hanno convenuto dell’impossibilità di spostare ciò che è autorizzato, ma si sono concentrati sulle case mobili per le quali non c’è necessità di permessi – dice – Se avessimo deciso di spostarle, pensavamo di farlo nel nostro terreno, quello agricolo, ma siamo stati invitati a portarle dal nostro vicino, senza che lui ne fosse informato e senza alcuna proposta di compensazione. Non mi sembra un modo di agire consono alla vicenda”. Una cosa è certa, non ci saranno investimenti. “Il camping resterà così com’è, dispiace perché il nostro progetto non prevede nessun aumento di presenze, nessun correttivo della licenza d’attività. Puntiamo al confort, all’allargamento delle piazzole di sosta e a un appezzamento di terra maggiore intorno a ogni casa mobile – continua – Non è previsto l’utilizzo di altro cemento armato come invece succederà per costruire le infrastrutture necessarie agli altri progetti”. Lo Spiaggia Mare le ha già, così come possiede il know how in campo turistico. “E’ sempre stato il nostro lavoro e continueremo a farlo, non si tratta di un’avventura. Del resto abbiamo sempre investito in un campo che conosciamo e, soprattutto, soldi nostri – conclude – Anche quando il sindaco ha voluto incontrare la proprietà del campeggio Spiaggia Mare per chiedergli di aderire al Contratto di sviluppo, che porta con sé oltre al denaro dei privati quello a fondo perduto dello Stato, ci siamo detti contrari. Non chiediamo nulla se non la possibilità di lavorare”.

“Vorrei essere molto chiaro su un punto: il Contratto di sviluppo non ci vede primi attori, noi non c’entriamo nulla, è un rapporto tra imprenditori e Ministero dello sviluppo economico”, dice il sindaco di Comacchio Marco Fabbri. Se la manovra fa bene a Comacchio, Comune e Provincia, almeno fino a quando quest’ultima non decadrà, accompagneranno la fattibilità del patto di sviluppo: 184 milioni di euro dagli imprenditori privati e una ventina dal Ministero per rifare il look turistico ai lidi. “Per noi ci sono sì le strutture ricettive, carenti come è noto, ma esiste anche l’urgenza primaria della sicurezza idraulica senza la quale non si può crescere – spiega – In ogni caso il contratto resta una cosa tra privati”. E tra privati, specifica il sindaco, è stato l’incontro tra i tecnici e gli imprenditori interessati dal comparto unico. “Sono stati chiamati per sapere se si era raggiunto un accordo tra le proprietà – spiega – Se non c’è, la parte pubblica, tra l’altro proprietaria di una parte della pineta che guarda Scacchi, può promuovere un progetto guida. Che sia stato chiesto l’arretramento del campeggio non mi sorprende, lo specifica il Piano territoriale paesistico regionale al quale non si è mai data attuazione”. E aggiunge. “Non ho visto alcun progetto concreto, nemmeno da parte di Boldrini, quando arriveranno li valuteremo nella commissione consigliare – prosegue – se soddisferanno le esigenze previste per legge non si esclude di trasformare l’area agricola per l’utilizzo richiesto dall’attività di Spiaggia Mare”. La cosa che più preme al sindaco – che stasera (ieri per chi legge) in Commissione consiliare parla di Accordo territoriale del quale il parco è un tassello importante – è mettere i puntini sulle “i” prima dello scioglimento della Provincia previsto per la metà di maggio. “E’ necessario conciliare le leggi sovraordinate prima della scomparsa dell’Ente”, ricorda.

“Bisogna capire che il Piano di stazione deve attuare il Piano paesistico territoriale con riflessioni unitarie adatte a dare risposte adeguate a un ambiente da tutelare e valorizzare – dice Lucilla Previati direttore del Parco – Il camping Spiaggia Mare è dentro il Parco e deve rispettare regole diverse da chi non ne fa parte, in ogni caso l’arretramento programmato è la via da percorrere, perché è normativamente prevista”. Nessun via d’uscita? “Se il camping presenta un progetto di spostamento programmato di ospitalità turistica in linea con l’anima del Parco – spiega – potrebbe trovare la sua collocazione nella area agricola di sua proprietà”. Liberare il fronte dell’acqua dalle costruzioni leggere, ricorda il direttore, significa rigenerare il paesaggio, dare alla sabbia la possibilità di formare le dune con la complicità del vento e aumentare la qualità dell’ospitalità.

Olimpiadi di italiano con la voce del ferrarese Rossatti

Scrivere su Facebook e spedirsi degli sms avrà anche modificato il linguaggio giovanile, ma tanti ragazzi usano la tecnologia senza rinunciare allo studio e all’amore per la lingua italiana. Insomma, distinguere l’insostenibile leggerezza di un ossimoro dalla figura retorica di mille metafore sembra che possa continuare ad appassionare anche la generazione di Google. Lo dimostra la grande partecipazione alle Olimpiadi di Italiano, alla quarta edizione con 15mila iscritti e il coinvolgimento di oltre 600 scuole, italiane e straniere, ma anche un evento che coinvolge il mondo accademico e istituzionale.
Firenze, capitale simbolica della lingua italiana, ospita oggi e domani sabato 12 aprile la finale delle Olimpiadi, come pure le due “Giornate della lingua italiana” ideate dal Miur per offrire alle scuole, ai finalisti e ai loro docenti approfondimenti culturali sugli anniversari della letteratura italiana, dibattiti e spettacoli teatrali e musicali. Dedicata alla poesia di Mario Luzi, a 100 anni dalla nascita, la prima giornata di venerdì 11 all’Accademia della Crusca. Vittorio Coletti terrà una lezione sui “Pensieri casuali e costanti di Luzi sull’italiano”, mentre Alberto Rossatti – attore ferrarese e voce storica di Radio3 Rai – proporrà delle letture dall’opera poetica di Luzi intitolate “Vola alta parola”.
La seconda giornata, al termine della gara di sabato 12 e prima della premiazione, sarà dedicata alla prosa di Niccolò Machiavelli, visto che il 2013 è stato il cinquecentenario della pubblicazione de Il Principe, e a quella di Galileo Galilei, a 450 anni dalla nascita.
Per i ragazzi in gara – 66 finalisti, divisi nelle sezioni del biennio e in quella del triennio delle scuole superiori – la competizione, in nome del valore della lingua italiana, sarà una sfida sulle conoscenze grammaticali e sulle capacità linguistiche, su comprensione e rielaborazione di testi. Per essere ammessi alla prova finale di Firenze, gli studenti hanno dovuto superare dure selezioni, prima a livello provinciale e poi nazionale. I ragazzi arrivati a questo traguardo vengono da tutte le regioni d’Italia, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta, passando attraverso l’Emilia-Romagna con la provincia di Parma (Borgo Val di Taro) e quelle di Modena (Finale Emilia) e Bologna (Imola). Quattro dei finalsiti arrivano da Paesi esteri: da Nigeria (Lagos), Spagna (Madrid), Bulgaria (Sofia) ed Eritrea (Asmara). Una novità, infine, la partecipazione alla fase finale di studenti delle scuole di lingua tedesca e delle località ladine della Provincia di Bolzano.
La giuria delle Olimpiadi di Italiano è composta quest’anno da Gian Luigi Beccaria (presidente), Giulio Ferroni, Francesco Sabatini, Luca Serianni, Sergio Scalise, Alberto Vignati (vincitore del Premio Campiello Giovani 2013). Tra i premi una settimana di soggiorno studio all’estero (nel periodo tra settembre e ottobre 2014) offerta da sei scuole italiane all’estero in collaborazione con il Mae, e quattro stage offerti dal Miur, in collaborazione con l’Accademia della Crusca, nella stessa sede dell’Istituto, nella Villa Medicea di Castello a Firenze.
L’intero pomeriggio di sabato 12 sarà in diretta streaming dal sito delle Olimpiadi www.olimpiadi-italiano.it
Magari una sfida x scoprire xké non è vero che se 6 giovane scrivi un po’ senza l’apostrofo e se stesso con l’accento… 😉

