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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Luci e ombre del presepe fra Cristianesimo e credenze popolari

«Tommasi’, te piace’ ‘o Presebbio?»
«Sì»
«Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!»
(Eduardo De Filippo, “Natale in casa Cupiello”)

“Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe […] Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa […]. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni.”
(Johann Wolfang Goethe, Viaggio in Italia, 1787)

Dopo la prima rievocazione di Francesco a Greccio, il presepio è entrato di diritto nella tradizione natalizia popolare italiana e a Napoli è diventato una vera e propria arte, di cui si hanno tracce già dal 1340, ma che ha raggiunto il periodo di massimo splendore e sfarzo nel Settecento.
La sua forte valenza simbolica sta nel miscuglio fra la rappresentazione della spiritualità della natività ed elementi delle credenze popolari più antiche, paralleli e sottesi alla devozione cristiana.
La premessa a questo simbolismo era che nella mentalità del popolo, in maniera più o meno conscia, nel periodo del solstizio d’inverno si veniva creare una sorta di appiattimento temporale, un fermarsi del tempo presente, come se la natura trattenesse il fiato in attesa della nuova venuta della luce. Questa inquietudine nel delicato passaggio dal buio alla luce si ritrova per esempio nella struttura scenografica del presepe napoletano tradizionale, con i viottoli e le stradine che scendono fino al punto più basso, al centro della scena, dove si trova la grotta: la costruzione dall’alto al basso simboleggiava una sorta di viaggio misterico dal mondo sotterraneo alla rinascita della Luce del mondo. Richiami al mondo ultraterreno possono essere considerati anche il fiume, il laghetto o il pozzo, mentre luoghi come l’osteria o la taverna, oltre a rievocare scene di vita quotidiana, avevano la funzione di esorcizzare i rischi dei viaggi. Il castello è naturalmente un riferimento alla strage degli innocenti di Erode: non è quindi un caso che spesso venisse collocato nel punto più alto della composizione perché, come emblema della crudeltà dell’infanticidio, rappresentava il momento più buio e l’inizio del viaggio verso la redenzione cui si è accennato sopra. Figure centrali sono i Re Magi provenienti da Oriente, tradizionalmente raffigurati su un cavallo bianco, uno rossiccio o baio (crini ed estremità nere e corpo marrone) e uno nero: queste tre cavalcature rappresentavano l’iter quotidiano del sole dall’alba all’oscurità notturna. Ancora più interessante il fatto che nel loro seguito ci fosse una donna di colore portata su una lettiga: era la cosiddetta ‘Re Magia’ simboleggiante la luna. Questa figura era ancore presente nel presepe napoletano settecentesco, poi ha perso importanza fino quasi a scomparire. I personaggi popolari come il ‘verdummaro’, il vinaio, il macellaio, il fruttivendolo, il venditore di castagne, quello di formaggi, l’arrotino e il pescivendolo, rappresentavano la personificazione di un mese dell’anno e dunque anche lo scorrere del tempo. La coppia antitetica dei pastori, quello dormiente e quello ‘della meraviglia’, ci riportano invece alla devozione cristiana: il primo simboleggia il comportamento di coloro che sono rimasti indifferenti alla buona novella, mentre il secondo giunto nei pressi della mangiatoia ammira lo straordinario evento di cui è testimone. Anche i tre angeli sopra la grotta o la stalla sono simboli cristiani: uno al centro, con una veste gialla o dorata e il cartiglio “Gloria in excelsis deo”, uno a destra vestito di rosso con l’incensiere e uno a sinistra in bianco che suona la tromba, a simboleggiare rispettivamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

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‘Tradimenti’ e inganni, minuscolo prezioso gioiello di Harold Pinter

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Tradimenti” di Harold Pinter, regia di Valerio Binasco, Teatro Comunale di Ferrara, 11 e 12 dicembre 2001

Impennata della stagione di prosa 2001/2002 del Teatro Comunale con “Tradimenti”, del drammaturgo inglese Harold Pinter. Maggior esponente britannico del “teatro dell’assurdo” (Beckett, il maggiore in assoluto, era irlandese di nascita e francese d’adozione), Pinter è il geniale autore di capolavori come “Il guardiano” (1961), “Il compleanno” (1958), “Il calapranzi” (1960), “Terra di nessuno” (1975). Le sue opere sono sature di inquietante simbolismo e pervase dal senso misterioso di minaccia incombente, del grottesco, dell’antipsicologismo. Pinter è anche autore di numerose sceneggiature per il cinema, fra le quali ad esempio “La donna del tenente francese” (1981).
Se nell’ambito del teatro dell’assurdo Beckett può essere considerato come il genio naturale, Ionesco come il maestro consapevole e Genet come il poeta maledetto, Pinter ne rappresenta di certo il teorico più lucido, il drammaturgo che ne ha amplificato le potenzialità connettendolo agli altri generi teatrali. E con “Tradimenti” egli riesce ad ingannare gli spettatori e i lettori (e talvolta i critici) due volte: la prima proponendo una commedia all’incontrario, capovolta, e la seconda destabilizzando la tradizionale convenzione dell’intreccio nascondendo la trama. Ma il fatto è che la trama consiste proprio in tale occultamento, altrimenti come potrebbe l’autore camuffare un discorso sulla memoria con un adulterio? Poiché “Tradimenti” (1978) racconta all’apparenza la storia di un adulterio, rappresentata a ritroso, dal suo epilogo al momento in cui è iniziata. Ma in realtà si tratta di una sorta di “dramma della memoria”, riguardo al quale ebbe a dire lo stesso autore in una rara intervista rilasciata diversi anni fa a New York: «È solo il trucco della memoria. La memoria è così. Comincia tutto dall’ultimo istante, si riavvolge all’indietro. Mettendo tutto alla rovescia, in “Tradimenti”, io ho preso la memoria alla lettera, la memoria senza la logica, che è una macchina stupida, come tutte le macchine».
È come assistere all’esposizione delle molteplici sfaccettature di un minuscolo ma prezioso gioiello, allo scaricarsi di un perfetto meccanismo a orologeria che, come appunto nel dramma-commedia di Pinter, si riavvolge dalla tensione finale allo stato di quiete iniziale. E dove il percorso si rivela sovente sarcastico e talvolta cinico, dove la “tragedia” è sempre latente, sfogandosi appena nei silenzi, nelle sfumature, negli atteggiamenti ambigui, nei dialoghi asciutti e telegrafici che nulla concedono al rischio del patetismo. La regia è di Valerio Binasco, per l’interpretazione dello stesso Binasco con Iaia Forte e Tommaso Ragno.

Foto di Gianluca Ghinolfi

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L’EVENTO
Michelangelo, Tiziano, Bastianino e la buona politica culturale

Sono diverse le ragioni per le quali “Lampi sublimi. Tra Michelangelo e Tiziano – Bastianino e il Cantiere di San Paolo”, la mostra alla Pinacoteca nazionale di Ferrara inaugurata questa mattina dal Ministro Franceschini, rappresenta un esempio di buona politica culturale.
Una di queste è che “Lampi sublimi” si può considerare idealmente il proseguimento di un percorso già iniziato con “Immagine e persuasione. Capolavori del Seicento dalle chiese di Ferrara”, organizzata a Palazzo Trotti-Costabili fra settembre 2013 e febbraio 2014 da Fondazione Ferrara Arte e Seminario Arcivescovile di Ferrara in collaborazione con l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e i Musei Civici di Arte Antica di Ferrara: per puntare l’attenzione dell’opinione pubblica sui danni causati al patrimonio ferrarese dal sisma 2012, la mostra proponeva una selezione di capolavori provenienti da alcune delle chiese inagibili.

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La locandina

Anche con “Lampi sublimi” ci si propone di sensibilizzare il pubblico riguardo la situazione della Chiesa carmelitana della Conversione di San Paolo, la cui vicenda sembra essere legata a doppio filo con gli eventi sismici: già il terremoto del 1570 l’aveva gravemente danneggiata e la sua ricostruzione era iniziata nel 1573 su progetto di Alberto Schiatti, all’apparato decorativo lavorarono Domenico Monio, Scarsellino e il Bastianino. Chiusa al pubblico ormai da molti anni, il sisma del 2012 non ha fatto che peggiorare la situazione dell’edificio, mettendo ancora più a rischio la conservazione dei dipinti al suo interno. Qui sta un altro elemento di valore di questa operazione: “Lampi sublimi” non è solo una mostra è “un salvataggio”, come l’ha definito oggi il Soprintendente per i beni storici, artistici ed etnoatropologici Luigi Ficacci: grazie a un finanziamento del Mibact si è potuto avviare il cantiere per il consolidamento delle parti pericolanti, la pulizia, la disinfestazione, la protezione delle parti inamovibili e la rimozione della maggior parte dei dipinti, depositati al Centro di raccolta e di primo intervento al Palazzo Ducale di Sassuolo e alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara. È stata Anna Stanzani, da poco direttrice della Pinacoteca ferrarese, ad avere l’idea di non fare tutto questo lavoro in silenzio, ma di trasformarlo in una mostra per comunicare il patrimonio ferrarese e la sua attuale situazione ai cittadini estensi: un esempio concreto di quanto recupero e valorizzazione siano strettamente correlati.
Da ultimo, ma non meno importante, “Lampi sublimi” riporta l’attenzione sulla specificità dell’opera di Bastianino. Come ha spiegato Ficacci, “è difficile oggi avere la consapevolezza dell’importanza che poteva avere nel Cinquecento in una città come Ferrara il riferimento alla pittura romana di Michelangelo”: un atteggiamento “rivoluzionario, perché per ragioni culturali e politiche Ferrara aveva sempre guardato a Venezia”. Inoltre, quello di Bastianino è un michelangiolismo peculiare, diverso da quello nitido e scultoreo dei bolognesi, libero dalla forma chiusa, con il pennello che sente l’influenza di Tiziano e corre veloce per esprimere i sentimenti della coscienza.
“Lampi sublimi” è perciò un’esposizione interessante non solo per le opere in mostra e la chiave interpretativa che le lega, ma anche per tutto il lavoro che ha condotto alla sua realizzazione, un esempio di fattiva collaborazione fra istituzioni pubbliche e private – in mostra anche alcune opere della collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara – e a diversi livelli, territoriale e nazionale – come dimostrano per esempio i prestiti da parte della Galleria Estense di Modena e della Pinacoteca di Bologna, fra i quali un Tiziano. Ora però queste istituzioni hanno la responsabilità di portare avanti il percorso con una progettualità di lungo periodo che permetta ai cittadini ferraresi di comprendere il proprio patrimonio riappropriandosene. Non per niente il ministro Franceschini ha citato uno dei “paradossi” del nostro Paese in cui “abbiamo un know-how molto forte per la costruzione di mostre, parallelo a un indebolimento sul piano del patrimonio permanente”. Il messaggio è: riabituiamo i ferraresi e gli italiani a vedere la bellezza intorno a loro che non vedono più.

“Lampi sublimi. Tra Michelangelo e Tiziano – Bastianino e il Cantiere di San Paolo”,
13 dicembre 2015 – 15 marzo 2015, Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Palazzo dei Diamanti
per info su orari e biglietti vedi il sito della Pinacoteca Nazionale di Ferrara [vedi]

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Lo Schiaccianoci

È la vigilia di Natale nel salone di casa Stahlbaum. Marie aspetta, insieme al fratellino Fritz, il permesso per unirsi alla festa degli adulti. Il giocattolaio Drosselmaier, suo padrino di battesimo, rompe l’attesa e porta in dono ai bambini un sacco colmo di giocattoli, tra cui spunta un originale schiaccianoci a forma di soldatino. Marie è entusiasta del suo nuovo amico, tanto da portarlo a dormire con sé. Nella notte, però, tutto si trasforma: il mondo di Marie non è più casa ma il regno dello Schiaccianoci, principe usurpato dai topi e dal loro malvagio re a sette teste, che governa su un regno di paura, ormai tetro e appassito; ed è al suo fianco insieme alla Fata dei Confetti nella battaglia che restituirà il trono al Principe Schiaccianoci.

“Marie non aveva neppure finito di parlare che, all’udire il nome di Drosselmaier, lo schiaccianoci storse la bocca in modo tremendo e fece guizzare dagli occhi bagliori di un verde sfolgorante.”

Scritta nel 1816 da Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, “Schiaccianoci e il Re dei Topi” (“Nusscracker und Mausekönig”) è una delle più classiche storie natalizie, suggestione per un vasto numero di interpretazioni: dalla rilettura in chiave meno inquietante di Alexandre Dumas padre al relativo balletto musicato da Tchaikovski su libretto di Marius Petipa – tradizione vuole in molte grandi città, tra cui Londra e New York, “Lo Schiaccianoci” in cartellone ogni vigilia di Natale, segno evidente di un addomesticamento dell’opera originale – passando per Walt Disney e Rudolph Nureyev, sino alla versione cinematografica 3D di Andrej Konchalowskij,
Ci sono le funzioni di Propp (eroe, aiutante, antagonista, soluzione finale) e c’è la trama fantastica; ma la storia è tutt’altro che fiabesca – specularità forse del fatto che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, le fiabe erano viste con sospetto dal mondo adulto, poiché rutenute cattive consigliere per i bravi bambini della ricca borghesia dell’epoca, e Hoffmann non si risparmia nel proprio spirito di aussenseiter quale era. Non mancano però riferimenti al Natale cristiano, anch’esso intriso della poetica hoffmaniana:

“I bambini in realtà sapevano che i genitori avevano comprato ogni sorta di bei regali, e in questo momento li stavano sistemando, ma sapevano anche che il buon Gesù aveva illuminato i doni con i suoi benevoli e pii occhi di bambino: era per questo che ogni regalo natalizio, come se fosse stato toccato da una mano benefica, brillava di una magnifica luce come nessun altro.

Cupa e densa di tensione, sempre in bilico tra reale e onirico, nel più puro stile hoffmaniano, romantico e perturbante, mescola attimi infiniti di attesa e momenti di pura azione, alternando nella trama ironia – il Re dei topi ucciso da un colpo di pantofola – a dolcezza, racchiudendo un manicheismo difficile da trovare in altre composizioni, sempre in bilico tra realtà e immaginazione, giocato sul tema del “doppio” (doppelgänger) di cui Hoffmann è maestro. Così succede che Marie diventi la bellissima Fata Confetto, e che lo schiaccianoci non sia altro che un Principe trasformato in giocattolo da un incantesimo, ma addirittura lo stesso giocattolaio Drosselmaier che “ripete” se stesso, guidando le sue fedeli creature di pezza e metallo, di marzapane e cioccolato, in un mondo fantastico e parallelo, parimenti reale. Non è un tema “bambino”, così come non è, al pari di Alice che sogna il mondo alla rovescia, qualcosa che si chiude a sogno finito, una volta aperti gli occhi; ma lascia un senso di indefinita necessità di uscire dall’ordinario – di una cena natalizia, di uno scambio di auguri piuttosto che un unico punto di vista – quello del buono.