La quinta Internazionale per un’alleanza con i migranti

Bisognerà fare qualcosa e in fretta anche: le grandi migrazioni verso l’Europa dall’Africa, dal medio oriente, in modo più silente dall’estremo oriente, impongono non soltanto una riflessione finalmente seria, ma misure urgenti e intelligenti in grado di accogliere la disperata corsa di intere popolazioni verso la vita. Non penso, naturalmente, alla possibilità di percorrere le proposte di una destra sempre arrogante, non solidale e, alla fine, nemmeno produttiva sul piano meramente difensivo (alzare barriere poliziesche alle orde dei migranti). E’ la sinistra che si deve muovere, è l’unica forza pensante che potrebbe avanzare progetti utili. Ma, sinceramente, non questa sinistra inconcludente, disamorata, balbettante, paurosa, divisa e col fiato corto.
I grandi movimenti di pensiero maturarono nell’Ottocento, dopo il fatidico Quarantotto, a seguito delle urgenze popolari impegnate a liberarsi dal giogo dei vari regnanti e costruire spazi nazionali più liberi, tentando di battere le manovre conservatrici di monarchi e borghesi: erano gli anni Sessanta, il Manifesto marxista aveva fatto passi da gigante. Nacque, dunque, in quel periodo la prima Internazionale, a cui sarebbero seguite, con il passare del tempo e soprattutto dei nuovi eventi (nonché delle polemiche interne al movimento socialista, comunista e anarchico), la seconda, la terza e la quarta Internazionale.

Non sempre le spinte popolari furono vincenti ma servirono a smuovere l’inerzia di masse abbruttite da un lavoro non remunerato a sufficienza, quando non pagato. Si pensi che fino agli inizi del 1950 i contadini avevano lavoro soltanto per pochi mesi all’anno. Condizioni di vita inaccettabili e disperanti, ma dietro e dentro a queste masse avvilite e vilipese si muoveva pur sempre la convinzione che una lotta ideologicamente unitaria avrebbe alla fine sconfitto, o quantomeno indebolito la forza economica della conservazione.
Le cose sono diverse: oggi le masse sono cambiate, sono mutati i nomi, sono mutate le facce e i colori della pelle, ma il problema è rimasto quello che Marx aveva così efficacemente delineato. I migranti diverranno in tempi sempre più brevi popolo (italiano-francese-tedesco…) e in tempi sempre più brevi le loro necessità saranno il cardine di altre lotte. Ma non pensiamo che siano già adesso nostri nemici, sono nostri fratelli, come lo erano gli operai e gli scariolanti della nostra storia ancora recente, ma volutamente dimenticata dall’inerzia della sinistra e dalla consapevole opposizione della destra economica, del grande e del piccolo capitale arroccati attorno alle potenti organizzazioni multinazionali finanziarie, con le quali manovrano i popoli, le guerre, il commercio delle armi, quindi la violenza globale: l’unica vera globalizzazione esistente.
E, allora, io penso timidamente che utile strumento sarebbe la creazione della quinta Internazionale basata sulle nuove esigenze, io vedo masse colorate che si muovono fraternamente per conquistare il villaggio della nuova vita. Utopia? Certo, ma senza utopia l’uomo non è mai riuscito a fare qualcosa di buono.

Fuoristrada, il coraggio di vivere che toglie le spine dal cuore

Il documentario ‘Fuoristrada’ di Elisa Amoruso, che sta registrando il tutto esaurito in molte sale italiane, è un’iniezione di verità e amore. Andare fuoristrada è necessario se questo serve a ritrovare se stessi. E’ un film da vedere, un potente antidoto contro il pregiudizio e la bigotteria. Ed il viatico per un viaggio, consapevole e avventuroso, alla ricerca della nostra autentica identità.

fuoristrada-locandina
‘Fuoristrada’, locandina del film

Ho visto il documentario Fuoristrada di Elisa Amoruso in un cinema di Ostia (Roma), nell’ambito della rassegna ‘Cinema di periferie’, realizzata dalla direzione generale per il cinema in collaborazione con Casa dei teatri di Roma Capitale, Centro sperimentale di cinematografia e Cinecittà Luce. E al termine della proiezione ho intervistato la protagonista, Beatrice (Giuseppe Della Pelle), seduta con lei su un divano rosso. Davanti a noi il desk per l’accoglienza e questa frase di Leo De Berardinis: “Il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso. Dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”.
L’abbiamo letta insieme, l’intervistata e io, e ci siamo capite al volo, senza parlare: come per magia il senso di quanto stavamo per dirci era già lì, in quella frase che, semplice e diretta come una spina nel cuore, traduce perfettamente l’anima della pellicola.
Beatrice è una donna bionda con le palpebre bistrate di azzurro, le unghie coperte da smalto colorato, grossi orecchini dorati e al tempo stesso è Pino, un meccanico con la tuta da lavoro e le scarpe da officina. Creatura unica e particolare, che i conformisti etichetterebbero subito come transessuale: racconta la sua vita fatta di amore per la moglie Marianna, per i figli, per la madre, per i suoi cani, per la sua casa, per i rally e i “fuoristrada”.

regista-elisa-amoruso
La regista, Elisa Amoruso

Una storia d’amore unica, prorompente, fondata su un sentimento così forte da superare qualunque barriera sociale e culturale. Catturata, con delicatezza e raffinatezza stilistica, dalla giovane Elisa Amoruso che, con questo lavoro, ha ottenuto il premio Menzione speciale Festival del film di Roma 2013.
L’intervista a Beatrice è preceduta, in un poetico contagio di anticonvenzionalità, da una preghiera di Rabindranath Tagore intitolata Il coraggio e la certezza dell’amore:

Dammi il supremo coraggio dell’amore.
Questa è la mia preghiera:
coraggio di parlare,
di agire, di soffrire,
di lasciare tutte le cose,
o di essere lasciato solo.
Temprami con incarichi rischiosi,
onorami con il dolore,
e aiutami ad alzarmi ogni volta che cadrò.

Dammi la suprema certezza dell’amore.
Questa è la mia preghiera:
la certezza che appartiene alla vita nella morte,
alla vittoria nella sconfitta,
alla potenza nascosta nella più fragile bellezza,
a quella dignità nel dolore,
che accetta l’offesa,
ma disdegna di ripagarla con l’offesa.
Dammi la forza di amare
sempre e ad ogni costo

Beatrice, Fuoristrada è un documentario che toglie la vigliaccheria del vivere. Sei d’accordo?
Sono pienamente d’accordo. Racconta della vita vissuta con il coraggio di essere se stessi, messaggio che non entra nel film come una tempesta, una burrasca, ma piano piano come una brezza leggera. E’ come se la pellicola prima riuscisse a farti pensare, e poi ti lasciasse di stucco cancellando ogni traccia di bigotteria. Tutto in modo naturale, grazie ad Elisa, la regista, e alla sua pazienza e arte. Io sono uno spirito molto libero e lei ha girato quasi 100 ore di riprese, riuscendo poi a condensare in un’ora un messaggio forte, che anche io ho riscoperto, ho riconosciuto, quando ho visto per la prima volta il documentario.

Chi in particolare dovrebbe vedere questo film?
Per me, prima di tutto, dovrebbero vederlo i ragazzi. Sono loro il seme del futuro, da loro può partire il cambiamento. Spesso i più giovani, penso ai banchi di scuola, sono distratti da mille esperienze e non si rendono conto che vicino a loro ci sono tanti compagni di strada che hanno delle piccole problematiche. O, meglio, quelle che possono apparire come problematiche ma che, in realtà, per chi le vive sono tante gocce di tristezza, un malessere che fa soffrire e che ci si porta dentro nella vita, in famiglia o a scuola, appunto. Chi sente di essere etichettato come “diverso”, ha una spina nel cuore, che mi piacerebbe non rimanesse invisibile, perché questo genera sempre e comunque dolore.