“«Noi topi eravamo costretti a vivere nelle fognature e negli spazi angusti e lerci. Ma poi gli uomini che tanto elogi si sono distrutti con le loro stesse mani. […] Se oggi […] il mondo è coperto di spazzatura, se sono i topi a regnare, la colpa è solo loro. […] E ora… Ah, ora! È un paradiso qui. Non ci sono esseri umani […] e io regno dall’alto del mio trono d’immondizia. Ammira, Schiaccianoci! Ammira il mio dominio!» Il Re dei topi rise fragorosamente.”

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Esistenze difficili che camminano su ruvidi fiori

Da MOSCA – Siamo di fronte a tanti micro-mondi unici, toccanti e originali, quelli della settantenne scrittrice sovietica Ljudmila Ulickaja, nata a Davlekanovo, Bashkiria, nella regione degli Urali, in una famiglia di intellettuali. Cresciuta a Mosca, dove ancora vive, qui ha studiato e si è laureata in Genetica presso la famosa e prestigiosa Moscow State University. Donna coraggiosa e tenace, inizialmente ha lavorato in un Istituto di ricerca genetica ma, nel 1970, è stata licenziata e arrestata perché accusata di diffondere libri di autori russi e stranieri non condivisi dalla censura che allora vigeva in Russia. Dopo una vita di stenti, causata anche dalla separazione dal marito, nel 1980, viene assunta come direttrice artistica del Teatro Ebraico di Mosca e, negli anni ’90, inizia la sua brillante attività letteraria.

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Ljudmila Ulickaja

Oggi è considerata una delle maggiori scrittrici contemporanee, un’artista che aspira al raggiungimento della libertà dell’individuo, alla realizzazione delle sue capacità, all’annullamento di ogni differenza, odio, violenza e delusione, alla formazione di un’umanità nuova, perché libera e unita. E, come la donna, anche la scrittrice è mossa da questi nobili intenti. Ovunque, nelle sue opere, si ritrovano situazioni difficili, di emarginazione, incomprensione, esclusione, isolamento, povertà e, sempre, si spera di cambiare, di liberarsi dei problemi, di progredire. La speranza di una vita migliore è sempre lì, imperterrita, sicura di poter vincere e trionfare. Ljudmila sempre scrive della Russia del passato prossimo, delle grandi rivoluzioni, delle guerre, del secondo dopoguerra, delle gravi e penose condizioni sofferte da masse di popolazioni dimenticate tra le infinite distese delle steppe o tra l’orrore dei ghiacciai, della Mosca delle periferie invasa, dopo il secondo conflitto mondiale, da proletari di ogni provenienza e avvolta dalla miseria. Di queste zone ultime e dimenticate, lei narra di chi vi abita dividendo lo spazio di una stanza, il cibo, la legna, le coperte, le borsette d’antiquariato, i beni essenziali e le fatiche, senza, però, rinunciare alla propria dignità, a pensare e agire comunque in modo esemplare. Figure eccezionali sono quelle della Ulickaja e generalmente sono figure di donne poiché le donne, nella Russia compresa tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, furono le vere protagoniste della vita familiare e sociale essendo gli uomini stati chiamati a partecipare alle rivoluzioni e alle guerre di quel periodo. Le donne, queste donne coraggiose e simbolo di vita eterna.

Anche in questo bel libro che vi presentiamo, “In quel cortile di Mosca”, scoperto per caso, ci sono storie di donne, protagoniste di racconti con una personalità forte e dominante, immerse nella loro realtà storica, nella concretezza di biografie una diversa dall’altra, donne vere, donne vive: Buchara, Ljalja, Bron’ka, Gulja, Genele, Zinaida. Loro con i fazzoletti sulle spalle, con le sciarpe e le vestaglie ricucite, con gli scialli ricamati.
Anche se oggi il loro mondo è scomparso o in via di sparizione – la vecchia Mosca con i suoi vicoli, i suoi cortili, gli appartamenti ricchi di storia e di storie -, queste figure femminili restano impresse nel ricordo e nella mente del lettore, come persone che hanno vissuto una vita che è valsa comunque la pena vivere. Esistenze difficili, segnate da stenti, da difficoltà (spesso da immensa povertà) e da ferite provocate dalla Storia, eppure appassionate, condotte con stile, avvolte da un fascino contagioso, da tormentose incertezze, da occhi imploranti, da mani tese, da visi scarni ma aperti.
Questa meravigliosa scrittrice parla di donne bambine, giovani, vecchie, nate o arrivate a vivere in uno dei quartieri più malfamati della capitale russa. Ci sono ambienti poveri, case buie, cortili maleodoranti e avvinazzati, vicoli ciechi, dove scorrono vite private e pubbliche, vi sono difficili rapporti tra vicini, problemi di sussistenza e sopravvivenza. Donne sole, offese, derubate, tormentate, abbandonate, dal destino incerto, ma sempre donne. Sempre forti. Nulla è visto solo in superficie, si va in profondità di vite, anime, segreti, pensieri, spirito, amori, corpi, valori, sogni, paure. Tutto è analizzato con impietosa precisione e dettaglio. Quasi vi fossero potenti raggi X che percorrono ogni corpo e anima. Per lei la persona è anche, e soprattutto, corpo, qualità e capacità, la loro forza e bellezza. Una scrittrice che vuole risalire allo spirito da ogni materia, con energia positiva e situazioni coinvolgenti, considerata da tanti l’erede dei grandi raccontatori russi come Tolstoi e Dostoevskij. Vincitrice del Prix Medicis (1996), del Premio letterario Giuseppe Acerbi in Italia (1998), del Premio Ivanushka per il miglior romanzo dell’anno Russia (2004), del Premio città di Penne (Italia) (2006), del Big Book Russia (2007), del Premio Grinzane Cavour (2008) o del Prix Simone de Beauvoir pour la liberté des femmes (2011), questa autrice, i cui testi hanno ispirato anche film e serie televisive, merita davvero attenzione. Una luce nell’ombra, un’aureola dorata ondeggiante. Un vago arabesco d’arcobaleno in una pozzanghera.

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L’INTERVISTA
Michele Cortese, X-Factor trampolino per una carriera tutta in ascesa

Michele Cortese vinse la prima edizione di X-Factor (2008), con gli Aram Quartet, tre anni dopo esordì con il suo album da solista “Il teatro dei burattini”, prodotto da Lucio Fabbri. Recentemente ha inciso, con Franco Simone, il singolo “Riflesso”, proposto in Sudamerica con il titolo di “Reflejo” e ha partecipato all’opera rock sinfonica “Stabat Mater”, insieme al tenore Gianluca Paganelli e allo stesso Simone, che ne è anche l’autore. Ha appena pubblicato il suo secondo album “Vico Sferracavalli 16”, inoltre, sarà l’unico europeo in gara al 56° Festival Internazionale della canzone di Viña del Mar in Cile, rivale di artisti come Bobby Kimball ex-front-man dei Toto.

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Ritratto di Michele Cortese

Nel 2008, insieme agli Aram Quartet, hai vinto la prima edizione di X-Factor, sono passati sei anni e di strada ne hai fatta tanta…
Quella con gli Aram Quartet è stata un’avventura durata poco più di due anni ma molto intensa, artisticamente e professionalmente formativa. E’ iniziato come un progetto comune tra quattro amici, parallelo alle rispettive ambizioni solistiche, con l’obiettivo di suonare un po’ in giro divertendoci ad arrangiare delle cover che amavamo e scrivere qualcosa d’inedito per 4 voci, ed è diventato la prima vera grande occasione della nostra vita per affacciarci alla ribalta nazionale con la vittoria di un talent-show. Quell’esperienza mi ha dato ovviamente grande visibilità e mi ha consentito di conoscere e confrontarmi con figure professionali e dinamiche discografiche, dalle quali non si può prescindere nel mestiere della musica, quindi ho imparato tante cose e sono arrivato sicuramente più consapevole e preparato alla carriera da solista.

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Con Franco Simone

Con “Riflesso” (Reflejo) è iniziata la collaborazione artistica con Franco Simone, una svolta nella tua carriera?
La collaborazione con Franco mi ha arricchito moltissimo artisticamente e umanamente e ha segnato senza dubbio una svolta nella mia carriera. Lui è un senatore della buona musica d’autore italiana nel mondo, uno di quegli artisti dalla cui storia sono sempre stato affascinato: vero e coerente, canta d’amore con poesia, splendide melodie, grande vocalità, inoltre, non conosce compromessi e si ribella a un sistema discografico dai meccanismi discutibili (per questo motivo ha avuto l’enorme successo che meritava soprattutto all’estero). In questo suo atteggiamento e temperamento artistico è molto più rock di me, che pure amo il rock’n’roll mood e l’ho anche tatuato sulla pelle, per questo sono felice di collaborarci. Ci siamo conosciuti nella sua trasmissione “Il dizionario dei sentimenti” dove sono stato ospite prima con gli Aram e poi per presentare “Il teatro dei burattini”, il mio primo album da solista, abbiamo improvvisato un duetto sul suo brano “In un minuto” e si è creato subito un forte feeling artistico. E poi abbiamo una comune matrice salentina!

Dal 2010 Cortese ha intrapreso la carriera da solista
Dal 2010 Cortese ha intrapreso la carriera da solista

“La hit del momento” ci ha fatto conoscere un Michele Cortese ironico e pungente, sono le tue caratteristiche d’autore?
L’ironia è senz’altro una delle mie caratteristiche perché come autore mi sono sempre ispirato a ciò che ho maggiormente ascoltato, ossia i capostipiti della canzone d’autore come Dalla e Battisti che sapevano amalgamare nella loro musica, sempre con grande credibilità, una linea più ironica con un’altissima vena poetica e romantica, senza creare mai confusione. “La hit del momento” è una canzone che ho scritto in un periodo particolare in cui vari ‘addetti ai lavori’ mi suggerivano tutto e il contrario di tutto per individuare una sorta di ricetta magica per comporre un brano di successo. Quella canzone è un po’ un gioco che mi rappresenta abbastanza ma non del tutto, perché per il resto nelle canzoni e nella vita ritengo di essere fondamentalmente un romantico sognatore viziato d’amore e di grandi emozioni.

Hai partecipato alla realizzazione dell’opera rock sinfonica “Stabat Mater” di Franco Simone, insieme al suo autore e al tenore Gianluca Paganelli, credo che professionalmente sia una delle tue esperienze più importanti…

Lo “Stabat Mater” mi ricorda il mio primo amore per la musica e il canto, nato quando ho visto “Jesus Christ Superstar” di Andrew Lloyd Webber. Ritengo che l’opera di Simone abbia davvero delle reminiscenze così importanti. E’ stato un lavoro molto stimolante per me, anche dal punto di vista creativo, perché ne ho curato gli arrangiamenti vocali, per le nostre tre voci. Non vedo l’ora di poterla eseguire dal vivo, con i miei due eccellenti colleghi, dal prossimo anno nei teatri d’Italia e del Sud America.

“La questione” è il titolo del tuo recente singolo e del relativo video, premiato al “Premio Roma Videoclip 2014” per la qualità e l’impegno sociale. Com’è nato questo progetto?
“La questione” è un brano che ho scritto con l’amico pianista e compagno di avventure musicali Daniele Vitali e il grande Francesco Gazzè, per raccontare una “questione” di poco amore e di poco tempo. Per la realizzazione del videoclip, insieme alla SprinGo Film, che ne ha curato la realizzazione, abbiamo coinvolto i ragazzi dell’A.I.P.D. (Associazione italiana persone Down) perché li ritenevamo i soggetti più giusti ed espressivi per il soggetto della nostra storia.
Lavorandoci sul set abbiamo vissuto una delle esperienze umane più belle della nostra vita, apprendendo da loro vere lezioni di vitalità, sensibilità e positività. La sindrome di Down è una condizione genetica che si conosce abbastanza, ma credo che le occasioni per informare e sensibilizzare non siano mai troppe. Abbiamo dato il nostro contributo a sostegno di queste splendide persone, che ora sono parte della mia vita.

“Vico Sferracavalli 16” è l’inusuale titolo del tuo nuovo album …
“Vico Sferracavalli 16” non è altro che l’indirizzo di una casa in cui ho realmente vissuto a Lecce per due anni e dove ho scritto la maggior parte delle canzoni contenute nell’album. E’ un lavoro intriso di emozioni intime, familiari, autentiche, cantate senza troppi filtri, arrangiate magistralmente da Alex Zuccaro e prodotte meticolosamente da Adriano Martino per Sunshade Records.

Dal 22 al 27 febbraio sarai in gara al Festival di Viña del Mar in Cile. Il 2015 si apre con ottime prospettive, questa manifestazione è la porta d’ingresso dell’intero Sudamerica …
Questa notizia è stata un fulmine a ciel sereno, una grande chance che aspettavo da anni, mi ha entusiasmato e stordito. “Per fortuna”, il brano che presenterò in gara scritto per me da Franco Simone, è davvero una gran bella canzone ed io farò del mio meglio per rappresentare al meglio l’Italia, paese la cui bellezza è invidiata veramente dal mondo intero.

La foto in evidenza è di Federica Maria Aurora Signorile
I ritratti di Michele Cortese sono di Fabio Perrone
La foto di Michele Cortese con Franco Simone è di Rodolfo Prati

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Emilio Diedo e la Cosmo poetica

Anche critico letterario, scrive sulla nota rivista padovana Literary, Emilio Diedo è forse l’erede più talentuoso di Guido Tagliati: il visionario splendido poeta cosmico di Ferrara, vicino alle formule mistico-siderali di un Teilhard de Chardin, di un Guitton, di un Paul Davies…
Emilio Diedo, da anni è anche promotore attivo, con lo stesso Gianni Stefanutti proprio della poesia cosmica, attraverso un’eccelsa e costante produzione editoriale e come conferenziere (ad esempio a Ferrara presso la Sala dell’Arengo di Palazzo Estense Ducale).
Diedo appare più terrestre, ma non meno suggestivo per atmosfere, orbite e ed esplorazioni poetico-spaziali paradossalmente ciberclassiche, per la computazione della parola raffinata ed armonica, aliena… da sperimentalismi talora fuori moda.
Diedo esplora, infatti, una sorta di classico moderno, vicino magari al secondo Futurismo, all’aeropittura ancor più che l’aeropoesia, proprio per la sintesi Cielo, Spazio, Terra… Colori realizzata con ottimi risultati dinamici ed estetismo formale ad esempio da Enzo Benedetto, Benedetta Cappa Marinetti (futuristi storici) e – tempi attuali – lo stesso cosmofuturista Antonio Fiore Ufagrà (anche alla Biennale d’Arte di Sgarbi nel 2012).
Tale scenario cosmopoetico in Diedo è particolarmente evidenziato in “Sbarchi d’Arche” (Este
Edition, 2001) mentre nella particolare silloge (dedicata agli eroi italiani di Nassiriya), “La Fiamma
della Croce” (sempre Este Edition, 2002) l’elemento cosmico risulta rarefatto e assimilato tra gli interstizi della Parola.
Effetti peraltro di forte suggestione trascendente: quasi destinato o dedicato ad angeli moderni, alieni sovrabbondanti di empatia sempre pronti a proteggere la sublime fragilità degli umani sulla Terra, e tra le stelle.
Tale cosmopoetica, di frontiera nel ciberspazio mentale, si dilata ulteriormente e complica deliziosamente verso la Forme, in opere con estensioni anche teatrali quali “Madame Etrom”, o altamente electro-lirico-siderali, come “Stelle di Terra”.
Inoltre, piu recentemente, ancora piu complessità concettuale e programmatica con ad esempio “Urfuturismo” (La Carmelina ediz. Ebook) e in particolare in “Reale Apparente” (Este Edition) anche dichiarazioni e puntualizzazioni poetiche-poietiche sulla Poesia Cosmica contemporanea, non a caso rilanciate in riviste di spicco nazionali quali PoliticaMente (Scuola Romana di filosofia politica, lanciata a suo tempo da Gian Franco Lami come dipartimento de La Sapienza Univ.).
Lancio, riassumendo, da parte di Diedo anticipatorio della nuova poetica cosmica, ancora sottovalutata come fenomeno ad hoc e al passo con certo inconscio connettivo attuale, disvelato da certo ritorno infine dell’era spaziale (“Turismo Spaziale”, “Curiosity su Marte”, “Robot che accometano”), la stessa diffusione pop della musica cosmica in forme ambient e trance (dai Tangerine Dream e gli stessi Pink Floyd), nell’avanguardia letteraria dalla stessa giovane science fiction cosiddetta connettivista italiana (F. Verso, premio Urania, S. Battisti ed altri.)

Per saperne di più: Literary magazine [vedi], Rivista PoliticaMente [vedi formato pdf], intervista a Emilio Diedo [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi] su Luuk Magazine [vedi]

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REPORTAGE
Note e nostalgia jazz.
Oggi, domani e lunedì

La Buenos Aires di Astor Piazzolla protagonista oggi al Jazz club Ferrara. Titolo della serata: “Vuelvo al sur, Piazzolla secondo Aisemberg” con le note della reinterpretazione elaborata al pianoforte da Hugo Aisemberg. Appuntamento alle 21.30.

Domani, sabato 13 dicembre sempre alle 21.30, il Jazz club omaggia gli storici organ trio al pianoforte con The Unusual Suspects, trio capitanato dall’organista newyorchese Pat Bianchi – colonna portante del trio di Pat Martino – affiancato da Massimo Faraò al pianoforte e Byron Landham alla batteria.

Lunedì, 15 dicembre, l’ormai consueto appuntamento con artististi emergenti regionali ma non solo. In scena al Torrione di San Giovanni ci saranno Francesco Cusa & the Assassins: Flavio Zanuttini alla tromba, Cristiano Arcelli al sax alto, Giulio Stermieri all’organo e Francesco Cusa alla batteria.

Ingresso a pagamento, riservato ai soci Endas, al Torrione di San Giovanni, via Rampari di Belfiore 167.

Ma intanto ecco le belle immagini dell’ultimo “main concert”: quello di sabato scorso con il Fabrizio Bosso spiritual trio. Ritratti fotografici di STEFANO PAVANI.

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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso spiritual trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Minetto alla batteriacon il Fabrizio Bosso trio (foto di Stefano Pavani)
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Alessandro Minetto alla batteria con il Fabrizio Bosso trio (foto di Stefano Pavani)
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Alberto Marsico all’organo con il Fabrizio Bosso trio (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)
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Fabrizio Bosso in trio al Jazz club Ferrara (foto di Stefano Pavani)

L’ANNIVERSARIO
L’Italia del 12 dicembre, la strage che ci cambiò la vita

“La cosa più terribile e straziante che percepii appena entrato fu l’odore di carne bruciata”. A ricordarlo 45 anni dopo è il nostro Gian Pietro Testa, allora cronista del Giorno, primo ad arrivare sul luogo dell’orrore. Ricorre oggi, 12 dicembre, l’anniversario dell’esplosione della bomba di piazza Fontana, collocata all’interno della Banca dell’agricoltura di Milano, che provocò 17 morti e 88 feriti. “Fu quella la madre di tutte le stragi”, sostiene Giorgio Boatti, anch’egli giornalista e scrittore, di recente a Ferrara ospite della libreria Ibs per il ciclo di incontri ‘Passato prossimo’. “Strage – sostiene – è una parola feroce, sottende la volontà di una mattanza pianificata”. Fu il primo atto della tragica stagione del terrorismo in Italia. Per molti anni si sono alternate e contrapposte alle ‘verità’ ufficiali (quelle degli atti giudiziari) le ‘verità’ basate sulle inchieste giornalistiche. La tesi anarchica privilegiata nella prima fase delle indagini lasciò via via il campo all’ipotesi di trame nere imbastite da ambienti neofascisti e apparati deviati dello Stato. Quasi mezzo secolo dopo si può con certezza affermare la responsabilità diretta di Franco Freda e Giovanni Ventura, che nei vari processi furono sempre assolti. Il loro ruolo fu riconosciuto dalla Corte di Cassazione nel 2005, quando però il reato era passato in prescrizione. Ventura nel frattempo è morto, nel 2010 a Buenos Aires. Freda prosegue la sua attività di editore in contiguità con ambienti di estrema destra.

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Scrittore e giornalista,. Giorgio Boatti

Boatti ha raccolto il suo certosino lavoro di ricerca in un volume “12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta”, la cui vicenda è emblematica. “E’ stato un corpo a corpo con le 60mila pagine degli atti giudiziari – afferma – condotto pensando che altre dovessero essere le mani a cogliere quella verità”. La prima edizione del libro, prevista nel 1989, non fu mai stampata dall’editore Rizzoli al quale era destinata. “Alla consegna del dattiloscritto Andreotti comunicò la sua contrarietà alla pubblicazione e così interruppe il mio rapporto con la casa editrice”. Il libro fu edito qualche mese dopo da Feltrinelli, ma autore ed editore furono subito querelati e per i sette anni di durata del processo il volume sparì dalle librerie. Solo nel 1999 l’opera viene ripubblicata da Einaudi e nel 2009 esce una nuova edizione aggiornata. Le difficoltà del libro sembrano il riflesso dell’accidentato cammino di una giustizia che nelle aule di tribunale non s’è compiuta.

Il lavoro di Boatti ha avuto, fra gli altri, il pregio di ridurre all’essenziale decenni di ipotesi, di sentenze, di contrapposizioni ideologiche proprie di un’epoca in cui nel nostro Paese si combatté una guerra non dichiarata. “Con il mio libro, oltre a ridare ordine ai fatti, ho anche voluto ricordare a tutti le vite che si sono perse. Allora eravamo tutti troppo presi dalle logiche di schieramento e di appartenenza per poterci soffermare sulle esistenze dei singoli. La strage è proprio espressione di questa logica: la vittima è un incidente di una strategia più grande”.

All’interrogativo perché proprio lì, perché proprio loro, Boatti offre una convincente spiegazione. “Quella era la banca di gente semplice, un mondo agricolo appartato, estraneo alle logiche di contrapposizione dell’epoca. Era proprio quel mondo che si voleva colpire, per provocare indignazione e terrore e indurre gli strati di popolazione non coinvolti nella disputa ideologica a prendere posizione. L’atto terroristico ti rende impotente e in pochi momenti ha il potere di riplasmare la visione di una moltitudine di persone che da quel momento non vedono più con gli stessi occhi le medesime cose”.

Generare terrore era l’obiettivo della destra neofascista per far lievitare fra la popolazione la richiesta di uno Stato autoritario, che sbarrasse la strada all’ascesa dei movimenti e delle istanze libertarie che si andavano affermando alla fine degli anni Sessanta: la violenza è l’arma per generare una paura diffusa e ottenere lo scopo. “Nell’estate che precedette la bomba di piazza Fontana si respirava aria di golpe. Un tentativo sventato proprio all’ultimo c’era già stato nel ’64. I dirigenti del Pci per prudenza dormivano fuori di casa. Molti vecchi partigiani, fiutando il pericolo, avviarono il passaggio delle consegne, istruendo i giovani alle azioni di resistenza civile e passando loro depositi e arsenali”.

La bomba, lo sdegno, gli scontri (non solo) verbali, i falsi indizi e i colpevoli di comodo, l’ombra degli apparati, i magistrati onesti e quelli corrotti, i politici perbene e quelli collusi… La strage della Banca dell’agricoltura di Milano è solo il primo capitolo della storia: quelli di Pinelli, Valpreda, Freda, Ventura, Giannettini, Gelli, Andreotti e degli altri attori del dramma sono incidentali maschere di un tragico copione destinato a ripetersi per più di vent’anni. I protagonisti talora mutano, talora riappaiono. Il senso della macabra recita resta il medesimo. E’ l’inizio dell’autunno del nostro sogno, che ha lasciato il posto solo a questo gelido inverno.

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LA SEGNALAZIONE
Fascino ed emozioni in punta di dito

di Mario Sunseri

Terzo (ed ultimo, a detta dell’autore) volume che completa la trilogia sul Subbuteo. Nicola Deleonardis, classe 1965, consulente finanziario cresciuto all’ombra della curva Ovest della Spal (come si dice a Ferrara, dove la squadra è anche lo stadio stesso), riporta nuovamente alla ribalta il gioco-cult del periodo anni ’60-anni ’80, il Subbuteo, quando il calcio vestiva ancora le maglie dei club e i giocatori erano bandiere da sventolare, non espressioni di tatuaggi e tagli di capelli contro ogni legge fisica.
Dopo i precedenti “Subbuteo o son desto” con 17 interviste a personaggi famosi di ogni estrazione e “Il Manuale del Subbuteo”, il nuovissimo “Se questo è un gioco”, il titolo del volume, edito da Youcanprint ed acquistabile online su tutte le principali librerie, raccoglie in 342 pagine a colori tutta la storia del gioco, miniatura dopo miniatura. Oltre a queste immagini dei mitici omini basculanti compare, per ogni pagina, una foto a colori del periodo suddetto della medesima squadra, in modo da poter confermare che i colori dipinti dalle mitiche massaie del Kent , che passavano intere giornate con pennelli e colori a dipingere sacchi di omini di plastica, fossero realmente quelli che scendevano in campo ogni domenica nei vari stadi del mondo (quando ancora il calcio si giocava di domenica…). “Il Subbuteo è un gioco, un gioco sul calcio. Quindi è un’attività che deve interessare i bambini, di ogni età. È per quello che mi è sembrato logico associare la mia produzione letteraria, se mi passate il termine, con l’attività dell’associazione di volontariato Giulia Onlus che è attiva sul territorio a favore di problematiche che coinvolgono i bambini.” Con questa affermazione l’autore del libro presenta la sua terza opera sul tema Subbuteo. Milioni di giocatori dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta hanno incrociato gli indici riproponendo sul panno verde campionati e tornei di ogni fatta e specie. È sull’onda di quei ricordi che il libro “Se questo è un gioco”, ben 342 pagine a colori edito da Youcanprint ed acquistabile online o su prenotazione in libreria, risulta essere un compendio di tutte le miniature cosiddette heawyweight (quelle con la barretta, per intenderci) prodotte dagli anni ’60, dipinte dalle mitiche massaie del Kent che settimanalmente sfornavano chili di omini di plastica. Per ogni pagina, oltre all’immagine della miniatura di una determinata squadra, viene proposta un piccola scheda tecnica (colori, accostamenti di basi) e qualche notizia “sfiziosa” relativa alla squadra stessa. Per concludere, una bella foto (dove si è potuto, a colori) doverosamente d’antan della vera formazione rappresentata poi su plastica. In questo lavoro di ricerca si può intravedere una grande passione e amore per il calcio ed ovviamente per il Subbuteo, con un filo (e qualcosa di più) di nostalgia verso tempi quando i calciatori più “sopra le righe” portavano al massimo i capelli lunghi e le basette folte, alla faccia delle creste e dei tatuaggi che ricoprono oggi i giovani lavoratori dell’arte pedatoria.

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La copertina del volume ‘Se questo è un gioco’ di Nicola ‘Delez’ Deleonardis

In certi casi non è stato possibile trovare foto o notizie, troppo tempo è passato o troppo poco importanti, per la stampa del tempo, risultava immortalare squadre come Dumbarton o Frigg… Ma è grazie a questo volume ed al Subbuteo che questi “fantasmi” del calcio tornano in campo, magari anche solo “in punta di dito”.
Questo lavoro ha un fine benefico. L’intero ricavato di “Se questo è un gioco” sarà versato a favore dell’Associazione Giulia Onlus di Ferrara. Per non dimenticare che il Subbuteo rimane un fantastico gioco, utile per far aggregare e divertire i bambini, di ogni età.

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LA STORIA
Resistenti per natura, altroché Doc e radical chic

Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore.” (La luna e i falò, Cesare Pavese)

“Io non faccio vino naturale, io faccio vino e basta”: questa frase di Stefano, che aiuta la compagna Giovanna a portare avanti l’azienda vinicola “La Pacina” fra le colline del Chianti senese – sua da cinque generazioni – potrebbe riassumere da sola il documentario “Resistenza naturale” di Jonathan Nossiter, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2014. Come le parole di Giovanna ci dicono cosa sia per loro l’agricoltura: “Voglio che sia la terra a parlare, questo non è il mio vino è il vino di Pacina”. Quel saper fare, quell’aver cura e pazienza, quella vita ciclica che segue le stagioni, per loro non è un modo di produrre, ma il modo di produrre vino.