Tu hai detto che vorresti che questo film desse il coraggio di essere autentici…
Sì, è così. Io, purtroppo questo coraggio l’ho avuto troppo tardi. Essermi liberata in un’età molto avanzata, questo è il mio unico rammarico. Davanti a me vedo tutti quei ragazzi e quelle ragazze che, nel frattempo, non ci sono più perché sono stati sconfitti dal nostro mondo bigotto, ottuso, cieco. I genitori, gli insegnanti dovrebbero spiegare che esistiamo anche “noi”, che “noi” siamo persone come le altre. Un messaggio come questo potrebbe dare speranza e, insisto, togliere molte spine da cuori infelici, che non possono esprimersi, che non permettono a se stessi di sentire e amare.

Alla fine del documentario tu parli del sogno di andare in Australia con il tuo fuoristrada e Marianna, tua moglie. Cosa sono per te i sogni?
Voglio risponderti con un’immagine che nasce da un ricordo. Io ho vissuto in collegio, a Salerno, e quando avevo 10 anni ho subito tante angherie e ingiustizie quotidiane. Dormivo in un letto che dietro aveva un grosso finestrone. Tutte le sere mi rifugiavo lì, con gli occhi guardavo le stelle, la luna e mi dicevo “stai tranquilla è un sogno, anche questo passa”. Oggi realizzare il mio sogno è come dire che sono me stessa e che sto bene, grazie alla forza d’animo che ho avuto. Vorrei che anche gli altri fossero felici come me.

Per partecipare al dibattito su Facebook [vedi]

Clemenza per Silvio! Ingiusto imporre a un anziano faticosi lavori

Ma si può avere la crudeltà di imporre a un povero vecchietto, inadatto persino per il carcere, l’obbligo di prestare assistenza ai disabili? E con la pretesa di infliggergli questo supplizio addirittura per mezza giornata alla settimana! Insostenibile. Per non parlare poi della prevedibile persecuzione mediatica che ne seguirebbe: telecamere sempre addosso, tutti a chiedergli, a voler sapere, tutti ad attendersi da lui miracoli, come se potesse far risorgere i malati: manco fosse l’Unto del Signore…
No, è un’ingiustizia intollerabile. Rischiamo di far venire i capelli bianchi a quel pover’uomo. Ma lasciamolo riposare in pace, al fresco della sua villa-parco, ove potrà godere del meritato silenzio, per rilassarsi e meditare, certo della compagnia di un fedele cagnolino, invece di quell’orda di belve feroci che gli si fanno sempre intorno. Giustizia, giustizia. Abbiate pietà, signori giudici. Lasciatelo a casa, il nostro vecchietto. Noi glielo auguriamo di cuore. Se lo merita, povero Silvio.

Un Grande Delta per fare concorrenza ai parchi fluviali del Danubio e della Senna

C’è chi lo vuole interregionale e chi punta ancora più in alto, al Parco nazionale del Delta del Po. Il suo presidente Massimo Medri lancia la sfida “sarebbe un’ottima cosa per allargare l’ombrello della tutela e valorizzazione”. “Il Parco ha bisogno di un’operazione d’immagine potente per farsi conoscere di più e meglio oltre i confini nazionali, in modo da dar seguito alla promessa di turismo lento avviata da tempo – spiega – Costruire un Grande Delta in grado di competere con i fiumi europei come il Danubio e la Senna, significa dare a questo ambiente dignità, lustro e, al tempo stesso, investire sull’unicità di un paesaggio che, se preservato e promosso come si conviene, rappresenterà la ricchezza per il futuro turistico di questi luoghi”. Purtroppo però il parco soffre di un male tutto italiano, la schizofrenia. E’ difficile conciliare la bellezza di Valle Campo, il volo rosa dei fenicotteri con i ruderi della ex Sivalco, arricchiti di una quantità enorme di eternit, a quanto pare irremovibile. Il responsabile del lascito? La Regione Emilia Romagna. Non è di grande esempio.

impianti-ex-sivalco-valle-campo
Impianti ex-Sivalco, Valle Campo

Le architetture industriali di cui è puntellato il Delta – specie nelle zone di confine con il parco veneto dove insistono due cattedrali impossibili da mimetizzare come la ex centrale Enel di Polesine Camerini e il rigassificatore di Porto Viro, visibile dalla costa – non si conciliano con la bellezza dei luoghi e generano l’inevitabile moltiplicarsi degli interrogativi sul parco e le sue finalità. Per fortuna è stato scongiurato quantomeno lo sciagurato progetto di centrale biogas affacciata sulla Sacca di Goro, perla paesaggistica della ciclabile panoramica. “Non si può pretendere di fare turismo di qualità, senza fare scelte che devono essere coerenti con l’alto profilo di ‘vacanze natura’ da offrire. – spiega il presidente – A questo proposito non dimentichiamo che gli imprenditori devono avere delle indicazioni chiare per investire. Il futuro del Parco deve attrarre capitali con operazioni certe e con una burocrazia snella che permetta di realizzarle”.

Detto così sembra facile, ma non lo è. Per questo l’idea di rendere nazionale il Parco potrebbe essere la più percorribile per evitare irrecuperabili sfregi naturalistici dovuti alla differente sensibilità delle tante anime amministrative che popolano due Regioni e i tanti Comuni interni e vicini ai suoi confini. Oggi come oggi, il Parco – che in un recentissimo passato ha rischiato tagli ai finanziamenti regionali mortali per la sua esistenza – è impantanato nei mutamenti legislativi, il meno recente dei quali risale all’approvazione della legge regionale del dicembre 2011 che lo ha catapultato in una dimensione amministrativa più complessa, gravida di competenze, ma povera di fondi e personale. C’è da aggiungere inoltre che lo smantellamento delle Province non gioca a favore del neonato ente già in affanno. “Abbiamo avuto momenti difficili, nonostante tutto siamo riusciti a mantenere in piedi i progetti che avevamo in essere. – racconta – Oggi stiamo per collegare la riviera ai Centri visita, alcuni dei quali come la Manifattura dei Marinati e Bevanella, sono davvero straordinari. Un bus elettrico farà la spola dalle strutture ricettive alle stazioni, si tratta di un utile servizio navetta istituito fino a settembre”. Il costo, circa 30mila euro, sarà suddiviso tra l’ente e i Comuni del parco.

massimo-medri-presidente-parco-delta-po
Massimo Medri, presidente del Parco del Delta del Po

Sul tavolo restano gli incerti legati all’abolizione delle Province. “La loro scomparsa ci crea delle difficoltà, immergendoci in un mare di burocrazia in divenire”, dice. La Provincia di Bologna ha già deliberato il passaggio delle aree naturalistiche sotto la giurisdizione del parco. “L’acquisizione di competenze avviene sulla base di una domanda avanzata dalla Province. Alla richiesta di Ravenna noi abbiamo replicato con quella di risorse umane e finanziare. Ora la palla è alla Regione per la delibera definitiva”, spiega. “Ferrara sta ancora lavorando sul passaggio di beni e personale – prosegue – si parla dell’acquisizione delle Dune di Massenzatica, di una parte del Mezzano e di molte altre aree”. E’ una sorta di work in progress dettato dal decreto Delrio che, in attesa di modificare il titolo V della Costituzione, lascia siano le città metropolitane e le aree vaste a spartirsi le competenze provinciali. “Il tema dell’ambiente è contenuto all’interno di una materia talmente vasta, da aprire per noi un altro periodo di incertezza, motivo in più per puntare al parco nazionale – conclude – l’unica strada maestra da percorrere per dare forza al Parco”.