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La locandina

Stefano e Giovanna nel 2009 hanno deciso di uscire dalle denominazioni di origine Doc e Docg perché secondo loro non costituiscono più il simbolo di un marchio di qualità, ma sono ormai associate al concetto di produzione industriale e standardizzata, completamente slegata dal patrimonio artigianale. Come loro hanno fatto Corrado e Valeria, bocconiani viticoltori marchigiani, e un altro Stefano, questa volta piemontese che giustamente si chiede come possano le caratteristiche di un vino Doc essere le stesse per quello prodotto nella sua azienda biodinamica al confine con la Liguria, dove l’aria sa di mar Tirreno, e per quello prodotto da Corrado a 700 km di distanza, nelle Marche che si affacciamo sull’Adriatico. L’agricoltura non può garantire degli standard come una produzione industriale perché il prodotto varia di anno in anno: in un’estate secca in cui i grappoli sono arsi dal sole, come si potrà avere un bianco dal colore “giallo paglierino tendente al verde?”, si chiede Corrado gustandosi un buon calice dalle sfumature dorate all’ombra di un enorme fico insieme agli altri produttori riuniti da Nossiter. Si può spiegare ai consumatori di oggi che se un frutto o un ortaggio sono lucidi e perfetti come quelli finti che si usano come soprammobili, probabilmente hanno i loro stessi principi nutritivi e le loro medesime proprietà organolettiche? “Bisogna cambiare il concetto di alimento”, dichiara Stefano, “se è ciò che ci dà la convivialità e la gioia di vivere, non può essere uguale ovunque”.
Qui non si parla, o non si parla solo, di biologico che oggi rimanda subito al mondo radical chic e per il quale bisogna richiedere (e pagare) una certificazione, a quell’idea fintamente bucolica della campagna alla ‘Mulino bianco’, che non fa altro che trasportare in un casolare ritinteggiato le abitudini, i ritmi e i consumi della città. Si tratta di “rivendicare una tradizione per innovare” per tentare di far coincidere o quanto meno di conciliare tempi biologici e tempi storici. Elena, che ha ereditato la sua azienda nei colli piacentini, si sente la mera custode delle sue vigne di più di 90 anni: “il mio ruolo è preservare il vigneto per i miei nipoti”. Questa è la responsabilità che sente e questo è il motivo per cui fin dall’inizio ha rifiutato l’agricoltura tradizionale per quella biologica. Lo Stefano piemontese spiega così la filosofia di questi rivoluzionari tradizionalisti: “la vera agricoltura è ricostruire ogni giorno l’equilibrio rotto facendo agricoltura”. “Resitenza naturale” parla di una cultura e di una storia sociale che stiamo perdendo, sempre che non sia troppo tardi: le lucciole sono già scomparse da tempo in molti luoghi e per molte persone.

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Io cammino per Mosca

Mosca 1963, una bella fiaba di primavera in una città leggera e spensierata, un film cult in Russia, ma non solo, visto che la pellicola è stata presentata, in versione originale con sottotitoli, all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, nella sezione classici, portando un pezzettino di Russia in Italia.
Ci sono giovani attori come Nikita Mikhalkov, Evghenij Steblov, Aleksej Loktev e Galina Polskikh e una Mosca mai vista, come non vedremo mai più.

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La locandina

L’ancora studente Nikita Michalkov, in particolare, compare come protagonista in questo film di Georgij Danelija, quello stesso Nikita figlio di Sergej Vladimirovič Michalkov, scrittore e poeta, celebre in Russia per aver scritto il testo dell’inno nazionale del suo Paese in due diverse occasioni, e della poetessa Natal’ja Petrovna Končalovskaja, figlia del pittore Petr Petrovič Končalovskij e sorella del regista Andrej Končalovskij.
“A zonzo per Mosca” non ha una trama particolarmente forte ma sorprende e commuove per la nettezza giovanile della libertà e della fede nell’avvenire felice. In quell’avvenire che, all’epoca, si pensava davvero roseo. Il film stesso, definito come una “commedia lirica”, sembra che si (e ci) illumini da dentro. E’ leggero, positivo e fresco come l’aria, aperto, semitrasparente, colmo d’allegria e spensieratezza…
Oggi che il Paese è cambiato, restano inalterate emozioni e sofferenze del cuore e dell’anima dei personaggi del film, perché rappresentano gli incrollabili valori umani come la bontà, la comprensione, l’amicizia, l’amore, la voglia e la gioia di vivere.

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Una scena del film

Stupende le fotografie di Vadim Jusov (storico collaboratore di Andrej Tarkovskij), bellissima la musica di Andrej Petròv. La canzone del titolo (e che chiude anche il film), scritta dallo stesso Petrov con Ghennadij Shpàlikov cantata da Mikhalkov, è diventata la canzone più popolare della prima metà degli anni ’60. Ma ancora oggi è difficile trovare un russo che non conosca questa canzone. Io stessa la canticchio spesso (l’avevo già sentita prima di vedere il film). Siamo di fronte, quindi, a una delle prime pellicole da vedere quando ci si avvicina alla grande Russia, che tutti, prima o poi (soprattutto chi studia russo, ma non solo), si ritrovano a guardare, con curiosità, fascino e persino un po’ di devozione, perché quella è la città in cui si vorrebbe andare. Quella è la lingua che si vorrebbe imparare. Quelle sono le strade che si vorrebbero attraversare. Quello il cielo che si vorrebbe sfiorare. Quelli i fiori che si vorrebbero accarezzare.

Ma la storia, mi chiederete? E’ quella di Volodja (Aleksej Lòktev), che lavora come montatore in Siberia, di passaggio a Mosca con, al suo attivo la pubblicazione di un piccolo racconto (“la taiga, il picchio”) sul mensile letterario “Junost’”, che ha suscitato interesse nello scrittore Voronin, il quale l’ha invitato a Mosca per conoscerlo. Nella metropolitana, Volodja conosce il giovane moscovita Kolja (Nikita Mikhalkov), che lo accompagna nel vicolo dove vivono i conoscenti che dovrebbero ospitarlo. Per strada, un cane morde il giovane scrittore e Kolja lo invita a casa sua a cucire i pantaloni stracciati. Qui Kolja fa conoscere Volodja alla sua famiglia e la sorella di Kolja gli rattoppa i pantaloni. Quando Volodja scopre che i suoi conoscenti sono partiti in vacanza, torna da Kolja per lasciare la valigia e se ne va. Kolja è solo in casa quando il suo amico Sàsha (Evghenij Steblòv), chiamato alle armi, lo va a trovare. Dopo una visita al commissariato di leva per chiedere la proroga causa matrimonio di Sasha con Sveta, gli amici vanno ai Grandi Magazzini (GUM) a comprare il vestito per le nozze. Come sono diversi, oggi, quei magazzini, che bello rivederli in bianco e nero e immaginare di essere lì allora… Lì incontrano Volodja e, tutti insieme, vanno al reparto dischi dove lavora Aliona (Galina Pòlskikh) e Volodja appena la vede se ne innamora… Il resto è da vedere, fino al finale che ci porta a sorridere e a sognare insieme a Kolya, con un’allegria contagiosa, sui gradini di quella lunga scala mobile della metropolitana di Mosca che porta sempre più in alto, fin sotto alla scritta Vykhod, uscita. Alla scoperta della città.

“Io cammino per Mosca” (Я ШАГАЮ ПО МОСКВE)
Musica di Andrej Petròv, testo di Ghennadij Shpàlikov

Бывает все на свете хорошо, = Tutto nel mondo accade bene
В чем дело, сразу не поймешь, = Di che si tratta, non si può capire subito
А просто летний дождь прошел, = E’ solamente piovuto
Нормальный летний дождь. = La semplice pioggia d’estate
Мелькнет в толпе знакомое лицо, = Balena nella folla un viso conosciuto
Веселые глаза, = Gli occhi allegri
А в них бежит Садовое кольцо, = Nei quali corre “L’Anello dei Giardini”
А в них блестит Садовое кольцо, = Nei quali brilla “L’Anello dei Giardini”
И летняя гроза. = E il temporale d’estate.
А я иду, шагаю по Москве, = Ed io vado, cammino per Mosca
И я пройти еще смогу = E ancora passar potrei
Соленый Тихий океан, = Il salato oceano Pacifico
И тундру, и тайгу. = ed anche la tundra e la tajga.
Над лодкой белый парус распущу, = Sopra la barca le vele alzerò
Пока не знаю, с кем, = Con chi ancor non so
Но если я по дому загрущу, = Ma se la casa mi mancherà
Под снегом я фиалку отыщу = la viola sotto la neve cercherò
И вспомню о Москве. = E mi ricorderò di Mosca

A zonzo per Mosca, (Ja sagaju po Moskve), di Georgij Daneljia, con Nikita Mikhalkov, Aleksei Loktev, Galina Polskikh, 1963, URSS, 1963, 78 mn.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
E Francesco inventa il presepe

Insieme all’albero di Natale, è il simbolo per eccellenza delle festività natalizie, in particolare nei paesi cattolici. I più antichi sono quello conservato nella Basilica di Santo Stefano a Bologna e il gruppo scultoreo di Arnolfo di Cambio nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. In latino praesepe significa ‘greppia, mangiatoia, stalla’, ecco perché il presepe incarna l’anima più popolare della devozione, un omaggio a un bimbo nato in una stalla o in una grotta e deposto in una mangiatoia perché per la sua famiglia non c’era posto in nessuna locanda di Betlemme.
Era il 1223 quando San Francesco d’Assisi decise di rievocare per la prima volta la Natività per i più umili a Greccio, vicino a Rieti.
«C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. […]
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.»

Tommaso da Celano, “Vita prima di San Francesco d’Assisi (1228-1229)”

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L’intestino, trattiamolo bene

Le abitudini alimentari della popolazione si sono radicalmente modificate negli ultimi decenni: dal 1960 in poi, il consumo generale di grassi e di zucchero è aumentato e di conseguenza anche le malattie e i disturbi ad esso riconducibili, come ad esempio metabolismo dei grassi, carie, sovrappeso e diabete mellito. L’alimentazione basata sulle moderne abitudini del take away e del fast food è poi molto carente di vitamine e fibre. Tutte queste cattive abitudini alimentari non solo sono dannose per la salute ma hanno anche un costo elevato: le malattie causate da errori alimentari costano ogni anno milioni di euro in farmaci che hanno altri effetti deleteri per l’organismo.
Una recente ricerca ha messo in evidenza che i casi di ipertensione, iperlipemia e diabete mellito, dal 1988 al 2014, sono aumentati dal 40 al 130%. Anche l’alimentazione con scarso contenuto di fibre presenta i suoi inconvenienti: fino al 60% degli italiani soffre di stipsi, i soggetti di sesso femminile in numero doppio rispetto a quelli di sesso maschile. Anche le malattie tumorali sono associate fino al 40% ad una errata alimentazione, ciò vale in particolar modo per i carcinomi intestinali per i quali un aumentato apporto di fibre viene considerato come particolarmente “protettivo”. La flora intestinale svolge importanti funzioni metaboliche e numerose attività enzimatiche. Le disbiosi intestinali, indotte da antibiotici, stress e tossine ambientali, possono compromettere il sistema immunitario associato all’intestino (Galt) e provocare franche patologie. I disturbi dell’apparato digerente (in particolare stipsi cronica) sono manifestazioni diffuse nella civiltà moderna e vengono curati generalmente attraverso autoprescrizione su base sintomatica. In tal modo i soggetti colpiti non solo si sottraggono ad uno studio clinico, ma sovraccaricano il proprio organismo con effetti collaterali prodotti dai lassativi disponibili sul mercato. Il consumo di lassativi in caso di uso prolungato, aggravano la stipsi, provocano carenza di minerali (in particolare potassio) e di oligoelementi, con conseguenze sulla salute alterando le funzioni della mucosa intestinale. L’importanza delle fibre per la buona funzionalità intestinale è attualmente indiscussa. Nel quadro della prevenzione vengono prescritte anche vitamine, in particolar modo quelle antiossidanti in grado di disattivare i radicali liberi: agiscono a livello intestinale per la protezione cellulare (mediante detossicazione diretta dalle tossine esogene) e riattivano il sistema immunitario compromesso dalle tossine ambientali e da agenti esogeni (per esempio funghi).

Carenza di vitamina B12 e acido folico
L’intestino, con la sua enorme superficie (200 m2 circa), necessita di tutti gli alimenti necessari per la crescita cellulare. Tra questi ricordiamo la vitamina B12 e l’acido folico, essenziali per la divisione cellulare e quindi importanti per la rigenerazione ed il rinnovamento della mucosa intestinale. In caso di carenza di queste due vitamine, viene compromessa la sintesi del Dna, necessaria per la neoformazione e crescita cellulare.

Radicali liberi
I radicali liberi sono atomi, vengono prodotti per via endogena da una serie di processi metabolici, per esempio la respirazione cellulare. Più di 50 malattie diverse vengono fatte ricondurre ai radicali liberi. Gli antiossidanti, come ad esempio la vitamina C, E ed il beta-carotene, sono in grado di “catturare” i radicali liberi, di minimizzare lo stress ossidativo e conseguentemente svolgere una azione in senso preventivo. E’ quindi consigliabile un’alimentazione ricca di antiossidanti, come ad esempio 5 porzioni di frutta e/o verdura biologica al giorno: molte volte, tuttavia, queste dosi non sono sufficienti al fabbisogno a causa dell’inquinamento ambientale e dei rischi di malattia.

Principali farmaci inducenti la formazione di radicali liberi:
– analgesici (es. paracetamolo)
– antibiotici (es. cloramfenicolo)
– lassativi contenenti antrachinoni
– catecolamine (es. levodopa)
– estrogeni
– citostatici (es. bleomicina, daunorubicina, mitomicina)

Tossine ambientali
Durante il processo di accumulo nell’intestino di sostanze esogene, esercitano un ruolo importante i “cacciatori di radicali”. Le sostanze ambientali tossiche giungono nell’organismo principalmente per inalazione o per ingestione. Attraverso l’alimentazione vengono ingeriti infatti pesticidi, concimi, metalli pesanti, coloranti ed additivi alimentari. Ogni individuo assimila in media 3-4 kg di sostanze chimiche diverse all’anno che possono danneggiare l’epitelio intestinale, direttamente o indirettamente, tramite la produzione di radicali. Nell’intestino sano, ogni giorno vengono liberati tanti radicali liberi quanti se ne producono in culture cellulari dopo irradiazione con 40.000 rad. Se la peristalsi intestinale è deficitaria e l’intestino è saturo, quest’organo viene sempre più compromesso nelle proprie funzioni dallo stress ossidativo. La temperatura della parete interna dell’intestino (fino a 60°C) stimola una iperproduzione di acidi biliari e la fissazione di ferro assunto con l’alimentazione, inducendo un notevole aumento dei radicali liberi.

Additivi alimentari e farmaci
Le endoparticelle cellulari possono venir colpite anche da prodotti del metabolismo dei farmaci: sulla via enzimatica, attraverso autossidazione o fotoattivazione, sotto l’influsso dei metalli di trasporto quali rame o ferro, si formano radicali di superossido ed ossigeno singoletto. Un sovraccarico di radicali liberi nell’intestino si accompagna ad aumento di rischio danno cellulare. Le membrane cellulari ossidate, e quindi le lesioni delle cellule della mucosa intestinale, creano le situazioni favorenti per cui le tossine batteriche possono giungere nel fegato passando dall’intestino, dove diventano cofattori critici per le malattie epatiche infiammatorie di tipo cronico.
Un altro effetto patogeno per l’intestino causato dall’aggressione degli ossidanti, si presenta sul piano immunologico: lo stress ossidativo danneggia il sistema immunitario associato all’intestino (Galt); la maturazione degli anticorpi da parte dei linfociti B viene fortemente compromessa e quindi facilitato l’attecchimento di germi patogeni: viene così favorita l’insorgenza delle disbiosi intestinali e delle micosi.

Lo svuotamento regolare dell’intestino (preferibilmente quotidiano) è molto importante per la salute. L’alimentazione con scarse quantità di fibre, tipica dei Paesi industrializzati occidentali, favorisce molte malattie del tratto gastrointestinale quali stipsi cronica, diverticolosi, colon irritabile e carcinoma del colon. Mentre nei Paesi ad alto reddito vengono consumate in media meno di 30 gr. di fibre pro capite al giorno, nei Paesi in via di sviluppo, dove queste malattie sono pressoché sconosciute, vengono consumati da 50 a 150 gr. di fibre/die.

Consigli
Le infiammazioni non devono essere considerate come meri processi patologici, bensì come reazioni di difesa organica. Per evitare infiammazioni a livello intestinale, occorre “sfruttare” il riflesso gastro-colico del mattino per vincere la stipsi, in quanto il meteorismo intestinale ossia l’eccessiva produzione di gas intestinale si sviluppa per il ristagno dei residui alimentari negli ultimi 50 cm dell’intestino. Si consiglia quindi, appena svegli, di bere acqua o bevanda calda (tè o orzo non zuccherato); dopo 30 minuti, fare una buona colazione con latte di mandorla, kamut o soia, cereali bio integrali (avena o mais) e qualche mandorla tostata, molto indicati anche i kiwi; dedicare all’intestino un po’ di tempo prima di uscire di casa.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Il vecchio Mosè

Nasce come strenna per i bambini che anche i “grandi” dovrebbero leggere, questo racconto di Grazia Deledda pubblicato per la prima volta nel 1930 mescola la dolcezza di una fiaba – il ricordo di una bambina – a un personaggio biblico, un patriarca, un profeta.
Alla luce del camino acceso la vigilia di Natale le profezie di Mosè, corollario della sua straordinaria vita, diventano i racconti di Moisè, quel servitore dalle tante primavere che attraverso i suoi occhi e la sua esperienza racconta ai bambini curiosi che gli si radunano intorno disavventure della propria infanzia, come il nonno che racconta la storia della buona notte ai propri nipoti. Unendo, con delicatezza, descrittivi brani di vita della Vigilia e caratteristiche appartenenti alla tradizione sarda.

“Quando Moisè tornava a casa per Natale noi ci affollavamo attorno a lui per sentire le sue storie. Egli sulle prime si faceva pregare; preferiva insegnarci ad arrostire tra la brage le ghiande, che si gonfiavano e diventavano rosse e saporite come castagne; e ci diceva che in certi paesi della Sardegna si fa anche il pane di farina di ghiande, al quale si mescola una certa argilla che lo fa diventare più saporito e consistente; poi a furia di preghiere e di occhiate supplichevoli, si riusciva a fargli raccontare qualche storia. Seduti intorno al camino ove ardevano interi tronchi di quercia o intere radici di lentischio, nere e aggrovigliate come teste di Medusa, noi ascoltavamo attentamente. Era presto ancora per la grande cena, che si fa dopo il ritorno dalla messa di mezzanotte, alla quale noi però non assistevamo perché la notte di Natale è quasi sempre rigida e nelle notti rigide i ragazzi devono andare a letto; ma per noi e per tutti quelli che volevano mangiare senza profanare la vigilia veniva preparato un piatto speciale, di maccheroni conditi con salsa di noci pestate, e con questo e con le storie di Moisè ci contentavamo. Egli dunque soffiava sul fuoco con un bastone di ferro che era poi una vecchia canna d’archibugio; e raccontava.
Quando nacque Gesù, – egli diceva, – la gente era ancora buona e senza malizia; ma appunto perché gli uomini eran ingenui e avevan paura di tutto, il mondo era infestato di esseri maligni. […]
Gesù venne al mondo per liberarlo da tutti questi esseri maligni, e specialmente dai diavoli. […]
Gli uomini fabbo ancora una gran festa per ricordare la nascita di Gesù, loro liberatore; presso i popoli ancora patriarcali, come quello della Sardegna, la festa comincia veramente dopo la mezzanott, si prolunga fino all’alba, con canti, suoni, balli, e dura tutto il carnevale. In certi paesi la gente si porta da mangiare in chiesa, e dopo il «Gloria» tutti cominciano a sgretolare noci e mandorle…”.

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LA TENDENZA
Far filò nel XXI secolo

Vi è mai capitato che le vostre nonne o i vostri nonni o i vostri genitori vi raccontassero di quando le porte delle case erano aperte, le sedie erano fuori in cortile o sui balconi, pronte a ospitare il ‘far filò’ quotidiano? Abitudini e consuetudini che il tempo ha cancellato. O forse no, perché ritornano in una nuova forma: voilà le ‘social street’.
In tutto il mondo oggi sono più di 300 e in Italia coinvolgono circa 30.000 persone. La prima esperienza è via Fondazza nel centro di Bologna, fra strada Maggiore e via Santo Stefano, 1850 abitanti e tanti studenti. Luigi Nardacchione, uno dei fondatori, ha raccontato a Ferrara questo esperimento sociale che sta fra tradizione e innovazione, nella sede della Protezione civile di piazza Castellina, nell’ambito del primo degli incontri “La città si-cura”, organizzati dall’Ufficio sicurezza urbana del Comune e dal Centro di mediazione –

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Il logo

Tutto è iniziato nel settembre 2013 dalla considerazione che “ormai non si conosce più il proprio vicino”, da qui “un’idea semplicissima e forse proprio per questo rivoluzionaria”: creare un gruppo su Facebook per conoscere il vicinato e ricreare quella fiducia, quel senso di comunità che esistevano in un passato in fondo non così lontano. A partire dal semplice saluto per la strada si tenta di abbattere il muro dell’individualismo cresciuto fra le persone in questi anni, si lavora su una povertà di cui non si parla molto spesso perché è funzionale alla società dei consumi: la povertà di relazioni sociali. “Quando sappiamo che attorno a noi c’è un contesto sociale che può fornire una rete di appoggio in caso di bisogno ci sentiamo più sicuri”, assicura Luigi. Un altro elemento fondamentale è che in via Fondazza “non esistono categorie di persone, ma persone che condividono spazi”, in modo che tutti coloro che ci vivono possano “sentirsi parte di qualcosa” sottolinea Luigi.

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Tavoli in via Carlo Mayr a Ferrara

Come ha affermato Nicola Grandi, via Pitteri a Ferrara è una delle prime realtà a seguire l’esempio bolognese nel novembre 2013, “lo scopo è conoscerci meglio, parlare, condividere, rendere la strada più vivibile”: una cassettina per il bookcrossing, un oblò di una lavatrice trasformato in una bacheca di quartiere, cene di vicinato, un orto condiviso di erbe aromatiche, osservazioni astronomiche collettive, sono solo alcuni esempi delle attività dei “pitteriani”.
Quando ci si sente parte di qualcosa, spesso accade che si sia più propensi a prendersene cura: dobbiamo riabituarci a pensare che casa nostra non finisce sulla porta. Se è vero che servono più spazi di aggregazione e socializzazione spontanea, è vero anche che bisogna cambiare prospettiva e iniziare a pensare che lo spazio pubblico non è dell’amministrazione, ma è di tutti i cittadini e quindi di ciascuno di noi. I beni comuni non sono beni che non appartengono a nessuno, appartengono a tutti e tutti hanno il diritto di usarli e il dovere di conservarli per il resto della collettività, presente e futura.

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L’INTERVISTA
Marco Cantori: “Il teatro mi ha salvato, senza non saprei vivere né morire”

Nato e cresciuto a Cento, Marco Cantori è oggi alla guida del Teatro Troisi di Nonantola. Un incarico prestigioso che si affianca alla sua carriera di attore, se ne nutre e la alimenta. In questi giorni Cantori è sia dietro il palco come organizzatore, che sopra come interprete, lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, i suoi progetti e per scoprire le offerte teatrali nelle province attorno a Ferrara.

Qual è la tua formazione?
Mentre seguivo i corsi di Filosofia a Ferrara, ho partecipato ad un laboratorio settimanale del Centro teatrale universitario; allora era tenuto da Horacio Czertok del Teatro Nucleo, che una volta mi fa cantare una canzone ed io scelgo di cantare “La fira ed San Lazer” nel mio dialetto (una variante del bolognese) e sento una grande forza nel farlo. L’insegnante mi incita a continuare e quando finisco mi accorgo che per la durata del tempo della canzone ero stato trasportato in una dimensione dove non ero mai stato prima: il Teatro. Questo è stato il primo passo, dopodiché ho continuato a partecipare a corsi teatrali, anche quando sono andato in Erasmus a Toulouse in Francia. Poi sono tornato a Ferrara dove c’era un laboratorio diretto dal regista polacco Lech Rackzak, che un giorno mi propose di prendere parte ad uno spettacolo, le cui prove si tenevano ad Urbino e quello è stato il mio primo vero lavoro a teatro. In seguito ho continuato a formarmi con il corso di formazione annuale promosso da Ert e da Santarcangelo dei Teatri e l’anno successivo frequentando un altro corso di formazione per attori, presso il Teatro del Lemming di Rovigo, dove sono rimasto nella compagnia per diverso tempo prima di iniziare con i miei progetti. Penso che il teatro sia stata per me la continuazione naturale, pratica degli studi di filosofia.

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Marco Cantori

Come sei arrivato alla direzione artistica del teatro di Nonantola?
La direzione artistica del Teatro Troisi di Nonantola è arrivata nel 2014. Quella in corso è la seconda stagione che curo. Ho presentato un progetto al Comune di Nonantola. Il progetto comprendeva: la stagione di prosa; la proposta di rinnovare il teatro, nel senso di renderlo non solo luogo di spettacolo, ma anche spazio di socialità aperto a tutti; il coordinamento delle altre attività già presenti in teatro e curate da altri, che si è tradotto nella realizzazione di un libretto che per la prima volta comprende tutte le varie rassegne presenti al Teatro Troisi (prosa, teatro ragazzi, musica, ecc.).

Di cosa ti occupi?
Dell’organizzazione, della pubblicità in generale (creazione col grafico del materiale pubblicitario e sua distribuzione, ufficio stampa tramite giornali, siti e social network), e dell’accoglienza del pubblico la sera dello spettacolo. In tutto ciò sono supportato dalla grande collaborazione dell’ufficio cultura, degli operatori dei servizi culturali di Nonantola e dallo staff tecnico.

Come hai scelto gli spettacoli in cartellone?
Vedendoli e cercando di captare cosa fosse più bello per Nonantola in questo momento. Per me gli spettacoli devono offrire una chiave agli spettatori, i quali possono accoglierla o rifiutarla. Ma non amo il teatro troppo difficile e cervellotico fatto per gli habitué; bisogna contaminare la gente che a teatro non ci va con questa “malattia” bellissima e rigeneratrice. Mi piace il teatro quando riesce ad essere allo stesso tempo ricercato e popolare, semplice ed efficace, profondo e divertente, impertinente e non volgare.

Quali sono i prossimi spettacoli?
Sabato 13 Dicembre
“C-Credo, l’unico spettacolo al mondo con una sola lettera” di Teatro Belcan: dove l’attore interpreta in modo divertente e sorprendente uno spettacolo in cui tutte le parole iniziano solo ed esclusivamente con la lettera “C”. E’ rivolto agli adulti ed ai ragazzi a partire dagli 11 anni;
Sabato 17 Gennaio
“Invisibilmente” della Compagnia Menoventi: un meccanismo geniale dove lo spettatore rimane intrappolato, ma con l’illusione di essere lui stesso il carnefice.
Sabato 7 febbraio
“Stasera Ovulo” di LaQProd con Antonella Questa: dedicato al tema della maternità e della sterilità femminile. Un monologo emozionante e profondo che fa anche ridere.

Continui con la tua attività di attore?
Certo, la ritengo la mia missione e dà senso a tutto il resto.

In che modo?
Immaginando e facendo spettacoli di fantasia. Poi insegno anche teatro alla sera per gli adulti e a volte per i ragazzi. Mi appassiona molto perché trovo il fare teatro un momento necessario per tutti.

A cosa stai lavorando?
Ho appena finito di rimettere in scena “Eroi e Supereroi. Sinfonia in 3 facce”, uno spettacolo pensato un paio di anni fa in forma di studio e che ora si presenta per la prima volta come vero e proprio spettacolo. Lo spettacolo andrà in scena venerdì 12 dicembre al Teatro Studio di Rovigo all’interno della rassegna “Be” organizzata dal Teatro del Lemming. Parlo al plurale perché in “Eroi e Supereroi” sono insieme al musicista e disegnatore Giorgio Casadei con il quale giochiamo con il tema dei supereroi e con la forza mitica che queste figure sono in grado di trasmettere. È nato così, è uno spettacolo costituito da tre monologhi: il primo “Cari Supereroi…”, è una disperata lettera proveniente dalla pianura più profonda; il secondo, “Fai la cosa giusta”, è la confessione di un supereroe che ci ricorda come da un grande potere derivino grandi responsabilità; il terzo, “Concime di pace”, è una leggenda metropolitana sulla debolezza del supereroe e l’utopia di un mondo unito.
Inoltre ho finito di scrivere da poco il copione di uno spettacolo per i più piccoli dedicato ai segni grafici che l’essere umano utilizza: lettere, numeri… Mi appassiona molto la storia che è nata e da metà dicembre inizierò a lavorare sulla messa in scena per presentarlo verso fine febbraio

Come si conciliano le due attività?

Fare l’attore e l’organizzatore e l’insegnante e l’attacchino… tutto ciò si concilia perché dietro c’è il Teatro. Provare le parti o immaginarsi uno spettacolo significa aprire le porte di nuovi mondi e a volte è fatica, non vorresti, preferiresti fare altro. Ma poi non puoi e ti tocca fare l’attore a volte anche quando non sei a teatro, mentre fai altro. Il teatro si materializza ovunque e tu fai le prove o inventi o pulisci il palco ovunque ti trovi.

Di teatro si vive? (O si muore?)
Non so se senza teatro potrei vivere e quindi neanche se potrei morire. Però sono sicuro che il teatro mi ha salvato e non me lo dimentico più. Poi è così accogliente… Ci sta tutto dentro: la musica, la poesia, l’arte figurativa, la danza, la parola e anche la ricchezza e la povertà.

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Reclami sulla gestione dei servizi ambientali

Capire i disagi dei cittadini, conoscere le criticità emerse, approfondire le difficoltà e le inefficienze nei servizi significa cercare di capire come fare per offrire condizioni di confronto trasparenti sia per i cittadini sia per le imprese erogatrici di servizi. Per questo si intende qui indicare i reclami-ricorsi più diffusi e le principali criticità espresse dai cittadini sui temi gestionali dei servizi ambientali, per proporre in futuro coerenti percorsi di miglioramento. Parlarne non fa mai male.