Curare la disabilità con l’ippoterapia, filo di solidarietà fra Ferrara e la Tanzania

Un nuovo progetto lega Bologna, Ferrara e Iringa, città del sud-est della Tanzania. L’estate scorsa, Angela Ravaioli e Marco Tibaldi del Paddock di Bologna sono stati invitati proprio a Iringa dall’associazione Nyumba Ali, per insegnare i rudimenti dell’ippoterapia alla proprietaria inglese di una fattoria e di un maneggio.

angela-ravaioli-con-bambini-nyumba-ali
Angela Ravaioli con i bambini della Nyumba Ali

Conosco Angela Ravaioli ormai da più di dieci anni. Seguo quindi da molto tempo la sua passione e il suo impegno ormai trentennale nel campo della riabilitazione equestre. Quello che non sapevo è che la sua esperienza ad Iringa si inserisce e va ad arricchire lo stesso lodevole progetto a cui la nostra città ha aderito già da qualche anno.
Mi riferisco al progetto ideato e promosso dalla Nyumba Ali di Bologna che mira alla formazione di personale locale per la riabilitazione dei bambini disabili delle zone più povere di Iringa, e che si avvale della collaborazione volontaria di varie figure professionali come medici, fisioterapisti e pedagogisti, provenienti essenzialmente da Bologna e Ferrara, che hanno messo a disposizione nel tempo la loro pluriennale esperienza.
Ecco dunque che Angela Ravaioli e Marco Tibaldi dell’associazione Il Paddock vengono invitati ad Iringa per insegnare le tecniche base dell’ippoterapia. Ed ecco dunque che il ferrarese Francesco Ganzaroli del Centro servizi e consulenze per l’integrazione viene invitato ad Iringa in quanto esperto di comunicazione alternativa aumentativa.
Ma mentre la collaborazione sul programma di riabilitazione equestre è agli esordi ed è tutta da costruire, la collaborazione con Ferrara è stata avviata già da qualche anno, tanto da venir ufficializzata nel novembre del 2012 con un protocollo operativo triennale tra il Comune di Ferrara, l’associazione Nyumba Ali e le autorità locali del Disctrict of Iringa [leggi]

francesco-ganzaroli-durante-lezione
Francesco Ganzaroli durante una lezione

Francesco Ganzaroli, rientrato da poco dal suo quinto viaggio ad Iringa dove insegna “Strumenti di comunicazione aumentativa e alternativa, tecnologie per la didattica”, corso di formazione per insegnanti presso la scuola di Tanangozi (paese nel distretto di Iringa), ci ha raccontato la sua esperienza.
Sono stato invitato la prima volta nel 2009. Bruna Fergnani e Lucio Lunghi, responsabili dell’associazione Nyumba Ali, mi contattarono perché volevano sperimentare l’approccio della comunicazione aumentativa con i bambini disabili del suo centro diurno di Iringa. L’esperienza andò talmente bene che nel 2011 presi ferie e rimasi ad Iringa un mese, per procedere con il progetto e insegnare qualche tecnica agli operatori e ai bambini [leggi]. Tutto questo ebbe una certa eco a vari livelli, infatti successe che il responsabile dei Servizi sociali di Iringa e il responsabile degli insegnanti dei villaggi del Distretto di Iringa andarono in visita alla Nyumba Ali e chiesero a Bruna di realizzare un corso di formazione specifico di comunicazione aumentativa per gli insegnanti. Da lì nacque l’esigenza di formalizzare il mio intervento attraverso un protocollo operativo con il Comune di Ferrara”.

francesco-anzaroli-durante la valutazione-con-bambino
Francesco Ganzaroli durante la valutazione con un bambino

Per te sta diventando ormai una consuetudine, consolidata da quando operi per conto dell’amministrazione. A chi sono rivolti questi corsi?
Con l’ultimo appena concluso, sono alla quarta formazione. I primi due corsi erano rivolti ad insegnanti di sostegno, gli ultimi due erano per insegnanti di classe.
Continuerai la collaborazione con il Comune?
Molto probabilmente sì, pare ci siano tutte le condizioni per il rinnovo del protocollo.

Siamo poi andati a trovare Angela Ravaioli al Paddock (quartiere Barca di Bologna) e le abbiamo chiesto di raccontarci nel dettaglio la sua avventura: “Siamo stati contattati, a dire il vero, già nell’agosto del 2012. L’associazione Nyumba Ali ci invitava in Tanzania a proprie spese, per insegnare gli esercizi base dell’ippoterapia alla proprietaria di un maneggio con cui avevano preso contatti. Mi è sembrata subito un’occasione entusiasmante, non ho saputo resistere e abbiamo accettato. Così, attraverso un intenso scambio di mail, ci siamo accordati per l’estate successiva.”
Quindi prima del viaggio vi siete sentiti soltanto tramite mail?
No no, a Bologna c’è la sede dell’associazione e tutta una rete di persone con le quali ho avuto i primi contatti e con cui mi sono spesso relazionata. Poi c’è stato l’incontro con Bruna Fergnani: lei è il motore dell’associazione, è una donna molto coinvolgente e di grande coraggio che si è trasferita con il marito ad Iringa nel 2006, hanno adottato tre bambine disabili, messo su una casa famiglia e poi il centro diurno in cui si sviluppano questi programmi di riabilitazione. In uno dei suoi soggiorni in Italia, è venuta a conoscerci al Paddock, da lì ci siamo innamorati del suo progetto e abbiamo deciso di collaborare. Bruna ci spiegò in quell’occasione che ad Iringa erano venuti a conoscenza di una signora inglese, Victoria Philips, proprietaria di un’azienda agricola, che aveva importato cavalli e pecore; l’avevano incontrata ed era nata l’idea dell’ippoterapia.
Avete quindi elaborato un progetto insieme?
Sì, durante l’inverno abbiamo analizzato insieme la situazione, in particolare io ho dovuto capire quali fossero le tipologie di disabilità dei bambini e individuare gli strumenti più utili da portare. Le disabilità di quei bambini sono gravi, tutte esito di paralisi cerebrale infantile da parto, da abbandono o da malnutrizione, che hanno portato a situazioni di spasticità, ipotonia e deformità articolari. Non potevamo portare molto in valigia, quindi abbiamo puntato all’essenziale: ho acquistato per l’associazione un fascione ad una maniglia che si usa normalmente per lavorare i cavalli ma che viene anche utilizzato per il lavoro con i disabili di maternage. Avevamo anche cerchietti colorati e palline morbide che utilizziamo come giochi per proporre gli esercizi in modo stimolante e divertente.

maneggio
Al maneggio

Poi nell’estate del 2013 siete partiti, come vi siete organizzati?
Siamo rimasti una settimana e con noi sono venuti anche i nostri figli Virginia ed Enrico (17 e 15) che sono stati di fondamentale importanza sia come aiutanti per le sedute di ippoterapia sia come traduttori per l’inglese. I miei figli ormai cavalcano da anni perché sono nati con il Paddock, quindi abbiamo studiato insieme i compiti: mio marito Marco come medico neurologo valutava insieme agli altri esperti dell’associazione il singolo caso dal punto di vista diagnostico; io come ippoterapeuta spiegavo e mostravo a Victoria gli esercizi di base da far fare ai bambini; Virginia ed Enrico, a turno, montavano insieme ai bambini aiutandoli a tenersi in sella e accompagnandoli nei movimenti.”