In generale le causali principali si possono dividere in tre articolazioni di pari importanza:
a) per disservizi e reclami;
b) per richieste esecuzione e intervento;
c) per informazioni e approfondimenti.

Dalle analisi di questi temi (che sicuramente sono periodicamente svolte dai gestori) si possono ricavare importanti elementi di miglioramento, sia per aree territoriali che per aspetti gestionali.

Le questioni principali cu cui focalizzare l’attenzione sono:

Sull’acqua

  • Cambio contatori acqua (e rotture dovute al gelo)
  • Rivalutazione dei valori economici, bollette con ricalcolo
  • Boccette antincendio (singole e condominiali)
  • Reclami per errori di fatturazione e di lettura
  • Posa e spostamento contatori e oneri riapertura
  • Prezzi degli oneri di allacciamento e delle opere edili
  • Contestazione di pagamenti per acqua non consumata
  • Perdite occulte post-contatore, assicurazioni e fondi fughe
  • Contestazione quota tariffa per depurazione e fognatura
  • Reclami per rotture e criticità durata interruzioni servizio
  • Disservizi e tempi attesa (allo sportello, per preventivazione, etc.)

Sui rifiuti

• Informazioni sulle Carte dei servizi e sulle tariffe
• Lamentele sulla tariffazione e applicazione Iva
• Distanza dei cassonetti e pagamento tariffa
• Criticità per categorie (segnalazioni di artigiani, commercianti etc.)
• Mancata applicazione di incentivi e agevolazioni
• Criticità nei regolamenti comunali, assimilabilità e superfici
• Ritardi nel ritiro domiciliare (ingombranti)
• Carenza di igiene in luoghi pubblici, richieste di pulizia
• Raccolta foglie e pulizia delle caditoie (deflusso acque piovane)
• Richieste di spostamento di cassonetti e loro manutenzione
• Mancanza di contenitori per le raccolte differenziate
• Scarsa informazione nella raccolta per materiale e trasparenza riciclo

Questo elenco potrebbe essere una buona base di partenza per un efficace miglioramento dei servizi.

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Venerdì 12 dicembre, presso la Sala dell’Arengo, intervista a Roberto Soffritti

da: organizzatori

E’ nato a Ferrara il Think tank denominato “Pluralismo e dissenso”

Prima iniziativa: Cerchiamo di leggere la realtà ferrarese attraverso tre incontri
pubblici con i sindaci degli ultimi 31 anni: 16 anni di Roberto Soffritti, 10 anni di
Gaetano Sateriale e 5 di Tiziano Tagliani. Evidenziando gli aspetti centrali, positivi e
negativi, che hanno caratterizzato il loro mandato e cercando di leggere come è
cambiata Ferrara negli ultimi 6 lustri nelle dinamiche sociali, politiche, economiche,
relazionali, di qualità di vita, ecc.
Le riprese degli incontri potranno essere viste sul sito
pluralismoedissenso.altervista.org

Primo incontro, organizzato con il gruppo consiliare Sel del Comune di Ferrara:

Venerdì 12 dicembre 2014
Sala dell’Arengo (sede comunale) ­ ore 17.00

Roberto Soffritti
intervistato da

Stefano Lolli, Carlino Ferrara
Marco Zavagli, Estense.com
Sergio Gessi, Ferraraitalia.it
Stefano Scansani, La Nuova Ferrara
Stefano Ravaioli, Telestense

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LA RIFLESSIONE
La politica dei bisogni nel tempo della globalizzazione consumista

Molte persone condividono l’idea che lo scopo di una società democratica e giusta debba essere quello di garantire la soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Su cosa sia bisogno si è discusso per millenni e il dibattito è ancora aperto: già Plutarco sosteneva che “la ricchezza conforme a natura ha i suoi limiti e il suo confine, tracciato tutto intorno dal bisogno come da un compasso”. Egli affermava questo in un tempo in cui la popolazione mondiale poteva essere stimata in poco più di 200.000 milioni di persone, mentre oggi ha superato i 7 miliardi. Il contesto è radicalmente cambiato: egli viveva in un società a contato diretto con la natura, mentre noi viviamo in un ambiente in cui questo contatto è mediato dalla tecnologia, in una società tecnogena molto diversa dalle precedenti. Malgrado questo, allora come adesso, si parla di bisogni e di bisogno.

Qualcuno sostiene che sia possibile individuare bisogni comuni fondamentali e pianificare il modo per soddisfarli.
In prima istanza, sembra molto facile definire cosa serva all’uomo per vivere: aria, acqua, cibo, relazioni personali e sociali, sicurezza, un ambiente conosciuto dove potere esercitare le proprie capacità. Il modo in cui questo sistema di bisogni può essere socialmente organizzato è straordinariamente vario, come dimostrano le ricerche sociologiche, gli studi antropologici e i resoconti etnografici. Tuttavia, quando si isola il singolo individuo dalla propria cultura, dal proprio ambiente e dalle proprie tradizioni, considerandolo semplicemente come una macchina biologica, è molto facile immaginare prima e calcolare poi l’ammontare del bisogno, descrivendolo in termini di risorse ritenute scientificamente indispensabili per vivere. Molti organismi internazionali, a cominciare dalla Banca mondiale, lavorano indefessamente per descrivere il mondo proprio attraverso indici e standard numerici che, prescindendo dai contesti e dalle culture vitali, ci ritornano descrizioni asettiche, basate su statistiche che illustrano nazione per nazione, territorio per territorio, il reddito procapite, la disponibilità di medicinali, l’assunzione calorica giornaliera, la carenza di vitamine, il numero di parti per donna, la disponibilità di posti letto ospedalieri e via discorrendo. Si tratta certo di informazioni preziose, che però descrivono il mondo da uno specifico punto di vista (il nostro) e mostrano sempre, in base ad un puro confronto quantitativo tra i casi migliori e peggiori, la sterminata ampiezza di un bisogno oggettivizzato, universalmente definibile e quantificabile, che lascia intravedere altrettanto formidabili occasioni di consumo.

Qualcuno sostiene che il mercato sia l’unica soluzione per cogliere e soddisfare i bisogni della gente.
Viviamo in un mondo dominato da un’economia di mercato alla cui base sta l’idea di attori razionali orientati egoisticamente a perseguire le loro mete e preferenze soggettive. Il mercato è un’istituzione utilissima, ma come tutte le istituzioni, richiede regole chiare, comportamenti coerenti, condivisione di valori, trasparenza. Se, invece, gli attori che si muovono nel mercato sono più grandi e potenti degli stessi Stati ed Enti che ne dovrebbero regolare ed indirizzare il comportamento (come succede per molte multinazionali, per le banche, per i grandi investitori istituzionali), se l’unico criterio per avere successo nel mercato è la massimizzazione del profitto, è molto improbabile che il sistema possa andare incontro ai bisogni basilari delle persone e, in particolare, di chi possiede poco o non possiede per nulla. In tale contesto, è assai più semplice per i grandi player influenzare chi dovrebbe fare le regole ed è molto più redditizio manipolare attraverso la pubblicità le preferenze ed aspettative di consumatori. Il consumo per creare posti di lavoro, il consumo per far crescere il Pil sostituiscono il bisogno come motore dell’economia e diventano criteri necessari e sufficienti per far prosperare un sistema condannato alla crescita perpetua. In tale sistema, dove si ipotizza che solo le singole persone sappiano cosa è meglio per loro stesse, il consumo stesso rappresenta la prova a posteriori dell’esistenza di un bisogno, a prescindere da ogni tipo di ulteriore considerazione. Il bisogno finisce con il coincidere con la soluzione predisposta socialmente: il bisogno di salute viene sostituito dal bisogno di farmaci e di medici, il bisogno di mobilità dal bisogno di possedere l’automobile.

Qualcuno sostiene che si debba lavorare personalmente sui propri bisogni per acquisire una nuova consapevolezza.
Sospesi tra quanti impongono standard universalistici e quanti manipolano la percezione di ciò che serve, i cittadini sono sempre più spesso smarriti. C’è una straordinaria confusione costantemente alimentata dalla moda e delle strategie di marketing che diventano sempre più influenti e manipolatorie. Il riconoscimento dei limiti e delle fragilità, ma anche delle potenzialità e della creatività umana, apre allora la strada ad un’idea alternativa di bisogno, centrato sul protagonismo diretto della persona umana intesa come essere sociale responsabile e libero. Guardando sinceramente dentro di sé (piuttosto che esclusivamente verso l’esterno), riconoscendo la propria esigenza di vivere in un ambiente controllabile, coltivando la propria capacità di discernimento, sperimentando personalmente, l’uomo avrebbe la possibilità di esplorare e comprendere meglio la natura del proprio bisogno. Potrebbe dunque riconoscere e discriminare tra bisogni e desideri, tra bisogni e mezzi che la società mette a disposizione per soddisfarli; potrebbe rinunciare al consumo e scegliere stili di vita alternativi, cimentarsi nell’esplorazione creativa di soluzioni innovative non ortodosse. Il bisogno, depurato dai fraintendimenti del senso comune, diventa allora il motore di una sfida con cui cimentarsi e la chiave possibile dell’evoluzione interiore.

Qualcuno sostiene che si possano costruire comunità dove ognuno dà in base alle proprie capacità e riceve secondo i propri bisogni.
La valorizzazione della dimensione comunitaria e locale, della rete sociale, consente di guardare al bisogno da una prospettiva che può aiutare il cittadino ad uscire dall’isolamento che lo vede come singolo impotente di fronte al mercato impersonale e alla burocrazia anonima. Ne sono esempio le ormai numerose comunità intenzionali che si aggregano attorno a scopi specifici per fronteggiare insieme bisogni comuni. Bisogni quali l’abitare, lo spostarsi, la cura dei piccoli e degli anziani, la produzione e il consumo del cibo, l’appartenenza e il riconoscimento sociale, diventano in questi casi occasioni per trovare soluzioni che non si risolvono immediatamente ed esclusivamente nel consumo di beni e servizi codificati. Si tratta di un cambiamento basato sull’apprendimento che coinvolge singoli, gruppi, famiglie ed organizzazioni: esso richiede potenziamento di persone, orientamento alla libertà responsabile, capacità di visione e di pensiero sistemico, creatività portata alla concretezza, umana solidarietà: una direzione di sviluppo che porta ad agire fuori dagli schemi e dagli stereotipi, che va in direzione esattamente opposta rispetto alla creazione di consumatori passivi che credono di trovare nel mero consumo la chiave della felicità e di cittadini rissosi in costante competizione tra di loro.

Qualcuno sostiene che, per ottenere una società giusta, una riflessione spassionata sui bisogni dell’uomo e delle comunità che vivono in un ambiente tecnogeno, che non ha precedenti storici e che si evolve molto rapidamente, sia quanto mai urgente.
Una tale riflessione potrebbe forse partire dal riconoscimento e dall’integrazione di modalità di organizzazione del bisogno che possano garantire: un minimo essenziale di benefici per tutti in riferimento ad uno standard condiviso; la possibilità di scegliere tra differenti mezzi di soddisfacimento del bisogno; la libertà di esplorare percorsi di senso creativi alternativi allo statu quo ovvero alternativi al consumo coatto e all’imposizione forzosa di regole burocratiche; infine, la libertà di definire ed organizzare i bisogni su base comunitaria, anche in funzione di specifiche appartenenze culturali.

Ebbene sì, quasi duemila anni dopo Plutarco e in un contesto completamente diverso, c’è ancora bisogno di riflettere sui bisogni, c’è urgenza di nuovi concetti, c’è necessità di trovare nuove soluzioni concrete per soddisfarli: un buon segno e, di sicuro, una sfida che potrà determinare la qualità del nostro futuro.

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L’INTERVISTA
Elena Buccoliero alla direzione del servizio regionale per le vittime di reati gravi

Esiste da dieci anni ed è un servizio di assoluta utilità offerto dalla Regione Emilia-Romagna, eppure pochi ne conoscono l’esistenza, salvo, purtroppo, chi ne ha avuto bisogno. Si tratta della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati. Nata nell’ottobre 2004, è stata voluta da Regione Emilia-Romagna, Province e Comuni capoluogo, con l’intento di predisporre un ente in grado di dare sostegno alle vittime di reati molto gravi. La direttrice è una ferrarese, Elena Buccoliero, sociologa e counsellor, che per il Comune di Ferrara segue l’Ufficio diritti dei minori. È inoltre giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Bologna.

L’abbiamo intervistata per capire meglio l’attività della Fondazione, in vista dell’incontro pubblico che si svolgerà domani 11 dicembre alle 18.30 presso la Sala della Musica di via Boccaleone 19.

Da chi è composta la Fondazione?
Ne fanno parte, per ora, soltanto i soci fondatori, cioè appunto Regione, Province, Comuni capoluogo. Sono possibili ingressi di nuovi soci, sia enti pubblici sia soggetti privati. Io sono il direttore dal 1° settembre scorso. Insieme a me lavora un’operatrice brava e paziente, la vera memoria storica della Fondazione, e cioè Patrizia Vecchi, dipendente della Regione. Bisogna dire però che il nostro presidente è una figura d’eccezione: Sergio Zavoli.

Qual è la sua missione?
La Fondazione offre un sostegno rapido e concreto, di tipo economico, alle vittime di reati gravi e gravissimi, per aiutarle a fronteggiare nell’immediato le conseguenze del crimine. Per “reati gravi e gravissimi” si intendono l’omicidio e tutti quei reati che mettono a rischio l’incolumità fisica delle persone, o la loro libertà morale e sessuale; in altri termini, i reati più frequenti sono omicidio tentato e consumato, violenza sessuale, stalking, gravi maltrattamenti in famiglia, rapine particolarmente violente.

Come vengono scelti i casi a cui dare sostegno?
I casi vengono segnalati dai Sindaci dell’Emilia Romagna dove il fatto è accaduto, o dove vive il cittadino che ha subito il reato. Qualche volta, quando la stampa presenta casi di grande rilievo, è la Fondazione stessa a contattare il Sindaco ricordando che la Fondazione è al loro fianco.

Che tipo di sostegno dà la Fondazione?
Il sostegno è di tipo economico ed è sempre basato su un progetto di aiuto calato al caso concreto. Può esserci bisogno di sostenere spese sanitarie, o psicologiche, o assistenziali particolari, possiamo dare impulso al progetto di autonomia di una donna che interrompe la relazione con un partner maltrattante, o sostenere gli studi di un bambino che ha perso i genitori in un omicidio.

Quali sono i casi nella provincia di Ferrara?
Sono stati 11 dal 2005 al 2013, ed anche nel 2014 nuovi casi sono stati presentati ma i dati non sono ancora completi. Sicuramente, per Ferrara e non solo, spiccano le violenze verso donne e minori, ed è della nostra provincia il caso di una donna che, anche grazie al nostro contributo, è riuscita a ritrovare e a riprendere con sé il suo bambino che il partner maltrattante aveva allontanato da lei portandolo all’estero.
La Fondazione si occupa di tutti i reati gravi, ma è vero che gran parte della sua attività si sostanzia nell’aiuto a donne e minori vittime di violenza intra-familiare, sia perché questi reati sono particolarmente odiosi e stravolgono la vita delle persone offese, che spesso non avranno mai un risarcimento dal maltrattante, sia perché in aiuto alle donne esistono i Centri antiviolenza che conoscono la Fondazione e sono di stimolo per il Comune nel presentare le istanze. Credo che nel tempo un’alleanza in qualche modo analoga potrà crearsi anche con i servizi sociali per i minori, con riferimento a casi di bambini vittime di maltrattamenti o di abusi sessuali.

Cos’avete osservato rispetto al fenomeno della violenza in regione? E’ in aumento? Quali i tipi di reato più diffusi?
Purtroppo questo è un discorso che non riusciamo a fare. Non per tutti i reati si viene alla Fondazione – solo per quelli molto gravi, come dicevo – e l’aumento di istanze presentate è dovuto alla migliore conoscenza di questa opportunità, più che all’aumento della violenza. Per capirci, abbiamo ricevuto 5 casi il primo anno, oltre 30 da qualche anno in qua. Ma, appunto, è un fatto di comunicazione, sono convinta che il bisogno ci fosse anche prima.

Chi sono le maggiori vittime di reato? Uomini o donne? Di che età? Sono dati che offrono spunti di riflessione?
Le vittime di reato sono soprattutto donne o bambini. Bisogna dire che ogni reato può colpire più di una persona, se consideriamo non soltanto chi riceve la violenza ma tutti coloro che ne sono colpiti anche indirettamente. Per questo, ad esempio, nei femminicidi, la Fondazione aiuta i bambini che rimangono, mentre la mamma non c’è più e qualche volta neppure il padre, suicida. Anche le violenze sessuali, lo sappiamo, riguardano sempre e soltanto donne. Non sono capace di riflessioni particolarmente acute, se non che i dati confermano una volta di più la presenza di una violenza diffusa e persistente contro le donne e la necessità di prendere in carico questo tema complesso, con risposte complesse, che si muovono su più piani. In questo momento mi pare che la Fondazione, mentre è così difficile per le donne che dicono ‘basta’ trovare un aiuto per ricominciare a vivere, sia un raro appoggio. Non possiamo fare tutto noi, non possiamo fare tutto da soli, ma certo cerchiamo di svolgere la nostra parte.

Quali sono le difficoltà che incontrate?
Posso indicare due tipi di difficoltà, in un certo senso opposte: per un verso, per lavorare meglio abbiamo bisogno di farci conoscere di più e io credo che i nostri destinatari siano coloro che professionalmente hanno a che fare con le vittime dei reati. Assistenti sociali, avvocati, forze di polizia possono indirizzare in modo mirato le vittime di gravi reati alla loro amministrazione comunale per chiedere aiuto alla Fondazione. E poiché l’informazione non è mai abbastanza, e anche dopo 10 anni pochissimi ancora conoscono la Fondazione, a Ferrara l’11 dicembre abbiamo organizzato un incontro di presentazione della nostra realtà, che prosegue con una lettura teatrale sulla violenza intra-familiare. All’incontro che si tiene alle 18,30 nella Sala della Musica, partecipa il presidente della Fondazione, Sergio Zavoli, insieme al Sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, all’avvocato Eleonora Molinari e me. Dopo un piccolo buffet ci sarà poi la lettura teatrale ‘I bambini non hanno sentito niente’, interpretata da Fabio Mangolini insieme agli attori del Teatro dell’Argine.

E la seconda difficoltà?
Beh, riguarda i fondi. La Fondazione gestisce un fondo annuale di gestione composto dalle quote di Regione, Province e Comuni capoluogo, ma la parte delle Province è destinata a ridursi in seguito alla riforma che ne ridimensiona fortemente competenze e risorse. Per la Fondazione questo comporterà un buco, rimediabile perfino facilmente se altri enti locali – Comuni di rilievo, Consorzi o Unioni di Comuni – decideranno di entrare nella Fondazione come soci aderenti, cosa che già lo Statuto consente, con la quota che ragionevolmente si sentono di sostenere.
Nel frattempo la Fondazione prosegue la sua strada e si sta anche guardando intorno: progetti europei, bandi nazionali, sponsor privati sono altrettante strade da percorrere.

11 dicembre
FERRARA
Sala della Musica, Via Boccaleone 19
Ore 18,30 – Tavola rotonda
La Fondazione per le vittime dei reati come strumento di giustizia riparativa
Il caso della violenza contro le donne e i minori
Presentazione della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati
Tiziano Tagliani, Sindaco del Comune di Ferrara
Sergio Zavoli, Presidente della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati
Elena Buccoliero, direttrice della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati
Eleonora Molinari, avvocato, Fondazione forense ferrarese
Buffet
Ore 21 – Lettura teatrale
I bambini non hanno sentito niente”

Per approfondimenti e contatti si può visitare il sito della Fondazione [vedi]

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IL VETRIOLO
Fiera del regalo in stile sovietico

Natale in tono dimesso se non dismesso, l’abbondanza sta solo nel malessere da cui siamo abitati un po’ tutti, precipitare nello sconforto è quasi inevitabile. Soprattutto quando l’estetica tradisce se stessa sprofondando nella barbarie. Ed è subito allergia. Gli agenti provocatori sono dappertutto e sanno come forzare un sistema immunitario mettendo in moto l’intolleranza al brutto. Oramai gratto da giorni e lo faccio con più veemenza quando cammino sotto i portici del Duomo incrociando con gli occhi il parallelepipedo gigante, il mercatino di Natale, che “okkupa” il listone, il salotto della città, trasformandolo in una piazzola da periferia urbana anni Sessanta.
A differenza di quanto succede nelle altre città d’arte, dove le bancarelle di legno mettono allegria con i loro colori, Ferrara si veste di tristezza, rinnega la bellezza, si propone con un arredo da socialismo reale il cui insuccesso estetico è impossibile da negare. E’ brutto. Lo diventa ancor di più quando lo si sposa a forza con il Rinascimento. La struttura del nostro scontento sarà anche pratica – in caso di pioggia grazie al tetto consente al pubblico di fare lo zapping tra un banco e l’altro – ma non si può guardare. Inoltre è figlia di un’evidente schizofrenia: da una parte la città è impegnata a “vendersi” come salotto della cultura e dall’altra non si preoccupa di mantenere un look consono alla propria mission. Per dirla con maggior chiarezza: non c’è fotografo che impegnerebbe uno scatto per il ‘Christmas Market dell’Unità’.
Il prurito, ovvio, aumenta per orgoglio di estetica ferita. E per solidarietà verso Leon Battista Alberti cui si deve il campanile della cattedrale sotto il quale la “cosa” di Natale prende quotidianamente vita. Tanti auguri architetto e abbia pazienza, poi si smonta.

L’estetica della Festa del regalo ci riporta alle atmosfere del socialismo reale. Le due ultime immagini invece mostrano l’eleganza del mercatino dell’artigianato ospitato domenica sempre sul Listone: la compresenza creava un contrasto stridente

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Natale in tutte le lingue del mondo

Si fa presto a dire ‘Buon Natale’, ma quanti Natali esistono e quando hanno avuto origine le festività natalizie?
Ci sono l’inglese Christmas e l’olandese Kerstmisse, che alludono chiaramente al significato religioso cristiano della festività. Il tedesco Weihnacht o Weihnachten, che significa ‘notte sacra’, è più vago e potrebbe essere uno di quegli esempi di commistione e sovrapposizione fra culto cristiano e precedenti culti pagani. Il termine francese Noël, di origine incerta, secondo molti studiosi corrisponderebbe al provenzale Nadau o Nadal, che insieme allo spagnolo Navidad e all’italiano Natale derivano dal latino natalis, ‘nascita, compleanno’: anche se si potrebbe pensare alla nascita del Cristo, di nuovo torna l’ipotesi di una sovrapposizione fra i festeggiamenti cristiani e pagani del 25 dicembre. Nel tardo impero romano, infatti, il 25 dicembre, giorno del solstizio d’inverno del calendario giuliano, si festeggiava la rinascita del Sol Invictus, a sua volta spesso identificato con la divinità di origine orientale Mitra. Dal latino derivano anche i termini che indicano le festività natalizie nelle lingue slave: il polacco Kolenda, il ceco Koleda, il lituano Kalledos, il russo Kolyáda. Insieme al nome greco Kàlanda, derivano tutti dalle Calendae romane, a indicare come i giorni tra il 25 dicembre e il 6 gennaio venissero considerati quasi da subito un ciclo unitario di feste. Completamente diversa la parola usata nel mondo scandinavo: Yule, Jul in danese. Le sue origini sono state ampiamente discusse, ma senza arrivare a conclusioni definitive. L’unica cosa certa è che si tratta del nome di una stagione germanica: probabilmente un periodo di due mesi che copriva la seconda metà di novembre, dicembre e arrivava fino alla prima metà di gennaio.
Ma da quando Natale è il 25 dicembre? È piuttosto sicuro che le prime celebrazioni della nascita di Cristo il 25 dicembre siano avvenute a Roma verso la metà del IV secolo. La più antica fonte sulle celebrazioni in questa giornata è, infatti, il ‘calendario filocaliano’, un documento romano risalente a non prima del 354 d.C., ma che incorpora un documento più antico databile al 336 d.C. Da Roma, anche attraverso la conversione dei Barbari, il Natale si diffuse in tutta l’Europa occidentale. In Oriente, invece, il processo è stato più difficoltoso: qui la nascita del Redentore veniva inizialmente celebrata il 6 gennaio, che non commemorava l’adorazione dei Magi, ma il battesimo. La più tenace nel rifiuto dell’adozione della nuova festività del 25 dicembre è stata la chiesa di Gerusalemme, che sembra averla introdotta solo nel VII secolo. La chiesa armena, dal canto suo, festeggia ancora oggi insieme Natività ed Epifania il 6 gennaio.

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Moda, pittura, poesia, canzoni: ecco l’eclettica Sonia Mariotti

Sonia Mariotti si definisce un’artista dalle mille sfaccettature, che si esprime in molteplici realtà artistiche: dalla qualifica di stilista di moda alla pittura, passando per la scrittura di testi, poesie e canzoni. La sua prima esperienza, in uno studio di registrazione, risale al 1994 con l’incisione del brano “Take my heart”, di cui ha firmato il testo. Il suo più recente cd s’intitola “Murales”, un lavoro che lei definisce un puzzle della sua vita. L’album contiene nove canzoni, con due ospiti d’eccezione quali Zeno Sala (U2 Zen Garden, Tribute Band) nel brano “Regalami chi sei” e Danilo Amerio in “Giocami”.

In questi giorni ha inciso “Pure pain”, il nuovo singolo con relativo video [vedi], si tratta della cover in inglese del suo brano “Libera”, realizzata con uno sguardo verso il mercato estero.

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“Pure pain”, il nuovo singolo di Sonia Mariotti

Iniziamo parlando di “Pure pain”, il tuo nuovo singolo…
“Pure pain” è la rivisitazione di “Libera”, uno dei singoli più belli del mio percorso discografico, che mi ha dato grandi emozioni. Per quanto riguarda il testo, abbiamo scelto di parlare delle guerre e delle atrocità, che sempre più spesso i media ci raccontano quotidianamente.
Nonostante tutte le notizie, mi sembra che non abbiamo la percezione globale di tutto quello che accade attorno a noi ma, da semplici e impotenti spettatori, non possiamo fare altro che assistere alle mostruosità che l’essere umano infligge attraverso il potere. Io l’ho sintetizzata così: “Ci vuole il passo felpato per camminare sulla testa degli angeli”. Il brano si avvale di nomi importanti del panorama musicale italiano, l’arrangiamento, in puro stile “morriconiano”, è di Tato Grieco, il basso di Paolo Costa, le chitarre di Stefano Tedeschi e Gigi Cifarelli, il coordinamento delle batterie di Gabriele Paganoni. Naturalmente non mancano i miei autori del cuore: Sergio Vinci e Dino Vollaro e il produttore Alberto Boi. Ho interpretato il brano come meglio potevo, cercando di dare il mio contributo, basandomi sull’emotività che provocano in me questi tragici avvenimenti.

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Frame del video

Il nuovo video ha raccolto molti consensi sulla tua pagina Facebook…
Il video è stato per me la parte più bella di tutto il lavoro, ci abbiamo messo un’intera estate ma credo sia riuscito molto bene, grazie al “piccolo grande genio” Marco Del Torchio, che è anche un mio carissimo amico. Abbiamo cercato di ricreare dei paesaggi mistici e degradati, distrutti ma pieni di storia, cercando i territori selvaggi più adatti, con l’aiuto del local manager Ivano Badii.Trattando un tema come la guerra, abbiamo preferito utilizzare il bianco e nero, in modo da non avere precisi riferimenti temporali. Sono molto soddisfatta di questo progetto, così come lo è il mio team di lavoro; per quanto riguarda Facebook, spero che i consensi aumentino sempre di più.

Pure pain è pensato per il mercato estero?
Con “Pure pain” ho raggiunto un bellissimo traguardo, una grande soddisfazione dopo vent’anni di lavoro e di gavetta nel mondo della musica, infatti, sotto il severo esame di Vevo, che è il canale Internet di proprietà di Sony music entertainment, Universal music group e Abu Dhabi media company, sono stata scelta come unica rappresentante italiana indipendente. Questo risultato è stato raggiunto grazie al mio curriculum e alla mia storia musicale: tre album, il nuovo singolo e due brani inseriti in compilation. “Pure pain” strizza l’occhio anche al mercato estero, inoltre, ne abbiamo realizzato una versione “Electropop”, ideata e remixata dai bravissimi Special Q.

Singolo e video, in questa Italia ferma al palo, rappresentano la tua volontà di non arrenderti?
No! Non ci si deve arrendere. Io non mi arrendo, ferma non ci so stare. Con questo progetto ci dirigiamo verso il mercato estero, ci si prova almeno. Qui le cose sono complicate, non c’è molto spazio. Anche se credo sempre che la qualità si possa apprezzare dappertutto.