Come si svolgevano le vostre giornate e che situazione avete trovato?
Il primo giorno abbiamo fatto visita al centro diurno del Nyumba Ali e abbiamo scelto, insieme agli operatori, i bambini che potevano essere introdotti all’attività e che avrebbero potuto nel tempo trarne beneficio, stando attenti a non coinvolgere casi particolarmente gravi perché appunto là di personale specializzato ancora non ce n’è. Abbiamo scelto bambini capaci di stare seduti in modo che fosse più semplice mostrare gli esercizi e poter far partire il lavoro. Nei giorni successivi, invece, la mattina partivamo con gli operatori per andare a prendere i bambini nelle loro case, case molto misere, di terra e canne, e portarli al maneggio.

in-pulmino-per-arrivare-al-maneggio
In pulmino per arrivare al maneggio

Com’è stato lavorare con quei bambini?
Ognuno di loro ha alle spalle una storia di vita drammatica, ma da quando sono stati inseriti al centro diurno di Bruna hanno fatto progressi da gigante. Mage, Viki e Ageni sono le figlie di Bruna e Lucio, sono ormai adolescenti e vivono in casa con i loro genitori adottivi. Ageni frequenta la scuola superiore, purtroppo non cammina per una malattia infantile non curata, ma è molto vitale e ha fatto amicizia con Virginia, mia figlia, e alla sera si scambiavano lo smalto all’hennè! Zawadi invece è un ragazzo con una disabilità fisica gravissima ma che, attraverso la comunicazione aumentativa, ha recuperato tantissimo, tanto da superare l’esame di accesso alla scuola pubblica. Imma, Priva, Evodia, Pio e Peter sono bimbi piccoli, con diagnosi per lo più indefinite. Nessuno di loro parla ma i loro occhi comunicano sensazioni splendide.

enrico-piccolo-pio-in-pulmino
Enrico e il piccolo Pio in pulmino

Durante il tragitto in pulmino per raggiungere il maneggio scherzavamo con loro e ci siamo fatti tante risate! Ci siamo molto affezionati e sono anche nate delle “simpatie”: Virginia si è innamorata di Evodia e Enrico aveva un debole per il piccolo Pio. Imma, infine, è il più confusionario del gruppo, la sua vivacità e la voglia di fare sono esemplari! In generale la cosa che ci ha colpito di più sono stati i loro sorrisi, nonostante i grandi disagi fisici e mentali, nonostante le condizioni familiari (il 90% dei bambini disabili viene abbandonato dai genitori perché considerato “figlio del demonio”), donano sorrisi di una dolcezza disarmante.

Che tipo di esercizi hai insegnato e quali sono stati i risultati?
L’arrivo al maneggio, il primo giorno, è stata un’esplosione di gioia. Con ogni bimbo abbiamo fatto l’avvicinamento che consiste nell’accarezzare il corpo del cavallo per avere un primo contatto fisico con l’animale, tra l’altro sconosciuto in quella zona dell’Africa. L’avvicinamento è un momento delicato perché il ragazzo viene investito da sensazioni molto forti che stimolano il tatto, l’olfatto, a volte anche la paura che viene poi superata con l’aiuto dell’operatore. La tecnica che prediligo per l’ippoterapia è il volteggio, in quanto permette al bambino di ricevere stimoli particolari senza coercizioni. Anche ad Iringa ho utilizzato questa tecnica ma per gradi: inizialmente abbiamo fatto maternage che consiste nel far montare il bambino con l’operatore seduto dietro, evitando l’uso della sella per permettere un maggiore contatto con il corpo del cavallo.

felicita-durante-seduta-ippoterapia
La felicità durante una seduta di ippoterapia

Siamo partiti col far accarezzare l’animale sul collo con il palmo della mano ben aperto, cosa affatto semplice per alcuni dei bambini che hanno gli arti atrofizzati. Poi abbiamo invitato i bambini a sdraiarsi sul dorso dell’animale, a fare leggere torsioni del busto per andare a toccare la schiena dell’animale, da una parte e dall’altra, esercizi questi utilissimi per l’equilibrio. In un secondo momento abbiamo inserito cerchi e palline come stimolo alla prensione degli oggetti, per imparare a riconoscere forme e colori, come scambio di relazioni. Preso confidenza con l’animale, siamo partiti in sicurezza con una persona a piedi che guidava il cavallo, una per lato per sostenere la schiena e le gambe del disabile, e una dietro. Alla fine della settimana tutti i bambini montavano da soli e senza che noi li tenessimo. E’ stata una grandissima soddisfazione [vedi video].

E com’è andata con la signora inglese? è riuscita a imparare in una sola settimana le tecniche base?
Sulle prime la signora era molto titubante sulla riuscita del progetto: i bambini erano disabili gravi e lei non si sentiva in grado di gestire le sedute di ippoterapia con loro. Ma poi, dopo qualche giorno, ha superato ogni remora, ha imparato le tecniche base, si è appassionata e da allora tiene regolarmente le sedute di riabilitazione. Bruna è stata in Italia poco tempo fa, è venuta a trovarci qui al Paddock e ci ha confermato che il lavoro sta continuando con grande successo, che i bambini vengono portati al maneggio ogni sabato pomeriggio e hanno fatto grossi miglioramenti. Ci ha invitato di nuovo a Iringa per proseguire nella formazione di personale specializzato.

Concludiamo il racconto con le parole del presidente dell’associazione Nyumba Ali, Mario Pinotti, a cui abbiamo chiesto come intendono proseguire in futuro: “Oltre a continuare con la formazione in loco, stiamo lavorando ad un nuovo progetto. Si tratta di realizzare qui a Bologna corsi di formazione per operatori specializzati in campo paramedico, psicopedagogico e di riabilitazione equestre, aperti a giovani laureati o laureandi, a cui poi offrire borse di studio per fare il tirocinio ad Iringa presso il nostro centro diurno e presso il centro di equitazione che abbiamo avviato con Angela. Realizzare questo programma sarebbe un grosso passo avanti per noi, perché ci permetterebbe di avere personale preparato e spendibile sia in Italia che in Tanzania, garantendoci di dare continuità all’intero progetto.

Per maggiori informazioni:
Associazione Il Paddock [vedi]
Associazione Nyumba Ali [vedi]
Centro servizi e consulenze per l’integrazione (ex CDIH) del Comune di Ferrara [vedi]

manichini

Corpi in vetrina e corpi consumati

Una ragazza di 19 anni qualche giorno fa viene trovata morta in casa. Morta di arresto cardiaco causato dall’anoressia. Frequentava la quarta liceo e viene descritta come ragazza speciale. Un’altra ragazza di 23 anni il mese scorso si toglie la vita, impiccandosi in casa: era affetta da disturbi alimentari da più di dieci anni. Lavorava come ragazza immagine.
Queste le ultime tragiche notizie di ragazze morte per disturbi alimentari, disturbi che dilagano nella nostra società incarnando il discorso prevalente di questo tempo: il godimento senza limite e il consumo degli oggetti. Corpi consumati, controllati, massacrati da diete ferree in nome di un’immagine che prende il sopravvento sul resto.
Dall’altra parte, la Fiera dell’estetica, che si è conclusa in questi giorni a Bologna: il Cosmoprof, che esalta modelli femminili di magrezza eccessiva usati per attirare i clienti dei nuovi mercati. Come ho potuto constatare dal vivo il Cosmoprof vanta 2.500 espositori da tutto il mondo e 200 mila visitatori ogni anno. È il regno degli smalti, dei capelli e delle creme e ha sempre più un’anima “bio”, a segnalare una naturalezza in realtà artefatta.
Viviamo in una società che cura disturbi che contribuisce a produrre. Campagne di prevenzione sui disturbi alimentari da un lato ed esaltazione della bellezza, della pura forma dall’altro.
In Fiera in primo piano la mania per le sopracciglia curate all’estremo e molto folte (questa l’ultima moda), creme per il corpo dai profumi e sapori di cibi, saponi dalle forme di pasticcini e torte, unghie di tutte le forme e colori, che diventano veri e propri quadri. Il modo più nuovo e veloce per mettersi lo smalto è premere direttamente il tappo sull’unghia. Non c’è bisogno di svitare, né serve intingere il pennello: tappo e contenitore sono entrambi riempiti di smalto. Tra qualche tempo potremmo incontrare persone che, al semaforo, oltre a parlare al cellulare o a truccarsi, si danno anche lo smalto.
Anche le creme e gli shampoo diventano “biologici”. La parola d’ordine è “naturale”, termine di riferimento che ha già modificato il packaging e la pubblicità dei prodotti alimentari. Solo pochi anni fa le aziende bio rappresentavano una nicchia, ora il termine “green” ricorre spesso e consente di aumentare i prezzi in cambio della promessa di autenticità e rispetto per la natura. All’interno della Fiera un intero padiglione era dedicato al green, il tutto completamente allestito con materiali di riciclo, banconi, sedie, tavolini e intere scaffalature di cartone.
Presentati anche gli smalti da uomo, ad indicare che è sempre più sfumata la differenza di genere: da indagini risulta che i maggior consumatori siano eterosessuali che di giorno sono uomini d’affari e la sera si trasformano per frequentare occasioni speciali.
Nelle immagini tra i padiglioni segni e simboli della cultura di questo tempo: madri e figlie che usano le stesse creme, quasi a voler appiattire anche la differenza generazionale e di età, con ripercussioni sul ruolo delle stesse. La cifra generale è una tendenza ad una uniformità stereotipata che non lascia spazio alle differenze e ai tempi della vita.
Mentre nella cura dei disturbi alimentari si aiuta la persona a compiere un cammino dall’omogenizzazione del sintomo alla scoperta della propria particolarità soggettiva che riguarda la sostanza di ogni persona, nella cura estetica si tende alla stereotipia e alla omologazione delle forme verso un’ideale di bellezza difficilmente raggiungibile, anche se presentato come alla portata di tutti.

Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

Oltre un milione e mezzo di euro per la sperimentazione sugli animali. Se ne parla in sala San Francesco

“Sperimentazione animale e limiti in ambito scientifico”. E’ il tema della conferenza che si tiene domani sera (giovedì 10) alle 20.30 nella sala San Francesco di via Savonarola 3. Relatore è il dottor Massimo Tettamanti, chimico ambientale, responsabile legale del progetto Italia Senza Vivivsezione. L’iniziativa organizzata dall’Associazione ferrarese Animal Defenders, è nata in seguito alle proteste contro l’ampliamento dello stabulario dell’Università di Ferrara.
A parlarne grazie a una conoscenza maturata sia in campo scientifico che giuridico è proprio il dottor Tettamanti, antivivizezionista scientifico, laureato in chimica all’Università di Milano e con al suo attivo un dottorato di ricerca in scienze chimiche alle università di Milano e Siena e numerose cariche in organismi che si occupano di ricerca. E’ infatti coordinatore del Centro internazionale per Alternative nella Ricerca e nella Didattica, consigliere scientifico dell’Associazione Atra e consulente del Mahatma Ghandi Center. In marzo il medico si è distinto in un confronto alla Cattolica di Milano con Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.

La presentazione della serata è affidata alla giornalista Monica Forti di Ferraraitalia. L’iniziativa dell’Associazione ferrarese ha preso spunto da quanto sta accadendo al polo Chimico Biomedico dell’Università degli Studi di Ferrara – recita il sito di Animal Defenders – dove sono in corso i lavori per la realizzazione di un edificio da destinare ad Animal Facility, lo stabulario con annessi laboratori di ricerca e sperimentazione su animali. I lavori, di importo pari a 1.602.024,36 euro iva esclusa, sono finanziati dalla Regione Emilia Romagna attraverso il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Il finanziamento ricade nell’ambito della la promozione della ricerca industriale e del trasferimento tecnologico come fattore di competitività.
A detta dell’associazione l’ampliamento del laboratorio rappresenta uno spreco di risorse del tutto inutile in un momento di difficoltà economica come quello attuale. Si tratterebbe di un cattivo uso di denaro pubblico perché “la sperimentazione animale produce risultati non attribuibili all’uomo a causa delle differenze nella biologia delle diverse specie, senza contare che i risultati possono essere distorti dalle variazioni nei parametri fisiologici degli animali stessi a causa dello stress a cui sono sottoposti durante le normali procedure di laboratorio – sostengono gli associati.

Un articolo pubblicato nel 2012 sulla rivista scientifica Regulatory Toxicology and Pharmacology afferma che gli studi su animali effettuati per valutare la sicurezza dei nuovi farmaci non sono abbastanza sensibili per prevedere reazioni avverse ai farmaci dopo la commercializzazione. Non è quindi rilevante inserire i dati ottenuti su animali negli studi prospettici di farmacovigilanza”. Per Animal Defenders la soluzione sta nel finanziamento di metodi di ricerca alternativi, innovativi, tecnologicamente avanzati ed estranei all’uso degli animali. “Ancora oggi vengono impiegate le colture cellulari di topo nonostante si possano utilizzare colture di cellule e tessuti umani e addirittura co-colture integrate di organi umani, nonché modelli matematici computerizzati, tecniche non-invasive per immagini e studi epidemiologici – insistono – Alla luce delle critiche scientifiche nei confronti della sperimentazione animale nella ricerca biomedica, e delle implicazioni etiche connesse all’esposizione di esseri senzienti a stress, paura e dolore, si chiede all’Università degli Studi di Ferrara di convertire il progetto e di impiegare i finanziamenti destinati alla realizzazione dell’Animal Facility nella realizzazione di un centro di ricerca all’avanguardia, che utilizzi metodi innovativi e tecnologie avanzate non basate sull’uso di animali”.

La grande bellezza dei film italiani al New Italian Cinema Events Russia 2014

Il New Italian Cinema Events, riparte con la promozione del cinema italiano emergente e apre il 2014 con la 17° edizione del festival diretto da Viviana del Bianco e Grazia Santini, che quest’anno si tiene in Russia. Mosca parta italiano, dunque, dal 9 al 15 aprile (Cinema Illusione), e anche San Pietroburgo, dal 12 al 18 aprile (Centro cinematografico Rodina).
N.i.c.e. debutta in entrambe le città con una serata dedicata a Paolo Sorrentino con La Grande Bellezza (2013) e L’uomo in più (2001), opera prima del regista. Confermate le presenze dei registi Edoardo Leo (Buongiorno papà) e Francesco Amato (Cosimo e Nicole) oltre che del produttore di Neve, Domenico Formisano, che incontreranno il pubblico dopo le proiezioni.
Oltre a Buongiorno papà (2013), commedia brillante di Edoardo Leo con Raul Bova e Marco Giallini, verranno proposti, in anteprima, anche al pubblico russo, Cosimo e Nicole di Francesco Amato (2012), Un giorno devi andare di Giorgio Diritti (2013), Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi (2012) e due commedie: Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi e il film di esordio di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, La mafia uccide solo d’estate. Per la sezione eventi speciali, sarà presentata una rassegna di film di registi napoletani: oltre ai due di Sorrentino, ci saranno quelli di Stefano Incerti (Neve e Gorbaciof) e il film collettivo Napoli 24.
Anche quest’anno, a Mosca, una giuria formata da critici cinematografici russi e da Naum Kleiman, direttore del Museo Kino, sceglierà, tra gli studenti del Vgik – Istituto statale pan-russo di cinematografia, il vincitore dell’Alexander Gimelfarb Award, una borsa di studio intitolata allo scienziato di San Pietroburgo, sostenitore del grande schermo. La stessa giuria assegnerà il Premio bozzetto d’oro Savio Firmino al miglior scenografo o arredatore di scena che avrà saputo riportare sullo schermo le caratteristiche di armonia, intensità e gusto della tradizione scenografica italiana.
N.i.c.e. è uno degli eventi di primaria importanza nell’ambito del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale per il cinema, del Ministero affari esteri (Ambasciata di Mosca, Consolati e Istituti italiani di cultura di Mosca e San Pietroburgo), Assessorato alla cultura – Comune di Firenze, Regione Toscana, Fondazione sistema Toscana-Mediateca regionale-Toscana film commission.
A Novembre prossimo, N.i.c.e. U.S.A. 2014 presenterà la nuova selezione a New York, al Tribeca Cinema, dal 5 al 10 novembre, e a San Francisco, dal 9 al 17 novembre, al Clay Cinema, in collaborazione con San Francisco film society.

La Grande bellezza, di Paolo Sorrentino, Italia-Francia, 2013, 142 mn

la-grande-bellezza-locandina
La grande belleza, locandina

Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Pasquale Petrolo, Giorgia Ferrero, Aldo Ralli, Ludovico Caldarera, Maria Laura Rondanini, Anna Luisa Capasa

Jep Gambardella, re della mondanità capitolina, è ridotto a fare il giornalista, famoso per il suo primo e unico romanzo, scritto a 20 anni, perché poi «Roma ti deconcentra ». Poi più nulla. Ogni tanto porta a letto una bella donna ricca «ma a 65 anni non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare»; la notte balla sulle terrazze romane o negli attici all’ultima moda, si affloscia sui divani dei salotti romani «a parlare di vacuità, perché non vogliamo misurarci con la nostra meschinità». Toni Servillo è geniale, come sempre, capace di giudicare e giudicarsi, perché «siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po’ in giro». Dolce inflessione napoletana, giacche coloratissime sui pantaloni bianchi, il cappello bianco, la sigaretta tra le dita, il sorriso compiacente di chi è sempre al centro della festa, ma non della sua vita, con la speranza che forse, un giorno, riuscirà a tornare a scrivere. Il film inizia con una visione meravigliosa dal Gianicolo, talmente stupefacente che il cuore di un turista giapponese non regge. E c’è sempre la bellezza di Roma, ovunque, e intorno a essa personaggi dalle vite naufragate: da Carlo Verdone, poeta fallito e innamorato respinto che torna al paese, a Sabrina Ferilli, la spogliarellista avanti negli anni. Il film, definito da molti felliniano, è toccante e profondo. [vedi il trailer]

L’uomo in più, di Paolo Sorrentino, Italia-Francia, 2001, 100 mn

l-uomo-in-più-locandina
L’uomo in più, locandina

Cast: Toni Servillo, Andrea Renzi, Nello Mascia, Ninni Bruschetta, Italo Celoro

Nella Napoli degli anni ‘80 si svolgono parallele le storie di Tony Pisapia (Servillo), cantante attempato di musica leggera e Antonio Pisapia (Renzi), capitano del Napoli. Mentre il primo si esibisce in un grande concerto, il secondo segna un gol in mezza rovesciata. I due hanno tutto da perdere e così sarà. All’apice della carriera segue la disfatta inesorabile: Tony, cocainomane donnaiolo, è sorpreso a letto con una minorenne, dalla moglie e dalla madre; Antonio si rompe i legamenti durante un allenamento. Passano quattro anni: Tony è assolto, Antonio prende il patentino di allenatore, ma nessuno è interessato a lui. Tony, conscio che il successo non tornerà, rileva la gestione del ristorante di un amico – il suo tentativo di cambiamento, il suo “uomo in più”- ma arriva tardi. L’epilogo è l’incrocio delle due storie, corse fino a quel momento parallele. Abbandonato dalla moglie, solo e incapace di reagire e resistere, Antonio esce sconfitto dalla vita, Tony decide di vendicarlo. Sorrentino affonda oltre l’apparenza delle persone e ne traccia le multiformi personalità, in una fase della vita comune a ogni essere umano, quella del declino. [vedi il trailer]

Viaggio sola, di Maria Sole Tognazzi, Italia, 2001, 85 mn

io-viaggio-sola-locandina
Io viaggio sola, locandina

Cast: Margherita Buy, Stefano Accorsi, Fabrizia Sacchi, Gianmarco Tognazzi, Alessia Barela, Lesley Manville, Carolina Signore, Diletta Gradia.

Viaggio sola racconta il mutamento dei rapporti, degli affetti, dei ruoli: una quarantenne single non pentita (Irene, che lavora come ispettrice alberghiera, in continuo viaggio da un albergo di lusso all’altro e se ne vedono tanti…), un antico amore diventato amorevole e tenera amicizia, la coppia sposata che non ha più rapporti fisici ma si ama lo stesso, la solidarietà femminile, la donna che decide di tenersi il figlio frutto dell’incontro casuale, l’uomo che scopre la meraviglia della paternità che non contempla l’obbligo della coppia, l’antropologa che studia questa rivoluzione dei generi, delle convenzioni e dei sentimenti, il rapporto solido con sorella e nipotine. Irene è soddisfatta del suo modo di vivere, da lei ritenuto indipendente e privilegiato. Quando però l’ex fidanzato le confida che una donna con cui ha avuto una storia è rimasta incinta e vuole tenere il bambino, Irene entra in crisi. A farla riflettere ulteriormente sul suo modo di vivere ci penserà Kate Sherman, un’antropologa inglese incontrata a Berlino durante un viaggio di lavoro. La vita che ha scelto è libertà o solitudine? Autobiografia sincera e reale della generazione attuale di molti quarantenni. [vedi il trailer]

Cosimo e Nicole, di Francesco Amato, Italia, 2012, 101 mn

cosimo-e-nicole-locandina
Cosimo e Nicole, locandina

Cast: Riccardo Scamarcio, Clara Ponsot, Paolo Sassanelli, Souleymane Sow, Giorgia Salari, Andrea Bruschi, Jo Prestia, Thierno Thiam, Angela Baraldi.

L’italiano Cosimo, la francese Nicole, la Genova del G8 nel 2001, le manifestazioni, l’amore a prima vista, travolgente, libero e passionale, gli infortuni sul lavoro, gli immigrati senza volto e senza nome, la precarietà, la libertà all’eccesso, sono gli ingredienti di questo film che vuole descrivere due ragazzi che lottano per restare spontanei, appassionati, erotici, danzanti, liberi, senza vincoli o freni, incapaci di progetti a lungo termine, fuori dagli schemi. Conosciutisi e innamoratisi a Genova durante il G8, Cosimo e Nicole iniziano una relazione conturbante e, dopo un periodo di vita in Francia, tornano nel capoluogo ligure. Vivono alla giornata, senza paura ma solo con passione e complicità, nel vuoto di opportunità che li circonda, fino a quando un incidente (durante il montaggio di un’impalcatura, l’extracomunitario Aliounè precipita da un’altezza di sette metri) li costringe a rivelare le proprie coscienze e l’autentica natura di una relazione egoistica, costruita sull’esclusione degli altri. I due giovani finiscono, allora, per interrogarsi su ideali e progetti di vita, fino ad arrivare a scegliere strade differenti che portano all’inevitabile incrinarsi della relazione. [vedi il trailer]

Un giorno devi andare, di Giorgio Diritti, Italia, Francia, 2013, 110 mn

Un giorno devi andare, locandina
Un giorno devi andare, locandina

Cast: Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth, Amanda Fonseca Galvao, Sonia Gessner, Federica Fracassi, Paulo De Souza, Nilson Trindade Miquiles, Manuela Mendonça Marinho

La dolorosa perdita del figlio spinge Augusta, una giovane donna italiana, a mettere in discussione le certezze della sua esistenza, lasciando madre, nonna e Trentino alto adige per seguire in Amazzonia un’amica missionaria, suor Franca. Su una piccola barca, e nell’immensità della natura amazzonica, inizia il suo viaggio, accompagnando la suora nella sua missione di evangelizzazione presso i villaggi indios. Lasciata Franca, Augusta si cala nella realtà delle favelas di Manaus, accolta nella casa di nonna Arizete: qui, nell’incontro con la gente semplice, torna a percepire la forza dell’istinto di vita, di un sorriso ricambiato anche dove non richiesto, intraprendendo il suo viaggio personale, fino a isolarsi nella foresta, accogliendo il dolore e riscoprendo l’amore. In una dimensione in cui la natura e la sua energia assumono un senso quasi profetico, scandiscono nuovi tempi e stabiliscono priorità essenziali, Augusta affronta la ricerca di se stessa, incarnando la questione del senso dell’esistenza umana, immersa nei valori della comunità e della solidarietà. [vedi il trailer]

Gorbaciof, di Stefano Incerti, Italia, Italia, 2010, 87 mn

gorbaciof
La locandina del film

Cast: Toni Servillo, Yang Mi, Geppy Geijeses, Gaetano Bruno, Haruhiko Yamanouchi.