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Sonia Mariotti durante l’incisione del nuovo singolo

Nel tuo album “Murales” hai cantato con Danilo Amerio, com’è nata la vostra collaborazione?
Da ragazzina avevo acquistato un vinile di Danilo, “Buttami Via”, mi piaceva molto. Poi mi sono ritrovata con un suo brano inedito, durante il mio percorso musicale in Accademia, con il maestro Dario Lagostina. Lo cantavo sempre, era la mia valvola di sfogo quando volevo urlare qualcosa a qualcuno, il brano era “Giocami”. Quando intrapresi il percorso discografico, ne parlai con il mio editore, quel brano era mio da sempre. Lui, collaborando con Danilo, è riuscito a farmelo ottenere. Così ci mettemmo in contatto e nacque il duetto. Danilo Amerio è un grande maestro, professionista, autore e interprete. Umanamente è splendido.

I testi delle tue canzoni hanno “un’anima”, quanto sono importanti le parole per te?
I testi sono fondamentali in una canzone. Io arrivo dalla vecchia scuola, quella cantautorale. Devo dire delle cose vere, che mi rappresentano. Mi devo raccontare sempre. Posso trasgredire sulla melodia, magari meno impegnata, ma devo compensare con un testo importante.

CALENDARIO DELL’AVVENTO
Il Grinch

In odor di Natale siamo tutti più buoni. Ma soprattutto felici.
Questa tautologia che proviene dalla notte dei tempi è una nota stonata nella filosofia del Grinch, protagonista dell’apprezzato racconto per bambini “Il Grinch” (“How the Grinch Stole Christmas”) di Theodor Seuss Geisel, noto come Dr. Seuss, pubblicato nel 1957 e fonte della celebre trasposizione cinematografica interpretata da Jim Carrey.
Il Grinch è un omuncolo verdastro, coperto di peli; scorbutico e dispettoso, sostenuto e sarcastico, è sempre pronto a creare zizzania nell’idillico paesino di Chinonsò e dei suoi rosei e paffutelli abitanti, che vivono in perenne preparazione del Natale, vedendo in questa attesa l’unico suo vero senso. Il Grinch vive isolato dai suoi ex concittadini che lo temono e lo tengono a distanza, in un rapporto distorto di affinità elettiva con il paese che non lo accetta e che a propria volta non accetta complice quel Natale che lo tormenta, di cui non riesce ad afferrare il meccanismo, né il senso., decidendo – deliziato – di rubarlo.

“Tutti i Nonsochi a Chinonsò
amavano il Natale…
ma al Grinch,
che viveva appena al nord di Chinonsò,
non piaceva affatto!”

La colpa di questo risentimento sembra essere il cuore, che è “troppo piccolo di due taglie”; e di conseguenza gli rende faticoso non solo amare, ma anche provare entusiasmo e trasporto per un periodo dell’anno il cui seguito festoso – fatto di luci, regali, abbracci e canzoncine – sembra essergli quanto di più orrendo e sgradito possa esserci.

“Sono 53 anni che subisco questa cosa. DEVO impedire a questo Natale di arrivare… ma COME?”

Come in ogni fiaba che si rispetti, però, il protagonista subisce una evoluzione, nel momento in cui si rende conto che il Natale è (dovrebbe essere) molto di più che un circo rumoroso bensì, per chi è credente, generosità e celebrazione di un momento santo. E lo capisce grazie a una bambina che gli mostra, con l’innocenza che può nascere solo dagli occhi di un bambino.

“E poi pensa e ripensa,
gira e rigira e prova,
il Grinch pensò a una cosa
completamente nuova.
«Forse – pensò – il Natale non viene dai negozi, dagli empori,
dal market o dagli altri servizi.
Forse ha un significato più profondo e vitale…
Chissà se è proprio questo il vero senso del Natale!»”

Ma il Grinch è anche e soprattutto quel pezzetto (piccolo o grande) che sta in ognuno di noi, a Natale e nella vita. Ci immedesimiamo facilmente nella sua perplessità sardonica, ma anche nella sua unicità che ci rende diversi da una massa, che ci fa a volte sentire fuori posto o inadeguati.
Che insegna a sentire il senso autentico delle cose, libere dalla zavorra che si chiamano forma e apparenza; e a trovare il senso di essere accettati per quello che si è, ascoltare un altro punto di vista e vedere ogni cosa con occhi nuovi. Anche il Natale.

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Sofistica, l’arte del no

Da BERLINO – La relazione tra tragedia e la sofistica di Gorgia, il famoso oppositore e interlocutore di Socrate, è stata il punto di partenza per una brillante conferenza, come spesso capita, tenuta all’Institute for Cultural Inquiry Berlin, del famoso filosofo Simon Critchley, grande divulgatore della decostruzione in America.

La storia della filosofia comincia con la famosa lotta per la supremazia tra la sofistica, incentrata sul “no”, un nichilistico “no” a tutto e la filosofia che è una affermazione della verità e del rigore argomentativo. Il platonismo poi diffuso nelle sue varie mutazioni si fonde tanto sull’esistenza della verità e su una salda ontologia: dalla combinazione dei due si è sviluppata una filosofia fortemente normativa e moralista.

Filosofia come attività tragica è invece ciò che Critchley propone sulla scia del primo Nietzsche, quello dell’inizio della Origine della Tragedia, che propone la “non verità” come la fonte della vita.
La lezione è cominciata con il famoso detto che “l’uomo è misura di tutte le cose” per cui, per converso, il filosofo è colui che si occupa delle cose divine. Ma è soprattutto l’arte sofistica della contraddizione, quella non ancora infusa della moralità (o moralismo) di Socrate, che Critchley avvicina al linguaggio della tragedia. La tragedia è infatti caratterizzata da enormi ambiguità morali che costituiscono appunto una sorta di “versione teatrale” della sofistica: l’ambiguità del resto è il grande nemico della filosofia e, implicitamente, della democrazia.

Il vero nocciolo della disputa tra filosofia e sofistica è il fatto che noi abbiamo solo linguaggio ma il linguaggio è precisamente, concretamente e tragicamente qualcosa di diverso dalla realtà, per cui si hanno le tre famose leggi della sofistica, una sofisticata (e crudele) satira del pensiero filosofico e della sua pretesa di dire la verità:

1. niente esiste;
2. se qualcosa esiste, è inconoscibile;
3. se è conoscibile, è incomunicabile.

La sofistica si oppone alla filosofia, appunto con argomenti capziosi, confondendo piani del discorso, appunto sofismi.

Ma se si getta un altro sguardo alla sofistica si può trovare anche qualcos’altro: il tentativo di praticare una sorta di “pensiero femminile” che si oppone a quello che Derrida avrebbe chiamato “fallo-logocentrismo”, cioè l’idea che il discorso filosofico debba assolutamente essere fertile, fecondo, produttivo, stabilendo una discendenza di “opere,” cioè libri, opere, testi e così via…

Cosa però possa essere una filosofia consapevolmente conscia della sofistica, Critchley non lo dice. Evidentemente è, ironicamente, un’opera ancora tutta da scrivere. O, meglio, ancora tutta da dire.

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LA STORIA
Nuova vita a colori.
I fiorai di Roma

Tempo fa, durante un corso di fotografia a Roma, mi è stato chiesto di aggirarmi per la città e trovare una storia interessante e originale da descrivere solo con le immagini.
Mi sono imbattuta in molta bellezza, in tantissimi colori e personaggi strani. Ma a colpirmi sono stati loro, gli extracomunitari che mantengono fiorita la città con i loro chioschi agli angoli delle strade, appoggiati sugli antichi sanpietrini, alle saracinesche graffiate o alle colonne imponenti delle più belle piazze frequentate dai turisti.

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Fioraio a Roma in una delle foto di Simonetta Sandri scattate fra il quartiere della Garbatella, Campo de’ Fiori e Piazza di Spagna

Ognuno di loro mi ha raccontato una storia, di emigrazione felice o infelice, di difficoltà incontrate, di pianti e di sudori ma anche di umanità sfiorata e di amicizia ritrovata.
Ognuno di loro è stato accolto, ognuno di loro ha avuto una seconda opportunità.
Ognuno pronto, lì, per la strada, a riempire di colore una vita grigia, a offrire un consiglio a un uomo innamorato, a un’anziana signora che ha perso la strada, a un ragazzino che cerca fiori per la nonna, a una mamma che vuole abbellire la sua tavola, a un’amica che vuole consolarne un’altra, a un amico che vuole diventare altro.
Ognuno lì, con la sua voglia di fare e di vivere, con la sua fantasia e la sua creatività, pronto a distribuire bellezza, ventiquattro ore al giorno, con il sole e con la pioggia.

Torna in mente una frase di Antoine de Saint-Exupéry: “Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite”.

[clic su una foto per vedere la galleria di fiorai romani]

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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Fioraio a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Negozio di fiori a Roma (foto di Simonetta Sandri)
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Elogio della lentezza

Dopo ‘La sindrome della rana’ che rischia di rimanere bollita, ‘La città della conoscenza’ questa settimana si occupa di lumache e tartarughe, con ‘L’elogio della lentezza’. Non sono gli animali dell’Imperatore di Borges, ma sempre bestiole utili alle nostre riflessioni.

L’analogia fra la nostra mente e il computer pare ormai far parte del senso comune. Tanto che abbiamo perso di vista, se è il computer che deve tendere ad imitare i meccanismi del nostro cervello o se dobbiamo essere noi ad apprendere a funzionare come un elaboratore. In attesa di una fantascientifica era di osmosi tra la macchina e l’uomo, prima che il processo si avvii, per progressiva atrofizzazione di quanto non sia coinvolto nello smanettamento di iPhon, tablet e tastiere, concediamoci un intervallo di sano ‘slow’. Prendiamoci il gusto di andare controcorrente, di fare come Ribelle, la lumaca della favola di Sepúlveda, che in viaggio sul carapace di una tartaruga scopre l’importanza della lentezza.
Le tartarughe le hanno affrescate anche i pittori del Vasari, oltre cinque secoli fa, nel soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Sono tartarughe a vela, una sorta di simbiosi tra animale e macchina ante litteram. Sì, perché ognuna porta inalberata sul carapace una vela gonfia di vento, con la scritta ‘festina lente’, affrettati lentamente, ossimoro quanto mai significativo.
Sono queste immagini a suggerire al professore Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, di scrivere ‘L’elogio della lentezza’, edito da il Mulino.
Il professore Maffei ci spiega, con buona pace dei cognitivisti della Human Information Processing, che non siamo multitasking, che non siamo biologicamente predisposti per eseguire più programmi contemporaneamente. Il nostro cervello e il computer hanno ben poco in comune ed è quanto mai pernicioso per la salute della nostra corteccia cerebrale tentare di imitare, o addirittura competere, con la rapidità dei nostri ‘processing device’.
Sarebbe sufficiente pensare alla storia dell’evoluzione del cervello umano, per comprendere che si tratta di una macchina lenta, con i suoi tempi e le sue sequenze. La velocità, i ritmi frenetici, la convulsione non convengono a lui, tanto meno a noi che dai suoi impulsi facciamo discendere le nostre reazioni, che, per via della fretta, spesso si rivelano ingannevoli e avventate.
In un mondo in cui viviamo continuamente con l’incubo del tempo insufficiente, del tempo perduto, fermarsi dal correre forse a molti può apparire un lusso. Ma chi non ha gridato almeno una volta, come Mafalda di Quino, ‘fermate il mondo che voglio scendere’, per avere la soddisfazione di guardarlo da fuori, manifestando così la sua avversione per i pensieri deboli e veloci?
Sebbene l’inglese, da questo punto di vista, non dia molte garanzie, è tutto un fiorire di slow city, slow food, slow motion, fino allo slow touring come indubbie espressioni del bisogno di prendersi un po’ di respiro, della necessità di riscoprire i vantaggi dei tempi lunghi. Tanto da celebrare la giornata mondiale della lentezza, il 13 maggio.
Potete pure visitare il sito dell’associazione italiana “Vivere con lentezza” (www.vivereconlentezza.it). È un progetto nato per riflettere e far riflettere sui danni economici, sociali, personali e ambientali determinati da una vita ad alta velocità. Propone di ripensare al valore sociale del lavoro per uno sviluppo economico in armonia con l’uomo e con l’ambiente. Promuove uno stile di vita in contrapposizione con i ritmi frenetici della nostra agenda quotidiana, fornendo l’elenco dei primi 14 “comandalenti”, per trovare la velocità giusta nella vita.
Per esempio: se fate la fila, in un supermercato, davanti a uno sportello in banca, in un locale pubblico, non cedete alla tentazione della rabbiosa insofferenza, e approfittatene piuttosto per fare una nuova conoscenza, o ascoltare una storia. Non inzeppate l’agenda di impegni, così come non provate a fare sempre più cose contemporaneamente. E non dite mai: non ho tempo. Anche perché non è vero, e la lentezza è molto più di una possibilità, come ci ricorda il funzionamento del nostro cervello. Lento dalla nascita.
Esiste anche ‘La pedagogia della lumaca’, è un libro che ha scritto un uomo di scuola, di Cesena, Gianfranco Zavalloni, purtroppo ci ha lasciati da poco, a soli cinquantaquattro anni. Per una scuola lenta e non violenta, rispettosa del tempo e soprattutto della vita dei nostri bambini e ragazzi.
Sapremo ritrovare tempi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda o una castagna nella consapevolezza che saranno i nostri pronipoti a vederne la maestosità secolare? Sapremo aspettare?
Sono alcune delle domande a partire dalle quali Gianfranco Zavalloni cerca di fornire risposte con il suo libro. È un invito a genitori, insegnanti, educatori a riflettere insieme sul senso del ‘tempo educativo’ e sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento.
Daniel Kahneman, premio Nobel nel 2002, in ‘Pensieri lenti e veloci’, edito da Mondadori, ci richiama alla lentezza proprio per evitare gli errori sistematici del nostro pensare. Soprattutto quelli così diffusi come i pregiudizi, che sono dovuti non al fatto d’essere vittime delle nostre emozioni, ma alla struttura particolare dei meccanismi cognitivi.
Che la mente sia logica e razionale è un assunto dogmatico. L’ipotesi che la nostra mente sia soggetta a errori sistematici è ormai largamente dimostrata.
È sconcertante il limite della nostra mente, l’eccessiva sicurezza con cui crediamo di sapere, la nostra evidente incapacità di riconoscere quanto siano estese la nostra ignoranza e l’incertezza del mondo in cui viviamo.
Questo perché la mente rischia il buio nel sovrapporsi di decisioni troppo rapide e noi rischiamo di compiere le scelte sbagliate.
Dunque la riscoperta della lentezza potrebbe essere una buona terapia contro i nostri ‘bias’, falsi concetti, e gli effetti dello stress digitale, dove tutto viene comunicato in tempi record attraverso e-mail, sms, tweet.
Forse è il caso di rispolverare il vecchio adagio ‘rifletti prima di parlare’, per lasciarsi prendere dal ritmo delicato della lentezza, per apprendere ad ascoltare l’altro, per imparare il dialogo e come la vera conoscenza apprezzi i tempi lunghi.