La storia del cassiere corrotto di Poggioreale, dalla vistosa voglia sulla fronte, già commentato su questo giornale [leggi]

 

 

 

 

La mafia uccide solo d’estate, di Pierfrancesco Filiberto (“Pif”), Italia, 2013, 90 mn

La-mafia-uccide-solo-destate, locandina
La mafia uccide solo d’estate, locandina

Cast: Pif, Cristiana Capotondi, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè

« – Ma la mafia ucciderà anche noi? – Tranquillo. Ora siamo d’inverno. La mafia uccide solo d’estate. » (Il padre al piccolo Arturo, prima di andare a dormire).

Il film racconta la vicenda di Arturo, giovane palermitano che condivide un segreto romantico con Rocco Chinnici, giudice e vicino di Flora, la bambina di cui si è perdutamente innamorato. Concepito il giorno in cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella e altri due uomini della famiglia Badalamenti uccisero Michele Cavataio, da quel momento la sua giovane vita è allacciata alla mafia. Cresciuto in una famiglia passiva e in una città “muta”, il ragazzino prova da solo a produrre un profilo e un senso a quegli uomini contro e gentili che gli offrono un iris alla ricotta (il commissario Boris Giuliano) o gli concedono un’intervista (il Generale Dalla Chiesa). L’unico che non riesce a incontrare è il premier Giulio Andreotti. Gli anni passano, la mafia cresce e i paladini della giustizia sono eliminati uno a uno. La morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino lo risveglierà da un sonno quasi atavico e dentro una città finalmente cosciente. Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, debutta al cinema con una storia di rimozione, quasi un romanzo di formazione, una storia scomoda, perché chiama in causa molte responsabilità collettive che costringono a interrogarsi sull’identità culturale del Paese, sul suo passato e sul suo futuro. [vedi il trailer]

Napoli 24, di Giovanni Cioni, Bruno Oliviero, Gianluca Iodice, Diego Liguori, Roberta Serretiello, Luca Martusciello, Nicolangelo Gelormini, Guido Lombardi, Mariano Lamberti, Stefano Martone, Andrej Longo, Mario Martone, Mario Spada, Fabio Mollo, Pietro Marcello, Andrea Canova, Lorenzo Cioffi, Corrado Costetti, Massimiliano Pacifico, Marcello Sannino, Federico Mazzi, Vincenzo Cavallo, Gianluca Loffredo, Daria D’Antonio, Ugo Capolupo, Paolo Sorrentino, Italia, 2012, 75 mn

napoli-24-locandina
Napoli 24, locandina

Ventiquattro registi, con tre minuti a disposizione ciascuno, raccontano Napoli, punto di partenza di quest’opera collettiva. È la conferma della volontà da parte dei creativi napoletani di voler dire qualcosa sulla propria città, magari abbandonata da anni ma difficilmente dimenticata. Napoli è raccontata attraverso tempi, luoghi, modi e sguardi diversi per cercare di coglierne la complessità. Una raccolta d’istantanee che prova a fermare un momento: quello di una giornata passata al mare o alla finestra; il tempo dispari di un pianista jazz e quello ordinato di una canzone malavitosa; vicoli e periferie, mare e musei. Spiccano, fra i racconti, quello del centesimo compleanno di un arzillo ex calzolaio e l’accenno di rapporto madre-figlio, nel finale che Sorrentino dedica alla principessa Luisa de Gregorio di Sant’Elia Cattaneo. I tempi sono diversi l’uno dall’altro, ma emerge una città sempre in movimento, una città bella e complessa colti in lampi fulminei. [vedi il trailer]

Neve, di Stefano Incerti, Italia, 2013,90 mn.

neve-una-scena-film
Neve, una scena del film

Cast: Roberto De Francesco, Esther Elisha, Massimiliano Gallo, Antonella Attili, Angela Pagano
Un uomo viaggia a bordo di una station wagon verde, con sci sul portapacchi, alla ricerca di qualcosa, forse la refurtiva di una rapina dimenticata. Un incontro fra destini che s’incrociano improvvisamente. Una donna dalla pelle scura, Norah, scaricata in fretta e furia da un’automobile lussuosa e poi inseguita da un gangster, cui forse ha sottratto qualcosa d’importante, forse del danaro. Perché Donato decide di soccorrere la ragazza, e portarla con sé lungo un tratto del suo misterioso percorso? Perché Norah non si allontana da lui e gli sta addosso fino alla fine, fino a scoprire le ragioni della sua ricerca? L’incontro casuale di due vite “con le spalle al muro”. Sullo sfondo, la provincia italiana, un paesaggio senza luoghi, sempre imbiancato dalla neve. [vedi il trailer]

Alì ha gli occhi azzurri, di Claudio Giovannesi, Italia, 2012, 100 mn.

al-ha-gli-occhi-azzurri-locandina
locandina del film

Cast: Nader Sarhan, Stefano Rabatti, Brigitte Apruzzesi, Marian Valenti Adrian

Ispirato alla poetica di Pier Paolo Pasolini (basti ricordare i suoi scritti Alì dagli occhi azzurri, raccolti in unico volume, tra il 1950 e il 1965), il film racconta la dura vita di due adolescenti. Nader ha sedici anni e una fidanzata italiana malvista dai genitori e dalla legge islamica. Ma a lui non importa niente delle tradizioni, delle proibizioni, delle preghiere in moschea, quello che desidera lo prende subito, rapinando una drogheria, accoltellando un coetaneo, comprando una fedina e giurando eterno amore sulle note di Gigi d’Alessio. Condivide tutto con il compagno di scuola Stefano. Rientrato ancora una volta a notte avanzata, Nader viene lasciato fuori di casa e invitato dalla madre a riflettere sulla sua condotta. Una notte che diventa giorni passati tra periferia e città, dentro la metropolitana, sulla spiaggia, sfuggendo rumeni arrabbiati, “chiedendo asilo” a un’innamorata che non sorride più. Nader ha gli occhi neri ma li nasconde dietro lenti azzurre che alterano lo sguardo in bilico tra due età e due culture, quella egiziana e quella italiana. Sette giorni per cercare un’identità e una tregua, una risoluzione al conflitto tra la cultura islamica e occidentale, sette giorni per crescere provando ad assumerle entrambe, trasformando la duplicità in ricchezza. [vedi il trailer]

Buongiorno papà, di Edoardo Leo, Italia, 2013, 109 mn.

 

buongirono.papa-locandina
locandina del film

Cast: Raoul Bova, Marco Giallini, Edoardo Leo, Nicole Grimaudo, Rosabell Laurenti Sellers, Paola Tiziana Cruciani, Mattia Sbragia, Ninni Bruschetta

Andrea è un trentottenne, bello e sicuro di sé, single, “sciupafemmine’” superficiale, con un’avviata carriera in un’importante agenzia. Lavora nel mondo del cinema, fa il product placement, è molto apprezzato nel suo lavoro ed è anche ricco: ha una bella Porsche e vive in un elegante loft nella capitale. Nella sua vita sembra andare tutto a gonfie vele: nessuna responsabilità, solo lavoro e tanto divertimento. Finché un giorno, al suo ritorno a casa, dove vive con Paolo, un amico disoccupato, trova Layla. La ragazzina, carina e stravagante, ha diciassette anni e dice di essere sua figlia. E non è sola… Con lei c’è suo nonno Enzo, un ex rockettaro e padre della sua prima fugace e dimenticata conquista… E sono venuti per restare! [vedi trailer]